anno III | n. 1 | giugno 2015
Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)
anno III | n. 1 | giugno 2015
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Gli articoli pervenuti sono sottoposti a un procedimento di referaggio che prevede giudizi indipendenti da parte di due studiosi italiani e stranieri di riconosciuta competenza. I giudizi sono espressi secondo quanto previsto a livello nazionale e internazionale e sono comunicati agli autori unitamente alle eventuali indicazioni di modifica che gli stessi devono accettare ai fini della pubblicazione. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere positivo. In caso di giudizi fortemente contrastanti ci si avvale di un terzo revisore. Il Comitato dei Referee coincide con il Comitato Scientifico. Il Board, tuttavia, si avvale anche di ulteriori Referee che saranno resi noti nel primo numero dell'annata successiva.
DIRETTORE RESPONSABILE Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) COmITATO SCIENTIFICO Pilar Arnaiz Sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) Serenella Besio (Università della Valle D’Aosta) Roberta Caldin (Università di Bologna) Andrea Canevaro (Università di Bologna) Lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) Lucio Cottini (Università di Udine) Piero Crispiani (Università di Macerata) Armando Curatola (Università di Messina) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) Anna maria Favorini (Università Roma Tre) Carlo Fratini (Università di Firenze) Francesco Gatto (Università di Messina) maura Gelati (Università Milano Bicocca) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) Elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario Ianes (Università di Bolzano) Franco Larocca (Università di Verona) michele mainardi (SUPSI, Svizzera) margherita merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) Pilar Orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) marisa Pavone (Università di Torino) Eric Plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) Béla Pukánszky (University of Budapest, Ungheria) Robert Roche Olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) marina Santi (Università di Padova) Joel Santos (Universidade de Lisboa) maurizio Sibilio (Università di Salerno) Darja Zorc-maver (University of Ljubljana, Slovenia) BOARD Fabio Bocci (Università Roma Tre) Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) COmITATO DI REDAZIONE mauro Carboni (Università del Foro Italico, Roma) Catia Giaconi (Università di Macerata) Annalisa morganti (Università di Perugia) Stefania Pinnelli (Università del Salento, Lecce) marina Santi (Università di Padova) Tamara Zappaterra (Università di Firenze)
ELENCO REFEREE N. 1/2014 Sami Basha Raffaella Biagioli Elena Bortolotti Maria Teresa Cairo Savina Cellamare Felice Corona Roberto Dainese Barbara De Angelis Heidrun Demo Simona D’alessio Daniele Fedeli Patrizia Gaspari Elisabetta Ghedin Catia Giaconi Alain Goussot Bruna Grasselli Silvia Maggiolini Pasquale Moliterni Rinalda Montani Annalisa Morganti Antonello Mura Stefania Pinelli Antonella Valenti Francesco Zambotti Elena Zanfroni Tamara Zappaterra Darja Zorc-Maver
N. 2/2014 Elena Bortolotti Roberta Caldin Andrea Canevaro Lucio Cottini Annamaria Curatola Heidrun Demo Barbara De Angelis Luigi D’alonzo Anna Maria Favorini Patrizia Gaspari Catia Giaconi Filippo Gomez Paloma Dario Ianes Angelo Lascioli Annalisa Morganti Anna Maria Murdaca Loredana Perla Stefania Pinnelli Patrizia Sandri Marina Santi Antonella Valenti Elena Zanfroni Tamara Zappaterra
indice /summary
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Editoriale / LUIGI D’ALOnZO I. RIFLESSIONE TEORICA
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ALAIn GOUSSOT Pour une épistémologie nouvelle de la pédagogie spécialisée CATERInA BEMBICH, ELEnA BORTOLOTTI Bambini con disabilità e bisogni educativi complessi: in che modo l’educatore può supportare ed affiancare la famiglia nell’affrontare le problematiche educative?
II. REvISIONE SISTEmATICA 53
HEIDRUn DEMO Dentro e fuori dall’aula: che cosa funziona davvero nella classe inclusiva? III. ESITI DI RICERCA
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SILVAnA SAnTOS FERnAnDES, MáRCIA MACHADO, FRAnCISCO MACHADO Parental Acceptance, Parental Stress, and Quality of Life: A study with parents of ADHD children
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GIAMPAOLO CHIAPPInI, GIACOMO COZZAnI, LUCA BERnAVA CRISTInA POTEnTE SHAULA VERnA, FABRIZIO DE CARLI Un metodo didattico per sviluppare competenze nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a più cifre in studenti con difficoltà o con disturbo di apprendimento
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DEBORA AqUARIO, ELISABETTA GHEDIn, GILDA URLI Inclusive assessment design: una ricerca in una scuola secondaria di primo grado
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SAnDRA ZECCHI-ORLAnDInI, TAMARA ZAPPATERRA, GIAnnI CAMPATELLI, LISA ARIAnI, AnDREA MEnEGHIn, COSTAnZA ROSSI, CLAUDIA ZUDETICH Students with Learning Disabilities at University. Design of a Protocol for Usability of Teaching and Individual Study
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MAjA AnTOnIETTI, CHIARA BERTOLInI L’incontro con i BES: una sfida cruciale nelle testimonianze di insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria
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FILIPPO DETTORI Becoming disabled in adulthood: a pedagogical reading of life stories
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CRESCEnZA MAZZARACO Ability, Capability, Competence, Empowerment: l’imprescindibilità della formazione aziendale
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VALEnTInA PEnnAZIO Progettazione educativa e accoglienza del bambino con disabilità all’asilo nido
Iv. ALTRI TEmI
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SAVERIO FOnTAnI The SCERTS System. An integrated approach for the emotional regulation of the student with Autism Spectrum Disorders
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Recensioni
Editoriale / Dopo aver affrontato nell’ultimo numero della rivista il problema della scuola e dell’insegnate di sostegno, in questa pubblicazione ritorniamo a parlare delle questioni riguardanti la “special education for inclusion”, riprendiamo a toccare le problematiche che concorrono a definire meglio la pedagogia speciale, la scienza pedagogica che si occupa delle persone che hanno necessità particolari, complesse e appunto “speciali”. La scienza che ha, fin dall’inizio della sua nascita, concorso in modo inconfondibile a sollecitare il contesto sociale, dove esercitava la sua azione, a prendere coscienza di un dato di fatto: è necessario occuparci delle persone con problemi, anzi è doveroso prendersi pedagogicamente a cuore la vita di uomini e donne che non posseggono abilità e potenzialità tali da renderli capaci di entrare nel mondo e a vivere dignitosamente nella società senza aiuti educativi e didattici mirati, tempestivi, competenti, fondati scientificamente. Tutte le persone, in verità, hanno necessità di cure educative specifiche e significative, il cucciolo d’uomo non è attrezzato fin dalla nascita per maturare e sviluppare le proprie potenzialità privo di sostegni e cure educative. Il mondo odierno, poi, con tutte le sue prerogative impone una vita sociale e civile sempre più complessa e difficile tanto da richiedere in continuazione ai propri membri di incrementare il proprio sapere per continuare ad esistere come cittadini liberi e consapevoli dei diritti e doveri. È impressionante pensare, ad esempio, a come negli ultimi anni le novità che abbiamo sperimentato nella nostra vita ci obbligano a prendere coscienza che operare nella nostra società è certamente più semplice di un tempo, ma nello stesso tempo è molto più complesso. non è questa una contraddizione perché in effetti è così. Fino a non molto tempo fa l’uomo era al centro di ogni iniziativa a carattere sociale, il rapporto interpersonale diventava perciò obbligatorio anche per l’acquisto di beni e servizi e la maggior parte delle iniziative commerciali erano basate sull’incontro di persone. La scuola era importante ma pochissimi ragazzi, dopo il primo ciclo dell’obbligo potevano affrontare le superiori e le università. La scuola era molto selettiva e le battaglie di Don Milani ne danno testimonianza, molti ragazzi venivano emarginati e non ci si poneva il problema dell’integrazione dei ragazzi disabili, relegati da anni in scuole speciali dedicate ai loro problemi specifici, lontane e chiuse al mondo educativo ordinario. Tutto ciò cambiò con gli anni settanta. Il nostro Paese, come spesso accade rileggendo la nostra storia, decise inaspettatamente di cambiare il suo atteggiamento nei confronti di alcuni temi sociali importanti. L’Italia diventò un Paese all’avanguardia nei confronti della tutela sociale delle fasce più deboli. I lavoratori, gli operai, le persone più bisognose d’aiuto, gli anziani, diventarono per molti anni, dopo gli anni settanta, motivo di profonda attenzione da parte del ceto politico e del governo. Si creò un welfare italiano molto avanzato con tutele verso tutti i cittadini persino eccessivo, tanto che la spesa pubblica lievitò per anni enormemente con conseguenze pesanti per le nostre attuali generazioni e guaranno III | n. 1 | 2015
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dando a quel recente passato si osserva con forte rammarico come una stagione di scelte politiche e sociali sorrette da ideali sociali, politi e religiosi molto forti e fondati, alla fine risultò particolarmente gravosa per la sostenibilità economica del nostro Paese, anche a causa di sprechi ed eccessi ingiustificati. Per operare bene in campo educativo e didattico speciale abbiamo bisogno di ideali di riferimento, abbiamo urgenza di credere nelle potenzialità pedagogiche del nostro intervento mirato e comunitario, abbiamo necessità di stimare che il nostro impegno personale e sociale possa essere utile alle persone che ci vengono affidate. questa rivista ha lo scopo di soddisfare queste necessità, mette a disposizione degli educatori, dei pedagogisti, degli operatori quelle conoscenze che meritano di essere tenute in considerazione nell’azione educativa speciale.
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In questo numero ALAIn GOUSSOT ci parlerà dell’esigenza di possedere una nuova espistemologia pedagogica speciale, CATERInA BEMBICH, ELEnA BORTOLOTTI di Bambini con disabilità e bisogni educativi complessi e famiglia, HEIDRUn DEMO di cosa funziona davvero nella classe inclusiva, SILVAnA SAnTOS FERnAnDES, MáRCIA MACHADO, FRAnCISCO MACHADO di genitori e bambini con ADHD, GIAMPAOLO CHIAPPInI, GIACOMO COZZAnI, LUCA BERnAVA,CRISTInA POTEnTE SHAULA VERnA, FABRIZIO DE CARLI di competenze nel calcolo mentale, DEBORA AqUARIO, ELISABETTA GHEDIn, GILDA URLI di una ricerca in una scuola secondaria di primo grado, TAMARA ZAPPATERRA & AL., di un protocollo funzionale per gli studenti universitari con disabilità nell’apprendimento, MAjA AnTOnIETTI, CHIARA BERTOLInI di questioni legate ai bisogni educativi speciali, FILIPPO DETTORI delle problematiche legate alla disabilità in età matura, CRESCEnZA MAZZARACO di formazione aziendale, VALEnTInA PEnnAZIO di progettazione educativa e accoglienza del bambino con disabilità all’asilo nido, SAVERIO FOnTAnI del sistema SCERTS.
Editoriale
Pour une épistémologie nouvelle de la pédagogie spécialisée
The article propose the analisis af the epistemalogical e storical costruction in special pedagogy. There is a few indications on the historical aspect and the origins of these pedagogical science which have the caratteristic to be a border approach to understand the learning processo of people with disabilities and special needs. The special pedagogy is not a pedagogy of separation but and educativ approach for inclusion and is critical about the medical orientation, try to integrate the methods of activ and critical pedagogy, psychology, neurology and anthropology to developp a global understanding of uman developpment in the different social, cultural and historical contexts. The special pedagogy point of view is based on the potentialities of the people and use mediations to favour an schoolin and social inclusiv process.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: special pedagogy, inclusion, disabilities, new epistemology
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Alain Goussot / Università degli Studi di Bologna / alain.giussot@unibo.it
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Notre propos est de réfléchir sur les fondements épistémologiques de ce que l’on appelle pédagogie spécialisée; cela implique la nécessité de cerner l’objet épistémologique de cette discipline qui fait partie de la pédagogie (il s’agira aussi d’en comprendre les connections conceptuelles et ses rapports à la pratique) et d’en tracer ce que Gaston Bachelard appelait le ‘profil épistémologique’. Il faudra s’arreter sur le langage conceptuel mais aussi sur sa traduction culturelle dans les différentes langues. L’évolution sémantique des terminologies est à la base de l’évolution meme des sciences humaines et de la vie. Il faudra en reconstruire le récit dans l’histoire des expériences éducatives qui ont mises les bases pratiques et théoriques de ce que nous appelons pédagogie spécialisée ; les traces et la mémoire sont importantes car elle donnent un sens et fournissent aussi des contenus aux démarches des intervenants d’hier, d’aujourd’hui et de demain ; c’est-à-dire qu’elles construisent une identité, une identité plurielle, ouverte et dynamique. L’on verra que souvent les grandes figures de l’éducation, de la pédagogie et de la psychopédagogie qui s’occupèrent de personnes avec des ‘besoins spéciaux’ ou ‘particuliers’ ont été des innovateurs et ont toujours eu une approche complémentariste et une démarche interdisciplinaire. Ils ont été au croisement entre pédagogie, psychologie, médecine, anthropologie et sociologie ; leur pratique et leur réflexion théorique sont des formes métissées. Ils ont aussi provoqué ce que Bachelard définissait des ‘ruptures épistémologiques’ c’est-à-dire une rupture des paradigmes dominants dans les domaines de la pédagogie mais aussi des autres disciplines associées ; en cela ils nous ont offert une autre vision des apprentissages, du développement humain et de son fonctionnement, ils nous ont aussi poussé à réfléchir sur l’organisation de la société, la structure de ses rapports sociaux et sa nature effectivement respectueuse des différences et de la pluralité des façons d’etre. Aujourd’hui on parle d’éducation inclusive, on verra aussi comment on en est arrivé là, mais cela implique aussi une réflexion sur les fondements et la nature de la démocratie car l’on y retrouve les concepts de citoyenneté, égalité, diversité et opportunité. La réflexion sur l’épistémologie nous contraindra à nous demander s’il existe une seule Pédagogie spéciale, s’il en existe plusieurs, si à l’intérieur d’une meme démarche pédagogique il existe différentes approches. On verra que les débats actuels reflètent ces différentes orientations théoriques mais surtout qu’ils sont l’expression de pratiques et conceptions opérationnelles parfois très différentes et pas toujours compatibles.
1. Sémantique conceptuelle: le sens des termes que nous utilisons (réflexions)
Parler d’épistémologie de la pédagogie spécialisée implique de s’interroger sur son objet spécifique de connaissance et sur ses cadres interprétatifs; pour faire cela il faut partir du langage utilisé ; du langage de la pédagogie spécialisée et des langues dans lesquelles elle s’exprime. Par exemple en français on parle de pédagogie spécialisée alors qu’en italien on utilise l’expression pédagogie spéciale ; s’agit-il de la meme chose, est-ce seulement une différence formelle sur le plan linguistique ? Cet exercice pourrait etre fait avec l’anglais et l’allemand,
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et dans bien d’autres langues ; les anglais parlent de special needs, les italiens de bisogni speciali, les français de besoins particuliers ; ici aussi on peut se demander s’il s’agit d’un simple formalisme linguistique ou s’il y a quelque chose de plus profond qui concerne la signification des mots et leur origine historicoculturelle. Déjà Stanislaw Tomkiewicz, dans les année 80, soulignait l’ambiguité du terme ‘handicapé’ en français ; terme qui recouvre deux réalités différentes : d’une part le déficit neurobiologique et ses conséquences sur le plan fonctionnel et de l’autre les conséquences sociales, c’est-à-dire les situations de handicap dans l’interaction entre la personne avec déficit et son contexte de vie. D’une part on trouve les différents types de déficit, sensoriels, moteurs, intellectuels et mentaux ; déficits qui ont pour conséquence de produire certaines disfonctionnalités dans un certain nombre de sphère du développement de la personne. D’autre part les conditions de vie environnementales. Mais il faut aussi faire la différence entre les déficits congénitaux et les déficits acquis à la suite d’un évènement traumatique (un accident de travail ou un accident de santé) ; ce sont deux conditions différentes. Dans le cas des déficits présents à la naissance, la normalité de l’enfant est d’etre, par exemple, non voyant, sourd, trisomique tec… ; par contre dans le cas du déficit acquis il y a une fracture traumatique dans la trajectoire et la vie de la personne qui vit une véritable discontinuité. Comme on peut le voir il y a une question qui concerne la présence du déficit chez la personne ; la pédagogie dite spécialisée ou spéciale s’occupe des processus des apprentissages en présence d’un ou plusieurs déficits ; elle s’occupe des situations qui ne permettent pas le développement des potentialités de la personne et de celles qui au contraire les facilitent. Son objectif est de créer le plus possible ces dernières. Comme disait Lev Vygotski dans son livre Fondements de défectologie , une personne avec un déficit n’est pas automatiquement et nécessairement déficitaire c’est-à-dire handicapée. Ce sont les conditions interactionnelles du contexte social qui rendent ou non la personne ‘déficitaire’ ou ‘handicapée’. Le mot français continue donc a etre porteur d’une ambiguité de fond ; en Italie on a inventé un néologisme (italianisant le mot anglais disability, considéré comme plus correcte) ; disabilità, cela pour souligner que l’on parle des disfonctionnalités produites par le déficit et non du handicap ; il est fondamental de distinguer ces deux termes car il s’agit d’une distinction d’une grande importance sur le plan de l’intervention de soutien et d’accompagnement. il faut faire avec le déficit pour réduire et éliminer le handicap ; il s’agit de trouver les stratégies éducatives et réhabilitatives adéquates pour surmonter les situations de handicap et les éliminer. Au fond c’est l’orientation meme de la classification CIF de l’OMS sur le fonctionnement de la santé des personnes avec déficit. Le déficit n’est pas une pathologie (il peut en etre le résultat) ; donc il ne s’agit pas de le soigner car il est un dégat neuro-biologique qui ne peut etre effacé et qui a des conséquences sur le plan de certaines sphères fonctionnelles du développement. Cela ne ne se soigne pas ; on peut tout au plus intervenir au niveau des fonctions résiduelles et de leur habilitation ou réhabilitation. On peut et l’on doit, par contre, accompagner la personne dans le développement de son répertoire potentiel de capacités créant les conditions favorables à son expression réduisant et éliminant toutes les situations handicapantes produites par l’environnement et le contexte de vie. Parmi les obstacles que peuvent rencontrer les personnes avec déficit il y a les représentations sociales, culturelles et les préjugés qui les anno III | n. 1 | 2015
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accompagnent. Meme les mots disability et disabilità continuent, selon Claudio Imprudente, l’actuel directeur du Centre de documentation handicap de Bologne ( tétraplégique spastique de naissance), à souligner une ou plusieurs incapacités, donc à véhiculer une regard négatif. Il propose d’utiliser le mot diversamente abile, c’est-à-dire habile d’une autre manière ; ce qui ne veut pas dire nier la particularité du fonctionnement liée à la présence du déficit. Alexandre Jollien, diagnostiqué comme ‘insuffisant cérébral moteur’, souligne que la vulnérabilité est une force qui concerne tous les etre humain. Michelle Dawson, chercheuse autiste de l’Université de Montreal, affirme tout simplement qu’il s’agit d’une autre façon de fonctionner, mettant l’accent sur la notion d’altérité et sur l’importance de la rencontrer et de la reconnaitre comme telle, sans vouloir la ‘corriger’ ou la ‘soigner’. Comme on peut le voir le point de vue des personnes avec déficit (ou avec des ‘anomalies’ du développement) est très stimulant car il nous oblige à réfléchir et à mettre en discussion continuellement ce que souvent les experts considèrent comme scientifiquement acquis une fois pour toute. Ils provoquent ce que Bachelard nommait une ‘rupture épistémologique’ qui introduit d’autres schémas interprétatifs et d’autres catégorisations, d’autres façon de voir. Il suffit d’ailleurs de reconstruire l’évolution dans le temps des termes utilisés pour faire des diagnostics et pour parler des personnes avec déficit pour se rendre compte de la relativité historico-culturelle de ceux-ci ; représentations socioculturelles qui déterminent aussi des démarches pratiques sur le plan de l’éducation, de la réhabilitation et de la thérapie. Fin 19e siècle et débuts du 20e siècle la psychiatrie offre des cadres étiologiques et nosographiques que l’on aurait des difficultés à reconnaitre aujourd’hui car il y a eu une évolution culturelle ; par exemple pour parler de déficience intellectuelle on utilisait les termes idiotisme e imbécillité, c’étaient des catégories diagnostics scientifiques qui comprenaient une forte connotation de jugement de valeur. On parlait aussi d’enfants anormaux, avec des sous-entendus d’infériorisation. Mais si on avance dans le temps pour arriver aujourd’hui on se retrouve avec une série d’interrogations qui concernent le regard sur l’autre, dans ce cas sur la personne avec déficit. Quel regard, aussi bien au niveau du sens commun dans la société que dans les disciplines scientifiques comme la médecine, la psychiatrie et la pédagogie ; meme si sur cette dernière il reste toujours un doute de ‘scientificité’ car il faudrait raisonner sur le mot scientifique et sur sa traduction opérationnelle. Mais nous y reviendrons car ce qui fait de la pédagogie spécialisée ou spéciale une discipline aux frontières et au croisement d’autres disciplines, un point de vue ouvert et critique c’est précisément le fait qu’elle fait sauter continuellement et met en discussion les cadres rigides des visions préconstituées. Nous savons que des hommes de science comme les psychiatres Philippe Pinel et Esquirol considéraient comme pratiquement non éducables les enfants ‘idiots’, nous connaissons aussi, mais il faudra y revenir, le long travail d’hommes, d’éducateurs, comme J.M.G Itard et Edouard Séguin qui prouvèrent qu’il était possible de construire des contextes d’apprentissage pour ces enfants. Il s’agit de regards différents sur une meme réalité, de regards qui se croisent, qui entrent aussi en conflit et qui souvent ne se rencontrent pas dans la mesure où ils passent par des représentations difficilement compatibles. Le médecin et éducateur belge Ovide Decroly arrivera à substituer le mot anormal avec le mot irrégulier, voulant ainsi tout simplement décrire un mode particulier, irrégulier, de fonctionnement de l’enfant I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
avec déficit. Mais meme quand on arrive à des définitions plus proche de la description phénoménologique du fonctionnement on continue à se poser des questions qui sont encore et toujours le fruit de regards différents, regards qui ont de grosses implications sur les pratiques. Il suffit de penser à la catégorie retard mental qui nous provient des travaux d’ Alfred Binet à propos de la distinction entre age chronologique et age mental : la question est de savoir retard par rapport à quoi, et par rapport à quelle conception de l’intelligence ? De nouveau il y a un regard négatif, on parle de retard. Mais la vraie question est de savoir si ce type de catégorisation pour ‘mesurer’ l’intelligence peut etre utile pour qui travaille avec des enfants ou des adultes qui présentent des déficits au niveau intellectuel et mental. Il est intéressant de voir comment Lev Vygotski met en discussion le concept de normalité à propos des enfants avec un déficit intellectuel et mental; il met d’abord en discussion le concept meme de retard mental ; il fait remarquer que « c’est le concept plus flou et difficile de la pédagogie spéciale »; il affirme qu’il n’existe pas de vrai et précis critère scientifique pour déterminer le caractère et le degré du retard; les tests de Binet, par exemple, servent peu car ils utilisent des indicateurs abstraits et des instruments inadéquats pour pouvoir évaluer le type d’intelligence de l’enfant considéré ‘arriéré ‘. Ici on se rend aussi compte que les objets épistémologiques de la pédagogie spécialisée ou spéciale sont différents de ceux de la médecine et de la neuropsychiatrie ; le regard pédagogique est un regard qui essaye de comprendre quel est le fonctionnement de la personne avec déficit, ce qui effectivement fonctionne et comment, quels sont ses besoins particuliers, non pas dans le sens où elle a des besoins différents des autres mais que, pour accéder à la satisfaction des besoins de tout etre humain, elle doit trouver des réponses à ses besoins spécifiques. Donc un regard sur les potentialités et le fonctionnement des capacités. Donc plutôt que de dire qu’un enfant avec une déficience intellectuelle n’est pas en mesure de faire une simple opération arithmétique, il s’agit de savoir quel type d’intelligence il utilise pour résoudre les problèmes de la vie quotidienne, quel genre d’opération il est mesure de faire et comment il s’y prend. Le regard pédagogique est attentif aux apprentissages, à ses modalité, aux conditions dans lesquels ils se déroulent, quels en sont les facteurs favorables et, au contraire, les facteurs qui les freinent. On a parlé de la finalité de la pédagogie spécialisée ou spéciale : favoriser le développement de toutes les potentialités de la personne avec déficit pour en faciliter l’intégration sociale e scolaire. Le mot intégration peut etre ici conçu à la fois comme méthode de travail mais aussi comme un objectif; dans ce dernier cas la tendance est souvent de voir dans le mot adaptation ou réadaptation le mot clé pour expliquer ce que l’on entend. Mais l’adaptation concerne surtout et avant tout le sujet avec déficit à qui on doit faciliter les apprentissages mais qui doit s’adapter; le mot adaptation est aussi chargé d’un contenu fonctionnaliste qui fait que c’est le sujet qui doit faire l’effort, le contexte ne doit au fond pas changer grand chose. Et pourtant si l’on se met à raisonner dans une perspective interactionniste, comme le faisait Vygotski mais aussi John Dewey, un des fondateur de la pédagogie active américaine, il faut convenir que le contexte doit se modifier pour favoriser le processus de développement du potentiel d’apprentissage de la personne avec déficit et garantir de cette manière l’effective égalité des opportunités. Mais pour cela il faut aussi une méthode intégrée; une méthode globale qui sache faire dialoguer anno III | n. 1 | 2015
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et interagir les acteurs, les professionalités, les cultures techniques et les différents contextes de vie (famille, école, vie sociale, culture, institutions et monde du travail). Alors on peut parler de co-éducation et de co-évolution; de réseaux qui fonctionnent comme des réseaux qui éduquent tous les acteurs de la vie sociale à interagir dans une perspective de rencontre et d’apprentissage réciproque, on pourrait meme dire dans la perspective d’un développement humain soutenable pour tous. Sur le terme inclusion et sa distinction du terme intégration on a parfois la sensation d’un jeu de parole qui ne changerait pas la substance mais si l’on regarde les choses de plus près et avec plus d’attention et de profondeur on se rend compte qu’il s’agit de pratiques des rapports sociaux différents; on pourrait dire que d’une part, l’inclusion, nous avons une démarche écologique et globale du développement humain alors que de l’autre, l’intégration, nous avons une démarche plus instrumentale. C’est ce qu’à essayer d’expliquer le sociologue et philosophe allemand Jurgen Habermas dans ses différents textes: La théorie de l’agir communicationnel, l’inclusion de l’Autre, La condition intersubjective. Dans ses différents ouvrages Habermas insiste sur la nature de la communication : là où l’action est de type instrumentale, l’autre existe comme moyen, est objet d’éducation, d’assistance et de soin, il est adapté au contexte (c’est l’intégration systémique) ; là où l’action est de type communicationnel l’autre existe comme valeur en soi, comme sujet porteur de besoins et de droits, dans ce cas il y a inclusion car il y a un changement, une transformation réciproque du sujet qui apprend et du contexte qui apprend à se modifier pour permettre à chacun d’etre soi meme avec ses propres particularités. Seulement là où il y a des connexions communicationnelles respectueuses de la pluralités des modalités de fonctionner de chacun est possible une société effectivement inclusive respectueuse des différences et des droits de citoyenneté de chacun. Nous retrouvons cette approche anthropologique dans les travaux de Urie Bronfenbrenner sur l’écologie du développement humain: une démarche qui considère la personne dans son écosystème relationnel et qui raisonne sur l’importance d’un écosystème riche d’interactions, de connexions positives qui créent des opportunités de vie. Comme on peut le constater ici aussi on insiste sur les dynamiques du contexte et de ses interactions pour créer les conditions de pleine expression des potentialités des personnes avec déficit ; le contexte de vie et ses opportunités constitue un lieu d’apprentissage et de croissance fondamental pour chacun. Donc la pédagogie spécialisée ou spéciale concerte la dimension sociale de la vie des personnes avec déficit et n’est pas seulement limitée à la période de la vie qui coincide grosso modo avec celle de la scolarisation (0-18 ans) mais concerne l’age adulte et le vieillissement c’est-à-dire tout le cycle de la vie et ses différents passages. Si l’on pense aussi aux changements intervenus sur le plan scientifique (neurosciences, neuropsychologie, psychologie cognitive...) dans les 30 dernières années et à ceux qui pourront encore avoir lieu dans les prochaines années on ne peut que relativiser nos points de vue sachant, précisément, que la recherche scientifique modifiera ultérieurement nos conceptions, nos connaissances et nos cadres de référence conceptuels. Il ne fait aucun doute que la pédagogie spécialisée ou spéciale s’alimente des découvertes faites dans les domaines de la psychologie cognitive, des neurosciences, de l’anthropologie médicale et socio-culturelle. Le rapport de la pédagogie spécialisée ou spéciale avec les autres disciplines ne I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
signifie pas un changement d’objet épistémologique; les apprentissages et l’éducation des personnes avec des besoins particuliers ou spéciaux reste au centre de son activité théorique et pratique. Ici la démarche complémentariste indiquée par Georges Devereux, le fondateur de l’ethnopsychiatrie et de la psychologie transculturelle modernes, peut nous servir de point de référence: le complémentarisme permet le dialogue entre langages et cultures disciplinaires sans jamais confondre leurs objets épistémologiques spécifiques. Nous tenons à souligner cela car le risque est d’assister à un déplacement imperceptible de l’objet épistémologique de la pédagogie spécialisée vers d’autres objets; cela par l’assomption d’une terminologie et d’un langage technique provenant d’autres disciplines. L’approche que propose Devereux, et qui nous semble correcte sur le plan scientifique, est une fécondation réciproque des terrains disciplinaires sans une mutation de la paire de lunette, du locus épistémologique, il s’agit d’une interaction enrichissante qui permet de faire une lecture complexe et plus complète en permettant la complémentarité des différents regards et points de vue. La notion meme de besoins spéciaux ou particuliers peut élargir ses frontières: non plus seulement les personnes avec des déficits mais aussi celles qui présentent des troubles de l’apprentissage ou du développement fonctionnel des capacités. Il faut toutefois faire attention à ne pas confondre troubles et difficultés car si les premiers se situent déjà dans le champ clinique les seconds concernent le processus d’apprentissage en général: dans un cas on commence à parler d’intervention thérapeutique, dans l’autre on reste sur le terrain pédagogique. On peut aussi s’arreter un moment sur les expressions pédagogie spécialisée ou pédagogie spéciales ; ici les codes culturels ont leur importance; des codes qui sont aussi véhiculés par les langues et l’histoire culturelle des contextes où ils sont nés. En Italie, par exemple, on est passé de l’expression ‘educazione specializzata’ à celle de ‘pedagogia speciale’ ; ce changement de terme à été le reflet conceptuel du changement de vision sur les personnes avec déficit et leur place dans la société; on est passé d’un paradigme médico-pédagogique avec une dominance de l’approche médicale et clinique à une vision socio-éducative avec une dominance pédagogique. C’est Maria Montessori qui parlait déjà, aux débuts du 20e siècle, de ‘pedagogia emendativa’ à propos de son travail pédagogique avec les enfants ‘déficients’ intellectuels et mentaux de l’hopital psychiatrique de Roma où elle se formait; elle entendait avec cette expression une pédagogie avec ‘amendement’, c’est-à-dire une pédagogie qui porte des ‘amendements’ à la pédagogie générale car s’occupant de situations particulières elle produit des méthodes particulières. Attention, la démarche de Maria Montessori (après sa rencontre avec les textes de Itard et Séguin) sera celle de quelqu’un qui ne veut pas faire de la pédagogie spéciale une ‘pédagogie ghetto’ pour des ghettos éducatifs; elle pense que les méthodes inventées avec les ‘enfants déficients’ sont aussi, dans une grande mesure, utilisables avec tous les enfants, c’est ce qu’elle démontrera dans ses ‘maisons pour enfants’. C’est dans ce sens qu’a été utilisé le mot spécial dans le cas italien: des méthodes à la fois spécifiques pour des besoins spécifiques et utilisables dans le travail pédagogique avec tous les enfants. Cela remet en discussion la frontière entre normalité et anormalité; aussi dans le domaine de l’action pédagogique; n’est ce pas Lev Vygotski qui écrivait:
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Le concept de norme fait partie des idées scientifiques les plus complexes et vagues qui puissent exister. Dans la réalité il n’existe aucune norme, mais nous rencontrons une quantité infinie de multiples variations, de déviations et il est souvent très difficile là où elles dépassent les limites savoir où commence le champ de l’anormal. Ces frontières n’existent nulle part et on peut dire si elle existe, elle représente tout simplement le concept abstrait d’une grandeur moyenne des cas les plus fréquents, et en fait on ne le rencontre jamais dans son état pure, mais toujours sous des formes anormales. C’est pour cette raison qu’il n’existe pas de frontière précise entre le comportement normal e l’anormal (Vygotski, 2005, p. 32).
Mais le psychopédagogue soviètique réfléchit aussi sur le fait que l’on tend à considérer la pédagogie spéciale comme une espèce de pédagogie ‘extraterritoriale’ par rapport à la pédagogie en général: il fait remarquer qu’il s’agit d’une conception erronée car elle s’occupe elle-aussi d’apprentissages, de méthodes pour les favoriser, et meme s’il s’agit d’enfants avec des déficits particuliers et donc une façon particulière de fonctionner; ici les barrières de l’anormal et du normal sont abattues par la pratique pédagogique elle-meme. Il ajouter aussi que parmi les besoins particuliers ou spécifiques nous trouvons aussi ceux des enfants surdoués, des enfants avec un haut potentiel de fonctionnement cognitif; enfants qui ne sont pas reconnus et finissent par vivre de grosses difficultés car ils sont démotivés et ne se sentent pas valorisés. Il précise que le principe d’individualisation dans la construction des contextes d’apprentissage n’est pas valable seulement pour les enfants avec déficit mais pour tous :
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En pédagogie, l’éducation des handicapés ou des surdoués, a toujours été considérée comme quelque chose d’extraterritorial c’est-à-dire comme une dimension à laquelle ne s’appliquent pas les lois générales. Cette opinion est profondément erronée de l’extraterritorialité,de sa démarche n’appartient nullement à elle seule; c’est la conséquence de l’incompréhension habituelle d’un phénomène peu étudié jusqu’à présent; l’idée que la question de l’individualisation nait exclusivement en rapport aux déviations de la norme est fausse. Au contraire, chez chaque enfant nous avons des formes d’individualisation, meme si pas aussi marquées que dans les cas de cécité, de surdité ou de retard intellectuel. L’exigence de l’individualisation des méthodes éducatives représente un besoin commun de la pédagogie et concerne tous les enfants (Vygotski, 2005, p. 34).
2. Y a-t-il une seule pédagogie spécialisée? Débat
Un autre aspect qui ne peut etre sous-évalué est celui de savoir s’il existe une seule pédagogie spécialisée ou spéciale? La question n’est pas rhétorique car elle est étroitement liée aux conceptions que l’on a de l’éducation en général, de la formation des sujets avec déficits en particulier; faut-il avoir une conception clinique de la pédagogie, il y a des orientations qui vont dans ce sens soutenant,avec des arguments qui ne peuvent etre sous-évalués, que les enseignants et les éducateurs doivent se spécialiser dans la connaissance des différents types de déficit, et aussi dans les méthodologies adéquates à chaque
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déficit. On voit le risque de transformer la pédagogie spéciale en une branche des techniques de réhabilitation; confondre l’éducateur avec l’orthophoniste, le physiothérapeute, le psychomotricien. La spécialisation accentuée risque de faire perdre à la pédagogie sa fonction pratique de médiation dans la construction de situations d’apprentissages qui facilitent aussi bien le développement des personnes avec déficit que leur inclusion. S’agit-il d’une pédagogie minimaliste, pour reprendre une expression de Vygotski? Une pédagogie qui vise vers le bas automatiquement du moment qu’il y a présence de déficiences au niveau fonctionnel. Le psychopédagogue soviètique répondait de cette manière: «Les théories pédagogiques minimalistes et pessimistes réduisent l’éducation de l’enfant retardé profond à un pure dressage: ils cherchent de passer du processus de formation de l’homme au dressage du sous-homme; la minutieuse standardisation des gestes et la précise alternances de toutes les stimulations extérieures qui agissent sur l’enfant, les réponses automatiques qui en font un petit robot sont à la base de ce genre d’éducation».(Vygotski, 1999, p42) Une pédagogie s’inspirant de modèles rigidement comportementalistes transformant l’apprentissage en une espèce de dressage par l’action mécanique de gestes répétitifs, souvent sans beaucoup de sens? Ou bien s’agit-il d’une pédagogie qui fait de l’apprentissage un moment de construction progressif et complexe, avec une série de médiations, d’un parcours d’auto-formation et d’autodétermination en se basant le plus possible sur le potentiel de l’enfant? Comme on peut le voir ce ne sont pas les memes démarches et les memes visions de l’éducation des personnes avec déficit. Mais c’est aussi différent si l’on parle d’une pédagogie centrée sur le sujet ou d’une pédagogie de l’interaction entre sujet avec déficit et contexte de vie; s’agitil d’une pédagogie purement didactique ou d’une pédagogie sociale? Puis nous avons aussi des conceptions pédagogiques influencées par des modèles qui proviennent de modèles de réadaptation différents comme les méthodes centrées sur les performances et les résultats utiles immédiats sur le plan des autonomies et de l’adaptation. Nous avons aussi des démarches pédagogiques qui s’inspirent des approches psychodynamiques et qui prennent fortement en considération les émotions et l’affectif. Il y a une myriade de méthodes et d’approches mais on peut dire qu’il y a celle qui ont plutot un regard clinique et médical, celles qui font de la personne avec déficit surtout un objet à instruire et parfois à dresser alors que d’autres approches mettent le bien etre, la dignité de la personne, au centre du processus d’apprentissage prenant aussi fortement en considération son milieu de vie et ses liens d’attachement affectifs. Il y a les pédagogies fortement conditionnées par les neurosciences, les approches cognitivistes, comportementalistes, psychodynamiques ou socio-constructivistes. Comme on voit on peut reprendre l’affirmation que fit Hegel sur la philosophie disant qu’il n’existe pas une philosophie mais qu’il en existe plusieurs; il existe plusieurs conceptions de la pédagogie spécialisée ou spéciale, donc du rapport entre apprentissages, éducation, personne avec des besoins particuliers et contextes de vie. Il y a les pédagogies qui font de l’hyperspécialisation technique une caractéristique et d’autres qui tendent plus à une démarche générale d’attention à la construction d’opportunité de vie relationnelle dans des contextes sociaux ‘normaux’. Tout cela a évidemment une conséquence pratique sur la formation des professionnels qui travaillent avec les personnes aux besoins spécifiques. Il suffit d’ailleurs anno III | n. 1 | 2015
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de consulter les intitulés et les contenus des cours, les bibliographies, des Facultés universitaires où l’on enseigne pédagogie spécialisée ou spéciale pour se rendre compte des différentes orientations. Cela est aussi vrai pour les cours de formation des psychoéducateurs ou des éducateurs qui s’occupent de personnes avec déficit. Dans le temps il semble qu’une démarche globale et intégrée sur le plan méthodologique soit celle qui réponde le mieux aux besoins des personnes avec déficit et à leurs familles: c’était le médecin et éducateur belge Ovide Decroly qui disait qu’il fallait savoir utiliser différentes méthodes pour pouvoir répondre à la complexité des besoins et des situations. En outre il y aussi une pédagogie qui s’occupe des enfants et des adolescents et une autre qui s’occupe des adultes; cet aspect est important à souligner car la tendance est un peu de considérer les personnes avec déficit comme des éternels enfants, en particulier les personnes avec déficience intellectuelle et mentale. Une pédagogie du développement des personnes qui deviennent adultes et vieillissent ; ici aussi il faut savoir traduire le principe de l’apprentissage le long de toute l’existence tenant compte de qui a des déficits. Ce qui semble etre un point de distinction très nette est celui qui passe entre les pédagogies qui font de la personne et de son système de relations significatif l’élément central pour l’accompagnement et celles qui voient surtout les aspects cliniques et les performances sur le plan mécanique. On peut dire que le système CIF de l’organisation mondiale de la santé sur le fonctionnement de la santé des sujets avec déficit propose une approche globale, écologique centrée sur le fonctionnement des capacités, sur les activités et la participation à la vie sociale. Il s’agit évidemment d’un modèle diagnostique qui ne donne pas d’indications pratiques mais qui offre une grille de lecture qui pose le regard sur les potentialités et la qualité de vie globale de la personne. Plusieurs courants pédagogiques, plusieurs points de vue dans la mesure où l’on s’occupe de la petite enfance, des pré-adolescents, des adolescents, des adultes ou des vieilles personnes; de déficits congénitaux, acquis, donc des démarches différenciées et orientations différentes; mais aussi des points communs sur l’importance d’un regard centré sur les potentialités, sur les ressources aussi bien de la personne que de son milieu de vie. On pourrait reprendre l’expression de Gaston Bachelard sur le pluralisme philosophique et, en quelque sorte l’appliquer à la pédagogie spécialisée ou spéciale; cela pourrait etre une piste à explorer: En résumé, -écrivait Bachelard-, à n’importe quelle attitude philosophique générale, on peut opposer, comme objection, une notion particulière dont le profil épistémologique révèle un pluralisme philosophique. Une seule philosophie est donc insuffisante pour rendre compte d’une connaissance un peu précise. Si l’on veut bien dés lors poser exactement la meme question à propos d’une meme connaissance à différents esprits, on verra s’augmenter étrangement le pluralisme philosophique de la notion. Si un philosophe s’interrogeant sincèrement sur une notion aussi précise que la notion de masse découvre en soi cinq philosophies, que n’obtiendra-ton si l’on interroge plusieurs philosophes à propos de plusieurs notions. Mais tout ce chaos peut s’ordonner si l’on veut bien avouer qu’une seule philosophie ne peut pas tout expliquer et si l’on veut bien mettre en ordre les philosophies. Autrement dit, chaque philosophie ne donne qu’une
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bande du spectre notionnel et il est nécessaire de grouper les philosophies pour avoir le spectre notionnel complet d’une connaissance particulière (Bachelard, 2005, p. 49).
N’en est-il pas de meme pour la pédagogie spécialisée ou spéciale qui s’occupe d’une ‘notion’, celle des apprentissages de personnes avec des besoins particuliers, spécifiques ou spéciaux, et ici l’on se rend compte qu’une seule approche pédagogique est insuffisante à rendre compte de cette connaissance précise qu’est l’action pédagogique avec des personnes qui ont des déficits et qui peuvent se trouver en situation de handicap ; pour cela il faut pouvoir utiliser tout le spectre notionnel complet pour en avoir la bande du spectre des approches, des méthodes et des théories différentes qui en constituent le fait scientifique qui en fait aussi une connaissance particulière. Les démarches pédagogiques peuvent avoir des aspects différenciés car elles peuvent se centrer sur le projet, sur les besoins de la personne, de son environnement, sur les méthodes, sur les performances, elles peuvent s’attacher au procédures ou avoir une conception d’ensemble plus intéressée au processus.
3. Quand l’ancien est très neuf: quelques étapes de la construction d’une pédagogie spécialisée pas trop spéciale
Pour comprendre quel est l’objet épistémologique et donc la pratique de la pédagogie spécialisée ou spéciale il faut en reconstruire la généalogie ; il faut faire un travail semblable à ce que Michel Foucault appelle d’archéologie historique; de fouille des traces du passé, des fondements de l’édifice de cette discipline. Ce travail d’archéologie historique peut pousser ses fouilles en profondeur dans le passé de l’éducation des personnes avec déficit ; on sait que les premières expériences pédagogiques dans ce domaine commencent avec les déficits sensoriels (aveugles, sourds et muets) en Espagne et en France. Comme écrit Jean Gaudreau dans son texte consacré aux débuts de la pédagogie spéciale: De tout temps, les personnes différentes des autres (infirmes, déficients, etc.) ont fasciné tout autant qu’intrigué et apeuré leurs contemporains. Un peu comme les monstres imaginaires (tels les vampires) qui continuent étrangement à exercer la même attirance-répulsion, la même curiosité et la même crainte, les personnes qui sortent de l’ordinaire ont aussi grandement contribué à plusieurs succès littéraires et cinématographiques (Quasimodo, Kaspar Hauser, Victor, Rain Man, Forrest Gump, etc.). Ce n’est que tout récemment que les problèmes relatifs à leur éducation, surtout à leur éducation en milieu ordinaire et avec les autres, ont éveillé l’intérêt pour qu’une orthopédagogie plus ou moins systématique puisse se développer (Jean Gaudreau, 1999, p. 2).
Mais pour notre réflexion sur l’épistémologie de la pédagogie spécialisée ou spéciale nous pouvons partir de l’expérience du médecin-éducateur J.M.G.Itard qui s’occupa du fameux ‘enfant sauvage de l’Aveyron” (rendu célèbre per le film de François Truffaut); on peut considérer cette expérience comme l’acte fonda-
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teur (meme s’il y en a eu d’autres avant) de ce que l’on peut interpréter comme étant le début d’une pédagogie attentive aux individus considérés jusque là non éducables; c’est-à-dire les enfants avec des déficiences intellectuelles et mentales. C’est un acte fondateur dans la mesure où l’expérience pratique s’accompagne d’une réflexion sur les méthodes adoptées pour répondre aux besoins spécifiques de l’enfant et d’une pensée pédagogique plus large sur les processus d’apprentissage.Il suffit d’ailleurs de lire les débuts du Mémoire sur les premiers développement de Victor de l’Aveyron (1801) pour se rendre compte de l’ampleur de la réflexion de Itard; l’expérience avec cet enfant le pousse à s’interroger sur la nature de l’homme et sur son évolution: Jeté sur ce globe sans forces physiques et sans idées innées, hors d’état d’obèir par lui-meme aux lois constitutionnelles de son organisation, qui l’appellent au premier rang du système des etres, l’homme ne peut trouver qu’au sein de la société la place éminente qui lui fut marquée dans la nature, et serait, sans la civilisation, un des plus faibles et des moins intelligents des animaux: vérité, sans doute bien rebattue, mais qu’on n’a point encore rigoureusement démontrée (L. Malson, 1964, p. 125).
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Nous trouvons chez Itard l’idée que la compréhension de l’enfant sauvage nous permettra de comprendre mieux la condition humaine et son développement. Mais c’est dans le contraste entre le médecin Philippe Pinel (fondateur de la psychiatrie moderne), le maitre, et J.M.G.Itard, l’élève que nous avons l’éclairage sur le champ d’action et de réflexion de ce qui deviendra la pédagogie spéciale; il s’agit d’une confrontation entre deux regards, deux points de vue différents: le regard diagnostic et clinique de la neuropsychiatrie naissante et le regard pédagogique. Le premier est un regard qui observe pour définir et cataloguer (ce que Abraham Maslow dénomminait une pensée botin de téléphone ) et le second un regard qui observe pour comprendre; le premier est aussi souvent un regard-jugement qui peut condamner en quelque sorte l’enfant à un destin d’incapacité alors que le regard-écoute de Itard tente de saisir le potentiel humain de l’enfant et essaye d’en comprendre le fonctionnement pour favoriser ses apprentissages. Dans la démarche de Itard nous trouvons à la fois l’indication précise de l’objet épistémologique de la pédagogie spécialisée ou spéciale et de son champ d’action: le développement des apprentissages d’un enfant avec une série de déficiences (intellectuelle, communicationnelle et motrice) et les méthodes pédagogiques qui peuvent en faciliter l’éclosion. Itard partant de son expérience directe avec Victor, ‘le sauvage de l’Aveyron’, parle d’une métaphysique à peine naissante, encore entravée du préjugé des idées innées et d’une médecine, aux vues nécessairement bornées par une doctrine toute mécanique. Le territoire de ce savoir-faire qui doit devenir un nouveau savoir, un savoir pédagogique concerne un sujet avec déficit considéré comme non éducable, les apprentissages, les méhodes particulières qui peuvent en favoriser le développement potentiel. Itard construit un savoir faire, un savoir pratique à partir de son travail d’observation dans la relation avec l’enfant, un travail d’observation qui lui sert à comprendre la façon dont il fonctionne et pour en saisir aussi les besoins spécifiques que les particularités. Il se fixe des objectifs éducatifs qu’il énonce en cinque points: 1) développer en lui la sociabilité en lui rendant l’existence plus douce mais aussi en créant un pont entre le monde dans lequel il a vécu et la situation nouvelle 2) éveiller en lui la I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
sensibilité, les sentiments et l’affectivité 3) ‘étendre la sphère de ses idées en lui donnant des besoins nouveaux, et en multipliant ses rapports avec les etres environnants’ 4) lui apprendre à parler et développer ses capacités de communication linguistique 5) faire le lien dans les apprentissages entre les objets liés aux besoins physiques dans leur relation aux états mentaux. Pour réaliser ce programme Itard tatonne, il expérimente en utilisant les connaissances et les techniques de son époque; pour penser ce qu’il fait, interpréter ce qui se passe dans la relation pédagogique et évaluer les résultats obtenus il se sert des cadres conceptuels qu’il trouve dans la pensée pédagogique de Rousseau mais aussi les conceptions philosophiques de Helvétius et Condillac, les connaissances de la médecine de son temps. Il essaye de voir les choses du point de vue de ‘l’enfant sauvage’ mais il veut créer les conditions d’apprentissage qui lui permettent de devenir un citoyen, il croit profondément dans la perfectibilité par l’apprentissage et par l’influence du milieu. Il voit dans l’environnement, dans le contexte de vie un facteur fondamental pour la formation; ce sont les conditions sociales et culturelles qui déterminent le type de développement. Il reprend cela de la philosophie qu’Helvétius exprime dans son livre De l’Homme. Mais il est aussi très attentif à l’importance des sens dans l’acquisition de la connaissance de soi et du monde ; les travaux de la philosophie sensiste de Condillac lui font expérimenter les apprentissages partant du corps et de ses percpetions.C’est aussi chez ce dernier qu’il trouve un cadre interprétatif pour comprendre les modalités communicationnelles d’un enfant qui ne parle pas et qui est en partie sourd; Condillac parle du langage de l’action; l’enfant n’arrive pas à s’exprimer et à s’expliquer par la parole; il ne connait pas le langage par gestes des sourds; il s’exprime par l’action. L’action est, selon Condillac et Itard, structurée comme un langage; elle véhicule des messages, utilise des codes, a une syntaxe et dit donc des choses par les actes et les conduites. C’est une grande découverte: celle de savoir reconnaire et utiliser la communication non verbale dans les cas ou la personne avec déficit n’a pas l’usage de la parole et présente aussi une déficience intellectuelle.Comme on peut le constater la démarche de Itard, aussi bien sur le plan épistémologique que pratique, est fondamentalement globale dans la mesure où elle considère l’enfant dans sa totalité et qu’elle utilise une approche intégrée, interdisciplinaire, au niveau méthodologique. On retrouve cette meme démarche avec Edouard Séguin, l’élève de Itard, le ‘maitre des idiots’ : il retient les acquis et les découvertes de son maitre mais il innove aussi. Les acquis sont pour lui : l’éducabilité des enfants avec déficience intellectuelle et mentale ; une vision globale de l’éducation et une approche attentive à la socialisation. Toutefois Séguin réélabore l’expérience précédente de Itard ; il prend ses distances d’un sensisme parfois excessif, et innove sur le plan de la connaissance des enfants avec déficience intellectuelle et des méthodes particulières pour en favoriser les apprentissages. Il est aussi le premier à distinguer maladie mentale et déficience intellectuelle ; il souligne le préjugés sociaux et scientifiques de son époque sur cette question. Il montre que les préjugés finissent par peser sur le développement des enfants avec déficience intellectuelle dans la mesure où ils font naitre un sentiment intérieur d’incapacité. Ce n’est d’ailleurs pas un hasard si Vygotski cite et souligne la contribution de Séguin à propos de ce qu’il appelle l’insuffisance de la volonté : le regard dévalorisant de la société, l’absence de motivations, une faible estime de soi et une absence de confiance dans ses proanno III | n. 1 | 2015
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pres capacités font de l’enfant avec déficience intellectuelle un enfant ‘handicapé’ car il vit dans une situation de handicap. Edouard Séguin fait sortir un groupe d’enfants déficients intellectuels de l’Hopital de Bicetre ; il ne partage pas les positions du psychiatre Esquirol (successeur de Pinel) qui ne croyait pas dans la possibilité d’éduquer ces enfants ‘idiots’. L’école de rue Pigalle à Paris sera au fond la première école spéciale pour enfants avec déficience intellectuelle ; ce fut aussi la première tentative pratique de créer un véritable lieu d’apprentissage hors de l’asile d’aliénés. Séguin exprime très bien dans son livre Hygiène et éducation des Idiots, publié en 1843, ce qu’il entend par action pédagogique avec des enfants qui présentent des besoins particuliers : Pour entreprendre l’éducation d’un enfant idiot, ou simplement arriéré, il faut posséder une méthode qui tienne compte des anomalies physiologiques et psychologiques, une méthode qui, pour chaque enfant, parte du connu et du possible, si bas qu’il soit dans l’échelle des fonctions, pour l’amener graduellement et sans lacune au connu et au possible de tout le monde. Il faut une méthode qui ne laisse rien au hasard et à la routine, il faut enfin une méthode positive (Séguin, 1997, p. 55).
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Une méthode particulière qui sache répondre aux besoins particuliers par une ‘méthode positive’ c’est-à-dire une méthode qui sache activer les ressources et le potentiel de l’enfant. Edouard Séguin expérimente l’utilisation du travail manuel comme moyen d’apprentissage plus correspondant aux capacités de ces enfants ; il se rend compte que l’activité manuelle crée des motivations, rehausse l’estime de soi et met les bases psychologiques pour récupérer la confiance en soi. L’activité physique devient décisive dans le développement des autonomies aussi bien au niveau moteur qu’émotionnel ; elle sert à exercer l’attention, la concentration et à éduquer la volonté. Séguin invente les première techniques d’éducation à travers les mouvements du corps expérimentant la ‘gymnastique rythmée’, accompagnée de musique et de chants. Son école fonctionne comme une petite communauté éducative située dans un quartier populaire. En lisant les textes de Séguin on peut dire qu’il est le vraie fondateur de l’observation pédagogique, de l’étude des cas : il invente le cadre monographique où l’on trouve des informations sur l’ état physiologique de l’enfant, son état psychologique, son état ‘instinctif et moral’ (par moral il entend sa capacité et sa modalité relationnelle) et aussi un portrait qui comprend des indications sur son histoire. Cette démarche méthodologique d’une observation globale du développement de l’enfant sera reprise par le médecin éducateur belge Ovide Decroly qui parlera de Monographies d’enfants. Il s’agit donc d’une description multilatérale et globale de l’enfant qui tend à en saisir le potentiel ; au fond Séguin observe pour comprendre et pour dessiner un profil dynamique potentiel de l’enfant. Il se concentre sur trois types de phénomènes dans le développement des apprentissages : l’activité, l’intelligence et la volonté. L’activité part surtout de l’activité musculaire, motrice et sensorielle ; une activité qui permet d’activer, par l’exercice les facultés de coordination et d’attention par l’imitation (rappelons ici que Séguin anticipe Henri Wallon qui affirmera que l’imitation est déjà une forme d’intelligence car on réélabore toujours à sa façon ce que l’on a vu faire). Il est aussi intéressant de voir que Séguin utilise les connaissances et les cadres conceptuels provenant d’autres disciplines comme la philosophie sociale de Pierre Leroux (l’inventeur du mot socialisme) qui affirme I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
dans son livre De l’Humanité qu’il faut considérer l’homme comme une triade : Esprit,. Corps et Cœur ; pour utiliser la traduction éducative qu’en fait Séguin dans son travail avec ses ‘petits idiots’ il s’agit d’éduquer la capacité de penser, d’utiliser le corps pour agir de manière intentionnelle et d’éprouver des sentiments dans les rapports avec l’humanité. Séguin croit dans la force de l’éducation et de l’instruction pour rendre libre et faire devenir citoyens et sujets de droit ses enfants déficients intellectuels. Il considère ses ‘petits idiots’ comme des opprimés qui peuvent s’émanciper à travers l’apprentissage. Il n’hésite pas à critiquer durement la démarche médicale de son ‘patron’, Esquirol et précise sa vision des choses dans son livre Traitement moral, hygiène et éducation des idiots : Lorsque la vie ne circulait encore qu’au sommet des hiérarchies sociales; quand l’humanité ignorait son unité fondamentale et se laissait insolemment broyer sous les pieds d’une aristocratie qui faisait du peuple litière, l’éducation était le privilège de ceux qui appuyés contre l’autel du Christ, gardaient, avec la tradition affaiblie des sciences profanes, la tradition supérieure de l’unité de l’espèce et de l’égalité de tous devant Dieu. Plus tard, l’humanité comprit par le Christ que tous étaient appelés ; et s’il n’y eut encore que les riches qui pussent puiser à la source où se désaltère l’esprit, c’est que la science était encore le monopole de la fortune: cette inégalité s’effacera avec le temps, et nous en subissons les dernières conséquences ; mais déjà, non seulement le peuple peut et doit savoir lire, c’est-à-dire penser. Et déjà l’éducation si mauvaise et si insuffisante qu’elle soit, a été mise à la portée de créatures exceptionnelles que leur infirmité semblait rendre incapables de participer au progrès de l’esprit humain. Péreire, l’abbé de l’Epée, et Hauy ont fait des miracles que l’on ne peut dépasser,...qui doivent servir de modèles. Grace à ces hommes de génie, les sourds-muets et les aveugles peuvent aujourd’hui recevoir les bienfaits de l’éducation...; si j’en crois ma conscience, ne fut-ce que de loin dans la vie nouvelle de l’égalité de l’esprit (9)(Séguin, 1997, p. 243).
Séguin fait remarquer que la ‘mauvaise éducation’ appliquée qui ne fonctionne déjà pas avec les ‘enfants normaux’ ne peut donner aucun résultat avec les ‘enfants idiots’; il se pose aussi la question centrale du droit à l’instruction, du droits au savoir et à l’acquisition de connaissances, d’habiletés dans les domaines de la lecture et de l’écriture. Cela signifie créer les bases pour la liberté et la possibilité de choisir. Cette affirmation sur l’éducabilité de tous les enfants,y compris ceux qui sont considérés comme ‘malades’ et incapables, se base sur la conviction profonde de ‘l’égalité des esprits’, de l’égalité entre les hommes qui, indépendamment de l’origine, des conditions sociales mais aussi physiologiques, peuvent exprimer à travers l’éducation leur riche potentiel d’apprentissage. En 1873, Séguin, devenu délégué des Etats-Unis, où il avait émigré, écrit un rapport sur ‘l’éducation des enfants normaux et anormaux’ à l’occasion de l’exposition internationale de Vienne ; dans ce rapport il écrit qu’il faut éduquer l’enfant déficient à devenir citoyen mais aussi la société à l’accueillir avec sa différence : A l’égard de l’humanité, notre éducation enseignera, par les principes et l’exemple, la coordination et l’interdépendance de ce que l’enfant apprend d’une part, de ce qu’il a à faire en tant qu’homme et de ce qu’il doit exécuter pour les autres : c’est la solidarité (Séguin, 1997, p. 31).
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Eduquer ces enfants déficients à etre citoyens, sujets actifs de la société veut dire aussi éduquer la société à etre solidaire ; Séguin parle de solidarité et non de charité, la solidarité pour lui active l’autonomie du sujet alors que la charité infériorise et ne crée que dépendance. On entrevoit ici l’importance qu’attribue la pédagogie spécialisée à la promotion des processus d’autodétermination et de capacité de prendre des décisions, meme dans les conditions de déficit complexe (nous préférons utiliser le mot complexe car le mot grave est parfois ambigu et véhicule souvent l’idée qu’il n’ y a pas grand-chose à faire). C’est donc d’une pédagogie qui répond à des besoins particuliers avec des méthodes particulières qui peuvent en grande partie devenir méthodes pour tous les enfants ; il ne s’agit donc pas d’une pédagogie réservée uniquement à la réserve des enfants avec des besoins spéciaux mais d’une pédagogie qui répond de façon originale à des besoins originaux. La compréhension du fonctionnement de l’enfant trisomique ou de l’enfant avec des ‘troubles envahissants du développement’ est très liée à l’observation des interactions dans son contexte de vie. On peut dire avec Lev Vygotski et Ovide Decroly que l’observation et la connaissance de l’enfant avec déficit atypique ou ‘irrégulier dans son développement’ ouvrent de nouvelles perspectives sur les plans méthodologiques et théoriques en ce qui concerne les processus d’apprentissage de tous les enfants. Il n’est d’ailleurs peutetre pas saugrenu soutenir la thèse que si un pédagogue général serait en difficulté à enseigner dans une classe avec des enfants aux besoins particuliers ou spéciaux,un pédagogue spécial pourrait très bien enseigner à des enfants ‘normaux’ utilisant une partie des méthodes de la pédagogie spécialisée. Les expériences et les réflexions de J.M.G.Itard et E.Séguin sur l’éducabilité, l’importance du rapport entre éducation de la sphère sensorielle et de la sphère cognitive du développement ; la volonté comme ressort fondamental qui permet d’affronter les difficultés, l’importance du milieu et de l’expérience sociales, constituent des découvertes pédagogiques qui ne concernent pas seulement les enfants avec déficience intellectuelle et mentale mais tous les enfants. Ce n’est d’ailleurs pas un hasard si Maria Montessori appliquera les nombreuses innovations pédagogiques produites dans son expérience avec les enfants déficients intellectuels de l’hopital psychiatrique de Rome à son travail avec les petits enfants dans sa maison des enfants, toute sa démarche analytique qui associe à l’éducation de chaque sens des objets didactiques spécifiques, la construction d’un espace matériel, de vie et d’apprentissage à mesure d’enfant, la libre expérimentation des capacités dans les jeux éducatifs ; en bref toutes ces techniques expérimentées pour la première fois avec les ‘petits idiots’ serviront successivement pour travailler avec la petite enfance en général. Dans son ouvrage La méthode de la pédagogie scientifique (1909), ouvrage où elle traduit et reproduit de longs passages des écrits de Itard et Séguin, Maria Montessori indique ce que doivent etre les principaux objectifs d’une pédagogie nouvelle pour des enfants avec déficience intellectuelle : 1) l’importance d’une éducation sensorielle et moteur pour le développement des capacités cognitives de l’enfant 2) un parcours d’apprentissage individualisé qui tienne compte de ses capacités et de ses particularités 3) prévoir des matériaux didactiques spécifiques et adaptés pour favoriser le développement des potentialités de l’enfant et faciliter le processus d’apprentissage 4) favoriser la coopération dans le groupe, les plus capables aident ceux qui sont en difficulté, et responsabiliser tous les enfants dans I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
l’entretien et la gestion quotidienne des espaces de vie commune 5) constituer des classes mixtes par sexe, la co-éducation habitue les filles et les garçons à se rapporter les uns avec les autres 6) prévoir le plus possible des travaux pratiques 7) exercer les enfants au dessin car, selon Maria Montessori, il les prépare à l’écriture et développe leur créativité (en plus le dessin est aussi un outil d’observation pour les enseignants qui peuvent ainsi évaluer les capacités intellectuelles de l’enfant) 8) organiser des activités où on chante et on dance. Maria Montessori décrit de cette manière ce qu’elle entend par pedagogia amendativa (pédagogie avec amendement) : Pour attirer l’attention de l’enfant déficient, de forts stimuli sensoriels sont nécessaires : donc les leçons doivent etre très objectives et pratiques. Chaque leçon doit commencer par la présentation des objets que l’institutrice décrira en quelques mots, mais prononcés de façon très vivante, avec des modulations continuelles de la voix, accompagnées d’expressions mimiques vivaces. La leçon doit etre plaisante, faite le plus possible comme un jeu, de manière à provoquer la curiosité de l’enfant : comme par exemple les jeux de cache cache, ceux où on attrape le somnambule, de l’artisan aveugle, les jeux de visite de magasins. Ils doivent amuser, la leçon doit etre brève de manière à laisser l’envie de continuer à l’enfant : son attention, qui s’épuise rapidement, ne doit pas etre éteinte. Pour fixer les notions il faudra répéter la leçon ; mais attention, chaque fois le meme objet sera présenté de manière différente dans un contexte différent ; ce qui semblera nouveau et permettra de maintenir en éveil l’intérêt de l’enfant (Montessori, 2007, p. 670).
Comme on peut le constater à la lecture de ces lignes Maria Montessori démontre d’avoir une grande capacité d’observation de l’enfant avec déficience intellectuelle, elle saisit la manière de communiquer avec lui, elle comprend sa façon de fonctionner, qui ne passe pas par les logiques d’abstraction, elle s’interroge sur l’importance d’une démarche qui sache produire les motivations et l’intérêt nécessaire à l’apprentissage. C’est une vraie leçon de méthode pédagogique ; une méthode qui est valable dans tous les milieux d’apprentissage et avec tous les enfants. Le spécifique devient ici général. Elle apprend tout cela dans son expérience de spécialisation avec le fondateur de la pédopsychiatrie italienne moderne Sante De Sanctis ; c’est lui qui lui conseille de lire les textes de Itard et Séguin, c’est lui aussi qui expérimente pour la première fois en Italie une école pour enfants déficients intellectuels qu’il fait sortir de l’hopital psychiatrique dont il est directeur ; il crée avec MariaMontessori, en 1899, une Ecole accueil pour enfants avec déficiences intellectuelles. Nous avons ici l’exemple d’une collaboration positive entre le point de vue médical et le point de vue pédagogique, en effet à la différence des rapports difficiles entre Esquirol et Séguin, les rapports de De Sanctis et Montessori seront productifs et efficaces dans la construction commune d’un projet qui soit en mesure de répondre aux besoins particuliers de ces enfants. En 1915, influencé par les innovations pédagogiques de Maria Montessori, Sante De Sanctis écrit un livre important L’educazione dei deficienti (L’éducation des déficients) ; dans cet ouvrage il y rappelle le travail de Séguin (introduit en Italie par M.Montessori) et il se réfère à l’expérience de Ovide Decroly en Belgique. Il souligne qu’il est important de tenir compte du caractère différencié et irrégulier du développement des enfants déficients ; il observe leur grande capacité dans la réalisation anno III | n. 1 | 2015
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d’activités pratiques et l’importance pour leurs apprentissages des expériences de socialisation. Avec Maria Montessori il propose aux enseignants de faire des cartes biographiques des enfants, il considère fondamental pour l’action médico-pédagogique une connaissance de l’histoire de l’enfant (aussi bien au niveau médical que sociale et familial). Il est intéressant de voir la façon dont il voit le rapport entre pédopsychiatrie et pédagogie : Je reconnais l’originalité des finalités de la pédagogie et donc l’autonomie fondamentale de cette science ; je ne vois pas pourquoi elle devrait rester à l’écart du mouvement de la pensée moderne, d’autant plus qu’elle est en train de se développer de manière robuste en contact avec les sciences expérimentales. Il faut donc de l’élasticité dans ses applications, c’est évident, les points de départ doivent etre certains et ceux qui les appliquent ne doivent jamais les perdre de vue (Decroly, 1978, p. 6).
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De Sanctis dans son dialogue avec Montessori fixe les territoires épistémologiques de chaque discipline, le territoire médico-psychiatrique et le territoire pédagogique sont différents, meme s’ils traitent les conduites humaines dans leur développement, mais ils le font en partant de point de vue différents. Il ne peut donc y avoir ni dans les pratiques ni dans théories de confusion ; mais il doit y avoir dialogue et respect réciproque. De Sanctis reconnait le caractère scientifique de la pédagogie et respecte ses modalités d’action ; il se trouve à collaborer avec une pédagogue comme Maria Montessori qui expérimente, qui connait le langage médical et qui sait, de manière rigoureuse, inventer un langage pédagogique nouveau. L’histoire du rapport entre Sante De Sanctis et Maria Montessori est un exemple pour réfléchir aujourd’hui sur les rapports de la pédagogie spécialisée avec la médecine ; autonomie, rigueur conceptuelle et méthodologique, dialogue constant et influences réciproques. Aujourd’hui nous assistons souvent à une attitude subalterne de la pédagogie à la médecine ; il suffit de voir le langage qu’utilisent les enseignants et les éducateurs qui utilisent des concepts qui proviennent de la neuropsychiatrie et finissent par ne plus savoir quel est le chant de leur action et de leur pensée. Nous voulons encore ajouter un élément supplémentaire en ce qui concerne la démarche de Maria Montessori et qui confirme une tendance de la pédagogie spécialisée dans son développement historique ; l’influence aussi de l’ethnologie et de l’anthropologie, en particulier les travaux de son professeur Giuseppe Sergi qui théorisa l’importance de l’influence du milieu sociale sur le développement de l’homme. Nous retrouvons des démarches semblables chez le médecin-pédagogue belge Ovide Decroly ; fondateur de la méthode globale d’apprentissage (cité aussi bien par Célestin Freinet que Lev Vygotski), il commence sa carrière de pédagogue en s’occupant d’enfants avec des déficits sensoriels (sourds, muets et aveugles) et avec déficience intellectuelle ; c’est avec eux qu’il élabora sa démarche globale. Pour lui l’observation est la fois un instrument aux mains des enseignants et des éducateurs et une méthode éducative qui aide l’enfant à développer sa curiosité naturelle, car Decroly considère l’enfant comme un chercheur et un observateur né. Il est aussi un des fondateurs de la psychologie expérimentale avec les premières études longitudinales ; il utilise pour cela différentes techniques de test et les nouveaux moyens techniques comme le cinématographe, à peine né. Il propose donc une démarche globale aussi bien sur le plan de l’action péI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
dagogique que de la méthode de lecture des besoins et des caractéristiques de l’enfant ; il a une méthode plurielle ; en outre on trouve chez lui le concept de prise en charge globale de l’enfant mais aussi celle de la globalité des langages aussi bien dans le processus d’apprentissage que dans la construction du dispositif d’accompagnement. Expliquant la contribution de Decroly à la pédagogie Henri Wallon écrit les phrases suivantes : La pédagogie ne peut-etre quelque chose de figé. D’age en age, et suivant les circonstances, il faut qu’elle se renouvelle, puisqu’elle doit etre fondée sur les rapports qui peuvent s’établir entre les réalités de chaque époque et chaque individu. C’est pour avoir reconnu cette relativité essentielle de la pédagogie que Decroly lui a donné une fécondité illimitée (Wallon, 1962, p. 3).
En effet Decroly considère l’éducateur comme un chercheur en action, un explorateur, exactement comme l’enfant, qui expérimente en continuation des méthodes en tenant compte du profil d’apprentissage de chaque enfant et de la situation. Il ne croyait pas dans les manuels qui disent comment il faut faire ; il croyait plutôt dans une démarche ouverte à l’expérimentation créative et ouverte à la découverte de pistes inédites. En somme, il ne faut rejeter a priori aucun procédé; tous ont des avantages et des indications, et si nous donnons la préférence à la cinématographie, nous accordons aussi de la valeur à l’expérimentation, au système des tests et au questionnaire c’est-à-dire à l’observation directe et indirecte. Il est meme possible de concevoir une méthode mixte (Decroly, 1978, p. 9).
Tout cela partait aussi d’une croyance dans les potentialités des enfants et dans le fait que chaque enfant, mis dans les bonnes condition, peut réussir là où tous pensent qu’il n’en est pas capable. C’est pour cette raison qu’il n’a jamais écrit un traité pédagogique sur la méthode car il pensait qu’une seule méthode ne pouvait répondre aux questions complexes du développement humain et des situations d’ apprentissages; sa démarche était globale et multidisciplinaire: il utilisait des outils qui provenaient de la psychologie expérimentale (dont il fut un des fondateurs), de la médecine, de la sociologie et de l’ethnologie. Il n’hésita pas à utiliser les schémas interprétatifs de la psychologie de la Gestalt et de l’ethnologie de Lévy-Bruhl pour mieux comprendre le fonctionnement des enfants avec déficience intellectuelle mais aussi de tous les enfants impliqués dans un processus d’apprentissage. Decroly voit l’enfant globalement comme etre physiologique, psychologique et social; comme un explorateur qui cherchent les outils pour répondre aux défis de l’existence; l’identité se forme ‘par apports successifs’; et nos habitudes et nos besoins sont pourtant loin de constituer une simple sédimentation, une masse statique dans laquelle nous allons puiser, comme des casiers bien étiquetés, pour subvenir aux nécessités du moment. Au contraire ils vivent et d’une vie non seulement latente, mais véritablement créatrice. Nous n’en voulons pour preuve que ces sentiments que nous croyons oubliés et qui
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revivent parfois enrichis de toute une gamme nouvelle de nuances et ces raisonnements que nous avions vainement essayé de mener à bonne fin et qui brusquement se solutionnent au moment où nous semblions y penser le moins. C’est qu’ils sont des forces agissantes, continuellement soumises à des alternatives de pression et de détente suivant que leur tension énergique prédomine ou que la résistance des autres éléments limite leur action. Ils possèdent donc un potentiel d’énergie, une tension psychologique, comme dit P.Janet, qui est le concomitant de la tension nerveuse,et qui, suivant qu’il est dominé par la résistance ou en triomphe partiellement ou complètement les laissera subsister à l’état de tendances plus ou moins latentes ou les réalisera plus ou moins pleinement sous forme d’états affectifs, représentatifs ou moteurs (Decroly, 1978, p. 12).
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C’est un innovateur qui a une vision dynamique du développement de l’enfant ; qui sait que les enfants avec des déficits présentent des irrégularités dans leur développement, irrégularités de croissance entre les sphères endommagées et celle restées intactes, ici il anticipe ce qu’écrira René Zazzo à propos du développement hétérochronique des enfants avec déficience intellectuelle. Si sur le plan moteur ils ont un développement semblable à celui de leurs camarades ‘normaux’ il n’en est pas de meme sur le plan cognitif ; cette différentiation interne du développement implique des programmes d’apprentissage qui soient différenciés par objectifs en fonction de chaque sphère du développement dans une interconnexion globale qui tienne unie la personne. Decroly arrive meme à mettre en discussion l’efficacité des méthodes de tests élaborés par Binet pour mesurer le QI ; pour lui ces tests sont inutilisables pour évaluer le fonctionnement intellectuel des enfants avec un ‘retard mental’ et pour comprendre leur type d’intelligence. Decroly est un des premiers à s’interroger sur le concept d’intelligence ; de quoi s’agit-il exactement ? Il parle d’intelligence pratique à propos des enfants avec déficience intellectuelle, utilisant certaines catégories trouvées dans les travaux de l’ethnologue Lévy-Bruhl sur ‘la pensée primitive’ où il parle de pensée analogique et synchrétique. Il construit de nouveaux tests avec des jeux éducatifs qui deviennent à la fois un outil d’observation des capacités de l’enfant et un instrument éducatif qui exerce l’enfant à observer et imiter. Par exemple ses boites surprises ; il met des boite l’une dans l’autre, il le fait voir aux enfants, dans la plus petite qui se trouve au centre il place un chocolat. Il les ferme avec des petites serrures et puis il demande aux enfants de les ouvrir. Avec ces jeux il observe aussi leurs habiletés manuelles, de coordination et leurs facultés d’attention. Ce qui intéresse Decroly c’est de comprendre comment fonctionne leur potentiel d’apprentissage ; comment ils apprennent et quels moyens ils utilisent pour résoudre les problèmes et les difficultés qu’ils rencontrent. Il combine pédagogie, psychologie expérimentale, ethnologie et la psychologie de la Gestalt, d’où son grand intérêt pour le fonctionnement perceptif des enfants avec déficience intellectuelle. Il construit une méthode idéo-visuelle avec les enfants sourds pour leur permettre d’acquérir le plus rapidement possible la capacité de lecture, avec les aveugles il crée la méthode idéo-tactile. Le principe est toujours celui de la démarche analogique et globale mais les méthodes changent en fonction des enfants, de leur déficit, de leur condition de vie. Pour lui l’apprentissage n’a rien à voir avec le dressage ; de ce point de vue il n’épouse pas les modèles behaviouristes mais il préfère observer les tendances dynamiques
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et les conduites (concepts qu’il reprend des travaux du psychiatre Pierre Janet) ; il prend en considération la complexité et la dynamicité du développement de l’enfant. Il propose d’utiliser la méthode des Monographies d’enfants ; un dossier médico-pédagogique de l’enfant qui retrace sa trajectoire, son histoire biologique, psychologique, pédagogique et sociale ; à ce dossier contribuent différentes figures professionnelles : enseignants, médecin, pédiatre, éducateurs et parents. Les parents sont pour Decroly des experts, de leur point de vue, des observateurs de leurs enfants, ils doivent donc participer à la construction du projet éducatif global. Nous trouvons ici l’idée de travailler en réseau et de partenariat ; pour Decroly le réseau est aussi constitués des ‘experts de vie’ . Que ce soient des artisans, des ouvriers ou des agriculteurs qui expliquent aux enfants ce qu’il font et en quoi consiste leur métier. En travaillant avec les enfants avec déficience intellectuelle il se rend compte que le travail manuel constitue un des moyen les plus efficace pour favoriser la mobilisation de toutes leurs ressources et d’acquérir des compétences importantes aussi bien sur le plan sociale que professionnel. Il expérimente les premières formes d’orientation professionnelle et propose un type d’observation des capacités qui combine le profil de l’enfant avec le profil de compétences que demandent différents métiers. Decroly distinguait apprentissage et dressage ; le premier est un processus qui part de l’activation des capacités de l’individu, il permet un minimum d’autodétermination, le second transforme l’élève en une espèce d’automate qui est guidé de l’extérieur. Il écrit à ce propos : La notion de l’éducation a du etre bien déviée de son acceptation primitive pour qu’au lieu de guider l’enfant on en soit arrivé à le dresser, pour qu’au lieu d’agir par persuasion on recoure aux procédés qu’utilisent les dompteurs. Et l’on dompte et l’on dresse à tour de bras et l’école devient une entreprise où l’on coule sur mesure des cerveaux tous égaux, sans doute, mais égaux surtout en impuissance et en automatisme (Decroly, 1978, p. 13).
Comme on peut le constater dans ces différentes étapes nous trouvons des éléments communs : le déficit qui devient un défi pour les apprentissages et l’innovation pédagogique, le concept d’éducabilité, l’approche interdisciplinaire, mieux complémentariste, une conception globale du développement de l’enfant, l’importance des médiations et des médiateurs pour répondre aux besoins particuliers de l’enfant avec déficit, une remise en discussion des concepts de normalité, anormalité, maladie et santé, une critique constante des schémas diagnostics qui semblent vouloir prédéfinir une trajectoire, la relativité des catégories que nous utilisons pour interpréter les conduites les plus étranges, l’attention aux droits de citoyenneté des personnes avec déficit qui doivent pouvoir etre reconnues avec leur différence mais sans subir l’exclusion ou etre mises dans des ghettos, la citoyenneté active et le devenir acteur, l’importance d’apprendre le plus possible à faire par soi-meme, la distinction entre apprentissage et dressage, construire une identité compétente en mesure de faire fonctionner toutes les capacités, une conception anthropologique, globale et écologique du développement humain, l’idée que les méthodes de la pédagogie spécialisée sont en quelque sorte valables pour tous les enfants et que le compréhension du fonctionnement des enfants avec déficit nous permet de mieux comprendre le fonctionnement de tous les enfants, une conception sociale et inclusive de anno III | n. 1 | 2015
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l’éducation, faire sortir du ghetto et créer des conditions contextuelles qui éliminent toute situation de handicap, le déficit n’étant pas en soi et pour soi un problème, une pédagogie des médiations actives qui favorise le développement de potentialités et l’inclusion. Il y a aussi un lien constant, un rapport dialectique entre pratique et théorie, l’action pédagogique oblige ici l’enseignant, l’éducateur, le psychoéducateur à s’interroger constamment sur ce qu’il fait, comment il le fait, avec quels résultats et pour quelles raisons. Il ne suffit pas de conduire de manière empirique l’expérience éducative il faut aussi apprendre à penser ce que l’on fait, et c’est ce que font continuellement Itard, Séguin, Montessori et Decroly. On peut ici reprendre la réflexion que propose Lev Vygotski dans son ouvrage La signification historique de la crise en psychologie (ce qu’il dit de la psychologie peut-etre appliqué à la pédagogie spécialisée d’autant plus qu’il liera constamment dans son travail de recherche pédagogie, psychologie, ethnologie, histoire et sociologie) :
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la tache de la science ne se réduit pas à la conduite d’expériences ; sinon il suffirait de remplacer la science par un enregistrement de nos perceptions. Le véritable problème de la psychologie tient aussi au caractère limité de notre expérience immédiate, parce que tout le psychisme est construit sur le modèle d’un instrument qui choisit et isole certains aspects des phénomènes. Un œil qui verrait tout, pour cette raison précisément, ne verrait rien ; une conscience qui aurait conscience de tout, n’aurait conscience de rien, et la conscience de soi, si elle avait conscience de tout n’aurait conscience de rien. Notre expérience est confinée entre deux seuils ; nous ne voyons qu’une infime partie du monde. Nos sens nous donnent accès au monde sous forme d’extraits qui sont importants pour nous. Et à l’intérieur des seuils, à nouveau, ce n’est pas toute la diversité des changements qui est appréhendée ; de nouveaux seuils qui existent. C’est comme si la conscience suivait la nature des bonds, avec des omissions et des lacunes. Le psychisme sélectionne des éléments stables de réalité au sein du mouvement universel. Il constitue des ilots de sécurité dans les flux héraclitéen. Il est l’organe qui choisit, le tamis qui filtre le monde et le transforme de telle sorte qu’il soit possible d’agir. C’est en cela que réside son role positif, non dans le reflet, …, mais dans le fait de ne pas toujours refléter fidèlement, c’est-à-dire de distordre subjectivement la réalité en faveur de l’organisme (Vygotski, 2010, p. 156).
Une démarche qui sait croiser les regards, les mettre dans les conditions de dialoguer et de favoriser de cette manière une meilleure compréhension, une compréhension plus complète de la complexité du développement de la personne avec déficit ; sur le plan de la méthode la dimension plurielle, dynamique et ouverte de la pédagogie spécialisée ou spéciale nous rappelle l’importance des facteurs anthropologique, culturels et sociaux. Lev Vygotski, très attentifs aux aspects sociaux et culturels du développement psychologique et du processus d’apprentissage, souligne que le mot clé de sa psychopédagogie est le mot de médiation ; tous les approches se déroulent à travers des médiations (les rapports sociaux, le langage, les codes culturels, le type d’éducation reçue) ; il affirme aussi que sa psychologie est une psychologie de position et non de disposition ; ce qui l’intéresse c’est la situation socio-culturelle dans laquelle vit la personne, car c’est cette situation, sa position dans son contexte de vie et dans la société I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
en général, qui nous permet de comprendre son fonctionnement et ses comportements. Vygotski se situe dans une perspective historique du développement ; sa démarche est aussi dialectique, elle prend en considération ce qui peut apparaitre comme une contradiction et un problème, et en fait une ressource (n’oublions pas que Vygotski est le psychopédagogue qui appliqué avec les plus d’originalité la dialectique de Hegel et de Marx à l’analyse psychologique du processus d’apprentissage). Il suffit de voir la façon dont il affronte la question du déficit ; il part de l’affirmation qu’un enfant avec un déficit n’est pas nécessairement déficitaire ; ce qu’il appelle déficitaire c’est l’ensemble de blocage des potentialités provoqué par l’interaction avec le contexte social. C’est la situation du handicap qui représente le problème et non pas le déficit en tant que tel ; très au courant des recherches dans les domaines de la biologie et de la neurologie, en collaboration avec Alexander Lurija (le fondateur de la neuropsychologie moderne), il affirme que l’organisme en présence d’un ou plusieurs déficits active spontanément, en tant qu’il est vivant, des mécanismes de compensation. En ce sens Vygotski affirme dans son gros ouvrage Fondements de défectologie que le déficit provoque tout simplement un autre type de développement, un développement original . Le déficit est donc un défi pour l’innovation et pour créer du neuf, la personne avec un déficit utilise des parcours indirects pour apprendre, donc la tache de la pédagogie spécialisée ou spéciale, qui ne doit cependant ni etre une pédagogie minimaliste ni une pédagogie du dressage, une pédagogie du ghetto, est de créer les conditions environnementales et relationnelles pour favoriser l’épanouissement de toutes les potentialités à travers une série de médiations efficaces qui garantissent l’égalité des chances. Le mot médiation concerne aussi les médiateurs, entendus aussi bien comme professionnels experts qui accompagnent sans se substituer à la personne que comme objets ou instruments techniques comme les chaises roulantes, le Braille pour les aveugles, le langage des signes pour les sourds, aujourd’hui on dirait aussi les ordinateurs qui avec des programmes spécifiques peuvent faciliter les apprentissages des personnes avec déficience intellectuelle ou avec des déficit sensoriels (surdité et cécité). Ces médiations permettent de cerner la zone de développement proximal et construire des programmes d’apprentissages qui tiennent compte du type de besoins, de caractéristiques et de capacités de la personne avec déficit. Cela pour favoriser l’acquisition d’un niveau supérieur de compétences dans les différentes sphères fonctionnelles de son développement. Il y a aussi ici une conception complexe, dialectique et sociale du développement des apprentissages qui se déroulent toujours dans des conditions déterminées et dans un système de rapports entre la personne avec déficit et l’environnement. On retrouve cette conception de l’apprentissage par médiation chez Reuven Feuerstein qui affirme d’ailleurs que « toute personne est capable de changement, quel que soit son age, son handicap et la gravité de ce handicap. Les enfants différents ont simplement besoin d’un surcroit d’attention et d’investissement personnel ». Pour Feuerstein c’est précisément le manque de médiation humaine et sa rareté qui sont à l’origine d’un développement intellectuel insuffisant; ce que propose Vygotski c’est une théorie psychopédagogique du changement et de l’apprentissage par médiation ; il faut valoriser l’enfant au maximum en évitant toujours de l’isoler et de le mettre en échec.
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4. Les orientations actuelles et leurs effets operationnels dans la prise en charge
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La pédagogie spécialisée n’est pas une pédagogie qui se limite à la période de la scolarisation de l’enfant avec déficit mais c’est aussi une pédagogie sociale et une pédagogie du développement qui concerne l’age adulte et la vieillesse. On parle d’apprentissage durant toute la vie; cela vaut aussi pour les personnes avec des déficits. On pourrait ici reprendre ici les travaux de Eric Erikson sur le cycle de vie et ses différents passages; una conception du processus de développement de la personne avec déficit qui prend en considération tout l’arc de la vie doit s’interroger sur les formes de prise en charge vu les transformations qui interviennent aussi bien au niveau subjectif qu’au niveau du système de relation de la personne (avec des parents qui vieillissent et disparaissent, des frères et soeurs qui ne peuvent pas s’en occuper); seule une démarche globale, écologique du développement peut favoriser une compréhension des besoins de la personne. La lecture des besoins de la personne est importante; et cette lecture doit partir aussi d’une connaissance de l’histoire de la personne, de sa trajectoir de vie. Partir de l’histoire implique à la fois un travail biographique avec toutes les précautions qu’il présente, surtout là où la personne ne communique pas ou plus avec facilité ou avec les memes moyens communicationnels de la majorité. Qu’il s’agisse de personnes avec déficience intellectuelle, avec des ‘troubles envahissant du développement’, avec l’Alzheimer etc...il est important de pouvoir reconstruire l’histoire de la personne pour en comprendre les attitudes et les conduites. Le travail biographique entre dans ce que la philosophe de l’histoire Michel de Certeau appelle l’écriture de l’autre, écriture souvent dangereuse car fortement dépendante du regard de qui écrit et des sources utilisées (dossiers médicaux, cliniques, rapports des experts, récits de la famille, des parents, des amis); surtout là où il y a absence d’oeuvre (pour utiliser un concept développé par Michel Foucault), là où la personne peut difficilement etre le moteur de son propre récit, pour le moins dans le langage de la majorité, il faut savoir utiliser une pluralité de sources qui peuvent aider à comprendre les conduites. Nous utilisons le terme conduite et non pas celui de comportement ; ce terme fut surtout utilisé par le psychiatre Pierre Janet dans son travail clinique; il préférait le mot conduite à celui de comportement car il donnait l’idée d’une dynamique,de quelque chose en mouvement, d’un ensemble de gestes et d’attitudes multiples. Alors que le mot comportement a quelque chose de statique, l’idée d’une photographie instantanée, sur le moment. Dans le mot conduite il y a aussi la dynamique de la relation individu-contexte, d’une relation complexe et non linéaire cause et effet. Janet nous introduit à la compréhension du méta-langage dans les cas de déficiences intellectuelles et mentales; il écrira des ouvrages sur l’automatisme psychologique parlant de mémoire profonde et l’intelligence avant le langage montrant qu’il existe une intelligence des actions qui passent à travers les gestes et les mouvements. Ici nous avons tout un espace de recherche sur le thème des mécanismes perceptifs qui jouent un très grand role dans la possibilité pour les personnes avec des déficits complexes de continuer à apprendre et de comprendre. L’utilisation du concept de disabilità complesse (l’expression italienne) (que nous préférons à polyhandicapés) indique la complexité du cadre
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fonctionnel et disfonctionnel de la personne, souvent dans les cas où aux déficits c’est ajoutée une pathologie ou une souffrance psychique, pour des raisons multiples, cela permet de poser la question dans une perspective qui continue à attribuer à la personne dignité et potentialités. Souvent on utilise l’expression déficience grave pour indiquer les cas difficiles mais il y a aussi un sous-entendu, l’idée qu’il n’y ait pas grand chose à faire. Nous pensons, au contraire, qu’il est plus congruent de parler de déficits complexes ou bien de disfonctionnalités complexes; cela veut dire que l’on se pose la question de la complexité de la prise en charge, ce qui signifie ne jamais réduire la personne aux seules données biomédicales mais continuer à la considérer dans son système de relations affectives, sociales et culturelles. En plus cela implique une idée de possibilité de vie humaine et avec dignité; d’une vie faite aussi de changements possibles et de mutations qui accompagnent l’existence et qui ne signifie pas que l’existence est terminée. Une démarche pédagogique en mesure d’utiliser toutes les marges de développement potentiel pour une vie de dignité et effectivement humaine malgré la complexité des disfonctionnalité et la présence de facteurs pathogènes. Une démarche globale, écologique et anthropologique est ici fondamentale; en ce sens les travaux sur l’anthropologie de la santé de M.A.Tremblay et de Patrick Fougeyrolas sur les processus de production socio-culturelle des situations de handicap sont importants pour une pédagogie qui considére la personne dans sa globalité et dans son écosystème socio-culturel comme écosystème vital. Elle permet de comprendre la pédagogie comme une pédagogie qui éduque le contexte a savoir accompagner en créant les conditions pour une bonne qualité de vie de la personne, qualité de vie dont font partie l’attention humaine, l’accueil, la dignité, les droits de citoyenneté, l’affectivité, la reconnaissance des différences, l’accessibilité aux opportunités avec les aménagements nécessaires, les médiations utiles, la socialité, la solidarité active qui ne transforme pas la personne en objet d’assistance mais la considère toujours comme sujet de besoins et de droits. Une pédagogie conçue comme action socio-culturelle qui modifie le regard de la société, du contexte, qui devient moteur de changement et qui crée les conditions pour faire en sorte que les personnes adultes ou vieilles avec des déficits complexes continuent à vivre et surtout à exister, car un végétal vit mais ne sait pas de vivre alors qu’un etre humain existe dans le mesure où il est acteur, sujet de sa vie et il est, malgré ses difficultés, traité comme une liberté en action, comme un potentiel. Il s’agit donc d’une pédagogie de la coopération qui, à travers les espaces et les pratiques de médiation, connecte les acteurs sociaux (centres résidentiels ou semi-résidentiels, services sociaux et sanitaires, associations, familles) entre eux et leur permet de construire ensemble une logique relationnelle et sociale inclusive (et non ghetoisante) ; la réalisation de projets de coopération active, de partenariats où fonctionnent les logiques d’aide mutuelle peuvent créer les conditions pour une vie et une fin de vie digne pour les personnes avec des déficits et des pathologies complexes. La démarche écologique proposée par Urie Bronfenbrenner dans le domaine du développement humain mais aussi celle de Gregory Bateson dans le domaine de la meta-cognition (surtout pour qui travaille avec des cas de déficiences intellectuelles et mentales complexes) peuvent aider la pédagogie spéciale et spécialisée à se rénnover et à se projecter comme savoir scientifique et technique dans le domaine des processus d’apprentissage aussi bien pour les contextes de vie que pour les peranno III | n. 1 | 2015
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sonnes adultes avec des déficits complexes. Ici les travaux de Edgar Morin sur la complexité et la gestion de la complexité peuvent nous aider ainsi que ceux de Berger et Luckman sur la réalité comme construction sociale. Nous ne pouvons ignorer les travaux de Erving Goffman sur le stigma, sur le rituel interactif et la vie quotidienne comme représentation. C’est dans les rapports sociaux et les interactions que se construisent les mécanismes d’exclusion ou d’inclusion, les mécanismes qui transforment l’autre en un objet de soin et d’assistance faisant de lui une chose passive qui ne peut avoir aucun désir, aucune capacité décisionnelle, fusse seule minime, sur sa propre vie. C’est ce que le psychiatre italien Franco Basaglia, qui fut le symbole de la saison culturelle de la désinstitutionalisation, appellait la relation de chosification; l’autre, le patient, la personne avec déficit et/ou souffrance psychique n’est plus considérée comme sujet de besoin et de dignité dans la relation. Il y a une très grosse différence entre organiser des besoins et répondre effectivement à des besoins; dans le premier cas on peut hospitaliser, insérer les personnes dans des lieux fermés et séparés de la vie ; on organise les personnes comme on organise les objets dans un espace déterminé. L’histoire de la personne, sa trajectoire, ses sentiments, son vécu ; tout cela est éliminé au nom de la science, de la réhabilitation et de la thérapie. La psychologie anthropologique et humaniste de A.Maslow, Ludwig Binswanger avait souligné l’importance des besoins, leur expression affective dans la vie de la personne, le caractère fondamental du système de relation, de la famille au réseau des amitiés, pour rendre digne la vie de la personne. Le démarche existentielle de Karl Jaspers aussi nous permet de dépasser, sans l’exclure, le monoculturalisme de la démarche bio-médicale. Comme on peut le voir ici la pédagogie spéciale de l’age adulte et de la vieillesse qui s’occupe des apprentissages durant toute le vie, du maintien fonctionnel des capacités et de la gestion des passages de la vie durant le processus de viellissement. Mais il faut aussi dire que la pédagogie spéciale du développement durant toute l’arc de la vie est aussi une pédagogie de la souffrance; dans les situations de déficit acquis ou bien de douleur physique accompagnée de souffrance psychique (utile ici rappeller la distinction que Paul Ricoeur fait entre douleur, comme donnée physiologique, et souffrance, comme donnée essentiellement psychique, rapprésentations et vécus). Comment se rapporter à la souffrance de l’autre, au récit qu’il en fait, comment ne pas le dépriver de ce récit tout en l’accompagnant dans sa recherche d’une reconnaissance humaine? La gestione pédagogique, (qui vise à alimenter les potentialités de vie) de la relation comme relation d’aide qui crée l’espace pour l’existence de la subjectivité de la personne implique aussi de la part de l’éducateur, du réhabilitateur, du psychoéducateur un gros travail sur soi-meme; ici la méthode de l’autobiographie professionnelle et personnelle peut favoriser un processus de reconnaissance des émotions. On peut citer ici les travaux de Eugène Minkowski sur le contact, l’intuition dans la relation, ceux de Sandor Ferenczi sur le contretransfert et ceux de Pierre Janet sur la compréhension des sentiments pour construire une méthode de travail qui fait du contact avec l’autre, de la nécessité de construire l’espace pour la rencontre (un espace non seulement matériel mais surtout affectif et social) avec l’autre et la prise en considération de ses sentiments et de ses perceptions. Donc une pédagogie de la rencontre, de la coopération qui active des démarches de co-évolution et de co-construction de contextes et d’espaces de vie où il y a la I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
possibilité de ne pas perdre sa propre humanité malgré la douleur et la souffrance. On pourrait parler aussi de pédagogie des potentialités et de la reprise après un évènement traumatique (un accident sur le travail, une grave pathologie qui provoque des déficits) ; ici on se situe dans le champ de ce que l’on appelle résilience, et dans une certaine mesure la résilience peut etre considérée comme un concept pédagogique car elle prend en considération le néodéveloppement de l’individu à la suite de l’évènement traumatique, capacité de reprise qui fonctionne comme un processus d’ensemble qui fait interagir les facteurs subjectifs et environnementaux.
Conclusions provisoires
Pour conclure nous proposons ici de partir des réflexions d’un éducateur particulier; Claudio Imprudente, 50 ans, tétraplégie spastique, communication verbale absente, il communique avec une tablette transparente où sont inscrites les lettres de l’alphabet. Claudio a appris à construire les mots avec le regard, il a un traducteur qui communique ce qu’il dit avec les yeux. Il est depuis des années directeur du Centre de documentation handicap de Bologne, il fait de la formation aux éducateurs, enseignants et travailleurs sociaux. Il a publié de nombreux articles et différents ouvrages (dont son autobiographie) sur les questions de l’inclusion des personnes avec déficits et de l’éducation à l’altérité dans les écoles. Récemment il a reçu la licence honoris causa en sciences de la formation de l’Université de Bologne. Durant son discours devant le collège académique il a déclaré: Je conclus en essayant de donner un sens correcte à un mot que j’ai souvent utilisé, mais auquel il faut restituer toute la force et la prégnance qui lui ont été enlevé par l’utilisation courante: un terme et une pratique en réalité, car il ne peut y avoir de scandale sans que quelqu’un o quelque chose le produise. En outre, dans mon cas, il s’agissait de faire scandale (de faire scandale dans le terme courant) de manière involontaire, sans rien faire, pour la simple raison de ma présence. Le mot scandale vient du grec skàndalon qui signifie étymologiquement piège, chute, au sens figuré, tourment. Je voudrais que cette licence fonctionne dans ce sens, comme un élément générateur de tourment, de gene pour, en premier lieu, tous ces éducateurs qui ne croient pas qu’un ‘végétal’ soit en mesure de modifier, de faire progresser les contextes dans lesquels il se trouve à vivre et à agir; en deuxième lieu, pour tous ceux qui ont des responsabilités politiques et ne pretent pas la nècessaire attention à la réalité, à l’actualité (car c’est de cela qu’il s’agit) des habilités diverses; et enfin, pour ces parents qui n’arrivent pas, pour des raisons différentes et compréhensibles, à créer cette complicité, cette communion qui peut garantir avec plus d’efficacité et de certitude une éducation non mutilée et non trop spéciale à leurs enfants (Discours du 18 mai 2011).
C’est surtout dans les rapports humains que l’on se rend compte qu’un grand nombre d’entre nous fuient devant les émotions et les intérrogations que provoquent des personnes comme Claudio; nombreux sont ceux qui se défendent avec leur role institutionnel, leur savoir ‘scientifique’, leur techniques d’experts
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‘spécialisés’; ils créent la distance nécessaire pour ne pas devoir rendre des comptes à soi-meme. Il y a souvent une grande peur ; celle d’éprouver des vécus qui remettent en discussion ce que nous faisons et ce que nous sommes. Il y a comme une fuite constante de l’homme face à sa propre humanité faite de contradictions, de conflits intérieurs, de lumières et d’ombres,, mais aussi une humanité faite de sentiments qui parlent le langage de la vie et de la relation, de la relation à nous et à l’autre, de la relation des expériences qui nous lient, que ce soint des personnes qui viennent de loin, qu’ils parlent une autre langue, qu’ils aient une autre religion que la notre, qu’ils soient faits de manière différente, qu’ils soient aveugles (d’ailleurs n’est-ce pas Diderot qui écrivit dans sa ‘lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient’ que la vraie lumière est celle de l’ame et de la conscience) ou dans l’impossibilité de marcher, qu’ils soient ‘retardés intellectuellement’ ( comme disaient Vygotski et Decroly, par rapport à quoi?). Claudio Imprudente nous explique que l’humanité est faite de dignité et là où celle-ci n’existe pas il n’y a que inhumanité; que la démocratie elle-meme qui parle le discours des droits ne peut exister là où il n’y a pas humanité et dignité dans les relations; que se soient les relations personnelles, sociales ou professionnelles. Il nous explique aussi ‘ comment un geranium est devenu un éducateur’? Comment a-t-il été possible pour un ‘insuffisant moteur cérébral et mental grave’ ; quelqu’un qui avait été défini par les hommes de science un ‘végétal’ (c’est comme cela qu’il avait été présenté à ses parents), cette mutation en éducateur? Un miracle? Claudio ne croit pas beaucoup aux miracles de l’au-delà qu’il laisse à Dieu, mais il croit aux miracles des rapports humains; il a d’ailleurs dédié sa licence à toutes les personnes, à commencer par ses parents, aux éducateurs qui ont cru en lui et qui l’ont traité comme une personne, un etre humain et non pas comme un ‘geranium’ et un ‘végétal’ sans espoir. Claudio Imprudente est devenu sujet, acteur, de son existence et non pas seulement objet d’assistance (il distingue d’ailleurs assistance, dont il a besoin, et assistancialisme, ce dernier réduit la personne à pure objet et lui enlève toute dignité, donc toute humanité). Partant de ses parents et des éducateurs qu’il a rencontré, et qui lui ont permis de devenir lui aussi éducateur il déclare: Certainement ils (mes parents et les personnes que j’ai rencontré) ont été éducateurs du respect des diversités, ce qui représente un point de départ et d’appui pour tout le reste, mais jamais quelque chose d’acquis une fois pour toute. Ils ont été des éducateurs à la compréhension des mécanismes qui produisent et imposent le préjugé. Ils ont été des éducateurs à regarder les choses d’un autre point de vue(...)En outre, ils ont éduqué à savoir se mettre à la place de l’autre, à reconnaitre que notre point de vue est toujours partiel et, s’il est possible atteindre une vision pleine des choses, que cela ne pourra etre le fruit que d’un ensemble de regards et des conditions qui les déterminent. Mais reconnaitre la nécessité du regard de l’autre présuppose, d’ailleurs, une éducation au respect de l’autre qui se base sur le fait de mettre en évidence ses capacités, ses habilités. Ici nous sommes en train de parler de concepts fondamentaux de notre vie collective. Je l’ai déjà dit à plusieur reprises, mais je veux le souligner encore une fois: il s’agit de trouver une façon qui soit en mesure de développer les conditions structurelles pour tenir ensemble égalité et liberté, égalité et diversité, diversité et opportunité (Discours C.Imprudente, Faculté de sciences de la formation, Rimini, 18 mai 2011).
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Comme nous pouvons le voir de ces phrases Claudio Imprudente souligne l’importance du croisement des regards, de la confiance dans la possibilité de l’autre d’apprendre et de faire fonctionner ses capacités, l’importance des conditions structurelles, des réseaux, des politiques d’accompagnement, des médiations, des aménagements facilitants, de l’interaction compétente des intervenants et des acteurs de la communauté. Ce sont les démarches qui sont au centre de la pratique et de la réflexion de la pédagogie spéciale. Il y a aussi une dimention éthique de cette démarche pédagogique, celle indiquée par Kant sur le fait de considérer l’autre différent de soi comme une valeur, une valeur, une finalité en soi et jamais comme un outil, un moyen ou un objet. C’est une pratique de relation qui agit l’intersubjectivité et reconnaît la subjectivité de chacun; comme dit si bien Jean-François Malherbe dans ses Essais d’éthique critique : Ce dont il s’agit, en définitive, ce n’est pas tant d’objectivité que d’intersubjectivité critique. Et l’intersubjectivité critique vise essentiellement à éliminer de la production du savoir l’arbitraire qui résulterait du noncontrole de la subjectivité (Jf.Malherbe, 2001, p. 46).
Malherbe utilise aussi le concept d’autonomie réciproque pour définir la nature de la communication intersubjective; il écrit de manière précise: Que ce travail synergique de l’autre avec moi, de moi avec l’autre consiste en la transformation de la coexistence brute en convivialité, qui pourrait en douter? Ne s’agit-il pas, en définitive de cette sorte d’accouchement mutuel de soi que depuis Socrate les philosophes appellent ‘maieutique’ et dans laquelle, à tour de rôle, chacun, je et tu, se trouve en position de parturiente et d’obstétricien, d’accouchée et de sage-femme? C’est sur ce chemin que l’un comme l’autre nous découvrirons la solidarité, la dignité et la liberté comme emblèmes de relations sociales équilibrées, comme points d’équilibre entre les dynamiques radicales qui dés les départ entraient en collison violente (J.f. Malherbe, 2001, p. 60).
L’invitation de Malherbe qui s’est beaucoup occupé d’éthique des soins et de la relation d’aide est de ne pas transformer les techniques, les techniques pédagogiques, thérapeutiques, réabilitatives et médicales en finalités aboslues au point d’oublier que nous parlons de personnes avec des besoins, il s’agit donc, et c’est une attention particulière de la pédagogie spécialisée, de ne pas transformer les personnes en objet d’assistance mais de les traiter comme sujets de besoins et de droits. C’est ce qui permet de faire vivre dans la réalité de la relation les mots de solidarité, dignité et liberté. Ne pas transformer la personne avec déficit en pure objet de soin ou d’assistance, cela signifie lui permettre de devenir sujet de désir, de droits et aussi signifiant de son propre parcours de vie. En cela la pédagogie spéciale qui n’est pas une pédagogie du ghetto mais de l’inclusion doit créer toutes les opportunités possibles pour favoriser la reconnaissance des différences et l’accueil inclusif. Comme le dit très Charles Gardou dans son récent ouvrage La société inclusive :
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Cinq axiomes- au sens premier de ‘ce qui est jugé digne’- constituent les arcs-boutants sur lesquels mérite de s’appuyer l’édifice à construire. Le premier soutient que nul n’a l’exclusivité du patrimoine humain et social. Le deuxième affirme que l’exclusivité de la norme, c’est personne et que la diversité, c’est tout le monde. Le suivant rappelle qu’il n’ y a ni vie minuscule ni vie majuscule. Le quatrième avance que vivre sans exister est la plus cruelle des exclusions. Le dernier souligne que tout etre humain est né pour l’équité et la liberté (Gardou, 2012, p. 14).
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Bambini con disabilità e bisogni educativi complessi: in che modo l’educatore può supportare ed affiancare la famiglia nell’affrontare le problematiche educative?
Key-words: disability, special needs education, family, educational agents, collaboration
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The birth of a child with a disability, or the discovery that a child has a disability, puts the family in front of an unexpected situation and special needs, this can have profound effects on the family. In the beginning the family deals with complex educational problems and in this case the help of an educator could be an important resource. There is no doubt that the educational intervention can’t ignore the relationship with family and so it must be very cooperative. The educator should be aware that the needs can be very different in the growth of the child and, consequently, every intervention should be adjusted as required in a particular moment of the child’s life cycle. The present study focuses on educational issues that the family with a child with disabilities may face in the process of growth of the child.It aims to reflect on the knowledge and skills that are useful to an educator. In fact, he/she can support the family in finding appropriate responses to the problems and difficulties encountered in the evolutionary steps.
abstract
Caterina Bembich C. / Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste / cbembich@units.it Elena Bortolotti / Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste / ebortolotti@units.it
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Introduzione
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L’intervento educativo professionale nell’area della disabilità è un intervento complesso, nel quale l’educatore si trova ad interagire con diversi interlocutori che partecipano alla vita del bambino, tra i quali quello principale è rappresentato dalla famiglia. Con essa si gioca una relazione importante che va costruita e bilanciata rispetto a quelli che sono i confini, le peculiarità dei ruoli e le aree di collaborazione, con l’obiettivo principale di costruire un progetto educativo solidamente coordinato. La nascita di un bambino con disabilità rappresenta per i genitori inizialmente un trauma, vissuto con estremo dolore, un evento che modifica completamente l’equilibrio della famiglia, le relazioni al suo interno e i rapporti con il mondo sociale (Callentani, 2001; Kearney, Griffin, 2001). Essi devono affrontare una quotidianità che comporta un carico d’impegno molto più alto rispetto a quello di famiglie con bambini con sviluppo tipico, e devono spesso gestire situazioni piuttosto stressanti. La famiglia si trova pertanto in una situazione di particolare bisogno e deve riuscire, per rispondere in maniera adeguata ai bisogni educativi che un bambino con una traiettoria di sviluppo atipica richiede, ad attivare le proprie risorse al meglio (Sorrentino, 2006). Tuttavia i genitori non sempre riescono a fare ciò, e spesso incontrano in questo percorso una serie di dubbi, problematicità e domande che pongono delle incertezze rispetto a come allevare/educare il figlio con disabilità, a come intervenire al meglio, a quali obiettivi educativi porsi. Il supporto educativo extra-famigliare diventa in questo processo un elemento fondamentale che può fungere a loro da sostegno nella gestione delle difficoltà e delle problematiche, accompagnandoli durante il percorso evolutivo del bambino, aiutandoli a far emergere e a potenziare le risorse presenti, a gestire lo stato di bisogno, ed evitando che essi siano isolati dal contesto sociale (Pavone, 2013). È pertanto evidente come sia fondamentale per gli operatori che lavorano con la disabilità essere consapevoli che all’interno del progetto educativo non vada solo considerato il bambino e i suoi bisogni, ma anche la relazione con la famiglia allargata e le difficoltà che essa si trova ad affrontare, con l’obiettivo finale di sviluppare un rapporto positivo e di collaborazione (Rosa, 2010). Infatti, soltanto se l’intero sistema verrà aiutato a sviluppare le proprie risorse e a sentirsi realmente competente nell’affrontare i compiti evolutivi complessi che la disabilità porta con sé, gli obiettivi educativi e di sviluppo pensati nel progetto educativo potranno essere perseguiti (Quinn, 1998; Milani, 2001). Pure l’educatore deve quindi mettere in campo conoscenze che indirizzino il suo agire. Una prima riflessione riguarda quindi la cornice teorica che dovrebbe stare alla base dell’intervento, che può essere sicuramente rappresentata dall’approccio ecologico allo sviluppo umano sviluppato da Bronfenbrenner (1979). Secondo la teoria ecologica di Bronfenbrenner (1979) lo sviluppo di ogni bambino è influenzato da una moltitudine di relazioni, tra le quali quella prioritaria è sicuramente rappresentata dalla famiglia d’origine. Essa e le relazioni che si sviluppano all’interno del suo sistema, assumono un ruolo molto importante rispetto allo sviluppo del bambino (Cyrulnik, Malaguti, 2005), in quanto costituiI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
scono il primo incontro con l’altro, e offrono le basi sulle quali edificare i significati da attribuire alla relazione con il mondo (Milani, 2004b). I sistemi d’interazione che compongono la totalità dell’ambiente ecologico di cui un bambino con disabilità fa parte, si riconoscono nelle “relazioni che influiscono in modo diretto sull’individuo e in maniera indiretta su chi si prende cura di lui” (Bronfenbrenner, 1986, p.101). In quest’ottica il sistema di relazioni che influenza la vita e lo sviluppo del bambino non è composto solamente da quelle che egli sviluppa direttamente con i suoi genitori, ma anche da quelle relative alla famiglia allargata e ai fratelli, e dalle reti che supportano le persone per lui significative. L’intervento educativo deve pertanto tener conto di questa complessità relazionale nella quale il bambino è inserito, considerando che l’intervento deve comprendere: “l’analisi di sistemi d’interazione composti da più persone, che non va limitata ad un unico contesto, e che deve tener conto di aspetti dell’ambiente che vanno al di là della situazione immediata di cui il soggetto fa parte” (Bronfenbrenner, 1986, p. 54). Inoltre Bronfenbrenner (1986) sostiene che le interrelazioni tra due o più situazioni ambientali alle quali l’individuo in via di sviluppo partecipa attivamente, come le relazioni tra casa e scuola o gruppo di coetanei, rappresentano un potenziale evolutivo importante se esistono dei collegamenti di sostegno tra esse, attraverso il coinvolgimento diretto degli adulti significativi. L’intervento educativo si costruisce pertanto non solo nel rapporto tra educatore e bambino, ma all’interno di un sistema complesso (Bastianoni, Taurino, 2009), e si caratterizza come intervento di rete (Gardini, Tessari, 1992, p. 31). Partendo da queste considerazioni teoriche, è evidente come il progetto debba tener conto della relazione genitore-figlio, pensando che, per aiutare il bambino a sviluppare le proprie potenzialità al meglio, si deve favorire lo sviluppo e il mantenimento del miglior livello possibile di interazione tra i bambini e le loro famiglie (Tuggia, 2009; Maluccio et al. 1994). Un intervento volto alla valorizzazione delle competenze del bambino non può dunque prescindere dalla consapevolezza che la storia di ognuno è connessa attivamente alla propria appartenenza familiare, e pertanto l’obiettivo dell’educatore deve essere quello di valorizzare l’apporto che i genitori possono dare all’educazione dei figli, senza sostituirsi ad essi, ma accompagnando, guidando, e sostenendo la famiglia nei momenti critici.
1. Il supporto educativo della famiglia nei momenti critici
L’obiettivo primario dell’intervento educativo deve essere quello di fornire al bambino strumenti di crescita compensatori del deficit che gli permettano di percepire le proprie capacità e allo stesso tempo di inserirsi in un tessuto sociale che via via si allarga dai famigliari ad altri adulti e coetanei. Per raggiungere questo traguardo è indispensabile riuscire ad instaurare con i genitori del bambino un rapporto di collaborazione, che seppure non sempre scontato, è da perseguire con impegno. Infatti soltanto attraverso un lavoro di rete (in un’ottica ecologica), di collaborazione e di condivisione degli obiettivi che l’intervento educativo può realizzarsi. anno III | n. 1 | 2015
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Per aiutare la famiglia e sostenerla nell’affrontare le problematiche educative, l’educatore dovrebbe innanzitutto stabilire con essa un dialogo e una comunicazione chiara e responsabile, bastata sull’ascolto reciproco e sulla circolarità delle informazioni. Lo spazio per la riflessione comune dovrebbe essere sempre perseguito, pensando che imparare a dialogare con la famiglia è indispensabile per costruire assieme ad essa un percorso valido che abbia significa per tutti. Ci deve essere uno scambio di saperi e competenze, al fine di conoscersi reciprocamente, considerando fin da subito la famiglia come un partner di co-progettazione e come una risorsa nella costruzione degli obiettivi. Pensare che essa possa essere compente e contribuire attivamente alla costruzione dell’intervento educativo, significa cominciare ad attivare fin da subito le capacità e le risorse presenti nel sistema valorizzandole (vedi ad esempio Favorini, 2013). Può accadere tuttavia che nel rapporto con il sistema famigliare l’educatore incontri difficoltà relazionali, che possono rendere complessa la collaborazione. Queste difficoltà o resistenze sono comportamenti e atteggiamenti che la famiglia sviluppa come reazione alle problematiche quotidiane che la disabilità porta con sé. L’educatore nell’accogliere il bambino con disabilità e la sua famiglia dovrebbe pertanto inizialmente chiedersi quali siano i problemi educativi di quel specifico momento, in quale fase del processo di accettazione rispetto alla disabilità si trovi, quali particolari difficoltà stia affrontando, quali atteggiamenti e comportamenti possono bloccare i possibili interventi educativi e perché, quali le potenzialità esistenti e come incentivarle. Ma quale contributo specifico potrebbe dare pertanto l’educatore nei possibili passaggi critici? Per capire come intervenire è fondamentale comprendere a fondo i significati che possono stare alla base delle reazioni che il sistema famigliare può mettere in atto nel corso del suo ciclo di vita, capire il senso di eventuali resistenze, comprendere i reali significati che queste veicolano, e cogliere le problematiche e i bisogni educativi a cui esso fa fatica a rispondere in un preciso momento (D’angiò G, Recco a., 2006). Solo riflettendo su questi aspetti l’educatore può veramente aiutare bambino e genitori a trovare le risorse all’interno del nucleo.
2. Famiglia e percorso di adattamento alla disabilità
La famiglia deve affrontare un lungo percorso di adattamento rispetto alla disabilità, che parte dall’iniziale scoperta, e si sviluppa poi lungo tutto il percorso di accompagnamento del bambino attraverso la crescita successiva. I genitori passano in modo fluttuante attraverso diverse fasi, costellate da sentimenti contrastanti: rabbia in alcuni momenti, rifiuto e dolore e speranza in altri. Esse devono essere viste come fluide, in quanto i genitori vi passano e ripassano attraverso, secondo il proprio individuale processo di adattamento: alcuni possono rimanere in uno stadio di dolore e di rabbia, altri non provano alcuna forma di rifiuto. Le reazioni della famiglia sono personali, basate su emozioni e sentimenti, e sono modificate dalla diversa percezione che i vari componenti possono avere rispetto al problema (Zanobini, 1998). I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Questi momenti critici sono l’espressione di un particolare momento di bisogno attraversato dalla famiglia, che si trova in difficoltà nell’affrontare un passaggio evolutivo nel percorso di adattamento e accettazione della disabilità, e pertanto non riesce a rispondere in maniera adeguata alle problematiche educative manifestate dal bambino. Per gli educatori è fondamentale capire che soprattutto nelle fasi di cambiamento del ciclo di vita (come ad esempio nel passaggio da un ordine scolastico all’altro) alcune criticità, che sembravano passate, possono riemergere ed essere vissute nuovamente (Zanobini, 1998). L’educatore deve essere consapevole che la sua azione educativa dovrebbe essere modulata e calibrata a seconda delle problematiche educative particolarmente critiche a cui i genitori possono far fatica a rispondere in un particolare momento, essendo consapevoli che spesso queste non sono chiaramente manifestate. Le difficoltà della famiglia sono l’espressione di una momentanea inadeguatezza nell’affrontare un particolare compito di sviluppo del bambino, e proprio in questi particolari passaggi l’affiancamento di un educatore esperto può essere un utile supporto per trovare le risorse presenti, ma non espresse.
3. Famiglia e possibili reazioni alla disabilità: rifiuto vs iperinvestimento
In letteratura sono state descritte diverse reazioni che vengono manifestate nel percorso di adattamento e accettazione del figlio con disabilità, anche molto diverse, che possono oscillare tra il rifiuto della disabilità, a comportanti di iperinvestimento nel ruolo genitoriale (Boszormenyi-Nagy, Zuk, 1970; ackerman, 1970). Ne vediamo due a titolo di esempio e quali occasioni di riflessione. Queste reazioni e fasi possono essere funzionali o disfunzionali rispetto all’intervento che insegnanti ed educatori mettono in atto per il bambino (D’angiò, Recco, 2006), pertanto è importante comprendere la natura di tali difficoltà e trovare le strategie per supportare questi passaggi particolari. Quando la famiglia rifiuta la disabilità
alcune famiglie possono attraversare una fase di rifiuto, in cui si convincono che nessun intervento potrà cambiare la situazione o migliorare la qualità di vita del bambino o del nucleo famiglia stesso. I genitori possono manifestare un rifiuto primario quando non accettano la condizione di disabilità del bambino come permanente, con la quale tutti dovranno convivere, o secondario quando essi hanno difficoltà ad accettare i comportamenti problematici del bambino, dovuti ad incapacità o difficoltà nel gestirli. In generale esso rappresenta una reazione di difesa dettata dalla paura di dover affrontare una situazione senza sentirsi preparati a farlo (Sorrentino, 2006). Perché la famiglia può manifestare questa reazione o porre resistenza agli interventi educativi pensandoli inutili? Probabilmente la famiglia non riesce da sola a trovare le giuste risposte per far fronte alle problematiche educative espresse
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dal bambino in un particolare momento del suo ciclo di vita ed è in difficoltà nell’intravedere una strategia educativa più adatta. I genitori, non riuscendo a valutare in maniera realistica limiti e potenzialità del figlio, vedendo nella sua condizione soltanto gli aspetti negativi e quelli problematici, tendono a sottovalutare le possibilità di miglioramento del bambino, minimizzando le sue capacità reali o stabilendo per lui obiettivi molto bassi, creando di conseguenza una situazione in cui egli non viene adeguatamente stimolato e finisce per comportarsi rispecchiando le aspettative dei genitori. oppure si può verificare anche un quadro opposto, in cui i genitori si pongono obiettivi irrealistici, o attese alte rispetto alle reali capacità del bambino, creando una situazione potenzialmente frustrante, nella quale esse vengono di volta in volta disilluse. Infine per altri genitori il rifiuto può tradursi in un allontanamento o nella delega quasi totale del figlio a strutture o istituiti. Il sostegno di un educatore esperto, in questi momenti critici, potrebbe essere di grande aiuto per la famiglia, ponendosi l’obiettivo di aiutarla ad affinare le capacità di valutazione, al fine di comprendere con obiettività limiti e potenzialità del bambino, e di aiutarla a sviluppare capacità di gestione e fronteggiamento delle situazioni più problematiche (Judge, 1998). Le ricerche hanno evidenziato infatti che gli interventi che sviluppano e affinano le capacità di valutazione e di coping del genitore sono efficaci, in quanto lo aiutano a sviluppare la capacità di far fronte allo stress, sviluppano il senso di competenza, migliorano di conseguenza il rapporto con il bambino e aumentano il senso di gratificazione rispetto alle attività che può fare assieme al figlio (Judge, 1998; Zanobini e Usai, 2005). I genitori dovrebbero quindi essere guidati da una parte a sviluppare consapevolezza rispetto alle reali possibilità di miglioramento del bambino e rispetto agli obiettivi di sviluppo possibili, e dall’altra ad apprendere strategie più funzionali nell’interagire con lui, con lo scopo di aiutarli a sviluppare un senso di competenza rispetto alle loro capacità educative (Dall’aglio, 1994; Zanobini, 1998; 2002). Sarebbe controproducente invece se l’educatore, vedendo le resistenze della famiglia, si sostituisse ad essa, focalizzando l’intervento educativo solo sul bambino. Un’azione di questo tipo avrebbe l’effetto di confermare al genitore la sua inadeguatezza, rendendo ancora più profondo il disinvestimento nel proprio ruolo, con il risultato di negargli la possibilità di sviluppare le proprie risorse e rafforzare le competenze in modo da poter far fronte in modo sempre più autonomo alle proprie difficoltà (Milani, 2004b). Inoltre un intervento strutturato a sostituzione delle competenze educative famigliari porterebbe a un potenziale risultato positivo solo di breve durata, in quanto gli effetti positivi ottenuti dall’intervento sarebbero legati alla presenza dell’educatore e quindi evidenti solo nei momenti in cui l’operatore è presente. Invece un operatore dovrebbe lavorare “per la sua inutilità”, intendendo con questa frase paradossale che lo scopo dell’intervento dovrebbe essere quello di attivare le risorse presenti nel sistema famigliare, allo scopo di rendere i genitori al più presto autonomi e autosufficienti nella gestione dei bisogni educativi del bambino, e non costantemente dipendente da un supporto esterno.
I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Quando la famiglia esaspera l’investimento sul ruolo genitoriale
alcune famiglie di bambini con disabilità investono esageratamente nel ruolo genitoriale, esasperando i comportamenti di accoglienza e accettazione del figlio, perseguendo inconsapevolmente l’obiettivo irrealistico di diventare dei genitori perfetti (Migliore, 2010). Sono famiglie totalmente immerse nei comportamenti di cura e di accudimento del figlio, che tendono a ridurre sempre di più e progressivamente lo spazio personale e le relazioni con il mondo esterno. Le famiglie che attraversano questa fase possono andare alla ricerca di una cura miracolosa, di una soluzione che in qualche modo possa magicamente risolvere la loro situazione; è comune in questa fase che i genitori si rivolgano a molti specialisti, nel tentativo di trovare quello che possa dare una soluzione alla problematica vissuta. Questo atteggiamento è stato definito da anderson “comportamento consumista” (anderson, 1977), individuando con questo termine i comportamenti di quei genitori che passano da specialista a specialista, nella rincorsa alla cura miracolosa, o che diventano consumatori di terapie, alla continua ricerca di nuovi approcci riabilitativi, nuove tecniche e cure, nuovi programmi (vedi anche Coppa, 1997). anche se una famiglia iper investita nel ruolo genitoriale potrebbe a prima vista sembrare adeguata e funzionante, proprio per la grande attenzione dedicata ai bisogni del figlio, è in realtà non in equilibrio, piuttosto in difficoltà nel trovare il giusto bilanciamento tra investimento educativo e spazi di autonomia. Ma quali sono i bisogni e i problemi educativi che i genitori stanno affrontando, ai quali non riescono a rispondere adeguatamente? Secondo alcuni autori il comportamento che domina le famiglie in questa fase, deriva da un forte bisogno riparativo, cioè dal bisogno dei genitori di dare al figlio tutte le opportunità possibili per guarire. I genitori agiscono guidatati dal senso di colpa, che rappresenta spesso un pensiero ridondante, sentendosi responsabili dell’aver creato la disabilità del figlio (Marioni, Gallerano, 2006). anche se inizialmente queste sono reazioni “fisiologiche”, ovvero fanno parte di un processo naturale che ogni famiglia con un bambino con disabilità affronta, se restano strutturate nel tempo, il rischio è che da una parte la famiglia si isoli progressivamente sempre di più, e che dall’altra il bambino resti bloccato in una situazione di dipendenza nella quale il suo potenziale di sviluppo non potrà emergere. Secondo anderson questa situazione sarebbe il risultato di un mancato sostegno esterno e qualificato alla famiglia, e si manifesterebbe quando essa non è supportata e adeguatamente assistita nel suo percorso da parte di operatori, ma lasciata sola nell’affrontare le difficoltà. Ma come può dunque intervenire in queste situazioni l’educatore, ed entrare in un contesto famigliare dove l’investimento genitoriale è molto alto, e pertanto i bisogni educativi della famiglia sembrano adeguatamente assolti? agire in queste situazioni significa progettare interventi di rete che cerchino di promuovere occasioni di incontro, di scambio di esperienza, nella consapevolezza che per queste famiglie il rischio di chiusura nel proprio guscio è molto alto, quando invece le relazioni con l’ambiente sono centrali per produrre cambiamenti e aprire nuovi canali di sviluppo per il bambino (Milani, 2009; Moran et al. 2004; Grietens, 2007). Il lavoro dell’educatore deve essere centrato sull’accompagnamento dei bamanno III | n. 1 | 2015
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bini e dei genitori verso la costruzione di collegamenti tra i diversi contesti di vita, come tra casa e scuola, tra casa e ambiente sociale, tra genitori e altri genitori, costruendo un tessuto che leghi il sistema famigliare al suo territorio, costruendo in questo modo una rete sociale positiva che sia di sostegno anche a conclusione dell’intervento (Bastianoni, Taurino, 2009; Tuggia, 2009). Si supporta in questo modo il genitore ad uscire progressivamente dalla chiusura e dall’isolamento costruito attorno alla famiglia. Lo si aiuta inoltre a staccarsi momentaneamente dalla routine quotidiana che ruota in modo consistente attorno alla cura del bambino, a riprendere degli spazi propri, e a recuperare una dimensione sociale che è fondamentale per ritrovare un senso di benessere e di condivisione, che spesso egli si nega per lungo tempo (Zanobini e Usai, 2005). ad esempio un obiettivo dell’intervento dell’educatore potrebbe essere quello di incentivare la famiglia ad inserirsi all’interno di gruppi di genitori che condividono la stessa difficoltà, o all’interno di associazioni, con l’intento di rinforzare la rete di supporti sociali (Grassel, 2008). La condivisione della propria esperienza con genitori che hanno vissuto situazioni simili riduce il senso di solitudine, crea un senso di accoglimento e comprensione rispetto alle difficoltà vissute. La famiglia, attraverso questo tipo d’intervento, può accrescere la rete sociale ed evitare l’isolamento, e al contempo aumentare le conoscenze sulle risorse che si possono trovare nel territorio, sui possibili percorsi d’intervento e sulle iniziative che possono essere attivate (Zanobini e Usai, 2005; Iafrate, & Giuliani, 2006). Gli educatori nel progetto educativo possono pensare di indirizzare la famiglia verso queste forme di aggregazione, informandola sui possibili gruppi o associazioni presenti nel proprio territorio, accompagnandola nell’inserimento in queste realtà. ad oggi le associazioni che operano in tal senso in Italia costituisco una realtà di riferimento per molti genitori e bambini, svolgendo un ruolo importante di promozione, sviluppo e sostegno alla persona con disabilità. Le iniziative promosse si basano sull’idea che il bambino con disabilità abbia bisogno di un sistema sociale capace di supportarlo e includerlo nell’ambiente, e per raggiungere questo obiettivo sia necessario sviluppare interventi sul territorio che spazino attraverso una molteplicità di iniziative, da quelle rivolte specificatamente al bambino a quelle a sostegno dei genitori (Mura, 2013). Infine l’educatore può affiancare la famiglia aiutandola a sviluppare le proprie competenze educative, ridefinendo assieme ad essa gli obiettivi di sviluppo e le aree di autonomia possibili che il bambino può raggiungere. Si tratta cioè di aiutare i familiari ad abbandonare l’idea di dover sopperire costantemente al deficit del bambino sostituendosi a lui, per passare invece ad un’ottica educativa in cui il bambino sia visto non solo per i suoi limiti, ma anche per le sue risorse, e pertanto venga stimolato a trovare maggior autonomia e a sviluppare il suo potenziale.
4. Ricordiamo anche i fratelli
Secondo Bronfenbrenner una “ecologia positiva” dello sviluppo umano può essere promossa attraverso un’attività condivisa, progressivamente sempre più complessa, tra il bambino e gli adulti per lui emotivamente significativi, che sono sicuramente rappresentati in primo luogo dai genitori e dai membri della famiglia allargata. I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
L’educatore entra in contatto con un sistema fatto di relazioni complesse, aspettative, paure e timori, pensieri e desideri, che rende necessaria una presa in carico che non sia rivolta soltanto al bambino con disabilità, ma che consideri l’intero gruppo nella sua globalità, rivolta cioè al bambino e ai suoi genitori e, se sono presenti, anche ai fratelli. Se infatti è evidente che il benessere dei bambini non sia mai da considerarsi disgiunto da quello delle loro famiglie, è chiaro che l’intervento educativo deve porre come centro di attenzione il sistema famigliare nel suo insieme e pertanto debba considerare anche la relazione con i fratelli come uno degli obiettivi inclusi nel progetto (Milani, 2009b). La disabilità di uno dei componenti della famiglia infatti si ripercuote inevitabilmente su tutti gli altri componenti, fratelli compresi (Fara, Seassaro, Sorrentino, Cattaneo, Piccolo, Molteni, 2003; Valtolina, 2004), ed è per questo che è necessario che anch’essi siano inclusi all’interno di una visione allargata di intervento (Farinella, 2010). I figli sani infatti spesso vivono una situazione di carenza rispetto alle cure parentali, che sono di solito maggiormente rivolte al figlio disabile, proprio perché le richieste di accudimento sono maggiori. al figlio sano viene fatta invece la richiesta implicita di essere precocemente autonomo e indipendente. alle volte si corre il rischio di aspettarsi da lui una precoce “genitorializzazione”, cioè di chiedergli di assumere il ruolo di genitore sostitutivo, di prendersi cura del fratello disabile, di incarnare quindi un ruolo molto lontano da quello “dell’esser fratello” (Cigoli, 1993). Nell’intervento educativo è pertanto fondamentale considerare il fatto che i fratelli di bambini disabili si possono trovare in una situazione di difficoltà, alle volte di isolamento, di limitazioni del nel tempo dedicato a loro, di relativa scarsa attenzione ai loro bisogni e alle loro difficoltà. Crescere con un fratello con disabilità può lasciare delle tracce profonde, può far vivere sentimenti ambigui, alternanti tra senso di negatività e senso di positività (Farinella, 2010); si tratta di condizioni che vanno comprese, accolte e per le quali vanno cercate risposte. Le ricerche che si sono occupate di studiare gli effetti che la disabilità può produrre sui fratelli sani, si sono inizialmente concentrate sui rischi psicologici dovuti a tale condizione, mettendo in luce soprattutto la sofferenza psicologica e i rischi di disadattamento che i fratelli di bambini con disabilità possono incontrare (Fara, Seassaro, Sorrentino, Cattaneo, Piccolo, Molteni, 2003; Valtolina, 2004). Tuttavia altre ricerche hanno poi evidenziato che questi rischi non sono presenti in modo univoco, e che gli effetti psicologici possono essere ben più complessi, e presentare una componente maturativa e una variabilità nel corso del percorso di crescita del nucleo famigliare (Powell et al, 1993). Sarebbe pertanto necessario che la ricerca approfondisse ulteriormente tale area d’indagine, proprio per mettere in luce in che modo il progetto educativo possa guardare non solo al bambino con disabilità, e alla relazione tra lui e le figure genitoriali, ma anche alla relazione tra lui e i fratelli sani, individuando metodi e prassi dell’intervento educativo che possano includere al loro interno anche la dimensione dei fratelli.
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Conclusione
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La figura dell’educatore potrebbe essere una risposta ad una esigenza famigliare che si manifesta molto delicata nel percorso di accettazione e adattamento alla disabilità di un figlio. Questa figura potrebbe inserirsi come un supporto esterno, ma esperto nel collaborare con essa per promuovere il benessere di ogni suo componente (McCubbin, 1996). Quando la famiglia deve affrontare un problema di disabilità di un figlio, può trovarsi in difficoltà nel costruire un percorso di crescita consapevole, riconoscendo, capendo e affrontando in modo funzionale il problema del bambino, e aiutarlo così a sviluppare nel miglior modo possibile le potenzialità possedute. In questo percorso l’educatore può affiancarla cercando di costruire assieme ad essa una collaborazione positiva e una progettualità condivisa, in un ottica di fiducia reciproca, allo scopo di condividere all’interno delle proprie funzioni il percorso progettuale. Il lavoro dell’educatore dovrebbe essere visto in un’ottica di co-educazione con i genitori, all’interno della quale si presuppone che ciascuno possa apprendere dalla ricchezza dell’altro, pensando che l’educazione si può costruire insieme, esplicitando reciprocamente il proprio pensiero (Milani, 2009c; Callentani, 2001; Ring, 2001). Bisogna pensare che la disabilità del bambino, pur essendo un vincolo e pur determinando nella famiglia necessità a volte complesse, non debba essere considerata un limite o un blocco per l’evoluzione e la crescita positiva dei suoi componenti (Cunningham, 1996). La famiglia di un bambino con disabilità affronta ogni giorno difficoltà che richiedono impegno e risorse, e un costante investimento emotivo volto al superamento di momenti critici che spesso mettono a dura prova i singoli componenti. Essa può vivere momenti di crisi, ma questo non significa che necessariamente debba ritrovarsi priva di risorse (Cunningham, 1996). Le famiglie che manifestano bisogni particolari dovrebbero essere considerate all’interno di un progetto educativo mirato, nel quale competenze e capacità interne devono essere valorizzate e messe al centro del forte impegno di collaborazione, attraverso la condivisione di finalità e obiettivi (Zanobini, Manetti, & Usai, 2002). Il percorso di crescita di queste famiglie può essere molto più semplice da affrontare se esse incontrano figure professionali che sono in grado di cogliere il disagio da esse vissuto e di collocarlo nella fase e nel momento particolare del ciclo di vita attraversato, guardando da una parte il significato profondo che può stare al di sotto di particolari difficoltà o reazioni negative, e rispondendo con consapevolezza alle specifiche criticità che possono emergere nel lungo percorso di accettazione della disabilità.
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I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Dentro e fuori dall’aula: che cosa funziona davvero nella classe inclusiva?
Key-words: push out, push out, school inclusion, inclusive classroom, disability
II. Revisione sistematica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The article investigates the meaning of pull and push out phenomena within the Italian inclusive school system. Some results of multiple case studies are described and discussed. The sample is built of 13 primary school classes with an inclusive classroom practice that teachers recognize as “good”. Data about each case were collected through 2 days semi-structured observation by a researcher, a focus group with teachers, a focus group with some pupils and a focus group with some parents. The collected data were transcribed and analyzed by means of Qualitative Content Analysis. Results suggest that several forms of push and pull out coexist and that some of them can contribute positively to inclusion.
abstract
Heidrun Demo / Facoltà di Scienze della Formazione, Libera Università di Bolzano : heidrun.demo2@unibz.it
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Introduzione
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I risultati di diverse ricerche sull’integrazione e inclusione scolastica in Italia hanno evidenziato come, pur all’interno di un sistema scolastico che garantisce a tutti gli alunni e tutte le alunne la piena inclusione formale, in tutti gli ordini di scuola abbiano luogo pratiche di pull e push out, situazioni in cui alcuni alunni trascorrono parte del proprio tempo scuola in luoghi diversi da quelli dei compagni di classe, come per esempio l’aula di sostegno (Canevaro et al., 2009; Canevaro et al., 2011; D’Alessio, 2011; Demo, 2014; Ianes et al., 2010; ISTAT, 2012, 2013, 2014; Zanobini, 2013). La distinzione fra push out e pull out fa riferimento alla causa che porta all’uscita dalla classe, che può essere più legata a fattori interni alla classe -come ad esempio un insegnante che non ha le competenze necessarie a gestire i comportamenti problema di un alunno e dunque lo manda fuori dalla classe con l’insegnante di sostegno (push out)- o invece legata a fattori esterni alla classe - la presenza ad esempio nella scuola di un’aula di sostegno separata e ben attrezzata che attrae fuori dalla classe (pull out) (Ianes, 2014). In questo articolo, dopo una presentazione necessariamente sintetica dei dati di ricerca sul push e pull out nel nostro sistema scolastico, si presenteranno alcuni risultati di una ricerca qualitativa che descrive le scelte organizzative e didattiche legate al “dentro” e “fuori” dalla classe in 13 classi di scuola primaria inclusive. La discussione di questi dati vuole contribuire a comprendere il significato pedagogico del pull e del push out nel contesto fortemente inclusivo del sistema scolastico italiano, sia nelle sue applicazioni negative in termini di inclusione che eventualmente in quelle positive, che proprio situazioni di qualità come quelle della ricerca potrebbero far emergere. 1.1 Stato dell’arte sulla ricerca sul pull e push out in Italia
L’indagine annuale dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) “L’integrazione di alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di I grado, statali e non statali” mette in evidenza da ormai alcuni anni come gli alunni con disabilità della scuola primaria e della scuola secondaria di I grado trascorrano alcune ore alla settimana fuori dall’aula della classe in cui sono iscritti (ISTAT, 2012; 2013; 2014). Nell’anno scolastico 2013/2014, in media, gli alunni con disabilità della scuola primaria sono fuori dalla classe per 3,8 ore a fronte di 25,5 passate in classe. Nella scuola secondaria di I grado le ore fuori dalla classe aumentano: salgono a 4,4, mentre 22,7 sono quelle trascorse in classe (ISTAT, 2014). Questi numero, pur descrivendo con dati rappresentativi per la popolazione nazionale il fenomeno diffuso di push e pull out, non informano su quanti alunni con disabilità vivano questa esperienza. Una risposta in questo senso è offerta da una ricerca, patrocinata dalla SIPeS e finanziata dalla Libera Università di Bolzano, che ha coinvolto attraverso la compilazione di un questionario on-line 3230 figure professionali impiegate nella scuola, principalmente insegnanti. Ognuno dei partecipanti ha decritto l’esperienza scolastica di un alunno con disabilità con cui lavorava nell’anno scolastico 2009/2010 e i risultati mostrano come, considerando i dati aggregati di tutti gli II. Revisione sistematica
ordini di scuola, poco più della metà degli alunni con disabilità (54,9%) trascorra alcuni momenti del tempo scuola fuori dalla classe. Di questi, il 30% sta fuori dalla classe per una percentuale compresa fra il 10% e il 30% dell’intero tempo scuola. Solo il 7,7% sta fuori per un tempo superiore al 50%. Esiste inoltre una piccola, ma purtroppo non inesistente, minoranza di alunni con disabilità (5,7% nella media fra tutti gli ordini di scuola) che trascorre l’intero tempo scuola al di fuori dell’aula della propria classe (Canevaro et al., 2011; Ianes et al., 2010). Dal punto di vista quantitativo, il fenomeno si manifesta diversamente in ordini di scuola diversi e in presenza di tipologie di disabilità diverse. La scuola dell’infanzia è il grado scolastico in cui push e pull out si trovano in percentuali minori (in parte in classe, in parte fuori: 47,5%; sempre fuori: 2,8%), mentre è nella scuola secondaria di I grado che si incontrano le percentuali maggiori (in parte in classe, in parte fuori: 62,5%; sempre fuori: 6,8%). Per quel che riguarda le tipologie di disabilità, il fenomeno è più diffuso nelle esperienze scolastiche di alunni con disabilità intellettiva e pluridisabilità, mentre i meno coinvolti dal fenomeno risultano essere gli alunni con disabilità sensoriali e motorie (Demo, 2014). L’analisi dei dati della ricerca etnografica in due scuole secondarie di I grado della Provincia di Rimini condotta da Simona D’Alessio (2011) ha messo in luce alcuni dati interessanti sul fenomeno. Vi si descrive, per esempio, il ruolo delle aule di sostegno, espressamente scoraggiate nelle Linee Guida per l’Integrazione (MIUR, 2009), ma comunque presenti in diverse scuola italiane. In una delle due scuole oggetto di ricerca esiste la cosiddetta “aula girasole”. In questa aula, gli insegnanti di sostegno della scuola propongono attività di tipo laboratoriali basate su linguaggi artistici che mirano a valorizzare i punti di forza degli alunni con disabilità poco nelle lezioni in classe. Nel tempo, l’aula attira la curiosità di alcuni insegnanti curriculari che si interessano alle attività realizzatevi e cercano forme di collaborazione con gli insegnanti di sostegno che le progettano. Questo viene percepito nella comunità scolastica come molto positivo. L’esperienza rimane però sempre confinata fra le pareti dell’aula e non ne scaturisce mai una riflessione più ampia sull’impostazione didattica anche in classe. Un’educatrice della scuola, riflettendo sull’esperienza dell’aula girasole, ne mette in luce anche l’aspetto critico: “Via a via che l’aula girasole cresce, ho potuto vedere anche crescere il fenomeno della delega. Se gli insegnanti curriculari hanno un problema, ti chiamano. L’aula girasole non è più come si era pensato all’inizio di sostegno alle classi, dove gli alunni con disabilità possono avere uno spazio in più in cui lavorare coi compagni, in cui l’intera classe possa andare. È diventata un modo di scaricare la “patata bollente” dall’uno all’altro fino ad arrivare al piano terra, dove c’è la nostra aula speciale!” (D’Alessio, 2011, p. 105). Questa analisi suggerisce l’idea che, pur nascendo dall’intento positivo di sostenere i processi di apprendimento degli alunni con disabilità con altri linguaggi e metodologie, luoghi “dedicati” e personale specializzato che li gestiscono (es. insegnanti di sostegno) implicano anche un certo rischio di esclusione. Infine, la ricerca del 2011 dei colleghi statunitensi Giangreco, Doyle e Suter (2012) in 16 scuole di ogni ordine e grado di diverse regioni d’Italia dislocate fra Nord e Sud, evidenzia la mancanza di dati sistematici per descrivere la prassi, osservata in alcune realtà, di seguire delle terapie in orario scolastico (Giangreco et al., 2012). Il fatto che alcuni alunni con disabilità ricevano degli interventi terapeutici durante il tempo scuola sembra essere confermata da ulteriori dati di ricerca anno III | n. 1 | 2015
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ricavati da un’indagine che ha coinvolto 383 insegnanti di 13 regioni d’Italia che hanno descritto rispondendo ad un questionario la situazione di 299 alunni con disabilità e di 184 alunni con DSA. Emerge che il 33,94% dei 299 alunni con disabilità frequenta terapie presso l’ASL o altri centri specializzati in orario scolastico e che questo vale anche il 16.3% dei 184 alunni con DSA (Zambotti, 2013). Non sono disponibili dati pienamente attendibili e rappresentativi sul push e pull out di altri gruppi di alunni. Un’indagine dal taglio puramente esplorativo, visto il campione di soli 184 insegnanti coinvolti, mette in evidenza come anche nel caso di alunni Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) abbiano luogo esperienze di pull e push out. A fronte di un 70% di insegnanti che descrive alunni con DSA sempre in classe, ve ne è il 13,4% che descrive alunni con DSA che escono per il 10% del tempo e i restanti che raccontano di tempi di uscita ancora più lunghi (Ianes et al., 2013). Non sono state rilevati dati sul push e pull out dei cosiddetti alunni stranieri. Il documento “La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri” (MIUR, 2007) prevede esplicitamente la divisione in gruppi, in genere per brevi periodi principalmente legati allo studio della lingua italiana, e non la definisce in contrasto con la scelta netta della scuola italiana di accogliere gli alunni nella scuola comune senza creare luoghi di apprendimento separati. Una linea simile è stata ribadita nelle più recenti “Linee guida per l’accoglienza e integrazione di alunni stranieri (MIUR, 2014) che incoraggia, specialmente per il primo periodo di 3-4 mesi, l’offerta di corsi di italiano, sia in orario pomeridiano che mattutino, per almeno due ore al giorno, a piccoli gruppi di alunni non italofoni anche di classi diverse.
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1.2 La complessità interpretativa del fenomeno dell’uscita dalla classe
Nonostante l’ancora forte necessità di ampliare i dati di ricerca su questo fenomeno, colpisce la sua forte diffusione nel gruppo degli alunni con disabilità. Appare allora rilevante comprendere il significato pedagogico di queste pratiche, cercando di valutare se e in che termini queste rappresentino un rischio per il principio di inclusione che la legislazione del sistema scolastico italiano promuove. La linea interpretativa che propongo qui prevede l’ipotesi dell’esistenza di pratiche di uscita dalla classe con significati diversi. Se da un lato è evidente che situazioni in cui un alunno sia fuori dalla classe per tutto il tempo scuola, non possono che essere considerate come forme di micro-esclusione, dall’altro lato la questione si fa più complessa nel caso di situazioni in cui gli alunni siano in alcuni momenti in classe coi compagni e in altri fuori. La motivazione che spinge all’uscita dalla classe, per esempio, è a mio avviso determinate nel comprendere a fondo il senso pedagogico della pratica. La ragione più frequentemente scelta ai 3.230 insegnanti della ricerca già menzionata del precedente paragrafo è “perché le metodologie didattiche usate in classe non permettono sempre un’adeguata individualizzazione” (Canevaro et al., 2011, pp. 75-76). Questo dato, insieme ad altri dati di ricerca che descrivono le metodologie frontali come quelle maggiormente diffuse nella scuola italiana (Cavalli e Argentin, 2010; Canevaro et al, 2011, p.72), sembra suggerire un’interpretazione del push e pull out come il risultato di metodologie didattiche ancora molto ancorate alla centralità dell’insegnante e che quindi lasciano poche possibilità II. Revisione sistematica
alla convivenza all’interno di spazi e tempi comuni di percorsi di apprendimento diversi, sia per modalità di apprendimento che per livello. Andare fuori dalla classe diventa quindi la reazione ad una sostanziale inadeguatezza didattica nel creare occasioni di individualizzazione all’interno del contesto classe. Un altro tipo di motivazione per l’uscita citato da diversi insegnanti e che desta delle preoccupazioni è legata alla difficile collaborazione fra insegnante di sostegno e insegnante curricolare (“perché invitato a stare fuori dall’insegnante curricolare” oppure “perché l’insegnante di sostegno preferisce lavorare individualmente con l’alunno certificato”). Si tratta di posizioni minoritarie (intorno al 10% nei casi in cui l’alunno con disabilità sia in parte in classe e in parte fuori; 20% nei casi in cui sia fuori per tutto il tempo), ma che mette a fuoco come la scelta dell’uscita della classe possa essere collegata con una difficoltà dei docenti a gestire la classe in due o ad una relazione problematica fra i due (Canevaro et al. 2011, pagg.75-76) Dall’altro lato si può anche ipotizzare, però, che esista un’intenzionalità educativa legata all’uscita dalla classe molto differente e positiva. Diversi insegnanti nominano fra le ragioni per l’uscita dalla classe per l’approfondimento e/o l’anticipazione di alcuni contenuti o per esercitare abilità in contesti specifici (bagno, supermercato,…) (Canevaro et al., 2011, pp. 75-76). Si tratta in questo caso di ragioni qualitativamente diverse da quelle citate precedentemente poiché implicano un’intenzionalità inclusiva, che vede come traguardo la partecipazione alla vita scolastica e/o alla vita sociale e autonoma anche oltre alla scuola. Inoltre, potrebbero esistere classi in cui l’uscita dalla classe sia parte di una scelta didattica generale, in cui insegnante di classe e insegnante di sostegno condividono la responsabilità educativa anche dividendo la classe e in cui, quindi, tutti gli alunni sono interessati in momenti diversi da lavori fuori dall’aula, accompagnati dall’uno o dall’altro insegnante. Per evitare una lettura semplificata e tout court negativa dei processi di uscita dalla classe, si è dedicata una parte dell’analisi dati della ricerca che presento qui alle pratiche di uscita dalla classe o di divisione del gruppo classe in contesti educativi considerati inclusivi. Proprio qui è possibile incontrare e riflettere scelte didattiche e organizzative che prevedono un uso flessibile degli spazi e dei gruppi e che contribuiscono ad una buona inclusione.
2. La ricerca
Il progetto di ricerca si basa su una metodologia qualitativa di studio di casi multipli. Il campione è costituito da 13 classi di scuola primaria che le/gli insegnanti definiscono inclusive. Per ogni caso sono stati raccolti dati attraverso due giornate di osservazione da parte di un ricercatore esterno e 3 focus group con alcuni alunni, alcuni genitori e tutti gli insegnanti. I testi trascritti di osservazioni e focus group sono stati analizzati secondo la metodologia della Qualitative Content Analysis (Schreier 2012). Il risultato è un sistema di categorie che descrive alcuni elementi che caratterizzano queste buone prassi di inclusione scolastica a livello di classe e la loro descrizione attraverso sottocategorie ed frammenti di testo tratti dai focus group e delle osservazioni.
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2.1 Il campione
Il campione è stato selezionato su base volontaria. 21 classi nella primavera del 2013 hanno risposto ad una call per la selezionare classi in cui l’inclusione, nella percezione degli insegnanti che ci lavorano, funzionasse. Sulla base dell’adesione ad un’idea ampia di inclusione, che fa riferimento alla piena partecipazione e al massimo apprendimento possibile per tutti (Booth e Ainscow, 2014), sono state selezionate le 13 classi del campione. !$*0,#0$%
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2.2 La raccolta dei dati
Tab. 1: campione della ricerca
Per la raccolta dei dati ci si è avvalsi dell’osservazione da parte di un ricercatore per due giornate scolastiche di durata variabile in base all’orario di ogni classe. L’osservazione è avvenuta in parte in modalità strutturata su alcuni temi e in parte in modo libero. In questo articolo sono presentati dati tratti dall’osservazione strutturata delle attività proposte e dalle osservazioni libere. In ogni classe sono inoltre stati organizzati tre focus group: uno con tutte le figure educative coinvolte nella gestione della classe; uno con un gruppo di genitori (indicativamente fra 6 e 8) e uno con un gruppo di alunni (indicativamente fra 6 e 8). Tutti focus group hanno avuto una durata compresa fra i 30 e i 90 minuti. Per ogni focus group è stata predisposta una traccia per l’intervista. Due tematiche erano comuni ai tre focus group: le modalità per costruire un buon clima di classe e risolvere eventuali problemi/conflitti; le modalità per rendere efficace l’insegnamento e sostenere eventuali alunni in difficoltà. Alcune tematiche, invece, sono state proposte in modo specifico ai diversi soggetti:
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– insegnanti: valutazione, collaborazione fra colleghi, il ruolo dei genitori, difficoltà personali con alcuni alunni; – alunni: valutazione, relazioni coi compagni fuori da scuola; – genitori: partecipazione alla vita scolastica, relazione dei figli con i compagni fuori da scuola; – In base alle osservazioni, i ricercatori hanno, poi, per ogni classe aggiunto alcune domande specifiche volte a comprendere più a fondo alcune pratiche particolari. 2.3 L’analisi dei dati
Le osservazioni e le interviste sono state trascritte solo nei loro aspetti verbali. In seguito i contenuti dei testi sono stati analizzati sulla base dell’approccio della Qualitative Content Analysis (Schreier, 2012). L’analisi è stata supportata dal software MaxQdA. Per l’analisi si è fatto uso sia di alcune categorie generate con modalità deduttive che di altre generate invece con modalità induttive (Kuckarts, 2012). Le categorie generate deduttivamente sono in parte legate agli strumenti di raccolta dati descritti sopra che già definiscono alcune categorie (clima di classe, valutazione,…) e in parte alla letteratura. Le categorie induttive sono invece emerse da una prima analisi dei testi di sei casi.
3. Risultati
In questo articolo vengono presentati e discussi solo i dati relativi alla categoria deduttiva “uscire dalla classe/dividere la classe” e le sue sottocategorie. La categoria è stata individuata sulla base dello stato dell’arte della ricerca sul tema del push e pull out nel sistema scolastico italiano descritto nell’introduzione di questo articolo. Questa categoria raccoglie tutti quei frammenti di testo che descrivono situazioni in cui il ricercatore abbia osservato o gli intervistati abbiano narrato di alunni che non si trovano all’interno della stessa aula dei compagni. Queste sono poi state analizzate secondo tre sottocategorie che fanno riferimento a tre diverse modalità di organizzare l’uscita dalla classe e infine una quarta sottocategoria che raccoglie le opinioni su queste pratiche. 3.1 Dividere il gruppo classe
Vengono descritte in questa sottocategoria situazioni osservate o narrate nelle classi del campione in cui il gruppo-classe viene diviso in sottogruppi meno numerosi, coinvolgendo tutti gli alunni e tutti gli insegnanti presenti in quel momento. In un caso (5), la scuola prevede per un pomeriggio alla settimana l’apertura di tutte le classi e l’organizzazione di laboratori. I bambini, al termine della pausa che segue la mensa, raggiungono autonomamente le aule in cui si svolgono i laboratori. Qui trovano gli insegnanti ad accoglierli e i bambini di altre classi con
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cui condividono le due ore di laboratorio. Ogni gruppo è costituito da 12/15 ragazzi, di età mista (bambini di classi prima e seconda o invece bambini di classi terza, quarta e quinta). Ognuno di questi gruppi è gestito da un insegnante della scuola che propone principalmente attività di tipo artistico/creativo (per esempio musica, coro, decoupage, uncinetto,…). In altri due casi (9 e 12), si sono osservate situazioni in cui la classe è stata divisa in due. In un caso, una classe quarta (caso 9), l’insegnante di sostegno propone a metà classe di imparare a giocare a scacchi. Tutti i bambini possono giocare a coppie e provare le mosse che di volta in volta vengono spiegate. L’attività è proposta nella cosiddetta Aula Sole. Nell’aula della classe, invece, le due insegnanti curricolari in compresenza propongono una lezione dialogata e alcune attività pratiche sul concetto di ritmo, nell’ambito dell’educazione musicale. I gruppi sono stati creati secondo il criterio dell’eterogeneità, per cui in entrambi i gruppi vi erano sia alunni particolarmente capaci di svolgere le attività proposte che altri più in difficoltà. Nel secondo caso (12), la divisione della classe in due metà è descritta dalle insegnanti come una routine ben ancorata all’orario settimanale della classe. La divisione delle classi viene proposta nelle ore di italiano, per due volte alla settimana. Anche in questo caso i gruppi sono eterogenei. Insegnante: E la modalità di suddivisione degli alunni, nei due gruppi, si è mantenuta fissa mantenendo, diciamo, una trasversalità dei casi in difficoltà, nel senso che sono gruppi misti, bilanciati fra di loro. Non sono due gruppi di livello (Focus insegnanti, caso 12) La pluriclasse I e II (caso 4) rappresenta una situazione particolare. In molte ore, infatti, gli alunni di età diverse svolgono attività, a volte uguali ed a volte diverse, all’interno della stessa aula; ma per alcune ore alla settimana si dividono in due gruppi omogenei per età (alunni della classe I e alunni della classe II) guidati nelle attività da due insegnanti curriculari di discipline diverse. 3.2 Uscire dal gruppo classe
Questa sottocategoria descrive situazioni in cui sono solo alcuni alunni (singoli o piccoli gruppi) ad uscire dalla classe. Tendenzialmente si può distinguere fra due modi di gestire a livello organizzativo queste uscite: a livello di scuola o a livello di classe. In alcuni casi abbiamo osservato come la classe aderisse ad una progettazione ampia e condivisa a livello di scuola. In una scuola (caso 5), bambini di classi diverse, ma con simili bisogni per quel che riguarda l’apprendimento della lingua italiana come L2, seguono delle lezioni di italiano organizzate da una facilitatrice linguistica (laboratorio di rinforzo linguistico). Gli alunni coinvolti nell’attività vanno, per alcune ore alla settimana, in biblioteca insieme ad alunni di altre classi che si trovano ad un livello simile di padronanza dalla lingua italiana e seguono le attività di potenziamento linguistico. Nella classe-caso analizzata, questa attività ha riguardato 4 alunni per un’ora ciascuno nei due giorni di osservazione. Nella scuola di un’altra classe del campione (caso 6), invece, un’organizzazione simile è stata concepita per garantire un sostegno in alcune discipline ad alunni che, per ragioni diverse, incontrano delle difficoltà. La valutazione del bisogno II. Revisione sistematica
di frequentare il laboratorio non è legata ad una certificazione, quanto piuttosto ad una valutazione delle difficoltà reali dell’alunno da parte dei suoi insegnanti. Il laboratorio è gestito da diversi insegnanti curricolari nelle ore in passato destinate alla compresenza in classe. Le attività laboratoriali sono pensate come recupero e rinforzo rivolte a piccoli gruppi di alunni di classe diverse, ma che condividono le stesse difficoltà in alcuni ambiti specifici. Anche in questo caso gli alunni coinvolti lasciano la propria classe di riferimento per alcune ore alla settimana. Nei due giorni di osservazione nella classe-caso, questa attività ha coinvolto due bambini per un’ora. In altri casi, l’uscita dalla classe è stata organizzata e gestita a livello di classe e quindi anche esclusivamente con insegnanti o altre figure professionali (es. assistente educatore) assegnati alla classe. Gli esempi che seguono fanno riferimento a questa modalità organizzativa. In una classe (caso 9), l’uscita viene descritta come la reazione a difficoltà che nascono “in situazione”: le attività didattiche vengono quindi proposte all’intera classe, ma nel momento in cui un bambino o un gruppo di bambini sia in difficoltà un insegnante esce brevemente con lui e/o con loro per sostenere il superamento del problema. Una bambina descrive questa strategia, parlando di come reagiscono le insegnanti quando degli alunni non riescono a capire: L., bambina: se per la seconda volta non capiamo, portano un gruppetto fuori in un’aula e la maestra, con molta calma e pazienza, glielo spiega bene e poi tornano in classe quando hanno capito. (Focus bambini, caso 9).
Le insegnanti della stessa classe descrivono la pratica come un intervento che nasce dalla necessità di un alunno in una situazione concreta e a cui le insegnati presenti in classe, senza precisa distinzione di ruoli fra insegnante di sostegno e curricolare, cercano di rispondere. Nei momenti di compresenza, quindi, all’insorgere di una difficoltà che un alunno fatica a risolvere nel contesto della classe, una delle due insegnanti esce per il tempo necessario a superare quella difficoltà, per poi rientrare. Insegnante di sostegno: Se ad esempio A. (un alunno) ha bisogno perché lui fa fatica a leggere il problema, eccetera, allora lo si porta cinque minuti fuori, gli si legge la consegna, perché lui ha bisogno di qualcuno che gli legga le cose. Non è che vado io, J., perché sono la maestra di sostegno, allora il bambino è mio e me lo devo “cuccare” io. Insegnante curricolare: “Già mio/tuo non esiste.” (…) Insegnante curricolare: “No, va chiunque. Nel senso che in classe stiamo lavorando, si lavora in due, chi si rende conto o chi per prima è più libera per poter aiutare il bambino, si prende e si fa”. (Focus insegnanti, caso 9)
In altri casi, l’uscita dalla classe è programmata, un’attività individualizzata progettata con anticipo sulla base di alcuni obiettivi personalizzati che l’alunno deve raggiungere. Un classico esempio è quello dell’assistente educatrice di una classe quarta (caso 5) che lavora fuori dalla classe con un alunno con disabilità sull’esercizio del corsivo, obiettivo già raggiunto dai compagni di classe. In un
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altro caso (5) l’insegnante di un’altra classe lavora per due ore con tre bambine che stanno imparando l’italiano come L2, rivedendo con loro dal punto di vista linguistico i materiali elaborati in classe. Un ulteriore esempio è rappresentato dalla proposta in una classe quarta (caso 12) di un percorso sistematico (Metodo Stella) per lo sviluppo delle abilità di lettura, pensato per due alunni con difficoltà nell’ambito della lettura. In diversi casi l’uscita dalla classe è intesa anche come un modo di interrompere o prevenire l’insorgere di un comportamento problematico per il gruppo classe. Gli insegnanti, ma anche i bambini e i genitori, parlano della breve uscita dalla classe (“andare a farsi un giro”, “andare a prendere l’acqua”) come una possibilità per gestire momenti di rabbia oppure prevenire comportamenti oppositivi generati dalla noia o dalla stanchezza. In queste situazione i bambini escono spesso da soli, solo in alcuni casi accompagnati da un insegnante o un’altra figura professionale. Mamma: se vedono che è un bambino un pochettino vivace, che in quel momento ha bisogno anche di muoversi, magari gli danno la possibilità di andare a portare un foglio, per dire, ad una maestra nel piano di sopra e gli dicono pure: “Fallo di corsa, perché ho bisogno che arrivi di nuovo in classe.” (…) Oppure penso che, perché me l’ha raccontato, a volte dice: “Senti vai a farti un giro fuori per farti una corsetta e torna dentro.”, mentr, invece, maestre forse un po’ più tradizionaliste non prendono neanche in considerazione questa cosa. (Focus genitori, caso 2)
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Infine, una delle dinamiche dell’uscita della classe sembra essere collegata in modo piuttosto stretto con l’insegnamento della religione cattolica. In cinque classi del campione, nelle due giornate di osservazione, si ha avuto la possibilità di osservare le dinamiche attivate dall’insegnamento della religione cattolica e della possibilità per gli alunni e le loro famiglie di scegliere se avvalersene o no. In tre situazioni (casi 6, 9, 12) siamo entrati in contatto con un piccolo gruppo di alunni oppure con un singolo alunno che lasciano il gruppo-classe per un’ora perché non seguono l’insegnamento di religione. In un’altra classe (caso 11), tutti gli alunni della classe seguono l’insegnamento della religione cattolica e rimangono insieme all’interno della stessa aula. Infine, in un classe (caso 7) in cui 12 degli alunni presenti seguono l’insegnamento della religione cattolica e 10 no, l’insegnante di religione esce con 12 alunni per fare religione in un’altra aula, mentre l’insegnante di matematica rimane nell’aula della classe con gli altri bambini. 3.3 Uscire da scuola
In alcune delle classi considerate, ci sono situazioni in cui alcuni alunni non sono in classe non perché si trovino in un altro luogo della scuola a fare qualche altra attività, ma perché invece sono fuori da scuola. In due classi, due alunne con disabilità frequentano la scuola solo per alcuni giorni alla settimana. In un caso (4) si tratta di un’alunna con una pluridisabilità grave che frequenta la scuola per tre giorni alla settimana e per due un centro specializzato. In un altro caso (5) si tratta di un’alunna iscrittasi a scuola in corso II. Revisione sistematica
d’anno in seguito al trasferimento della famiglia dalla Cina. Ha una disabilità motoria che non era stata certificata e la scuola non ha per questo anno le risorse di personale per garantirle la frequenza totale dell’orario scolastico in sicurezza. La bambina frequenta per 10 ore in settimana distribuite su tre giorni. È stata avviata la procedura di certificazione ed è garantita la piena frequenza per l’anno successivo. Nelle due classi in cui vi è un’alunna con pluridisabilità grave (casi 3 e 13), l’arrivo delle due bambine è posticipato di circa 30 minuti rispetto a quello della classe. Il tempo che loro trascorrono a scuola è quindi in parte ridotto rispetto a quello dei compagni. In entrambi i casi è un genitore ad accompagnare in aula le alunne. Qui trovano gli insegnanti e i compagni che le attendono. In entrambi i casi, è previsto un rito di saluto dell’alunna da parte di tutta la classe, anche se le attività sono già cominciate. Infine, in un altro caso (9), quattro alunni con disabilità o disturbi specifici dell’apprendimento seguono terapie nell’orario scolastico. Lasciano quindi la scuola per qualche ora per poi tornarvi. Un caso particolare è rappresentato da un alunno trasferito in corso d’anno da un altro plesso dello stesso Istituto della classe del nostro campione (caso 3). Il bambino è residente in un altro comune e non può essere accompagnato a scuola dai genitori. La soluzione provvisoria prevede che il bambino possa usufruire del trasporto comunale che però prevede il rientro a casa già alle ore 12, in anticipo rispetto ai compagni di circa 30 minuti e soprattutto che non gli permette di frequentare i pomeriggi previsti.
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3.4 Le opinioni sul fenomeno
In modo spontaneo, dal momento che il tema non è posto in modo esplicito dalle domande della traccia per i focus group, alcuni dei partecipanti alla ricerca esprimono una loro opinione sulla pratica di svolgere alcune attività fuori dalla classe. Vengono qui riassunte le diverse posizioni emerse. Un primo dato interessante è che nelle due classi del campione (caso 3 e caso 13) in cui vi sono le due alunne con una pluridisabilità grave (sono su una sedia a rotelle, non comunicano verbalmente e hanno una forte disabilità intellettiva) gli insegnanti esprimano un’opinione pienamente negativa rispetto all’eventuale uscita dalla classe. Le insegnanti riconoscono il valore della presenza delle due bambine in classe, sia per sé che per i compagni: Insegnante di sostegno: È giusto che lei sia dentro, che si distragga perché, come lo fanno gli altri bambini, lo può benissimo fare anche lei. È giusto anche che lei mi dica “No, io non la voglio fare questa attività” e che esprima, quindi, il suo parere. (…) Anche A., come i suoi compagni, quando si distrae viene rimproverata e richiamata all’attenzione e lei ritorna a prestare attenzione alle attività. (Focus insegnanti, caso 13)
Insegnante di sostegno: Il loro “stare in classe” deve avere una dignità. Secondo me, la dignità come persona e come studente che apprende, indipendentemente da quello che sta apprendendo, le viene data dal fatto
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che tutti vedono ciò che lei sta facendo. Se lei fosse sempre fuori ciò non avverrebbe. (Focus insegnanti, caso 13)
Insegnante curricolare: Per me è importante che lei resti in classe, sia per lei che per i compagni. È importante soprattutto per lei perché, secondo me, restando in classe impara i tempi e i ritmi e vede che anche i suoi compagni hanno dei tempi e dei momenti in cui devono stare attenti, tempi in cui devono eseguire le cose, tempi in cui possono rilassarsi, ridere, festeggiare. Anche lei fa parte di questa cosa e così, vede e capisce che ci sono dei tempi. (Focus insegnanti, caso 13)
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In entrambe queste classi, in effetti, non sono state osservate né raccontate situazioni in cui le alunne con pluridisabilità o altri compagni siano usciti dalla classe per motivi didattici. Una posizione simile si trova nella classe-caso 2 in cui le insegnanti, accogliendo due bambini con disabilità che avevano cominciato il proprio percorso in un’altra scuola, dove passavano del tempo fuori dalla classe, hanno la percezione di aver offerto un contesto migliore, garantendo loro di restare sempre all’interno del gruppo classe. Descrivono come questi siano cresciuti nello stare all’interno del gruppo classe, presentando la classe come un contesto più complesso e a tratti sfidante per l’alunno, ma proprio per questo anche palestra per competenze fondamentali come l’autonomia. Molto diversa è la posizione delle insegnanti nella classe caso 5. Si tratta della classe in cui è stato possibile osservare e ascoltare il maggior numero di forme di uscita dalla classe e di divisione del gruppo classe. Alcune di queste scelte didattiche sono condivise e organizzate a livello scuola: le classi aperte con i laboratori per un pomeriggio alla settimana e il laboratorio linguistico in piccolo gruppi per bambini che imparano l’italiano come L2. Altre sono invece gestite a livello di classe grazie alla frequente presenza in classe di due o, in alcuni casi, anche tre adulti fra insegnante curricolare, di sostegno e assistente educatore. In questo caso le uscite dalla classe coinvolgono con frequenza maggiore alunni che hanno delle specifiche difficoltà in alcuni ambiti, ma non solo dal momento che l’uscita in piccolo gruppo con l’insegnante di sostegno coinvolge a rotazione tutti gli alunni. Le insegnanti raccontano che l’uscita dalla classe è percepita positivamente da parte degli alunni. Attribuiscono questa connotazione positiva alle classi aperte che veicolano a loro avviso un senso di appartenenza più ampio rispetto a quello della sola classe e che si allarga all’intera scuola dove ogni maestra è maestra di tutti gli alunni. Infine attribuiscono anche alla presenza stabile e forte dell’insegnante di sostegno un valore positivo: questa grazie alla continuità negli anni e alla sua presenza per l’intero orario in questa classe viene percepita come una insegnante della classe a tutti gli effetti, per cui uscire con lei non assume nessuna connotazione negativa. Nella classe 6 in cui l’uscita riguarda solo alcuni alunni con difficoltà, anche se non necessariamente con una certificazione, le insegnanti intervistate ritengono che lavorare in questi piccoli gruppi di bambini di classi diverse, ma con difficoltà comuni (sostanzialmente dei gruppi di livello) possa essere molto positivo, anche se riconoscono che il lavoro 1:1 potrebbe essere ancora migliore. La loro II. Revisione sistematica
idea di fondo sembra essere quella che garantire alcuni momenti della giornata in una situazione “tarata sul livello” del bambino possa essere assolutamente efficace. Non sembrano vedere la possibilità che questo si possa fare all’interno della classe e non individuano rischi connessi a questa scelta. Più complessa è invece la riflessione sul supporto alla lettura offerto a due alunni della classe 12. Dalle parole delle insegnanti traspare la consapevolezza del rischio legata al fatto che questa attività sia svolta fuori dalla classe e sempre con l’insegnante di sostegno, ma i vantaggi del percorso proposto, per altro per un tempo molto limitato (10 minuti al giorno), sembrano prevalere anche perché sono messi in stretta relazione ad un rientro in classe “migliorato” dall’attività svolta fuori. Insegnante curricolare: E questo portar fuori è funzionale (…) è come dire un: “Mi fermo un attimo, perché questo poi è funzionale per ripartire con il trampolino.” Un portar fuori è una differenziazione, effettivamente, di cui si occupa l’insegnante di sostegno, ma serve per rientrare in classe con una marcia in più. (Focus insegnanti, caso 12)
In un paio di casi sono i bambini a descrivere l’uscita dalla classe da parte di alcuni alunni con difficoltà (caso 9 e caso 11). Di fronte alla domanda sull’utilità di queste uscite da parte dei ricercatori, un bambino risponde con un tiepido “abbastanza”, mentre in un altro caso una bambina risponde in modo positivo e deciso, mettendo in evidenza come avere un supporto fuori dalla classe porta a rientrare in classe con un livello che permette di continuare con gli altri: L., bambina: dopo tornano in classe che sono allo stesso livello degli altri compagni. (Focus bambini, caso 9)
4. Discussione
Nelle classi del campione della ricerca sembrano emergere tre fondamentali posizione e modalità di applicare e/o non applicare l’uscita dalla classe.
Posizione 1: sempre in classe Una prima posizione è quella della netta scelta del “sempre in classe” per tutti. Questo si sente espresso con grande forza da tutto il team insegnanti di una delle classi in cui è presente un’alunna con una pluridisabilità grave ed è confermato da altre situazioni. Vi sono quindi diverse realtà che interpretano l’uscita dalla classe come qualcosa di nettamente negativo e riconoscono nel gruppo-classe e nella partecipazione ad esso la forza inclusiva. È interessante che questa posizione sia collegata dalle insegnanti/dagli insegnanti alla riflessione di situazioni di integrazione di alunni con disabilità e non di altri tipi di difficoltà, come se in questi casi il valore della partecipazione rivestisse un ruolo ancora più fondamentale. Se si definisce, però, l’inclusione come la piena partecipazione e il massimo apprendimento possibile, essere dentro alla classe può essere un fondamentale
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prerequisito, ma non è sufficiente per parlare di inclusione raggiunta. Già in passato alcune ricerche e riflessioni hanno messo in luce come forme di micro-esclusione possano avere luogo anche all’interno della classe. D’Alessio (2011), per esempio, descrive “il muro invisibile” che può separare le attività di un alunno con disabilità e quelle del resto della classe all’interno della stessa aula. Zanobini (2013) evidenzia la criticità del momento della valutazione didattica come pratica da cui, a volte, sono esclusi alunni con disabilità, quasi fosse “caritatevole” evitare loro questa fase del processo formativo. La scelta del “sempre in classe” può quindi certamente creare le condizioni per una piena inclusione, purché sia affiancato da un’efficace gestione dell’intero gruppo classe capace di creare occasioni autentiche di apprendimento e partecipazione di tutti e non solo accoglienza formale in uno stesso spazio.
Posizione 2: uscire dalla classe per sostenere efficacemente alunni in difficoltà Una seconda posizione è quella che organizza attraverso l’uscita dalla classe forme di supporto individualizzato per alunni con difficoltà di vario tipo. Si tratta della posizione più delicata da valutare rispetto al suo significato in termini di inclusione poiché è molto variegata. L’esempio di supporto alla lettura descritto dalle insegnanti di una classe (caso 12), pur svolgendosi fuori dalla classe e con l’insegnante di sostegno, è gestita con una serie di attenzioni ed accorgimenti che non la rendono un reale rischio per la cultura inclusiva del gruppo.
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Insegnante di sostegno: Sono praticamente liste di parole, ha una durata di otto settimane. Viene somministrata una lista alla settimana, quindi ha una durata, un periodo di lettura, di cinque giorni. Viene preso un tempo iniziale, dove viene somministrata la lista al bambino, che non ha praticamente né mai visto né mai letto. E qui, viene preso il primo tempo iniziale. Poi viene letta la lista, tutti i giorni, sia a casa sia a scuola e in questo caso si richiede l’aiuto della famiglia (…). Intervistatore: “E questo viene fatto con due bambini, però, non con tutti i DSA? Più insegnanti: “No.” Insegnante curricolare: “Viene fatto con un bambino DSA certificato, una no e non con invece l’altro DSA certificato.” (…) Insegnante curricolare: L. (insegnante di sostegno) agisce portando fuori i bambini dalla classe, ma viene, per cinque/dieci minuti, viene scelto da lei il momento più congruo all’interno del lavoro della classe. (…) Però, come dire, c’è stato un lavoro precedente in cui, praticamente, all’inizio, proprio come metodo di apprendimento della lettura per tutti, tutti hanno fatto le liste. (…) perché, a maggior ragione, se dà successo sempre praticamente a tutti i bambini con difficoltà, è giusto che agisce su tutti. Quindi l’hanno fatta tutti e poi, man mano, l’hanno fatta solo, pian piano, i bambini che avevano maggior bisogno, quindi son diventati: metà classe, quattro, tre e sono rimasti in due. E questo portar fuori è funzionale (…) Un portar fuori è una differenziazione, effettivamente, di cui si occupa l’insegnante di sostegno, ma serve per rientrare in classe con una marcia in più. (Focus insegnanti, caso 12)
Nel focus group la pratica è descritta e commentata da tutte le insegnanti: questo suggerisce si tratti di una scelta condivisa e progettata insieme, anche se poi è
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realizzata dall’insegnante di sostegno. Il fatto che non sia rivolta in modo indistinto ad una categoria di alunni (alunni con DSA in questo caso), ma invece ad alunni che ne hanno bisogno sulla base di una valutazione didattica delle insegnanti fa emergere che il supporto non è offerto sulla base di un pensiero per “etichette”, ma invece sulla base di una riflessione di individualizzazione didattica per tutti. Infine è significativo che l’attività non sia sganciata dal percorso della classe. La lettura delle liste di parole, infatti, sembra essere stata una metodologia utilizzata per tutta la classe, ma che si continua a portare avanti con gli alunni che hanno ancora difficoltà nel padroneggiare la lettura. In questo senso, gli alunni lavorano fuori, certo, ma ad una proposta che riconoscono come patrimonio delle attività di classe. Inoltre, una variabile che mi sembra importante considerare in questa posizione è quella del tempo, considerando quindi per quanto tempo un alunno o un gruppo di alunni sta fuori dalla classe per ricevere un certo supporto. Per tutti questi motivi credo che un intervento di questo tipo possa essere efficace e non realmente di danno per l’inclusione in classe. Certamente potrebbe essere migliorato ulteriormente in chiave inclusiva progettando ad esempio che il training possa essere proposto in modo intercambiabile da insegnante di sostegno e curricolare in modo da non cristallizzare la figura di uno dei due nel ruolo di “aiutante” oppure si potrebbe pensare a situazione di tutoring far pari. Un’altra soluzione che mi pare possa avere un interessante potenziale in termini di efficacia dei processi di apprendimento e al contempo non mettere in pericolo i processi inclusivi è la pratica della breve uscita per affrontare una difficoltà specifica. Anche questa modalità supera un pensiero per categorie per orientarsi alle difficoltà reali incontrate da tutti gli alunni e propone l’uscita dalla classe come una forma di sostegno possibile per tutti e gestita da qualsiasi insegnante. Penso invece con qualche preoccupazione maggiore alla costituzione di gruppi di livello stabili che consentono un sostegno ad alcuni alunni per alcune ore alla settimana su alcuni aspetti specifici (es. inglese orale per alunni con dislessia). Nonostante i molti aspetti positivi di queste scelte didattiche e organizzative, un rischio di queste forme di sopporto è l’implicita veicolazione dell’idea che ogni forma di differenziazione debba avvenire al di fuori del gruppo classe. Se infatti tutte le forme di individualizzazione e personalizzazione hanno luogo fuori dalla classe, parrebbe consolidarsi l’idea che in classe si impara tutti nello stesso modo e che ogni forma di differenziazione debba avvenire fuori dall’aula, quasi che la normalità fosse l’omogeneità dei processi di apprendimento e non la loro eterogeneità. In realtà, però, in molti dei casi descritti a forme di individualizzazione attivate fuori dalle classi si affiancano altre forme di individualizzazione e personalizzazione in aula. A questa seconda posizione non appartengono però solo pratiche come quelle descritte, ma anche altre che contengono a mio avviso maggiori aspetti di criticità rispetto all’inclusione. La scelta di per esempio di istituire gruppi fissi di sostegno/supporto di alunni di classi diverse omogenei per difficoltà –i classici gruppi di livello, diffusi anche in ordini di scuola superiori- può diventare rischiosa. O ancora la scelta di proporre attività che mirano al raggiungimento di obiettivi personalizzati molto diversi da quelli della classe – per esempio l’apprendimento del corsivo in una classe quinta- sempre fuori dalla classe. Se la scuola non accompagna questa scelta con una riflessione sui rischi può generare - in fatto per esemanno III | n. 1 | 2015
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pio di apparenza al gruppo, ma anche di autorappresentazione del proprio potenziale di apprendimento da parte degli alunni- e non progetta correttivi cheli riducano, le probabilità avvii forme di micro-esclusione sono elevate. Posizione 3: uscire dalla classe come elemento della didattica per tutti Infine una terza posizione appare come fortemente interessante rispetto ai temi dell’inclusione. Questa è rappresentata in modo esemplificativo dalla classecaso 5. Si tratta di una classe 4^con 21 alunni, di cui 13 con una madrelingua diversa dall’italiano. In questo caso, l’uscita dalla classe è molto frequente e coinvolge di momento in momento figure professionali e alunni diversi per motivi diversi (Tab.2). Alcuni di queste momenti sono gestiti a livello di scuola e altri a livello di classe, per cui ancora di più l’uscita dalla classe o la divisione del gruppo classe appare come la normalità all’interno della cultura scolastica di questo contesto. Questa esperienza suggerisce che, moltiplicando le uscite dalla classe, queste perdano la connotazione negativa, come se, in questo modo, la didattica tutta fosse caratterizzata da una normale alternanza di momenti passati in aula e di momenti passati fuori. L’esperienza sistematica delle classi aperte si configura come particolarmente forte in questo senso. In un contesto di questo tipo anche l’uscita per un supporto specifico legato al superamento di alcune difficoltà sembra acquisire un significato diverso, non necessariamente legato ad un vissuto di alterità negativa che porta ad una mancata appartenenza al gruppo e ai suoi percorsi di apprendimento. È come se questa forma organizzativa, che rende l’uscita dalla classe e la divisione del gruppo classe protagonista della normale didattica quotidiana, legittimasse implicitamente la coesistenza di percorsi di apprendimento diversi che però con regolarità riconvergono sulle attività comuni del gruppo classe nella attività condivise da tutti. !"#$%
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Tab. 2: sintesi delle forme di divisione della classe/uscita dalla classe del caso 5
II. Revisione sistematica
Infine, è interessante constatare che in nessuno dei dialoghi emersi nei focus group siano state messe in discussione le uscite anticipate, entrate ritardate o uscite per frequentare centri e/o terapie da parte di alcuni alunni con disabilita e sia stata tematizzata la questione dell’uscita di alcuni alunni nelle ore di insegnamento della religione cattolica. È come se queste pratiche fossero consolidate e date “per scontate”: faticano quindi a divenire oggetto di riflessione critica da parte dei protagonisti della scuola, anche nel momento in cui si rifletta e si parli di inclusione.
Conclusioni, limiti e prospettive
Concludendo, i dati della ricerca suggeriscono che esista una forma di uscita e divisione del gruppo classe che può configurarsi come effettivamente inclusiva: è quella rappresentata da scelte organizzative che moltiplicano le occasioni di uscita e le rendono parte della normale didattica che coinvolge tutti gli alunni e tutte le figure professionali. Ve ne sarebbe poi una seconda che si configura come forma si supporto ad alunni con difficoltà realizzata al di fuori del gruppo classe, a condizione di essere accompagnata da una riflessione critica dei rischi di microesclusione che comporta. Caratteristiche esemplari di inclusivisi di queste forme di supporto sono: la breve durata, il superamento dell’inquadramento delle difficoltà in categorie (disabilità, DSA,…), la cura della relazione delle attività di supporto con quelle di apprendimento della classe, la presa in carico collettiva e non delegata a figure specializzate per alcune difficoltà. A livello metodologico, la ricerca presenta un limite nella selezione del campione. Il campione è infatti selezionato su base volontaria e sulla definizione da parte di insegnanti del carattere inclusivo della propria classe. Fra le classi volontarie il gruppo di ricerca ha poi operato una scelta sulla base dell’adesione all’idea più ampia di inclusione proposta nell’Index per l’Inclusione da Booth e Ainscow (si veda il paragrafo sul campione). Nonostante ciò, al momento delle due giornate di osservazione in classe i ricercatori hanno rilevato livelli di inclusività nelle pratiche molto discontinui in alcuni casi anche all’interno della stessa classe al cambiare delle/degli insegnati, in alcuni casi anche con limiti evidenti in fatto di partecipazione e apprendimento per tutti. Due interessanti prospettive si aprono sulla base di questi risultati. Da un lato, nell’ambito della ricerca, è importante raccogliere dati che possano quantificare la diffusione delle diverse tipologie di pull e push out, distinguendo fra quelle che rappresentano un rischio per la cultura inclusiva del nostro sistema scolastico e quelle invece si collocano in modo coerente con essa. Dall’altro lato, nell’ambito della formazione iniziale e continua degli insegnanti, alla luce di questi dati appare fondamentale investire in una didattica inclusiva che dia spazio a: 1) metodologie che facilitano la gestione di percorsi di apprendimento eterogenei in spazi e tempi comuni di un gruppo classe, rispondendo al principio del “sempre in classe”, ma realmente efficace per tutte e tutti e 2) pratiche didattiche e organizzative che alternino momenti comuni e momenti in piccolo gruppo e/o individualizzati nell’ottica del superamento della classe come struttura portante unica della didattica scolastica.
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Ringraziamenti: – alla Libera Università di Bolzano, che ha finanziato la ricerca; – a Francesco Zambotti e a Ilaria Quaglieri che hanno realizzato la raccolta dati in rispettivamente tre e due delle classi del campione; a Claudia Della Chiesa e, per parti minori, ancora a Ilaria Quaglieri e Francesco Zambotti per la trascrizione dei dati; infine a Dario Ianes per il dialogo e confronto sempre preziosi.
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II. Revisione sistematica
Parental Acceptance, Parental Stress, and Quality of Life: A study with parents of ADHD children
Adapting to a child with attention deficit hyperactivity disorder (ADHD) represents a great challenge for any family, and especially for the parents. Considering the psychological and behavioral issues inherent to this disorder, it’s no easy task to promote the child’s development, in a supportive way, while at the same time ensuring that it is well adjusted to all social contexts. More difficult yet is to achieve this while maintaining high quality of interpersonal relations and psychological health in the family. In this context, our research’s objectives were to assess and analyze possible connections between the perception of parental acceptance and rejection, parental stress and quality of family life, in families with children with ADHD. To achieve our goals we applied the Parental Acceptance-Rejection Questionnaire (PARQ, Rohner, 2005), the Quality of Life Scale (QOL, Barnes & Olson, 1982), and the Parental Stress Scale (PSS, Mixão, Leal & Maroco, 2007) to a sample of 57 Portuguese parents, both fathers and mothers, of, at least, one child diagnosed with ADHD. Our results show that parents of children with ADHD perceive themselves as accepting of their children, and the majority present low levels of parental stress. Also, we found that the more stressed parents feel about parenting, the less accepting they perceive themselves to be, as well as having lower levels of quality of life. These results leave interesting pointers for future research and intervention, suggesting the importance of helping parents of ADHD children to deal with stress as it seems to have an important role on key dimensions of family functioning and consequently on children’s socio-emotional adjustment and development.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: ADHD; acceptance-rejection; parental stress; quality of life
III. Esiti di ricerca Silvana Santos Fernandes is a researcher at University Institute of Maia. Márcia Machado & Francisco Machado are lecturers and researchers at University Institute of Maia as well as researchers at Coimbra’s University Centre for 20th Century Interdisciplinary Studies CEIS20.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Silvana Santos Fernandes / University Institute of Maia / Márcia Machado / University Institute of Maia / Francisco Machado / University Institute of Maia / fmachado@ismai.pt
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One of the biggest issues that families with children with ADHD face it’s the dynamic nature of the problem. Meaning that the (negative) behavioral consequences of having this developmental disorder makes the task of parenting very difficult and stressful, which often translates into lower quality of parenting, which, in turn, reinforce the behavioral problems of children with ADHD (Barkley, 2003, Pelham & Fabiano, 2008). It’s a self-reinforcing problem that creates increasingly higher levels of psychological distress for both parents and children. This problem, if not addressed from a perspective that considers not only symptom control but also contextual variables, can become a serious impairment for the children’s development and adjustment. The negative consequences of the inattention, hyperactivity and impulsivity that characterize ADHD (American Psychiatric Association, 2002) have a pervasive influence on the development of children (Oh et al., 2012) in different dimensions, namely in terms of self-esteem and social competence (Kats-Gold et al., 2007, Cumingham, 2007; Foley, McClowry, & Castellanos, 2008; Miranda, et al., 2009, Banga, 2013), academic achievement, behavioral problems (DuPaul et al., 2001, Sawyer et al., 2002) and socio-emotional maladjustment (Bagwell et al., 2001). Not surprisingly, due to these characteristics, children with ADHD tend to have interaction problems with their parents and other family members, especially when confronted with demands and requests or the need to inhibit impulsive responses (Mckee et al., 2004). Also, children diagnosed with ADHD have a higher risk of developing a wide range of psychiatric disorders, engaging in disruptive and delinquent behavior, as well as substance abuse as adolescents (Katusic et al., 2005, Molina et al., 2007, Yoshimasu et al., 2012). Recognizing the demanding nature of the task of parenting children with ADHD, researchers have been focusing on its effects on parents and have found that these parents tend to have high levels of stress (Moreira, 2010, Narkunam et al., 2012, Viduoliene, 2013, Van Steijn et al., 2014), and higher levels of stress than parents of children without ADHD (DuPaul et al., 2001, Podolski & Nigg, 2001, Van Steijn et al., 2014). Parenting children with ADHD is also associated with depressive symptoms (Chronis et al., 2003, Van Steijn et al., 2014). On the other hand, some evidence has been found that demonstrate that parents of children with ADHD, themselves, tend to display lower levels of parenting. Individual characteristics associated with adolescents with ADHD have been found to be associated with lower levels of monitoring efforts by parents (Eaton et al., 2009). Also, parents of children with ADHD are more likely to use negative or ineffective discipline (Hinshaw et al., 2000), as well as more inconsistent and hostile parenting (Cussen et al. 2012) than parents of children without ADHD. Recent research has been reinforcing the importance of effective parenting and good quality of interpersonal relations in the family, for the mitigation of the negative consequences of ADHD on children and adolescents’ behavior and development (Keown & Woodward, 2002, Chronis, Chacko, Fabiano, Wymbs & Pelham, 2004, Pelham & Fabiano, 2008, Walther et al. 2012, Cussen et al., 2012, Molina, 2015). This means that working with the parents of ADHD children and adolescents, helping them to develop better and more effective ways to cope with their children’s behavior, as well as with the psychological stress that they themselves feel, seems to be the best way to promote adjustment, development and social inclusion of ADHD children. III. Esiti di ricerca
Although a large body of literature has been produced focusing on ADHD and it’s effects on child, adolescent and adult development and adjustment, a lot less attention has been given to the study of the effects that parenting children with ADHD has on the parent’s psychological adjustment, and even more to the importance of family functioning and relationship dynamics on the adjustment and wellbeing of both parents and children with ADHD (Walther et al. 2012). This is even more so in the Portuguese context, as there are very few studies that focus on these particular issues, regarding children with ADHD, their families and the interpersonal processes that might play an important role on their development and adjustment. Taking in consideration this relative scarcity of research, the main objectives of our study are, firstly, to analyze if the tendency of ADHD children’s parents to have high levels of stress is similar in Portuguese parents. Secondly, we wanted to know if the levels of parental stress were associated with the quality of interpersonal relations in the family, namely between parents and children with ADHD, as well as with the parent’s perception of quality of life. Following the trend of recent research on the field of ADHD, as shown before, we believe that it’s important to further explore the role that contextual variables, especially those associated with the quality of interpersonal relationships in the family. In this context, the warmth dimension, namely the perception of interpersonal acceptance, as described in Ronald Rohner’s Interpersonal Acceptance-Rejection Theory (IPARTheory, Rohner, 1986, 2004), might be a key dimension to better understand how families with ADHD children work and, more importantly, contribute to make intervention in this field more effective. Acceptance and rejection are the two sides of the warmth dimension of parenting, which is expressed by a continuum, where any human being can be placed according with the level of acceptance or rejection that they’ve experienced from their parental figures along their life cycle (Rohner, 1986, 2004). It relates to the way parents express their feelings towards their children through physical, verbal and symbolic behaviors, and the way that children perceive those behaviors as acceptance or rejection. A meta-analysis study done by Rohner, Khaleque and Cournoyer (2013), showed that there’s evidence that the perception of not being accepted, or in other words, the perception of being rejected, is associated with a wide range of problems in childhood, adolescence and adulthood, namely anxiety and insecurity; dependence; hostility, aggressiveness and global self-control difficulties; low self-esteem and self-efficacy; emotional instability and lower ability to manage stress in adults. More recently it was also shown that, in adolescents diagnosed with ADHD, parental acceptance was associated with higher levels of self-esteem, self-efficacy, as well as with the dimensions of task initiation and persistence, and efficacy in adverse situations, which are key dimensions for the effectiveness of the learning process (Machado, Machado & Oliveira, 2015). Another study concluded that the negative effects of impulsiveness and aggressiveness worsened when children with ADHD felt that they were not supported, loved and wanted by their parents (Nunes & Werlang, 2008). This data strongly suggest that interpersonal acceptance-rejection is a relevant variable when trying to analyze and further understand how interpersonal relations in the family, and especially those that are established between parent anno III | n. 1 | 2015
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and child, can have an effect, whether positive or negative, over the ADHD symptoms and their impact on parent’s wellbeing, adjustment and quality of life. Based on the information gathered, we believe that a family environment marked by interpersonal acceptance, where both parents and children perceive themselves as accepted and accepting of each other, will help to mitigate the negative effects of ADHD on the child and, consequently, lead to decrease of the pressure and emotional distress on the parents. This emotional relieve of the parents, with lower levels of stress, might, in turn, increase the probability that they will be emotionally available to do a better job at parenting. Considering the arguments presented until this point, three questions arise, to which this study tries to respond. Do parents of ADHD children in Portugal present high levels of stress? Is the perception of being accepting of their ADHD children associated with lower levels of stress? Are the levels of stress and interpersonal acceptance of the parents associated to their perception of quality of life? Relying on the information gathered from our literature review, our expectation is that parents of children with ADHD in Portugal will follow the tendency shown in international studies and present high levels of stress, considering the proven difficulties posed by the behavioral effects of ADHD. Concomitantly, these high levels of stress will have a negative effect over the parent’s perception of quality of life, as well as over their relationship with their children. Recent studies have shown that parenting stress is significantly associated with more negative parent-child interactions, child behavioral problems and harsh authoritarian parenting (Harpin, 2005, VanIjzendoorn et al, 2007). Also, and considering the effect that interpersonal acceptance has been shown to have over key dimension for emotional and behavioral adjustment of children (e.g. anxiety; hostility; self-control difficulties; self-esteem and self-efficacy; emotional stability), we expect parent’s stress levels to be associated with their perception of being accepting of their children with ADHD. Accepting parents have a higher probability to promote an accepting, positive, warm family environment than rejecting parents, as the latter might trigger a variety of negative consequences for the children that might perceive themselves as rejected, as seen before. More so when we are talking about a family environments with children with ADHD, that already have emotional and behavioral difficulties associated with the disorder from the start (Nunes & Werlang, 2008; Rohner, Khaleque & Cournoyer, 2012). If that’s the case, the worsening of what’s already difficult to manage, can have a real impact on the parent’s levels of stress and quality of life. The present study results from the research gap mentioned above, pertaining the relative scarcity of research in this field focused on parents’ needs and the quality of interpersonal relationships in the family, and from previous research (Machado, Machado & Oliveira, 2015), that suggested that interpersonal acceptance or rejection could have an important role on the adjustment of ADHD children and their families. This means that, this study represents another step in the direction of better understanding the role that contextual and relational variable play on the adjustment and wellbeing of these families, and particularly in the Portuguese context. Although simple in its design, our study’s results, we believe, open new paths for future research in this field, and promise new findings to come. III. Esiti di ricerca
1. Method
Participants Participants were 57 parents (68.4% mothers) with ages between 30 and 70 (M= 40.4, DP= 5.97) all of which had one child diagnosed with ADHD. Maternal age was between 30 and 48 years (M= 39.6, DP= 4.66) while paternal age ranged from 35 to 70 (M= 41.9; DP= 8.08). 70.18% of participants were married. Most parents had low to middle schooling levels and most, especially mothers, had low-qualification employment. 23.1% of mothers were stay-at-home and 12.8 were unemployed. The children with ADHD were mainly male (86%) with ages ranging from 5 to 14 years old (M= 9.49; DP= 2.44). Only 2 children (4.1%) were not in school, all others were between 1st and 9th grade. Procedures Data was gathered at one-single moment in two different ways: in hospital and online. In the first case, permission was asked and granted by the hospital board. Parents were approached by the main researcher while they were awaiting the child’s medical appointment. At that point, the research was explained and an informed consent was obtained. Parents answered the questionnaires either before or after the child’s appointment. Due to difficulties in gathering participants, a part of our questionnaires were answered online. In both cases, participants’ consent was always obtained previously, and questionnaires were answered anonymously. The only inclusion criteria for this study was being a parent to a child diagnosed with ADHD by a health professional (medical doctor, psychologist or psychiatrist).
2. Measures
Personal information form The personal information form gathered data on both the child diagnosed with ADHD and on their parents. Information on the child included child’s age, age when first diagnosed, gender, school year, being on medication. Information on the parents comprised age, gender, educational level, marital status, profession and social-economical level.
Parental acceptance-rejection questionnaire (Rohner, 2005) The Portuguese short version of the Parental Acceptance Rejection Questionnaire was used (Rohner, 2005). The questionnaire was answered by the parent about their child diagnosed with ADHD. Thus, the parent was asked to answer on how s/he perceived his/her own behavior towards the child (Khaleque & Rohner, 2002). The questionnaire has twenty-four items answered in a four-point likert scale ranging from “almost never true” to “almost always true” (Rohner, 2005).
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Results are given in four scales: warmth, hostility/agression, indifference/neglect, and undifferentiated rejection as well as a global score in which lower values indicate acceptance. Warmth encompasses manifestations of love and caring such as hugging, kissing, and praising (eg. Item 3 I make it easy for my child to confide in me); hostility/aggression refers to behaviors such as hitting or humiliating (eg. Item 6 I punish my child when I am angry); indifference/neglect concerns behaviors in which the parent ignores or doesn’t pay attention to the child (eg. Item 7 I am too busy to answer my child’s questions); undifferentiated rejection describes the child’s feeling of being unloved (eg. Item 8 I resent my child). (Klaleque & Rohner, 2002). Cronbach’s alpha for the global scale in this study was .84.
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Parental stress scale (Mixão, Leal & Maroco, 2010) The Parental Stress Scale was used to assess parents’ levels of stress regarding their relationship with their child with ADHD. The questionnaire comprises 18 items answered in a 5-point likert scale ranging from completely disagree to completely agree (Mixão, Leal & Maroco, 2010; Rocha, 2012). The scale includes four factors: parental concerns (eg. Having a child has been a financial burden); satisfaction (eg. I feel close to my child); lack of control (eg. Having a child means having few choices and lack of control of my life); and fear and anguishes (eg. Sometimes I wonder if I do enough for my child) (Mixão, Leal & Maroco, 2010; Rocha, 2012). In this study only the global parental stress factor was used, with Cronbach’s Alpha being .79.
Quality of life scale (QOL) (Relvas, Alberto, & Simões, 2008) The Portuguese version (Relvas, Alberto, & Simões, 2008) of the quality of life scale (Olson & Barnes, 1982) was used in this study. Only the parental version of the scale was used. This comprised 40 sentences divided into dimensions such as marriage and family life; friends; health; home; education; time; religion; employment; mass-media; neighborhood and community (Almeida, 2013; Grilo, 2013). Answers are given in a five-point likert scale ranging from unsatisfied to extremely satisfied (Almeida, 2013; Grilo, 2013). Cronbach’s Alpha for each subscale were .82 for marriage and family life; .80 friends; .87 health; .91 home; .75 education; .87 time; .94 religion; .87 employment; .87 mass-media; .90 neighborhood and community thus indicating good internal consistency.
III. Esiti di ricerca
3. Results
Results show that parents perceive themselves as accepting (table 1) since perceived acceptance is below 601 (M= 38.53; SD= 9.94) (Rohner, 2005). In fact, since maximum value was 58.00 it seems that all parents perceive themselves as accepting (table 1). Parental stress was also low (M= 39.58; SD= 10.72) since low parental stress ranges from 18 to 42 (Mixão, Leal, & Maroco, 2010). However, since the maximum stress value was 70.00 a closer look was taken. 59.6% of parents reported low stress levels (values 18-42), 36.8% had intermediate stress levels (43-66) while 3.6% reported high stress levels (67-90). Parental acceptance was positively correlated with parental stress. Since the parental acceptance scale is keyed backwards this means that low parental acceptance was associated with higher levels of parental stress suggesting that when parents felt overwhelmed with parenting they tended to be less accepting of their child. Low parental acceptance was negatively correlated with quality of life perceived in marriage and family life, friends, home, and education. Results suggest that when parents felt better quality of life in these areas they tended to see themselves as more accepting of their child. Low parental acceptance was, however, positively correlated with quality of life regarding religion. As such it seems that religion was associated with perceiving themselves as being less accepting of their ADHD child. Parental stress was negatively associated with all quality of life dimensions except for time. Results imply that when parents felt concerned they reported less quality of life.
4. Discussion
Even though it was expected that parents’ of ADHD children would report being stressed, results aren’t clear in this instance. Most parents report low stress but a considerable number report intermediate stress and a few indicate being highly stressed. ADHD symptomology has been consistently associated with, or even found to be a predictor for parental stress (Cussen, Sciberras, Ukoumunne, & Efron, 2012; Narkunam, Hashim, Sachdev, Pillai, & Ng, 2014; van Steijn, Oerlemans, van Aken, Buitelaar, & Rommelse, 2014), but even though this kind of analysis wasn’t performed in our study the data seems to question it. Possible explanations for these results may be that participants had children, who had mild ADHD symptomatology, and thus not causing has much stress in the parents, or it is also possible that these parents might have found more efficient ways of coping with their everyday parental stress. Solem, Christophersen, & Martinussen (2011), for instance, found that parents of children with behavior problems, who had better social support as well as other resources and strategies,
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Lower scores in the acceptance scale indicate more perceived acceptance
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reported less stress. Our study didn’t look into these variables, which might explain relatively low stress in participants. Another clue may lay in one of the main objectives of the study: the correlation between parental acceptance and parental stress. One of the main objectives of this study was to understand how parental acceptance was associated with parental stress in parents of ADHD children. Results show that parents who report more stress, specifically in the dimensions of parental concerns and lack of control, perceived themselves as less accepting of their child. Previous studies have shown that parenting behavior, namely responsiveness, is influenced by parenting stress (Ponnet et al., 2013). Correlations have also been found indicating an association between higher levels of self-esteem and self-efficacy in adolescents with ADHD and their perception of parents being accepting (Machado, Machado & Oliveira, 2015) As such, and reinforcing our argument, it is possible that parental acceptance promotes better outcomes in children with ADHD or that children with milder symptomatology are more accepted by their parents, which, in turn, is related to (lower levels of) parental stress. Our second hypothesis conjectured that parental acceptance of the child with ADHD would be correlated with the parent’s quality of life, which was confirmed. Previous studies have shown that children’s behavior and development can influence parental quality of life. For example, children’s oppositional defiant symptoms predicted mothers’ quality of life (Lee et al., 2010), fathers (Huang, Chang, Chi, & Lai, 2014) and mothers of children with developmental disorders had worse quality of life (Yamada et al., 2012). In our study, as previously mentioned, the severity of symptomatology was not assessed. Participants reported adequate quality of life with was positively associated with parental acceptance and negatively with parental stress. Stress has been consistently shown to be a predictor of quality of life (e.g. Johnson, Frenn, Feetham, & Simpson, 2011). Results show that there is a clear association between parental acceptance and quality of life. This suggests that parents, who accept their child, with all his /her characteristics, including those associated with ADHD, will have better quality of life. As such, parental acceptance may be key in allowing parents of children with ADHD to have lesser stress levels and higher levels of quality of life. Parental acceptance has been shown to promote better outcomes as well as wellbeing in a diversity of dimensions (Dwairy, 2010; Dwairy et al, 2010; Khaleque & Rohner, 2012; Rohner, 1986; Rohner, 2004; Rohner, Khaleque & Cournoyer, 2013). Results show that parental acceptance may be instrumental in improving the life of parents of children with ADHD, which opens new therapeutic possibilities.
Limitations of the Present Study and Future Research As discussed throughout this article, there are some dimensions that need to be added to better explain results. In future studies it is suggested that the severity of ADHD symptomatology is assessed and that social support is brought into the equation. The small number of participants didn’t allow for more elaborate analysis but in the future it is essential that the role of each of these variables is carefully assessed by testing mediational models that include not only the dimensions analyzed in this article but also those suggested above. III. Esiti di ricerca
Additionally, it would be interesting to analyze differences between fathers and mothers as well as explore if the child’s gender as a part to play since it has been shown that boys report more parental rejection than girls (Hussain & Munaf, 2012).
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III. Esiti di ricerca
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Un metodo didattico per sviluppare competenze nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a piĂš cifre in studenti con difficoltĂ o con disturbo di apprendimento
Key-words: mental calculation, immersive learning experience, gimmefive, low attaining students, dyscalculia
III. Esiti di ricerca
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno III | n. 1 | 2015
Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The article presents the results of a controlled experiment designed to evaluate a teaching method aimed at developing mental calculation competencies in students with learning difficulties or disorder. The method exploits touch-screen technology to give students the means to have an Immersive Learning Experience of the strategies that experts use in mental calculation. The strategies that may be involved in mental calculation of multi-digit addition and subtraction are presented along with the ways in which these strategies are incorporated into the application used in the experiment. Ten students with learning difficulties or disorder were involved in the experiment and underwent three-months training by touch-screen application following a standardized protocol. Their performance was evaluated by a standardized test performed at the beginning and at the end of the experiment, by two questionnaires and by a final test of acquired mathematical skills. Statistical analysis showed a significant increase of the mean score at the standard addition/ subtraction test and most students, following the training, achieved a score in the normal range. The present findings indicate an effective and reproducible approach for the development of an inclusive teaching practice of mental calculation within the school context.
abstract
Giampaolo Chiappini / Istituto per le Tecnologie Didattiche di Genova / chiappini@itd.cnr.it Giacomo Cozzani / Istituto per le Tecnologie Didattiche di Genova / cozzani@itd.cnr.it Luca Bernava / Istituto per le Tecnologie Didattiche di Genova / bernava@itd.cnr.it Cristina Potente / Centro Leonardo di Genova / c.potente@centroleonardo.net Shaula Verna / Centro Leonardo di Genova / shaula.verna@gmail.com Fabrizio De Carli / Istituto di Bioimmagini e Fisiologia Molecolare di Milano / fabrizio@dism.unige.it
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1. Introduzione
8
Il calcolo mentale presenta caratteristiche di esecuzione che lo rendono profondamente diverso dal calcolo scritto. Una persona esperta per svolgere un calcolo mentale generalmente: i) opera sul valore complessivo del numero piuttosto che sulle singole cifre di ogni numero coinvolto nel calcolo1; ii) seppur in modo implicito, mobilita principi matematici importanti, come le proprietà delle operazioni, con i quali elabora strategie per esprimere le quantità numeriche in gioco in termini di relazioni tra altri numeri e semplificare il calcolo; iii) determina mentalmente l’intero processo di calcolo in modo creativo e flessibile, tenendo conto di specifiche caratteristiche che consentono di scomporre i numeri coinvolti nel problema in elementi facilmente manipolabili2. Queste caratteristiche rendono il calcolo mentale profondamente diverso dal calcolo scritto centrato, invece, sull’esecuzione degli algoritmi caratteristici delle operazioni aritmetiche. Notiamo che, per eseguire gli algoritmi delle operazioni scritte non è necessario capire cosa rappresentano le cifre su cui si opera, o i principi su cui si basa l’algoritmo di calcolo che si sta effettuando, e non è neppure necessario possedere una chiara idea della struttura dei numeri e delle relazioni che intercorrono tra di essi. È necessario solo saper eseguire rigorosamente la procedura algoritmica appresa. L’intelligenza numerica, che è la capacità di capire e rappresentarsi il mondo in termini di numeri e quantità, ha molto a che vedere con il calcolo mentale e molto poco con il calcolo scritto (Lucangeli, Ianniti & Vettore, 2007). La capacità nel calcolo mentale è una competenza importante per l’autonomia di vita delle persone ed è cruciale per lo sviluppo di capacità nella soluzione di problemi aritmetici. Infatti, l’abilità di decomporre e comporre numeri per affrontare un problema di calcolo mentale fornisce euristiche per la costruzione di strategie risolutive di problemi complessi. In generale, le competenze degli studenti nel calcolo mentale sono piuttosto carenti e, in particolare, gli studenti a basso rendimento in ambito aritmetico3 (low attaining students), incontrano grosse difficoltà nello sviluppo di queste competenze (Fuchs L.S., Fuchs D. & Prentice, 2004; Hanich, Giordania, Kaplan, & Dick, 2001). Le cause dei modesti risultati nello sviluppo di queste competenze sono dovute principalmente al curriculum e alla tradizione scolastica, che sono centrati principalmente sull’insegnamento delle procedure del calcolo scritto, all’inadeguatezza dei metodi didattici impiegati nel sostenere gli studenti nello sviluppo delle strategie del calcolo mentale, oltre che alle caratteristiche di funzionamento cognitivo degli studenti.
1 2 3
Per esempio, dovendo calcolare il risultato di 34+23 aggiunge al valore 34 prima 20 e poi 3, invece di operare con le cifre delle unità e delle decine dei due numeri come nel calcolo scritto. Per esempio, dovendo calcolare il risultato di 34+98 usa una strategie diversa rispetto al calcolo di 34+23, cioè aggiunge 100 al valore 34 e quindi toglie 2. Gli studenti a basso funzionamento in aritmetica (low attaining students in arthmetic) sono un gruppo di studenti eterogeneo con QI nella norma che mostrano resistenza ad apprendere l’aritmetica secondo i tradizionali metodi di insegnamento e che nei test standardizzati tipicamente producono risultati che si collocano nella fascia medio bassa (compreso tra -1ds e -2ds) o al disotto di essa (minore di -2ds).
III. Esiti di ricerca
Il valore formativo del calcolo mentale e la sua importanza nel successo degli studenti in ambito matematico sono oggi largamente condivisi nell’ambito della ricerca didattica (Varol & Farran, 2007). Tuttavia, la ricerca didattica non ha ancora definito un metodo efficace e condiviso per sviluppare le strategie di calcolo mentale con tutti i bambini, e in particolare con quelli a basso rendimento in ambito aritmetico.
2. Obiettivo della Ricerca
In una revisione della letteratura sul calcolo mentale di addizioni e sottrazioni e sul modo di svilupparlo negli alunni, Varol e Farran (2007) hanno evidenziato che una questione cruciale, oggi al centro del dibattito, è se agli studenti debba essere data la possibilità di scoprire le strategie di calcolo mentale, sfruttando le loro conoscenze e abilità naturali (Carpenter, Franke, Jacobs, Fennema, & Empson, 1998; Heirdsfield, 2000; Kamii, Lewis, & Livingston, 1993) o se, invece, sia più opportuno insegnare queste strategie e consentire loro di usare quelle in cui si sentono più sicuri (Beishuizen, 1993; Reys, 1984). In questo lavoro presentiamo i risultati di una sperimentazione che abbiamo effettuato per valutare un metodo didattico volto a sviluppare competenze nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a più cifre. Questo metodo in qualche misura integra i due approcci centrati rispettivamente sulla scoperta e sull’insegnamento di strategie di calcolo e, allo stesso tempo, è diverso da entrambi. Si tratta di un metodo da noi elaborato che si avvale della tecnologia per creare le condizioni affinché gli studenti possano compiere un’Esperienza Didattica Immersiva delle strategie che le persone esperte sono solite usare nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a più cifre. L’espressione “esperienza didattica immersiva” è qui usata per indicare l’esperienza che si realizza in un ambiente strutturato sulla base di stimoli cognitivi e percettivi (affordance4) che emergono operando in esso e consentono allo studente di:
– Riconoscere, nella scansione degli eventi che emergono nell’interazione con l’ambiente, l’attualizzazione concreta di strategie di calcolo che possono essere proficuamente impiegate per risolvere addizioni e sottrazioni a più cifre mediante una computazione di tipo mentale; – attribuire a tali strategie il significato e l’utilità che lo sviluppo culturale e la pratica sociale hanno assegnato ad esse;
4
Il concetto di affordance è stato introdotto da Gibson nell’ambito della psicologia della percezione per denotare la relazione tra un organismo e il suo ambiente (Gibson, 1979) ed è stato successivamente adottato da Norman nel campo di studi della Human Computer Interaction (1988) per indicare le fondamentali proprietà degli artefatti che determinano come possono essere usati. In quest’ultimo campo di studi la nozione di affordance ha avuto negli anni una forte evoluzione per tenere conto delle trasformazioni delle interfacce dovute al progresso tecnologico, sino alle attuali interfacce immersive (Dede, 2009) che costituiscono un riferimento per il metodo didattico da noi elaborato.
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– imparare ad usare tali strategie risolvendo un numero di compiti molto maggiore di quanto lo studente affronterebbe nella normale pratica didattica; – interiorizzare tali strategie in tempi brevi.
Chiaramente, affinché tutti gli studenti possano sviluppare questo tipo di esperienza occorre che essi siano adeguatamente sostenuti nel pianificare la loro strategia di calcolo e siano fortemente coinvolti in questo tipo di attività. La nostra ricerca ci ha permesso di verificare che oggi è possibile far compiere agli alunni questo tipo di esperienza, grazie all’uso della tecnologia dei tablet. Infatti, negli ultimi due anni, attraverso un progetto della regione Liguria, è stata sviluppata una applicazione funzionante su iPad dal nome GimmeFive per gli scopi sopra indicati. Questo lavoro ha come obiettivo la presentazione dei risultati di una sperimentazione che è stata effettuata per valutare questo metodo didattico e l’illustrazione del ruolo cruciale svolto dalla tecnologia nel rendere possibile il suo impiego anche con bambini a basso rendimento in ambito aritmetico.
3. Strategie coinvolte nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a più cifre
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Le strategie di più basso livello usate dai bambini nel loro approccio al calcolo mentale di addizioni e sottrazioni sono basate sulla conta. all’inizio, i bambini implementano queste strategie supportando il processo di conta attraverso l’uso delle dita. Carpenter e Moser (1984) hanno mostrato che queste strategie possono essere di tipo counting-all (per esempio, per calcolare 3+5 il bambino parte da 1 ed enumera in sequenza i due addendi sino ad arrivare a 8, aiutandosi con le dita) oppure di tipo counting-on (il bambino parte dal valore cardinale di uno degli addendi, per esempio 5, e conta in avanti per il valore dell’altro addendo sino ad arrivare a 8, eventualmente aiutandosi con le dita). Inoltre, Carpenter e Moser hanno evidenziato che le strategie non basate sulla conta sono le strategie known fact e le strategie derived fact. Le prime sono centrate sul richiamo del risultato del calcolo dalla propria memoria, in quanto fatto aritmetico conosciuto e memorizzato verbalmente nella memoria a lungo termine (5+3 fa 8!), le seconde sono basate su un processo di decomposizione di uno o di entrambi gli addendi per poter derivare il risultato da fatti aritmetici conosciuti (13+5= 18 perché 13 è 10+3 e 3+5 fa 8, quindi 10+8 fa 18). Le strategie derived fact evolvono con l’esperienza e con l’esecuzione di calcoli mentali via via più complessi. La ricerca ha evidenziato che nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a più cifre possono essere mobilitati tre tipi di strategie derived fact e più precisamente strategie di decomposizione, strategie sequenziali, strategie di compensazione (e.g., Beishuizen, 1993; Blöte, Klein, & Beishuizen, 2000; Reys, Reys, Nohda, & Emori, 1995; Lucangeli, Tressoldi, Bendotti, Bonanomi, & Siegel, 2003). Le strategie di decomposizione sono strategie in cui i due numeri coinvolti nel calcolo sono visti principalmente come oggetti dotati di una struttura decimale, quindi decomposti in base a tale struttura (i.e., in centinaia, decine e unità)
III. Esiti di ricerca
con il fine di sommare o sottrarre separatamente le varie parti della struttura per poi ricomporre nel risultato i calcoli parziali effettuati. Questa strategia, conosciuta in letteratura anche come strategia 1010, può essere esemplificata nel modo seguente: 34+27=; 30+20=50; 4+7=11; 50+11=61 64-39=; 60-30=30; 4-9=-5; 30+(-5)=25
Esiste una variante di questa strategia, conosciuta in letteratura come strategia 10s che crea minori problemi nella soluzione di sottrazioni. Questa strategia presenta le caratteristiche riportate nei seguenti esempi: 34+27=; 30+20=50; 50+4=54; 54+7=61 oppure 54+6+1=61 64-39=; 60-30=30; 30+4=34; 34-9=25 oppure 34-4-5=25
Le strategie sequenziali, invece, sono strategie nelle quali solo il secondo numero viene decomposto nella struttura decimale (i.e. centinaia, decine, unità) per far si che queste parti possano essere sequenzialmente sommate o sottratte al primo numero. Questa strategia, conosciuta in letteratura anche come strategia N10, può essere esemplificata nel modo seguente: 34+27=; 34+20=54; 54+7=61 oppure 54+6+1=61 64-39=;64-30=34; 34-9=25 oppure 34-4-5=25
Infine, le strategie di compensazione sono strategie in cui i due numeri coinvolti nel calcolo sono visti come oggetti che possono essere strutturati in modi diversi, sfruttando specifiche proprietà aritmetiche, con il fine di giungere ad una forma rappresentativa del calcolo che renda la sua esecuzione molto più facile da essere eseguita mentalmente. 34+27=;34+30=64; 64-3=61 64-39=; 64-40=24; 24+1=25
oppure 34+27=; 31+30=61 oppure 64-39=; 65-40=25
Le strategie descritte sono giustificate dalle proprietà delle operazioni ma il soggetto che le pratica può non essere consapevole di ciò. Esse possono essere eseguite a diversi livelli di interiorizzazione e generalizzazione. Per esempio, ad un livello inferiore lo studente può essere in grado di mobilitare tali strategie avvalendosi dell’aiuto di specifiche rappresentazioni esterne, come la linea dei numeri o le rappresentazioni disponibili con un software interattivo come GimmeFive. ad un livello superiore può essere in grado di realizzarle in modo puramente mentale, sapendo anche esplicitare i passaggi compiuti (Verschaffel et al., 2007). Queste strategie non vengono normalmente usate spontaneamente dagli studenti con basso rendimento in ambito aritmetico (Denvir &Brown, 1986; Gervasoni, Hadden & Turkenburg, 2007). Questi studenti tendono ad usare la strategia in cui si sentono più sicuri, e questa generalmente coincide con la strategia basata sulla conta (spesso supportata dall’uso delle dita) o sull’esecuzione mentale dell’algoritmo dell’operazione scritta (Wright, Ellemor-Collins, & Lewis, 2007). anno III | n. 1 | 2015
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4. Le funzionalità di GimmeFive
GimmeFive5 è una applicazione funzionante su iPad che è stata sviluppata per coinvolgere tutti gli studenti in attività volte a sviluppare, da una parte, la padronanza delle relazioni additive dei numeri entro il 10, il 100 e il 1000 e, dall’altra, la capacità di sfruttare queste relazioni per decomporre e ricomporre in modo intelligente i numeri coinvolti nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni utilizzando le strategie descritte nella sezione precedente. GimmeFive si compone di 8 ambienti. I primi 5 ambienti supportano lo sviluppo delle competenze che costituiscono un prerequisito per lo sviluppo del calcolo mentale di addizioni e sottrazione a più cifre e più in particolare la capacità di:
– Gestire le relazioni additive tra numeri con risultato minore o uguale a 10; – Decomporre numeri entro il 10 usando come base della decomposizione il numero 5 per determinare il risultato di addizioni entro il 20; – Gestire relazioni additive tra decine, tra centinaia, …
90
Gli ultimi tre ambienti sono volti a supportare lo sviluppo di strategie sequenziali, di decomposizione e di compensazione che possono essere coinvolte nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni. Una descrizione dettagliata degli ambienti di cui l’ applicazione si compone è riportata al seguente indirizzo: http://www.alnuset.com/it/gimmefive. Questi ambienti sono stati progettati per consentire agli studenti di usare i gesti tipici della tecnologia dei tablet (touch e drag) per attualizzare concretamente le strategie usate dagli esperti nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a più cifre e metterli nelle condizioni di poter fare esperienza di queste strategie, risolvendo una quantità di compiti molto maggiore di quanto essi realizzerebbero nella praticata didattica ordinaria. analizziamo ora attraverso un esempio come gli ultimi tre ambienti di GimmeFive possano creare le condizioni per consentire allo studente di fare un’esperienza immersiva delle strategie sequenziali, di decomposizione e di compensazione usate dagli esperti nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni. La prima immagine della Fig.1 mostra come il compito appare sul display di GimmeFive. Il touch sul primo e poi sul secondo addendo del compito produce il risultato riportato nella seconda immagine. La decomposizione in parti dei due addendi, tipica della strategia 1010 prodotta mentalmente da un esperto, è incorporata nel gesto del touch che l’alunno può inizialmente attivare attraverso un approccio esplorativo oppure in modo guidato dal tutor.
5
GimmeFive è stata realizzata dall’Istituto per le Tecnologie Didattiche del CNR in collaborazione con la società DiDiMa srl nell’ambito di un progetto finanziato da Fondo Sociale Europeo Regione Liguria 2007-2013 asse IV.
III. Esiti di ricerca
Fig. 1: Esempio di esperienza di calcolo mentale con GimmeFive
Effettuata la decomposizione, il drag applicato sul numero 60 produce l’effetto riportato nella terza immagine. Questo processo reifica quanto la persona esperta compie mentalmente dopo la decomposizione dei due addendi: sommare separatamente le varie parti della struttura, per poi riassemblarle nel risultato. Per comprendere come si esegua la somma delle parti consideriamo la quarta immagine: il touch sul primo operando del quarto passaggio determina la selezione del calcolo da compiere e predispone l’interfaccia per poterlo eseguire. Mediante una barra a scorrimento dei numeri lo studente può selezionare il risultato del calcolo (il numero 90 nell’immagine) e trascinarlo nella cella preposta ad accoglierlo. Questa procedura viene applicata sia per svolgere i vari calcoli parziali che per trovare il risultato finale del calcolo. Quanto descritto fa riferimento alla strategia di decomposizione 1010. osserviamo, però, che tutte le strategie di calcolo mentale di addizione e sottrazione a più cifre descritte nella precedente sezione possono essere reificate nel funzionamento dell’applicazione e possono quindi essere concretamente attualizzate nello svolgimento di questi calcoli.
5. Contesto della sperimentazione
L’applicazione è stata sperimentata in un contesto controllato con due gruppi di studenti a basso rendimento in ambito aritmetico e, più in particolare, con un gruppo di 4 studenti con difficoltà di apprendimento in aritmetica e con un gruppo di 6 studenti con discalculia. Gli studenti, di età compresa tra 8 anni e 10 mesi e 11 anni e 11 mesi frequentavano le ultime due classi della scuola primaria e le prime due classi della scuola media (dettagli in Tabella 1). Entrambi i gruppi di studenti erano seguiti presso il Centro Leonardo di Genova che è stato coinvolto nella sperimentazione. L’attestazione di difficoltà di apprendimento e la diagnosi di discalculia sono state compiute presso questo centro dopo aver sottoposto i bambini a prove standardizzate che forniscono parametri per valutare la correttezza e la rapidità nel calcolo mediante la Batteria per la Discalculia Evolutiva – BDE (Biancardi, Morioni & Pieretti, 2004) e dopo aver verificato, con training specifico, una resistenza al trattamento da parte del gruppo di bambini a cui è stata di conseguenza riconosciuta la discalculia.
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Tab. 1: Studenti coinvolti nella sperimentazione
La sperimentazione con questi due gruppi di studenti si è limitata allo sviluppo di strategie sequenziali e di decomposizione relative al calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a due cifre e si è basata sul confronto tra le prestazioni dei due gruppi di studenti all’inizio e al termine della sperimentazione. Tutti gli studenti hanno iniziato l’attività a partire dal primo ambiente di GimmeFive e, in successione, hanno operato in tutti gli ambienti ad eccezione dell’ultimo. I tutor che hanno seguito gli studenti nella sperimentazione sono collaboratori del Centro Leonardo che hanno ricevuto una specifica formazione sulle tematiche al centro dell’indagine per poter gestire con sicurezza le attività. La sperimentazione è stata condotta in base ad un protocollo condiviso tra ricercatori e tutor. anche i genitori degli studenti sono stati coinvolti: si sono assunti l’impegno di monitorare i propri figli a casa durante lo svolgimento dei compiti assegnati loro dai tutor e di compilare giorno per giorno un resoconto dell’attività svolta. Il protocollo della sperimentazione prevedeva: Un incontro settimanale tra tutor e studente della durata di circa 45 minuti. all’inizio di ogni incontro il Tutor verificava la prestazione dello studente relativa all’attività svolta nell’incontro precedente (prendendo nota degli errori commessi e del tempo impiegato nell’esecuzione di un set di 10 compiti). Quindi introduceva la nuova attività con GimmeFive fornendo il supporto indicato dal protocollo di gestione dell’attività. al termine dell’incontro verificava la prestazione relativa alla sessione di lavoro corrente (prendendo nota degli errori commessi e del tempo impiegato nell’esecuzione di un set di 10 compiti). Il tutor, infine, assegnava allo studente i compiti da svolgere a casa; Un’attività giornaliera che lo studente svolgeva a casa, della durata media di 10 minuti, monitorata dai genitori, che consisteva nello svolgimento di 2-3 sequenze di 10 esercizi con GimmeFive. I genitori dovevano ogni volta registrare in una griglia il numero di compiti svolti a casa dai loro figli e il tempo impiegato. La sperimentazione è iniziata alla fine del mese di ottobre 2014 e si è protratta sino alla prima decade di febbraio 2015 (3 mesi e mezzo, comprensivi delle va-
III. Esiti di ricerca
canze di Natale) e ha contemplato 12 o 13 incontri tra bambini e tutor. Nel corso della sperimentazione le disposizioni del protocollo sono state eseguite con cura da parte di tutti i tutor e dalla maggioranza dei genitori (con due eccezioni).
6. Strumenti usati nella valutazione del metodo didattico
Prima di iniziare la sperimentazione tutti gli studenti sono stati sottoposti al test BDE per quanto riguarda i sottotest di calcolo mentale con risultato < 10 (BDE_1) e > 10 (BDE_2) riportati nelle seguenti in Tab. 2 e Tab. 3 che sono stati ritenuti ! ! adeguati! al tipo di! sperimentazione che volevamo compiere. ! ! ! !
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Tab. 4: Test su addizioni e sottrazioni a due cifre
Le 5 addizioni e 5 sottrazioni riportate nella prima riga della tabella 3 sono state proposte in modo orale, mentre quelle riportate nella seconda riga della tabella 3, di difficoltà analoga alle precedenti, sono state proposte anche in forma lineare scritta. Per ognuno di questi due test sono state registrate le risposte e il tempo di esecuzione sia delle addizioni che delle sottrazioni. La somministrazione del test in forma lineare scritta, di difficoltà analoga a quello presentato in forma orale, è stata ritenuta necessaria per verificare l’acquisizione o meno delle strategie in studenti che presentavano anche un deficit nella memoria di lavoro. I dati dei test sono stati sottoposti ad una elaborazione di tipo statistico. Sono stati confrontati i risultati al test BDE all’inizio ed al termine della sperimentazione tramite un’analisi di varianza per misure ripetute nella quale veniva considerato un fattore di variabilità tra soggetti, cioè la presenza di discalculia, e 2 fattori entro soggetti, cioè il tipo di operazione (risultato minore o maggiore di 10) e la fase della sperimentazione (inizio e fine). I risultati dei test di Tab. 4 non consentivano una valutazione diretta dell’effetto della sperimentazione in quanto eseguiti solo nella fase finale e sono stati anno III | n. 1 | 2015
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esaminati con analisi multivariata della varianza per misure ripetute per valutare se, in presenza di operazioni relativamente complesse, si riscontrassero differenze sia nei punteggi che nei tempi di esecuzione relativamente al fattore tra soggetti (presenza della discalculia) e ai due fattori entro soggetti, cioè tipo di operazione (addizione/sottrazione) e forma di presentazione (scritta/orale). Infine, tutti gli studenti sono stati sottoposti a due questionari, uno all’inizio e uno al termine della sperimentazione per acquisire, con il primo, informazioni sul loro rapporto con il calcolo maturato nell’esperienza pregressa, con il secondo, informazioni sulla loro percezione dell’esperienza di calcolo compiuta in questa sperimentazione. La valutazione dei miglioramenti conseguiti dagli studenti attraverso l’applicazione del metodo didattico descritto in precedenza si basa su diversi elementi: l’analisi dei dati relativi ai test descritti, le rilevazioni effettuate dal tutor all’inizio e al termine di ogni sessione di lavoro con gli studenti, i dati forniti dai genitori, i dati raccolti con i due questionari.
7. Analisi dei dati della sperimentazione
7.1 Analisi dei dati dei test
94
all’inizio della sperimentazione tutti gli alunni mostravano risultati al di sotto dei valori medi di riferimento al test BDE: in particolare 8 alunni su 10 nel sottotest BDE_1 e 3 alunni su 10 nel sottotest BDE_2 conseguivano un punteggio sotto la soglia ottenuta sottraendo 2 deviazioni standard alla media (in accordo con le disposizioni del Consensus Conference del 2009). al termine dell’esperimento gli alunni con punteggi sotto-soglia si riducevano a 3 per il test BDE_1 e a 2 per il test BDE_2. L’analisi di varianza indicava un significativo incremento del punteggio al termine della sperimentazione (F1,8=16.99, p=0.0033), una significativa differenza in base al tipo di operazione (F1,8=14.25, p=0.0054), cioè un punteggio medio migliore nelle operazioni con numeri maggiori di 10 rispetto a quelle con numeri inferiori a 10, ed un’interazione tra questi due fattori (F1,8=19.37, p=0.0023) indicativa di un progresso maggiore per le operazioni con risultato inferiore a 10. La presenza di discalculia si associava a punteggi lievemente più bassi ma la differenza non raggiungeva la significatività statistica (F1,8=4.76, p=0.061) e non emergevano interazioni con gli altri fattori. Per quanto riguarda i due test effettuati al termine della sperimentazione e riportati in Tab. 3, il numero di risposte corrette e i tempi di esecuzione dei due gruppi di studenti nel test di addizioni e sottrazioni sono riportati in Tab. 5 (presentazione solo orale) e in Tab. 6 (presentazione in forma lineare scritta6).
6
In queste due tabelle non abbiamo tenuto conto dei risultati di due studenti discalculici in quanto quest’ultimi, nell’ultima parte della sperimentazione centrata proprio sullo sviluppo delle strategie di calcolo mentale, non hanno più svolto il lavoro assegnato per casa secondo le indicazioni del protocollo della sperimentazione e la loro prestazione non può essere pertanto confrontata con quella degli altri studenti che, invece, hanno seguito pienamente tali indicazioni.
III. Esiti di ricerca
Tab. 5: Risultati test addizioni e sottrazioni presentate in modo solo orale ! ! !
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Nell’analisi multivariata della varianza applicata a questi due test è risultato significativo solamente il fattore associato alla modalità di somministrazione del test (F2,8=5.69, p=0.029) per cui la presentazione scritta si è associata ad un aumento della correttezza delle risposte (anche se con alcune interessanti eccezioni, come vedremo successivamente,) e ad una diminuzione del tempo di esecuzione. La presenza di discalculia ed il tipo di operazione (addizione/sottrazione) non hanno evidenziato effetti significativi. Il confronto dei dati delle tabelle 5 e 6 mette in evidenza anche altri aspetti interessanti e cioè che: La prestazione degli studenti con discalculia nella soluzione di addizioni presentate in modo orale è un’ottima prestazione (un solo errore: 48+36=74), migliore di quella dei soggetti con difficoltà di apprendimento e addirittura migliore di quella da loro realizzata nel test somministrato in forma anche lineare scritta. Nell’eseguire mentalmente addizioni a due cifre, la modalità della somministrazione non ha inciso sulla correttezza delle risposte fornite dagli studenti discalculici. La modalità di somministrazione, invece, ha inciso sul tempo di esecuzione delle strategie di calcolo mentale delle addizioni, in quanto la somministrazione solo orale ha aumentato il carico cognitivo coinvolto nella memorizzazione e nel recupero dei dati numerici di ciascun compito; La prestazione degli studenti discalculici nella soluzione di sottrazioni è mi-
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gliore con la somministrazione effettuata in forma lineare scritta in cui non si registra alcun errore. Nei compiti di sottrazione la modalità di somministrazione ha inciso sia sul tempo di esecuzione delle strategie di calcolo mentale delle sottrazioni, sia sul controllo della correttezza della strategia nei compiti più complicati. È importante notare che nel test somministrato in modo orale, tutti gli errori compiuti da questi studenti (tranne un caso) riguardano le due sottrazioni in cui il valore delle unità del sottraendo è maggiore di quello delle unità del minuendo (quindi nelle sottrazioni di maggiore difficoltà); La prestazione degli studenti con difficoltà di apprendimento in aritmetica non è significativamente diversa da quella degli studenti con discalculia. I dati riportati nelle due tabelle mostrano che anche con questi alunni le modalità di somministrazione hanno inciso sia sul tempo di esecuzione delle strategie di calcolo mentale di addizioni e sottrazioni sia sulla correttezza delle risposte. 7.2 Analisi di un caso
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Per comprendere il tipo di mediazione fornito dall’uso di GimmeFive nello sviluppo di competenze nel calcolo mentale, riportiamo di seguito la sintesi di un’analisi tratta dalle osservazioni e dai rilevamenti effettuati dai tutor sul comportamento di uno studente durante la sperimentazione. Carlo frequenta la 5 classe della scuola primaria ed è stato diagnosticato discalculico. all’inizio della sperimentazione Carlo era in grado di eseguire solo semplici calcoli appoggiandosi sull’uso delle dita. In precedenza Carlo aveva già partecipato ad un training che gli aveva permesso di familiarizzare con i numeri “amici del 10”. Prima della sperimentazione Carlo fornisce 7 risposte esatte su 12 nel test BDE_1 e 18 risposte esatte su 20 nel test BDE_2. Lo studente partecipa alle attività della sperimentazione con grande impegno. Non ha difficoltà a svolgere le prime cinque attività volte alla costruzione dei prerequisiti che impara a realizzare molto velocemente. Infatti, i dati raccolti nel corso della sperimentazione indicano che Carlo impiega meno di un minuto per svolgere in modo corretto i 10 compiti di ciascuna delle prime quattro attività e circa 3 minuti per svolgere la quinta attività. operando nel sesto ambiente di GimmeFive, tramite il touch sui numeri Carlo comincia a fare esperienza della possibilità di decomporre numeri e, mediante il drag, di spostarli per poterli accorpare tra loro in modo diverso usando una strategia di complemento a 10 o una decomposizione su base 5. Nel quinto incontro il tutor fa operare Carlo con addizioni a due cifre e lo introduce all’uso della strategia 1010 che lo studente impara velocemente ad eseguire con l’aiuto di GimmeFive. Emergono difficoltà nella gestione di calcoli che comportano il passaggio della decina e Carlo è aiutato dal tutor a trovare una strategia mediata dall’applicazione per superarla. Nel sesto incontro il tutor introduce la strategia N10 affrontando addizioni a due cifre e le stesse vengono riprese anche nell’incontro successivo. Carlo impara ad usare la strategia N10 reificandola concretamente sul display attraverso il supporto fornito da GimmeFive. Nell’incontro successivo il tutor introduce compiti di addizioni a tre cifre. Risolvendo questo tipo di compiti emergono difficoltà nella memorizzazione di risultati parziali (quando lo studente cerca di ridurre i passaggi risolutivi con GimmeFive) e nella verbalizzazione corretta dei numeri, ed è aiutato dal tutor. a casa, durante la setIII. Esiti di ricerca
timana Carlo si impegna molto e svolge ogni giorno almeno due set di 10 esercizi ciascuno. Nell’incontro successivo, durante la verifica iniziale si notano miglioramenti. L’attività con le addizioni prosegue sino al nono incontro quando, con il supporto di GimmeFive, vengono introdotte le strategie di soluzione di sottrazioni mediante la decomposizione del minuendo o del sottraendo o di entrambi. Grazie al supporto fornito da GimmeFive che consente di reificare sia la strategia 1010 che la strategia N10 della sottrazione, Carlo impara abbastanza velocemente entrambe le strategie. Dal nono incontro sino al termine della sperimentazione (dodicesimo incontro) Carlo continua a svolgere calcoli mentali di addizioni e sottrazioni a due cifre. In questa fase si nota un decremento costante nell’uso del supporto fornito da GimmeFive. Carlo non ha più bisogno di reificare la strategia per mezzo dell’applicazione, ma la realizza mentalmente e fornisce direttamente il risultato. Questo è il segno che le strategie sono state da lui interiorizzate. al termine della sperimentazione, nel test BDE_1 Carlo risponde correttamente a 11 domande su 12 mentre nel BDE_2 risponde correttamente a 20 domande su 20. Nel test somministrato in modo orale Carlo fornisce, nelle addizioni, 5 risposte esatte su 5 in 1’ e 43’’ e, nelle sottrazioni, 4 risposte esatte su 5 in 1’ e 30’’ (sbaglia 82-34=52). Nel test somministrato in forma lineare scritta Carlo fornisce, nelle addizioni, 3 risposte esatte su 5 in 58’’ (sbaglia 34+23=11, sicuramente come effetto di trascinamento del test precedente che era di sottrazione e 38+26=25), nelle sottrazioni, 5 risposte esatte su 5 in 1’. 7.3 Analisi dei dati del questionario
Prima di effettuare la sperimentazione agli studenti sono state sottoposte una serie di domande volte ad acquisire informazioni sul loro rapporto con il calcolo. Le loro risposte evidenziavano che il livello di ansia alla richiesta di calcoli mentali era molto elevato e conseguentemente il senso di autoefficacia di fronte alla prestazione molto basso. al termine della sperimentazione agli studenti sono state proposte 7 domande volte ad acquisire informazioni relative alla loro percezione dell’esperienza compiuta nella sperimentazione. Con la prima domanda si è chiesto ad ogni alunno di esprimere, mediante una scala di valori da 1 a 4 (1 Per nulla – 2 Poco – 3 abbastanza - 4 Molto ) se l’attività avesse cambiato il suo rapporto con la matematica. Tutti gli studenti hanno scelto il valore 3 (abbastanza). Con la seconda domanda si è chiesto ad ogni alunno se operando con GimmeFive avesse imparato cose che prima non sapeva fare e di indicare quali. Tutti hanno risposto che avevano imparato ad usare strategie di calcolo mentale. Con la terza domanda si è chiesto all’alunno di indicare con una scala da 1 a 4, quanto sia importante conoscere strategie per eseguire un calcolo mentale. La maggioranza ha risposto 4, cioè molto. Con la quarta e la quinta domanda si è chiesto ad ogni alunno di indicare come eseguiva il calcolo mentale di addizioni e sottrazioni prima di effettuare questa sperimentazione e come lo esegue ora. Tutti gli alunni hanno affermato che prima della sperimentazione contavano con le dita, due alunni hanno precisato che non eseguivano alcun calcolo a mente, due studenti hanno fatto riferianno III | n. 1 | 2015
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mento all’incolonnamento mentale dei numeri usato nel calcolo scritto. Riguardo al loro comportamento attuale, tutti gli studenti hanno evidenziato di usare le strategie apprese operando con GimmeFive. Con la sesta e settima domanda si è chiesto agli studenti di indicare con una scala da 1 a 4, quanto conoscere strategie per eseguire il calcolo li renda più sicuri (sesta domanda) e tolga loro ansia e paura (settima domanda). Nella sesta domanda la maggioranza degli studenti ha fornito come risposta il valore 4, nella settima il valore 3.
8. Discussione
Riteniamo che i risultati conseguiti dai due gruppi di studenti nei due test BDE evidenzino che:
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– all’inizio della sperimentazione la maggioranza degli studenti non aveva ancora memorizzato fatti aritmetici elementari (8/10 alunni non superavano la soglia al test BDE_1). Il confronto tra i risultati nel test BDE_1 prima e dopo la sperimentazione mette in evidenza un netto miglioramento nella memorizzazione di fatti aritmetici elementari (con risultato <10) da parte degli studenti con discalculia e con difficoltà di apprendimento: degli 8 studenti sotto la soglia alla prova iniziale 5 la superano alla prova finale. Infatti gli studenti che prima della sperimentazione non riescono a rispondere alle domande nel tempo concesso per la risposta (2 secondi per ciascuna domanda), migliorano dopo la sperimentazione. Si noti che, in questo caso, il tempo molto breve concesso per la risposta ha impedito loro di attuare una strategia di conta; – Il fatto che gli studenti all’inizio della sperimentazione abbiano dimostrato una migliore prestazione nel test BDE_2 rispetto al test BDE_1 non deve sorprendere. Notiamo che nel test BDE_2, sia per quanto riguarda le addizioni che le sottrazioni, sono presenti 6 domande su 10 che, nel tempo assegnato per rispondere (15 s), possono essere affrontate attraverso una strategia di conta (supportata dall’uso delle dita) e, in effetti, la maggioranza degli studenti ha utilizzato questa strategia per rispondere alle domande. In questo test l’analisi delle prestazioni degli studenti mostra che gli errori o le non risposte sono concentrate praticamente sulle 4 domande finali. Complessivamente, però, queste domande incidono poco sul risultato finale del BDE_2. Per questa ragione, il confronto tra i risultati nel test BDE_2 prima e dopo la sperimentazione mette in evidenza un miglioramento meno marcato nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni rispetto al test BDE_1; – Coloro che al termine della sperimentazione sono ancora sotto la soglia di normalità nei due test sono due studenti che hanno svolto la sperimentazione non aderendo completamente alle disposizioni del protocollo. Si tratta di due studenti che hanno partecipato agli incontri settimanali con i tutor ma che non hanno più svolto a casa i compiti assegnati, soprattutto nell’ultima fase della sperimentazione centrata sullo sviluppo delle strategie. I risultati di questi due studenti sono stati successivamente esclusi dall’analisi dei dati relativi al test riportato in Tab. 4. III. Esiti di ricerca
– I test BDE_1 e BDE_2 non permettono di valutare appieno i miglioramenti prodotti dal metodo usato nella sperimentazione nello sviluppo di strategie di calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a più cifre. Per questo motivo, al termine della sperimentazione abbiamo sottoposto tutti gli studenti ai test riportati in Tab. 4. – L’analisi multivariata della varianza applicata a questi due test mostra che il fattore della somministrazione del test in forma lineare scritta ha prodotto un significativo effetto positivo sulla correttezza delle risposte e una diminuzione del tempo di esecuzione rispetto alla somministrazione solo orale. Questi due risultati erano abbastanza prevedibili. Meno prevedibile era il tipo di prestazione che gli studenti avrebbero prodotto in questi due test che sono di difficoltà superiore a quella dei test BDE. Il computo delle risposte corrette nei due test e l’analisi degli errori compiuti dagli studenti mostra che: – I due gruppi di studenti coinvolti nella sperimentazione hanno imparato a gestire strategie sequenziali e di decomposizione nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni: riteniamo infatti che l’applicazione di queste strategie fosse necessaria per eseguire correttamente i test nei tempi rilevati. L’acquisizione di questa competenza da parte di studenti con discalculia o difficoltà di apprendimento costituisce un risultato rilevante anche se, in alcuni casi, permangono alcune incertezze nell’esercitare un pieno controllo della strategia nei compiti che presentano maggiori difficoltà; Non vi è differenza significativa nella prestazione dei due gruppi di studenti. Questo significa che anche gli studenti con discalculia hanno imparato a gestire strategie sequenziali e di decomposizione per effettuare il calcolo mentale di addizioni e sottrazioni. all’inizio della sperimentazione non era assolutamente scontato che avremmo potuto ottenere i risultati emersi in questi test, soprattutto da parte degli studenti con discalculia. Colpisce il fatto che l’apprendimento delle strategie di calcolo mentale sia avvenuto in un arco di tempo piuttosto breve e che riguardi tutti gli studenti che hanno seguito con impegno costante la sperimentazione attenendosi alle indicazioni del protocollo. – Le osservazioni e le verifiche compiute dai tutor durante gli incontri con gli studenti ci hanno permesso di comprendere meglio la mediazione fornita dal sistema GimmeFive sia nella costruzione dei prerequisiti per il calcolo mentale sia nello sviluppo di strategie sequenziali e di decomposizione coinvolte nella soluzione di addizioni e sottrazioni. Seguendo i vari studenti nel corso della sperimentazione abbiamo verificato che: – I supporti di tipo visuale e le particolari caratteristiche dell’interazione disponibili nei primi 5 ambienti di GimmeFive hanno permesso lo sviluppo di una pratica didattica immersiva che ha consentito a tutti gli studenti di sviluppare in breve tempo (circa un mese o un mese e mezzo, a seconda degli studenti) la capacità di: gestire le relazioni additive tra numeri con risultato minore o uguale a 10; decomporre numeri entro il 10 usando come base della decomposizione il numero 5 per determinare il risultato di addizioni entro il 20; gestire relazioni additive tra decine e tra centinaia; – Le particolari caratteristiche di visualizzazione e di interazione disponibili con il sesto e settimo ambiente di GimmeFive hanno consentito agli studenti di fare una concreta esperienza immersiva delle strategie di calcolo mentale che le persone esperte usano nella soluzione di addizioni e sottrazioni a più cifre. anno III | n. 1 | 2015
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La tecnologia dei tablet ha consentito di reificare queste strategie attraverso semplici gesti. Mediante il touch e il drag sui numeri che apparivano sul display gli studenti hanno potuto entrare in contatto con le strategie che gli esperti usano nel calcolo mentale e hanno potuto fare esperienza di esse mobilitando le proprie capacità di tipo visuale, spaziale e motorie, nonché le competenze apprese nella fase di costruzione dei prerequisiti.
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Le risposte fornite dagli studenti al questionario mostrano che entrambi i gruppi di studenti coinvolti nella sperimentazione hanno modificato profondamente il loro comportamento nel calcolo mentale di addizioni e sottrazioni a più cifre. Le risposte di tutti gli studenti evidenziano che il processo attuato con la sperimentazione li ha resi più sicuri e meno soggetti a problemi sul piano emotivo. Sentire di possedere delle strategie e sperimentare di saper risolvere calcoli anche complessi ha influenzato positivamente la loro auto-stima e ha migliorato gli aspetti emotivo-relazionali connessi al calcolo . La loro percezione dei cambiamenti intervenuti con la sperimentazione collima con quella dei tutor e dei genitori. Questi ultimi, al termine della sperimentazione, hanno espresso un giudizio positivo sull’esperienza compiuta perché hanno visto concretizzarsi modifiche sostanziali nel comportamento e nelle prestazioni dei ragazzi in questo tipo di attività. Le indicazioni emerse da questo studio sono supportate da risultati statisticamente significativi. Il presente studio si è proposto di analizzare le differenze tra discalculia e difficoltà di apprendimento avendo classificato in fase preliminare gli studenti in base alla risposta al trattamento convenzionale ma in considerazione dei risultati ottenuti può essere interessante una valutazione più estesa dell’efficacia del metodo con la possibile inclusione di un gruppo di controllo di studenti con discalculia ed un percorso di apprendimento con strumenti tradizionali.
9. Conclusione
La sperimentazione ha confermato l’ipotesi alla base di questa ricerca e cioè che sia possibile sviluppare la capacità di usare strategie di calcolo mentale per risolvere mentalmente addizioni e sottrazioni a più cifre anche negli alunni che evidenziano un basso rendimento nel calcolo aritmetico. La sperimentazione ha mostrato che questo obiettivo può essere concretamente perseguito per mezzo di un ambiente come GimmeFive nel quale questi studenti, con la guida di un tutor esperto della materia, possano compiere un ricca esperienza didattica immersiva di calcolo mentale volta a esplorare l’utilità e l’efficacia delle strategie sequenziali, di compensazione e di decomposizione usate dagli esperti in questo calcolo e possano apprendere tali strategie avvalendosi del supporto cognitivo fornito dall’ambiente in cui operano. Il metodo didattico usato in questa sperimentazione controllata può costituire un riferimento per migliorare la didattica relativa al calcolo mentale e renderla maggiormente inclusiva. Come evidenziato nell’introduzione di questo articolo, al calcolo mentale viene oggi assegnato un valore formativo molto importante, ma le pratiche didattiche relative al suo sviluppo nelle classi risultano ancora poco efficaci e incapaci di includere nelle attività gli studenti che presentano bisogni speciali. III. Esiti di ricerca
Il nostro studio mostra che il metodo usato nella sperimentazione è in grado di incidere positivamente sull’apprendimento sia di studenti con difficoltà di apprendimento sia di studenti con discalculia. Questo costituisce una premessa importante che apre la strada allo studio di come questo metodo possa essere implementato nelle classi per consentire lo sviluppo di una pratiche didattica inclusiva in questo campo.
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Inclusive assessment design: una ricerca in una scuola secondaria di primo grado
The aim of the present study is to investigate the opportunities offered by a project for inclusion that has been realised in a secondary school. Specifically the study is aimed to propose a design and assessment model oriented to promote participation of all the actors. Several instruments (questionnaire, check-list, rubric, semi-strucutred interview, sociogram) have been used in order to obtain narrative and structured data. Results are discussed through an ecological perspective based on bio-psicho-social model (ICF, WHO, 2001) and on Index for Inclusion (Booth & Ainscow, 2002).
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: inclusion, disability, ICF, Index for inclusion, ecological model
III. Esiti di ricerca Debora Aquario ed Elisabetta Ghedin, ricercatrici presso il Dipartimento Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA), Gilda Urli, Dottoressa Magistrale in Psicologia dello sviluppo e dell’educazione e insegnante. I paragrafi Introduzione, La valutazione per l’inclusione, Gli obiettivi e le domande di ricerca sono stati scritti da Debora Aquario; Il paragrafo La via dell’educazione inclusiva e Il valore della progettazione inclusiva sono stati scritti da Elisabetta Ghedin; il paragrafo La ricerca è stato scritto da Gilda Urli; il paragrafo Risultati da Debora Aquario e Gilda Urli; i paragrafi Strumenti e Discussione sono stati scritti dalle tre autrici.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Debora Aquario / Università degli Studi di Padova / debora.aquario@unipd.it Elisabetta Ghedin / Università degli Studi di Padova / elisabetta.ghedin@unipd.it Gilda Urli / gildurlix@yahoo.it
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Introduzione
Il presente studio muove da un’ottica ecologica e sistemica che promuove una visione del processo dello sviluppo umano di tipo dinamico e relazionale, in cui ciascuno è in relazione con i suoi sistemi di riferimento ed è la rete di interdipendenze che contribuisce a costruire il senso dell’intero processo. In base a questa visione, ogni considerazione isolata di singoli elementi è fuorviante, così come l’osservazione troppo specifica di singoli fattori, che, non tenendo conto della complessa rete di strutture in cui siamo immersi, non consentono di guardare al processo di sviluppo in un’ottica olistica (Bronfenbrenner, 1986; 2010). Tale prospettiva ecologica mette al centro l’individuo e la relazione con i suoi contesti di vita (esperienziali, fisici, sociali, culturali, ecc.), oltre alle relazioni tra i contesti, nel tentativo di comprendere e promuovere le possibilità di crescita e di ben-essere di ciascuno (Medeghini et al., 2013).
1. La valutazione per l’inclusione
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Interrogarsi sul senso che assume il processo valutativo in prospettiva ecologica diviene necessario per progettare un adeguato impianto valutativo di un intervento di promozione dell’inclusione (che è stato attuato e che sarà presentato nei paragrafi successivi). Coerentemente con la visione ecologica e sistemica che sostiene lo studio, il percorso di progettazione e valutazione dell’intervento che si è realizzato ha tenuto conto della rete di connessioni che fanno da sfondo ad un contesto di classe inclusiva, ponendo al centro le dimensioni della molteplicità e della differenziazione. Dimensioni che hanno caratterizzato sia la fase della progettazione (nella scelta e costruzione delle attività e dei metodi di lavoro) sia la fase della valutazione (nella varietà di strumenti impiegati, nel tenere conto di tutti gli attori del contesto). Questo modo di intendere la valutazione risulta vicino a ciò che la European Agency for Development in Special Needs Education definisce valutazione inclusiva (Watkins, 2007). In particolare, un progetto promosso nel 2005 dalla stessa Agenzia con l’intento di esaminare le politiche e le prassi riguardanti la valutazione scolastica nei contesti inclusivi, e conclusosi nel 2008 con la conferenza “Assessment in inclusive settings” (Cipro, 23-24 ottobre 2008), sostiene una definizione di valutazione inclusiva che considera tale processo un mezzo per promuovere la partecipazione e l’apprendimento di tutti e per fornire indicazioni che servano a migliorare la didattica: “Inclusive assessment is an approach to assessment in mainstream settings where policy and practice are designed to promote the learning of all pupils as far as possible. The overall goal of inclusive assessment is that all assessment policies and procedures should support and enhance the successful participation and inclusion of all pupils” (Watkins, 2007, p. 47). In primo luogo, i risultati del progetto suggeriscono la necessità di adottare molteplici fonti di informazione: ciò significa che adottare più strumenti e metodi, ciascuno dei quali fornirà informazioni di natura diversa, rappresenta un valore aggiunto perché permette di compiere delle scelte in base all’incrocio
III. Esiti di ricerca
tra dati provenienti da fonti differenti. Un secondo aspetto riguarda l’adeguatezza e l’importanza di un approccio partecipato alla valutazione, in cui, ad esempio nel contesto scolastico, non solo gli studenti diventano parte attiva del processo, ma insieme a loro, anche i genitori, i compagni di classe e gli altri attori del contesto. La multidimensionalità e l’approccio partecipato possono dunque essere considerati elementi chiave di un processo valutativo che si realizza in un contesto inclusivo, declinandosi innanzitutto nell’impiego di una molteplicità di strumenti per la raccolta di informazioni e, in secondo luogo, in un approccio che implica la partecipazione piena e significativa di tutti gli attori. Si tratta di una concezione di valutazione in netto distacco col passato, in quanto il focus non è più centrato sul singolo “caso”, ma, secondo una prospettiva ecologica e sistemica, avviene sulla base di diversi aspetti che prendono in considerazione dimensioni come l’accresciuta qualità del clima relazionale e degli scambi comunicativi, le posizioni di tutti coloro che fanno parte del contesto, le percezioni riguardanti il livello di inclusività, la partecipazione ai processi di insegnamento e apprendimento e alla vita scolastica in generale. La multidimensionalità, dunque, emerge anche come aspetto che investe il cosa valutare (oltre al come). Un ulteriore elemento rilevante riguarda i tempi della valutazione. Se lo scopo del processo è quello di restituire informazioni significative di ritorno (feedback) su quanto realizzato, una caratteristica fondamentale del processo deve essere rappresentata dalla continuità, ossia dall’attenzione verso una valutazione che avviene in ogni momento. Questo per testimoniare la crescita, l’evoluzione, ma soprattutto per dare la possibilità di utilizzare sempre il feedback perché abbia un’influenza sui passaggi successivi (Wiliam, 2012). Si delinea dunque una concezione “interattiva” della valutazione, basata su una dimensione di dialogo più che di controllo, come suggerisce anche il Progetto Daffodil (Dynamic Assessment of Functioning and Oriented at Development and Inclusive Learning), che, tra le linee guida per promuovere una valutazione inclusiva1, include diversi elementi (Lebeer et al., 2011), tra cui un modello bio-psico-sociale della disabilità (ICF, WHO, 2007), una concezione interattiva del processo valutativo e il costrutto di modificabilità di ciascun individuo (Feuerstein et al., 2006). Questi elementi caratterizzanti i nuovi significati attribuiti alla valutazione in ottica inclusiva divengono necessari per progettare un impianto valutativo coerente e appropriato, che sappia rispondere alle sfide poste dall’inclusione e possa anche permettere di orientare scelte future nella direzione del miglioramento, grazie ad un feedback costruttivo fornito dal processo valutativo stesso.
1
Daffodil (Dynamic Assessment of Functioning and Oriented at Development and Inclusive Learning) è un Progetto Europeo coordinato da Jo Lebeer (Università di Antwerp, Belgio). Alcuni dei risultati del progetto sono confluiti nell’elaborazione delle “Guidelines for a Dynamic and functional assessment oriented at development and inclusive learning”, Daffodil Project Group, 2011, Tutte le informazioni possono essere reperite al link: www.daffodilproject.org
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2. La via dell’educazione inclusiva
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Al cuore dell’educazione inclusiva assume particolare rilievo l’impegno a considerare l’educazione come elemento fondamentale per lo sviluppo sia degli individui che delle società. Negli ultimi 50 anni, la comunità internazionale ha promosso una visione dell’educazione definendola come la “necessaria UTOPIA” (Delors, 1997). Nel rapporto viene affermato che l’educazione non è semplicemente da considerarsi un meccanismo attraverso il quale gli individui acquisiscono un limitato set di abilità di base. Piuttosto, deve essere considerata come un fattore cruciale nello sviluppo personale e sociale e un valore indispensabile nel tentativo di perseguire ideali di pace, libertà e giustizia. L’obiettivo dell’educazione per il 21° secolo, infatti, non riguarda solo la gestione dei contenuti della conoscenza o l’uso di nuove tecnologie. L’obiettivo in realtà riguarda la gestione del processo stesso di apprendimento. L’educazione infatti dovrebbe promuovere negli individui il desiderio di apprendere, la capacità di apprendere in modo strategico, e la promozione di un percorso di vita orientato all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, a partire dal proprio modo personale e flessibile di imparare2 (Ghedin, 2014). Secondo quanto affermato l’educazione inclusiva rappresenta la possibilità di offrire opportunità per tutti gli studenti nell’essere studenti con talenti e potenzialità nelle scuole che essi frequentano. Un’ampia gamma di risorse – materiali di insegnamento, “accomodamenti ragionevoli” (Convenzione ONU, 2006), personale aggiuntivo, diversi approcci all’insegnamento, gli altri studenti/compagni – possono supportare gli studenti stessi nel compito di apprendere nei contesti scolastici. Il termine “supporto” o scaffolding fa riferimento, oltre a quanto già affermato anche a quelle risorse che l’insegnante di classe da solo o in team è in grado di fornire all’intera classe. La gamma e l’efficacia del supporto in questo senso è cruciale nel creare scuole in cui una variabilità di studenti sono in grado di apprendere. L’implementazione di sistemi più inclusivi di educazione è possibile solo se le scuole stesse sono impegnate nel diventare più inclusive (Booth & Ainscow, 2014). Lo sviluppo di politiche nazionali orientate all’inclusione, sistemi locali di supporto, appropriate forme di curricolo e di valutazione e cosi via sono importanti meccanismi che rendono possibile l’avvio di processi inclusivi. Tuttavia tali processi sono destinati a fallire se le scuole rimangono ostili o se essi falliscono nello sviluppare effettive pratiche inclusive. Dall’altro lato, esistono molte situazioni dove esempi di buone pratiche inclusive appaiono a livello scolastico ancora prima di qualsiasi impegno formale a livello nazionale verso l’inclusione. In questi contesti, le scuole possono rappresentare vettori/volani di sviluppo del sistema inclusivo. Oggi sembra sempre più affermarsi la visione secondo cui l’inclusione/esclusione non dipenda dalle differenti abilità/disabilità del bambino ma dai modi in cui queste differenze sono viste e processate dalla società. Laddove la società si avvia verso processi di inclusione dipende da coloro che hanno potere di influenzare la dimensione delle scelte politiche. È quindi una questione di valori e atteggiamenti orientati all’inclusione e dello sviluppo di una pedagogia inclusiva (Florian, 2011) 2
Per una trattazione approfondita del diritto all’educazione per le persone con disabilità si rimanda alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con disabilità (ONU, 2006) in particolare art. 24.
III. Esiti di ricerca
che faccia da motore di un cambiamento concettuale. In questi ultimi anni, nel nostro contesto italiano, facilitare la partecipazione per tutti gli studenti è diventato l’obiettivo centrale delle scuole inclusive dove una varietà di meccanismi curricolari e didattici sono impiegati per stimolare una “autentica” espressione degli studenti e per offrire eguali opportunità di apprendimento alla variabilità della popolazione studentesca (Naraian, 2011). Alcuni passaggi del rapporto UNICEF e degli articoli delle Convenzioni3 sottolineano come sia importante progettare opportunità di crescere in un contesto in cui i bambini possono percepire che le differenze diventano un valore e una risorsa da cui promuovere il ben-essere per tutti. Alla luce di questi passaggi, molti Paesi europei stanno modificando la loro legislazione e in particolare la loro progettazione e pratica educativa dal momento in cui la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità garantisce a ogni bambino il diritto di frequentare e di studiare in un ambiente regolare di apprendimento, attraverso la promozione dell’azione dei Governi nel rimuovere le barriere e gli ostacoli all’educazione inclusiva. Nonostante questo avvio il numero di bambini individuati con Bisogni Educativi Speciali (BES) sta aumentando (Lebeer, 2011). In particolare, bambini che vivono esperienze di crescita meno favorevoli (attraverso la privazione delle loro opportunità di crescita) sono precocemente a rischio di insuccesso scolastico nel sistema educativo. L’OECD ha affermato che un bambino su cinque ha serie difficoltà nella lettura, nella scrittura e nel calcolo nella scuola primaria (OECD, 2012). Nel 2003, la Finlandia, il paese con i migliori esiti di apprendimento al mondo per tutti i bambini compresi i bambini con svantaggio socio-culturale, ha riportato che il 17% dei bambini aveva bisogni educativi speciali. Questa percentuale si è ridotta al 7.96% nel 2007/2008 quando è stata individuata una definizione di BES più precisa (European Agency for Development in Special Needs Education, 2003, 2008). Attraverso una definizione più ampia di bisogni speciali – considerati per quei bambini che necessitano di supporto aggiuntivo, per raggiungere obiettivi minimi – uno studio in Belgio ha rilevato che il 20% dei bambini in età scolare aveva bisogni educativi aggiuntivi (Lebeer et al. 2011) molto più del 5% dei bambini ufficialmente con diagnosi di disabilità o di disturbo specifico di apprendimento. Proprio in riferimento a ciò, un elemento significativo per promuovere od ostacolare l’educazione inclusiva riguarda il modo in cui gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione che ogni bambino incontra (Booth, 2014) sono valutati prima dell’accesso e durante il percorso scolastico. In molti paesi dove l’educazione inclusiva non è ancora un diritto o una pratica comune (es. Belgio, romania, Ungheria e Olanda) l’accesso alle scuole comuni dipende ancora da standard sufficientemente alti a test cognitivi, comportamentali e di linguaggio. In paesi in cui l’educazione inclusiva è un diritto, ai sensi della normativa di riferimento dei vai Paesi (Norvegia, Svezia, Italia, Portogallo, Francia e Inghilterra), la valutazione tradizionale potrebbe contribuire all’insuccesso scolastico, laddove bassi punteggi, attraverso l’individuazione di una etichetta diagnostica, potrebbero portare all’assunzione di basso potenziale di apprendimento, conducendo al rischio di creare scarse aspettative educative, o a quello che è stato definito da rosenthal e Jacobson (1968) come l’effetto Pigmalione.
3
Unicef (2013). La condizione dell’infanzia nel mondo 2013. Bambini e disabilità, p.11.
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3. Il valore della progettazione inclusiva
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La questione riguarda il fatto di chiedersi se sia un problema di test, di loro interpretazione delle loro successive aspettative e raccomandazioni o ha a che fare con il modo in cui le attività educative e didattiche vengono poi progettate ad es. il collegamento tra processi valutativi e di insegnamento? Il riferimento alla progettazione inclusiva per offrire risposta a questo quesito è significativo dal momento che essa riguarda il miglioramento dei processi di insegnamento e di apprendimento e degli ambienti per promuovere l’apprendimento considerando da un lato, gli studenti nel loro contesto educativo, e dall’altro il sistema per supportare l’intera esperienza di apprendimento (Ainscow e Miles, 2008)4. La scuola deve porre le basi del percorso formativo dei bambini e degli adolescenti sapendo che esso proseguirà in tutte le fasi successive della vita (progetto di vita). In tal modo la scuola fornisce le chiavi per apprendere ad apprendere, per costruire e per trasformare le mappe dei saperi rendendole continuamente coerenti con la rapida e spesso imprevedibile evoluzione delle conoscenze e dei loro oggetti. Si tratta di elaborare gli strumenti di conoscenza necessari per comprendere i contesti naturali, sociali, culturali, antropologici nei quali gli studenti si troveranno a vivere e a operare. Ciascun individuo deve essere incoraggiato a seguire il proprio percorso di complessità e condivisione, ad usare efficacemente i propri talenti e punti di forza, a coltivare attività che favoriscano esperienze ottimali, a perseguire l’autodeterminazione attraverso l’esercizio della libertà e della responsabilità. Come afferma Edgar Morin “bisogna insegnare a vivere”: insegnare le regole del vivere e del convivere è un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato. Da una prospettiva educativa questo significa che tutti abbiamo le potenzialità per decidere di essere ciò che vogliamo e ruolo dell’educazione è quello di permettere l’attivarsi di questo potenziale attraverso la progettazione di un ambiente “facilitante” in cui gli attori coinvolti possano essere in grado di co-evolvere insieme nella direzione di uno sviluppo positivo. Attraverso un’attenzione particolare al profilo di funzionamento di ciascuno (International Classification of FunctioningCY, OMS, 2007)5 e alla creazione di ambienti che tengano conto delle diversità e siano costruiti a partire da essa (Universal Design for Learning, CAST, 2011) è possibile promuovere negli studenti la capacità di scegliere percorsi creativi per se stessi (progetto di vita), di gestire lo stress e le situazioni difficili e complesse e di sviluppare le abilità di vita (life skills, OMS, 1998) necessarie per promuovere una salute positiva e un ottimale livello di ben-essere. Al centro c’è una persona che cerca di attribuire significati a quanto gli accade sulla base di conoscenze condivise con altri e che è attore delle sue trasformazioni. Considerare le persone come attori sociali vuol dire allora sottolineare che esse non sono singole unità che si limitano a reagire a situazioni problematiche o stressanti, ma persone che agiscono sulla base di scopi e di progetti, nell’ambito di sistemi di interazione interpersonale, coo-
4 5
Per un approfondimento sull’Index per l’inclusione si veda il paragrafo Discussione. Per un approfondimento dell’International Classification of Functioning si veda il paragrafo sulla discussione dei risultati.
III. Esiti di ricerca
perativa o competitiva in cui sono inseriti (Zani e Cicognani, 1999) e all’interno di ambienti che facilitano questa assunzione di ruolo. La prospettiva dell’ICF, ad esempio, permette un’analisi della situazione dove l’apprendimento non avviene nel modo previsto o desiderato e quindi aiuta ad identificare e progettare interventi educativi appropriati per offrire opportunità di attività in un contesto adeguatamente costruito per facilitare la partecipazione di tutti. Ecco allora che quando ci si trova in un contesto educativo, e in particolare nella classe, progettare ambienti facilitanti significa predisporre materiali didattici (Tomlinson, 2006; Wiggins & McTighe, 2006), strategie didattiche (Ghedin, 2013; Ghedin et al., 2013) e strumenti valutativi (Feuerstein, 1979; Grigorenko, 2009) che sostengano compiti di apprendimento orchestrati per fornire opportunità di successo per tutti gli studenti (Hitchcock, Meyer, rose, & Jackson, 2002).
4. La ricerca
La ricerca qui presentata si configura come una ricerca con intervento, che si è scelto di realizzare con l’utilizzo di una metodologia mista quali-quantitativa. Il progetto è rivolto a S., alunna con grave disabilità, e alla sua classe, in una scuola secondaria di primo grado della provincia di Padova, ed è stato realizzato nell’arco di cinque mesi (da febbraio a giugno 2014). S. presenta un’alterazione globale dello sviluppo, con psicosi grave, ritardo mentale non specificato e disabilità sociale grave. risulta ampio il divario tra il linguaggio espressivo, fortemente compromesso, e il livello di comprensione, che rivela la capacità di cogliere diversi aspetti della propria esperienza e di quella degli altri. Comunica prevalentemente attraverso gesti codificati con l’adulto di riferimento, rispondendo alle domande con “si” o “no”, usando la mimica facciale e il linguaggio del corpo o attraverso la comunicazione aumentativa-alternativa; produce poche parole. Generalmente un adulto responsivo e motivato riesce a comunicare con lei, quando la relazione è consolidata, ma alle volte i tentativi di comunicare falliscono, oppure l’adulto non riesce a contenere il suo disagio, che spesso sfocia in episodi di angoscia, crisi di pianto e grave autolesionismo. Sono presenti aspetti di rigidità nei cambiamenti di ambienti, attività, persone di riferimento e contesti, che, soprattutto nella fase iniziale, scatenavano pianti, proteste e reazioni aggressive o autolesionistiche, rendendo difficile l’adattamento nel nuovo ambiente scolastico. Queste problematiche hanno gravi ripercussioni nella relazione con gli altri, in particolare con i coetanei: la tendenza all’insofferenza dovuta al disturbo psichiatrico e l’abitudine a rimanere isolata acquisita negli anni precedenti hanno fatto sì che, inizialmente, la sola presenza dei coetanei suscitasse reazioni di terrore ed angoscia. La classe è formata da 19 alunni ed è caratterizzata da una grande eterogeneità di livelli di apprendimento e di bisogni educativi speciali6, che vanno dalle difficoltà socio-culturali, ai disturbi specifici di apprendimento, dalla lieve disabilità di un alunno con disturbi del linguaggio, alla disabilità grave della ragazzina per la quale è stato elaborato il progetto. Il clima di classe è generalmente positivo e collabo6
CIrCOLArE MINISTErIALE n. 8 roma, 6 marzo 2013 Prot. 561
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rativo, ma non mancano conflitti, rifiuti e problematiche relazionali. Nonostante le difficoltà che connotano il percorso scolastico di alcuni alunni, il gruppo si dimostra disponibile nelle varie proposte didattiche ed entusiasta nel farsi coinvolgere quando vengono proposti obiettivi comuni e sfide da raggiungere. Le finalità generali dell’intervento riguardano la promozione dell’inclusione in una classe che presenta molti e diversificati bisogni speciali: ognuno nella classe ha i propri talenti, le proprie idee, il proprio tipo di “intelligenza”, attraverso la valorizzazione di ciascuno si è cercato di realizzare un percorso che coinvolgesse tutti, attraverso la rimozione degli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione (Booth & Ainscow, 2002). Il progetto di intervento si pone un duplice ordine di obiettivi. Sul piano della classe gli intenti erano: a) avvicinare la classe a S. attraverso l’apprendimento e l’utilizzo di modalità comunicative comuni; b) valorizzare i talenti di ciascun alunno in un contesto inclusivo attraverso l’espressione delle proprie capacità per realizzare un obiettivo condiviso; c) migliorare il livello di inclusione della classe. In riferimento all’esperienza dell’alunna in situazione di disabilità gli intenti sono stati: a) motivare l’alunna ad avvicinarsi ai compagni e porre le basi per la relazione con loro nel contesto della classe; b) sviluppare le capacità di ascolto e comprensione del testo orale. Il progetto è stato attuato con modalità laboratoriali e ha richiesto una sinergia tra docenti di sostegno, disciplinari e l’operatrice socio-sanitaria dell’alunna. I contenuti del progetto vertono sulla realizzazione di una fiaba di classe e sulla semplificazione del testo secondo le modalità comunicative comprensibili per S., per la quale i compagni hanno realizzato immagini, composto ed eseguito una colonna sonora e creato una versione del testo in formato elettronico. S. nel contempo ha svolto un percorso di partecipazione alle attività realizzate per piccoli gruppi e di comprensione del testo orale prodotto dalla classe. La prima parte (composizione della fiaba) è stata realizzata attraverso lezioni partecipate, coadiuvate dal docente di lettere. La seconda fase in cui è avvenuta la semplificazione del testo e la realizzazione di immagini è stata coordinata dalla docente di sostegno. La terza fase (realizzazione della colonna sonora) è stata realizzata attraverso un laboratorio musicale, gestito dagli insegnanti di musica e di sostegno, che hanno coordinato rispettivamente la preparazione e la registrazione delle musiche. L’ultima fase (realizzazione del formato elettronico) ha coinvolto la classe per piccoli gruppi e l’alunna con la docente di sostegno, in collaborazione con l’Operatrice Socio Sanitaria. Di seguito si propone uno schema sintetico delle fasi e delle attività realizzate.
III. Esiti di ricerca
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5. Gli obiettivi e le domande di ricerca
La ricerca ha l’obiettivo generale di esplorare la possibilità che i percorsi di inclusione possano essere costruiti attraverso il coinvolgimento attivo di tutti gli attori, e che possano promuovere una partecipazione piena e significativa alla vita scolastica, nonché un miglioramento delle dinamiche relazionali e del clima di classe. Le domande di ricerca da cui muove il presente studio sono state formulate alla luce della letteratura che ha indagato i benefici dell’inclusione e in particolare la relazione tra contesti inclusivi e dinamiche relazionali e di apprendimento. Salend e Duhaney (1999) propongono una rassegna degli studi riguardanti l’impatto dell’inclusione per gli studenti con e senza disabilità e per gli insegnanti. Gli autori hanno considerato sia studi in cui l’obiettivo era valutare l’impatto sul rendimento accademico (academic performance), sia ricerche che si prefiggevano di approfondire gli effetti dell’inclusione sulla dimensione sociale, relativa alle interazioni, al senso di sé, all’accettazione sociale (social performance). rispetto al primo aspetto, la rassegna condotta porta a constatare un’ampia variabilità: a fronte di numerose ricerche che riportano esiti positivi per quanto riguarda i risultati conseguiti dagli studenti con disabilità a test standardizzati, le loro capacità di lettura, gli obiettivi stabiliti nei piani educativi individualizzati, nonché la motivazione ad apprendere, ve ne sono altre che indicano che gli studenti con disabilità in contesti inclusivi non sempre usufruiscono di una didattica progettata in base ai loro bisogni educativi. Tuttavia, una letteratura recente mette in luce come la performance accademica degli studenti con disabilità (soprattutto in lettura e matematica) aumenti in un contesto inclusivo (Hall e Wolfe, 2003; Cole et al., 2004; Westling e Fox, 2009). I benefici sociali dell’educazione in una prospettiva inclusiva sono stati anch’essi indagati in ricerche recenti che hanno mostrato come la classe inclusiva sia il contesto dove si verifica un auanno III | n. 1 | 2015
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mento delle relazioni sociali (Katz e Mirenda, 2002; Hunt et al., 2003; Westling e Fox, 2009) e un aumento delle capacità sociali e comunicative grazie all’interazione costante tra pari (Arthur-Kelly et al., 2004). Un risultato trasversale nelle ricerche che indagano l’impatto dell’inclusione per gli studenti senza disabilità, chiedendosi quali siano le percezioni di chi si trova ad avere come compagno di classe una persona con disabilità, sembra essere il seguente. Gli studi concordano nel ritenere che non solo la presenza dell’alunno con disabilità non interferisce con il rendimento accademico e con altri aspetti legati strettamente alla didattica (questioni relative al tempo, alle interruzioni rispetto all’attività programmata), ma soprattutto che produce effetti nelle concezioni riguardanti l’inclusione e la disabilità (McDonnell et al., 2003). Gli studenti senza disabilità coinvolti nei diversi studi credono infatti che un contesto inclusivo porti benefici in termini di aumento dell’accettazione reciproca, di comprensione verso tutte le differenze interindividuali, maggiore consapevolezza e sensibilità, maggiori opportunità di porre le basi per una relazione di amicizia con una persona con disabilità, e, in generale, un aumento delle capacità personali di avere a che fare con la disabilità anche al di fuori delle mura scolastiche (Salend e Duhaney, 1999). Gli altri attori del contesto scolastico direttamente coinvolti nella promozione e realizzazione di contesti inclusivi sono gli insegnanti. A questo proposito, nella stessa rassegna della letteratura effettuata da Salend e Duhaney (1999), si evidenzia come le ricerche mostrino una variabilità nelle loro percezioni e nei loro atteggiamenti, strettamente dipendenti da diversi fattori, tra cui le caratteristiche degli studenti, la disponibilità di risorse finanziarie, il tempo da dedicare, una formazione e un expertise adeguati in chiave inclusiva. Numerosi sono gli elementi sottolineati dagli insegnanti curricolari come elementi positivi derivanti dall’inclusione: un aumento delle proprie capacità di incontrare i bisogni degli studenti (con e senza disabilità), maggiore fiducia nelle proprie competenze didattiche e nella capacità di cambiare, in quanto un contesto inclusivo offre l’opportunità di sperimentare la propria disponibilità ad essere flessibili e a modificare le proprie risposte. Gli insegnanti di sostegno individuano invece come aspetti positivi l’accresciuta possibilità di sentirsi parte importante della comunità scolastica e un grande senso di soddisfazione nell’insegnamento (relativamente anche al poter lavorare con studenti senza disabilità)7. Le domande di ricerca possono quindi essere così formulate:
– Quali sono i benefici della valutazione di un progetto per l’inclusione in relazione ai diversi attori coinvolti?
7
Medeghini et al. (2013) sostengono che “l’esperienza scolastica nel suo incontro con la diversità, ha per diversi anni rappresentato un esempio avanzato di un modello integrativo a livello internazionale: ne sono esempio il superamento delle scuole speciali, l’integrazione degli alunni con disabilità, la ricerca di un’organizzazione scolastica adeguata con il supporto di risorse e dell’insegnante specializzato, pratiche didattiche in grado di restituire agli alunni con disabilità un ruolo all’interno della classe” (p. 13). Tuttavia, come riportano alcune recenti ricerche (Medeghini, 2005, AssociazioneTreeLLLe, Fondazione Agnelli e Caritas Italiana, 2011; Canevaro et al., 2011; Palumbo e Tremoloso, 2011) tale esperienza ha perso progressivamente il carattere innovativo originale e le possibilità di un cambiamento sostanziale della scuola.
III. Esiti di ricerca
– Un progetto per l’inclusione promuove la costruzione di dinamiche relazionali improntate sulla collaborazione e su un clima di classe positivo e contribuisce al raggiungimento degli obiettivi di apprendimento per tutti gli studenti?
6. Gli strumenti
In linea con la prospettiva valutativa già enunciata, e tenendo in considerazione gli elementi chiave di una valutazione e una progettazione per l’inclusione, ossia multidimensionale (in termini di oggetti e di strumenti), partecipata (che tenga conto delle posizioni di tutti gli attori coinvolti) e continua nel tempo, gli strumenti8 utilizzati per valutare eventuali cambiamenti e somministrati in diverse fasi del percorso (ex ante, in itinere, ex post), sono i seguenti: VALUTAZIONE EX-ANTE Con la classe
9
- Questionario sull'inclusione per gli alunni (versione adattata per il contesto della classe con indicatori dell'Index for Inclusion)
VALUTAZIONE IN ITINERE Griglia di osservazione del comportamento in classe
VALUTAZIONE EX-POST Questionario sull'inclusione per gli alunni (versione adattata per il contesto della classe con indicatori dell'Index for Inclusion)
- Sociogramma di Moreno - Sociogramma di Moreno - Griglia di osservazione del comportamento in classe10
- Griglia di osservazione del comportamento in classe - Intervista semi-strutturata scritta (per tutta la classe) e orale (per alcuni alunni) sul percorso svolto11
Con l'alunna
- Rubrica di valutazione: primi passi per l'inclusione dell'alunna12 - Rubrica di valutazione: comprensione del testo orale13 - Griglia di osservazione del comportamento nel contesto scolastico14
- Rubrica di valutazione: primi passi per l'inclusione dell'alunna
- Rubrica di valutazione: primi passi per l'inclusione dell'alunna
- Rubrica di valutazione: comprensione del testo orale
- Rubrica di valutazione: comprensione del testo orale
- Griglia di osservazione del comportamento nel contesto scolastico
- Griglia di osservazione del comportamento nel contesto scolastico
- Diario di bordo
- Diario di bordo
- Diario di bordo Con i docenti coinvolti
- Intervista semi-strutturata sul percorso svolto15
!
8 9
Gli strumenti sono frutto del lavoro condiviso tra le autrici. Questionario composto da 35 item tratti dall’Index for Inclusion con scala a 4 punti per indicare quanto ciascun item descrive la classe. 10 Consiste in una lista di comportamenti e atteggiamenti degli alunni, la cui presenza è indicata con un segno di spunta. Viene inoltre segnalato se il comportamento osservato riguarda pochi/alcuni/la maggior parte/tutti gli alunni. Le dimensioni riguardano: accoglienza, relazioni di aiuto, ascolto reciproco, partecipazione, situazioni di conflitto/rifiuto, interazione con alunna con di!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! sabilità. 9 11 Al termine del progetto si sono raccolte le riflessioni degli studenti in merito al percorso svolto, al loro coinvolgimento e gradimento, alle loro motivazioni, alle loro rappresentazioni sui progressi della compagna e sui progressi di ciascuno di loro in seguito al percorso. Alcuni alunni sono stati invitati ad approfondire le loro riflessioni in forma orale.
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7. Risultati
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Per quanto riguarda il questionario sull’inclusione, la media delle risposte degli alunni in quasi tutti gli item (33 item su 35) nella valutazione ex post è superiore, in relazione al costrutto dell’inclusione, rispetto alla valutazione ex ante. Nella maggior parte degli item le differenze sono lievi, rappresentano tuttavia un segnale rilevante considerando che sono state raggiunte in un breve lasso di tempo. In particolare, le risposte degli alunni riportano un incremento della prossimità (Biggeri et al., 2011) e una diminuzione delle relazioni conflittuali. Per quanto riguarda la disponibilità verso i compagni con gravi difficoltà, si osservano valori molto elevati già nella valutazione ex ante, con ulteriori miglioramenti nella valutazione ex post. Un cambiamento significativo si osserva nelle risposte all’item n. 21 “Credo sia difficile interagire con i compagni con disabilità”: nella valutazione ex ante il 56% degli alunni è d’accordo con questa affermazione (concordo pienamente/abbastanza), nella valutazione ex post solo il 22% concorda abbastanza, mentre gli altri alunni sono d’accordo in parte o non concordano. Ci sembra che la situazione iniziale rilevi un’ampia disponibilità a collaborare, ma nel contempo una piena consapevolezza delle problematiche che ciò comporta, in particolare in relazione all’interazione con la compagna con gravi difficoltà. Nella situazione finale invece, mentre la disponibilità a collaborare è rimasta elevata, l’interazione con la compagna in difficoltà (e in generale, con gli alunni disabili) appare più semplice. Sembra dunque che l’esperienza vissuta sia servita a “differenziare” la normalità, più vicina alla loro esperienza e alle loro capacità di interagire, di comunicare e di mettersi in gioco. Osserviamo inoltre un aumento del senso di appartenenza al gruppo classe: nell’item n. 20 “Posso dire di essere contento/a di appartenere a questa classe”, la percentuale degli alunni pienamente d’accordo cambia dal 50% (valutazione ex ante) all’89% (valutazione ex post). I risultati rilevano inoltre una diminuzione della percezione di comportamenti antisociali da parte dei compagni, come rilevano le risposte all’item n. 25 “Temo di essere preso in giro dai compagni” e nell’item n. 23 “Temo di poter subire atti di bullismo da parte di qualche compagno”. Evidenziamo, inoltre, le risposte all’item n. 5 “Ciascuno di noi viene valorizzato per i suoi talenti” in cui la percentuale di alunni che concordano pienamente o abbastanza varia dal 61% all’ 88%.
12 Contiene 4 dimensioni: atteggiamenti verso l’ingresso nel contesto scolastico, relazione con adulti di riferimento, relazione con coetanei, atteggiamenti verso l’ingresso in classe. 13 Contiene 5 dimensioni: postura fisica nei confronti del compito, attenzione, riconoscimento di parole, riconoscimento dei personaggi della storia, comprensione di alcuni elementi della trama. 14 Basata sulle stesse dimensioni presenti nella ‘rubrica di valutazione: primi passi per l’inclusione dell’alunna’; osservazione effettuata in ciascun momento (ex-ante, in itinere, ex-post) da tutte e 3 le figure coinvolte (due insegnanti di sostegno e un’operatrice socio-sanitaria). 15 Gli insegnanti coinvolti durante l’intero corso del progetto e intervistati nella fase finale sono stati l’insegnante di lettere, di musica, di sostegno e l’operatrice socio-sanitaria. Le domande hanno riguardato il coinvolgimento della classe, le modalità di lavoro, i progressi compiuti da S. grazie all’apporto del gruppo, i cambiamenti nel clima della classe, il significato attribuito a progetti per l’inclusione.
III. Esiti di ricerca
Nei risultati del Sociogramma di Moreno si osserva un aumento delle scelte e una diminuzione dei rifiuti in entrambe le dimensioni (sociale e psico-relazionale). I grafici n. 1 e 2 riassumono le preferenze espresse dai componenti del gruppo rispettivamente nella valutazione ex ante ed ex post.
Grafico 1. Sociogramma ex ante
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Grafico 2. Sociogramma ex post
Nel momento ex-post si constata un numero maggiore di scelte positive; inoltre i due sottogruppi (maschile e femminile) che si stagliano nettamente nella prima valutazione, appaiono nella seconda sociomatrice maggiormente fusi tra loro e legati da preferenze in ambo le direzioni. Si distinguono alcuni alunni che ricevono molte preferenze, ma non si individua un unico leader del gruppo, come
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emerge nella valutazione ex ante: complessivamente possiamo affermare che il secondo sociogramma rivela una maggiore coesione tra i membri del gruppo. Gli alunni (tra cui S.) che nella fase iniziale appaiono isolati, nella valutazione ex post hanno conquistato una o più preferenze da parte dei compagni. Nella griglia di osservazione riferita alla classe si rilevano i seguenti risultati: il livello di accoglienza della classe è elevato sia nella valutazione ex ante che ex post, senza variazioni significative; aumentano le relazioni d’aiuto tra compagni, l’ascolto reciproco e la collaborazione tra pari; aumenta il numero degli alunni che partecipano attivamente alle attività proposte; contrasti, litigi e atteggiamenti di derisione tra compagni sono presenti in tutte e tre le valutazioni, tendono a diminuire numericamente nell’ultima fase; cambia sostanzialmente la quantità e la qualità delle interazioni con la compagna con disabilità. Nelle ultime valutazioni si notano maggiore capacità di comunicazione e atteggiamenti di vicinanza, fiducia e di aiuto verso la compagna. Spostando il focus dell’attenzione sull’alunna, rileviamo attraverso la griglia di osservazione del comportamento nel contesto scolastico notevoli cambiamenti, tra cui il miglioramento del ben-essere a scuola e l’apertura nei confronti della relazione coetanei; del livello e delle modalità di comunicazione con i pari e con gli adulti. Diminuiscono inoltre i comportamenti autolesionistici ed aggressivi, e in tutte le osservazioni si osservano difficoltà a rimanere in classe. Nell’ultima fase l’alunna rimane più volentieri con i compagni e partecipa in altre situazioni (aula di informatica, aula LIM, ricreazione). I risultati raccolti nella rubrica di valutazione “Primi passi per l’inclusione” sono sintetizzati nel grafico n. 5: i progressi che riguardano tutte e quattro le dimensioni (relazione con adulti di riferimento, relazioni con coetanei, inserimento nel contesto scolastico, inserimento nel contesto della classe), anche se non in modo analogo e lineare per ciascuna di esse. Nella fase iniziale emerge come elemento propulsore dell’inclusione dell’alunna la relazione con gli adulti di riferimento, più critiche appaiono le altre dimensioni, in particolare la relazione con i coetanei e l’inserimento nella classe, che si attestano su livelli molto bassi (l’alunna si rifiuta di interagire con i compagni, esprime in loro presenza il suo disagio con comportamento auto-etero-lesionistico, si rifiuta perentoriamente di entrare in classe). Nelle fasi intermedie, in cui ha inizio il progetto per l’inclusione dell’alunna, si registrano miglioramenti nell’inserimento dell’alunna nel contesto scolastico, nel rapporto con gli adulti e con i coetanei e lievi miglioramenti nell’inserimento della classe. Nell’ultima fase tutti gli aspetti presi in considerazione confluiscono verso i valori più elevati. Finalmente S. trova la fiducia in sé e la percezione di autoefficacia nelle sue capacità necessaria per entrare in classe o in aula di informatica, per rimanere con i compagni per un po’, durante lo svolgimento di qualche attività o in momenti a lei dedicati.
III. Esiti di ricerca
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Grafico 5. Primi passi per l’inclusione nel contesto scolastico
I risultati del percorso di comprensione del testo orale sono riassunti nel grafico n. 6. Dall’istogramma si osserva che in tutte le fasi della valutazione la postura e l’attenzione presentano risultati molto simili tra loro. Si può inferire dunque che nel caso di S. la postura rappresenti un segnale del livello di attenzione, e che, viceversa, la grande iperattività nel movimento, che molto spesso non le consente una postura corretta nella fase di ascolto, infici il livello di attenzione. Questo accade nella valutazione ex ante, dove livelli molto bassi nell’attenzione e una posizione del tronco e degli arti in continuo movimento, impediscono la comprensione di tutti gli elementi del testo. Ben diversa appare la situazione nella valutazione in itinere, il livello di attenzione è decisamente più elevato, la posizione del corpo è più rilassata e rivolta verso lo schermo o verso l’insegnante per almeno una parte del racconto. Questa situazione consente a S. di focalizzare l’attenzione sul racconto e recepire almeno una parte delle parole, riconoscere alcuni personaggi, comprendere qualche elemento della storia. Nella situazione finale si assiste ad un netto miglioramento dei tempi di attenzione, espressi da una postura orientata verso lo schermo o verso l’insegnante per tutta la durata del racconto. Il riconoscimento dei personaggi e la comprensione delle parole è più accurato e l’alunna è in grado di rispondere ad alcune domande relative alla trama utilizzando la comunicazione aumentativa-alternativa. Le domande richieste sono relative a rapporti spaziali, topologici, temporali e di causa-effetto. '" &#$"
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Grafico 6. Comprensione del testo orale
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I dati raccolti sono stati confermati ed arricchiti con i risultati delle interviste semi-strutturate somministrate al termine del percorso agli alunni e agli insegnanti coinvolti. Gli alunni esprimono un pieno gradimento e coinvolgimento nel progetto, emergono in prevalenza riflessioni riguardo al miglioramento delle relazioni tra i compagni, alla maggiore conoscenza reciproca e collaborazione grazie al lavoro di gruppo finalizzato all’aiuto della compagna. Alcuni alunni riferiscono progressi della classe nell’autoregolazione (in particolare nel tono di voce) per favorire il benessere della compagna. Altri mettono in luce come ciascuno si sia speso nei propri talenti, approfondendo e mettendo in luce le proprie capacità, nell’ambito di un progetto di gruppo. Molti affermano il valore della collaborazione tra compagni, del coinvolgimento e della partecipazione di tutti, ma anche l’importanza di mettersi nei panni di una persona con disabilità, di capirla e di interagire con lei. I docenti e l’operatrice intervistati concordano sul pieno coinvolgimento della classe e sulla sinergia dei docenti stessi nel mettere in campo risorse professionali e tecniche di gestione dei gruppi per raggiungere un obiettivo condiviso. La presenza di una compagna con una disabilità importante, che coinvolge l’area della comunicazione e della relazione, ha costituito un ostacolo da superare insieme, unendo le risorse di tutti. Viene evidenziato inoltre il grande cambiamento dell’alunna, in particolare nell’apertura verso gli altri e nei tentativi di entrare in relazione con loro. A conferma di ciò, riportiamo alcune frasi: “La maggior parte degli allievi è stata propositiva e ha messo in gioco fantasia, intraprendenza e spirito critico; alcuni screzi fra compagni sono stati superati in nome dello scopo comune. Va aggiunto che hanno fornito contributi significativi anche allievi solitamente “restii” a intervenire attivamente nelle attività scolastiche canoniche. La classe ha reagito bene, sia per l’originalità delle attività (che hanno spezzato la “routine”), sia per il coinvolgimento emotivo nell’intraprendere un progetto dedicato all’amica S.” “Credo che S., frequentando con una certa regolarità i compagni “a piccoli gruppi” e vedendoli impegnati in varie attività a lei dedicate, abbia sentito l’affetto e le attenzioni che le venivano indirizzati e ne sia stata positivamente influenzata. Forse per la prima volta in modo così continuativo S. e la classe hanno potuto condividere un percorso ludico-didattico insieme, e questo ha sicuramente giovato sia in termini di inclusione/ socializzazione che di ampliamento delle conoscenze e delle esperienze di entrambe.” E per concludere, una frase dell’insegnante di Lettere: “S. è stata quel ‘problema’ in assenza del quale nessuno avrebbe mai pensato a una ‘soluzione’. In altre parole, molte emozioni e riflessioni che sono nate nei ragazzi - emozioni e riflessioni determinanti, a ben vedere, nel delineare il clima, ovvero il profilo emotivo-comportamentale della classe - non sarebbero mai scaturite se Sara, con la sua presenza e le sue forti richieste, non ci fosse stata, e non avesse interpellato così nel profondo i compagni.” In relazione agli obiettivi prefissati possiamo affermare che tutti gli obiettivi proposti sono stati raggiunti. I cambiamenti rilevati riguardano piccole differenze rispetto alla situazione iniziale, che tuttavia segnano una direzione e aprono la strada per ulteriori progressi.
III. Esiti di ricerca
8. Discussione
Poiché la valutazione inclusiva del percorso ha avuto come riferimento la prospettiva antropologica dell’ICF (OMS, 2002) e il modello dell’Index for Inclusion (Booth, Ainscow, 2002), è a partire da quest’ultimi che proporremo una sintesi e una discussione dei dati raccolti nell’ottica dell’inclusive assessment design. Il lavoro svolto ha un doppio livello di analisi, il punto di vista di S. e quello della sua classe. Ciascun livello ha delle ripercussioni sull’altro e, secondo il nostro punto di vista, costituisce una parte inscindibile della valutazione e della progettazione per l’inclusione. Il grafico di fig. 1 riassume i risultati ottenuti nel percorso attraverso la prospettiva dell’ICF. Questo approccio presenta il vantaggio di fornire una dimensione inclusiva della disabilità e del funzionamento dell’individuo, che incorpora gli aspetti inerenti alla salute e altre determinanti relative all’ambiente e alle caratteristiche della persona, storicamente considerate in modo separato. Inoltre, evidenziando l’importanza dei domini dell’attività e della partecipazione, offre indicazioni essenziali sulla predisposizione nel contesto scolastico di interventi specifici in relazione ai bisogni di inclusione degli alunni con disabilità. In particolare viene evidenziata la circolarità del modello e l’interazione reciproca tra le diverse componenti. I progressi nel funzionamento dell’alunna nei domini nell’attività e nella partecipazione hanno avuto risvolti positivi per il contesto stesso: i progressi della compagna sono stati vissuti infatti come successi per tutto il gruppo, gratificazioni per il lavoro svolto e per il coinvolgimento nel percorso di inclusione e i miglioramenti nelle modalità di comunicazione dell’alunna hanno suscitato una maggiore apertura e disponibilità del gruppo alla collaborazione. I risvolti positivi nel livello di inclusione della classe (diminuzione della conflittualità, incremento delle relazioni d’aiuto, maggiore coesione nei rapporti tra compagni) a loro volta hanno favorito il ben-essere della compagna nel contesto scolastico costituendo i fattori contestuali del processo di inclusione. Sottolineiamo che questo risultato non è delimitato in sé stesso ma va letto in un’ottica dinamica, che suggerisce ulteriori sviluppi in una prospettiva futura. Un punto di vista complementare a quello fornito dall’ICF, attraverso il quale leggere il nostro progetto è dato dall’Index for inclusion (Booth, Ainscow, 2002; 2008; 2014), che, rispetto al modello dell’ICF si pone in un rapporto di complementarietà, analizzando più in profondità la dimensione dei fattori contestuali e fornendo indicazioni operative e strumenti di lavoro per migliorare il contesto stesso, nella direzione dell’inclusione. La visuale si allarga alle culture inclusive (dimensione A), alle politiche inclusive (dimensione B) e alle pratiche inclusive (dimensione C), che costituiscono idealmente i lati di un triangolo nel modello di riferimento. In comune con l’ICF vi è l’importanza assegnata all’interazione tra i diversi aspetti del modello, poiché nel modello dell’Index ogni lato del triangolo confluisce nell’altro ed è a sua volta condizionato.
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Figura 1. Risultati ottenuti in base alla prospettiva dell’ICF
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Nel nostro progetto tutti e tre questi aspetti sono presenti e i cambiamenti in ciascuna dimensione sono stati valutati attraverso il questionario per l’inclusione somministrato alla classe. Il nostro intervento si è tuttavia focalizzato in misura prioritaria sulle pratiche inclusive (dimensione C): il progetto infatti è stato finalizzato alla valorizzazione delle diverse abilità presenti negli alunni della classe. Tutti i ragazzi sono stati stimolati ad un pieno coinvolgimento nel percorso di inclusione, mettendo in gioco le conoscenze ed esperienze acquisite nel contesto scolastico ed extrascolastico. La collaborazione tra colleghi, la condivisione delle finalità del progetto, degli obiettivi e delle modalità di lavoro, nel rispetto dei singoli approcci e competenze, è stata l’elemento propulsore del progetto e la valorizzazione delle risorse presenti negli alunni della classe ha creato il substrato per il sostegno all’apprendimento e alla partecipazione. Nonostante il percorso si caratterizzi essenzialmente come un insieme di pratiche di inclusione, esso è il risultato dell’organizzazione di politiche inclusive (dimensione B), che ne costituiscono il fondamento. La presenza di una disabilità severa, che coinvolge l’area del comportamento, della comunicazione e della relazione, avrebbe potuto costituire un’importante barriera all’inclusione se non fosse stata supportata da un intero contesto scuola disposto a modificarsi e a rispondere ad una finalità condivisa. Sottolineiamo inoltre la biunivocità dell’influenza tra pratiche e politiche, dove le politiche inclusive costituiscono il presupposto delle prassi di inclusione, che a loro volta stimolano il contesto ad organizzarsi per accogliere e valorizzare la diversità. La base della piramide del modello dell’Index, creazione di culture inclusive (dimensione A), costituisce la finalità ultima del percorso di inclusione. Un progetto elaborato “dal basso”, dalle esigenze di un’alunna e della sua classe, fondato sulle aspirazioni di inclusione e concretizzato in prassi per la sua realizzazione, ha tuttavia una finalità più ampia che rimanda alla diffusione della cultura inclusiva, in cui i valori dell’accoglienza della diversità di ciascuno e della collaborazione per obiettivi condivisi possano creare un contesto favorevole all’apprendimento di tutti. È in questa prospettiva che acquistano senso le azioni inclusive, ponendo le basi per ulteriori progressi verso la definizione di un modello di inclusive assessment design. III. Esiti di ricerca
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III. Esiti di ricerca
Students with Learning Disabilities at University. Design of a Protocol for Usability of Teaching and Individual Study
Key-words: learning disabilities, inclusive education, special education needs, didactic tools, university
III. Esiti di ricerca L’articolo è un lavoro globale, frutto di interscambio culturale e professionale tra gli autori. Tuttavia, per ragioni di responsabilità scientifica, si rende noto che la Premessa è di Sandra Zecchi; il paragrafo 1 e le Conclusioni sono di Tamara Zappaterra; il paragrafo 2 è di Claudia Zudetich; il paragrafo 2.1 è di Costanza Rossi; il paragrafo 3 è di Gianni Campatelli, Lisa Ariani e Andrea Meneghin.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The Learning Disabilities (LD) creates a real difficulty in the study, because they assume the evolution of certain prerequisites and involve a number of functions that impact against the decoding of the alphabetic code. By definition they have an evolutionary nature, ie they vary with the age of the person. This article explores the characteristics of LD in adulthood and the impact with the university teaching. It presents the results of an interdisciplinary project in progress (educational, medical and engineering area) at University of Florence, suitable to provide a procedural protocol for the usability of teaching in university and to support individual study. The purpose of project is to design of a protocol for usability of teaching and individual study, even at university level as indicated by the recent Italian legislation (Law 170/2010).
abstract
Sandra Zecchi-Orlandini / Università di Firenze / sandra.zecchi@unifi.it Tamara Zappaterra / Università di Firenze / tamara.zappaterra@unifi.it Gianni Campatelli / Università di Firenze / gianni.campatelli@unifi.it Lisa Ariani / Università di Firenze / lisa.ariani@unifi.it Andrea Meneghin / Università di Firenze / andrea.meneghin@unifi.it Costanza Rossi / Università di Firenze / costanza.rossi@stud.unifi.it Claudia Zudetich / Università di Firenze / claudia.zudetich@unifi.it
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Premise
This paper refers to an ongoing study under the coordination of CESPD (Study and Research Centre for Disability Issues of the University of Florence). CESPD is the institutional center that offers services and supports to disabled students in Florence University and it is also the institution devoted to the applicative measures of Italian law 170/20101 in the field of Learning Disabilities (LD). LD problems are relatively new for the education at university level, and they have therefore pushed teachers and researcher to define research projects, both scientific and pedagogic, aimed to suit the needs of LD students. In such perspective, due to the high variability of LD manifestations and degrees and also to the peculiar students’ features, a multidisciplinary approach and strategies are required to identify personalized educational paths for LD students while respecting, the peculiarity and the objectives of the different university courses. CESPD offers to LD students, such as to disabled students, a series of services including incoming orientation and job placement support, tutoring, technological and didactic tools, mediation with the teachers.
1. Theoretical framework. Dyslexia in adults
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To cope with the LD in schools is a problem that Italy has taken over the last fifteen years, slightly late compared to the international scenario. The reason is due to phonological features of the mother tongue of Italian pupils, a language with orthographic transparency, which means that the almost perfect correspondence between grapheme and phoneme in Italian moves the bar or the attention span higher than in countries with a language spelling non-transparent based. Such a delay raised awareness of the teaching staff in order to Learning Disorders only recently. In fact, the law that protects the LD students in Italy has recently established (Law 170/2010), which has led to the awareness of teachers to be in front of an organic-based disorder but with evolutionary characteristics, even at 5 years by law, it is not a widespread awareness. This aspect is however of considerable importance. Learning Disorders are specific difficulties but evolutionary in the sense that the difficulties are attributable to a pathological frame, but the same difficulties in an individual pupil or student vary with the age and evolution of the disease (Dehaene, 2009; Gérard, 2011). The LD is then partly biologically determined, but partly depends on the circumstances of the environment, such as the time ofdiagnosis, the impact school, the type, frequency and enhancement of interventions which the person has benefited. The literature notes the repercussions and the risks that these disorders can also result in emotional-affective sphere. In fact, beyond the impact on reading and writing, the LD have consequences more generally on the personality. At school we have to face the problem from a technical point of view, using
1
L. 170/2010 “Nuove norme in materia di Disturbi Specifici di Apprendimento in ambito scolastico”.
III. Esiti di ricerca
methods and learning strategies that are appropriate to the problem, but we can not ignore, as teachers and the training providers, that these disorders have a big impact on the well-being of pupil, on his quality of life at school and, most generally, on self-perception and self-esteem. Daily the dyslexic student faces the difference, the incomprehension, the failure. He must make a huge effort to stay abreast of and he may have the impression of not succeeding because the gap between himself and fellows is likely to increase with time. Indeed, we can count the characteristics of the disorder in adolescence and adulthood. These studies are less numerous than those relating to the characteristics of the disorder in childhood (Hatcher et al., 2002; Reid et al., 2006, Genovese et al., 2011). At the secondary school, reading aloud it is no longer essential and the student, if it was detected early, has already had the benefit from rehabilitative interventions. Also factor maturation has run its course, so the specific errors of LD, omissions and replacement, are less frequent because the time and effort have left a mark, but the reading remains an arduous task that requires a major cognitive effort. Some spelling errors remain and he needs additional time to achieve the same delivery mates. In fact, the difficulties of reading automatically slow down the pace, and jeopardize its purpose, to acquire information. Still too much energy is channeled in decoding the written code and not enough on content. The dyslexic student need more time for study and greater application to prepare for school test, because the amount of information that must be handled in secondary school is much higher than in the previous cycle (Hatcher et al., 2002; Pannetier 2010; Marzocchi et al., 2011). Another notation must be made on the objectives of learning in secondary school. If the primary school goals concern learn to read and write and produce the language proper and independent, at the secondary school and also at University level the students must handle a specific language proficiency for each subject. Writing correctly spelled and the appropriate use of such specific vocabulary are a further challenge for the dyslexic student. Even in this age, the psychological effects of difficulties related to the LD are important. The adult dyslexic, more and better than child, captures the differences between his performances and those of other students. He continues to work harder, putting more effort and commitment to succeed in school achievement. Sometimes, when the effort seems enormous and there is misunderstanding on the part of teachers and the family, absenteeism from school or behavioral difficulties can produce school drop-out. Sometimes early school drop-out is just the result of a waiver due to the excessive increase of schoolwork and the amount of materials to be read (Zappaterra, 2012; Trisciuzzi and Zappaterra, 2014). We know that LD have an evolutionary nature, as mentioned above, that vary with the age of persons and thanks to rehabilitative interventions, however they are permanent disorders. In the adult, the greater track of LD is constituted by spelling errors, rather than by the slowness of reading or of writing. If the difficulties in spatial orientation in the writing of letters and numbers have almost disappeared with practice or with the use of compensatory measures such as the computer, the errors due to confusion phonological persist and are manifested clearly in the spelling difficulties. There are areas in which the LD is not a difficulty, but where on the contrary the atypical lateralization of dyslexic becomes the basis for excellent ability visuospatial, mathematical and musical. Some anno III | n. 1 | 2015
AUToRI vARI
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statistical studies have shown that there are many left-handed and dyslexic among architects, designers and sportsmen, i.e. in activities that require certain visuospatial abilities (Davis, 2004; Pannetier, 2010). Continuous frustrations lead to the consolidation of the sense of learned helplessness and the reduction in the level of self-esteem, which can give his side the emergence of relationship difficulties such as anxiety, depression, psychosomatic disorders, behavioral problems (Lami et al., 2008). Therefore, even in case of late diagnosis, a specific didactic intervention performed to secondary school may be effective. We must take account of a number of priorities: if the primary school is important that the student reads fluently and correctly and understands the text, to secondary school and university priority becomes the method of study, because the workload is remarkable. Even the autobiographical testimonies reveal that the method of study would be the key, because these students are forced to apply for many more hours than their peers do. We must therefore find the most effective strategies to find the pupil together strategies to study the different materials, introducing, if necessary, compensatory measures such as digital books, speech synthesizers and software to build maps that allow autonomy in the study. Normally the student with LD has a support for homework, but autonomy is a need that from the age of secondary school starts to appear and becomes a target of evolution. It can only be achieved through a process of awareness of the strengths and weaknesses and through knowledge of compensatory instruments in use (Reid et al., 2006; Marzocchi et al., 2011). only this awareness will enable success in university curricula. If the school is called upon to make a strong contribution in this direction by drafting a customized curriculum that covers the adaptations best suited for each student with LD, all this in the university must be requested independently by the student. Although Law 170/2010 also addresses the university student, universities are now taking the first steps to match the educational rights of these students in adulthood. This article, like other similar studies in Italy (Genovese et al., 2010; olofsson et al., 2012; Dettori, 2015) presents a proposed protocol for the management of teaching and usability self study from the survey of their special needs: flexible times, examination programmed with the teacher, reduced amount of exercise, consultations of drawings, diagrams, concept maps for the study, support tools of information and communications technology. The aim is to draw up guidelines for the dyslexic student at the University for use by students, teachers and administrative staff.
2. Project plan
The Italian national education system, due to the Law 170/2010, have to apply inclusive protocols for student with disabilities. These protocols have to be adopted by schools and universities and they encourage the use of teaching methodologies and strategies for students with special needs in order to promote their school success and to ensure the education processes. The increasing number of university students with LD is a consequence of the education tutelage promoted by the law 170/2010. As a consequence, there III. Esiti di ricerca
is a need of specific support strategies and personalized teaching models that allows to use compensatory measures, tools and assessment modalities, suitable for specific study courses. For compensatory measures means all those tools that do not potentiate the task from the cognitive point of view but which serve to relieve strain respect to the specific difficulty that derives from the LD. The research project “Students with Learning Disabilities at University - Realization of a Protocol for Usability of Teaching and Individual Study” is part of this kind of approach. The project is an ongoing study under the coordination of CESPD (Study and Research Centre for Disability Issues of the University of Florence) and it is financed by “Cassa di Risparmio di Firenze”. The project began in January 2015. Its purpose is to ensure a full application of education law for university students with LD. Its specific objective is to create a teaching-management protocol for the inclusion of students with LD inside the University of Florence. It has been possible to reach this objective thanks to an interdisciplinary approach which offers an integrate view of the object of research, on the perspective of the opportunities and the criticalities. This is the reason why the research team members have different competencies, with pedagogical, sanitary and engineering skills. This allowed, from the early steps of the project, the integration of different observation levels in order to understand and fit the needs of students with LD from several points of view and to develop aimed to the achievement of their welfare within the University path. 2.1 Project phases
During the first step have been performed a study of the previous data of students with LD enrolled at University of Florence and a detailed research on the state of the art. This step also enabled the research team to create a group of students to be involved in the project in order to better acquire, in a structured manner, their needs and requests. Some other associations as the Florence section of AID (Italian Association for Learning Disabilities) and Pillole di Parole, an association that gathers students with LD, were also involved to create the student group. For this reason, a meeting for project’s presentation took place in the library Libriliberi in Florence which currently hosts the meetings of the two above-mentioned associations and owns a publishing house that produce texts about those specific topics. At the end of this step, a group of 43 students provided their contacts in order to participate to the project research initiatives. During the second step a data collection and a student specific needs analysis were performed, thanks to the presentation meeting, an on-line questionnaire for the students and four focus group took place. The results of this steps are presented in the following paragraph. At the end of the final steps of the Project, the following outcomes will be delivered:
– a University Guide Lines for teachers, university staff and students. It should offer good praxis and indications useful for students career, educational offer, teaching activities and university services efficiency;
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– a web site, which will be part of the institutional University site, built according to the usability and universal design standards, suitable for students with LD. The web site will also be addressed to teachers, university staff and students and should offer information and suggestions about services, requests, assistive materials given by the University to students with LD. In particular, it should help the students from the beginning to the end of their university career and the teachers to have an effective approach with students with LD.
The project is currently in progress. The University Guide Lines and the web site will be delivered within the very first months of Academic Year 2015-2016.
3. Tools
3.1 Questionnaire definition
From the earliest meetings of the working group it arises the idea to submit a questionnaire to students with Learning Disabilities. Starting from the research plan, this kind of entry survey would have permitted us to reach rapidly a wide number of goals:
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– to establish a first interaction with students; – to have an early feedback from students about the actual aims of the project, based on the number and type of the received responses; – to collect information regarding the personal student’s experiences, in order to better organize the following steps of the project; – to test the students’ Learning Disabilities knowledge and awareness, in order to have a future comparison on the same topics at the end of the project; – to use the questionnaire as a test itself in order to verify, where possible, the layout and contents compliance level.
The survey was titled “Inquiry on students with Learning Disabilities in the University of Florence” and the questions had been grouped in the following sections:
1. “Biographical Information”, in which information about age, gender, year and kind of university course and other previous educational experiences were requested. 2. “Diagnosis and treatment”, where the students were asked to indicate the kind of Learning Disabilities, the presence of co-morbidities and the age of the first Learning Disabilities diagnosis. 3. “Degree of satisfaction of various aspects of university life”, where the students were asked to evaluate different aspects of their university life as burocracy, lessons, entrance test and exams organization, usability of the university web sites, quality of learning material. 4. “Relationships inside the University”, where the students were asked to evaluate their degree of satisfaction in their relationship with professors, university personnel and other students. III. Esiti di ricerca
5. “Supports available in University”, where the students were asked to evaluate the supports provided from the University: the CESPD Learning Disabilities help desk and the tutoring services. 6. “Tools and instruments”, where the students were asked to evaluate their use frequency of technological tools and software able to support their Learning Disabilities and the degree of satisfaction achieved in their use. 7. “Individual strategies”, the students were asked to evaluate the efficacy of their personal strategies used to improve the learning. 8. “Feedback”, the students were asked to give a feedback about the questionnaire itself, starting from their specific issues, giving an assessment of the relevance of the content, the chosen language and the layout.
A total of 24 questions were submitted to participants: mainly multiplechoice ones and, only where necessary, open-ended questions. The aim was to achieve easily grouped and quantifiable answers, together with examples, motivations and students personal observations, otherwise undetectable. For the multiple-choice questions, a four-value Likert scale was used, where the choice of a response with an increasing value always corresponded to more positive item evaluations. The questionnaire was anonymous and it was submitted online to a chosen group of students with different Learning Disabilities, using an email invitation containing the link to the questionnaire web page, a personal password and some synthetic compilation instructions. Further explanations and clarifications were also provided to students during the first meeting with the research group in which the whole project was presented. The questions were formulated using, whenever possible, a Learning Disabilities friendly language: – – – –
short sentences; coordinated sentences rather than subordinate ones; grouped questions for thematic areas; simple vocabulary.
For the same reason, the questionnaire layout was created according to the following rules:
– large, sans serif fonts; – targeted use of capital and bold letters to emphasize the logical structure of the text; – alignment of the text to the left; – no use of hyphenation; – choice of not too contrasting colors for text and background, (no black characters on a white background).
The choice of the final graphic form - which involved the use of the font verdana dark gray on a beige background - was made based on the evaluation given by members of the Florentine section of the association AID to five graphic evidence submitted respecting different combinations of the rules explained above.
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3.2 Questionnaire results
The invitation to participate to the questionnaire was sent to a group of 43 students enrolled at University of Florence with a learning disability certification. We obtained 26 answers (60% of the total amount). The average age of students is approximately 21 years old; they received their first Learning Disability diagnosis when they were, in average, 12 years old. Between the 26 answers only 13 (50%) declared to be in contact with organizations representing the interests of people with learning disability. Despite the small sample size, it must be noticed that there is a significant percentage students enrolled in the School of Humanities and Education (46%), highlighting that this field of study, directly connected to their personal problems, constitute a prime choice for students with learning disabilities. An extract of the main data emerging from the responses received to the questions were summarized in Tab. 1, where some of the answers to multiple choice four-value (with 1 meaning not satisfied and 4 meaning fully satisfied) Likert scale questions are reported. !"#$%&'(")&*+,-.#%/&0"#-+1+2"&$-#3"3+&-4+0%5&0/5-0!
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III. Esiti di ricerca
Analyzing the results, the main critical items are the following:
– the University of Florence web site (mean value of 1.88); – the online (mean value of 2.19) and paper (mean value of 2.21) forms; – the exams and test worksheets (mean value of 2.14).
The degree of satisfaction about the relationship with professors (mean value of 2.88), university personnel (mean value of 2.61) and other students (mean value of 3.21) is high. The questionnaire received a positive feedback from the students. In particular, the layout received a mean value of 3.38, the contents a mean value of 3.35 and the easiness of use a mean value of 3.77. other results are explained in the following paragraph of this paper. 3.2 Focus groups
once analyzed the results of the questionnaire, the investigations on the needs of students with Learning Disabilities continued by means of four focus groups. The aim was to investigate some of the most critical items perceived as a priority by the students, which, at the same time, are found to be actually improvable elements during the following steps of the Project. As a result, the following areas of analysis were identified:
1. the website of the University: when the students with Learning Disabilities were asked about their degree of satisfaction on various aspects of their university life, it received the lowest mean, equal to 1.88. The decision to carry out a further study on the website is also linked to the fact that one of the final outcomes of the project will be a DSA-friendly website; 2. the relationship with the professors: although judged satisfactory in terms of interpersonal relationships (mean value of 2.88), and in terms of teaching support tools (mean values for slides is 2.64, for available digital texts and multimedia is 2.70 and for exams procedures is 2.14 ), had the higher number of issues in the open-ended responses, the relation with teachers revealed a widespread behavior heterogeneity; 3. the teaching support tools: the most relevant results was, surprisingly, not the level of satisfactory use but rather the low level of knowledge and use by the students themselves, in many cases less than 50% of the total students responding to the questionnaire; 4. the support services provided by the University: students with Learning Disabilities, often did not know their existence or, in many cases, judged them unsatisfactory.
For collecting data during the focus groups it was decided to use a method typical of the Quality Function Deployment (QFD), a tool originally used for quality management, whose versatility makes it easy to use in a number of different contexts. In fact, since each set of objects and people interacting with each other can be considered a system and since any sequence of activities oriented to
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achieve a purpose can be considered a process, it follows that the theoretical bases and methods developed from quality engineering can also become functional in other, heterogeneous areas. Specifically, the used method was a simplified correlation matrix, a grid where, after identifying the customer (in this case the focus group participating students, with the guidance of some moderators) and the critical elements (the so-called voC, voice of costumer) relating to the scope of analysis, the possible solutions (so-called CTQ, critical to quality) for each voC are defined. The result is a matrix in which each voC is associated with one or more CTQ. During the four focus groups, moderators and students have therefore worked in teams to build four correlation matrices, one for each of the chosen areas. The matrix definition was made in real time, using a wide screen to display all the steps. The time for each focus group was limited to 30 minutes, including introduction, voC collection and reorganization (to eliminate repetitions, not relevant items, etc.), CTQ collection and final construction of the matrices. obviously all matrices were further ordered in a more organized way in a subsequent debriefing, exclusively reserved to moderators. Each focus group was attended by two moderators, two observers and a working group of 8 students. This latter number is judged to be suitable, as a result of statistical studies available at the state of the art, to determine at least the 90% of the relationship issues between the users of a system and the system itself, as shown in Fig.1.
132
Fig. 1: Number of users to define issues with a system
The final version of the correlation matrices is shown in Figure 2, where, as an example, the result obtained at the end of the focus group on teaching support tools is shown. The X in the matrix defines when a relationship between a voC and a CTQ exists: There is at least a CTQ for each voC and, at the same time, a CTQ can solve more than one voC. It cannot exist a voC without CTQ: in this case, a critical element would not have solutions. III. Esiti di ricerca
organizing the matrix in a coherent way, specific areas of interest can be easily defined. For example, in Fig. 2, the light blue area shows the need to invest in training and information for all the people involved in the University system: teachers, students and University staff.
Fig. 2: Simplified correlation matrix for teaching support tools focus group
The analysis of the correlation matrices permitted to better define the following project steps towards some specific items, directly obtained from the CTQ analysis. In particular, the main results could be summarized as follows:
1. the legislation alone is not enough to ensure that students with Learning Disabilities a full integration within their university career. The laws must be associated to guidelines and to good practices handbook; 2. there is a need to invest in training and information processes, able to “educate” all users to relate properly with each other and with the available educational tools; 3. as a consequence, a homogeneous behavior policy has to be promoted in the relationship between teachers and students: teachers and students need to know what they can get one from each other but also what are the limits of their possible requests; 4. a website that collects guidelines and good practices handbook is mandatory, it must be structured in several levels of interpretation (for teachers, for students, for the university personnel involved with students) and above all it must be easily usable by the “weaker” users, the students with Learning Disabilities themselves, with ad hoc contents and layout; 5. some compensatory easy-to-use instruments must be provided, not affected by a technological obsolescence, which effectively would make them quickly unusable.
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Conclusions
From the survey questionnaire and focus groups we can already deduce the important considerations for further work, although it is only the half the project. Five years after Law 170/2010 University institutions are not yet fully able to match the educational needs of LD students’ study. But even these students aren’t sometimes aware of their rights. We need to inverstire in global educational processes at all institutional level in order to spread knowledge about the needs of people with LD in adulthood. The University has a specific responsibility in this direction, it must have teachers trained, they have to know the rules and the results of studies with scientific evidence around the theme of LD and their characteristics in adulthood. The teachers have to be able to implement a university teaching LD-friendly and know how to adopt specific protocols to which all students with LD can be accessed directly in the form systematized and not just occasionally and sporadically. This is in fact the purpose of this project.
References
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L’incontro con i BES: una sfida cruciale nelle testimonianze di insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria
Key-words: special educational needs, teacher, preschool and primary school, teaching experience
Maja Antonietti. Ricercatrice confermata. Docente di pedagogia speciale e didattica speciale per Scienze dell’Educazione, Scienze della Formazione Primaria, Tfa, Pas, Corso di Specializzazione per il sostegno didattico agli alunni con disabilità presso il Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università di Modena e Reggio Emilia. Temi di ricerca: professionalità insegnanti ed educatori; teoria e strumenti di osservazione e documentazione; educazione continuativa all’aperto. Chiara Bertolini. Assegnista di ricerca. Docente a contratto nel settore disciplinare M/Ped 03 per Scienze dell’Educazione, Scienze della Formazione Primaria, Tfa, Pas, Corso di Specializzazione per il sostegno didattico agli alunni con disabilità presso il Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università di Modena e Reggio Emilia. Temi di ricerca: professionalità di insegnanti ed educatori, comprensione del testo, promozione della creatività in età prescolare e gestione del conflitto interpersonale a scuola. I paragrafi 1, 5, 6 e 7 sono stati redatti da Maja Antonietti; i paragrafi 2, 3, 4 da Chiara Bertolini. Le due ricercatrici si sono costantemente confrontate nella fase di ricerca e nella stesura del presente articolo.
III. Esiti di ricerca
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno III | n. 1 | 2015
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
This research looks deeper into the theme of a teacher’s professional identity, studying those aspects of expertise (Berliner, 1987) which teachers believe they habitually employ or which they feel are necessary when dealing with children with special educational needs. The research highlights examples or instances within the teachers’ working experience, in written descriptions by both class and special teachers for inclusion working in Italian preschool and primary schools. The theme of competence and levels of criticism in the teaching profession where explored through the analysis of 515 autobiographical essays where teachers described their work experiences as being successful or riddled with difficulties. The essays collected were examined using textual analysis (Taltac) (De Lillo, 1971; Bolasco, 1999) and subsequently the relationship with special educational needs will be examined through content analysis on the 208 essay that reports situation connected to special educational needs. Lexical analysis carried out highlights certain contexts and situations as being particularly relevant to teachers as their encounters with children with special needs. The content analysis put in evidence the area of the teaching profession (Galliani, 2004) of those teachers involved in encounters with children with special needs, the resources adopted by them, the heart of the problem connected to the satisfaction gained or the level of professional criticism when dealing with children with special educational needs. The aim is reflect on suitable strategies and material for training teachers in order to create a climate for inclusion in the classroom.
abstract
Maja Antonietti / Università di Modena e Reggio Emilia / maja.antonietti@unimore.it Chiara Bertolini / Università di Modena e Reggio Emilia / chiara.bertolini@unimore.it
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1. Introduzione
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Negli ultimi anni la scuola italiana è stata attraversata da un’apparente nuova questione: il tema dei bisogni educativi speciali (BES) che possono essere riconosciuti in alcuni allievi. Il dibattito italiano è stato sicuramente sollecitato da recenti indicazioni ministeriali1, ma è opportuno ricordare che tali norme si collocano entro una più ampia riflessione internazionale sui BES (Rapporto Warnock 1978; Dichiarazione di Salamanca 1994; OECD 2004; Convenzione Onu 2006; UNESCO 2011). Si tratta di norme, quindi, che nascono dal dibattito internazionale, ma che si inseriscono in un contesto, quello italiano, connotato da politiche scolastiche decennali rivolte alla piena integrazione delle persone con disabilità. Il richiamo ad un approccio educativo e didattico ai BES in Italia può essere analizzato secondo diversi livelli. Il primo riguarda la dimensione valoriale che si coniuga con l’adozione di un concetto ampio, quale BES, entro cui riconoscere difficoltà didattico-educative di un allievo, indipendentemente dalla presenza di deficit (Ianes, 2006). Questo significa muoversi in una prospettiva legata a doppio filo con il modello di Classificazione del Funzionamento, delle Disabilità e della Salute anche definito ICF promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2001), il quale, non puntando lo sguardo in modo parziale solo sulle diversità si propone come fortemente inclusivo. Tale modello di classificazione si muove, infatti, un’ottica bio-psico-sociale permettendo di leggere ciascun individuo, non tanto in considerazione dei deficit o menomazioni di partenza, ma sulla base delle capacità e delle performance agite, in modo efficace o meno, in riferimento al proprio ambiente di vita. In questo senso, gli elementi su cui si punta l’attenzione sono i bisogni espressi dall’individuo, che vengono letti in chiave sistemica e che sono temporanei. Una seconda dimensione fa riferimento alla spinta, animata appunto dalle recenti indicazioni ministeriali, che invita gli insegnanti ad adottare principi di individualizzazione e di personalizzazione nella propria pratica quotidiana. Tali elementi erano già presenti in normative precedenti2 ma rappresentano un pilastro della riflessione didattica italiana (Baldacci, 2006; Pavone, 2002) troppo spesso dimenticata nella prassi della quotidianità scolastica (Cardarello, 2010). Il pregio di tali norme è quindi quello di segnalare come imprescindibile per la qualità del proprio lavoro uno sguardo attento alle specificità individuali da parte di tutti gli insegnanti nei confronti di tutti i propri allievi. Un’ultima dimensione a cui fare 1
2
Legge 8 ottobre 2010, n. 170 - Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico; Decreto Ministeriale 12 luglio 2011, n. 5669 - Regolamento applicativo della Legge n. 170/2010 e Linee Guida; Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 - Strumenti di intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica; Circolare Ministeriale 6 marzo 2013, n. 8 – Direttiva ministeriale 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. Indicazioni operative; Nota 27 giugno 2013, n. 1551 – Piano annuale per l’inclusività - Direttiva 27 dicembre 2012 e C.M. n. 8/2013; Nota 22 novembre 2013, n. 2563 – Strumenti di intervento per alunni con Bisogni educativi speciali. A.S. 2013/14. Chiarimenti. Decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275 - Regolamento recante norme in materia di Autonomia delle istituzioni scolastiche ai sensi dell’art.21, della legge 15 marzo 1999, n. 59.
III. Esiti di ricerca
riferimento è quella propriamente metodologica, ovvero l’insieme di strumenti e procedure che sono da attivare quando si riconosce un bisogno educativo speciale in un proprio allievo, elementi questi che rappresentano la garanzia di un’efficace azione didattico-educativa finalizzata all’inclusione. L’intento di questo studio è quello di porre in evidenza, a partire da testimonianze dirette degli insegnanti, il tema dell’incontro tra i docenti e gli alunni con BES. Tale riflessione è in continuità con le recenti ricerche in ambito italiano che hanno posto l’attenzione sulle opinioni degli insegnanti relativamente al tema dell’inclusione e e alle condizioni di specialità: i due contributi di Baschiera e Tessaro (2014) sulle rappresentazioni degli insegnanti nelle relazioni di aiuto e rispetto ai bisogni educativi speciali; l’analisi di Antonietti (2014) sulle opinioni di insegnanti curricolari e sul posto di sostegno rispetto alle competenze della professione docente; le riflessioni di Mura (2014) relative ai docenti delle scuole secondarie; lo studio di Mortari (2013) sulle azioni efficaci per situazioni complesse; il report della Fondazione Agnelli, Associazione TreElle e la Caritas Italiana (2011) sullo stato degli alunni con disabilità nella scuola italiana; l’indagine sull’integrazione di Ianes, Demo e Zambotti (2010). La presente ricerca si colloca in un filone di studi che intende indagare la professionalità docente anche allo scopo di individuare aree problematiche utili per la progettazione della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti. Il tema dei bisogni educativi speciali viene quindi approfondito attraverso l’analisi di resoconti3 relativi ad episodi vissuti in prima persona da parte di insegnanti in servizio riguardanti l’incontro con alunni con BES, episodi rilevanti sia perché percepiti come momenti di soddisfazione professionale, sia perché al contrario rappresentanti nodi problematici.
2. Aspetti metodologici
2.1 Obiettivi
L’indagine si compone di due studi. Il primo studio intende verificare se la tematica dei BES risulta percepita dagli insegnanti in servizio della scuola dell’infanzia e di quella primaria (sia curricolari che sul posto di sostegno) come contesto critico della propria professione. A partire da un ampio corpus di resoconti nei quali gli insegnanti narrano esperienze vissute a scuola in cui si sono sentiti competenti o in difficoltà, verrà accertato se e in che misura tali situazioni riguardano l’incontro con i BES. Il secondo studio si concentra sull’analisi dei soli scritti che fanno esplicito riferimento ad episodi caratterizzati dalla presenza di situazioni riferite a bisogni educativi speciali4. In riferimento, dunque, ai resoconti in questione, la ricerca
3 4
Nel corso del presente studio, per ovviare al problema delle ripetizioni, tali resoconti verranno anche definiti temi, in virtù del tipo di richiesta somministrata al campione di riferimento, e scritti, termine inteso come sinonimo. In considerazione della natura fortemente contestuale del concetto di BES, nella fase metodo-
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MAjA ANTONIETTI, ChIARA BERTOLINI
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esplorerà le tipologie di difficoltà descritte, la natura delle carenze professionali che i docenti riconoscono in tali situazioni e le modalità adottate dagli stessi per affrontarle. 2.2 Campione
Il primo studio ha coinvolto 274 insegnanti italiani, in servizio, curricolari e sul posto di sostegno, di scuola dell’infanzia e primaria, frequentanti corsi speciali di abilitazione all’insegnamento. Tali insegnanti hanno prodotto 515 resoconti5. Il secondo studio ha esplorato 208 resoconti (selezionati entro il campione di riferimento composto da 515 temi) scritti dallo stesso campione di insegnanti coinvolti nel primo studio, relativi solo a situazioni caratterizzate dall’incontro con BES. 2.3 Metodologia
Le opinioni degli insegnanti sono state indagate invitando 274 insegnanti in servizio della scuola dell’infanzia e primaria a scrivere in modo anonimo ed in una situazione controllata due brevi resoconti riferiti alla propria esperienza di insegnamento, a partire dalle consegne:
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Quella volta che mi sono sentito/a competente….” e “Quella volta che mi sono sentito/a in difficoltà.
Nel primo studio, i 515 scritti ottenuti sono stati esplorati con un’analisi descrittiva condotta in modo indipendente da tre ricercatori6. Questa prima esplo-
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logica della ricerca si è scelto di definire i BES attraverso il riferimento ai recenti richiami normativi italiani, considerando quindi i BES come una macrocategoria entro cui si collocano “difficoltà educative-apprenditive degli alunni, sia le situazioni considerate tradizionalmente come disabilità mentale, fisica, sensoriale, sia quelle di deficit in specifici apprendimenti clinicamente significative, quali la dislessia, il disturbo da deficit attentivo, ad esempio, e altre varie situazioni di problematicità psicologica, comportamentale, relazionale, apprenditiva, di contesto socioculturale ecc.”. (Ianes, Cramerotti, 2013, p. 30). Si è adottato inoltre un criterio di non occasionalità della difficoltà che veniva segnalata. Esempio di resoconto. “Da quando mi sono trovata in sezione un bimbo con grosse difficoltà comunicative, con atteggiamenti di totale chiusura verso gli altri, che non si lasciava avvicinare da nessuno e che era barricato nel suo mondo. In questa situazione ho trovato mille difficoltà, ho fatto mille tentativi ma non sono riuscita a vedere cambiamenti e mi sono sentita davvero incapace!” (Resoconto n. 300). Esempio di resoconto: “Titolo: “Insieme ce la faremo”. Insegno nella stessa scuola materna da quattro anni in qualità di docente di sostegno specializzata. Quest anno il dirigente scolastico mi ha affidato un bambino che nell’anno precedente ha avuto difficoltà a relazionare sia con le insegnanti che con i compagni. Il mio obiettivo principale era quello di renderlo sereno; ho così messo in atto la mia sensibilità e le mie conoscenze....beh il risultato?Il bambino è felicissimo, non piange mai, ha voglia di venire e stare a scuola, ha voglia di giocare con i compagni e di sperimentare e fare cose nuove.” (Resoconto n. 133). Tale analisi è stata condotta da Antonietti, Bertolini, Cardarello. L’analisi ha preso in considerazione anche altre variabili non oggetto del presente primo studio.
III. Esiti di ricerca
razione è stata volta al riconoscimento (a partire dalle informazioni presenti nei resoconti) delle variabili di sfondo presenti nei resoconti come il ruolo dell’insegnante scrivente (curricolare/sostegno) e l’ordine scolastico a cui fa riferimento ciascun resoconto (infanzia/primaria). Successivamente, è stata condotta l’analisi testuale7 dei temi (De Lillo, 1971) attraverso l’impiego del software TaLTaC2 (Bolasco et al., 1999). In particolare, i testi sono stati digitalizzati, acquisiti dal software e sottoposti ad alcune operazioni di pre-trattamento. In tale fase, il corpus è stato normalizzato ed è stato eseguito il tagging grammaticale (ciascuna parola è stata marcata con la categoria grammaticale corrispondente). Il software ha considerato come ambigue le parole omografe (es. “letto” è sostantivo o verbo?), rispetto alle quali è stata condotta una disambiguazione manuale, dopo la lettura dei resoconti contenenti le parole in questione. Successivamente, è stata eseguita la lemmatizzazione che ha permesso di individuare per ciascuna parola del corpus il lemma corrispondente (es. forma grafica: alunni, lemma: alunno; forma grafica: leggevano, lemma: leggere). In seguito al pre-trattamento del corpus, il vocabolario è stato sottoposto ad alcune analisi di frequenza. In particolare, sono stati calcolati il numero totale di parole (forme grafiche) che compongono il corpus (occorrenze totali) e il numero di lemmi che compaiono per ciascuna categoria grammaticale. Successivamente, è stato riconosciuto il lessico peculiare, vale a dire le parole utilizzate nei temi scritti dagli insegnanti con una frequenza statisticamente superiore a quella in cui le stesse vengono impiegate nell’italiano standard. Infine, attraverso il confronto dei temi riferiti ad esperienze vissute come di soddisfazione professionale e come di difficoltà8, è stato individuato il lessico specifico, ossia le parole statisticamente più utilizzate in una tipologia di tema rispetto all’altra.
Il secondo studio ha esplorato i 208 resoconti (dei 515 iniziali) che in modo esplicito fanno riferimento a contesti caratterizzati dalla presenza di situazioni riconducibili alla categoria di BES. Tali scritti sono stati studiati con la tecnica dell’analisi del contenuto (Losito, 2002). In particolare, due ricercatori9 in modo indipendente hanno esaminato ciascun resoconto alla luce di alcune variabili ritenute rilevanti a partire sia dalla letteratura di riferimento che dalla lettura degli stessi scritti: – elementi descrittivi relativi alla tipologia di resoconto, alle figure adulte coinvolte e all’ordine scolastico di afferenza; – “cuore” della situazione problematica inteso come la natura dell’evento problematico narrato nel resoconto; – area di competenza del docente coinvolta nella situazione descritta in cia-
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L’analisi testuale è stata condotta da Bertolini. I resoconti sono stati categorizzati di “soddisfazione” quando erano in risposta alla domanda stimolo “Quella volta che mi sono sentito/a competente…”. I resoconti sono stati categorizzati di “difficoltà” quando rispondevano alla domanda stimolo “Quella volta che mi sono sentito/a in difficoltà…”. Tale analisi è stata condotta da Antonietti e Bertolini.
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scun resoconto. L’analisi di tale dimensione è avvenuta facendo uso delle cinque macroaree di competenza che caratterizzano l’insegnante, proposte da Galliani (2004)10; – tipologia di situazione di BES narrata, ovvero se si tratti di bisogni educativi e didattici in presenza di certificazione e diagnosi, facendo quindi riferimento ad una difficoltà derivante anche da una condizione eziologica, o invece a difficoltà riconosciute dagli insegnanti e dalla scuola senza che vi sia una menomazione di partenza, ovvero un deficit dichiarato. Lo studio ha esplorato tali variabili nell’intero campione di riferimento (208 temi). Successivamente le medesime variabili sono state oggetto di analisi (b, c, d) comparando i resoconti relativi a momenti di “soddisfazione” e quelli relativi ad eventi percepiti come particolarmente critici (di “difficoltà”), mettendo inoltre in evidenza anche le risorse impiegate (e) dai docenti per affrontare e risolvere le situazioni difficili. Tale analisi è stata svolta solo nei temi di “soddisfazione” (cfr. nota 9). L’analisi è avvenuta tenendo conto sia degli elementi che emergono dai resoconti stessi sia ispirandosi ai fattori emersi da un’indagine relativa alla professionalità docente (Cardarello et al., 2009)11.
3. Risultati del primo studio
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Dall’analisi descrittiva emerge come:
– il 46,9% dei temi descriva esperienze percepite di soddisfazione dall’insegnante scrivente, il 48,7% di difficoltà, nel 4,3% non è possibile identificare il tipo di esperienza percepita; – il 37,1% dei resoconti fa riferimento ad esperienze vissute nella scuola dell’infanzia, il 36,1% nella scuola primaria ed il 26,8% ad un ordine scolastico non dichiarato e riconoscibile; – il 64,7%, dei temi è scritto da docenti che nella situazione narrata coprivano il ruolo di insegnante di classe, il 13,8% di insegnanti di sostegno, mentre non è possibile identificare il ruolo del narratore nel 21,5% dei casi.
L’analisi testuale indica che il corpus si compone complessivamente di 37.343 parole, di cui 21.275 sono state utilizzate nei resoconti relativi a situazioni in cui gli insegnanti si sono percepiti soddisfatti, 16.068 in quelli in cui si sono sentiti, invece, in difficoltà. La lettura dei resoconti mostra una strutturazione ricorrente degli scritti: quelli relativi a situazioni di difficoltà descrivono una situazione problematica non risolta, quelli relativi a situazioni percepite come di soddisfazione narrano una situazione difficile e la strategia adottata per farvi fronte in modo ef-
10 Relazionale, etica, gestionale, didattica, disciplinare (nel senso di riferimento ai contenuti della disciplina). 11 Fattore strumentale, etico-relazionale, didattica attiva, didattica tradizionale, adulti, conoscenza delle specificità individuali, valutazione e didattica individualizzata, motivazione.
III. Esiti di ricerca
ficace. La maggiore articolazione di quest’ultima categoria di resoconti ci pare possa spiegare perché sono scritti mediamente più lunghi (lunghezza media degli scritti relativi a situazioni percepite come di soddisfazione: 93,311 parole vs lunghezza media degli scritti relativi a situazioni percepite di difficoltà: 55,986 parole). La tab. 1 indica la distribuzione di ciascuna categoria grammaticale per tipologia di resoconti. Da sottolineare il maggior impiego di nomi di persona negli scritti relativi a situazioni vissute come di soddisfazione, dove i bambini al centro della narrazione vengono indicati con il nome di battesimo più di frequente che nei temi in cui vengono narrate situazioni percepite come di difficoltà, dove al posto del nome di persona generalmente viene utilizzato il sostantivo comune “bambino/a”. !"#$%#&'() *(+#,-".#),"(//(+.*(0.) !"#$%&'(%")*&+,+(*('+&-*.+$/+(#"%0"#+&"( !"#$%&'(%")*&+,+(*('+&-*.+$/+(#"%0"#+&"( 1+(1-22.1!('.-&#( 1+(2.!!.*-0+3( 2345(634725( ?@@ABB5C5( CA!F5( ?CCA!F5( 2345(G5(HA!I32?( 274A!5( ?!B563J5( H!AH3I5K5325( H!32345( 632@572K5325( ?JB!3(M"'0)*N*.+$/+O(#*%$)"( +-+(0#) (
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Tab. 1 Frequenze delle categorie grammaticali nel corpus, distinte per tipologia di resoconti.
L’analisi del lessico peculiare, che consiste nell’individuazione delle parole presenti nel corpus con una frequenza statisticamente superiore a quella delle stesse parole quando impiegate nell’italiano comune, indica come utilizzate in modo tipico dagli insegnanti coinvolti (ossia statisticamente più spesso che nel linguaggio comune) i seguenti termini:
– scuola, sezione e classe, come i principali contesti in cui sono state vissute le esperienze narrate dagli insegnanti; – bimbo, alunno, collega, pedagogista, come i soggetti che entrano in relazione con l’insegnante scrivente, dando luogo a una situazione percepita di soddisfazione o di difficoltà; – insegnare e apprendimento, come obiettivi dell’insegnante; – lezione, intesa sia come progettazione che come gestione della lezione; – motivazione e coinvolgimento, come ricerca da parte degli insegnanti di strumenti e strategie per sostenere la motivazione e il coinvolgimento degli studenti allo scopo di facilitare il loro apprendimento; – documentare e ripensare, come atteggiamento dell’insegnante di fronte a situazioni scolastiche difficili; – relazionarsi e rapportarsi, come strategie per far fronte a situazioni scolastiche difficili;
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– ambientamento (anche inteso come inserimento) dei bambini nella scuola dell’infanzia; – comportamento difficile, come gestione del bambino con comportamenti problema; – disabilità, come esperienze con allievi con disabilità; – insegnante di sostegno, come ruolo assunto nella situazione descritta.
Da tale analisi emerge, dunque, che i principali contesti indicati dai docenti riguardano la gestione delle relazioni (con bambini ed adulti), il processo di insegnamento-apprendimento, la gestione dei comportamenti difficili e l’incontro con la disabilità. Tali contesti confluiscono, dunque, almeno in parte nel concetto di BES. Le principali strategie adottate fanno riferimento alla relazione, alla documentazione, al ripensare e al progettare. L’analisi delle specificità permette, infine, di confrontare il lessico utilizzato nei resoconti relativi alle situazioni percepite come di soddisfazione e quelle come di difficoltà, allo scopo di rilevare le parole statisticamente più presenti in un gruppo di scritti rispetto all’altro, individuando così facendo gli aspetti caratterizzanti in modo specifico ciascuna categoria. Le parole specifiche identificate nei temi relativi alle situazioni di soddisfazione sono:
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– libro e lettura, moltiplicazione e tabelline, ossia aspetti inerenti le discipline della lingua e della matematica; – il laboratorio ed il gioco, come mezzi per affrontare con successo esperienze inizialmente difficili; – il cibo e il mangiare, come situazioni critiche, seppure risolte; – il dialogare, l’ascoltare, il pensare, il ripensare, il progettare ed il cambiamento, come strategie per affrontare e risolvere iniziali situazioni difficili.
Le parole specifiche dei temi relative alle situazioni percepite come di difficoltà sono:
– insegnante di sostegno e supplente; – gestire, presente in molti resoconti che narrano di situazioni difficili nella gestione del singolo bambino e delle famiglie; – aiutare, intesa sia come la percezione degli insegnanti di non essere d’aiuto per certi bambini, sia come la carenza di aiuti al docente; – comunicare, difficoltà dell’insegnante a relazionarsi con diversi soggetti: le famiglie, il dirigente scolastico, i colleghi ed i bambini con BES.
I temi che riferiscono di situazioni in cui i docenti si sono sentiti soddisfatti dunque, fanno spesso riferimento all’insegnamento di contenuti disciplinari e sono caratterizzati dall’impiego di strategie, quali il confronto interpersonale, il pensiero e la progettazione volti al cambiamento. I resoconti relativi alle situazioni percepite come di difficoltà, invece, sono vissute spesso da insegnanti supplenti o sul ruolo di sostegno che segnalano la loro difficoltà nella gestione di e comunicazione con alcuni bambini e famiglie. Tali docenti dichiarano, inoltre, di percepirsi non in grado di aiutare certi bambini e, a loro volta, si sentono poco aiutati nell’affrontare alcune situazioni problematiche. III. Esiti di ricerca
Tali risultati confermano, dunque, che i contesti correlati ai BES si presentano come critici per la professionalità docente.
4. Discussione del primo studio
L’analisi testuale indica alcuni argomenti come principalmente trattati dai 515 temi presi in considerazione. In generale, i resoconti narrano di contesti in cui gli obiettivi prevalenti sono insegnare e sostenere l’apprendimento attraverso la progettazione e conduzione di lezioni che sostengano la motivazione e il coinvolgimento dei bambini. Le principali aree critiche paiono essere lo stabilire buone relazioni educative, la gestione dei comportamenti difficili dei bambini e l’incontro con la disabilità. Il confronto tra scritti relativi a situazioni percepite come di soddisfazione o di difficoltà ha fatto emergere alcune differenze. I resoconti inerenti contesti ritenuti soddisfacenti ed efficaci affrontano più spesso problemi relativi all’insegnamento di contenuti disciplinari e questo avviene maggiormente per la scuola primaria (cfr. Antonietti 2008). Gli ostacoli decritti vengono, poi, affrontati e superati attraverso il confronto interpersonale, il pensiero critico e flessibile e la progettazione (cfr. Mortari, 2013). I resoconti relativi a situazioni vissute come di difficoltà, invece, sono narrate più spesso da insegnanti che nel contesto descritto coprivano il ruolo di docente sul posto di sostegno o supplente (cfr. Antonietti, 2014). Spesso, inoltre, il problema al centro degli scritti è di natura relazionale-comunicativa (cfr. Baschiera, 2013; Tessaro, 2013; Mortari, 2013). Di fronte agli ostacoli descritti, gli insegnanti non si sentono in grado di attuare cambiamenti risolutivi, né si sentono aiutati e sostenuti dal contesto. Alla luce di tali risultati, si ritiene che un approfondimento sulla tematica dei BES possa essere utile a fini formativi e conoscitivi.
5. Risultati del secondo studio
Questo secondo studio, come già precisato, esplora i soli resoconti che fanno riferimento alla tematica dei BES entro il corpus più ampio dei temi analizzati. Attraverso l’analisi del contenuto sono stati identificati 208 resoconti, che rappresentano il 40,38% della totalità dei temi.
a) Una prima analisi descrittiva permette di evidenziare alcune caratteristiche generali ricavabili da tali scritti relativi ai BES. Si evidenziano i seguenti elementi: – il 44,23% dei resoconti descrive esperienze percepite di soddisfazione dall’insegnante scrivente, il 55,77% di difficoltà. Rispetto alla totalità di resoconti (515) da cui questi scritti relativi ai BES sono stati estratti, si evince una sovrarappresentazione di quelli relativi alla difficoltà, ma non è presente alcuna significatività statistica (P=0.2475); – il 34,62% dei resoconti fa riferimento ad esperienze vissute nella scuola del-
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l’infanzia, il 36,06% nella scuola primaria ed il 29,32% ad un ordine scolastico non dichiarato, né riconoscibile. Non si segnalano differenze significative rispetto al campione di riferimento da cui questi resoconti sono stati selezionati (P=0.7708); – il 51,44% dei resoconti sono redatti da docenti che nella situazione narrata avevano assunto ruolo di insegnante di classe (107), il 33,17% da insegnanti sul ruolo di sostegno (69), mentre per un 15,39% non è stato possibile identificare il tipo di ruolo professionale. Rispetto alla totalità dei resoconti da cui questi temi sono stati estratti, è evidente che la quasi totalità degli insegnanti sul ruolo delle attività di sostegno abbia effettivamente raccontato un episodio relativo ai BES (97,2%), a fronte di poco meno di un terzo degli insegnanti identificati come curricolari facenti parte del campione iniziale (32,1%). Tale dato è statisticamente significativo (P<0.0001); – l’11,54% degli scritti fa poi riferimento ad un’esperienza in cui l’insegnante narrante era supplente, mentre nell’8,17% si trovava nei primi anni di lavoro a scuola (novizio).
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b) Una prima parte dell’analisi ha evidenziato la natura del problema che emergeva dai resoconti. In termini percentuali la difficoltà maggiormente segnalata è quella relativa all’essere attrezzati di fronte alla condizione di bisogno educativo speciale (28,84%), sia nei termini di adeguamento della proposta didattica individualizzata sulla base della condizione di specialità (13,46%), sia in modo più esplicito alla scarsa conoscenza di strategie appropriate (15,38%). Il secondo problema identificato come prevalente in ordine di frequenza è rappresentato dalle difficoltà di tipo relazionale dell’insegnante, ovvero come difficoltà/capacità dell’insegnante di gestire le relazioni altrui (25%): nello specifico il dialogo problematico con la famiglia, in particolare quando sono implicate dimensioni di riconoscimento/accertamento diagnostico (10%); i rapporti complessi con i colleghi (5,77%); i problemi nella relazione con l’alunno (4,80%) e altre difficoltà non precisate. La terza area particolarmente rilevante in termini percentuali riguarda il tema dell’inclusione (in totale 18,75%), intendendo sia la costruzione di un contesto favorevole entro la dimensione della classe (pari e colleghi), sia (in misura percentuale molto minore 2,4%) l’integrazione della didattica individualizzata nella programmazione curricolare. Seguono, poi, problematiche legate alla gestione delle emozioni (9,13%) e alla sfera della comunicazione (4,80%). A queste si aggiungono altre difficoltà menzionate in misura percentuale minore12. c) L’area della professionalità messa in gioco nei resoconti analizzati vede impiegata al primo posto la dimensione relazionale (39,84%), seguita da quella didattica (27,84%). La dimensione etica (16,32%) e quella gestionale (13,44%) sono presenti in misura minore, quasi nullo il riferimento a quella disciplinare (2,4%). d) In quasi tutti i resoconti gli insegnanti hanno fatto riferimento ad una condizione di BES ben precisa ed identificabile, questo non è avvenuto per il 16,34% delle situazioni, dove il riferimento è stato quello ad una non precisata
12 Inserimento del bambino (4,33%), motivazione (2,88%), altro (4,80%).
III. Esiti di ricerca
condizione di disabilità. Tra le condizioni di BES esplicitate dagli insegnanti troviamo al primo posto le difficoltà comportamentali (15,38%), seguite da disturbi dello spettro autistico (9,13%), da quelle derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana (7,69%), da generiche difficoltà di apprendimento (6,25%), da difficoltà nelle relazioni con pari e adulti (5,76%) e dalla disabilità intellettiva (5,76%). A queste tipologie ne seguono molte altre evidenziate in misura percentuale minore13. Si è scelto di raggruppare i dati utilizzando due ampie categorie alle quali i resoconti fanno riferimento: quella di bisogni educativi speciali connessi ad una certificazione/accertamento e quelli invece riconosciuti dalla scuola. I primi sono presenti per il 52,88%, i secondi per il 47,11%.
Si è infine proceduto all’analisi dei resoconti, mettendo a confronto i temi di soddisfazione con quelli di difficoltà professionale.
a) I temi di soddisfazione professionale, comparati con quelli di difficoltà, sono risultati maggiormente ed in modo statisticamente significativo (P=0,0006) collegati ad episodi che hanno visto l’insegnante attivarsi in modo positivo ai fini dell’inclusione nel contesto scolastico. Principalmente si tratta di situazioni in cui l’obiettivo è stato quello di includere il bambino nella classe, intendendo per lo più la relazione con i pari. In misura minore l’inclusione è avvenuta costruendo un buon clima relazionale con tutti gli insegnanti coinvolti ed integrando didattica curricolare e quella individualizzata. I temi di difficoltà riguardano in modo maggiore (ai limiti della significatività statistica) l’incapacità di adeguamento delle proprie strategie didattiche in risposta alla specialità (P=0.0929) e le problematiche di tipo relazionale (P=0.0555). b) L’area di competenza relativa alla dimensione gestionale è più presente (ed in modo statisticamente significativo) (P=0.0244) nei resoconti di episodi relativi alle difficoltà. La dimensione professionale relativa alla dimensione relazionale viene menzionata al limite della significatività statistica (P=0.0874) maggiormente nei temi di soddisfazione professionale. La competenza etica riguarda situazioni di difficoltà, mentre la competenza didattica interessa in equiparabile misura entrambi i tipi di resoconti. c) Non si evidenziano differenze statisticamente significative rispetto alla tipologia di episodio riportato, ovvero se riferito a situazioni di disabilità certificate/accertate o se relativo a situazioni riconosciute dagli insegnanti. d) L’analisi si è concentrata sulle risorse impiegate per affrontare in modo efficace le situazioni problematiche, facendo quindi riferimento ai soli resoconti relativi ad esperienze di soddisfazione professionale che riportavano la risoluzione di una situazione di difficoltà. Le risorse maggiormente impiegate sono collegate alla dimensione etico-relazionale (34,78%), a quella relativa alla valutazione e didattica individualizzata (32,60%) e all’impiego di una di13 Deficit sensoriale (4,80%), difficoltà sul piano della comunicazione e del linguaggio (4,32%), presenza di multi-deficit (4,33%), DSA (3,84%), svantaggio socio-culturale (3,36%), altro bisogno (3,85%), difficoltà temporanee legate ad eventi della vita (2,40%), deficit motori (1,92%), disturbo comportamentale (1,44%), ADhD (1,44%), deficit o disturbi di linguaggio (1,44%).
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dattica attiva (9,78%). Segnalate, ma in percentuale meno rilevante, la relazione con gli adulti (7,61%), la conoscenza di aspetti relativi alle specificità individuali (5,43%) e l’utilizzo di aspetti metodologici (come gli strumenti osservativi, progettuali, di documentazione e le nuove tecnologie) (3,26%). Quasi per nulla menzionati aspetti motivazionali (2,17%) o il riferimento ad una didattica più tradizionale (0%).
6. Discussione del secondo studio
Seguendo l’ordine dei risultati per come sono stati presentati nel paragrafo precedente, si possono osservare le seguenti questioni. L’analisi del contenuto conferma i risultati del primo studio: il tema dei BES risulta essere un tema cruciale per la professionalità insegnante (cfr. Baschiera, 2014; Tessaro, 2014; Mortari, 2013) nella misura in cui quasi la metà dei resoconti del corpus iniziale fa riferimento a tale tematica.
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a) I resoconti relativi ai BES sono relativi in quasi egual misura, rispetto al campione iniziale, sia a momenti di soddisfazione che di difficoltà professionale, come dire che l’incontro con i BES rappresenta una sfida possibile per l’insegnante, non solo in termini di fatica professionale. In quasi egual misura rispetto al campione iniziale si distribuiscono anche i resoconti relativi all’ordine di scuola, confermando di fatto che la tematica è particolarmente sentita in entrambe le realtà di scuola e non rappresenta una specificità solo della dimensione più formale dell’apprendimento, tipica della scuola primaria. Diversa è, invece, la situazione che riguarda il ruolo professionale assunto: quasi la totalità degli insegnanti che lavorano sul ruolo di sostegno nel riportare episodi di soddisfazione o difficoltà professionale lo fa riferendosi al tema dei BES. Tale dato testimonia quanto la professionalità degli insegnanti per le attività didattiche di sostegno agli allievi con disabilità sia fortemente correlata alla capacità di far fronte alla condizione di specialità, mentre questo sia percepito come meno rilevante dagli insegnanti curricolari (cfr. Antonietti 2014). Ciò ci permette di segnalare e problematizzare stereotipi relativi ai due diversi profili professionali ancora presenti: gli insegnanti curricolari concentrati su una molteplicità di questioni tra cui i BES, gli insegnanti sul posto di sostegno focalizzati prioritariamente sulle condizioni di specialità. Interessante anche rilevare in circa un quinto dei resoconti l’esplicitazione della condizione di precarietà lavorativa o di prima esperienza all’insegnamento, dato questo emerso anche nell’analisi testuale del primo studio e confermato in letteratura (Veenman, 1984). b) I nuclei problematici riconosciuti in modo prioritario nei resoconti risultano essere relativi ad aspetti di individualizzazione didattica, con una forte componente di inadeguatezza percepita rispetto alla conoscenza di strategie appropriate per affrontare le diverse condizioni di specialità, alla dimensione di relazione con le famiglie ed alle tematiche correlate ad una efficace inclusione entro la dimensione del contesto classe (cfr. Antonietti, 2014). c) L’incontro con i BES coinvolge poi in misura maggiore la dimensione didattica III. Esiti di ricerca
e quella relazionale della professionalità docente, come dire che l’incontro con situazioni di bisogno mette in gioco il cuore della professionalità docente, rendendola quindi più vulnerabile. Assente la dimensione disciplinare, evidenziando come l’incontro con i bisogni educativi speciali non sembri postulare una ridefinizione della propria professionalità nell’ambito dei saperi, quanto piuttosto in campo metodologico. Il riferimento agli ambiti etici e gestionali ricopre circa un terzo delle aree di professionalità coinvolte. Tali dati trovano conferma nel modello di analisi della ricerca Tessaro e Baschiera (2014). d) Le tipologie di bisogni educativi speciali riportate nei resoconti rimandano ad una ampia pluralità di condizioni: quasi in egual misura sono presenti situazioni riferibili a certificazione/diagnosi e quelle invece riconosciute dalla scuola/insegnanti. Da evidenziare l’ampio numero di tipologie di situazioni alle quali un insegnante deve far fronte. Spiccano sicuramente tra tutte, le difficoltà comportamentali, quelle dei disturbi dello spettro autistico, quelle derivanti dalla mancata conoscenza della cultura e della lingua italiana.
Analizzando poi i temi sulla base del fatto che facessero riferimento a momenti di soddisfazione o a momenti di difficoltà non risolta, è interessante evidenziare come ad essere oggetto di maggiore efficacia dell’azione da parte degli insegnanti sia (b) l’aver operato con finalità inclusive, vale a dire per questi insegnanti essere riusciti principalmente a creare un clima capace di accogliere e sostenere buone relazioni all’interno del contesto classe principalmente tra gli alunni. Sono evidenti come nodi particolarmente problematici gli aspetti legati alle specificità delle situazioni incontrate e le relazioni con i colleghi (cfr. Antonietti 2014). Si potrebbe quindi ritenere che sia considerato più semplice per un insegnante attivare percorsi inclusivi a scuola, mentre sia percepito come più complesso, giacché necessita di approfondimenti ulteriori da parte del docente, il dotarsi di strategie adeguate per rispondere in modo completo e appropriato alle diverse specialità. Lo stesso discorso vale per la dimensione di relazione con i colleghi: questa dipende anche da vincoli del sistema scuola che un solo insegnante, senza strumenti, risorse e modifiche di organizzazione strutturale, fa più fatica ad affrontare. Quest’ultimo aspetto pare essere anche confermato dal maggiore riferimento (c) all’area di competenza gestionale per i temi di difficoltà. In analogia con quanto riportato precedentemente, anche le risorse (e) messe in campo per fronteggiare le situazioni risolte in modo soddisfacente, fanno riferimento all’area della dimensione etico-relazionale e a quella riguardante la didattica individualizzata, facendo perno quindi su dimensioni cruciali della professionalità insegnante (dati confermati anche in Mortari, 2013). Da segnalare in percentuali minori l’impiego di una didattica attiva per la risoluzione delle difficoltà, a fronte dell’inefficacia percepita delle strategie tipiche della didattica tradizionale, e il riferimento alla relazione con gli adulti. In particolar modo, tali risorse paiono efficaci quando rivolte alla risoluzione delle difficoltà derivanti principalmente dai problemi di inclusione, di individualizzazione dell’attività didattica e di relazione.
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Conclusioni
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L’incontro con i BES è un tema cruciale per l’insegnante: ciò è confermato sia dall’analisi testuale sulla totalità dei resoconti (515) sia nel dettaglio dall’analisi del contenuto (208 resoconti). Tale tematica può essere letta nei termini di “sfida cruciale” con la quale tutti gli insegnanti, sia curricolari che quelli sul ruolo di sostegno, devono confrontarsi e alla quale riescono a far fronte in modo percepito anche come soddisfacente. Dall’analisi dei dati risulta che l’incontro con i BES si evidenzi come problematico proprio perché pare mettere in discussione l’insegnante su due aspetti cruciali della sua dimensione professionale: quella di individualizzazione dell’insegnamento, ma non in termini di competenza disciplinare, e quella relazionale (sui molteplici fronti della relazione in cui un insegnante è coinvolto). Una delle ragioni di criticità quindi pare proprio essere questa, giacché il docente viene destabilizzato su due pilastri che egli riconosce come nevralgici della sua professione e per i quali occorre costantemente procedere a percorsi di formazione e autoformazione. Dall’analisi dei dati si intravede sicuramente un ruolo diverso di gestione dell’incontro con i BES da parte dell’insegnante curricolare e di quello sul ruolo di sostegno (cfr. Tessaro, 2014): il secondo focalizzato sulle condizioni di specialità più del primo. Tutto ciò è lontano sia dalle indicazioni normative che portano il tema dei BES al centro di tutta la professionalità docente, sia dal concetto stesso di inclusione. La definizione di inclusione che emerge dall’analisi dei resoconti risulta oltremodo più prossima all’idea di una buona ed efficace integrazione scolastica piuttosto che di vera e propria inclusione, laddove gli insegnanti per lo più si soffermano sulla costruzione di un buon clima relazionale entro la classe. Il dato relativo all’ampio numero di tipologie di situazioni di BES alle quali gli insegnanti hanno fatto riferimento, letto assieme alle difficoltà esplicitate sul piano della relazione e su quello didattico, ci autorizza a ritenere l’incontro con i BES come particolarmente destabilizzante proprio per la natura di incontro con un altro sconosciuto, per il quale l’insegnante si percepisce come poco attrezzato. Il confronto tra i resoconti di soddisfazione professionale e quelli che esprimono difficoltà non risolte ci permette di mettere in luce come percepiti particolarmente efficaci nei BES i seguenti aspetti: la dimensione etica-relazionale, il consolidamento nella didattica speciale (cfr. Mortari, 2013) assieme ad un’azione di insegnamento che deve farsi flessibile, attiva, creativa e allontanarsi da schemi più tradizionali, dato quest’ultimo confermato anche in altri studi (Fondazione Agnelli, 2011). I nodi sollevati dagli insegnanti rinviano a molteplici riflessioni:
– le fragilità di fronte ai BES testimoniata dall’analisi dei temi lascia intendere la necessità che gli insegnanti siano maggiormente dotati dal punto di vista metodologico, sia per la lettura delle situazioni attraverso osservazioni sistematiche utilmente guidate dal modello ICF, sia per una migliore individualizzazione dell’insegnamento, attraverso approfondimenti che connettano condizioni di specialità a precise strategie educative-didattiche; – le dimensioni etiche e relazionali della professione docente sono fortemente III. Esiti di ricerca
coinvolte nell’incontro con la diversità. Occorre essere attrezzati, quindi, in modo differente rispetto a quanto si sia fatto sino ad oggi, attivandosi per sperimentare in modo rigoroso modalità formative che pongano il futuro insegnante in condizione di mettersi in gioco completamente, utilizzando voce, corpo, emozioni, mente, anche in situazioni di simulazione del reale; – l’incontro con i BES investe il sistema scuola ed il territorio nella sua complessità e, come ribadito in altre sedi, deve essere oggetto di una presa in carico più ampia della questione, giacché l’inclusione necessita di uno sguardo maggiormente sistemico (oltre quindi la sola prospettiva del contesto classe) problematizzante, autoriflessivo e critico (cfr. Booth & Ainscow, 2002, 2014).
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III. Esiti di ricerca
Becoming disabled in adulthood: a pedagogical reading of life stories
The article analyses the results of a qualitative Italian piece of research that involved 20 disabled people who became disabled in their adulthood. These were perfectly sane people, successful professionals, mothers and fathers, women and men with lives full of interests, who overnight were subjected to trauma that irreversibly changed their lives. The stories were collected through semi-structured interviews, and explain emotions, states of mind, thoughts and worries that are experienced after the disability has occurred. The biographies collected together in the work make you think about disability in adulthood as a tortuous, complex and hard walk of life that gradually led the disabled people to reach different goals, often unthinkable and unexpected. For many interviewees, the first sensation after the trauma was that of being lost. In fact they felt inadequate, without a way out, useless and defeated, and after an introspective process they found themselves deeply different in both body and mind. The most frequent stages in this pathway are despair, acceptance and reorganization. In this piece of research we wanted to delve into the role of the professional educator in the path of recovery and in their accompaniment and support for the adult disabled. Key-words: disability in adulthoood, resilience, acceptance, reorganization.
III. Esiti di ricerca
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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abstract
/ fdettori@uniss.it
Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
G. Filippo Dettori / UniversitĂ di Sassari
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1. Becoming disabled in adulthood
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Every year many people find themselves in a changed personal situation following a traumatic event. They might have had a job, a family, commitments and social relations, and have been forced to reorganize their lives because of accidents or severe illness that irreversibly changed their individual condition. Studies show that a person who has become disabled faces difficulties in accepting the new situation, and sometimes perceives themselves inadequate because he/she thinks this is what others think of them. One piece of research about the building up of a new identity after a traumatic event highlights that in many cases people with disabilities do not accept their condition because they feel they are judged in a negative way by other people (mainly colleagues, friends or acquaintances). What negatively conditions the building up of a new, positive identity is the perception of not being adequate in the following areas: personal independence, sexuality or work. It emerges from the study that these people think they are not able to work, have personal relationships or be independent if compared to before the accident. These restrictions, being physiological and sometimes psychological, inhibit altogether the field of autonomy, and consequently the will of the person to get active and carry out processes aimed at the achievement of a new autonomy (Galvin, 2005). In 2008 The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities was promulgated .The need for such a document arose from such little attention being paid to the difficulties faced by people with disabilities that strongly contrasts with the most elementary human rights. There are several physical and mental barriers that hamper disabled people in their claim to important rights such as those to life, socialization, work and professional education. Disability in many cases permeates the person’s life and clouds all other aspects and qualities. Disability is thus synonymous with inferiority, inadequacy, ‘unfitness’. People feel refused, not accepted by others. It is often more a perception of refusal than a real condition, in many cases it is pride that drags the disabled person away from others, they might not want to appear as ‘different’. Especially those who became disabled in their adulthood have to reckon with shame and with the idea of appearing different from what they were before. A study that is quoted several times in the literature clarifies this aspect very well. Daily habits constitute continuous confirmations of the perception of normality. Therefore, when these run out because of the arrival of a disability, one’s perception of him/herself is generally distorted (Denzin, 1992). According to this study, a person with disability suffers from a loss of identity because their actions marking the rate of the day change. For example, not being able to autonomously get on a bus or not participating in sport as before the traumatic event affects their general personal perception, thus modifying the sense of belonging to the category of ‘sane’ people. A recent study proves that disability arrived in adulthood causes several difficulties, especially in the self perception. People recently affected by disability have trouble seeing themselves as ‘different’ from the past indeed. This leads them to consider themselves as incapable of carrying out any task (both working,
III. Esiti di ricerca
recreational, and emotional ones) and to deem themselves as completely unable to be independent (Chang, Y. J., Chen F. S., Huang J., 2011) Studies on the effects of chronic and disabling diseases highlight that the building of one’s personal identity is a long process that starts in babyhood and is self-fed throughout all of one’s life. A chronic disease stops this development and introduces a contrasting element that usually, at least at the beginning, causes an overall intense upheaval (Shih, 2011). A new and unexpected event such as the loss of the use of limbs undermines personal identity and affects the stability previously consolidated (Robillard, 1999). The need for reorganization their lives is particularly felt on the professional front. Many people with disability, for instance, would like to restart work after disease or an accident, but they cannot carry out previously achievable tasks and they do not always feel ready to fill new roles nor to attend new training courses for a requalification. The process of reorganization means acceptance and then the process is long and complex. Not everyone achieves the same goals in terms of overcoming trauma. Only the most resilient succeed in not being overcome by the traumatic event and in facing with determination the difficulties presented by the new condition (Dettori, 2011).
2. Resilience and Disability
The word resilience was originally used in physics to indicate the capability of a metal to get back to its shape after a stroke not strong enough to break it. Since the 80s, this term has been used in social sciences to indicate the capability of an individual to positively handle traumatic events and to reorganize their own lives in the face of difficulties. Resilient people are those who, despite being immersed in adverse circumstances, manage to face them efficiently. They manage to revive elements of their existence and to achieve important goals at work and in social and affective areas, sometimes against expectations (Cyrulnik, 2002). Resilience is therefore the capability to tackle difficulties with grit, and to use the same difficulties to reinforce one’s own personality. It is the person’s ability to get back on their feet facing the obstacles they meet along the way, whether ordinary (such as in relationships with parents, at school, at work or in interpersonal relationships) or extraordinary, such as in the occurrence of a disease or disability. At the end of the Second World War, scholars tried to detect identify the resources that had allowed some people to have good psychological adaptability in view of the many post traumatic disorders that affected veterans. Although several people were irreversibly injured and traumatized, they showed the ability to positively reorganize themselves more than others. They did not let the new situation (e.g. a severe disability) prevent them from having a life full of interests. Several people with disabilities, despite the initial trauma, applied extraordinary resources in reorganizing themselves and in achieving a satisfying social role. (Martin, 2015) The paraplegic Hawking, for instance, is today famous for his mathematical anno III | n. 1 | 2015
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theories. He draws on his disease the strength to carry out his studies and, with the help of computers, he puts forward theories acknowledged as brilliant. From the first studies on resilience, it emerged that this is not a personal, continuous ability that a person puts into practice every time averse situations occur. Clinical observations revealed that people in different situations and at different times may react to stress in negative ways. Sometimes they were shown to be highly resilient, while at other times they weren’t at all and plunged into depression and crisis (Rutter 1987). Thus, resilience is the process of readjustment that leads those who develop a disability in their adulthood to rally and recover, to reorganize their days and make plans for the future. We find from an etymological analysis of the term that it comes from latin resalio, which means jumping, bouncing, and also the attempt to get back on an overturned boat. This is what happens to a person with a disability who, after a trauma, finds the strength not to sink and finds a new meaning to their life, getting back on the boat of life with new goals and a renewed motivation. The resilient person manages to activate psychological processes that allow him/her to face new, difficult situations, without being overwhelmed. He/she feels a new capacity to control their life, and perceives this inner strength to master situations and not to surrender to despair and depression. The following research maintains that sudden changes in the state of health affecting personal autonomy are ‘only partially accepted’. In this case, such a person will be able to accept the new condition only in part, in a sort of cohabitation, rather than a real acceptance. However, studies show that as time goes by the feeling of trust in life grows in people in such a situation, as does the ability to see oneself as more socially able (Magrin, Scrignaro, Vigano 2006). It is clear that not all people developing disability in adulthood manage to reorganize their life positively. Many, especially in cases of severe disability, do not succeed in overcoming a sense of inadequacy, and sometimes get lost in a process that leads them to losing control and self esteem. People with disabilities will become more or less resilient according to their personal abilities as well as to environmental spurs. The reorganization and acceptance process can be fostered by the support of people likely to activate resilience processes. Educators, for instance, can have a crucial role in terms of care and support of people with disabilities. Vanistendael and lecomte claim that operators working with people affected by trauma may promote the resilience process by helping people with disabilities. Such people identify some useful resources, even drawing from past experiences. According to their perspective, ‘resilient people are a mix of frailty and strength. Frailty comes from the ordeal suffered, strength comes from the ordeal overcome’ (Vanistendael, lecomte, 2000, p. 188). Feuerstein pinpoints as mediators those who put themselves as helpers by providing support through their means of recovery. His saying ‘do not accept me as I am’ means it is one of the educators’ tasks to detect spurs aimed at taking the person in difficulty to overcome the impasse and to positively reorganize their own cognitive, emotional and social life (Feuerstein, 1988). Education here is meant as supporting the person with a disability to find new strategies to give meaning to life after the negative event. The point is not to suggest or propose alternative models, but to support and walk together with III. Esiti di ricerca
the person with disability, so as to lead them to find new horizons in which to invest in the future. The choice will always have to be personal and the educative accompaniment is a mediation process to foster the encounter with new possibilities.
3. Giving meaning to othersâ&#x20AC;&#x2122; words
Studies and pedagogical research methods that delve into the complexity of situations have several times drawn from the principles of the phenomenological method and have applied it to educational research. As everybody knows, phenomenology proceeds from data and moves towards processes of description and analysis that enhance each specificity (Mortari 2007). Qualitative researchers study reality giving voice to the protagonists. Thus, they try to enhance individual experiences to come to more general principles that come from analysis of the account and from consideration of implicit and explicit meanings. The researcher has the hard task of gathering experiences and processing them through meticulous analysis. By doing this stories from trustworthy witnesses are exploited to better understand reality and facts subject of the study (lackey, Sosa 2006). When they are carefully listened to and interpreted, personal experiences represent an invaluable source of information that allow researchers to investigate complex topics that sometimes are not captured by qualitative analysis (Hennink, Hutter, Bailey, 2011). By giving a voice to adults who experienced singular events and reflected on them, the understanding of complex social events can be promoted (Formenti 2006). The researcher has the difficult job of creating a relationship of trust with people involved in the study, so that the piece of research is a meaningful experience for them, too (Mortari 2010). Talking about adults with disabilities, meeting a competent researcher who is willing to listen to suffering, difficulties and achieved goals has a twofold advantage: this promotes the research evolution and at the same time it allows the person with the disability to retrace his/her experience one more time with a hermeneutic perspective. Studies found in the autobiographical narrative a possible process of identity rebuilding. Through the narrative, the adult with the disability therefore has the chance to psychologically process the physical trauma, and is thus led towards a gradual awareness of the new condition and to a progressive acceptance (Penning 2012). This is the reason why, when discussing the epistemology of research, narration is not only meant as a report, but also as the reasoning on issues when the researcher is confronted with the person involved in the study. Through the narration the individual puts in use mental processes that drive him to a deep meaning analysis by investigating reasons, intentions and possible explanations. Spoken facts are not examined one by one, but they are linked to one another so as to build a system of meanings (Clandinin, 2007). The researcher is interested in this system because it creates knowledge and through its analysis it is possible to understand social events lingering over cause-effect relations and give meanings culturally acknowledged and acknowledgeable.
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4. The research
The aim of this piece of research was to understand the mental processes of a person who has been affected by disability in their adulthood. From this analysis researchers tried to find out which educative processes may promote the acceptance of a new condition after a trauma. By analyzing each case it was possible to study:
– The initial reaction to the disability and the adaptation processes executed by the person with the disability; – Procedures that lead the person with the disability to co-exist with a new condition that deeply modified their previous life conditions; – The role of the educator in the recovery of autonomy and in the support of the person who encountered disability in their adulthood.
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A theoretical sampling was used for the study, thanks to the invaluable collaboration from the managers of the association for people with disability and veterans, who sensitized the members to take part into the study. Thus, a sample of 20 units was determined. It was heterogeneous in gender (12 males and 8 females), age (some of them were very young: 28, 30, 32 years old, others were older than sixty years old), work and social rank (nurses, teachers, factory workers, unemployed people, temporary employees, doctors and managers), qualifications (from elementary certificate school leavers to graduates) e disability typology (blind people, paraplegics, affected by disablement to the upper limbs). Also the types of disabilities were different from one another. However, the majority of those interviewed were had vision impairment or had lost the use of their lower limbs. They were asked to be engaged in semi-structured interviews, which were recorded entirely, transcribed and analyzed using Atlas.ti software, which helped in the detection of categories for an analysis of implicit and explicit meanings (De Gregorio, lattanzi, 2011). 4.1 The use of semi-structured, qualitative interviews
More than any other research tool, the qualitative interview allows researchers to investigate in depth social reality and points out aspects which could be missed out by a quantitative approach. In the dialogue with the interviewee, the researcher has the chance to ‘enter in depth’ into the situations, getting to know the emotions, feelings and moods that the same interviewee reports. As they can be complex and take a long time, the qualitative interview is usually addressed to a limited number of subjects. They are asked to talk about their experiences freely, but also to answer to precise questions that the researcher considers important for the study (Outwaite, Turner 2007). The qualitative interview, also known as “autobiographical”, allows the researcher to access the perspective of the studied subject, and to catch their mental categories and the tacit theories they have built over the years. III. Esiti di ricerca
Unlike surveys, which use the same questions for each interviewee, conversations carried out in the qualitative interviews are unique because the researcher calibrates the questions according to what the interviewee knows and is willing to reveal. The semi-structured qualitative interview, as the title indicates, is halfway between a free interview and a structured one. It is conducted by following a draft that was previously arranged and allows the interviewer to deal with the issues concerning the study. Since it is not a strictly structured conversation, the interviewee can talk about some aspects the researcher had not foreseen but turn out to be helpful for the research. 4. 2 The research results
While retracing their stories, the interviewees admitted to have felt lost right after the traumatic event. After that, thanks to paths of growth, introspection and the support of others, they found themselves deeply different from the past, sometimes even better. From the analysis of the interviews, it is possible to pinpoint three stages that interested all the people with disabilities, even if in different ways and at different times. The first stage is that of despair, which is sometimes accompanied by rage or depression. Usually, this is the stage that comes immediately after the news that the person will be disabled forever and that their physiological problems, which were considered temporary, will be permanent. The second stage is acceptance, and as we will see later on, it is a slow process that not everyone achieves completely, even after years. The third stage is that of reorganization, in which the person with the disability has more or less deeply processed the initial shock. They regain their lives and get engaged at work, in recreational and sport activities, and in interpersonal relationships. The majority of the interviewees acknowledged that illness, pain and suffering have changed their lives deeply and modified their beliefs and convictions. Changes affected the emotional and value area above all, and today many of the people with disabilities feel enriched, more sensible and more grateful in life for the opportunities they have daily. To almost all of them, throughout the path of acceptance and reorganization, it was of great importance to maintain a relationship with one or more people that represented an incentive to react and re-appropriate important areas of autonomy. In some cases it was an educator who gave support, care and acceptance. The following paragraph reports considerations gathered from the research. Words in italic are expressions taken exactly from the interviewees that may give the reader for a better understanding of the theme.
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4.2.1 The first stage: despair and rage
From the analysis of the life stories of people who took part in this study, rage and initial despair emerge as a common factor. Immediately after the traumatic event, the neo-disabled had to face dismay, a sense of helplessness and fear of the future. The first days were hard and distressing; crying, rage, silence and discouragement often permeated the hours throughout the day and the sleepless nights. The person with the disability had difficulties in metabolizing the event and in reckoning with the state of health change that disrupted their way of living. A young woman recalls the thoughts that troubled her after the loss of her sight: Thoughts tormented me, they were like beats with a stick that left me out of breath and extinguished my will to live. I went from a bad thought to a worse one; I was down in the dumps. I felt alone, sad and wretched. I was really beside myself. When I think about it now, it seems impossible to me that I sank into such a profound depression, because I had always been an optimistic and positive person. In those moments I was overwhelmed with despair.
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In some cases, rage took over despair. A very strong rage sent in several directions: to the ineffective doctors, to the unfair God, to the little sympathetic parents. A man who became paraplegic tells us of the rage he feels for the doctors: I was angry with the doctors. I considered them shifty, hasty, superficial and sometimes contradictory. In my opinion, they did not do everything they could; I thought they were uninterested in my condition. Many times I insulted them and told them they were incompetent.
A young woman who lost one arm lashed out at God, by whom she felt abandoned and betrayed. She perceived what happened to her as unjust: After the accident, I did not go to church for many years. My rage to God was enormous, I couldn’t bear that he did this to me. I had never done anything bad and had always been a believer and practicing.
In some cases, the receivers of this anger were relatives. Ironically, those who were closer, and did their best to help, bore the worst of the abuse. They were the most exposed to insults and outbursts. A man who became paraplegic describes what happened in his family: I was being raving lunatic with my family. They couldn’t say anything right; I attacked them and sent them to hell. If they tried to comfort me I insulted and cursed them. I needed to work my explosive rage off and they tried to hold me back. I’m using this expression, ‘holding me back’, because in certain moments I was really out of my mind. I once threw the remote control to my father who was trying to comfort me.
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In many cases the people with the disability will shy away and isolate his/herself. The comparison with the others is hard, they can’t bear consolations from friends and parents who play down the accident and tell them ‘it could have been worse’. Staying on their own helped many people with disabilities reckon with themselves, process the grief and accept themselves. Each case testifies that there is a time of introspection necessary for reaching acceptance. This is eloquently phrased in the reflections of a middle-aged woman who became visually handicapped: Loneliness seemed to me the only chance to survive, I did not want to meet anybody. I wanted to stay on my own; I was bothered even by my husband and children. I could not bear my mother, or my brothers, who tried to be close to me and comfort me. I searched for solitude to strive with grief and inflict sorrow to myself. Today, after years, I think it was necessary. You can’t escape from it; you have to be on your own, to experience sorrow at first hand. Being desperate and crying all the time alone was necessary for me to accept the situation. I believe you have to reckon with yourself before rebuilding relationships with others.
4.2.2 The stage of acceptance
After the initial stages, the hard times in which the person with disability despairs, sink into depression and picks on the whole world, the acceptance of the new condition gradually starts. Not everybody achieves the same degree of acceptance; after some months someone begins to live with the new situation, while others are never able to accept it, even after years. A young woman who lost the use of her legs tells of her experience: I spent hours crying, despairing and looking for someone to cast my rage on. Later on, after hitting rock bottom and running out of negativity, I thought I could not go on like that. I decided I had to restart and change direction. It was no use at all behaving like that, and my attitude was creating problems for my two children, who were always sad. They gave me the strength to say ‘stop’. I realized I had to stop crying, I was alive and therefore I had to regain control of my life.
A young man who became visually handicapped admits that even though many years have passed, he cannot accept the situation. He says he lives with the disability, but it is a kind of constrained co-living. I am not resigned to living as a blind man, I don’t like it, and I don’t feel I am myself. Every day I hope scientific research finds the cure for my disability, I trust testing on stem cells, and it seems they are giving promising results.
Time helps the process, allows a person to accept and find solutions to give sense to their existence. Studied stories confirm the ones who better accepted their condition usually walk down a path of interior growth. anno III | n. 1 | 2015
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A woman who partially lost the use of her lower limbs tells about her experience: Acceptance has come slowly. I felt rage and confusion throughout the first two years. I went on questioning the sense of my life and what would be my future. Then, I started accepting the situation and began thinking that, even though I had a disability, I could live with dignity.
In some cases the comparison with other people who had experienced the same problems was very important. Sharing stories with other people with disabilities, especially in rehabilitation centers, helped people taking part into this study find the courage to go on. The following personal story from a man with a walking deficit is clear in this sense: In this path of personal growth meeting other people with disabilities was of great importance, it made me feel not alone. I spent hours talking with the other patients at the rehabilitation centre, we comforted and confided in one another.
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Sometimes the relationship with the educator promotes acceptance. Unlike friends and relatives, who were emotionally involved, the educator is a professional figure who listens, supports and gives direction without personal involvement. A person who became paraplegic tells of his experience with an educator who, at first, he refused and who, with time, turned out very useful in the path towards acceptance: Thanks to the educator I managed to give sense to my life again. I believe without him I couldn’t make it. The most important virtue I acknowledge in him is the ability to listen and to support me without imposing anything. When we first met each other, I was strongly opposed against everybody. I said ‘no’ because of preconceived ideas. He learnt to know this mechanism and did not get affected by it. He worked with patience and, little by little, I started trusting him.
As these personal stories tell, the stage of acceptance is very ‘personal’. Everybody walked their own way, though it was often painful and difficult. Acceptance promotes reorganization, and this is realized when the person with the disability commits to achieving new goals. In some cases the people interviewed changed job, habits and friends. It was sometimes a real ‘revolution’ in their life, and not necessarily a negative one. In many cases disability opened doors to new possibilities and unexpected horizons. 4.2.3 The reorganization stage
After varying lengths of time spent in despair, rage and suffering, the majority of the interviewees reached what we call the reorganization stage. All the inter-
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viewees agree on the necessity of effort and strength of will to regain new areas of independence after the illness or the traumatic event. From analysis of the interviews some activities that promote the social reintegration of the person with disability emerged. These were work resumption or change, commitment to sport, going back to live on their own and support from professional educators. Returning to work was of great importance to almost all the interviewees because it made them economically independent and helped them feel part of help them feel productive and integrated. Here is one interesting account by a woman who had one arm amputated: I went to the office on the appointed day. I was nervous, didn’t know how to behave, I was ashamed especially with some colleagues, I was upset because I thought I had to give explanations. But things went on better than expected. Everyone was kind and I wasn’t asked many questions. I still remember the first day at the counter: I didn’t know what customers would think of me, without my arm. My job gave me the strength to recover. I now believe that working gives meaning to your days, and my place is among paperwork in a provincial office.
Other interviewees changed job and had to find a new motivation from inside themselves. In many cases the new job provided them with much satisfaction, which they hadn’t had in the past, as a woman who had a leg mutilated: After my leg was amputated I had to change job as I couldn’t work at the family bar anymore because of the many stairs. So I decided to invest part of the compensation into attending a two year hairdressing course. I took over a salon near my house. Today I feel fulfilled, have lots of customers, love my job and I think I am good at it. I definitely earn more than before.
Sport opened the doors to new perspectives to many people with disabilities, as we can see from the victories and successes of a young champion tennis player who uses a wheelchair: Reorganization started shortly after the accident, when I decided to play tennis competitively. I trained regularly and started to see the first results. Little by little I achieved goals I had never imagined before. I started travelling around the world. I’ve been the Italian champion of tennis on wheelchair since 2004, and have won several tournaments. I participated in the World Championships in South Africa, Brazil and other places. I joined the Paralympics in Beijing, I didn’t win anything but I’m proud I did it. It was very satisfying; The Olympics are every athlete’s dream.
Interviewees without their own family, after living for some time with their parents, decided to live on their own even against the will of their family of origin, who would have preferred to look after them. In many cases the people with disabilities had to adjust their house to their new physiological condition, at times they had to sell the old house or make important renovations. The story of a young man in wheelchair describes the importance of a tailor-made house very well:
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My house was very pretty, I took care of it in every particular and had been living there with my girlfriend for some years. After the accident I was forced to leave it reluctantly because it was uncomfortable and too small for my movements on the wheelchair. Selling it has been very hard; I had affection for it and had invested lots of money and energy into it. Above all it reminded me of my girlfriend who died in the accident. However, I couldnâ&#x20AC;&#x2122;t stay there anymore, so I took an apartment on the first floor of a detached house. There I can drive into the garden with my car and reach the house without problems. It is convenient, I can move around easily and do anything on my own.
Autonomy is a personal process that demands a lot of effort from the person with a disability. The interviewees admit that sometimes parents (especially mothers) were always there, in an excessive way that could be overbearing and clipped the wings of one of the interviewees. My mother was always with me, she looked after me like a two years old child. She tormented me asking if I needed anything or if I was ok. She followed me and did everything in my place even when I regained some autonomy by means of the wheelchair. I thwarted her and asked to be left alone, I didnâ&#x20AC;&#x2122;t want to be smothered by her cures.
4.2.4 The educatorâ&#x20AC;&#x2122;s role in the path for the autonomy recovery
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While telling about their path for identity repossession after the traumatic event, some interviewees (five out of twenty) recalled positive experiences with the educator, who managed to support and back them especially in the acceptance of their new condition. In three stories in particular, the educator more than the family succeeded in leading the person with disability towards a path for the appreciation of their own personal, working and social skills. A 34 year old young man, who became paraplegic at the age of 28, explains very well the good relationship he began with the educator, and the support the latter gave to him during the stage of rearrangement: Thanks to the educator, I succeeded in getting up again after months of refusal and escape from the world of the so-called healthy ones, which seemed so far away from me. I started making new plans for my future. The educator was able to push me into starting again with friends, work, relationships and relatives. By means of determination, exceptional sensitivity and patience as well, he encouraged me to make new plans for my future, partially different from what I had done in the past, as my state of health changed extremely after the accident.
The presence of the educator in many cases represented both a support and a spur during the reorganization stage. A person with a sight impairment started reading thanks to the Braille method that he was taught by the educator: I only read the newspaper before, while now I know how beautiful it is to read Russian and French novels. The educator made me fond of these works that fill my days. At the beginning it was he who read; then I pur-
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chased some talking books. Today reading is my company, I can read Braille and I don’t know what I’d do if I didn’t know how to read. My educator has the full merit of my discovery of reading; he was able to understand my needs.
Educators proved very useful especially in the rehabilitation centers. They were capable of listening to the people with disabilities, to support, take care of them and give direction. They knew how to push them towards autonomy without taking over, as the relative who was emotionally involved could. The following account explains the role of the educator in the process of reorganization well: By living at home, many people with disabilities are suffocated by their parents’ attention. In the centre I was constantly pushed by the educators to move, to do things and to be autonomous. They are experienced and know how to motivate the person with a disability, who otherwise would feel confused, scared and useless. At the beginning it is an out-and-out accompaniment that leads the people with disabilities to regain important areas of autonomy.
4.2.5 The awareness that disability can make you better
All the people with disabilities who told their stories admitted they felt different from ‘before the disability’. They report that suffering, pain, sorrow and comparisons with other people in analogous conditions changed their lifestyle and their way of thinking. Being different in body determined important changes in mind, and this led to a reappraisal of goals, beliefs and priorities. The majority of the interviewees maintain they appreciate life more and they came to the conclusion you can’t take anything for granted, and you have to be thankful for the beautiful things you have every single day. The account of a woman who became paraplegic is exhaustive: In the past I was always dissatisfied, I was always looking for more that I had, while today I am more serene. I enjoy small things, like an excursion on a sunny day. Once I considered these things to be normal and thought only extraordinary facts like being famous or rich were important. I’ve realized that the good things are close at hand and we sometimes cannot see them because we are so busy and we always want more. I can’t explain it, but it seems to me the disability changed my spirit more than my body. It may seem strange but today, despite being in a wheelchair, I feel more serene, satisfied and less obsessed by doing and having more.
Becoming disabled in adulthood often sets psychological mechanisms in motion, and the person is led to question the sense of life. They ask themselves what the value of their existence and sorrow is. They often get closer to religion because they find in God answers that science, reason and logic do not have. A girl who suffered from severe difficulty walking after an accident, efficiently recounts her experience:
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The illness made me closer to church not because I was looking for a miracle, but because I became more sensitive and available. I know a person who travelled to Medjugorie, so I decided to join them and I’ve been there six times so far. I think this helps me, I’m interested in prophets and what the Virgin Mary tells them. I sometimes wonder why I don’t recover or why this happened to me, but at the same time I tell myself that maybe illness has meaning in my life. The disability gave me a greater sensitivity and a greater belief in God.
Conclusive considerations
In the study, biographies from people with disabilities allowed the researcher to analyze the long and tiring paths these people must follow. As we have seen, three stages are detected: initial despair, gradual acceptance, and the demanding of reorganization. Some pedagogical considerations that have arisen from the analysis of the stories of the interviewees are stated below.
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Uniqueness of the experience. The first consideration is that each experience is unique; therefore it is difficult to find analogies, comparisons or similarities between the stories. Even though the people with disabilities nearly always went through the three stages (despair, acceptance, reorganization), timeframes and modalities were different. Some reacted quickly and found resources within themselves to give meaning to their days, while others lingered in rage and non-acceptance for months or even years. Studies highlight that even the most structured psychological systems are profoundly shaken when physiological conditions are modified. Shortly after a negative event, each person facing their disability reacts in a personal way, according to their sense of self-efficacy (Bandura, 1991), which affects the acceptance of the new condition. According to scholars, depression, rage and despair are not to be considered negative, since they allow the people experiencing disabilities to revise their projects and weigh their goals under a new light (Marks 1999). The changeover to the acceptance stage happens when the individual overcomes stress through processes of coping, which make him able to make new plans for the future.
The disability represents an opportunity for growth and maturation. Almost all of the examined stories point out a pedagogically relevant aspect: the disability, which unexpectedly occurred, forced each person to take stock of their lives and to think about priorities for reorganization. People who took part in the research report lingered, sometimes for the first time, on the meaning of their activities, people they loved and their goals. Many of them acknowledged that the disability obliged them to reconsider their rigid positions and to question their plans for the future. The introspective process of reassessment in their lives was, in many cases, facilitated by an educator, who supported disabled people replace rage with acceptance and promote more rational reasoning. The environmental context can promote or slow down the reorganization. Another relevant aspect recalled by the interviews is the person’s relationship with a disability-environment. As ICF of the OMS points out, the disability is not III. Esiti di ricerca
an individual problem, but something of a social interest. From this perspective, a health condition becomes more invalidating if it meets a hostile environment. Several of the disabled reported that they had to move house because there were no lifts in their buildings; moreover, some of them had to leave their jobs because work premises were not adequately equipped or there were no means of transport to reach them. The stories underline how the environmental context may promote the reorganization process by paying attention to the specific needs of each person with a disability. An environment that promotes ‘real and not fictional’ integration, as an interviewed woman remarked, is that where people feel equal and not different. It emerges from the stories that the people with disabilities most want to feel ‘normal’. They are not in search of sympathy, overprotection or overwhelming cares, but they wish to live their daily routine actively, depending on nobody, away from compassionate gazes.
The important role of the educator. Many interviewees stated they needed support from educators, and that these were able to take care of them, that is ‘to take on’ their sufferings. Educators were nearly always the key element for change: they helped the person with the disability to step out of depression and apathy, to find new interests and to be happy again. Educators were highly professional and their focus was on listening, authenticity and congruence (Rogers, 2007); they managed to establish a relationship that became little by little a shared experience and a chance to grow. Accounts show that relatives, as far as they try, cannot offer what the disabled person needs; rather on the contrary, they clip their wings for fear of making them suffer. The educator, being less involved in the situation, manages to create a more authentic relationship, to investigate the personality of the ones he takes care of better and to arrange a personalized educative plan with clear goals to pursue. The educator was revealed to be very useful in rehabilitation centers, because he taught the disabled to gain a new type of autonomy, especially those who had lost the use of legs or sight. It is clear that the person with the disability has to share this plan and has to feel the protagonist of the changing process. In conclusion, we can say that the first feeling immediately after the trauma was to get lost. People felt inadequate, useless and defeated; but then, after an introspective process, sometimes with the help of an educator, they found themselves deeply changed in body and mind. Disability is an event that upsets one’s life and puts to the test even those who have a strong psychological structure. Acceptance and reorganization depend on the capability to predispose oneself positively towards the future, with new targets and goals different from those of the past.
References Bandura A. (1991). Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior. In J. Madden (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229-270). New York: Raven. Chang Y.J., Chen F.S., Huang J. (2011). A Kinect-based system for physical rehabilitation: A pilot study for young adults with motor disabilities. Research in Developmental Disabilities, 32 (6), 2566-2570.
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Ability, Capability, Competence, Empowerment: l’imprescindibilità della formazione aziendale
Ability, capability and competence are fundamental elements in the process of self development. The value of developing skills through training empowers workers and in particular workers with disability. An integrated view of the workplace and disability is possible and pedagogic research is looking into the workplace as a place in whitch relathionships can be created and can result improvements in the productive process. A new empirical research explores these issues through a qualitative and quantitative research and it shows the importance of training in the workplace.The paper presents the theoretical framework and the national critical reflections made to support the protocol of a research started by the University of Genoa. This research aims to investigate: the presence of disabled children in the nurseries of Liguria; the type of prevalent disability in these institutions; the reasons of families in the choice between attending or not the nursery by the child; the educational action designed by educators and the ability of the service in responding to the needs of families where there are children with disabilities. The paper highlights the characteristics of the nurseries in Liguria (with particular reference to the nurseries of Genoa) and their legislation. The paper also highlights the educational and pedagogical purposes of the nursery and its relational, social and cognitive opportunities offered to children with disabilities. Finally, the paper ponders on the need of the educators to provide adequate educational design and proper structuring of space, time and educational activities in order to make the service truly responsive to the needs of children with different types of disabilities.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: empowerment, Training, Job places, Disability, Human capital
III. Esiti di ricerca Crescenza Mazzaraco, laureata in Psicologia Clinica dello Sviluppo e delle Relazioni presso l’Università degli Studi di Bari, nell’aprile 2013 ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Dinamiche Formative ed Educazione alla Politica, coordinato dal prof. Giuseppe Elia. È titolare di Assegno di ricerca in Dinamiche Formative e Politiche d’Inclusione. Collabora con la Cattedra di Pedagogia Generale e Sociale e con la Cattedra di Pedagogia Speciale dell’Università degli Studi “Aldo Moro”di Bari. È autrice di saggi in volumi collettanei.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Crescenza Mazzaraco / Università degli studi “Aldo Moro” di Bari / crescenza.mazzaraco@uniba.it
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1. Premessa
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La ricerca pedagogica da diversi anni ha posto una particolare attenzione al tema del lavoro individuando anche itinerari differenziati e diversificati (Bocca, 1992; Elia, 2010; Rossi, 2010, 2014; Alessandrini 2003, 2004, 2010, 2013, 2014). Nell’economia del presente contributo ci soffermeremo in particolare sul binomio lavoro – disabilità con riferimento alle politiche di efficacy ad esso rivolte quali quelle relative all’efficacia del sistema formativo; alla regolarizzazione del mercato del lavoro; alle misure di riqualificazione e aggiornamento delle competenze le quali, oltre ai lavoratori normodotati, interessano in particolar modo anche i lavoratori disabili, all’interno del paradigma teorico del Capability Appoach (Sen, 1993). I diversi studi condotti in ambito nazionale su questa tematica (Lepri-Montobbio 2003; Gheno-Bolis, 2005; Lascioli , Menegoi 2006; d’Alonzo, 2006; Cottini, 2008, 2015; Boffo-Falconi-Zappaterra 2012) confermano la legittimità e la problematicità del rapporto lavoro e disabilità. L’attenzione della ricerca pedagogica si è molto concentrata su interventi di natura progettuale riguardanti soprattutto percorsi formativi rivolti a utenti disabili e datori di lavoro e alle condizioni di potenziamento dell’empowerment che deriverebbero dall’occupazione lavorativa. L’ottica interpretativa, infatti, anche grazie alla visione bio-psico-sociale della disabilità assunta dal modello di classificazione ICF (OMS, 2004), oggi va ben oltre la valutazione degli impedimenti dovuti allo status di disabile, piuttosto vi è una particolare attenzione rivolta a coglierne le potenzialità residue (Bombelli; Finzi, 2008) e a reinterpretarle in termini di functioning (Sen, 1993). Recuperare il discorso sulle potenzialità, del resto, significa insistere su un “principio autenticamente pedagogico” (Pastore, 2005, p. 13), in base al quale la valorizzazione della persona comporta il voler mettere al centro del discorso il soggetto e il suo coinvolgimento attivo nei processi formativi volti a favorire la strutturazione di percorsi personalizzati di potenziamento nel pieno rispetto di una formazione che si proietta e si costruisce nel Lifelong Learning in risposta alle sempre più complesse richieste della Knowledge Society (Pastore, 2005, p. 13).
2. Ability e Competence
Al centro della questione è posto il concetto di persona e, in particolare, tutto ciò che concerne lo sviluppo dell’esistenza umana per rivendicare il ruolo che la valorizzazione dell’uomo riveste nel processo di incremento della produttività aziendale. La letteratura è ricca di termini quali “beni pensanti”, “assest invisibili”, “capitale umano emotivamente competente (Alessandrini 2003, 2004, 2010; Rossi, 2010)” prevalentemente utilizzati per esprimere quanto la visione odierna dell’uomo si sia ampiamente allontanata da modelli tayloristi centrati sulla valorizzazione dell’operato umano in funzione delle capacità produttive del lavoratore. Concezioni più vicine a modelli umanizzanti, al contrario, rivalutano il capitale umano e protendono verso una maggiore umanizzazione (Rossi, 2014) del contesto lavorativo che riconosca e dia spazio alle capacità dell’individuo soprattutto se residuali. È il primato della persona ad essere recuperato per essere considerato l’elemento che fa la differenza nel contesto organizzativo in quanto
III. Esiti di ricerca
vero responsabile dei livelli di produttività delle aziende (ibidem, p. 113). Oggi si chiede alle aziende, infatti, di “guardare alle capacità” insite nell’uomo – lavoratore e fare di esse tesoro (Elia, 2010). Il contesto sociale attuale, tuttavia, di cui anche i luoghi dell’organizzazione fanno parte, avverte la necessità di ben distinguere, da una parte, il framework delle capacità, da quello delle competenze e prima ancora da quello delle abilità, ma al tempo stesso, compiuta la distinzione, la necessità è quella di ricongiungere queste tre dimensioni per fare dell’uomo il buon lavoratore; colui che apprende ad essere lavoratore non attraverso il mero apprendimento di nozioni e contenuti teorici, piuttosto pensando al lavoro come luogo e occasione per costruire il proprio percorso di cittadinanza quale testimonianza della propria realizzazione personale, sociale e professionale (Pastore, 2012), dunque una persona che apprende a partire dalle acquisizioni teoriche; che apprende sul campo attraverso la propria esperienza; che rimodula i propri apprendimenti a partire dalle esperienze acquisite e che pianifica le successive sperimentazioni in funzione delle precedenti. Rimane, tuttavia, questione aperta quella relativa alla specificazione dei termini abilità (ability), capacità (capability), competenza (competence). Elia affronta la questione delle abilità inquadrandole all’interno di un paradigma relazionale ed esperienziale illustrandole come tratti definenti il soggetto nel momento in cui vengono potenziate e supportate dalle esperienze di vita di cui egli farà bagaglio con i propri cargivers prima, e al di fuori del contesto protetto della famiglia, dopo (Elia, 2002). Le abilità assumono, dunque, una caratteristica di socialità poiché si potenziano per mezzo del processo di scaffolding favorito dalle persone di riferimento del soggetto le quali intervengono per fornire l’aiuto necessario allo svolgimento di un compito e per il raggiungimento di un obiettivo. Sarà il giudizio che arriverà al soggetto dal contesto sociale in cui opera che consentirà al primo di essere riconosciuto competente nello svolgimento di uno specifico compito o di un ruolo (Elia, 2002, p. 43). Egli sostiene l’idea di competenza sociale, di fatto, come quell’insieme di comportamenti che si rivelano funzionali al raggiungimento di specifici obiettivi e che diventano tali grazie allo scenario relazionale positivo all’interno del quale si attivano (ibidem, p.44). Questa premessa appare indispensabile per consentire il passaggio all’analisi del concetto di competenza. Diventa interessante, a tal proposito, chiedersi la ragione per la quale il termine competenza sia divenuto centrale nel linguaggio della post-modernità. Non è insolito, infatti, sentire pronunciare il termine competenze con estrema frequenza in ogni contesto; sempre più spesso riecheggia l’espressione: valutazione delle competenze; in Francia è possibile, addirittura certificare come competenze le acquisizioni di cui si è fatta esperienza sul campo e per le quali se ne rivendica la capacità di padroneggiamento. La competenza diventa baluardo dell’attività lavorativa stessa per tutti i lavoratori, a maggior ragione per coloro che presentano delle disabilità; essa assume carattere di valore aggiunto alla dimensione umana e professionale del lavoratore. La ragione di questa ambivalenza rinviene dal fatto che nello spettro delle competenze non vi sono solo le acquisizioni strettamente legate al fare pratico; ne esistono altre legate alla dimensione della relazionalità che si caratterizza per essere l’elemento definente la natura dell’umano esistere e che deriva necessariamente dall’impianto delle abilità con le quali il soggetto approda alla vita e si sperimenta in essa. anno III | n. 1 | 2015
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I significati attribuiti al concetto di competenza sono stati vari e diversificati, talvolta in contrasto, talvolta in sovrapposizione1 ma nell’idea di competenza che si intende adottare in questo contributo, si vuole approfondire la questione relativa alla riuscita di uno scopo ampliandola e considerandola in termini di competenza come funzione. Una visione di questo tipo supera ideologie che guardano alla competenza solo come ad azioni pratiche finalizzate alla realizzazione e al completamento di un compito; piuttosto ripensa l’idea di competenza reinterpretandola come strategia mentale che prevede l’attivazione di uno schema cognitivo atto a identificare un problema, pianificarne i possibili esiti e individuarne la risoluzione attraverso azioni efficaci. La competenza, dunque, diventa funzionale a uno scopo e soprattutto generativa di un risultato mirato e finalizzato al raggiungimento di un obiettivo (Pastore 2005, pp. 24-25) il cui risultato positivo non potrà che migliorare la qualità della vita dell’individuo; tutto questo, si realizzerà, tuttavia, nel momento stesso, in cui, è attiva una relazione e si nutre delle influenze derivanti dall’ambiente.
3. Ability, Competence e Capability Approch per il potenziamento dell’empowerment
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Ability e Competence appaiono allora come un insieme interconnesso e irrinunciabile all’interno del quale, tuttavia, trova spazio un altro fattore che interviene nel completamento del profilo del buon lavoratore. Negli anni Ottanta, Amartya Sen strutturò il Capability Approach (Sen, 1993) per sottolineare il valore del potenziale umano all’interno del sistema economico e interromperne l’atavica rigidità che lo caratterizza. L’economista e filosofo di Harvard, infatti, ha reso questo modello teorico il volano per analizzare e misurare la qualità della vita e la sostenibilità dei processi di sviluppo in contrasto ai radicati e irremovibili modelli economici. La caratteristica di questo approccio consiste, infatti, nell’aver guardato al di là della dimensione monetaria per dare un’impronta più umanizzante alle logiche economiche, basando la visione sulla rilevanza che fattori altri come le caratteristiche personali (le abilità) e le caratteristiche, ambientali, assumono nel favorire il benessere individuale. Nella reinterpretazione di Reindal (2009), l’attenzione posta da Sen sulle capacità, delinea il fondamento alla base di una teoria della giustizia che si interroga su quali siano i presupposti necessari per favorire condizioni di uguaglianza, di benessere e di giustizia sociale. Elementi, questi ultimi, che intervengono per conferire all’individuo un adeguato livello di funzionamento, inteso come la dimensione imprescindibile per consentire all’uomo di percepirsi non solo in base a quello che egli è in grado di fare, ma anche in base a quello che egli è in grado di essere (Sen, 1993); in conseguenza di ciò il buon funzionamento (functioning) dipende da tutte quelle condizioni che rappresentano le effettive realizzazioni di un individuo; quello che, in altre, parole, egli sceglie liberamente di fare per “star bene”. 1
Per un maggior approfondimento sulla questione si veda S. Pastore, Valutare la Formazione in azienda. La prospettiva pedagogica, Carocci, Roma 2005.
III. Esiti di ricerca
L’idea di fondo – infatti - è che lo sviluppo debba essere inteso non solo in termini di crescita economica ma come promozione dello sviluppo e del progresso umano, delle condizioni di vita delle persone la cui realizzazione non può prescindere da elementi fondamentali quali la libertà di scelta e di azione, il benessere, non solo materiale, e la qualità della vita. In base a questo approccio, benessere, povertà e uguaglianza dovrebbero dunque essere valutati nello spazio delle capacità (Biggeri, Bellanca, 2011, p. 14).
di ognuno. Di fatto Sen spiega che la possibilità di funzionamento è determinata dalla capacità di funzionare, cioè dalla capacità di consentire a quella persona di entrare in possesso di specifiche possibilità che possono consentirgli di acquisire concretamente quel funzionamento (Pasqualotto, 2014). Esiste, dunque, un rapporto di interconnessione tra il concetto di funzionamento e quello di capacità poiché il funzionamento (functioning) rappresenta un conseguimento dipendente dalla capacità (capability) la quale non è altro che l’abilità di conseguire. Mentre il concetto di funzionamento assume un significato ampio, derivante e dipendente dalle condizioni di vita dell’individuo e relativo ai risultati che le persone si impegnano a raggiungere (Mitra, 2006), le capacità rappresentano il potenziale necessario per ottenere specifici funzionamenti; esse rappresentano, in altre parole, opportunità pratiche o, come le definisce Sen, nozioni di libertà; di fatto, l’insieme di tutte quelle condizioni che consentono all’individuo di scegliere le opportunità di cui usufruire per il raggiungimento del proprio benessere (Sen, 1993; Welch, Salleby, 2007). Grazie al pensiero di Martha Nussbaum, i principi della teoria di Sen, hanno trovato specifiche applicazioni fino a costituire un framework teorico - etico all’interno del quale avviare il dibattito sulla disabilità, (Hedge, MacKenzie, 2012). Nell’economia del presente lavoro lo obiettivo è quello di fornire evidenze sull’applicabilità del Capability Approach, pensato da Sen, alla disabilità e in particolare alla disabilità all’interno dei contesti di lavoro. A tal proposito, negli sviluppi della teoria maturati dalla Nussbaum, è possibile cogliere la distinzione di tre tipi di capability: fondamentali, interne, combinate. Le capabilities fondamentali rappresentano il primo tassello della distinzione e si riferiscono alle doti innate possedute dagli individui, tali da costituire la base sulla quale favorire lo sviluppo delle capabilities interne, quelle, in altre parole, che ogni individui può acquisire, sviluppare e potenziare a partire dai principi educativi che forgiano nel tempo gli individui. In tal senso è interessante il riconoscimento che la filosofa statunitense esercita nei confronti dell’educazione poiché, come sostiene Giuditta Alessandrini (2014), nel momento in cui il modello del Capability Approach pensa alla persona come a un soggetto in divenire assoggettato alle influenze ambientali che, inevitabilmente, sono corredate da un impianto educativo forgiante, esso indirettamente, si struttura sui principi di una pedagogia che “vede” l’individuo fautore di se stesso e della sua stessa esistenza. La capabilities interne rappresentano, del resto, le condizioni necessarie per consentire all’individuo di realizzare ed esercitare il proprio functioning; il successo del processo di funzionamento si avrà nel momento in cui le condizioni esterne, dunque anche legate agli stili educativi, favorevoli, si combineranno con le capabilities interne. Il prodotto di questo connubio, che deve essere favorito da un ottimale assetto sociale improntato sui principi di giustizia, favorirà la strutturazione di capabilities combinate, fondamentali per il raggiungimento del anno III | n. 1 | 2015
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benessere e che Nussbaum ritiene essere alla base dei principi politici di una nazione. L’immediata conseguenza derivante dall’adozione di un approccio interpretativo di questo tipo è quella di dover ripensare a un’idea di benessere che non può più conformarsi ai classici e, ormai, inefficienti modelli di welfare, piuttosto essere pensato come well-being, termine usato da Sen per dare l’idea di una condizione di “star-bene” molto più ampia e che ritrova e recupera le categorie pedagogiche fondamentali che guardano all’individuo come a una persona che può fare e che può essere a partire dal recupero di mezzi e risorse, personali, relazionali, sociali e poi anche economiche, a sua disposizione; in tal senso, ciò che viene ad essere sostenuto è lo sviluppo umano inteso come un processo di ampliamento delle possibilità di scelta umane. Nel prosieguo del suo pensiero la Nussbaum ha, poi, individuato una lista di dieci capabilities combinate (Pasqualotto, 2014), che, in parte, riprendono anche i principi alla base dei bisogni fondamentali della piramide di Maslow; fra tutte, l’ultimo punto, calzante con i contenuti del presente lavoro, pone l’attenzione sul “controllo del proprio ambiente” il quale viene delineato nei suoi aspetti politici e materiali e fra i quali rientra il diritto ad avere un’occupazione. I luoghi di lavoro, infatti, sono spazi di opportunità e queste stesse opportunità si quantificano in termini di libertà di compiere scelte nel panorama delle diverse e possibili alternative; in tal senso le opportunità intervengono nel chiedere alle abilità del singolo di adattarsi alle situazioni e il successo derivante da questo processo dinamico e pluridirezionale è scandito dal livello di funzionamento che egli sarà in grado di raggiungere o, per dirla come Elia, in termini di competenza che lo stesso soggetto vedrà riconoscersi dalla società, soprattutto all’interno dei confini dei luoghi di lavoro. Queste riflessioni guidano verso la consapevolezza di dover reinterpretare la funzione dei luoghi di lavoro poiché, le risorse economiche non possono, più, rappresentare l’unica alternativa allo sviluppo e ai livelli di efficienza e di produttività delle organizzazioni lavorative e “la valutazione del benessere non può limitarsi a considerare l’ammontare complessivo di tali risorse. Ciò che conta è quanto le persone riescono effettivamente a fare con le risorse a loro disposizione” (Biggeri, Bellanca, 2011, p. 14) già a partire dal bagaglio di capabilities a loro disposizione. In definitiva, l’intreccio delle dimensioni relative alle abilità, alle capabilities e alle competenze, è determinante per i livelli di funzionamento degli individui; pertanto, se il functioning è la condizione fondamentale per il raggiungimento di un adeguato livello di well-being, non sono sottovalutabili i fattori in esso implicati nel determinare le qualità del buon lavoratore disabile o non. Come illustrato nella fig. 1, di fatto, dall’intersezione dei tre elementi, trova spazio l’idea del buon lavoratore, colui che, a partire dalle proprie abilità e caratteristiche di base, incontra e vive la relazione sociale, si consente la libera scelta di opportunità e condizioni e si sperimenta nello svolgimento di un compito dal quale otterrà il proprio riconoscimento sociale; conseguenza immediata di ciò è il potenziamento dell’empowerment, tassello fondamentale per la realizzazione di un buon functioning e condizione determinante i livelli di well-being.
III. Esiti di ricerca
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Fig. 1 – Fonte: elaborazione dell’autore
Su questo modello si incardina l’impianto dello sviluppo psicologico di fattori determinanti per l’identità del soggetto. Autostima, senso di efficacia, rappresentazione sociale, identità, rappresentano, difatti, dimensioni che condizionano la prestazione di un soggetto all’interno del contesto lavorativo e che interrogano le logiche votate al potenziamento dell’empowerment dei soggetti lavoratori nonché il proprio livello di functionig. Tamara Zappaterra lascia intendere l’empowerment come quella condizione definente i livelli di maturazione dell’individuo intesi in termini di senso di efficienza, di efficacia, determinanti per il potenziamento della propria autostima (Zappaterra, 2012). Tuttavia, dimensioni di questo tipo celano una forte componente relazionale poiché è solo attraverso la visibilità sociale generata dalle opportunità pratiche (capability) del lavoratore che è possibile restituire a quest’ultimo un giudizio finalizzato al potenziamento del sé. Quello che accade, in altri termini, non è altro che un confronto tra identità e alterità che si dispiega sul piano della relazionalità. Il saper gestire le relazioni diventa un’arte che si chiede di realizzare anche nel contesto lavorativo e in questi luoghi, i lavoratori disabili rappresentano dei modelli di lavoratori perfettamente in grado di gestire e mantenere relazioni adeguate e positive. La conseguenza più tangibile di un tale provvedimento si traduce in una forma di autorealizzazione della persona – anche disabile - che si scopre notevolmente più motivata a occupare una posizione lavorativa che tiene conto del suo «essere persona» consentendole una crescita della propria identità in tutti i contesti di vita: sociale, spirituale, politico e di crescita delle proprie capacità; in una sola parola, tale provvedimento accresce il livello di empowerment di ogni individuo con cui ogni persona scopre di «sentire di essere in grado di fare» attraverso il raggiungimento del senso di padronanza e della consapevolezza di avere adeguate capacità di utilizzo delle opportunità offerte dall’ambiente” (Elia, 2010, p. 216).
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Queste considerazioni confermano l’idea espressa da Andrea Canervaro (2007), riguardo al fatto che la condizione di benessere non può realizzarsi in condizioni di individualismo ma necessita di fattori che consentano all’individuo di adattarsi e di organizzarsi all’interno di contesti e ambienti; necessita, in altra parole, di un impianto di capabilities che contribuisca a renderlo competente nei vari contesti. In tal senso l’avvertimento della Nussbaum è quello di osservare gli ambienti affinché offrano le condizioni per il raggiungimento del well – being e nel momento in cui ciò non accade, l’attenzione deve volgere verso quei fattori che ostacolano il raggiungimento di un livello di funzionamento adeguato.
4. La formazione in azienda tra necessità e indifferenza: dati empirici
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All’interno dei contesti lavorativi esistono diversi elementi di criticità che possono ostacolare il well-being, pertanto investire nella formazione può rappresentare un elemento di positività nella costruzione di profili professionali adeguati. La società complessa necessita di conoscenze al fine di rendere competitivo il mercato e per far ciò, il consolidamento delle prestazioni intellettuali dei lavoratori favorisce l’aggiornamento e il potenziamento delle conoscenze e delle competenze soprattutto in virtù del fatto che non sempre la formazione acquisita nel contesto formale risulta sufficiente. Al contrario la preparazione scolastica e le richieste aziendali risultano due universi sempre più scollati e addirittura mai assoggettati a confronto diretto, soprattutto da un punto di vista pratico. Questo è quanto emerge dai primi risultati ottenuti da interviste mirate condotte con i responsabili dei centri per l’impiego della Puglia nell’ambito di un progetto di ricerca, svolto nel periodo 2014-2015, sulla valutazione delle procedure di inserimento lavorativo di persone con disabilità, i cui dati sono ancora in fase di elaborazione2. Tuttavia, sebbene “la formazione, in questo scenario, sembra prospettarsi come l’unica opportunità di sopravvivenza all’inatteso, all’imprevedibile” (Pastore, 2005, p.19), questa considerazione appare in controtendenza rispetto ai risultati ottenuti nell’ambito di una precedente ricerca tesa ad indagare le dinamiche che sottendono il percorso di inserimento lavorativo del disabile e che si propone di analizzare aspetti quali la tenuta lavorativa del disabile, la qualità del lavoro, le percezioni familiari e dell’utente rispetto al perseguimento di un fine lavorativo e il ruolo che la formazione occupa all’interno delle aziende. Questo studio ha coinvolto 26 piccole, medie e grandi aziende situate nell’ex Provincia di Taranto della Regione Puglia e, attraverso l’utilizzo di un questionario strutturato e validato, il cui utilizzo è stato autorizzato dal Formez, ha inteso indagare non solo la volontà da parte delle aziende, di favorire la formazione rivolta ai lavoratori disabili, ma anche le modalità con cui intervenire nel momento in cui la stessa non fosse ritenuta essenziale. 2
Il suddetto lavoro rientra nell’ambito del progetto dell’assegno di ricerca in Dinamiche Formative e Politiche di Inclusione attivato presso il Dipartimento di form.psi.com dell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari.
III. Esiti di ricerca
Il 32% delle aziende ha risposto che il processo di formazione specifica rivolta al disabile risulta importante, ciò nonostante non vi è stata alcuna azione diretta a favorire la realizzazione di percorsi formativi. Un ulteriore 32% ha ritenuto importante il percorso di formazione e lo avrebbe favorito; il 16% delle aziende lo ha ritenuto superfluo; mentre l’8% rimaneva in una posizione di indecisione rispetto all’importanza del percorso di formazione. In realtà va detto che, sebbene nel 32% dei casi le aziende abbiano provveduto alla formazione, non sempre si è trattato di un percorso specialistico, piuttosto un tramandare informazioni rispetto alle caratteristiche del disabile e del ruolo lavorativo che quest’ultimo avrebbe dovuto assumere; la necessità formativa, dunque, assumeva più le caratteristiche di un “passaggio di consegne” dal lavoratore più esperto a quello meno esperto: il disabile (graf. 1).
175 Graf. 1: Importanza della Formazione
Il “passaggio di consegne” avveniva “formando” un lavoratore di riferimento, colui che avrebbe dovuto svolgere funzioni di tutor per il disabile; anche in questo caso, tuttavia, la formazione assumeva le caratteristiche di una “sensibilizzazione al problema disabilità” per cui risultava sufficiente mostrare quella sensibilità e quelle capacità relazionali tali da consentire al disabile di sentirsi a suo agio nel nuovo contesto; tuttavia, la vera giustificazione che ha motivato la scelta di una specifica persona, riguardava la capacità operativa di quest’ultima o la stessa era determinata dalle necessità organizzative, come si evince dal grafico 2, nonostante i datori di lavoro sottolineassero verbalmente la necessità di fare riferimento a una persona che presentasse qualità relazionali rilevanti.
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Altro: lav Altro: lav. Scelto tra figure familiari 4%
Azienda non disponibile 12% Nessuna N essun risposta ris post 16%
La Scelto Lav. in base al ruolo in investito all interno all'interno d ell'azienda dell'azienda 4%
Lav. Scelto casualment e in base all'organizz azione lavorativa lavorativa 28%
Lav. Scelto in base alla preparazion e e capacità operativa 28%
Lav. S Scelto celto in base se alla capacità acità ionale relazionale 8%
Graf. 2: Criteri di scelta del lavoratore di riferimento
Azienda A zienda non disponibile 12%
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Non ha maii cambiato la figura di riferimento 36%
Non sa Non 16%
Cambiame Ca nto periodico pe d della el figura di rife riferimento 16%
Cambiame nto definitivo della figura di riferimento riferimento 20%
Graf. 3: Cambiamento della figura di riferimento
Un ulteriore aspetto riguardava il fatto che nella maggior parte dei casi (32%) la persona individuata per l’affiancamento non è mai stata sostituita da altre. Questo dato supporta le ipotesi secondo le quali risulta importante mantenere una relazione stabile e continuativa con il lavoratore disabile. Tuttavia, nei casi in cui si è verificato il cambiamento della persona di riferimento definitivamente (20%) o periodicamente (16%), tale cambiamento è avvenuto per motivi organizzativi (graf. 3) e non in seguito a eventuali problematiche di tipo III. Esiti di ricerca
relazionale con il lavoratore disabile. Questa prima ricerca rivolta alle aziende, agli utenti e alle rispettive famiglie, ha fatto emergere quanto il ruolo della formazione all’interno delle aziende costituisca un interesse marginale. Tuttavia, nell’affermare ciò, va tenuto conto anche delle caratteristiche del campione in esame. Esso era costituito da un numero molto esiguo di piccole e medie imprese appartenenti a un bacino territoriale molto provato dalla crisi della domanda del lavoro che, dovendo fronteggiare problematiche relative alla sopravvivenza dell’azienda stessa, poco spazio lasciavano alla questione formativa. Dai dati emersi, il processo formativo rappresenta, dunque, una criticità. Tuttavia, non va dimenticato che esso rappresenta una condizione essenziale e indispensabile per favorire il potenziamento del soggetto lavoratore, sia come tappa preventiva a quella dell’assunzione, sia come step da perseguire durante il percorso lavorativo vero e proprio, ma, soprattutto, come momento essenziale a monte del processo di istruzione formale. Per tali ragioni appare interessante indagare i rapporti tra mondo imprenditoriale e mondo della scuola così come si è fatto durante l’indagine del 2014-2015; dai primi dati emerge che il rapporto esistente tra mondo della scuola e mondo del lavoro sembra essere una realtà totalmente disgiunta; allo stesso tempo, il fattore empowerment non si qualifica come momento di congiunzione fra i due. Tuttavia, va notato che nonostante queste prime evidenze, anche questa visione sembra andare in controtendenza rispetto ai dati emersi dalla piccola realtà della ricerca rivolta alle aziende del bacino territoriale tarantino. Fra i vari aspetti indagati, infatti, si chiedeva a utenti e famiglie quali potessero essere le ragioni che motivavano il disabile alla ricerca di un’ occupazione, si chiedeva, in particolare, di individuare ragioni oggettive e soggettive. Il grafico 4 mette in evidenza i pareri espressi dalla famiglia e dall’utente rispetto alle motivazioni soggettive (M.S.) e oggettive (M.O.) che determinano la scelta di entrare a far parte di un contesto organizzativo. Motivazioni Mo tivazio oni ssoggettive oggettive (M.S (M.S.) .) e o oggettive ggettive (M.O.) all all' all'assunzione assunzione M.O.: M .O.: N Non on sso o
4%
M.O.: M .O.: Famiglia Fam miglia non non disponibile disponibile
12%
M.O.: M .O.: A Altro: ltro: ero ero tranquillo tranquillo p perché e ché er er ero o impiegato impiegato in
4%
M.O.: M .O.: Co Costrizione striizione d daa parte parte d dii terzi terzi 0%
4%
M.O.:Riconoscimento M .O.:Riconoscimento sociale sociale dello dello status status sociosocio
3 32%
M.O.:Necessità M .O.::Necessità economiche economiche
4 48%
36% 60%
M.S.:Non M .S.:Non sso o M.S.:Famiglia M .S.:Famiglia no non nd disponibile isponibil M.S.:Desiderio M .S.:Desid derio di di nuove nuove relazioni relazion M.S.:Gradimento M .S.:Gradiment e o del del posto posto di di lavoro lavor M.S.:Provare M .S.:Provarre un'esperienza un'esperienza nuova nuov M.S.:Desiderio M .S.:Desiderio di di assumere assum mere un ruolo ruolo lavorativo lavorativ M.S.:Desiderio M .S.:Desiderrio di di vita vita indipendente indipenden
Famiglia F amiglia
12%
4%
12% 1 2% 4%
8% % 24% 40% 0% 10% 20% 30%
Utente U tente
16% 16% 28% 36%
40% 50% 60% 70% 80% 90 90% 0% 100%
Graf. 4: motivazioni soggettive e oggettive all’assunzione
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Come emerge dai dati, il desiderio di vita indipendente per entrambi i punti di vista (40% per la famiglia e 36% per l’utente), rappresenta la ragione che primariamente motiva, da un punto di vista soggettivo, l’assunzione; la possibilità di possedere un ruolo lavorativo rappresenta la seconda importante scelta sia per la famiglia (24%), sia per l’utente (28%). Questi dati ribadiscono il significato che sia la famiglia, sia l’utente, riconoscono al lavoro in quanto esso rimanda all’attribuzione di un valore positivo alla propria persona, ciò consente di ribadire che “il concetto che le persone hanno di se stesse si sviluppa osservando le immagini di sé che gli altri significativi rimandano”(Mancini, 2010, p.22). Attraverso l’esperienza dell’autorispecchiamento, del confronto sociale e dell’identificazione sociale3, il soggetto si mostra e si confronta con gli altri significativi, riconosciuti tali perché appartenenti al medesimo gruppo, ricevendo in cambio da questo confronto, sentimenti di umiliazione o di orgoglio a seconda dell’immagine che gli altri gli restituiscono e tali sentimenti assumeranno un ruolo decisivo nella determinazione del proprio livello di autostima. Fra le motivazioni oggettive individuate da famiglie e utenti, le necessità economiche prevalgono sia relativamente al parere della famiglia (48%), sia relativamente al parere dell’utente (60%); tuttavia la motivazione oggettiva di acquisire un riconoscimento sociale, rimane una ragione altrettanto determinante (32% per le famiglie, 36% per il disabile). Ancora una volta l’impatto sociale del disabile di riconoscersi funzionale al sistema produttivo, di riconoscersi utile al raggiungimento di uno scopo comune che è quello produttivo finalizzato alla crescita della comunità di appartenenza, rimane rilevante soprattutto in merito ai risvolti psicologici che deriveranno dalla costruzione di rappresentazioni sociali positive nei confronti del disabile e dell’immagine relativa all’identità che egli si costruirà.
5. Per concludere
La breve rassegna di dati riportati nelle pagine precedenti guida la riflessione verso un orizzonte di senso che sposa a pieno titolo le concettualizzazioni del capability approach. Discutendo di relazioni, di formazione, di motivazioni, non si fa altro, in realtà, che discutere di contesti, di “luoghi” che possono intervenire a creare condizioni favorevoli e potenzianti l’immagine che l’individuo può realizzare di sé; attraverso la capacità di scegliere delle opportunità e di fare di esse il volano per il raggiungimento di un adeguato livello di funzionamento, lo spettro
3
Il concetto di auto rispecchiamento rimanda al processo che si accompagna a sentimenti di orgoglio e umiliazione a seconda dell’immagine di sé che gli altri significativi rimandano al soggetto; non solo, proprio Festinger attraverso la teoria del confronto sociale4 definiva che il concetto che le persone hanno di sé deriva dal confronto che queste esercitano tra se stesse e altre persone che, in qualche modo, ritengono simili per abilità, competenze e caratteristiche. Anche la stessa teoria dell’identità sociale di Tajfel riserva uno spazio importante al costrutto di autostima poiché è attraverso il riflesso di un’immagine positiva di se stesse che le persone possono sentirsi orgogliose. Per i riferimenti bibliografici si rimanda a T. Mancini, Psicologia dell’identità, Il mulino, Bologna 2010, p. 20; L. Festinger, A theory of social comparison process, in Human Relations, 7 (1957), pp. 117-140.
III. Esiti di ricerca
della disabilità può ridurre il suo potere socialmente pregiudicante ed essere pensato come uno status personale che necessita di particolari percorsi realizzabili a partire dall’attenzione che la società vi rivolge. La realizzazione di ciò è possibile solo attraverso un processo di accrescimento delle competenze le quali, all’interno dei contesti lavorativi, si costruiscono a partire da due assunti di base: l’esperienza professionale e l’esperienza socio-relazionale, fattori necessariamente congiunti e ricongiungibili l’uno con l’altro; il primo denso di nozioni e acquisizioni, spesso, meramente tecnico – pratiche che, tuttavia, dipenderebbero dalla sfera delle attitudini e delle predisposizioni nonché dalle caratteristiche insite propriamente nell’individuo, il secondo derivante dell’insieme di acquisizioni e abilità di natura socio-relazionale che egli sperimenterà nel tempo. Va detto, tuttavia, che entrambi necessitano di una condizione imprescindibile: il fattore “esperienza in situazione” intesa come connubio di scelte esercitate in funzione della proprie abilità innate e potenziate nel tempo insieme con gli eventi che caratterizzano il percorso di vita del singolo all’interno dei suoi contesti di vita. Considerazioni di questo tipo interrogano il sistema delle politiche sociali da una parte, e il sistema formativo dall’altra, affinché entrambi possano impegnarsi nella realizzazione di un processo di rete fondato sulla coniugazione di due aspetti fondamentali quali quello professionale e relazionale sperimentabili sul campo. Si tratterebbe di favorire un processo di Apprendimento Situato che rivaluti la formazione e i contesti entro i quali essa si realizza ma soprattutto che riconosca anche i luoghi di lavoro come luoghi di formazione e di apprendimento nonché luogo di realizzazione e gratificazione personale e sociale del singolo e soprattutto come luoghi all’interno dei quali fare anche educazione (Loiodice, 2004). Affrontando questi aspetti, ancora una volta, non è marginale il ruolo della socializzazione anzi, la situazionalità apprenditiva dei contesti di lavoro che ne rende accessibile e condivisibile l’appartenenza alla cultura che lo caratterizza. Non meno rilevante appare il ruolo delle politiche sociali rivolte al lavoro alle quali si chiedono strumenti di potenziamento della formazione all’interno del contesto scolastico e al di fuori di esso nel momento in cui vi è l’accesso al mondo lavorativo avendo come scopo finale quello di ricongiungere i luoghi formali e informali dell’apprendimento dell’individuo per favorirne il potenziamento delle abilità, l’acquisizione delle capability e il riconoscimento delle competenze. Il principio che sottende è, probabilmente, quello di non pensare al sistema formativo in astratto piuttosto guardare alla scuola come un punto di riferimento irrinunciabile non solo per il percorso scolastico in sé ma soprattutto per tutto l’impianto dei percorsi professionali e formativi futuri, così che la scuola possa essere concepita in funzione delle caratteristiche storico-sociali in cui si colloca (Elia, 2014) e pronta alla prima sfida che le si chiede di affrontare: l’accesso al mondo lavorativo di tutte le persone. Alla stessa maniera, i contesti organizzativi devono potersi pensare come luoghi di riferimento per la formazione continua che non può mai perdere di vista la maturazione e l’accrescimento dell’umano.
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Progettazione educativa e accoglienza del bambino con disabilità all’asilo nido
Key-words: nurseries, disability, family, educational relationship, educational design
III. Esiti di ricerca Valentina Pennazio ha conseguito il dottorato di ricerca in Qualità della Formazione presso l’Università di Firenze. Attualmente è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova e cultrice della materia in Pedagogia Speciale e Didattica generale/Tecnologie per l’istruzione. È inoltre, docente a contratto per insegnamenti del settore. Tra le sue pubblicazioni: Didattica, gioco e ambienti tecnologici inclusivi, Milano Franco Angeli (2015).
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The paper presents the theoretical framework and the national critical reflections made to support the protocol of a research started by the University of Genoa. This research aims to investigate: the presence of disabled children in the nurseries of Liguria; the type of prevalent disability in these institutions; the reasons of families in the choice between attending or not the nursery by the child; the educational action designed by educators and the ability of the service in responding to the needs of families where there are children with disabilities. The paper highlights the characteristics of the nurseries in Liguria (with particular reference to the nurseries of Genoa) and their legislation. The paper also highlights the educational and pedagogical purposes of the nursery and its relational, social and cognitive opportunities offered to children with disabilities. Finally, the paper ponders on the need of the educators to provide adequate educational design and proper structuring of space, time and educational activities in order to make the service truly responsive to the needs of children with different types of disabilities.
abstract
Valentina Pennazio / Università degli Studi di Genova / valentina.pennazio@unige.it
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1. Riflessioni introduttive
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L’asilo nido viene oggi riconosciuto dalla letteratura nazionale del settore (Bondioli, Ghedini, 2000; Bondioli, 2002; Mantovani, Restuccia Saitta, Bove, 2004; Favorini, 2005; Borghi, Guerra, 2006) non solo come un’istituzione preposta alla temporanea custodia e assistenza dei minori da zero a tre anni per fini di utilità e supporto, ma come un’agenzia formativa e un luogo privilegiato per la formazione integrale della personalità dei bambini e delle bambine. Gli obiettivi formativi dei nidi d’infanzia mirano, infatti, alla socializzazione nella prospettiva del benessere psico-fisico e allo sviluppo delle potenzialità cognitive, affettive, relazionali e sociali. È ormai assodato che relazioni numerose e positive precoci siano di fondamentale importanza per lo sviluppo armonioso del bambino; è inoltre parzialmente superato il concetto di attaccamento così come presentato da Bowlby nella sua trilogia Attaccamento e perdita (1969; 1973;1980) in cui veniva messa in evidenza l’importanza e l’esclusività dei primi legami affettivi del bambino con la propria madre o con una figura sostitutiva, legami considerati come insostituibili, la cui rottura avrebbe potuto generare conseguenze “catastrofiche”. A partire dagli anni ‘70, le ricerche sui comportamenti affettivi e sociali dei bambini (Bronfenbrenner, 1976) iniziano a identificare la diade madre/bambino come un “sistema aperto” e a porre in relazione il bambino con il complesso contesto sociale di cui fa parte e con cui interagisce. Da tali osservazioni ne deriva l’idea che per il bambino possano esistere, nel corso del tempo, più figure con cui creare legami affettivi senza che si generino ripercussioni negative nella sua esistenza. L’essere inserito gradualmente in una struttura nuova come un asilo nido può rappresentare per il bambino un’occasione unica per sperimentare nuove esperienze sociali (Borghi, Guerra, 2003). Il nido d’infanzia diventa dunque, un luogo di accoglienza del bambino e della sua famiglia finalizzato alla realizzazione di un legame significativo volto alla promozione del benessere di entrambi. Al suo interno, gli ambienti strutturati per offrire un clima accogliente, mirano infatti a favorire lo sviluppo, la curiosità, l’autonomia, il gioco spontaneo favorendo e sostenendo il percorso evolutivo di crescita. Strumenti per la realizzazione di tali obiettivi diventano dunque, la conoscenza reciproca, l’ascolto, la tolleranza e il rispetto dei tempi personali. La cura della prima fase di conoscenza, il periodo detto dell’inserimento (Aixa, 1997; Mantovani, Terzi, 2000; Bove, 2000) è fondamentale perché è il momento in cui si dedica tempo all’ascolto dei genitori, dei loro bisogni e delle loro richieste. È in questa prima fase che si crea quella fiducia reciproca che è alla base del buon rapporto che dovrebbe caratterizzare la permanenza del bambino al nido (Bondioli, Mantovani, 1986). La creazione di un legame di fiducia diventa particolarmente importante nel caso dell’inserimento al nido di un bambino con disabilità ma appare di più difficile realizzazione. In questi casi, la famiglia si trova, infatti, a vivere una situazione di duplice difficoltà perché alle preoccupazioni relative al primo distacco dal figlio (Bowlby, 1992), tipiche di ogni famiglia, si aggiungono quelle inerenti alla disabilità del figlio (Sorrentino, 2006). La situazione si complica ulteriormente in presenza di associate problematiche di salute del bambino che richiedono una presa in carico e una cura educativa (Palmieri, 2003; Mortari, 2006; Contini, Manini, 2007) più attente. Il distacco dal figlio risulta in questi casi possibile solo se III. Esiti di ricerca
la famiglia riesce a creare un reale rapporto di fiducia con gli educatori, maturando la “certezza” che il bambino, in quell’istituzione, verrà “accudito” nel migliore dei modi. La letteratura nel settore (Valtolina, 2000; 2004) sottolinea le gravi difficoltà vissute dai genitori di bambini con disabilità, il diffuso senso di colpa, la paura del confronto con gli altri bambini. La presenza di un figlio con disabilità sfida la famiglia a un livello cognitivo, emozionale e comportamentale e la capacità reattiva dell’intero nucleo familiare dipende spesso, dal grado in cui ci si sente responsabili per la disabilità del proprio bambino. Può accadere che, dopo un’iniziale fase di incredulità, si passi ad una fase in cui emergono vissuti di rabbia, vergogna, ansia, spesso mescolati a senso di inadeguatezza e di colpa, dove l’aspetto più doloroso è il constatare che, in qualche misura, si è implicati nella “condizione di disabilità” del figlio (Manetti, Zanobini, Usai, 2002; Sorrentino, 2006; Goussot, 2010). Tali sentimenti possono produrre atteggiamenti di sfiducia e, nel caso del nido, diffidenza nei confronti degli operatori di una delle prime istituzioni in assoluto che la famiglia incontra nella sua storia evolutiva. Per creare un vero rapporto di fiducia gli educatori devono saper trasmettere ai genitori la garanzia che in quel luogo il bambino potrà sviluppare le sue potenzialità giovandosi dell’interazione con altri bambini e di un ambiente progettato per essere realmente rispondente alle sue esigenze. Emerge dunque, come educatori, l’importanza di saper comunicare efficacemente (Blay, Ireson, 2009) le linee generali di un intervento educativo guidato da un’attenta progettazione, che sappia sganciarsi dall’idea, spesso presente nei genitori di bambini con disabilità, di un agire frutto dell’improvvisazione a-finalistica. Un progetto educativo che si articola dunque, in base alle informazioni fornite dalla famiglia sulle difficoltà, sulle capacità, sulle preferenze del bambino. La strutturazione del rapporto di fiducia famiglia-educatori diventa quindi imprescindibile nell’ottica della promozione di un progetto di vita che sappia, fin dall’inizio, scoprire nuove prospettive da cui osservare il bambino valorizzandone le sue capacità, le sue potenzialità e prevedendo un percorso di sviluppo e di cambiamento non concentrato soltanto sulla disabilità che rischia, quasi sempre, di occupare uno spazio preponderante. In questo senso acquista importanza la cura della continuità educativa e didattica su cui i servizi educativi per la prima infanzia fondano la propria offerta formativa, ponendosi in complementarità con il sistema delle molteplici esperienze sociali ed educative compiute dal bambino. Partendo da tali premesse, il contributo intende presentare le riflessioni teoriche che fanno da cornice alla strutturazione del protocollo d’avvio di una ricerca, realizzato dall’Università di Genova, con l’obiettivo di indagare la presenza di bambini con disabilità nei nidi d’infanzia della Regione Liguria.
2. Il piano della ricerca
Il problema alla base della ricerca di cui sopra si è accennato, è riconducibile alla constatazione che, tendenzialmente, le famiglie dei bambini con disabilità sembrano non scegliere per i loro figli l’esperienza socializzante del nido, rimandando al periodo della scuola dell’infanzia il loro ingresso in un contesto sociale esterno al sistema familiare di appartenenza. anno III | n. 1 | 2015
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A partire da tale problematica, la ricerca empirica e interpretativa (in fase di avvio) si propone di realizzare una sorta di mappatura relativa alla frequentazione dei nidi d’infanzia da parte dei bambini con disabilità nati nella regione Liguria negli ultimi quattro anni e di coloro che, all’avvio della ricerca, risultano iscritti al primo anno di scuola dell’infanzia con una precedente esperienza di nido. In questo modo sarà possibile determinare l’andamento delle iscrizioni dei bambini con disabilità nei servizi per la prima infanzia negli ultimi quattro anni e stabilire se tali servizi vengano effettivamente percepiti dalle famiglie come una risorsa e un’opportunità formativa aggiuntiva per i loro figli. La ricerca si propone inoltre, di verificare se la scelta da parte dei genitori di far frequentare il nido al proprio bambino sia condizionata dalla tipologia di disabilità in lui presente e quindi, definire una sorta di correlazione tra tipologia di disabilità e percezione da parte dei genitori, della capacità del servizio di intervenire adeguatamente, rispondendo in maniera efficiente ai bisogni emergenti del figlio. Infine, la ricerca vuole porre in risalto quali caratteristiche della progettazione educativa messa a punto dagli educatori e delle strategie di intervento da loro attuate, risultino funzionali per generare un percorso realmente inclusivo, in cui tutti i bambini possano vedere soddisfatte le loro richieste. Per raggiungere le suddette finalità, verranno coinvolte nell’indagine scuole dell’infanzia – statali, comunali e private (convenzionate) –, nidi d’infanzia – comunali e privati – e considerati gli ultimi quattro anni come periodo di analisi. Attraverso l’Ufficio Scolastico Regionale saranno recuperati i dati relativi al numero di bambini con disabilità da 3 a 6 anni frequentanti le scuole dell’infanzia statali nella Regione Liguria. Il comune di Genova fornirà, invece, i dati relativi ai bambini con disabilità frequentanti i nidi e le scuole dell’infanzia comunali. La Federazione Italiana Scuole Materne – FISM – della regione Liguria darà accesso ai dati relativi ai bambini con disabilità frequentanti scuole dell’infanzia e nidi privati/convenzionati. L’indagine partirà dalle scuole dell’infanzia, di ogni tipologia (comunale, statale e privata – FISM), e per ognuna di queste prevederà sei interviste alle famiglie di bambini con disabilità, così suddivise: tre interviste a genitori che hanno scelto, prima della scuola dell’infanzia, l’esperienza del nido per il proprio figlio; tre interviste a genitori che, all’opposto, non hanno optato per tale alternativa. Questo consentirà di ricavare dati utili per la messa a punto degli strumenti d’indagine che verranno utilizzati, nella fase successiva, nei nidi d’infanzia. Nello specifico, l’indagine nei servizi educativi 0-3 prevederà interviste e/o questionari finalizzati a far emergere le motivazioni che hanno indotto le famiglie a scegliere il nido come esperienza educativa/formativa per il proprio bambino disabile e, quindi, il riconoscimento da parte loro del valore di questa istituzione che dovrebbe rimandare, nel concreto, alla presenza di un adeguato progetto educativo e di una buon programmazione per quanto riguarda: l’organizzazione degli spazi, la delineazione dei tempi, la strutturazione delle attività (il cui valore verrà meglio esplicitato nei paragrafi successivi). Saranno previsti, inoltre, focus group con gli educatori delle diverse tipologie di nidi e di scuole dell’infanzia al fine di indagare: la presenza o meno di un progetto educativo o di continuità per bambini con disabilità; le modalità di “cura della relazione” con le famiglie che, per essere efficaci, dovrebbero prevedere una continua ridefinizione, necessaria per rispondere adeguatamente alle incertezze, alle paure, ai bisogni da queste manifestati (tale aspetto sarà oggetto di approfondimento dei successivi paragrafi). III. Esiti di ricerca
I risultati attesi sono essenzialmente tre: 1. realizzazione di una “mappatura” dei nidi della Liguria ospitanti bambini con disabilità; 2. definizione di un modello progettuale di intervento educativo e di continuità volto all’inclusione; 3. stesura di linee guida per l’accoglienza dei bambini con disabilità nei nidi d’infanzia.
3. I nidi d’infanzia in Liguria
Nel contesto italiano ogni regione disciplina autonomamente le caratteristiche e i requisiti che i servizi per la prima infanzia devono possedere nell’ambito territoriale di competenza. Questo pone in evidenza come, in un quadro nazionale in cui non siano stati ancora definiti i livelli essenziali, le regioni abbiano assunto la responsabilità di legiferare, spesso in modo difforme una dall’altra, creando evidenti diversità fra regioni anche limitrofe (370/2003) nella gestione dei servizi educativi per la prima infanzia. Per quanto concerne la Regione Liguria la principale normativa di riferimento in tale ambito è la Legge Regionale 9 aprile 2009, n. 6. (Promozione delle politiche per i minori e i giovani) accompagnata da successive delibere della Giunta Regionale (Delibera 12 maggio 2009, n. 588 - Linee guida sugli standard strutturali, organizzativi e qualitativi dei servizi socio educativi per la prima infanzia; Delibera 8 luglio 2011, n. 790 - Approvazione indirizzi regionali in materia di omologazione delle procedure per l’autorizzazione al funzionamento dei servizi socioeducativi per la prima infanzia; Delibera 6 dicembre 2011, n. 1471 - Accreditamento dei servizi socioeducativi per la prima infanzia: definizione dei criteri e degli indirizzi per i procedimenti amministrativi inerenti l’avvio della sperimentazione relativamente alla tipologia di servizio “nido d’infanzia”). Nell’ambito di questa regolamentazione viene stabilita: la tipologia e la gestione del servizio (non è dedicato un articolo specifico ma, all’interno della L.R. 6/2009 si possono trovare alcuni riferimenti); gli operatori del servizio e i titoli di studio necessari; il coordinamento pedagogico (la Regione Liguria, attraverso la propria normativa attualmente in vigore definisce due forme di coordinamento: un coordinamento a livello di Distretto Sociosanitario, un coordinamento garantito dal Comune e altri Enti o soggetti gestori singoli o associati); l’accoglienza dei bambini disabili e altri aspetti legati al funzionamento del servizio.
4. Il nido come possibile risorsa per il bambino con disabilità
Il nido ha una sua specificità, una complessità che lo differenzia e lo distingue dalle altre strutture educative e la sua identità pedagogica (Mannuzzi, Gigli, 2005; Moss, 2007) va riconosciuta e valorizzata in quanto punto di forza del servizio stesso. La pedagogia che contraddistingue i nidi d’infanzia si declina secondo quattro accezioni fondamentali. In primo luogo si definisce come pedagogia della relaanno III | n. 1 | 2015
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zione (Bosi, 2002), in quanto pone come elemento fondante del fare e dell’essere la cura della relazionalità e della socialità. In secondo luogo si identifica, come pedagogia della cura (Bosi, 2002; Mortari, 2006), della vicinanza fisica ed emotiva, e del prendersi cura (Bosi, 2002; Mortari, 2006)), della ricerca continua del bene del bambino. In terzo luogo si delinea come una pedagogia dell’accoglienza, intesa come capacità empatica di porsi, di stare e agire nelle relazioni. Infine, si concretizza come una pedagogia dello spazio, che si articola attraverso la costruzione di un ambiente di vita accogliente, intimo, ma anche aperto e stimolante dove ogni bambino possa sperimentare ed esprimersi al meglio delle sue potenzialità (Bosi, 2002). La costruzione dell’identità del bambino, nelle sue dimensioni emotiva e cognitiva diviene meta intenzionale dell’essere e dell’agire al nido (Restuccia Saitta; Saitta, 2002). Tutte le attività di progettazione mirano infatti, a promuovere continue occasioni di scambio, dove il bambino è chiamato a prendere coscienza dell’esistenza dell’altro e a confrontarsi dunque non solo con se stesso, ma con i coetanei, con gli adulti e con le immagini di sé che gli vengono rimandate. Gli aspetti operativi e tecnici, che si intrecciano a quelli affettivi ed emozionali, nascono, vengono individuati e formulati all’interno di reti di relazioni. Le “domande” di tutti gli attori che elaborano il progetto d’intervento, si intrecciano tra di loro ininterrottamente dai primissimi momenti della formulazione dello stesso fino alla sua conclusione. In ciascun momento, rispetto a ciascuna scelta, si ha a che fare, non solo con contenuti, ma anche e principalmente con relazioni (Giannone, 1996). Risulta imprescindibile un’attenta riflessione che ruoti intorno ai destinatari della progettazione e che veda il pieno coinvolgimento delle famiglie al fine di strutturare una tipologia di intervento il più possibile adeguata alle esigenze di ogni bambino (Restuccia Saitta, Saitta, 2002). È necessario domandarsi:«Per quale bambino si organizzano gli interventi pedagogici?». Individuare e fissare degli obiettivi, rispetto alla progettazione, sono operazioni indispensabili, congeniali per evidenziare il significato intrinseco di specifiche azioni professionali. Gli obiettivi costituiscono gli “organizzatori” dell’attività educativa, estremamente importanti perché facilitano l’acquisizione di consapevolezza da parte degli educatori riguardo alle diverse attività da predisporre per i bambini (Catarsi, Fortunati, 2004). Accanto alla progettazione, interviene a completarla, a meglio declinarla secondo le esigenze di ogni singolo asilo nido, la programmazione, il cui compito è quello di individuare, pianificare, condurre e controllare la quantità e la qualità dei contenuti educativi affrontati e proposti all’interno del nido. Essa rappresenta l’insieme dei momenti, degli strumenti e delle attività, delle procedure utilizzate dagli educatori per definire e gestire i percorsi formativi intenzionalmente proposti ai bambini (Giannone, 1996). Catarsi e Fortunati (2004) sottolineano come la complessità dello sviluppo richieda agli educatori dell’asilo nido di sapersi porre continuamente in discussione di fronte ad ogni bambino adattando il proprio comportamento con quella flessibilità richiesta dalla plasticità evolutiva. Questo significa, eliminare dalla programmazione ogni schematismo ed ogni rigidità per adattarla ad un contesto educativo che sia realmente attento ai bisogni formativi di tutti i bambini. III. Esiti di ricerca
Gli ambiti, di cui progettazione e programmazione al nido tengono conto, sono essenzialmente quattro: l’organizzazione degli spazi; la delineazione dei tempi; la strutturazione delle attività educative; la gestione dei rapporti con le famiglie. La presenza di un bambino con disabilità al nido è un’esperienza che coinvolge la struttura nel complesso e in tutte le sue componenti e che richiede agli educatori e agli operatori che ruotano intorno alla struttura, di riflettere in maniera ancora più articolata sui bisogni di quel bambino e della sua famiglia. La programmazione educativa deve farsi necessariamente più individualizzata in modo che il bambino possa emergere, nonostante le limitazioni corporee o funzionali, quale protagonista attivo del proprio percorso di crescita cognitiva, relazionale, sociale. Nella progettazione e nella realizzazione del percorso di crescita del bambino, utile e necessaria risulta la stretta collaborazione con la famiglia che diventa il fulcro intorno al quale ruotano le azioni e le decisioni educative messe in atto. La rivisitazione cui progettazione e programmazione devono essere sottoposte può essere utilmente descritta riprendendo i quattro ambiti precedentemente specificati.
5. L’organizzazione degli spazi
Lo spazio accompagna il bambino e l’adulto in forma inconsapevole collocandosi fra le azioni quotidiane e le cose, da un lato, in un rapporto di familiarità, dall’altro, come una sorta di zona oscura. È un linguaggio silenzioso che influenza fortemente le esperienze e i contesti di crescita degli individui. Parlare di strutturazione e organizzazione degli spazi del nido (Stradi, 2000) in funzione del bambino non significa riferirsi esclusivamente alla loro distribuzione fisica e alla collocazione dei materiali e degli arredi al loro interno, ma anche dedicarsi alla cura dell’aspetto comunicativo-cognitivo che in essi viene a realizzarsi (Borghi, Guerra, 2002). L’ambiente fisico non va considerato come un contenitore neutrale, ma come un elemento importante del complessivo progetto del servizio, che può influenzare fortemente, attraverso la sua organizzazione, la qualità delle relazioni e delle esperienze che avvengono al suo interno (Fortunati, 1999). La creazione di uno spazio pensato, che sia indice di un’attenzione all’ascolto anticipatrice della necessaria cura della relazione all’interno del contesto educativo, implica che questo si identifichi come: trasparente e comprensibile; capace di farsi conoscere e usare; capace di fare incontrare bambini e adulti rispettando il desiderio di stare un po’ da soli; a misura di persona; capace di storicizzarsi accogliendo la memoria delle esperienze che si sono realizzate al suo interno (Fortunati, Fumagalli e Galluzzi, 2008). Uguale attenzione dovrebbe essere posta verso lo spazio esterno al nido non identificabile solamente come luogo per il libero movimento (Corbo, 1994). L’ICF-CY (2007) attribuisce grande importanza all’ambiente e alle influenze esercitate da questo nel favorire o meno l’attività e la partecipazione di persone con disabilità; ambienti diversi avranno impatti differenti sulla persona favorendone o limitandone un’attiva partecipazione. In questa prospettiva è necessario evidenziare che le strutture adibite ad asili nido, in molti casi, essendo strutture sorte originariamente con altri scopi e successivamente preposte a tale scopo, anno III | n. 1 | 2015
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necessitano di una ri-strutturazione ambientale che le renda adatte alle esigenze specifiche di tutti i bambini. Il compito degli educatori in questo senso, è quello di “inventare” soluzioni in modo che a ogni bambino non venga negata alcuna possibilità di sviluppo attraverso il movimento autonomo. Uno spazio non adeguatamente predisposto può infatti diventare fonte di sconcerto e timore, per un bambino che, a causa di limitazioni funzionali, non sia in grado di fruirne autonomamente. Creare spazi ridotti e raccolti, stabili e riconoscibili (quindi che non subiscono continui cambiamenti) risulta essere un importante inizio nel dare sicurezza e favorire momenti di intimità tra bambini o tra bambini e adulti, occasioni importanti per la conoscenza reciproca e per l’emergere della necessaria piena fiducia che sfocia nell’affidamento. Soluzioni “personalizzate” vanno quindi studiate valutando ogni caso singolarmente; chiaramente non sarà possibile porre rimedio ad ogni situazione ed eliminare tutti gli ostacoli presenti, ma molto si potrà fare partendo da un’attenta osservazione dei reali bisogni specifici. Un ambiente facilitante dovrà ad esempio, offrire ad un bambino che a causa di una specifica disabilità (es. sindrome di Down) sarà rallentato nell’acquisizione delle tappe dello sviluppo motorio, appigli a cui aggrapparsi, appoggi a cui sostenersi e non essere troppo ingombro di arredi, di giochi su cui il piccolo potrebbe inciampare (Byrne, Cunningham, Sloper, 1992). Nel caso di una disabilità di tipo sensoriale, invece, è opportuno prevedere inizialmente spazi ridotti che consentano al bambino di raggiungere gradualmente quella sicurezza necessaria per orientarsi successivamente in campi più estesi e rumorosi, dove generalmente si realizza il gioco libero e ricreativo. Efficaci strutturazioni dell’ambiente dovranno essere pensate anche in presenza di disabilità di tipo motorio. La necessità di utilizzare varie tipologie di ausili per lo spostamento induce a riflettere inevitabilmente sulla presenza di possibili barriere architettoniche come: porte troppo strette, tavolini troppo alti o troppo bassi, arredi del bagno non adatti. Queste barriere possono essere rimosse valutando di volta in volta le necessità di ogni singolo bambino e grazie alla volontà e alla partecipazione di tutti i soggetti coinvolti. La strutturazione dello spazio risulta quindi, elemento imprescindibile all’interno di una programmazione attenta ai bisogni specifici di ogni bambino con disabilità.
6. La delineazione dei tempi
La qualità della vita del bambino al nido consiste nel raggiungimento di un equilibrio fra due istanze contrapposte: da un lato la necessità della ricorsività, che si traduce nella individuazione di punti di riferimento costanti e ripetitivi perseguiti con coerenza, dall’altro l’opportunità della flessibilità che si propone come strumento in grado di tenere conto della diversità, dei bisogni differenziati dei singoli bambini, dei ritmi individuali di crescita, degli stili personali di ognuno (Borghi, Guerra, 2002). L’organizzazione dei tempi al nido deve prevedere momenti in cui i bambini svolgono attività guidate/stimolate intenzionalmente dagli educatori e momenti in cui sono liberi di gestire con relativa autonomia gli oggetti e i modi del loro gioco o comunque della loro esperienza (Monti, Crudeli, 2004). L’organizzazione temporale della giornata-tipo presenta dunque fasi di attività formale e fasi III. Esiti di ricerca
di esperienza educativa informale. Nelle fasi formali rientrano i momenti delle cosiddette routine in particolare: i riti dell’ingresso e dell’uscita, dell’alimentazione, dell’igiene, del riposo. Le routine acquisiscono particolare importanza nell’asilo nido perché rappresentano momenti specifici di rapporto anche fisico tra adulto e bambino carichi di affettività (Borghi, Guerra, 2002). Come già detto, i tempi al nido hanno una scansione determinata da momenti di diversa natura che si alternano durante la giornata. Tale scansione è fonte di sicurezza per i bambini che necessitano di riferimenti temporali certi per ricostruire in maniera significativa le giornate passate al nido. Nel caso di un bambino disabile, la necessità di momenti stabili, che si ripetono quotidianamente, è ancora più importante specialmente in quelle tipologie di disabilità che comportano difficoltà di comprensione e di adattamento alle novità. I momenti di routine (accoglienza, cambio, pasti, sonno, ecc.) che si ripetono ogni giorno, negli stessi orari e con le medesime modalità sono fondamentali per instaurare con il bambino un rapporto empatico e di fiducia reciproca. Sono necessari un lungo periodo di conoscenza e il rispetto dei tempi di adattamento affinché un bambino con specifiche difficoltà accetti la vicinanza e il contatto di un adulto a lui sconosciuto. Per quanto riguarda i momenti di gioco, sia libero che strutturato in attività di vario genere, i tempi di attenzione dei bambini variano sensibilmente in relazione alla tipologia di disabilità presentata. La soglia attentiva di un bambino con disabilità sensoriale legata ad un deficit uditivo risulta essere ad esempio, molto bassa a causa dello sforzo messo in atto per decodificare il messaggio emesso dall’educatore, comprendere le sue richieste e consegne relative all’esecuzione di determinate attività. Gran parte delle energie del bambino vengono spese in questa direzione generando stanchezza immediata e il rifiuto nel continuare il compito proposto. Per i bambini con difficoltà di tipo motorio le attività di manipolazione e di uso degli oggetti dell’ambiente, possono rivelarsi azioni particolarmente difficoltose quando non impossibili e quindi scatenare reazioni di rifiuto verso attività ritenute troppo difficoltose e faticose per le proprie possibilità. Bambini con sindromi genetiche possono inoltre, avere difficoltà nel comprendere lo svolgimento di un gioco proposto, delle sue regole e per questo rifiutarsi di prendervi parte o distogliere l’attenzione dopo un breve tentativo di partecipazione. La conoscenza profonda del bambino e delle sue caratteristiche deve guidare la programmazione dei tempi mantenendo una flessibilità che eviti al piccolo inutili momenti di noia o di frustrazione.
7. La strutturazione delle attività
La programmazione delle attività educative nell’asilo nido consiste nell’elaborazione degli interventi educativi in funzione delle esigenze del bambino e nella predisposizione delle condizioni più idonee per uno sviluppo armonico di tutte le dimensioni della sua personalità: dall’intelligenza all’affettività, dalla socializzazione alla motricità (Coppola, 1997). Le attività proposte orientate, di conseguenza, a valorizzare diverse dimensioni. In primo luogo, la socializzazione finalizzata ad aiutare il bambino nell’esplorazione della socialità, nell’apprendimento di norme sociali di comportamento, nell’individuazione di un proprio ruolo e una propria identità all’interno del gruppo di appartenenza (Galardini, 2003). I giochi proposti anno III | n. 1 | 2015
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in questo ambito, sono di tipo simbolico, di ruolo, del far finta, travestimenti, drammatizzazioni. In secondo luogo, la motricità che implica la conoscenza del corpo, degli oggetti, dello spazio e prevede attività che intendono aiutare il bambino nella conoscenza del proprio corpo, dello spazio attraverso il movimento, degli oggetti attraverso la loro manipolazione. Si aggiungono alle prime due dimensioni, quelle della comunicazione e della scoperta di segni e simboli che includo attività volte ad aiutare il bambino nell’acquisizione del linguaggio e nella decodifica di significati condivisi dalla comunità di appartenenza; attraverso l’uso intenzionale di gesti, immagini e parole, il bambino diviene capace di utilizzare adeguati scambi comunicativi verbali e non. Infine, l’esplorazione del sé, delle emozioni, dell’affettività, considerata trasversale alle altre dimensioni, implica attività in cui il bambino ha l’occasione di sperimentare relazioni, di esplorare il proprio sentire in relazione agli altri, di costruire una propria personalità. Quelle che comunemente vengono definite “attività” (Galardini, 2003) dagli operatori del nido, dal punto di vista del bambino si traducono in occasioni ludiche di espressione del proprio sé, di condivisione di un’esperienza con i compagni. Il gioco può essere definito, infatti, come un’attività spontanea ed istintiva o sollecitata dall’adulto, così caratteristica del bambino da poter essere considerata come l’azione più seria da lui esercitata (Bertolini, 1996). Nell’esperienza ludica il bambino cerca il piacere e mette in atto una forma privilegiata di apprendimento, di conoscenza di sé e di autoaffermazione; al bambino deve perciò essere offerta una gamma di possibilità assai variegata e distribuita durante la giornata trascorsa al nido. Tuttavia ci sono bambini che non riescono, che non possono, che non vogliono giocare (Besio, 2010; Pennazio, 2015) o perché non riescono a raggiungere gli oggetti desiderati, a manipolarli e ad usarli e quindi sono costretti ad assistere passivamente ai giochi dei compagni; o perché sono spaventati da ogni novità, da ogni persona o oggetto sconosciuti che sembrano invadere un confine tra loro e il resto del mondo impercettibile ma netto; o perché non sono in grado di apprezzare la condizione del gioco non comprendendone il significato e le regole; o perché, infine, si chiudono in ripetitive ed ossessive azioni da cui non sembrano in grado di distaccarsi (Besio, 2010). Ne consegue che il gioco, momento piacevole per la maggioranza dei bambini, può diventare fonte di disagio e di frustrazione per altri (Theodorou, Nind, 2010). L’adulto deve perciò fungere da mediatore e, sopperendo alle mancanze del bambino, aiutarlo, per quanto possibile, a raggiungere una maggiore autonomia che gli consentirà di godere di tutte le possibili esperienze ludiche offerte. Questo è, all’interno del nido, uno dei compiti prioritari dell’educatore che deve essere in grado non solo di adattare il materiale ludico con cui il bambino si troverà ad interagire, ma di predisporre, nell’arco della giornata, necessari momenti individualizzati in cui operare singolarmente con il piccolo evitando ogni forma di separazione o la creazione di un rapporto diadico troppo esclusivo. obiettivo principale del nido è e deve rimanere infatti, la creazione intorno al bambino disabile, di una rete di relazioni significative che lo preparino ad affrontare la sua disabilità senza temere il giudizio e il confronto con gli altri. Nella pratica questo comporta la ricerca di materiali, di linguaggi, di modi di agire che si adattino in maniera specifica alle esigenze di ogni bambino con la sua specifica disabilità. III. Esiti di ricerca
I materiali ludici e non, dovranno essere adattati con piccoli accorgimenti (Pennazio, 2015), semplificati, resi più comprensibili, accessibili al bambino e alle sue esigenze. Sarà necessario, dunque, creare strumenti originali, flessibili, adeguati alla problematica emergente. In circostanze di particolare urgenza, anche il linguaggio dovrà essere manipolato per risultare più comprensibile: i simboli potranno essere semplificati, ingranditi per adeguarsi alle esigenze di un bambino con disabilità visiva; l’intensità della voce potrà essere modulata, abbandonando i toni pacati utilizzati solitamente al nido, e integrata con un’opportuna gestualità, per consentire al bambino con disabilità uditiva di seguire il flusso della conversazione. Particolari accorgimenti dovranno essere inoltre, pensati in relazione agli arredi per consentire ad esempio, ad un bambino in carrozzina di accedere al tavolo di lavoro e svolgere le attività con i compagni. Programmare le attività e adattare i materiali significa in sintesi, mirare a soddisfare le esigenze specifiche di ciascun bambino. Tale obiettivo è raggiungibile attraverso una profonda conoscenza del bambino stesso e dei suoi bisogni.
8. I rapporti con la famiglia
L’asilo nido è un servizio socio-educativo e il rifiuto di ogni interpretazione meramente assistenziale dei suoi compiti comporta che questi non si esauriscano nell’attività educativa con il bambino ma si allarghino alla strutturazione di una stretta collaborazione con i genitori. Tale condivisione è necessaria per garantire una buona qualità di vita del bambino attraverso la promozione della congruenza e dell’omogeneità dell’esperienza vissuta tra nido e famiglia. Proseguendo questo suo obiettivo, il nido si preoccupa di acquisire preventivamente (prima dell’inserimento) e in modo costante, le informazioni sul bambino e sul suo contesto di vita, necessarie a costruire un piano di attività sufficientemente individualizzato e attento a non provocare lacerazioni. Cura, inoltre, l’informazione permanente della famiglia sui suoi programmi generali e particolari stimolandone la partecipazione alle attività educative (Borghi, Guerra, 2002). Nel momento dell’inserimento (cioè dell’ingresso del bambino al nido), la presenza del genitore per qualche tempo (i tempi variano a seconda delle esigenze mostrate dal bambino) è necessaria: in tal modo si offre al bambino una fonte di rassicurazione contro ciò che è sconosciuto, permettendo un adattamento attivo al nuovo contesto e al genitore una rassicurazione sulle condizioni del proprio figlio che consente di vincere possibili resistenze (Coppola, 1997). La conoscenza degli operatori, delle modalità educative di riferimento utilizzate al nido, dell’organizzazione interna della struttura, dei ritmi, dei tempi, consente di creare un continuum educativo con i genitori che possono così valutare l’idoneità del nido nell’educazione del proprio figlio. Affidandosi alla professionalità degli educatori, le famiglie possono creare un’alleanza educativa priva di contraddizioni tale da costruire un percorso educativo coerente e rassicurante per il bambino. Spesso le famiglie di bambini con disabilità si sentono “diverse” o temono il giudizio altrui e per questi motivi tendono ad isolarsi e a non cercare occasioni di confronto con gli altri genitori (Rosenbluth, 1983; Rumpton, 1994; Sorrentino, 2006). L’azione del nido, inserendosi in una fase in cui la consapevolezza e l’accettazione da parte dei genitori della disabilità del figlio non sono ananno III | n. 1 | 2015
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cora definitive, ha un ruolo fondamentale nell’aiutare la famiglia sia ad aprirsi verso l’esterno – offrendole un’occasione per intrecciare rapporti sociali e ricevere supporto –, sia nel comprendere quanto siano indispensabili per il proprio figlio (come per ogni altro bambino), esperienze primarie di socializzazione – fondamentali per la percezione del Sé, dell’altro e della realtà esterna – . Tali esperienze favoriscono, infatti, un’interazione intensa coi coetanei che può offrire modelli di comportamento. In questo senso si può affermare che il nido corrisponde a una dilatazione della famiglia e ne integra le funzioni (Corbo, 1994). L’approccio alla famiglia va continuamente ridefinito, è necessario conoscere le esigenze, le idee e l’organizzazione familiari per avere così la possibilità di adattare le strategie educative ai suoi bisogni. Tale conoscenza nasce dal contatto quotidiano e dal continuo confronto. L’operatore del nido non deve relazionarsi alla famiglia con una modalità terapeutica, ma educativa, aiutandola a scoprire le sue capacità di reazione, di gestione dei problemi e di risoluzione degli stessi. È attraverso lo scambio quotidiano e la reciprocità fra i differenti ambiti di competenza che si crea uno spazio aperto alla comunicazione e alla collaborazione integrando diverse visioni del bambino. Per instaurate un buon livello di collaborazione è necessario un adeguato periodo di inserimento, in cui il bambino e la sua famiglia possano adattarsi gradualmente alla nuova realtà. Questo periodo è utile agli educatori per conoscere il bambino e i suoi genitori e per adattare l’intervento alle loro esigenze. In alcuni casi, tale inserimento potrebbe richiedere tempi prolungati (anche diversi mesi), mentre in altri potrebbe essere ridotto e sbrigativo a causa della inconsapevole non accettazione del bambino da parte del genitore con la conseguente introduzione precoce al nido (Sala la Guardia, Lucchini, 1980). Superato il primo periodo di diffidenza e avendo guadagnato la fiducia del bambino e della sua famiglia, sarà possibile per gli educatori immaginare e progettare insieme il percorso migliore da seguire per garantire il massimo benessere di tutti i soggetti coinvolti.
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III. Esiti di ricerca
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The SCERTS System. An integrated approach for the emotional regulation of the student with Autism Spectrum Disorders
Key-words: autism spectrum disorders, special education, SCERTS model, social inclusion
IV. Altri temi
Saverio Fontani, psicopedagogista, insegna nel CDL in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Firenze. Si interessa dei processi di Educazione speciale per le disabilità evolutive, con particolare riferimento ai Disturbi dello Spettro Autistico. Tra le sue pubblicazioni: Il Disturbo da Deficit di Attenzione con Iperattività (2012). La Sindrome di Williams. Dalla ricerca all’intervento psicoeducativo (2012); I disturbi dello Spettro Autistico. Percorsi per la didattica inclusiva (2014).
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Deficits in the emotional regulation are commonly observed in the typical behavioral profile of Autism Spectrum Disorders. Such deficits are attributable to the disorientation caused by the inability of understanding the environmental instances. This paper describes the opportunities related to the implementation of the SCERTS System for the emotional regulation of children on Autism Spectrum.
abstract
Saverio Fontani / Università di Firenze / saverio.fontani@unifi.it
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1. Introduction
The Autism Spectrum Disorders (ASD) represent one of the most complex developmental disabilities among those found in the child population (Volkmar, Rhea, Klin & Cohen, 2004; Schreibman, 2005; SIPeS, 2008; Dawson, 2008; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). Because of their relative diffusion the educational systems need to consider the specificity of the educational relationship that should be developed with students that present social and communicative behavioral characteristics attributable to such disorders. Because of the peculiar characteristics of the cognitive and social profile, characterized by deficiency in social research and consistent communication difficulties, such disabilities would result in the need for special adaptations to the teaching context both in its physical, social and relational aspects (Cottini, 2011; SIPeS, 2008; Guldberg et al., 2011; Mazefsky & Handen, 2011). In other words, the social deficit commonly associated with Autism Spectrum Disorders imposes the need for a contextual enhancement and facilitation of a learning environment, according to the guidelines of the perspective of the International Classification of Functioning, Disability and Health (WHO, 2001). The restructuring of the diagnostic criteria, recently operated in the main international diagnostic repertoire, the Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders- DSM 5 (APA, 2013), confirms the centrality of social deficits in Autism Spectrum Disorders. The criteria are in fact focused on two main areas:
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1. Deficit of communication and social interaction, with deficits in the following areas: 1.1 Deficits in social-emotional reciprocity; 1.2 Deficits of nonverbal communicative behaviors; 1.3 Deficits in the development of appropriate relationships. 2. Restriction and repetition of behaviors and interests, as specified by the following criteria: 2.1 Stereotyped and repetitive language and movements; 2.2 Adherence to the routine with resistance to change; 2.3 Establishment of interests with abnormal intensity; 2.4 Anomalous interests with pervasive manipulation of objects; 2.5 Changes in sensitivity to pain, cold and heat.
The presence of a similar behavioral profile, characterized by pervasive alteration of the sociality and of the repertoire of interests, should make it easy to guess the special educational needs of students with ASD (Dawson, 2008; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). They are based on the predictability of the learning environment and the daily routines (SIPeS, 2008; Cottini, 2011), and should be considered in the development of any special educational intervention (Schreibman, 2005; Dawson, 2008; Mazefsky & Handen, 2011; Guldberg et al., 2011). Similarly, we should also consider the deficits of emotional modulation, which are frequently found in the typical cognitive profile of children with ASD (Wetherby & Prizant, 2000; Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Rieffe, Terwogt & Kotronopoulou, 2007; Dawson, 2008; Chambers, Gullone & Allen, 2009; Mazefsky & Handen, 2011; Schipul & Keller, 2011). IV. Altri temi
The educational relationship, particularly in the educational settings related to Primary School, should be modeled in terms of these specific characteristics in order to encourage the child with ASD to develop basic communication skills, which in turn make up the essential background for the development of capacities of personal autonomy (Mazefsky & Handen, 2011). These motivations have led to the development of special education models oriented toward the integration of existing approaches according to the educational needs of the student with ASD (Schreibman, 2005). The SCERTS model, in this perspective, could be considered as an integrated educational approach rather than a specific intervention model (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Bloch & Weinstein, 2009; Siller, Hutman, & Sigman, 2013).
2. The deficit of social cognition in Autism Spectrum Disorders
From the point of view of the SCERTS System the base deficit of the disorder is brought back to the deficit in the development of social cognition. The deficit of social cognition represents the first area of the diagnostic criteria of the DSM 5 (APA, 2013) and one of the major alterations, also seen in the subjects with high cognitive functioning. Alterations in communication and social interaction can be caused by two basic deficits, both present in the early stages of development (Wetherby & Prizant, 2000; Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Rieffe, Terwogt & Kotronopoulou, 2007; Dawson, 2008; Chambers, Gullone & Allen, 2009). The first deficit is represented by the inadequacy of sharing processes of attention, a process that is a precursor of the typical social development (Wetherby & Prizant, 2000; Dawson, 2008; Mazefsky & Handen, 2011; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). The deficit makes it extremely difficult for the child with ASD to develop his ability to share his interest in an object with a communication partner and it is an obstacle to the development of more common social experiences, such as those represented by the social game and shared reading. In a typically developing child the share of attention is represented by the directionality of the common gaze towards an object, and by the awareness that the communication partner is observing the same focus of interest at the same time as the subject (Wetherby & Prizant, 2000; Dawson, 2008; Chambers, Gullone & Allen, 2009). The development of social cognition is determined by the early appearance, in the typically developed child, of the ability to draw the attention of his partners to the focus of public interest. Similarly, at 18 months of age the child is able to coordinate the direction of gaze on objects of interest for the communicative partner (Dawson, 2008; Wetherby & Prizant, 2000; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). In children with ASD, the capabilities for sharing attention are extremely compromised, and this aspect is strongly related to the inability to orient the eye on
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focus of interest, even after the interlocutor’s solicitations (Wetherby & Prizant, 2000; Dawson, 2008). The joint attention deficit hinders the development of the theory of mind, with the consequent difficulty in recognizing and understanding the interlocutor’s beliefs and emotions (Dawson, 2008). A second deficit commonly detectable in the cognitive and social profile of children with ASD is instead represented by the deficit of symbolization processes (Wetherby & Prizant, 2000; Dawson, 2008; Schipul & Keller, 2011). The deficit affects the use of symbolic codes used for communication processes and for social interaction, with the consequent inability to produce and understand the language. The deficit is also extended to the understanding of facial emotions and non-verbal communication (Wetherby & Prizant, 2000; Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Dawson, 2008; Mazefsky & Handen, 2011; Schipul & Keller, 2011). The skills of joint attention and use of symbolization processes are essential to the development of social cognition. Deficits of the two abilities may be responsible for the obvious alterations in communication and social interaction, detectable even in milder autism spectrum disorders and in the forms with high cognitive functioning (Wetherby & Prizant, 2000; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Gross, 2007; Dawson, 2008; Chambers, Gullone & Allen, 2009). The two processes have relations of mutual dependence: the learning of symbolic codes requires expertise in sharing attention. The capabilities related to a correct use of symbolic codes instead enable the understanding of the interlocutor’s communicative intentions, based on the understanding of facial expressions of emotions and non-verbal communication (Dawson, 2008; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). In the typical development the understanding of the interlocutor’s communicative intentions allows the development of interest in shared activities, with positive effects on the development of understanding of beliefs and emotions (Wetherby & Prizant, 2000; Gross, 2007; Chambers, Gullone & Allen, 2009; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). In children with ASD, the deficits of sharing attention processes and the use of symbols obstacle the understanding of the intentions and beliefs of others, and even many of the maladaptive behaviors typical of the disorder could be connected to this aspect (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Dawson, 2008; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). This deficit also influences the learning style of the student with ASD, characterized by peculiar cognitive strengths and weaknesses (Wetherby & Prizant, 2000; SIGN, 2007; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012). The learning style, in particular, is influenced by the presence of relatively preserved competences in the processing visuospatial skills and visual memory, associated with deficits in the social cognition, in the semantic memory and in the problem solving skills (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). Even the deficits in the self-regulation of the arousal exert significant influences on the learning style of the student with ASD, and this element should be considered in the development of each educational project oriented to meet his special educational needs (SIGN, 2007; Dawson, 2008; Mazefsky & Handen, 2011). The SCERTS System was developed precisely to ensure adequate educational IV. Altri temi
responses to the deficit of social cognition and emotional regulation typically observed in the cognitive profile of the student with ASD, according to the selection of the most advanced evidence based educational techniques (e.g. ABA, Denver Model, Pivotal Response Training), and their adaptation to the educational needs of every single student (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Guldberg et al., 2011 Molteni, Guldberg & Logan, 2013). These features allow considering the approach as one of the most advanced systems for Special Education interventions aimed at the student with ASD (see for a review Guldberg et al., 2011; Molteni & Guldberg, 2013).
3. The SCERTS System
The SCERTS System represents a pedagogical approach based on the multi-disciplinary organization of the educational context according to the learning style of the student with ASD. In this perspective, the approach could be considered as a philosophy based on the most appropriate educational response to the educational needs of each child with ASD, which are represented by the deficit of social cognition and by the deficits of emotional self-regulation (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Molteni, Guldberg & Logan, 2013). For this reason, the approach does not qualify as a new model of specific intervention, but rather as a mode of selection, among the existing models, of the ones that are most appropriate to the cognitive and social profile of every student with ASD. In the perspective of the International Classification of Functioning, Disability and Health (WHO, 2001; 2013), the SCERTS system could therefore be considered as an enhancement of the educational context developed for every student with ASD, oriented towards the development of appropriate educational responses to his educational special needs. The denomination SCERTS derives from the acronym of its components: Social Communication, Emotional Regulation and Transactional Support. The components of the approach are related to the intervention on the processes of social communication, of emotional self-regulation and on transactional support. The first two components of the approach are aimed at an educational response to deficits of typical students with ASD, and the third area is characterized by the data that peers, educators and parents learn the most effective ways of organizing communicative support to the pupil with ASD (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Guldberg et al., 2011; Molteni & Guldberg, 2013; Molteni, Guldberg & Logan, 2013). The basic elements of each of the three components are presented below. 1. Area of Social Communication
The interventions in this area are oriented to the acquisition of basic communication skills, which represent essential components for the understanding of en-
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vironment instances and for the satisfaction of the individual in the relationship with the community (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Dawson, 2008; Mazefsky, & Handen, 2011). The acquisition of basic social skills also represents a predictor for the development of the capacity of personal autonomy. For these reasons, the SCERTS approach is characterized by the constant repetition of interactive sequences between the child and the educator, based on the sharing of attention and the use of shared symbolic codes. An example of interactive sequences is represented by the following script, which is a behavioral repertoire able to promote the development of experiences of sharing attention: – – – – –
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Look at the interlocutor; Switch the gaze from the other person to the focus of interest; Point out the focus and alternate gaze to the partner; Take the object and hand it to the communication partner; Use verbal symbols (for example, name the object).
The repetition of this interactive script, derived from the most effective evidence-based models such as the Pivotal Response Training (Koegel, 2000), the Denver Model (Rogers & Dawson, 2010) and the Picture Exchange Communication System - PECS (Bondy & Frost, 2002), is an essential sequence to provide the student with ASD experiences of sharing attention and experiences of use of symbolic codes for communication (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Schreibman, 2005; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Dawson, 2008).
More complex communication sequences, based on the introduction of new symbols and of new experiences of sharing attention processes (such as reading a picture book together or watch a video together) can be developed on a basic interactive script like the one described. These interactive sequences can be easily carried out in the educational relationship between the special support teacher and the student with ASD, and could be easily incorporated into natural contexts represented by educational environments related to Kindergarden and Primary School. The use of communication tables based on the symbols of the Augmentative and Alternative Communication (AAC) may represent a practical application of the script indicated. The inclusive potentiality of this activity could be extended to the whole class, teaching to peers the basic symbols of the AAC for the collective sharing of the communication code (Mirenda & Iacono, 2009; Beukelman & Mirenda, 2013). Such tasks will broaden the audience of potential interlocutors of the child with ASD, and can increase the experiences of sharing attentional processes through the teaching of the basic elements of this interactive script to his/her peers. Sharing these activities with peers can have a positive effect on the communication competences of the child with ASD, representing a model for an effective inclusive education (Mirenda & Iacono, 2009; see Beukelman & Mirenda, 2013, for a review). From this point of view, the opportunities presented by the experiences of joint attention and by sharing of the symbolic codes for the development of basic IV. Altri temi
social skills should be taken into consideration (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Guldberg et al., 2011; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012; Molteni & Guldberg, 2013; Molteni, Guldberg & Logan, 2013). 2. Area of Emotional Regulation
Deficits in the regulation of the emotional are commonly observed in the typical behavioral profile of Autism Spectrum Disorders. Such deficits are attributable to the disorientation caused by the inability of understanding the environmental instances and of communicating needs and possible feelings of discomfort to the interlocutors (Rieffe et al., 2011; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012). From this point of view, the deficits of Emotional Regulation may be the cause of the childâ&#x20AC;&#x2122;s various maladaptive behaviors, such as the motor stereotipies, or reactions of fear and aggressiveness (Wetherby & Prizant, 2000; Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Simonoff et al., 2008; Rieffe et al., 2011; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). According to the guidelines of the SCERTS approach, the repeated presentation of the experience of sharing attention and use of shared symbolic codes allow the improvement of basic communication skills, with the consequent expansion of the capacity to make demands of the environment and ask for help in difficult situations. The emotional self-regulation, in this perspective, is strictly related to the development of communication skills (White et al., 2009; Schipul, Keller & Just, 2011; Rieffe et al., 2011; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). If the child learns how to make requests or to communicate his/her needs, the maladaptive behaviors would no longer be necessary, since it becomes possible to influence the environment with the use of symbols (e.g. indicate the symbol of the door to ask someone to go out instead of developing maladaptive behaviors). Such a conception of maladaptive behavior, derived from the perspective of Applied Behavior Analysis (Maurice, Green & Luce, 1996; Baker, 2008; Cottini, 2011; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012), should be sufficient to understand the link between the development of social communication competences and these related to processes of Emotional Regulation. The effective metaphor proposed by Frith (1989), according to which the maladaptive behaviors related to the Autistic Spectrum would have the same signaling function of the white cane for the blind person, may be exemplary with respect to this point of view. In the SCERTS perspective, in fact, the skills of self-regulation of the emotional arousal are favored by the presentation of repeated experiences of modification of the environment as a result of a request, developed through symbolic codes (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Mirenda & Iacono, 2009). The awareness of the use of these possibilities would exercise a very positive effect on the ability of regulation of emotional states by the student with ASD, with a corresponding decrease in maladaptive behaviors typical of the behavior profile connected to disorder (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Baker, 2008; Odom, Horner & Snell, 2009; White et al., 2009; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012).
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3. Area of Transactional Support
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This component of the system is based on the research carried out by educators, parents and peers to find the best way for the coordination of the support offered to the student with ASD. The concept of Team around the child is an effective indicator of the level of structuring multidisciplinary support presented to the student by the educational environment (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Odom, Horner & Snell, 2009; Guldberg et al., 2011; Molteni & Guldberg, 2013; Molteni, Guldberg & Logan, 2013). The concept of team illustrates the need for coordination between multidisciplinary professionals who develop and implement educational projects based on the response to the Special Educational Needs of the student with ASD (Molteni, Guldberg & Logan, 2013). Similarly, the emphasis of the SCERTS approach on the involvement of family members in the educational interventions centered on the child witnesses the need of the extension of transactional support in the domestic context (Bloch & Weinstein, 2009; Siller, Hutman & Sigman, 2013; Molteni, Guldberg & Logan, 2013). A peculiar role, in this perspective, is the one played by the sibling relations, that determined specific alterations in the familiar dynamics (see Caldin & Cinotti, 2014 for a review). In fact, the Parental Mediation represents a component that can influence positively the educational interventions directed to children with ASD (SIGN, 2007; White et al., 2009; Bloch & Weinstein, 2009; Siller, Hutman & Sigman, 2013), as is also highlighted by the Italian Guidelines (2011). The reference to the involvement of peers in the regulation of transactional support offered to his companion, finally, has clear points of contact with the current models of Inclusive Education (see Booth & Ainscow, 2002; Downing & Peckman-Hardin, 2007; Cottini, 2011). Learning the most effective communication methods to understand the needs and experiences of their partner (for example through the collective learning of the symbols of Augmentative Alternative Communication), is in fact one of the most effective methods of transactional support for the improvement of the studentâ&#x20AC;&#x2122;s communication skills, with the resulting positive effects on his/her ability of emotional self-regulation (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Mirenda & Iacono, 2009; Rieffe et al., 2011; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012).
4. The role of the SCERTS system in the processes of Emotional Regulation
In a typically developing child, the processes of communication and social interaction are closely related to the ability to regulate his/her emotions (Gross, 2007; Rieffe, Terwogt & Kotronopoulou, 2007; Chambers, Gullone & Allen, 2009; Rieffe et al., 2011). This competence, which is essential for the cognitive and social development, can be considered as the ability to maintain a state of optimal acti-
IV. Altri temi
vation adaptive responses to environmental instances (Anzalone & Williamson, 2000; DeGangi, 2000; Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Rieffe et al., 2011; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012). The skills of emotional regulation directly affect the ability to control the activation (arousal), which varies from minimum activation states (such as sleeping) to states of high activation (for example, reactions of fear and aggressiveness). In children with ASD there are substantial deficits in the modulation of these processes, determined both neurophysiological factors and their inability to understand the environmental instances (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Simonoff et al., 2008; Odom, Horner & Snell, 2009; Schipul & Keller, 2011). In other words, this inability to influence the arousal processes may be responsible for common maladaptive behaviors in the cognitive profile of Autism Spectrum, such as the reactions of escape, the aggressiveness or fear that can be observed when the child is exposed to unexpected changes or feared situations (Wetherby & Prizant, 2000; Volkmar, Rhea, Klin & Cohen, 2004; Simonoff et al., 2008; Odom, Horner & Snell, 2009; Chambers, Gullone & Allen, 2009). In the behavioral profile of the child with ASD, maladaptive reactions can also occur in an under reactive form, characterized by lethargy (Wetherby & Prizant, 2000; Simonoff et al., 2008; Odom, Horner & Snell, 2009). The maladaptive behaviors that result from deficiency of the emotional regulation processes are attributed to the lack of competences related to social communication and to the involvement in learning situations (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Mazefsky & Handen, 2011; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012). For this reason, in the SCERTS System, a dominant role is attributed to the development of the skills of emotional self-regulation. The ability to exercise control on the states of hyperactivation or underactivation seems to be significantly related to the involvement in the sharing of attention processes and in the learning of new symbols, basic components of the processes of social communication (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Gross, 2007; Mazefsky & Handen, 2011). In the child with ASD the difficulties of mutual regulation should also be considered. These difficulties involve the understanding of the attempts of help delivered by the interlocutor. The student with Autism Spectrum Disorders, in other words, has a substantial deficit even in the understanding of the fact that the adult can provide opportunities for help and comfort (Wetherby & Prizant, 2000; Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Dawson, 2008; Gullone & Allen, 2009). The difficulties of mutual regulation are attributable to the lack of joint attention, a process that is essential for the development of appropriate social relationships. The absence of shared attention processes may prevent in the child the knowledge of symbolic nonverbal behaviors (e.g. reach out to the adult or take him/her by the hand) or verbal (e.g. say: I donâ&#x20AC;&#x2122;t want! or: Never!). These considerations should illustrate the relationship between the deficit of social communication and the deficit in the individual or mutual emotional regulation processes, and may justify the emphasis of the SCERTS Model on these processes (Laurent & Rubin, 2004; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Gross, 2007; Chambers & Gullone, 2009; Rieffe et al., 2011). anno III | n. 1 | 2015
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This integrated approach, in fact, provides components for the evaluation of the factors that interfere with the emotional self-regulation. Objectives for self and mutual regulations are then determined on the basis of an individualized assessment of the childâ&#x20AC;&#x2122;s competences. The stimulants strategies, used for children who are in states of low activation (e.g. encourage the child to look for objects, move randomly or jump) are examples of emotional self-regulation. Similarly, calming strategies aimed at the reduction of the arousal (e.g. move according to musical rhythms, or manipulate favorite objects) can be used efficaciously with children who are in states of high activation. The recursive use of calming or stimulating strategies seems to exert a positive influence on the ability of modulation of activation (Laurent &, Rubin, 2004; Bradley & Isaacs, 2006; Gross, 2007; White et al., 2009; Rieffe et al., 2011). The ability to exercise control on the arousal increases the availability of the child to the sharing of attention and social interaction (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; White et al., 2009; Rieffe et al., 2011). This ability to control, mediated by the educator, can be exemplified by the teaching of symbolic gestures, verbal or non-verbal (Gross, 2007; White et al., 2009), that enable the child to make requests or refuse objects and activities through socially acceptable manner (e.g. pointing at, nodding to mean availability, shaking head to refuse). The use of symbolic gestures could encourage the substitution of maladaptive behaviors with communicative behaviors, according to the guidelines of Applied Behavior Analysis (Maurice, Green, & Luce, 1996; Baker, 2008; White et al., 2009; Cottini, 2011). In addition, the ability to express emotional states through the use of shared symbols, derived for example from theses of the CAA (Beukelman & Mirenda, 2013), is a primary target for emotional self-regulation. Through the use of shared symbols the student with ASD can signal his/her needs and desires to a partner that represents his/her life environment, and this possibility is related to the decreasing maladaptive behaviors, particularly in forms with a low cognitive functionality (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Gross, 2007; Baker, 2008; White et al., 2009). The ability to understand the requires of the environment is in fact positively related to the ability to regulate emotional states, with the resulting decrease in non adaptive behaviors which are typical of students with Autism Spectrum Disorders (Gross, 2007; Baker, 2008 Chambers & Gullone, 2009). The background of the processes of emotional regulation is finally represented by the ability to ask for help in situations of disorientation, instead of developing maladaptive behaviors such as those represented by the crying, fight or escape attempts (Dawson, 2008; Baker, 2008; Chambers & Gullone, 2009; Rieffe et al., 2011). The student could thus learn the socially shared symbolic gestures needed to ask to get out of a noisy classroom, for instance by giving the corresponding symbol on the communicative table or directly indicating the door, instead of crying or screaming (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Gross, 2007; Mazefsky & Handen, 2011; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012). IV. Altri temi
Similar considerations could be developed in relation to the capacity of mutual and self-regulation necessary to exit from the crisis. The situations of acoustic overstimulation are events associated with a high risk of disorientation for the student with Autism Spectrum Disorders (Wetherby, Prizant & Schuler, 2000; Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Baker, 2008; White et al., 2009; Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). For this reason, the SCERTS System includes the presentation of operational suggestions indispensable to the student to get out of the crisis by himself. A typical example is the development of the capacity of independent research of a quiet situation (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Baker, 2008; Dawson, 2008; Molteni, Guldberg & Logan, 2013). In other words, the student could learn the socially shared signals to ask to decrease the environmental acoustic overstimulation: if he/she is disturbed by a noisy classroom, the child may learn to express the need to go into the room of the game, instead of developing maladaptive behaviors (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Bradley & Isaacs, 2006; Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Gross, 2007; Mazefsky & Handen, 2011).
5. Concluding remarks
The SCERTS System can be considered as an interdisciplinary approach oriented to guide to the choice of the most appropriate evidence-based educational techniques in functions of the learning style and of the cognitive profile of each student. A multidisciplinary approach such as that provided by the system is essential to the development of educational interventions aimed at students with disabilities resulting from autism spectrum disorders (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006; Lubetsky, McGonigle, & Handen, 2011; Rieffe et al., 2011; Molteni & Guldberg, 2013). The implementation of the programs of educational intervention based on the SCERTS methodology could promote the development of adaptive behaviors in students with severe disorders, given the emphasis placed on the promotion of communication skills. The development of these skills is in fact strongly correlated with positive long-term developmental outcomes: students who fail to share attention with stakeholders are in fact able to start the communication sequences and using a symbolic language to communicate their needs and their emotional states (Prizant, Wetherby, Rubin & Rydell, 2006 Lubetsky, McGonigle & Handen, 2011). Similarly, the promotion of communication skills is able to influence the studentâ&#x20AC;&#x2122;s maladaptive behaviors, encouraging their replacement with more adaptive competences, as those related to requests for help. These competences, in turn, are crucial for the ability to prevent or to get out of dangerous situations, as those represented by events of acoustic overstimulation (Lubetsky, McGonigle, & Handen, 2011; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012). The development of an independent capacity of a risk event is a valid predictor for the positive developmental outcomes of the disorder (Prizant, Wetherby, Rubin & Laurent, 2003; Baker, 2008; White et al., 2009; Mazefsky, Pelphrey & Dahl, 2012). anno III | n. 1 | 2015
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The system is currently one of the most widely used programs for the educational intervention in the United Kingdom and the United States, and its introduction in the training of special support teachers may be desirable also for the Italian academic training systems.
References
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1. Recensione
Raffaella Leproni, Tra il dire e il fare. L’innovazione educativo-pedagogica dell’opera di Maria Edgeworth, Firenze University Press, Firenze 2015, pp. 215 di Federica Franceschelli / Università degli Studi Roma Tre Il volume Tra il dire e il fare – titolo suggestivo e fortemente significativo, come si avrà modo di approfondire – compie un interessante viaggio, ricco di spunti di riflessione e di aperture, fra la letteratura (per l’infanzia, ma non solo) e la pedagogia, fra l’emancipazione femminile, l’universo educativo e il rapporto con il sapere, fra l’identità individuale e quella sociale. Centro e motore di questo viaggio è la figura di Maria Edgeworth, scrittrice anglo-irlandese vissuta a cavallo tra Settecento e Ottocento e autrice di numerose opere, non solo letterarie (per adulti e bambini), ma anche educativo-pedagogiche. L’intento dichiarato di Raffaella Leproni è, in particolare, quello di colmare l’assenza, tra gli studi italiani di settore, di un adeguato riconoscimento di questa letterata che pure ricoprì un ruolo fondamentale nel panorama letterario e culturale del suo tempo. In questa prospettiva, il volume rappresenta uno dei tasselli (pubblicazioni, celebrazioni e convegni) tramite i quali il detto riconoscimento si è attuato, costituendo uno studio prezioso sull’opera educativo-pedagogica di Edgeworth e ampliando dunque le prospettive d’indagine oltre un ambito di analisi meramente letterario. L’opera di Edgeworth, rivisitata oggi dallo sguardo attento di Leproni, offre diversi spunti di interesse sia in una prospettiva di genere (il passaggio dal “destino” imposto alle donne nel Settecento all’autoconsapevolezza e all’autodeterminazione) sia in una prospettiva più specificamente pedagogica (all’epoca stava nascendo, appunto, la moderna pedagogia). La transizione al nuovo secolo vede l’avvento delle teorie illuministe e delle conseguenti avvisaglie di contraddizioni interne al sistema educativo dell’epoca: si affacciano nuove teorie sull’educazione che sottolineano, tra le altre cose, il ruolo fondamentale delle donne in quanto madri e, pertanto, prime educatrici dei figli. Maria Edgeworth riveste un ruolo di fondamentale importanza nel panorama letterario e culturale del tempo, rappresentando un esempio particolarmente significativo del contrastato approdo delle donne all’istruzione e alla cultura in Europa. Non solo: dovendosi occupare di una famiglia numerosa e di una piccola scuola, ella si trova presto immersa nell’universo educativo e formativo, e le sue iniziative pedagogiche finiscono per divenire note a livello internazionale. Questo avviene grazie alla sapiente fusione di pedagogia e letteratura e alla produzione saggistica da un lato – veri e propri trattati, tra cui Letters for Literary Ladies (1795), The Parent’s Assistant (1976) e Practical Education (1978) – e narrativa dall’altro, con storie e racconti per bambini e ragazzi di ogni età, tra cui ricordiamo The Parent’s Assistant or Stories for Children (1796), Early Lessons (1801) e Popular Tales (1804). La qualità innovativa del progetto di Edgeworth consiste nell’elaborazione di un «sistema pedagogico coerente, composto di testi teorici e pratici per l’educazione del bambino fino all’età della maturità» (p. 18), basato su un’idea di educazione pratica, empirica, saldamente legata all’esperienza. Come rileva Leproni, infatti, Il tratto sottile che lega le sue storie, i suoi racconti e i suoi scritti pedagogici, rendendoli un unico corpus in progress è l’esperienza. Esperienza intesa a più livelli: l’esperienza familiare, prima come figlia, poi come parent’s assistant (essendo il braccio destro di suo padre sia nella produzione scientifica sia nella gestione domestica), poi come educatrice di una piccola tribù di fratelli e al contempo come
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amministratrice delle proprietà degli Edgeworth; a questi tipi di esperienza, si aggiunge quella educativa come soggetto-educando, cioè il suo percorso dall’infanzia alla maturità (p. 39).
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Il volume è suddiviso in sei capitoli, attraverso i quali viene messo progressivamente il luce il rapporto tra la Edgeworth e l’ambito culturale e sociale in cui essa scrive, tra lo sviluppo infantile e la letteratura per l’infanzia, tra la letteratura (le storie, le narrazioni) e la pedagogia. Il primo capitolo, dal titolo “Maria Edgeworth: la donna, la scrittura, l’educazione, l’Irlanda”, affronta i rapporti fra la scrittrice e la società del suo tempo, sottolineandone la posizione «scomoda ed eccezionale» (p. 23) – come donna e educatrice. Dotata di un’incredibile poliedricità, con oltre quarant’anni di carriera letteraria e un’ampiezza rara di generi, tematiche e contenuti, Edgeworth è vista in relazione con la realtà sociale e culturale del suo tempo (l’Irlanda rurale) e con le questioni di identità religiosa, nazionale, di classe e di genere che ella sempre affronta e problematizza nelle sue opere (nei trattati come nei racconti), profondamente convinta che ogni cittadino – e, allargando lo sguardo, ogni nazione – sia migliorabile proprio a partire dalla «educazione, intesa nel senso inglese di education, educazione ed istruzione» (p. 39). Il secondo capitolo, dal titolo “Dalla pena alla penna: l’educazione dei bambini nell’Inghilterra del XVIII secolo”, si concentra sui rapporti fra adulti e bambini e sulla nascita della letteratura per l’infanzia. È importante, infatti, rilevare come nel Settecento vi sia stata una sorta di rivoluzione all’interno del panorama dell’educazione infantile in Inghilterra che, come ben evidenzia Leproni, origina dal pensiero di John Locke (è del 1693 la sua opera Some Thoughts Concerning Education, in cui egli «esprime in maniera molto chiara la necessità di cambiare l’attitudine genitoriale ed educativa nei confronti dei bambini, ancora estremamente rigida e incentrata sulla punizione, soprattutto corporale», p. 46) ed evolve trasformando, poco a poco, l’educazione infantile in una «questione sociale più che religiosa» (p. 49). I cambiamenti che caratterizzano il Settecento portano anche, negli ultimi anni del secolo, alla consapevolezza della necessità di una letteratura specifica che accompagni il bambino nella crescita. È un momento importante nel panorama educativo-pedagogico europeo, perché per la prima volta si comincia, effettivamente, a tenere conto delle necessità dei bambini in quanto lettori. Il fatto che il bambino sia ritenuto in grado di acquisire da sé il significato di un testo e possa, dunque, farne esperienza diretta è tra l’altro un tassello fondamentale della nuova idea pedagogica dell’educazione che caratterizza Edgeworth, poiché consente di «avvicinare il bambino all’educazione attraverso un mezzo a lui congeniale» (p. 73). Il volume prosegue con il capitolo intitolato “Dalla letteratura alla pratica: la rilevanza dell’opera pedagogica edgeworthiana”, all’interno del quale è indagato Practical Education, il testo teorico legato all’educazione dei bambini, e i suoi rapporti con i racconti contenuti nelle raccolte The Parents’ Assistant ed Early Lessons. È, questo, un capitolo ricco di spunti di riflessione e riferimenti a quella che potremmo definire pedagogia edgeworthiana. È interessante, innanzitutto, evidenziare come Raffaella Leproni rilevi la presenza e l’importanza di una scientificità insita nel pensiero pedagogico di Maria Edgeworth, sottolineando come, per la scrittrice, «l’educazione dei bambini non è solo un compito genitoriale o didattico, è una vera e propria scienza sperimentale» (p. 79): come evidenzia l’autrice, l’ottica in cui opera Maria Edgeworth è quella di un’educazione in termini scientifici e sperimentali, i cui processi e risultati sono monitorati attraverso quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, il fondamento di ogni intervento educativo: l’osservazione. Viene qui messo in evidenza, poi, il fil rouge che attraversa l’intera opera di Edgeworth, ovvero il concetto di esperienza, quale fondamento teorico e pratico, strumento imprescindibile per l’apprendimento di nozioni che, nella visione pedagogica di Maria Edgeworth, devono risultare concrete, familiari, avere un forte nesso con la realtà quotidiana del soggetto in apprendimento. Da qui anche l’importanza del titolo del volume: vi è una netta differenza, ci fa capire Leproni, tra il
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dire e il fare, anche e soprattutto a livello educativo e pedagogico: è proprio la dimensione pratica, concreta, legata all’esperienza diretta, a costituire il nodo fondamentale, il fulcro della visione pedagogica edgeworthiana (sono le idee che saranno riprese, a distanza di circa un secolo, da figure quali Froebel, Dewey e Montessori nell’ambito del cosiddetto attivismo pedagogico). Un altro concetto particolarmente caro a Maria Edgeworth e brillantemente colto dall’autrice è quello di peer-tutoring (peraltro estremamente in voga attualmente): l’idea educativa alla base del pensiero e dell’azione pedagogica di Edgeworth vede nell’interazione tra pari, infatti, un indispensabile mezzo per raggiungere un apprendimento efficace e naturale. Il capitolo successivo, dal titolo “Ricezione e diffusione dell’opera educativo-pedagogica di Maria Edgeworth in Europa”, riguarda la diffusione internazionale dell’opera di Edgeworth, per lo più in Europa occidentale. Interessante il caso italiano: come rileva l’autrice, infatti, nel nostro paese agli inizi dell’Ottocento non esisteva un corpus di opere dedicato all’infanzia, e le raccolte di racconti di Maria Edgeworth trovarono ampia diffusione – più dei trattati pedagogici, che pure furono ripresi da Raffaello Lambruschini nella sua Guida dell’educatore (1836-45) – fino all’unificazione del Paese e alla conseguente scomparsa dei testi stranieri dai modelli proposti all’infanzia, cui è seguita una “assenza” dell’opera edgeworthiana protrattasi fino alla riscoperta dell’autrice avvenuta agli inizi del XXI secolo. Nel capitolo successivo, dal titolo “The Little Merchants: tradurre il linguaggio dell’educazione e dell’identità”, l’autrice si concentra sul racconto “The Little Merchants”, ritenuto emblematico della poetica e delle teorie pedagogiche e sociologiche della scrittrice, che viene qui analizzato in parallelo alle teorie educativo-pedagogiche espresse in Practical Education. Ambientato nella Napoli del XVIII secolo, in una società-specchio dell’Irlanda del tempo, e destinato all’età di passaggio tra la fanciullezza e l’adolescenza, il suddetto testo affronta le fondamentali questioni della società e dell’identità attraverso quella che Leproni definisce, a ragione, «un’ammirevole strategia pedagogica» (p. 123), basata proprio su quell’idea di peer-tutoring («guidandosi reciprocamente, ognuno trasmette all’altro il proprio sapere, mettendo a disposizione le proprie abilità, in un’ottica di progresso condiviso e scambievole», p. 151) e di imitazione tra pari che Maria Edgeworth considerava alla base di ogni successo educativo e formativo. Attraverso la proposta di modelli (concreti, perché non c’è intento educativo e pedagogico che possa prescindere da questo e basarsi su presupposti astratti e teorici) positivi da un lato e negativi dall’altro, i piccoli lettori saranno, nell’ottica di Edgeworth, portati a identificarsi con i protagonisti della storia e a «imitare il modello vincente, quindi anche quello virtuoso» (p. 125). Il volume si conclude con il capitolo “Maria Edgeworth oggi – eredità e riscoperta”, all’interno del quale Raffaella Leproni presenta un’interessante riflessione sull’importanza degli scritti edgeworthiani nell’ambito del dibattito educativo-pedagogico contemporaneo e alla luce della (ri)definizione del rapporto tra individuo e società, tra autoconsapevolezza e capacità di riconoscersi, all’interno della società, rispetto agli altri. Ciò che emerge da tali riflessioni, a conferma di quanto scritto dall’autrice nei precedenti capitoli del volume, è che i concetti alla base del pensiero pedagogico di Maria Edgeworth, innovativi – anzi, rivoluzionari – per la sua epoca, mantengono tutt’oggi una validità assoluta per quel che concerne la pratica educativa e formativa: la necessità di un’educazione condivisa tra bambino e adulto, di un apprendimento che sia basato largamente sull’esempio e sull’esperienza, l’importanza di intrecciare l’educazione al vivere in una società civile in continua evoluzione, l’importanza del linguaggio in quanto mezzo privilegiato di conoscenza, di espressione di sé e di confronto con l’Altro, la visione di un’educazione mirata a costruire una propria, forte e solida identità individuale correttamente inserita in una identità sociale più ampia; un’educazione, infine, finalizzata a una visione critica della realtà, del sapere, funzionale alla creazione e alla condivisione di determinati valori. Questa è la lezione fondamentale di Maria Edgeworth, che ci arriva oggi con rinnovata
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intensità attraverso l’accurata analisi proposta da Raffaella Leproni: l’educazione consiste nel fornire al bambino gli strumenti e le competenze per vivere (nel)la comunità, (nel)la società, per costruire la propria identità in relazione a quella dell’Altro, per esercitarla in modo consapevole. Perché, come scriveva Edgeworth in The Parent’s Assistant (1796) c’è sempre stata e continuerà a esserci un’enorme differenza tra l’innocenza e l’ignoranza. Una differenza che solo l’educazione – attraverso il sapere, la conoscenza e una solida e profonda presa di coscienza – era, ed è anche e soprattutto oggi, in grado di colmare.
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G. Alessandrini (a cura di), La “pedagogia” di Martha Nussbaum, approccio alle capacità e sfide educative, Franco Angeli editore, Milano, 2014, pp. 234 di Cristiana Simonetti / Università degli Studi di Foggia
Focalizza i vari ambiti presi in esame dalla studiosa americana. Infatti ogni autore dell’opera, egregiamente curata dalla prof.ssa Alessandrini, ha analizzato qualche aspetto della variegata e multidisciplinare “pedagogia” della Nussbaum. I suoi studi in ambito educativo e pedagogico, si sono incentrati sulla “pedagogia implicita” delle “capability”. L’approccio alle “capacitazioni” della Nussbaum significa, per la pedagogista americana, riconoscere l’educabilità dell’uomo e il suo potenziale come persona che si svolge e si attiva in un contesto sociale. Il suo sviluppo e la sua crescita sono garanzia per un “welfare” efficace e per un’autorealizzazione personale e consapevole del soggetto stesso. È infatti il primo saggio del volume della prof.ssa G. Alessandrini a considerare l’importanza del generare le “capabilities” in quanto creano quell’inscindibile binomio di reciprocità tra educazione e giustizia sociale e morale. Proprio la curatrice dell’opera, partendo dallo sviluppo umano, ci conduce nel percorso della persona e delle sue capacità che in quanto tale possiede delle dimensioni talmente importanti e fondamentali per sè e per il “welfare”, la cui esistenza non si può ridurre a mero calcolo del PIL (Prodotto Interno Lordo), pertanto ad un numero e ad una appartenenza ed ad un sistema meccanico e matematico quantitativo. La vera ricchezza umana – dice la Nussbaum – non sta nel PIL, ma altrove … in ogni elemento della vita e del suo svolgersi. Sono motivazioni il motore di ricerca del “capability approach”, in quanto le capacità sono poteri illimitati che solo se alimentati e pertanto educati – dice la G. Alessandrini – diventano opportunità, promozione, prospettiva di vita. La base della piramide delle “capabilities” è proprio la valorizzazione delle persone e del loro “capitale” formativo composto dalle dimensioni studiate dalla Nussbaum: vita; salute fisica; integrità fisica; sensazioni; sentimenti; ragion pratica; appartenenza; relazione; gioco; controllo dell’ambiente. Il discorso pedagogico è riconducibile all’educabilità umana che rinvia alle dieci aree della vita umana e alla valorizzazione e autoconsapevolezza della persona che non risponde ai falsi richiami della razionalità economica. Infatti nel saggio di U. Margiotta, lo studioso parte dal presupposto e dall’ipotesi che solo il passaggio della razionalità economica a quella educativa, potrà aiutare e rendere a possibile l’attivazione del “welfare” in “well-being”, ovvero nel proprio, personale, soggettivo “well-being”. U. Margiotta ritrova nella Nussbaum l’esplicitazione secondo la quale è lo Stato che deve occuparsi di assicurare le capacitazioni agli individui e che in seguito ciascuno si impegnerà con motivazioni ed empatia a definire, mediante libertà e senso morale, il proprio e personale “well-being”. Tutto ciò perché “capabilities” significa opportunità di scelta e di azione, opportunità di libertà (opportunity freedom), giustizia sociale. U. Margiotta sostiene, pertanto, che esso è un cammino che conduce all’innovazione e alla promozione: capability come capacit-azione. Un altro contributo che ci fornisce la Nussbaum è quello che intravede e analizza nel suo saggio M.L De Natale, riguardante il binomio educazione permanente-democrazia.
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Le capacitazioni sono nella nostra realtà che si apre alla mondialità – sostiene M.L. De Natale – conoscenze e competenze di un paradigma universalistico che rimandano a quell’”universale educativo” della formazione permanente che incarna il nuovo umanesimo. Quest’ultimo ricorda la pedagogista M.L. De Natale, ingloba una rinnovata pedagogia che ricopre la persona come centro di libertà e di autonomia, nel rispetto dell’Altrui libertà e in vista del ben-Essere sociale ed educativo, per il bene comune e non per il profitto. Ecco il passaggio dalle capabilities alla democrazia, dall’educativo alla Trascendenza e all’Ulteriorità che aiuta l’uomo-persona a “trascendere”, nel senso di “sollevarsi” verso il miglioramento e la Trascendenza, nel rispetto dell’Altro uguale e diverso e pertanto nella multiculturalità e nella mondialità della nuova cittadinanza attiva. Creare capacità significa creare democrazia - asserisce la studiosa americana, attraverso le parole e il saggio di D. Santarone - ovvero un’autentica formazione dell’uomo lontana dalla religione del profitto. Si tratta – dice lo stesso studioso di didattica interculturale – di una prospettiva che richiama quella marxiana dell’”uomo onnilaterale” e della superiorità del valore d’uso rispetto al valore di scambio nelle relazioni sociali. Per la Nussbaum cittadinanza mondiale significa interculturalità, accoglienza, inserimento, accettazione e riconoscimento dell’Altro: “diventare stranieri in patria”, nel senso che essi vanno inseriti nell’ambito sociale, ma soprattutto accolti nelle loro tradizioni e nelle loro abitudini diverse. Ma non solo: queste vanno comunicate, accettate, riconosciute e inglobate nel sistema della mondialità e della rinnovata cittadinanza. Ancora interculturalità nella cittadinanza globale nel saggio di M. Fiorucci che ha ritrovato nella studiosa Nussbaum i concetti di “intelligente cittadinanza”, di “comunità umana” e di “prospettiva sovranazionale”. Infatti l’interdipendenza globale della società attuale che si connota interculturale ed ampia, deve considerare che la giusta cittadinanza comprende alterità esterne ed interne, conoscenza, accettazione e inglobamento dei gruppi e delle culture che la compongono e pertanto deve puntare ad una prospettiva sovranazionale, oltre i confini limitati delle proprie abitudini e tradizioni. Significa mantenere viva la democrazia, il senso di libertà, l’autonomia di pensiero e di azione, la capacità di trascendere i “localismi”, affrontando le problematiche mondiali come cittadini del mondo e superando l’idea di profitto. Fiorucci incarna il pensiero della studiosa americana nel riconoscere in ogni straniero una persona che porta con sé una storia e una memoria, che ha una sua cultura e una sua patria d’origine, con un proprio e personale progetto di vita, ma che accetta, con-divide e si relaziona con un mondo ”altro” che lo arricchisce. Dall’altro lato, anche chi non è straniero accetta e con-divide il “diverso” da sé, secondo una prospettiva ampia e multiculturale, pertanto educativa. Per dirla con la prof M.L. De Natale: “ogni diversità educa”! Panorama internazionale per l’”Higher Education”: una dimensione planetaria per l’istruzione superiore. È questa la prospettiva internazionale secondo l’approccio di Martha Nussbaum e analizzata da P. Ellerani. L’obiettivo Europa 2020 tende ad un maggiore investimento nell’istruzione superiore europea, e quindi la studiosa americana si è proposta uno studio per un investimento per il futuro, verso il futuro che vive e che comunica con una mondialità “open”. ”Higher Education” significa mobilità per crescita, investimento e migliore occupabilità dei giovani studenti europei. Un progetto che riporta il well-being al riconoscimento delle “capacità interne”, di quelle innate o di base e di quelle combinate come somma di quelle interne e delle condizioni socio-politiche ed economiche. In questa maniera – dice la Nussbaum – è il contesto a divenire “capacitante” per far esprimere e produrre le diverse e molteplici potenzialità interne. Significa riportare alla luce concetti e realtà educative del “tirar fuori” per…. Nasce l’importante trinomio: capitale sociale – istruzione – apprendimento con l’integrazione delle capacità umane interne, esterne e combinate, che conducono ad un con-
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testo informale (lifewide) generativo per accedere alle opportunità cognitive e di sviluppo delle capacitazioni. È un “capability approach” applicato all’”Higher Education” dell’educazione superiore in un panorama internazionale, la sfida attualissima lanciata dalla studiosa. La ricchezza di uno stato porta in sé l’approccio alle e delle capacità quali elementi fondanti nella qualità di vita del singolo e della comunità. Nel saggio di A. Gargiulo questa prospettiva di vita mette al centro la Persona nel suo saper interagire con i bisogni interni e con le possibilità di sviluppo della persona stessa. Pertanto l’istruzione, l’educazione, l’apprendimento, le abilità, concorrono allo sviluppo delle “capabilities” secondo processi di educazione permanente e degli adulti in … formazione. Educare alla cittadinanza attiva significa secondo la Nussbaum, riconsiderare i diritti per la salvaguardia dell’ “humanitas” del soggetto-persona contro la disumanizzazione causata dal prevalere dalla tecnica e del mercato. L. Moschini riprende le tematiche della studiosa americana relative alla cittadinanza in un’ottica di genere, di ruoli sessuali geneticamente fondati, ma non solo… Infatti Moschini nel suo saggio precisa che la categoria del genere non comprende solo i ruoli sessuali e perciò biologici, ma include anche ruoli sociali cioè “capabilities”. Così il “gender” appare legato all’inclusività, alla democrazia, all’uguaglianza, alla responsabilità, alla partecipazione, ma tutto nel pieno riconoscimento di genere e pertanto anche delle diversità e delle diversificate capacità di ciascuno. “Capability Approach” è anche inteso come “Political Emotions”, cioè come educazione politica in cui l’ethos della cittadinanza viene veicolato attraverso le emozioni dei cittadini stessi. È la “terapia delle passioni” che rende attive le capabilities – secondo F. Abbate che dà voce al pensiero della Nussbaum – è l’immaginazione al potere, sono le emozioni che rendono un corpo vitale. In assenza di educazione estetica, percettiva, emotiva non si costruisce un tessuto sociale solido, “giusto” fatto di interiorità di ciascun e di tutti con i loro sentimenti che vanno dalla paura all’amore, dal coraggio all’onestà, fino a quella parola chiave che l’autore del saggio chiama “ com-passione”. Essa garantisce un vincolo democratico tra i cittadini fatto di giustizia e di pathos che si allarga dalla cittadinanza più ristretta alla mondialità. Si richiama in causa il concetto di autonomia e di responsabilità della studiosa americana, attraverso l’ultimo saggio di M. Costa, dove il ruolo educativo diviene innovazione sociale e sussidiarietà. L’innovazione sociale salvaguarda il valore dell’individuo in quanto essere libero, ma essendo esso inserito in un contesto sociale di appartenenza, anche come cittadino, figlio e genitore in un percorso formativo di educazione permanente. A livello pedagogico, pertanto, è fondamentale porre la relazione tra emozionalità positiva e agency capacitativa, tra etica e partecipazione sociale, tra qualità emotiva e senso della felicità come finalità ultima della vita e dell’esistenza stessa. Questa è la globalità della persona che si muove verso e per l’innovazione sociale. Intendere la libertà come spazio di riflessività, significa riconsiderare le capabilities come capacità sociali ed educative e il welfare da sistema economico e politico a ben-Essere formativo permanente e ricorrente in tutte le “agency” dell’innovazione sociale. Per dirla con De Montaigne: “NON È SUFFICIENTE CHE L’EDUCAZIONE NON CI GUASTI, MA BISOGNA CHE ESSA CI CAMBI IN MEGLIO”. (De Montaigne, saggi, Libro Primo, XXV, 1587) “La vera ricchezza umana non sta nel PIL ma altrove…” (Nussbaum, 2010).
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Alison M. Thompson, The Boy from Hell? Life with a Child with ADHD Paperback, Marzo 13, 2013 di Clarissa Sorrentino / Università del Salento
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The Boy from Hell: Life with a Child with ADHD descrive l’esperienza di coloro che nel ruolo di genitori si trovano ad affrontare la sfida di avere un figlio con il disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Alison Thompson, madre di Daniel, è una donna che non si arrende e cerca faticosamente di affrontare le difficoltà del figlio in un contesto culturale, quello inglese, che purtroppo ancora oggi, nonostante gli sforzi e i successi di associazioni, insegnanti e professionisti, si presenta poco inclusivo. Ad oggi, nel sistema inglese, gli alunni con bisogni educativi speciali hanno molta probabilità di essere espulsi dalla scuola comune1 e conseguentemente di finire in scuole speciali. Si tratta di strutture specializzate che, a seconda dell’indirizzo, accolgono bambini e ragazzi con problemi comportamentali gravi, difficoltà emozionali, disturbi pervasivi dello sviluppo, ma anche ritardi cognitivi e disturbi sensoriali. Il testo racconta i vissuti e i sensi di colpa di una madre che, accusata di non saper educare il proprio figlio, si rassegna al fatto che l’unica scelta giusta per il figlio sia di iscriverlo in una scuola diversa, una scuola più adatta ai bisogni di Daniel, una scuola appunto speciale. Uno dei primi errori raccontati da Alison all’inizio del testo. Alison ritiene che la ragione per la quale scrive il libro è voler condividere l’esperienza di una madre del Regno Unito e fornire delle linee guida per genitori che si affacciano per la prima volta a tale problematica. Già prima della scuola dell’infanzia la madre riconosce che il modo di giocare di Daniel non è uguale a quello degli altri bambini, il bambino si arrabbia spesso, rompe i giocattoli degli altri e ha degli attacchi di rabbia ingiustificati. E così che sin dai primi anni di vita di Daniel, Alison viene etichettata come Bad Parent, le Nurseries dell’asilo non riescono a gestirlo e mossa dalla voglia di poter migliorare il comportamento del piccolo, Alison contatta il pediatra il quale comincia a sostenere che i comportamenti di Daniel potrebbero far pensare ad un “Borderline ADHD”. A causa dei problemi manifestati all’asilo, Daniel nel 2004 inizia il primo anno di scuola dell’infanzia con un profilo di special needs. Tale prima forma di accoglienza, tuttavia, non sortisce alcun successo, tanto che Daniel viene escluso dalla scuola dell’infanzia e inviato in una Pupil Referral Unit (PRU) all’età di 4 anni. Le Pupil Referral Unit sono istituzioni educative governative per bambini che sono stati esclusi da scuola per differenti cause: problemi di salute a causa dei quali non hanno potuto frequentare la scuola per un lasso di tempo consistente, bambini con problemi comportamentali, adolescenti madri e altre situazioni difficili. 1
Department for Children, Schools and Families. 2009 Permanent and fixed period exclusions from schools and exclusion appeals in England. 2007/08. Last retrieved February 12, 2010 in http://www.dcsf.gov.uk/.
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La seconda esclusione/espulsione, questa volta più lunga, dalla scuola comune avviene all’età di 10 anni, quando Daniel ferisce tre persone della sua scuola e viene richiamato dalla polizia locale a dare la sua versione dell’accaduto. La madre su decisione dei docenti acconsente a rimandare Daniel in una nuova PRU sperando che tale scelta possa aiutare il piccolo a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. L’impulsività, l’agire senza pensare è una delle caratteristiche dell’Adhd che nei casi più difficili porta a mettere a rischio la propria e altrui sicurezza, e dinanzi a fatti gravi, l’autrice del libro non può che sentirsi nuovamente frustata e depressa. Le lunghissime burocrazie per iscrivere Daniel ad una scuola speciale lo portano a restare a casa 5 mesi con il tutoraggio da parte di alcuni home-tutor che seguono 2 ore al giorno il bambino. Tuttavia le difficoltà degli operatori a lavorare con un ragazzo con ADHD si amplificano a causa delle problematiche derivate dall’allontanamento dai compagni e dalla vita di relazione, portando gli operatori a lasciare alla madre il compito dell’istruzione del figlio. Nel sistema inglese la “Local Education Authority” è un organismo che in situazioni gravi come quella di Daniel autorizza l’iscrizione in una scuola speciale. La LEA è incaricata di preparare lo ‘statement of special educational needs’, un documento la cui stesura richiede un processo che può durare fino a 18 settimane e che comporta una raccolta di informazioni da parte di tutte le agenzie che ruotano attorno all’allievo. La scuola o i genitori del bambino possono chiedere che la LEA inizi tale valutazione. A seguito dell’autorizzazione le scuole speciali hanno poi un tempo di 15 giorni per decidere se approvare o meno l’iscrizione. Nel caso di Daniel, solo dopo le indicazioni della head teacher (paragonabile all’insegnante coordinatrice) e degli home-tutor, l’ente educativo locale ha dato il consenso formale a far iscrivere Daniel in una scuola specializzata in difficoltà emozionali e comportamentali. Inizia dunque il percorso di Daniel nella Special Primay School, un percorso che permette al bambino di raggiungere buoni risultati scolastici. Un ulteriore passaggio nel testo è l’esperienza dell’ormai adolescente Daniel nella Special Senior School (una scuola a metà fra la scuola secondaria di I livello e il biennio delle superiori). La struttura della scuola è simile ad un istituto penitenziario per minori, non a caso vi è anche la presenza di un ufficiale di polizia. La stessa struttura, se da una parte appare eccessivamente rigida, dall’altra offre una didattica per alunni personalizzata in un contesto in cui tutti gli operatori scolastici sanno come intervenire con alunni con problemi comportamentali. Le strategie sono pienamente condivise dal personale scolastico e gli obiettivi di apprendimento sono calibrati sulle reali capacità dei singoli alunni, al fine di costruire le basi per un piano di vita futuro fuori dalla scuola. Una scuola speciale dove il nucleo centrale è la personalizzazione dell’intervento formativo. Tutto ciò non fa altro che rassicurare i genitori sulle reali capacità degli insegnanti di gestire situazioni problematiche con adolescenti con problemi emozionali e comportamentali, generando in loro un senso di sicurezza e fiducia nell’istituzione scolastica nonostante la sua dimensione ghettizzante e lontana da ciò che la realtà sociale offrirà a questi ragazzi una volta usciti dal sistema scolastico. È doveroso riflettere sui vissuti di una madre che vive costantemente un senso di colpa legato sia all’inadeguatezza nel gestire un bambino/adolescente con ADHD sia alla difficoltà a scegliere per il proprio figlio il percorso scolastico più adatto prima e dopo l’esclusione dalla scuola. Il filo conduttore che emerge da tali vissuti e che attraversa l’intero testo è la logica differenzialistica di un sistema scolastico che nel quale una volta entrati è molto difficile uscirne. Un sistema che per tempi burocratici porta a perdere mesi preziosi di formazione per un alunno con ADHD come Daniel. Il contributo, oltre ad essere uno strumento per la comprensione di un vissuto scolastico, molto diverso da quello italiano, sollecita una riflessione sulla cultura dell’inclusione e sul fatto che se essa non si costruisce dalle basi, è difficile poi garantirla in corsa. La testimonianza di Alison implicitamente richiama l’attenzione sul bisogno di promuovere competenze didattiche specifiche per il lavoro con alunni difficili nella scuola comune e
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sulla relazione di fiducia che la si deve costruire con la famiglia per offrire la miglior risposta educativa e formativa agli alunni con BES. Infine, la descrizione offerta attraverso il filtro dell’esperienza del sistema scolastico inglese, permette di sostenere che il cammino verso l’inclusione non è dato dal meccanismo delle scuole speciali ma dalla formazione dei docenti curriculari su competenze psicopedagogiche da esercitare in scuole “normali in un’ottica di rete con tutti i servizi e la famiglia.
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4. Recensione Osservare per includere. Metodi di intervento nei contesti socio-educativi con saggi di: Elena Bortolotti, Paolo Sorzio, Federico Mucelli, Sara Bergamo, Corinna Davanzo, Elisabetta Basso, Federica Caruso, Beatrice Belleri, Carocci Editore – Studi Superiori, 2014, pp. 174 di Giusi Zamarra / Università degli Studi di Bologna Il lettore di “Osservare per includere. Metodi di intervento nei contesti socio-educativi” immagina di addentrarsi in un terreno piuttosto specifico, quale quello della metodologia di intervento nei contesti socio-educativi e, in particolare, delle pratiche osservative; terreno che è parte integrante di un tema più ampio e largamente dibattuto: l’inclusione scolastica e sociale delle persone con disabilità. Tema che, come evidenziato dal contributo di E. Bortolotti, ha consentito l’attuazione di importanti provvedimenti legislativi, sostenuti da una revisione dell’approccio alla persona. Tali provvedimenti hanno generato, immediatamente, una maggiore sensibilità nel cogliere sia le informazioni provenienti dall’ambiente osservato che le caratteristiche osservabili di un soggetto “[…] in relazione tra loro in un quadro coerente e unitario, […] nella logica di uno studio spazialmente, temporalmente e culturalmente situato.” (p.35). Un processo la cui efficacia ha, secondo le parole di P. Sorzio, “[…] due effetti simultanei: aumenta la conoscenza sui processi educativi che sono il focus di attenzione e di studio, e modifica e rende più sensibili gli schemi cognitivi dei ricercatori in relazione alla conoscenza dei fenomeni educativi.” (p. 43). Il focus sulla conoscenza dei processi educativi deve necessariamente tener conto delle loro caratteristiche proprie e della loro estrema varietà e ricchezza, come emerge dai contributi di F. Mucelli, S. Bergamo e C. Davanzo. I tre autori trattano, con esempi di esperienze diverse, un tema che fa da sfondo all’intero volume: la necessità di acquisire la competenza metodologica, gli strumenti e gli schemi concettuali che permettono di relazionarsi con la complessità e la molteplicità delle variabili dei contesti in cui si opera. Tutto ciò va sostenuto dalla costante collaborazione di diverse figure e dalla formazione di una comunità di ricerca continuamente aggiornata e in possesso delle competenze necessarie per predisporre e verificare interventi educativi innovativi. In questo senso “l’osservazione e la comprensione delle pratiche presenti in un setting inclusivo divengono determinanti nella strutturazione delle attività educative […].” (p.104). Osservazione e comprensione si attuano anche quando l’osservatore, abbracciando la prospettiva etnografica, entra in stretta relazione con i soggetti coinvolti nel loro contesto quotidiano, attraverso la cosiddetta “osservazione partecipante”. Prospettiva di cui si coglie il senso nei due contributi finali di F. Caruso e B. Belleri. Federica Caruso parla proprio di “[…] occasione per il confronto di diverse prospettive educative […] e, di conseguenza, la crescita della pratica educativa stessa.” (p.147). In questo volume ciascun autore ha contribuito a raggiungere lo scopo esplicitato nell’introduzione. I metodi osservativi vengono, infatti, analizzati in maniera chiara e ben definita, e gli esempi di applicazione sono sempre sostenuti da una costante riflessione sui modelli teorici di riferimento. Il testo sollecita a riflettere sulle proprie competenze metodologiche tutti gli operatori e i ricercatori che lavorano con persone “fragili”; ad approfondirle, se necessario, cogliendo l’importanza dell’osservazione come capacità di conoscere l’individuo, inteso sia come principale destinatario di attenzioni educative sia come soggetto inserito in un particolare contesto.
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