Rivista lasalliana
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2013
Rivista lasalliana
RL
Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
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Rivista lasalliana 19
ISSN 1826-2155
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trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti Quale futuro per l’educazione cristiana?
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Enrico dal Covolo La trasmissione della fede oggi e la testimonianza dei Padri della Chiesa Francesco Trisoglio Fede: in vario incontro con i Padri della Chiesa Umberto Casale Il Concilio Vaticano II
Dario Antiseri Ogni errore è un’occasione di apprendere Carlo Nanni Educazione alla fede
Cesare Trespidi Lasalliani autori di libri di preghiera (II)
Joan Carles Vázquez Pistas para mejorar la calidad educativa en nuestros días
Gilles Beaudet Le Frère Marie-Victorin Kirouac, un éducateur et un chef de file V. Cuvilliers, M. Devif, M. Fontaine, Ph. Moulis, F. Ricousse Relazioni epistolari del Beato Fratel Salomone GENNAIO - MARZO 2013 • ANNO 80 – 1 (317)
RIVISTA LASALLIANA
Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondata nel 1934 Anno 80 • numero 1 • gennaio-marzo 2013 Direttore
DONATO PETTI
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CARLO NANNI (Scienze dell’educazione)
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DIEGO MUÑOZ (Ricerche e Studi lasalliani)
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CARMELA PALUMBO (Autonomia scolastica)
MARCO PAOLANTONIO (Studi lasalliani)
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LORENZO TÉBAR BELMONTE (Pedagogia lasalliana)
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Comitato di Redazione
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Collaboratori
Edwin Arteaga Tobón, Gilles Beaudet, Bruno Bordignon, Graziella Bussoni, Emilio Butturini, Angelo Piero Cappello, Italo Carugno, Umberto Casale, Robert Comte, Sergio De Carli, Paulo Dullius, Andrea Forzoni, Oreste Gianfrancesco, Antonio Gentile, Pedro Gil, Mariachiara Giorda, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Léon Lauraire, Lino Lauri, Herman Lombaerts, Anna Lucchiari, Matteo Mennini, Vito Moccia, Patrizia Moretti, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Raffaele Norti, Laura Pappone, Francesco Pesce, Massimo Pisani, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Bérnard Pitaud, Marica Spalletta, Antonella Susanna, Giuseppe Tacconi, Biancamarta Tammaro, Cesare Trespidi, Joan Carles Vázquez, Ciro Vitiello.
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SOMMARIO
Rivista lasalliana 80 (2013) 1
SOMMARIO EDITORIALE
11 Donato Petti
Quale futuro per l’educazione cristiana?
Partendo dal patrimonio dottrinale del Concilio Vaticano II sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nella società, viene presentata l’identità del laico educatore. Di fronte alla sfida dell’emergenza educativa, l’Autore propone di ripartire dalla formazione integrale dei docenti laici per organizzare il futuro dell’educazione e, in particolare, delle scuole cattoliche, sui fondamenti della “missione educativa condivisa”, nella diversità e complementarietà delle vocazioni e dei carismi, in attuazione dell’ecclesiologia di comunione. What kind of future for Christian Education?
Out of the teaching inherited from Vatican II concerning the vocation and mission of the laity in the Church and in society, there emerges the idea of the identity of the lay educator. Faced with the challenge of the crisis in education, the author proposes we recommence with the integrated training of lay teachers so as to organise the future of education in general and Catholic schools in particular, based on a “shared educational mission”, in which there is diversity and complementarity in vocations and charisms, as an expression of an ecclesiology of communion.
STUDI 19 Enrico dal Covolo
La testimonianza dei Padri della Chiesa e la trasmissione della fede nel mondo d’oggi. Da Ireneo di Lione a Paolino di Nola
L’Autore pone la questione di fondo: la fede può essere «trasmessa»? Se la fede è un atto personale, essa non può essere «trasmessa» ma può essere indicata come testimonianza. Ma oltre a questo aspetto soggettivo e personale della fede, c’è anche un aspetto oggettivo, fatto di contenuti, che sono oggetto, appunto, di insegnamento, e che quindi posso-
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no essere trasmessi. L’Autore articola le sue riflessioni su questi due aspetti dell’esperienza di fede, ripercorrendo la testimonianza dei Padri della Chiesa, da Ireneo di Lione ad Ambrogio e Agostino fino a Paolino di Nola.
The Witness of the Fathers of the Church and the Transmission of Faith in the World of Today. From Irenaeus of Lyons to Paolino of Nola
The author poses the fundamental question: Can faith be «transmitted»? If faith is a personal act, it cannot be «transmitted» but it can be pointed to by witnessing. But apart from the personal and subjective aspect of faith, there is also an objective aspect of the factual contents which are the object of teaching and hence can be transmitted. The author develops his thoughts on these two aspects of the experience of faith by referring to the witness of the Fathers of the Church, from Irenaeus of Lyons to Ambrose and Augustine and to Paolino of Nola.
33 Francesco Trisoglio Fede: in vario incontro con i Padri della Chiesa
La fede è un affidamento fiducioso, indispensabile nella concretezza della vita pratica e nella sanità di quella spirituale, naturale e soprannaturale; in questa ha la garanzia della parola divina. I Padri non l’hanno indagata nella sua essenza complessiva; l’hanno considerata nei suoi rapporti con lo spirito umano. Hanno quindi evidenziato che fede ed intelligenza si esigono a vicenda, come a vicenda si richiamano fede e ragione; il rigore intellettualistico della fede viene vitalizzato dalla speranza; essa è indispensabile per la salvezza e richiede l’aiuto della grazia; non va solo creduta ma anche praticata; è accessibile a tutti e conduce alla salvezza eterna in una somma nobilitazione dell’anima.. Faith: in various encounters with the Fathers of the Church
Faith is an act of trust and confidence, indispensabile in the concrete practice of life and for the health of the spiritual life, both natural and supernatural, for which it has the guarantee of the word of God. The Fathers did not delve into its complex essence; they looked at it in relation to the human spirit. They showed that faith and intellect need one another mutually, as do faith and reason; the intellectual rigour of faith is given vitality by hope; it is indispensabile for salvation and requires the help of grace; it is not just believed but it is also practiced; it is accessible to all and leads to eternal salvation in the ultimate ennobling of the soul.
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43 Umberto Casale
Il Concilio Vaticano II
A cinquant’anni dalla sua apertura, mentre ferve il dibattito sulla sua ermeneutica, è necessario riflettere sul significato attuale del Concilio Vaticano II (1962-1965). L’articolo intende coglierlo attraverso il nesso che tiene insieme la grande Tradizione della Chiesa, le intenzioni di chi ha convocato e portato a termine l’assise conciliare, e noi, gli attuali ricettori di quello che Giovanni Paolo II ha definito una bussola per il presente e il futuro della Chiesa. Anziché rompere con la Tradizione (come dicono insieme conservatori e progressisti) il Vaticano II è la manifestazione fedele e creativa della traditio Jesu, dell’ininterrotto legame che unisce il Gesù venuto (incarnazione, morte e risurrezione), il Gesù che viene (nello Spirito Santo, tempo della Chiesa) e il Gesù che verrà (escatologia). The Second Vatican Council
Fifty years have passed since the opening of the Second Vatican Council (1962-1965) and it is necessary to think about its current meaning as the debate about its hermeneutic grows. The article intends to catch this meaning through the connection that links together the great Tradition of the Church, the purposes of the ones who convened and ended the Council, and us, the current receivers of what pope John Paul II defined as a compass for the present and future of the Church. Instead of breaking away from the Tradition (as conservatives and progressives both say) the Second Vatican Council is the faithful and creative display of the traditio Jesu, uninterrupted tie that unites the Jesus who came (incarnation, death and resurrection), the Jesus who comes (in the Holy Spirit, time of the Church) and the Jesus who will come (eschatology).
PROPOSTE 61 Dario Antiseri
Ogni errore è un’occasione di apprendere
L’intera ricerca scientifica – in ogni ambito essa venga praticata – consiste in tentativi di soluzione di problemi, tramite la proposta di congetture o ipotesi da sottoporre ai più rigorosi controlli. Nel grande scienziato vive un grande poeta e le creazioni “poetiche” dello scienziato sono appunto le ipotesi, cioè tentativi di soluzione di problemi. E sappiamo che tutte le nostre ipotesi, congetture e teorie, per quante conferme abbiano ottenuto, restano smentibili: non abbiamo un crite-
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rio di verità che possa permetterci di dichiarare vera, in assoluto e per sempre, una teoria. E la storia della scienza è storia di teorie che col tempo vennero falsificate. La storia del sapere scientifico è un prezioso cimitero di errori. Every Mistake is a chance to learn
All scientific research, in whatever area it is practiced, consists in tentative solutions of problems, working through the positing of conjectures or hypotheses which are then submitted to rigorous testing. In every great scientist there dwells a great poet and the “poetic” creations of the scientists are precisely those hypotheses, that is to say the tentative solutions to problems. And we know that all our hypotheses, conjectures and theories, however much confirmed, are still capable of being disproved. We do not have a criterion of truth which allows us to declare any theory as true, absolutely and for ever. This is the story of science and the story of theories which are shown to be false in the course of time. The history of scientific knowledge is a sacred graveyard of mistakes.
75 Carlo Nanni
Educazione alla fede
Educare oggi alla fede presuppone tener conto di molteplici e complessi contesti. Su questa base si individuano, anzitutto, i punti della vita personale e di quella comunitaria a cui utilmente riferirsi. In particolare si approfondisce la peculiarità di dover educare ed evangelizzare i giovani, oggi, “ai tempi della globalizzazione e di “internet”. Si propongono, quindi, specifiche attenzioni ed azioni educative relative al parlare di Dio e al formare la personalità dal punto di vista spirituale e di fede. Si conclude evidenziando la rilevanza educativa della testimonianza. Education to Faith
Nowadays, education to faith presupposes an awareness of the multiplicity and complexity of situations. This is the primary basis for identifying specific points of reference in personal and community life. In particular it means exploring the special need to educate and evangelise young people in today’s world of “globalisation and the internet”. We require, therefore, specific attention and teaching relative to talking about God and educating the person to spirituality and faith. In conclusion, the relevance to education of giving witness is demonstrated.
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RICERCHE 83 Cesare Trespidi
Lasalliani autori di libri di preghiera (II)
Sull’esempio di S. Giovanni Battista de La Salle, altri Lasalliani si sono cimentati nell’edizione di preziosi volumetti per la formazione alla preghiera cristiana dei loro allievi. Rivista Lasalliana già ha illustrato l’opera di Fratel Basilio André (n. 2 – 2012 - pp. 251-266); ora prosegue la presentazione di altri testi curati da Religiosi Lasalliani che talora, nella loro umiltà, non hanno neppure siglato il loro nome sulla pagina titolata. Lasallian authors of books of prayer (II)
Following the example of St. Jean-Baptiste De La Salle, other Lasallians have established themselves through producing valuable works on how to educate the pupils in Christian prayer. Rivista Lasalliana has previously given attention to the work of Brother Basilio André (n. 2, 2012, pp. 251-266). Now we continue the presentation with other texts produced by Lasallian Brothers even though some of them, in their humility, did not even include their names on the title pages.
95 Joan Carles Vázquez
Pistas para mejorar la calidad educativa en nuestros días
El artículo presenta cuatro pistas que tienen una incidencia significativa en la mejora de la calidad educativa de las escuelas. Estas pistas son: la formación del profesorado, el papel que éste desempeña en la escuela, la necesidad de educar en valores y la implicación de las familias en el proceso educativo de los hijos. En la conclusión se hace referencia a la importancia de la evaluación de los contenidos de estas pistas para poder mejorarlos. Ideas for improving the quality of education in our days
The article presents four tracks that have a significant impact on improving the quality of education in schools. These tracks are: teacher training, the role it plays in the school, the need to teach values and family involvement in the educational process of the children.The conclusion refers to the importance of the assessment of the content of these tracks can be improved.
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ESPERIENZE E TESTIMONI 109 Gilles Beaudet
Le Frère Marie-Victorin Kirouac, un éducateur et un chef de file
Frère Marie-Victorin Kirouac, Frère des Ecoles Chretiennes, a mené une vie fort productive comme religieux et comme éducateur. La maladie l’amène, à 18 ans, à développer systématiquement un goût de la recherche botanique, en plus de sa tâche d’enseignant. L’Université de Montréal l’appelle à constituer une chaire de botanique à la Faculté des Sciences (1920). Dans ce milieu de vie, il deviendra un leader d’opinion, un conférencier vigoureux et apprécié. Il publiera plusieurs monographies, mais surtout la Flore laurentienne qui est toujours respectée et utilisée. Il créera le Jardin botanique de Montréal. Par malheur, un accident d’auto (15 juillet 1944) entraînera sa mort prématurée. Son œuvre subsiste et elle a été poursuivie et enrichie avec grandeur. Brother Marie-Victorin Kirouac, an educator and leader
Brother Marie-Victorin Kirouac, Brother of the Christian Schools, has led a very productive life as a religious and as an educator. As young as 18 years old, threatened by tuberculosis and forced to live mostly outdoors, he developed a liking for botanical research in addition to his teaching profession. The University of Montreal asked him to take charge of the botanical chair at its creation in 1920. He rapidly became a leader of opinion and a very vigorous and well-received lecturer. He published many monographs, and specifically the Flore laurentienne a work still in use and greatly appreciated today. He also became the founder of the Montreal Botanical Garden. Unfortunately, on July 15, 1944 a car accident brought a premature end to his fruitful life. Despite that, his work and legacy live on and have been enriched throughout the years.
DOCUMENTI 125 V. Cuvilliers, M. Devif, M. Fontaine, Ph. Moulis, F. Ricousse Lettere di Fratel Salomone
La corrispondenza di Fratel Salomone con la sua famiglia è abbondante: più di cento lettere conservate presso la Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Roma e presso gli Archivi Lasalliani a Lyon. In questo corpus inedito sono affrontati il quotidiano della famiglia Le
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Clercq di Boulogne-sur-Mer, ma anche l’educazione dei figli, alcuni avvenimenti politici ed economici, oltre che notizie sul funzionamento dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Proponiamo la pubblicazione di due lettere significative, scritte da Fratel Salomone alla sorella maggiore Maria-Barbara-Francesca-Hermine. The Letters of Brother Solomon
The correspondence of Brother Solomon with his family is abundant. There are more than a hundred letters preserved in the Casa Generalizia of the Brothers of the Christian Schools in Rome and in the Lasallian Archives in Lyons. This unedited corpus includes information about the daily life of the Le Clercq family of Boulogne-sur-Mer, and also about the education of the sons and referencce to political and economic events as well as details about the functioning of the Institute of the Brothers of the Christian Schools. Two important letters are published here, written by Brother Solomon to his older sister Marie-Barbara-Françoise-Hermine.
RECENSIONI 135 JOSEPH RATZINGER (BENEDETTO XVI), L’infanzia di Gesù, Rizzoli, 2012, pp. 174. e 17,00 (Franco Savoldi).
139 E. E. SCHMITT, Oskar e la Dama in rosa, B.U.R., 2010. e 6,90 (Marco Camerini). 139 E. E.SCHMITT, Il bambino di Noè, B. U. R., 2010. e 5,90 (Marco Camerini). SEGNALAZIONI LIBRI PER L’ANNO DELLA FEDE
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 11-17
EDITORIALE
QUALE FUTURO PER L’EDUCAZIONE CRISTIANA? DI
DONATO PETTI
SOMMARIO: 1. L’identità ecclesiale dei laici. - 2. Criteri per la partecipazione dei fedeli laici alla vita della Chiesa. - 3. L’identità ecclesiale dei laici educatori. - 4. La missione condivisa di educatori laici e consacrati nella scuola cattolica. - 5. La sfida della formazione integrale dei laici educatori. - 6. Il futuro delle scuole cattoliche.
I
1. L’identità ecclesiale dei laici
l Concilio Vaticano II, con il suo straordinario patrimonio dottrinale, spirituale e pastorale, ha riservato pagine splendide sulla natura, dignità, spiritualità, missione e responsabilità dei fedeli laici.1 L’insegnamento conciliare, di sorprendente attualità e di portata profetica, è stato ripreso e sviluppato negli anni successivi dal Magistero sia pontificio che episcopale. In particolare, ha trovato eco, applicazione ed approfondimento nella VII Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, celebrata nel 1986 sul tema “Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II”, i cui risultati sono confluiti nell’Esortazione apostolica “Christifideles laici” (1987) di Giovanni Paolo II.2 All’interno della Chiesa, nella quale c’è diversità di ministeri ma unità di missione, il carattere peculiare del laico è configurato dalla sua identità di In particolare: la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (in seguito citata con la sigla L.G.), che sviluppa il suo insegnamento sui laici nel contesto ecclesiologico del Popolo di Dio (n. 31); il Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam Actuositatem (in seguito citato A.A.), che indica, tra l’altro, la partecipazione attiva e responsabile dei laici alla missione salvifica della Chiesa (n.1); il Decreto Ad Gentes (in seguito citato A.G.), che rileva l’insostituibilità dei laici nell’attività missionaria della Chiesa (n. 21); la Costituzione Gaudium et spes (inseguito citatata G.S.), che colloca l’impegno dei laici come momento significativo e decisivo nel rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo. 2 In seguito citata con la sigla C.F.L. 1
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EDITORIALE
Donato Petti
battezzato che partecipa all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, che annuncia il messaggio evangelico e, testimoniandolo con le opere, realizza la sua vocazione specifica.3 Sicché, grazie alla radicale novità cristiana che deriva dal Battesimo, sacramento della fede, tutti i laici credenti sono corresponsabili, insieme con i ministri ordinati e con i religiosi e le religiose, della missione della Chiesa.4 Pertanto, l’essere e l’agire nel mondo dei fedeli laici costituisce una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche e specificamente teologica ed ecclesiale. Dio chiama tutti, uomini e donne, a partecipare all’opera della sua creazione, santificandoli nel matrimonio o nella vita celibe, nella famiglia, nella professione e nelle varie attività sociali. Il «mondo» diventa il luogo dell’impegno dei laici, come rileva l’apostolo Paolo: «Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato».5 Le immagini evangeliche del sale,6 della luce7 e del lievito,8 riguardano indistintamente tutti i discepoli di Gesù.9 2. Criteri per la partecipazione dei fedeli laici alla vita della Chiesa
L’Esortazione apostolica Christifideles laici offre una descrizione positiva della piena appartenenza dei laici alla vita della Chiesa-comunione, scandita da alcune linee direttrici:
a) il primato della vocazione alla santità, intimamente connesso con la missione affidata ai laici nella Chiesa e nel mondo, in quanto tutti i membri della Chiesa ricevono e, quindi, condividono la comune chiamata alla perfezione del proprio stato; b) la responsabilità di “confessare” la fede cattolica, accogliendo e proclamando la verità rivelata su Cristo, sulla Chiesa e sull’uomo; c) la testimonianza di una comunione piena e convinta con il magistero del Papa, centro dell’unità della Chiesa universale, e con quello del Vescovo, fondamento dell’unità della Chiesa particolare;
CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Il laico cattolico testimone della fede nella scuola (in seguito citato L.C.), nn. 6-11; GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Christifideles laici, n. 14. 4 C.F.L., n. 5. 5 1 Cor 7, 24. 6 Mt 5,13; Mc 4,21-23; Lc 8,16-18; 11,33-36; 1P,2,9-12. 7 Mt 5,13-16; Lc 11,35. 8 Mt, 13,33; Mt 16,6. 9 C.F.L., n. 15. 3
Quale futuro per l'educazione cristiana?
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d) la partecipazione alla missione della Chiesa, cioè alla diffusione del Regno di Dio nel mondo, secondo la vocazione propria;10 e) l’impegno nella società civile, a servizio della dignità e dello sviluppo integrale della persona umana, alla luce dei principi della dottrina sociale della Chiesa.
I criteri fondamentali elencati trovano la loro verifica nei frutti concreti che accompagnano la vita e le opere dei laici: il gusto rinnovato per la preghiera, la contemplazione, la vita liturgica e sacramentale, l’animazione per il fiorire delle vocazioni al matrimonio cristiano, al sacerdozio ministeriale, alla vita consacrata, l’impegno per l’evangelizzazione rinnovata nell’ardore, nei metodi e nelle espressioni.11
3. L’identità ecclesiale dei laici educatori
Il servizio ecclesiale alla persona e alla società si esprime e si attua, in modo particolare, attraverso la creazione e la trasmissione della cultura nel mondo della scuola.12 L’educazione, pertanto, costituisce, per i cristiani, un impegno sempre attuale, necessario e insostituibile.13 Il Concilio Vaticano II e il successivo magistero della Chiesa hanno approfondito le caratteristiche del laico educatore,14 che costituiscono, in realtà, la sua “carta d’identità”. Esse lo qualificano come:
a) Apostolo dell’educazione integrale: i documenti ecclesiali evidenziano con chiarezza che il suo servizio educativo, oltre ad essere un autentico apostolato,15 costituisce anche un vero e proprio ministero.16 E quando si dice “educatore”, è chiaro che non si intende parlare dell’insegnante solo come di un professionista che trasmette sistematicamente nella scuola una serie di conoscenze, bensì di un “formatore” di uomini. La comunità scolastica diventa, quindi, il luogo teologico nel quale il docente è chiamato a partecipare alla missione educatrice e santificatrice della Chiesa.17 La trasmissione
Cfr. S. ILARIO DI POITIERS, In Ps. 14: PL 9, 301; EUSEBIO DI CESAREA, In Isaiam 54, 2-3: PG 24, 462-463; S. CIRILLO D’ALESSANDRIA, In Isaiam V, cap. 54, 1-3: PG 70, 1193. 11 C.F.L., n. 30. 12 C.F.L., n. 44. 13 G.E., nn. 5, 8. 14 L.C., n. 24. 15 CONCILIO VATICANO II, Gravissimum Educationis (in seguito G. E.), n. 8. 16 A.A., n. 2. Cfr. CORRAL M., Il ministero educativo nel pensiero di S. Giovanni Battista de La Salle, in “Scuola Cattolica Oggi”, 1(1995), pp. 15 - 27. 17 L.C., n. 24. 10
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EDITORIALE
Donato Petti
della cultura sotto l’aspetto educativo si realizza nella scuola cattolica attraverso una metodologia ispirata all’antropologia cristiana.18 b) Pellegrino della verità: l’educatore orientato cristianamente indirizza la sua professionalità di docente alla trasmissione della Verità. In effetti, per lui una qualsiasi verità sarà sempre una partecipazione dell’unica Verità e la sua vita professionale si trasforma in una adesione peculiare alla missione profetica del Cristo, che egli prolunga con il suo insegnamento.19 L’educatore che possiede la sapienza cristiana trasmette all’alunno il senso di ciò che insegna e lo introduce, al di là delle parole, al cuore della verità totale.20 c) Protagonista e testimone di un’identità vissuta: l’educatore realizza la sua missione educativa superando le difficoltà con realismo aperto alla speranza,21 acquisendo e arricchendo la formazione professionale,22 instaurando un dialogo aperto tra fede, cultura e vita,23 testimoniando con la vita il modello di uomo che presenta,24 vivendo la professione come vocazione e missione.25 4. La missione condivisa di educatori laici e consacrati nella scuola cattolica
Negli ultimi decenni, i laici (uomini e donne) hanno acquisito progressivamente una presenza sempre più rilevante e significativa nella scuola cattolica. Questo processo, d’altro canto, ha coinciso con il fenomeno della crisi delle vocazioni alla vita consacrata e con il progressivo invecchiamento del personale delle Famiglie religiose dedite all’insegnamento e all’educazione. Di fronte alle trasformazioni culturali, scientifiche, tecnologiche, sociali ed economiche in atto nella società, tutto ciò va letto come un “segno dei tempi” per dare risposte alle sfide della nuova evangelizzazione, in un mondo, come il nostro, dove Dio è diventato il “grande assente”.26 A nulla valgono atteggiamenti di rassegnazione, con il rischio di cedere alla tentazione di mitizzare il passato, senza costruire il futuro; urge coraggio e creatività per promuovere progetti innovativi, efficaci, e lungimiranti.
L.C., nn. 15-24. L.C., nn. 15-16. 20 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La scuola cattolica,19 marzo 1977, n. 41 (in seguito, citata S.C.). 21 L.C., nn. 25-26. 22 L.C., n. 27. 23 L.C., nn. 27-29. 24 L.C., nn. 32-33. 25 L.C., n. 37. 26 BENEDETTO XVI, Udienza Generale, 23 gennaio 213. 18 19
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Uno di questi è, appunto, ripensare in particolare ad una rinnovata valorizzazione dei laici come testimoni della fede nella scuola cattolica,27 alla piena integrazione di essi nel tessuto connettivo del progetto educativo cristianamente ispirato. Va da sé che tale esigenza non è una soluzione che scaturisce soltanto dalla costatazione e dalla preoccupazione della diminuzione delle vocazioni alla vita consacrata, ma dal profondo convincimento che l’educazione umana e cristiana costituisce un compito privilegiato per tutti coloro (laici e consacrati) che vogliono impegnare la loro vita all’annuncio evangelico nel mondo giovanile. I laici sono chiamati a divenire sempre più i protagonisti dell’educazione cristiana, soprattutto grazie alla profetica azione di coinvolgimento e di coordinamento che le Famiglie religiose sapranno favorire, proponendo loro la condivisione dei rispettivi carismi educativi. 5. La sfida della formazione integrale dei laici educatori
Per maturare la consapevolezza della propria vocazione e del compimento della propria missione,28 è del tutto indispensabile coinvolgere gli insegnanti laici delle scuole cattoliche, alla stregua dei Religiosi e delle Religiose, in un progetto di organica e graduale formazione integrale.29 Già il Concilio Vaticano II, nella Dichiarazione “Gravissmum Educationis”, recitava espressamente: “Gli insegnanti devono prepararsi scrupolosamente, per essere forniti della scienza sia profana, sia religiosa, attestata dai relativi titoli di studio, e ampiamente esperti nell’arte pedagogica, aggiornata con le scoperte del progresso contemporaneo”.30 Tale formazione comprende: a) la formazione professionale e le competenze psico-pedagogico-didattiche a supporto della qualità culturale dell’insegnamento, della capacità relazionale e della sintesi tra preparazione e motivazioni educative;31 b) la formazione cristiana (biblico-teologico), attestata dai relativi titoli di studio: i laici che operano nella scuola sono abitualmente molto coscienti della necessità di una buona preparazione professionale ma non sempre è viva in essi la stessa sensibilità a considerare il loro compito educativo come mezzo di santificazione personale e di servizio apostolico.
L.C., nn. 1 - 4. A.A., n. 28; C.F.L., n. 57. 29 L.C., n. 60. 30 G.E., n. 8. 31 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Educare insieme nella scuola cattolica. Missione condivida di persone consacrate e fedeli laici, n. 22 (in seguit citata, E.M.C.) 27 28
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EDITORIALE
Donato Petti
Se il fine dell’educazione cristiana è la formazione integrale dell’educando, cioè lo sviluppo di tutte le sue facoltà (fisiche, psichiche e spirituali), appare del tutto evidente che i docenti di tutte le discipline, oltre alla preparazione professionale specifica, siano chiamati a maturare l’assimilazione personale e comunitaria delle verità della fede cristiana (concezione della vita, del mondo, della storia, della cultura) e dei principi della vita spirituale. Infatti, la vocazione educativa del laico cristiano si esplicita nella ricerca della duplice sintesi tra cultura e fede e tra fede e vita; inoltre, si attua attraverso l’integrazione dei diversi contenuti del sapere umano, specificato nelle varie discipline, alla luce del messaggio evangelico.32 In definitiva, l’obiettivo specifico degli insegnanti di ogni disciplina è quello di individuare modalità didattiche e linguaggi appropriati per dire i valori della fede cristiana nel proprio lavoro educativo. Diversamente che senso avrebbe parlare di “educazione cristiana”? c) l’adesione al “carisma educativo specifico” delle Famiglia Religiose: ogni scuola cattolica conserva le proprie caratteristiche se chi vi opera cercherà di acquisire e di identificarsi con i carismi educativi che l’ha ispirata;33 d) la formazione permanente: esigita dallo straordinario progresso scientifico e tecnico e dalla continua ricerca pedagogico-didattica, essa impegna ogni educatore di scuola cattolica circa le attitudini personali, i contenuti delle discipline e le metodologie che utilizza.34
6. Il futuro delle scuole cattoliche
L’ecclesialità delle scuole cattoliche è scritta nel cuore stesso della loro identità di istituzioni scolastiche,35 in quanto “contemporaneamente luoghi di evangelizzazione, di educazione integrale, di inculturazione e di apprendimento di un dialogo vitale tra giovani di religioni e di ambienti sociali differenti”.36 Per questo, dalla sfida della formazione integrale degli educatori laici dipende “l’essere o il non essere” del futuro dell’educazione cristiana.37 E, d’altro canto: se la Chiesa propone la scuola cattolica come mezzo privilegiato per la formazione integrale degli alunni, come è possibile immaginare l’azione educativa di insegnanti che non abbiano, a loro volta, seguito un percorso adeguato di formazione integrale? L.C., nn. 64-66. G.E., n. 8; L.C., n. 66. 34 L.C., nn. 67- 70; E.M.C., nn. 35-37. 35 SACRA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, 1998, n. 11. 36 GIOVANNI PAOLO II, Esort. apostolica Ecclesia in Africa, n. 102. 37 L.C., nn. 61 - 66. 32 33
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Tale formazione avrà una ricaduta e un’incidenza positiva sul progetto educativo della scuola, soltanto e soprattutto se il progetto formativo verrà condiviso da tutti i docenti, perché è impegno di tutti programmare il nuovo corso delle scuole cattoliche. La corale condivisione del progetto educativo cristiano costituisce la caratteristica identitaria della comunità educativa della scuola cattolica. Infine, una provocazione? Dal momento che gli insegnanti e i dirigenti delle scuole cattoliche sono quasi tutti laici che, a parte le debite eccezioni, hanno la stessa formazione dei colleghi delle scuole statali, perché una famiglia, oltre alle tasse per sostenere la scuola statale, dovrebbe pagare una retta scolastica per la frequenza del proprio figlio presso una scuola cattolica se non riceve niente di più (o quasi) e nulla di diverso (o quasi) rispetto a ciò che offrono le scuole statali? La risposta è incontrovertibile: è urgente assicurare alla comunità educativa un corpo docente non solo fornito di idonei titoli di studio ma anche di un’organica e certificata formazione sul piano dottrinale, professionale e del carisma specifico. Ripartiamo con coraggio ed entusiasmo dalla formazione integrale dei docenti laici (e religiosi), se vogliamo arginare la preoccupante eutanasia delle scuole cattoliche e organizzare la speranza nel futuro dell’educazione cristiana, sui fondamenti della “missione educativa condivisa”, nella diversità e complementarietà delle vocazioni e dei carismi, in attuazione dell’ecclesiologia di comunione.
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 19-32
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LA TESTIMONIANZA DEI PADRI DELLA CHIESA E LA TRASMISSIONE DELLA FEDE NEL MONDO D’OGGI Da Ireneo di Lione a Paolino di Nola X ENRICO DAL COVOLO Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense
SOMMARIO: 1. Ireneo di Lione: quale fede trasmettere? Quali sono i contenuti oggettivi della fede? - 2. Ambrogio e Agostino: come testimoniare la scelta di fede? Quali sono le caratteristiche soggettive di chi trasmette la fede? - 3. La fede testimoniale di san Paolino di Nola.
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rima di entrare nel tema specifico, conviene affrontare una questione di fondo, provocatoria nell’apparenza, in realtà assai feconda: la fede – ci chiediamo – può essere «trasmessa»? In effetti, la XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (Roma, 7-28 ottobre 2012), ha trattato proprio questo tema: La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana; e il terzo capitolo del relativo Instrumentum Laboris è dedicato appunto alla trasmissione della fede. Tuttavia, se la fede, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), è un atto personale («è la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio, che si rivela», n. 166), questa decisione non può essere «trasmessa». La fede di Abramo – tanto per fare un esempio illustre – è il suo personale atto di obbedienza alla Parola di Dio, e questo atto è solo suo. Può essere indicato come esempio, ma per essere trasmesso deve essere ripetuto da altri, che facciano propria la medesima obbedienza a Dio. Ma, come sappiamo bene, non c’è solo questo aspetto soggettivo e personale della fede: c’è anche un aspetto oggettivo, fatto di contenuti (enunciati, riti, comportamenti), che sono oggetto, appunto, di insegnamento, e che quindi possono essere trasmessi. Alludo qui alla ben nota distinzione, di matrice agostiniana (cfr. De Trinitate 13,2,5), tra fides quae creditur (“la fede che è creduta”, cioè l’aspetto oggettivo) e fides qua creditur (“la fede con la quale si crede”, cioè l’aspetto soggettivo dell’atto di fede). Tutto questo ci permette “di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla, e di viverne sempre più intensamente” (CCC, n. 170).
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In questo senso, già nella Lettera di Giuda troviamo l’esortazione «a combattere per la fede, che fu trasmessa ai santi», cioè a tutti i credenti, «una volta per sempre».1 È importante tenere presenti questi due aspetti dell’esperienza di fede. Essi articolano, in qualche modo, le nostre riflessioni. Le distribuiamo in tre parti. La prima parte sarà guidata da Ireneo (+ 202). Nato in Asia Minore, discepolo del vescovo Policarpo di Smirne, egli rappresenta in qualche modo i Padri della Chiesa d’Oriente; la seconda e la terza parte, invece, saranno dominate da altre tre figure di vescovi: Ambrogio (+ 397), Agostino (+ 430) e Paolino di Nola (+ 431), alfieri della tradizione occidentale. Più in particolare, nella prima parte, attenta soprattutto agli aspetti dottrinali, vedremo con quali criteri Ireneo ha creato il più antico «catechismo della dottrina cristiana». Qui parleremo soprattutto della trasmissione della fede in senso oggettivo, cioè dei contenuti in cui crediamo (ecco la fides quae creditur). Nella seconda parte, invece, parlando di Ambrogio e di Agostino, vedremo in che modo i nostri Padri testimoniavano la fede come scelta personale di vita: perché, se è vero che l’atto di fede personale non può essere «trasmesso», esso può e deve essere efficacemente «testimoniato» (ed ecco, invece, la fides qua creditur). Nella terza parte, infine, proseguiremo il discorso sulla fede testimoniale parlando di san Paolino di Nola. A mano a mano che procederemo nelle nostre riflessioni, ci accorgeremo che, in realtà, trasmettere la fede e testimoniare la fede sono distinzioni che valgono fino a un certo punto nella mentalità e nella prassi pastorale dei nostri Padri. Piuttosto, essi rimangono sempre consapevoli che l’integrità della dottrina e la testimonianza della vita devono procedere di pari passo, e sono entrambe indispensabili nella trasmissione e nel cammino della fede.
1. Ireneo di Lione: quale fede trasmettere? Quali sono i contenuti oggettivi della fede?
Ireneo non è un cattedratico, ma un uomo di fede e un pastore. Del buon pastore ha il senso della misura, la ricchezza della dottrina, l’ardore missio-
1 Vedi su tutto questo E. CATTANEO, Trasmettere la fede. Tradizione, Scrittura e Magistero nella Chiesa. Percorso di teologia fondamentale, Cinisello Balsamo 1999, p. 21. Per un ampio sfondo storico-teologico cfr. per esempio E. DAL COVOLO (cur.), Storia della teologia, 1. Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, Bologna-Roma 1995.
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nario.2 Come scrittore, il suo scopo è duplice: quello di difendere la vera dottrina dagli assalti degli eretici (gli gnostici, in particolare), e quello di esporre con chiarezza le verità della fede. A questi fini corrispondono esattamente le due opere che di lui ci rimangono: lo Smascheramento e confutazione della falsa gnosi (ovvero Contro le eresie, come citeremo noi; l’originale greco è andato perduto, ma ne possediamo una traduzione latina, verosimilmente assai letterale), e l’Esposizione della predicazione apostolica (il più antico «catechismo della dottrina cristiana»; neppure di quest’opera possediamo l’originale, ma all’inizio del secolo scorso ne è stata scoperta una traduzione armena). In definitiva, Ireneo è il campione della lotta contro lo gnosticismo. Ma la sua opera va ben oltre la semplice confutazione dell’eresia. Si potrebbe dire – con un po’ di enfasi – che Ireneo è il primo «teologo sistematico» della Chiesa. Tra i punti più importanti della sua dottrina c’è proprio la questione della regola della fede e della sua trasmissione. La cura di conservare e spiegare rettamente la regola della fede – espressa nel Credo degli apostoli, e da loro trasmessa ai vescovi (il Credo dell’apostolo Giovanni è lo stesso del suo discepolo Policarpo, vescovo di Smirne, ed è il Credo di Ireneo, vescovo di Lione, discepolo di Policarpo) – spetta solo alla Chiesa, che proprio per questo ha ricevuto lo Spirito Santo. Perciò il vero insegnamento è quello impartito dai vescovi, che possono provare di averlo ricevuto per mezzo di una tradizione ininterrotta dagli apostoli, in quanto Cristo lo ha affidato a loro. Occorre considerare in modo speciale l’insegnamento della Chiesa di Roma, massima e antichissima, che ha «maggiore apostolicità», perché trae origine dalle colonne del collegio apostolico, Pietro e Paolo: con lei devono accordarsi tutte le Chiese. Proprio con questi argomenti Ireneo confuta dalle fondamenta le pretese degli eretici: anzitutto essi non posseggono la verità, perché non sono di origine apostolica; in secondo luogo la verità, e quindi la salvezza, non sono
Per un’introduzione generale a Ireneo cfr. per esempio G. BOSIO - E. DAL COVOLO - M. MARITANO, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli II e III, Torino 1998 (bibliografia, pp. 4041, a cui aggiungo almeno: J. FANTINO, La Théologie d’Irénée. Lecture des Écritures en réponse à l’exégèse gnostique. Une approche trinitaire, Paris 1994 [altra bibliografia, pp. 417-431]; A. ORBE, Estudios sobre la teología cristiana primitiva, Madrid-Roma 1994; R. POLANCO FERNANDOIS, El concepto de profecía en la teología de san Ireneo, Madrid 1999 [bibliografia pressoché esaustiva, pp. 395-410]; B. SESBOUÉ, «Tout récapituler dans le Christ». Christologie et soteriologie d’Irénée de Lyon, Paris 2000; D. SCORDAMAGLIA, Il Padre nella teologia di sant’Ireneo, Roma 2004). Molto utile per noi è anche la catechesi su Ireneo di BENEDETTO XVI, I Padri della Chiesa. Da Clemente Romano a sant’Agostino, Cittrà del Vaticano 2008, pp. 25-31. 2
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privilegio o monopolio di pochi, ma tutti le possono raggiungere attraverso la predicazione dei successori degli apostoli e soprattutto del vescovo di Roma.3 In particolare – sempre polemizzando con il carattere segreto ed elitario della tradizione gnostica, e notandone l’esito multiplo e contraddittorio –, Ireneo si preoccupa di illustrare il genuino concetto di tradizione apostolica, che possiamo riassumere in tre punti: a) la tradizione apostolica è pubblica, non privata né segreta. Per Ireneo non c’è alcun dubbio che la fede insegnata dalla Chiesa è quella ricevuta dagli apostoli e da Gesù. Non c’è altro insegnamento che questo. Pertanto chi vuole conoscere la vera dottrina basta che conosca «la tradizione che viene dagli apostoli e la fede annunciata agli uomini», tradizione e fede che «sono giunte fino a noi per successione di vescovi» (Contro le eresie 3,3,3-4). Al punto che, «anche se gli apostoli non ci avessero lasciato le Scritture, si dovrebbe seguire l’ordine della tradizione, che hanno trasmesso coloro a cui [gli apostoli stessi] affidavano le Chiese» (3,4,1). Di qui l’importanza della «successione apostolica» rappresentata dai vescovi, i quali godono del «carisma certo della verità» (4,26,2). Secondo Ireneo, parte integrante di questo carisma episcopale non è soltanto la purezza della dottrina, ma anche una vita esemplare e irreprensibile (qui ritorna la questione dei rapporti inseparabili fra trasmettere la fede e testimoniare la fede); b) la tradizione apostolica è unica. Mentre infatti lo gnosticismo si suddivide in molteplici sètte, la tradizione ecclesiale è unica, grazie al suo contenuto, che Ireneo – come già abbiamo accennato – chiama regula fidei o veritatis: un contenuto sempre identico, nonostante la diversità delle lingue e delle culture. Così si esprime al riguardo il vescovo di Lione: «Ricevuto questo messaggio e questa fede, la Chiesa, benché disseminata in tutto il mondo, lo custodisce con cura, come se abitasse una casa sola; allo stesso modo crede in queste verità, come se avesse una sola anima e un solo cuore; in pieno accordo con queste verità proclama, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca. Le lingue del mondo sono diverse, ma la potenza della tradizione è unica e la stessa. Né le Chiese fondate nelle Germanie hanno ricevuto o trasmettono una fede diversa, né quelle fondate nelle Spagne o tra i Celti o nelle regioni orientali o in Egitto o in Libia o nel centro del mondo» (1,10,2).
Cfr. IRENEO, Contro le eresie 3,3,1-4. Una buona traduzione di questo passo è riportata da E. CATTANEO, Trasmettere la fede..., pp. 97-98. 3
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In questo modo Ireneo, guardando alla diffusione della Chiesa nell’ecumene, estende lo sguardo da Roma, «centro del mondo», verso i quattro punti cardinali, descrivendo un’Europa «allargata», ormai invasa dal Vangelo e dalla sua potenza unificatrice. Diciamo tra parentesi che – grazie a questo atteggiamento, con cui la Chiesa dei Padri «in pieno accordo proclama, insegna e trasmette le verità ricevute, come se avesse una sola bocca» – l’insegnamento dei Padri diventa un fondamento ineludibile per l’identità culturale dell’Europa, oggi rinnegata di fatto da molte riletture cosiddette storiche;4 c) la tradizione apostolica è pneumatica. Non si tratta di una trasmissione affidata all’abilità degli uomini, più o meno dotti, ma allo Spirito di Dio, che fa della tradizione una realtà divina. È questa la «vita» della Chiesa, ciò che rende la Chiesa sempre fresca e giovane, cioè feconda con i suoi molteplici carismi. Chiesa e Spirito, per Ireneo, sono inseparabili: «Questa (fede)», leggiamo ancora nel suo terzo libro Contro le eresie, «l’abbiamo ricevuta dalla Chiesa e la custodiamo: essa, per opera dello Spirito di Dio, come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene. Alla Chiesa infatti è stato affidato il dono di Dio (...), affinché tutte le sue membra, partecipandone, siano vivificate (...). Infatti nella Chiesa, dice (Paolo), Dio ha posto apostoli, profeti e maestri e tutta la rimanente operazione dello Spirito. Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa, ma si privano della vita a causa delle loro false dottrine e azioni perverse. Perché dove è la Chiesa, lì è anche lo Spirito di Dio; e dove è lo Spirito di Dio, lì è la Chiesa e ogni grazia» (3,24,1). Come si vede dalle citazioni riportate (e molte altre se ne potrebbero aggiungere, anche in riferimento all’Esposizione della predicazione apostolica), Ireneo non si limita a definire il concetto di trasmissione della fede, ma lo illustra in modo vitale. La fede va trasmessa quale deve realmente essere: cioè pubblica, unica, pneumatica. A partire da ciascuna di queste caratteristiche si può avviare un fecondo discernimento per una corretta trasmissione della fede, nell’oggi della Chiesa.
2. Ambrogio e Agostino: come testimoniare la scelta di fede? Quali sono le caratteristiche soggettive di chi trasmette la fede?
Parliamo anzitutto dell’incontro tra i due, Ambrogio e Agostino, e da questo incontro ricaveremo alcuni tratti significativi circa la «testimonianza della fede» secondo i nostri Padri. Cfr. C.M. MARTINI, I Padri della Chiesa e la cultura dell’Europa unita, in E. DAL COVOLO et alii, Per una cultura dell’Europa unita: lo studio dei Padri della Chiesa oggi, Torino 1992, pp. 53-62.
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Dobbiamo ricomporre, con un po’ di pazienza, le circostanze di questo celebre incontro, certamente uno dei fatti più notevoli della storia della Chiesa.5 Tormentato da un’inquieta ricerca della verità, deluso dalle dottrine manichee, frustrato nell’insegnamento dall’indisciplina degli allievi, Agostino nel 383 lascia Cartagine e si reca a Roma. Ha ventinove anni, e si potrebbe dire che ha ormai raggiunto una piena maturità di vita. In realtà, nel suo intimo egli è più perplesso e angosciato che mai: nulla sembra offrirgli salde garanzie per il conseguimento di quella verità, a cui aspira con tutte le forze, come il senso ultimo della sua esistenza. Per di più, nell’insegnamento incontra diverse difficoltà, perché – come egli stesso confessa – «a Cartagine la libertà è del tutto sfrenata, e gli studenti come delle furie turbano la disciplina» (Confessioni 5,8). Così la partenza di Agostino da Cartagine in quella notte del 383 sa molto di una fuga. Monica si rende conto della fase critica che sta attraversando suo figlio, e non vorrebbe assolutamente lasciarlo partire in quello stato. Agostino deve ricorrere a uno stratagemma. Mia madre – racconta egli stesso – «pianse dirottamente, seguendomi fino al mare. Allora io l’ingannai, fingendo di voler stare lì, per non lasciare solo un amico ad aspettare che si alzasse il vento per levare l’ancora. Riuscii a convincerla che, se non voleva tornare indietro senza di me, si ritirasse almeno a passare la notte in una chiesetta, vicino al luogo dov’era la nave; e in quella notte io partii di nascosto, ed ella rimase a piangere e a pregare» (ibidem). In verità né Monica né Agostino se ne rendono conto, ma la fuga da Cartagine costituisce l’inizio di quell’episodio assolutamente centrale della vita di Agostino, che è l’incontro con Ambrogio, culminato – quattro anni dopo, durante la veglia pasquale del 387 – nella conversione e nel battesimo. Ma in un primo momento la destinazione di Agostino, esule da Cartagine, fu Roma. Se non che l’impatto con l’ambiente romano fu un’altra terribile delusione. Agostino si era illuso che gli studenti romani fossero più disciplinati di quelli africani: e invece si accorge che a Roma gli allievi sono solo più imbroglioni, e che non pagano neppure i loro insegnanti. Agostino sta giusto facendo questa triste esperienza, quando al prefetto di Roma, Simmaco, giunge una richiesta dalla corte imperiale (che in quel
Cfr. A. PINCHERLE, Ambrogio ed Agostino, «Augustinianum» 14 (1974), pp. 385-407; G. BIFFI, Conversione di Agostino e vita di una Chiesa, in A. CAPRIOLI - L. VACCARO (curr.), Agostino e la conversione cristiana, Palermo 1987, pp. 23-34; E. DAL COVOLO, Il pastore, ministro della Parola e della carità. L’esempio del vescovo Ambrogio, in M. CARDINALI (cur.), Pastori dinanzi all’emergenza educativa. Per la formazione dei formatori, Città del Vaticano 2011, pp. 33-58. 5
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momento aveva la sua sede a Milano): si è resa vacante la cattedra di eloquenza allo Studio Pubblico, e si vuole coprirla con un retore di sicuro prestigio. Il titolare della cattedra di eloquenza a Milano, infatti, è in qualche modo l’oratore ufficiale della corte imperiale. Simmaco pensa subito ad Agostino, e questi accetta. Portato dal cursus publicus (una sorta di vettura ufficiale, di rappresentanza), Agostino giunge a Milano. Siamo ormai nell’autunno del 384. Subito il giovane cattedratico dello Studio Pubblico inizia – come di consuetudine – la sua visita di cortesia alle varie autorità cittadine, e così incontra pure il vescovo Ambrogio. La nostra fonte è ancora il libro quinto delle Confessioni. Qui Agostino narra che Ambrogio lo accolse satis episcopaliter. È un avverbio un po’ misterioso: che cosa intendeva dire Agostino? Probabilmente, che Ambrogio lo accolse con la dignità propria di un vescovo, con paternità, ma insieme con qualche distacco. È certo che Agostino rimase affascinato da Ambrogio; ma è altrettanto certo che un incontro a tu per tu su ciò che ad Agostino maggiormente interessava, e cioè sui problemi fondamentali della fede, veniva di giorno in giorno differito, tanto che qualcuno ha potuto affermare che Ambrogio era molto freddo nei confronti di Agostino, e che poco o nulla egli ebbe a che fare con la sua conversione. Eppure Ambrogio e Agostino s’incontrarono più volte. Però Ambrogio teneva il discorso sulle generali, facendo per esempio ad Agostino gli elogi di Monica, e congratulandosi con lui per avere una simile madre. Quando poi Agostino si recava appositamente da Ambrogio, lo trovava regolarmente impegnato con caterve di persone, piene di problemi per le cui necessità egli si prodigava; oppure, quando non era con loro (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il necessario, o alimentava lo spirito con letture. E qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi. Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva: che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità assolutamente singolare di conoscenza e di comprensione delle Scritture. Agostino siede spesso in disparte, con discrezione, ad osservare Ambrogio; poi, non osando disturbarlo, se ne va in silenzio. «Così», conclude Agostino, «non mi era mai possibile interpellare, su ciò che mi interessava, l’animo di quel santo profeta, se non per questioni trattabili rapidamente. Invece quei miei travagli interiori lo avrebbero voluto disponibi-
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le a lungo per potersi riversare su di lui; ma questo non succedeva mai» (ibidem 6,3). Sono parole molto gravi: tanto che ci verrebbe da dubitare della stessa sollecitudine pastorale di Ambrogio e della sua reale attenzione alle persone. Personalmente, invece, sono convinto che quella di Ambrogio nei confronti di Agostino fosse un’autentica strategia, e che essa rappresenti efficacemente la figura di Ambrogio nel suo modo di trasmettere e di testimoniare la fede. Ambrogio è informato della situazione spirituale di Agostino, oltre al resto perché gode delle confidenze e della piena fiducia di Monica. Con questo precedente, è credibile che Ambrogio non s’accorgesse di Agostino, quando questi entrava da lui, e pieno di soggezione si sedeva in disparte, mentre egli leggeva? No, non è credibile. Ma il vescovo non riteneva opportuno impegnarsi in un contraddittorio dialettico con Agostino, dal quale lui, Ambrogio, avrebbe potuto anche uscire perdente... Così Ambrogio sospende le parole, lascia parlare i fatti, e con la sua prassi afferma che la trasmissione della fede non si realizza attraverso le parole soltanto, ma deve passare soprattutto attraverso la testimonianza della vita. Quali sono questi fatti? Anzitutto, la testimonianza della vita di Ambrogio, intessuta di preghiera e di servizio nei confronti dei poveri. E Agostino rimane salutarmente impressionato dal fatto che Ambrogio si dimostra uomo di Dio e uomo totalmente donato al servizio dei fratelli, soprattutto dei più poveri. La preghiera e la carità, testimoniate da questo formidabile pastore, subentrano alle parole e ai ragionamenti umani. L’altro fatto che parla ad Agostino è la testimonianza della Chiesa milanese. Una Chiesa forte nella fede, radunata come un corpo solo nelle sante assemblee, di cui Ambrogio è l’animatore e il maestro (grazie anche ai celebri Inni da lui composti e musicati); una Chiesa capace di resistere alle pretese dell’imperatore Valentiniano e di sua madre Giustina, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di una chiesa per le cerimonie degli ariani. Nella chiesa che doveva essere requisita, racconta Agostino, «il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio vescovo. Anche noi», e questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, «pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo» (ibidem 9,7). Agostino insomma, pur non riuscendo ad affrontare in un dialogo a quattr’occhi il vescovo Ambrogio, resta positivamente contagiato dalla sua vita, dal suo spirito di preghiera, dalla sua carità verso il prossimo, e dal fatto che Ambrogio si manifesta uomo di Chiesa: lo vede impegnato nell’ani-
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mazione delle liturgie, ne coglie il progetto coraggioso di edificare una Chiesa unita e matura. In questo modo Agostino diviene la buona terra per il seme della fede. L’attualizzazione di questa storia non è difficile. Propongo solo qualche spunto di riflessione. Molte volte si incontrano pastori o catechisti scoraggiati, che constatano con amarezza la scarsa incisività del loro messaggio: in effetti, più che a conversioni come quella di Agostino, oggi assistiamo a un allarmante cedimento in ciò che riguarda l’impegno per i valori. Ma vorrei chiedere al pastore o al catechista scoraggiato: * Tu preghi? coloro che educhi alla fede ti vedono pregare? colgono il fatto che sei uomo di Dio, uomo della Parola? in altri termini, come è la dimensione contemplativa della tua vita? * Tu pratichi la carità? sai accogliere il «povero», il più bisognoso, il meno simpatico, quella persona che tutti mettono da parte perché dà fastidio? sai farti prossimo? sai stare insieme, dando la tua vita (non soltanto alcune parole) ai destinatari del Vangelo? solidarizzi con loro, anche quando ti sembra di perdere tempo? * Tu ami la Chiesa? servi la Chiesa, o ti servi della Chiesa? ti impegni a contribuire con ogni forza alla sua edificazione, sia nella liturgia sia nella pratica della vita quotidiana? sai vedere – anche nelle vicende di oggi, della Chiesa pellegrinante nel mondo – la “foresta di santità che cresce”, ben oltre l’“albero che cade”? E’ vero: anche all’interno della Chiesa ci sono molti scandali, tante “sporcizie”, che sono la dolorosa conseguenza del peccato dell’origine. Ma sai cogliere “il grande fiume” della santità e della grazia di Dio, per il quale la Chiesa stessa è santa? Oppure ti accodi troppo facilmente alle critiche ipocrite e senza amore di tanti rotocalchi e media? La figura del pastore, quale emerge dalla storia che abbiamo rievocato, è una figura compatta e forte nella testimonianza: una persona in cui le parole sono intercambiabili con i fatti. Viene alla mente la testimonianza di Gandhi. Sir Stanley Jones gli si accostò, chiedendogli di rilasciare un messaggio per il mondo. Il Mahatma lo guardò, e gli rispose turbato: «Io non ho una parola da dire; la mia vita è il mio messaggio...». Ebbene, per noi le cose vanno ben diversamente. Noi l’abbiamo la Parola: noi abbiamo il lieto messaggio di Cristo, noi abbiamo il Credo degli apostoli e della Chiesa, noi abbiamo la fede da trasmettere. Ma questo Vangelo – stando all’insegnamento dei nostri Padri – non può passare senza la testimonianza della vita... Così nella trasmissione della fede non si potrà mai prescindere dai due elementi fondamentali che entrano in gioco: il contenuto oggettivo e la testimo-
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nianza personale (quale fede trasmettere, e come trasmetterla), che devono raccordarsi tra loro in una sintesi vitale.
3. La fede testimoniale di san Paolino di Nola
Se per fede testimoniale si intende la testimonianza della propria vita trasformata dalla fede, la vita intera e le molteplici attività di san Paolino rivestono un grande significato, precisamente in questa direzione. I tratti storico-biografici e spirituali sono ben noti: la sua formazione letteraria alla scuola di Ausonio, la brillante carriera politica come senatore e governatore della Campania, la radicalità della conversione, la scelta di povertà e l’amore per i poveri, la vita ascetica e la dedizione al ministero pastorale – prima da presbitero, e poi da vescovo –, lo stile di comunione ricco di umanità e di amicizia. Il suo modo di trasmettere e di testimoniare la fede si impernia sui registri del vissuto, che caratterizzano il modello teologico sapienziale, proprio di tutta la tradizione patristica.
Quali sono questi registri? Proviamo ad elencarne alcuni: * l’ascesi centrata sulla lectio divina; * la vita comunitaria nutrita di liturgia e salmodia; * il ministero pastorale; * il dialogo con grandi intelligenze teologiche (Ambrogio, Girolamo, Agostino, Niceta, Rufino), documentato dal ricco Epistolario, che diviene testimonianza ricca di questo scambio, incentrato sulla comune lettura spirituale delle Scritture; * il clima dell’amicizia spirituale (Paolino è il santo dell’amicizia cristiana!), che gli consente di avvalersi dell’esperienza di anime ugualmente assetate di vita interiore e come lui interessate a nutrirla con la Parola di Dio; * un notevole impegno catechetico, svolto attraverso molteplici forme comunicative che non si limitano a quelle verbali, ma si incarnano in un vasto progetto architettonico e pittorico, ancora visibile nei resti del complesso paleocristiano di Cimitile; * una spiccata sensibilità estetica, coltivata attraverso l’arte e la poesia applicate alla celebrazione e alla comunicazione dei misteri della fede. Quella di Paolino è teologia vissuta: la fede è al centro delle sue radicali scelte di vita: la sua stessa arte è interamente dedicata alla fede; la sua poesia è tutta incentrata su Cristo, al pari delle Epistole, così ricche di tematiche riguardanti l’ideale ascetico-cristiano. Per Paolino e per la sua testimonianza di fede è decisivo il battesimo, che è porta di ingresso nella Chiesa, ma altrettanto importante è il cammino costante di conversione e di sequela Christi.
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Su questo cammino di fede – certo impegnativo e faticoso, ma in qualche modo obbligato per coloro che intendono essere coerenti, e seguire fino in fondo le esigenze del Vangelo – Paolino riflette continuamente, durante il suo incontro quotidiano con Cristo nel sacramento dell’altare e nella meditazione della Sacra Scrittura, nonché nella comunità ecclesiale, in un fecondo e ininterrotto colloquio epistolare con i suoi interlocutori. Paolino sa bene che l’impegno di convertirsi diventa davvero laborioso per l’uomo che intende vivere coerentemente la sua scelta di fede: si tratta di imprimere una svolta definitiva alla propria vita, di rivoluzionare e sovvertire la propria esistenza. Più che di una semplice conversio, per l’autentico asceta sembrerebbe più opportuno parlare di una subversio, di un capovolgimento di valori totale e quasi violento. Di fatto, contemptus mundi e comitatus Christi costituiscono per Paolino il binomio indissolubile del discepolato cristiano. Egli si impegna a esaminare attentamente il proprio cuore e a rinnovare ab intus la propria esistenza, alla luce della nuova visione cristiana del mondo e dell’uomo (Epistola 24,9).6 Anzitutto Paolino si rende conto che, per adempiere al nuovo impegno di vita, e in modo particolare per esprimerne e comunicarne i risvolti e le conseguenze logiche e pratiche sia nell’ambito personale sia in quello ecclesiale, la cultura di prima non è adeguata allo scopo: non può fare ricorso al suo ricco bagaglio di cultura classica e mitologica, che va quindi programmaticamente rifiutata in toto. Paolino sa di aver bisogno di una nuova e solida formazione culturale, nonché di nuove strutture discorsive, che non potranno essergli garantite se non da uno studio assiduo, oltre che da una assimilazione piena e integrale della Sacra Scrittura. Sarà proprio la Bibbia il nuovo testo che diventerà il suo nutrimento spirituale quotidiano. E lo studio insonne della Scrittura letta, meditata, ruminata comporterà e formerà nella memoria un nuovo universo di immagini: queste costituiranno il suo nuovo “archivio” di strutture discorsive, che andranno a sostituirsi e a fondersi con sottostrutture di origini classiche, che erano a lui così familiari prima della conversione.7 Così Paolino rifiuta la letteratura classica e il mondo della mitologia intrisi di perniciosa dulcedo e, pur continuando lungo tutta la vita il proprio impegno intellettuale, dichiara ad Ausonio, suo maestro di un tempo, la piena dedizione e il costante sforzo di approfondimento nella conoscenza di Cristo.
6 L. LONGOBARDO - D. SORRENTINO, La teologia sapienziale dei Padri e Paolino di Nola, in IIDEM (curr.), Mia sola arte è la fede. Paolino di Nola teologo sapienziale, Napoli 2000, pp. 7-28. 7 G. SANTANIELLO, Il Dialogo teologico nell’Epistolario, ibidem, pp. 97-150.
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Ma la fede testimoniale di Paolino, al di là del rinnovamento intellettuale, coinvolge tutte le dimensioni della sua persona, in uno sforzo costante e in una continua lotta tra legge del peccato e forza della grazia. Nella già citata Epistola 24 a Severo – che lo aveva elogiato, ritenendo Paolino perfetto, perché si era spogliato di tutti i beni, mentre lui, Severo, aveva conservato un piccolo podere – Paolino si schermisce dalle lodi dell’amico, e afferma che la vera perfezione per colui che abbraccia l’ideale ascetico è la sequela Christi: «Cristo, dunque, che ha sofferto per noi e per noi si è fatto obbediente fino alla morte di croce, ci ha proposto la via della vita e la perfezione della virtù, non nella semplice vendita delle nostre proprietà e nella distribuzione ai poveri del denaro da essa ricavato, ma nella sequela di Lui. E poiché aveva detto: Quando sarò innalzato, attirerò a me tutte le cose (Giovanni 12,32), perciò dice: Vieni e seguimi (Matteo 19,21). Beato colui che lo segue così da vicino, da poter dire: A te si stringe l’anima mia (Salmo 62,9)… Perciò tutto il nostro sforzo e la nostra opera completa consistono nell’esaminare e nello spogliare il nostro cuore, le cui tenebre, o i reconditi nascondigli del nemico, non possiamo vederli se non con un animo che si è liberato dalle preoccupazioni dei beni esteriori ed è tutto rivolto alla cura interiore di se stesso; non invano, infatti, la Scrittura dice: Con ogni cura vigila sul tuo cuore (Proverbi 4,23). Io credo che tu abbia già sperimentato quanto sia per noi faticosa ed incessante, anzi quotidiana, la lotta con questo nemico, e quante insidie si trovino in essa; quale sia in questo combattimento la forza dei vizi e quanta la debolezza delle virtù, quanto sia facile la ricaduta nel male e quanto pigro invece lo slancio verso Dio!».8 Questa testimonianza di fede Paolino la comunica a un ampio strato sociale:9 * a corrispondenti intellettuali non cristiani, ai quali trasmette la considerazione che la fede è una realtà che non chiude, ma piuttosto domanda la continua interrogazione della verità (Epistola 16,11); * a amici che, come Apro e Amanda, insieme con i loro figli si sforzano di progredire nel cammino della fede (Epistola 44); * a protagonisti che sono veri e propri missionari e testimoni della fede, come Vittricio di Rouen, grazie al quale rifulge la luce di Cristo tra popolazioni lontane. Grazie alla sua opera, la fede, che tra quelle popolazioni prima era arrivata con debole soffio, ora è una luce che brilla più intensamente, si
8 PAOLINO DI NOLA, Le Lettere. Testo latino con introduzione, traduzione italiana, note e indici a cura di G. Santaniello, 1 (1-23) - 2 (24-51), Napoli-Roma 1992 (qui 1, pp.198 ss.). 9 C. SARNATARO, La comunicazione della fede in Paolino di Nola, in Mia sola arte…, pp. 299-346.
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è infiammata più ardentemente e si è fatta più vicina: attraverso l’opera del vescovo missionario, Cristo vuole far risuonare la sua parola per tutta la terra dell’Occidente (Epistola 18). A me pare che, parlando di Vittricio – e così concludo la terza parte delle nostre riflessioni –, Paolino, certo senza volerlo, delinea il ritratto più efficace delle proprie aspirazioni pastorali, e in definitiva di se stesso. Grazie all’opera di Vittricio, testimone, maestro e annunciatore della fede, amato dai santi del cielo – leggiamo nella medesima Epistola 18 – la città di Rouen è diventata immagine perfetta di Gerusalemme, arricchita dalla comunione con gli apostoli, dalla lode continua del Signore cantata nelle chiese affollate e nei monasteri solitari, dalla verginità consacrata, dal servizio delle vedove caste, dalle opere di carità e di accoglienza, dalla santità coniugale. Vittricio incarna e attualizza l’essenza vera della comunicazione della fede, che non è mera trasmissione di conoscenze, non è pura esercitazione spirituale, ma è essenzialmente partecipazione alla funzione materna della Chiesa, è contribuire a generare cristiani. Vittricio è beatorum parens. E soprattutto Vittricio incarna in se stesso ciò che si esige nell’annunciatore della fede: la coerenza tra ciò che si insegna e la testimonianza della propria vita. Così Vittricio è un modello per tutti. Una condizione di esemplarità che impedisce da parte dei discepoli ogni sorta di alibi, e al tempo stesso afferma un principio ermeneutico della comunicazione: l’interscambio continuo tra annuncio e vita vissuta. In definitiva, l’insegnamento è parte della vita di chi annuncia, e la vita di chi annuncia è parte della dottrina che egli propaga (ut et doctrina tibi vitae tuae sit, et vita doctrinae). «A seconda della varia espressione del fedele», scriveva Agostino nel suo celebre Catechismo ai semplici, «il mio discorso prende avvio, procede e termina» (15,23). E noi terminiamo qui le nostre riflessioni. Ma il messaggio dei Padri, che ci hanno preceduto, continua a interpellare ciascuno di noi, e invita a ridisegnare non certo la regula fidei, bensì la figura e il metodo di chi intende trasmettere la fede nell’oggi della Chiesa.
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 33-42
LA FEDE: IN VARIO INCONTRO CON I PADRI DELLA CHIESA DI FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino)
SOMMARIO: 1. Inquadramento. - 2. Oscurità e discrezionalità. - 3. Fede e comprensione. - 4. Fede e ragione. - 5. Fede e speranza. - 6. Fede e Incarnazione. - 7. Fede e salvezza. - 8. Fede e costumi. - 9. Pregio della fede. - Pratica della fede.
I
1. Inquadramento
n indipendenza glottologica ed in concordanza semantica, con ‘fede’ tanto l’etimologia greca che quella latina suggeriscono l’idea di un abbandono fiducioso, di un punto d’appoggio che garantisca sicurezza e tranquillità alla mente. È però una sicurezza d’arrivo più che di partenza. L’etimologia non precisa il grado di affidabilità di questo sostegno, lo presuppone, lo fa intendere come sufficiente nell’ambito dei rapporti sociali. La vita corrente è, infatti, largamente basata sull’assenso alle testimonianze altrui, dai libri che leggiamo alla richiesta di informazioni spicciole occasionali che chiediamo e riceviamo. Fede è quindi adesione ad una dichiarazione altrui, ed obiettivamente vale quanto è credibile colui che la porge. In area teologica la garanzia è quindi assoluta, trattandosi della parola di Dio; problematiche restano però la via della trasmissione e la capacità della recezione. L’intelligenza accoglie ma non vede; riceve ma non può concretamente riscontrare. Di fronte alla proposta le resta sempre la discrezionalità dell’assenso o del rifiuto. Il senso critico la può, teoricamente, garantire sulla base dei razionali criteri di credibilità, ma sul fondo dell’anima persiste sempre un fermento di trepidazione. Se a rassicurare, nelle relazioni sociali consuete, soccorre l’ovvietà dell’evidenza, in quelle con il soprannaturale giunge, a sostegno ed a propulsione, Dio stesso, che sospinge con la sua grazia. La fede risulta quindi un dovere, una necessità, un coefficiente rassicurante e pacificante, per quanto concerne Dio, ma anche una chiamata avvolta nell’oscurità, per quanto riguarda l’uomo. Ne deriva una complessa problematicità, che investe la natura della fede e le sue modalità di applicazione.
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I Padri sono intervenuti, occasionalmente, con precisazioni specifiche su questo rationabile obsequium, a seconda delle circostanze; non si sono però mai inoltrati ad un’impostazione apposita sul tema globale della fede, anche se S. Agostino vi si è talora accostato di spigolo. Le angolature dalle quali i Padri hanno considerato la fede sono quindi assai diverse e, nel loro insieme, aprono un panorama di stimolante interesse.
2. Oscurità e discrezionalità
L’oscurità è insita nel concetto di fede, la quale, per sua natura, si distingue e si contrappone alla visione. Gregorio di Nazianzo provoca: «Se tutto è chiaro, dimmi, dove sta il credere? La fede, infatti, è un assenso tranquillo» ( Carm., I, 1, 6, 39-40, PG, 37, 432). È una sfida che vale la pena di affrontare: Clemente Alessandrino ne percepì il fascino: « È bello il rischio di passare dalla parte di Dio» (Protrettico, 10, 93, 2). È quindi una provocazione che chiama in causa il libero arbitrio: S. Agostino ha infatti dichiarato: «Tocca al libero arbitrio ascoltare colui che lo chiama [Dio] e chiedere a colui in cui crede l’aiuto per non peccare» (De natura et gratia, 64, 77, CSEL, 60 p. 291). Giovanni Crisostomo, in riferimento allo slancio ed alla generosità con cui va vissuta, dichiara: «La fede è un fatto di schietta scelta personale» (Sull’Epistola agli Ebrei, om., 34,3, PG, 63, 236).
3. Fede e comprensione
Se è oscurità, la fede non è però passiva acquiescenza all’inconsapevolezza; Gregorio di Nazianzo deplorò che molti «chiamassero fede l’ignoranza» (Or., 36, 4, SC, 318, p. 250) . L’assenza di una luce plenaria non implica un buio totale, tanto più che nella fede è insita un’apertura alla conoscenza; per Giovanni Crisostomo «In ogni caso abbiamo bisogno della fede... senza di essa non è possibile possedere le grandi conoscenze» (Su S. Giovanni, 33,1, PG, 59,187). Secondo Clemente Alessandrino la fede, non soltanto dischiude l’adito alla scienza, ma ne diventa la luce orientatrice; asserisce, infatti: «La fede è cosa più importante della scienza, di cui costituisce la norma di discernimento» (Strom., II, 4, 15, 5); la scienza, che germina dalla superficialità dell’esperienza e dalla limitatezza dell’intelligenza umana, è soggetta ad abbagli e a deviazioni largamente documentabili, la fede, fondata sulla parola divina, è bussola che garantisce la rotta. La fede possiede un insito richiamo alla conoscenza; la convinzione che Dio esista contiene un impulso endogeno a sapere chi egli sia; che poi la totalità della conoscenza sia inattingibile non significa che lo siano anche i prodromi; se non si arriva all’orlo di fondo, si può giungere a quello limitrofo; il mistero supera l’intelligenza ma anche la provoca; essa è costitutivamente
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finalizzata a conoscere; è per sua natura acquisitiva e la fede, che è atto dell’intelligenza, richiama il vedere. Per S. Agostino «la fede ha i suoi occhi con i quali, in certo modo, vede che è vero ciò che non vede ancora e con i quali vede, con assoluta, certezza, che essa non vede ancora ciò che crede» (Epist., 119,8, PL 33, 456). I credenti cercano quindi di vedere ciò che non vedono ancora; cercano i misteri di Dio per arrivare a capirli: secondo Agostino infatti «la fede è un gradino della comprensione e la comprensione è un merito della fede» (C. LAMBOT, Le sermon CXXVI, in Rev. Bén., 69 (1959), § 1, p.183); Agostino poi continua immaginando un’obiezione: «Fammi vedere quelle cose, affinché io creda; tu mi domandi di credere mentre non vedo ancora; io voglio credere e credere vedendo». Agostino replica: «Tu vuoi salire e dimentichi i gradini; se ti potessi mostrare quello che tu veda, non ti esorterei a credere» (§ 2, p. 183). La fede non vede in assoluto, ma in relativo vede; non arriva al sommo della scala, ma in cammino sulla scala c’è pure. Ancora Agostino: «Un uomo mi dice: voglio capire per credere (intellegam ut credam); gli rispondo: Credi per capire (ut intellegas crede); ne nasce tra noi una controversia, che ha come giudice l’intimazione divina: Questo è il mio Figlio diletto, ascoltatelo» (Mt 17, 5. Serm. de Vet. Test., 43, 4, CCL, 41, p. 509) e conclude: Noi dobbiamo accettare entrambi gli assiomi: intellege ut credas verbum meum e crede ut intellegas Verbum Dei (§ 9, p. 512). Fede e intelligenza si esigono a vicenda; la fede può essere recepita solo dall’intelligenza e l’intelligenza, recependola, viene introdotta in quella luce che è conoscenza potenzialmente infinita. Inoltrandosi nella mente divina quella umana si potenzia e si amplia; più la fede è lucida più illuminata ne diviene l’intelligenza. Altrove Agostino puntualizza: «Noi crediamo per conoscere, non conosciamo per credere... la fede è credere ciò che non vedi e la verità è vedere ciò che hai creduto» (Sul Vangelo di Giovanni, 40, 9, CCL, 36, p. 355). La fede è un valore anteriore, di cui il conoscere è la conseguenza; invertire l’ordine significherebbe preporre l’esigenza umana all’assolutezza divina; Dio è infatti un assoluto, la fede ne è soltanto la via di avvicinamento: «La fede non è ciò che si crede, ma ciò tramite il quale si crede» (De Trinitate, 14, 8, 11, CCL, 50a, p. 438); la fede non è un valore finale, è una via di transito; non è un oggetto, è l’arrivo all’oggetto; è il moto dell’anima che si propone un valore.
4. Fede e ragione
La fede richiama la ragione e la ragione è incompleta senza la fede. Clemente Alessandrino giudicò che, sebbene la filosofia greca sia di origini sospette, è però efficace per prepararci alla fede (Strom., I, 17); se da sola essa
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non basta a scoprire la verità, è però un ausiliare prezioso della fede (Strom., I, 20). Se l’oggetto della fede supera la ragione, le risulta però necessariamente integrativo, senza di esso l’anima si sente carente; lo rilevò con sicurezza il Nazianzeno: «La fede porta a compimento la nostra ragione» (Or., 29, 21, SC, 250, p. 224). La ragione si riscontra, in se stessa, limitata; si sente avvolta dal buio (“So di non sapere nulla”) ed anela, istintivamente, a superare questa cerchia che la soffoca umiliandola. La fede le richiede uno sforzo, ma le soddisfa anche un’aspirazione. La ragione procede però secondo un suo rigore logico ed una sua dignità che la distinguono dalle mode capricciose che spuntano nel decorso del tempo, frutto di impulsi emotivi incontrollati. S. Atanasio, in rapporto a coloro che adeguano la loro fede ai gusti del momento, si chiede stupito: «Chi stimerà ancora cristiani individui del genere? O che razza di fede è quella di costoro che non mantengono saldi né le parole né gli scritti, ma tutto mutano e trasformano a seconda delle circostanze? (De synodis, 38, PG, 26, 760). La coerenza della ragione esige la linearità delle convinzioni, le quali, una volta dimostrate, vanno conservate; essenziale risulta quindi l’adesione inflessibile al depositum fidei; S. Basilio rassicura i vescovi d’Italia e di Gallia garantendo: «Noi combattiamo fermamente per il possesso comune, per il tesoro avito della fede» (Epist., 243, 4). Sull’incrollabile adesione alle verità della fede Gregorio di Nazianzo diede la consegna: «In tempi che mutano non mutare su di una cosa che non muta» (Or., 40, 44, PG, 36, 421). La fedeltà inderogabile a verità accettate per dimostrazione indubitabile è requisito della fede, ma lo è anche di un’intelligenza forte e sana.
5. Fede e speranza
La fede è adesione dell’intelletto e l’intelletto ha un rigore che soddisfa la logica ma ignora il sentimento; nobilita l’uomo ma non lo comprende tutto. La speranza integra; sulla razionalità fa fiorire l’emozione; l’unione delle due virtù comprende e soddisfa l’uomo intero. La speranza alimenta la vita e la rende gradita: Gregorio di Nazianzo confidò: «Vivo della sola speranza» (Carm., II,1, 45, 143-144) ed il Nisseno la definì ‘fiore’ (Sul Cantico dei cantici, om., 3 ed. H. Langerbeck, op. VI, p. 97). La speranza è il respiro della persona, sottraendola dall’asfissia; è noto l’inno con cui nella classicità la celebrò Teognide. Clemente Alessandrino ne fece una penetrante analisi: «La speranza è effettivamente il sangue della fede; da essa la fede trae la sua compattezza, come da un’anima. Se la speranza evapora a guisa di sangue fuoruscito, la forza vitale della fede a poco a poco si dissolve” (Pedagogo, I, 6, 38, 3). Le due virtù si autenticano a vicenda e si compenetrano in un’azione di vivificazione dell’anima. S. Agostino affermò che la fede, unita alla speranza, neutralizza i dardi con i quali il demonio attacca le anime (In Ps.,
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60, 5, CCL, 39 p. 768). All’effetto morale si unisce quello psicologico; infatti, dichiara ancora S. Agostino che compagna della fede è la speranza, la quale è necessaria finché non vediamo quello che crediamo, «per evitare che possiamo cadere nell’abbattimento» (Serm. in Matth., 53, 10, 11 CCL, 41 aa, p. 98). La speranza è la fede fatta anelito.
6. Fede e Incarnazione
Fondamento essenziale alla nostra rassicurazione è il pensiero che Dio ci ama tanto che ha voluto incarnarsi per noi, incarnarsi in noi, e la via per raggiungerci è stata la fede. La fede di Maria produsse infatti l’Incarnazione nella storia e la nostra fede ne produce gli effetti anche in noi. Secondo S. Agostino «Maria credette e fu fatto in essa quello che credette; crediamo anche noi, affinché rechi giovamento anche a noi quello che ella credette» (Serm. de Temp., 215,4, PL, 38,1074). Prima di concedere il suo assenso alla proposta di maternità, Maria si premurò di tutelare la sua verginità, ma l’angelo la rassicurò: «Siccome integra è la tua fede, intatta sarà anche la tua integrità»; Maria concepì con la fede: lo dichiara Agostino (Serm. de Sanctis, 291,5-6, PL, 38, 1319. In taluni schizzinosi però la realizzazione fisica dell’Incarnazione poteva suscitare uno scrupolo di decenza ed un moto di riluttanza nei riguardi della divinità; ma S Agostino premunisce: non deve diminuire la nostra fede il pensiero che nostro Signore sia passato attraverso all’utero di una donna, quasi che fosse una generazione sudicia; allo scrupolo egli ribatte con il deciso ammonimento di S. Paolo: «La stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini» (1 Cor 1,25) e «Tutto è puro per i puri» (Tt 1,15; De fide et symb., 10, CSEL, 41, 5,3 p.13). Era uno scampolo che s’inseriva nel rifiuto generale che gli ariani opponevano alla divinità di Cristo in nome delle sue azioni umane.
7. Fede e salvezza
Apodittico, in quella solennità che suona definitivo, è l’assioma di Clemente Alessandrino: «La fede è il solo ed universale mezzo di salvezza dell’umanità» (Pedagogo, I, 6, 30, 2). In una cornice più pittoresca, è ugualmente categorico Severiano di Gabala: «C’è una sola navigazione, una sola via, un solo porto, la fede... Chi si distacca dalla fede fa naufragio; chi segue la fede ormeggia il suo scafo in un porto tranquillo» (Su Cristo pastore e pecora, § 4, PG, 52, 834). Severiano dichiara ancora: «La fede tutto illumina, la fede tutto santifica, la fede rende degni dello Spirito Santo» (Sulla frase: Con quale potere, § 5, PG ,56, 421). La fede assume una fisionomia di tutela e di assolutezza, logicamente, in quanto ci inserisce nell’Assoluto. Essa garantisce la salvezza anche in quanto della salvezza sconfigge il nemico accanito; S. Ata-
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nasio afferma: «La fede è più forte di ogni attacco diabolico e del furore dei demoni» (Fragmenta in Job., PG, 27, 1348); ne ribadisce il concetto Cirillo di Gerusalemme: «C’è qualche cosa di pù terribile del diavolo? Contro di lui non abbiamo comunque nessun’arma all’infuori della fede, scudo incorporeo contro un nemico invisibile» (Catechesi, 5,4, PG, 33, 509).
8. Fede e costumi
Su questa connessione ha particolarmente insistito Giovanni Crisostomo, il grande direttore spirituale della Chiesa orientale, colui che nel dogma, al di là delle disquisizioni teoretiche, ha volentieri rilevato i riflessi operativi nella vita pratica. Ha quindi preconizzato l’unitarietà della vita spirituale che si esprime attraverso alla composizione della verità del pensiero con la bontà dell’azione; l’ortodossia gli è inscindibile dall’ortoprassi. Dice infatti: «Non ci guadagneremo nulla a possedere l’ortodossia dogmatica, se trascuriamo i costumi; né potremo trarre qualche buon profitto per la nostra salvezza se, avendo la dignità dei costumi, trascureremo l’ortodossia dogmatica» (Sulla Genesi, om., 13,4, PG, 53,110). Altrove si domanda: «Che utilità c’è, se nei dogmi di fede, ci si dimostra ossequenti a Dio, quando nella vita quell’ossequenza viene a mancare? (Sulla prima Epist. a Tim., om., 7,1, PG, 62, 535). Ricorrendo poi all’analogia che al passero, per essere tenuto tutto prigioniero, basta essere preso nella trappola con un solo membro, dichiara che anche noi, sebbene non siamo tenuti prigionieri da entrambe le parti dell’ortodossia della fede e della pratica della vita, ma lo siamo soltanto sul lato della vita, siamo tuttavia in potere del diavolo (Sulla seconda Epist. a Tim., om., 6,3, PG, 62, 633). La purezza della vita è infatti necessaria per conciliarsi l’aiuto dello Spirito Santo, il quale interviene se trova un comportamento ineccepibile: «Perciò, se vogliamo avere una fede radicata, abbiamo bisogno di un tenore di vita puro, che persuada lo Spirito a restare ed a mantenerne salda la forza; non è infatti possibile, non è possibile che uno, il quale abbia una vita impura, non vacilli anche nella fede» (Om. Habentes eundem Spiritum, 1,9, PG, 51, 280). Per Giovanni la coerenza è virtù fondata tanto nell’ambito naturale quanto in quello soprannaturale; era una convinzione che, più che emergergli dalla riflessione, gli scaturiva dall’impulso diretto della sanità del suo temperamento morale.
9. Pregio della fede
Aiuto dello Spirito divino e coerenza nello spirito umano non possono non rendere la fede, che costituisce la confluenza di entrambi, un valore sommo. Lo afferma il Crisostomo: «Dagli stessi guai della vita presente non ci liberiamo in nessun altro modo che mediante la fede; la fede è madre di
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tutti i beni» (Sull’Epist. ai Romani, om., 2,6, PG, 60, 410); è una sintesi; incontriamo una realtà che esclude eccezioni e quindi anche obiezioni; garantisce dai dubbi; e Giovanni la rincalza con un altro aforisma assoluto: «Nulla è pari alla preghiera e nulla è più potente della fede» (Su Anna, serm., 2,1, PG, 54, 643); è un binomio apparente, in quanto i due poli si presuppongono come emanazioni da un’unica radice: credendo in un Essere supremo non si può non istituire un collegamento con lui e l’istituzione del collegamento ne presuppone l’esistenza. La fede nella sua natura e nel suo modo di esplicarsi sembra concernere solo l’intelletto, in quanto è atto mentale, tuttavia lascia trasparire uno sfondo operativo; il pensiero si apre all’azione; Giovanni pronuncia infatti un assioma che ha un’intima risonanza di epicità: «Due sono i prodigi della fede: compie grandi cose e subisce grandi prove, pure stimando di non subire nulla» (Sull’Epist. agli Ebrei, om., 27, 3, PG 63,187). C’è severità di riflessione: le grandi opere nella loro vistosità appariscente suscitano l’ammirazione, ma rischiano anche di fermare in essa lo spettatore, senza condurlo al piano retrostante del tenace impegno che ha costruito quella magnificenza a costo di un’oscura ed aspra tenacia intrisa di dura pazienza e di logorante sofferenza. La fede investe il suo dinamismo intellettuale in un’operosità che mette in azione la virtù, nell’ambito immediato ed in quello ampio della storia. La fede conferisce infatti una tenacia di resistenza, dà una solidità che Giovanni visualizza con una similitudine perspicua; richiama infatti che, come una nave assalita dai venti e dai marosi viene stabilizzata calando l’ancora, «così anche la nostra mente, quando viene battuta dai flutti dei pensieri pagani che le si sferrano contro, se sopravviene, più sicura dell’ancora, la fede, la scampa dal naufragio, ormeggiando lo scafo, come in un porto tranquillo, nella certezza della coscienza» (Om. Habentes eundem Spiritum 1,3, PG, 51,271-275). È però, ancora, una saldezza che non è staticità; Giovanni la completa con una suggestione di dinamismo; propone infatti di «avere la fede come guida della via... e come ancora della nostra salvezza» (Om., 8, 2, Postquam presbyter Gothus, PG, 63,502); la fede esercita due azioni, opposte e complementari, trattiene dal male e conduce al bene. Essa garantisce così l’esito finale della salvezza, in quanto è una forza indomabile; Gregorio di Nazianzo afferma che nessun persecutore può piegare il credente, perché «sola tra tutte le cose la fede è invincibile» (Or., 5,4, SC, 309 p. 376). La fede dà forza anche in quanto rinnova la vita; Cirillo di Gerusalemme propone l’analogia: come «i corpi sono generati attraverso i genitori visibili, così le anime sono rigenerate attraverso la fede» (Catech., 1,2, PG, 33,372). Questa rigenerazione pone l’anima in grado di praticare la virtù; per il Nisseno «due sono gli accorgimenti con i quali fare una provvi-
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sta completa di virtù, la fede in Dio e la coscienza che ispiri la vita» (Vita di Mosé, II, 192). Queste virtù si incentrano nella carità, che conduce al raggiungimento del fine supremo al quale tende lo spirito umano; infatti per Evagrio Pontico «la fede è il principio della carità ed il termine della carità è la conoscenza di Dio (Sentenze ai monaci, § 3 in H. GRESSMANN, TU 39,4 Leipzig 1913 p. 153). Davanti al valore della fede Cirillo di Gerusalemme esclama ammirato: «È una gran cosa un credente; risulta più ricco di qualsiasi ricco» (Catech., 5,2, PG, 33,508).
10. Pratica della fede
Il valore della fede si rinchiuderebbe però nell’astrazione, esposto al rischio della sterilità, se non passasse ad incarnarsi nell’azione. La fede deve infatti essere operante. Con un’immagine efficace il Crisostomo richiede: «Non farmi vedere l’atleta nell’allenamento ma nella gara; non mostrarmi la religiosità nel momento della lezione ma nel momento dell’azione» (De statuis, 16,2 PG 49,164), poi sul piano assoluto afferma: «Non serve ascoltare, se non si passa all’azione» (Om. Si esurierit inimicus, § 4, PG, 51,178). È una verità, in se stessa ovvia, la difficoltà sorge nell’applicarla, ma è una difficoltà che si può superare. Infatti S. Agostino rassicura: «La fede ottiene quello che la legge comanda; senza lo Spirito Santo la legge potrà comandare ma non aiutare e rende trasgressore colui che non può scusarsi in nome dell’ignoranza» (Enchiridion, 31,117, CCL, 46 p.112). La genuinità della fede pertanto si misura nel suo trapasso dall’adesione teorica all’applicazione effettiva. S. Agostino, a questo proposito, avverte: «Credere in Dio è assolutamente di più che credere a Dio. Infatti anche ad un uomo qualsiasi il più delle volte bisogna credere, sebbene non si debba credere in lui. Credere in Dio è credendo aderire per cooperare bene a Dio che opera il bene» (In Ps., 77, 8, CCL, 39,1073). Ed è un’adesione inderogabile, perché «chi non crede, anche se vive, è morto» (Agostino, cfr. Gv 11,25; In Ps., 56,14, CCL, 39,704). La credibilità a Dio non offre particolari difficoltà, in quanto ovvia per la sua infinita eccellenza, Agostino ribadisce invece che anche nei comuni rapporti umani la fede risulta indispensabile perché la sua mancanza creerebbe un’orribile confusione (De fide rerum invisibilium, 1,4, CCL, 46,4). D’altronde anche per il Crisostomo, la fede è accessibile a tutti; la dichiara degna di ammirazione «non solo perché è utile e salutare, ma anche perché è agevole e facile e tutti la possono afferrare senza difficoltà; questo è un provvedimento molto consono con la provvidenza di Dio, il quale offre in comune a tutti i suoi doni» (Sull’Epist. ai Romani, om., 2,5, PG, 60,407). Il rifiuto proviene da meschinità intellettuale; Giovanni asserisce infatti che «il non credere è contrassegno di una mente debole, piccola, misera; per cui, quando qualcuno ci imputasse a colpa la fede, ritorciamogli anche noi a colpa
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l’incredulità; si tratta di un povero diavolo dal cervello piccino» (Sull’Epist. ai Romani, om., 8,6, PG, 60, 462). La relativa agevolezza con cui la fede si mostra accessibile alla mente comporta un’adesione che superi tutti gli ostacoli; S. Pacomio esortò: «Non atteniamoci alla fede soltanto quando siamo allegri perché tutto va bene, per poi allontanarcene quando siamo tribolati» (Monita S. Pachomii, trad. S. Girolamo, PL, 23, 85). E Gregorio Nazianzeno, salendo a grande nobiltà, esorta:«Adora colui che è stato crocifisso per te, anche se sei pure tu crocifisso» (Or. 45, 24, PG, 36,656). Anche S. Atanasio invita a non lasciarsi bloccare dagli ostacoli: «È meglio che chi si trova in difficoltà di fede taccia e creda, piuttosto che non credere perché si trova in difficoltà» (Or. II contra arianos, § 36, PG, 26, 224). Il Crisostomo mette in guardia contro le insidie che alla fede trama l’eresia: «Non c’è mai stato un tempo in cui la menzogna non si sia presentata insieme alla verità» (Sulla II Epist. a Timoteo, om., 8,1, PG, 62,643). La fede deve comunque essere un rapporto disinteressato con Dio; non deve essere inquinata dalla richiesta di valori contingenti, non deve essere un mercanteggiamento. S. Agostino sostenne che deve essere gratuita, immune dal condizionamento degli interessi terreni: se tu la connetti all’ottenimento di beni terreni «hai messo in vendita la tua fede» (DELBEAU, Sermons inédits, in Rev. Bèn., 103 (1993), § 17, p. 337). Se la fede è atto interno, privato, non va però soffocata nell’angustia, va irraggiata in ampiezza di area; S. Agostino asserì l’obbligo di proclamarla in pubblico (De fide et symb., 1, CSEL, 41,5,3 p. 3). ll Crisostomo rincalza affermando che in difesa dell’ortodossia, contro i corruttori della fede, bisogna combattere come soldati valorosi (Sull’Epist. agli Ebrei, om., 5,5, PG, 63,52). S. Agostino prega: «Signore, io ti possa invocare credendo in te; ti invoca, Signore, la mia fede, che tu mi hai data» (Conf., 1,1,1). Percorrendo a volo d’uccello l’amplissima prateria della patristica, che vede germogliare le personalità più svariate sia per ingegno che per temperamento, cultura, responsabilità ecclesiali, si ritrae netta l’impressione che il problema della fede tutti lo hanno riferito al suo rapporto con la persona umana; nessuno lo ha, di proposito, scandagliato in se stesso. I Padri non hanno indagato la fede nella sua natura e nelle sue specifiche peculiarità, l’hanno considerata nella sua reattività con l’uomo; non li interessa tanto che cosa sia quanto come agisca in loro; partono da sé per arrivare a lei; siccome il sé per ciascuno è tutto, la fede divenne per loro un tutto: cosa fa in loro, cosa debbono fare per lei. Sono condotti da una sorta di pragmatismo istintivo. Non escono da sé affrontando un problema; la tirano in sé; non si tratta tanto di speculazione quanto di applicazione. I Padri, quali uomini, sanno che la fede offre piena sicurezza, perché fondata sulla parola di Dio, ma sperimentano anche che viene accolta e gestita dalla fatiscenza umana; è sicuro
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l’oggetto, malsicuri il tramite e l’uso. Dato il valore sommo della posta in gioco, che è la salvezza eterna, con le sue componenti di tormento o di beatitudine, l’alternativa dell’assimilazione o dell’incuria della fede acquista una sua tensione drammatica. La fede è appello supremo alla ragione, la chiama a trascendersi per completarsi e soddisfarsi; vedere con occhi spirituali non è umiliarsi, è sublimarsi. Per la psicologia umana è un rischio, ma è anche una sfida che vale la pena di affrontare, tanto più che è lievitata da quel potente fermento vitale che è la speranza. L’oggetto della fede è teoricamente invisibile, ma storicamente si è reso visibile e palpabile attaverso l’Incarnazione; in essa agisce lo Spirito Santo, che ci propizia la fede, quale «dono che ci è largito dalla Provvidenza divina». Siglario: CCL, Corpus Christianorum, series latina / CSEL, Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum / PG, Patrologia Graeca di Migne / PL, Patrologia Latina di Migne / SC, Sources Chrétiennes / TU, Texte und Untersuchungen. Per i libri biblici sono state assunte le sigle adottate nell’edizione della Bibbia della CEI.
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 43-59
IL SIGNIFICATO ATTUALE DEL VATICANO II La grazia del XX secolo e la bussola del XXI
DI UMBERTO CASALE Professore di Teologia Fondamentale (Facoltà Teologica di Torino)
SOMMARIO: 1. L’interpretazione storico-teologica. - 2. L’eredità del Concilio. - 2.1. La centralità del mistero trinitario di Dio. - 2.2. La priorità della Parola di Dio. - 2.3. Una rinnovata ecclesiologia. - 2.4. Il rapporto Chiesa-mondo. - 2.5. L’escatologia cristiana. - 3. Il Concilio all’alba del 2000: l’Anno della fede.
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1. L’interpretazione storico-teologica
cinquant’anni dall’apertura del concilio Vaticano II (1962-2012) è logico chiedersi quale è il suo significato storico-teologico, dal momento che vi è un rapporto tra la teologia e la storia della Chiesa, o – come scrive lo storico della Chiesa H. Jedin: «la storia della Chiesa è teologia e storia».1 In altri termini: qual è il suo posto nella bimillenaria storia dei cristiani?2 Innanzitutto appare condivisibile l’osservazione di alcuni teologi, fra i quali K. Rahner: il concilio Vaticano II è stato, sia pure in modo ancora germinale, «la prima auto-attuazione ufficiale della Chiesa in quanto Chiesa mondiale», un evento nel quale «comincia ad agire una Chiesa mondiale in quanto tale, con un influsso reciproco fra le parti».3 In effetti, sotto il profilo formale, l’ultimo concilio è stato, per la prima volta, un’assise della Chiesa mondiale in quanto tale, il primo raduno dell’episcopato di tutti i continenti e questo non soltanto sul piano quantitativo
1 «La storia della Chiesa è teologia, essa presenta nella Chiesa il divino e l’umano, più precisamente nell’umano il divino», H. JEDIN, La storia della Chiesa è teologia e storia, Vita e Pensiero, Milano 1968, p. 10. 2 Cfr. H. JEDIN, Il concilio Vaticano II, in ID., Storia della Chiesa, vol. X/1 La Chiesa nel ventesimo secolo (1914-1975), Jaca Book, Milano 1980, pp. 105-161. 3 K. RAHNER, Interpretazione teologica fondamentale del Concilio Vaticano II, in Sollecitudine per la Chiesa, Paoline, Roma 1982, pp. 344-345; ID., Il significato permanente del Vaticano II, in ibid., pp. 362ss.; EDITORIALE, L’attualità del concilio Vaticano II, «La Civiltà Cattolica» 153 (2002) IV, pp. 426-438.
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(2904 partecipanti all’inizio, 3093 nel 1965, mentre nei precedenti concili il numero dei Padri conciliari era di gran lunga inferiore e la maggioranza era europea e italiana),4 bensì anche qualitativo: che qui agisca non più la Chiesa dell’Occidente (eurocentrica), ma la Chiesa in tutte le sue espansioni planetarie rappresenta un vero salto di qualità. «Il concilio Vaticano II – scrive papa Benedetto – con la partecipazione dei vescovi cattolici provenienti da ogni angolo della terra, è stato un segno luminoso dell’universalità della Chiesa, accogliendo, per la prima volta, un così alto numero di Padri conciliari provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Oceania. Vescovi missionari e vescovi autoctoni, pastori di comunità sparse fra popolazioni non cristiane, che portavano nell’assise conciliare l’immagine di una Chiesa presente in tutti i continenti».5 Ora, questo raduno dei vescovi dell’universo mondo non ha agito da semplice organo consultivo, ma come istanza magisteriale suprema della Chiesa in unione con il papa, favorendo una miglior comprensione e realizzazione della nota ecclesiale della cattolicità, innescando poi un’accelerazione nel processo di rinnovamento (rapporto delle Chiese locali con la Catholica, responsabilità del vescovo non soltanto della Chiesa locale a lui affidata, ma dell’universale). Anche sul piano dei contenuti è possibile illustrare la suddetta interpretazione: sia nei testi teologicamente più preganti (le costituzioni: Dei Verbum, Lumen Gentium, Sacrosanctum Conciluim, Gaudium et Spes) sia negli altri (nove decreti concernenti temi della vita ecclesiale, tre dichiarazioni di carattere più generale) «la Chiesa ha cominciato ad agire come Chiesa mondiale almeno in misura germinale». Tutto questo segna il passaggio a una nuova fase della storia della Chiesa: dopo il primo periodo del giudeo-cristianesimo (temporalmente breve, ma, dal punto di vista teologico, ha rappresentato un’epoca), vi è un secondo periodo – assai lungo – di una Chiesa esistente in aree culturali determinate (greco-romana, europea, l’Occidente), ora si sta entrando in un terzo, «caratterizzato dal fatto che tutto il mondo (l’ecumene) costituisce, in linea di principio, lo spazio vitale della Chiesa».6 Da qui deriva il compito teologico fondamentale della Chiesa e di tutti i cristiani: comunicare e trasmettere la fede cristiana in modo che possa mettere le radici nelle varie culture e nei vari ambienti vitali del mondo, rivelando così il tratto della cattolicità della Chiesa, che poggia sul fatto che il piano salvifico di Dio realizzato in Cristo ha destinazione universale. 4 Riprendo, sia pure con alcune modifiche, l’ultimo capitolo del mio: Il Concilio vaticano II. Eventi, documenti, attualità, Lindau, Torino 2012 (specialmente pp. 159-193). 5 BENEDETTO XVI, Messaggio per la Giornata mondiale missionaria, 6 gennaio 2012. 6 K. RANHER, Interpretazione teologica fondamentale del concilio Vaticano II, cit., p. 351.
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Più precisamente: sia le culture di paesi emergenti (in fase di primo annuncio), sia le culture di antica tradizione cristiana, ma da tempo scosse dal secolarismo e da un certo nichilismo (entrambi disumanizzanti), costituiscono per la Chiesa terreni di evangelizzazione, o di nuova evangelizzazione.7 Per questo il Vaticano II ha voluto essere l’espressione di una Chiesa capace di fare dell’annuncio evangelico, del movimento ecumenico e del dialogo interreligioso la sua missione universale, fedele al Vangelo e all’uomo a cui il Vangelo è destinato, una Chiesa più idonea ad annunciare e a testimoniare il Vangelo al mondo odierno. Da questo punto di vista, la ricezione del Vaticano II, l’assimilazione della mens del concilio è appena iniziata.
2. L’eredità del Concilio
Ciascun concilio ha una sua autocomprensione teologica e un successivo periodo di recezione e di assimilazione. Se dunque si vuole fare “un buon uso del concilio”,8 se si vuole vivere della sua eredità occorre coglierlo come evento e come un insieme di insegnamenti: la categoria ‘evento’ definisce il processo di consapevolezza del concilio, inteso quale avvenimento ecclesiale di natura teologico-pastorale, metodologicamente sinodale (o collegiale),9 finalizzato all’aggiornamento.10 Un «evento linguistico che induce nuovi valori e nuove priorità, che induce anche una conversione», uno stile e «un orien-
L’espressione nuova evangelizzazione risale a GIOVANNI PAOLO II (in un intervento del 1979); cfr. J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in A. RUSSO, G. COFFELE (edd.), Divinarum Rerum Notitia (Studi in onore del card. W. Kasper), Studium, Roma 2001, pp. 505-519. Con il motu proprio di Benedetto XVI, Ubicumque et semper (21 settembre 2010) è stato istituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. R. FISICHELLA, presidente del suddetto Consiglio, riflettendo sul discorso inaugurale del concilio (Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia), vede nello stesso Consiglio «uno degli ultimi frutti del Vaticano II»: La nuova evangelizzazione. Una sfida per uscire dall’indifferenza, Mondadori, Milano 2011, p. 9. 8 Cfr. G. DEJAIFVE, Pour un bon usage des Conciles, «Nouvelle Revue Théologique» 101 (1971), pp. 800-814: si riscontrano tre tipi di atteggiamenti nei confronti degli eventi conciliari: quelli che li rifiutano e li considerano come non avvenuti; quelli per i quali le definizioni conciliari (dogmatiche e pastorali) hanno un valore esaustivo per la fede stessa; quelli che, prendendo seriamente gli insegnamenti del concilio, li integrano sempre nella storia della fede globale e, coscienti dei limiti di ogni affermazione, si impegnano a determinarne l’esatta portata. Mentre il primo atteggiamento ricorda una reazione puerile e il secondo confina o sconfina nel fanatismo, agli ultimi «bisogna attribuire il “buon uso” dei concili»: p. 804. 9 Il Vaticano II è diventato un principio propulsore per la ripresa della sinodalità nella Chiesa, cfr. H. LEGRAND, La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano II, in ATI, Chiesa e sinodalità, Glossa, Milano 2007, pp. 67-108. 10 Cfr. P. HÜNERMANN, Il Concilio Vaticano II come evento, «Il Regno. Documenti» 11/1997, pp. 376-384. 7
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tamento, indicato come linguaggio pastorale».11 Come è detto nella GS, ‘pastorale’ perché sulla base di principi teologici (dottrinali) intende esporre l’atteggiamento della Chiesa in rapporto al mondo e all’uomo d’oggi (sottolineando il rapporto dei due: teologico e pastorale, la finalità pastorale del teologico), ‘pastorale’ perché la stessa rivelazione ha natura e dinamica comunicativa (è evangelo da comunicare), sicché l’altro termine ‘aggiornamento’ non intende tanto segnalare una riforma istituzionale della Chiesa o una nuova formulazione dottrinale, bensì una conversione e un rinnovato annuncio nel quale fedeltà alla tradizione e rinnovamento profetico sono destinati a coniugarsi. Ora, per una lettura storico-teologica tendenzialmente corretta e tendenzialmente indirizzata a superare le annose e noiose contrapposizioni fra i cosiddetti tradizionalisti e progressisti occorre ancora una volta precisare il significato – teologico e antropologico – della Tradizione nella vita della Chiesa.12 Il punto di partenza è la Rivelazione: Dio, manifestando e donando il suo disegno di salvezza, fa sì che questa rivelazione sia trasmessa integralmente agli uomini di tutti i tempi. In tal senso la Tradizione è implicita nell’evento stesso della Rivelazione e comporta l’esistenza della Chiesa. Così Dio dispone che l’evento salvifico, adempiutosi in Gesù Cristo, venga trasmesso a tutti gli uomini per mezzo della Chiesa (soggetto storico della Tradizione) in tutta la sua integrità e pienezza, sotto la guida dello Spirito Santo (soggetto trascendente della Tradizione). Questa trasmissione della rivelazione – «rendere sempre attuale il dono di Gesù», – non è e non può essere statica, ma è viva e vivace («la Chiesa, nella sua vita, nella sua dottrina e nel suo culto, trasmette tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede»), inoltre, «progredisce, cresce la comprensione tanto delle cose quanto della parole trasmesse» (DV 8).13 J. W. O’MALLEY, Che cosa è successo nel Vaticano II, Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 313. A proposito di linguaggi, nel corpus conciliare si ritrovano, in analogia col corpus biblico, alcuni generi letterari: il narrativo, il parenetico, il genere deliberativo e argomentativo, cfr. C. THEOBALD, La recezione del Vaticano II. 1/Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011, pp. 350-367. 12 «È sull’idea di tradizione che occorre lavorare teologicamente se si vuol arrivare a situare il Vaticano II nei testi del magistero della Chiesa […]. Benedetto XVI ritorna sulla questione: parlando dell’evoluzione della dottrina, fatta “di continuità e di discontinuità”, “di novità nella continuità”, pone la questione proprio al livello della teologia della tradizione; cfr. G. ROUTHIER, L’herméneutique de Vatican II, «Recherches de Science Religieuse» 100 (2012/1), pp. 61, 63. 13 «La Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. Essa è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità»: BENEDETTO XVI, Gli Apostoli e i primi discepoli di Cristo, LEV, Città del Vaticano 2007, p. 29. La tradizione comporta conservazione e sviluppo, implica una tensione tra purezza e pienezza, per rendere sempre attuale l’evento Gesù, la traditio è «testimonianza trasparente che consente l’attualizzazione della ‘consegna’ e non ostacolo che impedisce di vedere il fondamento portante»: H. VERWEYEN, La Parola definitiva di Dio, Queriniana, Brescia 2001. 11
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Tale dinamica tradizione-progresso è riscontrabile in diversi ambiti ecclesiali, particolarmente nelle dinamiche conciliari, in questa luce va inteso il Vaticano II: nel riconoscere che nella Chiesa l’umano e il divino – di cui tradizione e progresso sono i segni più evidenti – non possono essere separati e disgiunti, così tradizione e progresso «costituiscono una coppia di termini omogenei».14 Il Vaticano II si pone precisamente in questa linea: la relazione tradizione-progresso rappresenta l’anima e il tema principale del suo svolgimento, sottesa all’insieme dei documenti redatti. Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura indicava lo scopo principale del concilio nel ricercare modalità nuove per garantire la trasmissione integra del depositum fidei, attraverso un approfondimento e un aggiornamento di forme più comunicative e più efficaci per il mondo contemporaneo. Così Paolo VI precisava, sempre nell’ambito di questa trasmissione del depositum fidei, l’attenzione maggiore alla realtà della Chiesa e al suo rinnovamento.15 In questa prospettiva va interpretato l’evento conciliare e vanno letti i documenti e assimilati i contenuti dei documenti approvati, questa l’eredità e il significato sempre attuale del Vaticano II. In questa dinamica, essendo il Vaticano II un atto del magistero della Chiesa, non si tratta tanto di giudicare il concilio alla luce della tradizione, ma di vederlo come sorgente di tradizione. In tal modo tradizione e autorità si trovano al cuore della questione ermeneutica. Inoltre, anche il processo di recezione e di assimilazione dei contenuti, fondato su una corretta ermeneutica, ha ormai una storia, conosce anch’esso la suddetta dinamica tradizione-progresso.16 Per cogliere dunque il significato e gli insegnamenti del 14 H. JEDIN, La storia della Chiesa è teologia e storia, cit., p. 27, spiegando che «tradizione senza progresso sarebbe cristallizzazione, progresso senza tradizione sarebbe rivoluzione. Sono le posizioni ‘tradizionalista’ (cristallizza la tradizione) e ‘progressista’ (cambia la tradizione) a separare scorrettamente tradizione e progresso; tale separazione ostacola la corretta comprensione dell’evento e dei testi conciliari, dal momento che questi si muovono propriamente nella dinamica tradizione-progresso. Tale dinamica si ritrova nei vari concili, anche a Trento: «attraverso le discussioni, i decreti e i canoni, il Concilio riuscì a coniugare in modo nuovo tradizione e innovazione; fu, in un certo senso un ‘aggiornamento’ della Chiesa»: G. PANI, La modernità del concilio di Trento, «La Civiltà Cattolica» 163 (2012) I, pp. 219-232; H. JEDIN, Il Concilio di Trento, Morcelliana, Brescia, I-IV, 1973-1982. 15 Cfr. sopra; Y.-M. CONGAR, Vera e falsa riforma della Chiesa, Jaca Book, Milano 19942; J. RATZINGER, Una compagnia in cammino. La Chiesa e il suo ininterrotto rinnovamento, «Communio» 114 (1990), pp. 91-105. 16 Cfr. G. ROUTHIER, G. JOBIN (edd.), L’Autorité et les Autorités. L’herméneutique théologique de Vatican II, Cerf, Paris 2010; G. DENZLER, Autorità ed accoglienza delle deliberazioni conciliari nella cristianità, «Concilium» 19 (1983/7), pp. 1039-1049; Y.-M. CONGAR, La ‘reception’ comme réalité ecclésiologique, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques» 56 (1972), pp. 369-403; G. ROUTHIER, Il concilio Vaticano II: recezione ed ermeneutica, Vita e Pensiero, Milano 2007.
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concilio, è necessario seguire alcuni criteri ermeneutici che tengano conto delle intenzioni e delle finalità dei Padri conciliari. Nel Sinodo dei vescovi, celebrato nel XX anniversario della conclusione dell’evento (1985), il relatore W. Kasper ha formulato cinque regole ermeneutiche: 1) i testi conciliari vanno compresi nella loro globalità, con speciale attenzione alle quattro costituzioni, chiave interpretativa degli altri documenti; 2) la stretta connessione tra la dimensione pastorale e quella dottrinale, il ‘pastorale’ consiste nell’attualizzare una verità perennemente valida; 3) spirito e lettera costituiscono un’unità, evitare un’interpretazione legalistica (che dimentica lo spirito) e un’interpretazione visionaria (che prescinde dal testo); 4) gli enunciati del concilio vanno interpretati in continuità con la grande Tradizione della Chiesa e dei concili precedenti; 5) i documenti vanno interpretati anche alla luce dei “segni dei tempi”.17 Alla luce di questi criteri ermeneutici, nella linea della Tradizione ecclesiale che progredisce con l’assistenza dello Spirito Santo, possiamo cogliere, in actu exercitu, la dinamica tradizione–progresso nelle questioni di principale importanza: la conciliarità o sinodalità (un convergere [syn] di strade [odos]: camminare insieme, decidere collegialmente), l’ecumenicità (verticale e spirituale, orizzontale e integrante), la novità dei temi (la Chiesa ad intra e ad extra), la novità dell’atteggiamento (positivo e pastorale).18 Così si vede che l’insieme dei testi conciliari forma un’unità strutturata che poggia su due assi: l’asse teologale (o verticale), quello della rivelazione e della sua accoglienza per fede, l’asse ecclesiale (o orizzontale), quello della comunicazione della Chiesa ad intra e ad extra. Il principio della pastoralità si colloca alla confluenza dei due assi e rappresenta il punto focale in cui si istituisce l’unità dell’intero corpus conciliare.19 Tale unità consiste nell’evento teologale dell’ascolto e dell’annuncio della Parola di Dio vissuto in seno al concilio, presupposto a monte e fuori di testo, ma proiettato nei testi (in particolare nel prologo della DV), per rendere possibile a valle lo stesso evento teologale della rece17 Cfr. W. KASPER, Il futuro della forza del concilio, Quieriniana, Brescia 1986, pp.598-59; cfr. ATI, La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e recezione conciliare, Glossa, Milano 2005. 18 Cfr Y.-M. CONGAR, Le Concile du Vatican II, Cerf, Paris 1982, pp. 54ss. 19 Questa struttura è essenzialmente aperta: l’esperienza dei Padri conciliari, segnata dall’ascolto della Parola di Dio e dei destinatari di tale Parola, è proiettata nel testo; quest’ultimo non è vivo se l’esperienza che configura non è nuovamente vissuta dai destinatari dei testi conciliari, il che mostra il legame profondo tra l’opera del Vaticano II e la sua recezione, Cfr. CH. THEOBALD, La recezione del Vaticano II. 1/Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011. Inoltre Theobald ricorda che nell’opera di recezione agiscono circolarmente tre ‘poli’: l’opera del concilio e i ricettori di oggi, entrambi collocati nella lunga tradizione della Chiesa: Tornare alla sorgente. La recezione del Vaticano II, «Il Regno. Attualità» 57, 2012/2, p. 29.
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zione del concilio. Riprendiamo qui alcuni aspetti di questi assi portanti, essi vanno assimilati insieme a conversione/rinnovamento per essere oggi testimoni affidabili del Vangelo.
2.1. La centralità del mistero trinitario di Dio
A partire dalla riflessione sulla Rivelazione, dove Cristo appare «principio e via, guida, speranza e termine»,20 il concilio ha inteso sottolineare la peculiare concezione teologica cristiana: Dio è comunione d’amore in sé stesso, è Padre, Figlio, Spirito (“l’Amante, l’Amato, l’Amore”, per dirla alla maniera di Agostino) e per questo è comunicatore, irrompe nella storia (salvifica: eventi, parola e senso sono indissociabili) ed entra in una relazione libera d’amore con le sue creature, fino a raggiungere – in Cristo e per mezzo dello Spirito Santo – una relazione sponsale con l’umanità (per cui la causa di Dio è la causa dell’uomo).21 Il Vaticano II ha parlato di nuovo e in modo rinnovato di Dio, nel nome di Cristo, al mondo, in tal senso è stato «un grandioso affresco d’ispirazione trinitaria, ha presentato tutta l’economia della salvezza in prospettive ecclesiali, anzitutto nell’ordine dell’intenzione, poi nell’ordine dell’esecuzione, secondo i disegni eterni di Dio e il loro compimento nella storia degli uomini»,22 soprattutto in DV. Una simile centralità, che comporta dunque un approfondimento della cristologia e una riscoperta della pneumatologia, va oggi ulteriormente rimarcata per un triplice ordine di motivi: in non pochi cristiani manca ancora la consapevolezza della peculiarità della propria concezione teologica, della centralità teorico-pratica del dogma trinitario, forse perché sospettato di esse20 Così PAOLO VI nel discorso all’inizio della seconda sessione (29 settembre 1963): «Quali sono il principio, la via e lo scopo del concilio? Cristo!, Cristo, nostro principio, Cristo nostra via e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine». 21 Diversi commentatori e divulgatori del Vaticano II hanno messo sempre in primo piano temi quali la Chiesa e l’ecumenismo, la missione, i ministeri, il mondo e le realtà terrene, dimenticando che il concilio ha innanzitutto voluto rinnovare la fede della Chiesa in Dio unitrino, in Dio Padre (Dio per noi) conosciuto attraverso Gesù Cristo (Dio con noi) per mezzo dello Spirito donato (Dio in noi). Tutti i temi trattati da questo discendono e prendono luce: «Il Vaticano II voleva chiaramente inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio»: J. RATZINGER, L’ecclesiologia della costituzione ‘Lumen Gentium’, in R. FISICHELLA (ed.), Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, cit., p. 67. Si veda anche l’enciclica di BENEDETTO XVI, Deus caritas est, in particolare la prima parte, nn. 2-18; cfr. H. U. VON BALTHASAR, Il Concilio dello Spirito Santo, in Spiritus Creator. Saggi teologici, Morcelliana, Brescia 1972, pp. 290ss. 22 M. PHILIPON, La santissima Trinità e la Chiesa, in G. BARAUNA (edd.), La Chiesa del Vaticano II, Vallecchi, Firenze 1965, p. 332; cfr. C. GRECO, Rivelazione e storia nella prospettiva del concilio Vaticano II, in E. CATTANEO (a cura di), Il concilio vent’anni dopo, AVE, Roma 1985, II, pp. 117128.
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re una teoria astratta e dunque lontana dalla vita e dalla spiritualità cristiana, mentre, in realtà, dovrebbe caratterizzare l’intera esistenza cristiana, risultare determinante nella liturgia, nella devozione e nella moralità cristiana e altrettanto nella teologia, che giustifica la verità cristiana.23 I cristiani, anche grazie alla teologia del concilio, devono purificare e precisare la loro immagine di Dio, il volto di Dio che è quello rivelato (detto e dato) da Gesù Cristo, perché «soltanto il racconto della croce gloriosa di Cristo permette il discorso sulla Trinità come mistero d’amore».24 Questo mistero d’amore viene a noi donato, interiorizzato dallo Spirito Santo (cfr. Rm 5, 5). La Chiesa non crede in una generica divinità (che sconfina quasi sempre in idolatria), né la teologia può presentarsi come un discorso indifferenziato intorno a Dio, ma i cristiani credono in “Dio Padre che rivela sé stesso e il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo hanno accesso al Padre” (DV 2).25 Con questa ripresa s’intende riaffermare che il mistero trinitario rappresenta la condizione di pensabilità dell’intero mistero cristiano («Dio è Amore»: 1Gv, 4, 8 e «solo il dogma della Trinità consente di affermarlo»)26 e, insieme, la condizione della comunicazione e della testimonianza cristiana verso il mondo («Dio è Amore», è comunicazione e comunione, rende i discepoli capaci di comunicazione, di testimonianza). Nel più semplice gesto della fede cristiana – il “segno della croce” – esprimiamo la fede trinitaria: «Nel nome del Padre, del figlio e dello Spirito Santo». Inoltre la ripresa della teologia trinitaria è di grande aiuto per il dialogo con il secolarismo e il mondo dei non credenti: quasi sempre il dio negato da atei, scientisti, agnostici e indifferenti ha ben poco a che fare con il Dio cristiano («si immaginano Dio in modo tale che quella rappresentazione che essi rifiutano in nessun
23 Altrimenti i cristiani rischiano, dice il concilio, «di nascondere anziché di manifestare il genuino volto di Dio» e di avere «una certa responsabilità» rispetto al fenomeno dell’ateismo (GS, n. 19); cfr. K. RAHNER, La Trinità, Queriniana, Brescia 1997; E. JÜNGEL, Dio mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982; G. GRESAHKE, Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000. 24 U. CASALE, Per un ripensamento della teologia trinitaria, «Archivio Teologico Torinese» 7 (2001/2), p. 328. L’autorivelazione di Dio in Gesù fa pensare Dio in modo nuovo e questo modo nuovo si presenta assolutamente trinitario, cosicché ciò che s’intende con ‘Dio’ è il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, cfr. N. CIOLA, Teologia trinitaria. Storia, metodo, prospettive, Dehoniane, Bologna 1983. 25 Si può tranquillamente dire che tutta la Bibbia è una progressiva rivelazione del vero Dio e, conseguentemente una lotta continua contro ogni forma di idolatria – in cui l’uomo costruisce un dio a sua immagine (eidolon: specchio che rinvia a sé), rovesciando l’assunto di tutta la rivelazione biblica: quella di Dio che crea l’uomo a sua immagine, sbagliando così su Dio e sull’uomo, cfr. A. GESCHÈ, Dio per pensare 3/ Dio, San Paolo, 1996. 26 H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 2002, p. 73.
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modo è il Dio del vangelo»: GS, 19), negano un dio immaginato rivale e concorrente dell’uomo, pensano opposizione là dove c’è relazione. «Chi è Dio? Quale Dio?»: il dialogo fra credenti e non credenti deve partire da qui, consapevoli che la domanda di Dio fa l’uomo e la donna ‘persona’, ovvero «capax Dei», con la proposta del “Cortile dei gentili” Benedetto XVI ha inteso allargare e approfondire il dialogo con persone non credenti ma in ricerca della verità.27
Infine la teologia trinitaria può e deve giocare un ruolo essenziale nel campo del dialogo interreligioso: «Il rapporto del cristianesimo con le religioni del mondo è divenuto oggi una necessità interna alla fede»28 e la prima questione da affrontare è precisamente la questione della verità, della concezione teologica. Qui va rimarcata la specificità della rivelazione cristiana: essa supera sia un monoteismo fondamentalista, sia un politeismo indefinito, per approdare al Dio che per mezzo di Cristo e nello Spirito ha detto e dato tutto a tutti gli uomini. «Con l’incarnazione Gesù Cristo si è unito in un certo modo a ogni uomo» (GS 22) e così Dio offre a tutti, anche a quelli che non conoscono il Vangelo di Cristo, ma vivono secondo coscienza e cercano sinceramente Dio, la possibilità della salvezza eterna (LG 16). Dio dona a tutti, attraverso Gesù (il Salvatore universale) nello Spirito Santo (che soffia dove vuole), quella fede senza la quale è impossibile salvarsi e lo fa «attraverso vie che lui solo conosce» (AG 7).29 Tutto questo ha un’importanza capitale, perché l’incontro con Dio/Agape, con il Dio trinitario costituisce il cuore della vita della Chiesa, della vita di ogni cristiano, ne motiva radicalmente il vivere e l’operare, l’amare e lo sperare, il soffrire e il gioire, l’investire il tempo nel servizio degli altri, specialmente i più poveri. E finalmente perché l’incontro amoroso e gioioso con Dio costituisce la nostra stessa eternità (Cfr. Gv 17, 3).
27 «Penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto»: BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia, 22 dicembre 2009; AA. VV, Il cortile dei gentili. Credenti e non credenti di fronte al mondo d’oggi, Donzelli, Roma 2011. 28 J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, p. 391. 29 Cfr. M. CROCIATA (ed.), Teologia delle religioni. Bilanci e prospettive, Milano 2001; J. RATZINGER, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000.
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2.2. La priorità della Parola di Dio
La prospettiva biblica, per la quale la verità cristiana è il mistero trinitario rivelato nella persona di Gesù, comporta la centralità di Gesù “Parola di Dio” incarnata, «via, verità e vita» (Gv, 14, 6) e la priorità della Scrittura in cui questa Parola di Dio è attestata (Parola di Dio nella sua accezione di rivelazione attestata). Vale qui l’invito dell’ultimo capitolo della DV, «oggi il più attuale, nel quale si raccomanda la lettura della sacra Scrittura a tutti i cristiani»,30 l’invito a che tutti i fedeli abbiano «largo accesso alla Scrittura» (n. 22), poiché «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»;31 giacché la Scrittura è per noi «come la regola suprema della fede», in essa, «attraverso la voce dei profeti e degli apostoli, risuona la voce dello Spirito Santo» (n. 21). La consapevolezza che la Parola di Dio sta al centro della vita della Chiesa e del singolo cristiano è data dalla più viva percezione dell’unità tra la Scrittura e la Tradizione: tramite lo Spirito promesso alla Chiesa, la Parola di Dio manifestatasi una volta per tutte, si fa continuamente viva e presente nella Chiesa (cfr. n. 8); è accolta, meditata e pregata dalla fede viva del popolo dei credenti con la guida del magistero e chiede a ciascun cristiano di assumere la propria responsabilità nel meditarla a fondo e nel trasmetterla. In questa linea sono stati compiuti numerosi passi, sia sul piano comunitario, sia su quello dei singoli: queste affermazioni «hanno modificato profondamente, in senso positivo, la vita spirituale e la pratica devozionale della Chiesa; in una parola, la costituzione si è dimostrata spiritualmente fruttuosa».32 Tuttavia altri passi vanno compiuti per far sì che tutti, soprattutto i ministri della parola, «conservino un contatto continuo con le Scritture» (DV 25) e tutti i cristiani giungano a una familiarità orante con la Scrittura. La meditazione prolungata della Bibbia permette di raggiungere il sensus plenior e il messaggio perenne, lì ci si rende conto che non siamo noi a interrogare la Scrittura, è la Scrittura che interroga noi. Così «la parola di Dio compie la sua corsa e viene glorificata, e il tesoro della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempie sempre di più il cuore degli uomini» (ivi).
2.3. Una rinnovata ecclesiologia
«È venuta l’ora in cui la verità circa la Chiesa di Cristo deve essere esplorata, ordinata ed espressa», disse Paolo VI all’inizio del secondo periodo, C. M. MARTINI, La Parola di Dio nella vita della Chiesa, in B. FORTE (ed.), Fedeltà e rinnovamento. Il concilio Vaticano II 40 anni dopo, San Paolo, 2005, p. 76; cfr. R. BURIGANA, La Bibbia nel concilio: la redazione della costituzione ‘Dei Verbum’, Il Mulino, Bologna 1998. 31 La costituzione cita qui GIROLAMO, Comm. in Is., Prologo (PL, 38, 966). 32 W. KASPER, Parola di Dio: conversione e rinnovamento, «Il Regno. Documenti» 51 (2006/1), p. 17. 30
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dunque eredità del concilio è una migliore intelligenza del mistero della Chiesa. Si tratta di assimilare un’ecclesiologia in senso propriamente teologico: Chiesa mistero (nel senso che è da Dio, di Dio, per Dio: Ecclesia de Trinitate), Chiesa comunione (comunione verticale – di Dio con l’uomo – che fonda la comunione orizzontale), Chiesa missione (chiamata a portare la luce di Cristo, splendente sul suo volto, a tutte le genti). Anche designando il soggetto ecclesiale come “popolo di Dio” non si mette in primo piano la struttura sociologica, bensì si vuol indicare il mistero trinitario di Dio come ultimo fondamento della Chiesa.33 Così, l’insistenza sul carattere misterico della Chiesa non deve mettere in ombra il suo carattere visibile e storico: rigettando ogni concezione dualistica, si mette in rilievo l’unità che esiste, nella unica Chiesa, tra l’elemento misterico (invisibile) e l’elemento visibile, ribadendo il carattere di strumento ‘sacramentale’ di questo rispetto a quello (cfr. LG 8). Nel rinnovamento teologico conciliare, dove la Chiesa è costituita in Cristo «comunità di fede, di speranza e di carità», vanno sottolineate alcune dimensione: a) una comunità tutta missionaria e tutta ministeriale, con una particolare rivalutazione della vocazione e della missione dei laici34 e dunque un effettivo superamento di una concezione ‘clericale’ della Chiesa per una collaborazione dei vari ministeri e carismi; b) una comunità che canta le mirabilia Dei in una rinnovata visione della liturgia (esercizio del sacerdozio di Cristo, in cui, per mezzo di segni sensibili, viene resa a Dio una gloria perfetta e viene realizzata la santificazione dell’uomo);35 c) una comunità che, avendo fatto la scelta irreversibile dell’ecumenismo, ricerca continuamente di crescere nell’unità di tutti i cristiani,36 sia sul piano teologico sia su quello pratico, persegue quell’unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa di Cristo attraverso la conversione del cuore, la reciproca conoscenza fraterna e il dialogo a vari livelli; d) infine una comunità davvero universale, ovvero aperta a tutti, una Chiesa nella quale la cattolicità consiste nel coniugare l’unità della fede e la pluralità delle forme e delle culture. 33 «La communio è il fondamento su cui poggia la realtà della Chiesa. Una koinonia che ha la sua fonte nel mistero stesso del Dio trino e si estende a tutti i battezzati, che sono perciò chiamati alla piena unità in Cristo»: così GIOVANNI PAOLO II, La profezia del Concilio, in Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, cit., p. 740; cfr. U. CASALE Comunità, in G. CALABRESE, P. GOYRET (edd.), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010, pp. 307-322. 34 Cfr. EDITORIALE, Vocazione e missione dei laici, «La Civiltà Cattolica» 136 (1985), IV, pp. 3133257. 35 Cfr. A. HAQUIN, La riforme liturgique de Vatican II, «Nouvelle Revue Théologique» 107 (1985), pp. 481-497. 36 Cfr. EDITORIALE, Attualità del Concilio Vaticano II, «La Civiltà Cattolica» 153 (2002) IV, pp. 425438; W. KASPER, Vie dell’unità. Prospettive per l’ecumenismo, Queriniana, Brescia 2006.
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2.4. Il rapporto Chiesa-mondo
Simpatia e profezia, il concilio ha letto la storia dell’umanità degli ultimi secoli con spirito critico ma anche assai simpatetico, ha considerato la miseria e la grandezza dell’uomo e del mondo, si è soffermato ben più sulla faccia felice dell’uomo che non su quella infelice. Il suo atteggiamento è stato molto e volutamente ottimista.37 Riprovati gli errori, sì, perché ciò esige la carità non meno che la verità, ma per le persone solo richiamo, rispetto e amore. Il concilio ha compiuto, nella Gaudium et Spes, un’azione di discernimento dei “segni dei tempi”, compito questo da svolgere anche ora nel mutato contesto culturale mondiale. Da qui ha esposto il pensiero della Chiesa sulla persona umana, sulla sua dignità, sulla coscienza morale e sul peccato, sull’eccellenza della libertà, sul mistero della morte e sull’alta vocazione dell’uomo alla comunione eterna con Dio. A tutti ha proposto il Cristo, l’uomo nuovo, il Figlio di Dio che, incarnandosi, «si è unito in certo modo a ogni uomo», rivelandogli così la sua altissima vocazione (GS 22). I temi concernenti la comunità degli uomini e l’attività umana sono ampiamente sviluppati. Così, anche le sfide del postmoderno – nuove e vecchie forme di ateismo e di indifferenza religiosa, il nichilismo, l’idolatria – vanno affrontate da parte della Chiesa con lo spirito del concilio: «la realizzazione autentica dell’essere umano si compie alla sequela di Gesù, nella tensione per una vita da vivere nel suo amore. E una Chiesa capace di rendere testimonianza credibile di questo impegno risponde in modo efficace anche alle sfide che le vengono dal postmoderno».38 Ora, lo stile e l’efficacia di quell’atteggiamento non sono affatto esauriti, continuano a operare, attraverso la ricca dinamica dei suoi insegnamenti, anche nel contesto cambiato del nuovo millennio.
2.5. L’escatologia cristiana
Una parola chiave per comprendere la dottrina generale del concilio è quella che suona escatologia, ovvero la teologia dell’ultima realtà. Come ebbe a dire Paolo VI, questo tema «è ricorrente in tanti passi dei documenti conciliari, domina tutta la concezione della vita cristiana, della storia, del tempo e del fine ultimo dell’uomo».39 Escatologia cristiana e cristologia, teologia tri-
Cfr. EDITORIALE, Il concilio è stato troppo ottimista?, «La Civiltà Cattolica» 136 (1985) II, pp. 209220. 38 W. KASPER, Teologia e Chiesa 2, Queriniana, Brescia 2001, p. 281. 39 PAOLO VI, Valori umani e vita futura, in Insegnamenti di Paolo VI, LEV, Città del Vaticano 1971, pp. 746-747. 37
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nitaria e soteriologia, etica e culto costituiscono un unicum indivisibile, in quanto l’evento di Cristo è di per sé stesso salvifico e definitivo. E la Chiesa non si comprende – sottolinea il capitolo VII della LG – se non nella sua tensione verso l’éschaton, nel suo carattere fondamentale del già (la vita eterna è già presente) e del non ancora (non ancora compiuta). Nella speranza cristiana il presente e il futuro s’intrecciano.40 Dunque sperare l’eternità, rendere ragione della speranza che è in noi è la missione del cristiano che recepisce il concilio e testimonia che «Dio è il fine ultimo delle creature: cielo per chi lo guadagna, inferno per chi lo perde, giudizio per chi è esaminato, purgatorio per chi è da Lui purificato».41 In sintesi: l’evento del concilio e l’insieme degli insegnamenti dei suoi documenti trasmettono la Chiesa che si radica al punto d’incontro tra il dono di Dio e la risposta dell’uomo, ovvero in Cristo: «L’antica storia del Samaritano è stato il paradigma della spiritualità del concilio»: come Gesù è il samaritano dell’umanità, così il Concilio si è pre-occupato dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.42 In questa prospettiva di fedeltà a Dio e di fedeltà all’uomo, i principali documenti del Vaticano II sono e restano «la bussola per il cammino della Chiesa oggi e domani. Una Chiesa che, rimettendosi in cammino, non ripudia e non rinnega la sua antica tradizione, ma le resta fedele, e tuttavia raschia via incrostazioni e cerca così di rendere la tradizione viva e feconda per il cammino verso il futuro».43 Giovanni Paolo II, nell’annunciare il Giubileo del 2000, vede nel Vaticano II «un evento provvidenziale», «un tono nuovo, sconosciuto prima di allora»; quando poi, dopo il Giubileo, presenta il concilio come «la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel XX secolo»,44 si può intendere questa grazia come quella della profezia biblica.
40 «La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire, ma sono ancora assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi ‘prova’ delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che anche quest’ultimo non è più il puro ‘non-ancora’. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura»: BENEDETTO XVI, Enciclica Spe salvi, n. 7. 41 H. U. VON BALTHASAR, I novissimi nella teologia contemporanea, Queriniana, Brescia, 1966; U. CASALE, Destinazione e compimento dell’uomo e del mondo in Cristo. Escatologia cristiana, «Archivio Teologico Torinese» 19 (2004/1), pp. 68-93. 42 PAOLO VI, Fiducia nell’uomo e dialogo con il mondo (Discorso di chiusura della 4° sessione, 7 dicembre 1965) in Documenti. Il concilio Vaticano II, Dehoniane, Bologna 1967, p. 125. 43 Cfr. W. KASPER, Chiesa Cattolica. Essenza – Realtà – Missione, Queriniana, Brescia 2012. 44 Le citazioni di GIOVANNI PAOLO II vengono da Tertio Millennio Adveniente (10 novembre 1994), nn. 17. 20 e da Novo Millennio Ineunte (6 gennaio 2001), n. 57.
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3. Il Concilio all’alba del 2000: l’Anno della fede
Possiamo concludere questo percorso che giunge fino all’alba del nuovo millennio ribadendo che il Vaticano II non solo non va dimenticato,45 ma resta e deve restare «la bussola con cui orientarsi nel nuovo secolo», la bussola per il cammino della Chiesa verso l’éschaton. Benedetto XVI, a pochi mesi dalla sua elezione a vescovo di Roma, in un discorso alla Curia romana, commemorando la ricorrenza del quarantesimo anniversario della chiusura del concilio, ha ripreso il tema dell’interpretazione del Vaticano II, al fine di poterlo adeguatamente assimilare e vivere. Superata «l’ermeneutica della discontinuità», che fraintende il concilio come una rottura della Tradizione ecclesiale (come fanno gli estremisti da ambo i lati, lacerando così, come visto, la relazione tradizione/progresso), e «l’ermeneutica della continuità» (che dimentica gli elementi di novità che il Vaticano II ha innescato), papa Ratzinger propone «l’ermeneutica della riforma», la riforma e il rinnovamento all’interno della continuità, già presente nelle intenzioni di Giovanni XXIII all’inizio, e poi di Paolo VI alla conclusione dell’assise.46 Precisando che la riforma della Chiesa va intesa come ‘ri-forma’ nel senso originale del termine: ri-attuazione della vera forma, consistente nel procedimento di ablatio, in modo che diventi di nuovo visibile la sua forma nobilis, la forma del corpo di Cristo.47 «Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il concilio “vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazione o travisamenti”, e continua “il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra Cfr. G. MARTELET, Non dimentichiamo il Vaticano II, Elledici, Leumann (To) 2001. «Dove sta in realtà la differenza fra gli interpreti progressisti del concilio, che pongono fine alla tradizione con il concilio e il gruppo lefebvriano che la fa concludere prima del concilio? La differenza non è così fondamentale»: K. KOCH, Il mistero del granello si senape. Fondamenti del pensiero teologico in Benedetto XVI, Lindau, Torino 2012, p. 241. La diatriba tra la continuità e la discontinuità (processo o prodotto, testo o evento) offre lo spazio per una terza via: l’ermeneutica della riforma. L’approccio del Papa sembra in grado di integrare sia la lettura ‘dottrinale’ sia quella ‘storica’ del concilio, si può vedere un’applicazione di questa via studiando il contributo di Ratzinger alla DV, cfr. L. BOEVE, Joseph Ratzinger, Révelation et autorité de Vatican II, in G. ROUTHIER, G. JOBIN, op. cit., pp. 13-50. 47 Dinamismo spiegato con l’analogia dell’artista: «Lo scultore percepisce già nella pietra che gli sta davanti l’immagine pura che aspetta solo di essere liberata, il suo lavoro consiste in una ablatio, nel togliere via ciò che è inautentico. In tal modo attraverso l’ablatio emerge la forma nobilis»: J. RATZINGER, La vita di Dio per gli uomini, Jaca Book, Milano 2007, p. 344. 45 46
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età esige. È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando a esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata”. È chiaro che quest’impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige che si viva questa fede. Il programma di Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque quest’interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la ricezione del concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi». Questa ermeneutica della riforma, che comporta elementi di novità nella continuità, vale anche nel ridefinire il rapporto fra la Chiesa e l’età moderna: «Il Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto e approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica e apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio’, annunziando la morte del Signore fino a che egli venga” (Cfr. LG 8). Chi si era aspettato che con questo ‘sì’ fondamentale all’età moderna tutte le tensioni si dileguassero e “l’apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato: la pericolosa fragilità della natura umana, che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell’uomo.48 Questi pericoli, con le Si pensi a certe configurazioni di ‘mondo’ che sono più che una minaccia per gli uomini: alle prepotenti centrali anonime finanziarie, devote di mammona, la causa di una crisi mondiale con effetti letali nelle nazioni più povere, allargando, anziché ridurre, il fossato tra paesi poveri e paesi ricchi. Si pensi a infami regimi politici che negano i diritti umani (alla violazione della libertà religiosa in diversi paesi islamici), si pensi all’uso immorale della ricerca scientifica, dove l’uomo viene usato come ‘mezzo’, anziché essere il ‘fine’ di ogni ricerca; si pensi semplicemente al fatto che ogni giorno uomini ammazzano altri uomini, spesso senza neanche sapere il perché. All’inizio dell’epoca moderna si affermò l’ateismo al fine di esaltare l’uomo e l’umanesimo, ma è scattata l’eterogenesi dei fini: alla fine della modernità, con la dimenticanza di Dio vanno emergendo le forme più perverse di dis-umanesimo. Non va dimenticato comunque l’insegnamento biblico a questo riguardo: la Chiesa è nel mondo, ma non è del mondo, nel linguaggio biblico-teologico «il mondo ha un duplice carattere: da una 48
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nuove possibilità e con il nuovo potere dell’uomo sulla materia e su sé stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta “un segno di contraddizione” (Lc, 2, 34). Il passo fatto del concilio verso l’età moderna appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il concilio doveva affrontare è paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani a essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede e della loro speranza (cfr. 1Pt 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca e imparare a riconoscere mediante l’interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l’affinità tra loro nell’unica ragione donata da Dio. Quando, nel XIII secolo, il pensiero di Aristotele entrò in contatto con la cristianità medievale, fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto Tommaso d’Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo. La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo,49 certamente conobbe molte fasi, ma col Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a grandi linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento (cfr. GS 36). Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa».50 parte è l’ambiente nel quale si svolge continuamente la lotta contro le rovinose potenze del peccato e della morte; dall’altra è la creazione mai rinnegata da Dio, destinata a essere liberata dal Cristo e perfezionata nell’éscaton. Pertanto la Chiesa si trova in questa situazione col ‘mondo’: distaccata dal mondo per la sua caducità, e tuttavia rivolta a esso per la sua bontà creaturale e per il suo destino escatologico, per tutti e due gli atteggiamenti da parte di Cristo le è affidato un compito: ricondurre tutto a Cristo»: R. SCHNACKENBURG, La Chiesa nel Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1973, p. 108. 49 Sulla storia del rapporto fede/scienza cfr. U. CASALE, Fede e scienza, comunicazione di saperi?, J. RATZINGER-BENEDETTO XVI, Fede e scienza. Un dialogo necessario, Lindau, Torino 2010, pp. 9-95. 50 BENEDETTO XVI, Insegnamenti di Benedetto XVI, LEV, 2005, vol. I, pp. 1018-1032.
Il significato attuale del Vaticano II
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Sempre nell’ambito delle iniziative tese a un approfondimento dei temi conciliari, a una più profonda assimilazione del Vaticano II, Benedetto XVI ha indetto un Anno della Fede (11 ottobre 2012 - 24 novembre 2013), al fine di intensificare la riflessione sulla fede e «di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggior evidenza la gioia e il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo».51 «Ho ritenuto che far iniziare l’Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Vaticano II possa essere un’occasione propizia per comprendere che i testi lasciati in eredità, secondo le parole di Giovanni Paolo II, “non perdono il loro valore né il loro smalto”. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati come testi qualificati del Magistero, all’interno della Tradizione della Chiesa. Sento più che mai il dovere di additare il concilio come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel XX: in esso ci è offerta una bussola per orientarci nel cammino della Chiesa».52 Questa ermeneutica permette il rispetto dei tre ‘poli’ che qui entrano il gioco: l’opera del Vaticano II, i ricettori odierni e la lunga tradizione della Chiesa; la sinergia di essi permette di cogliere l’affondo operato dal concilio: la descrizione dell’identità cristiana nel legame col suo principio (la rivelazione) e nel legame comunicativo (la testimonianza) col mondo. Qui si profila il carattere profetico del concilio, propriamente nel senso neotestamentario del termine, come caratteristica dell’identità del cristiano e della Chiesa.53 Secondo la parola di Gesù – «lo Spirito di Dio guiderà la Chiesa» – il Vaticano II è un evento mosso dallo Spirito del Risorto (una rinnovata Pentecoste, auspica Giovanni XXIII): esso è chiamato a discernere, alla luce della fede, il progetto di Dio sulla sua Chiesa (la sua identità missionaria), le vie che Dio indica da percorrere nel compiere in modo rinnovato la missione evangelizzatrice affidatale dal suo Signore. Un’accorata espressione di Paolo VI coglie questo significato profondo dell’evento ecclesiale che ha segnato e ancora segna la vita dei cristiani e dell’intero mondo: «Il concilio Vaticano II è stato un triplice atto d’amore: verso Dio, verso la Chiesa, verso il mondo».54
BENEDETTO XVI, La porta della fede (11 ottobre 2011), LEV, n. 2. BENEDETTO XVI, La porta della fede, cit., n. 5; sono qui riprese alcune espressioni di GIOVANNI PAOLO II, Novo millennio ineunte, LEV, 2011 (cfr. n. 44). 53 Questo carattere profetico si mostra nel modus procedendi del concilio, fondato sul modus agendi di Cristo e degli apostoli, entra nella composizione del corpus conciliare e diventa una sorta di pedagogia per la ricezione: «la principale scommessa della pastorale oggi è quindi quella di creare degli ‘spazi’ in cui la grazia profetica del Vaticano II possa essere recepita»: C. THEOBALD, La recezione del Vaticano II, cit., p. 32. 54 PAOLO VI, Discorso di apertura del IV periodo, in Insegnamenti di Paolo VI, III, LEV, 1965. 51 52
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 61-74
PROPOSTE
OGNI ERRORE È UN’OCCASIONE DI APPRENDERE DI DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali
SOMMARIO: 1. 1. La personalità critica non è né scettica né dogmatica. - 2. Nascondere gli errori è il più grave peccato intellettuale. - 3. Princìpi epistemologici come princìpi etici. - 4. Atteggiamento autoritario e approccio critico. - 5. Henry J. Perkinson e la “pedagogia dell’errore”. - 6. Come rendere la scuola un luogo meno pauroso per tutti i frequentanti. - 7. La critica è un dovere. - 8. Giovanni Vailati e Federigo Enriques: tante specie di errori possibili sono altrettante occasioni di apprendere. - 9. Maria Montessori: «Da qualunque parte si guardi, troviamo sempre il Signor Errore!». - 10. «Gli errori dividono gli uomini, ma il controllo di essi è un modo di unirli». «Il maestro sa che la comprensione degli errori dei suoi allievi è la cosa più importante della sua arte didattica» (Federigo Enriques)
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«L’insegnante che parte dal principio di essere perfetto e non riconosce i propri errori non è un buon insegnante. Da qualunque parte si guardi, troviamo sempre il Signor Errore!» (Maria Montessori)
1. La personalità critica non è né scettica né dogmatica
e è vero che tutta la vita è risolvere problemi, è anche vero che l’intera ricerca scientifica – in ogni ambito essa venga praticata – consiste in tentativi di soluzione di problemi, tramite la proposta di congetture o ipotesi da sottoporre ai più rigorosi controlli. È certo che nel grande scienziato vive un grande poeta e le creazioni “poetiche” dello scienziato sono appunto le ipotesi, cioè tentativi di soluzione di problemi, cioè ancora sospetti su come sono andate, come stanno o come andranno le cose. E, al pari di ogni sospetto, le ipotesi vanno provate. E sappiamo che tutte le nostre ipotesi, congetture e teorie, per quante conferme abbiano ottenuto, restano smentibili: non abbiamo un criterio di verità che possa permetterci di dichia-
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rare vera, vera in assoluto e per sempre, una teoria. Ogni teoria, anche la meglio consolidata, resta sotto assedio. E la storia della scienza è storia di teorie, talvolta autentici portenti di penetrazione speculativa, che col tempo vennero mostrate false, vale a dire vennero falsificate. La storia del sapere scientifico è un prezioso cimitero di errori – il “tesoro degli errori”, diceva Ortega y Gasset –; è la splendida e tortuosa storia di una disputa ininterrotta: di una disputa messa in atto per trovare errori al più presto possibile, al fine di eliminarli al più presto possibile. De gustibus non disputandum; de scientia disputandum. Non siamo, dunque, in possesso di strumenti o argomenti logici che ci permettano di dimostrare con certezza assoluta la verità di una teoria. Di conseguenza, le teorie scientifiche vengono sottoposte ad un assedio senza tregua, al fine di avanzare verso teorie migliori, più ricche di contenuto informativo, con maggiore potere esplicativo e previsivo. In breve: la via dell’eliminazione degli errori è la via verso teorie migliori. Nella scienza si progredisce, ha affermato Robert Oppenheimer, perché non si sbaglia mai due volte allo stesso modo. Ed “esperienza”, sentenziò Oscar Wilde, è il nome che ciascuno di noi dà ai propri errori. Ora, se è giusto sostenere che il sapere scientifico procede sul sentiero delle congetture e delle confutazioni; se è vero che la via dell’errore è quella della verità; e se è vero che è solo sbagliando che si impara, allora sarà anche vero che una scuola seria, una scuola che abbia come uno dei suoi fini principali la formazione di menti non dogmatiche, dovrà essere una scuola che educhi al riconoscimento e all’eliminazione dell’errore quale via verso più verità. Per dirla in breve: una scuola seria non è la scuola dei dogmi, ma è la scuola del sospetto. La scuola in cui si insegna a sospettare di tutto e di tutti, perché tutto può essere migliorato, perché tutti siamo fallibili. E chi pensa che, così facendo, si generano degli scettici, si sbaglia di grosso. Così facendo, si generano degli uomini critici: e la personalità critica non è né scettica né dogmatica. Se amiamo la verità, dobbiamo essere molto severi con le nostre teorie, dobbiamo scoprirne gli eventuali punti vulnerabili. È la scoperta e l’eliminazione dell’errore, infatti, il motore più potente del progresso della scienza. Ma è anche il motore della crescita della mente umana. Per questo: quando in una comunità scolastica si scopre un errore (di pronuncia, di grammatica, di sintassi, di calcolo, nella preparazione di un esperimento, di traduzione, nell’interpretazione o nel riassunto di un testo, ecc.) questo deve essere visto come un momento privilegiato dell’attività didattica, perché si tratta di un momento altamente formativo. E va valutato il “contributo” sia di chi ha sbagliato, sia di chi ha scoperto l’errore, sia di chi riesce a proporre la giusta soluzione. In tal modo nessuno sarà costretto a bloccare la propria creatività. E nessuno si insuperbirà per aver trovato nell’altro un errore. È questo il gioco della
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scienza. Evitare l’errore, ha scritto Popper, è un ideale meschino – difatti, se ci confrontiamo con un problema difficile è facile che sbaglieremo. Quel che conta è apprendere dai nostri errori.1 Ed è stato Whitehead ad asserire che «il panico dell’errore è la morte del progresso». Sbagliare è umano, ma è ancor più tipicamente umano eliminare l’errore, giacché anche l’animale sbaglia; ma, diversamente dall’uomo, non corregge i suoi errori. E muore, come sono morte innumerevoli specie animali e vegetali, con le proprie «aspettazioni» o «teorie» sbagliate («sbagliate» dato il nuovo ambiente). Ancora Popper: «La differenza principale fra Einstein e un’ameba [...] è che Einstein cerca coscientemente l’eliminazione degli errori. Egli cerca di uccidere le sue teorie: è coscientemente critico delle sue teorie che, per questa ragione, egli cerca di formulare esattamente piuttosto che vagamente. Ma l’ameba non può essere critica riguardo alle sue aspettative o ipotesi; non può essere critica perché non può fronteggiare le sue ipotesi: esse sono parte di sé».2
2. Nascondere gli errori è il più grave peccato intellettuale
Se, dunque, ci confrontiamo con un problema difficile, è facile che sbaglieremo. Razionale, pertanto, non è un uomo che voglia avere ragione, quanto piuttosto un uomo che vuole imparare: imparare dai propri errori e da quelli altrui. Di conseguenza, coprire e nascondere gli errori propri ed altrui è «il più grave peccato intellettuale». Da qui le seguenti considerazioni di Popper esposte in forma di princìpi: «1. Il nostro oggettivo sapere congetturale trascende sempre di gran lunga i limiti di quanto un individuo può padroneggiare. Non esistono perciò autorità. Questo vale anche nell’ambito delle materie specialistiche. 2. È impossibile evitare ogni errore o anche soltanto quelli in sé evitabili. Errori vengono fatti incessantemente da tutti gli scienziati. L’antica idea che si possano evitare gli errori e che si sia pertanto tenuti ad evitarli, dev’essere riveduta: essa stessa è erronea. 3. Naturalmente rimane nostro compito evitare quanto sia possibile gli errori. Ma proprio per evitarli dobbiamo prima di tutto aver chiaro quanto sia difficile evitarli, e che questo non riesce completamente a nessuno. Nemmeno a quegli scienziati creativi che vengono guidati dall’intuizione: anche l’intuizione può indurci in errore. 4. Anche nelle nostre meglio corroborate teorie possono nascondersi errori; ed è compito specifico dello scienziato ricercare tali errori. L’accertaK.R. POPPER, La teoria del pensiero oggettivo, in Conoscenza oggettiva, trad. it., Armando, Roma, 1975, p. 242. 2 K.R. POPPER, La conoscenza congetturale: la mia soluzione del problema dell’induzione, in Conoscenza oggettiva, cit., p. 46. 1
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mento della erroneità di una teoria ben consolidata o di un procedimento pratico molto utilizzato può costituire un’importante scoperta. 5. Dobbiamo perciò mutare la nostra posizione nei confronti degli errori. È da qui che deve iniziare la nostra riforma pratica etica. E questo perché la vecchia posizione dell’etica professionale conduce a passare sotto silenzio i nostri errori, a nasconderli e a dimenticarli il più velocemente possibile. 6. La nuova legge fondamentale è che, per apprendere ad evitare gli errori il più possibile, dobbiamo imparare proprio dai nostri errori. Nascondere gli errori è perciò il più grave peccato intellettuale. 7. Dobbiamo pertanto scrutare senza sosta per vedere dove si nascondono i nostri errori. Quando li troviamo, dobbiamo imprimerceli bene nella memoria; analizzarli sotto ogni aspetto, per capirne le cause. 8. L’atteggiamento di autocritica e l’onestà divengono così un dovere. 9. Poiché dobbiamo imparare dai nostri errori, dobbiamo anche imparare ad accettare, addirittura ad accettare con gratitudine, il fatto che altri richiamino su di essi la nostra attenzione. Quando facciamo notare ad altri i loro errori, dobbiamo sempre ricordare che anche noi ne abbiamo commessi di analoghi. E dobbiamo ricordare che i più grandi scienziati hanno commesso errori. Non voglio certo dire che i nostri errori sono abitualmente scusabili: dobbiamo vigilare senza cedimenti. Ma è inevitabile per gli uomini compiere sempre da capo errori. 10. Dobbiamo aver ben chiaro che noi necessitiamo degli altri per scoprire e correggere gli errori (e loro hanno bisogno di noi); in particolare di uomini cresciuti con altre idee e in una diversa atmosfera. Anche questo porta alla tolleranza. 11. Dobbiamo imparare che l’autocritica è la migliore critica; che però la critica esercitata da altri è una necessità. È quasi proficua quanto l’autocritica. 12. La critica razionale dev’essere sempre specifica: deve fornire specifiche motivazioni del fatto che asserzioni specifiche, specifiche ipotesi sembrano essere false o che argomentazioni specifiche sono prive di validità. La critica razionale dev’essere guidata dall’idea di avvicinamento alla verità oggettiva. Dev’essere in questo senso impersonale».3
3. Princìpi epistemologici come princìpi etici
Si tratta di princìpi, fa presente Popper, che se da una parte mostrano l’estrema attualità della concezione socratica, dall’altra, essendo princìpi di ogni discussione razionale, sono veri e propri princìpi etici. Così in sintesi: K.R. POPPER, Tolleranza e responsabilità intellettuale (1981), in Alla ricerca di un metodo migliore, trad. it., Armando, Roma, 2002, pp. 209-210. 3
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«Il principio della fallibilità: forse io ho torto, e tu torse hai ragione. Ma possiamo anche aver torto entrambi. 2. Il principio della discussione ragionevole: dobbiamo tentare di soppesare nel modo più impersonale possibile le nostre ragioni pro e contro una determinata teoria suscettibile di critica. 3. Il principio dell’avvicinamento alla verità. Attraverso una discussione imparziale ci approssimiamo quasi sempre alla verità; e giungiamo ad una migliore comprensione; anche quando non perveniamo ad un’intesa».4 Ed è notevole, soggiunge Popper, che tutti e tre questi princìpi siano ad un tempo princìpi epistemologici ed etici: «Essi, infatti, implicano tolleranza: se io sono in grado di imparare da te e voglio imparare da te nell’interesse della ricerca della verità, allora devo non solo tollerarti, ma anche riconoscere in te una persona che ha potenzialmente i miei stessi diritti; la potenziale unità e la parità di diritti di tutti gli esseri umani costituiscono un presupposto della nostra disponibilità ad intavolare una discussione razionale. Importante è anche il principio che possiamo imparare molto da una discussione; anche quando essa non porta ad un accordo. Perché la discussione può insegnarci a comprendere alcuni punti deboli della nostra posizione».5
4. Atteggiamento autoritario e approccio critico
L’autoritarismo nella scienza – e nell’insegnamento – era ed è collegato all’idea di dimostrazione inconfutabile, certa, delle teorie. L’approccio critico nella crescita della scienza – e nella pratica dell’insegnamento – è, invece, connesso con l’epistemologia fallibilista, cioè con una concezione della scienza intesa come tessuto di teorie falsificabili, sottoposte alla pressione di un assedio continuo.6 “Esperienza”, come già si è detto, è il nome che ognuno di noi dà ai propri errori. La fisica va avanti, progredisce – ha affermato Robert Oppenheimer – perché non sbaglia mai due volte allo stesso modo. Ed è così che il cammino dell’errore finisce per diventare il cammino della verità. Nella scienza non ci sono fonti autorevoli. Tutte le teorie possono essere criticate, anche se non si può criticare o falsificare l’intero sapere tutto insieme. «Nessuna teoria particolare può mai essere considerata assolutamente certa: ogni teoria può diventare problematica, non importa quanto possa sembrare ora ben corroborata. Nessuna teoria scientifica è sacrosanta o al di là della critica. Que-
Op. cit., p. 207. Ibidem. 6 K.R. POPPER, Problemi, scopi e responsabilità della scienza, in Scienza e filosofia, trad. it., Einaudi, Torino, 1969, p. 138. 4 5
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sto fatto è stato spesso dimenticato, in particolare durante il secolo scorso, quando si era impressionati dalle corroborazioni ripetute e veramente magnifiche di certe teorie meccaniche, che capitava venissero considerate indubitabilmente vere. Il tempestoso sviluppo della fisica dall’inizio del secolo ci ha educato meglio; e siamo ora arrivati a vedere che è compito dello scienziato sottomettere la sua teoria a sempre nuovi controlli, e che nessuna teoria deve essere pronunciata come finale».7 E ancora: «Io penso – scrive Popper – che questo consapevole atteggiamento critico nei confronti delle proprie idee è l’unica differenza realmente importante tra il metodo di Einstein e quello dell’ameba. È questo consapevole atteggiamento critico che rese possibile ad Einstein di rifiutare, subito, centinaia di ipotesi come inadeguate, prima di esaminare più attentamente, l’una o l’altra ipotesi, se essa sembrava in grado di resistere alla critica più seria».8 È del fisico Archibald Wheeler l’idea che «tutto il nostro problema sta nel commettere errori il prima possibile». Ovviamente, per eliminarli il prima possibile. Ed è un problema che trova la sua soluzione in quell’atteggiamento razionale che è l’atteggiamento critico. «I tentativi e gli errori dello scienziato – commenta Popper – consistono in ipotesi. Egli le formula in parole, e spesso per iscritto. E poi cerca di trovare errori in ognuna di queste ipotesi, criticandole e provandole sperimentalmente, aiutato in ciò dai suoi amici scienziati che saranno felici se troveranno in esse degli errori. Se un’ipotesi non resiste a queste critiche e a queste prove, almeno altrettanto bene che le altre ipotesi con essa in competizione, essa verrà eliminata. La situazione è differente con l’uomo primitivo e con l’ameba. Qui non c’è nessun atteggiamento critico, e perciò si dà tanto spesso che la selezione naturale elimini una aspettazione o ipotesi sbagliata eliminando quegli organismi che la sostengono, o credono in essa. E così noi possiamo dire che il metodo critico o razionale consiste nel far morire le nostre ipotesi al nostro posto: questo è un caso di evoluzione esosomatica».9
5. Henry J. Perkinson e la “pedagogia dell’errore”
Didattica dell’errore è il prezioso scritto che Henry J. Perkinson ha dedicato agli aspetti pedagogici del pensiero di Karl Popper.10 «Pronti ad ammetteK.R. POPPER, Il recipiente e il faro: due teorie della conoscenza, in Conoscenza oggettiva, cit., p. 469. K.R. POPPER, Nuvole ed orologi, in Conoscenza oggettiva, cit., p. 322. 9 Op. cit., pp. 322-323. 10 H.J. PERKINSON, Didattica dell’errore. Aspetti pedagogici del pensiero di K. R. Popper, trad. it., Armando, Roma, 1983. L’edizione italiana del saggio di Perkinson è apparsa con una dotta ed istruttiva Introduzione di Massimo Baldini. Tre anni più tardi, e cioè nel 1986, Baldini ha pubblicato uno splendido volume dal titolo: Epistemologia e pedagogia dell’errore (La Scuola Editrice, Brescia). I sei capitoli della prima parte sono una documentata rassegna di riflessioni epi7 8
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re la nostra fallibilità, generalmente manchiamo di coglierne il significato. Sbagli, errori, insufficienze servono solo a darci imbarazzo, ad infastidirci, a farci infuriare. Anelanti come siamo alla perfezione, consideriamo sbagli ed errori come ostacoli, come barriere e come frustrazioni. Ci dimentichiamo chi siamo, che cosa possiamo diventare».11 Dimentichiamo, afferma Perkinson, che «tu, io, noi, tutti siamo fallibili».12 Ma proprio «il riconoscimento della nostra condizione di esseri fallibili ci fa superare la commiserazione per i nostri sbagli ed errori; ci aiuta a capire e ricordare che le nostre teorie e idee, le nostre nozioni e opinioni, le nostre politiche, procedure e pratiche non possono essere perfette, ma tuttavia possono essere migliorate. Negata la perfezione, l’uomo può rendere migliore tutto ciò che ha creato: conoscenza, valori, istituzioni, società».13 E se ciò che impedisce il miglioramento è la presunzione di essere immuni dalla critica con il conseguente autoritarismo che «incoraggia le persone a stare sulla difensiva e a cercare di provare continuamente di avere ragione, rendendole cieche di fronte ai mali, le insufficienze e la falsità delle loro teorie, azioni e istituzioni», scoraggiando in loro l’autocritica e rendendole ostili alle critiche altrui –,14 se questo atteggiamento è, dunque, ciò che impedisce il miglioramento, la via che, invece, porta al miglioramento consiste nell’approccio critico. Difatti, è possibile migliorare le attuali teorie, comportamenti e istituzioni solo non nascondendo quel che in esse non va, scoprendone inadeguatezze ed insufficienze: «Quando si sia scoperta un’insufficienza, la si può eliminare trasformando o perfezionando la teoria originale, l’azione o l’istituzione».15 In breve: «Si migliora mediante stemologiche sull’errore da parte di scienziati (Mach, Einstein, Oppenheimer, Enriques, Murri, Bernard, ecc.), di filosofi della scienza (Popper, Agassi, Bachelard, ecc.) e di storici della scienza (Vailati, Koyré, Taton, Holton, M. D. Grmek). Quattro sono, poi, i capitoli della seconda parte del libro – parte dedicata all’Elogio pedagogico dell’errore. Il primo di questi quattro capitoli riguarda la distinzione tra sbagli ed errori – distinzione strettamente connessa all’altra fondamentale distinzione tra esercizi e problemi. Successivamente Baldini affronta la questione centrale del suo lavoro – la questione relativa al ruolo dell’errore nell’educazione. Negli ultimi due capitoli vengono presentati rispettivamente i contributi di H. J. Perkinson e di M. Montessori. È questo di Massimo Baldini un libro informato, di piacevole lettura, da cui c’è davvero molto da imparare. E sempre di Baldini è la Prefazione all’antologia curata da L. Binanti: Pedagogia, epistemologia e didattica dell’errore – lavoro apparso nel 2001 presso l’Editore Rubbettino, e contenente saggi di: Antiseri, Bachelard, Baldini, Bernard, Beveridge, Cannon, Demmatté, Enriques, Feynman, Mach, Montessori, Mollo, Murri, Oppenheimer, Perkinson, Popper, Postman, Vailati. 11 Op. cit., p. 21. 12 Ibidem. 13 Op. cit., pp. 21-22. 14 Op. cit., p. 28. 15 Op. cit., p. 22.
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la critica».16i. E siccome nessuno è critico perfetto,17 non va dimenticato che «il modo in cui si fa la critica è estremamente importante. Non dev’essere una critica moralistica, né che trincia giudizi. Il critico che porta aiuto non classifica, non giudica, non biasima l’altro essere umano; mette in rilievo le inadeguatezze delle idee o delle pratiche dell’altro, con l’intento di migliorarle, e lo fa senza dogmatismi. Conscio della sua fallibilità in quanto critico, egli si aspetta la contro-critica dell’altro. Il critico cerca il dialogo. La finalità del dialogo è il miglioramento, non la vittoria [...] Attraverso il dialogo noi aiutiamo gli altri a migliorarsi, o gli altri aiutano noi a migliorarci».18
6. Come rendere la scuola un luogo meno pauroso per tutti i frequentanti
Nello sfruttamento pedagogico dell’errore, vale a dire nella pedagogia dell’errore che è educazione al miglioramento, Perkinson scorge più d’una funzione, a cominciare dalla funzione intellettuale. Il razionalista critico sostiene criticamente le proprie affermazioni, e questo significa che egli cerca di passare in rassegna tutte le argomentazioni che possono essere volte contro le proprie affermazioni. «Egli – scrive Perkinson – non difende la propria affermazione originaria, o non cerca argomenti a suo favore, ma piuttosto sottopone a critica le argomentazioni critiche che vengono rivolte ad essa. Il razionalista critico è impegnato in un dialogo critico senza fine, ma non è implicato in una regressione all’infinito dal momento che non cerca di stabilire la verità della sua affermazione originaria. Egli vuol solo vedere come tale sua affermazione regge alla critica».19 Conseguentemente, simile teoria della razionalità induce l’insegnante ad atteggiarsi criticamente nei confronti della propria funzione intellettuale: «L’insegnante tratta quel corpo di conoscenze che è la sua materia come un insieme congetturale, non tenta di giustificarlo, ma cerca di sviluppare nei suoi alunni un atteggiamento critico nei confronti della materia. L’insegnante di scienze non adopera il tempo trascorso in laboratorio per dimostrare o provare le teorie scientifiche, ma per controllare tali teorie mediante esperimenti ideati al fine di confutarle; meglio ancora se tali esperimenti sono ideati dagli studenti stessi. L’insegnante di storia propone un’interpretazione storica e chiede agli studenti di criticarla, di cercare di confutarla. Egli si rende conto che ogni interpretazione storica è una congettura che può essere confutata e sostituita da una interpretazione migliore. E questo è ciò che cerca di insegnare ai suoi studenti».20 Ibidem. Op. cit., p. 25. 18 Ibidem. 19 Op. cit., p. 38. 20 Op. cit., p. 39. 16 17
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E uno strumento, tra i più efficaci, in vista della formazione di studenti dalla mente critica, è quello di dimostrare la fallibilità di ciascuna materia di studio raccontandone la storia. «Sarà – annota Perkinson – una storia dei problemi che sono stati affrontati dagli storici, dagli scienziati, dai geografi e delle varie soluzioni proposte attraverso il tempo. In ogni campo di studio, teorie e idee una volta ritenute certe si sono poi dimostrate false e inadeguate; con una stima prudente, si può dire che una buona metà delle materie insegnate dai docenti durante tutta la storia dell’educazione si sono rivelate false. Istruiti in tal modo, gli studenti capiranno che non v’è motivo di pensare che il nostro attuale sapere rimarrà per sempre immutato. Esso cambierà: sarà perfezionato e modificato; e, come nel passato, i perfezionamenti verranno attraverso la critica del sapere esistente».21 E se è vero che una delle paure più diffuse e radicate, e non solo tra gli studenti, è quella di sbagliare, di cadere in errore, allora è anche vero che «l’insegnante che usa l’approccio critico combatte questa paura spiegando che in tutti noi l’apprendimento avviene mediante la scoperta degli errori, e che è così che si migliora il sapere. Egli fa capire chiaramente agli alunni che non si deve andare alla ricerca di risposte certe, e insiste sul fatto che non esistono autorità intellettuali definitive, e che nessuno può dirci quale sia il vero. Gli alunni, liberati dal bisogno di certezza, potranno così concentrarsi sul miglioramento del sapere attraverso la critica. La diffusa coscienza del fatto che non esistono autorità intellettuali supreme, che è sempre possibile il miglioramento del sapere, e che gli studenti stessi hanno da svolgere una loro funzione ai fini di tale miglioramento, particolarmente del miglioramento del loro sapere, renderà le scuole luoghi meno paurosi per tutti i frequentanti».22
7. La critica è un dovere
Oltre alla funzione intellettuale Perkinson pone in luce altre importanti funzioni caratterizzanti la sua pedagogia dell’errore: la funzione morale tesa a miglioramenti della condotta,23 la funzione emotiva relativa all’eliminazione del timore;24 la funzione estetica i cui esiti consisteranno in un miglioramento della sensibilità.25 E al miglioramento della società, dell’auto-protezione e del lavoro provvedono le discussioni critiche, rispettivamente, della funzio-
Op. cit., p. 40. Op. cit., pp. 41-42. 23 Op. cit., pp. 45-52. 24 Op. cit., pp. 53-57. 25 Op. cit., pp. 57-62. 21 22
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ne sociale,26 della funzione politica27 e della funzione economica28 di una coerente pedagogia dell’errore. Tutti ciò, precisa Perkinson, a difesa di una scuola la cui finalità di fondo sia la formazione di menti critiche. «In primo luogo – egli dice – se insegnanti e scuole vogliono il miglioramento intellettuale, morale ed estetico dei giovani, essi debbono incoraggiare gli studenti ad affrontare criticamente le nostre tradizioni intellettuali, morali ed estetiche. In secondo luogo, se insegnanti e scuole vogliono contribuire al miglioramento delle esistenti condizioni sociali, politiche ed economiche, essi debbono presentare queste condizioni ai giovani e incoraggiarli ad esaminarle criticamente».29 Perkinson tiene a sottolineare che simile approccio critico è ben lungi dal configurarsi come un atteggiamento radicale, utopico e velleitario: «L’approccio critico – egli afferma – è, in fondo, un approccio conservatore, che centra l’attenzione su ciò che è, sulle tradizioni che abbiamo ereditato, sul mondo in cui viviamo, e tenta di migliorarli eliminando quanto risulta inadeguato, ma conservando quanto risulta adeguato. L’approccio critico riflette la fiducia nella dignità e validità delle nostre tradizioni, dei nostri costumi, delle nostre pratiche, dei nostri procedimenti, e il convincimento che, nella maggior parte, tutte queste cose resisteranno alla valutazione critica. Ma tale approccio riflette anche l’interesse critico del razionalista per il miglioramento, e il proponimento di migliorare o abbandonare tutte quelle tradizioni o pratiche che risulteranno inadeguate. Meriterà di essere conservato solo ciò che resisterà alla continua valutazione critica».30 Abbracciando l’approccio critico l’educatore ha un solo interesse: quello di «aiutare i giovani a far avanzare e migliorare il loro retaggio incoraggiandoli ad una considerazione critica della vita».31 In tal modo, prosegue Perkinson, «armati dell’approccio critico, i giovani soccomberanno molto meno facilmente di fronte alla critica retorica, o speciosa, o fantasiosa, o non corretta delle nostre tradizioni morali, estetiche e intellettuali, o delle nostre condizioni sociali, politiche ed economiche. Tuttavia, essi cercheranno sempre la critica, e la prenderanno sul serio affrontandola con la controcritica. Essi vorranno il dialogo. Non essendo né credenti ottusi né nihilisti distruttori, si suppone che essi rinunceranno all’auto-indulgenza e ad affermare di
Op. cit., pp. 63-71. Op. cit., pp. 71-76. 28 Op. cit., pp. 77-83. 29 Op. cit., p. 84. 30 Ibidem. 31 Ibidem. 26 27
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essere nel giusto, riconoscendo invece la loro umana fallibilità e ricordando agli altri che anch’essi sono esseri umani fallibili. Consci del fatto che la perfezione non è dell’uomo, si accontenteranno di un miglioramento graduale, fatto un poco per volta. Aperti al continuo mutamento, insisteranno sulla conservazione di tutte le tradizioni non ancora dimostratesi inadeguate».32 La realtà è che «ogni scoperta di un errore o di una inadeguatezza nelle nostre teorie e nelle nostre istituzioni costituisce un avanzamento. Pertanto, l’unico modo per garantire il progresso consiste nel cercare deliberatamente gli errori contenuti nelle nostre teorie, nel tentare consciamente di trovare delle pecche nelle nostre istituzioni. La critica è un dovere».33
8. Giovanni Vailati e Federigo Enriques: tante specie di errori possibili sono altrettante occasioni di apprendere
«Ogni errore ci indica uno scoglio da evitare mentre non ogni scoperta ci indica una via da seguire» – questo diceva Giovanni Vailati nella Prolusione al corso di Storia della meccanica, letta il 4 dicembre del 1896 all’Università di Torino e dal titolo Sull’importanza delle ricerche relative alla Storia delle scienze.34 Da parte sua, Federigo Enriques, nel pregevole scritto su Il significato della storia del pensiero scientifico, puntava l’attenzione, quarant’anni più tardi, esattamente sullo sfruttamento didattico dell’errore e scriveva che «il maestro sa che la comprensione degli errori dei suoi allievi è la cosa più importante della sua arte didattica».35 E questo nel preciso senso che «degli errori propriamente detti, che talora sono in rapporto con manchevolezze delle singole menti, ma nei casi più caratteristici si presentano come tappe e naturali del pensiero nella ricerca della verità, il maestro sa valutare il significato educativo: sono esperienze didattiche che egli persegue, incoraggiando l’allievo a scoprire da sé la difficoltà che si oppone al retto giudizio, e perciò anche ad errare per imparare a correggersi. Tante specie di errori possibili sono altrettante occasioni di apprendere».36 Così, esemplifica Enriques, «chi osa estrapolare il risultato di osservazioni contenute in un certo ambito, corre il rischio di veder fallire una verità affermata al di là dei suoi limiti... ma senza quel rischio nessuna esplorazione scientifica sarebbe possibile. Ancora chi riflette intorno alle circostanze che possono conferire un certo aspetto ad un Op. cit., pp. 84-85. Op. cit., p. 88. 34 . VAILATI, Sull’importanza delle ricerche relative alla Storia delle scienze, rist. in Scritti, vol. 2: Scritti di scienza, a cura di M. Quaranta, Arnoldo Forni Editore, Bologna, 1987, p. 4. 35 F. ENRIQUES, Il significato della storia del pensiero scientifico, Zanichelli, Bologna, 1936, p. 14. 36 Op. cit., pp. 13-14. 32 33
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ordine di fenomeni, apprende a sue spese che non basta prevedere l’influenza di date cause, ma occorre anche valutare giustamente l’ordine di grandezza dei loro effetti, che può sconvolgere le previsioni apparentemente più ragionevoli. In breve, chi cammina impara che ogni camminare ci espone a cadere, ma perfino la caduta val meglio della sicurezza dello star fermi».37
9. Maria Montessori: «Da qualunque parte si guardi, troviamo sempre il Signor Errore!»
E dopo due epistemologi e storici della scienza come Vailati ed Enriques, un medico-pedagogista come Maria Montessori. Chiara è, innanzi tutto, la Montessori sul compito dell’insegnante: «[...] una delle cose che l’insegnante non deve fare è di interferire per lodare, per punire o correggere errori».38 Comunemente, dice la Montessori, il compito dell’insegnante si svolge lungo due direttive: «dare premi o dare punizioni»; l’insegnante, insomma, sta lì per correggere gli errori degli allievi, «tanto nel campo morale che in quello intellettuale».39 Ebbene, la Montessori è decisamente contraria a questa posizione, per la precisa ragione che «i premi e le punizioni, in quanto estranei al travaglio spontaneo dello sviluppo del bambino, sopprimono e offendono la spontaneità dello spirito».40 Se un bambino, insomma, per andare avanti ha bisogno di premi e punizioni, «significa che non ha l’energia di guidarsi e che egli si rimette alla continua direzione dell’insegnante».41 La realtà è che «i bambini, lasciati liberi, sono assolutamente indifferenti a premi e castighi».42 Per tutto ciò, quella dell’insegnante non è «la parte del carceriere»;43 egli deve, piuttosto, costruire e organizzare un ambiente in grado di aiutare il bambino a crescere, a fare le sue esperienze correggendo da sé i propri errori. Ed ecco cosa la Montessori scrive a proposito dell’errore: «Consideriamo l’errore per se stesso. È necessario ammettere che tutti possiamo sbagliare; è una realtà della vita, cosicché l’ammetterlo è un gran passo verso il progresso. Se dobbiamo percorrere il sentiero della verità e della realtà, dobbiamo ammettere che possiamo tutti sbagliare, altrimenti saremmo tutti perfetti. Così meglio sarà avere verso l’errore un atteggiamento amichevole e considerarlo come un compagno che vive con noi ed ha un suo scopo, perché veramente ne ha Op. cit., p. 14. M. MONTESSORI, La mente del bambino, Garzanti, Milano, 1970, p. 243. 39 Op. cit., p. 244. 40 Ibidem. 41 Ibidem. 42 Ibidem. 43 M. MONTESSORI, Il bambino in famiglia, Garzanti, Milano, 19572, p. 60. 37 38
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uno. Molti errori si correggono spontaneamente nel corso della vita. Il piccolo di un anno comincia a camminare incerto, vacilla, cade, ma alla fine cammina bene. Corregge il suo errore crescendo e facendo la sua esperienza. Noi ci illudiamo di camminare lungo il sentiero della vita verso la perfezione: in realtà facciamo errori sopra errori e non li correggiamo, non li riconosciamo e viviamo nell’illusione, fuori della realtà. L’insegnante che parte dal principio di essere perfetto e non riconosce i propri errori non è un buon insegnante. Da qualunque parte si guardi, troviamo sempre il Signor Errore! Se vogliamo andare verso la perfezione, conviene stare attenti agli sbagli perché la perfezione verrà solo correggendoli e bisogna guardarli alla luce del sole, bisogna ricordarsi che essi esistono come esiste la vita stessa».44
10. «Gli errori dividono gli uomini, ma il controllo di essi è un modo di unirli»
Nessuno è infallibile. Non è infallibile il bambino; non è infallibile il maestro. E quando si rende conto di aver sbagliato, il maestro farà bene a rendere pubblico il suo errore, a mostrare dove e perché ha sbagliato: è questa una via estremamente efficace perché i bambini acquistino un rapporto positivo con l’errore. Si commettono errori nella scienza; si commettono errori nella vita; e si commettono errori nella scuola. Ma come dovrà comportarsi l’insegnante nei confronti degli errori dei suoi allievi? E cosa dovrà, da parte sua, fare l’allievo che sbaglia? Scrive la Montessori: «Qualunque cosa sia fatta nella scuola da insegnanti, da bambini o da altri, ci sono sempre degli errori. Nella vita della scuola deve entrare il principio che non è importante la correzione, ma il controllo individuale dell’errore, che ci dice se abbiamo ragione o no. Io devo sapere se ho lavorato bene o male, e, se prima avevo considerato l’errore con leggerezza, ora esso mi diventa interessante. Nelle comuni scuole un alunno sbaglia senza saperlo, inconsciamente e con indifferenza, perché non è lui che deve correggere i propri errori, ma è l’insegnante che se ne incarica. Quanto è lontano quel procedimento dal campo della libertà! Se io non ho l’abilità di controllare i miei sbagli, devo rivolgermi a qualcuno che può non sapere meglio di me. Quanto è più importante invece capire gli sbagli che si fanno e sapersi controllare. Una delle più grandi conquiste della libertà psichica è il rendersi conto che noi possiamo fare un errore e possiamo riconoscere e controllare l’errore senza aiuto».45 Controllo, dunque, degli errori commessi come autocontrollo: l’allievo, nella scuola della Montessori, è chiamato in prima persona a correggere i 44 45
M. MONTESSORI, La mente del bambino, cit., p. 245. Op. cit., pp. 246-247
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propri errori. L’esito sarà l’acquisizione di una maggiore fiducia nelle proprie possibilità di migliorarsi; i mezzi sono quelli di una scuola attrezzata di materiali pensati e costruiti esattamente allo scopo di indurre l’allievo all’autocontrollo dei suoi errori. Un solo esempio: «Ci sono dei cilindri tutti della stessa altezza, ma di diametro diverso, che s’incastrano in piccoli zoccoli con fori corrispondenti. Il primo esercizio consiste nel riconoscere che essi differiscono uno dall’altro, il secondo nel tenerli con tre dita. Il bimbo incomincia a metterli nel loro zoccolo, ma quando ha finito si accorge che ha fatto uno sbaglio, perché un cilindro è rimasto troppo grande per la piccola cavità che resta da riempire, mentre altri cilindri ballano nell’incastro: così li riguarda e li osserva con maggior attenzione. Si trova davanti al problema di quel cilindro rimasto come evidenza di un errore. Ebbene, è proprio questo che gli accresce l’interesse nell’esercizio e glielo fa ripetere molte volte. Così il materiale citato risponde a due scopi: 1. Acuire i sensi del bambino, 2. Dargli la possibilità di un controllo degli errori».46 Con la continua pratica di esercizi come questo i bambini si abituano a correggersi da soli, cioè ad autocontrollarsi e ad acquisire, come si accennava sopra, fiducia in se stessi, nelle proprie possibilità di proposta e di critica senza dover sistematicamente andare alla ricerca di chi lo tenga per mano sulla strada della vita. E c’è di più, perché è dal controllo reciproco degli errori che scaturisce una forma di fraternità tra uomini sì fallibili, ma tesi sempre a migliorarsi. Ricorda la Montessori: «In una delle nostre scuole una bimba vide un ordine scritto così concepito: “Vai fuori, chiudi la porta, e ritorna”. Lo studiò attentamente e poi si mosse per ubbidire, ma a metà strada tornò indietro e andò dall’insegnante: “Come faccio a tornare indietro se chiudo la porta?”. “Hai ragione – disse l’insegnante – ho sbagliato”, e corresse la scritta; e la bambina, con un sorriso: “Sì, ora posso farlo”. Da questo controllo degli errori sorge una forma di fraternità; gli errori dividono gli uomini, ma il controllo di essi è un modo di unirli. Correggere l’errore, in qualunque campo, può diventare interesse generale. L’errore stesso diventa interessante: diventa un legame, e certamente un mezzo di coesione fra gli esseri umani, ma specialmente fra i bambini e gli adulti. Trovare un piccolo errore nell’adulto non provoca mancanza di rispetto nel bambino o diminuzione di dignità nell’adulto: l’errore diventa una cosa a sé, che può essere sottoposta a controllo. Così i piccoli passi portano a cose grandi».47 E grande – grandissima – cosa è formare menti aperte; solo menti aperte, infatti, costituiscono il più consistente presidio di una società aperta.
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Op. cit., p. 248. Op. cit., p. 249.
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 75-82
EDUCAZIONE ALLA FEDE
CARLO NANNI1 Rettore Magnifico della Pontificia Università Salesiana (Roma) DI
SOMMARIO: 1. In un contesto particolare. - 2. I punti di attacco dell’ educazione. - 3. Educare e evangelizzare i giovani ai tempi della globalizzazione e di internet. - 4. Alcune piste educative particolari. - 5. Conclusione: la rilevanza della testimonianza.
L
1. In un contesto particolare
’educazione alla fede oggi è situata in un contesto caratterizzato da “nuovi scenari” differenti dal passato: uno scenario culturale segnato profondamente dalla secolarizzazione, dal fenomeno migratorio con l’avvento di un inedito e massiccio pluralismo culturale e religioso, dall’impatto dei mezzi di comunicazione sociale, dall’incidenza della crisi economico-finanziaria, dallo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico, dallo scenario politico con le rinnovate contrapposizioni di civiltà, dalle nuove forme di religiosità, ecc. Tali trasformazioni sociali e culturali stanno profondamente modificando la percezione che l’uomo ha di sé e del mondo, generando ripercussioni anche sul suo modo di credere in Dio. I documenti del XIII Sinodo su “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” invitano a immaginare situazioni, luoghi di vita, azioni pastorali che permettano alle persone di uscire dal “deserto interiore” e farne il luogo della conversione e del ritorno a Dio (Benedetto XVI). Salesiano, è professore Ordinario di filosofia dell’educazione e pedagogia della scuola presso la Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana, di cui è al presente Rettore per un secondo triennio. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano Introduzione alla filosofia dell’educazione, Roma, Las, 2007; Emmanuel Mounier. Il pensiero pedagogico, Roma LAS, 2008; Educare cristianamente, Leumann (To), ElleDiCi, 2008; Educarsi per educare, Roma, LAS, 2012. Educare con don Bosco alla vita buona del Vangelo, Leumann (To), LDC, 2012. Ha curato insieme ai Proff. José Manuel Prellezo (Coordinatore) ed il Prof. G. Malizia, il Dizionario di Scienze dell’Educazione, sia nella prima edizione (1997) che nella seconda (Roma, LAS, 2008). Dal 1999 è anche Assistente Ecclesiastico Centrale dell’UCIIM. 1
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Stimolano a riportare la domanda su Dio dentro questo mondo e ridare qualità e motivi alla fede.2 Incoraggiano ad osare sentieri nuovi di fronte alle mutate condizioni dentro le quali la Chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del Vangelo. Ma a sua volta, confessano che c’è bisogno di «un nuovo modello di essere Chiesa»;3 e che diventa importante un serio esame di coscienza della Chiesa. E ciò perché il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione, della catechesi e dell’educazione cristiana dipende anche e forse in tanta parte dalla capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo di Cristo e non come istituzione di potere o azienda o gruppuscolo o setta avulsa dalla vita della gente.4
2. I punti di attacco dell’educazione
Papa Benedetto XVI, nella sua nota “Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione” del 21 gennaio 2008, avverte che «sarebbe una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita».5 Nel suo discorso al quarto Convegno ecclesiale italiano di Verona, la mattina del 19 ottobre 2006, Papa Benedetto XVI ammonì l’assemblea ricordando che «una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali».6
Cfr. Lineamenta, 86, leggibile in (http://www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc synod_doc_20110202_lineamenta-xiii- assembly_it.html). Già al n. 8 invitavano a «intercettare la questione Dio dentro i problemi dell’uomo» ed a confrontarsi con il «ritorno del bisogno religioso e la domanda di spiritualità che a partire dalle giovani generazioni emerge con rinnovato vigore con nuovi movimenti, nuove esperienze religiose, nuove associazioni». E riprendevano al n. 5 l’espressione “cortile dei gentili” per stimolare a «un’attitudine, uno stile audace» nel dialogo, nel confronto, nella vicinanza amicale per i problemi umani di tutti. 3 Lineamenta, n. 9. 4 Ibidem, n. 2; cfr anche Instrumentum Laboris, nn. 37-40, leggibile in www.vatican.va/.../rc_synod_ doc_20120619_instrumentum-xiii_it.ht. 5 BENEDETTO XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008, in “L’Osservatore Romano”, 24 gennaio 2008, p. 8. 6 Incontro con i partecipanti al IV convegno nazionale della chiesa italiana. Discorso del santo padre Benedetto XVI. Fiera di Verona, giovedì 19 ottobre 2006, in http://www.vatican.va/holy_father/ benedict_xvi/speeches/2006/october/documents/hf_ben-xvi_spe_20061019_convegnoverona_it.html. 2
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A loro volta i Vescovi italiani nella Nota pastorale, scritta a seguito del Convegno di Verona,7 al n.17, dichiarano che il Convegno di Verona invita a «rinnovare gli itinerari formativi, per renderli più adatti al tempo presente e significativi per la vita delle persone». Si afferma che si deve essere in grado: 1) «di dare significato alle esperienze quotidiane, interpretando la domanda di senso che alberga nella coscienza di molti»; 2) di aiutare le persone «a leggere la loro esistenza alla luce del Vangelo»; 3) di «accompagnare a vivere la fede come cammino di sequela del Signore Gesù, segnato da una relazione creativa tra la Parola di Dio e la vita di ogni giorno».
3. Educare e evangelizzare i giovani ai tempi della globalizzazione e di internet
Ma oggi c’è da chiedersi come si potrà, allora, educare alla fede – specie i giovani – nell’era della globalizzazione e del relativismo post-moderno, nell’era dello sviluppo prepotente delle neuroscienze, nell’età delle nuove tecnologie digitalizzate dell’informazione e della comunicazione, del mercato globalizzato con le sue intrinseche ambivalenze e ricorrenti crisi strutturali? Educare le nuove generazioni, non è stato mai facile. Oggi, lo è ancora di più: a tal punto da far dire a qualcuno: «Educare si deve ma si può?».8 Molta informazione e molta formazione della nuova generazione avviene, oggi, nei “non luoghi”,9 cioè nel gruppo dei pari, negli incontri, negli happening, in piazza, al muretto, al pub, nella balera, allo stadio, con la navigazione su internet, chattando, con gli SMS, con il “messanger”. Tali “non luoghi”, specie in Occidente – ma in larga misura in tutto il “villaggio globale” del sistema sociale di comunicazione, decisamente mondializzato e globalizzato – diventano i luoghi privilegiati di socializzazione dell’adolescenza e della gioventù; e assurgono ad una vera e propria “scuola parallela” e a una “università della vita” in cui si viene a conoscenza di realtà impensate, si elaborano modi di vedere l’esistenza e si fa pratica di comportamenti innovativi, non ufficiali, anzi non sempre socialmente approvati o moralmente approvabili.10 CEI, «Rigenerati per una speranza viva» (1 Pt 1,3): testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo. Nota pastorale dopo il 4° Convegno ecclesiale nazionale, 29 giugno 2007, n. 12, in “Notiziario della CEI” 41 (2007) 4, 141-172. 8 G. ANGELINI, Educare si deve ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002. 9 Il termine viene da M. AUGé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1982. 10 I riflessi sulla vita religiosa sono da qualcuno prospettati in modo veramente drammatico: A. MATTEO, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010. La tesi del libro è che ci ritroveremmo di fronte a «una generazione che non si pone contro Dio o contro la Chiesa, ma una generazione che sta imparando a vivere senza Dio e senza la Chiesa» (Ivi, 16). 7
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Spesso ciò avviene a scapito della incidenza dei “luoghi” tradizionali della formazione: la famiglia, la scuola, la parrocchia, la vita sociale civilepubblica. Indubbiamente ai “luoghi tradizionali” resta il compito di aiutare a riflettere, sistematizzare, integrare, vedere il senso umano, personale e comunitario di quanto si conosce e si sperimenta nei “non luoghi” e dell’uso-frequentazione stessa di tali opportunità formative. L’istruzione scolastica, così come la catechesi parrocchiale, dovranno lavorare molto e soprattutto sul richiamo a riflettere, sul discernimento critico, sull’evidenziazione degli aspetti trasversali, significativi, umani di quanto fuori scuola e a scuola si apprende, sulla funzione profetica e di sogno del Vangelo. È inderogabile ricercare l’alleanza e non la demonizzazione di tali modi nuovi di apprendere. Occorre farne una risorsa educativa ed evangelizzatrice, non vedervi solo un danno, una cosa cattiva, un inciampo, pur con tutte le dovute attenzioni che richiedono. Vale anche in questa sede il principio salesiano dell’«amare ciò che i giovani amano, per far loro amare il vero, il bello, il giusto, ...il santo». Dalla difficoltà dell’educare e dell’evangelizzare oggi ne scaturisce abbastanza chiaramente l’esigenza di operare in sinergia, o come oggi si dice “in rete”, alleandosi e non contrastandosi, tra scuola, famiglie, oratori, società civile; tra insegnanti, genitori, educatori, animatori, catechisti, ecc..: associando e promuovendo sul campo i giovani migliori come educatori di se stessi e degli altri. Più che “al centro”, i giovani devono essere chiamati in causa, invitati a essere co-protagonisti, con gli altri e con gli educatori; a operare e impegnarsi ad essere corresponsabili della crescita loro e di quella di tutti (e aiutati a esserlo, permettendo loro e creando le condizioni di esserlo).
4. Alcune piste educative particolari
Mi sembra, nonostante tutto, che si possano segnalare almeno le seguenti piste: 1) Educare l’esperienza religiosa anzitutto educando la vita nel suo espandersi interiore ed esteriore
Il lavoro educativo, familiare, ecclesiale e scolastico, anzitutto cercherà di suscitare, sostenere, stimolare, aiutare a consolidare l’intenzionalità soggettiva: vale a dire la capacità di saper rientrare in sé, di saper stare in silenzio, in ascolto delle lievi voci interiori e del dintorno; di farsi trasparente a se stesso, di conoscersi sempre più e meglio, nei propri limiti e nelle proprie possibilità; di sapersi stupire, meravigliarsi e saper apprezzare quanto di
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bene, di grande, di bello c’è in sé ed attorno a sé, a cominciare dallo spettacolo della natura, del cielo e del mare, dell’alba e del tramonto, del sole e della luna e delle stelle, di “sorella acqua” e di “frate fuoco”, in modo da sentirsi “parte di un’immensa vita” (per dirla in termini di sapore francescano); di essere disponibile all’avvento dell’altro, che ci viene incontro, dell’oltre, del non usuale; e dell’aprirsi loro. Forse così ci si potrà preparare anche all’irrompere conturbante e fascinoso dell’Altro divino ed abituarsi alla sua “discreta” presenza. Infatti la categoria dell’alterità (degli altri, del mondo, degli oggetti, delle cose, delle istituzioni, del tempo passato e futuro, di Dio) sembra molto utile per uscire da schemi mentali che tendono a fissare i pensieri delle persone sulla loro soggettività, riducendo gli altri a oggetto (ostile o attraente) e gettando spesso la vita delle persone nel più tremendo isolamento o nella più completa alienazione. 2) “Illuminare la mente per irrobustire il cuore”
In un contesto estremamente pluralistico e differenziato, in cui peraltro viene spesso a galla una certa sfiducia nella razionalità o, per altro verso, si è sottoposti all’impeto tecnologico informatico, non è facile far marciare insieme mente e cuore o superare il sentire e lo sperimentare. Per tali motivi anche l’istruzione religiosa dovrà essere per forza discreta, ragionata, stimolativa, propositiva: magari partendo proprio dal sentire soggettivo o di gruppo e facendo ricorso (o ritorno) all’esperienza diretta o a quella di provenienza mass-mediologica. In ogni caso avrà da essere una informazione essenziale e allusiva all’oltre, al di più, al non usuale. Per questo magari preferirà le forme della narrazione, ma anche quelle del gesto simbolico o della comunicazione gestuale, dell’espressività drammatica e corporea. In tal senso sarà importante educare al linguaggio simbolico, analogico, che meglio di altri aiuta a conoscere e scoprire il “mistero di vita” che si vive, si celebra e si ricerca di attuare in pienezza; e che aiuta a cogliere in esso il mistero della relazione religiosa.
3) Educare (e educarsi!) al senso del limite nel parlare di Dio
Nel “parlare” di Dio e della vita religiosa, del mistero dell’esistenza e di quello del tempo e del cosmo, il senso del limite viene preso e spesso a galla. Ma prima ancora occorrerà averlo come educatori e come educatrici. Infatti l’espressione della nostra esperienza religiosa e la comunicazione di essa è fatta sempre a partire dalla nostra cultura religiosa e tramite il linguaggio religioso quale si è andato codificando culturalmente nel corso della storia e così come ci è stato trasmesso e fatto apprendere nella nostra socializzazione religiosa di appartenenti alla Chiesa cattolica.
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Da questo punto di vista occorrerà essere attenti sia in genere sia in particolare nella catechesi, nella omiletica ed in ogni comunicazione educativa di carattere religioso e confessionale. Infatti spesso il linguaggio religioso ecclesiale non è univoco rispetto a quello civile. In molti casi ha una risonanza solo “gergale” (comprensibile quasi solo al gruppo religioso di riferimento) o comunque non ne è scontata la comprensione a livello di pubblico comune. Va quindi pressoché sempre “spiegato” se non proprio “ritradotto”. 4) Radicazione e apertura “cattolica”
Certamente l’educazione religiosa ecclesiale ha da aiutare al senso della tradizione e all’appartenenza ecclesiale, ma ha pure da aprire alla “cattolicità”, all’universalità propria dell’essere religiosi, in quanto Dio, nella sua trascendenza e transculturalità non “sopporta” di essere ridotto a “proprietà privata” delle religioni storico-sociologiche. E, tuttavia, invita a trovare vie comuni di invocazione a “prendersi cura” dell’uomo e dell’umano, come Dio fa. 5) Tra discrezione ed apertura alla vita secondo lo Spirito
Alla discrezione comunicativa vicina al silenzio invitano in modo particolare quei momenti dell’esistenza in cui si è posti di fronte al mistero tremendo del dolore, della sofferenza, della morte, dell’ingiustizia, della fame, del delitto, della disumanità, del crimine. A questi livelli più che la parola, varrà la buona testimonianza e l’impegno: in ogni caso la discrezione. Perché si fa viva esperienza della non chiara o piena comprensione, della finitudine, dell’indicibilità. Ma è pur vero che è a questi livelli che si può fare esperienza della profondità insondabile del “legame immortale che lega i mortali”, come diceva Boris Pasternak. 6) Imparare a leggere e orientare
Aiutare a elaborare il lutto di una perdita; a riacquistare fiducia in se stessi, negli altri e in Dio; a non scoraggiarsi e a riprendere le vie dell’impegno per la giustizia e per la pace, a non perdere la fede in Dio nei momenti del dolore e della sofferenza, a continuare a sperare in situazioni a prima vista quasi senza alcuno sbocco (“in spem contra spem credere”, come si dice di Abramo, nostro padre nella fede), saper cogliere il mistero che ci circonda, sapersi stupire e meravigliarsi di fronte al mistero di vita in cui si è immersi oltre le forme usuali: sono certamente obiettivi educativi che chiedono di essere tradotti in precise metodologie e strategie di azione educativa. Ne sono presupposto una relazione educativa che sa essere vicina all’educando, sa essere solidale e discreta ai limiti del silenzio, nella continuazione dell’affetto, dell’impegno, con la preghiera aperta e nascosta.
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7) Far spazio allo Spirito
In una relazione educativa profonda arrivano dei momenti in cui si avverte chiaramente che educare è creare lo spazio di libertà per lo Spirito. Allora il primo atto di sapienza educativa sarà far posto all’iniziativa di Dio nella convinzione e nella fede che “chi fa crescere è Dio”. Occorrerà, pertanto, aver il tatto di sapersi ritirare al momento opportuno, saper attendere, rispettare l’azione dello Spirito; e in molte occasioni si dovrà essere più abili a tacere che a parlare, in quanto, in certi momenti, chiaramente si avverte di aver detto abbastanza e di non potere insistere, mentre si fa “luminosamente chiaro” che lo Spirito diventa il vero educatore dello spirito, il “Maestro interiore” di cui parla s. Agostino. Del resto è ben in Lui solo, che, come dice s. Paolo nella Lettera ai Romani al cap. 8, v. 15 e ss., possiamo chiamare Dio “Abbà”, Padre. È Lui che “attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” e che “viene in aiuto alla nostra debolezza” e “intercede a favore nostro”. 8) Far fare pratica di “prossimità” e di crescita insieme
D’altra parte sarà da stimolare ad atteggiamenti di “cittadini consociati” e da “membri delle comunità ecclesiali” (vale a dire, sarà da educare alle “virtù civili ed ecclesiali” della condivisione, della partecipazione, dell’onestà e del rigore civile, della “compromissione”, del “servizio”, della “comunanza” della “partigianeria” per il bene comune e per gli interessi generali della comunità). C’è da “organizzare la speranza”, e - vorrei aggiungere - c’è da incarnare la fede e da praticare la carità. E questo perché la dimensione religiosa possa effettivamente crescere e consolidarsi nella vita personale, non solo per fare del bene, secondo un più o meno generico altruismo o solidarismo. A questo proposito ci sarà bisogno di promuovere adeguate iniziative comunitarie per dare ai bambini, ragazzi, adolescenti, giovani occasioni formativamente definite e alla reale loro portata, di fare esperienze di impegno solidale-caritativo e di crescita umana personale e comunitaria, sia rispetto alle comunità civili ed ecclesiali di riferimento, sia rispetto ai bisogni di sviluppo umano nazionale, internazionale e mondiale. In tal modo sarà possibile coniugare la relazione religiosa con Dio con il senso di “fratellanza religiosa” interumana che si collega alla esperienza religiosa con Dio, Padre di tutti.
9) Educare stimolando e sviluppando vocazioni personali
In pari tempo si avrà da avviare i giovani e le giovani (ma forse già i bambini e le bambine, le ragazze e i ragazzi, gli adolescenti e le adolescenti), secondo le loro peculiari capacità personali, alla partecipazione attiva
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PROPOSTE
Carlo Nanni
(“interessata” soggettivamente, “dovuta” civilmente e/o “volontariamente” assunta), nell’economico, nel civile, nell’amministrazione, nella vita culturale, nella pratica politica destinata alla promozione organica ed istituzionalizzata degli interessi generali e del bene comune comunitario. Qualcosa di simile bisognerà pensarlo per la partecipazione e l’impegno all’interno della propria comunità ecclesiale e dei suoi molteplici ministeri e vocazioni ordinarie e straordinarie. 10) Utilizzare educativamente la vita religiosa comunitaria
Per l’educazione religiosa non sono da trascurare le disponibilità di mezzi insospettati e di strategie formative che vengono dalla tradizione formativa ecclesiale, cristiana o di altra confessione. Per solito, tale contributo educativo è poco considerato dall’educazione pubblica e dalla pedagogia scientifica. Le espressioni della vita di fede (l’ascolto e la proclamazione della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la condivisione della vita ecclesiale, la partecipazione all’impegno caritativo ecclesiale) - quando sono validi ed adeguati al momento vitale dei soggetti in formazione - possono essere vissuti, senza essere snaturati, anche come luoghi e “mezzi educativi”, che stimolano, promuovono e sorreggono la crescita personale in libertà e responsabilità.
5. Conclusione: la rilevanza della testimonianza
L’obiettivo ultimo dell’educazione alla e della fede è l’incontro con Gesù: allo stesso tempo intimo e personale, pubblico e comunitario. Esso si realizza in primo luogo non per via educativa ma grazie all’azione del Suo Spirito. E tuttavia resta vero che – nel mistero dell’incarnazione – esso comporta tutte le mediazioni proprie dell’incontro interpersonale, inclusa la mediazioni di figure e di esistenze che sanno entrare educativamente in questo “misterioso” incontro. Come indicava Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».11 Nella gioia e in un orizzonte di speranza.
11
PAOLO VI, Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), n. 41.
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 83-93
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LASALLIANI AUTORI DI LIBRI DI PREGHIERA - II CESARE TRESPIDI1 Cultore di studi lasalliani DI
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Fr. Renato, Audeny Philibert (1808-1871). - 3. L’opera.
N
1. Premessa
ell’illustrare figure di Fratelli che, seguendo l’esempio del santo Fondatore, hanno composto o compilato testi di pietà, ha meritato la precedenza, violando la sequenza cronologica, Fr. Basilio André (1820-1908), sia per le note peculiari della sua attività apostolica che ha lasciato feconde tracce perpetuandone il ricordo, sia per il considerevole numero di pubblicazioni da lui curate. Se la prima di tali pubblicazioni è del 1893, le opere di cui ora ci occupiamo risalgono al 1834.
2. Fr. Renato, Audeny Philibert (1808-1871)
È perlomeno curioso che la Notice Nécrologique,2 elogiativa del religioso e delle elevate capacità dimostrate nel suo zelante apostolato, non lo indichi come autore dei testi che illustreremo.3 Comunque, oltre al riferimento in nota, la stessa Notice allude al fatto che per molto tempo si è occupato con zelo della «surveillance de l’impression de nos divers ouvrages pieux ou classiques». In particolare cita la composizione del «Mémorial ou Calendrier reliLa prima parte di “Lasalliani autori di libri di preghiera” è stata pubblicata su Rivista Lasalliana (n. 2, 2012, pp. 251-266). Seguiranno una terza e quarta parte. 2 Circulaire n° 357, Paris, 5-IX-1871, pp. 29-35. 3 Nato a Belleville (Rhône) il 29-XI-1808, dopo essere stato vicedirettore del piccolo collegio a Lione, giunse a Torino il 6-X-1831. Qui insegnò a Santa Pelagia, quindi fu direttore della casa di S. Massimiliano-Borgo Dora e successivamente diresse nostre case a Genova e a Nizza, finché ritornò in Francia il 27-VIII-1849. Qui fu impiegato al servizio sia del Regime sia del Segretariato o della Procura. Per seguire il lavoro pertinente le pubblicazioni (e questo ci pare un accenno significativo! [n. d. r.]) risiedeva sovente a Versailles, abitando nell’orfanotrofio di questa città. 1
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gieux». Non manca – ed anche questo ci sembra pertinente – di sottolineare che nutriva particolare ammirazione e preferenza per la liturgia romana: «L’aimer et la suivre, en respecter jusqu’aux moindres usages, était, pour lui, une de ses plus douces jouissances». Già Fr. Felice Cometto (Rivista lasalliana, vol. XXXVI, n° 1, marzo 1962, p. 71) relativamente alla prima edizione del Parrocchiano romano segnalava: «Sul retro della copertina si legge scritto a mano “compilazione del Fr. Renato delle Scuole Cristiane”. Manca ogni altra indicazione. L’opera è indicata nell’elenco delle pubblicazioni dei Fratelli in data 1847».4 Pur prescindendo da un ulteriore indugio sulla vita e sulla testimonianza di Fr. Renato, ci pare interessante ricavare dal profilo necrologico una circostanza storica specifica: nell’orfanotrofio dove risiedeva negli ultimi anni egli ha provveduto (dietro incarico del Direttore che non intendeva compromettere il buon ordine della sua comunità) ad accogliere i profughi da Parigi negli anni (marzo-maggio 1871) della Commune: egli ha saputo «entourer ses hôtes d’attentions pleines de délicatesse et de dévouement» (p. 33). Pochi mesi dopo, il 2 agosto, dopo aver subito dolorose operazioni per una cancrena al piede destro, rendeva l’anima a Dio, tra ammirabili testimonianze di fede. Ma a noi ora importa illustrare l’opera che ci ha lasciato e che – come risulta dalle diverse edizioni – ha goduto di ampia diffusione.
3. L’opera
IL PARROCCHIANO ROMANO, contenente la Messa e il Vespro di tutte le domeniche e feste dell’anno. Coi tipi di Giuseppe Pomba, Torino, 1834, pp. 912.5 Sul frontespizio è riportato il logo dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane: la stella e la scritta «Signum Fidei». A p. 3: la Tavola del levar del sole e lunghezza del giorno per tutto l’anno; nelle due pagine seguenti è stilata la Tavola Temporaria e delle feste mobili, cui segue (pp. 6-20) la distribuzione specifica per mesi. Praticamente ha la funzione di un messalino, con i testi sia in italiano sia in latino (nelle Messe, ad esempio, l’Introito, il Graduale, l’Offertorio ed il
Anche in JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Opere, 5, «Istruzioni e preghiere. Esercizi di pietà. Canti spirituali», edizione italiana a cura di Serafino Barbaglia e Italo Carugno, Città Nuova, 2005, a pag. 305 si cita la relazione sull’argomento preparata dal compianto archivista Fr. Felice Cometto: «Preghiera e canto costituiscono un’unica espressione di fede. Risale a S. Giovanni Battista de La Salle la pubblicazione di libri di preghiere per gli alunni delle scuole cristiane. Tra i fratelli che lo hanno imitato ricordo Fr. Renato Philibert Audeny». 5 Le pagine mancanti – il frontespizio e l’indice – sono state gentilmente inviate in formato digitale dalla Biblioteca Nazionale di Torino. 4
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Communio hanno solo il testo latino, mentre le Epistole ed il Vangelo solo quello italiano). Ad ausilio del cristiano, però, prima del contenuto indicato dal titolo (pp. 21-208), si offre un ampio prontuario devozionale: Preghiere per la mattina e per la sera; Esercizio per la confessione e per la comunione; Preghiere diverse; Orazioni da recitarsi nell’udire la S. Messa; Uffizio della Beata Vergine Maria; La domenica (con le Lodi, il Vespro, la Compieta); l’Ordinario della Messa; il Vespro della settimana. Seguendo l’ordine dell’anno liturgico, a p. 209, col titolo Proprio del tempo inizia la scansione delle domeniche. A p. 575 si avvia il Comune di Santi: di Apostoli ed Evangelisti; di Uno o più martiri; dei Confessori; dei Dottori; delle Vergini e delle Non vergini; degli Angeli; dei Santi Pietro e Paolo; le Messe votive della Beata Vergine Maria; la Dedicazione delle chiese. Da p. 648 a p. 864 sono segnalati 60 riferimenti sia a santi sia ad altre ricorrenze (ad esempio: traslazioni, dedicazioni, concezione e purificazione di Maria Vergine). Le Messe per i defunti, con l’aggiunta dell’Uffizio, comprendono le pp. 865-888. A conclusione, pp. 889-902, si trovano: i Salmi graduali e penitenziali; le Litanie dei Santi; le Indulgenze plenarie perpetue; le Preghiere per la buona morte. La peculiarità di questo testo, che lo differenzia anche da un normale messalino, è la presenza di una Riflessione dopo ogni lettura della S. Messa; esse raggiungono un totale di 278: 144 dopo la prima lettura – Epistola o testo biblico – e 135 dopo il Vangelo. Questo ci pare l’apporto più considerevole: vi si notano, oltre alla chiarezza, pur nella sinteticità dell’esposizione, la funzione propriamente didattica – diremmo proprio di un catechista lasalliano – nel proporre uno spunto di meditazione e nel suggerire un’applicazione pratica. Sono note, ma non recuperate, le edizioni del 1841 (editore Giacinto Marietti) di pp. 468, e quella del 1847, indicata in tale data nell’elenco delle pubblicazioni cui ha fatto riferimento Fr. Felice Cometto nell’articolo citato su Rivista Lasalliana. Comunque non dovrebbero verificarsi varianti – come si desume dalla identicità del titolo – dalla edizione del 1849. PARROCCHIANO ROMANO, contenente le preghiere della mattina e della sera, il modo di sentire la S. Messa, l’Uffizio della B. V. e dei Morti, i sette Salmi Penitenziali, i Salmi ed Inni pei Vespri dei dì festivi, e le Epistole e Vangeli di tutto l’anno, Torino, per Giacinto Marietti, 1849, 464 pp.6
Disponibile nelle Biblioteche: Civica di Massa, Dehoniana dello Studentato Missioni di Bologna. e quella del Seminario Vescovile di Biella che ci ha concesso il prestito. 6
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Le tavole – numeraria e festorum mobilium – vanno dal 1849 al 1876. Probabilmente il testo era distribuito agli allievi durante le funzioni liturgiche. I contenuti sono già dettagliatamente indicati nel titolo, quindi ci limitiamo a sottolineare alcune differenze rispetto all’edizione del 1834. Le Preghiere diverse sono 14 e non più 52. Il Vespro e la Compieta delle domeniche, nonché i Vespri dei giorni festivi, sono isolati dalle liturgie proprie del tempo (qui sono mancanti le pp. 199 – 202). Le sequenze varie e le pratiche devote fanno parte a sé (pp. 239 – 268). Le Epistole e gli Evangeli per tutte le domeniche dell’anno (pp. 269 – 458) non sono corredati da altri contributi liturgici. Da p. 412, quelle comuni dei Santi, mancano delle precise indicazioni dei singoli santi, come invece era nella edizione del 1834. Mancano le riflessioni che caratterizzavano la prima edizione. Nell’Indice sono indicati a parte Inni, Cantici e Sequenze (tutte in latino) per un totale di 66. Il minor numero di pagine e la maggiore “tascabilità” (cm 12 x 8 invece di 15 x 9) ne favoriva la diffusione. Identica all’edizione del 1863 (tranne la data del frontespizio),7 dello stesso editore: Tipografia e Libreria Canfari, Doragrossa 32, Torino,8 e con lo stesso numero di pagine, 464, è quella del 1864 (cm 13 x 8).9 L’illustrazione dell’antiporta rappresenta una Natività con due pastori inginocchiati e due pastorelle in piedi. La Tavola Temporaria e delle Feste mobili va dal 1861 al 1868. Benché l’editore sia diverso, il contenuto, comprese le Preghiere diverse, è uguale a quello dell’edizione Marietti del 1849. L’edizione seguente, senza data [ma del 1866], è una ristampa della precedente, benché muti il nome dell’editore: Tipografia e Libreria Bellardi, Appiotti e Giorsini, già Canfari, via Doragrossa 32, Torino. Praticamente simili alle precedenti, sono un’altra edizione senza data [del 1867?],10 e quella del 1869, che, per l’aggiunta di nuove Messe e del Modo di servire la S. Messa (pp. 473–476), raggiunge le 479 pagine: essa presenta sull’antiporta l’immagine della “Mater Dei”.11 Si torna all’editore Marietti con l’edizione del 1870, di pp. 543. La Tabula Temporaria Festorum Mobilium va dal 1870 al 1897. L’unica variazione notata riguarda l’indice degli Inni, cantici e sequenze per un totale di 67, data l’ag-
Disponibile a Cuneo, Biblioteca Diocesana (Coll. VGN 0392). Il primo accordo contrattuale tra i Fratelli e la Tipografia e Libreria Canfari risale al 1850: nell’Archivio del Centro La Salle (Fald. 4 [Casa Editr. A. e C.], cart. 39, fasc. “Stampatori”) si conserva una quietanza di pagamento con relativa nota di spesa per la «stampa di N° 400 copie di grandi Cartelloni per insegnare a leggere» (18 febbraio 1850), e altre due dell’anno seguente (15 febbraio 1851). 9 Il testo è stato acquistato a Buenos Aires e donato dal dott. Hugo Raingo, nipote di Fr. Gabriele Pomatto. 10 Disponibile a Torino, Biblioteca dell’Istituto Internazionale Don Bosco. 7 8
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giunta di «Quicumque certum quaeritis» di p. 245.12 Questa è di nuovo esclusa nell’edizione del 1884 di pp. 476, della Tipografia Bellardi e Appiotti, Torino, via Garibaldi 32. L’antiporta riporta l’illustrazione con l’invocazione alla “Regina sine labe concepta”. Un rilievo a parte merita l’edizione del 1877, presso i librai Binelli e C., via Doragrossa 18, Torino, di 500 pagine: è segnalata come quarta edizione. La tipografia editrice Bellardi e Appiotti ha prodotto due nuove edizioni identiche nel 1887 e nel 1893, di pp. 476, cui si aggiunge una appendice (pp. XL) contenente: Aspersione dell’acqua alla Messa Parrocchiale o solenne; Prefazio comune e proprii; Messa per i morti; Salmi e Preci; la recita del santo Rosario; Preghiere per la Via Crucis; Vespri per alcune feste particolari. È riportato anche l’indice dei Salmi (67), mentre è di 69 il numero degli Inni, cantici e Sequenze. Dell’editore Giacomo Arneodo, Tipogr. Della Curia Arcivescovile, via T. Tasso, 5, Torino, sono infine: l’ultima edizione del Parrocchiano romano del 1898, pp. 576, che nel titolo riporta l’aggiunta di «una scelta di Laudi sacre» e nell’antiporta presenta l’illustrazione della Sacra Famiglia con invocazione; la Tavola Temporaria delle Feste mobili va dal 1897 al 1923; e un volumetto del 1902, dal titolo Il giovane parrocchiano romano, operetta contenente le principali pratiche di cristiane pietà utili al cristiano, 16a edizione corretta ed accresciuta, pp. 224. L’antiporta presenta un’immagine del Sacro Cuore di Gesù.13 Solo per completezza d’informazione riportiamo ancora due titoli: Piccola guida del giovane parrocchiano romano per Messa, confessione, SS. Comunione e vespri festivi con varie orazioni e aggiunte. Serve anche per adulti, Attilio Cardetti, Torino, 1912, pp. 96.14 Piccola guida del giovane parrocchiano romano, contenente le orazioni quotidiane, la preparazione alla confessione e Comunione, la Santa Messa, il vespro della domenica, litanie della Madonna, inni ecc., Righetti, Acqui, 1919, pp. 32.15
Pressoché parallele alle edizioni finora illustrate, si registrano quelle di un’altra opera, l’EUCOLOGIO. Il termine, di chiaro etimo greco, indicava originariamente un libro di preghiere proprio della chiesa orientale; poi è stato assunto in ambito più generale. La prima edizione reca il titolo EUCOLOGIO, 11 Disponibile a Torino, Biblioteca Convitto della Consolata, collez. CSP.3.18 (mancano le pp. 465-466). 12 Dell’Editore Marietti sono anche l’edizione del 1877 (disponibile a Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale ed a Mesagne (Br), Biblioteca Comunale Ugo Granafei) e quella del 1875 (disponibile a Napoli, Biblioteca Missionari Vincenziani: coll. 51.4.40). 13 I due testi sono disponibili presso la biblioteca del Seminario Vescovile di Biella. 14 Disponibile presso la biblioteca del Seminario Vescovile di Biella. 15 Disponibile presso la biblioteca del Seminario Vescovile di Acqui Terme.
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ossia libro di Chiesa ad uso delle Scuole Cristiane della città e diocesi di Torino, Tipografia di Enrico Mussano, Torino 1844, pp. 862 (formato cm 12x9). Il frontespizio riporta l’illustrazione della Sindone16 (altre illustrazioni alle pp. 57, 80 e 128).17 Ad un attento esame si nota con evidenza che l’opera ripete quasi integralmente il Parrocchiano romano del 1834, di cui conserva anche le riflessioni dopo le letture liturgiche. Pochissime, infatti, sono le parti omesse (le Lodi, 1a, 3a, 6a e 9a della domenica; La Messa degli Angeli; i Salmi graduali), mentre si possono segnalare alcune aggiunte: l’aspersione dell’acqua (p. 111), le Antifone della SS. Vergine (pp. 151-152), il mattutino e i notturni della Natività (pp. 186-196), le Laudi alla Messa di mezzanotte (pp. 198-199), alcune ottave (in quella dell’Epifania c’è anche una Riflessione nuova), alcune aggiunte di nomi di santi e beati (nove), alcune preghiere finali (pp. 847-850). La novità che, però, ci è parsa più significativa, per l’evidente funzione didattica, è l’introduzione di alcune istruzioni premesse agli uffici veri e propri: alla prima domenica d’Avvento (ricavata dai Concili di Maçon e di Tours, p. 166); al mercoledì delle ceneri (p. 250); alla prima domenica di Quaresima (p. 256); alla domenica di Resurrezione (ricavata da S. Agostino e S. Leone, p. 390); all’Ascensione (ricavata da S. Bernardo, p. 413); alla stessa fonte attinge per la solennità della Pentecoste (p. 419), per la domenica della SS. Trinità (p. 425) e per la festa del Corpo di Cristo (p. 430). Probabilmente è del 1847 un EUCOLOGIO, ossia libro di chiesa per fedeli…, citato nella tesi di Fr. Giovannino Verri (I Fratelli delle Scuole Cristiane a Torino e l’influenza da loro esercitata nell’insegnamento e nella legislazione scolastica in Piemonte, Milano, 1937) a p. 68, n. 33.18 In La Sindone e le ostensioni. Ricordi di un pellegrinaggio a Torino, a cura di Laura Borello, edito dal Consiglio Regionale del Piemonte, Torino 2010, a p. 8 è riportato il frontespizio col commento: «La Sindone è sollevata da tre figure femminili che incarnano le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. È un’iconografia piuttosto insolita!». 17 Il testo (mancante delle pagine 45–52 quello custodito in biblioteca) è disponibile presso la biblioteca del Seminario Vescovile di Pavia e presso la Bibliothèque Municipale de Lyon. Ora la Biblioteca provinciale lasalliana del Centro La Salle è stata fornita di una fotocopia totale del testo in cui sono recuperate le pagine mancanti sopra accennate. 18 Purtroppo nel bombardamento di Torino del 13 luglio 1943 è stato distrutto l’archivio della Casa Editrice A&C, per cui è anche probabile che il titolo, così come accennato, sia citato per sentito dire, non esattamente corrispondente. È comunque interessante notare che, tra i pochi documenti salvati, è presente una Scrittura privata del 4 Gennaio 1850, con la quale «si conviene che i Fratelli delle S. C. danno ai Signori Cugini Pomba e Compagnia la privativa per tutto lo Stato Sardo della vendita delle opere da loro stampate, ai prezzi e agli sconti sotto indicati»: e fra le 22 opere elencate, in ultimo compare anche il nostro Eucologio o libro di chiesa al «Prezzo di Pubblicazione» di L. 0,80. La stessa Convenzione sarà riconfermata l’anno seguente (1o Gennaio 1851) con 23 titoli citati, compreso l’Eucologio o libro di chiesa al prezzo di L. 0,60, sia «legato», sia «in foglio piegato» (Archivio C.L.S., Fald. 2 [Casa Editr. A. e C.], cart. 11). 16
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Prima di procedere all’illustrazione delle successive edizioni, riteniamo doveroso un breve indugio sulla figura di un Fratello che assai probabilmente vi recò contributi dal 1847 al 1858: Fr. Massimo di Gesù (Gonella Giacomo - Guarene (Alba) 24/X/1830 – Torino (Convitto S. Primitivo) 23/XII/1861). Ne ha offerto conferma Fr. Norberto Pitanti nel suo Ricordando, manoscritto I, Torino 1931, p. 25: «Ora per sentimento di giustizia, conviene ricordare un nome perdutosi nella memoria dei posteri. Di cheto e nella notte della sua profonda umiltà, come rugiada sul vello di Gedeone, fecondò il campo dell’apostolato educativo, un certo Fr. Massimo torinese, di precoce ingegno e non comune pietà, il quale, chiamato dal mesto esilio alla Patria dei santi in giovanissima età, consummatus in brevi, explevit tempora multa; né si curò punto che alcuno sapesse aver egli compilato un libro liturgico, ben noto, cioè l’EUCOLOGIO. In esso, per tacere di altri pregi, le Riflessioni su le epistole e sui vangeli di ogni domenica sono ricche di un ascetismo perfetto e pratico, da potervi costruire l’argomento di una buona istruzione religiosa».19 Un segnale di tale contributo può essere fornito anche dal titolo dell’edizione del 1858: EUCOLOGIO, ossia Parrocchiano Romano completo ad uso della gioventù e delle case di educazione, Tipogr. Giacinto Marietti, Torino, pp. 896.20 Nell’antiporta è raffigurata la SS. Vergine coronata di stelle; ai suoi piedi il serpente, la luna, la terra; il Bambino tiene una lunga croce terminante in lancia sulla testa del serpente; la scritta sottostante: “Fecit mihi magna qui potens est”. Sotto la figura la scritta: “Comandù in Accad. Ra pinxit / Valperga Sculpt.r Regis Incid.”.21 Il contenuto sostanzialmente ricalca quello dell’edizione precedente, ma, come rivela il titolo stesso, richiama quello della prima edizione del Parrocchiano Romano.22
19 La Notice nécrologique (Relations mortuaires des F.E.C., Tome quatrième, Versailles, 1865, pp. 241-244) celebra prevalentemente le virtù, le capacità intellettuali, l’esemplarità della pietà esibita fino negli ultimi momenti della vita di Fr. Massimo, deceduto a soli trentun anni dopo una febbre che l’ha consumato per ventiquattro giorni. Facendoci perdonare una punta di malizia potremmo credere che all’estensore francese non importasse molto l’attività di collaboratore nella compilazione di un libro di pietà. Una segnalazione dal Registro n. 7 (p. 422) peraltro ci informa che nel 1847, a S. Pelagia, oltre che alla scuola, si dedicava a scrivere, a far carte geografiche ecc. e che nel 1849 – detto piuttosto sbrigativamente – nella scuola normale «faceva ogni cosa». 20 È probabile che i suoi contributi riguardino anche le edizioni dell’Eucologio del 1847 e quelle del Parrocchiano Romano del 1847 e 1849. 21 Il testo è segnalato anche da La Civiltà Cattolica, anno X (1859), serie IV, vol. I, p. 93 (Bibliografia). 22 Ne può essere una spia la collocazione del Proprio dei santi per alcuni luoghi (pp. 801-874), assente nella edizione del 1844.
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Prescindendo dall’illustrazione nei dettagli circa la differenziazione rispetto all’edizione precedente (eliminazioni, variazioni o sostituzioni di alcune parti), ci limitiamo a indicarne alcune: lo spazio maggiore dedicato agli Uffizi – lodi, mattutino, notturno – talora aggiunti anche pertinentemente le figure di rilievo dei santi; l’aggiunta di diversi Inni; le eliminazioni e sostituzioni nel Proprio dei Santi (in due casi c’è anche l’aggiunta della riflessione relativa alle letture); gli Indici precedenti quello conclusivo: dei Salmi (94), dei Cantici (10), degli Inni (117), cui segue l’Indice alfabetico delle feste di Nostro Signore Gesù Cristo, della Beata Vergine Maria e dei Santi, delle domeniche, delle ottave e delle vigilie. Per i caratteri del medesimo editore è disponibile presso la Biblioteca Eugenio Reffo della Congregazione di S. Giuseppe (= Biblioteca del Collegio Artigianelli) un’edizione del 1862, di pp. 894, una ristampa identica alla precedente sia per il titolo sia per i contenuti.23 Sempre dello stesso editore, con il titolo: EUCOLOGIO, ossia Libro di preghiere secondo il rito e la consuetudine della S. Chiesa Romana nei quattro tempi dell’anno, ma presumibilmente identico ai precedenti nel contenuto, è l’edizione del 1869, di pp. 945; l’opera è disponibile presso la Biblioteca Civica Giovanni Canna di Casale Monferrato. A questa edizione succedono quella del 1872, di 945 pp.,24 e quella del 1876, di 955 pp., disponibile presso la Biblioteca Diocesana di Livorno, della quale è stata fatta una riedizione nel 1893, di pp. 992, citata da La Civiltà Cattolica, anno XLIV, vol. VI, fasc. 1027, p. 343. Anche queste tre ultime edizioni portano il titolo: EUCOLOGIO, ossia libro di preghiere secondo il rito e la consuetudine della S. Chiesa Romana nei quattro tempi dell’anno. Il nome Giacinto Marietti ritorna nell’edizione del 1882 e nella nuova edizione del 1884 – entrambi di pp. 933 – che presentano una variante nel titolo: EUCOLOGIO, ossia Parrocchiano romano completo, contenente: l’Uffizio della B. V. e dei morti, l’uffizio della Settimana Santa, le Messe e gli Uffizi propri di tutto l’anno, colla spiegazione delle funzioni particolari alle principali solennità, gli Uffizi e le Messe concesse da Sua Santità Papa Leone XIII e varie altre pratiche di pietà.25 Le edizioni che sono citate, da questa fino a quella del 1884 compresa, non sono presenti nella Biblioteca provinciale lasalliana del Centro La Salle, ma l’archivista, che ha potuto visionare di persona solo le prime due (1862, 1869) e l’ultima (1884), assicura che in queste tre sono presenti le medesime riflessioni del primo Parrocchiano romano del 1834, a cominciare dalla 1a domenica d’Avvento, coi medesimi testi; anche le nuove Messe aggiunte di volta in volta hanno le loro riflessioni. 24 Informazione ricavata da Internet: www.worldcat.org 25 La prima è disponibile presso la Biblioteca del seminario Vescovile di Vicenza; la seconda a Torino presso la Biblioteca del Seminario Arcivescovile e presso la Biblioteca dell’Istituto Internazionale Don Bosco. 23
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Con lo stesso titolo del precedente26 – una ristampa, come indicato nel Nulla osta – è l’edizione del 1890 di pp. 985.27 L’ulteriore e ultima ristampa, sempre con i caratteri della Tipografia Pontificia Pietro Marietti, è del 1896, di pp. 997, in un elegante formato in cartonato nero con impressa la sigla eucaristica, di cm. 15,30 x 10. Si è ritenuto utile fornire tutta la documentazione perché, anche da essa, si può rilevare quale cura applicassero i Fratelli per la formazione spirituale degli alunni. Tenendo presente che allora nelle loro scuole gli allievi assistevano alla S. Messa ogni mattina, ecco offerto loro un messalino completo non solo per le celebrazioni eucaristiche ma anche per gli Uffizi. In questo modo l’utilizzo era esteso anche a tutto il mondo cattolico. Il titolo Eucologio ossia Parrocchiano Romano è stato adottato anche da altri compilatori.28 Nel Novecento e fino ai giorni nostri altri testi analoghi, dai messalini ad altri prontuari per gli esercizi di pietà, si sono moltiplicate produzioni dai profili e contenuti più vari, ma forse giova sottolineare l’importanza di chi ne è stato auctor in un modo tanto pregevole e meritevole. È pur vero che le trasposizioni in volgare dei testi liturgici risalgono anche a date anteriori: dalla fine del sec. XIV in Francia e tra il sec. XV e il XVI in Germania, mentre in Italia le traduzioni del messale (dopo alcune traduzioni delle parti della messa pronunciate a voce alta, si registrano tra fine sec. XIV e metà del sec. XVI) ripresero dopo gli anni ’40 del sec. XVIII, e piuttosto stentatamente; all’origine del movimento si trovano Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) e Scipione de’ Ricci (1741-1809).29 Il Landotti (op. cit., p. 28) segnala che dal 1651 ai numerosi Paroissien «si apre l’era dei messalini in volgare» con edizioni che si susseguono numerose, finché «verso il 1745 le traduzioni della Liturgia erano sempre più l’oggetto di una moda irresistibile».30 Lo stesso autore – che a p. 116 dell’op. cit. ricorda il Parrocchiano romano come «evidente derivazione dei Paroissien francesi» – dedica un excursus al E la variante “Tipografia Pontificia ed Arcivescovile Cav. Pietro Marietti”. Recente acquisto della Biblioteca provinciale lasalliana del Centro La Salle (Torino). 28 Ad esempio, probabilmente del 1868 – desumendo tale data dalla Tavola dei tempi – è un’edizione della Libreria Internazionale Cattolica e Scientifica L. Romano, Torino, di pp. 892, contenente gli Uffizi di tutte le domeniche e delle principali feste dell’anno, in latino e italiano, modellata su quelle da noi illustrate; il testo è elegantemente stampato, ma vi mancano le Riflessioni che, come specificato, rispecchiano lo zelo catechistico lasalliano. 29 Cfr. GIUSEPPE LANDOTTI, Le traduzioni del messale in lingua italiana. Anteriori al movimento liturgico moderno. Studio storico, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma, 1975 e ristampa 2010. 30 Citazione da PROSPER GUÉRANGER, Institutions liturgiques, Paris-Bruxelles-Genève, 1878-1885, III, p. 207. 26 27
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dibattito e alle motivazioni per le traduzioni in volgare. Così nota che «un vero e proprio diritto dei fedeli di partecipare alla liturgia – se si eccettua il Rosmini – non fu tuttavia mai esplicitamente affermato: bisogna attendere i nostri tempi, che lo hanno visto sancito nella Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II (n. 14)».31 L’accenno al Rosmini è ripreso e sviluppato alle pp. 150-153 dell’op. cit., attribuendogli l’insistenza nella denuncia della separazione tra sacerdote celebrante e fedeli, come «prima piaga della Chiesa».32 «Egli lamenta che il popolo cristiano, il quale di sua natura nella liturgia non è solo spettatore, ma in gran parte attore, sia costretto ad una presenza esclusivamente materiale, sordo alla voce della Chiesa, sua madre: modo di presenza non dissimile da quella delle statue e delle colonne del tempio. Situazione angosciosa che egli attribuisce alla divisione del popolo dal clero nel culto pubblico, causata dal fatto che il popolo non comprende più i riti sacri, che sono segni; e in particolare non comprende più il segno della parola». Constata, però, che Rosmini «non ebbe certamente sui suoi contemporanei l’influenza che invece esercitarono sui loro il Muratori ed il Ricci; il suo pensiero liturgico, infatti, non trovò un seguito particolare, forse anche a causa della delicata situazione nella quale venne a trovarsi nei confronti dell’autorità ecclesiastica».33 Il riferimento al Rosmini è ripreso anche nelle «Segnalazioni Lasalliane» in Rivista Lasalliana, Anno LXIII, n° 2, 1996, p. 130, da Fr. Secondino Scaglione, che ne riporta, a proposito delle edizioni dell’Eucologio, l’asserzione: «Io vorrei che tutti i nostri missionari si prefiggessero, d’accordo, di indurre i cristiani cattolici, a cui sono mandati a predicare, a provvedersi d’un simil libro e portarselo seco e leggerlo in chiesa. Ma perché la cosa riesca, gioverà che tutti i missionari suggeriscano lo stesso libro, il quale potrebbe essere
Op. cit., p. 149; basterebbe ricordare che S. Francesco di Sales suggeriva di recitare il santo Rosario durante la Messa. 32 V. ANTONIO ROSMINI, Delle cinque piaghe della Chiesa…, Rovereto, 1863, cap. I, § 15. 33 Anche PIETRO STELLA, SDB, L’Eucaristia nella spiritualità italiana da metà Seicento ai prodromi del movimento liturgico, in AA. VV., Eucaristia, memoriale del Signore e Sacramento permanente, Elle di ci, Torino-Leumann, 1967, pp. 141-182 (= Quaderni di Rivista Liturgica, 7, 1967), allude a Rosmini che «rinnovava il rimpianto dei tempi felici in cui “la forza pratica, la forza di operare, nasceva dal culto”». Quindi precisa che «non fu ovviamente l’unico a intuire la forza che alla fede, languente e sempre più incrinata dell’Europa, avrebbe potuto dare la liturgia posta all’intelligenza di quanti vi partecipano» (pp. 150-151). In nota a p. 151 cita la pubblicazione di un Breviario del fedele, Carmagnola 1816, con le Messe e i Vespri delle principali feste liturgiche, di Matteo Losana, parroco di Lombriasco (Torino). Tale opera è riferita anche dal Landotti a p. 139 dell’op. cit. 31
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l’Eucologio stampato a Torino dai Fratelli delle Scuole Cristiane» (Antonio Rosmini, Epistolario ascetico, III, Roma, 1912, p. 470). Anche i due autori sopra citati alludono alle opere da noi illustrate precedentemente: del Parrocchiano romano già si è detto. Lo Stella, trattando dei primi messalini che «manifestano larghe derivazioni e nessi con la tradizione devozionale italiana», cita, in nota a p. 181, l’edizione dell’Eucologio del 1844, segnalando che «incorpora quasi interamente e con ritocchi il Prato spirituale».34 Il Landotti a p. 143 dell’op. cit. scrive: «Un libro quasi mai citato, che tuttavia ebbe una discreta fortuna nella seconda metà del secolo scorso, è l’Eucologio, pubblicato in varie edizioni e con vari titoli dalla editrice Marietti. Non si tratta di un messalino di tipo classico, quali anche in Italia abbiamo già incontrati, ma di un devozionario, contenente, insieme a preghiere varie, le messe e i vespri festivi e talvolta quotidiani: è, insomma, sullo stile dei Paroissien, assai diffusi in Francia nel sec. XIX, ed è affine ai diversi manuali di preghiere, stampati in questo periodo. Nelle due edizioni (1866-1899), che ho potuto consultare personalmente, traduce l’Ordinario ma non il Canone. Con le sue sette edizioni, quante ho potuto contarne tra il 1844 e il 1899, rappresenta il libro da messa più diffuso nell’epoca». Infine, a p. 193 e segg., nell’Appendice II, Codici e pubblicazioni a stampa, cita le sette edizioni, dal 1844 al 1899. Ci si è concessa quest’ampia – seppur non esauriente – digressione non per limitare la definizione di auctores attribuita ai Fratelli la cui opera è stata illustrata, ma per collocare le loro compilazioni nell’ambito di un vasto rinnovamento nell’intento di rendere più partecipata la liturgia. D’altra parte, il fatto che non risultino i nomi dei Fratelli quali autori risulta un omaggio alla loro umiltà. (Il Landotti, ad esempio, cita la Filotea di don Riva ignorando del tutto quella di Fr. Basilio André). Ma se consideriamo la capillarità della trasmissione delle loro opere nelle scuole cristiane, ne risalta ancor più la funzione formativa e apostolica, data la ricchezza del contenuto nonché l’intervento sapiente di carattere didattico.
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Prato spirituale, ove sono raccolte varie istruzioni ed esercizi di pietà…, Torino [179…].
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PISTAS PARA MEJORAR LA CALIDAD EDUCATIVA EN NUESTROS DÍAS DI JOAN CARLES VÁZQUEZ, FSC Doctor en Ciencias de la Educación
SOMMARIO: 1. Introducción. - 2. - La formación del profesorado. - 3. - El papel del docente en la escuela. - 4. - Educación y valores. - 5. - Familia y educación: Aspectos básicos. - 6. Conclusión.
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1. Introducción
i nos viéramos obligados a elegir un objetivo que orientara las metas y los propósitos de la escuela del siglo XXI, indudablemente el más aceptado entre los profesionales de la educación sería el de que la educación tiene que estar dirigida a ayudar a los alumnos a aprender a aprender. Es difícil encontrar alguna reflexión sobre el futuro de la educación hecha desde cualquier punto de vista (pedagógico, filosófico, profesional, político, etc.) que no afirme que una de las funciones de la educación del futuro debe ser la de promover la capacidad de los alumnos de gestionar sus propios aprendizajes, adoptar una autonomía creciente en su carrera y disponer de herramientas intelectuales y sociales que les permitan un aprendizaje continuo a lo largo de su vida. En una sociedad como la nuestra, cada vez más compleja, hay una insistencia creciente en que la educación debe estar orientada a promover competencias y capacidades y no sólo conocimientos o técnicas. El fundador de los Hermanos de las Escuelas Cristianas, San Juan Bautista De La Salle ya apuntaba en esta dirección cuando exhortaba a los Hermanos a saber valorar adecuadamente las ciencias humanas y la cultura. Los maestros son agentes privilegiados de transmisión de los conocimientos que los alumnos necesitan en la vida para ser competentes. En el empleo debéis juntar, al celo del bien de la Iglesia, el del Estado, cuyos miembros empiezan a ser ya vuestros discípulos, y han de serlo cumplidamente algún día. Procuraréis el bien de la Iglesia haciéndolos sinceros cristianos, dóciles a las verdades de la fe y a las máximas del santo Evangelio.
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Procuraréis el bien del Estado enseñándoles la lectura, escritura y todo cuanto atañe a vuestro ministerio en relación con la vida presente. Mas débese unir la piedad a la formación humana, sin lo cual vuestro trabajo sería de poco provecho (Meditación 160, punto 3).
El Informe Delors (1996, p. 95) con el título La educación encierra un tesoro vaticina que: El siglo XXI, que ofrecerá recursos sin precedentes tanto a la circulación y al almacenamiento de informaciones como a la comunicación, planteará a la educación una doble exigencia que, a primera vista, puede parecer casi contradictoria: la educación deberá transmitir, masiva y eficazmente, un volumen cada vez mayor de conocimientos teóricos y técnicos evolutivos, adaptados a la civilización cognitiva, porque son las bases de las competencias del futuro. Simultáneamente deberá hallar y definir orientaciones que permitan no dejarse sumergir por las corrientes de informaciones más o menos efímeras que invaden los espacios públicos y privados y conservar el rumbo en proyectos de desarrollo individuales y colectivos. En cierto sentido, la educación se ve obligada a proporcionar las cartas náuticas de un mundo complejo y en perpetua agitación y, al mismo tiempo, la brújula para poder navegar por él.
En principio, desde una visión general, se retoman las ideas de Dewey (1989), quien plantea que en el proceso de enseñanza-aprendizaje se ponen en juego cuatro impulsos innatos: 1) el de comunicar, 2) el de construir, 3) el de indagar y 4) el de expresarse. Dichas ideas —que en su momento le granjearon a Dewey enconados enfrentamientos— se diferenciaban de aquella pedagogía enfocada o bien al programa o bien al propio niño donde se esperaba que el niño recibiera, a modo de recipiente que se debe llenar, todo el contenido preestablecido para las asignaturas. A partir del reconocimiento de este aspecto, se da cuenta de que el alumno también lleva consigo intereses y actividades de su hogar y del entorno en que vive, y al maestro le corresponde la tarea de utilizar tal «materia prima» y transformarla a través de actividades didácticas que lo lleven hacia «resultados positivos» (Mayhem y Edwards, 1996) como puente analógico hacia la ciencia que maneja en la asignatura. La educación es una actividad que depende mucho del contexto en que se realice: la excelente formación del profesorado, el papel del docente en la escuela, la transmisión de valores y el papel de la familia .Estas cuatro variables no se prestan ni a la generalización ni a la prescripción, pero tienen un papel decisivo en el proceso de educción integral del alumnado.
2. La formación del profesorado
La formación del profesorado no puede centrarse exclusivamente en cómo se hacen las cosas en el aula, excluyendo el por qué. Al contrario, dicha formación debe fomentar la responsabilidad y la reflexión, así como el desarrollo intelectual en la enseñanza. Dado que la preponderancia del proceso no reside ni en el diseño del contenido ni exclusivamente en el educador o el educando, la consideración
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de un proceso de enseñanza-aprendizaje lleva implícita una fuerte noción de interactividad: el conocimiento que adquiera el docente debe surgir de la experimentación misma y de su capacidad de reflexión. Una escuela sólo funcionará si se concibe como una comunidad solidaria y enriquecedora. Para esto debe apoyarse en el establecimiento de relaciones positivas entre los miembros de la escuela. Esto incluye a los docentes, a los alumnos y a los directivos, del mismo modo que a los padres y al resto del personal que trabaja en el establecimiento. Y, por último, se requiere del apoyo de toda la comunidad externa. La dinámica de este proceso hace que la tarea del educador suponga, en sí misma, la actualización y el aprendizaje permanentes, además de una cierta capacidad de anticipación en la medida en que no propone a los alumnos una formación válida para el pasado, sino para el presente y el futuro inmediato (Antelo, Cabeda y Duschatzky, 2003). Son muchos aún los educadores voluntariosos cuya práctica educativa les lleva a querer ser el educador que ellos hubieran requerido como alumnos. Esa necesidad de actualización, puesta al día y anticipación es hoy mucho más acuciante, en la medida en que se pierde la noción de durabilidad de determinados presupuestos educativos y la sociedad se hace más diversa o heterogénea. Pero estas concepciones en torno del proceso de enseñanza-aprendizaje no surgieron como una genialidad teórica espontánea, sino que son tributarios de la misma realidad. En efecto, se trata de un enfoque propicio para la época actual, con profundos cambios en la realidad social y cultural, en las leyes educativas, en los intereses y las actitudes de los alumnos, en las expectativas de las familias, en los avances de las tecnologías de la información y de la comunicación, en los métodos y las didácticas para el aprendizaje, y no cabe, por tanto, otra alternativa que incorporar y estimular la capacidad de cambio —de respuesta—, mediante la formación permanente de los educadores, para poder responder adecuadamente a las necesidades educativas. La Salle lo expresa muy bien en esta frase: “estáis obligados a saber para enseñar” (Meditación 170,2), y en esta otra que recoge la necesidad de formarse también en todo lo relacionado con la transmisión de la fe cristiana: “Necesitáis conocer, por vuestro ministerio, lo que tenéis que enseñar a los niños que están a vuestro cargo, la buena y sana doctrina de la Iglesia” (Meditación 120, punto 1). La avalancha de cambios es una llamada a repensar planteamientos y referencias que inciden a nivel personal y profesional en el desempeño de la misión educativa. De Natale es claro cuando dice que los educadores, como ciudadanos que son, no quedan al margen de los cambios continuos que afectan a la sociedad. También ellos sienten que deben repensar sus referentes, por ejemplo en relación con los instrumentos y las técnicas educativas (De Natale, 2001).
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En la misma línea, Davini (1995) sostiene que mientras que en el pasado se entendía la educación inicial como un espacio capaz de contener todas las respuestas a las preguntas que de manera continua plantea el ejercicio profesional docente, actualmente el reconocimiento de la complejidad de esta tarea, a la vez que los avances incesantes en los ámbitos de conocimiento científico y pedagógico, destierran cualquier pretensión de clausurar el proceso formativo del docente en esta instancia. La dificultad del trabajo docente, la constante innovación de la ciencia, la actualización de los contenidos de la disciplina y didácticos son las razones generalmente esgrimidas para fundamentar esta necesidad de una formación continua y, en consecuencia, para considerar la capacitación como una dimensión sustantiva de la tarea profesional de la actividad docente. La complejidad de la tarea de enseñar y la naturaleza histórica de la producción y transmisión de los conocimientos renuevan de manera constante las razones y los sentidos de la capacitación docente. Esto significa que no puede obviarse que la capacitación debe garantizar el derecho de aprender a quienes enseñan. Así, la formación docente continua se constituye en una actividad profesional, tal como ocurre en las tradiciones de otras comunidades profesionales (Putnam y Borko, 2000). La capacitación tiene que apuntar a la anticipación de necesidades educativas futuras, por lo cual, y en función de todos los demás sentidos enunciados, la capacitación resulta de un proceso continuo de desarrollo profesional (Diker y Terigi, 1997). Más allá de las dificultades y los obstáculos que seguramente se encontrarán en el proceso de implementación de un plan estratégico de capacitación permanente (la excesiva carga horaria de los docentes, la falta de infraestructura y personal idóneo para brindar los cursos de actualización necesarios, etc.), para que dicho plan sea efectivo, es preciso contemplarlo como un objetivo a largo plazo, e ir perfeccionando los mecanismos y grupos de trabajo puestos al servicio de los docentes a medida que los docentes expongan los problemas más frecuentes que encuentran en el aula, y de este modo poder optimizar la enseñanza de sus respectivas disciplinas.
3. El papel del docente en la escuela
Para dar cuenta del nuevo rol que tiene el docente en la escuela actual, debemos prestar atención al contexto socioeconómico a nivel mundial propio de la globalización, el cual incide sobre los sistemas educativos. Se trata de un contexto complejo en que se observa, por un lado, la difusión a nivel mundial de determinados valores, objetos y conocimientos, acompañados de una cierta democratización ligada al surgimiento de las tecnologías de la información, pero, por el otro, se da una profundización de la
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desigualdad social. En este sentido, uno de los roles fundamentales de la escuela (y, con ella, del maestro) durante el siglo XXI será contribuir a garantizar la equidad. Tal como señala Tedesco (1998), sin embargo, la relación entre equidad y educación no es unidireccional ni estática, y sería pertinente preguntarse ¿cuánta equidad (desde lo social) es necesaria para que haya una educación con calidad? Calidad no sólo implica actualización de los contenidos, el equipamiento, los métodos y las técnicas. Es trabajar atendiendo a los resultados e incrementar las oportunidades de aprendizaje para todos con la permanente intención de ir disminuyendo progresivamente las diferencias y aumentando las perspectivas del «saber pensar», «saber hacer» y «saber ser». Ya en la primera década de este siglo, se percibe una clara necesidad de mejorar la calidad de la educación con equidad para responder oportunamente a las exigencias y demandas de nuestra sociedad. Y ya lo percibía así La Salle, en su época, cuando insistía a los maestros en ser cuidadosos en tratar con justicia y equidad a los alumnos, sin hacer acepción de personas (Guía de las Escuelas, II, 5). Aquellos niños y jóvenes que queden al margen de una educación de calidad serán marginados por la sociedad, al mismo tiempo que una comunidad integrada, democrática, con un desarrollo económico y tecnológico importante, requiere que todos los habitantes compartan los valores, los códigos, los conocimientos y las competencias para acceder en igualdad de condiciones a las oportunidades que se les brindan (Gallart, 1997). La gestión tradicional identifica como ejes exclusivos los fines de la administración y de las políticas tradicionales y pragmáticas, e ignora el valor de las necesidades de los actores escolares y de la comunidad. Así se atenta contra la calidad educativa, ya que los docentes ven reducido su papel profesional al cumplimiento burocrático de un currículum, y la participación de la comunidad educativa se restringe al mantenimiento de espacios ajenos (Gallart, 1997). El papel del docente es tan fundamental que incluso los métodos más fascinantes se hacen inertes cuando falta el maestro capaz de vivificarlos. En la escuela tradicional, el docente gozaba de prestigio y legitimidad social, era el portador de una autoridad delegada, no se cuestionaba el interés del alumno porque la motivación por conocer estaba sostenida desde el imaginario social. Hoy, el docente tiene que construir un lugar valorable para el alumno, debe recurrir a la motivación personal para reemplazar esa motivación social (Diez Hochleitner, 1998). Vemos, entonces, que el docente cuestiona el modo de relación del alumno con el conocimiento, pero acepta como parte de su responsabilidad el motivarlo e incorporar los contenidos que supone básicos y necesarios.
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En el contexto descrito, el docente es el actor principal en el proceso de mejora de la calidad educativa, pues es el nexo entre los procesos de aprendizaje de los alumnos y las modificaciones en la organización institucional. Las reformas educativas se traducen en las escuelas y llegan al aula por medio del docente. En el ejercicio de su papel profesional intervienen factores concomitantes tales como el contexto socioeconómico, el compromiso de la comunidad, la autonomía en la toma de decisiones, la preparación científica y pedagógica, y el entrenamiento en los mismos procesos de aprendizaje que pondrá en práctica, centrada en la reflexión y la investigación sobre su ejercicio profesional. La sociedad del futuro exigirá al docente enfrentarse con situaciones difíciles y complejas: concentración de poblaciones de alto riesgo, diversificación cultural del público escolar, grupos extremadamente heterogéneos, multiplicación de diferentes lugares de conocimiento y de saber, acceso a puestos de forma provisoria, rápida y permanente evolución cultural y social, especialmente en los jóvenes en quienes existe la sensación de que no hay futuro y una pérdida del sentido del saber o el aprender, por lo que en el nivel medio su rol como motivador e impulsor del interés cívico y por los valores democráticos socialmente aceptados adquiere una mayor preponderancia. Davini (1995) señala que la perspectiva formadora que sólo rescata el aprender a enseñar en el aula desconoce las dimensiones sociocultural y ético-política de la actividad docente. Incorporar estas dimensiones supone un cambio en el papel del docente que apunta a la construcción de un proyecto pedagógico alternativo y transformador. Si bien la nueva concepción profesional propone el trabajo interdisciplinario, el trabajo en equipo, la responsabilidad compartida y el dominio de la especialización para enfrentar el volumen de conocimientos propios de finales del siglo XX, las competencias productivas en los tiempos que corren tienen que ver con la capacidad de estar abierto e inmerso en los cambios sociales y culturales que se suceden a gran velocidad para orientar y estimular los aprendizajes de niños y jóvenes; en tanto que las competencias interactivas están destinadas a estimular la capacidad de comunicarse y entenderse con el otro, y ejercer la tolerancia, la convivencia y la cooperación entre diferentes. Desde este enfoque que prioriza la formación cívica y en valores, los contenidos curriculares dejarán de ser fines en sí mismos para transformarse en los medios necesarios para alcanzar esas capacidades que entrenan en el análisis, la inferencia, la prospección, la solución de problemas, el aprendizaje continuo, la adaptación a los cambios, la proposición de valores favorables a la intervención solidaria en la realidad. En síntesis, tanto los requisitos académicos como las condiciones de tra-
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bajo, si bien no son exclusivos, constituyen un aporte en la formación de competencias, ya que favorecen que los educadores se desempeñen profesionalmente con eficacia, equidad y eficiencia en el proceso de planificar y enseñar a aprender, superando situaciones desfavorables o de inseguridad que seguramente se plantearán (Diez Hochleitner, 1998). En definitiva, para el siglo XXI habrá que educar para la consolidación de la persona educada integralmente, para la democracia, para la productividad y para el crecimiento, la integración y la equidad social. Alcanzar el perfil y las competencias profesionales que se desencadenan a partir de cada uno de estos ejes, en un contexto institucional educativo específico para liderar los procesos, constituirá el principal reto en las próximas décadas.
4. Educación y valores
El pragmatismo reinante hoy en día desvía el eje de atención sobre los valores en la vida cotidiana, tanto en su dimensión social como educativa. La dinámica social cotidiana es el producto de las tendencias sociales de la época; en este sentido, los individuos manifiestan interpretaciones valorativas y formas de actuación cultural propias del momento histórico que viven. Por ello, quienes estamos involucrados en la acción educativa debemos considerar siempre el contexto sociohistórico en el cual nos desenvolvemos, atendiendo a los sistemas de valores vigentes en la cultura y en la sociedad (Rorty, 1996). Cuando observamos la realidad que nos rodea, parece que domina un confuso sentido de las valoraciones, un desaliento creciente en los seres humanos, un estado de incredulidad y desconfianza no sólo ante las personas, sino también ante las instituciones. Ya no hay certezas. Ello se debe a los efectos de una crisis valorativa que se ha proyectado sobre todos los ámbitos: social, económico, político, familiar, cultural y escolar. El marco contextual que parece definir la situación socioeconómica está afectado por el desempleo, la marginalidad, el caos financiero, las adicciones, la violencia provocada por la profunda desigualdad entre ricos y pobres, la corrupción, el delito y la inseguridad, entre otros. Sólo los valores materiales son los que parecen generar prestigio social, a lo cual se une el hecho de que se exalta el poder sin importar cómo se logra (Chamorro, 2000). Ante el momento de conmoción e incertidumbre por el cambio que afronta la sociedad actual, el panorama se agrava por el hecho de que el sistema educativo hace énfasis en el componente «informativo», con el consiguiente descuido del aspecto «formativo». Una pena caer en este descuido. La Salle recomienda estar muy atentos a no olvidar lo formativo en la educación, insistiendo en la necesidad de fomentar y formar en valores que conduzcan a no dejarse llevar por “el hurto, las mentiras, las desobediencias, la
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falta de respeto a los padres, las incorrecciones en el trato con los compañeros” (Meditación 201, punto 1) Dentro del sistema educativo actual, y a sabiendas de las grandes dificultades, un proyecto de formación en valores dentro de las escuelas implicaría enseñar a respetar las diferencias y a construir proyectos comunes por más pequeños que parezcan: trabajar en la distinción entre personalidad o sujeto moral e identidad personal o sujeto social. Se plantean, a continuación, las definiciones que brinda Cullen (1997, p. 55): Personalidad o sujeto moral. Tiene que ver con la dignidad y autonomía del ser humano como tal, es decir con los derechos humanos y la sensibilidad y el cuidado del otro como tal. […] se construye a partir de conseguir un juicio moral autónomo, un pensamiento crítico, una capacidad de diálogo argumentativo y la autorregulación de la conducta. Identidad personal o sujeto social. Tiene que ver con los bienes y proyectos individuales y sociales. La situación social en los países occidentales hace que se dificulte enormemente pensar en poder trabajar en estos valores, pero uno de los ejes fundamentales debe basarse en la generación de un espacio ético, de diálogo, de construcción argumentativa. Educar y formar en valores es una apuesta a la educación para la convivencia. Es necesario, en ese sentido, comprender de qué se habla cuando se plantea educar para la convivencia. Enseñar a convivir puede significar integrar a los individuos en un colectivo regido por representaciones compartidas y presentadas como «naturales» u «obvias». O bien puede significar quitar a los individuos ese «plus» de legitimidad y consenso que necesita el poder social, y que naturalmente no estarían los individuos inclinados a dárselo. O bien puede, lisa y llanamente, consistir en «convencer» a los individuos de que tienen que aceptar, como interés de todos, una convivencia que en realidad sólo beneficia a algunos (Cullen, 1997). Enseñar a convivir es enseñar a conocer las reglas de la convivencia, a tener actitudes racionales, cognitivas y críticas frente a estas mismas reglas, a entender que se constituyen históricamente, cómo se transmiten, cómo se pueden cambiar. La educación en valores debe ponerse a la luz de lo expuesto en la caracterización de la propuesta de formación y entablar lazos comunicativos entre una y otra, ubicándose espacial y temporalmente en el contexto social y en el mismo sistema educativo.
5. Familia y educación: Aspectos básicos
La sociología clásica ha pensado a la familia como una institución social subordinada a la esfera política, económica y social dominante (Archenti y
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Aznar, 1988); es decir, para comprender la organización, las funciones y la estructura de la institución familia en un momento histórico determinado, primero debe estudiarse el contexto político, social y económico que la determina. El sociólogo francés Pierre Bourdieu (1990) afirma que existe un mandato social de vivir en familia, que implica la construcción de un orden social basado en agrupamientos de familias. Este mandato concibe a la familia «como una realidad trascendente a sus miembros, un personaje transpersonal dotado de una vida y un espíritu común y una visión particular del mundo» (Bourdieu, 1990, p. 47). También concibe a la familia como «un universo separado en donde sus integrantes están comprometidos a respetar y perpetuar las fronteras» que los separan de los demás, «idealizando su interior como sagrado, sanctum, secreto de puertas cerradas sobre su intimidad, separado del exterior por la barrera simbólica del umbral, lugar secreto, de asuntos privados», privado en tanto propio y oculto a lo público, oculto a la mirada del extraño. Y, finalmente, la familia, según el mismo autor, tiene un significado de morada, de espacio de transmisión de valores y prácticas. La familia, como espacio de lo privado, se opone al interés. Como mandato social, implica una serie de prescripciones normativas relativas a la buena manera de vivir las relaciones domésticas: la familia debe ser el lugar donde están suspendidas las leyes del mundo económico, ya que es el lugar de la confianza y de los regalos (por oposición a mercado e intercambio económico); la familia debe representar la refutación del espíritu de cálculo, del interés económico (que requiere la equivalencia en el intercambio); la familia debe ser el lugar de los afectos y la confianza (Anguiano de Campero, 1997). Por otra parte, Rodríguez Caamaño (2003) postula que la articulación entre la familia y las ideologías hegemónicas se da a través de una relación tensa, donde no siempre se produce una asimilación acrítica de la familia a los mandatos sociales dominantes: de esta manera desplegaremos nuestro análisis insistiendo en la dependencia y, a la vez, resistencia que acompañan, justificadamente, a la familia en su creciente dinamicidad impulsada por las transformaciones que tienen lugar en la sociedad en que se encuentra ubicada. Algunos autores, siguiendo a Max Weber,(1974) postulan que una sociología de la familia debe analizar toda acción significativa en las cuales están involucrados los miembros de la familia, ya sean estructuras, funciones, estatus, actitudes, comportamientos, valores, vínculos afectivos, intimidades, deseos o sentimientos, entre otros aspectos. Todo este complejo entramado lleva a la necesidad de un análisis multidisciplinario de la familia, ya que en su estructura confluyen variables económicas, sociológicas, psicológicas, educativas, políticas, religiosas, etc.
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Es evidente que, en este pensamiento, se le otorga a la familia un papel conformativo al nivel de las subjetividades, un papel similar a aquel que implica a la escuela y, por lo tanto, que señala una relación inherente entre ambas instituciones sociales. Dicha relación puede ser de una especie de simbiosis, o bien puede ser conflictiva. Ahora bien, existen diferentes enfoques para abordar la problemática de las relaciones entre familia y escuela. Según Aguilar Ramos (2003), una planificación de esta índole no debe perder de vista que, durante la niñez y la adolescencia, el joven es el protagonista en todo momento de todas las acciones que se lleven a cabo. Para ello, por un lado, se debe formar a los padres mediante programas cuyo propósito es una toma de conciencia acerca de su papel en el rendimiento de los alumnos. Por el otro, estos enfoques deben ser interactivos y comunitarios, y en ese sentido se trata de aprender a convivir con el prójimo y vivir en comunidad, lo cual requiere construir espacios de interacción que hagan posible la participación y lleven a compromisos que nutran al individuo y al grupo. En definitiva, tanto la escuela como la familia contribuyen a la formación de la personalidad de los jóvenes, y la participación, cooperación y colaboración entre ambas instituciones ayudará a la formación de los alumnos. Se trata de reforzar desde la escuela valores que se suponen ya inculcados en la familia, como el trabajo en equipo, la participación democrática, etc. Para lograr estos cometidos, se requiere de un cambio de visión en la cual la formación relacionada con la familia sea un objetivo permanente; es decir, se trata de formar a los jóvenes, pero también de formar a la familia como factor relevante para el éxito educativo. Formar a las familias, concienciarlas de la importancia de la educación y de la formación a través de la escuela es una de las tareas que el educador no debe descuidar .Así lo entendia ya La Salle cuando escribía en la Guía de las Escuelas (Guía II.6 ,3):
Cuando los padres sacan a sus hijos demasiado pronto de las escuelas para trabajar, no estando suficientemente instruidos, hay que hacerles comprender que les perjudican mucho: y que, por su preferencia en ganar un poco de dinero, les hacen perder ventajas muy considerables. Hay que hacerles ver qué importante es para un artesano saber leer y escribir, por poca Inteligencia que posea. El que sabe leer y escribir es capaz después de todo.
Los estudios llevados a cabo por Monnier y Pourtois (1987) y por Knallinsky (1999) sobre maestros formados en educación familiar llegan a las siguientes conclusiones: - Animan las reuniones de padres basadas en intercambios relativas a la educación global de los niños. Se pronuncian claramente a favor de la síntesis, de la coherencia interna de las diversas intervenciones educativas. - Expresan menos estereotipos negativos sobre la evolución de la familia
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actual y las relaciones padres-hijos. Admiten, así, el respeto a las diferencias y están preparados para introducir sus efectos positivos en la escuela. - Las prácticas que ofrecen se orientan hacia el intercambio basado en la necesidad de establecer un nuevo tipo de relación sobre la igualdad y la confianza recíproca entre la escuela y la familia.
6. Conclusión
A modo de conclusión ofrezco una reflexión sobre la importancia de la evaluación de los cuatro factores descritos en el artículo. El proceso educativo conlleva necesariamente una relación de implicación recíproca entre los conceptos de proceso educativo y actividad evaluativo: por un lado, el proceso educativo implica la existencia de la evaluación, y por otro, sin la evaluación, la efectividad y la eficiencia del proceso educativo estarían rotundamente obstaculizados, y no habría la oportunidad de realizar correcciones y mejoras. En este sentido, la evaluación cualitativa debe contemplarse de forma global y abarcando todos los agentes que intervienen: educadores, alumnado y familias. Todo ello conlleva un profundo conocimiento sobre los condicionamientos y las aptitudes de estos agentes. De eso se trata: de conocer los factores personales de docentes, alumnos y familias, que conducen hacia el éxito en el proceso educativo. No estaría de más que cada uno de los agentes que intervienen en el proceso educativo se hiciese la pregunta que formula La Salle: ¿Habéis comunicado a los que instruís aquellos conocimientos humanos que son de vuestra obligación, como la lectura, la escritura y los demás, con todo el esmero posible? (Meditación 91,3)
Las respuestas a esta pregunta pueden ser una buena pista para ver si avanzamos en la dirección correcta.
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Bibliografía.
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ORIENTAMENTI PER MIGLIORARE LA QUALITÀ EDUCATIVA, OGGI (Sintesi*)
Se fossimo obbligati a scegliere un obiettivo per la scuola del XXI secolo, senza dubbio quello che otterrebbe il più largo consenso tra gli specialisti sarebbe che il fine dell’educazione è quello di aiutare gli studenti nell’apprendimento. È difficile trovare una qualsiasi riflessione sul futuro dell’educazione, sia dal punto di vista filosofico, professionale, politico... che non affermi che una delle funzioni della formazione debba essere quella di promuovere la capacità degli studenti di gestire il proprio apprendimento, prendendo consapevolezza della propria autonomia nella preparazione del futuro, adottando gli strumenti intellettuali e sociali che consentano di imparare per tutta la vita. In una società come la nostra, sempre più complessa, si insiste sempre di più nel sostenere che l’educazione deve promuovere competenze, capacità e non solo conoscenze o tecniche. Il fondatore dei Fratelli delle Scuole Cristiane, San Giovanni Battista De La Salle, puntava in questa direzione quando esorta i suoi discepoli a saper valorizzare adeguatamente le scienze umane e la cultura. Gli insegnanti sono protagonisti privilegiati della trasmissione del sapere dei quali gli studenti hanno bisogno nella vita per diventare competenti. L’educazione è un’attività che dipende dal contesto in cui è maturata: la formazione eccellente degli insegnanti, il loro ruolo all’interno della scuola, la trasmissione dei valori e il ruolo della famiglia. Queste quattro variabili non si prestano a generalizzazioni ma hanno un’importanza determinante nel processo dell’educazione integrale degli alunni. Il compito del docente è fondamentale a tal punto che anche i metodi più affascinanti diventano insignificanti quando manca il maestro capace di vivificarli. Nella scuola tradizionale, il docente godeva di prestigio e legittimazione sociale, era il portatore di un’autorità delegata, non ci si interrogava sull’interesse dell’alunno perché la motivazione della sua conoscenza era sostenuta dall’immaginario di tutta la società. Oggi il docente deve costruire un ambiente adatto per l’alunno, deve ricorrere alla motivazione personale per supplire quella della società. In altre parole, sia i titoli accademici che le condizioni di lavoro, anche se non esclusivamente, costituiscono un valido apporto nella *
Traduzione dalla lingua spagnola di Giovanni Decina.
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formazione delle capacità, perché favoriscono con efficacia, equità ed efficienza, l’autonomia professionale degli educatori nella programmazione e nell’insegnare ad apprendere aiutando a superare situazioni di disagio e di insicurezza. In questo tempo di turbamento e di incertezza per il cambiamento in atto nella società attuale, il panorama si aggrava per il fatto che il sistema educativo pone l’accento sulla componente “informativa” e, conseguentemente, trascura quella “formativa”. Il De La Salle raccomanda di essere molto attenti a non dimenticare la parte formativa nell’educazione ed insiste sulla necessità di suscitare e formare ai valori perché i giovani non si lascino attrarre da “furti, bugie, disobbedienze, mancanze di rispetto verso i genitori, comportamento scorretto verso i compagni” (Meditazione 201, I). In definitiva, tanto la scuola come la famiglia contribuiscono alla formazione della personalità dei giovani, e la partecipazione, la cooperazione e la collaborazione tra le due istituzioni aiuterà la formazione degli alunni. Per la scuola si tratta di rinforzare i valori che si suppone siano già inculcati nella famiglia, come quello del lavoro di gruppo, la partecipazione democratica, ecc. Si tratta anche di aiutare la famiglia a rendersi consapevole che l’educazione e la formazione attraverso la scuola è uno dei compiti che l’educatore non deve eludere. Così pensava il De La Salle quando scriveva nella Guida delle Scuole (Guida II.6 ,3): “Quando i genitori ritirano i figli dalla scuola in tenera età o non ancora sufficientemente istruiti per mandarli a lavorare, bisogna dire che fanno il loro male, perché, per guadagnare poca cosa, fanno loro perdere un bene più importante. Bisogna perciò esporre loro vivamente l’importanza che ha per un artigiano saper leggere o scrivere; per poco senso di iniziativa che egli abbia, se sa leggere e scrivere, può affermarsi in tutto”. Il processo educativo comporta necessariamente un stretto legame tra i concetti di processo educativo e di attività di valutazione: il processo educativo implica la valutazione, altrimenti non sarebbero possibili correzioni o miglioramenti. La valutazione qualitativa deve essere intesa in senso globale, coinvolgendo tutti i soggetti: gli educatori, gli alunni e le famiglie. Sarebbe importante che ognuno di questi agenti della comunità educativa si ponessero la domanda che formula il De La Salle: “Siete stati fedeli ad impartire, con grande cura l’insegnamento delle discipline ai vostri alunni? Li avete esercitati nella lettura, nella scrittura e in tutto il resto con ogni cura possibile?” (Meditazione 91, III). Le risposte a tale domanda sono un buon indizio per valutare se progrediamo nella giusta direzione.
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 109-124
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LE FRÈRE MARIE-VICTORIN KIROUAC, UN ÉDUCATEUR ET UN CHEF DE FILE DI GILLES BEAUDET F.E.C. Docteur en Lettres de l’Université de Paris
SOMMARIO: 1. Éducateur. - 2. Un visionnaire qui s’affirme. - 3. Le truchement des médias écrits. - 4. La vision et la création du Jardin Botanique de Montréal. - 5. Le grand rêve s’accomplit (La Flore laurentienne). - 6. Séjours aux Antilles et la Flore de Cuba. Compléments. Fin tragique et survie. - 7. Conclusion.
L
e Frère Marie-Victorin Kirouac, prénommé Conrad (1885-1944), demeure une figure prééminente de l’histoire sociale, culturelle et scientifique du Canada, et tout spécialement du Québec. Trois mots-clés peuvent synthétiser sa personnalité et son action : éducateur, visionnaire et bâtisseur.
1. Éducateur
Son lieu d’origine est le petit village de Kingsey Falls, dans la région du Centre du Québec. Il naît de Cyrille Kirouac et de Philomène Luneau, le 3 avril 1885. Cinq ou six ans plus tard, Cyrille vient avec sa famille s’installer à Québec pour gérer un commerce de grains. Le jeune Conrad sera inscrit à l’Académie commerciale de Québec dirigée par les Frères des Écoles chrétiennes depuis un demi-siècle. Il a d’heureuses dispositions pour l’étude et excelle en tous les domaines. Entouré de professeurs d’expérience et de prestige, il s’inspire de ses maîtres pour le choix de son avenir. En 1901, à l’âge de 16 ans, il s’intègre à la Congrégation des Frères des Écoles chrétiennes pour devenir religieux enseignant. Sa première année d’enseignement1 en 1903 s’exercera dans une localité semi-rurale, à St-Jérôme, à 40 km environ au nord de Montréal. Un imprévu Pour rappeler son parcours de 1903 à 1920 nous suivons les pages de son journal qui a été publié par GILLES BEAUDET et LUCIE JASMIN, Mon miroir, Fides, Montréal, 2004. 1
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va orienter le destin particulier du jeune Frère Marie-Victorin. L’examen médical révèle chez lui des symptômes de la tuberculose qui sévissait dans la population. Il sera retiré du travail scolaire, chargé de la bibliothèque. Il consacre beaucoup de temps à enrichir ses lectures. Il est aussi contraint de passer une bonne partie de ses journées à vivre au grand air. Il commence donc à s’intéresser à l’exploration botanique aux environs du collège, au printemps de 1904. Il se munit de l’ouvrage alors le plus répandu sur la Flore canadienne,2 oeuvre de l’abbé Léon Provancher, et s’engage dans une investigation la plus systématique possible. Dans son journal personnel commencé en 1903, il note ses découvertes progressives et il apprend à collectionner les spécimens recueillis. En septembre 1904 il est nommé professeur d’anglais à l’école St-Léon de Westmount. Ce séjour ne dure que trois mois. Pour offrir au Frère Marie-Victorin une ambiance plus favorable à sa fragile santé, dès décembre, il est muté à Longueuil, où il sera aussi professeur d’anglais et de sciences. C’est le début d’un séjour de 40 ans, et le milieu qu’il lui fallait pour mettre pleinement à profit ses talents et ses projets. En 1906, le Directeur du Collège de Longueuil reçoit une lettre laudative de la part de l’abbé Victor-Alphonse Huard3 au sujet d’un Musée d’Histoire naturelle installé dans cette institution: «Votre institut s’est distingué en d’autres pays dans le champ des sciences. Il est aussi l’un de ceux – trop rares encore- qui, chez nous, ont saisi l’importance de l’histoire naturelle».4 Frère Victorin commande des revues scientifiques telles Cosmos, Scientific American, et quelques autres pour se tenir à la page des développements techniques. Il acquiert une Flore illustrée.5 Le jeune Frère chercheur va commencer à étendre ses contacts qui seront variés et grandissants. L’abbé V.-A. Huard d’abord, puis un botaniste français, Frère Héribaud-Joseph, Dans la personne du frère Rolland-Germain, récemment arrivé de France au collège de Longueuil, il trouve un collaborateur bien versé dans la nomenclature des plantes. Frère Rolland sera son coopérateur fidèle jusqu’à la mort du F. Marie-Victorin.
Flore canadienne ou Description de toutes les plantes des forêts, champs, jardins et eaux du Canada donnant le nom botanique de chacune […] Ornée de plus de 400 gravures sur bois, par l’abbé Léon Provancher, curé de Portneuf, vol.1, Québec, Joseph Darveau, imprimeuréditeur, 1862. 3 L’abbé Victor-Alphonse Huard (1853-1929) est nommé en 1904, conservateur du Musée de l’Instruction publique de la province de Québec. Il reste en poste jusqu’en 1927. 4 AUM, (archives de l’Université de Montréal), fonds de l’Institut botanique 118/A1,725. 5 BRITTON, N.L. et BROWN, A. Illustrated Flora of the Northern States and Canada, New-York. Scribner, 1896-1898, 3 vol. 2
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L’éducateur toujours actif en Marie-Victorin crée un cercle littéraire, une section d’Action catholique, il se préoccupe de hausser l’idéal de ces jeunes adolescents pour lesquels il se dépense avec affection. Il est présent à leur vie sportive autant qu’à leur exploits théâtraux. Il leur donne occasion de pratiquer l’art oratoire et de débattre de diverses questions sociales ou politiques. Pour moderniser son enseignement, il se propose, dès 1908, d’organiser des projections lumineuses produites par la maison La Bonne Presse sur des thèmes éducatifs. 1910 marque une année digne d’intérêt. C’est en cette année qu’il confie à l’abbé V.-A. Huard son projet de travailler à une nouvelle Flore pour remplacer celle de Provancher qu’il juge désuète. Deux ans plus tard, il peut noter dans son journal: «J’ai commencé sérieusement mon grand travail sur la flore du Bas-Canada Je ne sais pas s’il me sera donné de l’achever».6 Cette remarque témoigne de son esprit de suite et de sa ténacité qui lui permettra de mener à bonne fin ses entreprises. Depuis douze ans, il a parcouru diverses sections de la province et recueilli les spécimens qui lui permettent de constituer un herbier significatif. Occasionnellement, certaines de ses explorations vont donner naissance à de courtes monographies qui rendent compte de la valeur de ses travaux. Intéressé à la géologie, à la minéralogie, il a déjà publié divers articles dans le Bulletin de la société de géographie de Québec et dans l’Ottawa Naturalist. Il demeure en collaboration avec le chanoine Victor Huard qui l’encourage. Au cours de l’été 1913 il fait un voyage d’herborisation au Lac Témiscouata; exploration qu’il complète l’été suivant. En 1916, il publie un tiré à part d’une monographie de 127 pages déjà parue par fragments en 19141915 dans la revue Le Naturaliste canadien. En tête de sa monographie de 1916, il exprime sa reconnaissance à l’endroit de neuf experts auxquels il a soumis le fruit de ses études pour en assurer la consistance et l’exactitude. Une place d’honneur revient à un professeur de l’Université Harvard,. M. L. Fernald et au professeur Francis E. Lloyd de l’Université McGill (Montréal), qui deviendront pour lui des amis constants. Peu à peu s’affirme sa présence au sein de la communauté scientifique bien qu’il ne soit encore d’aucune université mais une sorte de franctireur. Cependant, il a pris l’initiative d’instituer dans son collège un Laboratoire de Botanique, dont il est l’artisan essentiel et dont la publication sur La Flore du Témiscouata marque la sixième contribution scientifique. Tout cela
GILLES BEAUDET et de LUCIE JASMIN sous le titre Mon miroir, journaux intimes 1903-1920, Fides, Montréal, 2004, 804 pp., p. 596. 6
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est fortement représentatif de son évolution rapide et de sa détermination à faire œuvre durable. Dans le train-train quotidien, le jeune éducateur s’applique à sa tâche de formateur des esprits et des cœurs. Non seulement son action éducative s’exerce dans ses classes et dans les activités culturelles du collège, mais il réunit régulièrement une bonne vingtaine de ses anciens élèves auprès desquels son influence sert d’exemple et de réconfort. Son cercle des Anciens perdurera jusqu’à la 500e séance sous sa direction. Ce qui ne laisse aucun doute sur la qualité de sa relation chaleureuse avec ces jeunes adultes. Il avait les qualités d’un rassembleur, on peut dire aussi d’un motivateur pour l’action. Pendant qu’il poursuit son apostolat, il fera ses vœux perpétuels en 1915, après avoir traversé diverses épreuves, mais avec une très grande conviction. Par ailleurs la renommée du Frère Marie-Victorin s’est affermie par la création et la production d’une œuvre théâtrale évoquant le fondateur de la ville de Longueuil, Charles Le Moyne. En 1916 et en 1917 il est le lauréat de concours littéraires provinciaux sur des thèmes patrimoniaux. Ces compositions constituent déjà le noyau de ce qui deviendra les Récits laurentiens. Dans la société de ce temps, ces faits contribuent à étendre sa notoriété. Sa collaboration à diverses revues, le met en évidence auprès d’un large public intéressé par les questions culturelles en général.7
2. Un visionnaire qui s’affirme
Le monde universitaire de Montréal est à cette époque en effervescence. Jusqu’alors dépendante de l’Université Laval de Québec depuis 1852, l’Université de Montréal acquiert en 1919 un statut autonome. Conformément à la volonté de Rome, elle se donne une charte civile et procède à l’intégration des facultés et des écoles qui lui étaient jusque-là affiliées. Entre 1920 et 1925, sept nouvelles facultés se greffent aux trois facultés fondatrices. La mise sur pied d’une Faculté des Sciences entraîne la création des chaires de physique, de chimie, de géologie, de mathématiques, de biologie. Il restait à trouver un titulaire pour la chaire de botanique. Parmi les compétences entrevues, on privilégia Frère Marie-Victorin. Il fut donc approuvé par le recteur Mgr Georges Gauthier et nommé professeur agrégé de botanique à l’Université de Montréal le 24 août 1920. 7 MARIE-VICTORIN, Fr., C. K.,: «Le portage du Témiscouata. Notes critiques et documents pour servir à l’histoire d’une vieille route coloniale ».Mémoires et comptes rendus de la Société royale du Canada, 3e série 12 : 55-93. 1918. Sa candidature à la Société Royale prendra effet en 1923, dans la section littéraire, et en 1927 dans la section V, de la biologie.
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Dès septembre il commence modestement mais avec enthousiasme un enseignement qui ne fera que grandir au fil des mois et des ans. Sa personnalité de leader se manifeste rapidement. Son esprit créatif se donne libre cours. Le professeur était particulièrement apprécié. Il rédigeait un canevas détaillé de ses cours. En parlant, il émaillait son enseignement de souvenirs, d’anecdotes, d’aperçus nouveaux et aussi d’idées générales. Il compare la science à « une marche ascensionnelle, longue et pénible, vers une vérité toujours incomplète et relative».8 Dans une lettre au Recteur, il exprime son désir ferme de travailler à « la création d’un enseignement scientifique à la hauteur dans notre université catholique».9 Il va s’atteler à la tâche de faire rayonner à l’extérieur et à l’étranger le travail de sa Faculté. Au cours de 1922, désormais assisté de Jules Brunel qu’il avait eu pour élève à Longueuil, il inaugure une publication de Contributions du Laboratoire de Botanique de l’Université de Montréal.10 Dès les premières lignes du numéro un de ces Contributions, Frère Marie-Victorin révèle son approche scientifique: «Ces travaux, par la perfection même avec laquelle ils sont poussés, indiquent d’une façon plus précise les relations écologiques des organismes; en présentant des séries ordonnées de faits positifs, ils permettent de discerner les lacunes de ces séries; enfin, eux seuls légitiment les généralisations qui constituent proprement les sciences naturelles».11 En cette même année 1922 un groupe de médecins fondent la Société de Biologie de Montréal, dans le but de généraliser les conférences publiques pour répandre le goût des sciences biologiques. Le Frère Marie-Victorin se joint tout de suite à ce groupe. Le Frère expose la question de l’hérédité sur laquelle il se documente depuis 1913. L’Université de Montréal disposant maintenant des moyens de constituer un jury avec la présence de L.J. Dalbis, docteur ès sciences rentré d’Europe, Frère Marie-Victorin est appelé à présenter une thèse originale. Or personne n’a encore mis au point les connaissances acquises sur les fougères de la proRUMILLY, ROBERT, Le Frère Marie-Victorin et son temps, Frères des Écoles chrétiennes, Montréal, 1949, p. 96 9 Dossier Mgr Gauthier aux Archives de l’Institut botanique. Lettre du F. Marie-Victorin, 7 avril 1921. 10 Ces contributions en langue française seront aussi expédiées chez Henry G. Fiedler éditeur à New York, et chez T.. Oswald Weigel, à Leipzig. Elles seront ainsi à la base d’échanges de publications entre ces maisons et le département de Botanique de Montréal. 11 MARIE-VICTORIN, FRÈRE, Esquisse systématique et écologique de la flore dendrologique d’une portion de la rive sud du Saint-Laurent aux environs de Longueuil, P.Q., Contributions du Laboratoire de Botanique de l’U. de M. no 1, Montréal, 1922 p.1. 8
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vince. Frère Marie-Victorin en fera le sujet de sa thèse: Les Filicinées du Québec. La thèse est soutenue devant L.-J. Dalbis, Adhémar Mailhiot et le Dr ÉlieGeorges Asselin, le 22 mai 1922. Son auteur est reçu «avec très grande distinction». Il situe son étude des fougères dans les grands ensembles géologiques, et regroupe les espèces selon les lieux de leur apparition et de leur développement avant de se lancer dans le traité systématique des espèces. Il procède déjà avec l’assurance d’un maître en la matière : «Prévoyant le jour où la priorité absolue, et non la priorité relative depuis la date arbitraire de 1753, sera la base de la nomenclature rationnelle, nous avons indiqué, toutes les fois que cela nous a paru utile, les références permettant d’établir cette priorité, et le nom que, d’après ce critérium rationnel, la plante devrait porter».12 Les fondateurs de la Société de Biologie eurent l’idée de pousser plus loin leur entreprise de répandre l’attrait des sciences pour le développement de la nation canadienne-française. Ils voulurent fédérer les sociétés savantes de langue française en Amérique et formèrent l’Association canadiennefrançaise pour l’avancement des Sciences (ACFAS, par abréviation). La fondation eut lieu le 15 mai 1923, avec le Dr Léo Pariseau comme président et le Frère Marie-Victorin comme secrétaire général. Les sciences naturelles n’étant pas représentées dans l’ACFAS, on procéda le 10 juin 1923, à la création de la Société canadienne d’Histoire naturelle, dont le Frère Marie-Victorin fut élu secrétaire. La société commençait avec treize membres. Frère Marie-Victorin présente l’ACFAS au monde enseignant par un article:13 «L’heure n’est-elle pas venue de tourner les yeux vers les vastes champs du savoir où moissonnent déjà, et depuis longtemps, les hommes de toute langue et de tout pays?» Au Conseil de la Faculté des sciences, le professeur de botanique propose de séparer minéralogie et géologie pour développer cet enseignement [supérieur]. Il est avide d’une science qui se tient à jour et combat la routine. Mais sa démarche heurte quelque peu le responsable qui consent cependant à soumettre un programme plus complet en géologie.14 Son intervention est déjà le prélude à la création d’une école des mines à l’Université Laval de Québec, et d’un Institut de géologie à l’Université de Montréal en 1938.15 Il y a certainement chez le Frère Marie-Victorin une faculté de visionnaire, qui sait pressentir les besoins, aller au-devant d’eux. Mais il lui arrive MARIE-VICTORIN, FRÈRE, Les Filicinées du Québec, Contributions du Laboratoire de Botanique de l’Université de Montréal, no 2, Montréal, 1923, p.19. 13 Revue Trimestrielle Canadienne, mars 1924 14 RUMILLY, R., op. cit. p. 122 15 RUMILLY, R., op. cit. p. 316 12
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de le faire à son corps défendant, puisqu’il doit faire face à des résistances engoncées dans le confort de la routine.
3. Le truchement des médias écrits
Assez tôt, il prendra l’habitude de publier ses projets d’avenir, ses propositions de réforme, dans un journal à idées, Le Devoir né en 1910. Yves Gingras, professeur au Département d’histoire de l’Université du Québec à Montréal a eu l’heureuse inspiration de rassembler treize de ces textes majeurs dont il écrit: «Ils ont joué un rôle important dans les milieux universitaire et intellectuel québécois de l’entre-deux-guerres.16 Dans son introduction, pages 12 à 29, il montre comment les extraits retenus s’imbriquent dans les objectifs prioritaires, les luttes et les réalisations de ce visionnaire et de ce bâtisseur. Nous pourrions ajouter une douzaine de textes qui auraient mérité eux aussi une présentation et une mise en situation dans la carrière active et combative de notre universitaire bouillant d’idéal. Passons en revue quelques titres de ses allocutions selon leur enchaînement chronologique. «Vers la haute culture scientifique»;17 «La province de Québec, pays à découvrir et à conquérir; à propos de culture scientifique et de libération économique»;18 «La science et nous, question d’attitudes»;19 «Les sciences naturelles dans l’enseignement supérieur».20 Arrive en 1932, son exposé intitulé: «Dans le maelström universitaire».21 Comme le maelström désigne une sorte d’entonnoir formé dans les eaux de la mer, de même, un tourbillon lié à la crise financière menace d’engloutir l’Université de Montréal. Comme solution quelques autorités veulent supprimer trois facultés : philosophie, lettres et sciences sous prétexte qu’elles sont «de luxe». F. Marie-Victorin ironise, et il commente avec son éloquence virile et acérée: «L’Université de Montréal, dûment châtrée suivant la méthode indiquée plus haut, serait un excellent instrument d’abêtissement national».22 GINGRAS, YVES, Frère Marie-Victorin, science, culture et nation, Boréal, 1996. Le Devoir, 30 septembre 1922. Nous donnons une simple énumération partielle hélas, des titres des articles qui ont été réédités par Yves Gingras. Une entreprise de moindre envergure avait été présentée par Hermas Bastien dans Pour l’amour du Québec, Éditions Paulines, 1971. Promouvoir une culture scientifique solide et progressiste au Québec fut un des premiers objectifs avoués du F. Marie-Victorin. Un horizon de conquête économique s’ajoutait en corollaire à ce premier but visé. 18 Le Devoir, 26 septembre 1925. 19 Le Devoir,13, 15 novembre 1926. 20 Le Devoir, 6 et 7 octobre 1930. 21 Le Devoir, 31 mai, 1932 22 GINGRAS, YVES, F. Marie-Victorin, science, culture et nation, Boréal, Montréal, p. 102. 16
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«L’attribution du prix Gandoger et ce qu’elle signifie»;23 «Une génération de jeunes professeurs sacrifiée».24 Sous ce dernier titre provocateur le grand universitaire, lors de la remise que l’Académie des sciences de Paris lui fait du Prix de Coincy aborde une question épineuse. «Quinze années sont passées… Cette génération-là s’est dépensée sans compter. Elle a accompli quelque chose. Mais elle attend encore la réalisation des promesses qu’on lui a faites». «[…] Disons-le sans ambages, notre génération est sacrifiée». «Après la bataille, les œuvres de paix; de l’Université de Montréal, de l’ACFAS et de l’Institut scientifique franco-canadien»;25 «Pour un institut de géologie»;26 «La science et notre vie nationale».27 Il convient d’ajouter à cette liste impressionnante: **Vingt-cinq ans de vie scientifique au Canada français.28 Au cours de quelque vingt années, on le verra donc monter aux créneaux, prendre la tête des troupes pour revendiquer plus de justice, plus d’audace, plus de générosité, plus de largeur de vues. L’espace manque ici pour rendre compte pleinement de la qualité de l’argumentation et de la vivacité du style incisif.
4. La vision et la création du Jardin Botanique de Montréal
À l’été de 1929, la British Association for the Advancement of Sciences tient un congrès à Capetown (Afrique du Sud). L’Université McGill y délègue Francis E. Lloyd. De son côté, l’Université de Montréal délègue Frère MarieVictorin à qui le médecin a déjà recommandé un repos indispensable. Le départ aura lieu le 16 mai et le retour à Québec le 22 novembre. Ce voyage de six mois lui permettra de visiter trois continents.29 Ce fut pour lui l’occasion de côtoyer des savants de diverses disciplines et de causer avec des personnalités de haut calibre comme l’archéologue Henri Breuil. Surtout, il eut à cœur de visiter avec attention un bon nombre de jardins botaniques célèbres à travers le monde, dont ceux de Londres, de Paris, de Berlin, du Cap. Le Devoir, 25 octobre 1932. Ce prix fut décerné au Frère Marie-Victorin par la Société botanique de France. Dans son allocution, Frère Victorin explique ce qu’il apprécie de la collaboration scientifique des professeurs venus de France mais il affirme son autonomie: «Nous réclamons le droit de choisir nos maîtres et de déterminer nous-mêmes nos admirations…». 24 Le Devoir, 18 décembre 1935. 25 Le Devoir, 25, 26 sept. 1936. 26 Le Devoir, 27 janv. 1937; 28 janvier 1937, 29 janvier 1937. 27 Le Devoir, 10, 13 octobre 1938. 28 Ce bref article parut dans l’Action nationale de janvier 1943, p 45-49, un peu plus d’un an avant la fin tragique du célèbre savant. 29 Il mettra par écrit ses diverses observations dans un manuscrit intitulé Voyage à travers trois continents. Les archives des Frères des Écoles chrétiennes du Canada francophone, et celles de l’Université de Montréal en possèdent des doubles. 23
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Les observations de plantes abondent parmi ses notes et il décèle parfois des traits de spécificité communs entre des familles botaniques asiatiques et des parentes canadiennes. Cela ne nous étonne pas de Marie-Victorin qui avait l’habitude d’envisager les phénomènes scientifiques dans un large ensemble. Sa contribution personnelle au Congrès de Capetown est une présentation en langue anglaise de son étude sur le Dynamisme dans la Flore du Québec : Essai sur les forces d’évolution et d’élimination en œuvre dans certaines populations végétales.30 Dans son manuscrit du Voyage à travers 3 continents,31 en date du 24 juillet il commente: «Ce matin à 9h30, je donne mon travail à la section K sur «Some evidences of evolution…» dans la salle de Forestry de l’Université de Cape Town. […] Malheureusement une lanterne32 qui ne prenait pas les clichés33 de dimensions standard m’a empêché de faire voir toute ma documentation photographique. J’ai parlé de 9h30 à 11h». Après sa vaste exploration d’une large partie de notre globe, il rentre au Canada absolument convaincu que la ville de Montréal doit se doter d’un Jardin Botanique à l’égal des grandes capitales du monde.34 Il faudra poser les bases du projet et convaincre les administrateurs de l’utilité et de l’importance d’une telle innovation. Le projet est lancé en 192935 et va trouver un premier aboutissement en 1931 pour être interrompu l’année suivante pendant trois ans. En 1935, les circonstances sont de nouveau favorables à une reprise du projet. Le Jardin sera inclus dans la liste des travaux publics entrepris à Montréal pour conjurer la crise économique. En 1939 il sera suffisamment avancé pour accueillir
Cette étude fut d’abord la matière de son Discours prononcé devant la Société Canadienne d’histoire naturelle le 15 octobre 1927. Elle fut imprimée dans les Contributions du Laboratoire de Botanique de l’Université de Montréal, 13, 1929, 89 p. 42 fig. Une version anglaise sous le titre «Some evidences of evolution in the flora of north-eastern America» parut dans Journal of Botany, 68 (810) 161-172, June 1930. 31 Archives des Frères des Écoles chrétiennes du Canada francophone (Laval, QC). 32 Le terme lanterne concerne un instrument d’optique qu’on appellerait aujourd’hui un projecteur de diapositives. Dès 1908, on l’a vu plus haut, le Frère Marie-Victorin accompagnait ses conférences de projections lumineuses. Il a dû être grandement déçu de l’incompatibilité des formats, car son exposé fut amputé d’une part importante d’illustrations convaincantes. 33 Le terme cliché désigne ici les diapositives formées de plaques de verres entre lesquelles est insérée l’image à projeter. 34 Il soumet Montréal à la comparaison: «Si des villes comme Cologne, Le Cap, Le Caire, et même des centres perdus comme Orotoba, aux îles Canaries, ont d’admirables jardins botaniques, pourquoi pas Montréal?» Cité dans une entrevue rapportée par Le Devoir, 25 novembre 1929. 35 Le Jardin Botanique de Montréal, Le Devoir, 16 décembre 1929. 30
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des visiteurs nombreux qui sont émerveillés de ces réalisations. Vers le même temps, Frère Marie-Victorin a eu l’occasion d’exposer à des auditoires variés36 tout le bien qu’on peut attendre sur le plan éducatif, culturel, économique, d’un Jardin botanique tel qu’il le conçoit et qu’il le réalisera avec le concours de spécialistes tel Henry Teuscher.37 De nouvelles difficultés surgissent à cause des changements de gouvernement et de rivalités larvées.38 Une fois assuré de son avenir, le Jardin représenta et représente de plus en plus la fierté de Montréal, puisque les successeurs ont su le faire progresser avec la même largeur de vues que le fondateur Frère Marie-Victorin. On doit aussi au F. Marie-Victorin d’avoir intégré le mouvement des Jeunes Naturalistes dans le sillage de la Société Canadienne d’Histoire naturelle. Il a encouragé aussi la fondation de l’École de l’Éveil,39 par Marcelle Gauvreau en 1935.
5. Le grand rêve s’accomplit (La Flore laurentienne)
Pendant qu’il menait de front la présidence de la Société canadienne d’Histoire naturelle, sa participation à l’ACFAS, sa collaboration à la vie universitaire, la prestation de ses cours, la direction de l’Institut Botanique, l’avancement du projet de Jardin Botanique, le Frère Marie-Victorin poursuivait, appuyé de son équipe et grâce à de nouvelles explorations sur le ter-
Par exemple au Collège de l’Assomption en 1938, et aussi au Canadian Club en 1940 cf Archives de l’Université de Montréal, Fonds de l’Institut Botanique E118, A1,794 et E118, A1, 46. 37 Henry Teuscher (1891-1984) né à Berlin. Il se spécialisa dans l’horticulture. Il vint en Amérique en 1922. Il devint plus tard directeur de l’Arboretum Boyce Thompson, puis entra au service du Jardin Botanique de New York. En 1932, Frère Marie-Victorin offrit à Teuscher d’élaborer les plans et de superviser la construction du futur Jardin Botanique. Ce n’est qu’en 1936 que Teuscher arrive à Montréal et prend la tête d’un vaste chantier où travaillent 2,000 hommes. Il est nommé conservateur du Jardin en 1942 et demeurera à ce poste jusqu’à sa retraite en 1962. BÉLANGER, ANNE, «Henry Teuscher, portrait d’un homme passionné», dans Quatre-Temps, vol 30, no 2, juin 2006 p. 20-23. 38 Une lettre du F. Marie-Victorin à sa sœur religieuse fait écho à ces luttes et à leur issue: «Un mot seulement pour te dire que grâce à tes bonnes prières le danger de l’occupation militaire du Jardin est définitivement disparu. Ça été une terrible lutte, mais nous avons trouvé d’excellents et puissants amis qui ont fait les pressions nécessaires. Dans le monde tel qu’il est fait, il est absolument inutile d’avoir raison: il faut surtout avoir des rouleaux à vapeur pour passer sur le dos des agresseurs. Je t’expliquerai cela au long quand j’aurai le plaisir de te revoir» BEAUDET, GILLES, Confidence et combat, Lidec, Montréal, 1969 p. 159. 39 Cette institution privée accueillait les tout-petits de 5 à 7 ans environ; et s’efforçait de les intéresser aux merveilles qui se déploient dans la nature. On tentait de leur faire comprendre «Pourquoi toutes ces choses sont belles». 36
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rain, son grand rêve qui doterait le monde scientifique d’une Flore de la province de Québec sous le titre de Flore laurentienne. Elle connut son aboutissement avant même l’achèvement du Jardin Botanique. Longtemps élaborée par le Frère Marie-Victorin qui en fut la cheville ouvrière principale, elle bénéficia de l’apport de plusieurs de ses collaborateurs et, en tout premier lieu, du Frère Rolland-Germain. Il faut aussi citer l’illustrateur patient et minutieux Frère Alexandre Blouin, é.c., professeur de biologie. Parmi les collègues à l’Institut Botanique de l’Université de Montréal sa reconnaissance va à Jules Brunel, Jacques Rousseau, Émile Jacques, Marcelle Gauvreau, Alice Kéroack et Dolorès Dubreuil. Frère Victorin remercie aussi une douzaine de spécialistes dans diverses Universités. Il exprime sa gratitude à «diverses personnalités canadiennes-françaises […] qui ont aidé de diverses manières». Il rend hommage au Professeur Merritt-Lyndon Fernald de l’Université Harvard son «premier guide à travers les complexités des problèmes de la Flore laurentienne».40 Marie-Victorin est conscient que son ouvrage tout important qu’il soit ne représente qu’une partie de l’inventaire complet à poursuivre.41 Il s’agit tout de même d’un fort volume de format lettre, contenant 917 pages, illustré de 22 cartes et de 2800 dessins détaillés. C’est le fruit de trente années d’études et d’explorations. Il ne s’agit pas d’une sèche description car des notes d’intérêt culturel, folklorique, encyclopédique accompagnent heureusement la documentation. Surtout, la Flore laurentienne s’ouvre par des considérations d’envergure et une vision d’ensemble. Le «Dynamisme de la Flore laurentienne» mérite spécialement notre attention. Comme l’écrit Robert Rumilly: «La Flore laurentienne met le sceau à la renommée du Frère Marie-Victorin et marque l’entrée du Canada français dans le mouvement scientifique.42
6. Séjours aux Antilles et la Flore de Cuba. Compléments
Le succès de la Flore laurentienne n’allait pas mettre un terme aux recherches insatiables du Botaniste québécois. Il eut l’occasion, à partir de 1938, de faire des séjours aux Antilles, et particulièrement dans l’île de Cuba, MARIE-VICTORIN, Frère, Flore laurentienne, FEC, 1935, préface. Effectivement une seconde édition revue par Ernest Rouleau et son équipe a paru en 1964, aux Presses de l’Université de Montréal La troisième édition, toujours respectueuse du texte original et additionnée d’illustrations en couleurs, a mis à jour aussi la recension de 460 plantes supplémentaires, comme l’explique les réviseurs Luc Brouillet, et Isabelle Goulet. Presses de l’Université de Montréal, Montréal, 1995. 42 RUMILLY, ROBERT, Le Frère Marie-Victorin et son temps, Frères des Écoles chrétiennes, Montréal, 1949 p. 257. Nous faisons l’économie des multiples appréciations que rapporte Rumilly dans ses pages. 40
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pour y refaire provision de forces physiques et morales. Avec le Frère Léon Sauget,43 botaniste à La Havane, il entreprendra des explorations qui donneront naissance à trois volumes des Itinéraires botaniques dans l’île de Cuba.44 Il faut ajouter à la vaste production du Frère Marie-Victorin, la flore de l’Anticosti-Minganie, avec la collaboration du frère Rolland-Germain.45
7. Fin tragique et survie
L’avenir s’annonçait rayonnant. Rentré de Cuba en mai 1944, il se remet à la tâche et prévoit son cours de septembre. De même il participe sur les ondes de Radio-Collège à une troisième série annuelle de causeries intitulée la «Cité des Plantes». Les excursions botaniques se poursuivent aussi. Celle du 15 juillet 1944 se terminera tragiquement. Sur la route du retour, vers 22h30, l’auto où prend place Frère Marie-Victorin s’engage par erreur dans une voie à sens unique. Il se produit une collision frontale terrible. Parmi les plus graves blessés se trouve le savant botaniste. Sa condition cardiaque le rend si vulnérable qu’il rendra l’âme dans le taxi qui le conduit à l’hôpital de SaintHyacinthe. Au cours de l’après-midi, il avait rédigé pour la «Cité des Plantes», un texte de réflexion sur le thème: «Considérez les lis des champs». Aurait-il pu souhaiter un adieu plus touchant? À l’annonce de sa mort le monde scientifique s’émeut, au Québec d’abord, puis au Canada anglais, à New York, à Paris, à La Havane. Les témoignages de condoléances affluent. Ils sont unanimes à louer l’apport original de ce scientifique doublé d’un poète. Quarante ans plus tard, l’admiration demeure, comme on le constatera lors d’un colloque organisé en 1985 au Jardin Botanique. Le célèbre professeur y est présenté par différents auteurs sous six aspects : le religieux, l’administrateur, l’éducateur, le littérateur, le botaniste, l’homme de son temps.46 Aujourd’hui en 2012, l’œuvre, la pensée, la personnalité du F. Marie-Victorin se retrouvent admirablement bien présentées dans des pages électro-
Joseph Sylvestre Sauget (1871-1955). Le troisième volume parut en édition posthume dans les Contributions de l’Institut de Botanique, 68, 1956, 227 p. 103 fig. 45 Le travail remontant à 1925, fut soigneusement revu par F. Rolland-Germain et édité par les Presses de l’Université de Montréal, en 1969, 527 p. ill.; cartes. 46 Ces textes ont été publiés dans le Bulletin de la Société d’animation du Jardin et de l’Institut botanique, Montréal, novembre 1985, vol. 9, no 3. Dans l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, on peut consulter la notice nécrologique trimestrielle, no 224 p. 5, pour aller aux sources. 43
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niques qu’on peut consulter aux adresses suivantes,47 entre plusieurs autres. Les lecteurs y découvriront des aspects que notre court article n’a pas permis de détailler.
8. Conclusion
Il me semble intéressant de conclure cette trop brève étude par les mots de Roger Gauthier, sous-directeur de l’Institut botanique, un collaborateur du Frère Marie-Victorin: «Au Frère Marie-Victorin nous devons de mieux aimer une patrie mieux connue et aussi de mieux comprendre la valeur de la science qui n’a pas de patrie».48 Enfin, pour évoquer l’attitude d’ouverture que possédait le Frère MarieVictorin en face de la science, rappelons quelques lignes d’un Discours présidentiel qu’il fit en 1926: «Que dire de cette autre attitude qui peut se définir un peu brutalement en deux mots: la peur de la science?» Il poussera l’audace, car c’en est une à cette époque, jusqu’à aborder le problème de l’évolution «Dans notre Canada français, par suite d’un contact insuffisant avec la science en marche, par suite aussi de l’absence d’un corps imposant de biologistes capables de former l’opinion publique toujours passive, nous en sommes encore un peu à l’attitude qui sévissait il y a quarante ans en Europe».49 Il déplore les tentatives concordistes qui, lorsque poussées un peu loin, ont nui à la religion aussi bien qu’à la science elle-même. Il proposera une attitude ouverte: «N’est-il pas beaucoup plus simple d’adopter le modus vivendi des pays éclairés, de laisser la science et la religion s’en aller par des chemins parallèles, vers leurs buts propres; de continuer d’adorer Dieu en esprit et en vérité, et de laisser les biologistes travailler paisiblement dans l’ombre de leurs laboratoires? Les fausses doctrines scientifiques s’écroulent d’elles-mêmes, et nos bibliothèques sont leurs cimetières. Mais la théorie qui meurt contient généralement une parcelle de vérité; et cette parcelle, plus ou moins importante, survit, s’agglutine et s’incorpore à l’héritage que nous ont laissé les siècles, pour agrandir le domaine intellectuel de cet homme universel dont parle Pascal, de cet homme universel qui apprend toujours».50
http://www.archiv.umontreal.ca/exposition/mv/recolte_autre.htm http://www.archiv.umont re a l . c a / e x p o s i t i o n / m v / p o p _ s o c i e t e _ h i s t _ n a t . h t m http://www2.ville.montreal.qc.ca/jardin/archives/histoire/histoire_accueil.php http://www.florelaurentienne.com/flore/NotesUsages/MV_grand_Quebecois.htm http://www.biographi.ca/009004-119.01-f.php?&id_nbr=8432&terms=created 48 GAUTHIER, ROGER, «Le Frère Marie-Victorin» dans Le Devoir, samedi 14 juillet 1945. 49 «La science et nous, question d’attitudes » in GINGRAS, YVES, op.cit. p. 82. 50 «La science et nous, question d’attitudes » in GINGRAS, YVES, op.cit. p. 82. 47
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FRATEL MARIE-VICTORIN KIROUAC, EDUCATORE E PRECURSORE (Sintesi*)
Gilles Beaudet
Fratel Marie-Victorin era figlio di Cirille Kirouac e di Philomène Luneau. Nacque il 3 aprile 1885 nel villaggio di Kingsey-Falls al Centro del Québec e gli fu imposto il nome di Conrad. Entrò nella Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane quando aveva 16 anni, dopo aver fatto eccellenti studi presso l’Accademia Commerciale del Québec. La sua missione di insegnante iniziò nel 1903, ma fu interrotta per ripetuti attacchi di tubercolosi. Allora fu addetto a compiti meno impegnativi della scuola e fu incaricato della biblioteca. Ma poiché il suo stato di salute l’obbligava a vivere il più possibile all’aria aperta, ne approfittò per intraprendere esplorazioni botaniche con l’aiuto dei manuali disponibili e a procurarsi gli strumenti necessari per dare completezza al suoi lavoro. Annotava in un suo diario personale il nome preciso dei campioni studiati e creò un erbario nella istituzione dove fu mandato nel 1904: il collegio di Longueil. Creò anche un laboratorio di botanica. Prese contatto con gli specialisti delle Scienze Naturali del Québec e scambiò esemplari di piante con botanici stranieri. Era un assiduo lettore di opere letterarie e storiche, ma si interessò anche ad opere scientifiche, come Cosmos, America Scientifica, Ottawa Naturalista, il Naturalista Canadese. Il Naturalista Canadese era gestito dal sac. Victor-Alphonse Huard, conservatore del Museo della Pubblica Istruzione della Provincia del Québec, con il quale entrò in corrispondenza fin dal 1904 e che lo sostenne nei suoi progetti scientifici. Proprio sul Naturalista Canadese Fratel Marie-Victorin pubblicò alcuni frammenti (1914-1915) del suo importante studio sulla Flora del Temiscouata, del quale fece poi una pubblicazione globale nel 1916 presentandola come il Contributo n°6 del Laboratorio del Collegio di Longueuil. Inoltre, Fratel Marie-Victorin partecipò a concorsi di composizioni letterarie su temi patrimoniali. Si laureò nel 1915 e nel 1916. I racconti da lui composti, arricchiti da altri sentiti nella sua infanzia, furono la materia di un volume pubblicato nel 1919 con il titolo di Racconti laurenziani. Le sue esplorazioni botaniche in diverse zone della provincia gli ispirarono descrizioni letterarie raggruppate sotto il titolo di Schizzi laurenziani, da lui pubblicati nel 1920. Dieci anni prima aveva scritto un’opera drammatica in onore del fondatore di Longueuil, Charles LeMoyne. Tutte queste sue pubblicazioni conquistavano l’attenzione del pubblico. Tuttavia il suo inte* Traduzione dalla lingua francese di Italo Carugno.
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resse per la botanica continuava a consolidarsi. Pensò allora di stampare una nuova Flora del Québec in sostituzione di quella del sac. Léon Provancher, che lui aveva utilizzato ma che ormai giudicava superata. Il suo obiettivo era quello di offrire al pubblico una flora aggiornata, grazie alle sue ricerche fatte sul luogo. Nelle sue esplorazioni era assistito da un confratello venuto appositamente dalla Francia: Fratel Rolland Germain che rimase suo collaboratore dal 1905 al 1944, anno della morte di Fratel Marie-Victorin. Questi lavorò per più di 25 anni alla realizzazione di quel progetto della nuova Flora, che vide la luce nel 1935 con il titolo universalmente conosciuto di Flora laurenziana. Nel 1920 l’Università di Montréal ottenne una carta che gli assicurava l’autonomia piena e completa. Allora aggiunse alle sue tre facoltà esistenti sette nuove facoltà, tra cui quella di Scienze, per la cui organizzazione fu invitato Fratel Marie-Victorin. Subito si mise all’opera. Gli inizi furono modesti, anche se entusiastici e produttivi. Infatti fece i passi necessari per arricchirne la biblioteca e per assicurare la conservazione di un erbario. I suoi corsi di studio erano ben strutturati e non poggiavano su strutture libresche, bensì su problemi naturalistici derivanti da fenomeni botanici, geologici, fitologici, evoluzionistici. Ingemmava i suoi corsi di studio con aneddoti e osservazioni enciclopediche. Faceva anche ricorso a proiezioni luminose per rendere più concreto il suo insegnamento. Nel 1922 sostenne una tesi su Les Filicinées del Québec. Fu onorato con il titolo di Dottore in Scienze dall’Università di Montréal. Fratel Marie-Victorin fu anche un animatore e suscitatore di idee. Con alcuni leader del mondo scientifico partecipò alla creazione della Società di Biologia di Montréal e alla creazione dell’Associazione Canadese-Francese per il progresso delle scienze. Nel 1923 fondò la Società Canadese di Storia Naturale e ne fu il Presidente, pronunciando discorsi convincenti per suscitare l’interesse per le scienze tra la popolazione del Québec e anche per incoraggiare lo sviluppo economico del Paese, grazie alle risorse del suo sottosuolo e al talento dei suoi studiosi. Il collega Jacques Rousseau lo ha onorato dell’appellativo di “padre del movimento scientifico canadese-francese”. (Rivista Cultura, settembre 1944) Nel 1929 fu scelto come delegato al Congresso dell’Associazione Britannica per il progresso delle Scienze tenuto a Capetown (Africa del Sud). Vi partecipò anche il prof. Francis-E Lloyd, suo amico canadese. Fratel MarieVictorin vi fece un interessante resoconto su alcuni aspetti evolutivi della Flora del Québec. Inoltre visitò con particolare interesse più di un orto botanico delle grandi città-capitali di quella nazione. Al suo ritorno caldeggiò l’idea di creare in Montréal un orto botanico simile a quelli che aveva visitato. Il progetto si realizzò tra il 1931 e il 1936 dopo aver superato diversi
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ostacoli. Oggi l’orto botanico di Montréal si classifica ancora tra i più importanti del mondo. Dopo aver realizzato i suoi due più grandi progetti (la Flora Laurenziana e l’orto botanico) Fratel Marie-Victorin ebbe l’occasione tra il 1938 e il 1944 di fare sette viaggi nell’isola di Cuba. Vi fece diverse escursioni in compagnia di Fratel Léon Sauget che si era stabilito in quell’isola fin dal 1905. Tre volumi furono il frutto di quella esperienza, con il titolo di Itinerari botanici nell’isola di Cuba; i primi due furono pubblicati prima della sua morte, il terzo invece in edizione postuma nel 1956. Anche una ricerca abbastanza antica, intitolata Flora della regione Anticosti-Mingania (presso Havre-St-Pierre nel Quebec), rivisitata da Fratel Rolland-Germain, fu pubblicata nel 1964. Con la testa ancora piena di progetti, anche se molto logoranti, Fratel Marie-Victorin partì per un’ulteriore spedizione, il 15 luglio 1944, in compagnia di tre ricercatori e del loro autista. La giornata si svolse sotto il segno del successo. Al ritorno, quando la notte impediva quasi ogni visibilità, l’auto che trasportava Fratel Marie-Victorin si avventurò senza volerlo in una strada a senso unico. Vi fu una terribile collisione. Fratel Marie-Victorin ne uscì in condizioni molto precarie. Un taxi lo condusse all’ospedale San Giacinto, dove però si poté solo constatare il suo decesso. Il Nostro andava incontro alla Gran Madre Natura che lui aveva amato con tutto il cuore e di cui aveva celebrato l’opera creatrice nella grandezza e magnificenza delle sue manifestazioni.
Rivista Lasalliana 80 (2013) 1, 125-133
DOCUMENTI
RELAZIONI EPISTOLARI DEL BEATO FRATEL SALOMONE1
TESTIMONIANZE DELLA VITA E DEI COSTUMI DI UNA FAMIGLIA PRIMA DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE
L
DI
VINCENT CUVILLIERS, MAGALI DEVIF, MATTHIEU FONTAINE, PHILIPPE MOULIS E FR. FRANCIS RICOUSSE2
a corrispondenza di Fratel Salomone con la sua famiglia è abbondante. Più di cento lettere si conservano presso la Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Roma e presso gli Archivi Lasalliani a Lyon. In questo corpus inedito sono affrontati il quotidiano della famiglia del Fratello, i Le Clercq di Boulogne-sur-Mer, ma anche nell’interno di un paragrafo l’educazione dei figli, alcuni avvenimenti politici ed economici, oltre che notizie sul funzionamento dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Nella sua monumentale storia dell’ Istituto, Georges Rigault ricorda a più riprese i Le Clercq. Proponiamo la pubblicazione di due lettere molto significative, scritte da Fratel Salomone alla sua sorella maggiore Maria-Barbara-Francesca-Hermine, chiamata semplicemente Maria-Barbara, nata il 14 gennaio 1743 e sposata dal 31 gennaio 1771 con il commerciante bulognese Francesco-Gabriele Ricart, figlio a sua volta di un commerciante. La prima è scritta da Maréville, in Lorena, il 25 novembre 1774; la seconda, invece, fu spedita da Melun il 6 febbraio 1789. Ben venticinque anni separano queste due lettere, ma gli argomenti affrontati sono analoghi. La corriLa traduzione dal francese è stata curata da Fr. Italo Carugno. Vincent CUVILLIERS, Dottore in Storia contemporanea ; Magali DEVIF, Direttrice degli Archivi Lasalliani a Lyon, Matthieu FONTAINE, Dottore in Storia Moderna; Philippe MOULIS, Universita di Parigi 13, Sorbonne Paris Cité, CRESC (E.A. 2356) et Frère Francis RICOUSSE, Direttore degli Archivi della Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane in Roma. 1 2
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DOCUMENTI
Fr. Francis Ricousse ...
spondenza fu il solo legame diretto tra fratello e sorella. L’affetto, i sentimenti, le riflessioni sul senso della vita e la fede si affiancano alle notizie più prosaiche. Le virtù del matrimonio e della famiglia cristiana decantate da Fratel Salomone nella prima lettera costituiscono un tema ricorrente, al pari delle riflessioni e dei consigli sull’educazione dei figli affrontati nella seconda. Le principali occasioni della corrispondenza con la famiglia, genitori e fratelli, sono le feste patronali, gli anniversari e gli auguri per il nuovo anno. Fratel salomone si serve, a più riprese, di un altro mezzo di comunicazione con i suoi, che predilige in maniera particolare, cioè la Comunione ricevuta alle intenzioni o dell’uno o dell’altro parente. Oltre all’aspetto spirituale dell’atto propriamente detto, questo tipo di Comunione è vissuto, da quanto si è potuto capire, come momento di particolare intensità da parte del Fratello. Questa corrispondenza ci permette di scoprire affinità e particolari caratteristici che ci introducono, in qualche maniera, in intimità con la sua famiglia. Così, ad esempio, suo padre, il sig. Francesco Le Clercq, ama lavorare nei boschi, attività che praticava ancora all’età di sessanta anni. Fratel Salomone tiene una corrispondenza più regolare con la sorella Maria-AnnaRosalia, detta semplicemente Rosalia, che con Maria-Barbara. Le situazioni delle due sorelle sono differenti: la prima è rimasta nubile, pensa di consacrarsi a Dio e chiede consigli, invece l’altra sposa un commerciante e diventa madre di famiglia. I caratteri dei fratelli Le Clercq appaiono in filigrana. Quello che Fratel Salomone chiama “mio fratello maggiore” e che rimase celibe vivendo con i genitori e la sorella Rosalia, sembra essere di temperamento chiuso, taciturno. Malgrado una assenza epistolare che sembra totale, si percepisce dalle parole del secondogenito un vero amore fraterno. La morte prematura del fratello Salvatore, il 24 maggio a Saint-Yon, non ci permette di avere notizie precise sul suo carattere. Agostino fa il commerciante, è sposato e padre di famiglia. Attraverso le lettere che spedisce ai familiari si può avere qualche notizia sulle fluttuazioni della sua posizione finanziaria e sui suoi numerosi spostamenti. Ciò non impedisce ai fratelli e alla cognata di avere una corrispondenza abbastanza controllata. Quanto al fratello Vittorio appare a prima vista come quello un po’ meno religioso della famiglia, diventando motivo di inquietudine dei fratelli, sino a far nascere una specie di distanza tra essi e lui. Achille va collocato in un posto particolare tra i fratelli. Egli fa da collante, da legame, da confidente. Encomiato per la sua pietà, di carattere gioviale, appare come dotato di un certo carisma. Più volte comunica le notizie degli uni agli altri, perché è in ottimi rapporti con tutti. La di lui sorella,
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Maria-Barbara, gli confida i suoi crucci, mentre lui si interessa principalmente del commercio. La figura della madre, Maria-Barbara Dupont, morta il 29 febbraio 1772, è presente per il ricordo di una pietà che fece presa sui figli, particolarmente su Fratel Salomone, che conservò gelosamente le sue lettere e le rileggeva frequentemente. La corrispondenza rimediò dunque ad ogni forma di assenza. La lontananza geografica, particolarmente quella della famiglia, è vissuta da Fratel Salomone come una prova, che egli rievoca regolarmente e di cui soffre visibilmente. Egli l’accetta come accoglie tutte le altre prove, vedendo in ciò la volontà divina e sperando nella riunione di tutti i parenti dopo la morte. Le difficoltà inerenti allo stato matrimoniale e quelle allo stato religioso riaffiorano spesso nella penna di Fratel Salomone, come pure il pericolo che può incontrare un cattolico nell’esercizio della professione di negoziante. Son questi gli argomenti normali per un figlio, un fratello, un cognato di commercianti, che ha avuto personalmente, come il fratello Achille, un’esperienza a riguardo. Questi argomenti sono sintetizzati nelle domande sull’equilibrio da trovare tra il distacco dalle cose transitorie e il fatto di dovervi vivere, tra continui affanni e difficoltà. Quanto a queste ultime, Fratel Salomone raccomanda, per sé come per i suoi, la rassegnazione alla volontà di Dio. Gli avvenimenti della vita sono messi in relazione con la volontà di Dio e la ricompensa sta tutta, naturalmente, nella salvezza dell’anima. Qualunque sia il proprio stato, ognuno è messo di fronte alla debolezza umana, naturale, alla quale bisogna opporre la propria volontà. E Fratel Salomone non si dispensa da questa caratteristica, ricordando a più riprese la pochezza delle sue preghiere e della sua volontà. Il legame che unisce i fratelli Le Clercq ai genitori è sia naturale e biologico che spirituale. L’abbinamento simboleggia l’esempio da seguire. Egli è riuscito presso i loro figli a realizzare la santa alleanza degli sposi, scopo ultimo del matrimonio, conciliando vita commerciante e spirito religioso, per mezzo delle sue virtù. A questo titolo egli è un modello sia per i ragazzi negli Ordini che per quelli che, rimanendo nel mondo, affrontano i suoi pericoli e quelli, più grandi ancora, del commercio. Le lettere di Maria-Barbara Dupont, che Fratel Salomone conserva, contengono tracce di questo esempio e sono una delle fonti delle sue ispirazioni. La corrispondenza del Fratello, come pure quella di Achille, è secondo l’espressione che vi viene usata, piena di pietà familiare. Essa offre un raro esempio per l’epoca di diffusione, talora anche di recezione, dentro la cerchia di una famiglia, delle riflessioni di Religiosi. Essa assume per questo un’importanza particolare.
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Lettera n°36 di Fratel Salomone alla sorella Maria-Barbara* (spedita da Maréville il 25 novembre 1774)
G. M. G. - Maréville, presso Nancy, 25 novembre 1774 Mia carissima sorella,
La grazia e la pace del Signore siano sempre con noi. Molti motivi mi spingono a scriverti: 1° perché sono tuo fratello; 2° perché ne sono stato sollecitato; 3° perché si avvicinano la festa della tua santa patrona e la fine del corrente anno. D’altronde, non avendo ricevuto nessun tuo scritto da ben otto anni, non è forse giunto il momento che io ti invii un resoconto delle mie vicende, in maniera che io possa procurarmi la soddisfazione di ricevere tue notizie direttamente da te? Sì, carissima sorella, sii persuasa che io sono sempre tuo fratello e che né distanza di luoghi, né diversità di professione cancelleranno mai dal mio cuore i sentimenti di affetto che ho sempre nutrito per te. Se, poi, mi domandi quali ne sono i segni mi potrei trovare in imbarazzo, perché dovrei cercarli nel lontano tempo in cui vivevamo nella casa paterna, in quel tempo felice di cui non sempre si apprezza il valore e del quale non sempre se ne sa approfittare. Ahimè, può darsi che allora ebbi a procurarti qualche dispiacere di cui non ti ho mai chiesto scusa. Quante scortesie, quanti piccoli contrasti, quanti…; ma perché sto qui a ricordare quel che tu hai certamente dimenticato e perdonato, tanto più che si trattava di bisticci infantili ed ero un altro da quello che sono ora, dopo, per così dire, la nostra separazione? Ma se non ti ho dimenticato, come spiegare che non ti abbia mai scritto, nemmeno in occasione del tuo matrimonio, per porgerti le mie felicitazioni? Ah, è che non so più o, piuttosto, non ho mai saputo rivolgere complimenti: mi son sempre accontentato, mia cara sorella, di raccomandarti al Signore nelle mie povere preghiere e di domandargli le grazie di cui abbisognate tu e il tuo sposo per vivere nella pace e nell’unione, che sono i beni più preziosi che io possa augurarvi e che non cesserò di chiedere al buon Dio per voi, come anche che Egli benedica i vostri lavori, faccia ben riuscire i vostri progetti per la sua più grande gloria e per la vostra salvezza, e che abbiate la consolazione di vedere camminare i figli che vi manderà sulle orme di coloro che più con gli esempi che con le parole ci hanno instradato con tanto affetto e dedizione nei doveri del cristianesimo. Che fortuna per noi aver avuto genitori premurosi della nostra educazione: quante cure, quante amarezze non hanno sopportato, quanti gesti di *
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bontà e tenerezza: tutto per spingerci al bene e allontanarci dal male o dalle occasioni di commetterne; credo con fermezza che il ricordo della perdita della nostra carissima mamma sia sempre vivo nella tua memoria per il fatto che abbiamo tanto perduto con la sua dipartita. Ma bisogna rassegnarsi alla volontà del Creatore, dato che abbiamo di che consolarci per gli esempi virtuosi che essa ci ha lasciato e di cui possiamo e dobbiamo sempre approfittare. Molte delle sue lettere, che io conservo gelosamente, mi fanno scoprire quali fossero i suoi sentimenti di religione da cui il suo cuore era animato e mi sono molto serviti per staccarmi dal mondo e dalle sue pericolose massime, vedendo come ella ne fosse distaccata pur essendo obbligata a viverci accanto; e sono persuaso che se fosse stato possibile ella se ne sarebbe del tutto allontanata per vivere nel distacco e nella riservatezza. Il secondo motivo che mi ha spinto a impugnare la penna è che il nostro fratello Achille mi ha fatto sapere, nella sua ultima lettera, che la tua ultima figliola ti ha procurato qualche dispiacere e che, pertanto, tu hai bisogno di qualche conforto. Ah, se ne fossi capace cosa non farei di cuore! Capisco le tue pene e vi partecipo quanto più posso: ma questo, penso, non potrà consolarti. E allora bisogna cercare nel Signore ogni conforto; sì, mia cara e carissima sorella, soltanto rassegnandoci alla volontà di Dio e accettando di buon animo e con pazienza ogni afflizione che egli ci vuole inviare, gli uomini potranno salvarsi, perché Gesù Cristo non è entrato nel suo Regno celeste se non percorrendo la via della sofferenza; tanto più, dunque, quando Dio ci affligge con ogni specie di croce e tribolazioni, perché son proprio questi i segni della sua paterna bontà e ci tratta come suoi figli inviandoci mezzi efficacissimi per spingerci a distaccare il nostro cuore dalle cose caduche della terra per rivolgerlo alle ricchezze immortali e a quanto ce le può procurare. Dunque non scoraggiarti, te ne prego, per ogni tipo di pena e sofferenza inerenti al tuo stato; cerca, invece, di farne buon uso perché tutto questo serve per operare la tua salvezza, dato che ogni stato di vita ha le sue spine e nessuna persona sulla terra ne è esente. Io credo fermamente che le sofferenze che si incontrano nello stato matrimoniale siano spesso più forti di quelle riscontrabili in altre professioni: brighe della vita coniugale, affari di famiglia, educazione dei figli sono spesso troppo assillanti per poter accumulare beni. Talvolta anche i mezzi che si usano che non sempre sono legali, ecc. Quanto, dunque, devo essere grato al Signore che mi ha tenuto lontano da questi grattacapi! Non già perché la vita religiosa non ha le sue croci; ma, si legge nella ”Imitazione di Cristo”, sono le croci che conducono direttamente in Paradiso. Prega, dunque il Signore, che mi conceda la grazia di accettarle bene, in maniera che mi possano aiutare a raggiungerlo. Tu, da quel che io so, hai solo due figlie ancora in tenera età, e pare che ti diano qualche grattacapo; io, invece, che sono incaricato della formazione di dodi-
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ci Novizi, ho il vantaggio di godere della solitudine e del silenzio, lontano, per così dire, da ogni contatto con il mondo esterno. Non dovrei, dunque, occuparmi se non di Dio; ma, purtroppo, l’uomo è dovunque uomo! Poiché si avvicina la festa della tua santa Patrona, il minimo che possa fare è di augurarti una buona festa, tanto più che son diversi anni che non l’ho fatto. Intendo dire che non l’ho fatto in maniera esterna ed esplicita, perché davanti a Dio non ti ho mai dimenticato e, assieme a te, gli altri fratelli e sorelle, non soltanto nelle loro singole feste patronali ma anche nel giorno del loro compleanno: ascoltando la Messa e comunicandomi alla loro intenzione; e per rimediare alle mie preghiere meschine e distratte, ho fatto spesso ricorso a quelle dei miei cari Novizi, tra i quali ve n’è sempre più di uno dotato di semplicità e ammirevole innocenza. Non dimenticherò certo di pregare Santa Barbara di assicurarti una speciale e potente protezione e di ottenerti da Dio le grazie che ti sono necessarie nello stato in cui la Provvidenza ti ha destinato. Vi porgo, mia cara sorella, a te e al tuo marito, gli auguri più caldi possibile per la fine ormai vicina di questo anno. Prego il Signore che vi conceda i frutti migliori della vostra unione, di darvi forza e coraggio per sopportare per amor suo qualunque contrarietà che vi può capitare, affinché faccia regnare tra voi due e tutta la famiglia la pace e il buon senso, che sono un anticipo dei beni eterni. Ho scritto a papà nel mese di agosto, per la triste circostanza della morte di nostro fratello Salvatore, ma credo che dovrò di nuovo scrivergli per avere da lui una duplice risposta. Se tu non avrai il piacere di rispondermi spesso, metti perlomeno una mezza paginetta buttata giù alla buona nella lettera che papà mi invierà per il nuovo anno. In attesa, gli porgerai da parte mia i più rispettosi saluti: abbraccia per me la tua famigliola che non vedrò, lo sento, se non in cielo, dove bisogna sforzarci, costi quel che costi, di rivederci tutti riuniti per cantarvi le misericordie del Signore. Ho scritto anche ad Agostino e Vittorio che, sembra, non ci tengono a rispondermi; non ci rimane che Achille il quale mi ha già scritto tre belle lettere di cui sono entusiasta perché sono piene di sensi di pietà e di religione. Ormai si è fatto tardi e sono costretto a terminare qui la mia lettera, tralasciando notizie che forse ti annoierebbero. Ma prima è giusto che io ti auguri mille e mille volte “buona sera”, come anche al carissimo cognato, senza dimenticare le nipotine e la loro nonna. Con il più sincero affetto e in unione a Nostro Signore, sono, mia carissima sorella, il tuo umilissimo e affezionatissimo fratello Fratel Salomone
P. S. Da domenica 20 il gelo si fa ben sentire!
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Lettera n°93 di Fratel Salomone alla sorella Maria-Barbara* (spedita da Mélun il 6 febbraio 1789)
G.M.G. - Mélun, 6 febbraio 1789 Mia carissima sorella,
Inizio a scrivere questa lettera senza sapere quando essa partirà e tantomeno quando essa potrà essere tra le tue mani. Quel che io so è che spero di metterla nelle mani del caro Fratel Visitatore la cui partenza non è stata ancora ben fissata, né tantomeno il giorno in cui ciò avverrà. Perché per coprire la distanza di cento leghe, e qualche volta di più, ne abbiamo notizia solo il giorno prima. Càpita anche che l’avviso vien dato addirittura di mattina e la posta parte nel pomeriggio dello stesso giorno. Pensa un po’ se si ha la possibilità di attendere con comodo a qualche preparativo che spesso consiste nel prendere il mantello, il cappello, il portamonete, un sacchetto e un bastone; e poi ecco il pellegrino in strada. Certo desidereresti che in uno delle prossime quattro mattine mi si impartisse l’ordine di imbarcarmi e dirigere il mio viaggio verso Boulogne. Bisognerebbe certo obbedire; e come pensi e credi, io non farei certo grandi violenze su me stesso. Ma non c’è nessun segno che questo viaggio possa realizzarsi per me. Tu ricorderai bene che ti ho detto “arrivederci fra 15 anni” e di anni non ne sono passati che sette: perciò… pazienza! Mi son permesso questa battuta per farti ridere un po’, tanto meglio se vi sono riuscito, dato che il sig. Ricart vi ha messo un po’ del suo. Ma veniamo al serio…. Come stai tu, tuo marito e tutti gli altri di famiglia? Scrivimi su di essi qualcosa di preciso almeno tramite il caro Fratello Assistente che in qualche maniera mi farà giungere la tua lettera fino a Parigi. Se non hai il tempo per scrivermi una lunga lettera, fatti aiutare da una delle tue segretarie: non ne mancano certo in casa; anzi è bene esercitarle ogni tanto in questo tipo di occupazione, tanto utile alla loro formazione. Robertina e Rosalia dovrebbero essere ormai capaci di scrivere una lettera! Dunque, che prendano in mano la penna! Perlomeno avranno il coraggio di rispondere alle lettere che lo zio invia loro: credo che non verranno meno a questo loro dovere. Esse mi riferiranno notizie e fatti e tu ne controllerai la verità: che ti danno quelle soddisfazioni che hai diritto di aspettare da loro; che ti aiutano in quello che possono nel governo della casa e secondo quello che tu indicherai loro; che mettono ogni istante a profitto non solo con qualche utile lavoretto ma anche comportandosi secondo i princìpi del cristianesimo che rendono tutte le azioni meritorie per il Cielo *
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e anche talora vantaggiose per la vita, perché non c’è nulla di meglio che esercitarsi in gioventù ad amare il lavoro e l’occupazione. Proprio questa bella loro età è molto utile per acquisire buone abitudini, perché, secondo lo Spirito Santo, ”normalmente si segue per tutta la vita, e anche nella vecchiaia, la via che si è battuto in gioventù”. Spero di non aver sprecato il tempo scrivendo ai miei nipotini e nipotine, perché credo che debbono migliorarsi per consolidare il loro carattere. Mi farai sapere, cara sorella, se le mie preoccupazioni e i miei suggerimenti avranno sortito qualche buon effetto…D’altronde se in questo, come penso, mi sono proposto il bene e la gloria di Dio, questo buon Dio non mi lascerà senza ricompensa. Chiedetegli che si degni di essere io per primo fedele all’adempimento dei miei doveri, che io desidero che quelli ai quali sono unito da legami di sangue e di amicizia adempiano i loro doveri di buoni cristiani. È vero che trovo nel mio stato molte facilitazioni per riferire le mie azioni a Dio e alla mia salvezza, ciò che non si riscontra facilmente nel mondo; tuttavia è anche vero che, se si ha una ferma volontà di volersi salvare, non c’è niente nel mondo che possa essere un ostacolo insormontabile. Ogni cosa diventa occasione di santificazione quando si vuol veramente santificarsi: l’esempio dei santi di ogni ceto e stato conferma ciò che dico. Ci sono stati santi di ogni condizione sociale, santi che sono vissuti nel mondo o nel chiostro, nello stato matrimoniale e nella vita religiosa; ne sono testimoni santa Monica, santa Francesca e tante altre ancora. Tutto sta nel saper approfittare delle circostanze, nel purificare i propri punti di vista e le proprie intenzioni. Quando in ogni avvenimento della vita non si vede che l’adempimento del disegno della Divina Provvidenza, ci si guarda bene dall’inorgoglirsi in tempi favorevoli, di abusare dei beni temporali che la Provvidenza concede, non ci si considera che come depositari di questi beni e si ha cura di soccorrere il povero nella sua indigenza. Che se poi Dio permette che si viva nelle avversità, nelle difficoltà o addirittura nella completa mancanza dei beni di questa terra, non ci si lamenta affatto: al contrario ci si persuade che il buon Dio, il quale vuole la salvezza di tutte le sue creature, non ci priva dei vantaggi della terra che in proporzione del progetto che ha di comunicarci i beni infinitamente preferibili e che noi dovremmo da parte nostra stimare tanto quanto il corpo è inferiore allo spirito, tanto quanto l’eternità è superiore al tempo. Che sono, infatti, tutti i beni della terra? Non sono che vanità, niente, marciume; e poiché tutto questo deve passare e perire con il tempo, non c’è niente che valga se non quello che è eterno o che può procurarci la vera gloria, la gloria del cielo. Sarebbe pertanto difficile in tutto il mondo, quando arriva qualche disgrazia, qualche perdita di beni, dire: “L’ha voluto Dio: sia benedetto il suo santo nome. Egli ha permesso questa disgrazia, questa malattia, la morte di
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quel bambino, di quell’amico. Per il mio bene io mi sottometto alla sua divina volontà”. Ma può darsi mi obietterai: “Accetterò senza batter ciglio questo discorso e avrò il comportamento che ne deriva; mi rassegnerò alla volontà di Dio se dovessi pensare solo a me; ma io ho una famiglia numerosa che debbo nutrire, sostenere e a cui devo pensare giorno dopo giorno”; tutto quello che dici è meraviglioso, è tuo dovere occupartene e usare tutti i mezzi per riuscire in maniera onesta in tutte queste cose; ma sempre senza inquietudine, dopo aver usato tutti i mezzi che la prudenza suggerisce e che la religione autorizza non riusciresti mai a dire: Dio sia benedetto. Ma chi crescerà e nutrirà i miei figli? Colui che ce li ha dati; colui che nutre gli uccelli del cielo, i quali non hanno né cantine né granai. Cerca dunque, cerca innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia: tutto il resto ti sarà dato in sovrappiù: se non abbondantemente almeno sufficientemente. Tobia diceva a suo figlio: “È vero che siamo poveri, ma è anche vero che avremo tanti beni se non avremo che Dio”. Questa dovrebbe essere la prima preoccupazione di un padre e di una madre di famiglia cristiana; sono questi i pensieri che portano alla pratica della virtù, che assicureranno il loro amore, che procurerà loro i mezzi per essere e vivere da buoni cristiani e da veri discepoli di Gesù Cristo, che infine li instraderà nella via della salvezza. Perché, dice il Signore, chi è colui che con tutto il suo sapere può aggiungere una spanna alla sua statura? Possiamo noi impedire ciò che Dio ha stabilito che avvenga? e quando un triste avvenimento è accaduto, cosa si guadagna a mormorare e a piangersi addosso? vien modificato in meglio il proprio destino lamentandosi? al contrario, non aumenterà forse il proprio malessere e il proprio affanno? Invece, uniformandoci ai princìpi della religione si addolcisce la propria amarezza e, ciò che vale di più, la rendiamo meritoria. Concludiamo, dunque, decidendo di essere sempre rassegnati alla volontà del Signore, fondata su questa duplice verità: che non ci succede niente se non per ordine o permesso di Dio e che tutto quello che ci può capitare avviene per il nostro bene, perché tale è la volontà di un Padre pieno di bontà per noi: anche quando ci invia qualche croce. Sorella mia cara, oso sperare che tu non ti sia annoiata leggendo questa mia lunga lettera. Ma ricorda: bisogna passare alla pratica. Preghiamo Dio vicendevolmente che ci conceda la sua grazia, perché ho anch’io bisogno delle mie certezze ed è più facile dire che fare. Con il più sincero affetto, carissima sorella, sono il tuo umilissimo servo e fratello Fratel Salomone.
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JOSEPH RATZINGER (BENEDETTO XVI), L’infanzia di Gesù. Rizzoli, 2012, pp. 174. e 17.00.
Se stessimo alle parole della premessa con cui, quasi con distacco e accorta timidezza, il Papa definisce il suo scritto “piccolo libro”, “piccola sala d’ingresso”, “piccolo libro con i suoi limiti”, potremmo essere indotti a pensare che si tratti di una predichina da poco; così come se dessimo importanza alle amenità con cui importanti giornali nazionali hanno simulato una presentazione dell’opera senza nemmeno leggerla ma solo curiosando e, in certa misura banalizzando passi del capitolo quarto, il senso della meditazione sull’infanzia di Gesù ci sfuggirebbe del tutto. Il motivo della modestia con cui il Papa definisce “piccola” la sua ultima fatica editoriale sta nel fatto che essa tratta argomenti che non si limitano a contenuti antropologici, storico-filosofico-letterari sui quali, grazie alla sua imponente cultura, il Pontefice potrebbe eccellere senza contraddittorio, ma sono temi che confinano ed interessano aspetti biblici e religiosi che fanno parte della Rivelazione cristiana e del mistero di Dio. Ciò che il linguaggio teologico qualifica come “mistero”, non va confuso con l’accezione popolare che definisce misterioso tutto ciò che è in se stesso inspiegabile, se non addirittura reso tale in modo truffaldino per ingannare cre-
duloni. Davanti alla Sacra Scrittura, monumentale deposito di esperienze storiche, letterarie, religiose e di linguaggi la cui interpretazione non cesserà mai di presentare novità, l’indagine ermeneutica sviluppata dal Papa è ben cosciente che “il colloquio nell’intreccio tra passato, presente e futuro non potrà mai essere compiuto e che ogni interpretazione resta indietro rispetto alla grandezza del testo biblico”.1 La Sacra Scrittura, per quanto opera concretamente formulata dagli uomini, secondo la nostra fede, ha come “ultimo e più profondo autore, Dio stesso” e costituisce, insieme alla Sacra Tradizione, una delle due sorgenti della Rivelazione. Dio è fedele anche nello svelarsi, non deluderà le nostre attese, ma richiede un ascolto particolare nell’avvicinarsi a Lui. Questo libro, oltre ai contenuti di tipo strettamente culturale, vuole indicare ad ogni pagina quale debba essere il metodo, l’atteggiamento scientifico ed interiore di chi voglia addentrarsi nei cammini dell’ermeneutica e dell’esegesi biblica. Per cogliere questa dimensione metodologica è necessario porsi in una condizione di semplicità e “conquistare” il testo con paziente audacia e fiducia. Dicevo sopra, di certi giornali a tiratura nazionale, che non potendo ignorare una notizia editoriale così rilevante, hanno presentato “L’infanzia di Gesù” di Benedetto XVI come una sorta di 1
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mascherato pamphlet con cui il Papa cercherebbe sostanzialmente di demitizzare i racconti dell’infanzia, forse per proteggersi dall’emergente critica testuale contemporanea, incline a porre il dubbio sui contenuti evangelici apparentemente e razionalisticamente più facili da attaccare: la nascita verginale di Gesù, la Risurrezione, i miracoli di Gesù, le antiche profezie anticipatrici la venuta di Cristo e, perciò, la consistenza stessa di un progetto incarnato di salvezza da parte di Dio, l’essenza ed il ruolo della Chiesa nel mondo, ecc… Non stupisce perciò se importanti quotidiani, ritenendosi finalmente autorizzati ad avvalorare un’opera critica e revisionistica della religione cristiana, hanno colto ed estrapolato sporadiche porzioni delle riflessioni del Papa al fine di raggiungere importanti “svolte culturali” come la manifesta fantasia dei Magi, l’inconsistenza di angeli canterini alla nascita di Cristo, l’incredibile fenomeno della stella cometa, e avanti di questo passo, fino alla fondamentale certezza che nella grotta di Betlemme non ci fossero nemmeno il bue e l’asinello, che tanto fanno sognare i bimbi di tutto il mondo, davanti al presepio. Veloci ed ingannevoli consultazioni del quarto capitolo del testo, pilotate dalla curiosa scorsa dell’indice, hanno così dimostrato che gli estensori degli articoli non avevano nemmeno letto la “premessa” del libro, dove il Pontefice spiega i “due passi” necessari ad una giusta interpretazione di un testo biblico in generale e, in questo caso, dei due delicati e per nulla semplici racconti della nascita di Gesù contenuti nei Vangeli di Matteo e Luca. Davanti ad un testo sacro, il primo passo consiste nel porsi la domanda: “che cosa intendeva dire l’Autore, nel
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suo momento storico? Quali contenuti culturali e religiosi passati e a lui contemporanei ha voluto comunicare? Perché utilizza un certo linguaggio, quali le sue fonti, quali le tradizioni soggiacenti al testo, quali influenze intervengono nella stesura, quali traduzioni ed interpretazioni ne sono state operate nel tempo, quali elementi del testo sono oggettivamente chiari e quali invece permangono misteriose “questioni aperte”? Il secondo passo che compie il “giusto esegéta”, per non condannare il testo all’obsolescenza del tempo, è quello di porsi la vera domanda ermeneutica: “È vero ciò che leggo? In che misura può riguardare la mia stessa vita ed il mio rapporto con Dio? Comprendo e quanto comprendo dell’intreccio misterioso del passato con il presente, grazie ai contenuti e alle modalità di questo testo?” Certo, siamo agli antipodi della pseudo-cultura cui preme sapere se ci fosse o meno un asinello nella grotta, se gli angeli canterini fossero più o meno numerosi ed intonati, se i Magi fossero tre o più di tre, fossero di colore, fossero davvero dei re; se la strage degli innocenti sia una trovata teatrale e letteraria o corrisponda realmente ad un dissennato massacro, ecc… Con lo spirito dei “due passi” e la pazienza di chi, pur possedendo una vastissima preparazione culturale, si lascia condurre da quella che il fondatore dei Fratelli, Giovanni Battista de La Salle, chiama “attenzione semplice” indicandola come il requisito fondamentale della vera meditazione, il Papa affronta il cammino con un capitolo di sole 11 paginette ma dall’importanza inversamente proporzionale alla modesta estensione del testo: se dobbiamo
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capire Gesù, dobbiamo innanzitutto chiederci chi lui sia e da dove venga. La risposta a queste due domande costituisce lo scopo stesso dei Vangeli ed è per questo che Matteo e Luca, in posizione testuale ed intenzioni differenti, ricorrono all’esplicitazione della genealogia di Gesù, mentre Giovanni, pur senza genealogia, risponde pienamente nel Prologo alla domanda su Gesù, Parola vivente di Dio fra noi. Il terreno è quindi favorevole e pronto per il “secondo passo”: non ha più senso una genealogia generazionale cui si potrebbe dire che non apparteniamo. Il vero senso della genealogia è il cammino di fede in Gesù che ci accumuna tutti e ci fa tutti “nascere da Dio”. La nascita di Giovanni il Battista e di Gesù, preceduta dall’Annunciazione dei rispettivi nascituri, in contesti diversi e con sfumature straordinariamente differenti, sono la traduzione della grande “attesa messianica” del tempo. Questa è certamente la chiave interpretativa dei testi che narrano la promessa del Battista a Zaccaria e del “Figlio dell’Altissimo”, Gesù in cui si compirà la promessa di liberazione e salvezza iniziata nel roveto ardente di cui parla l’Esodo. Il Papa dedica affettuose e delicate pagine all’analisi dell’atteggiamento di Maria di Nazareth2 ben sapendo di sfiorare ed interpretare qualcosa che lo supera a dismisura e che rimane sostanzialmente affidato all’atto di fede ma che merita, nello stesso tempo, un robusto apparato critico biblico e poderose riflessioni teologiche. A Giuseppe, uomo giusto, vengono dedicate considerazioni di non poco
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conto, rilevando gli elementi profetici coinvolti, necessari a comprendere aspetti del cammino di salvezza connesso alla persona di Gesù. Benedetto XVI accenna anche a testi biblici tradizionalmente attribuiti dall’esegesi comune a Maria e a Gesù, come il carme del Servo di YHWH nel 53° capitolo di Isaia, ma facendo serenamente notare che un’interpretazione univoca e definitiva è ancora “parola in attesa”. Ma con chiarezza e logica interna, intesa a dimostrare la razionalità della fede, il Papa conclude: “Sì, io credo che proprio oggi, dopo tutta la ricerca affannosa dell’esegesi critica, possiamo condividere, in modo tutto nuovo, lo stupore per il fatto che una parola dell’anno 733 a.C., rimasta incomprensibile, al momento del concepimento di Gesù Cristo si è avverata – che Dio, in effetti, ci ha dato un grande segno che riguarda il mondo intero”.3 E questo “segno” è totalmente originale e non confondibile con altre tradizioni mitologiche, anche per ciò che concerne il concepimento e la nascita di Gesù dalla Vergine Maria: elementi fondamentali della nostra fede e vivaci, luminosi segnali di speranza.4 Superati i primi due capitoli del testo, svezzato il lettore alla metodologia esegetica, la lettura della parte restante si fa accattivante, meno ardua per chi non possedesse rilevanti strumenti culturali di teologia biblica. Il Papa lo sa, ed avendo introdotto il lettore al metodo dei “due passi”, pur con la rigorosità dell’impostazione critica, offre argomenti più sereni. La simbologia, l’allegoria, lo sforzo ermeneutico ora saranno più lievi. 3 4
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I racconti della nascita di Gesù, ricchi di particolari geografici, storici, ambientali, tradizionali, sono un terreno che va esaminato passo passo per cogliere i numerosi aspetti applicativi desunti da parole, atteggiamenti, situazioni e rivelazioni che gli Evangelisti collocano all’interno dei propri testi quasi come un mosaico di sensi espliciti o allusivi, intesi ad affermare la presenza di Dio fra noi, il progetto della salvezza manifestato in Gesù e gli aspetti caratterizzanti l’autentica vita cristiana. Il capitolo quarto è, come dicevo, ciò che più deve aver attratto i paladini di una religione consolatoria, fondamentalmente mitologica e quindi “religione dal cielo vuoto”.5 I Magi: chi furono?, cosa fecero?, dove andarono?, come mai seguirono una stella e che senso dare a questo fenomeno celeste?, come e quando adorarono Gesù?, Erode si irritò al punto di ordinare davvero quella insensata strage?... Il Papa non si perde in pettegolezzi di sapore storicistico ma segue fedelmente il testo secondo il metodo dei “due passi”, tessendo attorno a questi argomenti una serie di riflessioni intese ad identificare gli elementi razionali e storiografici offerti dagli studi più accreditati ed al vaglio della “giusta esegesi”. Molti di questi particolari fatti non sono che “avvenimenti storici il cui significato è stato teologicamente interpretato dalla comunità giudeo cristiana e da Matteo”, laddove per “interpretato” non si vuole assolutamente alludere ad una sorta d’inganno ordito ai danni dei lettori. 5 Cfr. GALIMBERTI, Cristianesimo, la religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, 2012, p 448.
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L’intenzione autentica degli Evangelisti è sempre stata quella di raccontare fatti storici e non meditazioni in forma di storie. “Matteo ci racconta la vera storia che è stata meditata ed interpretata teologicamente, e così egli ci aiuta a comprendere più a fondo il mistero di Gesù.6 Se quest’affermazione è fondamentale per l’interpretazione della Scrittura, allora è molto significativo riflettere sull’ultima vicenda offertaci da Luca, narrandoci l’involontaria distrazione dei genitori nei confronti di Gesù, creduto presente nella massa peregrinante reduce da Gerusalemme. Nuovamente, con l’aiuto del metodo dei “due passi”, ci chiediamo il perché di un racconto simile, quali tradizioni rievoca, dove ci vuole condurre l’Evangelista, a quale contenuto teologico vuole introdurci. Il testo ci presenta un Gesù, figlio di Maria e Giuseppe, che rivendica innanzitutto il proprio essere “Figlio di Dio”. Figlio devoto dei suoi genitori e giustamente “… loro sottomesso”7 e, pur tuttavia, proteso ad essere innanzitutto di Dio, crescendo in grazia, benevolenza, gradimento davanti a Dio e agli uomini. Ecco, siamo pronti per il “secondo passo”: il Papa legge in questo testo e rievoca il rinnovarsi dell’antica vicenda di Samuele, ad un livello più alto e definitivo: la vocazione di ogni uomo all’incontro con Dio, Padre di tutti. “Noi non possiamo comprendere appieno, in ultima analisi, il profondo intreccio esistente tra la dimensione umana e divina di Gesù: essa è un mistero affidato allo sguardo della fede. Tuttavia, appare in 6 7
Benedetto XVI: “L’infanzia di Gesù”, 2012, p.138 Lc 2,51
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modo molto concreto nella breve narrazione su questo dodicenne”.8 Conclusione: non si tratta di un libro facile, soprattutto per chi non è avvezzo alla riflessione biblica e richiede la pazienza di un’iniziazione nel metodo e nel merito. Lo sforzo di seguire l’argomento attraverso la fedele applicazione del metodo dei “due passi della giusta esegesi”, diventa progressivamente lo strumento stimolante alla prosecuzione e motivo di ammirata soddisfazione a lettura ultimata. Benedetto XVI conosce molto bene le diverse teorie teologiche e pseudo-teologiche del dibattito contemporaneo: le une protese a garantire una corretta esegesi biblica, le altre animate da un vuoto relativismo scientista. Perciò, con la semplicità di una riflessione sui Vangeli dell’infanzia, Egli offre l’indicazione precisa per un più corretto approccio alla Parola di Dio. Le 35 poderose opere di ricerca teologica cui fa riferimento nello svolgimento della sua lezione, così come le 211 citazioni bibliche che chiama a supporto della propria meditazione, non meno dei 132 nomi che ricorrono negli argomenti, testimoniano la serietà della ricerca e pur tuttavia riescono a non trasformare questo volume in un pesante studio sui Vangeli della natività di Gesù. Lo stesso Pontefice, con studiato distacco, una volta terminata la propria fatica esegetica, stilandone la “premessa”, indica il proprio lavoro come “piccolo libro con i suoi limiti” e “piccola sala d’ingresso”, che invita ogni credente a “rinascere con Gesù”. (F. Franco Savoldi, Docente all’Istituto lasalliano “Gonzaga” - Milano) 8
Benedetto XVI: op. cit. , p. 147
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La religione salvata dai ragazzini. E. E. SCHMITT, Oskar e la Dama in rosa, B.U.R., 2010. e 6.90. E. E.SCHMITT, Il bambino di Noè, B. U. R., 2010. e 5.90.
La produzione drammaturgica – avviatasi nel 1991 con la commedia “Il visitatore”, vincitrice di tre Premi Molière e ripresa in Italia nel 1995 da Antonio Calenda – è certamente quella che ha imposto la figura di E.E.Schmitt, autore di origini franco-irlandesi dai molteplici interessi, musicali e filosofici oltre che letterari, all’attenzione di pubblico e critica, decretandone il crescente e meritato successo. Vogliamo soffermarci, in questo nostro (primo!) spazio di Segnalazioni librarie, sulla sua attività di saggista e romanziere – intrapresa, con eguale fortuna, quasi contemporaneamente – e segnalare due preziosi romanzi brevi che, in realtà, si inseriscono in un ciclo definito dall’autore “Dell’Infinito” (iniziatosi con Milarepa e Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano), ampia e profonda riflessione sulle tre grandi religioni monoteiste del nostro tempo. Al di là della complessità dell’essere umano nella sua interiorità più problematica e nascosta, una delle tematiche centrali dell’opera di Schmitt è proprio quella di una spiritualità che non è patrimonio esclusivo di un’unica fede rivelata ma le pervade e le accumuna tutte, nella misura in cui in tutte sono ineludibili le domande di fondo che il fedele si pone: le risposte vengono da un “Oltre” (l’Invisibile, appunto), che colma la nostra ansiosa ricerca di trascendenza, calandosi nella quotidianità delle singole vite. Questo tema trova un originale meccanismo espressivo nella tecnica della “prospettiva rove-
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sciata”, su cui Schmitt ha quasi sempre impostato le sue opere, non senza suscitare critiche e perplessità: così ne La parte dell’altro si immagina la vita parallela di Hitler se, nel 1908, non fosse stato respinto alla Scuola di Belle Arti di Vienna (il suo patologico, violento narcisismo ne fa un artista folle e dionisiaco), mentre nel Vangelo secondo Pilato – che ricordiamo nella bellissima regia/interpretazione di Glauco Mauri al Valle, stag. teatrale 2008-2009) – il dramma della Crocifissione è vissuto nella tormentata ottica di un Pilato lacerato da dubbi, che trovano clamorose, implicite risposte nella provocatoria “scommessa” del Nazareno su una vita”altra”, sottratta agli insensati tormenti dell’uomo. Concludendo questa sommaria analisi dell’opera di Schmitt, e prima di soffermarci sui due libri oggetto della presente segnalazione, accenniamo appena, soprattutto perché molto cari all’autore, al Libertino – raffinato pamphlet filosofico che vede protagonisti Rousseau e Diderot (!) – e all’intrigante Piccoli crimini quotidiani – graffiante disamina delle dinamiche familiari cui il Carnage di Y. Reza, rilanciato dal successo del film di Polanskj, deve forse più di uno spunto. I due brevi, bellissimi romanzi oggetto della nostra “Segnalazione”, Oskar e la Dama in rosa e Il bambino di Noè (ristampati nel 2010 dalla BUR), fondono in modo assolutamente originale le tre costanti della poetica di Schmitt che abbiamo messo in evidenza: gli ineludibili interrogativi dell’esistenza di ognuno, il percorso e le peculiarità delle tre religioni monoteiste e la “prospettiva rovesciata”, cui abbiamo fatto esplicito riferimento nel titolo, permettendoci di parafrasare quello di un libro di Elsa Morante che, per citare C.Garboli, “con
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le donne, gli animali ed i bambini si muove da regina”. Sì, perché i narratori dei due libri – con la loro ottica smarrita ma percorsa da sorprendenti lampi di maturità, timorosi ma forti e coerenti più degli adulti e tanto più di questi capaci, soprattutto nelle situazioni drammatiche, di ricorrere al dono prezioso di una precoce ironia – sono due adolescenti. Oskar (nome fortunato nella narrativa del ‘900… lo ricordiamo rullare la sua protesta su di un Tamburo di latta e aggirarsi per New York alla ricerca di un padre sempre Molto forte, incredibilmente vicino) è ricoverato per una leucemia allo stadio terminale nella stanza di un reparto pediatrico dove “i grandi” – medici, infermieri, drammaticamente i genitori – non hanno vigliaccamente il coraggio di entrare e guardarlo negli occhi, dopo aver saputo che ha dieci giorni di vita. Improvvisamente una “Dama in rosa”, “visiting angel” dal nome fiabesco, dando un senso alla propria vita prima che a quel poco che resta di quella del piccolo paziente, in un intrigante gioco faustiano rovesciato gli propone di vivere un giorno come fossero dieci anni e, magari, informare un lontano, vecchio Signore sulle luci e le ombre della propria futura (ovviamente intensissima) vita in miniatura: Lui si chiama Dio, inizialmente può apparire misterioso, anche un po’ sgarbato agli occhi del nostro Oskar (“non risponde mai alle lettere che gli invio”…) ma, alla fine, pervade ogni fibra del gracile, sofferente corpicino, mentre lo scrittore conferma splendidamente come i temi della vita, della morte, della fede possano essere affrontati ed evasi con “calviniana” leggerezza. Diversa l’esperienza di Joseph, adolescente ebreo, protagonista inerme ma
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lucidissimo e curioso di un doloroso viaggio che – con analogie cinematografiche e letterarie, da Arrivederci ragazzi di Malle all’Amico ritrovato di Uhlman – lo porterà ad incontrare Padre Pons, rettore di un istituto dove ragazzi cattolici ed ebrei convivono, si confrontano (“Un cristiano, Joseph, è un ebreo che ha smesso di attendere”), solidarizzano per salvare se stessi e la società del domani dall’estinzione cui vorrebbe condannarli l’insensata e brutale barbarie nazista. Purtroppo – secondo Schmitt – non l’ultima né la sola delle tante forme di barbarie che nel corso del ‘900 hanno tentato di annichilire le radici culturali e la concreta sopravvivenza di tanti popoli
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dopo quello ebraico. Ma Padre Pons – provvidenziale, moderno Noè – cela un segreto nella sua “arca”, dove nasconde non solo Joseph e i piccoli ebrei durante le feroci retate, ma ben altro… Vorremmo tanto chiedere, a quanti verranno incuriositi da questi due gioielli narrativi, a chi è andata la loro preferenza di lettori (e possono, se desiderano, segnalarlo alla redazione della “Rivista lasalliana”) ma, forse, non sarebbe né giusto né corretto: Oskar e Joseph, le cui storie si leggono in mezz’ora, possono entrambi rimanere nell’anima per sempre. (Marco Camerini, Docente dell’Istituto lasalliano “Villa Flaminia” - Roma)
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SEGNALAZIONE LIBRI PER L’ANNO DELLA FEDE BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Libreria Editrice Vaticana, 2012, pp. 128. e 17,00.
BENEDETTO XVI (a cura di VIGINI G.), Imparare a credere, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 128. e 5,90.
BIANCHI E., Nuovi stili di evangelizzazione, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 128. e 4,90. CASETTI C., Piccolo catechismo per la famiglia, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 192. e 4,90.
CURTAZ P., La preghiera, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 96. e 4,90.
CURTAZ P., I dieci comandamenti, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 96. e 4,90. CURTAZ P., I sette sacramenti, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 96. e 4,90. CURTAZ P., Il credo, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 96. e 4,90.
DI PILATO V., Le parole della fede, Cittadella, 2012, pp. 160. e 10,62.
GAROTE D., Tra conoscenza e grido. Le dinamiche della fede, Paoline, 2013, pp. 200. e 15,00.
GUGLIELMINI L. - NEGRI F., Un altro vedere. Don Primo Mazzolari e la fede, EDB, Bologna 2012, pp. 144. e 12,00. ISNARD D.C., Correggere la Chiesa. Confessioni di un Vescovo, Edizioni La Meridiana, 2013, pp. 60. e 12,00.
LUCIANI A., Illustrissimi. Lettere ai Grandi del passato, Edizioni Messaggero di Padova, 2012, pp. 336. e 16,00. REZZAGHI R., Il sapere della fede. Catechesi e nuova evangelizzazione, EDB, 2012, pp. 192. e 16,50.
KASPER W., Chi crede non trema. Il sì di Dio e l’agire cristiano, EDB, 2012, vol. I, pp. 224. e 19,50.
KASPER W., Chi crede non trema. La fede nella vita cristiana, EDB, 2012, vol. II, pp. 264. e 17,50.
MAGGIONI B., Il volto nuovo di Dio. Detti e gesti di Gesù, I Pellicani, 2012, pp. 136. e 13,00.
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MAGGIONI B., Nuova evangelizzazione. Forza e bellezza della Parola, Edizioni Messaggero, Padova 2012. pp. 180. e 15,00. MARTINI C.M., Chi è Gesù, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 64. e 5,00.
MESCHINI G., La fede nella vita di un “semplice” cristiano, EDB, 2012, pp. 208. e 17,50.
OCCHIPINTI P. - VIGINI G. (a cura), 365 giorni con i testimoni della fede, Edizioni S. Paolo, pp. 396. e 14,90.
POLLASTRI C. - CATTANEO A. - BORRAVICCHIO E. - BOCCALETTI B. (a cura), Sorpresi dalla fede. Testimoni della vita nuova, Elledici 2013, pp. 296. e 16,00.
PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE, L’Anno della fede. Credere. Vivere. Celebrare, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 124. e 4,90.
PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE, Vivere l’Anno della fede. Sussidio pastorale, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 184. e 10,00.
RAVASI G., Guida ai naviganti. Le riposte della fede, Mondadori, 2012, pp. 129. e 18,00.
REY-MERMET T., Credere. Il Credo. I sacramenti. Il Vaticano II, EDB, 2012, pp. 1136. e 55,00.
SANTOPIETRO G., Senso della vita e incontro con Dio, EDB, 2012, pp. 152. e 14,00. SARTORIO U., Scenari della fede. Credere in tempo di crisi, Edizioni Messaggero Padova, 2012, pp. 132. e 10,00.
SECONDIN B., Inquieti desideri di spiritualità. Esperienze, linguaggi, stili, EDB, 2012, pp. 288. e 25,00.
TETTAMANZI D., La porta spalancata. Riflessioni sull’Anno della fede, Ancora, 2012, pp. 96. e 10,00.
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VIGINI G., (a cura), Questa è la nostra fede, Edizioni S. Paolo, 2012, pp. 96. e 4,90.
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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
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ISSN 1826-2155
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trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti Quale futuro per l’educazione cristiana?
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Enrico dal Covolo La trasmissione della fede oggi e la testimonianza dei Padri della Chiesa Francesco Trisoglio Fede: in vario incontro con i Padri della Chiesa Umberto Casale Il Concilio Vaticano II
Dario Antiseri Ogni errore è un’occasione di apprendere Carlo Nanni Educazione alla fede
Cesare Trespidi Lasalliani autori di libri di preghiera (II)
Joan Carles Vázquez Pistas para mejorar la calidad educativa en nuestros días
Gilles Beaudet Le Frère Marie-Victorin Kirouac, un éducateur et un chef de file V. Cuvilliers, M. Devif, M. Fontaine, Ph. Moulis, F. Ricousse Relazioni epistolari del Beato Fratel Salomone GENNAIO - MARZO 2013 • ANNO 80 – 1 (317)