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Lenny Bruce: la parola al potere
Un artista ‘scomodo’, potenzialmente eccezionale per il talento artistico ma molto sfortunato, poiché in anticipo sui tempi rispetto alla successiva contestazione del ’68 che avrebbe potuto aprirgli definitivamente le porte del successo: eppure, molte delle sue idee sono rimaste e nulla fu più come prima
Lenny Bruce, nome d’arte del monologhista Leonard Alfred Schneider, è stato il precursore di molte cose: il primo ad anticipare la ribellione al puritanesimo americano, che in seguito esplose nella contestazione del ‘68; il primo a inventarsi un genere, quello della ‘stand up comedy’ (commedia ‘in piedi’, ndr) in cui l’attore in scena non si limita a fare battute o a raccontare barzellette, ma propone un vero e proprio punto di vista critico rispetto a ciò che accade nella vita quotidiana o nella società. Caratterizzatosi per un linguaggio forte, spesso volgare, dai tratti anticonformisti, la sua carriera ebbe alcune ottime fasi, in cui riuscì a farsi conoscere in tutti gli Stati Uniti, alternati ad altri di crisi, dovuti anche alla moglie, Sally Marr, una spogliarellista eroinomane che finì col trascinarlo nel vortice della droga. Eppure, nonostante una carriera caratterizzata da alti e bassi, il suo talento risultò potenzialmente immenso, a tratti irresistibile, fino a essere definito, in seguito: “La voce della coscienza d’America”. In effetti, Lenny Bruce fece in tempo, nonostante i tanti guai della sua vita privata, a sollevare molte delle questioni che la società statunitense della fine degli anni ’50 e dei primi anni ’60 del secolo scorso, per puro conformismo preferiva non affrontare, rinchiudendosi dietro la vuota immagine idilliaca del ‘sogno americano’. Un Paese prigioniero delle proprie ipocrisie, che decise di entrare in guerra nel Vietnam e di tollerare il razzismo nei suoi Stati meridionali, criminalizzando al contempo l’utilizzo delle ‘parolacce’ nelle sue esibizioni. A causa di ciò, egli subì numerose disavventure giudiziarie, poiché arrestato più volte per oscenità durante o al termine dei suoi monologhi. Una battaglia, la sua, sulla libertà di espressione, che anticipò il ’68. Lenny Bruce, in fondo, venne lasciato solo nella sua battaglia: la ‘scomodità’ del suo personaggio, la sua voce e la sua libertà finirono con lo scontrarsi con un’America chiusa in se stessa, nei suoi tradizionalismi e nelle sue certezze. Tuttavia, fu la parola, la vera protagonista della sua vita: la sua condanna e, al contempo, la sua unica ‘carta’ a favore, che alla fine continuò a vivere di vita propria, trasformando il mondo dello spettacolo. Dopo di lui, un testo o un copione teatrale non dipese più da chi lo recitava, ma dagli eventi che lo circondavano. E la parola divenne praticamente incontrollabile, prendendo il sopravvento rispetto a colui che si faceva portatore, in scena, del soggetto e della sua narrazione.
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Valentina Cirilli