Introduzione alla filosofia

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Jacques M a rita in

INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA ( 1)



Ex libris 3

CittĂ Armoniosa


Questo volume è stato finito di stampare nel mese di febbraio 1982 presso le Grafiche Dehoniane in Bologna per conto delle edizioni

Città Armoniosa. Il titolo originale dell’opera è

Elements de philosophie (introduction generale à la philosophie). La traduzione è di Giulio Cusiano. La notizia è di Piero Viotto. © Pierre Téqui librairie-éditeur, 1963 © Città Armoniosa, 1982

Le edizioni

Città Armoniosa (C.P. 2 9 1 , 42100 Reggio Emilia, tel. 0522/38788) fanno parte dell’attività editoriale della Città Armoniosa SRL.


INDICE

9 Prefazione dell’autore 15 INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA 17 Introduzione generale 21

Prima nozione della filosofia 25 Capitolo primo 107 Capitolo secondo 205 Appendice 213 Riassunto pro-memoria 223 BIBLIOGRAFIA E NOTE



Jacques Maritain



PREFAZIONE DELL’AUTORE

1.

Componendo questi Elements de philosophie, ci siamo proposti di esporre fedelmente la dottrina di Aristotele e di Tommaso e di giudicare alla sua luce le grandi teorie che si sono succedute da tre secoli a questa parte e i principali problemi agitati dalla filosofia moderna. Abbiamo cercato d’altro canto di adattare la maniera di presentazione delle idee a ciò che conviene al nostro tempo; soprattutto abbiamo voluto seguire un ordine veramente progressivo (nei limiti del possibile, l’ordine di scoper­ ta), non appoggiandoci mai su una verità che non fosse già conosciuta e compresa e non introducendo una nozione o una proposizione nuova se non quando essa fosse recata e preparata dalle precedenti. Abbiamo do­ vuto in tal modo scostarci su molti punti dalla maniera di procedere dei manuali tradizionali e, in particolare, accrescere di molto l’importanza e l ’estensione dell’introduzione generale alla filosofia. In questo non ab­ biamo fatto altro che avvicinarci al metodo di Aristotele stesso. I primi tre libri della Metafisica non sono forse, a dire il vero, se non una lunga introduzione? Un lavoro di questo genere, per essere condotto onestamente, esige alcuni sviluppi, in mancanza dei quali l’insegnamento al quale ha l’am­ bizione di servire verrebbe privato di ogni valore formativo. Sarebbe un tradire la filosofia tradizionale il ridurla ad alcune grandi tesi divenute banali e ad alcuni luoghi comuni spiritualisti, trascurando di mostrare le sue sottili venature intellettuali e di mettere in valore la sua potenza di penetrazione analitica. La presente opera, è vero, è dedicata ai principianti e, innanzitutto, agli allievi dell’insegnamento secondario che preparano la seconda parte del baccalaureato*. Questa opera, pertanto, non può mirare alla pro­ fondità e alla ricchezza dialettica dei trattati scritti per gli specialisti e ri­ mane strettamente elementare. Deve tuttavia conservare all’esposizione della filosofia il suo carattere scientifico. * Grado scolastico simile alla licenza liceale.

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Una certa maniera di preparare al baccalaureato sembra d’altron­ de, confessiamolo, dare poca fiducia all’intelligenza degli studenti. Pun­ tando unicamente sul risultato pratico, non si ottiene, pur prodigando talora molto talento, altro che noia e mediocrità. Senza dubbio, le intel­ ligenze medie o pigre si incontrano più spesso delle altre; la facoltà di co­ noscere esiste tuttavia in ogni uomo e non chiede che di essere esercitata, nell’età soprattutto in cui la pesantezza della vita non l’ha ancora fiacca­ ta o in cui la famigliarità con l’errore non ha ancora indebolito molte certezze del senso comune o, infine, nell’età in cui l’inquietudine del ve­ ro è solitamente la più viva. Del resto, se è possibile (mediante un inse­ gnamento serio benché elementare) soddisfare le menti profonde, non si arriverà mai (qualunque impoverimento si faccia subire alla filosofia) ad accontentare coloro che non vogliono, o non possono, fare uno sforzo intellettuale. Tuttavia, una difficoltà sussiste, e non pensiamo certo di dissimu­ larla: in verità, è quasi impossibile, con il sovraccarico imposto dai programmi in materia scientifica, ottenere in un solo anno di studio un’istruzione filosofica, anche superficiale, sufficientemente compiuta: sarebbero necessari due anni. Praticamente, i professori risolvono la questione sia contentandosi di iniziare i loro allievi a nozioni generali d’ordine letterario, sia (ed è questo che preoccupa maggiormente) accor­ ciando e sacrificando deliberatamente alcune parti del programma. L’u­ no e l’altro mezzo sono evidentemente vietati all’autore di un manuale (e particolarmente di un manuale scolastico) che pretende di trattare non solo gli argomenti che figurano nel programma ufficiale, ma anche tutte le questioni che in sé sono essenzialmente attinenti alla filosofia, e senza lo studio delle quali la formazione intellettuale dell’allievo rimarrebbe realmente incompleta. La soluzione da noi adottata è la seguente: la presente opera forme­ rà un corso elementare completo, che conterrà di conseguenza più del programma ufficiale. Ma tutti gli sviluppi che comportano qualche dif­ ficoltà o che non fanno che precisare alcuni punti di dettaglio saranno stampati con carattere tipografico minore; inoltre, e soprattutto, si

contrassegnerà con un asterisco ogni paragrafo lo studio del quale non è necessario alla stretta preparazione del baccalaureato. Gli studenti che mirano solo alla preparazione pratica dell’esame, potranno dunque tra­ lasciare i paragrafi così segnati. Coloro invece (e se ne trovano, anche fra i candidati al baccalaureato) che hanno lo zelo del sapere e il deside­ rio di formare la loro mente troveranno utile leggerli. Quanto a coloro che, in seguito a circostanze particolari, disponessero, per la filosofia, di due anni di studio, non c’è bisogno di dire che non dovranno fare alcuna distinzione tra i paragrafi con asterisco e i paragrafi senza asterisco. Per rendere più facile l’uso di questo manuale, avremo cura d’al­ tronde di indicare il numero di lezioni che ciascuna delle sue parti rag­

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gruppa e, di conseguenza, il tempo che richiede, approssimativamente, per essere insegnata, nel caso ordinario di un corso di filosofia della du­ rata totale di un anno o, più esattamente, di otto-nove mesi. Indichere­ mo pure, dopo ogni grande divisione, la parte del programma ufficiale che è trattata nella medesima divisione e vi aggiungeremo alcune indica­ zioni pratiche concernenti la preparazione del baccalaureato, soprattut­ to la dissertazione. I nostri Elements de philosophie comporteranno due grossi volumi in ottavo, che usciranno in fascicoli, ogni fascicolo essendo dedicato a una delle grandi divisioni della filosofia, secondo l’ordine indicato alla fine dell’Introduzione generale, che costituisce, essa sola, il primo fasci­ colo. Abbiamo eliminato (almeno lo speriamo) ogni sviluppo inutile ed ogni vana chiacchiera. Si comprende nondimeno, dopo le precedenti spiegazioni, come non potevamo essere più brevi. Del resto si troverà, unito ad ogni fascicolo, un riassunto pro-memoria, di cui lo studente potrà servirsi per imparare le lezioni e che gli renderà più facile la revi­ sione generale della materia alla fine dell’anno. Tutti questi riassunti potranno essere rilegati insieme e formeranno così un memento molto succinto e pratico.

2. Quanto alP ordine seguito in questo manuale per P esposizione delle diverse parti della filosofia, si troveranno nell 'Introduzione generale tutte le indicazioni e le spiegazioni necessarie. Sottolineiamo soltanto che abbiamo creduto di dover seguire Pesempio del padre Hugon1 e del padre Gredt2e collocare la metafisica generale o ontologia dopo la filo­ sofia della natura e la psicologia. Come molto giustamente osserva il padre Gény nelle sue Questioni sull’insegnamento della filosofia scola­ stica 3, Pabitudine di mettere l’ontologia subito dopo la logica deriva in parte da considerazioni un po’ troppo sommarie di utilità pedagogica e in parte anche da false concezioni introdotte da Descartes, che pretende­ va di costruire la metafisica a priori (partendo dal suo cogito) e che la considerava come un’introduzione assolutamente necessaria, ma come una semplice introduzione, destinata a fondare le certezze della scienza positiva. Per Aristotele invece e per Tommaso, la metafisica è il termine supremo delle investigazioni del filosofo ed è opportuno studiarla dopo le altre parti della filosofia speculativa"; l’ordine naturale della cono°) Metaphysica, quae circa divina «versatur, inter omnes philosophiae partes est ultima addiscenda», Tommaso, Sum. contra Gent, 1,4. «Dicitur metaphysica, id est transphysica, quia post physicam occurrit nobis, quibus ex sensibilibus competit in insensibilis devenire», Tommaso, Sup. Boeth. de Trin., q. 5, a. 1.

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scenza (che è il contrario di quello delle cose) ci fa procedere effettiva­ mente dal meno astratto al più astratto, dal meno universale al più uni­ versale, dalle realtà sensibili alle realtà che non cadono sotto i sensi; in breve, dalle cose che sono più note e più chiare per noi a quelle che sono più intelligibili e più chiare a causa della loro specifica natura. «La metafisica» scrive il padre Hugon «tratta degli oggetti più dif­ ficili e che non hanno più nulla di materiale. Ora, P ordine naturale po­ stula che noi partiamo dal concreto e dal sensibile per elevarci successi­ vamente all’astratto e all’invisibile. La filosofia naturale deve dunque precedere la metafisica. È pur vero che molte nozioni di ontologia sono necessarie nelle altre parti della filosofia (e per questo numerosi autori pongono l’ontologia dopo la logica), ma queste nozioni possono essere brevemente indicate nel corso dei diversi trattati, senza che occorra aver visto tutta la metafisica4. Per rispondere a quel che c’è di fondato nelle preoccupazioni pedagogiche degli autori ai quali il padre Hugon allude, noi crediamo tuttavia che sia conveniente iniziare prima di tutto gli allie­ vi ad alcune nozioni di ontologia veramente primordiali, che si possono peraltro ridurre ad un minimo molto poco ingombrante (nozioni di es­ senza, di sostanza e accidente, di potenza e atto). Si farà sempre uso di queste nozioni, anche in logica: è importante perciò che esse siano sin dall’inizio chiaramente presentate alla mente. Per questo, la migliore disposizione, secondo noi, consiste nel farne, in una sezione àe\YIntro­ duzione generale e, di conseguenza, ancor prima di abbordare la logica5, un’esposizione sommaria e sintetica che, senza fare un doppione con lo studio più scientifico che sarà dedicato a queste nozioni nel trattato di ontologia, permetterà al principiante di acquisirne un’intelligenza suffi­ ciente.

3. Occorre aggiungere qualche parola sulla stessa dottrina qui esposta e sulla sua compatibilità con la preparazione del baccalaureato per la scuola secondaria? A dire il vero, la questione non si pone, poiché gli in­ segnanti che considerano vera questa dottrina sono per ciò stesso e in ogni caso obbligati in coscienza ad insegnarla ai loro studenti. Evidente­ mente, non può venire in mente ad alcun professore d’insegnare, sotto pretesto di facilitare la riuscita in un esame, altra cosa che la verità e di abbandonare così le menti che gli sono affidate allo scetticismo o a un’incurabile debolezza dinanzi all’errore. Per questo, la Chiesa, con­ vinta della verità della dottrina e dei principi metafisici di Tommano, vuole che nell’insegnamento cristiano questi siano fedelmente e santa­

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mente conservati, sancte teneantur*. Affrettiamoci d’altra parte a di­ chiarare che comunemente si fa dell’esagerazione eccessiva circa le pre­ venzioni antiscolastiche degli esaminatori e che dopo molte diverse espe­ rienze, sufficientemente prolungate, si ha la prova a posteriori che una classe di forza media, educata nella filosofia scolastica (dopo che la si è sufficientemente informata sui sistemi moderni del pensiero) affronta l’esame di baccalaureato con almeno altrettante probabilità di successo di una classe istruita in un qualunque pressapochismo eclettico. Senza dubbio, la disciplina scolastica si presta malamente alle amplificazioni senza senso, che sembrano connaturate a certi argomenti d’esame biz­ zarramente scelti. Ma si può considerare questo inconveniente come co­ sa da nulla rispetto alla superiorità reale di cui una vera formazione in­ tellettuale è la ferma garanzia. Qualcuno, dopo questo, si spaventerà della terminologia scolasti­ ca? È facile rispondere che nessuna scienza, nessuna disciplina, persino nessuno sport e nessuna attività artigianale possono costituirsi senza ri­ correre ad una terminologia specifica, sovente molto più arida e molto più artificiale che non il vocabolario dei filosofi. Chiedere, come si fa ta­ lora, che il filosofo parli come tutti è supporre che la filosofia sia un’o­ pinione di uso comune o una fantasticheria per la siesta e non quel che è realmente, cioè una scienza; significa chiedere a un disegnatore di tenere la matita come tutti, cioè come gli inesperti che non conoscono l’arte del disegno. Ciò che bisogna esigere è che non venga usato alcun termine tecnico prima di essere stato chiaramente spiegato e, inoltre, per quanto riguarda il baccalaureato, che il professore insegni ai suoi allievi il modo col quale è bene introdurre, in una dissertazione, al momento necessario e non senza giustificarne l’uso, questo o quel vocabolo ritenuto desueto dai moderni.

4. Osserviamo infine che, se la filosofia di Aristotele (ripresa e appro­ fondita da Tommaso e dalla sua scuola) può essere chiamata con ragio­ ne la filosofia cristiana per il fatto che la Chiesa non si stanca di racco6) Decreto della S. Congregazione per gli Studi, 27 luglio 1914. Cfr. il cànone 1366, par. 2, del Nuovo Codice di Diritto Canonico: «Philosophiae rationalis ac theologiae studia et alumnorum in his disciplinis institutionem professores omnino pertractent ad Angelici Doctoris rationem, doctrinam et principia, eaque sancte teneant». Cfr. pure il Motu pro­ prio dei 29 giugno 1914: «Sancte invio lateque servanda sunt posita ab Aquinate principia philosophiae, quibus et talis rerum creatarum scientia comparatur quae cum Fide aptissi­ me congruat, et omnes omnium aetatum errores refutantur; et certo dignosci licet quae Deo soli sunt neque ulli praeter ipsum attribuenda; et mirifice illustratur tum diversitas tum analogia quae est inter Deum eiusque opera».

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mandarla come la sola vera e per il fatto che essa si accorda pienamente con le verità della fede, pur tuttavia non è perché è cristiana che qui vien proposta al lettore, ma perché è dimostrativamente vera. La sintonia di questa filosofia (fondata da un pagano) coi dogmi rivelati è senza dub­ bio un segno esteriore, una garanzia extra-filosofica della sua veracità; ma non è da questa concordanza con la fede, ma dalla sua propria evi­ denza razionale che essa trae la sua autorità di filosofia. Tuttavia, la ragione e la fede, pur essendo distinte, non sono peral­ tro separate; e, poiché ci rivolgiamo principalmente a lettori cristiani, non ci siamo imposti il divieto di fare talora allusione, per meglio situare la filosofia nel loro spirito e per aiutarli a conservare il loro pensiero nelPunità, sia alle conoscenze familiari ad ogni cattolico, sia a certe appli­ cazioni teologiche dei principi filosofici. Ma sia ben chiaro che, nelle nostre dimostrazioni e nella struttura stessa della nostra esposizione filo­ sofica, non è la fede, ma è la ragione e la ragione soltanto che ha tutto lo spazio e che conserva tutta Pautorità.

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INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA (PRIMA PARTE)



INTRODUZIONE GENERALE



r Prima nozione della filosofia........................................par. 1 Capitolo primo ( 1. Nozioni sto r ic h e ........................... par. 2

INTRODUZIONE

GENERALE

Natura della filosofia

J \ 2. C on clusion i....................................par. 24

Capitolo secondo M . Le grandi parti della filosofia . par. 30 Divisione della < filosofia \ 2. Principali problemi ..................... par. 32



PRIMA NOZIONE DELLA FILOSOFIA

1. I filosofi un tempo si chiamavano sapienti o saggi. È stato Pitagora che, osservando come la sag­ gezza è propria di Dio solo, e volendo per questo esse­ re chiamato non saggio, ma solo amico o desideroso della sapienza, ha proposto per primo il vocabolo filo­ sofia: φ ιλ ία της σ ο φ ία ς = amore della saggezza6. La Prima nozione modestia di Pitagora è essa stessa molto saggia, poi- fllosofia· ché P altezza e la difficoltà delle verità supreme, come la debolezza della nostra natura, schiava sotto tanti punti di vista, fanno sì che la saggezza non è per l’uo­ mo un bene ricevuto a titolo di possesso7o di proprie­ tà, di cui possa cioè usare in un modo del tutto libero. Infatti, a causa delle molteplici necessità alle quali è sottomesso, l’uomo non la possiede mai se non a tito­ lo precario; cosicché noi siamo molto meno dei sa­ pienti che non dei mendicanti di sapienza. Rimane ve­ ro tuttavia che la filosofia non è altro che la saggezza stessa, così come alla natura umana si addice. Non è una saggezza infusa in noi soprannatural­ mente, e che convenga alPuomo in virtù di una luce soprannaturale; non è nemmeno una saggezza tutta spontanea e irriflessa (come, nei suoi limiti specifici, la prudenza degli animali, come ancora P assennatezza dei semplici), una saggezza che si confaccia alPuomo per un puro istinto di natura. È la saggezza dell’uomo come uomo, la sapienza che è propria dell’uomo in virtù dell’operosità dell’intelletto. E esattamente per questo che tale saggezza con tanta pena e in modo così precario viene conquistata e che coloro i quali ad essa

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delia


Un filosofo è un sag­ gio (della saggezza o sapienza propria­ mente umana).

tendono devono essere chiamati filosofi piuttosto che saggi. Questa è la nozione della filosofia che ci procura Fetimologia della parola, come Fuso che ne fa il lin­ guaggio comune. Un filosofo è un uomo umanamente saggio. E colui che si presenta come filosofo s’impe­ gna per ciò stesso a fornire agli uomini, sui grandi problemi che li preoccupano, le più alte chiarezze cui possa giungere la mente umana.

La definizione della filosofia, alla quale qui ci atteniamo (sag­ gezza - sapienza umana) è una definizione ancora superficiale, defi­ nizione nominale, che permette cioè di intendersi sul significato del­ la parola, per passare a una definizione più profonda, definizione reale, che fa conoscere cioè la natura della cosa, noi considereremo ora nella realtà storica la formazione e la genesi di quel che gli uo­ mini hanno convenuto di chiamare la filosofia. Seguiremo in questo, per quant’è possibile in un’opera di espo­ sizione, il metodo stesso di Aristotele, troppo spesso dimenticato in molte opere nelle quali le sue conclusioni sono insegnate, ma il suo spirito sembra misconosciuto. Questo grande realista non propone­ va nulla a priori, e studiava sempre l’evoluzione storica dei proble­ mi prima di proporre le sue soluzioni, che appaiono da allora come il termine normale di un processo di scoperta. Senza dubbio, un me­ todo di questo genere ci costringerà a fare un abbastanza lungo ex­ cursus storico, ma noi lo riteniamo assolutamente indispensabile. Da una parte, dal punto di vista pratico e pedagogico, l’esposi­ zione degli inizi storici del pensiero filosofico è quel che esiste di più adatto per iniziare i principianti ai problemi della filosofia e intro­ durli nel mondo tutto nuovo per essi della speculazione razionale, non senza fornire loro lungo la via numerose conoscenze fra le più utili. Più tardi potranno poi discutere le diverse teorie enunciate cir­ ca la filosofia, studiare obiezioni e risposte. Occorre innanzitutto che sappiano bene di che cosa si parla e che abbiamo una nozione sufficientemente chiara e precisa dei problemi filosofici, presentati nel modo più semplice. Dall’altra parte, e a buon diritto, il formulare di colpo, prima di qualunque esame preliminare e senza alcuna giustificazione con­ creta, le tesi che riguardano la natura della filosofia, il suo oggetto, la sua dignità, eccetera, significherebbe presentare la concezione tradizionale con un volto arbitrario e aprioristico che le è compietamente estraneo, e rischiare d’impegnare le menti in un puro verba­ lismo. Al contrario, incominciando con delle indicazioni sommarie sulla storia della filosofia nell’antichità, sino ad Aristotele, cioè si­ no alla fine del periodo della formazione della filosofia, si mostra questa mentre nasce e mentre si viene formando, e per ciò stesso si mostra contemporaneamente come in realtà si è effettuato il passag­ gio tra le posizioni del senso comune e la scienza dei filosofi, come i grandi problemi filosofici sono sorti da se stessi e come una certa nozione della filosofia, che si potrà più tardi provare mediante la

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controversia, ma che già emana da questa ricerca storica, s’impone naturalmente all’intelletto. Non abbiamo timore a insistere su que­ sti problemi pregiudiziali, che ritroveremo poi, trattati da un altro punto di vista, in critica. Essi concernono l’esistenza stessa, e la na­ tura della filosofia.

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CAPITOLO PRIMO

NATURA DELLA FILOSOFIA





1.

NOZIONI STORICHE



SEZIONE I IL PENSIERO FILOSOFICO PRIMA DELLA FILOSOFIA PROPRIAMENTE DETTA.

2. — La ricerca filosofica, proprio perché è Γοpera più elevata della ragione, è sconosciuta a tutti i popoli detti primitivi; e anche la maggior parte delle antiche civiltà o l’hanno ignorata o non hanno saputo scoprire la sua vera natura e il suo proprio essere. In ogni caso, essa ha avuto inizio solo molto tardi, verso l’VIII e soprattutto il VI secolo a.C.; e non ha trovato la via giusta verso il vero se non mediante un felice su­ peramento che appare davvero eccezionale, se si pensa alla moltitudine di vie sbagliate in cui tanti filosofi e tante scuole si erano impegnati. Tuttavia, alcune delle verità più semplici sulle quali si esercita la filosofia, sono state conosciute molto prima che la filosofia esistesse; e si ritrovano, sotto una forma più o meno rudimentale e con altera­ zioni sovrapposte più o meno gravi, le principali di ta­ li verità presso tutti i popoli antichi, nei tempi più re­ moti. Ma non è della filosofia che questi popoli aveva­ no conoscenza: si tratta infatti di quell’esercizio del tutto spontaneo e istintivo della ragione, che deriva dal senso comune; ed anche e soprattutto si tratta, in realtà, della tradizione primitiva. 3. — Circa l’esistenza di una tradizione primiti­ va comune ai diversi raggruppamenti della famiglia umana e risalente sino alle origini della nostra specie, le induzioni meglio fondate della storia combaciano

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La tradizione primiti­ va.


con le conclusioni dei teologi8. Prescindendo peraltro da ogni dato positivo, è molto conforme a ragione pensare che il primo uomo abbia dovuto ricevere da Dio la scienza così come l’essere, in modo che egli po­ tesse continuare con l’educazione l’opera della sua pa­ ternità. Ma questa scienza, come la religione primitiva con la quale faceva corpo, poteva conservarsi intatta nell’umanità? Da un lato, alcune verità molto elevate, trasmesse di generazione in generazione; dall’altro la­ to, un’intelligenza dominata dai sensi e dall’immagi­ nazione: l’effetto di una simile sproporzione doveva essere fatalmente una progressiva alterazione della tradizione adamitica, corrosa a poco a poco dall’o­ blìo, contaminata da errori, invasa dalla corruzione del politeismo e delle forme religiose più degradate {animismo, totemismo, idolatria, magia, eccetera). A dispetto delle alterazioni subite, questa tradizione primitiva ha tuttavia conservato nell’umanità, lungo i secoli, un tesoro (sempre più ridotto, è vero) di verità essenziali. Numerose nozioni filosofiche, riguardanti cioè i problemi più elevati che la ragione possa risolve­ re, facevano parte di questo tesoro. Ma essendo inse­ gnate solo tramite una tradizione religiosa, che corro­ borava le conoscenze istintive del senso comune, dire­ mo che vi si trovavano sotto un modo d’essere o uno stato prefilosofico .

4. — Non c’è da stupirsi che tutti i popoli, ne stadio primitivo0 della loro storia, abbiano ignorato la speculazione filosofica. È più interessante il fatto che alcune civiltà l’abbiano ugualmente ignorata: pensia­ mo qui ai popoli semiti e agli egiziani (che sono sotto questo aspetto nella stessa situazione dei semiti). No­ nostante l’elevata cultura scientifica di cui erano prov­ viste le loro élites intellettuali, gli egiziani e i caldei non hanno avuto, sembra, in fatto di nozioni filoso­ fiche altro che alcune conoscenze molto generali lega­ te alla loro religione e riguardanti la divinità, Γanima c) Primitivo quanto a questo o quel ramo particolare del grande albero umano e quanto ai nostri mezzi d’investigazione storica, ma non certo primitivo in senso assoluto ; poiché dietro a quel che noi chiamiamo lo stato primitivo dei popoli da noi conosciuti, vi è ancora un lungo passato umano.

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umana e la sua condizione dopo la morte, i precetti morali. Tali conoscenze, che si trovano del resto pres­ so di loro (come presso tutti i popoli), tanto più pure quanto più si risale nella storia a tempi più antichi, es­ si non le hanno mai sottoposte al vaglio e alle specula­ zioni della ragione; essi le ricevevano soltanto, come i loro dogmi scientifici stessi, da una tradizione sacra. La religione pertanto tiene qui il posto della filosofia: mediante la religione, questi popoli possiedono delle verità filosofiche; essi non hanno filosofia. Gli ebrei si trovano, da questo punto di vista, nel­ la stessa situazione degli altri popoli semiti. Sprezzan­ ti nei confronti della saggezza umana e delle opere del­ la ragione pura, per le quali del resto erano mal dota­ ti, non hanno avuto filosofi, almeno sino a Filone, che visse al tempo di Cristo; ma hanno avuto i profeti, e la legge di Dio. *5. — Le grandi civiltà ariane al contrario fan­ no vedere tutte, sotto forme peraltro molto diverse, uno sforzo tendente alla speculazione razionale e propriamente filosofica. Ma eccettuata la Grecia (e assai parzialmente PIndia) tale sforzo è rimasto ovun­ que impotente a costituire una disciplina scientifica autonoma, distinta dalla religione. Qui non è la tradi­ zione religiosa che tiene il posto della filosofia, è piut­ tosto la filosofia, cioè la saggezza delPuomo, che pe­ netra la religione e con essa si confonde. Il saggio adempie una funzione sacra, non è il capo di una scuola filosofica, è il fondatore di una setta religiosa o anche di una religione.

a) La filosofia persiana9. Presso i persiani, la cui religione ori­ ginale, per quanto le iscrizioni ce la fanno conoscere, era un mono­ teismo molto puro, Zoroastro, detto anche Zaratustra, fondò il mazdeismo (verso l’V ili o il VI secolo a.C.?), dottrina possente che sistematizza (e deforma) alcune grandi verità ereditate dalla tradi­ zione primitiva, sforzandosi di approfondire razionalmente Γim­ menso problema che s’impone sin dall’inizio al pensiero dell’uomo, il problema del male. Non vedendo che Dio è l’unico principio su­ premo e che tutto ciò che esiste, nella misura in cui esiste, proviene da Dio, al quale tutto è sottomesso, e non vedendo che il male è sol­ tanto una privazione , non un essere, e che non vi è alcuna cosa crea­ ta che sia cattiva per natura, Zoroastro giunge al dualismo e insegna 1’esistenza di due principi coeterni e increati, il principio del bene

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Presso i semiti, in ge­ nerale, e presso gli egiziani, non c ’è filo­ sofia.

Gli ebrei, popolo eletto della rivelazio­ ne.

Presso gli ariani, in generale, sforzo ver­ so la filosofia, ma impotente a costitui­ re una filosofia di­ stinta dalla religione.


(Ormuzd) e il principio del male (Arimane), che si dividono il domi­ nio delle cose e la cui lotta senza tregua costituisce la storia del mon­ do. Nella misura in cui Arimane s’identifica con l’Angelo ribelle della tradizione primitiva, il mazdeismo tende pertanto a fare del demonio un Dio che lotta contro Dio. b) LA FILOSOFIA IN INDIA, a) Il Brahmanesimo. Presso i popoli indiani, la cui storia intellettuale e religiosa è molto più complessa (noi presentiamo qui soltanto l’interpretazione che ci pa­ re più verosimile, non essendo ancora possibile in queste materie la certezza), allorché l’antica religione (il vedismo primitivo4*) si mani­ festa incapace di soddisfare le esigenze intellettuali e i bisogni socia­ li di una civiltà più evoluta, si vedono (cosa assai curiosa) delle idee filosofiche che sembrano provenire soprattutto da speculazioni sul sacrificio e sui riti liturgici, ma che sono elaborate in uno spirito ostile alle antiche tradizioni e al culto degli dèi, penetrare la classe sacerdotale e dominare la mente dei sacerdoti. Questi, per accorda­ re la conservazione del loro ufficio con le loro nuove opinioni, con­ tinuano a compiere gli atti esterni del culto, ma dirigendoli verso le forze indeterminate e occulte dell’universo e non più verso gli anti­ chi dèi. Da ciò, dopo un periodo di confusione, deriva la costituzione di una nuova dottrina (il brahmanesimo o induismo) che in se stessa è una filosofia, una metafisica, un frutto della saggezza umana, ma che rivestita, per così dire, degli ornamenti sacri, appare un giorno con la forza e gli attributi di una religione: si attribuisce ai libri che la contengono (Brahmanas e Upanishad) un’origine divina, e sono i sacerdoti che la divulgano. In modo che il brahmanesimo potrebbe essere chiamato una metafisica sacra, ieratica, o divinizzata; e che la dominazione della casta sacerdotale presso gli indù sembra realiz­ zare, a modo suo, dall’V ili secolo prima della nostra èra, quel re­ gno sociale e spirituale del filosofo-sacerdote e della scienzareligione, del quale sognavano certi pensatori del XIX secolo. È vero che la scienza umana che questi ultimi volevano diviniz­ zare era la scienza dei fenomeni, quella che viene chiamata la scien­ za positiva, che non è una sapienza, nemmeno umana, e che non può produrre l’ordine in nulla, come Agusto Comte giustamente af­ fermava. Mentre la scienza umana divinizzata dal brahmanesimo è la scienza delle realtà supreme, la metafisica, la sapienza dell’uomo propriamente detta. Metafisica vigorosa, sembra (per quanto si può

0 Dal nome dei più antichi libri sacri indù, chiamati Veda (scienza). Il Rig-Veda non sembra risalire oltre il XII secolo a.C. Il vedismo primito appare come una religione politeista poco coerente e a tendenza vaga­ mente panteista.

e) Dal nome della forza occulta e sacra, operante l’efficacia dei riti e penetrante ogni cosa, che veniva precedentemente considerata come la prima emanazione del Dio supremo e che è divenuta per i brahmani l’unica sorgente dell’essere. Il nome maschile Brahmà designa preferibilmente il principio primordiale come Dio, come Signore; il nome neutro Brahman lo indica piuttosto come sostanza unica e impersonale. 0 Dal nome del principio di vita (il sé trascendente dalle apparenze individuali) che veniva considerato come ciò ehe anima l’uomo e l’universo.

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dedurre da documenti la cui interpretazione rimane ancora molto incerta), ma, provenendo da una ragione non ancora disciplinata, incapace di distinguere e di sfuggire alle contraddizioni interne, trascinata dal sogno di una conoscenza intuitiva del Tutto più ange­ lico che umano e perduta nella sua stessa ambizione. Secondo questa metafisica, considerata almeno nelle sue ten­ denze predominanti, il principio del mondo, chiamato Brahmà* op­ pure Atman^ è esso stesso quel che costituisce Fintima realtà di tut­ to ciò che veramente esiste: donde deriva logicamente il panteismo, ovvero la confusione di Dio e delle cose10. Come peraltro cercar di sfuggire al panteismo? Questo principio supremo che non possiede né personalità né conoscenza, di cui non si può affermare attributo alcuno, che infine è assolutamente inconoscibile mediante un qual­ siasi concetto, per quanto universale esso sia, nemmeno mediante il concetto di essere, cosicché lo si deve chiamare Non o Non-essere, è l’unica vera realtà: tutto ciò che è molteplice e limitato, tutto ciò che conosciamo con i nostri sensi e anche tutto ciò che conosciamo con la nostra intelligenza, non esiste dunque come tale se non in un mo­ do illusorio, è pura apparenza: idealismo o negazione della realtà propria del mondo e delle cose. Ma che questa apparenza o questa illusione sussista, è un male, è il male stesso. L’esistenza delle cose individuali e di quell’immensa delusione che si chiama la natura (Maya), e che ci tiene prigionieri del molteplice e del cangiante, è es­ senzialmente cattiva, è la fonte di ogni dolore. Pertanto il problema del male sembra dominare tutta la specu­ lazione dei metafisici dell’India, come quella dei saggi della Persia. Ma i persiani, vólti piuttosto verso l’azione, cogliendo il male so­ prattutto sotto l’aspetto del peccato e assillati dalla distinzione del bene morale e del male morale, con la quale tentano di separare me­ tafisicamente l’essere dalle cose, sfociano nel dualismo. Gli indù, al contrario, dediti esclusivamente alla contemplazione, colgono il male soprattutto sotto l’aspetto del dolore o piuttosto della priva­ zione nel senso che i metafisici danno a questo termine11; e sconvolti dal sentimento profondo di una grande verità che non sanno affer­ rare (poiché è ben vero che è meglio per noi non essere che esistere senza essere uniti a Dio, ma essi credono addirittura che è meglio per tutte le cose non essere che esistere senza essere Dio), giungono ad un pessimismo che, molto diverso senza dubbio dal pessimismo romantico di uno Schopenhauer, appare innanzitutto come la steri­ le rinuncia di un’intelligenza orgogliosa e che vuol bastare a se stes­ sa. Che cosa insegna allora la sapienza agli uomini? Essa insegna loro a liberarsi dal dolore e dall’illusione. E perciò a liberarsi da ogni esistenza individuale. I brahmani professavano la dottrina del­ la trasmigrazione delle anime o metempsicosi; essi ritenevano che le anime, alla morte dell’organismo che animano, passassero in un al­ tro organismo, vivendo così successivamente in corpi differenti, di uomini, di animali o di piante12. Il castigo dei malvagi e degli stolti consiste pertanto nel continuare a subire, mediante queste reincar­ nazioni, la miseria dell’esistenza individuale. L’anima dei saggi, in­ vece, è sciolta dal giogo della trasmigrazione, è assorbita o riassor­ bita in Atman e ivi sfugge ai dolori del mondo perdendo ogni distin­ zione personale. La morale brahminica13 insegna i mezzi per giungere a questa liberazione e il saggio vi tende sin da questa vita mediante la con-


templazione. Il brahmanesimo infatti non ignora che la beatitudine ha inizio quaggiù con la contemplazione. Ma come esso s’inganna sulla natura della beatitudine, s’inganna parimenti su quella della contemplazione. La contemplazione alla quale il saggio mira non è in realtà altro che una contemplazione metafisica o piuttosto una specie di visione sopra-razionale che egli s’immagina di realizzare con le sole forze naturali dell’intelligenza creata: contrariamente al­ la contemplazione cristiana, essa è il frutto della sola intelligenza, non della carità soprannaturale e della sapienza infusa, che le è con­ giunta; essa ha per scopo l’unione con Dio mediante la conoscenza e non mediante l’amore; invece di ammettere un’azione che trabocchi dalla sua propria sovrabbondanza, tale contemplazione si separa nettamente dall’azione, che lascia completamente alle forze inferio­ ri. Ed è per mezzo di questa contemplazione metafisica che il brah­ manesimo pretende di farci iniziare il possesso del nostro fine ulti­ mo e la nostra beata condizione di liberati. Volendo pertanto con­ quistare con le sole forze umane quelle cime cui la grazia unicamen­ te può attingere, il brahmanesimo finisce in uno pseudo-misticismo puramente intellettuale (all’opposto di altre forme puramente affet­ tive di pseudo-misticismo) in cui il saggio, sperando non solo di ade­ rire a Dio ma di confondersi con lui, si inebria lui stesso, non di Dio, ma del suo proprio annientamento. Da ciò (eccettuato il caso di una vita spirituale autentica che la grazia è sempre libera di susci­ tare) derivano tante contraffazioni della mistica divina; e tutto un insieme di esercizi e di pratiche ascetiche, unite (nei gradi più infe­ riori, i fachiri) a quelle prove di forza di una mortificazione esagera­ ta che mostrano come l’afflizione della carne, quando non è regola­ ta dalla ragione e dettata dall’amore, sia ingannatrice non meno della voluttà. Naturalismo, questa è dunque l’ultima caratteristica e il vizio capitale del brahmanesimo8, come in generale di ogni misti­ cismo filosofico che derivi dal brahmanesimo, dal buddismo, dal neoplatonismo e dall’Islam.

β) Il buddismo. A partire dal VI secolo, nuove scuole nascono in India, le une ortodosse, le altre eterodosse. Fra tutte queste scuo­ le, la principale è quella di £akya-Muni soprannominata il Buddh a \ cioè l’illuminato, il saggio. Il buddismo, dottrina essenzialmen­ te negativa e dissolvitrice (orientata del resto verso la pratica più che verso la metafisica e la speculazione) può essere guardato come la corruzione e la decadenza della filosofìa brahminica. Sostituendo ciò che passa a ciò che è, rifiutandosi di dire che una cosa è o non è, e non volendo conoscere altro che una successio­ ne di formazioni instabili senza alcun fondamento fisso e senza al­ cun principio assoluto, in altri termini premettendo all’essere quel che viene chiamato il divenire o il fieri, esso appare, proprio nel *) Non vogliamo dire che il brahmanesimo cada nell’adorazione della natura sensibile, al di sopra della quale al contrario vuole assolutamente innalzarsi; intendiamo qui, col termi­ ne naturalismo, la pretesa di giungere all’unione divina e alla perfezione senza il soccorso soprannaturale della grazia.

h) Si chiamava in realtà Gotama. Il nome Cakya-Munì significa l’asceta o il solitario (mu­ nì) della razza o del clan ei £akya. Il buddha è vissuto nella seconda metà del VI secolo a.C. Sarebbe morto verso l’anno 477.

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tempo in cui in Grecia Eraclito formulava la filosofia del divenire, come un perfetto sistema evoluzionista ; del resto, se dichiara che resistenza di Dio, come quella d ’un io sostanziale o di un’anima im­ mortale, è inconoscibile (agnosticismo), la sua vera tendenza è di negare resistenza di Dio {ateismo) e di sostituire ogni sostanza con una corrente o un flusso (concepito peraltro' come reale in se stesso) di formazione o fenomeni (fenomenismo)1. Così la metempsicosi consiste per lui nella continuità di una catena di pensieri e di senti­ menti {corrente di coscienza, come si direbbe ai nostri giorni) che passa da un modo d’esistenza all’altro in virtù di una specie di slan­ cio verso la vita dovuto al desiderio d’essere; poiché è il desiderio la causa dell’esistenza, e noi siamo ciò che abbiamo pensato. Nello stesso tempo la dottrina della liberazione dal dolore, che domina tutto nel buddismo più ancora che nel brahmanesimo, cam­ bia d’aspetto e peggiora ulteriormente. Il male non è più soltanto avere un’esistena individuale o personale, il male consiste nell’esi­ stere, è male l’essere, e il desiderio è la fonte di tutte le sofferenze. Il saggio deve pertanto distruggere in sé l’aspirazione naturale dell’uo­ mo verso l’essere e verso la felicità o pienezza d’essere; egli deve ab­ bandonare ogni speranza e spegnere ogni desiderio. Giungerà in tal modo allo stato di vuoto o d’indeterminazione totale chiamato nir­ vana (letteralmente nudità, metaforicamente immortalità, refrige­ rio, sponda deirai di là..., questo termine essenzialmente oscuro non è mai stato definito dal Buddha) che lo libererà dal male dell’es­ sere e dal giogo della trasmigrazione e che, seguendo lo sviluppo lo­ gico dei principi buddisti, dovvrebbe essere considerato come l’an­ nichilimento dell’anima stessa. L’anima infatti non è che la catena o la corrente dei pensieri e dei sentimenti che devono la loro esistenza al desiderio d’essere; spegnere questo desiderio, significa dunque spegnere l’anima. Verso il nirvana il buddismo orienta tutti i suoi esercizi ascetici che desume dal brahmanesimo (mitigandoli notevolmente) e tutti i precetti della sua morale*, ordinata pertanto non a Dio ma ad una sorta di nulla mistico come fine ultimo. La morale buddista ha del resto l’uomo soltanto, e non Dio, come sua origine e regola supre­ ma; essa si scaglia contro il sistema delle caste che, portando all’ec­ cesso le esigenze dell’ordine sociale, crea tra gli uomini come delle differenze di razza, ma tende a dissolvere ogni ordine sociale in un egualitarismo e individualismo assoluti. Essa prescrive infine la be­ nevolenza universale (spinta sino alla proibizione di uccidere gli ani­ mali e al regime vegetariano obbligatorio), l’elemosina, il non­ ricordo delle ingiurie, la non-resistenza ai malvagi; ma questo non per l’amore del prossimo stesso, al quale si debba in coscienza vole-

') Almeno dai primi discepoli del Buddha.

J) «Tutto è vuoto, tutto è nonsostanziale» diceva il Buddha. *) Intendiamo qui il termine morale in un senso molto largo (dottrina dei costumi ovvero dei comportamenti etici). Se si usasse questa parola con un significato che implicasse Vobbligo morale (il quale non trova il suo fondamento ultimo se non nella nozione cristia­ na di Dio, creatore e trascendente), bisognerebbe dire che il buddismo, come del resto tutte le dottrine orientali (indiane o cinesi) non comporta una morale.

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re positivamente del bene (cioè dell’essere), bensì per fuggire perso­ nalmente il dolore e per smorzare ogni attività e ogni energia in una specie di estasi umanitaria. Il buddismo ci mostra perciò come la dolcezza e la pietà, quando non sono regolate dalla ragione e dettate dall’amore, possono deformare l’uomo così come la violenza, es­ sendo allora un segno di fiacchezza e non di carità. Questa dottrina di disperazione non è soltanto un’eresia riguar­ do al brahmanesimo, è un flagello intellettuale per l’umanità, poi­ ché deriva dalla dissoluzione della ragione. E vi si trovano già quasi tutti i grandi errori che s’attaccano alla ragione nei tempi moderni. Se essa viene esaltata ai giorni nostri con tanto favore in certi am­ bienti europei, questo avviene perché tutti gli spiriti che vogliono trarre dalPumanitarismo una morale di bontà per un mondo senza Dio, sono già virtualmente buddisti.

y) Altre scuole indiane. Il buddismo è una filosofia, agnostica e atea, ma usurpa le funzioni sociali e rituali di una religione. È a ti­ tolo di religione che si è diffuso presso tante migliaia di uomini'. In alcune delle altre scuole sorte dal brahmanesimo (scuole ortodosse queste) si trova invece uno sforzo verso la distinzione normale tra filosofia e religione. Questi sistemi filosofici si presentano del resto, sembra, meno come sistemi differenti che come punti di vista complementari ri­ guardo a una sola e medesima dottrina, riguardo cioè alla metafisi­ ca brahminica. Non parliamo del Vedanta, suprema espressione di questa metafisica e della dottrina della liberazione; né della Mimansa, una specie di trattato sui riti, e sulle influenze invisibili che ema­ nano da ogni azione; né del Sankhya, attibruito a Kapila (V ο VI se­ colo a.C.), che tratta del sistema di emanazione insito nelle cose e che sembra professare come Platone il dualismo psicologico, spie­ gando il dolore con l’unione che le anime contraggono con la mate­ ria; né dello Yoga, che insegna i procedimenti pratici che conduco­ no alla contemplazione, cioè alla perdita di ogni coscienza e all’i­ dentificazione con l’essere universale (Ishwara) mediante una co­ noscenza sovra-razionale. Ma il sistema Vaisheshika, attribuito a Kanada (verso il IV secolo a.C.?), abbozzando una sorta di cosmo­ logia e sforzandosi di dividere tutto ciò che è in un certo numero di classi fondamentali o categorie: sostanza, qualità, azione, universa­ lità, particolarità, relazione, e cercando di spiegare i quattro ele­ menti della materia ponderabile: terra, acqua, aria, fuoco, con l’u­ nione di particelle indivisibili e indistruttibili (atomi'4, nel linguag­ gio filosofico); e la dottrina Nyàya, fondata da Gotama, tentando di costruire una teoria del ragionamento e della dimostrazione (cioè una logica), molto confusa e molto incompleta del resto, queste due dottrine appaiono come gli abbozzi di un’opera propriamente e uni­ camente filosofica. Nulla di compiuto tuttavia è stato mai tratto da questi accenni e il pensiero dei popoli dell’India non è mai giunto al­ la costituzione di una disciplina razionale autonoma. 0 Tuttavia, nella misura in cui ha avuto così larga presa sull’umanità, ha cessato d’essere ateo, per cadere peraltro nelle nozioni più degradate della divinità; cosicché, il buddismo volgare, praticato oggi in molte regioni dell’Asia, ove ha assunto le più varie forme di adattamento, non è che un culto idolatrico che differisce interamente dal buddismo filoso­ fico.


c) LA FILOSOFIA CINESE. Se ci si volge infine verso Γestre­ mo-oriente e verso l’antichissima civiltà cinese15, si constata che l’antica religione della Cina, che sembra essere stata all’inizio assai pura16 si corruppe grossolanamente e si materializzò, a partire dal XII secolo a.C., sino a sostituire il cielo17 a Dio, ad adorare il sole e la luna, a rendere un culto divino alle anime degli antenati e agli spi­ riti e a lasciarsi invadere dalla magia e dalla stregoneria. Perciò i saggi dovettero, anche qui, mettersi all’opera per tentare di rimedia­ re a una decadenza che verso il VI secolo a.C. minacciava di manda­ re tutto in rovina. Si è creduto a lungo che i saggi cinesi non siano stati che dei moralisti tutti occupati a regolare le azioni degli uomini e compietamente sprovvisti di profondità metafisica. Questa opinione è vera solo riguardo a Confucio e alla sua scuola, sembra inesatta riguardo a Lao-Tzu, benché convenga usare con riserva le interpretazioni proposte da certi iniziati moderni del taoismo. Secondo costoro, Lao-Tzu, nato nel 604 a.C., s’ispira egli stes­ so ad una tradizione il cui monumento più antico è lo Yi-King, un libro che consiste essenzialmente in sessantaquattro simboli grafici (esagrammi o trigrammi doppi), prodotti secondo una serie di di­ sposizioni meccaniche18 dalla combinazione di segni più semplici, e suscettibili di una moltitudine di interpretazioni (metafisica, logica, matematica, morale, politica, astronomica) che si corrispondono analogicamente da un piano all’altro. Sembra che la metafisica del­ lo Yi-King sia preoccupata innanzitutto di queste problema: come può l’Assoluto, che basta interamente a se stesso, agire e manife­ starsi? Essa ammette nel grande principio unico, o perfezione, due aspetti differenti: Khien, fonte immobile e inconoscibile di ogni at­ tività, e Khouen, attività conoscibile, che manifesta eternamente la perfezione in un’evoluzione a spirale e in una corrente di forme senza fine; ma questi due aspetti si identificano in una sola e mede­ sima entità, e tutte le cose, dopo essere passate per tutte le forme dell’evoluzione (di cui il ciclo umano non è che una delle spirali) debbono ritornare a Khien. Tale metafisica deve dunque essere ca­ ratterizzata come una specie di panteismo19 evoluzionista. Essa co­ stituisce la base del sistema di Lao-Tzu (taoismo) che vi aggiunge soprattutto una preoccupazione di esoterismo e di ascesi20. È per il Tao (la Via), termine e mezzo eterno dell’evoluzione, che passano tutte le cose, per giungere infine al non-agire supremo (il nirvana ci­ nese, detto nibban) in cui sono reintegrate nel non-essere e s’identi­ ficano col principio di ogni attività. Il saggio, imitatore del Tao, si ritira da ogni cosa, poiché la Via, che ha nondimeno prodotto gli es­ seri, non partecipa ai loro movimenti. Avendo costruito questa ca­ sa, essa non vi abita. Distaccato dalle ricchezze, dalle passioni, dal­ l’esperienza sensibile, sapendo che il male non è che apparente, egli s’innalza nella solitudine, nel segreto, nell’umiltà (un’umiltà che non ha nulla dell’umiltà cristiana e che non è altro che prudenza e disprezzo nei riguardi degli uomini), sino ad uno stato di conoscen­ za perfetta in cui non agisce più, se non mediante la pura intelligen­ za. La sapienza a cui conduce l’ascetismo taoista, che usa l’oppio come l’ascetismo buddista usa l’ipnosi, questa sapienza illusoria è per gli uomini principio di rivolta; pertanto bisogna tenerla nasco­ sta, per sé soltanto e per una ristretta cerchia di discepoli ermeticim). Quanto a Confucio (Khung-fu-tzu, 551-479 a.C.) che, contra­ riamente a Lao-tzu, rappresenta in Cina la saggezza media e prati-

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ca, accessibile a tutti grazie all’insegnamento pubblico e all’attività, egli conserva indubbiamente di questa antica saggezza numerose ve­ rità, ma trascura ogni questione primaria, e si chiude in una morale puramente umana, sociale, terrestre e persino terra-terra. «L’op­ portunismo» egli dice «è la caratteristica del saggio. Ogni piano prestabilito, ogni decisione presa in anticipo è un male. Bisogna se­ guire in tutto una via media, camminare senza un’intenzione deter­ minata, non abbracciare nulla con passione, nulla respingere per antipatia, fare ciò che più conviene, per quel momento, nel caso specifico, man mano.» Il confucianesimo, dottrina fatta per la grande massa, ha finito per cadere nel puro materialismo. Il taoi­ smo, che pretende di rivolgersi ad un’élite e che, se l’interpretazione di cui sopra è esatta, costituisce col brahmanesimo uno degli sforzi più singolari che l’uomo abbia tentato per raggiungere, in quell’i­ gnoranza dell’amore che sembra una caratteristica primitiva del pensiero orientale, una saggezza esclusivamente intellettuale, in cui l’uomo deificherebbe se stesso mediante la metafisica, ha conosciu­ to in Cina delle alternative di trionfo e di oppressione; esso ha orga­ nizzato, sin dai primi secoli della nostra èra, sembra, alcune società segrete, ove si è rifugiato definitivamente dal XVII secolo e ove è di­ ventato un occultismo filosofico e politico dei più pericolosi. d) Ci rendiamo conto, per mezzo di questa breve rassegna sto­ rica, quale sia l’importanza che hanno nella vita dell’umanità i sag­ gi e la saggezza umana. Per tutte queste genti che stavano ai confini con le tenebre, senza insegnamento divino circa la verità, non vi era scampo, allorché le religioni più o meno corrotte, staccate dalla tra­ dizione primitiva, furono diventate impotenti a soddisfare i bisogni dell’animo e della vita comune, se non nella saggezza fornita dalla ragione umana; saggezza che nelle civiltà di cui abbiamo parlato or ora, lungi dal distinguersi dalla religione, violava il dominio di questa e pretendeva di condurre gli uomini al loro fine ultimo, sino al punto che si trovano realizzate in India con pieno successo, da parte del brahmanesimo, e quella divinizzazione della metafisica, che ha minacciato il mondo greco-latino sotto l’imperatore neo­ platonico Giuliano l’Apostata, e quella trasfusione di un sistema umano nella religione, che la filosofia di matrice kantiana ha tentato nel XIX secolo (il modernismo), come se l’operazione che riuscì sul vedismo potesse riuscire sulla religione di Gesù Cristo. Costatiamo pure come questa saggezza umana abbia fatto ovunque fallimento e come, prima ancora che la filosofia si sia co­ stituita in scienza autonoma, la maggior parte dei grandi errori filo­ sofici siano già stati formulati. Sin dall’inizio sono i problemi più elevati che si ergono come montagne dinanzi al pensiero dell’uomo, il problema del male, il problema dell’essere, il problema del diveni­ re e del fluire delle cose; come meravigliarsi che questo pensiero, che rischia l’errore dal momento in cui si innalza al di sopra delle verità elementari percepite dal senso comune, pensiero ancora male affermato e indisciplinato e tanto più ambizioso, abbia barcollato sin dai primi passi ed abbia inaugurato l’alta speculazione col dua­ lismo di Zoroastro, il pessimismo indù, il panteismo e l’idealismo

m) « Vuotate le teste e riempite gli stomaci» consiglia Lao-Tzu all’uomo di Stato, «debilita­ te gli spiriti e fortificate le ossa. Istruire il popolo significa rovinare lo Stato.»

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dei brahmani, Pevoluzionismo ateo del Buddha, la saggezza illuso­ ria di Lao-Tzu? Ovvero, al contrario, come meravigliarsi che questo pensiero non si sia fatto umile se non per cadere nel positivismo mo­ rale di Confucio, abdicando a tutta la sua grandezza e rinunciando alla sua ragion d’essere? Non ci meravigliamo neppure se più tardi, dopo che la filosofia si sarà formata, ci capiterà di ritrovare i mede­ simi errori: l’errore, in qualunque epoca della storia umana si verifichi, provenendo da una deficienza della ragione, è come un ritor­ no delle prime debolezze di questa medesima ragione e appare per­ tanto come regressivo per natura. Ma quel che occorre sottolineare qui, e quel che ci mostra an­ che troppo bene questa specie di preistoria della filosofia, è che quei grandi errori non costituiscono affatto delle vane e trascurabili mi­ nacce: essi possono avere successo, per la sventura delle disgraziate civiltà che colpiscono di sterilità. La verità (in tutto ciò che supera i dati del senso comune), la verità (come potrebbero credere volentie­ ri coloro che hanno avuto la gioia di nascere in un mondo plasmato da essa) non è data all’uomo già fatta, come un bene di natua. Essa è difficile da conquistare, dura a conservarsi; è una fortuna eccezio­ nale possederla, senza mescolanza di errore, e nell’insieme comples­ so dei suoi aspetti complementari. Come dunque è giusto riconosce­ re il beneficio dell’insegnamento rivelato, che ci dona dall’alto, in­ sieme con la conoscenza della verità soprannaturale, inaccessibile alla ragione, il possesso sicuro e tranquillo degli elementi essenziali di quella stessa verità d’ordine naturale che, in sé, è accessibile alla nostra conoscenza e che la nostra conoscenza è così abile nel perde­ re di vista! Ma come anche ci deve essere cara la fatica degli uomini che dal basso, mediante lo sforzo della loro ragione e senza il soc­ corso della rivelazione, sono riusciti a discernere i principi e a deter­ minare le basi immutabili di quella medesima verità d’ordine natu­ rale e a costituire una saggezza dell’uomo vera e progressiva (la filo­ sofia) che, incontrata e sopraelevata dalla verità discesa dal cielo, entrerà un giorno nel contesto di una sapienza superiore (la teolo­ gia), sapienza dell’uomo divinizzato dalla grazia, la saggezza per ec­ cellenza! Quanto preziosa deve essere ai nostri occhi Γ eredità sacra del pensiero ellenico!

6. — La Grecia è Punico momento del mondo antico in cui la saggezza delPuomo abbia trovato la sua via e dove, per l’effetto di un felice equilibrio delle forze dell’anima e di un lungo travaglio per acquisire la misura e la diciplina dello spirito, la ragione umana sia giunta all’età della sua forza e della sua maturità. Del resto il piccolo popolo greco appare per questo, accanto ai grandi imperi dellOriente, come un uomo in mezzo a giganti bambini; e di lui si può dire che sta I greci, popolo alla ragione, e alla parola umana, come il popolo della ragione. ebraico sta alla rivelazione e alla parola di Dio. È unicamente in Grecia che la filosofia acquista

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eletto


un’esistenza autonoma, distinguendosi esplicitamente dalla religione. Così, almeno nell’epoca più pura e più gloriosa dello spirito ellenico, essa riconosceva i suoi limiti e si assegnava un campo strettamente determi­ nato (un’investigazione scientifica delle verità pura­ mente razionali); mentre la religione greca, già molto decaduta al tempo di Omero, diveniva sempre più in­ capace di soddisfare i bisogni dell’intelligenza e si cor­ rompeva ogni giorno di più. Quando i greci, abusando con orgoglio della filo­ sofia e della ragione, vorranno rinchiudere le cose di­ vine nei confini della loro saggezza e si dilegueranno nei loro pensieri, meriteranno la condanna portata da san Paolo contro la sapienza di questo mondo, quae est stultitia apud Deum. Ma la filosofia in sé, nata dal loro spirito, è pura dalle loro brutture, non avendo per oggetto altro che la verità.

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SEZIONE II LA FILOSOFIA PROPRIAMENTE DETTA

7. I SAGGI — I primi pensatori della Grecia so­ no i poeti, interpreti delle tradizioni religiose. Creato­ ri di miti come Esiodo e Omero, talora profeti, come quelPEpimenide di Cnosso che purificò Atene dalla peste costruendovi altari senza dedicazione, essi non interessano la storia della filosofia propriamente det­ ta. La filosofia greca, secondo la testimonianza di Aristotele, incomincia con Talete di Mileto, uno dei saggi o gnomici che vissero nel VII e VI secolo prima della nostra èra. Questi saggi, che la tradizione considera insieme sotto il numero di sette e dei quali gli antichi ci danno elenchi diversi, si proponevano innanzitutto di emen­ dare i costumi dei loro concittadini; le loro sentenze, alcune delle quali ci sono riferite da Platone nel Prota­ gora, non fanno altro che enunciare gli insegnamenti pratici che essi traevano dalla propria esperienza della vita; erano degli uomini d’azione, legislatori o mora­ La filosofia s e n te n ­ s a o g n o m ic a non listi, dei prudenti, non erano ancora dei filosofi. Uni­ zèiouna vera e propria co fra loro, Talete abbordò gli studi speculativi (geo­ filosofia. metra e astronomo, Talete dimostrò che tutti gli ango­ li inscritti nel semicerchio sono retti e avrebbe predet­ to — grazie indubbiamente alle conoscenze che aveva della scienza babilonese — l’eclissi centrale di sole del 28 maggio 585). I filosofi che vengono dopo di lui sono ancora in maggioranza uomini impegnati nella vita pubblica, che si appassionano per la vita della città; ma tale atti-


vità pratica non impedisce loro di avere sin dalPinizio una conoscenza molto chiara della vera natura della loro scienza. In ogni caso, salvo qualche personalità eccezionale, come Empedocle taumaturgo o Pitagora, fondatore di una setta religiosa, la filosofia greca si distingue subito dalla religione; si forma anche criti­ cando e combattendo la mitologia popolare e appare come l’opera propria della ragione. La fase dello sviluppo ascendente di questa filo­ sofia, dopo Tale te sino ad Aristotele, è quella che qui unicamente ci interessa, poiché fu allora che la filoso­ fia, con il suo valore umano assolutamente universale, si costituì in una maniera definitiva. Essa comprende circa tre secoli, e la si può dividere in tre grandi perio­ di: periodo di elaborazione (i filosofi presocratici); pe­ riodo di crisi (i sofisti e Socrate); periodo di maturità feconda (Platone e Aristotele). A - 1 FILOSOFI PRESOCRATICI GLI IONICI

I f i s i c i o filosofi delia n atu ra sen sib ile (scuola ionica princi­ palmente) vogliono spiegare tutto con qualche principio materiale.

8. TALETE E I SUOI SUCCESSORI — Ec dunque la ragione umana che, con le sue sole forze, si mette alla ricerca dei principi e delle cause delle cose. Ciò che in primo luogo colpisce Fintelligenza dell’uo­ mo, è quel che egli vede e tocca, quel che conosce coi sensi. E ciò che egli anzitutto cerca quando vuole spie­ garsi una realtà qualsiasi, è di che cosa quella cosa è fatta. Pertanto, i primi pensatori greci non considera­ no nelle cose altro che la stoffa di cui sono fatte, la lo­ ro materia, ciò che noi chiameremo più tardi la causa materiale, che essi considerano ingenuamente come quello che è sufficiente per spiegare tutto. Peraltro, essendo il cambiamento il fenomeno più generale e più importante presentato dalla natura e innanzitutto il cambiamento per cui un corpo diventa un altro cor­ po (così il pane diventa carne, il legno diventa fuoco, eccetera), essi comprendono che la materia assolutamente primigenia di cui son fatti i differenti corpi de­ ve essere la stessa per tutti, essendo il soggetto comune di tutte le trasformazioni dei corpi. Ma per il fatto che non sanno ancora ammettere altro che quello che si tocca e si vede, pensano di trovare questa materia in

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qualcuno degli elementi che cadono sotto i nostri sen­ si. Talete quindi, per esempio, (624-546), ispirando­ si agli antichi miti che facevano provenire tutto dalle acque primordiali e osservando inoltre che le piante e gli animali si nutrono di umidità e che i germi viventi sono umidi, affermerà che P acqua è la sostanza unica, che rimane la stessa in tutte le trasformazioni dei cor­ pi. Per Anassimene (588-524) Varia ha questo compi­ to, per Eraclito (540-475?) è il fuoco, per Anassi­ mandro (610-547) è Vinfinito (nel senso di indetermi­ nato, άπειρον), miscuglio di tutti contrari. Acqua, aria, fuoco, infinito sono del resto ritenuti come qual­ cosa di attivo, di vivente, di animato, che una forza interiore rende capace di una fecondità multiforme e senza limiti. Tutto è pieno di dei; πάντα πλήρη θεών21, diceva Talete in questo senso. Considerando questa del tutto primitiva scuola ionica, che viene chiamata ilozoista, per il fatto che attribuisce la vita (ζωή) alla materia (ϋλη), vediamo come si debbano ritenere per ciò che di più rudimentale ci può essere in filosofia dottrine come il monismo materialista, che insegna resistenza di una sola sostanza materiale, e Vevoluzio­ nismo, che vuole spiegare tutto con lo svolgimento storico, lo sviluppo ο Vevoluzione di qualcosa di pree­ sistente.

L’evoluzionismo, che la metafisica tedesca da un lato, Spencer e Darwin dall’altro, hanno reso così celebre nel XIX secolo, è già professato in Grecia dai fisici del VI e del V secolo a.C.". Anassi­ mandro in particolare insegnava l’evoluzione eterna dei mondi che sorgono e tramontano a lunghi intervalli] per lui, gli animali sono nati dalla fanghiglia marina, circondati all’inizio, come una specie di testuggine, da un guscio spinoso di cui si sono liberati sulla terra­ ferma22 e l’uomo proviene da animali di una specie differente23, es­ sendosi originariamente formato all’interno dei pesci ove si è svilup­ pato e donde è stato rigettato una volta divenuto abbastanza grande per bastare a se stesso24. Più tardi, Empedocle d’Agrigento (493-433?), il cui pensiero è, su altri punti, in progresso rispetto a quello degli ionici0, spiegava l’origine degli esseri viventi mediante la produzione separata di or-

") in India, circa nella stessa epoca, il buddismo formulava, come abbiamo visto, la reli­ gione dell’evoluzionismo.

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gani e di membra, teste, occhi, braccia, eccetera che si sono riuniti a caso secondo ogni genere di combinazioni, fra le quali hanno potu­ to persistere solo quelle che erano atte a vivere (cfr. il principio dar­ winiano della persistenza del più idoneo). È degno di nota il fatto che prima di Democrito, anche Anassi­ mandro ed Empedocle cercano, come poi farà Pevoluzionismo pseudo-scientifico dei tempi moderni, di spiegare tutte le cose mec­ canicamente, cioè mediante la semplice aggregazione di elementi materiali, prodotta dal movimento locale.

Eraclito è il filosofo

del Dlvenire pur0·

9. ERACLITO, DEMOCRITO, ANASSAG RA. — A questi fisici, come li chiama Aristotele, o f i­ losofi della natura sensibile, si rifanno tre grandi pen­ satori: Eraclito, Democrito, Anassagora. 1) Eraclito, di Efesop, gen spregiatore della moltitudine e della religione volgare, porta eroicamente sino ai suoi primi principi metafisi­ ci il pensiero dei filosofi ionici e perciò stesso fissa una volta per tutte uno dei termini estremi dello sforzo speculativo e delPerrore. Una certa realtà percepita nelle cose lo ha afferrato con tanta forza, che egli ne è divenuto per sempre prigioniero. Questa realtà è il mutamento, ovvero i divenire. Egli vede talmente che tutto muta, che proclama che tutto è mutamento: ηαντά ρα, tutto scorre e gli uomini sono dei pazzi quando si compiacciono della sicurezza della loro fal­ sa felicità. «Coloro che sono nati, vogliono vivere per divenire poi dei morti e riposarsi; e lasciano figli sulla terra perché muoiano a loro volta.» Noi non tocchia­ mo due volte la stessa cosa, non ci bagnamo due volte nello stesso fiume. Nel momento in cui appoggiamo la mano su una cosa, essa ha già smesso di essere ciò che era. Ciò che esiste, cambia, per il fatto stesso che esi­ ste.

°) Empedocle ammette, invece di una sostanza corporea unica, quattro elementi specifica­ tamente differenti, i quattro elementi divenuti classici nella chimica antica: terra, acqua, aria, fuoco. E soprattutto egli cerca, per l’evoluzione delle cose, una causa efficiente (che consiste per lui nelle due grandi forze motrici dell’amore e dell’odio). Empedocle fu mago, medico, poeta, oratore, uomo di stato, oltre che filosofo. Aristotele gli attribuisce la fon­ dazione della retorica. p) La data della nascita e quella della morte di Eraclito non sono conosciute con certezza. Egli era al suo άκμη (nel fiore e nel vigore dell’età) verso l’anno 500 a.C.


Questo significa dire che non c’è, sotto il muta­ mento, alcun oggetto stabile e permanente, identico a se stesso, come una biglia di avorio, che rimane biglia di avorio mentre si muove. Pertanto, bisogna avere il coraggio di affermare che ciò che è {la cosa che cam­ bia) nello stesso tempo non è (poiché non vi è nulla che rimanga sotto il cambiamento): «Noi ci immergia­ mo in uno stesso fiume e non vi ci immergiamo, noi siamo e non siamo». E bisogna dire anche che i con­ trari si confondono: «L’acqua del mare è la più pura e la più sporca... il bene e il male sono una sola e mede­ sima cosa». «È impossibile» scriverà a questo propo­ sito Aristotele in una celebre pagina «che qualcuno concepisca che la stessa cosa esiste e non esiste. Eracli­ to è di un altro parere secondo alcuni, ma tutto ciò che si dice non è necessario che lo si pensi. La causa del­ l’opinione di questi filosofi è che essi non hanno am­ messo come essere se non le cose sensibili; e poiché ve­ devano che la natura sensibile è in un perpetuo movi­ mento, alcuni, come Cratilo9, hanno pensato che non bisognava dir nulla: si limitava a girare le dita»25. Scetticismo che deriva fatalmente dalla metafisica del­ la pura mobilità professata da Eraclito, benché questi personalmente abbia creduto con forza alla verità: «Se voi non attendete Γinatteso» soleva dire, «non giungerete alla verità, che è difficile da discernere, con fatica è accessibile». Pertanto, Eraclito è il filosofo dell’evoluzione e del divenire puro. Di conseguenza tutte le cose sono ai suoi occhi le differenziazioni, prodotte dalla discordia o dalla guerra (πόλεμος πατήρ πάντων), di un solo prin­ cipio in movimento, che egli pensa sotto la forma del fuoco, d’un fuoco etereo, vivente e divino. Da ciò si vede apparire sin dall’origine, con vigore, la necessità che lega indissolubilmente al monismor e al pantei­ smo5 ogni filosofia del divenire puro. «Se si dice che tutti gli esseri sono uno» scrive Aristotele26, «non si fa 9) È uno dei più celebri discepoli di Eraclito. Cratilo fu il primo maestro di Platone (Ari­ stotele, Metaf. 1,6). r) Dottrina che fa di tutte le cose un solo essere.

s) Dottrina che confonde il mondo e Dio.

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altro che ritornare alPopinione di Eraclito. Perciò tut­ to si confonde, il bene e il male sono identici, Puomo e il cavallo non sono che una cosa sola. Ma allora que­ sto non è più affermare veramente che gli esseri sono uno, questo significa che essi non sono nulla,» 2) Nato alcuni anni dopo la morte di Eraclito, Democrito di Abdera (470-361?), spirito molto meno profondo e che cerca le idee facili, tenta sì di discerne­ re nello scorrere dei fenomeni sensibili qualcosa di fis­ so e di stabile, ma egli chiede questo elemento stabile alPimmaginazione, non alP intelligenza. La sola realtà che egli riconosce è perciò qualche cosa che, oltrepas­ sando la percezione dei sensi esterni, cade nondimeno sotto Pimmaginazione, ossia la pura quantità geome­ trica, perciò senza qualità (senza colore, senza odore, senza sapore, eccetera) e che comporta solo l’estensio­ ne nelle tre dimensioni dello spazio. Tutto dovrà per­ tanto essere spiegato, secondo lui, dal pieno, che egli confonde con l’essere, e dal vuoto, che confonde col non-essere; il pieno è diviso in porzioni di estensione indivisibile {atomi), che sono separate dal vuoto ed eternamente in movimento e che non differiscono fra loro che per la figura (come A è differente da N, per esempio), l’ordine (come AN è differente da NA) e la situazione (come N è differente dalla medesima lettera diversamente situata: Z). Egli poi attribuisce alla cieca necessità del caso l’ordine dell’universo, come la struttura di ogni essere. Democrito27 è dunque in Gre­ cia, al tempo di Socrate, il fondatore dell’atomismo e, più generalmente, della filosofia chiamata meccanici­ sta, che erige la geometria a metafisica, riduce tutte le cose all’estensione e al movimento e pretende di spie­ gare con un ammasso di circostanze fortuite l’organiz­ zazione delle cose. Si spiegherebbero pertanto il Partenone o le tragedie di Racine dicendo che è bastato, per avere l’uno, gettare delle pietre le une sulle altre durante un numero indefinito di anni; e per ottenere le altre rimescolare a lungo alla rinfusa dei caratteri ti­ pografici. 3) Infine, Anassagora di Clazomene (500-428), che era in età matura al tempo in cui nasceva Demo­ crito e morì Eraclito e che fu l’amico di Pericle, orien-

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ta la filosofia greca verso una luce superiore e raddriz­ za, anziché continuarlo, il pensiero ionico, grazie a concetti che a dire il vero elabora male o non sa usare. Da un lato osserva che il principio materiale di cui sono costituiti tutti i corpi e che gli ionici confon­ devano con questo o con queir elemento, deve già contenere in sé, in certa misura, tutta la diversità che ne scaturirà: se tutto non è in tutto, nulla potrà venire da nulla28. Ed egli ritiene che, di conseguenza, il prin­ cipio in questione consista in una mescolanza infinita di tutte le nature e di tutte le qualità, in modo che ogni particella corporea contiene in sé elementi (omeomerié) di tutto il resto (ogni particella di pane che man­ giamo, per esempio, contiene in sé elementi invisibili di ossa, di sangue, di carne e di tutto il resto, che si ri­ troveranno tutte, essendo mutata unicamente la loro proporzione relativa, in ogni particella di ossa, di san­ gue, di carne, eccetera); concetto strano e debole in sé, ma che annunzia a modo suo la grande concezione aristotelica della materia prima, che non è nulla in at­ to e che è tutti i corpi in potenza. Dall’altro lato, e soprattutto, egli comprende co' me il principio materiale, di cui le cose son fatte, non basta a spiegare le cose. Occorre ancora far conoscere l’agente che lo produce (causa efficiente o causa mo­ trice) e lo scopo per il quale questo agente agisce (cau­ sa finale). Per mostrare perché Socrate è seduto nella sua prigione, è forse sufficiente, come dirà più tardi Platone, spiegare che egli ha ossa, giunture e muscoli disposti in un certo modo? Bisogna aggiungere chi è che fa sì che queste ossa e questi muscoli siano così disposti (è Socrate stesso, per mezzo della sua volon­ tà) e perché egli così vuole. Anassagora, per il fatto che è stato portato a ri­ conoscere, al di là degli elementi materiali del mondo, l’esistenza necessaria di un’intelligenza separata (νους) ordinatrice delle cose, è l’unico, secondo Aristotele, ad aver conservato la sobrietà in mezzo a tutti gli altri filosofi del suo tempo, ai quali il vino delle apparenze sensibili ha fatto girare la testa, e che parlano a caso29.

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GLI ITALICI

10. — Accanto alla corrente della filosofia ioni ca, il VI e il V secolo hanno visto inoltre nel mondo greco due grandi correnti filosofiche, la corrente pita­ gorica e quella eleatica. Pitagora di Samo (572-500, o secondo altri 582497), fondatore di una società filosofica, religiosa e politica che prese il potere in alcune città della Magna Grecia (Italia meridionale) e che fu più tardi dispersa con la violenza30, ha compreso che ci sono delle realtà più alte di quel che cade sotto i sensi. Ma è la scienza dei numeri che gli ha rivelato tali realtà invisibili, il cui ordine immutabile domina e comanda il corso del di­ venire, ed egli d’ora innanzi non conosce altro che i numeri; egli non dice solamente che vi è nelle cose e nel mondo un principio nascosto di misura e d’armo­ nia, insegna che i numeri (mediante i quali questa ar­ monia si manifesta ai nostri sensi) sono l’unica realtà vera e li considera come l’essenza stessa delle cose. Pi­ tagora non era soltanto iniziato alle grandi speculazio­ ni dell’astronomia orientale, ma lui stesso, con la fon­ damentale scoperta del rapporto fra l’altezza dei suo­ ni e la lunghezza delle corde vibranti, aveva sottopo­ sto alla fissità di una legge numerica un fenomeno co­ sì fuggevole come il suono. Pensiamo allo stupore con il quale egli doveva intravedere, dietro il flusso delle apparenze sensibili, quelle proporzioni intelligibili, immobili, immateriali, che rendono ragione per il ma­ tematico delle regolarità che costatiamo. Riflettiamo d’altro canto sul misterioso valore simbolico dei nu­ meri, attestato delle tradizioni sacre dell’umanità e dai filosofi più positivi (da Aristotele, che renderà omaggio alla santità del numero 3, sino ad Augusto Comte, che costruirà tutta una mitologia dei numeri primi), e comprenderemo come il pensiero di Pitagora e dei suoi discepoli abbia potuto scivolare in modo del tutto naturale dal segno alla causa e fare del simbolo un principio di realtà. I principi dei numeri, quindi, sono i principi di tutto ciò che è; dall’opposizione del determinato e del­ l’indeterminato (infinito) derivano tutti gli opposti fondamentali (innanzitutto pari e dispari, elementi del numero; poi uno e molteplice, destra e sinistra, ma-

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schio e femmina, riposo e movimento, diritto e storto, luce e tenebre, bene e male, quadrato e quadrilatero dai lati diseguali) che dispongono la natura e Γattività delle cose. Ogni essenza ha il suo numero e ogni essen­ za è un numero (il numero 4, per esempio, non è sol­ tanto figurativo, è costitutivo della giustizia, il nume­ ro 3 della santità, il numero 7 del tempo, P8 dell’ar­ monia, il 5 dell’unione dei sessi, il 10 della perfezio­ ne); ai numeri, che per sé non sono né qui né là, date una posizione e avrete i corpi. E ogni speculazione sul1’origine o la natura delle cose si perde in una specula­ zione sulla genesi dei numeri e sulle loro proprietà. Pertanto, Pitagora e la sua scuola, cui la mate­ matica, la musica e l’astronomia devono tanto, non arrivano alla vera nozione della filosofia prima o me­ tafisica; situati su un gradino di astrazione superiore a quello in cui si trovavano gli ionici, essi non confon­ dono, come facevano costoro, la metafisica con la fi­ sica, ma la confondono con la scienza del numero (scienza che caricano di interpretazioni qualitative) e rimangono per ciò stesso, malgrado il loro sforzo ver­ so il puro intelligibile, presi nei lacci dell’immagina­ zione. Se vedono d’altra parte che le cose sono regola­ te intrinsecamente da principi immateriali più reali e più veri di quel che si tocca e si vede, non riescono an­ cora a discernere l’idea di causa formale che Aristote­ le soltanto metterà in piena luce.

È a Pitagora (l’abbiamo ricordato più sopra) che si deve la pa­ rola stessa di filosofia. Si legge in un passo di Diogene Laerzio (V ili, 8) che egli faceva consistere la dignità della scienza nel suo ca­ rattere puramente speculativo e disinteressato: punto sul quale Ari­ stotele, all’inizio della Metafisica, insisterà con tanta forza: «Que­ sta vita» diceva «può essere paragonata alle celebrazioni dei giochi pubblici, in cui si riuniscono diverse specie di persone, questi per contendersi la gloria e le corone, quelli per fare del commercio, ed altri, più nobili, unicamente per godere dello spettacolo. Così pure nella vita, gli uni lavorano per la gloria, gli altri per il profitto, un piccolo numero per la sola verità; questi sono i filosofi...». Pitagora sembra aver professato l’unità di Dio come di uno spirito presente a tutte le cose e dal quale emanerebbero i nostri spi­ riti; egli fu il primo a dare all’insieme delle cose esistenti il nome di κόσμος che, come quello di mundus, implica l’idea di bellezza e di armonia. La più celebre (e la più derisa) delle sue dottrine è la dottrina


della trasmigrazione delle anime e metempsicosi, che gli veniva ve­ rosimilmente non dall’Egitto, come dice Erodoto, ma piuttosto dalPinduismo (con la mediazione della Persia)31, e nella quale, in Gre­ cia, Porfismo e il pitagorismo confluirono molto presto. «Passando un giorno accanto ad un cucciolo che veniva bastonato di santa ra­ gione» scrive di lui il vecchio Senofane in una quartina crudele, «egli si lamentò della sua sorte e gridò, pieno di compassione: Fér-

mati, non lo colpire! È Γanima di uno dei miei amici, lo riconosco dalla voce.» I pitagorici ritenevano anche che il ciclo dei periodi cosmici do­ veva portare eternamente, a lunghi intervalli, il ritorno di tutte le cose, riprodotte in maniera identica sino nei minimi dettagli. «Se­ condo i pitagorici» diceva Eudemo ai suoi discepoli, «verrà un gior­ no in cui tutti coloro che sono qui presenti saranno di nuovo riuniti, esattamente gli stessi, voi seduti al vostro posto ad ascoltarmi, io dissertando davanti a voi come faccio ora, con la bacchetta in ma­ n o ...» 32 L’astronomia è una delle scienze che ricevettero dalla scuola pi­ tagorica gli sviluppi più considerevoli. Filolao, che faceva girare la terra, il sole e tutti gli astri attorno ad un misterioso centro del mon­ do occupato dal fuoco, può essere considerato come un lontano precursore di Copernico. Ma anche i pitagorici tradiscono nella ma­ niera più tipica i vizi dello spirito esclusivamente matematico: «Vi­ vendo e muovendosi nella scienza dei numeri» scrive Aristotele33, «hanno riunito e coordinato tutte le concordanze che potevano co­ statare fra i numeri e le armonie da una parte, i fenomeni celesti e l’insieme dell’universo dall’altra parte. E se in qualche punto si tro­ vava una lacuna, essi usavano una dolce violenza perché tutto fosse ben coerente nella loro teoria. Poiché, per esempio, la decade era per loro la perfezione e racchiudeva in sé tutta la natura dei numeri, essi sostenevano che i pianeti sono in numero di dieci; ma siccome in realtà se ne vedono solo nove, hanno inventato l’antiterra per fa­ re il decimo, non considerando i fenomeni per ricercarne le cause e per conformarvi la teoria, ma modellando i fenomeni sulle loro teo­ rie e sulle loro opinioni preconcette e pretendendo di aiutare Dio a fabbricare il mondo».

GLI ELEATI

11. — Alla scuola elatica appartiene il merito n precisamente di aver fondato la metafisica, poiché es­ sa non si è mantenuta nella verità, ma almeno di avere elevato il pensiero greco sino al livello proprio della metafisica e al grado di astrazione che comporta que­ sta scienza. Il più antico degli eleati è Senofane, rap­ sodo vagabondo, nato verso il 570 a Colofone, donde passò a Elea, nelPItalia meridionale, cacciato indub­ biamente dalle invasioni persiane.

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Senofane canzonava la mitologia dei poeti e le opinioni del vol­ go. «La nostra saggezza» diceva prendendo in giro gli onori decre­ tati agli atleti «vale di più della forza fisica degli uomini e dei caval­ li...» Egli professava l’unità assoluta di Dio, ma confondeva Dio con le cose, dicendo in un senso panteistico che Dio è uno e tutto, εν κα'ι παν.

Ma il filosofo più profondo, e il vero fondatore di questa scuola, è il suo discepolo Parmenide di Elea, nato nel 540, il grande Parmenide, come lo chiama Platone. Oltrepassando il mondo delle apparenze sen­ sibili e anche quello delle forme o essenze matemati­ che e dei numeri, egli giunge a quel che nelle cose è pu­ ramente e propriamente l’oggetto dell’intelletto. Ciò che l’intelletto vede ovunque nelle cose non è forse in primo luogo il fatto che esse sono, non è forse l’esse­ re? L’idea dell’essere, così messa in evidenza, si impo­ ne a Parmenide con una forza tale che lo rapisce e ab­ baglia. Come Eraclito, nella stessa epoca, è il prigio­ niero del mutamento, Parmenide è il prigioniero del­ l’essere. Egli non vede più altro che una cosa: ciò che è, è, e non può non essere; l’essere è, il non-essere non è. Parmenide è pertanto il primo filosofo che abbia enucleato e formulato il principio di identità o di non­ contraddizione, principio supremo di tutto il pensie­ ro. Contemplando dunque l’essere puro, egli com­ prende che questo essere è perfettamente uno e perfet­ tamente immutabile, eterno, non divenuto, incorrutti­ bile, indivisibile, intatto e intero nella sua unità, in tutto uguale a sé stesso, infinito34, contenente in sé ogni perfezione35. Ma mentre scopre così gli attributi di Colui che è, si rifiuta di ammettere che alcun altro essere possa esistere e rigetta come uno scandalo l’es­ sere mescolato col nulla, perché tratto dal nulla, da tutto ciò che è creato. Egli si smarrisce da questo momento, fino al pun­ to di attribuire all’essere del mondo ciò che è proprio all’essere increato. E piuttosto che abbandonare ciò che ritiene sia richiesto dalle esigenze dell’essere e del­ la ragione, preferisce eroicamente negare la testimo­ nianza dei sensi e affermare che non c’è nel mondo né mutamento né molteplicità. Il mutamento, il movi-

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Parmenide è il filoso­ fo dell’essere puro.

Gli eleati assorbono ogni realtà nell’essere uno e immutabile.


mento, il divenire, come la diversità delle cose, non è che un’apparenza illusoria. Non c’è che l’essere e l’u­ no.

Il cambiamento non suppone forse che, pur essendo, non si era (ciò che si diventa), e che pur continuando ad essere, si cessa d’esse­ re (ciò che si era)? La molteplicità non suppone forse che quel che è (questo) non è (quello)? E pertanto la molteplicità e il cambiamento non sono in contraddizione con il principio supremo che ciò che è possiede in sé l’essere e non il non-essere? È per difendere la dottrina di Parmenide sull’impossibilità del cambiamento che il suo discepolo Zenone di Elea' (nato nel 487) formula le celebri argomentazioni in cui pretende di dimostrare che la nozione stessa di movimento implica contraddizione: argomenta­ zioni erronee, senza dubbio, ma singolarmente gravi e alle quali non si può rispondere se non con la dottrina di Aristotele. (Studieremo in cosmologia queste tesi di Zenone.)

Così Parmenide si porta all’estremo opposto di Eraclito, fissando lui pure una volta per tutte uno dei termini ultimi dello sforzo speculativo e dell’errore e mostrando che ogni filosofia dell’essere puro, per il fatto stesso che nega quella specie di non-essere che Aristotele chiamerà la potenza e che è propria ad ogni essere creato, deve assorbire ogni cosa nell’essere per eccellenza, assorbire il mondo in Dio e conduce al mo­ nismo e al panteismo non meno fatalmente di quanto non faccia la filosofia del divenire puro.

B - LA SOFISTICA E SOCRATE

12. — Durante il lungo sforzo di elaborazione suc­ cintamente descritto sopra, erano stati conseguiti ri­ sultati essenziali per il pensiero umano. Ma se, col senno di poi e conoscendo la grande sintesi in cui tante verità parzialmente colte si sono congiunte ed equili­ brate, noi possiamo osservare con ammirazione come

») Non bisogna confondere Zenone di Elea con Zenone lo stoico, che visse molto più tardi (350-264) e che è nato a Cizio nell’isola di Cipro.

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si formavano a poco a poco i punti vitali e le linee di forza di ciò che sarà la filosofia, in effetti, nella Gre­ cia del V secolo, questi buoni risultati erano masche­ rati dalla confusione di teorie contraddittorie, come dall’abbondanza e dalla gravità degli errori, ed è sol­ tanto nel disordine e nel caos che si pensava di essere. Si era partiti per sapere tutto e per dare la scalata in un colpo solo al cielo della conoscenza. Ma proprio a causa di questa ambizione smodata e per il fatto che si ignoravano la disciplina e la discrezione nel maneggiamento delle idee, si arrivava solo a colpire confusamente i concetti e ad opporre continuamente verosi­ miglianza a verosimiglianza. Il risultato immediato e apparente sembrava la sconfitta del pensiero specula­ tivo. E non c’è da meravigliarsi che questo periodo di elaborazione sia sfociato in una crisi intellettuale, du­ rante la quale un certo male dello spirito stava per mettere tutto in pericolo. Questa malattia dello spirito è la sofistica, ossia la corruzione della filosofia.

I SOFISTI

13. — La sofistica non è una dottrina, è piutto­ sto un’attitudine viziosa dello spirito. I sofisti erano in apparenza i continuatori e discepoli dei saggi dell’età precedente (il termine stesso di sofista non comporta­ va all’origine alcuna sfumatura peggiorativa); in real­ tà differivano da loro essenzialmente perché davano come scopo e come regola alla loro scienza non più ciò che è (o l’oggetto da conoscere), ma gli interessi del soggetto che conosce. Peraltro, professori ambulanti I sofisti fanno devia­ che facevano raccolta di onori e di denaro, conferen­ re la scienza dal suo oggetto e la sottrag­ zieri, enciclopedisti, giornalisti se così si può dire, su- gono alla sua regola. peruomini o dilettanti, i sofisti sono tutto, fuorché dei saggi. Ippia, che brillava allo stesso modo nell’astro­ nomia, nella geometria, nell’aritmetica, nella foneti­ ca, nella ritmica, nella musica, nella pittura, nell’etno­ logia, nella mnemotecnica, nell’epopea, nella trage­ dia, nell’epigramma, nel ditirambo e nelle esortazioni morali, che fu ambasciatore di Elide e che imparò tut­ ti i mestieri (si recò ai giochi olimpici con un abito fat­ to interamente da lui), fa pensare a qualche eroe del rinascimento italiano. Altri fanno pensare ai filosofi

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del XVIII secolo o agli scientisti del XIX. Di tutti co­ storo, quel che si può dire di più caratteristico è che

essi volevano ì profitti della scienza senza volere la ve­ rità. Miravano ai profitti della scienza, in quanto questa significa per colui che la possiede potenza e do­ minio o voluttà intellettuale. Da questo punto di vista essi facevano la figura di razionalisti e di saggi univer­ sali; avevano per tutto spiegazioni falsamente chiare36 e pretendevano di riformare tutto, persino le regole della grammatica e il genere dei sostantivi37. Perciò s’interessavano di preferenza alle cose umane, che so­ no le più complesse e le meno sicure di tutte, ma dove l’uomo può meglio realizzare la sua scienza in potere e in gloria: alla storia, al diritto, alla casistica38, alla po­ litica, alla retorica. E si spacciavano per professori di

virtù. Essi non volevano la verità. Non chiedendo alla fatica dell’intelligenza che un mezzo per far apparire (agli occhi propri come a quelli degli altri) la loro per­ sonale superiorità, dovevano essere fatalmente portati a far consistere la scienza più invidiabile nell’arte di negare e di distruggere mediante il ragionamento, es­ sendo la distruzione per gli uomini come per i bambini la maniera più facile per manifestare la loro forza; e inoltre nell’arte di sostenere il prò e il contro con un’e­ guale verosimiglianza, altro segno di forza e di abilità. Questo significa che la scienza si guastava nelle loro mani e che quel che nei loro predecessori era semplice difetto di disciplina intellettuale, diventava in loro in­ tenzione deliberata di usare i concetti senza preoccu­ parsi affatto delle loro esigenze precise e delicate, ma per il solo piacere di urtarli l’un contro l’altro e di am­ maccarli in un gioco di apparenze: da ciò i loro sofi­ smi o ragionamenti ingannatori. La loro morale veni­ va di conseguenza; essi dichiaravano convenzione ar­ bitraria ogni legge, imposta all’uomo, e la virtù che insegnavano si riduceva in definitiva sia nell’arte di riuscire sia in quel che i nietzschiani chiamano oggi la

volontà di potenza. Perciò, di tutto quello che animava le grandi am­ bizioni dogmatiche dell’epoca precedente, i sofisti avevano conservato l’orgoglio scientifico e avevano perduto l’amore del vero. Essi volevano più che mai

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essere grandi per mezzo della scienza, non tendevano più a ciò che è. Se così si può dire, credevano alla scienza senza credere alla verità. Uguale fenomeno storico si è rivisto da allora, e in proporzioni ben am­ plificate... In tali condizioni, è naturale che la sola dottrina alla quale la sofistica abbia potuto giungere è stata quel che si chiama il relativismo e lo scetticismo. Pro­ tagora di Abdera (480-410) affermava, per esempio che l'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quan­ to non sono; cosa che nel suo pensiero significava che tutto è relativo alle disposizioni del soggetto e che il vero è quel che sembra vero a ciascuno. E nel libro che scrisse Sulla natura o sul non-essere, il suo contempo­ raneo Gorgia di Lentini (morto nel 375), oratore assai celebre, insegnava: 10, che l’essere non è o, in altri ter­ mini, che nulla esiste: il non-essere è il non-essere, dunque è, diceva giocando sulla parola è (una sorta di gioco di cui Hegel farà più tardi lo sport metafisico per eccellenza); dunque l’essere, che è il suo contrario, non è...; 2°, che se qualche cosa esistesse, non si po­ trebbe conoscerla; 3°, che se qualcuno potesse cono­ scere qualche cosa, non potrebbe comunicare questa conoscenza ad altri. SOCRATE

14. — Socrate (469-399) fu colui che salvò il pensiero greco dal pericolo mortale in cui lo metteva la sofistica. Tranne questa differenza, che non faceva pagare la sua saggezza, il suo genere di vita rassomi­ gliava esteriormente a quello dei sofisti. Egli passava infatti il suo tempo a conversare con i giovani, e un osservatore superficiale come Aristofane ha potuto confonderlo con essi. Tuttavia Socrate faceva loro Socrate raddrizza il filosofico, una guerra senza pietà né tregua, e tra loro e lui l’op­ pensiero lo disciplina e gli im­ posizione è totale. I sofisti pretendevano di sapere tut­ pone la ricerca delle to e non credevano alla verità; Socrate fa professione essenze e delle defini­ zioni. d’ignoranza e insegna a coloro che lo ascoltano a non cercare altro che la verità. Tutta la sua opera pertanto è stata un’opera di conversione; egli ha raddrizzato la ragione filosofica e l’ha rivolta verso la verità, per la quale è fatta.

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Questa opera, per P avvenire delP intelletto uma­ no era di un’importanza così considerevole che non ci si meraviglia affatto che Socrate l’abbia compiuta co­ me una missione ricevuta dall’alto. Vi era in lui non soltanto una potente capacità di contemplazione filo­ sofica (Aulo Gellio e Platone narrano che gli capitava di passare giornate e notti intere immobile, assorto nella meditazione), ma anche (come lui stesso diceva) qualche cosa di demonico o d’ispirato, un fervore ala­ to, un vigore libero e misurato e forse anche in certi momenti un istinto interiore e superiore, che sembra­ no derivare da quell’assistenza straordinaria, a propo­ sito della quale Aristotele dice che quanti sono mossi dall’impulso divino non debbono essere consigliati dalla ragione umana, avendo in sé un principio mi­ gliore39. Egli paragonava se stesso ad un pungiglione, incaricato di pungere e risvegliare gli ateniesi e di for­ zare la loro ragione ad un perpetuo esame di coscien­ za: servizio che gli ateniesi dovevano poi ricompensare con la cicuta, offrendo in tal modo al vecchio So­ crate, già molto vicino alla morte, l’occasione del più bel trapasso che possa condizionare la saggezza pura­ mente umana.

1) Socrate non era un metafisico, ma piuttost un esperto, un medico delle anime. Il suo compito non era di costruire un sistema, ma di mettere le intelligen­ ze in crisi. Ed egli poteva così trionfare nel modo mi­ gliore sulla sofistica, il cui fondamento era molto me­ no in un vizio di dottrina che non in una deformazio­ ne dell’anima. I suoi discorsi avevano per oggetto anzitutto il problema della condotta della vita umana, il proble­ ma morale. La sua morale, per quel che se ne può sa­ pere attraverso Platone e Senofonte, sembra di primo acchito ispirarsi a considerazioni molto strettamente utilitariste. Questo debbo fare, ciò che mi soddisfa; e ciò che mi soddisfa mi è utile, veramente utile. Ma proprio qui si manifesta subito la necessità di discer­ nere quel che è veramente utile per l’uomo: a questo riguardo, Socrate costringe la gente a rendersi conto che tale utilità non può essere determinata se non in rapporto ad un bene assoluto e incorruttibile. Ponen­ do perciò costantemente la questione del fine ultimo40

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e volgendo gli uomini verso il loro bene supremo, egli oltrepassa ogni utilitarismo e con il pieno vigore di un integro buon senso afferma il primato del bene onesto e dei nostri grandi interessi eterni; la sua morale sfocia pertanto nell’ordine metafisico. In secondo luogo, Socrate dimostra in tutti i modi che per potersi com­ portare bene l’uomo deve prima di tutto sapere*, arriva persino a sostenere che la virtù s’identifica con la scienza, in modo che ogni peccatore non è che un ignorante. Qualunque sia questo errore di valutazio­ ne, rimane che per lui la morale non è nulla se non è un insieme di verità stabilite con dimostrazioni, una vera e autentica scienza. Per questo duplice connota­ to, metafisico e scientifico, del suo insegnamento mo­ rale, Socrate si oppone profondamente ai sofisti e lo si può considerare come il fondatore della scienza mora­ le. 2) Ma poteva egli fondare la morale come scien­ za, senza precisare nello stesso tempo le leggi di ogni scienza in generale? Ecco P essenziale della riforma socratica. Nel rivolgersi alla ragione stessa per studia­ re le condizioni e il valore del suo cammino verso il ve­ ro, cioè per fare opera di riflessione logica e critica, Socrate ha disciplinato l’intelligenza filosofica, le ha mostrato l’atteggiamento che deve prendere e i prov­ vedimenti che deve usare riguardo alla verità. Per far questo, gli occorreva in primo luogo puri­ ficare le menti dalla falsa scienza, che crede di risolve­ re tutto con qualche idea facile. Sempre perciò, egli incominciava col condurre coloro che cadevano nella rete delle sue domande a confessare la loro ignoranza riguardo a ciò che pensavano di conoscere meglio (/7ronia socratica). Tuttavia questo era solo il primo mo­ mento del suo metodo. Ben presto, le domande nuo­ vamente si succederanno le une alle altre, ma per con­ durre l’interlocutore, di cui dirigono l’attenzione, là dove devono condurla, a scoprire da se stesso quella verità che egli aveva confessato d’ignorare. È questo il metodo propriamente socratico, la maieutica, l’arte di generare le menti. E Socrate sente così bene che la conquista del vero è un’operazione vitale e personale, in cui il maestro non fa altro che aiutare l’intelligenza del discepolo (come il medico aiuta la natura) ma dove

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l’intelletto del discepolo ha la funzione di agente prin­ cipale41, che egli paragona F acquisizione della scienza al risveglo di un ricordo assopito nell’anima, parago­ ne da cui Platone trarrà più tardi la sua celebre teoria della reminiscenza. Ma in qual modo la maieutica ha form ato l’intel­ ligenza filosofica? Precisando il suo oggetto proprio, insegnandole a cercare le essenze e le definizioni delle cose42. Socrate riconduce senza posa la ragione verso questo unico oggetto: che cos’è la realtà di cui si sta parlando, che cos’è il coraggio, la pietà, la virtù, l’arte del costruttore di navi o l’arte del calzolaio e così di seguito; tutte queste cose hanno un essere che è loro proprio, un’essenza o una natura, che l’intelligenza umana deve poter scoprire ed esprimere in una defini­ zione, distinguendola da tutto ciò che non è quella co­ sa. Per il fatto che Socrate esige in tal modo che si di­ stingua senza tregua l’essenziale dall’accidentale e per il fatto che egli stimola infaticabilmente lo spirito a dar la caccia alle essenze, si può dire che la sua filoso­ fia è la filosofia delle essenze. Non si tratta più di ri­ durre tutto all’acqua, al fuoco, ai numeri, né all’esse­ re assoluto né di trovare un concetto indefinitamente estensibile in cui si avvolgono tutte le cose come in un mantello senza forma. Si tratta di giungere ad espri­ mere intellettualmente ogni cosa, delimitando e deter­ minando ciò che essa è, mediante un concetto che si confà a quella cosa soltanto. Contemporaneamente, Socrate insegna alla ra­ gione, se non proprio in una forma teorica compiuta e costruendo una logica del sillogismo e della dimostra­ zione (come farà più tardi Aristotele), almeno praticamente e nell’intenzione, ad usare i concetti per seguire docilmente i contorni e le articolazioni del reale e non più per sentenziare a caso sulle realtà, secondo i bar­ bari giochi dei sofisti. E per questa via egli crea la dia­ lettica, strumento del sapore ancora insufficiente, sen­ za dubbio, ma che preparava la vera nozione della scienza e che Platone paragona all’arte del cuoco esperto, che taglia un pollo seguendo e distinguendo con cura le minime giunture naturali. 3) Questo eterno polemico dunque, a dispe dei suoi atteggiamenti da scettico, ha una fiducia in-

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vincibile nell’intelligenza e nella scienza, ma in un’in­ telligenza disciplinata e umile dinanzi alle cose e in una scienza che conosce i suoi limiti e che progredisce con forza e sicurezza nel possesso del vero soltanto nella misura in cui rende omaggio alla sovranità del reale e si sente avvolta d’ignoranza. Socrate appare da questo punto di vista come il maestro dello spirito scientifico, così come di quella filosofia che imparere­ mo a conoscere sotto il nome di intellettualismo misu­

rato. Mediante il suo sforzo logico e critico, egli ha forgiato lo strumento necessario al progresso dello spirito e ha volto la crisi della sofistica al bene e alla salvezza della ragione. Mediante il suo sforzo morale, poi, egli non solo ha fondato la scienza dell’etica, ma ha anche liberato il pensiero dal fascino del sensibile, ed ha orientato, forse senza accorgersene nemmeno egli stesso, la speculazione filosofica verso la metafisi­ ca e verso la saggezza propriamente detta, per il solo fatto di aver elevato la filosofia (è qui la vera portata del conosci te stesso socratico) dallo studio esclusivo del mondo corporeo43 alla considerazione dell’uomo e delle cose umane, che comportano un elemento spiri­ tuale superiore a tutto l’ordine degli astri e a tutto il mondo dei corpi. Ma Socrate non è che un mirabile iniziatore. Egli ha dato lo slancio, non ha raggiunto lo scopo; alla sua morte tutto rimane ancora sospeso. Il metodo infatti non basta, occorre la dottrina; e Socrate, ricco di ger­ mi fecondi, non ha una dottrina propriamente detta, se non per quel che riguarda i fondamenti dell’etica. La consumazione dottrinale della sua opera e l’instau­ razione della vera filosofia erano riservate a Platone e ad Aristotele. C - PLATONE E ARISTOTELE 15. I SOCRATICI MINORI — L’insegnamento di Socrate era così poco dogmatico che coloro che l’a­ vevano ricevuto lo svilupparono in direzioni molto di­ vergenti. I filosofi che vengono chiamati socratici mi­ nori, attaccandosi a certi aspetti frammentari del pen­ siero del maestro e alterandolo più o meno, sono o dei

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semplici moralisti (come i cirenaici", che facevano consistere il fine ultimo delPuomo nel piacere del mo­ mento, e come i ciniciv che, per un eccesso opposto, divinizzavano la forza o virtù) o dei logici, puri ama­ tori della disputa (eristica), come i neosofisti di Elide e soprattutto di Megaraw, che tendevano a distruggere ogni scienza e che, per la necessità in cui hanno messo i filosofi di confutare le loro argomentazioni, hanno contribuito indirettamente al progresso della logica.

I megarici negavano che si potesse in qualche giudizio attribui­ re una cosa ad un’altra; donde Paffermazione, secondo loro, che l’uno è l’altro e che tutto si confonde; di conseguenza, questa sola proposizione: l’essere è, rimaneva legittima e la metafisica degli eleati era l’unica vera.

PLATONE

16. — È a Platone, il socratico per eccellenza ai suoi discepoli* che si riserva il nome di socratici maggiori Platone (427-347), il cui padre era di stirpe regale e la cui madre era una discendente di Solone, volendo lui stesso compiere un’opera da re nel domi­ nio dell’intelligenza, si sforza di riunire nella possente unità di un sistema originale tutto il popolo dei pensie­ ri che i filosofi greci prima di lui hanno disperso. Con lui la filosofia diviene padrona di se stessa. Ma l’opera che egli ha tentato e che la riforma socratica aveva re­ so possibile, resta imperfetta e deficiente. Sotto Pim“) I principali filosofi di questa scuola sono Aristippo di Cirene, Teodoro l’àteo, Egesia e Anniceride. v) Questo nome deriva da quello del ginnasio (Κυνόσαργες) in cui Antistene insegnava ad Atene. I principali cinici sono Antistene (nato nel 445 a.C .), Diogene di Sinope (400-323), Cratete di Tebe.

w) La scuola di Elide ha come rappresentanti principali Fedone e Menedemo; quella di Megara, Euclide di Megara (da non confondere con Euclide il geometra), Eubulide di Mi­ leto, Diodoro Crono e Stilpone.

x) Dopo aver viaggiato molto, Platone si stabilì ad Atene, ove acquistò il campo di un cer­ to Accademo per fondarvi la sua scuola. Donde il nome dì Accademia dato a quest’ultima.

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pulso del suo genio magnifico e temerario, l’intelligenza vola troppo velocemente e troppo in alto e non arriva ancora ad assicurarsi, con una vittoria definiti­ va, la conquista del reale. Platone sa, come Parmenide, che il metafisico deve contemplare, nelle cose, Γessere stesso. Egli però non assorbe tutto ciò che è, nell’unità dell’essere im­ mutabile e assoluto; riconosce infatti che vi sono dei gradi nell’essere. E a questo proposito egli scopre del­ le grandi verità metafisiche, comprende che se vi sono cose più o meno perfette, più o meno belle e buone, più o meno degne d’amore, delle cose in cui la bontà si trova in modo confuso e che partecipano la bontà, come si dice in filosofia, bisogna necessariamente che vi sia un essere in cui la bontà, la bellezza, la perfezio­ ne siano allo stato puro e che sia la ragione della bel­ lezza e della bontà di tutto il resto. E sale così sino al vero Dio, trascendente e distinto dal mondo, che gli appare come la bontà stessa, il bene assoluto, il bene in persona se così si può dire. Ma non è ancora questo l’aspetto più saliente del platonismo. La filosofia di Socrate, dicevamo più sopra, (filosofia piuttosto suggerita in pratica che for­ mulata in teoria) è la filosofia delle essenze: la filoso­ fia di Platone, in primo luogo, è la filosofia delle idee. Socrate aveva mostrato che quel che bisogna cer­ care e cogliere a qualunque prezzo, sono le essenze delle cose, che lo spirito, dopo che le ha afferrate, esprime in una definizione. Che cos’è dunque che l’in­ telletto vede in tal modo, quando s’impadronisce del­ l’essenza dell’uomo o del triangolo o del bianco o del­ la virtù? Non è forse l’uomo, fatta astrazione da Pie­ tro, Paolo, Giovanni, eccetera e dai loro caratteri par­ ticolari, non è forse il triangolo, fatta astrazione da questo o quel triangolo isoscele o rettangolo, non è il bianco, la virtù, eccetera? Inoltre l’idea dell’uomo o del triangolo non rimane la stessa allorché l’applico a una folla di uomini o a una moltitudine di triangoli che differiscono individualmente gli uni dagli altri? In altri termini, queste idee non sono forse universali? Non sono d’altra parte immutabili ed eterne, in que­ sto senso: che se nessun triangolo, per esempio, esi­ stesse, l’idea di triangolo (con tutte le verità geome­ triche che implica) rimarrebbe sempre la stessa? E non

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Platone tenta una grande sintesi dottri­ nale del pensiero gre­ co, sintesi prematura e intaccata da errori, ma che racchiude un germe senza pari.


ci danno esse da contemplare allo stato puro Pumani­ tà, la triangolarità, eccetera, che si trovano allo stato partecipato nei diversi esseri chiamati uomini, trian­ goli, eccetera? Non avendo analizzato con sufficiente esattezza la natura delle nostre idee e quella delP astra­ zione e applicando d’altro canto troppo in fretta il suo grande principio che ciò che è nelle cose allo stato par­ tecipato deve trovarsi in qualche luogo allo stato pu­ ro, Platone conclude che esiste in un mondo soprasen­ sibile una moltitudine di modelli immateriali o arche­ tipi, immutabili ed eterni, l’uomo in generale o l’uo­ mo in sé, il triangolo in sé, la virtù in sé, eccetera, che egli chiama idee, e che sono l’oggetto afferrato dal­ l’intelligenza, facoltà del vero, che sono dunque la realtà. Ma allora che cosa diventa il mondo sensibile? Che cosa bisogna pensare delle cose che vediamo e tocchiamo e che sono individuali, mutevoli e cadu­ che? Non essendo le idee, esse non sono la realtà. Esse sono puro divenire, come diceva Eraclito. Platone non nega la loro esistenza, ma le considera immagini indebolite e ingannatrici della realtà, oggetto di opi­ nione (όόξa), non di scienza o di conoscenza sicura, e così inconsistenti come ombre che passano su un mu­ ro: l’uomo, pertanto, prigioniero del corpo e dei sen­ si, è paragonabile a un prigioniero incatenato in una caverna, sul fondo della quale vede sfilare le ombre dei viventi che si muovono dietro di lui nella luce del sole (le ombre fuggevoli e inafferrabili delle idee), so­ stanze che rende luminose il sole del mondo intelligibi­ le, Dio o l’idea del bene. Una metafora però vale forse una spiegazione? Le idee platoniche sono ciò che fa si che le cose siano costituite nella loro specie, l’uomo in sé o l’umanità è ciò che fa sì che Socrate sia uomo, il bello in sé o la bellezza è ciò che fa sì che Alcibiade o Callide siano belli, eccetera; in altri termini le idee platoniche sono le essenze delle cose e delle loro perfezioni. Contem­ poraneamente, tuttavia, esse sono separate dalle cose, abitano in un mondo diverso dal loro. Come dunque si spiega il rapporto delle cose alle loro idee? Platone risponde che esse sono somiglianze o partecipazioni. Ma questi termini, che riceveranno più tardi, nella scolastica, una significazione profonda, non hanno,

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nel sistema di Platone stesso, altro che un senso meta­ forico senza valore propriamente intellegibile. Dopo ciò, bisognerebbe dire perché e come esiste altra cosa che le idee, cioè la realtà pura; in altre parole, biso­ gnerebbe dire: qual è la cosa che partecipa alle idee, che riceve la loro somiglianza o il loro riflesso? Plato­ ne risponde che è la materia (o Pinfinito, άπειρον). E poiché le idee sono ciò che è, egli è obbligato a desi­ gnare la materia come ciò che non è, come una specie di non-essere esistente, concetto fecondo che tra le mani di Aristotele verrà purificato da ogni contraddi­ zione interna, ma che, così come Platone lo presenta, sembra essere contrario a se stesso, tanto più che Pla­ tone lo confonde altrove con lo spazio puro dei mate­ matici. 17. — Checché ne sia di queste difficoltà metafi­ siche, Platone prosegue logicamente la costruzione del suo edificio dottrinale. La teoria delle idee porta con sé tutto un complesso sistematico, concernente la conoscenza, Puomo, il mondo fisico. La conoscenza umana si divide in due generi as­ solutamente differenti: Pimmaginazione (εικασία) e P opinione (όόξa) da una parte, che si volgono a ciò che, per natura, non può essere oggetto di scienza, al mondo visibile e corruttibile e alle sue ombre inganne­ voli; la conoscenza intellettuale dell’altra parte (vorjσίζ), che verte sulle cose intellegibili e che comprende la ragione (όιάνοια), il cui oggetto proprio sono i nu­ meri matematici, e l’intelligenza (νους), che si eleva mediante la dialettica alla contemplazione intuitiva delle idee-essenze e, al di sopra di tutto il resto, alla contemplazione di Dio, il bene sovraessenziale. Come spiegare ora la conoscenza intellettuale? O l’origine delle idee che sono in noi e che sono l’imma­ gine delle idee eterne? Queste idee non possono venire dai sensi, legati in modo indissolubile all’illusione; bi­ sogna perciò che esse ci vengano direttamente dall’al­ to e che siano innate nella nostra anima: in un’esisten­ za anteriore, prima d’essere unita al corpo, la nostra anima ha contemplato le idee e ha posseduto intuitiva­ mente la scienza. Questa scienza abita in noi, ma of­ fuscata e oscurata dalla vita del corpo; è presente co­ me un ricordo assopito e risvegliandola a poco a poco, lo sforzo della saggezza ci fa riconquistare Pintuizione

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primitiva della verità. L'uomo pertanto è un puro spi­ rito unito per forza ad un corpo e come un angelo imprigionato nella carne (dualismo psicologico). L’a­ nima umana ha già vissuto prima di animare il corpo, al quale è unita in punizione di qualche colpa anterio­ re; anzi passa, al momento della morte, in un altro corpo e Platone non professa la credenza nell’immor­ talità dell’anima se non legandola al dogma pitagorico della trasmigrazione o metempsicosi. Quanto al mondo fisico, per il fatto che non è og­ getto di scienza, Platone potè trattarne solo mediante leggende o miti, che sviluppa con tutte le risorse di un’arte squisita, ma che non fanno altro che masche­ rare l’impotenza della sua dottrina riguardo alla realtà corporea.

È in uno di questi miti che egli attribuisce la produzione o piut­ tosto P organizzazione del mondo a un demiurgo, considerato da molti interpreti come distinto da Dio e inferiore a lui. Qui pure egli espone quella strana idea che tutti gli organismi viventi provengono dall’uomo: i primi uomini, prodotti dagli dèi, erano di sesso ma­ schile; coloro che hanno vissuto male, dopo la loro morte sono stati mutati in donne, che a loro volta, se hanno continuato a peccare, sono state mutate in animali senza ragione e forse anche in vegeta­ li...

In ciò che concerne infine le azioni umane, Plato­ ne, come Socrate, ma più chiaramente di lui, stabilì la verità fondamentale della filosofia morale: non è il piacere né la virtù, né alcun bene particolare, è Dio stesso e Dio solo il bene dell’uomo. Ma come l’uomo prende possesso del suo bene? Facendosi il più possi­ bile, risponde Platone, simile a lui, per mezzo della virtù e della contemplazione. Platone approfondisce inoltre, benché in una maniera insufficiente, la nozio­ ne della virtù ed abbozza la teoria delle quattro virtù cardinali, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza; insegna che è meglio soffrire l’ingiustizia che commet­ terla; e nella Repubblica44 fa del giusto perseguitato un ritratto così nobile e così puro che si pensa di ve­ dervi passare non si sa quale riflesso del volto divino.

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Ma il suo eccessivo intellettualismo gli fa misconosce­ re la differenza che separa gli atti dell’intelligenza pra­ tica da quelli delP intelligenza speculativa e confonde­ re la virtù, che suppone la rettitudine della volontà, con la scienza, che perfeziona la sola ragione» Di con­ seguenza egli usa male questo principio, vero in se stesso, che la volontà segue sempre la condotta delPintelligenza e afferma che il peccato non è imputabi­ le che a un difetto di scienza e che nessuno fa il male volendolo: «Qualunque peccatore è solo un ignoran­ te»» Teoria che porta, malgrado Platone, peraltro, a distruggere il libero arbitrio» Nella sua filosofia della società, la stessa tendenza idealista e razionalista gli fa applicare malamente questo principio vero che la par­ te è per il tutto, in modo che nella sua repubblica idea­ le, retta dai filosofi, tutti gli individui sono per il bene esclusivo dello Stato, a cui appartengono tutti i diritti e che dispone sovranamente di tutto ciò che può essere posseduto a qualsiasi titolo, dai beni materiali sino al­ le donne e ai bambini, sino alla vita e alla libertà dei cittadini (comuniSmo assoluto). 18. — Gli errori di Platone derivano soprattut­ to, sembra, dal suo appassionato partito preso per la cultura matematica, che lo conduce a disprezzare la realtà empirica. Derivano anche da una concezione troppo ambiziosa della filosofia, nella quale Platone, benché con molto maggior misura e discrezione che non i saggi deir Oriente, vorrebbe trovare la purifica­ zione e la salezza e la vita di ogni uomo. Del resto, è a causa dei principi d'errore latenti nel platonismo che si vedranno rifarsi a Platone, più o meno direttamente, tutte le grandi chimere filosofiche che tenderanno in un modo o nell’altro a trattare l’uo­ mo come un puro spirito. Ma in Platone si può dire che questi principi d’er­ rore siano stati mantenuti in un’atmosfera troppo pu­ ra per poter dare tutto il loro frutto e viziare l’essenza stessa del pensiero. Per questo, un Agostino potrà trarre tante verità dal vecchio tesoro del pensiero pla­ tonico. Il pensiero di Platone lavora in ampiezza e cerca di abbracciare tutte le cose in una sola stretta. Ma la sua saggezza superiore e meravigliosamente intuitiva

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gli impedisce di bloccare in una maniera irreparabile e di fissare in una dottrina definitiva numerosi atteggia­ menti che restano in lui mobili. Là dove si trova un punto debole e dove un altro insisterebbe, egli va ol­ tre. In modo che quel che in sé è un segno di imperfe­ zione (il vago, Pimpreciso, Pincompiuto in cui egli si ferma così spesso, è quel modo di esporre più estetico che scientifico, che non procede se non per metafore o simboli e che Tommaso giudica a buon diritto severa­ mente45), in realtà gli è salutare e preserva da una de­ formazione troppo dannosa le verità che egli ha sapu­ to conquistare. Da questo punto di vista si potrebbe dire che il platonismo è falso se lo si prende come si­ stema, allo stato di essere, ma che se lo si prende allo stato di divenire, come movimento che porta ad un termine che è altro da lui, è stato nella genesi della ve­ ra filosofia una preziosa forma di passaggio.

ARISTOTELE

Aristotele, correg­ gendo Platone, riesce ad assicurare in una maniera definitiva la presa dell’intelligenza umana sulla real­ tà.

19. — Per cogliere tuttavia questa verità, è sta necessario il potente raddrizzamento operato da Ari­ stotele. Mettendo in pezzi il sistema del suo maestro, Aristotele ha saputo aggiustare al reale i principi for­ mali che questi aveva scoperto e che applicava mala­ mente e condurre le grandi vedute di Platone alla mi­ sura di un buon senso trascendente; egli ha così salva­ to del pensiero di Platone tutto quel che aveva in sé un principio di vita. Ma ha fatto ben più ancora. Egli ha fondato per sempre la vera filosofia. Se ha salvato ciò che vi era di giusto e di buono non soltanto in Platone, ma anche in tutti gli antichi pensatori della Grecia, e se ha con­ dotto a buon fine la grande opera di sintesi che Plato­ ne aveva prematuramente tentato, con ciò è riuscito ad assicurare in una maniera definitiva la presa delPintelligenza umana sulla realtà. La sua opera non è solo il frutto perfetto della saggezza greca, purificata dagli errori di Platone e dalle tracce estranee che si trovano in lui; essa contiene anche il germe interamen­ te formato, e le cui virtualità comportano uno svilup­ po illimitato, della saggezza universalmente umana.

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Si può dire che sino ad Aristotele la filosofia era in stato di for­ mazione embrionale o di divenire. D ’ora in poi, una volta formata, essa potrà svilupparsi senza posa. Inventum philosophicum semper

perfectibile. In realtà però, dopo Aristotele, il pensiero greco in decadenza non saprà rimanere fedele alla verità. Esso riceverà ancora molti ar­ ricchimenti materiali, ma quanto all’essenziale farà deviare la filo­ sofia anziché perfezionarla46.

1) Per ventanni Aristotele ha seguito le lezioni di Platone. Ma era un discepolo pericolosamente ar­ mato per la critica: nessuno ha saputo confutare con maggiore forza di lui Γidealismo platonico, né ha meglio mostrato P impossibilità di un sistema che met­ ta al di fuori delle cose la loro sostanza. È ben vero che le essenze delle cose sono, come diceva Socrate, l’oggetto primo dell’intelligenza; è ben vero anche che, come voleva Platone, l’essenza di Pietro, di Paolo, di Giovanni è l’umanità o natura umana, fatta astrazione dai caratteri individuali pro­ pri a Pietro, Paolo o Giovanni in particolare. Ma tale essenza non esiste in questo stato universale che in un’intelligenza (nella nostra mente47 che la tira fuori o la astrae dalle cose, nelle quali esiste in uno stato d’in­ dividualità48); e d’altra parte è solo nella sua costitu­ zione intelligibile (come incapace cioè di essere pensa­ ta se non con tali attributi), non nella sua esistenza reale, che essa è eterna e necessaria. Cosicché le essen­ ze delle cose caduche non esistono separate dalle cose o allo stato puro, e tutto il mondo platonico delle idee-archetipi è pura fantasia. Ciò che bisogna dire subito (come vedremo più tardi in dettaglio) è che si trova nelle cose un elemento intelligibile e immateriale (chiamato forma da Aristo­ tele) in virtù del quale esse hanno questa o quella na­ tura o essenza. Ma tale principio non è separato dalle cose, è nelle cose stesse, entra nella costituzione della loro sostanza. Donde consegue che le cose individuali, mutevoli e periture, non sono più ombre illusorie, esse sono la realtà. Se vi sono delle realtà più alte, non ve ne sono delle più immediatamente accessibili per noi. Se il mondo sensibile è come una somiglianza imperfetta

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alla pura spiritualità della vita divina, ecco un essere che assomiglia ad un altro essere, e non una semplice immagine che non ha in sé consistenza. Se questo mondo è sottoposto al divenire, non è divenire puro, ma ha in sé delle realtà stabili e sostanziali. Se noe esiste una scienza del singolare sensibile c o m e ta le , una scienza della realtà sensibile è pur tuttavia possi­ bile, per il fatto che si trova, incarnato per cosi dire in questa realtà, qualcosa d9intelligibile e d'immateriale. Perciò il mondo dei corpi non è oggetto di pura opinione, esprimibile soltanto con miti ed apologhi; esso è oggetto di scienza, di una scienza che è la fisica. Aristotele è il vero fondatore della fisica^. Con una potenza incomparabile egli ha sottomesso la mobilità alPimmutabile luce dell9intelligenza, mostrando che vi sono, in ciò che muta, leggi che non mutano, spie­ gandoci la natura del movimento stesso, della genera­ zione e della corruzione, distinguendo infine le quat­ tro specie di cause che sono in gioco nel mondo sensi­ bile. Riassumendo lui stesso, in termini singolarmente aspri e severi, la sua lunga argomentazione contro la teoria delle idee, Platone, egli dice, misconosce del tutto la vera natura della causa formale, separandola dalle cose. «Credendo di scoprire la sostanza delle co­ se visibili, non ha fatto altro che immaginare altre so­ stanze accanto a loro. E quanto a sapere come le idee cosi definite sono le sostanze di quelle cose, egli non risponde se non con vuote parole, essendo la p a rte c i­ p a z io n e a cui fa riferimento nulla affatto». Platone pertanto non può dire più nulla di soddisfacente sulla natura e, trasferendo alle idee ogni causalità come ogni vera realtà, rimane incapace di determinare il ruolo della causalità efficiente e della causalità finale nelPattività delle cose. «Egli trascura» perciò «la cau­ sa efficiente, principio del mutamento». «Egli lascia parimenti in disparte ciò per cui agisce ogni intelligen­ za e ogni natura, cioè la causa finale... Accade che ai nostri giorni le matematiche hanno assorbito la filosoy) La fisica sperimentale di Aristotele (scienza dei fenomeni) è u n magnifico edificio intel­ lettuale completamente distrutto da alcuni errori di fatto. Ma la sua fisica filosofica (scien­ za dell5essere mobile come tale), contiene i fondamenti e i p rin cip i di ogni vera filosofia

della natura.

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fia e si pretende di spiegare con esse tutto il resto delle cose...» «Quanto al movimento, se le idee sono immobi­ li» non vi è un movimento-archetipo nel mondo delle idee; ma allora «donde può venire il movimento» se­ condo il sistema platonico? «Orbene togliendo il mo­ vimento, si sopprime contemporaneamente qualsiasi investigazione sulla natura»49. 2) La confutazione della teoria delle idee porta con sé logicamente la critica e la rettifica di tutte le altre parti della dottrina di Platone. Per quanto concerne la co­ noscenza umana, Aristotele mostra che la fisica, la matematica e la metafisica o filosofia prima sono sì tre scienze diverse, ma diverse in relazione al loro og­ getto, non in relazione alla facoltà che mettono in opera e che è per tutte e tre la ragione. Egli mostra inoltre e soprattutto, mediante quell’ammirevole ana­ lisi dell’astrazione, che guida e governa tutta la filoso­ fia, che le nostre idee non sono innate, come i ricordi di ciò che noi avremmo visto prima di nascere, ma che esse provengono dai sensi per opera dell’attività dello spirito. Per quanto concerne Γanima umana, se, per rea­ zione alla metempsicosi platonica e per eccesso di pru­ denza scientifica, egli si astiene da qualunque ricerca sulla condizione in cui l’anima si troverà dopo la mor­ te, stabilisce nondimeno su basi incrollabili la dottrina spiritualista, determinando per un verso (contro il dualismo di Platone) l’unità sostanziale dell’essere umano, composto di due parti sostanziali incomplete e complementari; e per l’altro (contro i materialisti), determinando la spiritualità delle operazioni dell’in­ telletto (e della volontà); e crea così la sola psicologia capace di assimilare e d’interpretare l’immenso mate­ riale delle osservazioni che accumulerà la sperimenta­ zione moderna. Per quanto concerne infine i comportamenti del­ l’uomo, egli fa vedere, mediante la sua distinzione fra il giudizio speculativo (che dipende dal solo intelletto) e il giudizio pratico (che dipende anche dalla volontà), come il libero arbitrio è possibile e come il peccatore fa il male che conosce; mette a fuoco il concetto e la teoria della virtù e fissa, per quanto riguarda soprat-

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tutto le virtù cardinali e l’analisi delle azioni umane, i tratti principali di quel che sarà nell’ordine naturale l’insegnamento morale cristiano.

20. — Ma bisogna vedere Aristotele non solta to nel suo rapporto con Platone, bensì anche (e so­ prattutto) nel suo rapporto con ciò che è, e in una ma­ niera assoluta. Platone infatti non ha fatto altro che fornirgli l’occasione di misurarsi egli stesso con l’esse­ re. Aristotele è uscito vincitore da questa lotta, dan­ doci con i suoi grandi concetti della potenza e àe\Yat­ to, della materia e della forma, delle categorie, dei trascendentali, delle cause le armi che ci occorrono per usarle a nostra volta, e insegnandoci, vero mae­ stro di saggezza, ad elevarci dalla considerazione delle cose visibili e periture a quella di ciò che vive imperitu­ ro e immutabile. «Immobile nella sua attività pura, questo essere non è soggetto ad alcun genere di muta­ mento... Tale è il principio da cui dipende il cielo e la natura. La sua felicità assomiglia alle gioie supreme che noi non possiamo gustare se non per un momento, ma egli la possiede eternamente. La sua felicità è il suo atto... è l’atto della sovrana intelligenza, il pensiero puro che pensa se stesso... È una cosa mirabile che Dio abbia sempre la gioia che noi abbiamo solamente qualche volta, ma se egli l’ha ben più grande, questo è ancor più stupendo; ed è proprio così che egli l’ha. Ed egli possiede la vita. Poiché l’atto dell’intelligenza è una vita. Ora Dio è questo atto stesso allo stato puro. Egli è dunque la sua propria vita: questo atto sussi­ stente in sé, tale è la sua vita eterna e sovrana. Per questo si dice che è un vivente eterno e perfetto; la vita che dura eternamente infatti esiste in Dio; poiché egli è questo, la vita stessa»50. E questo Dio è perfettamen­ te uno, assolutamente unico. «Coloro che prendono come principio il numero matematico e un seguito in­ definito di essenze senza legame tra di loro, fanno del­ l’universo una raccolta sconclusionata di realtà che agiscono senza ordine. Ma gli esseri non vogliono es­ sere mal governati e, secondo il detto di Omero, la

pluralità dei capi non serve a nulla. Che vi sia un capo solo!»51. Così Aristotele, come osserva Alessandro di Afrodisia in un bel passo del suo Commento alla me­

li


tafisica52, «ci conduce dalle cose che sono in se stesse le ultime, e che per noi sono le più note, sino al padre che fa tutte le cose, a Dio degno di ogni venerazione, e ci mostra che come il fonditore è la causa che fa P uni­ tà della sfera e del bronzo, così la potenza divina, ope­ ratrice di unità e creatrice delle cose, è per tutti gli es­ seri la causa che fa sì che essi sono quel che sono.» Aristotele è contemporaneamente lo spirito più positivo e lo spirito più metafisico. Logico rigoroso, ma anche realista sempre alPerta, egli si piega senza sforzo alle esigenze di ciò che è, ed accoglie nel suo pensiero tutte le varietà dell’essere senza mai forzare nulla né deformare, con un vigore e con una libertà di spirito che non verranno superati se non dal candore limpido e dalla forza angelica di Tommaso d’Aquino. Ma tutta questa ricchezza è ordinata nella luce dei principi, sottomessa, classificata, misurata, dominata dall’intelletto; ed è questa l’opera stessa della sapien­ za. Sapienza ancora tutta umana e che nondimeno, posta così in alto, abbraccia con un solo sguardo l’u­ niversalità delle cose. Il pensiero di Aristotele tuttavia lavora meno in ampiezza che in profondità. Egli si preoccupa poco di far vedere le proporzioni e le vaste sintesi della sua dottrina; egli si applica innanzitutto ad afferrare con un metodo assolutamente sicuro e con una precisione senza errore ciò che ogni natura conoscibile ha di più originale e di più intimo, di più se stessa. Egli ha per­ tanto non solo organizzato la scienza umana, e fonda­ to sulle loro basi la logica, la biologia, la psicologia, la filosofia naturale, la metafisica, l’etica e la politica, ma ha anche sfaccettato il diamante di una moltitudi­ ne di definizioni o di sentenze preziose, nelle quali risplendono le luci del reale. Del resto, bisogna dire senza esitazione che Ari­ stotele è del tutto unico tra i filosofi, unico per il ge­ nio, per i doni, per l’opera. È nell’ordine delle cose che ciò che è bello sia difficile e che ciò che è difficile sia raro. Ma se si tratta di un’opera straordinariamen­ te difficile, e in se stessa e per le condizioni che pre­ suppone, c’è da credere che un artista solo si troverà per compierla. D ’altra parte, un bell’edificio non vie­ ne comunemente costruito in base al progetto di nu­ merosi architetti, ma in base al progetto di uno solo.

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Se dunque la saggezza umana o filosofia doveva esse­ re un edificio sufficientemente ben costruito, era ne­ cessario che dopo una lunga preparazione storica, le fondamenta ne fossero un giorno gettate da uno solo. Su queste fondamenta, migliaia di artigiani potranno costruire a loro volta, poiché la scienza non cresce se non con lo sforzo comune delle generazioni umane e non giungerà mai al termine. Ma sarà stato necessario un solo capo-architetto53. È per questo che, malgrado gli errori, le imperfe­ zioni o le insufficienze che denotano in lui i limiti della ragione umana54, Aristotele è proprio il filosofo per eccellenza, come Tommaso è il teologo55.

21. — Aristotele è nato nel 384 a Stagira in Tr cia56. Era figlio di un medico di nome Nicomaco, della famiglia degli Asclepiadi che, si dice, risaliva sino ad Esculapio. A diciott’anni diventò discepolo di Platone e sino alla sua morte (347) ne seguì le lezioni. Dopo la morte di Platone si recò ad Asso nella Misia, ove re­ gnava Ermia, poi a Mitilene; in seguito soggiornò per otto anni presso Filippo, re di Macedonia. Alessandro lo ebbe come precettore. Dopo che Alessandro ebbe incominciato a regnare, Aristotele venne ad Atene e fondò la sua scuola o liceo (ginnasio dedicato ad Apollo Lido). Egli insegnava passeggiando con i suoi discepoli sotto le piante ombrose del liceo, donde il nome di peripatetici dato ai suoi discepoli. Rimase do­ dici anni ad Atene. Avendo il partito antimacedone lanciato contro di lui Paccusa di empietà, in occasione di un inno da lui composto un tempo per la morte del suo amico Ermia, si ritirò a Calcide, ove morì a 63 an­ ni (nel 322).S i

Si narra che il suo amore per lo studio gli suggerì ridea di lavo­ rare tenendo in mano una biglia di rame che, se egli si fosse addor­ mentato, lo svegliasse cadendo in un recipiente di metallo. Filippo e Alessandro misero le loro immense ricchezze a sua disposizione per facilitargli le ricerche. Scrisse dei libri destinati al pubblico (dialo­ ghi), che sono andati tutti perduti (Cicerone esaltava la loro elo­ quenza, flumen aureum orationis fundens Aristoteles — Acad. II, 38, 119 —) e dei libri acroamatici ove è riassunto l’insegnamento orale che dava ai suoi discepoli e la maggior parte dei quali ci è per­ venuta57. Questi libri hanno una storia molto curiosa, che ci è raccontata

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d a Strabone, e che illu stra, p ro p rio com e le osservazioni di P ascal sul n a so di C leo p a tra, il ru o lo delle piccole cause nei destini u m an i. A lla m o rte del filo so fo , essi p a ssa ro n o con la sua b ib lio teca al suo discep o lo e successore T eo fra sto , p o i ad u n discepolo di T eo fra sto , c h ia m ato N eleo, p o i agli eredi di N eleo. C o sto ro , tem en d o che i li­ bri venissero lo ro to lti p er essere destin ati alla b ib lio teca dei p rincipi di P e rg a m o , li n asco sero in u n so tte rra n e o . A lo ro v o lta m o riro n o . I m an o scritti di A risto tele eran o d u n q u e a n d a ti p e rd u ti. R im asero p e rd u ti p e r u n secolo e m ezzo; ed è alla b u o n a stella di u n fo rtu n a to b ib lio filo che d o v e tte ro il rivedere la luce. V erso F a n n o 100 a.C ., i discen d en ti degli eredi di N eleo, avendoli sco p erti (in pessim o sta to , come si può ben pensare), li vendettero a prezzo d’oro ad un ricco amatore di libri, Apellico di Teo, che li pubblicò zeppi di errori; nel-

Γ86 a.C ., al momento della conquista di Atene da parte dei romani, passarono nelle mani di Siila. Il grammatico Tirannio li ebbe tra le mani e li utilizzò; infine, Andronico di Rodi ne stese il catalogo e li pubblicò58. Alessandro di Afrodisia (II secolo della nostra èra), i neoplatonici Porfirio (III secolo) e Temistio (IV secolo), Simplicio, Filone (VI secolo) li commentarono.

La cultura scolastica che si è sviluppata a partire dall· Vili secolo nell· occidente cristiano, ignorò a lun­ go i libri originali di Aristotele, tranne VOrgano (trat­ tato concernente la logica), che Boezio (480-526) ave­ va tradotto in latino8. Essa non ignorava tuttavia il suo pensiero, che tanti autori secondari avevano vol­ garizzato e che faceva parte integrante di quella gran­ de cultura filosofica dell’antichità, dalla dominante platonica è vero, che i Padri (Agostino soprattutto) avevano raccolto e messo a servizio della fede. Nelle scuole cristiane si insegnava la logica di Aristotele, sul testo di Boezio. Ma è solo verso la fine del XII secolo che gli scritti del filosofo (fisica, metafisica, etica) in­ cominciarono ad arrivare agli scolastici grazie soprat­ tutto, sembra, all’ardente polemica condotta in quel­ l’epoca dai dottori cristiani contro la filosofia degli arabi, ai quali quegli scritti erano stati trasmessi (con i commentari dei neoplatonici, in una versione siriaca tradotta anch’essa poi in arabo) e che pretendevano di fondarsi su di essi. Accolti in un primo tempo con grande diffidenza60, a causa della via stessa per cui giungevano e a causa degli errori con cui li agghinda­ vano i commentatori arabi, tutti i libri di Aristotele furono ben presto tradotti in latino, prima del testo arabo, successivamente61 dal testo greco62.

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Tommaso introduce la filosofia di Aristo­ tele nella luce di Cri­ sto.

22. — E fu allora rincontro tra la sapienza umana e la verità divina, tra Aristotele e la fede. Ogni verità appartiene di diritto al pensiero cristiano, come le spoglie delPEgitto appartenevano agli ebrei. Quae­ cumque igitur apud omnes praeclara dicta sunt, no­ stra christianorum sunt62, per il fatto che, secondo il detto di Ambrogio sovente citato da Tommaso, ogni verità, da chiunque venga affermata, deriva dallo Spi­ rito S a n to 64. Ma bisogna che qualcuno realizzi questa presa di possesso, ed è stato necessario che qualcuno facesse passare al servizio regale di Cristo la meravi­ gliosa potenza intellettuale di Aristotele. Questa ope­ ra, iniziata da Alberto Magno (1193-1280), fu guida­ ta, compiuta e consumata da Tommaso d’Aquino (1225-1274). Essa postulava la congiunzione delle più rare condizioni: il fiore della civiltà del tempo di san Luigi, la mirabile organizzazione dell’ordine di san Domenico, il genio di Tommaso2. Tommaso, che la Chiesa ha proclamato il dottore per eccellenza, Doctor communis Ecclesiae, che ha eletto maestro universale del suo insegnamento, non ha soltanto trasferito nel campo del pensiero cristiano la filosofia di Aristotele nella sua integrità, per farne lo strumento di una sintesi teologica incomparabile; egli ha anche, e nel medesimo tempo, sopraelevato e per così dire trasfigurato questa filosofia. Egli Pha purificata da ogni traccia di errore (nelPordine filosofico s’intende, poiché nell’ordine delle scienze dell’osservazione o scienze dei fenomeni, Tommaso non poteva meno di Aristotele evitare gli errori ammessi nel suo tempo, errori senza importan­ za peraltro per quanto riguarda la filosofia stessa); egli Pha fortemente ed armonicamente sistematizzata,

z) Affinché quest’opera potesse compiersi, era necessario anche che il pensiero cristiano si trovasse già potentemente costituito nell’ordine filosofico e teologico, grazie ai Padri e grazie alla scolastica anteriore a Tommaso. Perciò l’opera di Alberto magno e di Tomma­ so è consistita non nel cambiare, ma al contrario nel portare a compimento la filosofia cristiana, nel darle la fo rm a dell’età perfetta. Se i contemporanei sono stati colpiti soprat­ tutto dalla novità di questa opera (novità di compimento, non d’alterazione), ciò deriva dal fatto che ogni passaggio allo stato perfetto deve necessariamente sorprendere coloro che vi assistono da vicino e che possono essere attaccati per l’abitudine a certi aspetti dello stato imperfetto come tale. Si troveranno alcune indicazioni sull’accoglienza fatta a Tom­ maso dai suoi contemporanei nel riassunto storico che proporremo alla fine di questi ele­ menti di filosofia.

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ne ha approfondito i principi, sviluppato le conclusio­ ni, -allargato P orizzonte e, se non ne ha tolto nulla, egli vi ha aggiunto molto, arricchendola dell’immenso tesoro della tradizione latina e cristiana, restituendo al loro giusto ambito numerose prese di posizione di Platone, creando su certi punti fondamentali (sulla questione dell’essenza e delPesistenza, per esempio) delle sintesi completamente nuove e dando prova in tutto ciò di un genio filosofico tanto possente quanto quello di Aristotele. Infine e soprattutto usando, me­ diante il suo genio propriamente teologico, della filo­ sofia di Aristotele come d’uno strumento della scienza sacra, che è in noi come un'impressione della scienza d i D io65, egli ha elevato questa filosofia al di sopra di se stessa, attirandola in una luce superiore che ne ha fatto risplendere la verità in un modo più divino che umano. Fra Aristotele visto in Aristotele e Aristotele visto in Tommaso, vi è la stessa differenza che si ha fra una città vista alla luce di torce portate dagli uomi­ ni e la stessa città apparsa nei raggi del sole del matti­ no. Per questo, benché Tommaso sia innanzitutto un teologo, conviene parlare di filosofia tomista tanto quanto, e meglio forse, di filosofia aristotelica™. 23. — Questa filosofia di Aristotele e di Tom­ maso è veramente, secondo l’espressione di un filoso­ Caratteristiche o se­ esteriori della ve­ fo moderno, la filosofia naturale dello spirito umano; gni ra filosofia: essa sviluppa effettivamente e porta alla sua perfezio­ ne quel che vi è di più profondamente e di più autenti­ camente naturale nella nostra intelligenza, nelle sue filosofia naturale del­ conoscenze prime come nel suo movimento verso la lo spirito umano, verità. Essa è anche la filosofia d e ll'e v id e n z a , basata sia filosofia dell’eviden­ sull’evidenza sperimentale dei dati dell’esperienza sen­ za, sibile, sia sull’evidenza intellettuale dei primi principi, la filosofia dell'essere, che si fonda completamente e dell’essere,

aa) Aggiungiamo che è opportuno incominciare dalla summa Theologica la lettura di Tommaso. Questo è un consiglio sul quale non si insisterà mai abbastanza. Lo studio della filosofia deve precedere quello della teologia, ma a fianco degli studi propriamente detti e per il bene dello spirito, la lettura della Summa (benché l’ordine che vi è seguito sia del tut­ to differente dall’ordine filosofico) potrebbe e dovrebbe essere iniziata subito dopo il pri­ mo anno di filosofia e proseguita da questo momento in una maniera continua.

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dell’intelligenza.

filosofia universale,

duratura,

e una.

si regola su ciò che è e si conforma fedelmente a tutte le esigenze del reale, la filo s o fia dell*intelligenza, alla quale si affida come alla facoltà del vero e che forma per mezzo di una disciplina sovranamente purificatri­ ce. Per ciò stesso essa appare anche come universale, in questo senso, che essa non è l’espressione di una na­ zionalità o di una classe o di un gruppo o di un tempe­ ramento o di una razza o di un’ambizione o di una nostalgia o di una necessità pratica, ma è l’espressione e il frutto della ragione, che è ovunque la stessa; in questo senso pure, che essa è capace di condurre le in­ telligenze raffinate sino alla scienza più alta e più ar­ dua, senza mai venir meno a quelle certezze vitali, spontaneamente acquisite da ogni retta ragione, che costituiscono il dominio universalmente umano del senso comune. Essa appare inoltre come continua e duratura (philosophia perennis) in questo senso, che prima che Aristotele e Tommaso l’avessero costituita scientificamente e come filosofia, essa esisteva sin dal primo giorno nella sua radice, allo stato prefilosofico, come istinto dell’intelligenza, e come conoscenza na­ turale delle prime acquisizioni della ragione; e in que­ sto senso pure, che dalla sua fondazione come filoso­ fia, essa è rimasta stabile e progressivaspella sua gran­ de vita tradizionale, mentre tutte le altre filosofie si succedevano le une alle altre senza durare. Essa appa­ re infine come incomparabilmente una, sia perché è la sola che assicura al sapere umano (metafisica e scien­ ze) la sua armonia e la sua unità, sia perché realizza essa stessa il massimo della coerenza nel massimo del­ la complessità e perché non si può trascurare il mini­ mo dei suoi principi senza falsare, con le ripercussioni più imprevedibili, ogni genere di aspetto del reale. Queste sono alcune delle caratteristiche esteriori che ci manifestano la sua verità; e ciò prima ancora che noi abbiamo potuto penetrare in essa, e costatare direttamente la sua intrinseca evidenza e la sua neces­ sità razionale.

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2. CONCLUSIONI66

bb)

L e co n tro v ersie co n cern en ti le conclusioni q ui in d icate, sa ra n n o stu d iate nella L ogica M aggio re e n ella C ritica.



24. D E FIN IZ IO N E DELLA FILO SO ­ FIA — La filosofia ci è apparsa in primo luogo come la sapienza umana . Ora che sappiamo meglio, me­ diante la storia stessa della sua genesi, in che cosa con­ siste questa sapienza e di che cosa essa si occupa, po­ siamo cercare di dire con maggior precisione che cos’è la filosofia. (Consideriamo per far ciò la filosofia per eccel­ lenza — filosofia prima o metafisica — . Quel che ne diremo in un senso assoluto — simpliciter — potrà es­ sere applicato sotto un certo rapporto — secundum quid — alle altre parti della filosofia.) 1) La filosofia è una saggezza di condotta o di vi­ ta, che consisterebbe nelVagire bene nel senso in cui chiamamo talora saggio colui che è virtuoso! (Gli in­ glesi, in questo senso, dicono buono). No, la filosofia

La filosofia è

è una saggezza che consiste nel

CONOSCERE. 2) Conoscere come ? Conoscere nel senso pieno e perfetto della parola, cioè con certezza, e potendo dire perché la cosa è così come la si esprime e non può esse­ re diversamente, CONOSCERE MEDIANTE LE CAUSE. La ricerca delle cause è in realtà la grande impre­ sa dei filosofi, e la conoscenza di cui si occupano non è una conoscenza semplicemente probabile, come quella che danno gli oratori coi loro discorsi, è una co­ noscenza capace di costringere P intelligenza, come quella che i geometri procurano con le loro dimostra­

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la conoscenza scienti­ fica,


zioni. Ma che cos’è una conoscenza sicura mediante le cause! È quella che si chiama una scienza. La filosofia è una scienza. che la ragione natu­ rale

3) Conoscere in che modo, grazie a quale luc Conoscere per mezzo della ragione, grazie a ciò che si chiama LA LUCE NATURALE dell’intelletto umano. È questa la caratteristica comu­ ne di ogni scienza puramente umana (in opposizione alla teologia). Ciò che regola la filosofia, il criterio di verità che essa usa, è pertanto P evidenza dell’oggetto.

Lo strumento o la luce per mezzo della quale una scienza coglie le cose, è quello che in linguaggio tecnico si denomia lumen sub quo di tale scienza, la luce sotto la quale essa afferra l’oggetto che co­ nosce (chiamato esso stesso oggetto quod). Le diverse scienze hanno ciascuna una luce distinta {lumen sub quo, medium seu motivum formale) che risponde ai principi formali per opera dei quali esse at­ tingono il loro oggetto, ma tali diversi principi hanno questo di co­ mune, che sono tutti conosciuti da noi mediante l’esercizio sponta­ neo della nostra intelligenza, intesa come mezzo naturale di cono­ scere, o in altre parole, mediante la luce naturale della ragione, e non, come i principi della teologia, tramite una comunicazione so­ prannaturale fatta agli uomini (rivelazione) e mediante la luce della fede. Ora ci rimane da considerare Voggetto quod della filosofia.

ci dà di ogni cosa (og­ getto materiale della filosofia)

4) Conoscere che cosa! Per rispondere a ques domanda, ricordiamo di che cosa si occupano i diversi filosofi di cui prima abbiamo riassunto le dottrine. Essi si occupano di tutto: della conoscenza stessa e dei suoi procedimenti, dell’essere e del non-essere, del be­ ne e del male, del movimento, del mondo, degli esseri viventi e non viventi, dell’uomo, di D io... La filosofia si occupa dunque di tutto, è una scienza universale. Ciò significa che la filosofia assorbe in sé tutte le scienze, ed è la scienza unica di cui tutte le altre non sono che parti, oppure che la filosofia si immerge essa stessa nelle altre scienze, di cui non è che la collezione ordinata o la sistematizzazione? No, essa ha la sua na­ tura e il suo oggetto propri, ed è distinta dalle altre

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scienze, altrimenti non sarebbe nulla e i vari filosofi di cui sopra riassumevamo le dottrine avrebbero trattato problemi inesistenti66. Ora, che la filosofia sia qualche cosa di reale e che i problemi di cui si occupa siano i più necessari da studiare, questo emerge con evidenza dall5impossibilità naturale in cui si trova lo spirito umano di non proporsi le questioni di cui hanno trat­ tato i filosofi e che impegnano dei principi ai quali so­ no legate le certezze di tutte le scienze. «Voi dite che bisogna filosofare?» chiedeva Ari­ stotele in un celebre dilemma. «Allora effettivamente bisogna filosofare. Voi dite che non bisogna filosofa­ re? Allora bisogna ancora filosofore (per dimostrar­ lo). In ogni caso è necessario filosofare»67. Ma in che modo la filosofia può essere una scien ­ za a parte, se si occupa di tutto? Qui dobbiamo chie­ derci da quale p u n to d i vista essa si occupa di tutto, o meglio che cosa d ir e tta m e n te e p e r s e stesso l’interessa in tutto; se si occupa dell’uomo, per esempio, lo fa per sapere il numero delle sue vertebre o le cause delle sue malattie? No, questo è compito dell’anatomia e della medicina; la filosofia si occupa dell’uomo per sapere, per esempio, se gli ha un’intelligenza che lo distingue assolutamente dagli altri animali, se ha un’anima, se è fatto per godere di Dio o per godere delle creature, ec­ cetera. Quando si sa questo, non si può andare ad af­ frontare altre questioni più lontane e più in alto. Di­ ciamo che la filosofia va a cercare, nelle cose, non il perché più ravvicinato ai fenomeni che cadono sotto i nostri sensi, ma al contrario il perché più lontano da questi fenomeni, il perché più elevato, quello oltre il quale la ragione non può andare. È quello che si espri­ me in linguaggio filosofico dicendo che la filosofia non ricerca le cause secondo o le ragioni prossime00, ma al contrario le cause prime o i principi supremi o le

ragioni più elevate. Inoltre abbiamo visto che la filosofia conosce le cose mediante la luce naturale della ragione. Diciamo dunque che essa ricerca le cause prime o i principi su­ premi che riguardano l ’ordine naturale. Quando' affermavamo che la filosofia si occupa cc) Prossime, cioè vicine al dettaglio dei fenomeni che cadono sotto i nostri sensi.

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mediante le cause pri-

deHa(Cf?iotoria)0rmaIe

di tutto , di tutto ciò che è, di tutto ciò che si può co­ noscere, non parlavamo in una maniera molto preci­ sa, mostravamo la materia sulla quale essa indaga o il suo oggetto materiale, non facevamo vedere da quale punto di vista e sotto quali determinazioni questa ma­ teria la interessa, non le attribuivamo il suo oggetto form ale o il suo punto di vista formale. L’oggetto formale di una scienza è la determinazione per mezzo delclua^e essa coglie qualche cosa, o anche è ciò che per se stesso e innanzitutto viene da essa considerato e quello in ragione del quale essa considera tutto il re­ sto^: e ciò che la filosofia considera in tale modo for­ male nelle cose, e dal punto di vista del quale conside­ ra tutto il resto, sono LE CAUSE PRIME o i principi supremi delle cose, in quanto queste cause o principi si riferiscono all’ordine naturale.

L’oggetto materiale di una facoltà, di una scienza, di un’arte, di una virtù, è molto semplicemente la cosa o la materia (senza me­ no) a cui si applica quella facoltà, quella scienza, quell’arte, quella virtù. Pertanto, la chimica ha per oggetto materiale i corpi non vi­ venti; il senso della vista, le cose poste dinanzi a noi. Ma questo non è sufficiente per distinguere la chimica dalla fisica, per esempio, che si occupa anch’essa de corpi non viventi, né per distinguere la vista dal tatto. Per definire esattamente la chimica bisognerà dire che es­ sa ha per oggetto i cambiamenti profondi (cambiamenti sostanziali) dei corpi non viventi; parimenti, bisognerà dire che la vista ha per oggetto il colore. Si sarà così stabilito il loro oggetto formale {objec­ tumformale quod), cioè quello che per sua natura e immediatamen­ te, o anche per se stesso e direttamente, o anche necessariamente e prima di tutto (tali espressioni si equivalgono e corrispondono alla formula latina per se primo) è còlto o considerato nelle cose da questa scienza, da questa arte o da questa facoltà, e quello in ragio­ ne del quale esse colgono o considerano tutto il resto.

Pertanto, in mezzo a tutte le conoscenze umane, la filosofia soltanto ha per oggetto tutto ciò che è. Ma essa cerca, in tutto ciò che è, unicamente le cause pri-

dd) «Quod per se primo haec scientia considerat et sub cuius ratione caetera omnia cogno­ scit.»

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me. Le altre scienze, al contrario, hanno per oggetto questa o quella parte di ciò che è, di cui esse studiano solo le cause seconde o i principi prossimi. Questo si­ gnifica che la filosofia è la più alta di tutte le cono­ scenze umane. Significa pure che la filosofia è proprio una sa­ pienza, poiché è proprio della sapienza il considerare le cause più elevate e nobili, sapientis est altissimas causas considerare. Essa perciò in un piccolo numero di principi comprende la natura intera ed arricchisce Pintelligenza senza affaticarla. 5) Tutto ciò che abbiamo detto ora conviene pu­ ramente e semplicemente alla filosofia prima o meta­ fisica, ma può essere inteso come riferito alla filosofia tutta, presa come un insieme di cui la metafisica è la parte più importante68. Si dirà perciò che la filosofia considerata nel suo insieme è un corpo di scienze uni­ versale69, che ha come punto di vista formale70 le cau­ se prime (sia le cuase assolutamente prime, i principi assolutamente primi: oggetto formale della metafisi­ ca; sia le cause prime in un certo ordine, i principi su­ premi in un campo determinato: oggetto formale delle altre scienze filosofiche). Si dirà parimenti che alla metafisica compete il nome di sapienza puramente e semplicemente (simpliciter) e che le altre parti della fi­ losofia lo meritano sotto un certo rapporto (secon-

dum quid). CONCLUSIONE I. — La filosofia è la conoscenza scientifica che, mediante la luce naturale della ragione, considera le cause prime o le ragioni più elevate di ogni cosa; o ancora: la conoscenza scientifica delle cose mediante le cause prime, nella misura in cui queste concernono l’ordine naturale.

a) La difficoltà di una tale conoscenza deriva precisamente dalla sua altezza. È per questo che il filosofo, che si dedica alla co­ noscenza più elevata, deve essere personalmente il più umile degli

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u o m in i di studio; la qu al cosa però no n gli im pedisce di difendere, co m ’è su o dovere, la dignità della sapienza e il su o p rim a to su tu tte le scienze.

b) S o tto P in flu en za di q u esta considerazione, che la filoso h a u n d o m in io universale, D escartes (X V II secolo) vedeva in essa la scienza unica®6, di cui tu tte le altre scienze (secondo lui) so n o solo p a rti; A u g u sto C o m te invece e i positivisti (X IX secolo) volevano asso rb irla nelle altre scienze, di cui la filo so fia sareb b e solo la siste­ matizzazione. Si vede bene che e gli u ni e gli altri si so n o in g an n ati, poich é n o n h a n n o d istin to P oggetto materiale dall ’oggetto formale della filo so fia.

Filosofia di Aristotele e di

Tommaso. L a filosofia e P insie­ m e delle altre scienze h a n ­ no il m edesim o oggetto materiale (tu tto ciò che è conoscibile). M a la filoso­ fia co n sid era formalmente le cause prim e, le altre scienze co n sid eran o for­ malmente le cause secon­ de.

Descartes.

Augusto Comte.

La filosofia assume in sé le altre scienze, la filosofia è ogni scienza.

Le scienze assumono in sé la filosofia, — non vi è filosofia.

c) Abbiamo detto prima che la filosofia è una scienza e che c nosce con certezza. Non pretendiamo certo, dicendo questo, di af­ fermare che la filosofia risolve con certezza tutte le questioni che si possono presentare nel suo campo. In molti punti il filosofo deve accontentarsi di soluzioni probabili, sia che la questione oltrepassi la portata attuale della sua scienza, come in numerose parti della fi­ losofia naturale e della psicologia, sia che non comporti per se stes­ sa alcuna altra soluzione (come, ad esempio, per quanto riguarda Papplicazione delle regole morali ai casi particolari). Ma questo ele­ mento semplicemente probabile è accidentale alla scienza come tale.

ee) Decartes usava il termin efilosofia nella sua accezione antica. Per gli antichi, come per Descartes, il termine filosofia indicava Tinsieme della conoscenza scientifica. Ma gli anti­ chi suddividevano la filosofia così intesa in numerose scienze distinte, fra le quali alla me­ tafisica competeva per eccellenza il nome di filosofia. Descartes invece considerava la filo­ sofia, intesa sempre come Vinsieme della conoscenza scientifica, come una scienza specifi­ camente una (di cui la metafisica, la fisica, la meccanica, la medicina e la morale sarebbero le parti principali). Pertanto, egli riconosceva solo una scienza unica. Per noi la filosofia è un corpo di scienze che deriva dal suo punto di vista formale (cause prime) la sua unità e la sua distinzione rispetto alle altre scienze. La parte principale di questo corpo di scienze è la metafisica, scienza specificamente una, il cui oggetto formale è universale (l’essere in quanto essere).

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E la filosofia comporta più certeze, e certezze (certezze matafisiche) più perfette di qualunque altra scienza puramente umana.

25. LA FILOSOFIA E LE SCIENZE PARTI­ COLARI — Come precisare la relazione della filoso­ fia (e in primo luogo della filosofia prima o metafisi­ ca) con le altre scienze? 1) Ogni scienza è sovrana nel suo ambito, nel senso che ha i mezzi necessari e sufficienti per stabilire la verità nel suo campo e che nessuno è incaricato di Le scienze particolari negare le verità così stabilite. sottomesse alla Ma può succedere che una scienza o piuttosto sono filosofia, nel senso uno scienziato si inganni fortuitamente nel suo pro­ che spetta alla filoso­ prio campo. In tal caso la scienza in questione può fia giudicarle, senza dubbio giudicarsi e rettificarsi da se stessa, ma è chiaro che ad una scienza più elevata spetta pure il compito di giudicarla e di rettificarla, di supporre che l’errore commesso venga ad urtare contro qualcuna delle sue verità e a cadere così sotto la sua luce. Ora, la filosofia, e innanzitutto la filosofia per eccellenza o metafisica, è la scienza più elevata. Spetta dunque ad essa GIUDICARE tutte le altre scienze umane, nel senso che condanna come falsa ogni proposizione scientifica incompatibile con le sue verità.

Poniamo, ad esempio, una proposizione di fisica che sembri in­ compatibile con una verità di filosofia^. Non spetta solo alla fisica giudicare tale proposizione alla luce della fisica, è compito pure del­

la filosofia giudicare quella proposizione alla luce della filosofia, stabilendo se e in quale misura essa sia veramente incompatibile con la verità filosofica in questione. (Se questa incompatibilità è reale, evidentemente la proposizione di fisica di cui si tratta non è vera, poiché una verità non può essere contraria ad un’altra verità. Il fisi­ co dovrà dunque in tal caso inchinarsi dinanzi alla filosofia e ripren­ dere daccapo il suo ragionamento o i suoi esperimenti)^.

ff) In questo senso ci si può chiedere se il principio d’inerzia, così com’è formulato da Ga­ lileo e Descartes, sia compatibile con il principio filosofico:

vetur.

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quidquid movetur, ab alio mo­


Poniamo, al contrario, una proposizione di filosofia che sem­ bri incompatibile con una verità di fisica**. Sta alla filosofia giudi­ care tale proposizione alla luce della filosofia e determinare se e in che misura essa sia veramente incompatibile con la verità di fisica in questione. Ma è compito della fisica giudicare tale proposizione alla luce della fisica. (Se l’incompatibilità di cui si tratta è reale, eviden­ temente quella proposizione di filosofia è falsa, poiché una verità non può essere contraria ad un’altra verità. Il filosofo s’inchinerà in questo caso, non proprio davanti alla fisica, ma davanti alla filoso­ fia mentre giudica se stessa per mezzo della fisica e dovrà riprendere il suo ragionamento daccapo.)

dirigerle,

2) Inoltre, se i principi di bordinati ai principi di una scienza più elevata, è chia­ ro che questa scienza più elevata ha una funzione di direzione, in riferimento alla scienza inferiore. Orbe­ ne, poiché i principi della filosofia (della filosofia pri­ ma o metafisica) sono i principi assolutamente primi di ogni conoscenza umana, essi tengono in un certo modo sotto la loro dipendenza i principi di tutte le al­

tre scienze umane. La filosofia pertanto (la filosofia prima o metafisica)

DIRIGE le altre scienze.

a) Poiché i principi della filosofia (della filosofia prima o tafisica) sono i principi assolutamente primi di ogni conoscenza umana, essi tengono in un certo modo sotto la loro dipendenza i principi di tutte le altre scienze umane. Senza dubbio questi ultimi non dipendono direttamente dai principi della metafisica, come una conclusione dipende dalle premesse che la rendono vera. Essi sono conosciuti spontaneamente per mezzo della luce naturale {principia

8S) È vero che in realtà siamo in presenza non della filosofia ma dei filosofi, e i filosofi so­ no fallibili: un filosofo può sbagliare giudicando una proposizione di fisica; ma questo non prova che egli non abbia il diritto di giudicarla. Un fisico può pertanto essere nel giusto, in certi casi, se mantiene una proposizione di fisi­ ca contro un filosofo che la dichiara incompatibile con una verità filosofica. Ma in questo caso l’evidenza che lui stesso sente della verità di fisica in questione, gli fa concludere che il filosofo si è sbagliato formulando il suo giudizio, o in altri termini che egli non ha formu­ lato tale giudizio ut philosophus, come organo della filosofia. E il fisico non è autorizzato a negare al filosofo come filosofo il diritto di dare un giudizio del genere.

hh) Avviene, per esempio, che la tesi filosofica del libero arbitrio sembri ai meccanicisti in­ compatibile con il principio fisico della conservazione dell'energia.

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per se nota). Ma essi non sono primi assolutamente parlando (sim­ pliciter). E di conseguenza, benché s’impongano alla mente indi­ pendentemente dalla metafisica, tuttavia essi presuppongono in realtà i principi della metafisica e si risolvono in essi; possono essere conosciuti senza che siano esplicitamente conosciuti i principi della metafisica, ma non potrebbero essere veri se questi innanzitutto non fossero veri. Essi sono a loro indirettamente subordinati, in questo senso. Così, per fare un esempio, il principio matematico: «due quantità eguali ad una terza sono eguali tra loro», si risolve in que­ sto principio metafisico, di cui è una contrazione: «due esseri identi­

ci ad un terzo sono identici tra loro». Per questa ragione, si dice (come vedremo in Logica Maggiore) che le scienze sono tutte impropriamente «subalterne» alla metafisi­ ca. Inoltre debbono talora utilizzare anch’esse principi assolutamente comuni e universali della metafisica. In tale senso si dice che esse sono «subalterne» secondo un certo rapporto (secundum quid). b) Dirigere una cosa significa assegnarle la sua méta o il suo fine. Le scienze non sono dirette dalla filosofia verso il loro fine proprio, nel senso che esse non hanno bisogno della filosofia per tendere ver­ so il loro oggetto, Γaritmetica non ha bisogno della filosofia per tendere verso il loro oggetto, Γ aritmetica non ha bisogno della filo­ sofia per essere diretta verso le verità concernenti i numeri, essa vi si dirige da sé. Ma la filosofia stabilisce il fine proprio delle diverse scienze, nel senso che essa determina speculativamente ciò che costi­ tuisce l’oggetto proprio di ciascuna e ciò che fa la loro unità e la lo­ ro distinzione (classificazione delle scienze: problema studiato in Logica Maggiore). E con ciò stesso la filosofia stabilisce l’ordine delle scienze tra loro. Tutte le scienze pertanto sono ordinate dalla sapienza, sapientis est ordinare. Ne deriva che se una scienza, o piuttosto uno studioso, devia per caso dal suo fine specifico, usur­ pando il campo e i diritti di un’altra scienza71, è proprio della filoso­ fia impedire questo disordine. A tale titolo precisamente essa dirige le scienze (verso il loro fine proprio), non d a n d o l’inclinazione, ma reprimendo gli errori. D ’altra parte, la conoscenza nella quale la mente trova il suo bene ultimo, cioè la conoscenza più alta, può essere considerata co­ me il fine ultimo e trascendente verso il quale convergono tutte le scienze particolari. Ora è la filosofia (scienza delle cause prime) che procura questa conoscenza; anche a questo titolo essa dirige pertan­ to le scienze (verso il fine comune al quale è subordinato il fine proprio di ciascuna). Tutte le scienze sono perciò ordinate alla sa­

pienza. Si comprende, da quanto è stato detto ora, che per far progres­ si nelle scienze non occorre essere filosofi né basarsi sulla filosofia e che gli studiosi, nel coltivare la loro scienza, non hanno il dovere di chiedere consiglio alla filosofia né di tendere a diventare filosofi; ma che «senza di essa non potranno mai rendersi conto del ruolo né dell’importanza della loro specialità nell’insieme delle conoscenze umane», né avere «idea alcuna dei principi dell’esperienza stessa né dei fondamenti reali delle scienze particolari»72; e si comprende an­ che che nella società umana un periodo di cultura intellettuale in cui la filosofia non esercita sulle scienze il suo primato di scientia rec­ trix73, comporta fatalmente per l’intelligenza uno stato di disordine e una debilitazione generale.

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c) Descartes, per il fatto che assorbiva tutte le scienze nella fi­ losofia e considerava la scienza come puramente e semplicemente una, credeva che i principi di tutte le scienze dipendessero direttamente da quelli della filosofia prima (metafisica). In tal caso è dalla metafisica o dalla sommità stessa delia conoscenza che bisogna ini­ ziare lo studio delle scienze e della filosofia stessa. L’errore opposto consiste nel ritenere che i principi delle scien­ ze siano assolutamente indipendenti da quelli della filosofia. Ne de­ riva che non ci può più essere una scientia rectrix e che le scienze non formano un edificio ordinato ma un caos. Stupisce assai che Augusto Comte, il quale voleva ridurre la filosofia alla semplice si­ stematizzazione delle scienze particolari, non abbia visto che questo compito stesso di classificare e sistematizzare le scienze (in quella che egli chiama la sintesi oggettiva) è possibile solo se la filosofia è una scienza a parte, superiore, e dalla quale le altre scienze dipendo­ no in un certo m odo74.

Filosofia di Aristotele e di Tommaso. I principi delle scien­ ze particolari sono subor­ dinati a quelli della filoso­ fia, ma soltanto in una maniera indiretta. Di con­ seguenza, la filosofia diri­ ge le altre scienze, ma con una direzione che si po­ trebbe chiamare polìtica (le scienze particolari sono autonome). lo studio della filoso­ fia prima (metafisica) non deve essere messo all’ini­ zio, ma al termine della ri­ cerca intellettuale.

Filosofia di Descartes. I principi delle scien­ ze particolari sono diret­ tamente subordinati a quelli della filosofia. Di conseguenza questa dirige le altre scienze, con una direzione 1che si potrebbe chiamare dispotica. Lo studio della filo­ sofia prima (metafisica) deve essere messo all’ini­ zio della ricerca intellet­ tuale.

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Filosofia dei negatori dellafilosofia I principi delle scien­ ze particolari non sono subordinati a quelli di nessuna scienza più eleva­ ta. Di conseguenza tali scienze non sono affatto dirette e si trovano in una condizione che si può chiamare di anarchia. Non vi è una scienza su­ prema o una filosofia pri­ ma (metafisica).


3) Infine, se una scienza sviluppa le sue dimostra­ zioni a partire da certi principi o da certi dati che essa non può né spiegare né difendere, bisognerà che il compito di difendere questi principi e questi dati spet­ ti ad una scienza superiore. Così, per esempio, la e difenderle. scienza dell’architetto difende quella del capomastro. Ora, è chiaro che ogni scienza, tranne la più alta, svi­ luppa le sue dimostrazioni a partire da certi principi o da certi dati che non può né spiegare né difendere. Le matematiche, per esempio, non si chiedono che cos’è la quantità o il numero o l’estensione; la fisica non si chiede che cos’è la materia. E se viene qualcuno che nega che il mondo sensibile esista o che due quantità uguali ad una terza siano uguali tra loro o che lo spa­ zio abbia tre dimensioni, non sono né la fisica né le matematiche che potranno rispondergli, poiché, al contrario, esse presuppongono questi principi o questi dati. Bisogna pertanto che spetti alla filosofia (alla fi­

losofia prima o metafisica) DIFENDERE contro ogni possibile avversario i principi di tutte le scienze umane.

È dal senso comune o dalle evidenze naturalm ente fornite dalΓ intelligenza e dall 5esperienza che le scienze derivano i loro princi­ pi. E questo è sufficiente senza dubbio perché esse si costituiscano su tali principi, ma non è sufficiente perché siano sicure e protette contro gli errori che potrebbero attaccarsi a questi principi. E que­ sto non è sufficiente nemmeno per la perfezione, per la stabilità e per le esigenze essenziali della conoscenza um ana. La conoscenza um ana rim arrebbe eccessivamente im perfetta e fragile e m anchereb­ be al suo scopo prim ario se tali principi non fossero spiegati, discus­ si e difesi scientificamente.

4) La filosofia pertanto (e in primo luogo la filo­ sofia prima o metafisica) a titolo di saggezza e di scienza suprema giudica, dirige e difende le altre scienze. Ma il capo è forse alle dipendenze di coloro a cui dà ordini? Certamente no, e bisogna dire che la fi­ losofia è indipendente dalle scienze inferiori, o per lo meno che dipende come il superiore il quale, quando non è abbastanza forte per bastare a se stesso, dipende

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da coloro che lo servono o dagli strumenti che usa. Perciò Aristotele la considerava come la scienza LIBERA per eccellenza.

a) La filosofia si appoggia sui fatti, sui dati dell’esperienz Per procurarsi il materiale di cui quindi essa ha bisogno, si serve, come di strumenti, delle verità offerte dall’evidenza sensibile e delle proporzioni stabilite dalle scienze. Essa dipende dalle une e dalle altre, come un superiore che non può bastare a se stesso dipende dai servi che ha a sua disposizione. Una dipendenza del genere è una dipendenza puramente mate­ riale, nel senso che il superiore dipende dall’inferiore solo per ser­ virsene, non per servirlo. Inoltre egli valuta secondo il suo proprio criterio ciò che gli porta il servo di cui ha bisogno. Così, per esem­ pio, uno dei più sagaci osservatori delle api, Francesco Huber, che era cieco, considerava alla luce della sua intelligenza quel che vede­ vano gli occhi del suo domestico. Ma per di più, questa dipendenza puramente materiale della fi­ losofia, se è assolutamente necessaria quanto all’evidenza sensibile, riguardo alle scienze non è che relativa e contingente. Dall’evidenza sensibile in effetti la filosofia deriva alcune proposizioni fondamen­ tali, di cui usa (valutandole secondo la sua luce) come di premesse nelle sue dimostrazioni e per stabilire le sue proprie verità. Accade così, ad esempio, che questa verità di fatto, costatata dai sensi e considerata alla luce della filosofia, nel mondo c’è movimento, ser­ ve ad Aristotele come premessa per stabilire che l’essere si divide in atto e in potenza e che vi è un primo motore atto puro (Dio). Di conseguenza è chiaro che la filosofia non può assolutamente fare a meno di queste proposizioni; e che le proposizioni scelte in tal modo come premesse debbono essere assolutamente vere, altrimenti le conclusioni che la filosofia ne trae non sono sicure. Se si tratta inve­ ce di proposizioni o di conclusioni fornite dalle scienze, tali proposi­ zioni (se sono vere) vengono indubbiamente ad arricchire il tesoro dei materiali che la filosofia mette in opera, ma di queste proposi­ zioni la filosofia (e innanzitutto la filosofia prima o metafisica) non è tenuta a fare uso e deve anzi non usarle per stabilire le sue proprie conclusioni, almeno quando si tratta delle sue conclusioni sicure (benché se ne possa servire per confermarle). Essa ha bisogno di avere a sua disposizione alcune proposizioni di qusto genere, e nel numero più grande possibile, poiché può sviluppare bene i suoi principi solo vedendoli, per così dire, incarnati negli esempi sensibi­ li. Ma essa non ha bisogno di questa proposizione scientifica in par­ ticolare piuttosto che di quella, dal momento che non derogando al­ la sua natura e non alienando la sua libertà di scienza superiore, es­ sa fa derivare le sue conclusioni dai suoi propri principi e dalle pro­ posizioni fondamentali fornite dall’evidenza sensibile e non dalle proposizioni offerte dalle scienze. Queste ultime proposizioni in realtà non debbono essere le premesse, ma i chiarimenti di cui la fi­ losofia usa per giungere alle sue personali certezze. Una filosofia so­ lidamente strutturata può pertanto fare a meno di quel sistema di proposizioni scientifiche di cui tuttavia effettivamente si serve, se-

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condo lo stato della scienza in una data epoca; e se quel sistema di proposizioni scientifiche fosse un giorno trovato falso, la verità di quella filosofia non ne sarà perciò intaccata; dovranno soltanto es­ sere modificati il suo linguaggio e le spiegazioni sensibili delle quali essa ricopriva le sue certezze. Queste osservazioni sono importanti; esse mostrano come il dato sperimentale, sul quale si fonda in primo luogo la filosofia, ri­ sponde bene alle sue esigenze di scienza suprema e universale: que­ sto dato le è offerto da uno strumento (l’evidenza sensibile) anterio­ re all’osservazione scientifica, infinitamente più sicuro delle indu­ zioni delle scienze e naturalmente alla portata di tutti gli uomini; e consiste in verità di fatto talmente semplici che hanno un valore as­ solutamente generale, talmente immediate e talmente evidenti che la loro certezza supera quella delle conclusioni scientifiche meglio de­ terminate" Queste osservazioni inoltre fanno comprendere perché gli erro­ ri d’ordine puramente scientifico che si possono trovare nelle anti­ che esposizioni della filosofia di Aristotele e di Tommaso, esposi­ zioni necessariamente concepite in funzione dello stato delle cono­ scenze scientifiche di quei tempi, non portino alcun danno alla veri­ tà di quella filosofia. Il fatto è che nessuna filosofia è fedele più di quella di Aristotele e di Tommaso alle regole del pensiero che garan­ tiscono la purezza e la libertà della filosofia. È vero peraltro che la filosofia, se è distinta dalle scienze parti­ colari, non è separata né isolata rispetto ad esse. La filosofia, al contrario, ha il dovere di esercitare il suo ufficio di scientia rectrix, proiettando costantemente la sua luce sulle scoperte, le teorie, l’atti­ vità incessante e il movimento delle scienze; e una delle condizioni primarie della sua vita e del suo progresso nel mondo è il suo contat­ to intimo con le discipline inferiori di cui interpreta e feconda i dati. Nella misura in cui la filosofia si impegna così a interpretare, con l’aiuto delle sue specifiche verità, i dati di fatto o le teorie che la scienza positiva considera come definite, gli errori o le insufficienze della scienza positiva possono accidentalmente introdurre in una dottrina filosofica vera delle parti caduche, segno e contropartita, per così dire, dello sviluppo umano della filosofia; ed esse non pos­ sono falsare una filosofia se non nella misura in cui questa manchi alla sua natura e si leghi da se stessa alle discipline inferiori".

") A questo dato fondamentale possono aggiungersi (ma a titolo secondario e per servire come verifiche e riprove talora preziose) i fatti più particolari scoperti, controllati, misura­ ti dall’osservazione e sperimentazione scientifica. E da notare che le verità assolutamente evidenti, nelle quali consiste il dato primitivo e fondamentale della filosofia, debbono es­ sere distinte con cura da certe interpretazioni dell’esperienza fornite dalla conoscenza po­ polare e che non sono altro che proposizioni pseudo-scientifiche. Se, per esempio, in filo­ sofia naturale si facesse appello, per provare la realtà dei cambiamenti sostanziali, a que­ sto argomento, che l’acqua è un corpo liquido, mentre l’idrogeno e l’ossigeno sono corpi gassosi, un simile ragionamento si fonderebbe non su una verità di evidenza sensibile, ma su un errore d’ordine scientifico (gli stessi corpi inorganici effettivamente possono trovarsi nei tre stati solido, liquido e gassoso). U n’informazione scientifica sufficiente aiuta evi­ dentemente il filosofo ad evitare simili equivoci. ") Il peccato degli scolastici decadenti del XVI e del XVII secolo è d’aver creduto e fatto

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b) Da quanto precede si comprende che, in ragione della natu ra e delle esigenze della filosofia, bisogna che il filosofo sia infor­ mato il più possibile dello stato delle scienze del suo tempo, alla condizione però che la verità filosofica rimanga in lui libera a loro riguardo. Se in realtà il filosofo come tale non deve usare delle pro­ posizioni fornite dalle scienze particolari, per stabilire le sue certez­ ze, deve però servirsi di queste stesse proposizioni: 1° per illustrare in modo conveniente i suoi principi; 2° per confermare le sue con­ clusioni; 3° per interpretare, spiegare e assimilare i risultati acquisiti dalle scienze, nella misura in cui questi interessano i problemi filo­ sofici. Deve infine servirsi delle proposizioni scientifiche; 4° per confutare le obiezioni e gli errori che pretendessero appoggiarsi sui risultati della scienza. Da un altro punto di vista, inoltre, lo studio delle scienze è ne­ cessario al filosofo: per il fatto che la formazione del filosofo stesso richiede, a causa delle condizioni della natura umana, che egli si ele­ vi progressivamente dall’imperfetto al perfetto e che passi attraver­ so la disciplina delle scienze prima di allenarsi alla pratica della sag­ gezza^. Tutti i grandi filosofi quindi sono stati versati nelle scienze del loro tempo; alcuni addirittura sono stati dei grandi scienziati (Ari­ stotele, per esempio, Alberto Magno, Leibniz) e certe scoperte scientifiche, fra quelle la cui importanza è capitale, hanno avuto dei filosofi come atutori, per esempio le scoperte matematiche di Pita­ gora, di D escartes, o di L eibniz. Osserviamo qui che c’è molto maggior utilità per la formazione filosofica nel possedere seriamente e praticamente una sola scienza, con la quale si prende personalmente un contatto diretto, che non nel conoscerne un gran numero in modo superficiale e attraverso opere di seconda mano. Senza aspettarsi (cosa che la specializzazio­ ne delle scienze nei tempi moderni rende davvero impossibile) di possedere tutte le scienze con la perfezione dello scienziato propria­ mente detto, il filosofo deve tendere tuttavia ad acquisire dall’insie­ me delle scienze particolari, una conoscenza sufficientemente ap­ profondita, ideale che in sé non è inaccessibile, come è dimostrato dall’esempio di alcune menti sublimi.

CONCLUSIONE IL — La filosofia è la più alta delle conoscenze umane, ed è veramente una sapienza. Le altre scienze

credere che la filosofia di Aristotele e di Tommaso sia perciò legata agli errori della scienza antica, da cui è in realtà pienamente indipendente. kk) Lo studio delle scienze è necessario al filosofo anche per metterlo nella condizione di distinguere facilmente le evidenze prime dell’esperienza da certe interpretazioni popolari e in realtà pseudo-scientifiche dell’esperienza, come, per esempio, l’ipotesi del movimento del sole attorno alia terra, ο Γ opinione irriflessa che questo corpo inorganico è essenzial­ mente liquido e quello essenzialmente solido o gassoso (ved. nota ii).

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(umane) le sono sottomesse, nel senso che essa le giudica, le dirige e difende i loro principi Essa poi è libera nei loro confronti e non ne dipende che come da Strumenti di cui si serve.

26 . LA FILOSOFIA E LA TEOLOGIA — La fi­ losofia è la più alta delle scienze umane, cioè delle scienze che conoscono le cose mediante la luce natura­ le della ragione. Ma vi è una scienza al di sopra della filosofia. Se effettivamente esiste una scienza che sia per Fuomo una partecipazione della scienza propria di Dio stesso, tale scienza sarà evidentemente più alta della più alta scienza umana. E questo è il caso della teologia.

L a p a ro la teologia significa scienza di Dio: la scienza di Dio* che possiamo naturalmente acquisire con le soie forze della ragione e che ci fa conoscere Dio per mezzo delle creature, come autore del­ l’ordine naturale, è una scienza filosofica (la parte più elevata della metafisica) che viene chiamata teodicea o teologia naturale. La scienza di Dio, che noi non possiamo naturalmente acquisire me­ diante le sole forze della ragione, ma che suppone che Dio si sia lui stesso raccontato agli uomini attraverso la rivelazione, in modo che la nostra ragione illuminata dalla fede trae poi da questa rivelazione le conclusioni che essa implica, è la teologia soprannaturale o sem­ plicemente la teologia. È di questa scienza che ora parliamo. Essa ha per oggetto qualcosa di assolutamente inaccessibile al­ lo sguardo naturale di qualsiasi creatura, cioè Dio conosciuto in se stesso, nella sua propria vita divina o, come si dice, sotto la ragione di deità, e non più Dio come causa delle creature e autore dell’ordi­ ne naturale; e tutto ciò che la teologia conosce, lo conosce in funzio­ ne di Dio così considerato, mentre tutto ciò che la metafisica cono­ sce, ivi compreso Dio stesso, essa lo conosce in funzione dell’essere in generale. Essa ha come principi le verità formalmente rivelate da Dio (dogmi o articoli di fede) e come principale criterium di verità l’au­ torità di Dio rivelante. Essa ha come luce non più la semplice luce naturale della ragio­ ne, ma la luce della ragione illuminata dalla fede, la rivelazione vir­ tuale dicono i teologi, cioè la rivelazione in quanto contiene virtual­ mente le conclusioni che la ragione può trarne. Per l’altezza del suo oggetto, come per la certezza dei suoi prin­ cipi, e per l’eccellenza della sua luce, la teologia è quindi al di sopra di tutte le scienze puramente umane. E benché essa non goda dell’e­ videnza dei suoi principi, che sono creduti dal teologo, mentre i

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principi della filosofia sono visti dal filosofo, è una scienza più ele­ vata della filosofia: l’argomento che deriva dall’autorità è in effetti, come dice Tommaso, il più debole di tutti, se si tratta dell’autorità degli uomini; ma l’argomento che deriva dall’autorità di Dio rive­ lante è più forte e più efficace di tutti gli altri7S. La teologia infine, per il fatto che considera in se stesso colui che è al di sopra di tutte le cause, merita a un titolo molto più eleva­ to che non la metafisica il nome di Sapienza. Essa è la sapienza per eccellenza76.

Quali sono ora le relazioni della filosofia con la teologia? 1) A titolo di scienza superiore, la teologia

GIUDICA la filosofia così come la filosofia giudica le scienze". Con questo, compie a suo riguardo una funzione di direzione, ma negativa, che consiste nel dichiarare fal­ sa ogni proposizione filosofica incompatibile con una verità teologica. La teologia controlla quindi e tiene sotto la sua dipendenza le conclusioni a cui sono giun­ ti i filosofi.

La filosofia è sotto­ messa alla teologia, nelle sue conclusioni, non nei suoi principi

2) Ma i principi della filosofia sono indipendenti dalla teologia, poiché i principi della filosofia sono le verità prime la cui evidenza s’impone da se stessa alPintelligenza, mentre i principi della teologia sono le verità rivelate da Dio. I principi della filosofia basta­ no a se stessi e non derivano dai principi della teolo­ gia. Parimenti la luce per mézzo della quale la filoso­ fia conosce il suo oggetto è indipendente dalla teolo­ gia, poiché quella luce è la luce della ragione, che ha valore in se stessa77. Per questo la filosofia non è posi­ tivamente diretta dalla teologia78 e nemmeno ha bi­ sogno della teologia per la difesa dei suoi principi (mentre essa stessa difende i principi delle altre scien­ ze). Essa si sviluppa nel suo campo in una maniera au­ tonoma, benché sia sottoposta al controllo esteriore e alla direzione negativa della teologia.

") Ved. sopra pp. 87-88. Il filosofo e lo scienziato non possono mai rifiutare i diritti che la

teologia ha sulla filosofia e sulle scienze. Essi possono però essere nel giusto se rifiutano, in questo o in quel caso particolare, non certo Pautorità della Chiesa, ma l’opinione di questo o di quel teologo, poiché il teologo non è necessariamente Porgano della teologia e può sbagliarsi.

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Si comprende dunque come la filosofia e la teologia siano per­ fettamente distinte e come sarebbe ridicolo per il filosofo invocare, p er provare una tesi di filosofia, l’autorità della rivelazione, così co­ me sarebbe ridicolo per un geometra voler dimostrare un teorema con l’aiuto di un mezzo fisico, pesando, per esempio, le figure che pone a confronto. Ma se la filosofia e la teologia sono perfettamen­ te distinte, esse non sono separate; e la filosofia, pur essendo certa­ mente, fra tutte le scienze umane, la scienza libera per eccellenza, nel senso che si sviluppa seguendo principi e leggi che non dipendo­ no da alcuna scienza superiore, è però limitata nella sua libertà {nel­ la sua libertà di sbagliarsi) nel senso che è sottoposta alla teologia, che la controlla dal di fuori. Nel XVII secolo, la riforma filosofica di Descartes ebbe come risultato di separare la filosofia dalla teologia79, rifiutando alla teo­ logia il suo diritto di controllo e la sua funzione di norma negativa riguardo alla filosofia: il che significava affermare che la teologia non è una scienza ma una semplice disciplina pratica e che la filoso­ fia o sapienza dell’uomo è la scienza assolutamente suprema e che non ne tollera alcuna al di sopra di sé. Il cartesianesimo pertanto, nonostante le convinzioni religiose di Descartes, introduceva il prin­ cipio della filosofia razionalista, che pretende di vietare a Dio di farci conoscere mediante la rivelazione verità che superano la porta­ ta naturale della nostra ragione; se in realtà Dio ci rivela simili veri­ tà, allora necessariamente la ragione umana, illuminata dalla fede, lavorerà su di esse come su principi di conoscenza e costituirà quin­ di una scienza che sarà la teologia. E se la teologia è una scienza, bi­ sognerà veramente che abbia la funzione di norma negativa riguar­ do alla filosofia, non potendo la medesima cosa essere vera in filo­ sofia e falsa in teologia80.

3) D ’altra parte, la filosofia rende alla teologia i più grandi servigi, in quanto è usata dalla teologia. La teologia usa in effetti, per le sue dimostrazioni, alcune verità stabilite dalla filosofia. In questo caso la filoso­ fia diventa lo strumento della teologia, ed è a questo titolo, e quando serve al ragionamento teologico, che viene chiamata ancilla theologiae. In se stessa però, e quando lavora per stabilire le sue conclusioni, essa non è ancella ma libera; sottomessa unicamente al controllo esteriore e alla regolamentazione negativa della teologia.

a) La filosofia, lo si è visto prima, si trova nella necessità natu­ rale di usare, come di uno strumento, dell’evidenza sensibile, ed anche, in un certo senso, delle conclusioni delle scienze particolari. La teologia considerata in se stessa, come scienza subalterna della

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scienza di Dio e dei beati, non è così tenuta a servirsi della filosofia, essa è assolutamente indipendente. In realtà però, a causa del soggetto in cui si trova, cioè a causa dell’infermità dello spirito umano, che non può ragionare sulle cose di Dio che per analogia con le creature, essa può svilupparsi solo servendosi della filosofia. E qui non si pone tra la filosofia e il teo­ logo lo stesso rapporto che si ha tra le scienze e il filosofo81. Si è vi­ sto precedentemente che il filosofo deve servirsi delle proposizioni o conclusioni che prende a prestito dalle scienze non per basare su di esse le sue conclusioni (laddove almeno si tratta di conclusioni me­ tafisicamente sicure), ma solo per spiegare i suoi principi, e che di conseguenza un sistema filosofico non ha bisogno, per essere vero, che sia necessariamente vero il materiale scientifico che usa. Il teo­ logo invece si serve ogni m om ento delle proposizioni filosofiche per stabilire le sue conclusioni. Non può quindi accadere che un sistema teologico sia vero se la metafisica cui attinge è falsa. Ne consegue che per il teologo sussiste la necessità assoluta di possedere una filo­ sofia vera, conforme al senso comune dell’umanità. b) La filosofia considerata in se stessa precede normalmente la teologia. Alcune verità d’ordine naturale sono in realtà come il preambolo della fede. Queste verità, che sono conosciute natural­ mente da tutti gli uomini mediante il senso comune, sono conosciu­ te e stabilite scientificamente dalla filosofia. La teologia, che è la scienza della fede, presuppone pertanto prima di sé la conoscenza filosofica delle medesime verità. c) La filosofia considerata come strumento della teologia coa­ diuva la teologia principalmente in tre modi. La teologia se ne serve in primo luogo per stabilire le verità che vertono sui fondamenti del­ la fede, in quella parte della teologia che si chiama Γapologetica82 e che dimostra, per esempio, che i miracoli provano molto bene la missione divina della Chiesa; poi per dare qualche intelligenza dei misteri della fede con Paiuto di analogie prese a prestito dalle crea­ ture (così la teologia userà, per esempio, della dottrina filosofica del verbo mentale — dottrina studiata in psicologia — per illustrare il dogma della trinità) infine per confutare gli avversari della fede (co­ sì la teologia spiegherà, per esempio, mediante la teoria filosofica della quantità, teoria esposta in cosmologia, come il mistero del­ l’eucaristia non ripugni in nulla alla ragione). d) Si osservi che se la filosofia serve alla teologia, riceve però essa stessa dalla teologia apprezzabili soccorsi. Innanzitutto, in quanto, considerata in se stessa, è sottomessa al controllo esteriore e alla regolamentazione negativa della teolo­ gia, essa è protetta dalla teologia contro un gran numero di errori: se la sua libertà di sbagliarsi è pertanto più limitata, la sua libertà di accedere al vero ne è tanto più rafforzata"”". In secondo luogo, in quanto, considerata come strumento della teologia, serve quest’ultima, essa è portata a precisare e ad affinare

mm) La ragione abbandonata alle sue sole forze può sì evitare l’errore su un qualunque punto particolare del campo filosofico, ma, poiché è un dato la debolezza della natura umana, essa non può, senza il soccorso della grazia, evitare ogni errore su tutti questipun-


alcuni concetti e alcune teorie importanti che, lasciate alle sue sole forze, avrebbe rischiato di trascurare. Così, per esempio, la filoso­ fia tomista deve alla teologia d’essere stata portata a mettere in luce la teoria della natura e della persona o a condurre al suo compimen­ to la teoria degli habitus, eccetera.

CONCLUSIONE III. — La teologia o scienza di Dio, secondo quanto Egli di sé ci ha fatto conoscere mediante la rivelazione, è al di sopra della filosofia. La filosofia le è sottomessa non nel suo sviluppo ma nelle sue conclusioni, sulle quali la teologia esercita un controllo, essendo pertanto regola negativa per la filosofia.

21. — LA FILOSOFIA E IL SENSO COMU­ NE — Prima di conoscere le cose con una conoscenza scientifica o perfetta, mediante la riflessione e me­ diante le cause, noi le conosciamo in una maniera im­ perfetta (conoscenza volgare).

Notiamo che noi non solo iniziamo con questa conoscenza vol­ gare, ma che anche continuiamo necessariamente ad attenerci ad es­ sa, perfezionandola più o meno coi nostri studi e le nostre letture, per Γ immensa moltitudine delle cose di cui non abbiamo la scienza propriamente detta. Ora se si tratta del campo delle cause seconde, è impossibile ad un uomo acquisire, con la compiutezza e precisione richieste al vero e proprio scienziato, la scienza di tutto ; in altri termini, gli è impos­ sibile specializzarsi in tutte le scienze, cosa che ripugna anche solo a dirla. Troppo fortunato se riesce a possedere veramente una sola scienza! Per tutto il resto dovrà quindi accontentarsi di una cono­ scenza che, per quanto ricca e seria possa essere in colui che viene detto un uomo colto, cioè istruito nelle scienze degli altri, resta tut­ tavia al di qua della scienza propriamente detta.

ti considerati insieme: in altri termini essa non può, senza una grazia speciale o senza la re­ golamentazione negativa della rivelazione e della teologia, costituire una sapienza umana perfetta (cfr. Tommaso, Summa Theologica, I, q.l, a.l; Sum. contra Geni., 1.1, cap. 4. Garrigou-Lagrange, De Revelatione, 1.1, p. 411 sgg.).

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Ma se si tratta del campo delle cause prime, e non più delle cau­ se seconde, allora è possibile che un uomo si innalzi alla scienza di tutte le cose: poiché è proprio la caratteristica della scienza che si chiama filosofia conoscere tutto mediante le cause prime""; ed è ri­ guardo al filosofo o al saggio che si può affermare con verità ciò che disse Leonardo da Vinci: «Facile cosa è farsi universale».

La conoscenza volgare è in massima parte for­ mata di semplici opinioni e di credenze più o meno ben fondate. Ma essa comporta un nòcciolo solido di certezze sicure, in cui il filosofo discerne in primo luo­ go alcuni dati dell’evidenza sensibile (per esempio: i corpi sono estesi in lunghezza, larghezza e profondi­ tà); in secondo luogo alcuni princìpi intelligibili evi­ denti per se stessi (come, per esempio: il tutto è più

grande della parte, tutto quel che succede ha una cau­ sa, eccetera); in terzo luogo alcune conseguenze im­ ii senso comune.

mediatamente desunte da quegli stessi princìpi (con­ clusioni prossime). Tali certezze, che sbocciano spontaneamente nel nostro spirito sin da quanto facciamo uso della ragione, sono pertanto l’opera della natura in noi; si possono perciò chiamare una dote di natu­ ra™ e di esse si può dire che derivano dalla valutazione naturale, o dal consenso, dall’istinto, dal senso natu­ rale dell’intelligenza. Derivando dalla natura stessa dell’uomo, debbono trovarsi in tutti gli uomini; in al­ tri termini, essere comuni a tutti gli uomini. Per que­ sto si può dire che tali certezze derivano dalla valuta­ zione comune, o dal consenso, dall’istinto, dal senso comune dell’umanità. Le grandi verità senza le quali la vita morale del­ l’uomo è impossibile (la conoscenza dell’esistenza di Dio, quella del libero arbitrio, per esempio, e molte altre) appartengono a questo ambito del senso comu­ ne, a titolo di conseguenze immediatamente desunte (conclusioni prossime) dai fatti primi còlti dall’osser­ vazione e dai principi primi afferrati dall’intelligenza.

"") Si comprende con ciò in quale paurosa delusione si risolva la concezione positivista del­ la filosofia: se la filosofia non fosse altro che la coordinazione o la sistematizzazione delle scienze, bisognerebbe, per arrivarci, possedere alla perfezione tutte le scienze, cioè specia­ lizzarsi in tutto; in altre parole sarebbe assolutamente impossibile pervenire alla filosofia.

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Gli uomini, a meno che non siano deformati da un’e­ ducazione cattiva o da un vizio qualunque attinente la ragione, hanno la certezza naturale di queste verità. Ma coloro la cui intelligenza non è stata sviluppata e istruita, non sanno, o sanno malamente, rendere ra­ gione di quelle certezze, cioè spiegare come mai le pos­ seggono. Tali certezze del senso comune, conclusioni di un ragionamento implicito, non sono meno ben fondate delle certezze della scienza. Ma colui che le possiede non sa nemmeno lui, o sa male, il fondamento che hanno in lui. Esse sono perciò imperfette non quanto al loro valore di verità, ma quanto al modo o allo sta­ to nel quale si trovano nella mente. Per quel che si riferisce poi alle verità evidenti per se stesse (il tutto è più grande della parte, tutto quel che succede ha una causa, eccetera), che sono l’ogget­ to di quello che vien detto Vintelligenza dei principi, e la cui certezza è superiore a quella di tutte le conclu­ sioni della scienza, il senso comune ne ha una cono­ scenza in un modo egualmente imperfetto, nel senso che rimane confusa ed implicita. Il senso comune è quindi come il giudizio natura­ le e primitivo, infallibile ma imperfetto nel suo modo, della ragione umana.

A causa del suo carattere del tutto spontaneo e della sua inca­ pacità di rendere ragione delle sue certezze, alcuni filosofi hanno voluto vedervi una facoltà speciale e puramente istintiva senza rap­ porto con Pintelligenza (scuola scozzese, fine del XVIII e inizio del XIX secolo, Reid, Dugald Stewart; Jouffroy in Francia), o un senti­ mento estraneo e superiore alla ragione (scuola intuitivista, o senti­ mentalista, Rousseau, Jacobi, M. Bergson ai nostri giorni, per esempio). Ma allora il senso comune così inteso sarebbe cieco, poi­ ché non vi è in noi altra luce che quella dell’intelligenza o della ra­ gione. La luce del senso comune è radicalmente la stessa luce di quella della scienza, è la luce naturale dell’intelligenza. Ma nel caso del senso comune tale luce non ritorna su se stessa mediante la ri­ flessione critica e non è perfezionata da quello che più avanti chia­ meremo un habitus scientifico.

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Quali sono le relazioni della filosofia con il senso comune?

La filosofia non si basa sull’autorità del senso comune inteso come consenso o co­ me istinto comune degli uomini.

Ma deriva dal senso comune considerato come l ’intelligenza naturale dei primi principi.

1) La filosofia non deve basarsi, come pretende­ va la scuola scozzese, sulP autorità del senso comune considerato puramente e semplicemente come consen­ so comune o testimonianza universale degli uomini o come istinto che in realtà s’impone. Essa riposa effet­ tivamente sull’evidenza, non sull’autorità. 2) Ma se si considera nel senso comune Vintelli­ genza immediata dei primi principi evidenti per se stessi, che è uno degli elementi del senso comune, allo­ ra si può dire che questo è la fonte da cui promana tut­ ta la filosofia. La filosofia in effetti ha come principi LE EVIDENZE PRIME, le quali danno NATURALMENTE al nostro spirito le sue certezze primordiali. Comprendiamo bene qui che se la filosofia trova i suoi principi già proclamati dal senso comune, tutta­ via è per l’assoluta ed unica autorità dell’evidenza che essa li ritiene principi, non perché sono proclamati dal senso comune e non per l’autorità del senso comune

inteso come consenso generale o come istinto comune dell’umanità,

Il senso comune è co­ me una filosofia im­ perfetta ed embrio­ nale.

3) Infine, se si considera tutto l’insieme delle ve­ rità (principi e conclusioni) conosciute dal senso co­ mune con certezza, ma in un modo imperfetto, biso­ gna dire che la filosofia è superiore al senso comune, come lo stato perfetto di una cosa (cioè lo stato scien­ tifico della conoscenza) è superiore allo stato imper­ fetto o rudimentale di quella cosa stessa (cioè allo sta­ to prescientifico di quella conoscenza, peraltro vera e sicura in ambedue i casi).

a) Se si considerano nel senso comune non le conclusioni al quali esso perviene, ma soltanto i principi, il senso comune rimane inferiore alla filosofia quanto al modo di conoscere, ma quanto alΓ oggetto e alla luce della conoscenza, è superiore alla filosofia e a tutte le scienze. Poiché la filosofia e tutte le scienze derivano, come prima s’è detto, dall’evidenza naturale dei primi principi (sui quali la filosofia ritorna — in Critica — per studiarli scientificamente, mentre le altre scienze si accontentano di riceverli dalla natura).

10 / .


La filosofia tratta scientificamente le tre categorie di verità senso comune: 1) le verità di fatto, che esprimono le evidenze sensibili e 2) i primi principi intelligibili evi­ denti per sé, nel senso che essa li spiega mediante la riflessione criti­ ca e li difende razionalmente; 3) le conseguenze immediatamente dedotte (conclusioni prossime) da questi principi, nel senso che essa li dimostra razionalmente. E inoltre, là dove il senso comune si ar­ resta per far posto alle semplici opinioni della conoscenza volgare, la filosofia continua indefinitamente ad estendere il campo delle certezze scientifiche. La filosofia pertanto giustifica e continua il senso comune, come l’arte del poeta, per esempio, giustifica e conti­ nua i ritmi naturali del linguaggio. Ad essa spetta anche giudicare quali sono le certezze che appar­ tengono veramente al senso comune e qual è la loro vera portata, compito che il senso comune non può assolvere, per il fatto stesso che ignora o non sa chiaramente il perché di quello che sa. In questo senso la filosofia controlla il senso comune, come l’arte del poeta, per esempio, controlla i ritmi naturali del linguaggio. b)

istintivamente attestate dal

Tuttavia il senso comune ha il diritto e il dovere di resistere ad ogni dottrina filosofica che negasse qualcuna delle verità di cui ha la certezza naturale, co­ me F inferiore ha il diritto e il dovere di resistere al su­ periore che agisce in una maniera evidentemente in­ sensata. Dal momento infatti in cui la verità ci è mani­ festata, in un modo o nell’altro, non aderirvi è com­ mettere peccato. Al senso comune può succedere per­ ciò di GIUDICARE ACCIDENTALMENTE la filosofia.

a) Si narra che Diogene, davanti al quale Zenone di Elea svol­ geva le sue argomentazioni contro la possibilità del movimento, si limitò per tutta risposta ad alzarsi e camminare. Allo stesso modo, a Descartes, che sosteneva che il movimento è relativo o reciproco, in modo che è indifferente dire che il mobile si muove verso la méta o la méta verso il mobile, il filosofo inglese Henry More rispose che quando un uomo corre verso una méta, sbuffando e faticando84, egli sa bene chi, il mobile ovvero la méta, sia realmente in movimen­ to. Queste proteste del senso comune, fondate sull’evidenza sensi­ bile, erano perfettamente giuste. Aggiungiamo tuttavia che erano insufficienti, non nel giudicare come errori la tesi di Zenone e quella di Descartes, ma nel giudicarle come errorifilosofici. Per far ciò bi­ sognava confutare filosoficamente gli argomenti di quei filosofi e dimostrare perché e in che cosa avevano torto.

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Ma può accidental­ mente giudicare la fi­ losofia.


b) Si deve osservare che, se in se stessa e per fondare le sue di­ mostrazioni, la filosofia non dipende dall* autorità del senso comu­ ne inteso come consenso generale o istinto comune degli uomini, nondimeno essa ne dipende in un certo modo {materialmente o in ragione del soggetto), nella sua genesi di cosa umana e per il fatto che si forma nella mente dei filosofi. Sotto questo rapporto si potrebbe paragonare la filosofia o la scienza a un edificio e le grandi conclusioni prescientifiche del senso comune (esistenza di Dio, libero arbitrio, eccetera) a delle impalca­ ture erette precedentemente dalla natura. Il monumento, una volta costruito, sta in piedi da sé sulla roccia, cioè sull’evidenza naturale dei primi principi, senza aver bisogno di impalcature. Ma senza le impalcature non si sarebbe potuto costruirlo. c) Si vede da ciò come sia scriteriata la filosofia che, sotto il pretesto di conoscere scientificamente le cose, disprezza a priori e sistematicamente il senso comune e rompe con le certezze naturali. Descartes (che sotto altri aspetti e nella sua concezione stessa della scienza concede troppo al senso comune) ha iniziato quest’opera di separazione, ammettendo per un verso come certezze valide solo le certezze scientifiche, e negando di conseguenza il valore intrinseco delle'certézzedél'senso comune; dall’altro verso professando nella sua filosofia parecchie tesi incompatibili con le sue stesse certezze. Il suo discepolo, Malebranche, e soprattutto i filosofi criticisti for­ mati da Kant, inoltre alcuni filosofi modernisti hanno portato tale tendenza al suo limite estremo: si giunge al punto che per alcuni di questi filosofi basta che una proposizione sia conforme al senso co­ mune, perché essa debba essere tenuta in sospetto o negata dalla scienza, che verrebbe macchiata dalia ingenuità del volgo se non af­ fermasse il contrario di quello che tutti ritengono come vero. Osserviamo tuttavia che più Fintelligenza di un uomo è natu­ ralmente forte, più le sue convinzioni naturali debbono essere forti anch’esse. Ne consegue che fare dichiarazione di dispregio verso il senso comune è segno non di forza ma di debolezza intellettuale. d) Si constata inoltre che per ciò che riguarda il senso comune, come per la maggior parte dei grandi problemi filosofici, la filosofia tomista tiene la posizione intermedia fra due errori estremi, come una cima tra due vallate.

Filosofia di A ristotele e di Tommaso. Le certezze del senso comune sono valide e la scienza tradisce se stessa se vi si oppone. Ma la filo­ sofia ha come fondamen­ to le evidenze naturali del­ l’intelligenza, e non l’au­ torità del senso comune.

Scuola scozzese. Non solo le certezze del senso comune sono va­ lide, ma l’autorità del sen-

Scuole razionalista, criticista, modernista. Non solo l’autorità del senso comune è inca-


so comune, che si impone come un istinto cieco, de­ ve servire alla filosofia co­ me fondamento.

pace a servire da fonda­ mento per la filosofia, ma anche le certezze del senso comune sono prive di ogni valore speculativo.

Si comprende anche, da tutto ciò che è stato detto ora, quale parte importante debbano assolvere le cer­ tezze del senso comune nell’iniziazione alla filosofia. Coloro che iniziano gli studi filosofici e che accostano i problemi più nuovi e i sistemi talora più sconcertan­ ti, debbono appoggiarsi con una fiducia assoluta sulle certezze del senso comune che trovano in sé già pre­ senti, e che li aiuteranno a passare ad una conoscenza superiore e più perfetta, alle certezze della scienza stessa. CONCLUSIONE IV. — La filosofia non è fondata sulVautorità del senso comune inteso come consenso generale o come istinto comune delTumanità; essa trae nondimeno dal senso comune, se lo si considera in sé, Vintelligenza dei primi principi immediatamente evidenti. Essa è superiore al senso comune come lo stato perfetto o scientifico di una conoscenza vera e superiore allo stato imperfetto o volgare di questa medesima conoscenza. Tuttavia, la filosofia può essere accidentalmente giudicata dal senso comune. 28. — Il metodo della filosofia sarà l’oggetto di una sezione speciale del corso. Qui diciamo soltanto che la filosofia non si costruisce a priori a partire da un fatto scelto dal filosofo (il cogito di Descartes) o da un principio qualsiasi creato arbitrariamente da lui (la sostanza di Spinosa, YIo puro di Fichte, Vassoluto di Schelling, Vìdea di Hegel) e del quale egli spiega con Metodo della filosofia

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penna d’artista le conseguenze. Essa ha come principi formali i primi principi còlti nella nozione dell’essere e la cui luce intelligibile è tutta la sua forza00; e d’altra parte essa ha come materia l’esperienza e i fattipp, i fatti più semplici e più evidenti, sui quali si basa per innalzarsi alle cause o alle ragioni che ne danno il perché supremo. Ed è della realtà intera, con la mol­ teplice varietà dei suoi dati, non è di un’idea della sua mente che il filosofo deve essere discepolo. Bisogna inoltre che egli sappia che se la filosofia permette all’intelligenza umana di cogliere con un’as­ soluta certezza le più alte e le più profonde realtà del­ l’ordine naturale, essa non può nondimeno pretendere di giungere al fondo di questa stessa realtà, di farle co­ noscere tanto quanto esse sono conoscibili. Da questo punto di vista, la scienza non sopprime il mistero che è insito nelle cose, cioè quel che esse contengono ancora di sconosciuto e d’inesplorato, ma piuttosto lo consta­ ta, lo precisa85; anche in ciò che conosce, essa non co­ nosce mai tutto. Il savio conosce tutto nel senso che lo conosce nelle sue cause supreme, ma egli non sa, è in­ finitamente lontano dal sapere il tutto di tutto. Igno­ ranza peraltro non significa errore: è sufficiente per la filosofia sapere con certezza ciò che le conviene sapere e ciò che ci interessa essenzialmente di sapere; che an­ zi, è preferibile non conoscere le cose che sviano lo spirito del sapere più elevato, secondo il detto di Taci­ to: Nescire quaédam, magna pars Sapientiae.

°°) È questo che i positivisti non vedono.

pp) È questo che non vedono gli intellettualisti puri (da Parmenide sino a Hegel), i quali costruiscono la loro metafisica interamente a priori.

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CAPITOLO SECONDO

DIVISONE DELLA FILOSOFIA





29. — Abbiamo visto che cos’è la filosofia; ci ri­ mane ora da dividerla nelle sue parti; ci procureremo con ciò una nozione distinta del suo campo d’indagine e nello stesso tempo prenderemo contatto con i princi­ pali fra i suoi problemi. Sarà come una ricognizione fatta da esploratori prima che il grosso delle truppe si impegni in una ragione.

Ili



1. LE GRANDI PARTI DELLA FILOSOFIA



30. — Se un uomo deve fare un lavoro, comin­ cia innanzitutto con il provare in vari modi lo stru­ mento che gli si mette fra le mani, per rendersi conto deir uso che può e deve farne. Ma qual è il lavoro del filosofo? È Γacquisizione del sapere. Quale il suo strumento? È la ragione. Bi­ sognerà dunque che il filosofo, prima di mettersi al la­ voro, cominci con Γesaminare la ragione per stabilire Logica. la maniera con cui usarla. Lo studio DELLA RAGIONE dal punto di vista del suo uso nella conoscenza o COME MEZZO PER GIUNGERE AL­ LA VERITÀ, è quello che chiamiamo LA LOGICA.

La logica è quindi, per parlare con esattezza, meno una parte della filosofia che una scienza o un’arte di cui ci si serve nella filoso­ fia (e in tutte le scienze) e che introduce alla filosofia. È una prope­ deutica alla scienza86. Le altre scienze ne dipendono nel senso che essa insegna il modo di procedere nel sapere; orbene bisogna posse­ dere i mezzi o gli strumenti del sapere, prima di acquisire il sapere stesso. Si comprende con ciò come Γinsegnamento della filosofia deb­ ba necessariamente, secondo la natura stessa delle cose, inziare dal­ la logica, benché comunemente, a causa della sua difficoltà e del suo carattere di astrazione estrema, questa eserciti poca attrattiva su certi principianti87. Alcuni moderni protestano contro questo ordi­ ne e vorrebbero che si studiasse la logica solo esercitandosi nelle al­ tre scienze filosofiche o dopo averle apprese; come se il chirurgo do­ vesse studiare l’anatomia solo esercitandosi o dopo essersi esercita­

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to nell’arte di tagliare sul malato. È cosa assurda, diceva Aristotele, cercare nello stesso tempo la scienza e le condizioni della scienza o il modo di procedere che essa deve usare, ατοπον αμα ζητεΐν επιστήμην καί τρόπον επιστήμης88.

Filosofia speculativa.

Filosofia pratica ο Morale.

Dopo ciò, tenendo bene in mano il suo strumen­ to, il filosofo può applicarsi al suo lavoro. E noi sap­ piamo in che cosa consiste questo lavoro: pervenire al­ la scienza delle cose mediante i loro principi supremi. Ma non vi sono per noi, quanto a ciò cui tendia­ mo, due ordini diversi di conoscenza? Noi possiamo, per esempio, servirci degli occhi con la sola intenzione di vedere e di godere perciò la contemplazione delle cose; e possiamo servircene anche per l’utilità della nostra vita. Allo stesso modo possiamo usare scientificamen­ te la nostra ragione per la sola gioia di conoscere; le scienze che acquisiremo allora avranno questa finali­ tà: IL CONOSCERE PURO (ordine delle scienze speculative). E se una scienza speculativa vuole rendere ragione delle cose mediante i principi supremi, avrà come scopo quel che costitui­ sce il principio supremo nell’ordine speculativo, cioè LE CAUSE PRIME di tutto ciò che è (cause prime naturalmente conosci­ bili): questa sarà LA FILOSOFIA SPECULATIVA. Oppure possiamo usare scientificamente la no­ stra ragione per il bene della nostra vita; le scienze che acquisiremo allora avranno questa finalità: IL PROCURARE CON QUALCHE AZIONE IL BENE DELL’UOMO (ordine delle scienze pratiche). E se una scienza prati­ ca vuole regolare l’agire dell’uomo mediante iprincipi supremi, avrà come scopo quel che costituisce il prin­ cipio supremo nell’ordine pratico, cioè IL BENE ASSOLUTO DELL’UOMO (bene assolutamente conoscibile)0: questa sarà LA FILOSOFIA PRATICA, detta anche morale o etica89.

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a) Vi sono molte scienze pratiche al di fuori della morale, la medicina, per esempio, che tende a procurare la salute dell’uomo. Ma tali scienze non mirano al bene puro e semplice (bene sovrano), esse mirano ad un bene particolare dell’uomo; non si muovono, pertanto, nell’ordine pratico al quale appartengono, mediante il principio supremo; per questo non spno filosofie. L’etica o morale è perciò la sola scienza pratica che merita il nome di filosofia90. b) Si osservi che se l’etica mira a procurare un bene diverso che non è il solo bene di conoscere, nondimeno rimane una scienza vera e propria, cioè consiste nel conoscere, ha come regola di verità ciò che è e procede in maniera dimostrativa, risolvendo alcune conclu­ sioni nei loro principi. In altri termini, essa è pratica per il suo scopo (conoscere per procurare il bene dell*uomo regolando le sue azioni), ma nella misura in cui è scienza vera e propria, rimane speculativa

(conoscere)91. c) Si osservi anche che le scienze pratiche sono evidentemente subordinate alle scienze speculative, 1° nel senso che presuppongo­ no prima di sé (se non quanto alla loro genesi nel tempo, almeno quanto alla natura delle cose) le verità stabilite da quelle scienze, ve­ rità che esse applicano al bene dell’uomo; perciò la medicina come scienza di guarire presuppone prima di sé l’anatomia; 2° nel senso che esse sono, come scienze, inferiori in dignità alle scienze specula­ tive, le quali sono ricercate per il bene o l’utilità dell’uomo, non so­ no buone che in riferimento a questo bene o a questa utilità. Si comprende con ciò come la filosofia in senso stretto sia la filosofia speculativa (e innanzitutto la filosofia prima o metafisica): e la logi­ ca è la scienza che introduce a questa filosofia, mentre la morale è la scienza che se ne stacca per trattare particolarmente ciò che interes­ sa il bene dell’uomo.

31. — Possiamo ora definire in una maniera più precisa l’oggetto di queste tre grandi parti della filoso­ fia? 1) Su che cosa una scienza che mira a procurare il bene sovrano dell’uomo deve fondarsi innanzitutto? Indubbiamente sulle cose da cui dipende essenzial- La filosofia morale mente il conseguimento di quel bene. Ma queste cose ha Per °ggetto le non sono forse le azioni che 1 uomo compie in quanto usa liberamente delle sue facoltà, o in altre parole le azioni umane come tali? Diciamo quindi che la filoso­ fia morale ha per oggetto formale le azioni umane.

“) Cioè il bene sovrano dell’uomo così come sarebbe se l’uomo non avesse come fine che una beatitudine naturale. Ved. più avanti pp. 198-199.

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La filosofia specula­ tiva ha per oggetto l’essere delle cose.

2) E su che cosa una scienza che mira a conosc le cose mediante le loro cause prime deve fondarsi in­ nanzitutto? Indubbiamente su ciò che nelle cose di­ pende direttamente da quelle cause. Ma ciò che nelle cose dipende direttamente dalle cause prime o dalle cause più elevate, non è forse quel che le cose stesse hanno di più essenziale (cioè il loro essere) e ciò che è più effuso in tutte le cose, cioè Γessere, che non man­ ca ad alcuna? Diciamo quindi che la filosofia specula­ tiva ha per oggetto formale l ’essere delle cose.

La filosofia speculativa considera peraltro l’essere delle cose in diversi modi e da punti di vista (gradi di astrazione) più o meno ele­ vati; essa considera sia l’essere delle cose con le loro proprietà sensi­ bili {ens mobile)) sia l’essere delle cose con le sole proprietà della quantità {ens quantum)) sia l’essere delle cose con le sole proprietà dell’essere (essere come essere, ens in quantum ens). Da ciò le tre grandi divisioni della filosofia speculativa stessa (ved. più avanti i nn. 3 9 ,4 0 e 44).

3) Su che cosa infine una scienza che studia la gione come strumento per giungere al vero deve fon­ darsi innanzitutto? Indubbiamente su ciò che è ma­ neggiato o manipolato da noi quando ragioniamo. Ora ciò che è maneggiato o manipolato da noi quando ragioniamo, non sono le cose stesse? Poiché quando diciamo, per esempio, l’uomo è superire agli altri ani­ mali per il fatto che possiede l’intelligenza, è proprio questo: l’uomo, che noi abbiamo in mente e a cui uniamo o attribuiamo queste altre cose: Pintelligenza e la superiorità. Ma l’uomo, che così manipoliamo nella nostra mentre, evidentemente non è l’uomo così come esiste o può esistere nella realtà delle cose: non si tratta di prendere un signore per la strada per attac­ cargli addosso un attributo. Affinché la nostra mente possa lavorare su di esse, le cose vi possiedono una maniera d’essere che non hanno e che non possono avere nella realtà; esse vi esistono in quanto sono co­ nosciute: riferite le une alle altre, distinte, riunite, le­ gate insieme secondo le necessità della conoscenza, es­ se conducono nella nostra mente una vita a parte, che

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ha le sue leggi proprie. Su questa vita e su queste leggi, sull’ordine che deve regnare nelle cose in quanto sono conosciute, per condurre e dirigere la mente verso il vero, su tutto ciò precisamente verte la considerazione della logica; e poiché si tratta qui di qualche cosa che non esiste e non può esistere se non nella mente, o di quel che i filosofi chiamano un essere di ragione, dire­ mo che la logica ha per oggetto formale l'essere di ra­ gione (ordine da far regnare fra gli oggetti di concetto)

che dirige la mente verso il vero.

In contrapposizione all 'essere di ragione, che può esistere solo nello spirito (il genere animale o la specie uomo, per esempio, il ge­

nere animale comprende l’uomo e il bruto, uomo è la specie di Pie­ tro) si chiama essere reale ciò che esiste o può esistere nella realtà (Γanimale, per esempio, l’uomo, la natura umana, ogni animale è mortale, la natura umana èfallibile).

CONCLUSIONE Y. — La filosofia si divide in tre grandi parti: 1) la logica, che introduce alla filosofia propriamente detta e il cui oggetto è l’essere di ragione che dirige la nostra mente verso il vero; 2) la filosofia speculativa o

semplicemente la filosofia, che ha per oggetto l’essere delle cose (essere reale); 3) la filosofia pratica o morale, che ha per oggetto le azioni umane.

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La logica ha per og­ getto l’essere di ra­ gione che dirige la mente verso il vero.



2.

PRINCIPALI PROBLEMI



32. — Chiediamoci ora, ponendoci semplicemente dinanzi alle cose, quali sono i principali proble­ mi che debbono sollecitare la mente nelle diverse parti della filosofia. Nel formularli però incominceremo già a fare opera da filosofi e troveremo lungo il cammino P occasione per stabilire qualche nozione utile. Forse scopriremo anche la concatenazione logica delle gran­ di questioni filosofiche e comprenderemo con ciò la necessità profonda dell5ordine stabilito fra loro da Aristotele, ordine troppo spesso misconosciuto nelle opere di esposizione.

Procedendo in questo modo daremo all’introduzione generale alla filosofia più estensione e più importanza di quanto non si faccia comunemente. Ma è opportuno osservare che gli errori di principio, le difficoltà e le confusioni pregiudiziali che ai nostri giorni preoc­ cupano le menti sulla soglia stessa di qualunque disciplina, esigono che Vintroduzione alle diverse scienze, e in modo del tutto particola­ re l’introduzione alla filosofia, riceva uno sviluppo speciale. Le in­ troduzioni e i prolegomeni, di cui l’epoca moderna ha tanto usato e abusato, sono tanto più necessari quanto più i principi fondamenta­ li e i primi elementi delle scienze sono oggetto di dubbi e di dispregi. Inoltre, nella filosofia più che in ogni altra scienza è importan­ te che l’introduzione sia una veduta d ’insieme, poiché questa scien­ za è una sapienza e la sapienza è essa stessa una veduta d’insieme; non se ne può pertanto dare un’idea senza menzionare le diverse parti che essa avvolge nella sua unità. Dal punto di vista pedagogico, è da notare poi che, facendo ve­ dere in due riprese, prima nell’introduzione, successivamente nel corso propriamente detto, lo stesso insieme dapprima percepito su­ perficialmente e successivamente approfondito, si segue il movi­ mento stesso secondo il quale l’intelligenza lavora e si sviluppa na­ turalmente.

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SEZIONE I LOGICA

33. — La logica studia la ragione come strumen­ to della conoscenza. Per studiare uno strumento complesso qualsiasi, una macchina agricola, per esempio, non cominceremo forse col farla funzionare a vuoto, cercando come servircene IN MODO CORRETTO e senza rovinarla? Parimenti, bisognerà in primo luo­ go determinare come servirci della ragione in modo corretto, cioè conformemente alla natura del ragiona­ mento, e senza rovinarlo. Donde questo primo pro­ Il problema centrale della logica minore o blema? Quali sono le regole che occorre seguire per logica formale.

ragionare correttamente?

34. — Dopo ciò, non studieremo forse la mac­ china in questione, non più a vuoto, ma nella sua ap­ plicazione alla materia stessa su cui deve lavorare, cer­ cando come servircene in un modo non solo corretto, ma anche UTILE ED EFFICACE? Parimenti, bisognerà esaminare il ragionamento nella sua applicazione alle cose, domandandoci: A quali

condizioni il ragionamento è non solo corretto, ma anche vero e dimostrativo, e procura la scienza? È in questa parte della logica che dovremo studia re i metodi delle diverse scienze. Ma prima, un proble­ ma molto più grave si porrà dinanzi a noi.

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Il problema centrale della logica maggiore o logica materiale.


35. — Per mezzo di che cosa le cose sono res presenti al nostro spirito, in modo che possiamo ra­ gionare su di esse e acquisirne la scienza? Per mezzo delle nostre idee. Ognuno sa per esperienza che cos’è un’idea, gli basta riflettere a ciò che ha in sé quando fa una rifles­ sione, per esempio: i filosofi hanno commesso molti errori: i filosofi, errori, hanno commesso, molti, tutto ciò è presentato alla sua mente da altrettante idee. Al­ lo scopo di evitare ogni equivoco, cerchiamo tuttavia di descrivere ciò che ognuno intende con questa paro­ la. Diremo, per esempio: le idee sono le immagini o le riproduzioni interne delle cose mediante le quali que­ ste ci vengono presentate, sicché noi si possa ragiona­ re su di esse (e pertanto acquisirne la scienza). E che cosa fanno ora i vocaboli che usiamo, se non esprimere le nostre idee? Sì, senza dubbio. Ma portano anche con sé qualcos’altro. Se, per esempio, dico la parola angelo, non ho forse in me due immagi­ ni dell’essere in questione? Una idea, in primo luogo, che mi fa propriamente conoscere questo essere (idea di spirito puro), ma anche una rappresentazione sensi­ bile (l’immagine di una creatura più o meno vaporosa e alata), che, essa, non corrisponde affatto all’essere in questione, poiché un essere puramente spirituale non può essere visto. Ancora: se dico, per esempio, la parola quadra­ to, ho in me Videa del quadrato, grazie alla quale pos­ so ragionare sulla cosa di cui si tratta (idea di poligono rettangolare con quattro lati uguali) e ho contempora­ neamente la rappresentazione sensibile (che questa volta, peraltro, corrisponde bene alla cosa in questio­ ne) di quel disegno che m’immagino tracciato col ges­ so sulla lavagna. Orbene, questa idea e questa rappre­ sentazione sono assai diverse e ne è prova il fatto che posso far variare la seconda in molti modi (il disegno che m’immagino può essere più grande o più piccolo, bianco, rosso, giallo, eccetera) senza che con ciò la prima cambi. Inoltre se io dicessi miriagono, per esempio, anziché quadrato, avrei di questa figura un’idea netta e chiara come l’ho del quadrato (idea di poligono con diecimila lati), mentre la rappresentazio­ ne sensibile che me ne farei non potrebbe essere altro che estremamente vaga e confusa.


È chiaro che se le rappresentazioni sensibili mi

aiutano a ragionare, non è con esse che io ragiono per acquisire la scienza delle cose: poiché posso ragionare sull’angelo o sul miriagono esattamente come sul quadrato. E il mio ragionamento non dipende in nulla dalle mille variazioni che posso far subire alle mie rappresentazioni sensibili delPangelo, del miriagono o del quadrato. Concludiamo perciò che le cose ci sono presenta­ te in due modi assai diversi: o MEDIANTE U N ’IDEA, oppure MEDIANTE UNA RAPPRESENTA­ ZIONE SENSIBILE. Con la prima pensiamo (intelligimus) la cosa, con la seconda la immaginiamo. La rappresentazione sensi­ bile non è che una specie di fantasma, una immagine di ciò che abbiamo visto, udito, toccato, eccetera, in breve, di ciò che ci è stato precedentemente mostrato mediante una sensazione', lo si chiamava un tempo vi­ sione o raffigurazione interiore, oggi vien detto sem­ plicemente immagine. Noi gli daremo d’ora innanzi il nome immagine, di cui restringeremo pertanto il signi­ ficato (ma allora non dovremo più usare questa stessa parola riguardo all’idea). Diciamo dunque che CONCLUSIONE VI. — Le idee sono le similitudini interne delle cose, per mezzo delle quali queste ci vengono presentate in modo che possiamo ragionare su di esse (e quindi acquisirne la scienza); le immagini sono le similitudini interne delle cose, per mezzo delle quali queste ci vengono presentate come ce le hanno dapprima mostrate le nostre sensazioni. Le parole esprimono direttamente le idee, evocando al tempo stesso delle immagini.

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Idea e immagine.


36. — Se dopo ciò si paragonano le cose così c me sono presentate dalle idee e le cose così come sono presentate dalle sensazioni o dalle immagini, è facile vedere che esse si distinguono le une dalle altre per un certo aspetto di capitale importanza. Se evoco in me Γimmagine di un uomo, per esempio, vedo apparire nella mia immaginazione, sotto contorni più o meno semplificati, questo o queir uomo in particolare. È biondo o bruno, grande o piccolo, bianco o negro, ec­ cetera. Ma se formo l’idea di uomo, come quando di­ co, per esempio «l’uomo è superiore agli animali sen­ za ragione», oppure «i bianchi e i negri sono ugual­ mente uomini», questa idea non mi presenta alcun uo­ mo in particolare, essa lascia in disparte tutte le carat­ teristiche individuali che distinguono questo uomo da quello. Essa ne fa astrazione, come dicono i filosofi. La prova ne è che tale idea si applica, rimanendo asso­ lutamente la stessa e senza che io abbia da modificarla iri nulla, agli individui più svariati: Sancho Panza è uomo, come Don Chisciotte è uomo. Inoltre, se pas­ siamo in rassegna le diverse scienze, cioè i diversi siste­ mi di idee per mezzo delle quali conosciamo il reale, costatiamo che nessuna di esse verte sull’individuo co­ me tale; la chimica, per esempio, studia il cloro o l’a­ zoto solo in ciò che vi è di comune a tutte le molecole individuali di cloro o di azoto. E bisogna davvero che sia così, poiché l’individuo come tale non è esplicativo (non rappresentando infatti altro che se stesso, non può evidentemente rendere ragione d’altro)92. Ci ba­ sta infine prendere un’idea qualsiasi e fissare la nostra attenzione su ciò che essa ci presenta, paragonandola alle immagini che vanno e vengono attorno ad essa, per percepire immediatamente il carattere astratto del­ l’idea: passando dall’immagine all’idea, tutto ciò che è individuale si volatilizza per così dire, scivola tra le dita, scompare. Poniamo l’idea di arma, di cui mi ser­ vo per dire, per esempio, «l’uomo è l’unico animale che abbia bisogno di fabbricarsi delle armi»; pronun­ ciando la parola armi, ho sentito senza dubbio attor­ no all’idea così espressa come un alone d’immagini fluttuanti, di cui posso a piacere precisare questa o quella: è un giavellotto, molto sfocato del resto, è una scure di selce, è un grande arco, è un fucile... Ma di tutto quello che caratterizza dinanzi alla mia immagi-

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nazione questo giavellotto così come qui mi appare, questa scure, questo arco, questo fucile, sussiste qual­ cosa in ciò che mi presenta la mia idea di arma? No, di tutto ciò non rimane niente, tutto ciò svanisce; quel che afferro con Pidea è tuttavia qualche cosa, ma è di un altro ordine (immateriale); è puramente una certa determinazione dell9essere, una certa natura: stru­ mento fa tto per attaccare o per difendersi, e questo è privo di qualsiasi carattere individuale. Così dunque le cose così come ci sono presentate DALLE NOSTRE SENSAZIONI E DALLE NOSTRE IMMAGINI sono sotto uno stato individuale, o (come si dice) PARTICOLARE. Al contrario le cose così come ci sono presentate DALLE NOSTRE IDEE, dalle similitudini interne che ci servono per ragionare su di esse, sono sotto uno stato non individuale o astratto, o anche (come si dice) UNIVERSALE. (Si dice universale ciò che si ritrova identico in una moltitudine di individui, uno in molti, unum in mul­ tis.) E considereremo come un fatto statuito che . CONCLUSIONE VII. — Le nostre sensazioni e le nostre immagini ci presentano direttamente e per sé Findividuale, le nostre idee ci presentano direttamente e per se stesse Γ universale. 37. — Ma allora appare subito un problema: poiché ciò che esiste nella realtà delle cose è individua­ II problema della na­ le o particolare, come può essere vera la conoscenza tura dell’universale.

che noi acquistiamo per mezzo delle nostre idee, dal momento che le nostre idee ci presentano direttamente solo l'universale? Questo problema, che ci obbligherà a ricercare con cura in che cosa consiste esattamente P universali­ tà di quel che le nostre idee ci presentano, non lo è senza dubbio in se stesso, ma è per noi uomini il primo e il più grave dei problemi filosofici93. Esso effettiva-

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mente verte sull’intelligenza stessa e sulle idee, cioè sullo strumento di tutta la nostra scienza; e Patteggia­ mento assunto a suo riguardo dai diversi filosofi con­ diziona tutte le altre posizioni.

Da questo punto di vista (e lasciando da parte molte differenze secondarie), si possono raggruppare i filosofi in tre grandi scuole: 1) La scuola nominalista, per la quale l’universale non è altro che nei nomi, o nelle idee, senza che nulla vi corrisponda nella realtà delle cose (per esempio, non c’è nella realtà la natura umana che si ritrova in Pietro come in Paolo e in Giovanni); la qual cosa distrug­ ge puramente e semplicemente la conoscenza intellettuale e fa della scienza una fantasia. Questa scuola ha come rappresentanti più ca­ ratteristici, nell’antichità i sofisti e gli scettici, nei tempi moderni i maestri della filosofia inglese: Guglielmo d’Occam nel XIV secolo, Hobbes e Locke nel XVII, Berkeley e Hume nel XVIII, Stuart Mill e Spencer nel XIX. Si può osservare che la maggior parte dei filoso­ fi moderni (di coloro cioè che ignorano e avversano la tradizione scolastica) sono più o meno profondamente e più o meo cosciente­ mente tentati di nominalismo. 2) La scuola realista {realismo assoluto), per la quale l’univer­ sale come tale, l’universale allo stato separato, così cornee nel pen­ siero, costituisce la realtà delle cose: la qual cosa fa della conoscen­ za sensibile un’illusione. Ciò che è reale, è, per esempio una natura umana che esiste in se stessa fuori della mente e allo stato separato, un uomo in sé (sistema di Platone); o anche un essere comune che esiste così com’è fuori della mente, come una sola e unica sostanza (dottrina di Parmenide; filosofia brahmanista). Alcuni filosofi mo­ derni (Spinoza, Hegel) si rifanno più o meno al realismo6. 3) La scuola comunemente designata come quella che professa il realismo moderato (benché si tratti qui di una dottrina veramente originale, che osserva il giusto mezzo fra il realismo e il nominali­ smo, grazie ad una concezione più elevata delle cose, non per un’at­ tenuazione o per una moderazione del realismo assoluto). Questa scuola, distinguendo la cosa in se stessa e il suo modo d’esistenza ovvero lo stato sotto il quale essa si trova, insegna che la cosa esiste nella mente sotto un modo universale, e nella realtà sotto un modo individuale. Di conseguenza, quello che afferriamo mediante le nostre idee sotto uno stato di universalità esiste sì realmente, ma nelle cose stesse e perciò sotto uno stato d’individualità, non sotto uno stato di universalità. Così, per esempio, c’è nella realtà una na­ tura umana, che si ritrova in Pietro, come in Paolo, in Giovanni,

b) Si osservi che realismo, nel significato particolare in cui è considerato qui, non si oppo­ ne affatto a idealismo', al contrario, poiché il realismo in questione considera come la real­ tà delle cose ciò che è proprio alle nostre idee come tali. Platone è perciò il rappresentante più tipico e dell’idealismo e del realismo assoluto.

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eccetera, ma non esiste fuori della mente se non in questi soggetti in­ dividuali e identificata a ciascuno di essi, non in se stessa o allo stato separato. Il realismo moderato è la dottrina di Aristotele e di Tom­ maso.

Filosofia di Aristotele e di Tommaso. (Realismo moderato)

Ciò che le nostre idee ci presentano sotto uno stato universale non esiste fuori della mente sotto questo stato di universali­ tà.

Esiste

fuori della mente sotto uno stato di indivi­ dualità.

Nominalismo

Realismo

Quel che le nostre idee ci presentano sotto uno stato universale non esiste assolutamente nella realtà.

Quel che le nostre idee ci presentano sotto uno stato universale esiste nella realtà sotto questo stato universale.

Non si può insistere troppo sull’importanza del problema del­ l’universale. Per aver tralasciato di studiarlo, tanti filosofi e studio­ si d’oggi, rimanendo attaccati a quell’idea ingenua che la scienza deve essere una pura e semplice copia, un ricalco della realtà indivi­ duale, ripetono contro l’astrazione, condizione primaria ed essen­ ziale di qualunque scienza umana, dei luoghi comuni da ignoranti e inventano, a proposito dei principi delle scienze, soprattutto delle scienze matematiche, teorie tanto vane quante laboriose, che com­ portano come unico risultato la distruzione radicale della conoscen­ za.

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SEZIONE II FILOSOFIA SPECULATIVA

38. — la filosofia speculativa ha come oggetto suo proprio l’essere delle cose. Ma quali sono le cose che si presentano sin dalPinizio alla nostra osservazione? Le cose corporali. La parola corpo tuttavia non può forse essere considerata in due sensi diversi, secondo che si tratti del corpo matematico o del corpo naturale (ovvero f i­ sico)! Il corpo matematico è semplicemente ciò che è esteso in larghezza, lunghezza e profondità; il corpo naturale o fisico è ciò che cade sotto i nostri sensi con queste e quelle proprietà attive e passive.

A — FILOSOFIA DEL NUMERO ovvero FILOSOFIA DELLE MATEMATICHE 39. — Se la filosofia (filosofia delle matemati­ che) studia l’essere delle cose corporali nel primo si­ Il problema centrale filosofia delle gnificato della parola corpo, si vede subito qual è il della matematiche. primo problema al quale dovrà applicarsi: in che cosa consiste l'oggetto primario delle matematiche o, in altri termini, qual è la natura della quantità, dell'e­ stensione e del numero?94 Gli immensi sviluppi e progressi delle matemati­ che moderne rendono più necessario che mai questo studio filosofico dei primi principi delle scienze mate­ matiche, il solo capace di fissare la ragione sulla vera

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natura deir astrazione matematica e degli oggetti di pensiero che essa considera, sulle proprietà e le rela­ zioni reciproche del continuo e del discontinuo, sul significato vero dei numeri irrazionali e dei numeri transfiniti, dell’infinitamente piccolo, degli spazi non euclidei, eccetera, infine sul valore delle traduzioni matematiche della realtà fisica, e delle teorie come quella della relatività, per esempio. B — FILOSOFIA DELL’ESSERE MOBILE O SEN­ SIBILE ovvero FILOSOFIA DELLA NATURA95

I principali problemi della f i l o s o f ì a n a tu r a ­ le .

40. — Se la filosofia (filosofia della natura se sibile) studia l’essere delle cose corporali nel secondo significato della parola corpo, numerosi problemi le si affolleranno dinanzi. Ma proviamo sin da questo mo­ mento a sviscerare i principali. 1) Non è forse il cambiamento quel che esiste di più universale e di più manifesto nel mondo dei corpi, ciò per cui si compie tutto quello che avviene nella na­ tura? I filosofi, che nel loro linguaggio chiamano mo­ vimento ogni specie di cambiamento, dovranno per­ tanto chiedersi: In che cosa consiste il movimento? 2) È chiaro, dopo ciò, che, se vi è movimento, è perché qualcosa si muove: cioè i corpi. Inoltre, certi cambiamenti sembrano riguardare la sostanza stessa dei corpi; così, quando si fa in chimica la sintesi del­ l’acqua, l’idrogeno e l’ossigeno combinandosi insieme danno luogo non a un nuovo corpo. Come è possibile questo? Bisogna necessariamente cercare: In che cosa

consiste la sostanza corporale stessa?

I meccanicisti (siano essi, per quanto concerne Γanima umana, materialisti, Democrito, Epicuro, Lucrezio neirantichità, Hobbes nel XVII secolo, eccetera, o spiritualisti, come Descartes) riducono la sostanza corporale alla materia, che essi confondono con la quantità o con Vestensione geometrica. Di conseguenza, non c’è

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differenza essenziale o specifica tra i corpi, che sono tutti modifica­ zioni di una sola e medesima sostanza; inoltre il mondo fisico viene privato di ogni qualità e di ogni forza, essendo in esso reali solo l’estensione e il movimento locale; infine, l’unione della materia e del­ lo spirito in un essere come l’uomo diventa interamente non intelli­ gibile. U n’altra scuola (il dinamismo) tende invece a sopprimere la materia che costituisce i corpi. Essa ha il suo punto culminante nel sistema di Leibniz {monadismo), che riduce la sostanza corporale a delle unità di ordine spirituale {monadi) analoghe ad anime, ne deri­ va perciò che l’estensione, e più generalmente tutta la realtà sensibi­ le, non sono altro che una certa apparenza o un certo simbolo, e il mondo corporale stesso si dilegua nel mondo degli spiriti. Il dina­ mismo di Boscovich (XVIII secolo), che riduce la sostanza corpora­ le a punti di forza, e Venergetismo moderno, che pretende di ricon­ durre tutto nel mondo fisico all’unico fattore energia (senza giunge­ re peraltro a dare di tale energia una definizione filosofica), posso­ no essere considerati come degradazioni e materializzazioni della concezione di Leibniz. La filosofia di Aristotele riconosce nella sostanza corporale due principi sostanziali: 1) la materia (materia prima), che qui non corrisponde più affatto, come per i meccanicisti, alla nozione im­ maginabile dell’estensione, bensì all’idea stessa di materia (ciò per mezzo del quale qualcosa d’altro viene fatto) portata allo stato pu­ ro: è quel che Platone chiamava una specie di non-essere, un puro per mezzo del quale le cose sono fatte, e che per se stesso non è nulla di preciso, un principio assolutamente indeterminato, incapace di esistere per se stesso, ma capace di esistere per altra cosa (per la.for­ ma); 2) un principio attivo, che è come l’idea vivente della cosa, o come la sua anima, e che, determinando questa materia prima pura­ mente passiva, un po’ come la forma creata dallo scultore determi­ na la creta, costituisce con essa una sola ed unica cosa fatta ed esi­ stente, una sola ed unica sostanza corporale, a cui permette sia di essere questo o quello (d’avere cioè una determinata natura specifi­ ca), sia di esistere, un po’ come la forma creata dallo scultore per­ mette alla statua di essere quello che è. A causa di questa analogia con la forma esteriore di una statua {forma accidentale) Aristotele ha chiamato forma (forma sostanziale), in un senso del tutto specia­ le e tecnico, il principio interiore di cui si tratta e che determina la sostanza corporale nel suo essere stesso. La dottrina di Aristotele, che fa del corpo una composto di materia (υλη) e di forma (μορφή) è stata denominata il morfismo. Questa dottrina salva contemporaneamente e la realtà propria della materia, del mondo corporale, dell’estensione41, e la realtà propria delle qualità fisiche4*, così come l’esistenza di una distinzione di na­ tura e d’essenza fra i corpi che guardiamo come di specie differenti; essa mostra persino nei corpi inerti e negli esseri viventi privi di ra-

c) L’estensione o la quantità non è la sostanza dei corpi, come pretende il ma il primo accidente di quest’ultima.*) **) Le qualità sono anche

Sostanza e A ccidenté) .

accidenti della

meccanicismo,

sostanza corporale (ved. più avanti pp. 168-177:

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gione la presenza di un principio sostanziale immateriale, che diffe­ risce tuttavia dagli spiriti propriamente detti, per il fatto che è inca­ pace di esistere senza la materia; essa permette di comprendere l’u­ nione, nell’essere umano, della materia e di un’anima spirituale, che è la forma del corpo umano, ma che è ben diversa dalle altre forme sostanziali proprio perché può esistere senza la materia.

Filosofia di Aristotele e di Tommaso, (ilemorfismo) Ogni sostanza corpo­ rale è un composto di due parti sostanziali comple­ mentari, l’una passiva e in se stessa assolutamente in­ determinata {materia), l’altra attiva e determi­ nante (forma).

Meccanicismo.

Dinamismo.

La sostanza corpora­ le è concepita come una semplice materia, che è es­ sa stessa identificata al-

La sostanza corpora­ le è ricondotta sia ad unità dell’ordine delle forme pure e degli spiriti (mona­ dismo leibniziano), sia al­ la forza o all’energia.

Vestensione geometrica.

3) Vi è ora una categoria di corpi particolarmen te interessanti, e che sembrano superiori a tutti gli al­ tri: sono i corpi viventi, dall’umile microrganismo si­ no alPorganismo umano. Una caratteristica li distin­ gue da tutti gli altri corpi, ed è che si muovono da sé; il senso comune, a causa di ciò, ammette in essi un'a­ nima o principio di vita, irriducibile a qualsiasi fattore o elemento fisico-chimico. Se è davvero così, bisogne­ rà sapere se vi sono diverse specie di anime, se i vege­ tali e gli animali ne hanno una, eccetera. D ’altra par­ te, alcuni filosofi (detti in generale meccanicisti) riten­ gono al contrario che la scienza spiegherà un giorno tutti i fenomeni della vita mediante le forze della ma­ teria bruta, così che l’organismo vivente non è più al­ tro che una macchina fisico-chimica assai complicata. Donde un problema capitale: In che cosa consiste la

vita? Quali sono i principi prim i costitutivi dell'orga­ nismo vivente?

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41. — Ma l’essere vivente più nobile, fra i viven­ ti che hanno un corpo, non è forse l’uomo? L’uomo è come un mondo a parte, che noi possiamo tanto me­ glio studiare in quanto lo conosciamo dal di dentro, per mezzo di ciò che chiamiamo la coscienza di se stes­ si. E quel che lo caratterizza in primo luogo è il fatto che egli è dotato di intelligenza o ragione. Ora se è ve­ ro che l’intelligenza è qualche cosa di puramente im­ materiale, allora bisogna dire che la scienza che studia l’uomo, pur appartenendo alla filosofia naturale, che ha come oggetto l’essere mobile o sensibile, è come Il problema della psi­ una transizione fra questa parte della filosofia e cologia umana. un’altra (la metafisica), che avrà per oggetto il puro immateriale96. 42. — Se è l’intelligenza o la ragione ciò che fa sì che l’uomo sia uomo, i problemi che riguardano l’o­ perazione intellettuale dovranno, sembra, dominare tutta la scienza dell’uomo (psicologia)97. E in effetti il problema capitale della psicologia è proprio quello

dell’origine delle idee: come spiegare la presenza in noi di queste idee, che ci servono per ragionare sulle cose e mediante le quali le cose ci vengono presentate sotto uno stato di universalità? Noi ritroviamo qui, da un punto di vista nuovo, quel problema dell’universale che avevamo dovuto affrontare poco fa. Avevamo costatato allora che ciò che le nostre idee ci presentano direttamente è qualco­ sa di non-individuale o di universale. Si tratta ora di sapere come si forma in noi questa conoscenza dell’u­ niversale. 1) Abbiamo visto prima che le cose così come sono conosciute dai sensi e dall’immaginazione, ci vengono presentate nella loro individualità: è questo uomo qui che vedo, con questo aspetto fisico che impressiona attualmente la mia retina e che lo distingue dagli altri uomini che vede accanto a lui. Chi dice conoscenza attraverso i sensi, dice conoscenza delVindividuo solo. L’oggetto come oggetto di sensazione o d’immagine è l’oggetto considerato nella sua individualità. Se dun­ que ciò che conosciamo direttamente mediante le nostre idee non è individuale, non sarà forse che le

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Il problema deH’origine delle idee.


nostre idee vengono da noi TRATTE PROPRIO dalle nostre sensazioni e dalle nostre immagini, ma in modo che non passi in esse ASSOLUTAMENTE NULLA dell’oggetto così com’è, COME OGGETTO DTMMAGINE O DI SENSAZIONE (cioè, come vedremo più avanti, come oggetto di co­ noscenza impregnata di materialità)? Provenendo dal­ le immagini, ma superiori a tutto Γordine delle imma­ gini e ignorando Γoggetto così com’è oggetto di im­ magine, le nostre idee dovrebbero proprio per questo ignorare Γ oggetto considerato nella sua individualità. Come del resto le nostre idee potrebbero venirci dalle cose se non venissero dai nostri sensi, che sono in contatto immediato con le cose? E non basta forse os­ servare lo sviluppo intellettuale di un bambino per convincersi che ogni nostra conoscenza incomincia dai sensi? Pertanto la conoscenza intellettuale (o me­ diante le idee) deve veramente essere tratta dalla co­ noscenza mediante i sensi. D ’altra parte, poiché tutto ciò che è nelle sensa­ zioni e nelle immagini porta il sigillo dell’individuali­ tà, e nulla lo porta nelle idee, è proprio vero che le idee sono tratte dalle immagini senza che nulla delle immagini come tale passi nelle idee. 2) Ma come può avvenire questa operazione estrazione? Se assolutamente nulla dell’oggetto così com’è oggetto d’immagine si ritrova nell’oggetto così com’è oggetto di idea, questo significa evidentemente che l’idea non risulta da alcuna combinazione o distil­ lazione di sensazioni o d’immagini. Bisogna pertanto considerare in noi una certa attività d’ordine superio­ re, νους ποιη τικός, come le chiamavano i peripatetici, intellectus agens, una specie di luce intellettuale (para­ gonabile, se si vuole, ai raggi X che si usano per vede­ re lo scheletro attraverso la carne) che, applicandosi all’oggetto introdotto in noi dalle immagini, ne farà sgorgare per la nostra intelligenza qualche cosa che vi era contenuto sì, ma nascosto, e che le immagini non presentavano per se stesse. Questo qualche cosa così estratto, liberato da ciò che costituisce l’individualità dell’oggetto (perché liberato, come vedremo più avan­

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ti, da ciò che costituisce la materialità della conoscen­ za attraverso i sensi), sarà la form a o similitudine in­ telligibile dell’oggetto, che viene per così dire ad im­ primersi nell’intelligenza per determinarla a conosce­ re, facendole produrre nelPintimo di se stessa, con una reazione vitale, Videa nella quale si coglie l’ogget­ to sotto lo stato di universalità: idea di uomo, per esempio, o di essere vivente o di ariano o di semita... Osserviamo che ciò che le nostre idee ci presenta­ no in tal modo sotto lo stato di universalità*, conside­ rato in sé (facendo astrazione da ogni esistenza sia nel­ le cose sia nello spirito), non è né individuale né uni­ versale, essendo puramente e unicamente ciò che la

cosa è. Osserviamo inoltre che se la nostra intelligenza non conosce direttamente l’individuale come tale, essa lo conosce tuttavia indirettamente: nel momento stes­ so in cui effettivamente essa pensa una cosa mediante un’idea, si volge verso le immagini donde l’idea è trat­ ta e che presentano la cosa come individuale. Così, mediante questa riflessione sulle immagini, essa co­ glie, ma in un modo indiretto, del tutto superficiale o interamente inesprimibile, l’individualità della cosa.

CONCLUSIONE V ili. — Le nostre idee sono tratte o «astratte» dal dato sensibile mediante Fattività di una facoltà speciale (intelletto agente) che va oltre ogni ordine dei sensi e che è come la luce della nostra intelligenza. I filosofi chiamano astrazione l’operazione per la quale noi traiamo così le nostre idee dal tesoro d’im­ magini accumulate grazie all’esperienza sensibile, idee che ci presentano quel che la cosa è, facendo astrazio­ ne dall’individualità di questa. Aggiungiamo qui che l’astrazione può essere di un grado più o meno elevato. Anche l’idea di cavallo è

e) Cioè la natura, essenza o quiddità della cosa. Ved. più avanti pp. 161-162 e pp. 163-164.

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astratta come ogni idea, ma nel momento stesso in cui pensiamo cavallo, possiamo vedere o immaginare dei cavalli e conoscere pertanto nell5ordine sensibile la co­ sa che conosciamo contemporaneamente per mezzo della nostra idea nell’ordine intelligibile. Se invece pensiamo angelo o spirito, le immagini del tutto qual­ siasi che accompagnano tale pensiero non sono pre­ senti (come prima osservavamo) se non per aiutare la nostra intelligenza a funzionare, nel loro ordine pro­ prio non hanno alcun valore di conoscenza, noi non possiamo né vedere né immaginare un angelo o uno spirito, non possiamo più conoscere nello stesso tem­ po coi sensi la cosa che conosciamo con la nostra in­ telligenza. È importante osservare che le cose di cui si tratta in primo luogo in filosofia sono di questo ultimo ge­ nere: esse non sono conoscibili mediante i sensi o F im­ maginazione, ma mediante la sola intelligenza. Ed è questo grado superiore di astrazione che costituisce la difficoltà degli studi filosofici; esso sconcerta talora i principianti, che passano di colpo dagli esercizi letterari dei loro studi precedenti, ove F immaginazione aveva tanta parte quanto Fintelligenza, ad una disciplina puramente intellettuale. Questo turbamento si dissolverà presto, a condizione che essi non cerchino affatto di rappresentarsi con F immagi­ nazione cose che sono puramente pensabili e assolutamente inimmaginabili, quali l’essenza, la sostanza, l’accidente, la potenza, l’atto, eccetera, impresa as­ surda che procurerebbe loro inutile stanchezza e impe­ direbbe loro di comprendere qualcosa in filosofia.

Riguardo al problema dell’origine delle idee, i filosofi possono essere divisi sommariamente in tre grandi gruppi: a) i sensualisti af­ fermano che le idee vengono dai sensi, ma riducono le idee a sensa­ zioni; b) gli inneistP riconoscono sì la differenza essenziale che di­ stingue le idee dalle sensazioni e dalle immagini, ma negano che si possano estrarre le idee dal dato sensibile; c) la scuola di Aristotele e

0 Si può adottare questo termine in mancanza di un altro più adatto, ma a condizione di allargare molto il suo significato. In questa categoria di filosofi, in realtà, bisogna colloca­ re tutti coloro che ammettono sia che le nostre idee siano in noi per nascita, così come in

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di Tommaso insegna che le idee differiscono essenzialmente dalle sensazioni e dalle immagini, ma che ne derivano grazie all’attività della luce spirituale (νους ποιητικός, intellectus agens) che è in noi. I principali rappresentanti del sensualismo sono Locke (XVII secolo) e Stuart Mill (XIX secolo) in Inghilterra, Condillac (XVIII secolo) in Francia. In generale, tutti i sensualisti sono nominalisti; ma non è vero l’inverso, e molti filosofi, fra coloro che classifichia­ mo qui come inneisti, hanno subito (almeno nei tempi moderni) l’influenza del nominalismo. In questo secondo gruppo (inneisti) bi­ sognerebbe porre Platone per l’antichità, Descartes (XVII secolo) e Leibniz (XVII - XVIII secolo, per i tempi moderni; a titoli diversi questi tre filosofi ammettono che le nostre idee sono innate in noi. Kant (fine del XVIII secolo) è pure un inneista, ma in un senso di­ verso; per lui ciò che è innato in noi non sono le nostre idee, ma le regole o forme in base alle quali il nostro spirito costruisce i suoi og­ getti di scienza.

Filosofia di Aristotele e di Tommaso. Le nostre idee pro­ vengono dai sensi (pertan­ to dalle cose), ma grazie alVattività di una facoltà spirituale, e sono essen­ zialmente diverse dalle sensazioni e dalle immagi­ ni.

Le nostre idee sono essen­ zialmente diverse dalle sensazioni e dalle immagi­ ni, ma ne derivano grazie all’attività di una facoltà spirituale.

Sensualismo.

Inneismo

Le nostre idee pro­ vengono dai sensi, che so­ no in grado di produrle e non differiscono essen­ zialmente dalle immagini e dalle sensazioni.

Le idee sono essen­ zialmente differenti dalle sensazioni e dalle immagi­ ni e non provengono dai sensi (né di conseguenza dalle cose, con le quali so­ lo i nostri sensi sono in contatto immediato).

43. — Se Poperazione delPastrazione è proprio ciò che abbiamo detto, bisognerà concludere che, da una parte, Puomo ha in sé un’anima spirituale, princi­ pio primo di tale operazione (essendo, le nostre idee, frutto di tale operazione, qualche cosa d’incommen­ surabile, di non paragonabile con le sensazioni e con le immagini, e d’ordine puramente immateriale); che,

noi c’è l’anima (inneismo propriamente detto), sia che esse siano direttamente prodotte in noi da Dio o viste in Dio da noi (Berkeley, Malebranche), sia che esse siano il puro prodot­ to della nostra mente che impone le sue leggi alle cose (Kant).

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Il problema della na­ tura dell’uomo.

dall’altra parte, quest’anima spirituale è fatta, per na­ tura, allo scopo di essere unita ad un corpo (le nostre idee infatti non possono essere prodotte se non per mezzo di sensazioni e di immagini, che postulano per se stesse degli organi corporali). E si comprende come al problema dell’astrazione, o dell’origine delle idee, sia congiunto un altro problema capitale della psicolo­ gia, quello che verte sull’essenza stessa dell’uomo: In

che cosa consiste l'essere umano? L'uom o ha un'ani­ ma spirituale, totalmente differente da quella degli animali? E in questo caso, quali sono le relazioni di quest'anima con il corpo umano?

a) Le soluzioni proposte dai filosofi a quest’ultimo problema sono in stretta correlazione con la posizione che assumono riguardo al problema precedente. I sensualisti, almeno se sono coerenti con se stessi (ciò che non è il caso di Condillac, per esempio), negano sia che Γanima esista {materialisti), sia, in ogni modo, che noi possia­ mo conoscere la sua esistenza (fenomenisti). Gli inneisti invece ten­ deranno a considerare l’uomo come uno spirito puro che si trova unito ad un corpo, ma in che modo? Essi fanno più fatica a spiegar­ lo {dualismo o spiritualismo esagerato)9*. Infine la scuola di Aristo­ tele e di Tommaso insegna che l’uomo è un composto di due princi­ pi sostanziali incompleti ciascuno e complementari, uno dei quali è un’anima spirituale e immortale (animismo).

Filosofia di A ristotele e di Tommaso. (animismo) Due principi incom­ pleti ciascuno, di cui l’uno (anima ragionevole) è spi­ rituale, e che formano una sola sostanza (composto umano).

Erroreper difetto

Errore per eccesso

L’anima umana non esiste {materialismo) o non è conoscibile {feno­

L’uomo è uno spirito accidentalmente unito ad un corpo {spiritualismo esagerato)·, l’anima e il corpo sono due sostanze complete ciascuna {duali­

menismo).

smo).

b) Si osservi che la posizione assunta dai filosofi riguardo al problema dell’origine delle idee determina anche il loro atteggia­ mento circa il problema generale dell’esistenza delle cose conosciute

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mediante i sensi (mondo sensibile o corporale) e delle cose invisibili e spirituali accessibili alla sola ragione.

Filosofia di A ristotele e di Tommaso. (e senso comune) Non si può dubitare senza cadere nell’assurdo né dell’esistenza delle cose corporali (attestata dai sensi) né dell’esistenza delle cose spirituali (di­ mostrata dalla ragione).

Filosofìa a tendenza materialista.

Filosofia a tendenza idealista.

Tutto ciò che non è materiale e sensibile non esiste {materialismo asso­ luto), o per lo meno la sua esistenza non è conoscibi­ le {materialismo fenome-

Il mondo sensibile non esiste realmente {idea­ lismo assoluto) o per lo meno la sua esistenza non è conoscibile né certa

{idealismofenomenista).

nista epositivismo).

C — FILOSOFIA DELL’ESSERE IN QUANTO ES­ SERE ovvero METAFISICA 44. — Applicandosi allo studio dell’uomo, la fi­ losofia affronta un oggetto che oltrepassa già, per tut­ ta una parte di se stesso, il mondo corporale o mondo della natura sensibile. Essa può e deve salire più in al­ to, e poiché ha per oggetto proprio L’ESSERE delle cose, deve studiare questo essere non più in quanto corporale, sensibile, o mobile (questo era l’og­ getto della filosofia della natura sensibile), ma sempli­ cemente IN QUANTO ESSERE; di conseguenza, deve studiare l’essere in una maniera assolutamente universale, e così come si può trovare non soltanto nelle cose visibili, ma anche nelle cose che sono senza essere corporali, sensibili, né mobili, cioè nelle cose puramente spirituali. Questo è l’ogget­

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to della filosofia o sapienza per eccellenza, chiamata filosofia prima e anche metafisica".

1 — CRITICA

Problemi della critica o metafisica della ve­ rità.

Il problema della ve­ rità.

45. — Ma prima di affrontare tale studio, il f sofo non deve assicurare contro ogni attacco e ogni deformazione possibile i principi di questa scienza suprma, che sono anche i principi di tutta la conoscen­ za umana? Effettivamente è compito della saggezza difendere i suoi principi e quelli delle altre scienze. Bisognerà quindi, prima di studiare l’essere in quanto essere, studiare la relazione del pensiero uma­ no in rapporto all’essere. Sarà questo l’oggetto di una parte speciale della metafisica, che viene chiamata cri­ tica, poiché attende a giudicare la conoscenza stessa: la logica mostra come e seguendo quali regole la ra­ gione giunge al vero e conquista la scienza e questo stesso fatto presuppone la possibilità della scienza e della verità (possibilità attestata del resto dal senso co­ mune e naturalmente evidente); la critica tratta scien­ tificamente di ciò che è così presupposto, mostrando in che cosa consiste la verità stessa della conoscenza e facendo vedere in modo riflesso che la conoscenza ve­ ra, certa, scientifica è veramente possibile100.

46. — Che cos’è la verità della conoscenza? E possono confutare coloro che mettono in dubbio la veracità delle nostre facoltà di conoscere, in primo luogo dell*intelligenza o della ragione? Ecco evidente­ mente il doppio problema che si porrà qui sin dall’inizio. La risposta appare però in un modo abbastanza chiaro.

1) Per quanto concerte la prima questione, è cile per ognuno prendere coscienza di quel che signifi­ ca la nozione di verità. Che cos’è una parola vera e ve­ ridica? È una parola che esprime così come sta il pen­ siero di colui che parla, una parola conforme a questo pensiero. Che cos’è allora un pensiero vero? È un pen­ siero che presenta così come sta la cosa che esprime, un pensiero conforme a quella cosa. Bisogna dunque dire che

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LA VERITÀ DELLA NOSTRA MEN­ TE consite nella sua

CONFORMITÀ ALLA COSA. È impossibile dare un’altra definizione della veri­ tà senza mentire a noi stessi, cioè senza falsare la no­ zione di verità, di cui noi in realtà ci serviamo e nell’e­ sercizio vivente della nostra intelligenza, ogni volta che pensiamo.

a) Si può osservare dopo ciò che un pensiero falso in tutti i suoi elementi è impossibile poiché, non essendo conforme a nulla assolutamente, sarebbe un nulla di pensiero. Se, per esempio, dico le pietre hanno un’anima, si tratta a colpo sicuro di un errore asso­ luto, ma è vero che esistono delle pietre, è vero pure che alcuni esse­ ri hanno un’anima, tutti gli elementi che entrano in questo pensiero falso non sono dunque falsi. Pertanto l’errore presuppone prima di sé la verità101. b) Si può osservare anche che, se l’uomo mettesse realmente e seriamente in dubbio la veracità delle sue facoltà di conoscenza, non potrebbe assolutamente vivere: essendo ogni azione e ogni non­ azione un atto di fiducia in questa veracità, agire come non agendo diventerebbe allora parimenti impossibile. Colui che decidesse di vi­ vere questo pensiero: Per me la verità non esiste, cadrebbe quindi inevitabilmente nella demenza. Friederich Nietzsche, che era un grande poeta, ma che considerava la fede nella verità come l’ultima schiavitù da cui il mondo doveva essere liberato, ha fatto questa esperienza a sue spese.

2) Quanto agli scettici che, almeno teoricamente e a parole, mettono in dubbio la veracità delle nostre facoltà di conoscenza, e in primo luogo dell’intelligen­ za o della ragione, sarebbe evidentemente inutile cer­ care di dimostrare questa veracità, poiché ogni di­ mostrazione si poggia su qualche certezza, ed essi fan­ no proprio professione di non ammetterne alcuna. Sa­ rà sufficiente, per difendere contro di loro la cono­ scenza umana: 1) far vedere in che consiste e come ha luogo questa conoscenza; 2) confutare gli argomenti che adducono; 3) ridurli all’assurdo: quando dicono che «non sanno se qualche proposizione può essere vera», o sanno effettivamente che questa proposizio­

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ne stessa che enunciano è vera e allora si contraddico­ no manifestamente; o non sanno se è vera, e allora non dicono nulla, o non sanno quel che dicono. Colo­ ro che dubitano della verità, non possono quindi filo­ sofare se non osservando un silenzio assoluto, (persi­ no nell’intimo dell’animo) e, secondo il detto di Ari­ stotele, riducendosi a vegetali. Indubbiamente, la ragione si sbaglia molto spes­ so, soprattutto nelle materie più alte, e Cicerone dice­ va già ai suoi tempi che non vi è sciocchezza al mondo che non si trovi un filosofo disposto a sostenerla. Per­ tanto, la verità è difficile da conquistare. Ma è l’errore dei vili il prendere una difficoltà per una impossibili­

tà. CONCLUSIONE IX. — La verità della conoscenza consiste nella conformità della mente alla cosa. È assurdo mettere in dubbio la veracità delle nostre facoltà di conoscere.

Su questo problema della veracità delle facoltà di conoscenza, i filosofi si dividono ancora (sommariamente) in tre gruppi. I - Gli scettici, impressionati dall’estrema abbondanza degli er­ rori formulati dagli uomini, e dai filosofi in particolare, mettono in dubbio la veracità della ragione e dicono che la verità è impossibile attingerla. I principali rappresentanti deio scetticismo sono nell’an­ tichità Pirrone (360-270), i nuovi accademici (Arcesilao, 315-241; Cameade, 214-129), infine gli ultimi scettici greci (Enesidemo, I se­ colo della nostra èra; Sesto empirico, fine del II secolo); nei tempi moderni, Montaigne e Sanchez nel XVI secolo e soprattutto David Hume nel XVIII secolo. I filosofi che vengono chiamati ariti - intellettualisti per il fatto che, disperando dell’intelligenza e della ragione, chiedono la verità alla volontà, all’istinto, al sentimento o all’azione (Rousseau, Fich­ te, Schopenhauer, Bergson, William James, scuola pragmatista e modernista), debbono essere collocati fra gli scettici. Non perché dichiarano inaccessibile la verità, come fanno gli scettici propriamenti detti, ma perché la dichiarano inaccessibile proprio per quella fra le nostre facoltà che è specificamente fatta per essa e perché, ri­ gettando l’intelligenza e la ragione, ci privano effettivamente del nostro unico mezzo normale di attingere la verità. II - I razionalisti invece pensano che la verità è facile da con­ quistare: per questo si propongono di sottomettere ogni cosa al li­ vello della ragione', ma (intendiamo bene) di una ragione umana che

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non ha bisogno di essere umilmente e pazientemente disciplinata, che questa disciplina sia regolata dalla realtà stessa o da un maestro o da Dio; quanto al primo punto di vista, essi tendono verso il sog­ gettivismo, che prende come regola di verità il soggetto conoscente, non la cosa da conoscere, e che dissolve pertanto la conoscenza; quanto al secondo punto di vista, tendono verso P individualismo, che chiede ad ogni filosofo di rifarsi la filosofia da solo e di crearsi una sua concezione del mondo ( Weltanschauung) originale e inedi­ ta; quanto al terzo punto di vista, tendono verso il naturalismo, che pretende di giungere con le sole forze della natura ad una saggezza perfetta e che respinge qualsiasi insegnamento divino*. Il grande iniziatore del razionalismo nei tempo moderni è De­ scartes (XVII secolo), cui si rifanno più o meno direttamente Ma­ lebranche, Spinoza, Leibniz. Colui che ne ha messo in evidenza i principi supremi e il vero spirito è Kant (fine del XVIII secolo), che ha consumato la rivoluzione cartesiana e i cui successori panteisti, Fichte, Schelling, Hegel, divinizzano il soggetto umano. Per mezzo di Kant e della filosofia soggettivista da lui derivante, il razionali­ smo è giunto, come al tempo dei sofisti, a congiungersi al suo op­ posto (lo scetticismo), perdendosi nell’anti-intellettualismo dei mo­ dernisti (fine del XIX secolo e inizio del XX). Ili - La scuola di Aristotele di Tommaso insegna che la verità non è né impossibile né facile, ma difficile a conquistarsi da parte dell’uomo. Essa si oppone pertanto radicalmente e allo scetticismo e al ra­ zionalismo. Vede nell’abbondanza degli errori formulati dagli uo­ mini, e dai filosofi in particolare, un segno della debolezza della nostra mente, ma una ragione di amare sempre più l’intelligenza e di attaccarsi più strettamente al vero; ed anche un mezzo per far progredire la conoscenza (mediante le confutazioni e le spiegazioni che tali errori esigono da noi). Essa comprende peraltro che la ra­ gione è il nostro unico mezzo naturale di entrare in possesso della verità, ma a condizione che sia formata e disciplinata: in primo luo­ go e prima di tutto tramite la realtà stessa, poiché non è il nostro in­ telletto che misura le cose, ma sono le cose che misurano il nostro intelletto; in secondo luogo tramite dei maestri, poiché la scienza è un’opera collettiva, non individuale, e non può essere costruita se non con la continuità di una tradizione vivente; infine da Dio, se gli piace di istruire gli uomini e di concedere ai filosofi la norma negati­ va della fede (e della teologia). A questo proposito, ved. sopra n. 26, p . 95).

*) In due maniere diverse il naturalismo respinge l’insegnamento divino: 1) rifiuta a Dio il diritto di insegnare agli uomini verità in se stesse inaccessibili per la sola ragione (misteri soprannaturali); 2) gli rifiuta parimenti il diritto d’insegnare agli uomini, per mezzo della rivelazione, verità in se stesse accessibili alla sola ragione (verità d’ordine naturale, verità filosofiche — immortalità dell’anima umana, per esempio, — che la ragione può scoprire mediante le sue sole forze, ma rischiando sempre di mescolarvi l’errore, mentre grazie alla rivelazione esse sono messe alla portata di tutti, facilmente e senza mescolanza d’errore).

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Filosofia di A ristotele e di Tommaso (intellettualismo modera­ to). Ciò che è, causa la verità delle nostre facoltà intellettive. La ragione può attingere con una pie­ na certezza le verità più elevate dell’ordine natura­ le, ma difficilmente e a condizione d’essere di­ sciplinata. Errore per difetto.

Errore per eccesso

La ragione non può attingere la verità, che sfugge assolutamente al­ l’uomo {scetticismo) o che deve essere cercata con un mezzo che non è l’intelli­ genza (an ti- in tellettualis­

La ragione attinge fa­ cilmente, e senza aver bi­ sogno di sottomettersi ad una disciplina imposta dal di fuori, la verità in tutto

{razionalismo).

mo). Sintesi di questi due errori. È la mente delTuomo che fa la verità di ciò che egli conosce (dei fenome­ ni)', e ciò che è (la cosa in sè) non è conoscibile dalla ragione {criticismo o agn osticismo kan tiano).

47. — Un altro problema, fra quelli che han un riferimento con la critica, deve ancora trattenerci qui. Dal momento che Pintelligenza o ragione è lo strumento stesso della filosofia, qual è dunque l'og­ Il problema dell’og­ getto dell’intelligen­ za.

getto formale dell'intelligenza, su che cosa verte la co­ noscenza intellettuale immediatamente e in sé? Per rispondere a questa domanda, basta chieder­ si se non c’è qualche oggetto che sia sempre presente alla mente, quando Pintelligenza è all’opera. Sì, c’è un tale oggetto: qualunque cosa io conosca per mezzo della mia intelligenza è sempre un essere o modo d'es­ sere che mi viene presentato. E vi è un altro oggetto che non sia l’essere in questo caso? No. Se penso, per esempio, ad una qualità, ad una grandezza, ad una

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sostanza, in tutti questi casi penso a qualche essere o modo d’essere, ma non vi è niente altro che l'essere che sia comune a questi tre oggetti di pensiero e che di conseguenza si ritrovi egualmente in questi tre casi. Diremo pertanto che L’ESSERE è l’oggetto formale dell’intelligenza, cioè l’oggetto che prima di tutto e per se stesso (per se primo) è còlto da essa e in ragione del quale essa coglie tutto il resto.

Conoscere la causa di una cosa, il suo destino, la sua origine, le sue proprietà, le sue relazioni con le altre cose, altrettanti mezzi per conoscere ciò che essa è, altrettanti proiettori puntati sul suo essere. È impossibile usare l’intelligenza senza che sia presente la nozione dell’essere. L’intelligenza può d’altro canto attingere l’essere delle cose corporali nelle sue manifestazioni sensibili (fenomeni): così, per esempio, studia in fisiologia le proprietà degli organismi viventi in rapporto a cause che appartengono anch’esse all’ordine sensibile; si hanno allora le scienze delle cause seconde o scienze dei fenomeni. Oppure, l’intelligenza può cogliere nei suoi principi primi l’essere delle cose e si ha allora \&filosofia in generale: questa si divide in fi­ losofia naturale e metafisica, secondo che l’essere còlto dall’intelli­ genza nei suoi principi primi sia l’essere delle cose corporali come tali o l’essere in quanto essere.

Si è già trattato in psicologia questo problema dell’oggetto formale dell’intelligenza. Ma quel che im­ porta propriamente alla critica è precisare che l'essere di cui si tratta qui è proprio l’essere stesso delle cose, che è in esse indipendentemente dallo spirito cono­ scente. Se invece si dicesse che la nostra intelligenza ha per oggetto non l’essere delle cose, ma l'idea dell’esse­ re che essa forma in se stessa e, in generale, che noi cogliamo immediatamente solo le nostre idee102, ci si abbandonerebbe mani e piedi legati allo scetticismo; poiché in questo caso sarebbe impossibile che la no­ stra mente si rendesse conforme a ciò che è e di conse­ guenza non ci sarebbe più verità per noi; oppure la ve­ rità non sarebbe la conformità all'essere, e poiché la verità non è niente per noi se non è questo, di nuovo non ci sarebbe più verità per noi; nello stesso tempo infine l’intelligenza sarebbe menzognera, poiché ciò

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che Pintelligenza afferma di conoscere è quel che sono le cose e non che cosa sono le sue idee. In realtà le idee, come attesta immediatamente la coscienza di ciascuno, sono per noi dei mezzi per conoscere; donde se la conoscenza non cogliesse le cose stesse, conosce­ re sarebbe un’operazione o un’azione senza termine o senza oggetto, il che è assurdo. Infatti, formare un’i­ dea o un giudizio significa conoscere, come servirsi di un coltello significa tagliare; ma non si può tagliare senza tagliare qualche cosa (termine o oggetto dell’a­ zione di tagliare, e che non è il coltello, ma la cosa ta­ gliata da esso); e non si può conoscere senza conoscere qualche cosa, (termine o oggetto dell’atto di conosce­ re, e che non è l’idea ma la cosa conosciuta da essa)103. CONCLUSIONE X. —

L ’oggetto formale dell’intelligenza è l’essere. L ’intelligenza è fatta per questo: per comprendere quello che sono le cose, indipendentemente da noi.

48. — Dalla duplice certezza che abbiamo o raggiunto: l’intelligenza è una facoltà veridica e l’esse­

re è l’oggetto necessario e immediato dell’intelligenza,

Essere tà.

intelligibili-

deriva una verità fondamentale. Che cosa viene chiamato intelligibile? Ciò che è conoscibile mediante l’intelligenza. Ma dire che l’in­ telligenza ha l’essere come oggetto necessario e imme­ diato e che essa conosce veramente, non è forse esatta­ mente dire che l’essere come tale è oggetto veramente conoscibile da parte dell’intelligenza, cioè che è intelli­ gibile? E dire che l’essere come tale è intelligibile, non significa forse dire che l’intelligibilità si accompagna all’essere o che ogni cosa è intelligibile proprio nella misura in cui è? Diremo pertanto

CONCLUSIONI XI. —

L ’essere come tale è intelligibile, ogni cosa è intelligibile proprio nella misura in cui è.

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Si osservi che dicendo: ogni cosa è intellegibile proprio nella misura in cui è, noi intendiamo intelligibile in sé , per Fintelligenza, non intendiamo intelligibile per noi, per la nostra intelligenza. Se in realtà la nostra intelligenza, a causa dell’inferiorità della natura umana, è sproporzionata rispetto ad un essere che la supera perché è al di sopra dell’uomo, questo essere, benché in se stesso più intelli­ gibile, sarà meno intelligibile per noi. Accade questo di tutte le na­ ture puramente spirituali, e innanzitutto di Dio; in se stesso Egli è al vertice dell’intelligibilità, ma solo la sua propria intelligenza è al li­ vello di questa intelligibilità sovrana.

2 — ONTOLOGIA 49. — Dopo avere, nella critica, esaminato e di­ feso i principi della conoscenza in generale, della scienza e della filosofia, potremo passare allo studio della metafisica propriamente detta o scienza delPes- Problemi delFontometafisica sere in quanto essere. È qui il cuore stesso della filoso- djj?e’sse°e in generafia. Dovremo considerarvi l’essere come tale e le gran- ie. di verità che contiene in sé, chiederci come impregna ogni cosa senza esaurirsi in alcuna, studiare le sue proprietà inseparabili, l’unità, la verità, la bontà, cui è opportuno aggiungere la bellezza; studiarlo infine in quanto agisce e cercar di penetrare la natura e i modi dell’azione causale. Dovremo inoltre ricercare come l’essere si divide in tutto l’ambito del creato, sia che ci si ponga dal punto di vista della costituzione di ogni essere creato (divisione dell’essere in potenza e atto, essenza ed esi­ stenza), sia che ci si ponga dal punto di vista delle di­ verse specie di esseri creati (divisione dell’essere in so­ stanza e accidente). Comprenderemo allora che le no­ zioni che vengono esposte e spiegate in ontologia dan­ no la chiave di tutto il resto. Alcune fra queste sono addirittura così indispensabili che bisogna che vi so­ stiamo sin d’ora; ad ogni passo in realtà avremo ne­ cessità di fare appello alle nozioni primarie di essenza,

di sostanza e d'accidente, di potenza ed atto. Non possiamo evidentemente in una semplice in­ troduzione offrire di tali nozioni un’analisi ed una giustificazione complete; cercheremo tuttavia di defi­ nirle con cura, ricorrendo (è vero) ad esempi piuttosto che ad argomenti sviluppati e semplificando assai le cose, ma seguendo l’ordine stesso che si dovrebbe se-

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guire in uno studio propriamente scientifico. Benché la nozione deir essere, essendo la prima e la più conosciuta di tutte le nozioni, sia evidentemente troppo chiara per se stessa per poter comportare una definizione propriamente detta, il primo dovere che s’impone all’uomo desideroso di pensare seriamente è quello di precisare tale nozione nella sua mente e per questo di ricercare i concetti o significati primi nei quali si suddivide104. Porremo quindi in primo luogo la questione seguente: Quali sono gii oggetti del pen­ Quali sono i dati as­ solutamente primi dell’intelligenza?

dal punto di vista dell’intelligibilità (es­ sere in quanto essen­ za); dal punto di vista dell’esistenza (essere in quanto sostanza);

dal punto di vista dell’azione (essere in quanto atto).

siero che s fimpongono necessariamente e di primo acchito αΙΓintelligenza, allorché questa si applica al­ l'essere come tale, o anche, se si vuole, dal momento che l’essere è l’oggetto primo dell’intelligenza, quali sono i DATI ASSOLUTAMENTE PRIMI DELL’IN­ TELLIGENZA105? Vedremo ora che questo unico problema fondamentale comporta una triplice risposta, secondo che ci si metta dal punto di vista — dell 'intelligibilità, — dell’esistenza, — o delibazione. Dal primo punto di vista saremo condotti a defi­ nire quel che si intende con essenza, dal secondo quel che si intende con sostanza (a cui si contrappone Vac­ cidente) e dal terzo quel che si intende con atto (a cui si contrappone la potenza).

*50 L’ESSENZA. — Consideriamo l’essere dal punto di vista delVINTELLIGIBILITÀ, in altre paro­ le consideriamo l’essere secondo che esso è capace di entrare nella mente, o può essere afferrato dall’intelli­ genza. È il punto di vista più uniersale nel quale ci possiamo porre, poiché sappiamo che l’essere come tale è intelligibile e dunque che l’intelligibilità è tanto vasta quanto ciò che è o può essere. E stabiliamo di chiamare

ESSENZA il dato primo dell'intelligenza da questo punto di vi­ sta. A. L'essenza nel senso largo della parola. Considerare l’essere dal punto di vista dell’intelligibi-

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lità, o secondo che esso possa essere còlto dall’intelli­ genza, significa in primo luogo considerarlo in quanto può essere semplicemente presentato alla mente senza affermazione né negazione (in quanto può essere og­ getto di semplice percezione o conoscimento, come di­ remo più tardi). Triangolo, poligono, seduto, questo uomo, ecco altrettanti oggetti semplicemente presen­ tati alla mente, senza affermazione né negazione. 1) Qual è, da questo punto di vista, il dato primo deir intelligenza? È, molto semplicemente, ciò che è posto sin dall’inizio dinanzi alla nostra mente, quan­ do concepiamo qualche cosa e formuliamo un’idea. Dato che abbiamo stabilito di usare qui il termine es­ senza, diciamo che U N ’ESSENZA è ciò che in un qualunque oggetto di pensiero è imme­ diatamente e in primo luogo {per se primo) presentato all’intelligenza, id quod in aliqua re perse primo intelL’essenza

nel senso largo della parola: i d

ligitur. Ogni idea, qualunque essa sia (dal momento che non è, come l’idea di cerchio quadrato, per esempio, una pseudo-idea che racchiude in sé una contraddizio­ ne), ogni idea pone immediatamente davanti alla men­ te qualche cosa; questo qualche cosa, così immediata­ mente presentato allo spirito, è un*essenza (o una na­ tura). Che io pensi uomo, umanità, animale, bontà, bianco, bianchezza, seduto, triangolo, eccetera, ognu­ no degli oggetti così immediatamente presentati alla mia mente, ciascuna di queste unità intelligibili è, per definizione, un’essenza, nel senso largo di questa pa­ rola*. U n’essenza pertanto non è altro che un oggetto di pensiero considerato come tale. Ciascuna essenza ha

q u o d in a liq u a r e p e r s e p r i m o in t e li igitur',

ciò che un’idea deter­ minata pone imme­ diatamente dinanzi all’intelligenza.

h) Abbiamo visto che Γ individuale come tale non è còlto direttamente dalla nostra intelli­ genza. Quando per via indiretta (per un ritorno sulle immagini, cfr. sopra p. 138-139) for­ miamo una nozione individuale, Γoggetto posto davanti alla nostra mente da questa nozione {Pietro, questo uomo, quell*albero) è anch’esso, in quanto oggetto di pensiero, un*essen­ za, nel senso largo di questa parola. Pertanto, la nozione di essenza nel senso largo deve essere estesa sino agli oggetti di pensiero singolari. Quanto agli esseri di ragione {la cecità, per esempio, il nulla) che non pongono qualcosa nel reale, il nome di essenza non conviene loro, nel senso che una privazione, per esempio, presa come tale, non ha evidentemente essenza (cfr. Tommaso, De Ente et Essentia, cap, 1). Si può tuttavia, dal punto di vista in cui qui ci siamo posti, applicare loro impropria­ mente il nome di essenza nel senso largo.

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del resto la sua costituzione intelligibile, per mezzo della quale si distingue dalle altre e postula determina­ ti attributi.

2) Ma ecco un’osservazione importante: se con sidero il triangolo con le sue proprietà, l’uomo, l’u­ manità, eccetera, essi rimangono esattamente quel che sono come oggetti di pensiero, che io supponga o no abolita la loro attuale esistenza. Il fatto di esistere non cambia nulla alle essenze considerate come tali; per concepirle, lascio da parte per astrazione il fatto che esse esistono o non esistono attualmente. L’essere nel senso di esistenza mi appare quindi come di ordine diverso dall’essere nel senso di essenza106. Vi sono qui due sensi del tutto differenti del termine essere, come quando diciamo, per esem­ pio, «essere o non essere, questo è il problema» (si tratta in tale caso dell’esse­ re - esistenza); oppure invece «un essere vi­ vente» (si trat­ ta in questo caso dell’esse­ re - essenza. Nel primo caso la parola essere designa Vazione d’es­ sere, l’atto (se posso dir così) per il quale una cosa è posta fuori del nulla e fuori delle sue cause {extra ni­ hil, extra causas); nel secondo caso designa CIÒ che è o che può essere, ciò che fa fronte a qualche esi­ stenza attuale o possibile. Diciamo dunque che l’esse­ re si divide in essenza e esistenza.

a) La relazione da stabilire fra questi due termini è l’oggetto di un problema che studieremo più avanti e che è proprio, non più in riferimento a noi come il problema dell’universale, ma considerato in sé, il problema fondamentale di tutta la filosofia: l’essenza e l’e­

sistenza sono realmente distinte in tutto ciò che non è Dio? b) L’esistenza attuale, il fatto di esistere attualmente,

non è incluso nell’oggetto di alcuna nostra idea preso come tale; la nostra intelligenza non può attribuire l’esistenza attuale a questo o a quel-

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Γoggetto di pensiero se non basandosi, immediatamente o tramite un ragionamento, su di una testimonianza dei nostri sensi (o, in mo­ do riflesso, della nostra coscienza). Essa quindi giudica immediata­ mente: Esistono degli oggetti sensibili, io esisto, e dimostra resi­ stenza di Dio fondandosi, per esempio, sul fatto del movimento. Essa non può arrivare da sé sola fino all’esistenza attuale dei suoi

oggetti di pensiero.

Le essenze invece (il triangolo, il numero pari, Γumanità, ecce­ tera...) che come tali si riferiscono solo ad un’esistenza possibile (per questo vengono anche chiamate i possibili), le essenze sono i dati immediati che ci vengono forniti dalla nostra intelligenza e dal­ le nostre idee.

teniamo dunque ben stretta la nozione di essenza, la nozione dell’essere considerato come ciò che è o che può essere. Abbiamo poco fa definito un’essenza: ciò che, in un qualunque oggetto di pensiero, è immedia­ tamente e in primo luogo presentato all’intelligenza, id quod in aliqua re p erse primo intelligitur. Vediamo ora se questa nozione assai larga (si applica infatti ad ogni oggetto di pensiero) non possa essere analizzata e precisata in modo tale che la stessa definizione, pren­ dendo un senso più limitato, non possa più allora (in quel caso determinato) applicarsi che a quell’oggetto di pensiero determinato. B. L ’essenza in senso stretto o l’essensapropriamente detta . — La semplice presentazione alla mente di un oggetto di pensiero {uomo, bianco) non è che l’inizio della conoscenza intellettuale; è nel giudicare che questa si perfeziona, quando l’intelletto afferma o ne­ ga questo oggetto di pensiero rispetto ad un altro og­ getto di pensiero {Pietro è un uomo, questo fiore è bianco). Se pertanto vogliamo considerare l’essere dal punto di vista dell’intelligibilità, per discernere da questo punto di vista il dato assolutamente primo del­ l’intelligenza, dobbiamo considerare gli oggetti di pensiero in quanto possono essere còlti dall’intelligen­ za allorché giudica, allorché pronuncia Pietro è un uo­ mo, per esempio. Qual è allora, da questo punto di vista, tra i diversi oggetti di pensiero che possono rea­ lizzarsi in un dato soggetto, quello su cui l’intelligenza si porta direttamente e in primo luogo? Lo chiamere­ mo essenza nel senso stretto della parola.

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1) Consideriamo un oggetto di pensiero com Pietro, Paolo, questo cane, quelFuccello: Pietro è grande, ride, si agita; questo cane abbaia; quell’uccel­ lo vola; ciascuno è un certo tutto individuale, concre­ to e indipendente, interamente equipaggiato per essere e per agire. È su oggetti individuali del genere che la nostra mente si porta in primo luogo (dal punto di vista del­ l’esistenza), quando pensiamo a ciò che è. Applican­ dosi a queste cose particolari, l’espressione ciò che è si precisa e prende una forza particolare: essa non indica più soltanto ciò che fa fronte a qualche esistenza at­ tuale o possibile, ma proprio

ciò CHE innanzitutto esercita propriamente l’atto d’essere. Queste cose particolari sono tutte, benché a titoli mol­ to diversi, degli attori sul teatro del mondo. Se tuttavia ci poniamo dal punto di vista dell’in­ telligibilità, è su questi soggetti individuali considerati come tali che si porta in primo luogo la nostra mente, tra i diversi oggetti di pensiero che possono presentare le cose? No di certo, se è vero, come abbiamo visto prima, che l’individuale sfugge alle prese dirette della nostra intelligenza. Quello che so di Pietro, è ciò che so che egli è (uomo, per esempio). È su oggetti di pen­ siero come uomo oppure umanità, che discerne in Pietro, o come bianco o bianchezza, che discerne in questo fiore, è su d ò CHE UNA COSA È, che da questo punto di vista la nostra mente si applica in primo luogo, è da questa parte che bisogna cercare il dato assolutamente primo dell’intelligenza sotto l’angolazione dell’intelligibilità (essenza nel senso stretto). Ecco divisa in due la nozione d’essenza nel senso più largo. Da una parte ciò che propriamente esercita l’atto d’essere, ciò che . Dall’altra parte ciò che una

cosa è.

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Ciò che è: essenza ( Ciò CHE UNA COSA È in senso largo \ a ò CHE essere ◄ Atto d’essere: esistenza.

2) A ciò che è propriamente, daremo il nome di primo soggetto d'esistenza e d'azione. È quel che i fi­ losofi chiamano anche sostanza personale e persona. Lasciamolo da parte a questo punto, abbiamo visto che non interessa la nostra ricerca presente. Consideriamo invece ciò che una cosa è. In ciò che una cosa è, non vi sono forse ulteriori distinzioni ed eliminazioni da fare, al fine di precisare ciò che ve­ ramente è il dato assolutamente primo deir intelligen­ za, dal punto di vista deir intelligibilità e a cui spetta di conseguenza il nome di essenza nel senso proprio della parola, ciò che è L’ESSENZA DI Pietro, per esempio? Pietro è seduto, Pietro è capace d i ridere, Pietro è un u o m o K Quello che (cfr. la formu­ la CIÒ CHE UNA COSA È del nostro suddetto sche­ ma) Pietro è, pertanto (seduto, capace di ridere, uo­ mo), si trova in ciascuno di questi tre casi, o solamen­ te in uno solo, l’essere su cui l’intelligenza immediata­ mente e prima di tutto si concentra (cioè si posa) in Pietro, dal punto di vista dell’intelligibilità? Poco fa, dicevamo che ogni oggetto di pensiero è come tale un’essenza (essenza in senso largo); ora, considerando «quello che Pietro è», cerchiamo qual è l’oggetto di pensiero che costituisce l’essenza di Pietro (essenza nel senso stretto della parola). C. Le caratteristiche di questa essenza. — Quali sono le caratteristiche dell’oggetto di pensiero così de- L’essenza, finito, cioè dell’essere primariamente còlto dall’intel- stretto> ligenza che considera ciò che una cosa è? 1) Innanzitutto è chiaro che l’essere su cui si con­ centra in primo luogo l’intelligenza mentre pensa ciò che una cosa è, è un essere di cui l’intelligenza non può PENSARE che quella cosa sia privata o sprovvi­

sta.

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in senso


In realtà, è grazie a questo essere che l’intelligenza concepisce in primo luogo, afferra, impugna per così dire, pone dinanzi a sé e nomina la cosa in questione. Privare la cosa di questo essere, o cam­ biarne in qualunque modo la struttura, sarebbe pertanto un porre davanti all’intelligenza, per definizione, un'altra cosa.

è l’essere necessario

Di conseguenza, è un essere di cui questa cosa, finché esiste, non può ESSERE privata o sprovvista (altrimenti Pintelligenza non sarebbe veritiera). Così, per esempio, Pietro, finché esiste, non può non essere uomo (mentre invece può benissimo non essere sedu­

to).

e primo della cosa,

L’essere in questione è quindi un essere che la co­ sa posta dinanzi all’intelligenza è NECESSARIA­ MENTE ED IMMUTABILMENTE. Ed è inoltre, evidentemente, l’essere che nella coSa importa principalmente all’intelligenza, poiché proprio qui essa dapprima si concentra: si tratta dun­ que dell’essere che la cosa è prima di tutto1e che sus­ siste come il principio di ciò che peraltro la cosa è; si tratta dell’essere PRIMO della cosa. Pietro quindi è uomo prima d’essere, per esempio, capace di ridere o

soggetto alla morte. Concludiamo che l’essere a cui si volge in primo luogo l’intelligenza quando pensa a ciò che una cosa è, è l’essere

NECESSARIO e

PRIMO, o, con una parola sola, l’essere costitutivo della cosa; è quel che la cosa è necessariamente e primariamente. Ecco una prima caratteristica di quel che abbia­ mo convenuto di chiamare Vessenza in senso stretto. 2) E c’è una seconda caratteristica. In quale mo­ do l’essere in questione è primo? Dal punto di vista dell’INTELLIGIBILITÀ; è da questo punto di vista, ricordiamolo, che ci siamo posti sin dall’inizio in questo studio dell’essenza. Pietro è un uomo (cioè un

') Il termine prima indica qui, è evidente, una priorità di natura, non una priorità di tem­ po.

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animale dotato di ragione) prima di essere soggetto al­ la morte: è che in uomo è compreso il concetto di ani­ male, e nella nozione di animale Pintelligenza può leg­ gere l’esigenza della caratteristica che consiste nella soggezione alla morte. Pietro è un uomo prima di es­ sere capace di ridere: è che in uomo è compreso dotato di ragione, e nella nozione di essere dotato di ragione l’intelligenza può leggere l’esigenza della caratteristica che consiste nella capacità di ridere. Le proprietà sog­ getto alla morte e capace di ridere (proprietà necessa­ riamente possedute da Pietro) hanno in lui un princi­ pio, una ragione, che le postula davanti all’intelligen­ za per la sua nozione stessa o per ciò che essa è o per la sua propria intelligibilità; e tale ragione, tale principio è uno degli elementi o aspetti costitutivi dell’essere uo­ mo. È dal punto di vista dell9intelligibilità che Pietro è uomo prima d’essere soggetto alla morte o capace di

ridere. Così pertanto se l’essere uomo è primo come ab­ biamo detto, è nell’ordine dell’intelligibilità che è pri­ mo; in altre parole esso è in Pietro principio primo d’intelligibilità107. Benché sia una formula lunga, bi­ sogna dire, per esprimere esattamente questa realtà, che l’essere uomo è per i suoi elementi o aspetti costi­ tutivi la radice di tutte le caratteristiche necessariamente pos­ sedute da Pietro, le quali hanno in Pietro UN PRINCIPIO CHE LE POSTULA PER LA SUA NOZIONE STESSA7. Questa è dunque la seconda caratteristica di quel che abbiamo convenuto di chiamare Vessenza pro­ priamente detta, o dell’essere a cui si volge l’intelli­ genza in primo luogo, allorché considera ciò che le co­ se sono. Questa seconda caratteristica è nella cosa

principio primo d 9intelligibilità.

9 Queste caratteristiche sono quel che si designa come delle proprietà.

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a titolo di principio primo d’intelligibili­ tà.


Vi sono per la nostra intelligenza due maniere, Puna imperfet­ ta, l’altra perfetta, di cogliere questo essere principio primo di intel­ ligibilità. Se, per esempio, conosciamo che una cosa è un uomo, senza poter ancora esprimere che cosa è l’uomo, conosciamo in una ma­ niera confusa l’essere in questione. La nostra intelligenza possiede sì questo essere, lo ha ben afferrato, lo vede, ma per così dire come i nostri occhi potrebbero vedere un oggetto opaco. Se ora conosciamo questa stessa cosa potendo definire quel che è {un animale dotato di ragione), conosciamo in tal caso l’essere in questione in una maniera distinta. La nostra intelligenza non sol­ tanto lo vede, essa vede anche i suoi principi o aspetti costitutivi. Nel primo caso l’essere in questione ci è presentato in un modo imperfetto, nel secondo in un modo perfetto (cioè nello stato di per­ fezione richiesto dalla scienza) e che ci permette di servircene come di un principio primo d’intelligibilità (dal fatto che questa cosa è dotata di ragione per esempio, potrò dedurre che è capace di parla­ re, di ridere, di adorare Dio, eccetera). Ma nell’uno e nell’altro caso è molto chiaramente lo stesso essere che ci è presentato. E così, sup­ ponendo che io non conosca ancora, o anche che non possa mai co­ noscere quell’essere in una maniera distinta, come animale ragione­ vole, in se stesso non sarà per questo meno radice (senza che questa volta io sappia come), mediante i suoi elementi costitutivi, di tutte le caratteristiche che hanno in Pietro un principio che le esige per la sua nozione stessa; non sarà meno, in se stesso, l’essere primo della

cosa a titolo di principio primo d’intelligibilità.

I d q u o d p e r s e p r im o in te llig itu r in a liq u a r e , quello che un sog­

getto determinato è in primo luogo per l’intelligenza.

3) Sappiamo ora quali sono le caratteristiche d P essenza nel senso proprio della parola, e possiamo darne una definizione: l’essenza è l’essere necessario e

primo della cosa a titolo di principio primo d ’intelligi­ bilità, o anche ciò che la cosa è necessariamente e an­ zitutto come intelligibile', diciamo in breve: l’essere primariamente intelligibile della cosa108. Essenza UNA COSA È ì anzitutto come (propriamente detta intelligibile )

Ciò CHE

essere<

CIÒ che è {essenza in < senso largo)

Ciò CHE: soggetto d’azione (sostanza personale, persona)

ATTO d’essere

{esistenza)

160


CONCLUSIONE XII. — L 'e s s e n z a d ì u n a cosa è ciò ch e q u e sta cosa è n ecessa ria m en te e p r im a r ia m e n te a tìto lo d i p rin c ip io p r im o d sintelligibilità.

A questo dato primo delPintelligenza i filosofi danno non solo il nome di essenza , ma anche quello di q u id d ità o di n a tu r a . È ciò che Aristotele e gli scolasti­ ci chiamavano το τι ην είναι, il quod quid e s t 109 e che definivano id quod p er se prim o intelligitur in aliqua r e 110, definizione che noi conosciamo già, ma che ora

ha assunto un significato ben determinato.

a) Tale definizione, considerando l’essenza in senso largo, si­ gnificava «ciò che questa o quell *idea pone di primo acchito dinanzi all’intelligenza». Ma considerando l’essenza propriamente detta, significa «ciò che questo o quel soggetto è innanzitutto per l’intelli­ genza». b) Osserviamo che ogni oggetto di pensiero, che un’essenza qualsiasi (essenza in senso largo), si trova peraltro ad essere in realtà l’essenza di qualche cosa (essenza in senso stretto) percepita più o meno completamente (in queste o quelle fra le sue determinazioni). Pensando animale, colgo l’essenza di Pietro in una parte delle sue determinazioni; pensando uomo, io la colgo tutta intera; pensando ariano o bretone o Pietro, la percepisco tutta intera, con in più alcu­ ne particolarità o designazioni derivanti dalla materia (ved. più avanti pp. 164-168). Pensando corpo vivente dotato di sensibilità, afferro l’essenza intera di questo soggetto: l’animale (e colgo con­ temporaneamente l’essenza di questo soggetto: Pietro, in una parte delle sue determinazioni). Pensando bianco o prudenza, scorgo l’es­ senza di questa o quella qualità. Pensando bontà, unità, essere, in­ travedo qualche partecipazione creata dell’essenza divina (ovvero percepisco per analogia, se penso alla bontà sussistente, eccetera, l’essenza divina stessa). c) Osserviamo inoltre che ogni soggetto atto ad entrare in una qualsiasi proposizione111 ha un’essenza che gli appartiene in pro­ prio, si tratti di un soggetto individuale come Pietro (substantia pri­ ma, soggetto per eccellenza) o di un soggetto astratto e universale (substantia secunda) come l’animale, o di un accidente, come que­ sto colore o questa virtù, o di un trascendentale, come l’uno, il be­ ne, eccetera. d) L’essere primariamente intelligibile di una cosa è chiamato

essenza (ESS entia) per il fatto che, misurandosi Γintelligenza sul­ l’essere, ciò che una cosa è prima di tutto per Pintelligenza deve es­ sere ciò che è importante prima di tutto nella cosa dal punto di vista

161


deir essere stesso; e in realtà, come vedremo più avanti, è tramite l’essenza e in essa che l’essere ο Vesistenza (ESSE) conviene alla co­ sa, cioè le è congiunto112; è invece chiamato quiddità (QUIDc/z'tas), nel senso che esprime e fa conoscere la definizione, che risponde precisamente alla domanda «QUID est hoc! Che cos’è questo?» È chiamato infine natura (NATwrzz), nel senso che è il principio primo delle operazioni che la cosa è fatta (NATA) per produrre113.

La nostra intelligenza sarebbe vana e falsa, se non potesse cono­ scere le essenze delle cose.

D. La nostra intelligenza può afferrarla. — L’ telligenza ha nell 'essere il suo oggetto formale. D ’al­ tro canto, quel che abbiamo convenuto di chiamare l’essenza, non è altro che l’essere primariamente intel­ ligibile di una cosa. La nostra intelligenza pertanto può afferrare realmente le essenze delle cose114; negar­ lo sarebbe negare P intelligenza stessa e dire che essa fallisce necessariamente in ciò che è per eccellenza il suo oggetto. Inoltre, la nostra intelligenza pretende di farci co­ noscere le essenze delle cose, le scienze, che sono la sua opera, non avendo altro oggetto se non afferrare queste essenze, distintamente e per dedurne le proprie­ tà della cosa (come quando sappiamo di una figura che è un triangolo rettangolo, o di Pietro che è un ani­ male ragionevole), ovvero confusamente, unicamente per classificare la cosa in una specie e descriverla (co­ me quando sappiamo di un corpo che è acido solfori­ co o di un vegetale che è alismaplantago). Se pertanto la nostra intelligenza fosse incapace di cogliere real­ mente le essenze delle cose, sarebbe menzognera. La tesi fondamentale della veracità della nostra intelligenza pone quindi come conseguenza assolutamente necessaria che CONCLUSIONE XIII. — La nostra intelligenza può conoscere le essenze delle cose.

Non diciamo che la nostra intelligenza conosce sempre le essen­ ze delle cose (nell’integrità delle loro determinazioni). Sovente, le essenze specifiche delle cose sono da noi ignorate e non hanno no­ me: e questo a causa dell’imperfezione dell’intelligenza umana. Ma

162


diciamo che la nostra intelligenza può conoscerle (e pertanto le co­ nosce effettivamente in molti casi). Non diciamo nemmeno che la nostra intelligenza è sempre in grado di conoscere perfettamente (distintamente) le essenze delle c o se115. Che essa non possa molto spesso conoscerle se non confusamente11, poco importa; quel che è certo è che deve poterle afferrare. Così (facciamo un caso), l’occhio può vedere con una maggiore o minore abbondanza di dettagli precisi, con l’aiuto di una lente d’ingrandimento, per esempio, le cose colorate che sono alla sua portata; ma può vederle. È importante osservare che le scienze sperimentali sono ben lungi dal poter conoscere perfettamente l’essenza delle cose che stu­ diano. Esse non possono in effetti giungere a una nozione propria­ mente distinta di questa essenza, esse ne hanno sempre soltanto una nozione confusa o puramente descrittiva e la conoscono unicamen­ te, per così dire, alla cieca, grazie a segni indiretti. Così, per esempio, noi possiamo conoscere distintamente l’es­ senza o la natura uomo, distinguendo l’uomo dagli altri animali me­ diante la differenza specifica: dotato di ragione. Ma non possiamo sapere nello stesso modo come il cane, per esempio, differisce dal leone; non lo sappiamo se non per mezzo di caratteristiche differen­ ziali puramente descrittive. Spesso, anche, dinanzi a una serie di concetti di genere decrescente, come: corpo vivente, animale, ani­

male senza ragione, vertebrato, mammifero, canino, cane, cane barbone, sino a Dick o Full o Argo, possiamo ignorare mediante quale concetto (canino? cane? cane barbone?) ci viene designata (nell’integrità delle sue determinazioni) l’essenza di Dick o di Full o di Argo. Rimane vero che nella serie di concetti qui espressi e di quelli che vi si potrebbero intercalare, ci deve necessariamente esse­ re un concetto che designa questa essenza. (In realtà, nell’esempio scelto, è il concetto di cane', la zoologia ce lo insegna mediante segni indiretti, e senza poterci dare dell’essenza così còlta, una conoscen­ za propriamente distinta.)

E. L ’essenza è universale. — Pensando uomo, per esempio, così come un qualunque oggetto diretta- L’essenza è propria­ mente universale nel­ mente presentato alla mente in un’idea umana (idea la mente; considerata astratta), poniamo dinanzi a noi qualche cosa di in se stessa, non è in­ sprovvisto d ’individualità e che, essendo còlto da un dividuale. concetto solo, costituisce nella nostra mente un solo ed unico oggetto di pensiero, che di conseguenza è nel­ la nostra mente qualche cosa di uno (uomo) capace di essere in molti (in tutti gli uomini) o qualche cosa di universale (ved. sopra p. 85). Pertanto, tutto ciò che è direttamente afferrato da un’idea della nostra intel­ ligenza (e di conseguenza l’essenza delle cose), è nella k) Ved. sopra p. 160, testo a carattere minore.

163


nostra mente sotto uno stato di universalità. Indubbiamente, considerata nel reale, l’essenza è sotto uno stato di individualità poiché si trova in tal caso identificata al soggetto, a Pietro, per esempio, che è esso pure individuale116. Ma questo stato d’individualità non è della natu­ ra stessa o dell’intimo dell’essenza, non conviene al­ l’essenza di Pietro come tale o al suo titolo d’essenza. Se in effetti l’essenza considerata in se stessa (secun­ dum se) fosse individuale, la nostra intelligenza non potrebbe mai conoscerla, dal momento che ciò che è direttamente percepito da un’idea della nostra intelli­ genza, è percepito sotto uno stato di universalità. Considerata IN SE STESSA (secundum sé) l’essenza non è NÉ UNIVERSALE NÉ INDIVIDUA­ LE; essa fa astrazione da ogni stato e modo di esistere, es­ sendo puramente e semplicemente ciò che la cosa è in­ nanzitutto come intelligibile e ciò che esprime la defi­ nizione. Così, essa si ritrova tanto nella cosa e sotto uno stato di individualità (per esistere), quanto nella nostra mente, e sotto uno stato di universalità (per es­ sere conosciuta). Quel signore che non vediamo per per strada non vi si trova forse con un abito da passeg­ gio, mentre in casa sua ha un abito da casal Ma è proprio lui tuttavia che conosciamo quando lo vedia­ mo per la strada, poiché l’abito da casa non è della sua natura più di quanto non lo sia l’abito da passeg­ gio; né l’uno né l’altro convengono a questo uomo considerato in se stesso. Considerata in se stessa, l’es­ senza quindi non è universale, ma non è nemmeno in­

dividuale117: l’essenza come tale, l’essenza di Pietro considerata in se stessa, fa astrazione da tutte le carat­ teristiche che distinguono Pietro da Paolo e da Gio­ vanni118.

CONCLUSIONE XIV. — Le

essenze delle cose sono UNIVERSALI NELLA MENTE e CONSIDERATE IN SE STESSE

164


esse NON SONO né universali NÉ

INDIVIDUALI.

a) Questa proposizione ha un’importanza capitale. Se la si ne­ ga, si è costretti fatalmente ad accusare di suspicione Pintelligenza umana, che non può cogliere direttamente nei suoi concetti l’indivi­ duale come tale119; ne consegue che o si esigerà da essa più di quanto non possa dare, una scienza propriamente superumana (l’intuizione intellettuale dell’individuale), o si negherà il suo valore obiettivo e si cadrà nel soggettivismo. Teniamo dunque salda questa convinzione: che per conoscere

l'essenza o la natura di una cosa, non è necessario conoscere i prin­ cipi che costituiscono l'individualità di questa cosa110; l'essenza ef­ fettivamente, considerata in se stessa, non è qualcosa d'individuale. La non considerazione di questa verità fondamentale è alla radice degli errori dei grandi metafisici moderni, di Spinoza, per esempio, e soprattutto di Leibniz (intellettualisti all’eccesso), come anche di Bergson e degli anti-intellettualisti contemporanei. b) La natura individuale e la materia. — a) L’essenza delle co­ se corporali è universale, nel senso che abbiamo or ora spiegato. Questo significa che nell’ordine di queste cose vi è una moltitudine di individui che hanno la medesima essenza. Degli individui che hanno la medesima essenza, Pietro, Paolo, Giovanni, per esempio, sono al medesimo livello nell’essere prima­ riamente intelligibile; sono essenzialmente uguali. Questi individui nondimeno differiscono gli uni dagli altri. Pietro è biondo, piccolo, sanguigno; Giovanni è bruno, alto, bilio­ so, eccetera121. Simili caratteristiche, proprie a un individuo in particolare, non derivano dall’essenza, altrimenti sarebbero le stesse in tutti quegli individui, che per ipotesi hanno la stessa essenza: sono carat­ teristiche non essenziali. Tuttavia non sono forse, in realtà, immutabili e necessarie?122 Pietro sarebbe uomo senza dubbio, ma sarebbe Pietro se non fosse biondo, sanguigno, eccetera? Bisogna dunque dire che queste carat­ teristiche hanno la loro radice in quel che la cosa è necessariamente e primariamente, ma in quanto è individuale o in ciò che si può chiamare

LA NATURA INDIVIDUALE della cosa (natura individuale, cioè non condivisibile con qualunque altra cosa o, se si vuole, assolutamente delimitata).

p) In questa natura individuale troviamo, come nell’essenza, le caratteristiche: essere necessario e primo. Ma per contro (ed è que­ sto il punto importante) essa non è l’essere necessario e primo della cosa a titolo di principio primo d'intelligibilità, essa non è principio primo di intelligibilità. Le caratteristiche individuali, come biondo, sanguigno, eccete­ ra, non derivano, l’abbiamo detto, dall’essenza di Pietro, non sono da essa esigite. Questo vuol dire che esse

non hanno in Pietro un principio o una ragione che le esiga per la suo

165


nozione stessa

o per ciò che essa è, cioè per la sua propria intelligibilità (come ra­ gionevole, per esempio, esige capace di ridere). Tuttavia, essendo necessariamente possedute da Pietro, esse hanno sorgente in Pietro, nella natura individuale di Pietro; hanno qui unprincipio. Bisogna pertanto che esse abbiano qui come principio qualche cosa che non le esiga per la sua nozione stessa, o per il suo essere, o per la sua propria intelligibilità, qualche cosa nella nozione della quale l’intelligenza non può leggere l’esigenza di queste caratteri­ stiche piuttosto che di qualunque altra caratteristica. E questo che cosa significa se non che tale principio è in se stesso interamente in­ determinato! Se non esige questo piuttosto che quello per la sua no­ zione o per il suo essere o per la sua propria intelligibilità, ciò avvie­ ne perché esso non ha nozione né essere né intelligibilità per se stes­ so. Eccoci dinanzi ad un principio che per se stesso non è assolutamente niente di pensabile, dinanzi alla MATERIA PRIMA nel senso di Aristotele: qualcosa che può servire a costituire un esse­ re, che non è in sé un essere. Se si ammette che questa specie di non-essere faccia parte di tutte le cose corporali e che, reso esso stesso individuale da qualche determinazione123, sia la sorgente prima dell’individualità di queste cose, si comprende come le caratteristiche che derivano dalla natura individuale della cosa, avendo come radice prima la materia individuale, con le disposizio­ ni che essa comporta di fatto nel momento della produzione della cosa, abbiano come principio primo nella cosa un principio che non le esi­ ge per la sua nozione stessa, dato che esso stesso non ha né nozione né intelligibilità; le esige soltanto a causa delle disposizioni accidentali che comporta di fatto in quel momento. Pertanto, la natura individuale non è principio primo d’intelli­ gibilità, poiché è per mezzo della materia che essa è principio delle caratteristiche individuali'. y) Abbiamo solo voluto indicare qui come l’oscura nozione di

materia prima (lo studio della quale sarà affrontato solo in filosofia naturale) si impone naturalmente all’intelletto dal momento in cui si è compreso che, considerata in se stessa, Vessenza delle cose cor­ porali non è individuale, proposizione richiesta proprio dalla tesi fondamentale della veracità della nostra intelligenza. Sottolineiamo ancora che poiché la materia, questa specie di non-essere, viene considerata come individuante (e quindi come pri­ ma radice di certe determinazioni)124 solo nella natura individuale

') Si osservi a questo punto, per evitare ogni confusione, che la natura individuale non è inintelligibile in se stessa; è la materia prima che è inintelligibile in se stessa; la natura indi­ viduale non è principio primo d*intelligibilità, essa non è l’essere primariamente intelligibi­ le della cosa, è tuttavia dell’essere (è l’essenza considerata sotto lo stato d’individualità che proviene dalla materia) e di conseguenza è intelligibile in se stessa. Per questo, un’intelli­ genza più perfetta della nostra, l’intelligenza divina, per esempio, può conoscerla direttamente.

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(nella natura di Pietro come tale) e non nelYessenza (nelPumanità), si può guardare all’essenza o all’essere primariamente intelligibile come all’essere puro da tutte le determinazioni dovute alla materia come prima radice, o come all’essere immateriale125, diciamo anche come alL’ESSERE ARCHETIPO della cosa126, essere ideale che non esiste allo stato puro o separato se non nella mente e che non esiste nel reale se non individualizzato dalla materia (allo stato concreto di natura individuale). Bisogna di conseguenza dire che nella natura individuale non c’è nulla di più che nell’essenza dal punto di vista dell*essere prima­ riamente intelligibile o dell’essere archetipo127. Da questo punto di vista, tutti gli individui di una specie sono allo stesso livello d’esse­ re; conoscere la loro essenza (universale) significa conoscere tutto ciò che vi è da conoscere in essi: l’essere di Pietro in quanto Pietro non è più completo o più determinato che l’essere di Pietro in quan­ to uomo; è soltanto più delimitato. Si comprende perciò che l’intelligenza umana, se non può co­ noscere direttamente nella sua individualità l’essere delle cose, non manca per questo alla sua natura di intelligenza né al suo oggetto formale, poiché essa conosce bene l’essere delle cose in quanto pri­ mariamente intelligibile e in quanto essere archetipo125. Essa è per­ tanto imperfetta, ma non è vana né falsa. d) Notiamo che i termini sinonimi, essenza, quiddità, natura, che designano tutti e tre un universale, possono essere tirati sino a signi­ ficare qualche cosa di singolare, quando si considera l’essenza (l’u­ manità, per esempio) secondo che è individualizzata dalla materia (in Pietro, per esempio), in altre parole secondo che è nel reale un modo d’esistenza singolare. Per parlare con esattezza, tuttavia, il termine natura può sol­ tanto comportare l’epiteto individuale, mentre le espressioni essen­ za individuale o quiddità individuale sono improprie129. Si è visto in realtà che i termini essenza e quiddità si usano in ri­ ferimento d\Yesistenza e alla definizione della cosa. Ora, la defini­ zione non può esprimere che l’essereprimariamente intelligibile del-

ciò CHE essere ◄

CIÒ che è: essenza in ^ senso largo

UNA

COSA È

Ciò CHE anzitutto come intelligibile: essenza, 1 quiddità o natura Ciò CHE come assolutamente delimitato (essenza individualizzata dalla materia):

natura individuale. ciò CHE: soggetto d’azione {sostanzapersonale, persona). ATTO d’essere:

esistenza

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la cosa; poiché essa fa conoscere gli elementi costitutivi della cosa i quali sono in essa, mediante la loro nozione stessa, principi d’intel­ ligibilità; essa non può quindi assegnare i principi materiali indivi­ duanti della cosa, ed è per questo che la natura individuale come ta­ le non è definibile. Pertanto, la quiddità, cioè quel che la cosa èt considerata come definibile, non potendo consistere se non nell’es­ sere primariamente intelligibile della cosa, non può essere che uni­ versale. Allo stesso modo, ciò in ragione del quale la cosa richiede quella perfezione suprema che consiste nell 'esistere, non può essere evidentemente altro che l'essere immateriale della cosa; poiché non è grazie a ciò che in essa ha come puro principio la materia, che essa richiede resistenza: Γindividualità della cosa pertanto non è che una condizione sotto la quale si deve trovare per esistere. E Yessenza, cioè quel che la cosa è considerata precisamente come ciò in ragione del quale la cosa riceve resistenza, non potendo consistere se non ne\Vessere immateriale di questa, non può essere altro che universa­ le130. Al contrario, il termine natura si usa in riferimento alle opera­ zioni che la cosa è fatta per produrre. Ora, la cosa non agisce sol­ tanto secondo il suo essere archetipo, o primariamente intelligibile, ma anche secondo che essa si trovi sotto determinate condizioni ma­ teriali ed abbia una determinata individualità. Nulla impedisce per­ tanto che la parola natura sia distolta dal suo significato primo per designare in secondo luogo ciò che la cosa è a titolo individuale. ε) Osserviamo infine che in una serie di concetti come sostan­ za, corpo vivente, animale, uomo, ariano, bretone, eccetera, il con­ cetto uomo designa soltanto propriamente l’essenza di Pietro: i con­ cetti sostanza, corpo vivente, animale non designano se non certi elementi o aspetti intelligibili costitutivi di questa essenza, in altre parole non designano questa essenza se non in una parte delle sue determinazioni; e i concetti ariano o bretone non indicano questa essenza se non delimitata e differenziata da certe note addizionali, che provengono dalie disposizioni della materia. Ariano o bretone sono quindi, come l’essenza uomo, oggetti di pensiero universali percepiti dalla mente nell’individuo Pietro, e purificati, mediante l’astrazione, dalle condizioni della materia individuale, ma si tratta di universali meno estesi dell’essenza, i quali convengono solo ad una certa classe {razza) estratta in una moltitudine di individui aventi la stessa essenza e che, non potendo essere delimitati se non grazie a caratteristiche di cui certe disposizioni della materia sono la radice, non possono comportare una nozione propriamente distinta o una definizione vera.

*51 LA SOSTANZA E L’ACCIDENTE. A. G e­ nesi di queste nozioni. — Ponendoci dal punto di vista dt\V intelligibilità, ci siamo chiesti — nel paragrafo

precedente — qual è l’essere primariamente còlto dall’intelligenza precisamente da questo punto di vista. Siamo giunti così alla nozione dell’essen za propria­ mente detta o della natura (questi due termini possono

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essere considerati sinonimi)"1: ciò che una cosa è anzi­ tutto come intelligibile.

Consideriamo ora Tessere delle cose non più in ri­ ferimento alPintelligibilità, ma in riferimento all’ESISTENZA.

1) Qual è, da questo nuovo punto di vista, Fessere che s’impone immediatamente alla considerazione dell’intelligenza e al quale essa si volge in primo luo­ go? In altri termini, qual è l’essere primariamente còl­ to dall’intelletto, in quanto esistente? A questo pro­ blema abbiamo già risposto"; ciò che la nostra mente coglie innanzitutto come esistente, sono degli esseri come Pietro, Paolo, questo uomo, questo cane, que­ sto uccello, soggetti individuali concreti e indipenden­ ti, interamente equipaggiati per essere e per agire e che abbiamo chiamato PRIMI SOGGETTI D ’AZIONE (sostanze personali o persone)0. È qui ciò che esercita anzitutto l’atto d’essere. Come definire il soggetto d’azione in rapporto al­ l’esistenza? Esso esiste per sé unicamente o per i suoi propri mezzi, non nel senso che non abbia bisogno di una causa (Pietro è stato generato e molte cause con­ corrono a conservarlo nell’essere), ma nel senso che egli basta a se stesso per essere fuori del nulla mediante le cause delF essere; considerato a parte, ha m se o nella sua propria natura tutto ciò che è necessario per ricevere l’esistenza131: diciamo in tale senso che è UN ESSERE ESISTENTE PER SE STESSO (perse) o in ragione di se stesso, in ragione della sua propria natura, ens p er se exsistens. Un tale essere esistente come un tutto e per nulla affatto come parte di un es­ sere o di un soggetto nel quale esisterebbe, si può dire anche che esiste in se stesso, in se. Un essere che esiste per se, o meglio132, un essere

Il soggetto d’azione

ovvero Cl° CHEan-

m) Ved. sopra p. 160 e pp. 167-168. ") Ved. sopra p. 155.

°) Si riserva il nome di persona alle sostanze personali che sono di natura intellettuale, di conseguenza padrone delle loro azioni e al vertice dell’indipendenza.

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immediatamente capace di esistere per se, ecco dun­ que, se ci si pone dal punto di vista dell’esistenza, il dato primo dell’intelligenza. Osserviamo che, volgen­ dosi a questo essere, Pintelligenza supera i limiti che defini­ scono ì ciò CHE UNA COSA È l’essenza (o ciò PER CUI) CIÒ che è: J propriaessenza in ciò CHE anzitutto mente senso largo esiste: primo soggetto detta o d'azione (sostanza essere < la natura personale, persona)

(ciò che

ATTO d’essere:

una cosa esistenza è, o me­ glio — se si prende l’essenza allo stato puro, considerandola separatamente dal soggetto in cui si trova — , ciò per cui una cosa è quello che è)133; si tratta qui, come pri­ ma abbiamo detto, di ciò che è nel senso proprio, di Pietro , per esempio, e non di ciò per cui Pietro è quel che è (de\V umanità, determinazione di Pietro a causa della quale egli è uomo, o della sua natura individua­ le, dell 'umanità petrina , si potesse dire così, per opera della quale egli è Pietro).

Indubbiamente, non sussiste in ciò che è, non sussiste in Pietro, quanto a note distintive, nulla di più di ciò che egli è ovvero della sua natura (individuale), ma quando dico PIETRO, concepisco questa natura come costituente il tutto che non esiste in nuli’altro che in lui134; quando al contrario dico LA NATURA DI Pietro, concepisco tale natura come distinta dal tutto che essa serve a costi­ tuire e come esistente in lui, in questo tutto135. In breve, il soggetto d’azione ha una natura o essenza e la nozione di questa natura o es­ senza considerata come tale ( ciò che una cosa è o ciò per cui) non è quella del soggetto d’azione (ciò che).

2) Consideriamo ora questa natura o essenza del soggetto d’azione. Abbiamo appena detto che il sog­ getto d’azione esiste (è idoneo a esistere) in ragione della sua propria natura o della sua propria essenza136. La natura o l’essenza del soggetto d’azione è pertanto ciò per cui esso è idoneo a esistere puramente e sempli-

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cernente (,simpliciter); la natura di Pietro considerato come soggetto d’azione è ciò per cui posso dire pura­ mente e semplicementep che Pietro esiste.

La n a tu r a del sogget­ to d’azione o CIÒ PER CUI esso è ido­ neo a esistere pura­ mente e semplicemente. semplice-

3) A colpo sicuro, esistere puramente e mente è per Pietro P esistenza primordiale o primaria. Pietro tuttavia esiste solo a questo titolo? Egli è oggi triste, ieri era contento; esiste oggi in quanto triste, esisteva ieri in quanto contento; ha perduto uno di questi esistere, ha acquisito l’altro, ma non ha cessato di esistere puramente e semplicemente. Vi è dunque in lui una quantità di determinazioni secondarie, in ra­ gione delle quali egli esìste non più soltanto simplici­ ter, ma anche sotto questo o quel rapporto (secundum quind). Così perciò è, per esempio, musicista o filoso­ fo, malato o in salute, contento o triste, eccetera; tutte queste determinazioni vengono ad aggiungersi (acci­ dere) a ciò che egli è primariamente per esistere, sono degli esseri di sovrappiù, degli ACCIDENTI. Filosofia, salute, gioia, tristezza, altrettante es­ senze137 alle quali la nostra attenzione non si era rivol­ ta sino ad ora e che non stanno esse stesse nell’essere; al contrario, sono conservate nell’essere solo come dei rivestimenti, per così dire, del soggetto d’azione. Per analogia con le cose sensibili, si può dire metaforica­ mente che questi si tiene sotto gli accidenti (sub-stat) e

Contrariamente agli accidenti, la nozione

p) Cioè senza far menzione di alcun punto di vista particolare, senza modificare il mio pensiero con una qualche aggiunta.

171


di s o s t a n z a si esplici­ ta come conveniente al soggetto d’azione e alla sua natura costi­ tutiva.

Definizione della so stanza.

che li sostiene. Lo si chiamerà pertanto, da questo punto di vista, una sostanza 138; così, per esempio di­ ciamo: «Pietro è una sostanza». Quanto alla sua natu­ ra considerata precisamente come tale (ciò che egli è, ciò per cui egli è quel che è, ciò per cui è capace di esi­ stere puramente e semplicemente), dal momento che essa si tiene sotto gli accidenti esattamente come lui, il nome di sostanza conviene pure ad essa. Si dice quin­ di, per esempio: «La sostanza di Pietro». Ecco la no­ zione di SOSTANZA messa in evidenza esplicitamente, in opposizione a quella di accidente139. B) La sostanza. — Il nome di sostanza conviene contemporaneamente (lo abbiamo appena detto) al soggetto d'azione stesso (ciò che prima di tutto esiste) e alla natura di questi, considerata precisamente come natura o essenza (ciò che una cosa è, ciò per cui il sog­ getto d’azione è quel che è, e chiede di esistere pura­ mente e semplicemente)140. Come definire dunque la sostanza? Mediante l’espressione essere ricevente tra­ mite se stesso (per se) oppure in ragione di sé l'esisten­ za, ens per se, nel senso assoluto in cui l’intendevamo prima? No, poiché questa espressione così intesa si applica esclusivamente al soggetto d'azione: assolutamente parlando, lui solo (Pietro, per esempio) esiste come un tutto e non come parte di un essere o sogget­ to in cui esisterebbe. La sua natura invece fa parte di lui ed esiste in lui, la natura di Pietro esiste in Pietro e fa parte di Pietro. È vero che essendo Pietro stesso costituito da essa natura ed esistendo per suo mezzo (per earrì), tale natura non esiste in qualcosa di già esistente che la riceve (come la tristezza, per esempio, esiste in Pietro già esistente). Si può dire quindi che es­ sa esiste (è idonea a esistere) per se, in questo senso preciso: che essa non ha bisogno per esistere di essere parte di un altro essere già esìstente che la riceverebbe in sé; al contrario, essa costituisce il tutto (il soggetto d’azione) che sta in se stesso per esistere. In questo senso e alla condizione di precisarne e di limitarne la portata, l’espressione ens per se exsistens può conve­ nire non soltanto al soggetto d’azione, ma anche alla natura di questi, può dunque servire a designare la sostanza141.

172


(E accade la stessa cosa con l’espressione ens in se

exsistens.) Diremo pertanto142 che la sostanza è una cosa o una natura fatta per esistere per sé o in ragione di sé (per se), e non in un*altra cosa, in alio , cioè in un sog­ getto già posto nell’essere143. (Si dice parimenti che la sostanza è una cosa o una natura alla quale conviene di esistere in sé .) CONCLUSIONE XV. — La sostanza è una cosa o una natura alla quale conviene di esistere per sé o in ragione di sé (per se), e non in un*altra cosa.

a) È chiaro che l’idea di sostanza corrisponde ad una cosa che esiste realmente. Se non esistesse sostanza alcuna, alcuna natura fatta per esistere in sé, questo significherebbe che non esistono altro che nature fatte per esistere in un’altra cosa. Ma allora dovendo questa natura esistere in quella, e quella in quell’altra, eccetera, si andrebbe all’infinito senza poter mai trovare un essere nel quale esistono tutte queste nature, e queste non potrebbero esistere. I filosofi che, come Fichte (XIX secolo) si sono attaccati alla sostanza morta dei latini per opporle l’Azione e il divenire germani­ ci lottavano contro l’intelligenza stessa, che non può assolutamente fare a meno della nozione di sostanza e che ci impone questa nozio­ ne come un dato assolutamente primo e immediato. Inoltre, ciò che essi intendevano per sostanza e che dichiaravano morto, inerte, ec­ cetera, non era che un fantasma della loro immaginazione. Poiché la sostanza non è un ricettacolo vuoto, un supporto inerte e morto. Essa è Cessere assolutamente primordiale della cosa, il principio profondo della sua attività e di tutta la sua attualità. Substantia est primum ens, come dice Aristotele144. Ma per comprendere questo bisogna che il filosofo usi la sua intelligenza, si innalzi al di sopra della vita animale dei sensi e non si accontenti di maneggiare delle parole vuote di concetti, cariche solo d’immagini materiali. b) La sostanza di una cosa, finché questa esiste, è immutabile come tale145. La sostanza di Pietro è ciò che per cui Pietro esiste puramente e semplicemente, o in quanto è Pietro. Finché Pietro esiste, la sua sostanza come tale non può pertanto cambiare. E quando la sostan­ za stessa di Pietro cambia (quando il suo corpo diviene un cadavere senz’anima), Pietro non esiste più, è morto. c) Per se stessa, infine, è invisibile, inaccessibile per i sensi. I sensi infatti non colgono l’essere come tale, essi ci presentano solo direttamente il variabile e il mobile. In un certo modo è vero, è

173


proprio la sostanza di Pietro che i miei occhi vedono, come è pro­ prio Gesù che vedevano i discepoli a Emmaus; ma i miei occhi non colgono così la sostanza se non nella realtà e materialmente, non

formalmente. In altri termini, l’oggetto visto o toccato è qualche cosa che, nello stesso tempo in cui è visto o toccato, è anche sostanza; ma non è visto o toccato in quanto sostanza. In quanto sostanza è concepi­ to, e non visto né toccato; e in quanto visto e toccato, è qualcosa di colorato e di resistente, non è essere e sostanza. È quello che i filo­ sofi esprimono dicendo che la sostanza è intelligibile per se stessa (perse), e dicendo che è sensibile solo per accidente {per accidens). Perciò, quello che più ci preme nelle cose sfugge alla presa di­ retta dei nostri sensi e della nostra immaginazione, è pure oggetto d’intelligenza, poiché l’intelligenza soltanto afferra l’essere sotto l’ordine dell’essere {sub ratione entis).

d) Si osservi che se la sostanza nelle cose, dal punto di vis dell’esistenza, è l’essere al quale si volge l’intelligenza anzitutto e di primo acchito, per contro, al fine di conoscere non solo che questo soggetto ha una sostanza, ma in che cosa consiste tale sostanza, qual è la sua natura, noi dobbiamo necessariamente basarci su ciò che la manifesta ai nostri sensi, cioè sulle operazioni, i fenomeni, o accidenti della sostanza. In questo senso conosciamo la sostanza mediante gli accidenti.

ne finizione deiracci-

dente

C. L ’accidente. — Prendiamo ora in considera­ zione cose come il ridere, il moto, la tristezza, la gioia, il colore, eccetera, che vedo in Pietro e che danno a Pietro la possibilità di esistere sotto certi rapporti. Queste cose sono atte a esistere. Ma esistono nello stesso modo in cui esiste la sostanza? Evidentemente no. Esse hanno bisogno, pe esistere, di appartenere a un altro essere già esistente9, esistono come qualche co­ sa di un essere o di un soggetto già esistente. Diciamo in questo senso che esistono in un’altra cosa diversa

da loro146.

CONCLUSIONE XVI. —

L ’accidente è una natura o un’essenza a cui conviene esistere in un’altra cosa.

q) Già, se non con una priorità di tempo, almeno con una priorità di natura.

174


Si comprende con ciò come un accidente è sì un essere, ma che non esiste tuttavia come un essere; è es­ senzialmente di un essere, ens entis, è fatto per esistere solo a titolo di complemento o di compimento di un essere. Pertanto il termine essere si applica all’àccidente solo in un senso secondario e obliquo; e mentre l’essere, nel significato primo della parola, è, dal pun­ to di vista dell’esistenza, il soggetto d’azione, in modo che la nostra intelligenza si volge immediatamente e da se stessa al soggetto d’azione e alla sostanza, a ciò che esiste in sé, ci è difficile in realtà concepire bene l’accidente; ci occorre pertanto elaborare la nostra idea dell’essere, renderla malleabile, affinarla, piegar­ la al reale, in breve, cogliere per analogia con la so­ stanza l’accidente, che ad essa si oppone.

a) Per il solo fatto che usiamo il sostantivo «Γaccidente», ri­ schiamo di rappresentarci Faccidente come una sostanza, come un pezzo di sostanza o una sostanza diminuita. Anche per opera del­ l’immaginazione, considereremo allora gli accidenti e i fenomeni come frammenti di materia incastrati in un supporto, come un rivestimento di mosaico o di intarsio; coloro che pongono dietro alle parole accidente o fenomeno simili fantasticherie, costeggiano sol­ tanto la nozione di accidente, non concepiscono in raltà che delle pseudosostanze ed è del tutto inutile che tentino di filosofare anco­ ra. Uno sforzo originale dell’intelligenza, che elabori la nozione del­ l’essere, è qui assolutamente necessario. b) Gli accidenti sono qualcosa di reale e di realmente distinto dalla sostanza. È chiaro, per esempio, che cose come un atto di pensiero o un moto di commozione non possono confondersi con la nostra so­ stanza, poiché queste cose passano e mutano in noi, senza che passi o che muti la nostra sostanza, che è immutabile come tale, finché esistiamo. Queste cose tuttavia sono delle raltà che ci toccano nel­ l’intimo. Esse sono quindi realmente distinte dalla sostanza in cui hanno l’esistenza o, come si dice, alla quale esse ineriscono. Vi sono pertanto accidenti contingenti (cioè che possono mancare al sogget­ to), reali e realmente distinti dalla sostanza. Ma se il cambiamento, mostrandoci che vi sono nel soggetto delle cose che passano, è per noi un mezzo per giungere alla nozione di accidente, esso non è affatto una caratteristica necessaria di ogni accidente. Vi sono cose che non possono mancare ad un soggetto e che tuttavia sono accidenti, esseri di sovrappiù che completano la sostanza. La nostra intelligenza stessa, per esempio, e la nostra vo­ lontà sono evidentemente qualche cosa di reale in noi. Ma non si possono confondere con la nostra sostanza (poiché ne abbiamo un concetto distinto interamente esteriore a quello di sostanzar, cosa che sarebbe impossibile se non differissero da questa per la loro es-

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senza)147. L’intelligenza e la volontà perciò sono in noi cose reali distinte dalla nostra sostanza, degli accidenti di conseguenza (che appartengono, come vedremo più avanti, alla categoria qualità). Vi sono pertanto accidenti necessari (cioè che non possono mancare al soggetto), reali e realmente distinti dalla sostanza.

c) Le diverse scuole che si oppongono le une alle altre sul pr blema della sostanza, possono essere rappresentate sommariamente nello schema seguente:

Filosofia di A ristotele e di Tommaso. Vi sono tante sostan­ ze quanti sono gli indivi­ dui. Mediante la sua so­ stanza ognuno di essi ha Tessere primo; ma vi sono in ciascun individuo acci­ denti reali e realmente di­ stinti dalla sostanza.

Sostanzialisti.

Fenomenisti.

Non vi sono accidenti reali e realmente distinti dalla sostanza, che è l’uni­ ca realtà (Descartes, Leib­ niz, e soprattutto Spino­ za. Panteisti tedeschi del XIX secolo).

Non esiste la sostan­ za; gli accidenti che ap­ paiono ai sensi o alla co­ scienza (fenomeni) sono l’unica realtà (sensualisti in glesi, scuola neocriticista. Filosofia del di­ venire puro).

Descartes negava che esistessero accidenti reali e realmente di­ stinti dalla sostanza; per lui, la sostanza corporale si confondeva con l’estensione e la sostanza dell’anima con l’atto stesso di pensa­ re. Con ciò egli avviava la filosofia su una strada che non poteva portare se non al panteismo (in effetti dal momento in cui non vi so­ no accidenti distinti dalla sostanza, ogni sostanza è la sua azione, perfezione che appartiene a Dio solo — e il concetto della sostanza s’identifica con quello dell’essere assoluto di Dio, in cui tutto allora si confonde); oppure, se si vuole evitare il panteismo, alla negazione della sostanza, che ci si sforza di esorcizzare e di bandire dall’intelli­ genza umana. Spinoza ha costruito sui principi cartesiani un monismo e un panteismo assoluti, ai quali Leibniz cerca invano di sfuggire, sosti­ tuendo all’unica sostanza spinozista una moltitudine infinita di so­ stanze individuali (monadi), moltiplicando per così dire il Dio di Spinoza in un polverone infinito di dèi. Benché respingano la nozio­ ne di sostanza per sostituirle quella di divenire o di evoluzione e

r) Noi concepiamo distintamente l’intelligenza come un potere di conoscenza avente Tes­ sere come oggetto; la volontà come un potere di appetizione avente il bene come oggetto; la sostanza come una natura o essenza cui conviene esistere in sé. Questi tre concetti sono interamente esteriori l’uno all’altro.

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benché facciano della cosa in sé uno sfondo della mente che produ­ ce l’oggetto e non più un oggetto che s’impone alla mente, i metafi­ sici tedeschi successori di Kant ( Fichte, Schelling, Hegel) possono essere collegati allo sostanziammo panteistico, nel senso che pongo­ no un unico principio che, sviluppandosi, costituirebbe la trama e la realtà di ogni cosa. Dalla parte fenomenista, i sensualisti ed associazionisti inglesi pretendono che gli stati di coscienza (sensazioni, emozioni, idee, ec­ cetera) siano la sola realtà che noi possiamo cogliere e vogliono spiegare tutto in psicologia mediante Passociazione di tali stati fra loro; i filosofi del divenire puro {Bergson, che si rifà ad Eraclito con un salto di 25 secoli) pretendono che non vi sia nulla di stabile nelle cose e che il cambiamento, senza soggetto che cambi, sia la sola realtà. (In psicologia questi filosofi si oppongono ai precedenti per il fatto che sostituiscono una corrente continua di coscienza (W. Ja­ mes) ad un mosaico o ad una moltitudine di stati di coscienza. Ma sono egualmente nemici della nozione di sostanza.) Kant (XVIII secolo) aveva sostituito la distinzione di sostanza ed accidenti nelle cose (sostanza ed accidenti ugualmente conoscibi­ li, la prima mediante i secondi (ved. sopra p. 174, d), con l’opposi­ zione di due mondi separati, il mondo delle cose così come sono in se stesse (cose in sé, noùmeni) e il mondo dei fenomeni costruito dalla nostra mente. Per lui la cosa in sé era interamente inconoscibi­ le, egli però ne affermava l’esistenza. È a questa cosa in sé, ricercata dalla parte del soggetto, che si attaccheranno i panteisti tedeschi del XIX secolo. Renouvierei neo-criticisti francesi dichiareranno inve­ ce che la cosa in sé, che la sostanza è non solo inconoscibile, ma as­ solutamente inesistente, e che il concepirla è una chimera. I vari filosofi fenomenisti di cui abbiamo ora parlato non vedo­ no che quel che essi distruggono in realtà è l’accidente, non la so­ stanza: ciò che chiamano fenomeni non è, a dire il vero, che una pseudo-sostanza pensata con un concetto disonorevole in se stesso e contraddittorio; una sostanza polverizzata o liquefatta o svuotata di sussistenza reale, non è l’accidente, essere di un essere, puro complemento d’essere, e che non può essere concepito se non corre­ lativamente alla sostanza. Non avendo mai compreso veramente la sostanza e ponendo, sotto il nome di fenomeni, delle pseudo­ sostanze, è naturale che essi si rifiutino di riconoscere un’altra so­ stanza dietro a queste pseudo-sostanze che immaginano.

D. Individualità della sostanza. — L’essere pri­ mariamente còlto dall’intelligenza dal punto di vista dell’esistenza, cioè la sostanza, è qualche cosa di indi­ viduale. L’intelligenza effettivamente lo percepisce come individuale, poiché non coglie l’essere delle cose se non volgendosi verso le sensazioni e le immagini, che ci mostrano le cose sotto le condizioni dell’esisten­ za e ce le mostrano nella loro individualità. Del resto, nella realtà può esistere solo ciò che è interamente racchiuso e delimitato nella sua natura, vale a dire ciò che è individuale.

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La sostanza nel signi­ ficato primo della pa­ rola (s u b s ta n tia p r im a ) è individuale.


La sostanza nel se­ condo significato del­ la parola (s u b s ta n tia s e c u n d a ) è univer­ sale.

a) È vero che la nostra intelligenza non può conoscere dirett mente questa sostanza nella sua individualità; essa sa soltanto, vol­ gendosi verso le immagini da cui trae le sue idee, che questa sostan­ za è individuale, non sa in che cosa consiste la sua individualità e la sostanza di Pietro le è mostrata direttamente solo mediante un’idea universale. La sostanza di Pietro così percepita, fatta astrazione dalla sua individualità, non è altro allora che la natura di Pietro considerata nelle determinazioni che costituiscono Vessenza pro­ priamente detta di Pietro. E poiché si dice dell 'uomo che si muove, che ride, che ha un’intelligenza e una volontà, eccetera, come lo si dice (primariamente e innanzitutto) di Pietro o di Paolo, poiché di conseguenza la proprietà di stare sotto gli accidenti, che appartiene in proprio al soggetto e alla sua natura individuale, passa oltre la natura del soggetto disindividualizzato dall’astrazione, si chiamerà ancora sostanza (ma in un senso secondario, substantia secunda) la natura di Pietro afferrata dopo aver fatto astrazione della sua indi­ vidualità, cioè l’essenza universale uomo o umanità. Si chiamerà in­ vece sostanza nel primo significato, substantia prima, la sostanza individuale148.

b) Si comprende con ciò che, se si considera l’essere primari mente còlto dall’intelligenza nelle cose materiali, l’accento si pone sia sull’essere individuale sia sull’essere universale, secondo che questo essere primariamente còlto è considerato in riferimento all 'esistenza o in riferimento all’intelligibilità. In riferimento all’intelligibilità, l’essere primariamente còlto nelle cose dall’intelligenza è Vessenza propriamente detta, che in se stessa non è individuale e che esiste nella mente sotto uno stato di universalità; ed è in un senso improprio che il termine essenza verrà applicato all’essenza individuata dalla materia individuale (cioè alla

natura individuale). Al contrario, in riferimento all’esistenza, l’essere primariamen­ te còlto nelle cose dall’intelligenza è la sostanza individuale149; ed è in un senso secondario che il termine sostanza verrà applicato alla natura disindividualizzata dall’astrazione (cioè all’essenza propria­ mente detta)150. Ricordiamo ciò che è stato detto prima (ved. sopra p. 165, b) riguardo alla natura individuale. Vediamo subito come occorre raggruppare151 i differenti concetti che abbiamo incontrato sino ad ora:

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c) Per se, a se, in se. — Per definire la sostanza, siamo ricorsi all’espressione di cosa a cui conviene esistere da sé {per sé) o anche in sé (in sé). Bisogna precisare con cura il significato di queste espres­ sioni. Si dice che una cosa esiste in sé {in se) quando non esiste come parte di un tutto già esistente, ma quando costituisce il tutto stesso che esiste. Così Pietro esiste in sé. Si dice che una cosa esiste da sé o in ragione di sé (per se), quando è in ragione di se stessa o della sua propria natura che è po­ sta nell’esistenza {mediante le cause da cui dipende, se si tratta di una sostanza creata). Così Pietro esiste p erse 152. Questa espressione per se è molto usata in filosofia. Significa sempre in ragione di se stessa, in ragione della sua propria essenza, (per suam essentiam), sia che l’attributo considerato faccia parte dell’essenza della cosa o ne derivi necessariamente come dal suo principio (in tale caso per se si oppone a per accidensy, sia che si voglia dire semplicemente che l’attributo considerato conviene im­ mediatamente alla cosa, che non lo riceve mediante altra cosa che non sia la sua propria essenza (in tale caso per se si oppone a per aliud. Così il soggetto d’azione esiste perse, mentre l’accidente esi­ ste per aliud). Ma questa espressione per se non significa affatto « in ragione di sé o della propria natura COME PRINCIPIO ASSOLUTAMENTE PRIMO, O COME RAGIONE INTERA E ULTIMA». Vi è qui qualcosa di completamente diverso, che si esprime con la locu­ zione a se, da sé (che si oppone a ah alio). Ciò che è a se è evidentemente perse, ma ciò che è perse, non è

In s e .

P er se.

A se.

s) Così Pietro è perse vivente, intelligente, dotato della facoltà di ridere, l’artista è perse un creatore di oggetti. Ma Pietro è per accidens colpito dall’influenza o erede di una gran­ de fortuna, l’artista è per accidens celibe o sposato, eccetera.

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affatto per ciò stesso a se. Quel che esiste a se oda sé, avendo in se stesso TUTTA la ragione della propria esistenza, è non causato; Dio soltanto è da sé, a se. Al contrario, le sostanze create (soggetti d’azione creati) sono causate; esistono per se, in ragione della loro essenza, ma non esistono a se. Esse hanno nella loro natura tutto ciò che occorre per ricevere 1’esistenza, ma non per godere di un’e­ sistenza non ricevuta. Esse bastano a se stesse per esistere sotto questo aspetto esattamente, che cioè non esistono come qualche co­ sa di un altro essere; ma assolutamente parlando, non bastano af­ fatto a se stesse per esistere. Ciò che è a se non può cessare di esiste­ re; ciò che è perse senza essere a se può perdere l’esistenza5bis. La distinzione fra ciò che esiste a se e ciò che esiste per se è per­ fettamente chiara. Alcuni filosofi tuttavia l’anno trascurata, parti­ colarmente Spinoza, che attribuisce Vaseità (a - se - itas) ad ogni sostanza (donde consegue immediatamente che non vi è una sola sostanza e che tutto è Dio, monismo e panteismo). Quando in realtà Spinoza definisce la sostanza ciò che è in sé ed è concepito da sé, in­ tende effettivamente, come è dimostrato dal contesto153, ciò che ha bisogno soltanto di sé assolutamente per essere e per essere concepi­ to. Già Descartes aveva definito la sostanza in una maniera anfibo­ logica res quae ita exsistit ut nulla alia re indigeat ad exsistendum154.

*52 L’ATTO E LA POTENZA. A. Genesi di queste nozioni. — Esaminando l’essere dal punto di vista dell’intelligibilità, successivamente dal punto di vista dell 'esistenza, abbiamo visto che l’oggetto pri­ mariamente còlto dall’intelligenza, l’essere nel senso primo della parola, è nel primo caso ciò che si chiama l’essenza, nel secondo, ciò che si chiama la sostanza. Consideriamo ora l’essere delle cose (prendendo questa parola essere nel suo significato più generale e più indeterminato) dal punto di vista dell’AZIONE, in riferimento al modo in cui le cose si comportano nella realtà o, se si vuole, in riferimento a ciò che fan­ no le cose. Da questo nuovo punto di vista ci apparirà un terzo senso primo della parola essere.

ii principio d identi-

tà.

1) Qual è la prima verità afferrata dall’intelligen­ za, dal momento in cui ha formato la nozione dell’essere? Basta che consideri questa nozione, ed essa vede immediatamente che ciò che è, è (principio d’identi-

5>bis) Si osservi che in francese F espressione da sé può generare equivoco, e significare sia perse sia a se. Donde un rischio di confusione contro il quale si deve stare in guardia. Pe­ raltro, converrà usare esclusivamente da sé per tradurre a se, e per sé o in ragione di sé per tradurre per se.

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tà), o anche che ciò che è, non può non essere nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto (principio di non-contraddizione). Questo significa dire che ogni cosa è ciò che è, che è solo ciò che è, e che è tutto ciò che è. E le cose, che cosa fanno le cose? Come si com­ portano nella natura? Qual è il primo fatto d’espe­ rienza còlto dai sensi e dalla coscienza? Le cose cam­ biano, La freccia vola, l’animale corre, ciò che è fred­ do diviene caldo sotto l’azione del fuoco, il cibo divie­ ne carne, ciò che vive muore, e ad ogni primavera ciò che non era viene all’esistenza. In che cosa consiste questo grande fatto del cambiamento o movimento? Ognuno lo sa per esperienza, benché la nozione del cambiamento sia, come tutte le nozioni prime, ben difficile da spiegare scientificamente. Diciamo che ovunque c’è cambiamento c’è passaggio (passaggio da un essere ad un altro essere, o di un modo d’essere ad un altro modo d’essere). E perché vi sia passaggio, bisogna che vi sia qualcosa che passa, qualcosa che subisce il mutamento, dicia­ mo un soggetto che cessa d’essere qui o questo ( termi­ nus a quo , la freccia sull’arco, — il cibo, — il germe), per essere là o quello ( terminus ad quem , la freccia sul bersaglio, la carne, la pianta).

n fatto mento,

del cambia-

Non c’è mutamento senza un soggetto che venga cambiato e che sia questo o quello prima di cambiare', in altre parole, l’essere viene prima del cambiamento. Se effettivamente si dicesse che il cambiamento viene prima dell’essere e che c’è cambiamento senza un soggetto che venga cam­ biato e che sia questo o quello prima di cambiare, si negherebbe il principio d ’identità e ci si chiuderebbe nell’assurdo. Poiché parlan­ do così, o ci si continuerebbe ad affidare all’idea d’essere, ma allora dire che c’è mutamento senza un soggetto che sia prima di cambiare o che il cambiamento viene prima dell’essere, significa dire che ciò che non è, cambia: e questo è assurdo. Oppure si rifiuterebbe l’idea di essere come menzognera, si pretenderebbe che, anziché pensare essere, occorra pensare cambiamento : ma in tal caso si rigetterebbe

0 Così, in un cambiamento sostanziale la materia prima , che non è un essere, ma che è un essere allo stato potenziale, è il soggetto che è mutato e che costituisce quel corpo, quell’es­ sere, mediante la sua unione con quella forma sostanziale, prima di costituire quell’altro corpo, grazie alla sua unione con un’altra forma sostanziale.

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come fallace (con l’idea di essere) il principio d’identità che gli è le­ gato e si penserebbe che il pensiero è ingannatore per natura: e que­ sto è parimenti assurdo. Bisogna dunque assolutamente tener fermo il principio che l’essere viene prima del cambiamento e che non c’è cambiamento senza un soggetto che venga cambiato e che sia questo o quello pri­ ma di cambiare; o, come dicono i filosofi, non si dà mutamento senza un soggetto che sia mosso.

Apparente incompa­ tibilità dell’uno e dell’altro,

risolta dalla nozione di p o t e n z a .

2) Lasciamo ora da parte P esperienza e qualun­ que rappresentazione sensibile, per tentare di conside­ rare il cambiamento con la nostra intelligenza e di conseguenza in funzione dell’essere, oggetto formale di questa. E chiediamoci come o a quale titolo la real­ tà precedente può così diventare la realtà nuova. È forse secondo che è questo o quello, è secondo CIÒ CHE ESSA È che la realtà precedente diventa la realtà nuova? Ma la realtà precedente non è altro che ciò che è ed è già tut­ to ciò che è; a questo titolo pertanto non può diventa­ re, è già. E allora secondo che non è questo o quello, è secondo CIÒ CHE ESSA NON È che la realtà precedente diviene la realtà nuova? Ma considerata secondo ciò che essa non è, essa non è nul­ la, è un puro niente, non può quindi essere ciò da cui proviene la realtà nuova; non può divenire, è assolutamente nulla. Pertanto, la realtà precedente non può diventare la realtà nuova, sia essa considerata secondo ciò che è o secondo ciò che non è; in altre parole, l’essere nuo­ vo, che è il prodotto del mutamento, non può derivare né dall’essere, che è già, né dal nulla, che non è affat­ to. Il mutamento è quindi impossibile, come diceva Parmenide? E bisogna con ciò negare l’evidenza sensi­ bile, che ci attesta la realtà del mutamento? 3) No, ma bisogna elaborare ed approfondire la nostra idea dell’essere. È chiaro che nell’analisi che abbiamo fatto prima, abbiamo trascurato qualcosa. La realtà precedente è già tutto ciò che è, ma non è an­ cora tutto ciò che essa può essere; non è ancora questo o quello che sta per divenire, ma ha di che esserlo, essa può esserlo. Fra essere e non essere, vi è pertanto

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IL POTER ESSERE. La realtà precedente diviene la realtà nuova conside­ rata non secondo ciò che è, non secondo ciò che non è, ma secondo ciò che può essere.

La freccia È qui (sull’arco, per esempio), e non è che questo, dal punto di vista di ciò che essa è puramente e semplicemente; ma PUÒ ESSERE là (sul bersaglio, per esempio), vi è in essa qualcosa che può essere là. Il pane È pane, e non è che questo, e non è affatto carne, quanto a ciò che è nel significato puro e semplice della parola essere o in una maniera pienamente realizzata; ma PUÒ cessare d’essere pane, diventando carne, vi è in esso infatti ciò che occorre per subire questo mutamento, sotto l’azione di certe cause ben de­ terminate.

B. La potenza. — Le cose pertanto non sono mu­ rate o sigillate in ciò che sono e in ciò che non sono. Mentre sono qui e non là, mentre sono questo e non quello, nel momento stesso in loro vi è il potere di es­ sere là e di non essere più qui, di essere quello e di non essere più questo. Ma finché sono qui o finché sono questo, tale potere che è in loro rimane semplice pote­ re e non si manifesta. Questo potere che è in loro è come tale un qual­ che cosa di reale. Ecco un uomo addormentato. Egli non vede, non parla, non cammina: è forse cieco, mu­ to, paralizzato? No, egli può realmente vedere, parla­ re, camminare; mentre non parla, conserva il potere di parlare, lo ha in sé; non può invece naturalmente diventare albero o uccello. Ecco una biglia in riposo, essa è immobile (non mossa). È forse immutabile? No, essa può realmente muoversi; finché non si muo­ ve, conserva il potere di essere messa in movimento, lo ha in sé; ma non c’è in essa il potere naturalmente di passare attraverso un muro. Poter essere non è essere nel senso pieno e primo di questa parola; ma poter es­ sere senza ancora essere, non è non essere assolutamente; il poter essere considerato proprio come tale non è riducibile né al non essere né all’essere pura­ mente e semplicemente, è qualcosa di originale e di sui generis, cui la filosofia deve fare posto: proprio per il fatto che possono essere questo o quello che non so-

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no, le cose sono, in una certa maniera inferiore. Eccoci dinanzi a qualcosa che non merita di esse­ re chiamato un essere, cui si può dare questo nome so­ lo secondariamente, impropriamente e per così dire a mo’ d’elemosina e che nondimeno è reale. È quel che i filosofi chiamano potenza o potenzialità.

Si eviti qualsiasi equivoco su questo termine di potenza. Non si tratta qui della potenza alla quale si pensa quando si dice che un es­ sere è potente, non si tratta di una potenza attiva, di una potenza di fare od operare, la quale, considerata almeno in quanto è attiva, è tutto il contrario della potenza di cui stiamo parlando, è atto e non potenza. La potenza di cui stiamo parlando è puramente passiva, semplice capacità reale di essere o di divenire. La cera è in potenza capace di ricevere l’impronta del sigillo, l’acqua è inpotenza capace di essere ghiaccio o vapore. Le potenze attive (le facoltà dell’anima, per esempio) meritano certo anch’esse questo nome di potenza, ma soltanto in quanto non sono o possono non essere attualmente agenti, in quanto sono semplici capacità reali di agire o di operare.

C. L ’atto. — Ma poiché il poter essere, benché non sia un niente, non è essere nel senso pieno e primo della parola, come chiamare, in opposizione alla po­ tenza, l’essere nel senso pieno e primo della parola? I filosofi lo chiamano atto.

Anche qui bisogna evitare un equivoco: non si tratta affatto, almeno primariamente e principalmente, àeWatto nel senso comune di questa parola, dell’atto di fare o di agire, cioè dell’azione o dell’operazione: l’azione o l’operazione è certo atto, è essere in atto, ma è quel che si chiama l’atto secondo {actus operationis). Prima di agire bisogna essere. E l’atto primo, è l’atto d’essere {actus exsisten­ tiae) e d’essere questo o quello {actus essentiae). Pertanto, un corpo è luminoso in atto, anche se non ne illumina alcun altro. La terra creta, una volta modellata, è statua in atto; l’acqua a zero gradi è ghiaccio in atto; dal momento che si è effettivamente questo o quel­ lo e dal momento che si esiste, si è in atto.

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Diciamo che ratto è l’essere stesso nel senso proprio della parola quanto alla pienezza così indica­ ta, o anche il completo, il determinato o il perfetto co­ me tale; quanto alla potenza , essa è il completabile, il determinabile o il perfettibile come tale, essa non è un essere, ma una reale capacità di essere.

Stiamo attenti a non cercar di pensare con la nostra immagina­ zione queste nozioni di atto e di potenza. Esse possono essere pensa­ te solo mediante Γintelligenza. Soprattutto, non concepiamo la po­ tenza come un indefinito essere in atto che noi immaginiamo più o meno sfumato, vago e inerte e che poi nascondiamo nella cosa. La potenza non è assolutamente rappresentabile in se stessa, non è né una molla né un organo racchiuso nella cosa né una determinazione prefigurata in sé, come una statua che fosse disegnata precedentemente dalle venature del marmo all’interno del blocco, né un atto arrestato o impedito, come uno sforzo o una pressione che venisse assorbita dalla resistenza di un ostacolo. Essa non è assolutamente nulla di realizzato o di realizzatosiassolutamente nulla in atto, essa non può essere concepita in se stessa (poiché in tal caso sarebbe con­ cepita come qualche cosa di determinato), essa non può essere con­ cepita che mediante ratto (questo o quello) al quale si riferisce, co­ me il semplice poter essere questo o quello.

CONCLUSIONE XVII. — L’ESSERE considerato in

rapporto alla pienezza e alla perfezione che questa parola significa, si divide in ESSERE PROPRIAMENTE DETTO o ATTO e CAPACITÀ D ’ESSERE o POTENZA. Comprendiamo di conseguenza in che modo oc­ corra intendere il cambiamento: la realtà nuova non deriva né dall’essere in atto né dal nulla, ma dall’esse­ re in potenza, cioè dalla realtà precedente secondo che è in potenza; in altre parole, l’azione della causa efficiente trae (deduce) dalla potenza del soggetto la determinazione (la forma) che mancava alla realtà pre­ cedente e che caratterizza la realtà nuova, come l’azio­ ne del fuoco trae dalla potenza dell’acqua (l’acqua è

185

Natura dei cambia-

mento,


fredda, ma può essere calda) la determinazione (un calore di una determina intensità) che la caratterizza al termine del cambiamento. Il cambiamento è il pas­ saggio dalla potenza all’atto o, più esattamente, se­ condo una definizione che più avanti dovremo ripren­ dere, è l’atto di una cosa in potenza, considerata proprio sotto il rapporto in cui è in potenza: actus ex­ sistentis in potentia prout in potentia . D. A tto e potenza nelle cose. — Si comprende, da ciò che ora abbiamo detto, che tutte le cose mutevoli, sotto qualsiasi rapporto, sono composte , come si dice, di potenza e di atto . Dio soltanto, essendo assolutamente immutabile, è puro da qualunque potenzialità: essendo l’Essere stesso sussistente o la Pienezza del­ l’essere, non può diventare nulla, non c’è perfezione che Egli non abbia, che Egli non sia, è atto puro . Tutte le altre cose invece hanno un essere troppo povero e troppo debole per realizzare di colpo tutto ciò che possono essere; vi è per ciascuna di esse come un immenso margine di possibilità realmente aperte, di cui ciascuna di esse non può mai attuare se non dei frammenti, a condizione di cambiare.

a) Possiamo notare sin d’ora che quel concetto oscuro e miste­ rioso di materia prima, che abbiamo trovato approfondendo la no­ zione di natura individuale, è quello di una pura potenza nell’ordine sostanziale, che può essere qualunque corpo e che da sé solo non ne è nessuno. È il principio puramente potenziale che, grazie alla sua unione con un principio attuale (forma sostanziale), costituisce questa o quella sostanza corporale, e che è il soggetto dei cambia­ menti sostanziali. b) La potenza e l’atto partecipano a tutto l’essere creato e si ritrovano così nell’ordine della sostanza come nell’ordine degli acci­ denti. In altre parole, sono oggetti di pensiero trascendentali, come l’essere stesso, cioè oggetti di pensiero che oltrepassano o trascen­ dono qualunque limite di genere o di categoria e che impregnano tutte le cose (create). La sostanza delle cose corporali è composta di potenza (materia prima) e di atto (forma sostanziale). La sostanza delle cose incorporee (spiriti puri) non è composta, essa è puramen­

te atto, dal punto di vista di ciò che costituisce la natura o l'essenza stessa. Ma non è, per questo, atto puro (negli spiriti puri creati), poiché questa sostanza stessa (essenza sostanziale) è potenza riguar­ do a ciò che è l’atto ultimo di ogni realtà (actualitas omnis formae), cioè riguardo alVesistenza: gli spiriti puri creati non esistono da se stessi, a se, possono anche non essere.

186


Osserviamo d’altra parte che ogni accidente (la bianchezza, la forza, la virtù, eccetera) è un atto {forma accidentale) che determina il soggetto e che talvolta è esso stesso in potenza riguardo a determi­ nazioni ulteriori. Così, Γintelligenza, per esempio, è un accidente (una forma accidentale) avente l’anima come soggetto, ed è in po­ tenza riguardo a questo o a quell’atto di pensiero. Vediamo perciò che tutte le nozioni che abbiamo trovato sino ad ora possono essere raggruppate nella maniera seguente:

c) È sufficiente dopo questo considerare le nozioni di potenza e di atto, per vedere subito la verità degli assiomi seguenti, che è op­ portuno formulare sin d’ora, poiché avremo spesso da usarli: I.

La potenza non può esistere allo stato puro, cioè senza alcun

atto.

Ciò è evidente per il fatto che l’esistenza è un atto: non può pertanto esistere una potenza se non in esseri che d’altra parte siano in attou.

II. Nulla è condotto dalla potenza all'atto, se non per opera di un essere in atto. È impossibile in realtà che quel che è in potenza,

cioè quel che può avere una determinazione o una perfezione ma che non l’ha, dia a se stesso ciò che gli manca in quanto non l’ha, cioè in quanto è in potenza. III. L'atto precede la potenza. È conseguenza dell’assioma precedentev. “) La materia prima perciò non può esistere da sola, senza questa o quella forma sostan­ ziale che la attui. Parimenti, l'essenza è, in rapporto all’atto di esistere, un potenza real­ mente distinta da questo, ma attuale grazie all’atto medesimo. v) Questo assioma ci dà la ragione metafisica della verità enunciata prima: l’essere è prima del divenire o del mutamento. (È così assolutamente parlando. Ma nell’ordine della causa­ lità materiale, la potenza è prima dell’atto, il divenire prima dell’essere, il germe prima del­ l’albero. Ma il germe stesso presuppone l’albero, che lo ha prodotto, e anzitutto l’attualità della causa prima).

187


IV. La potenza è essenzialmente relativa all'atto ed è per l'atto (potentia dicitur ad actum). Effettivamente, è solo in riferimento al­ l’atto che la potenza può essere concepita (è solo in riferimento al-

Vessere bianco che si può concepire il potere essere bianco); ed è pu­ re solo per la determinazione e per il completamento che esiste come tale il determinaMe e il completabile. V. L'atto e la potenza sono sulla stessa linea, cioè ambedue sul­ la linea della sostanza o sulla linea dell’accidente. È chiaro che, in realtà, qualsiasi atto che completa e specifica contemporaneamente una potenza, deve essere del medesimo ordine di questa. Così, per esempio, l’azione di pensare è nell’ordine dell’accidente come la fa­ coltà stessa da cui emana e che è in potenza rispetto a questa azione. VI. Ogni cosa agisce secondo che è in atto. L’azione effettiva­ mente è un atto {actus operationis) che è posto nell’essere dal sog­ getto da cui emana e che presuppone di conseguenza (assioma II) che questi sia in atto nella misura in cui esso lo fa emanare da sé. Si dice in un senso simile che l’azione o l’operazione è la manifestazio­ ne dell’essere, operatio sequitur esse. VII. Da due esseri in atto non può derivare qualcosa di uno per sé. Si definisce uno per sé (unum per se), in contrasto con uno per accidente, una cosa che costituisce un solo essere e non una riunione di esseri; in altri termini una cosa che è una in ragione della natura stessa per la quale esiste. Così, per esempio, un organismo vivente è qualcosa di uno per sé, mentre una macchina o una casa è qualcosa di uno per accidente'1'. Da ciò è evidente che due esseri in atto, che costituiscono come tali due esseri, non potranno mai, se li si unisce, costituire altro che una riunione di esseri o qualcosa di uno per acci­ denti*.

d) Su questo problema dell’atto e della potenza, troviamo a cora la divisione dei filosofi in tre grandi scuole: la scuola di Aristo­ tele e di Tommaso insegna la distinzione fra la potenza e l’atto, e la priorità dell’atto sulla potenza; la realtà del movimento e del diveni­ re, ma la priorità dell’essere sul movimento. Essa mostra pertanto che fra Dio (l’atto puro) e tutte le cose diverse da lui (composte di potenza e di atto) vi è una differenza assoluta e infinita. L’intellettualismo eccessivo (Parmenide, Spinoza, Hegel) si ri­ fiuta di ammettere la potenza, perché è una nozione oscura per se stessa. Di conseguenza, tutto ciò che è, è puramente atto, o atto pu­ ro, e bisogna negare il movimento (Parmenide) o identificare i con­ trari (Hegel), e le creature hanno la stessa natura di Dio {pantei­

smo).

w) Sopprimete l’unità della macchina e della casa, distruggerete senza dubbio e la macchi­ na e la casa; ma non potete distruggere le nature stesse (o le sostanze) che vi esistono (fer­ ro, acciaio, mattoni, eccetera). Sopprimete invece l’unità di un organismo, distruggerete la natura stessa (o la sostanza) che vi esiste. *) Questo assioma è molto importante nella filosofia naturale e soprattutto nella psicolo­ gia. Così, per esempio, la concezione cartesiana, che fa dell’anima e del corpo due sostan­ ze complete ciascuna a parte, è incapace di spiegare l’unità sostanziale dell’essere umano, poiché due sostanze complete sono due esseri in atto.

188


L’anti-intellettualismo (Eradito, Bergson) rigetta parimenti la distinzione fra la potenza e l’atto, ma per il fatto che la nozione d’essere gli sembra ingannatrice. Di conseguenza, il divenire o il cambiamento puro si sostituisce all’essere, non vi è più atto puro e Dio, qualsiasi cosa si faccia, ha la stessa natura delle cose {pantei­

smo). Intellettualismo moderato (scuola di Ari­ stotele e di Tommaso). Potenza e atto nelle cose. Dio o l’atto puro è assolutam ente distinto dalle cose. Intellettualismo eccessivo. Nessuna potenza nel­

Anti-intellettualismo. Nessun atto né esse­

le cose. Tutto si assorbe sia nell’essere puro sia nel­ la contraddizione che ope­ ra il divenire, e le cose si confondono con Dio.

re. Tutto si assorbe nel cambiamento o nel diveni­ re puro, e Dio si confonde con le cose o si continua in esse.

e) «Materiale e formale», « Virtuale e formale (e attuale)», «Implicito ed esplicito ». «In atto vissuto e in atto significato ». — A queste nozioni circa la potenza e l’atto si ricollegano alcune espres­ sioni filosofiche di cui conviene ora spiegare il senso.

a) Abbiamo appena visto quello che significano i due termini correlativi IN POTENZA e IN ATTO. Il marmo prima d’essere lavorato è una statua in potenza, è una sta­ tua in atto dopo che lo scultore gli ha dato la forma.

In p o t e n z a

e

in a tt o .

β) A queste espressioni in potenza e in atto bisogna accostare le espressioni MATERIALE e FORMALE, che tornano così spesso in filosofia. Tali espressioni sono prese dal­ la filosofia naturale (cosmologia) che mostra come ogni sostanza corporale è composta di due principi, la materia prima (pura poten­ za d’ordine sostanziale) e la forma sostanziale o atto primo (ved. sopra pp. 135-136). Dalla filosofia naturale i termini materiale e formale sono emigrati in tutte le sezioni della filosofia per designare, analogica­ mente, da una parte tutto ciò che, indeterminato e potenziale in se stesso, compie l’ufficio del soggetto che riceve una determinazione; dall’altra parte tutto ciò che ha in sé una funzione determinante, at­ tualizzante, specificatrice, o anche tutto ciò che è considerato sotto

una certa determinazione, sotto un principio o a un titolo ben preci­ so. Così, per esempio, si distinguono, come in precedenza abbiamo visto (ved. sopra p. 84, testo a carattere minore), l’oggetto materiale e l’oggetto formale di una virtù, di una scienza o di una facoltà. Da ciò in particolare la distinzione fra la maniera materiale e la maniera formale di esprimersi. Si parla materialmente quando non

189

M a te r ia le

e f o r m a le .


si considerano le cose di cui si parla, sotto le determinazioni stesse che significano i vocaboli usati; si parla formalmente quando si considera nelle cose di cui si parla non tanto il soggetto che riceve quelle determinazioni, quanto quelle determinazioni stesse e il fine profilo, la pura linea che esse disegnano in lui. Tale distinzione è molto importante; in effetti, il filosofo deve mirare sempre a parlare formalmente e d’altra parte numerose sue proposizioni sono vere formaliter loquendo, mentre sarebbero false materialiter loquende, e inversamente. Per esempio, proposizioni come: «tutto ciò che è, è buono» (in quanto è); «il bene comune prevale sempre sul bene individuale» (con­ siderando bene comune in una maniera formale, nel qual caso l’u­ nione dell’anima con Dio, cioè con il bene comune trascendente tut­ te le creature, prevale su tutto il resto); «bisogna sempre obbedire ai superiori» (in quanto sono su­ periori, cioè in quanto non comandano nulla di contrario agli ordi­ ni di un superiore di grado più elevato); «vi sono uomini naturalmente schiavi» (considerando schia­ vo formalmente, cioè nel significato di destinato al lavoro manuale

o servile);

«ogni virtù è stabile» (considerando unicamente la sua natu­ ra di virtù); «la scienza è infallibile» (in quanto scienza); sono vere formalmente parlando, ma sarebbero false se venissero intese materialmente. Al contrario, proposizioni come: «questo quadro è l’adorazione dei magi»; «questo libro è la dottrina di Pitagora»; «la parola è stata data all’uomo perché dissimuli il suo pen­ siero»; «la filosofia è orgogliosa»; «la costituzione inglese è buona per il fatto che è illogica»; sono vere solo sotto un certo rapporto e se vengono intese material­

mente155. V irtu a le a ttu a le ).

e f o r m a l e (o

y) Ora, distinguiamo bene il termine inpotenza e il termine VIRTUALE, che significano cose del tutto diverse156. Si dice che una cosa qua­ lunque è virtuale o che esiste virtualmente, quando si trova contenu­ ta in un’altra più elevata, non con il suo essere o con la sua determi­ nazione (la sua formalità) propria, ma sotto un altro essere o un’al­ tra determinazione (un’altra formalità), in modo che ivi esiste sì, se­ condo la virtù o il grado di perfezione che comporta, ma non FORMALMENTE o ATTUALMENTE. Se così accade, non è perché l’essere in cui si trova sia inpoten­ za a suo riguardo, ma perché esso è in atto in una maniera più eleva­ ta. La sua elevazione è per così dire un ostacolo che impedisce alla cosa, che esso contiene virtualmente, di esservi con la sua determi­ nazione (la sua formalità) propria e meno alta. Perciò, la perfezione di tutte le cose corporali esistono virtual­ mente in Dio, le conclusioni esistono virtualmente nel principio, delle vite parziali esistono virtualmente nella vita dell’organismo, ione fra IMPLICITO ed ESPLICITO

190


è diversa dall’opposizione fra virtuale e formale (e attuale). Una co­ sa implicitamente contenuta in un’altra può esservi formalmente o attualmente e non virtualmente: ma vi si trova in una maniera con­ fusa, avviluppata, o nascosta, come un fiore racchiuso e ripiegato nel bocciolo. In questa verità perciò Pietro è un uomo (per fare un esempio) è implicitamente contenuta quest’altra verità Pietro è un

animale ragionevole. ε) Infine, una cosa data in un modo formale ed esplicito può ancora essere detta in atto in due maniere diverse. Consideriamo, per esempio, un uomo che corre a perdifiato inseguito da nemici. Che cosa fa? Se risponde: fugge, indico quel che fa IN ATTO SIGNIFICATO

In a tt o v is s u to t o s ig n if ic a to .

I m p lic ito to .

(in actu signato) (quel che fa come sottolineato o dichiarato per così dire dall’inten­ zione della sua volontà). Se rispondo: affretta il suo ritmo respira­ torio, indico quel che fa IN ATTO VISSUTO soltanto

(in actu exercito). Poniamo ora un uomo che legga Ronsard, Lamartine e Victor Hugo per rilevare il numero di volte in cui usano il termine amare e il termine voler bene. Questo uomo legge i poeti a colpo sicuro, li legge formalmente ed esplicitamente, ma è proprio questo ciò che egli fa , considerandolo come mosso dalla direzione stessa della sua volontà? No, riflettendo su ciò a cui mira leggendo questi poeti, bi­ sogna dire che prepara un lavoro di critica letteraria stilometrica. Diciamo che legge i poeti effettivamente o in atto vissuto, ma che in atto significato o espressamente prepara il lavoro in questione. Poniamo ancora questo: che noi diciamo lilia agri non labo­ rant, neque nent, pensando unicamente al senso di tale frase; ciò che conosciamo allora in atto significato, sono / gigli del campo che ci vengono presentati come creature che non lavorano e non filano. Ma contemporaneamente conosciamo, in atto vissuto, il nominati­ vo plurale lilia, che conosceremo a sua volta in atto significato, se ritorniamo con la riflessione sulla frase in questione per analizzarla dal punto i vista grammaticale. L’espressione in atto significato quindi (in actu signató) si dice delle cose a cui si volge l’intelligenza o la volontà, quando costitui­ scono l’oggetto di un concetto dell’intelligenza e di un’intenzione della volontà particolarmente formate a loro riguardo, e quando so­ no così presentate alla mente o poste nella realtà sotto il titolo stesso o sotto la ragione espressa dal loro nome. Quando invece queste co­ se sono presentate alla mente o poste nella realtà in occasione di qualcos’altro e senza essere osservate in se stesse, si dice che vi sono

in atto vissuto o effettuato (in actu exercito).

3. TEODICEA 53. — La metafisica studia l’essere come essere; ma per ciò stesso deve studiare la causa dell’essere: la sua sezione più elevata quindi, che è come la sua coro-

191

ed

e in

a t­

e s p lic i­


Problemi della teolo­ gia naturale, o meta­ fisica dell ’e s s e r e s t e s ­ s o s u s s is te n te .

na, verte su Colui che è l’essere stesso sussistente. Si chiama questa parte della metafisica teologia naturale (scienza di Dio in quanto Egli è accessibile alla ragione naturale o anche in quanto è causa delle cose e autore dell’ordine naturale); la si chiama pure, dopo Leibniz, teodicea , con un nome molto mal scelto.

Leibniz nella sua Teodicea (1710) ha intrapreso a difendere la provvidenza divina contro gli attacchi degli scettici (di Bayle soprat­ tutto). Questo termine di teodicea (etimologicamente giustificazio­ ne di Dio) è stato successivamente usato per indicare la parte della filosofia che ha Dio come oggetto. Ma questo termine è doppiamen­ te mal scelto: in primo luogo per il fatto che la provvidenza di Dio non ha bisogno di essere giustificata dai filosofi; in secondo luogo perché le questioni riguardanti la provvidenza e il problema del ma­ le non sono né le sole né le più importanti di cui la teologia naturale debba occuparsi.

I primi problemi su cui la teologia naturale debba discutere sono evidentemente quelli che riguardano resistenza stessa di Dio. In realtà, resistenza di Dio non è immediatamen­ te e prima di ogni movimento discorsivo dell5intellet­ to, evidente per noi, come credevano Malebranche e gli ontologisti; è grazie all’operazione intellettuale, che è l’operazione più profondamente propria all’uo­ mo, è grazie al ragionamento che ci è resa evidente; e il ragionamento, per elevarsi sino ad essa, non deve appoggiarsi sulla semplice idea o nozione dell’essere perfetto (argomento ontologico di sant’Anseimo e di Descartes), deve appoggiarsi su realtà invincibilmente costatate. Tommaso, riassumendo tutta la tradizione antica, mostra mediante cinque vie diverse come que­ sta conclusione: Dio esiste, s’imponga con un’assolu­ ta necessità alla ragione umana. Vi sono nel mondo: movimento o cambiamento; esseri ed avvenimenti che si producono ex novo; cose che sono e che possono non essere; cose distribuite secondo gradi diversi di perfezione e nelle quali tale perfezione, che consiste nell’essere, è più o meno limitata, obumbrata, mesco­ lata con imperfezioni; nature non intelligenti orientate verso uno scopo o fine, come dimostra non solo l’or-

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dine complesso dell’universo o la disposizione struttu­ rale degli organismi viventi, ma anche il semplice ordi­ ne di un agente qualsiasi rispetto alla sua azione speci­ fica. Per rendere ragione di questi diversi fenomeni, bisogna, in definitiva (poiché è assolutamente neces­ sario fermarsi, sotto pena di assurdità, su una prima ragion d’essere), ammettere una causa che muove sen­ za essere mossa, che causa senza essere causata, che sia senza poter non essere, nella quale si trovi allo sta­ to puro la perfezione stessa di cui le cose partecipano più o meno, la cui intelligenza, infine, sia il fonda­ mento supremo delle nature e il principio delle cose. Una causa di tal genere è ciò che noi chiamiamo Dio; essa è atto puro, esiste da sé (a sé); in altre parole l’es­ sere stesso è la sua natura o la sua essenza, essa è l’es­ sere stesso sussistente, Colui che è . Questo ragiona­ mento, che coinvolge per il filosofo le più alte verità della metafisica, s’impone al senso comune nella ma­ niera più semplice; si tratta infatti dell’atto più pro­ fondamente naturale della ragione umana, cosicché bisogna, per distruggerlo, distruggere la ragione stessa ed i suoi principi primi (principio d’identità o di non-contraddizione, di ragion d’essere, di causalità) e la mente non ha altra scelta (come dimostra troppo bene la storia della filosofia) se non tra i due corni di questa alternativa: il vero Dio, o Vassurdità radica­

le^1. La teodicea deve inoltre stabilire secondo quale modo di conoscenza Dio è conosciuto da noi e succes­ sivamente puntare il suo sguardo sulla natura e sulle perfezioni di Dio, in particolare sulla sua unità, la sua semplicità, la sua immutabilità, che si deducono im­ mediatamente da quella perfezione di essere da sé (aseità) che anzitutto caratterizza l’atto puro e che manifestano nella maniera più chiara che egli è distin­ to dal mondo assolutamente e per essenza; poi, sulle sue relazioni col mondo, sulla sua scienza, sulla sua azione creatrice e motrice; infine, sui problemi che so­ no connessi con la prescienza divina degli avvenimenti contingenti e degli atti liberi dell’uomo e su quelli che pone l’esistenza del male nell’universo.

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La scuola di Aristotele e di Tommaso insegna che Dio è cono­ sciuto, dalla ragione naturale, con una conoscenza analogica, che ci fa vedere nelle specchio delle cose create le perfezioni divine (essere, unità, bontà, intelligenza, amore, eccetera), senza porre alcuna uni­ tà di natura, alcuna comune misura, alcuna proporzione, alcuna sorta di mescolanza o di confusione tra Dio e le cose. Questa dottri­ na si oppone a due errori contrari: Terrore degli agnostici, che pon­ gono Tessere divino fuori dalla portata della nostra intelligenza, dichiarando che Dio è inconoscibile alla ragione (scettici; fenomenisti; positivisti come Comte e Spencer, scuola di Kant soprattutto); e Terrore dei panteisti, che confondono Tessere divino con Tessere delle cose (Parmenide, Eraclito, gli stoici, Spinoza, i metafisici te­ deschi dopo Lessing e Kant; modernisti e immanentisti).

Filosofia di A ristotele e di Tommaso. Dio è conosciuto per analogia ed è assolutamente distinto dalle cose.

Panteismo. Dio viene con le cose.

Agnosticismo.

confuso

194

Dio è inconoscibile.


SEZIONE III FILOSOFIA PRATICA

54. — Le scienze pratiche si propongono di co­ noscere, non per conoscere, ma per procurare con qualche azione il bene dell’uomo (un bene diverso dal puro atto di conoscere il vero). Ma il bene dell*uomo può essere inteso in due maniere differenti; si può trattare di QUESTI O QUEI BENI PARTICOLA­ RI, e si può trattare del bene che è per se stesso soltanto IL BENE dell’uomo e da cui dipende, come si dice, il senso della vita umana. A — FILOSOFIA DEL «FARE» ovvero FILOSOFIA DELL’ARTE 55. — Fra le varie scienze pratiche che si occu­ pano del bene dell’uomo secondo il primo punto di vista (secondo il punto di vista di questi o quei beni particolari e non del bene puro e semplice della vita umana), nessuna (come abbiamo detto in preceden­ za') è un filosofia : nessuna effettivamente mira a re­ golare Fazione dell’uomo in rapporto alla causa più elevata dell’ordine pratico, cioè (nell’ordine pratico infatti è lo scopo o fine perseguito che ha ragione di y) Ved. sopra p. 117, a).

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causa o di principio) in riferimento al fine ultimo (be­ ne assoluto dell’uomo). Queste scienze pratiche non sono nemmeno vere scienze propriamente dette, poiché non procedono con un metodo dimostrativo, e risolvendo delle con­ clusioni nei loro principi. Ben più che scienze, esse so­ no arti; e rientrano direttamente nella grande catego­ ria dell’arte, non in quella della scienza. Qual è dunque la caratteristica essenziale dell’ar­ te considerata in tutta la sua generalità? È quella di di­ rigere un*opera da farsi , in modo che sia costruita, plasmata o disposta come deve esserlo, e di assicurare pertanto la perfezione o la bontà non dell’uomo che agisce, ma della cosa stessa o dell’opera compiuta dal­ l’uomo. L’arte quindi appartiene all’ordine pratico per questo, perché guida e orienta un*opera che deve essere prodotta , non in riferimento all’uso che dob­ biamo fare del nostro libero arbitrio, ma in riferimen­ to alla maniera in cui l’opera come tale e in se stessa deve essere eseguita. Diciamo che l’arte concerne ciò che deve essere fatto (o, come si dice, il factibile , ποιητ ό ν ).

Questo aspetto fondamentale di opera dafarsi si trova anzitut­ to realizzato nelle opere materiali prodotte o plasmate dall’uomo (il factibile propriamente detto). Ma per estensione si può trovare an­ che nelle opere puramente spirituali; deborda in tal caso dalla sfera del pratico come tale, in quanto pratico si oppone a speculativo e si riferisce ad un’azione che è diversa da quella del puro conoscere: così può esserci, per esempio, un’opera da farsi nell’ordine pura­ mente speculativo (un ragionamento, una proposizione sono opere, ma opere della ragione speculativa) e vi sono arti come la logica che sono arti speculative.

Ma non si può stabilire una teoria generale del­ l’arte e delL’OPERA DA FARSI se non ponendosi dal punto di vista dei concetti e dei principi più universali e più elevati della conoscenza umana: una teoria del genere cade perciò sotto il do­ minio della filosofia. La parte della filosofia così delimitata è sì prati-

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ca, dal momento che mira dXYopera da farsi e tende a regolare dall’alto delle discipline pratiche. Essa non può tuttavia, essendo una scienza propriamente detta, essere essenzialmente pratica , rimane essenzialmente speculativa a causa del suo oggetto e del suo modo di procedere e inoltre rimane estremamente lontana dall’operazione stessa: non solo in realtà resta estranea all’applicazione delle regole artistiche all’opera parti­ colare da prodursi, ma anche le regole che dà sono di gran lunga troppo generali per essere immediatamente applicabili a tale opera e per meritare il nome di regole artistiche propriamente dette; essa è pertanto solo impropriamente e molto imperfettamente pratica .

Filosofia dell’o p e r a o filosofia dell’arte. d a fa rsi

Solo le diverse arti (discipline essenzialmente pratiche) possie­ dono regole sufficientemente determinate per essere immediata­ mente applicabili all’opera particolare da compiere; e ad esse sol­ tanto spetta applicare quelle regole. Ed anche, tranne le belle-arti (il cui oggetto, la bellezza, è esso stesso universale e immateriale e per­ mette di conseguenza alla filosofia di esercitare effettivamente — benché molto dall’alto — il suo compito di regolatrice suprema), anche le altre arti, non avendo in sé nulla di universale che possa ca­ dere sotto la considerazione della filosofia, se non il fatto che sono arti, si sottraggono quasi del tutto ad ogni regolamentazione che provenga dalla filosofia.

Per caratterizzare esattamente questa parte della filosofia, bisognerebbe chiamarla filosofia del fare\ noi la chiameremo semplicemente filosofia dell'arte 158. Dovremo domandarci in primo luogo in che consiste l’arte, se essa è davvero, come insegna Tom­ maso, una virtù dell’intelletto pratico e come si distin­ gua nello stesso tempo e dalle virtù speculative (intelli­ genza dei principi, scienza, saggezza) e dalle virtù mo­ rali, dalla prudenza soprattutto; successivamente do­ vremo domandarci come occorra dividere l’arte e clas­ sificare le varie arti; infine, quali sono i principi supre­ mi e le condizioni proprie (ma solo dell’ordine più ge­ nerale e più elevato) delle arti che hanno la bellezza come oggetto (le belle-arti) e che occupano con ciò un posto trascendente in mezzo alle altre arti.

197

Problemi della filo­ sofia dell’arte.


B — FILOSOFIA DELL’«AGIRE» ovvero ETICA

Filosofia dell ' a t t o o etica.

um ano

56. — Quanto alla scienza pratica che mira a procurare il bene puro e semplice dell’uomo, essa co­ stituisce la morale o etica. Dal momento che ha come oggetto proprio non la perfezione delle opere plasma­ te e prodotte dall’uomo, ma la bontà o la perfezione dell’uomo stesso che agisce e dell’i o che egli fa libe­ ramente delle sue facoltà, essa è propriamente la scienza delL’AGIRE, la scienza degli atti umani (delVagibile, come si dice, o del πρακτόν, cioè dell’uso libero, in quanto è libero, delle nostre facoltà). L’etica è pratica quanto può esserlo una vera scienza propriamente detta, poiché fa conoscere non solo le regole supreme applicabili da molto lontano, ma anche le regole prossime applicabili all’atto parti­ colare da compiere. Nello stesso tempo tuttavia questa scienza mira non a questo o a quel fine secondario, ma al fine su­ premo (il bene assoluto dell’uomo), cioè alla causa più elevata dell’ordine pratico: essa è pertanto una filoso­ fia . È puramente e semplicemente la filosofia pratica. OSSERVAZIONE. — Se l’etica è pratica quanto può esserlo una vera scienza propriamente detta, non bisogna però credere con ciò che sia essenzialmente pratica (nessuna scienza vere et proprie dieta è essen­ zialmente pratica) né che sia sufficiente a fare agire bene l’uomo. Essa dà effettivamente delle regole pros­ sime applicabili ai casi particolari, ma è impotente a farcele applicare sempre, come occorre nei casi parti­ colari159, evitando le difficoltà che provengono dalle nostre passioni e dalla complessità delle circostanze materiali. Rimane quindi essenzialmente speculativa per il suo oggetto formale (atti umani da conoscersi) e per il suo modo di procedere (che consiste nel risolvere delle verità nei loro principi, non a muovere all’azio­ ne), ed è anche impropriamente pratica160. Affinché l’uomo operi bene nell’ordine delYagire, la scienza morale deve rivestirsi della virtù della prudenza , che

198


(se ce ne serviamo) ci fa sempre e ben giudicare circa l’atto che deve essere compiuto e volere senza errore ciò che è stato così giudicato buono. D ’altra parte, l’etica non fornisce le regole della condotta umana se non nell’ordine naturale e in riferi­ mento al fine ultimo dell’uomo così come sarebbe se Uuomo avesse per fine una beatitudine naturale. Ora, avendo l’uomo per fine ultimo, in realtà, un fine so­ prannaturale (Dio posseduto non mediante la cono­ scenza imperfetta della ragione umana, come tale, ma mediante la visione beatifica e deificante dell’essenza divina) e dovendo i suoi atti essere regolati in rapporto a questo fine soprannaturale e in modo da condurvelo, l’etica o morale filosofica è evidentemente insuffi­

Problemi dell’Etica.

ciente ad insegnargli tutto ciò che deve sapere per agi­ re bene. Essa deve essere completata e innalzata dagli insegnamenti della rivelazione.

Il termine pratico, applicato all’etica, non significa soltanto: che ha perfine un’azione diversa da quella di unicamente conoscere (in tale senso, pratico — si tratti dell’arte o della morale — si oppo­ ne a speculativo); significa pure, in un senso più stretto, che si rife­ risce all’agire (il πρακτόν, dominio proprio della scienza e delle virtù morali, si oppone allora al ποιητόν, dominio proprio dell’arte).

57. — La questione capitale, a cui la filosofia pratica deve anzitutto rispondere, è evidentemente di sapere IN CHE COSA CONSISTE (dal punto di vista dell’ordine naturale) il fine ultimo

o IL BENE ASSOLUTO DELL’UOMO. Dopo ciò bisogna che essa studi GLI ATTI mediante i quali l’uomo si rivolge verso il suo fine ulti­ mo o se ne allontana: che li esamini dapprima nella lo­ ro natura e nel loro meccanismo intimo, poi in ciò che costituisce la loro moralità , cioè in quel che li rende buoni o cattivi; bisogna poi che studi in se stesso sia LA REGOLA SUPREMA di questi atti (donde le questioni concernenti la legge

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eterna e la legge naturale), sia LA LORO REGOLA IMMEDIATA (donde le questioni concernenti la coscienza); occorre che rifletta infine su I PRINCÌPI i n t r i n s e c i da cui procedono questi atti, cioè le virtù morali e i vi­ zi. Ma essendo 1’etica una scienza pratica, non deve fermarsi a queste considerazioni universali, deve an­ che scendere alla determinazione più particolare degli atti umani e delle loro regole; da ciò Fobbbligo per es­ sa di studiare in un modo più dettagliato le regole che governano la condotta delFuomo, innanzitutto per quanto concerne IL SUO PROPRIO BENE, successivamente per quanto concerne IL BENE ALTRUI (e di conseguenza la virtù di giustizia). Quest’ultima considerazione introduce una quan­ tità di problemi di grande importanza, che sfociano in quel che viene detto il diritto naturale, e che riguarda­ no in primo luogo ciò che l’uomo deve A DIO (problema della religione naturale)2, in secondo luogo ciò che egli deve AGLI ALTRI UOMINI; e qui si pongono i problemi concernenti gli uomini CONSIDERATI INDIVIDUALMEN­ TE, (diritto individuale, questione della proprietà, per esempio) e quelli concernenti gli uomini CONSIDERATI COME MEMBRA di un tutto naturale, al bene del quale gli individui debbono servire, famiglia e società politica (diritto so­ ciale).

a) Aristotele suddivideva la scienza dei costumi o dtW agi umano (etica in senso largo) in tre parti: scienza degli atti delFuomo

z) Cioè della religione così come sarebbe facendo astrazione dall’ordine soprannaturale, cui l’uomo in realtà è stato elevato.

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come individuo, o etica (nel senso stretto della parola); scienza degli atti dell’uomo come membro della società domestica, o economia; scienza degli atti dell’uomo come membro della città (società civile)

opolitica161. b) Riguardo al problema capitale della morale (problema del fine ultimo dell’uomo), possiamo ritrovare un’ultima volta la di­ stinzione sommaria delle scuole filosofiche in tre gruppi. La scuola di Aristotele e di Tommaso insegna che tutta la vita morale dipende dalla tendenza al bene sovrano dell’uomo o alla beatitudine e che l’oggetto in cui consiste tale beatitudine è Dio, Dio che noi dobbiamo amare non per noi ma per lui (proprio perché egli è la nostra mèta ultima, cioè voluta e amata per se stessa, e non per alcun’altra mèta). Le scuole che condizionano gli atti umani al piacere {edonismo, Aristippo, Epicuro) o all’utile ( utilitarismo, Bentham, Stuart Mill), o allo Stato (Hegel e i sociologisti contemporanei), o all’umanità (Augusto Comte), o al progresso (Spencer), o alla simpatia (scuola scozzese), o alla pietà (Schopenhauer), o alla produzione del supe­ ruomo (Nietzsche), attribuiscono all’uomo come fine ultimo qual­ cosa di creato e con ciò abbassano l’uomo al di sotto di se stesso. Le scuole che pretendono che la virtù (stoici, Spinoza) o il do­ vere (Kant) basti a se stesso, sia perché la virtù è la beatitudine stes­ sa, sia perché la ricerca della beatitudine offende la moralità, attri­ buiscono all’uomo come fine ultimo l’uomo stesso e con ciò, ben­ ché sembrino divinizzare l’uomo, in realtà lo abbassano al di sotto di se stesso, come le scuole precedenti; la sua grandezza d’uomo consiste infatti nell’avere come unico fine il bene increato.

Filosofia tomista (morale della beatitudine o del bene sovrano). L’uomo è ordinato verso un fine ultimo diver­ so da sé e tale fine ultimo è Dio.

Sistemi di morale che degradano Vuomo.

Sistemi di morale che divinizzano Vuomo

L’uomo è ordinato verso un fine ultimo diver­ so da sé e tale fine ultimo è qualcosa di creato (edo­ nismo, epicureismo, utili­ tarismo, eccetera).

L’uomo non è ordi­ nato verso alcun fine ulti­ mo diverso da sé, sia che la sua propria virtù sia il suo fine ultimo (stoici­ smo), sia che la sua pro­ pria bontà non dipenda da alcun bene per il quale egli sia fatto (kantismo).

c) Pertanto, davanti a ciasucno dei grandi problemi della filo­ sofia, la dottrina di Aristotele e di Tommaso, paragonata alle altre dottrine, appare come una sintesi fra due errori opposti. È proprio questo un ulteriore segno di verità da aggiungere a quelli che già ab­ biamo enumerato in precedenza (ved. pp. 77-78, n. 23).

201


La verità, in effetti, non può trovarsi in una filosofia che tenga la via di mezzo tra errori contrari per mediocrità e cadendo al di sot­ to di essi, cioè fondandosi su elementi presi a prestito e dall’uno e dall’altro, mettendoli in equilibrio l’uno con l’altro e mescolandoli mediante una scelta fatta senza lume di sapienza (<eclettismo); ma deve trovarsi in una filosofia che tenga la via di mezzo fra errori contrari per superiorità e dominandoli, in modo che questi appaia­ no come frammenti caduti, staccati dalla sua unità. Poiché è chiaro che se è vera, tale filosofia deve vedere in pieno quel che l’errore ve­ de solo in una maniera parziale e ingiusta e deve pure giudicare e salvare, grazie ai suoi propri principi e alla sua propria luce, quel che l’errore, senza saperlo comprendere nemmeno esso, comporta di verità.

202


CONCLUSIONE

58. — La filosofia si divide dunque in tre grandi parti: logica, filosofia speculativa e filosofia pratica; o anche, se teniamo conto delle suddivisioni di queste tre grandi parti, in sette parti principali: logica mino­ re, logica maggiore; filosofia delle matematiche, filo­ sofia della natura, metafisica; filosofia dell’arte e mo­ rale. Tale sarà l’ordine che seguiremo in questo corso e che possiamo riassumere nello schema seguente:

203


La divisione della filosofia in filosofia speculativa e filosofia pratica è in rapporto con la specificazione delle varie scienze filoso­ fiche, ma con il fine al quale esse sono ordinate. Se il fine che si per­ segue è unicamente il conoscere, si ha la filosofia speculativa; se il fine che si persegue è il bene dell’uomo, si ha \&filosofia pratica162. Dal punto di vista della specificazione delle scienze filosòfi­ che163, l’etica, che tratta delle virtù morali dell’uom o164 e che ha co­ me oggetto formale «l'agire» umano, e la filosofia dell’arte, che tratta delle virtù intellettuali pratiche dell’uomo e che ha come og­ getto formale «il fare» umano, sono parti della scienza dell’uomo, che appartiene anch’essa alla filosofia naturale (pur facendo parte della metafisica). Da questo punto di vista si debbono riconoscere come scienze filosofiche specificatamente distinte solo la logica, la metafisica, la filosofia della natura, e la filosofia delle matemati­ che, se però non si riduce questa parte della filosofia alla metafisica o alla filosofia della natura.

204


APPENDICE



INDICAZIONI PRATICHE

1.

In un corso di filosofia della durata totale di otto­ nove mesi, la presente Introduzione generale può ve­ nire distribuita in 21 lezioni, nel modo seguente: I. Prima nozione della filosofia — Il pensiero filosofico prima della filosofia propriamente detta (nn. 1-6). (Il n.5 sarà omesso; se ne farà l’oggetto di una sempli­ ce lettura). II. I primi saggi della Grecia - Gli ionici - Gli italici (nn. 7-10). III. Gli eleati - La sofistica e Socrate (nn. 11-14). IV. I socratici minori - Platone (nn. 15-18). V. Aristotele - La philosophia perennis (nn. 19-23). VI. Definizione della filosofia - La filosofia e le scien­ ze particolari (nn. 24-25). VII. La filosofia e le scienze particolari (fine) - La fi­ losofia e la teologia (nn. 25-26). V ili. La filosofia e il senso comune - Il metodo della filosofia (nn. 27-28). IX. Le grandi parti della filosofia (nn. 29-31). X. I problemi della logica (nn. 32-37). XI. I problemi della filosofia delle matematiche, della filosofia naturale e della psicologia (nn. 38-43). XII. I problemi della critica (nn. 44-48). XIII. I problemi dell’ontologia"0 - L’essenza (nn. 4950). XIV. L’essenza (fine) (n. 50).

aa) I numeri 50, 51 e 52 sono stati contrassegnati con un asterisco, perché non sono strettamente utili alla preparazione del baccalaureato. Gli argomenti di cui trattano sono peral­ tro così importanti che conviene dedicare loro alcune lezioni (alcuni paragrafi del testo scritti in corpo minore possono del resto essere omessi, su indicazione dell’insegnante).

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XV. La sostanza e l’accidente (n. 51). XVI. La sostanza e l’accidente (fine). XVII. L’atto e la potenza (n. 52). XVIII. L’atto e la potenza (fine). XIX. I problemi della teodicea (n. 53). XX. I problemi della filosofia dell’arte e i problemi della morale(nn. 54-57). XXI. Divisione generale della filosofia (n. 58). Revisione delle lezioni precedenti.

2. Poiché le parti stampate con carattere minore so­ no o più difficili o meno necessarie, certi paragrafi del testo a carattere minore potranno, a giudizio del pro­ fessore e secondo le capacità della classe, far parte della lezione, mentre altri potranno essere l’oggetto di una semplice lettura. Malgrado l’importanza particolare dei problemi trattati nei nn. 50, 51 e 52, si potrà (se la classe è trop­ po debole) ridurre i nn. 50 e 51 all’enunciato delle pro­ posizioni XII, XIII, XIV, XV e XVI, che verranno spiegate con qualche esempio, e tralasciare nel n. 52 tutti i paragrafi stampati con carattere minore.

3. RIASSUNTI — Sarebbe augurabile che gli stu­ denti redigessero da sé il riassunto di ogni lezione, la qual cosa li obbligherebbe a fare un lavoro personale dei più utili. In realtà però, dato il sovraccarico dei programmi, è difficile chiederglielo, poiché non si può affatto contare che abbiano più di un’ora o un’ora e mezzo di studio da dedicare ogni giorno alla lezione di filosofia, lasso di tempo appena sufficiente per assi­ milare in modo conveniente questa lezione. Abbiamo pertanto steso un riassunto pro­ memoria indipendente, che si troverà accluso al volu­ me (a parte) e di cui l’allievo potrà servirsi comoda-

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mente per studiare le sue lezioni*. Tale disposizione6* ci è parsa di molto preferibile a quella che pone i rias­ sunti alla fine del volume o alla fine del capitolo. Essa permette allo studente di tenere il riassunto sotto gli occhi mentre legge le pagine corrispondenti del ma­ nuale e studia la lezione; inoltre faciliterà di molto il lavoro di revisione. Lo studente dovrà imparare a memoria la parte del riassunto pro-memoria corrispondente ad ogni le­ zione. 4. PROGRAMMA UFFICIALE — Alla nostra In­ troduzione generale alla filosofia corrisponde nel programma ufficiale del baccalaureato la sezione inti­ tolata Introduzione e che verte su l’oggetto e le divi­ sioni della filosofia (ved. in particolare da p. 81 a p. 87 e da p. 107 a p. 204). Le pagine da 87 a 95 trat­ tano inoltre (ma in un modo parziale, facendo astra­ zione dalle controversie che saranno studiate in logica maggiore e in critica) dei rapporti della metafisica con la scienza, che il programma pone nella sezione intito­ lata Metafisica . Riguardo alle divisioni della filosofia, si osservi che l’ordine adottato nella maggior parte dei trattati universitari, come nel programma ufficiale {Psicolo­ gia, Estetica, Logica, Morale, Metafisica) è criticabile da molti punti di vista. Esso spezza la continuità della filosofia speculativa, ponendo la morale fra la psico­ logia e la metafisica; la logica viene spostata dalla po­ sizione che secondo la natura delle cose questa scienza deve occupare nell’insegnamento (ved. sopra pp. 107116); infine, e soprattutto, iniziando dalla psicologia e omettendo tutte le altre parti della filosofia naturalecc,

bb) Questa distinzione ci è stata suggerita dal nostro collega. Jeanjean, professore di psico­ logia pedagogica alTInstitut Catholique di Parigi, che qui ringraziamo per i suoi utili con­ sigli. * Tale riassunto pro-memoria risulta qui stampato con il volume stesso, sotto una nuova numerazione delle pagine, nell’edizione francese che traduciamo. Quanto sopra si riferisce ovviamente ad un’edizione in dispense o fascicoli separati, n.d.t.

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tale ordine cede alla tendenza soggettivista che regna nella filosofia dopo Descartes e che fa considerare i fatti della coscienza come l’oggetto per eccellenza del filosofo e come l’unica realtà a cui possa giungere di­ rettamente il pensiero. 5. DISSERTAZIONI — Vi è un vantaggio ben pic­ colo nel dare soggetti di dissertazioni ( qual è l'oggetto

della filosofia?, distinguere la scienza positiva e la f i­ losofia, eccetera) corrispondenti ai problemi molto generali trattati in questa Introduzione, e coi quali gli studenti non sono ancora sufficientemente famigliarizzati. È più vantaggioso, crediamo, durante le prime settimane, abituare gli allievi a costruire uno schema dettagliato , con divisioni e suddivisioni chiaramente indicate, riguardo a determinati soggetti, che i loro studi precedenti o la semplice riflessione naturale per­ mettono loro di trattare più facilmente, per esempio su alcuni dei seguenti argomenti.

— Quali sono secondo voi i vantaggi della cultura scientifica e della cultura letteraria, dal punto di vista della formazione dell’in­ telletto? — Lamartine aveva ragione di condannare le favole di La Fontaine, ritenendo che queste esercitino un’influenza dannosa nel­ l’educazione morale dei fanciulli? — Il ruolo della ragione e della sensibilità nella creazione poe­ tica. — Si deve dire con Rousseau che il progresso delle scienze e delle arti porta con sé necessariamente la corruzione dei costumi? — Spiegare e discutere queste due formule: «Bisogna tendere alla verità con tutta l’anima», «Bisogna evitare, in materia intellet­ tuale, qualunque preoccupazione morale» (Tolosa). — Descartes ebbe ragione di dire: «Il buon senso è l’unica cosa al mondo meglio spartita?» (Clermont-Ferrand). — Commentare e discutere questa definizione di Wundt: «La mente è una cosa che ragiona» (Parigi). — Classificare i diversi significati nei quali Pascal usa il termi­ ne cuore e cercar di precisare il suo pensiero su questo punto. (Si ri-

cc) Il problema della materia, che concerne propriamente la filosofia naturale, è posto nel programma nella sezione Metafisica.

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correrà per questa dissertazione all* indice di una buona edizione di Pascal.) — Che pensate della pena di morte? — Di quali elementi è composta l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini? (Caen). E quali significati diversi comporta questa idea? — La sincerità. I suoi gradi. Si può mentire a se stessi? (Nancy). — Il duello.

Si farà fare agli studenti un esercizio ugualmente assai utile chiedendo loro di riassumere il capitolo di un’opera filosofica che verrà loro indicato, di sottoli­ neare con cura le articolazioni principali, di redigerne lo schema.

6 .

LETTURE — Conviene far corrispondere al-

VIntroduzione alla filosofia alcune letture d’ordine generale, atte a risvegliare la mente nei confronti delle preoccupazioni speculative. Molti elenchi possono es­ sere proposti. A titolo d’esempio indicheremo le opere seguenti. Xénophon: Mémorables. Platon: Apologie de Socrate.

Criton. [Phédon.] Euthydème. [Gorgias.] Aristote: [Ethique à Nicomaque, in particolare libri I, IV, V, V ili, IX o X.]

[Politique, in particolare libri I, III, IV ο V.] [Poétique.J Bossuet: * Connaissance de Dieu et de soi-mème. Pascal: Pensée et opuscules. J. de Maistre: Les soirées de Saint-Pétersbourg. Le pape. Considérations sur la France. Blanc de Saint-Bonnet: La douleur. Ernest Hello: L ’homme. La philosophie et Vathéisme.

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Ollé-Laprune: * Le prix de la vie. e La philosophie et le temps présent. Mgr. d’Hulst: * Mélanges philosophiques.

Nouveaux mélanges philosophiques. A.-D. Sertillanges: Les sources de la croyance en Dieu.

La vie intellectuelle. M. Grabmann: Saint Thomas d'Aquin.

Abbiamo segnato con un asterisco le opere che ci sembrano le più importanti per Tintroduzione alla filosofia e abbiamo messo tra paren­ tesi quelle la cui lettura è più difficile.

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RIASSUNTO PROMEMORIA / numeri messi tra parentesi rinviano alle pagine del testo.



1. NATURA DELLA FILOSOFIA 1.1. Nozioni Storiche 1.1.1. La filosofia appare sin dall’inizio come la SAGGEZZA PROPRIAMENTE UMANA. I popoli primitivi conoscevano numerose verità d’ordine filosofico, ma le traevano dal senso comune e dalla tradi­ zione primitiva. Presso i semiti, nessuna filosofia. Presso gli ariani, in generale, sforzo verso la filosofia, ma impotente, salvo in Grecia (e assai parzialmente in India) rivolto a costituire una filosofia distinta dalla re­ ligione. Nell’antichità, l’opera della ragione è riuscita solo in Grecia.

(pp. da 21 a 44) 1.1.2. La filosofia greca incomincia solo con Talete di Mileto (VIIVI secolo a.C.). Gli ionici vogliono spiegare tutto mediante qualche principio materiale {acqua per TALETE, aria per ANASSIMENE,/woco per ERACLITO, infinito per ANASSIMANDRO). ERACLITO è il filosofo del divenire puro (tutto scorre). DEMOCRITO fonda Vatomi­ smo. ANASSAGORA riconosce un'intelligenza separata dal mondo. Gli italici (PITAGORA) fanno dei numeri l’unica realtà. Gli eleati assorbono tutte le cose ne\Vessere uno e immobile. PAR­ MENIDE è il filosofo àeW essere puro.

(pp. da 44 a 54) 1.1.3. Nel V secolo la sofistica mette la ragione in pericolo. I sofisti volevano la superiorità intellettuale e i vantaggi della scienza senza vole­ re la verità. Socrate raddrizza il pensiero filosofico. È un esperto, un medico delle anime. Fondatore della scienza morale. Grazie al suo metodo (IRONIA E MAIEUTICA) disciplina la ragione e le impone la ricerca delle essenze e delle definizioni. Innalza la filosofia dallo studio esclusi­

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vo del mondo corporale alla considerazione dell’uomo e delle cose uma­ ne (CONOSCI TE STESSO).

(pp. da 54 a 61) 1.1.4. Platone tenta una grande sintesi dottrinale, che se rimane vi­ ziata da errori, racchiude però in sé un germe senza pari. La sua filoso­ fia è la filosofia delle idee (archetipi sovrasensibili eterni, L’UOMO IN SÉ). Il mondo sensibile non è che un’ombra ingannatrice e può essere solo oggetto di opinione, non di scienza. Sapere è ricordarsi; (INNEISMO METEMPSICOSI). L’uomo è una mente che usa degli organi fisi­ ci (DUALISMO PSICOLOGICO). Un peccatore non è che un ignoran­ te.

(pp. da 61 a 68) 1.1.5. Aristotele , correggendo Platone, riesce ad assicurare in mo­ do definitivo la presa del’intelligenza sul reale. Critica la teoria delle idee e mostra che le essenze sono sotto uno stato di universalità solo nella mente. Le cose sensibili sono reali, sono composte di materia e di form a. Tutte le nostre idee provengono dai sensi, per l’effetto dell’attività im­ materiale della mente. L’uomo è un animale ragionevole, UNA sostanza COMPOSTA (composta di un CORPO e di un’ANIMA SPIRITUA­ LE). Il peccatore fa il male che conosce (distinzione fra giudizio specula­ tivo e giudizio pratico). Aristotele, malgrado le deficienze che attestano in lui l’imperfezio­ ne della ragione umana, si innalza sino alla conoscenza del vero Dio, perfettamente uno, separato dal mondo, beato in se stesso, vivente e in­ telligente per essenza, atto puro. Nel XIII secolo Tommaso d 3Acquino, introducendo la filosofia di Aristotele nella luce superiore della teologia, la purifica, la sistematizza, l’approfondisce, e l’arricchisce di nuove sintesi. La filosofia di Aristote­ le e di Tommaso è la PHILOSOPHIA PERENNIS.

(pp. da 68 a 78) 1.2. CONCLUSIONI

1.2.1. La filosofia è la conoscenza SCIENTIFICA che mediante luce NATURALE della ragione considera le CAUSE PRIME o le ragio­ ni più elevate di TUTTE LE COSE; o anche: la conoscenza scientifica delle cose mediante le cause prime, nella misura in cui queste concerno­ no l’ordine naturale. Distinzione fra l’OGGETTO MATERIALE della filosofia (tutte le cose naturalmente conoscibili) e il suo OGGETTO FORMALE (cause prime). Lo studio delle cause assolutamente prime (SIMPLICITER PRIMAE) appartiene alla filosofia prima o metafisica.

(pp. da 79 a 87)

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1.2.2. La filosofia è la più alta delle conoscenze umane ed è vera­ mente una SAPIENZA. Le scienze particolari le sono sottomesse, nel senso che essa le GIUDICA, le DIRIGE e DIFENDE i loro principi. Es­ sa poi è libera nei loro confronti e non ne dipende se non come da STRUMENTI di cui si serve.

(pp. da 87 a 95) 1.2.3. La teologia o scienza di Dio, secondo quanto Egli di sé ci ha fatto conoscere mediante la rivelazione, è al di sopra della filosofia. La filosofia le è SOTTOMESSA non nei suoi principi né nel suo sviluppo, ma NELLE SUE CONCLUSIONI, sulle quali la teologia esercita un controllo, essendo pertanto REGOLA NEGATIVA per la filosofia e li­ mitando la sua libertà di sbagliare. La teologia, d’altro canto, usa come di uno STRUMENTO, per stabilire le sue proprie dimostrazioni, della filosofia e delle verità rico­ nosciute dalla ragione.

(pp. da 95 a 99) 1.2.4. Il senso comune, giudizio istintivo e spontaneo della ragione umana, comporta tre gruppi di certezze naturali (DATI DELL’EVI­ DENZA SENSIBILE, PRINCÌPI INTELLIGIBILI EVIDENTI PER SE STESSI, CONCLUSIONI PROSSIME). La filosofia non è fondata sull’autorità del senso comune, conside­ rato come consenso generale o come istinto comune dell’umanità; trae nondimeno dal senso comune, se lo si considera in se stesso, Vintelligenza dei primi principi immediatamente evidenti. Essa è superiore al senso comune, come lo stato perfetto o scientifico di una conoscenza vera è superiore allo stato imperfetto o volgare di questa stessa conoscenza. Tuttavia, la filosofia può essere ACCIDENTALMENTE giudicata dal senso comune.

(pp. da 98 a 105) 1.2.5. La filosofia ha come principi formali i primi principi eviden­ ti per se stessi, còlti nella nozione dell’essere e come materia l’esperienza e i fatti, gli accadimenti più semplici e più evidenti.

(pp. da 105 a 106) 2. DIVISIONE DELLA FILOSOFIA 2.1. Le grandi parti della filosofia

2.1.1. la filosofia si divide in tre grandi parti: I. La logica, che i troduce alla filosofia propriamente detta e il cui oggetto è L’ESSERE DI RAGIONE (ordine da far regnare tra i nostri concetti) CHE DIRIGE LA NOSTRA MENTE VERSO IL VERO; II. La filosofia speculativa o semplicemente la filosofia, che ha come oggetto L’ESSERE DELLE

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COSE (essere REALE); III. La filosofia pratica o morale, che ha come oggetto gli ATTI UMANI.

(pp. da 107 a 119) 2 .2 .1 principali problemi 2.2.1. La logica minore o logica formale ricerca quali sono le rego­ le da seguire per RAGIONARE CORRETTAMENTE. La logica mag­ giore o logica materiale si domanda a quali condizioni il ragionamento è non solo corretto, ma anche vero e dimostrativo, e produce la SCIEN­ ZA. Importanza capitale del problema delPUNIVERSALE, studiato in logica maggiore. Le IDEE sono le similitudini interne delle cose per mezzo delle quali queste ci vengono presentate in modo che possiamo ragionare su di esse (e quindi acquisirne la scienza); le IMMAGINI sono le similitudini interne delle cose per mezzo delle quali queste ci vengono presentate come ce le hanno mostrate dapprima le nostre sensazioni. Le parole esprimono direttamente le idee, evocando contemporaneamente delle immagini. Le nostre SENSAZIONI e le nostre IMMAGINI ci pre­ sentano direttamente e per sé qualcosa di individuale, le nostre IDEE ci presentano direttamente e per se stesse qualcosa di universale (UNUM IN MULTIS).

(pp. da 121 a 131) 2.2.2. Prima parte della filosofia speculativa: filosofia delle mate­ matiche (ENS QUANTUM). Qual è la natura della quantità, dell’esten­ sione, del numero?

(pp. da 133 a 134) 2.2.3. Seconda parte della filosofia speculativa: filosofia della na­ tura (ENS MOBILE). In che consiste il movimento? La sostanza corpo­ rale? (Materia e forma, dottrina ILEMORFISTA). In che consiste la vi­ ta? Quali sono i principi primi costitutivi dell’organismo vivente? Scienza dell’uomo (psicologia), al vertice della filosofia della natu­ ra. Problema dell’origine DELLE IDEE, dottrina dell’astrazione. Le nostre idee sono tratte o astratte dal dato sensibile mediante l’attività di una facoltà speciale (INTELLETTO AGENTE), che va oltre ogni ordi­ ne dei sensi e che è come la luce della nostra intelligenza. Problema della NATURA DELL’UOMO. (DOTTRINA ANIMISTA). L’uomo è una sostanza composta di due parti complementari, CORPO, che è ciò che è solo grazie all’anima, e ANIMA RAGIONEVOLE, che è SPIRITUA­ LE, cioè capace di agire e di esistere INDIPENDEMENTE DALLA MATERIA. (pp. da 134 a 143)

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2.2.4. Terza parte della filosofia speculativa: metafisica (ENS IN QUANTUM ENS). La metafisica comprende a sua volta la CRITICA, ΓONTOLOGIA e la TEOLOGIA NATURALE o teodicea. Critica o metafisica della verità. Problema della verità. La verità della conoscenza consiste nella CONFORMITÀ DELLA MENTE AL­ LA COSA. È assurdo mettere in dubbio la veracità delle nostre facoltà di conoscere. Problema dellOGGETTO DELL’INTELLIGENZA. L’oggetto formale dell’intelligenza è TESSERE. Essa è fatta per com­ prendere quello che sono le cose, indipendentemente da noi. L’essere co­ me tale è INTELLIGIBILE, ogni cosa è intelligibile, proprio nella misu­ ra in cui è.

(pp. da 143 a 151)

2.2.5. ONTOLOGIA, o metafisica dell’essere in generale. Quali sono i dati assolutamente primi dell’intelligenza considerando Tessere? 2.2.5. a. L’ESSENZÀ. Divisione dell’essere in essenza ed esisten L'essenza propriamente detta di una cosa è ciò che questa cosa è NE­ CESSARIAMENTE e PRIMARIAMENTE a titolo di PRINCIPIO PRIMO D ’INTELLIGIBILITÀ. La nostra intelligenza può conoscere le essenze delle cose (distintamente o confusamente). Le essenze delle cose sono UNIVERSALI NELLA MENTE e CONSIDERATE IN SE STESSE fanno astrazione da qualunque modo di esistere e NON SONO né universali NÉ INDIVIDUALI.

(pp. da 151 a 168)

2.2.5. b. LA SOSTANZA E L’ACCIDENTE. Considerando Te re delle cose non più in rapporto all’intelligibilità, ma in rapporto all’ESISTENZA, si vede che ciò che anzitutto esiste è il SOGGETTO D ’A ­ ZIONE {sostanzapersonale , persona). Contrariamente agli ACCIDEN­ TI (esseri di sovrappiù), la nozione di SOSTANZA si esplicita come con­ veniente al SOGGETTO D ’AZIONE e alla sua NATURA COSTITUTI­ VA {ciò per cui è idoneo a esistere puramente e semplicemente). La sostanza è una cosa o una natura a cui conviene esistere PER SÉ o IN RAGIONE DI SÉ (per sé) o anche IN SÉ (in sé) e non in un’altra cosa (IN ALIO). L 'accidente è una natura o essenza a cui conviene esistere IN U N ’ALTRA COSA (in alio). (Si distingua bene l’espressione p erse , per sé o in ragione di sé, dal­ l’espressione a se , da sé, in ragione di sé COME PRINCIPIO ASSOLU­ TAMENTE PRIMO O COME RAGIONE INTERA ED ULTIMA).

(pp. da 168 a 180)

2.2.5. C. L’ATTO E LA POTENZA. Considerando Tessere d cose in riferimento alla maniera in cui queste SI COMPORTANO nella realtà, si vede che il fatto del MUTAMENTO, in apparenza incompati­

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bile con il PRINCIPIO D ’IDENTITÀ (ciò che è, è), si concilia con que­ st’ultimo solo grazie alla nozione d’ESSERE IN POTENZA o DI PO­ TENZIALITÀ (capacità reale). Pertanto, TESSERE considerato in rapporto alla pienezza e alla perfezione che questa parola significa, si divide in un ESSERE PRO­ PRIAMENTE DETTO o atto e CAPACITÀ D ’ESSERE o potenza,. Il CAMBIAMENTO è il passaggio dalla potenza all’atto, o meglio Tatto di una cosa in potenza, considerato precisamente sotto il rapporto in cui essa è in potenza (ACTUS EXSISTENTIS IN POTENTIA PROUT IN POTENTIA).

(pp. da 180 a 191) 2.2.6. TEOLOGIA NATURALE o teodicea (metafisica dell’essere stesso sussistente). La teodicea tratta in primo luogo dell’ESISTENZA DI DIO; (le cinque vie di Tommaso dimostrano l’esistenza di Dio come primo motore, prima causa efficiente, primo necessario, primo essere sorgente di ogni perfezione, prima intelligenza che ordina tutte le cose). Tratta successivamente della NATURA DI DIO e delle sue perfe­ zioni, di cui la prima (secondo la nostra maniera di conoscere) è L’ASEITÀ (essere da sé, a sé), (La ragione conosce Dio con una conoscenza ANALOGICA).

(pp, da 191 a 194) 2.2.7. Nella filosofia pratica si può distinguere la FILOSOFIA DELL’ARTE e la MORALE o FILOSOFIA PRATICA PROPRIA­ MENTE DETTA. La filosofia delVarte tratta in generale della natura delle ARTI (cioè delle virtù intellettuali pratiche che tendono all’OPE­ RA DA FARSI — factibile — e alla perfezione dell’opera stessa fatta dall’uomo) e tratta in particolare della natura delle BELLE ARTI.

(pp, da 195 a 197) 2.2.8. La morale o etica tratta degli ATTI UMANI e delle loro re­ gole (si occupa dell’AGIRE UMANO — agibile — o dell’uso del libero arbitrio e della perfezione dell’uomo stesso che opera). Essa ci fa cono­ scere ciò che dobbiamo sapere per agire bene, non ci fa agire bene (que­ sto è compito della virtù della prudenza e delle virtù morali). Inoltre, non ci insegna se non ciò che dobbiamo sapere per agire bene nell’ordine NATURALE, fatta astrazione dal fine soprannaturale a cui in realtà siamo chiamati. PROBLEMI GENERALI dell’ETICA: in che consiste IL FINE ULTIMO dell’uomo? (Morale della beatitudine o del bene sovrano: Dio è il fine ultimo dell’uomo.) Qual è il meccanismo degli atti umani? Che cosa li rende moralmente buoni o cattivi? Qual è la loro regola suprema? La loro regola immediata? Che cosa viene chiamato virtù o vizio? PROBLEMI PARTICOLARI dell’ETICA: quali sono i nostri do­ veri concernenti il nostro bene personale? Quali sono i nostri doveri con­

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cernenti il bene altrui? (Diritto naturale, comprendente il diritto indivi­ duale, il diritto sociale e la religione naturale).

(pp. da 198 a 202)

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BIBLIOGRAFIA E NOTE



BIBLIOGRAFIA

Una bibliografia definitiva delle opere di Jacques e Raissa Maritain è difficile da rico­ struire, ed esigerebbe anni di ricerche in Europa e in America, tanti sono gli interventi dei Maritain nel dibattito culturale e politico contemporaneo attraverso volumi, articoli, con­ ferenze, inchieste, interviste, lettere, prefazioni, scritti frequentemente espressi in diverse lingue e con redazioni differenti. Donald e Ideila Gallagher in America nel 1962 elencano 91 volumi, 111 collaborazioni, 57 prefazioni e 457 articoli !, ma Jacques Maritain tra il 1962 e il 1973 ha continuato a pubblicare e molti volumi sono stati presentati in nuove edi­ zioni e molti articoli raccolti in volumi. Laura Fraga de Almeida Sampaio nel 1963 elenca 364 scritti dei Maritain, e Henry Bars nella sua introduzione alle Opere scelte , nel 1975, presenta 96 titoli delle opere più importanti della bibliografia maritainiana 12. Questa bi­ bliografia, sulla base degli autori sopracitati e con le necessarie integrazioni ricavate dalla rivista Notes et documents de VInstitut International Jacques Maritain, vuole essere un contributo alla definizione della bibliografia maritainiana maggiore, trascurando di neces­ sità gli scritti minimi, come le singole lettere, inchieste, interviste, presentazioni di catalo­ ghi, recensioni, dibattiti. Vengono così elencati, in ordine cronologico, alla data della pri­ ma edizione, i volumi, gli articoli e le collaborazioni, le prefazioni, le antologie, le corri­ spondenze, con l’avvertenza che non sono stati elencati gli articoli e le collaborazioni che Maritain ha riportato nei volumi. Poiché gli articoli sono stati pubblicati in riviste di tutto il mondo, per ciascuna rivista è pure indicato il luogo di edizione, in occasione del primo numero riportato. Le traduzioni in lingua italiana sono precedute da un riferimento numerico all’opera originale, in modo che il lettore possa individuare con facilità sia le opere tradotte sia la collocazione delle medesime nella bibliografia maritainiana. Pertanto, il numero indicato prima della traduzione si riferisce agli elenchi delle opere originali. Per bibliografie specia­ lizzate nei diversi settori della ricerca maritainiana si vedano i riferimenti in nota 3. 1) Donald and Ideila Gallagher, The Achievement o f Jacques and Raissa Maritain: A Biblìography 1906-1961, Doubleday & Company, Ine., New York 1962, pp. 256. 2) Laura Fraga de Almeida Sampaio, L ’ìntuition dans laphilosophìe de J. Maritain, Librairie Vrin, Paris 1963, pp. 169-211; Jacques Maritain, Oeuvres 1912 1939, Desclée de Brouwer, Paris, pp. 49-67; Henry Bars, Maritain en notre temps, Grasset, Paris 1959, pp. 365-394. 3) Epistemologia: J. Maritain, Sulla filosofia cristiana, Vita e Pensiero, Milano 1978, pp. 137-142. Filosofia morale: J. Maritain, Nove lezioni sulle prime nozioni della f i ­ losofia morale, Vita e Pensiero, Milano 1979, pp. 247-263. Filosofia politica: A A .V V ., Il pensiero politico di J. Maritain, Massimo, Milano 1978, pp. 418-433. Pedagogia: A A .VV ., Jacques Maritain: verità, ideologia, educazione, Vita e Pensiero, Milano 1977,

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pp. 251-268. Filosofia del diritto: Jacques Maritain, Idiritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano 1979, pp. 107-114. Estetica: Jacques Maritain, Arte e scolastica, Morcelliana, Brescia 1980, pp. 176-189.

I. VOLUMI 1 Laphilosophie bergsonienne: études critiques, Marcel Rivière, Paris 1914, pp. 477; II edizione, Téqui, Paris 1930, pp. XIX-383, riveduta e ampliata, con una nuova prefazio­ ne ed un’appendice Glosessur Aristote; III edizione, Téqui, Paris 1948, come la preceden­ te, con l ’aggiunta di un postscriptum. 2 Art et scholastique. Librairie à l ’Art Catholique, Paris 1920, pp. 188; II edizione, Librairie à l ’Art Catholique, Paris 1927, pp. 352, con l ’aggiunta di Frontière de la poesie ; III edizione , Louis Rouart et Fils, Paris 1935, con diverse aggiunte rispetto alla preceden­ te, ma senza Frontières de la poesie; IV edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1965, p p . 278, come la precedente, ma con diversa impaginazione. 3 Éléments de philosophie: 1. Introduction générale à la philosophie, Pierre Téqui, Paris 1921, pp. 228. 4 Théonas, ou les entretiens d ’un sage et de deux philosophes sur diverses matières inégalement actuelles, Nouvelle Librairie Nationale, Paris 1921, pp. 220; II edizione, Nouvelle Librairie Nationale, Paris 1925, pp. 220, riveduta e corretta; III edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1932, pp. 220, come la precedente. 5 Antimoderne, Éditions de la Revue des Jeunes, Paris 1922, pp. 247; II edizione, Desclée de Brouwer, Pajis 1922, pp. 266. Riveduta ed ampliata con un capitolo aggiunti­ vo: Connaissance de TÉtre. 6 De la vie d ’oraison, edizione fuori commercio e a tiratura limitata, pubblicata a Saint-Maurice d ’Agaune 1922, opera scritta in collaborazione con Raissa Maritain; II edi­ zione, librairie à l’Art Catholique, Paris 1925, pp. 102, riveduta ed ampliata con alcune note aggiuntive, includenti l’articolo Sur Fappel à la vie mystique et à la contemplatìon. 7 Éléments de philosophie; IL L’ordre des concepts 1° Petite logique, Pierre Téqui, Paris 1923, pp. XI-355. 8 Réflexions sur Fintelligence et sur sa viepropre, Nouvelle Librairie Nationale, Pa­ ris 1924, pp. 380; II edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1926, pp. 388, come la precedente; III edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1930, pp. 378, con qualche correzione. 9 Trois réformateurs: Luther, Descartes, Rousseau, Librairie Plon, Paris 1925, pp. 284; II edizione, Librairie Plon, Paris 1937, pp. 322, riveduta ed ampliata. 10 Réponse à Jean Cocteau, Librairie Stock, Paris 1926, pp. 71; II edizione, Librai­ rie Stock, Paris 1964, pp. 147, comprendente anche la Lettre à Maritain di Cocteau. 11 Une opinion su Charles Maurras et le devoir des catholiques, Librairie P lon, Paris 1926, pp. 75. 12 Primauté du spirituel, Librairie Plon, Paris 1927, pp. 315. 13 Quelquespages sur Léon Bloy, À l ’Artisan du Livre, Paris 1927, pp. 49. 14 Le docteur angélique, Desclée de Brouwer, Paris 1930, pp. 284; il terzo capitolo era già stato pubblicato con il titolo Saint Thomas d ’Aquin, Apótre des temps modernes, Éditions de la Revue des Jeunes, Paris 1923, pp. 47.

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15 Religion et culture, Desclée de Brouwer, Paris 1930, pp. 115; II edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1946, con una prefazione, pp. 115; III edizione nella collezione tascabi­ le Foi vivante, Paris 1968, pp. 188, con l ’aggiunta di Religion et culture II, tratto da Du régime tempo rei et de la liberté, vedi n. 19. 16 Le songe de Descartes, Éditions Corréa, Paris 1932, pp. XII-344; II edizione, Buchet-Chastel, Paris 1965, pp. 346, come la precedente. 17 Distinguer pour unir, ou les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Paris 1932, p p . XVII-919; II edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1935, pp. 922, con postscriptum; III edi­ zione, Desclée de Brouwer, Paris 1939, pp. 925, con un nuovo postscriptum; si può consi­ derare definitiva la VII edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1963, pp. 1000, riveduta e cor­ retta, comprendente nove appendici. 18 De la philosophie chrétienne, Desclée de Brouwer, Paris 1933, pp. 166. 19 Du régime temporei et de la liberté, Desclée de Brouwer, Paris 1933, pp. 284. 20 Sept legons sur Tètre et les premières principes de la raison speculative, Pierre Téqui, Paris 1934, pp. 166. 21 Frontières de la poésie, Louis Rouart et Fils, Paris 1935, pp. 226. 22 La philosophie de la nature, essai critique sur ses frontières et son objet, Pierre Téqui, Paris 1935, pp. 146. 23 Lettre sur Findépendance, Desclée de Brouwer, Paris 1935, pp. 66. 24 Science et sagesse, suivi d ’éclaircissements sur la philosophie morale, Labergerie, Paris 1935, pp. 393. 25 Humanisme intégral:problèmes temporels et spirituels d ’une nouvelle chrétienté, Fernand Aubier, Paris 1936, pp. 334. La prima versione di questa opera è apparsa in lin­ gua spagnola, Signo, Madrid 1935. 26 Situation de la poésie, Desclée de Brouwer, Paris 1938, pp. 166; sono di Jacques Maritain i capitoli III e IV. 27 Questions de conscience: essais et allocutions, Desclée de Brouwer, Paris 1938, pp. 279. 28 Le crépuscule de la civilisation, Éditions Les Nouvelles Lettres, Paris 1939, pp. 31. 29 Quatre essais sur Vesprit dans sa condition charnelle, Desclée de Brouwer, Paris 1939, pp. 266; II edizione, Alsatia, Paris 1956, pp. 266, con l ’aggiunta di due appendici e una nota: Signe et symbole , La philosophie et l ’unité des Sciences, Intuition et conceptuali-

sation. 30 De la justicepolitique: notes sur la présente guerre, Librairie P lon, Paris 1940, p p . XIII-114; II edizione, Paul Flartmann, Paris 1945, pp. X III-114, come la precedente. 31 À travers le désastre, Éditions de la Maison F r a n o se , New York 1941, ρρ. 149; edizione clandestina pubblicata in Francia dai fratelli Ribaud a Gap; Il edizione, Éditions de Minuit, Paris 1942, pp. 42; III edizione, Éditions des Deux-Rives, Paris 1946, pp. 137. 32 La pensée de Saint Paul, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1941, pp. 252. 33 Les droits de Fhomme et la loi naturelle, Éditions de la Maison Frangaise, New

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York 1942, pp. 142; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. 116. 34 Christianisme et démocratie, Éditions de la Maison Francai se, New York 1943, pp. 92; edizione clandestina pubblicata in opuscolo in Francia nel 1942; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. 92. 35 Educat io n at thè crossroads, Yale University Press, New Haven 1943, pp. X-120; II edizione, L ’éducation à la croisée des chemins, Egloff, Paris 1947, pp. 239, con ra g ­ giunta di un’appendice: Leproblème de l ’écolepublique en France. 36 De Bergson à Thomas d ’Aquin: essais de méthaphysique et de morale, Éditions de la Maison Francaise, New York 1944, pp. 269; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1947, pp. 333. 37 Principes d ’unepolitique humaniste, Éditions de la Maison Francaise, New York 1944, pp. 232; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1944, pp. 206. 38 À travers la victoire, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. 57. 39 Messages 1941-1945, Éditions de la Maison Francaise, New York 1945, pp. 221; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. 200. 40 Pour la justice, articles et discours 1940-1945, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1945, pp. 367. 41 Court traité de Texistence et de Texistant, Paul Hartmann, Paris 1947, pp. 239. 42 Lapersonne et le bien commun, Desclée de Brouwer, Paris 1947, pp. 93. 43 Raison et raisons: essais détachés, Egloff, Paris 1947, pp. 358; l ’edizione in lingua inglese The Range o f Reason, Charles Scribner’s Sons, New York 1952, pp. 227, compren­ de testi diversi tra cui due non più ripresi in altre opere dall’autore, On Knowledge Through Connaturality e Christian Humanism. 44 La signification de Tathéisme contemporain, Desclée de Brouwer, Paris 1949, pp. 42. 45 Man and thè State, The University o f Chicago Press, Chicago 1951, pp. X-219. 46 Neuflegons sur les notions premières de la philosophie morale, Pierre Téqui, Pa­ ris 1951, pp. IV-195. 47 Approches de Dieu, Alsatia, Paris 1953, pp. 136. 48 Creative Intùition in Art and Poetry, Pantheon Books, New York 1953. 49 George Rouault, Harry N. Abrams, New York 1954, pp. 74. 50 On thèphilosophy o f History, Charles Scribner’s Sons, New York 1957, pp. XI180. 51 Reflections on America, Charles Scribner’s Sons, New York 1958, pp. 205. 52 Luturgie et contemplation, Desclée de Brouwer, Paris 1959, pp. 98, scritto in col­ laborazione con Raissa Maritain. 53 Pour unephilosophie de Téducation, Arthème Fayard, Paris 1959, pp. 249; II edi­ zione, Arthème Fayard, Paris 1969, pp. 269, con diverse variazioni ed aggiunte che modi­ ficano la precedente edizione. 54 Le philosophe dans la citè, Alsatia, Paris 1960, pp. 205.

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55 The Responsability o f the Artist, Charles Scribner’s Sons, New York 1960, pp. 120. 56 La philosophie morale: I. Examen historique et critique des grands systèmes, G al­ lim ard, Paris 1960, pp. 588. 57 La contemplation sur les chemins: notes sur le “Pater”, Desclée de Brouwer, P a ­ ris 1962, pp. 106, riflessioni di Raissa sul Padre nostro ricostruite ed integrate da Jacques M aritain. 58 Dieu et la permission du mal, Desclée de Brouwer, Paris 1963, pp. 82. 59 Journal de Raissa publié par Jacques Maritain, Desclée de Brouwer, Paris 1963, pp. 384, raccolta di testi autobiografici di Raissa con una avvertenza di Jacques M aritain ed una lettera di Olivier Lacombe. 60 Carnet de notes, Desclée de Brouwer, Paris 1965, pp. 430, raccolta di brevi testi autobiografici scritti tra il 1906 e il 1938 e di alcuni scritti più am pi: Amour et amitié, À propos de ΓEglise du Ciel, riportati in seguito in Approches sans entraves, vedi n. 65. 61 Lé mystère d ’Israël et autres essais, Desclée de Brouwer, Paris 1965, raccolta di te ­ sti sul problem a ebraico scritti dal 1926 al 1961, con un postscriptum del 1964. 62 Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, Paris 1966, pp. 410. 63 De la grâce et de l ’humanité de Jésus, Desclée de Brouwer, Paris 1967, pp. 156. 64 De l ’Église du Christ. La personne de l ’Église et son personnel, Desclée de Brou­ wer, Paris 1970, pp. 310. 65 Approches sans entraves, Arthème Fayard, Paris 1973, pp. 598. II. ARTICO LI E COLLABORA ZIO NI 1 Le néo-vitalisme en Allemagne et le darwinisme, in Revue de Philosophie, Paris, ottobre 1910, pp. 417-441. 2 L ’ésprit de la philosophie moderne. I. Les préparations de la réforme cartésienne. IL Descartes et la Théologie, in Revue de Philosophie, giugno 1914, pp. 601-625. 3 L ’ésprit de la philosophie moderne. III. L ’indépendance de Tésprit, in Revue de Philosophie, luglio 1914, pp. 53-82. 4 Le rôle de l ’Allemagne dans la philosophie moderne, in La Croix, Paris, 1914-1915 (serie di articoli). 5 Sur Tunique facteur de grandeur française: Tésprit, in Les Lettres, Paris, dicembre 1919, pp. 19-21. 6 Notes sur saint Thomas et la theorie de Tart, in Revue des Jeunes, Paris, 10 marzo 1920, pp. 584-594. 7 L ’état actuel de la philosophie allemande, in La Revue Universelle, Paris, 15 marzo 1921, pp. 705-720. 8 Â propos de la question juive, in La Vie Spirituelle, Paris, luglio 1921, pp. 305-310. 9 L ’Église et la philosophie de saint Thomas, in Revue des Jeunes, 25 ottobre 1921, pp. 130-163.

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10 Le témoignage d ’Ernest Psichari, in Revue des Jeunes, 25 dicembre 1921, pp. 670-

686 . 11 Jean-Jacques Rousseau et la pensée moderne, in Annales de VInstitut Supérieur de Philosophie, Louvain, dicembre 1921, pp. 221-262. 12 Sainte Gertrude, in Revue des Jeunes, 8 aprile 1922, pp. 143-156. 13 Deux idées modernes, in La Revue Universelle, 1 maggio 1923, pp. 378-390. 14 Pensée moderne et philosophie thomiste, in La Revue Universelle, 15 maggio 1923, pp. 495-507. 15 Nouveax débats einsteiniens, in La Revue Universelle, 1 aprile 1924, pp. 56-77. 16 Le thomisme et la crise de l esprit moderne, in Acta Hebdomadae Thomisticae, Roma, dicembre 1923, pp. 55-79. 17 Regard sur Vhistoire moderne, in La Revue Universelle, 15 novembre 1925, pp. 443-448. 18 The contemporary attitude towards scholasticism, in AA.VV., Day Thinkers and thè New Scholasticism, B. Herder Books, Saint Louis e London 1926, pp. 185-195. 19 L ’ésprit de Ramuz, in A A .V V ., Pour ou contre, Éditions du Siècle, Paris 1926, pp. 181-188. 20 Saint Thomas d ’Aquin, in La Revue Universelle, 1 febbraio 1927, pp. 257-282. 21 De Tobéissance au Pape: àpropos dupouvoir indirect, in La Vie Spirituelle, XV, pp. 755-757. 22 Le sens de la condemnation, in AA .VV ., Pourquoi Rome a parlé, Spès, Paris 1927, pp. 329-385. 23 Poetry and religion in The New Criterion, London, gennaio 1927, pp. 7-22. 24 Le thomisme et la civilisation, in Revue de Philosophie, marzo-aprile 1928, pp. 109-140. 25 L ejougdu Christ, in La Croix, 10maggio 1928; ripreso in AA.VV., Clairvoyance de Rome, Spès, Paris 1929, pp. 269-290. 26 A propos de la renaissance thomiste, in La Vie Intellectuelle, Paris, 10 febbraio 1930, pp. 314-324. 27 Jugements sur Bergson, in La Vie Intellectuelle, 20 giugno 1930, pp. 542-589. 28 Notes, in AA .VV ., Vues sur la psichologie animale, Vrin, Paris 1930, pp. 171173. 29 L ’activité du pére Peillaube dans la fondation et Torganisation de la Faculté de philosophie à VInstitut Catholique, in Revue de Philosophie, gennaio-febbraio 1931, pp. 20-31. 30 Discours pour Vinauguratìon du monument au Cardinal Mercier à Louvain, in Annales de VInstitut Supérieur de Philosophie de VUniversité de Louvain, 1931, pp. 4452. 31 Science et philosophie d ’aprés lesprincipes du réalisme, in Revue Thomiste, Paris, gennaio-febbraio 1931, pp. 1-46.

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32 Notes sur la personnalité, in A A .V V ., Essais et poèmes 1931, Librairie Plon, Pa­ ris 1931, pp. 177-190. 33 Notes sur la connaissance, in Rivista di filosofia neoscolastica, Milano, gennaio 1932, pp. 13-23. 34 Picasso in Cahiers d ’Art, 1932, pp. 171. 35 Lettre sur le monde bourgeois, in Esprit, Paris, marzo 1933, pp. 897-908. 36 Catholic Layman: On Teaching, numero unico del St. MichaeTs College, Toronto 1933, pp. 7. 37 Mission de la pensée chrétienne, in La Vie Intellectuelle, 25 febbraio 1934, pp. 4147. 38 La philosophie de la nature: philosophie et science, in La Vie Intellectuelle, 25 o t­ tobre 1934, pp. 228-259. 39 Un génie catholique ( Paul Claudel), in La Vie Intellectuelle, luglio 1935, pp. 2629. 40 Reflexions on Sacred Art, in Liturgical Art, New York, luglio-agosto-settembre 1935, pp. 131-133. 41 Notes pour un programme d ’enseignement de la philosophie de la nature et d ’en­ seignement des sciences dans une faculté de philosophie, in Bollettino filosofico, Roma η. 2, 1935, pp. 15-31. 42 Entretien, in A A .V V ., André Gide et notre temps, Paris, Gallimard 1935, pp. 3848. 43 Nature de la politique, in La Relève, Montreal, gennaio 1936, pp. 131-139. 44 Léon Bloy, in The Colosseum, London, marzo 1936, pp. 11-21. 45 Le discerniment médical du merveilleux d ’origine divine, in Études Carmélitaines, Paris, aprile 1937, pp. 95-104. 46 Sur la musique d ’Arthur Lourié, in Revue Musicale, Paris, aprile 1936, p. 266271. 47 D ’un nouvel humanisme ou d ’un humanisme intégral, in Bulletin de l ’Union pour la Vérité, Paris, giugno-luglio 1937, pp. 350-418. 48 Philosophie de l ’organisme: notes sur la fonction de nutrition, in Revue Thomi­ ste, settembre 1937, pp. 263-275. 49 Êtes-vous un barbare?, in Temps Présent, Paris, 10 dicembre 1937. 50 Les principes totalitaires et la religion, in Temps Présent, 1 luglio 1938. 51 War and the bombardment o f Cities, in The Commonweal, New York, 2 settem­ bre 1938, pp. 460-461. 52 Integral Humanism and the Crisis o f Modern Time, in the Review o f Politics, N o­ tre Dame, gennaio 1939, pp. 1-17. Il testo francese è stato pubblicato in A A .V V ., The Image o f Man, University o f Notre Dame Press, Notre Dame 1959, pp. 5-19. 53 Good Will in Science, in The New York Time, 4 agosto 1940, sez. IV, p. 7.

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54 The Educatìon o f Women, in The Inauguration o f George N. Shuster, th'e Fifth President numero unico, Hunter College o f thè City o f New York, New York 1941, pp. 31-36. 55 Notre maitreperdu et retrouvé (Henri Bergson), in Revue Dominicaine, St. Hya­ cinthe P. Q., Canada, febbraio 1941, pp. 61-68; in collaborazione con Raissa Maritain. 56 The Conflict o f Methods at thè End o f thè Middle Ages, in The Thomist, New York, ottobre 1941, pp. 527-538. 57 Science, Philosophy and Faith, negli atti della conferenza Science, philosophy, and Religion: a Symposium, New York 1941, pp. 162-193. 58 Si la democracia tiene una realidad, està es cristiana, in Lectura, Città di M essico, ottobre 1942, pp. 158-161. 59 Whence This Crisis?, in The Catholic Universe Bulletin, Cleveland, Ohio, 18 di­ cembre 1942, pp. 22. 60 El cuarto centenario de san Juan de la Cruz, in Revista de las Indias, Bogotà, Co­ lombia, febbraio 1943, pp. 289-297. 61 The Committee o f Liberation Trustee o f French Interest, in Free World, Chicago, agosto 1943, pp. 114-116. 62 Machiavel: ouTillusion du succès immédiat, in La Nouvelle Relève, gennaio 1944, pp. 65-85. 63 Poetic Experience, in The Review o f Politics, ottobre 1944, pp. 387-402. 64 Bìen commun national et bien commun international, in La Vie Intellectuelle, agosto-settembre 1945, pp. 103-108. 65 Moral educatìon, in A College Goes to School: Centennial Lectures, St. Mary’s College, Notre Dame and Holy Cross, Indiana, 1945, pp. 1-25. 66 Une tragèdie universelle, in A A .V V ., La Patrie se fait tous le jours: textes frangaises 1939-1945, Le Éditions de Minuit, Paris 1947, pp. 279-284. 67 Les civilisations humaines et le róle des chrétiens, in AA .VV ., Les intellectuelles dans la Chrétienté, Pax Romana, Fribourg 1948, pp. 87-105. 68 La philosophie du droit, in AA.VV. The King’s Good Servant, Black-well, Ox­ ford 1948, pp. 40-48. 69 The Meaning o f Human Rights, opuscolo della Brandeis Lawyers Society Phila­ delphia, 1949, pp. 27. Questa conferenza è stata anche ripresa col titolo On thè Philoso­ phy o f Human Rights, in AA .VV ., Human Rights: Comments and Interpretation, Co­ lumbia University Press, New York 1949, pp. 72-77, ed in edizione francese Les droits de Thomme, in La République Frangaise, VII, 1950, pp. 6-24. 70 Science, Materìalism and thè Human Spirit, in The Catholic Mind, New York 1949, pp. 417-420. 71 Religion and thè Intellectuals, in The Partisan Review, New York, aprile 1950, pp. 322-327. 72 The Church and thè Earth ’s Cultures, in Mission Studies, New York, 1 settembre 1950, pp. 16-17.

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73 Convocation Addres nell’opuscolo Academic Convocatio , Manhattan College, New York 1951, pp. 15-19. 74 On Knowledge Through Connaturality, in The Review o f Metaphysics, New Haven, Connecticut, giugno 1951, pp. 473-481. 75 Larmes de lumières, in Marie, Nicolet P. Q. Canada, maggio-giugno-luglio 1951, pp. 55. 76 Reflections on thè Mission, in Mission, New York, giugno-luglio 1951, pp. 3-4. 77 A Synthesis in Modem Sacred Art, in Liturgical Art, novembre 1951, pp. 8-9. 78 Educat ion and thè Humanities, in un opuscolo di Centenary Lecture St. MichaeVs College, Toronto 1952, pp. 9. 79 Ode aux morts confédérés, in The Sewanee Review, Sewanee, Tennessee, gennaiomarzo 1953, pp. 1-11. 80 Dedication to thè Mother o f Wisdom, in Thought, New York, inverno 1954, pp. 485-486. 81 A Faithful Friend, in Review o f Politics, gennaio 1955, p. 43. 82 Le Pape maitre de la parole, in A A .VV ., Pio XII Pontifex Maximus, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1956, pp. 381-397. 83 La péché de TAnge, essai de ré-interprétation des positions thomistes, in Revue Thomiste, febbraio 1956, pp. 197-239. 84 Place unique de Tlmmaculée dans VÉglise et sa royauté d ’amour, in Marie, novembre-dicembre 1956, pp. 279. 85 Hommage à Rouault, in Recherches et débats, Paris, dicembre 1958, pp. 185-187; sviluppa l ’articolo Georges Rouault 1871-1958, pubblicato in The Commonweal, 11 aprile 1958, p. 1. 86 Moral and Spiritual Values in Education, nell’opuscolo Proceedings o f thè Eighty-ninth Convocation o f thè Board o f Regent o f thè State o f New York, New York 1958, pp. 14-21. 87 Philosophy and thè Unity o f Sciences, in American Journal o f Economics and Sociology, Lancaster, Pennsylvania, luglio 1960, p. 368. 88 About Christian Philosophy, in A A .VV ., The Human Person and thè World o f

Values. 89 Yves Simon, in Jubilée, New York, agosto 1961, pp. 2-3; edizione francese: Yves Simon, mon frère d ’armes, in Nova et Vetera, Fribourg, gennaio-marzo 1973, pp. 43-45. 90 À propos de la fo i de Jeanne en ses voix, in Bulletin des Amis du Vieux Chiron, 1962, n. 7, pp. 319-322. 91 Dieu et la Science, in La Table Ronde, Paris, dicembre 1962. 92 Points de vue actuels sur la vie monastique, opuscolo, Montserrat, 1966. 93 The Drawings o f Arthur Lourié, in Latitudes, 1968, n. 2, pp. 6-8. 94 La spiritualité de Julien Green: fidelité à Fésprit, in Renaissance de Fleury, otto­ bre 1970, pp. 13-14.

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95 A propos de la vocation des Petits Frères de Jesus, opuscolo, Toulouse 1973, pp. 16. 96 VEglise et le monde, in Nova et Vetera, Marzo-aprile 1973, p p .170-173. 97 Quelques remarques sur la loi naturelle, in Nova et Vetera, gennaio-marzo 1978, pp. 1-12; la traduzione inglese di questo testo edito postumo: Naturai Law and Moral Law, è stata pubblicata in A A .V V ., Moral Principies o f Action: Man ’s Ethical Imperati­ ve, Harper and Brothers, New York 1952, pp. 62-76. III. PREFAZIONI 1 Clerissac Humbert, O .P ., Le mystère de VEglise, George Crès, Paris 1918, pp. IIIXXII. 2 Driesch Hans, La philosophie de Vorganisme, traduzione dal tedesco di M. Kollmann, Marcel Rivière, Paris 1921, prefazione alla traduzione francese, pp. I-II. 3 Goichon Amelie, Ernest Psichari, d ’après des documents inédits, Éditions de la Revue del Jeunes, Paris 1921, prefazione, pp. 9-25. 4 Deploige Simon, Le conflit de la morale et de la sociologie, Nouvelle Libraire Nationale, Paris 1923, prefazione alla terza edizione, pp. XVII-XX. 5 Levaux Lepold, Quand Dieu parie, Bloud et Gay, Paris 1926, prefazione, pp. XIXIV. 6 Bloy Léon, La femme pauvre, Mercure de France, Paris 1926. 7 De Hovre Frans, Essai de philosophie pédagogique, traduzione dal fiammingo di G. Siméons, Albert Dewit, Bruxelles 1927, pp. VIII-X. 8 -Moureau Léon, Catholicisme ou politique d ’abord, Éditions de la Nouvelle Equi­ pe, Louvain, 1927, lettera di prefazione, p. 9. 9 Bloy Léon, Lettres à sesfilleuls, Jacques Maritain et Pierre van der Meer de Walcheren, Librairie Stock, Parigi 1928, prefazione, pp. IX-XIX. 10 Bruno De Jesus-Marie, O .C .D ., Saint Jean de la Croix, Plon, Paris 1929, introdu­ zione, pp. 1-28. 11 Le Masson Robert, Philosophie des nombres, Desclée de Brouwer, Paris 1932, prefazione, pp. IX-XII. 12 Dandoy G., L*ontologie de Vedanta, Desclée de Brouwer, Paris 1932. 13 Bloy Léon, Lettres à Véronique, Desclée de Brouwer, Paris 1933, introduzione, pp. XII-XX. 14 Cayrè Fulbert, Lessources de Γamour divin, Desclée de Brouwer, Paris 1933, pre­ fazione, pp. I-VII. 15 Meer de Walcheren Pierre van der, Le paradis blanc, Desclée de Brouwer, Paris 1933, introduzione, pp. 11-24. 16 Biver Paul, Apòtre et mystique: le Pére Lamy, Gabriel Enault, Paris 1934, prefa­ zione, pp. III-XIV. 17 Meer de Walchere Pieter van der, Mijn dagboek, Fidelitas, Amsterdam 1934.

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18 Gardeil Ambroise, O .P ., La vraie vie chrétienne, Desclée de Brouwer, Paris 1935, prefazione, pp. VII-IX. 19 Gracanin G., La personnalité morale d'après Kant. Son exposé, sa critique à la lu­ mière du thomisme, Mignard, Paris 1935, prefazione, pp. 7-9. 20 Peterson Erik, Le mystère des Juifs et des gentils dans l'Eglise, traduzione dal te­ desco di E. Kamnitzer e P. Corps, Desclée de Brouwer, Paris 1935, prefazione all’edizione francese, pp. V-XI. 21 Ghika Vladimir, Pensées pour la suite des jours (Seconde série), Gabriel Beauchesne, Paris 1936, introduzione, pp. 17-19. 22 Briefs Goetz, Le prolétariat industriel, traduzione dal tedesco di Y. R. Simon, De­ sclée de Brouwer, Paris 1937, prefazione alla traduzione francese, pp. VII-XII. 23 Mendizabal Alfred, Aux origines d'une tragédie: la politique espagnole de 1923 à 1936, Desclée de Brouwer, Paris 1937, prefazione, pp. 7-56. 24 Siwek Paul, Spinoza et le panthéisme religieux, Desclée de Brouwer, Paris 1937, prefazione, pp. VIII-XII. 25 Thompson W .R., Science and Common Sense: an Aristotelian Excursion, Long­ mans Green and Co., New York 1937, prefazione, pp. V-VI. 26 Ameal Joao, Sâo Tomas de Aquia, Livrairia Tavares Martins, Porto 1938, prefa­ zione, pp. VII-IX. 27 Pages choisies de St. Thomas d ’Aquin, Gallimard, Paris 1939. 28 Adler Mortimer, Problems fo r Thomists: the Problem o f Species, Sheed and Ward, New York 1940, prefazione, pp. VII-XII. 29 Limagne Pierre, Témoignage sur la situation actuelle en France, par un dirigeant français d ’Action Catholique, Editions de l’Arbre, Montreal 1941, prefazione, pp. 7-13. 30 Iswolsky Helen, Light before Dusk: a Russian Catholic in France, 1923-1941, Longmans, Green and Co., New York 1942, prefazione, pp. VII-IX. 31 O ’Connor William R., The Layman's Call, P.J. Kennedy and Sons, New York 1942, prefazione, pp. IX-XVI. 32 Aglion Raoul, L ’épopée de la France combattante, Éditions de la Maison Françai­ se, New York 1943, prefazione (non appare nella traduzione inglese), pp. 9-12. 33 Albert André, In French Cameroon’s Bandjoon, traduzione di Brother John Ma­ ry, Éditions de l’Arbre, Ottawa 1943, prefazione, pp. 9-12. 34 Oesterreicher John M ., Racisme, antisémitisme, antichristianisme, Éditions de la Maison Française, New York 1943, prefazione, pp. 11-20. 35 Vignaux Paul (a cura di), France prends garde de perdre ton âme (selezione dai Cahiers du Témoignage Chrétien), Éditions de la Maison Française, New York 1943, pre­ fazione, pp. 7-11. 36 Vignaux Paul, Traditionalisme et sindacalisme, Essai d'histoire sociale 1884-1941, Éditions de la Maison Française, New York 1943, prefazione, pp. 7-16. 37 A A .V V ., Le droit raciste à l'assaut de la civilisation (Studi di E. Hamburger, Μ. Gottschalk, P. Jacob, J. Maritain), Éditions de la Maison Française, New York 1943, pre-

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fazione, pp. 13-15. 38 Frenkley Alexandre, Pierres de gioire, pierres de France: suite d ’images des grands monuments d ’architecture de la France, International University Press, New York 1944. 39 Brennan Robert, O .P ., History o f Psychologie from thè Standpoint o f a Thomist, The Macmillan Company, New York 1945, lettera di prefazione, pp. VII-IX. 40 Catalogne Général 1940-1944, Éditions de la Maison Fran?aise, New York 1945, introduzione, pp. 1-2. 41 David André, Mon Pére répondez-moi, Éditions du Mail, Paris 1946, lettera di prefazione. 42 Bloy Léon, Pilgrim o f thè Absolute, testi scelti da Raissa Maritain, traduzione di J. Coleman e H.L. Binsse, Pantheon Books, New York 1947, introduzione, pp. 7-23. 43 Psichari Ernest, Le voyage du centurion, Louis Conard, Paris, 1947, prefazione, pp. I-X. 44 Naudon de la Sotta Carlos, El pensamiento social de Maritain, ensayo de filosofia social, Club de Lectores, Santiago de Chile 1948, lettera di prefazione, pp. 7-8. 45 Fumet Stanislas (testo di), Fresques de Fra Angelico au couvent St. Marc de Flo­ rence, Éditions Artistiques et Documentaires, Paris 1948, prefazione, pp. 9-10. 46 A A .V V ., Etienne Gilson, philosophe de la chrétienté, saggi in onore di E. Gilson, Éditions du Cerf, Paris 1949, prefazione, pp. 7-11. 47 Human Rights, Comments and Interpretations, Columbria University Press, New York 1949, introduzione, pp. 9-17. 48 Bahya ben Joseph Ibn Paquda, Introduction aux devoirs des coeurs, traduzione e introduzione di A. Chouraki, Desclée de Brouwer, Paris 1950, prefazione, pp. IX-XIX. 49 Kelley C .F., The Spirit o f Love Based on thè Teachings o f St. Francis de Sales, Harper and Brothers, New York 1951, prefazione, pp. IX-X. 50 Bloy Léon, Pages choisies (a cura di Raissa Maritain), Mercure de France, Paris 1951, pp. 1-18. 51 Lanza del Vasto Joseph Jean, Judas, Bernard Grasset, Paris 1951, lettera di pre­ fazione che porta la data 24 aprile 1939, pp. 1-3. 52 Oesterreicher John M ., Walls are Crumbling, The Devin-Adair Co., New York 1952, prefazione, pp. VII-IX. 53 Vayron Marie-Anne, Aux iles fleuries: soeur Geneviève Termier 1897-1946, Édi­ tions Spès, Paris 1952, prefazione, pp. 7-12. 54 Renard Henry, The Philosophy o f Morality, The Bruce Publishing Co., Milwau­ kee 1953, prefazione, pp. VII-VIII. 55 Lahaye Simon, Un homme libre parmi les morts, Durassié et Cie., Paris 1954, prefazione, pp. 9-11. 56 Osterraicher J.M ., Septphilosophes Juifs devant le Christ, Éditions du Cerf, Pa­ ris 1955.

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57 A A .V V ., The material Logic o f John ofst. Thomas: basic treatises, University o f Chicago Press, Chicago 1955. 58 Brittain Robert, La guerre contre la faim, traduzione dall’inglese di A. Girard, Éditions Alsatia, Colmar-Paris 1956. 59 Reith Herman, C.S.C ., An Introduction to Philosophical Psychology, PrenticeHall, Englewood Cliffs, New Jersey, prefazione, pp. II1-IV. 60 Simonsen Vagn Lundgard, L ’esthétique de J. Maritain, Munksgaard, Copena­ ghen 1956, lettera di prefazione, pp. V-VI. 61 Bars Henri, La politique selon Jacques Maritain, Les éditions ouvrières, Paris 1961. 62 Green Julien, Pamphlet contre les catholiques de France, Plon, Paris 1963, prefa­ zione, pp. 9-13. 63 Lanza del Vasto Joseph Jean, Judas, Denoël, Paris 1968, pp. X-251, preceduto da una lettera di J.M. e da una risposta dell’autore. 64 Bruckberger Raymond Léopold, O .P ., L ’histoire de Jésus-Christ, Le livre de po­ che, Paris 1971, pp. 635 (nuova edizione accresciuta di note e di una lettera di J.M .). 65 Raissa Maritain, Poèmes et essais, Desclée de Brouwer, Paris 1968, pp. 7-11. 66 Nicolas M .J., Evolution et Christianisme, Arthème Fayard, Paris 1973, pp. 1-5. IV. LE ANTOLOGIE 1 Para una filosofia de la persona umana, Cursos de cultura catolica, Buenos Aires 1937, pp. 242. 2 Accion catolica y accion politica, a cura di Ernesto Palacio e Manuel Rio, Editorial Losada, Buenos Aires 1939, pp. 223. 3 Scholasticism and Politics, a cura di Mortmer J. Adler, The Macmillan Company, New York 1940, pp. VIII-248; nuova edizione: The Centenary Press, London 1954, pp. VIII-197; nuova edizione: Image Book, New York 1960, pp. 233. 4 Ransoming the Time, Charles Scribner’s Sons, New York, 1941, pp. XII-322; nuo­ va edizione: Reddeming the Time, The Centenary Press, London, 1943, pp. VI 11-273; nuova edizione: Hilary House, New York 1957. 5 Sort de l ’homme, a cura di C. Journet, Éditions de la Baconnière, Neuchâtel 1943, pp. 155. 6 The Social and Political Philosophy o f Jacques Maritain, a cura di Joseph W. Evans e Leo R. Ward, Charles Scribner’s Sons, New York 1955, pp. 348. 7 The education o f Man: the educational Philosophy o f Jacques Maritain, a cura di Donald and Ideila Gallagher, University o f Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana, 1962, pp. 192. V. CORRISPONDENZE 1 Jacques Maritain - Emmanuel Mounier (1929-1939), Correspondance, introduc­ tion et notes de Jacques Petit, Desclée de Brouwer, Paris 1973, pp. 210.

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2 Une grande amitié: Jacques Maritain - Julien Green 1926-1972, corresponda présentée et annotée par Jean-Pierre Pirion, preface de Julien Green, Plon, Paris 1979, pp. 220. TRADUZIONI ITALIANE A. VOLUMI 2 Arte e scolastica, traduzione di A. Pavan, P. Nepi, M. Ivaldo, Morcelliana, Brescia 1980. 3 Introduzione generale alla filosofia, traduzione ed introduzione a cura di A. Cajaz, S.E .I., Torino 1947, pp. 210. (Non riporta l ’appendice: indicazioni pratiche.) 5 Antimoderno, traduzione di O. Orlandi, prefazione di L. Castiglioni, Logos, Ro­ ma 1980. 6 Vita di preghiera, traduzione di G. Stanchi Gamba, Boria, Torino 1961. 9 Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau, traduzione ed introduzione a cura di G.B. Montini per la prima edizione italiana del 1928, riportata anche nell’ultima, Morcel­ liana, Brescia 1967, pp. 261. 10 I contadini del Cielo, traduzione di G. Martorelli, La Locusta, Vicenza 1978. 12 Primato dello spirituale, Introduzione e traduzione a cura di G. Dorè, Edizioni Cardinal Ferrari, Milano 1940; nuova edizione con annessi, prefazione di G. Campanini, Logos, Roma 1980. 14 San Tommaso d\Aquino, traduzione di C. Bo, Cantagalli, Siena s.d. 15 Religione e cultura, traduzione a cura di U. Guanda, Guanda, Bologna 1938; nuo­ va traduzione a cura di L. Castiglione, con introduzione di A. Pavan, Morcelliana, Bre­ scia 1966, pp. 62. 17 Distinguere per unire. I gradi del sapere, traduzione di E. Maccagnolo, Morcellia­ na, Brescia 1974. 18 Sulla filosofia cristiana, traduzione di L. Frattini, nota bibliografica di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 1978. 19 Strutture politiche e libertà, traduzione ed introduzione a cura di A. Pavan, Mor­ celliana, Brescia 1968. pp. 172. 20 Sette lezioni sulTessere e i primi principi della ragione speculativa, traduzione di M. Inzerillo e L. Frattini, Massimo, Milano 1980. 22 La filosofia della natura, traduzione di Irma del Pretto, Morcelliana, Brescia 1974. 23 Lettera sulTindipendenza in Scritti e manifesti politici 1933-1939, a cura di G. Campanini, Morcelliana, Brescia 1978. 24 Scienza e saggezza, traduzione ed introduzione di P. Viotto, Boria, Torino 1963, pp. 172. (Non riporta la parte quarta Chiarimenti sulla filosofia morale e gli allegati.) 25 Umanesimo integrale, traduzione riveduta dall’autore a cura di G. Dorè, Stu­ dium, Roma 1946, pp. 242; nuova edizione a cura di P. Viotto con introduzione, Boria, Torino 1962, pp. 327; quarta edizione italiana con nuova introduzione a cura di P. Viotto, Boria, Torino 1968, pp. 335.

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26 Situazione della poesia, traduzione di M. Mazzoiani, Morcelliana, Brescia 1979. 27 Questioni di coscienza, traduzione di L. Frattini, Vita e Pensiero, Milano 1979. 28 II crepuscolo della civiltà in Scritti e manifesti politici 1933-1939, ed. cit. 29 Quattro saggi sullo spirito umano nella condizione di incarnazione, traduzione di L. Vigone, Morcelliana, Brescia 1978. 31 Attraverso il disastro, traduzione di V. Villi, Capriotti, Roma 1951, pp. 150. 32 II pensiero di San Paolo, traduzione e introduzione a cura di P. Viotto, Boria, T o­ rino 1964, pp. 200. 33 1 diritti dell'uomo e la legge naturale, traduzione a cura di G. Usellini, Comunità, Milano 1953, pp. 120; nuova edizione, presentazione di V. Possenti, nota bibliografica di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 1977. 34 Cristianesimo e democrazia, traduzione a cura di L. Frapiselli, Comunità, Mila­ no, 1953, pp. 87; nuova edizione, presentazione di G. Lazzati, nota bibliografica di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 1977. 35 L ■ educazione al bivio, traduzione e introduzione a cura di A. Agazzi, La Scuola, Brescia 1969; XI edizione, pp. 165 (non riporta l ’allegato II problema della scuola pubbli­ ca in Francia). 36 Da Bergson a Tommaso d\Aquino, traduzione di R. Bartoluzzi, introduzione di R. Cantoni, Mondadori, Milano 1947, pp. 296; nuova edizione, Vita e Pensiero, Milano 1980. 37 Per una politica più umana, traduzione a cura di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1968, pp. 158. 41 Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, traduzione a cura di L. Vigone, Mor­ celliana, Brescia 1965, pp. 114. 42 La persona e il bene comune, traduzione a cura di M. Mazzoiani, Morcelliana, Brescia 1948, pp. 48. 44 II significato dell’ateismo contemporaneo, traduzione a cura di T. Minelli, Mor­ celliana, Brescia 1980, pp. 40. 45 L ’uomo e lo Stato, traduzione a cura di A. Falchetti, Vita e Pensiero, Milano 1953, pp. 263. 46 Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, traduzione di L. Frattini, introduzione di V. Possenti, nota bibliografica di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 1979. 47 Alla ricerca di Dio, traduzione a cura di M. Mazzoiani, Edizioni Paoline, Roma 1968, pp. 117; nuova edizione con annessi a cura di U. Pellegrino, Massimo, Milano 1980. 48 L ’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, traduzione a cura di C. Bussola e G. Tansini, Morcelliana, Brescia 1957, pp. 453. 49 La passione secondo Roualt, traduzione di Paola Viotto, in II Sabato n. 14, 29 marzo 1980, pp. 17-19. 50 Per una filosofia della storia, traduzione a cura di E. Maccagnolo, Morcelliana, Brescia 1967, pp. 142.

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51 Riflessioni sull’America, traduzione a cura di A. Barbieri, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 210. 52 Liturgia e contemplazione, traduzione di G. Barra, Boria, Torino 1960. 53 L ’educazione della persona, traduzione e introduzione a cura di P. Viotto, La Scuola, Brescia 1962, pp. 147 (non riporta i capitoli relativi a L Educazione al bivio, com ­ presi nell’edizione francese e tradotti in italiano in altro volume; comprende parzialmente

Il problema della scuola pubblica in Francia). 54 II filosofo nella società, traduzione di A. Ceccato, introduzione di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1976. 55 La responsabilità dell’artista, traduzione a cura delle suore benedettine di San Magno, Morcelliana, Brescia 1963, pp. 111. 56 La filosofia morale, traduzione a cura di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1971, pp. 552. 57 Osservazioni sul Pater, traduzione di D. Rotundo, Morcelliana, Brescia 1966. 58 Dio e la permissione del male, traduzione a cura di A. Ceccato, Morcelliana, Bre­ scia 1965, pp. 104. 59 Diario di Raissa, traduzione di M. Beluschi Fabeni, Morcelliana, Brescia 1970. 60 Ricordi e appunti, traduzione di B. Tibiletti, Morcelliana, Brescia 1967. 61 II mistero di Israele, raccolta di testi vari sul problema deH’antisemitismo tradotti da Anna Maria Pavan, a cura di A. Pavan con un postscriptum di J. Maritain. 62 II contadino della Garonna, traduzione di Bice Tibiletti, Morcelliana, Brescia 1969. 63 Della grazia e dell’umanità di Gesù, traduzione di C. Tosana, Morcelliana, Bre­ scia 1971. 64 La Chiesa del Cristo, traduzione di M. Mazzolani, Morcelliana, Brescia 1971. 65 Approches sans entraves - Scritti di filosofia cristiana, traduzione di G. Mura, P. Nepi, M. Ivaldo, Città Nuova editrice, Roma 1977-1978.

B. ARTICOLI E COLLABORAZIONI 24 II tomismo e la civiltà, in Rivista di filosofia neoscolastica, gennaio-febbraio 1929, pp. 12-32. 35 Lettera sul mondo borghese in Scritti e manifesti politici 1933-1939, ed. cit. 36 Sull’insegnamento, traduzione di Paola Viotto, Humanitas, marzo-aprile 1975, pp. 91-93. 40 Riflessioni sull’arte sacra, in A A .V V ., Annuario di arte sacra internazionale, Edi­ zioni novecento sacro, Roma 1936, pp. 101-103. 54 L Educazione della donna, traduzione di E. Carletti, in Scuola e didattica, 1 aprile 1976, pp. 21-23.

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56 II conflitto dei metodi alla fine del medioevo, traduzione di A. Viotto, in Humani­ tas, ottobre 1979, pp. 553-564. 57 Scienza, filosofia e fede, traduzione di A. Viotto, in Humanitas, ottobre 1978, pp. 543-562. 65 L \educazione morale-religiosa nelle scuole, traduzione di E. Carletti, in La scuola e ruom o, marzo-aprile 1977, pp. 83-89.

67 Le civiltà umane e il compito dei cristiani, in Studium, giugno 1947, pp. 187-1 ed anche in J. Maritain, La persona umana e l'impegno nella storia, La Locusta, Vicenza 1979, pp. 47-77. 75 La Madonna della Salette, in A A .V V ., Il breviario dei credenti, Massimo, Milano 1962, pp. 876-880. 78 L ’educazione e le umanità, traduzione di Paola Viotto, in La scuola e l'uomo, luglio-agosto 1979, pp. 187-192. 86 I valori spirituali e morali nell'educazione, traduzione di Paola Viotto, in La Scuola e l'uomo, settembre-ottobre 1978, pp. 258-260. 91 Dio e la scienza, in Sapienza, ottobre-dicembre 1966, pp. 399-415. 93 Qualche osservazione sulla legge naturale, in Humanitas 1980, in corso di pubbli­ cazione.

95 A proposito della vocazione dei Piccoli Fratelli di Gesù, in Humanitas, novembre 1974, pp. 820-837. 96 Le due grandi patrie, in Studi Cattolici, novembre 1973, pp. 696-697. C.

PREFAZIONI

1 Clerissac U ., Il mistero della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1935, pp. 7-33. 7 De Hovre Fr., La pedagogia cristiana e le ideologie, La Scuola, Brescia 1973. 18 Gardeil A ., La vera vita cristiana, Vita e Pensiero, Milano 1963, pp. 7-9. 47 A A .V V ., Dei diritti dell'uomo, Edizioni Comunità, Milano 1952, pp. 3-9. 50 Bloy L., Pagine scelte, Società Editrice Internazionale, Torino 1967, pp. 27-42. 61 Bars H ., Il pensiero politico di J. Maritain, Morcelliana, Brescia 1965, pp. 7-15. 62 Green J., Svegliarsi all'amore, Logos, Roma 1980, pp. 7-11. 65 Nicolas M .J., Evoluzione e cristianesimo, Massimo, Milano 1978, pp. 5-9.

D.

ANTOLOGIE ITALIANE

1 Jacques Maritain - Antologia del pensiero filosofico e pedagogico, a cura di G. Morra, Editrice Forum, Forli 1967, pp. 248. 2 Jacques Maritain - Il pensiero politico, a cura di M. Vannini, La Nuova Italia, Fi­ renze 1974, pp. 168.

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3 Jacques Maritain - La conquista della libertà, a cura di P. Viotto, La Scuola, Bre­ scia 1977, pp. 180. 4 Jacques Maritain - Contemplazione e spiritualità, a cura di G. Galeazzi, Anonima Veritas Editrice, Roma 1978, pp. 182. 5 Jacques Maritain, Pluralismo e collaborazione nella società democratica, a cura di G. Galeazzi, Cinque Lune, Roma 1979, pp. 243. 6 Jacques Maritain, Azione e contemplazione, a cura di G. Barra, Torino 1962; nuo­ va edizione 1980. E. CORRISPONDENZE 1 Maritaìn-Mounier, Corrispondenza 1929-1939, traduzione di E. Lombardi Vallauri, Morcelliana, Brescia 1976, pp. 224.

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NOTIZIA

Senza storia non c’è filosofia, perché la riflessione filosofica dell’uomo si è sviluppata nel divenire della cultura, attraverso il contri­ buto di molti uomini impegnati nella ricerca scientifica, nell’azione poli­ tica, nella testimonianza religiosa, anche se la filosofia trascende la sto­ ria perché i valori che esprime sono valori universali e perenni, che giu­ dicano la storia e guidano il cammino dell’umanità. Bisogna dunque di­ stinguere senza separare filosofia e storia della filosofia, individuando attraverso le vicissitudini dell’avventura umana il costituirsi di una filo­ sofia che appartiene a tutti gli uomini e vale oggettivamente per se stes­ sa. Bisogna inoltre distinguere ancora tra filosofia e filosofare, tra la fi­ losofia come scienza e l’atto soggettivo con cui ciascun uomo affronta i problemi della vita senza che nessun altro uomo possa sostituirsi alla sua coscienza, per cui l’insegnante di filosofia non trasmette un sapere ma aiuta ad apprendere un metodo di ricerca. Si tratta di garantire insieme la scientificità della verità e la libertà dell’apprendimento, evitando da un lato il dogmatismo e dall’altro il relativismo. Non si può insegnare la filosofia, si può educare a filosofare e ritrovarsi, docenti e discenti, a condividere la medesima verità, ad accogliere i medesimi valori, a prati­ care le medesime convinzioni. In questa prospettiva ha lavorato Jacques Maritain ai due volumi di “ Elements de philosophie” , impegnandosi a preparare una introduzio­ ne generale alla filosofia e una piccola logica per i giovani studenti desi­ derosi di avviarsi alla ricerca filosofica. La preoccupazione didattica è costante, gli schemi, le figurazioni, i riassunti, le note esplicative inten­ dono non solo esporre, organicamente più che sistematicamente, un di­ scorso filosofico compiuto, ma facilitare la comprensione, iniziare al fi­ losofare; e i numerosi riferimenti alla storia della filosofia vogliono te­ stimoniare che la verità non è il frutto di una intelligenza originale, ma un patrimonio di tutta l ’umanità. Il tomismo per Maritain non è un si­ stema, ma un metodo.

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Quest’opera di iniziazione dei giovani alla filosofia sarà una co­ stante nella ricerca maritainiana, che mai si è indirizzata alla pura specu­ lazione e sempre si è rivolta aH’insegnamento. Presso il medesimo edito­ re francese, che tra il 1921 e il 1966 ha pubblicato più di venti edizioni degli “ Elements de philosophie” , nel 1934 sono apparse le Sette lezioni sull9essere e i primi principi della ragione speculativa e nel 1951 le Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale. I problemi dell’essere, del conoscere e dell’agire sono stati così presentati nei principi fondamentali in opere didattiche, che permettono un primo approccio sostan­ ziale al discorso filosofico anche per coloro che non sono specialisti.

La vita e l'opera Jacques Maritain è nato a Parigi nel 1882 da una famiglia protestan­ te, il padre avvocato, la madre Geneviève, figlia di Jules Favre, uomo politico di parte repubblicana, capo dell’opposizione democratica a Lui­ gi Napoleone. Il giovane Maritain frequentò il liceo Enrico IV e in quel periodo strinse amicizia con Ernest Psichari, nipote di Renan. Alla Sor­ bona seguì i corsi universitari di scienze naturali, e risentì dell’influenza dell’indirizzo politivista professato da Félix Le Dantec. Durante gli anni universitari, incontra Raissa Ouman<?off, un’ebrea russa emigrata con la famiglia in Francia, i due si innamorano e sono sulla soglia della di­ sperazione e del suicidio quando incontrano al Collège de France, Henri Bergson che, spiegando Plotino, invita a superare lo scientifismo mate­ rialistico e a riscoprire il significato della vita spirituale. Per i due giova­ ni in crisi è la liberazione dai dubbi e dalle delusioni del relativismo e dello scetticismo dei corsi universitari e l’impegno nella ricerca della ve­ rità. L’incontro con gli scrittori Charles Péguy e Léon Bloy, che nella povertà e nell’arte vivono la loro esperienza cristiana con coerenza e con passione, avvicina Raissa e Jacques Maritain, sposatisi nel 1904, al cat­ tolicesimo, portandoli entrambi alla conversione. Laureatosi in scienze naturali e in filosofia, Maritain ottiene una borsa di studio per Heidel­ berg, ove rimane due anni approfondendo lo studio della biologia sotto la direzione di Hans Driesch, studioso di embriogenesi. Rientrati in Francia, il loro direttore spirituale, padre Clérissac, fa conoscere ai due Maritain la filosofia di Tommaso, che è per loro un’illuminazione fol­ gorante, che li porterà a superare il bergsonismo e a dedicarsi per tutta la vita a studiare i problemi della filosofia, della politica, della pedago­ gia, dell’estetica, della mistica nella fedeltà alla filosofia cristiana, esa­ minando le relazioni funzionali tra ragione e fede, tra libertà e grazia, tra morale e arte, tra Chiesa e Stato. Come risulta dalla loro stessa testimonianza, Jacques e Raissa lavo­ rano insieme, i loro scritti sono frutto di una ricerca comune, l’intuizio­

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ne poetica di Raissa e la riflessione filosofica di Jacques si completano vicendevolemente in un’esperienza culturale eccezionale1. Uniti nella di­ sperazione negli anni della giovinezza, sono uniti nella passione per la verità durante tutta la vita, fino a fare loro scrivere: «Certamente, se ci fosse una salvezza fuori della verità, non vorrei questa salvezza, perché amo più la verità della mia gioia e della mia libertà, o piuttosto so bene che la verità sola può fare la mia gioia e la mia liberazione»2. Rientrati in Francia, i Maritain si stabiliscono a Versailles e partecF pano vivacemente al dibattito culturale, sviluppando una polemica con­ tro lo scientifismo ed il razionalismo da una parte e contro lo spirituali­ smo antintelletualista di Bergson e di Blondel dall’altra per recuperare il valore dell’intelligenza in una prospettiva di realismo critico. Il primo articolo di Maritain, La scienza moderna e la ragione, pubblicato nel 1910 nella Revue de Philosophie combatte la presunzione dello scientifi­ smo positivista, il primo volume La filosofia bergsoniana, del 1914, che raccoglie le lezioni universitarie dlVInstitut Catholique, segna la rinasci­ ta della filosofia tomista in Francia. In una lettera a Jean Cocteau nel 1926, Maritain si lamenterà di questo inizio polemico della sua avventu­ ra culturale: «Ho dovuto cominciare con le controversie, ma queste mi annoiano sempre di più...Il nostro compito è di cercare ciò che c’è di po­ sitivo in tutte le cose, di usare la verità meno per rompere che per guari­ re»3. Ma la sua passione per la verità lo terrà in trincea per tutta la vita a combattere gli errori, la eresie, le ipocrisie, i compromessi, diventando lui stesso, per amore della verità, oggetto di contestazione e di scandalo per le sue chiare ed esplicite prese di posizione. Il primato dello spritua-

le, che nel 1926segna il distacco di Maritain dal movimento dell3'Action Frangaise e Vaffermazione della distinzione tra il piano politico e il pia­ no spirituale, senza separazione tra l'ordine morale e l'ordine sociale. Il contadino della Garonna, che nel 1969 contrappone Maritain al neomo­ dernismo delle correnti teologiche post conciliari, sono i confini di una presenza permanente nelle battaglie politiche e culturali contemporanee. Con i Maritain il tomismo esce dai conventi e dalle sacrestie per impe­ gnarsi nei problemi di ogni giorno dell’uomo della strada, per diventare un metodo di analisi e di proposta per i problemi della politica, del dirit­ to, dell’educazione, dell’arte, dell’economia. Tra il 1928 e il 1939 la casa dei Maritain a Meudon alla periferia di Parigi diventa un punto di incontro culturale e di spiritualità ove si pos­ sono incontrare filosofi come Berdjaev e Gilson, letterati come Mauriac e Claudel, pittori come Rouault, Chagall e Severini, musicisti come Sa­ tie uniti nella ricerca della verità e della bellezza. Si organizzano circoli di studi tomisti e ritiri annuali, si dibattono i problemi del momento, si preparano manifesti culturali e politici, ma alla radice di questo movi­ mento c’è il lavoro dei Maritain che in Arte e Scolastica, nel 1920, e I gradi del sapere, nel 1932, hanno definito in prospettiva aperta la filoso­

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fia dell’arte e l’epistemologia individuando i diversi livelli della cono­ scenza e dell’opera d’are nell’unità dello spirito umano. La collabora­ zione con Mounier nella fondazione di Esprit conferma l ’impegno poli­ tico, pur nella distinzione precisa tra i compiti dell’uomo di azione e dell’uomo di cultura affermata nella Lettera sull'indipendenza, del 19354. Pur continuando il suo insegnamento all’Institut Catholique, pri­ ma nella cattedra di storia della filosofia e poi in quella di critica e di metafisica, Maritain ha modo di partecipare a congressi internazionali e tiene lezioni a Lovanio, a Friburgo, a Roma, a Poznam, a Chicago, a Santander, a Buenos Aires suscitando consensi, ma anche polemiche, per la coerenza del suo pensiero incapace di piegarsi ai compromessi, pronto a firmare i manifesti più impegnativi contro ogni forma di op­ pressione politica o di imperialismo culturale. È di questo periodo l ’ope­ ra Umanesimo integrale (1936), lavoro di filosofia della storia che segna la mediazione tra la prima ricerca su i Tre riformatori, Lutero, Cartesio, Rousseau (1925) e la conclusione delle sue riflessioni in La Chiesa del Cristo, la sua persona e il suo personale, nel 1970, confermando la co­ stante storiografia nella filosofia maritainiana. La filosofia della storia di Maritain è una filosofia morale adegua­ tamente intesa, che non può esprimersi compiutamente che nella filoso­ fia cristiana, che considera l ’uomo e il suo destino individuale e sociale alla luce della fede. Bisogna pertanto partire dal dibattito della società francese di filosofia, tenutosi a Parigi nel 1931, nel quale Blondel, Gilson, Maritain, Brehier, Brunschwicg confrontarono le loro posizioni, per comprendere in che modo debba essere inteso il rapporto tra ragione e fede nella filosofia speculativa e nella filosofia pratica. Maritain dedi­ cò a questo problema due volumi: La filosofia cristiana, nel 1933, e Scienza e saggezza, nel 1935. A partire dall’anno accademico 1932-1933, Maritain è incaricato di un corso di filosofia presso il Medieval Institute di Toronto in Canada e, nel 1940, dopo l ’invasione tedesca della Francia, non può rientrare in patria perché ricercato dalla polizia nazista; ripara negli Stati Uniti ove resterà fino al 1960 insegnando alla Princeton University e alla Colum­ bia University e partecipando con scritti diffusi clandestinamente in Francia e con radiomessaggi alla resistenza contro gli occupanti5. Il perio­ do americano è caratterizzato dalla pubblicazione delle opere più impor­ tanti della produzione maritainiana, dalla pedagogia, L'educazione al bivio, che raccoglie le lezioni alla Yale Universiy, nel 1943, alla politica, L'uomo e lo Stato, del 1951, che raccoglie alcune conferenze tenute alla Chicago University, dall’estetica, L'intuizione creativa nella poesia e nell'arte, tratto nel 1953 dalle conferenze alla National Gallery o f Art di Washington, all’etica, con la pubblicazione dei suoi corsi a Princeton, La filosofia morale, nel 1960. I Maritain continuano in America il loro apostolato intellettuale avvicinando filosofi, politici, artisti, giuristi e

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collaborando alla fondazione delYEcole libre des hautes études che ra­ duna nella ricerca e neirinsegnamento gli intellettuali europei di lingua francese profughi in America e si esprime attraverso una casa editrice in lingua francese nelle Editions de la Maison Frangaise. Alla fine della seconda guerra mondiale, Maritain accetta l’incarico di ambasciatore della Repubblica Francese presso il Vaticano e vive per due anni a Roma, ove tiene alcune conferenze presso le Università Pon­ tifice e pubblica il volume La persona e il bene comune, nel 1947, che rappresenta come una sintesi della sua antropologia. Lasciato l’incarico di ambasciatore, per poter tornare allo studio e alFinsegnamento, Mari­ tain è incaricato di presiedere la delegazione francese alla seconda con­ ferenza dell’Unesco che si tenne a Città di Messico nel 1947. Tiene il di­ scorso inaugurale sul tema Le possibilità di cooperazione di un mondo diviso, nel quale afferma la possibilità di comprensione e di collabora­ zione tra uomini e popoli professanti ideologie diverse nel rispetto della libertà di coscienza in una prospettiva pluralistica delle relazioni sociali6. Nel 1949,1’Unesco incarica Maritain di stendere la prefazione al volume sui diritti dell’uomo, che raccoglie il contributo di filosofi di tutto il mondo e di diverse convinzioni ideologiche in preparazione della Di­ chiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 19487. In questo periodo, diverse riviste culturali dedicano un numero monografico all’opera e al pensiero di Maritain, La Nouvelle Relève in Canada nel 1942, The Thomist negli U.S.A. nel 1943, A Ordem in Bra­ sile nel 1946, la Revue Thomiste in Francia nel 1948 e presso l’Università di Notre Dame nell’Indiana si apre il Jacques Maritain Center per racco­ gliere tutte le sue opere e promuovere lo studio del suo pensiero. Mari­ tain stesso riflette sulla sua esperienza americana nel volume Riflessioni sull'America, del 1958. Durante un soggiorno in Francia nel 1960 muore Raissa Maritain ed il filosofo si ritira a Tolosa presso i Piccoli Fratelli di Gesù, condivi­ dendo la loro vita di povertà e di contemplazione, dedicando gli ultimi anni della sua vita a studi prevalentemente teologici, ma sempre nella prospettiva filosofica, per approfondire l’intelligenza dei misteri della fede. Della grazia e della umanità di Gesù, del 1967, è una meditazione filosofica sul mistero antropologico della persona del Cristo, interamen­ te umana e interamente divina. L’ultimo volume, Approches sans entraves — scritti di filosofia cristiana, che Maritain potè solo vedere in boz­ ze nel 1973, poco prima di morire, raccoglie articoli su l’aseità divina, il sacrificio della messa, il valore della preghiera, la condizione dei santi e dei dannati e, insieme, studi sull’evoluzione della specie umana, sulla condizione femminile, sull’istinto animale, confermando l’ampiezza de­ gli interessi speculativi che si estendono dalla microfisica alla mistica, dalla psicologia alla sociologia, dall’etnologia al diritto, dall’etica alla politica, dall’estetica alla linguistica. Ma anche in questo ultimo periodo

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della sua vita terrena, Maritain non ha trascurato il suo impegno politi­ co, continuando ad essere presente nel dibattito culturale con interventi altamente qualificati, come il suo discorso airUnesco nel 1966 su Le condizioni spirituali del progresso e della p a c e 8e il suo ultimo testo, ap­ parso postumo nel 1973 su Le Monde , Le due grandi patrie 9, messaggio di speranza per un mondo in crisi ed una società internazionale lacerata: «Poiché io penso che la meravigliosa pazienza di Dio non sia ancora esaurita, e che il giudizio finale non avverrà domani»10. Quando nel 1965 Paolo VI, al termine del Concilio Vaticano II, volle consegnare il messaggio del Concilio agli intellettuali, chiamò a Roma Jacques Maritain riconoscendo in lui un maestro del pensiero contemporaneo, un cristiano coerente, riabilitando agli occhi del mon­ do un pensatore che era stato discusso e rifiutato anche negli ambienti cattolici e che pur tutta la vita aveva lottato per affermare i diritti della verità, il primato dello spirituale, la validità deirintelligenza11.

Il realismo critico La crisi della cultura contemporanea ha molte radici ed è il risultato di una lunga gestazione storica; secondo Maritain è dovuta all’antropocentrismo conseguenza del razionalismo illuministico, al prevalere della scienza sulla saggezza, della tecnica sulla spiritualità, delPazione sulla contemplazione; è conseguenza del machiavellismo politico che ha sepa­ rato la politica dalla morale e del laicismo liberale che ha naturalizzato il cristianesimo; ma soprattutto dipende dalla sfiducia nelle capacità ra­ ziocinative dell’uomo. «Il male di cui soffrono i tempi moderni è prima di tutto un male dell’intelligenza, è cominciato dall’intelligenza ed ora è penetrato fino alle radici deirintelligenza. Perché stupirci se il mondo appare come invaso dalle tenebre? Si oculus tuus fuerit nequam, totum corpus tuum tenebrosum erit»12. Dal realismo classico, ebraico-cristiano-musulmano, il pensiero moderno, attraverso il fenomenismo delPempirismo inglese, del razio­ nalismo francese e del criticismo tedesco, è finito nelPidealismo contem­ poraneo, perché se noi possiamo conoscere le cose solo come ci sembra­ no, fenomenisticamente, allora le cose debbono essere come ci sembra­ no e PIo è creatore della realtà mediante lo sviluppo dialettico e l’uomo è Dio a se stesso, non ubbidisce che a se stesso e si realizza interamente nella storia. L’hegelismo è la radice profonda della crisi della filosofia contemporanea, il cui storicismo, idealistico, materialistico, pragmati­ stico, è giunto a giustificare tutte le violenze e le sopraffazioni del potere nella vita pubblica e privata, perché nulla esiste oltre il divenire storico e lo Stato è Pincarnazione della ragione. Per uscire dalla crisi bisogna rompere questa identificazione della filosofia con la logica, del sapere

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con la dialettica, per ritrovare nel realismo critico la distinzione tra l ’es­ sere e il pensiero, riconoscendo all’intelligenza e alla ragione la capacità di conoscere la realtà senza identificarsi con la realtà13. E questo il signi­ ficato dell’Introduzione alla filosofia e della Piccola logica. Bisogna quindi essere antimoderni, non nel senso di rifiutare le conquiste dello sviluppo della cultura e della civiltà che ha portato al differenziarsi delle scienze e all’affermarsi della democrazia di fronte aH’imperialismo dei filosofi e all’assolutismo dei politici (perché biso­ gna distinguere tra scienza e saggezza, tra politica e morale, tra Stato e Chiesa) ma nel senso ultramoderno di ritrovare una unità alla moltepli­ cità del sapere ed una ispirazione trascendente al divenire della società pluralistica. Non si tratta solo di combattere ma di recuperare, ed in questa missione culturale Maritain ha recuperato il tomismo come me­ todo di lavoro. «Guai a me se non tomistizzo, scrivevo in uno dei miei primi libri. E per trenta anni di lotte e di lavori, ho camminato sulla stes­ sa via, sentendo di simpatizzare tanto più profondamente con le ricer­ che, le scoperte, le angosce del pensiero moderno, quanto più cercavo di farvi penetrare la luce che ci viene da una sapienza elaborata dai secoli e che resiste alle fluttuazioni del tempo», scriveva Maritain in Confessio­ ne di fede, nel 194114. La filosofia di Maritain non è il tomismo, se per tomismo si intende la ripetizione della filosofia di Tommaso, ma un realismo critico, che at­ traversa tutta la storia della riflessione umana, che non appartiene ad al­ cuna cultura particolare, che non si risolve nella ricerca di un solo uo­ mo, sia pure di un uomo eccezionale come Tommaso. «Il tomismo è una saggezza. Tra il tomismo e le diverse forme particolari di cultura debbo­ no esistere degli scambi vitali incessanti, ma esso è, nella sua essenza, ri­ gorosamente indipendente da queste forme particolari»15. Il tomismo non è un ritorno al medioevo, non c’è per Maritain paleo-tomismo o neo-tomismo, ma un metodo universale dell’intelletto umano di con­ frontarsi con la realtà e la società alla ricerca dei principi fondamentali del sapere e del vivere, che può essere condiviso da uomini appartenenti a diverse aree culturali, a diverse fedi religiose, a diversi sistemi politici. Così Maritain, al termine della sua avventura intellettuale, nel 1965, de­ scrive le caratteristiche della filosofia tomista, intesa come un realismo integrale16: «Il tomismo autentico è sempre nell’angoscia di verità nuove da scoprire, da integrare, da riconoscere. Le chiavi che esso si ingegna a fabbricare servono ad aprire le porte, non a chiuderle. Non è un sistema chiuso, è una saggezza essenzialmente aperta e senza frontiere, per il fat­ to stesso di essere una dottrina in movimento e in sviluppo vitale. Esso è aperto ai problemi nuovi e alle nuove verità che l’evoluzione della cultu­ ra e della scienza permettono a lui stesso di mettere in risalto. Esso è aperto ai contributi delle nuove filosofie che sorgono in ogni epoca e alle nuove verità, sia pure viziate da errore, apportate da queste flosofie.

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Voglio notare che una tale apertura presuppone uno sforzo dell’intelletto per trascendere, per un istante, il suo proprio linguaggio concettuale al fine di entrare nel linguaggio concettuale degli altri, ritornando poi da quel viaggio dopo aver còlto l’intuizione di cui vive la filosofia nuova in questione. Il tomismo autentico è aperto alle diverse problematiche (alle diverse organizzazioni dei problemi) che gli può convenire di usare, sia che le susciti esso stesso con il progredire del tempo, sia che vada a cer­ carle in altri universi di pensiero. Si può così comprendere come sia pos­ sibile avere delle medesime intuizioni prime e della medesima sapienza filosofica (e airinterno della stessa saggezza e dottrina) insieme a pro­ blematiche diverse, anche espressioni linguistiche diverse, secondo i tempi e i luoghi e secondo il genio individuale di questo o quello dei par­ tecipanti a tale vasto e ininterrotto concerto. Ecco ciò che è per natura il tomismo e in che senso esso è chiamato a prendere forma tra gli uomini nel corso dei tempi a venire: perché esso è, innanzi tutto, una fame e una sete mai saziate della verità da cogliere e da assimilare17». In questo senso il tomismo è una filosofia progressiva e libera, libe­ ra da tutto, anche da se stessa, fuorché dal vero, e non è la dottrina di un uomo, di una scuola, di un dato tempo o di una certa parte politica. «Il tomismo non è né di destra né di sinistra; non è situato nello spazio, ma nello spirito»18. In questo senso il tomismo è uno spiritualismo, un esistenzialismo, una filosofia della libertà, che si sviluppa per un processo di approfon­ dimento, trascinando nel suo sviluppo tutte le verità che incontra nel cammino, accompagnandosi con tutti gli uomini in cerca della verità, qualunque sia la strada che stanno percorrendo19. Maritain, in diverse opere, ha impostato il confronto tra il realismo critico e la fisica, la biologia, la psicoanalisi, l’etnologia. «La filosofia tomista e la scienza moderna non hanno bisogno di essere riconciliate, esse vanno naturalmente d’accordo, a condizione che noi non si sogni di mettere il fisico al servizio della nostra filosofia, o la nostra filosofia al servizio del fisico e che non si tenti di costruire una filosofia della natura sullo spazio-tempo di Einstein, o di fondare la realtà del libero arbitrio suH’indeterminismo dei fisici; oppure, inversamente, che non ci si creda obbligati dalla fisica nucleare a rifiutare la teoria filosofica della materia e della forma. Dobbiamo distinguere l’approccio empiriologico della realtà dall’approccio ontologico, e molto più nettamente di quanto non facciano i filosofi moderni, e mettere in luce, con una delucidazione cri­ tica dei gradi del sapere, il fatto che sia lo scienziato sia il filosofo posso­ no entrambi progredire all’infinito nel loro proprio campo, senza entra­ re in conflitto, perché non cacciano sullo stesso terreno»20. Maritain affronta anche il problema politico e didattico dell’inse­ gnamento del tomismo, da una parte per sottolineare come la filosofia non sia una questione di fede e di autorità ecclesiali e dall’altra per evi­

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denziare le difficoltà oggettive di apprendere con sicurezza la metodolo­ gia della ricerca filosofica, pur riconoscendo che il realismo critico è la dottrina filosofica più connaturale all’intelligenza umana e più vicina al senso comune. «Ma il tomismo avrà sempre due cose contro di sé: l’insegnamento stesso che lo volgarizza nelle scuole, con i suoi testi, le sue formule stereotipate, le sue inevitabili semplificazioni e le sue inevitabili routines; e la sua stessa perfezione tecnica, che spaventa gli spiriti che si ritengono originali e che non hanno capito come le chiavi preparate con tante cura da Tommaso siano destinate ad aprire le porte, non a chiu­ derle»21. In una Lettera sulla filosofia nelVora del Concilio indirizzata a Jersy Kalinowsky e Stefan Swiezawski il 20 agosto 1965, faceva il punto sul problema dell’insegnamento filosofico, accettando quanto i due filo­ sofi polacchi avevo scritto sulla pluralità storica “delle” filosofie e sulVunità essenziale “della” filosofia22, riconosceva il primato dell’intuizione, del vedere, più che del capire e del sapere nella ricerca filosofi­ ca. «La sfortuna dell’insegnamento scolastico ordinario, e soprattutto dei manuali, è stata di trascurare praticamente questo elemento intuitivo essenziale e di sostituirlo fin dall’inizio con una pseudo-dialettica di con­ cetti e di formule. Non c’è niente da fare finché l’intelletto non ha visto, finché il filosofo o l’allievo-filosofo non ha avuto l ’intuizione intellet­ tuale dell’essere. Si potrebbe osservare da questo punto di vista il grande interesse pedagogico di un anno di iniziazione alla filosofia interamente centrato sulla necessità di condurre le intelligenze all’intuizione dell’es­ sere e alle altre intuizioni fondamentali di cui vive la filosofia tom ista»23. In un passaggio fondamentale della sua opera pedagogica Per una filosofia dell9educazione, così Maritain individuava i due errori fondamentali dell’educazione intellettuale: «La verità nell’educazione può essere tradita in due maniere: sia sostituendo allo slancio verso il sa­ pere un esercizio meccanico e una semplice indicazione per risolvere dif­ ficoltà; sia addormentando l’intelletto dello studente con formule pre­ fabbricate, che egli accetta e manda a memoria senza impegnare il suo io nello sforzo di appropriarsi ciò che esse hanno il compito di comunicar­ gli. Un’autentica istruzione contemplativa e per possesso della verità tradisce la sua stessa natura se non sviluppa insieme un’attività critica e una specie di angoscia, la cui ricompensa sarà la gioia stessa di percepire la verità»24. Autoritarismo e scetticismo possono viziare l’iniziazione al­ la filosofia, perché all’inizio della ricerca filosofica non c’è solo un pro­ blema, ma soprattutto un mistero: «Un mistero dalla parte della cosa, dell’oggetto e della sua realtà extramentale, un problema dalla parte del­ le nostre formule»25 e la relazione tra il problema e il mistero è data dall’intuizione, dalla visione ai diversi gradi del sapere. L’aspetto pro­ blema predomina naturalmente là dove la conoscenza è meno ontologi­ ca, nelle scienze dei fenomeni, nelle matematiche e nelle tecniche; l’aspetto mistero predomina là dove la conoscenza è più ontologica, nel­

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la filosofia della natura, nella metafisica e più ancora nella teologia e nella morale26. Nella prospettiva tomistica di Maritain il primato dello spirituale non significa il primato deirintelligenza e della razionalità, bensì il primato della contemplazione, ove teoresi e prassi, filosofia, poesia e mistica coincidono nell’unità dello spirito.

I gradi del sapere L’originalità del realismo critico di Jacques Maritain consiste so­ prattutto nell’avere individuato l ’autonomia e la correlazione tra i diver­ si livelli di conoscenza, di comportamento e di fruizione della realtà na­ turale, umana e divina. Sul piano della conoscenza bisogna distinguere senza separare le scienze e le saggezze, individuando la funzione della scienza subalternante che collega un livello all’altro; sul piano del com­ portamento bisogna distinguere senza separare la morale dalla politica, dall’economia, dal diritto, individuando il significato del fine infravalente che raccorda ogni azione, rispettandone l ’autonomia, al fine ulti­ mo del destino umano; sul piano della fruizione bisogna distinguere sen­ za separare la poesia dalla mistica, perché la fruizione della bellezza non è ancora la contemplazione di D io. Tutte le conoscenze che possono dimostrare la validità della loro metodologia di ricerca sono scientifiche, sono scienze, riguardino esse la natura mediante l ’esperienza, l’uomo mediante il ragionamento, o la di­ vinità mediante la rivelazione; ma a causa dell’uso moderno del linguag­ gio, che ha riservato alle scienze empiriche il nome di scienze, bisogna distinguere tra le scienze che considerano la realtà nei suoi aspetti empi­ rici e fenomenici e le saggezze che riguardano la realtà nei suoi aspetti universali e ontologici. Non si tratta di stabilire una gerarchia di valori ma di constatare una diversa metodologia: «Nell’uno e nell’altro caso (la conoscenza scientifica) è buona e nobile in se stessa; e se diciamo che la scienza è inferiore alla saggezza è nel senso che una perfezione è infe­ riore ad un’altra perfezione, una virtù ad un’altra virtù, un mondo di mistero e di bellezza ad un altro mondo di mistero e di bellezza»28. Mari­ tain distingue cosi le scienze della constatazione, che mediante un’anali­ si empiriologica colgono l ’intelligibile nel sensibile attraverso una risolu­ zione discendente e le scienze della spiegazione, che mediante un’analisi ontologica attraverso una risoluzione ascendente colgono l ’intelligibile in se stesso. Le prime sono scienze , le seconde sono saggezze29. La cono­ scenza della realtà umana fa da cerniera tra questi due mondi di cono­ scenza, perché l’uomo appartiene contemporaneamente al mondo dei corpi e al mondo degli spiriti. «Secondo il suo genuino tipo metodologi­ co, l’idea scientifica dell’uomo, come ogni idea elaborata dalla scienza strettamente sperimentale, si libera per quanto è possibile da ogni conte-

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nuto ontologico, in modo da diventare completamente verificabile nell’esperienza sensibile. Il concetto filosofico-religioso dell’uomo, al contrario, è un concetto ontologico. Esso non è interamente verificabile nell’esperienza dei sensi, benché possegga criteri e prove che gli sono propri; e verte sui caratteri essenziali ed intrinseci e sulla densità intelli­ gibile di quell’essere che chiamiamo uomo » 30. L’oggetto della ricerca filosofica è sempre l’essere, visto nella sua intelligibilità, ma l’essere non si esaurisce nella sua intelligibilità, presen­ ta aspetti che sono infraintelligibili o sovraintelligibili, non concettualizzabili dall’uomo. Il realismo critico supera l’identificazione idealistica tra essere e pensiero, l’essere ha intelligibilità, non è l’intelligibilità; l’ontologia non coincide con la logica, la dialettica è solo un metodo per avvicinare la realtà, la filosofia va ben oltre la dialettica. L’essere è così oggetto di tre tipi di conoscenze o di intellezioni, una “conoscenzaperi­ ferica”, avvolgente o circoscrittiva, che conosce mediante l’esperienza e il calcolo la superficie del reale nei suoi aspetti sensibili, spiegando il particolare con il particolare o con formule matematiche, che è propria delle scienze naturali che studiano gli aspetti infraintelligibili del reale mediante schemi, figure e calcoli; una “conoscenza raziocinante”, che va dalla periferia al centro dell’essere, dal sensibile all’intelligibile, concettualizzando l’esperienza senza esaurirla nel concetto e che è specifica del sapere filosofico; e una “conoscenza rivelata” che riguarda il centro dell’essere, nella sua unità so vr aintelligibile, nell’Assoluto, che intelligi­ bile a se stesso è sovraintelligibile all’uomo e può essere conosciuto solo se si manifesta mediante una rivelazione che stende l’intellezione umana oltre i suoi limiti, mediante la fede, a cogliere enigmaticamente l’essere nella sua profondità abissale, mediante la saggezza teologica e mistica31. Tra questi diversi approcci all’essere vi è una continuità di soluzione, pur nella diversità qualitativa, perché l’essere è analogico. Dio è transin­ telligibile: «Non certo perché sia inintelligibile in se stesso (al contrario, il dominio dell’intelligibilità) né che sia inintelligibile per noi; ma perché è sproporzionato alla nostra intelligenza di uomini, esso non ci è intelli­ gibile né per via sperimentale né per via dianoetica, cioè non è connatu­ rale al nostro potere di conoscenza; ma ci è intelligibile solo per analo­ gia. I nostri occhi da uccelli notturni non possono discernere nulla in questa luce troppo pura, se non interponendo le cose oscure di quaggiù. Penetrare in questo transintelligibile è il desiderio più profondo della nostra intelligenza; essa istintivamente sa fin dalla nascita che soltanto là troverò il suo riposo»32. Vi sono così due gradi di scienze e due gradi di saggezze mediate dal’intelligenza matematica e filosofica che costituisce il tipo umano del sapere per eccellenza, al di là del quale si ha la pura esperienza naturale nei suoi aspetti infraintelligibili e la rivelazione divina nei suoi aspetti sovraintelligibili (vedi tav. 1). Al primo livello abbiamo le scienze naturali

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di tipo sperimentale, che sono scienze percettive, ma limitate al sensibi­ le; al secondo livello troviamo le scienze matematiche, che sono scienze costruttive, perché si servono di simboli e di calcoli ragionando su enti di ragione, al terzo grado troviamo le saggezze filosofiche , che sono scienze percettive a livello della percezione intelligibile, al quarto grado troviamo le saggezze teologiche, fondate sulla rivelazione del sovraintelligibile e che pertanto sono saggezze superiori all’uomo, partecipate da Dio alFuomo. La saggezza filosofica si articola in tre livelli di astrazione, successi­ vamente dipendenti dal senso, daH’immaginazione e dall’intellezione, che nei primi gradi si accompagnano alle scienze naturali e alle scienze matematiche, come filosofia della natura e filosofia della matematica e nel terzo grado si esprimono nella metafisica, che è la filosofia per eccel­ lenza perché riguarda l’intelligibile in quanto intelligibile all’uom o33. Non si può dire che la filosofia della natura e la filosofia della matemati­ ca siano delle vere e proprie saggezze, ma piuttosto delle mediazioni tra le scienze sperimentali e matematiche e la metafisica che non si limita a conoscere le cause fisiche degli eventi naturali ma si pone alla ricerca delle cause ultime. Infatti, la metafisica non ha più per oggetto la natura sensibile, ma l’essere intelligibile puro e la sua causa, cioè Dio. «La pri­ ma di queste saggezze, la meno alta, è la saggezza metafisica, scienza su­ prema dell’ordine puramente razionale o naturale. Partendo dalle cose visibili, di cui cerca la ragione ultima, essa riconosce naturalmente resi­ stenza di Dio, causa prima e autore della natura»34, (vedi tav. 2) La conoscenza intelligibile della realtà, costruttivamente mediante la matematica che attraverso i suoi segni cerca di conoscere le leggi dell’universo, e intuitivamente mediante la filosofia che va alla ricerca delle cause prime e del legislatore, non esaurisce il mistero dell’essere. La saggezza filosofica aspira a superare se stessa per andare oltre l’intel­ ligibile, impresa in cui può riuscire solo se viene aiutata dalla fede, solo se riceve una sopraelevazione con un apporto trascendente. L’oggetto della saggezza teologica è Dio stesso, conosciuto in se stesso alla luce de­ la rivelazione. «Essa ha per oggetto proprio, non più Dio come causa prima e creatore del mondo, ma Dio in se stesso, nella sua essenza, nel suo mistero sovraintelligibile all’uomo, cioè non Dio in ciò che ha di analogicamente comune con gli altri esseri, ma in ciò che ha di esclusivamente proprio, in ciò che appartiene a Lui solo»35. La saggezza teologi­ ca non è più un sapere di puro ragionamento; nell’elaborare i dati forni­ ti dalla rivelazione, la ragione procede nella luce della fede: «Proceden­ do secondo il modo e le concatenazioni della ragione, ma ratificata nella fede, da cui riceve i suoi principi, attinti alla scienza di Dio, la luce pro­ pria della teologia non è la luce della ragione sola, ma è la luce della ra­ gione illuminata dalla fede»36. Nell’ordine delle saggezze, dopo la sag­ gezza filosofica e la saggezza teologica, Maritain pone la saggezza misti­

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ca, anticipatrice della visione di Dio, della beatitudine eterna (vedi tav. 3). Questa saggezza non è più di modo conoscitivo, non è più una sem­ plice conoscenza ma è un’esperienza, una fruizione dell’Assoluto pro­ pria dei santi, perciò nell’unità della vita dello spirito non va più consi­ derata sulla linea del pura conoscere. La teologia è ancora una cono­ scenza, che procede secondo i modi della ragione umana con tutti gli er­ rori possibili alla conoscenza umana37, la vita di religione mediante la fede e i doni dello Spirito Santo ci porta oltre la conoscenza nella intimi­ tà della vita divina38. Dall’esame di tutte le opere di Maritain dedicate ai problemi della conoscenza, dagli “ Elementi di filosofia” (1931) al Contadino della Garonna (1969), si possono così individuare tre livelli di conoscenza. Una conoscenza perinoetica circonferenziale, che conosce mediante le scien­ ze naturali la natura della realtà fisica superficialmente per mezzo di se­ gni e di simboli, una conoscenza che fenomenologicamente descrive ciò che è al di sotto dell’intelligenza pura perché espresso nella materia sen­ sibile, ciò che si può chiamare infraintelligibile. Una conoscenza dianoe­ tica, per analogia perfettamente intelligibile all’uomo mediante la con­ cettualizzazione, che procede in modo costruttivo con enti di ragione nella matematica ed in modo intuitivo, percependo l’intelligibilità dell’essere, cioè enti reali, nella filosofia39. Una conoscenza ananoetica, che procede per sovranalogia a cogliere il sovraintelligibile, usando la ragione illuminata dalla fede per una certa intelligenza del mistero divi­ no. La filosofia non basta all’uomo, l’intelligenza non si placa in se stessa, l’intelligibile non esaurisce il reale, e così l’uomo cerca nella poe­ sia e nella mistica una conoscenza transintelligibile, un cibo che l ’intelli­ genza umana non può fornire ma di cui lo spirito ha fame. In questa ri­ cerca dei valori conoscitivi della poesia e della mistica, Jacques Maritain ha trovato in Raissa, poetessa e anima mistica, non solo una collabora­ trice, ma un’ispiratrice e una testimone. La filosofia realista parte sem­ pre dall’esperienza. Secondo Jacques e Raissa Maritain la poesia non è solo una fruizione della bellezza ma anche una conoscenza perché mette l’uomo a contatto con l ’essere oltre la sua intelligibilità40. L’intuizione poetica nasce nelle profondità dello spirito ed è insieme immagine, senti­ mento, intelligenza; la poesia non è la logica, ma coinvolge un senso lo­ gico che rende trasparente il significato delle immagini permettendo allo spirito di cogliere l’essere. La poesia si sviluppa nel sovraconscio dello spirito, è una esperienza oscura e saporosa, fatta di raccoglimento e di quiete, nel quale il soggetto e l’oggetto entrano in una specie di comu­ nione transintelligibile, ma che porta verso il cuore dell’essere a cogliere il segreto delle cose. Ma fare di questa poesia una magia , pensare di utiliz­ zare la creazione artistica per possedere e trasformare la realtà è demo­ niaco. «I primitivi e i partigiani della poesia-magia confondono la pre­

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senza di conoscibilità del significato nel segno, con una presenza fisica e una efficacia operativa»41. Scambiare i segni della poesia per la realtà si­ gnifica snaturare l’esperienza poetica, come hanno fatto i surrealisti. La poesia non può dare la salvezza, anche la poesia non può esaurire Tesse­ re, solo la mistica può introdurre Tuomo negli abissi delTAssoluto. La poesia è una conoscenza oscura che lascia delusi, perché non si possono trovare parole e segni per comprendere il significato ultimo della realtà. «Questo sentimento di delusione appare come un carattere distintivo d’importanza essenziale, sufficiente a mostrare che la poesia non è mi­ stica e che il poeta si prepara degli amari insuccessi se chiede alla poesia quella pienezza di conoscenza spirituale che si trova al termine del cam­ mino delTascetica e della mistica»42. Ma Tesperienza mistica non è una conquista, è un dono sopranna­ turale, il frutto della contemplazione dei santi, che è fatta di amore e si manifesta nelle profondità abissali, oltre la poesia, del sovraconscio del­ lo spirito42bis. Non bisogna confondere la contemplazione dei filosofi, frutto dello sforzo intellettuale, fatto di autocoscienza, che nella traspa­ renza dello spirito a se stesso coglie Tintelligibilità dell’essere mediante uno sforzo naturale delTintelligenza, con la contemplazione religiosa dell’anima che si abbandona a Dio e che soprannaturalmente viene so­ praelevata alla vita divina, contemplazione più di affettività che di pensiero43. C’è nell’uomo una premistica naturale, una disponibilità na­ turale alla contemplazione dell’Assoluto che solo Dio può soddisfare; se Tuomo pretende da sé, con le sue forze naturali, di raggiungere l’Asso­ luto oltre la sensibilità, Timmaginazione e il pensiero, finisce per cadere nel nulla, nell’annientamento del suo io, nell’esperienza del vuoto, come capita nella mistica induistica. Come la poesia può degenerare nella ma­ gia, così la mistica può isterilirsi nella negazione, affermazione di sé co­ me assoluto44. La saggezza mistica, dono soprannaturale, rappresenta il vertice della saggezza, la fruizione di quell’Assoluto nella cui somma spirituali­ tà il vero, il bello e il bene si identificano nell’essere; ma per Tuomo, per la creatura, per lo spirito limitato, bisogna distinguere tra l’ordine spe­ culativo e l ’ordine pratico, tra conoscere per conoscere e conoscere per agire, e ridiscendere dall’unità alla molteplicità, dall’intelligibile al sen­ sibile per tradurre nell’azione la contemplazione. Si tratta di due anda­ ture diverse della intelligenza: «La filosofia speculativa considera Tuo­ mo e l’esistenza umana dal punto di vista non delle loro condizioni stori­ che, ma delle strutture e delle necessità intelligibili, dell’essenze del co­ noscere. Al contrario, la filosofia pratica considera Tuomo e l’esistenza umana dal punto di vista concreto e storico che li conduce al loro fine, dal punto di vista degli atti umani da porsi nell’essere, hic et nunc, con­ formemente alle loro regole. Sia l ’uno che l’altro, il sapere speculativo e il sapere pratico, differiscono caratteristicamente fin dall’origine: il primo

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si innalza verso l ’intemporale attraverso i tre momenti di rappresenta­ zione astrattiva, il secondo, ridiscendendo verso il temporale, secondo un flusso continuo di pensiero che, dopo un momento in cui lo specula­ tivo si mescola ancora con il pratico, e che è la filosofia pratica stessa, non si arresta che ad un ultimo momento tutto pratico, che è il giudizio prudenziale»45 (vedi tav. 2). Anche nell’ordine pratico si distinguono dunque le saggezze le le scienze; al livello speculativamente pratico , ove la filosofia della prassi pone i principi fondamentali del fare e dell’agire umano, si ha la filosofia morale, la saggezza, mentre al livello praticamente pratico, ove la filosofia deve costituirsi con laxcollaborazione del­ le scienze umane positive, quali la psicologia e la sociologia, si hanno le diverse scienze morali pratiche, come la pedagogia, la politica, la medi­ cina, la legislatura, l’economia, che si preparano a dirigere da vicino l ’azione concreta da intraprendere46. In questo concretizzarsi del pensie­ ro verso l’azione, lo spirito si nuove a tradurre nell’esperienza storica le proprie convinzioni tenendo conto della realtà concreta nella multiformità degli aspetti che comporta, senza sovrapporre al reale un’ideologia utopistica. Solo nel realismo critico è possibile una autentica filosofia della storia , nell’idealismo e nella sua traduzione materialistica del mar­ xismo si ha una identificazione tra essere e divenire, e la storia si svilup­ pa deterministicamente secondo schemi ideologici posti a priori47. Per Maritain, è sempre una questione di intelligenza, le saggezze , anche di modo pratico, sono al livello dei principi intelligibili, ma le scienze nel loro complicarsi verso la realtà incorporano direttamente l’esperienza nel loro stesso porsi come scienze; proprio come avveniva nel sapere teo­ retico a partire dalle scienze naturali e matematiche. «Nelle scienze spe­ culativamente pratiche (le saggezze) i concetti conservano il loro proprio valore di astrazione e di intelligibilità, nelle scienze praticamente prati­ che (scienze), al contrario, si incorporano nell’insieme dei dati concreti in rapporto con i momenti dinamici attraverso i quali l’azione deve veni­ re all’esistenza»49. La filosofia morale, nell’unità delle sue fondazioni del dover essere in relazione ai valori, si esprime nella pluralità delle scienze umane che studiano nel concreto l’azione da compiere sul piano economico, sociale, culturale, politico (vedi tav. 4). Viene così confer­ mata quella differenziazione tra la filosofia, sapere universale proprio dell’uomo in quanto uomo, e le diverse culture e civiltà che si esprimono nel divenire storico, che è una delle note caratteristiche del tomismo.

La filosofia cristiana Quando Raissa ha fatto conoscere a Jacques Maritain la filosofia di Tommaso, per il giovane ricercatore impegnato in esperienze di biologia e da poco convertitosi al cattolicesimo è stata un’illuminazione, perché

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il metodo tomista permetteva di superare il dualismo tra cultura e reli­ gione che la filosofia di Bergson trascinava con sé. Da allora, i Maritain si sono impegnati neirindividuare le differenze e le articolazioni tra l’opera della ragione e l ’opera della fede, scoprendo gli apporti oggettivi della rivelazione alla ricerca filosofica, per conoscere la realtà esistenzia­ le dell’uomo nella sua concretezza storica, e concludendo in una esplo­ razione filosofica dei misteri, della fede e della vita eterna. La distinzione preliminare tra filosofia , storia della filosofia e filo­ sofare , fatta all’inizio di questa prefazione, tra la filosofia come sistema organico, scientificamente strutturato, e il filosofare come situazione umana condizionata dallo sviluppo della cultura e della civiltà, dal dive­ nire storico, non è che una applicazione della distinzione tomista, più volte utilizzata da Maritain, tra Vordine di specificazione e l ’ordine di esercizio, tra la natura di una scienza e lo stato in cui essa viene a tro­ varsi nel soggetto in un dato momento storico48. Questa distinzione si ri­ ferisce sia al sapere speculativo, che al sapere pratico e alla creatività ar­ tistica. Sul piano del sapere teoretico , la filosofia in se stessa non è che filosofia, procede con i suoi metodi di ricerca verso il suo oggetto speci­ fico, senza interferenze che possano alterare i suoi processi di conoscen­ za: «La filosofia tomista è interamente razionale, nessun argomento de­ rivato dalla fede si inserisce nella sua struttura, essa dipende intrinseca­ mente solo dalla ragione e dalla critica razionale, essa deriva la propria stabilità di foiosofia solo dall’evidenza sperimentale o intellettuale e dal­ la dimostrazione»49. Ma nelle condizioni soggettive del filosofare, nella personalità del filosofo, nel suo stato esistenziale, dipende (non deriva) dalle sue condizioni di esercizio e pertanto estrinsecamente è cristiana, acristiana o anticristiana, secondo le condizioni di fede del filosofo, se­ condo il clima di cultura e di civiltà in cui storicamente si sviluppa. Sul piano del sapere pratico , la distinzione tra l ’ordine di specificazione e l’ordine di esercizio permette di superare da una parte l’amoralismo di chi vuole risolvere il divenire storico nella realtà effettuale senza riferi­ mento ai valori morali e l ’ipermoralismo di chi vuole giudicare gli avve­ nimenti senza tenere conto della realtà esistenziale nella concretezza del­ le situazioni umane50.1 diritti dell’uomo sono inalienabili, ma la loro ri­ chiesta deve essere compatibile con le possibilità concrete di una data so­ cietà. Sul piano della creazione artistica , Maritain, pur riconoscendo una piena autonomia estetica all’opera d’arte, non può non sottolineare la responsabilità morale dell’artista, che nell’esercizio della sua attività resta un uomo impegnato davanti ai valori morali, per cui «l’arte è indi­ rettamente ed estrinsecamente subordinata alla morale»51. «In altre pa­ role, è vero che arte e morale sono due mondi autonomi, ciascuno so­ vrano nella sua sfera, ma non possono ignorarsi o trascurarsi a vicenda perché l’uomo appartiene a questi due mondi come produttore intellet­ tuale e agente morale, soggetto responsabile di azioni che impegnano il

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suo destino»52. In questa prospettiva esistenziale si avrà quindi una filo ­ sofia cristiana, una politica cristiana, un 'arte cristiana, senza confonde­ re i due piani intersecantesi deirumanesimo e del cristianesimo, distin­ guendo tra religione e cultura, Chiesa e Stato, arte e morale. Considerando questo statuto cristiano della filosofia in relazione alle condizioni psicologiche del filosofare e alle situazioni socio-culturali della storia della filosofia, Maritain individua gli apporti oggettivi pro­ v en ien ti dal fatto storico della rivelazione cristiana e gli aiuti soggettivi provenienti dalla fede a dai doni dello Spirito Santo. «Innanzi tutto, ci sono degli oggetti appartenenti di per sé al campo della filosofia, ma che i foioso fi non avevano! riconosciuto esplicitamente e che la rivelazione cristiana ha messo in prirrio piano»53, ad esempio il concetto di creazio­ ne, di natura aperta alla soprannatura, di persona, di peccato, di Dio come essere sussistente. Questi apporti oggettivi hanno favorito lo svi­ luppo della filosofia, senza interferenze sul piano metodologico del filo­ sofare. Gli aiuti soggettivi sono come dei rafforzamenti del filosofare al suo livello di ricerca, il senso comune viene rafforzato dalla virtù della religione e l’intelligenza può muoversi con maggiore sicurezza sul suo terreno di lavoro. Poiché, ad esempio, «le virtù superiori dànno forza alle inferiori nel loro proprio ordine, la virtù della fede fa sì che la filo­ sofia, che conosce resistenza di Dio per vie puramente razionali, aderi­ sca razionalmente con più forza a questa verità»54. Questo modo di essere cristiano della filosofia è particolarmente importante nelle scienze umane, cioè nella conoscenza della realtà esi­ stenziale dell’uomo nella concretezza del suo divenire storico; perché se, come ci informa la rivelazione, ruom o reale è in rapporto soprannatu­ rale con Dio, in stato di grazia o di disgrazia rispetto al suo fine ultimo, non tenere conto in antropologia dei dati forniti dalla fede significa la­ vorare attorno ad un uomo ipotetico, che non è mai esistito e che non può esistere. Soprattutto nel sapere pratico è necessario tenere conto di questi dati, per potere impostare una morale, una politica ed una peda­ gogia adeguate alla realtà della condizione umana. Pertanto, una filoso­ fia pratica non può scientificamente costituirsi senza subalternarsi alla teologia, perché i fini dell’azione umana, sia pure nella loro autonomia, sono fini provvisori, intermediari, rispetto al fine ultimo dell’uomo, la vita eterna. Quindi, sia per conoscere la realtà dell’uomo, sia per orienta­ re l’azione umana al suo ultimo fine, è necessario che il discorso filosofico si riferisca al discorso teologico. Così, Maritain precisa il suo pensie­ ro: «Una scienza è subalteranata ad un’altra scienza non solo in quanto infraposta, come per esempio la filosofia della natura è infraposta alla metafisica e la metafisica alla teologia; essa non può esistere come scien­ za pratica senza i lumi che essa riceve dalla scienza sùbalternante; essa non possiede la sua costituzione di scienza, cioè di conoscenza vera e adeguata al suo oggetto, che ricevendo dalla scienza subalternante i

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principi di cui ha bisogno, come l’ottica geometrica riceve i suoi principi dalla geometria, come la teologia riceve i suoi per mezzo della fede e del­ la scienza intuitiva degli spiriti che vedono Dio. Quindi, la filosofia pra­ tica non può costituirsi come scienza se non ottiene quelle informazioni che sono indispensabili per conoscere la realtà del suo oggetto, che è l’uomo in carne e ossa»55. Sulla base di questa epistemologia, Maritain elabora la teoria della filosofia morale adeguatamente presa 56, che è sta­ ta oggetto di diverse polemiche per i fraintendimenti con cui è stata inte­ sa. Infatti Maritain non intende negare l’esistenza di una morale natura­ le né subordinare la filosofia alla fede, ma sottolineare la necessità che il discorso filosofico, procedendo al suo livello, tenga presente le informa­ zioni che la teologia può fornire per un’esatta individuazione del suo og­ getto di conoscenza, di fruizione, di azione. Anche un pagano potrebbe filosofare in questa filosofia morale adeguatamente presa, tenendo con­ to dei dati della rivelazione come dati oggettivi nel contesto del discorso, senza con questo dover essere battezzato e riconoscere il valore corismatico del sacramento. Maritain è molto preciso al riguardo, non vuole confondere la filosofia morale con la teologia morale, che sono livelli diversi di conoscenza: «Nella filosofia morale adeguatamente presa, la ragione filosofica conserva l’iniziativa del movimento, agisce come cau­ sa principale, non come causa strumentale o ministeriale mossa dalla fe­ de; la fede è necessaria, è condizione per il costituirsi della filosofia mo­ rale, ma essa non gioca un ruolo formale nella determinazione delle con­ clusioni filosofiche»57. In questa prospettiva metodologica si può parlare di una filosofia cristiana, di una politica cristiana, di una pedagogia cristiana, senza confondere i due livelli dell’umanesimo e del cristianesimo, ma com­ prendendoli nella distinzione e reciprocità del piano naturale e del piano soprannaturale, delle virtù naturali e delle virtù soprannaturali, dello Stato e della Chiesa, della cultura e della religione, della ragione e della fede. È questo il senso àùVesistenzialismo di Maritain, questo sapere cogliere l’Assoluto senza separarlo dal divenire, questo collegare Γog­ gettività con la soggettività, la teoresi con la prassi, la verità e la libertà, la persona e la società, i valori concreti della storia con il fine definitivo dell’avvenura umana, in un’interpretazione della realtà e del destino umano insieme filosofica e teologica, razionale e biblica, laica e cristiana57bis. A queste conclusioni epistemologiche, giuridiche e politiche, esteti­ che e pedagogiche, Maritain è pervenuto nella fedeltà allo spirito di Tommaso, attraverso la mediazione di Bergson e di san Giovanni della Croce, rinnovando il realismo critico senza impersonarlo nella sua filo­ sofia, perché il tomismo è patrimonio di tutta l’umanità, come perenne ricerca dell’essere, aperta a tutte le future integrazioni ma coerente con le sue ispirazioni profonde che attraverso i Padri della Chiesa risalgono

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alla tradizione ebraico-cristiana. Questa conclusione di Maritain può bene significare il valore della sua testimonianza. «Per dire il vero, il to­ mismo è un'opera comune. Non si è tomisti per il fatto che nel magazzi­ no dei sistemi si sceglie il tomismo come un sistema in mezzo a tanti, alla guisa con cui scegliereste un paio di scarpe in un magazzino di calzature, fino a che troviate un modello che calzi bene il vostro piede. A questa stregua, sarebbe più stimolante costruirsi un sistema personale su misu­ ra. Si è tomisti perché si è rinunciato a trovare la verità filosofica in un sistema fabbricato da un individuo, anche se questo individuo si chia­ masse ego, e perché si vuole cercare il vero (da se stessi, certo, e con la propria ragione) facendosi discepoli di tutto il pensiero umano, per non trascurare nulla di ciò che è » 58. PIERO VIOTTO

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T AVO LA N . 1


T A V O LA N . 2

J. MARITAIN I gradi dei sapere, Morcelliana, Brescia 1974, p . 365.


T A V O LA N. 3

da J. Maritain, I gradi del sapere, Brescia 1974.


TAVO LA N. 4

da J. Maritain, I gradi del sapere, Brescia 1974.


NOTE

NOTIZIA

1) Cfr. Raissa Maritain, I grandi amici, tr.it., Vita e Pensiero, Milano 1973, terza edizione; Jacques Maritain, Ricordi e appunti, tr.it., Morcelliana, Brescia 1967;Jacques Maritain (a cura di), Diario di Raissa, tr.it., Morcelliana, Brescia 1970, settima edizione. 2) Jacques Maritain, Per una politica più umana, tr.it., Morcelliana, Brescia 1968, p. 98. 3) Jacques Maritain, Réponse à Jean Cocteau, Stock, Paris 1926, p. 50. 4) Cfr. Jacques Maritain, Scritti e manifesti politici 1933-1939, tr.it., Morcelliana, Bre­ scia 1978 ; Maritain-Mounier, Corrispondenza 1929-1939, tr.it., Morcelliana, Brescia 1976. 5) Cfr. Jacques Maritain, Messages 1941-1945, Editions de la Maison Frangaise, New York 1945; Pour la justice, articles et discours (1940-1945), Editions de la Maison Frangaise, New York 1945. 6) Cfr. Il filosofo nella società, tr.it., Morcelliana, Brescia 1976, pp. 29-43. 7) AA.VV. I diritti dell’uomo, tr.it., Comunità, Milano 1952. 8) Jacques Maritain, Approches sans entraves, tr.it., Città nuova editrice, Roma 1977, voi. I, pp. 245-252. 9) Jacques Maritain, Les deux grandes patries, in Le Monde , 2-3 settembre 1973. 10) Jacques Maritain, Le due grandi patrie, in Studi Cattolici, n. 153, novembre 1973, p. 697. 11) L’opera di testimonianza di Maritain viene continuata àa\YInstitut International Jacques Maritain, con sezioni nazionali a Roma, Madrid, Caracas, Washington, Santiago del Cile, Ottawa e che si esprime attraverso la rivista Notes et documents (Editrice Massi­ mo di Milano). L’Institut ha già organizzato diversi convegni internazionali sulla politica (Ancona 1973), sulla pedagogia (Brescia 1975), l’antropologia (Louvain 1976), sulla filo­ sofia del diritto (Washinghton 1978), sull’estetica (Venezia 1979). 12) Jacques Maritain, Le docteur angélique, Desclée de Brouwer, Paris 1930, p. 86. 13) «L ’antica nozione di logica come scienza delle intenzioni seconde della mente presupponeva una concezione realistica del mondo. Il concetto era anzitutto una presa del reale extramentale, poi la logica lo considerava a parte, in uno stato e con proprietà che es­ so ha nella mente; il ragionamento, del quale la logica studiava le leggi, serviva da stru­ mento alla scienza del reale, ma questa era distinta per natura dalla logica e la forma più elevata di questa scienza del reale distinta per natura dalla logica era la filosofia. La dialet­ tica, invece, faceva parte della logica; e restare nella logica per avere la scienza del reale e per edificare l’opus philosophicum era per gli antichi un puro non-senso; era fare della lo­ gica un sapere, e un sapere supremo, quando invece non è che un primo tentativo di esplo­ razione delle cose, preliminare al sapere e incapace per natura di procurare il sapere», Jac­ ques Maritain, La filosofia morale, tr.it., Morcelliana, Brescia 1971, pp. 152-153. 14) Jacques Maritain, Il filosofo nella società, tr.it., Morcelliana, Brescia 1976, p. 14.

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15) 16) p. 198. 17) 18) 19)

Le docteur angélique, ed.cit., p. XIII. Jacques Maritain, Il contadino della Garonna, tr.it., Morcelliana, Brescia 1969,

Approchesans entraves, ed. cit., pp. 43-44. le docteur angélique, ed. cit., p. XIII. Nella premessa al suo volume Breve trattato dell'esistenza e dell'esistente che può essere considerato un saggio sull'esistenzialismo di Tommaso, Maritain scrive: «L’esisten­ zialismo di Tommaso è completamente diverso da quello delle filosofie di oggi; dicendo che a mio avviso è il solo esistenzialismo autentico, non è che io stia cercando di ringiova­ nire il tomismo con artifizi verbali, cosa di cui mi vergognerei, o che stia tentando di rimo­ dernare Tommaso, secondo un costume alla moda. Non sono un neo-tomista, tutto som­ mato preferirei essere un paleo-tomista; sono, almeno spero di essere, un tomista. Da più di treni’anni constato quanto sia difficile ottenere che i nostri contemporanei non confon­ dano le facoltà di invenzioni dei filosofi con quelle degli artisti delle grandi case di moda». Tr. it., Morcelliana, Brescia 1965, p.9. Nella premessa al volume Strutture politiche e li­ bertà, osserva: «Il nostro intento, nel presente saggio, è di mostrare brevemente come la filosofia di Tommaso non sia soltanto una filosofia della natura o più generalmente ùq\Vessere, ma sia anche, e questo particolarmente nella prospettiva della vita morale, una filosofia della libertà (così come nella prospettiva della vita di conoscenza essa è anche una filosofia dello spirito : filosofia della libertà e filosofia dello spirito, d’altronde, connesse e infine convergenti)». Tr.it., Morcelliana, Brescia 1968, pp. 9-10. 20) Jacques Maritain, Quattro saggi sullo spirito incarnato, tr.it., Morcelliana, Bre­ scia 1978, p. 191. Si veda inoltre per la fisica: De la métaphysique desphysicìens ou de la simultanéité selon Einstein in Réflexions sur l'intelligence et sursa viepropre, Desclée de Brouwer, Paris 1932, pp. 202-261 e Nouveaux débats éinsteiniens in La revue universelle, aprile 1924, pp. 56-77; per la biologia: Verso un'idea tomista dell'evoluzione in Approches sans entraves, ed.cit., I, pp. 87-153 e^4 proposito dell'istinto animale, ivi, pp. 155-180; per la psicoanalisi: Notes sur le freudisme in Etudes Carmélitaines, aprile 1938, pp. 128-139 e Freudismo e psicoanalisi in Quattro saggi sullo spirito incarnato, ed.cit., pp. 13-45; per l’etnologia: Segno e simbolo e II linguaggio e la teoria del segno in Quattro saggi sullo spi­ rito incarnato, ed.cit., pp. 47-102. 21) Jacques Maritain, Il filosofo nella società, ed.cit., p. 103. Maritain si è interessa­ to durante tutta la sua vita di filosofo al problema della didattica degli insegnamenti filo­ sofici. Si vedano i due articoli del 1914 L'étude et l'enseignement de la scholastique, il 13 febbraio sul Feuilleton de l'Univers e L'enseignement de laphilosophie, il 2 marzo su Le soleil, l’allocuzione L'activité dupére Peillaube dans la fondation et l'organisation de la Faculté de Philosophie à l'Institut Catholique in Revue de philosophie, gennaio-febbraio 1931, pp. 20-31, e le N otespour un programme d'enseignement de la philosophie de la na­ ture et des Sciences dans une faculté de philosophie in Bollettino Filosofico del Pontificio Ateneo del Seminario romano, anno I, numero 2 (1931) pp. 16-31, fino alla lettera del 1965 citata nel testo. 22) Approches sans entraves, ed.cit. I, pp. 53-61. 23) Ivi, pp. 55-56. 24) Jacques Maritain, Pour une philosophie de l ’éducation, Fayard, Paris 1959, par­ ziale traduzione italiana, L'educazione della persona, La Scuola, Brescia, 1962, pp. 43-44. 25) Jacques Maritain, Sept legons sur Tètre et lespremìersprincipes de la raison spe­ culative, Téqui, Paris 1934, p. 8. 26) Precisa la critica di Maritain al pragmatismo, al problematicismo e alla logica strumentale: « È un disgraziato errore quello di definire il pensiero umano come un orga­ no di risposta agli stimoli e alle situazioni attuali del pensiero, vale a dire in termini di co­ noscenza e reazioni animali, poiché una simile definizione si applica esattemente al modo di pensare degli animali senza ragione. Al contrario, è perché ogni idea umana, per avere un senso, deve attingere in qualche modo (sia pure nei simboli di un’interpretazione mate­ matica dei fenomeni) ciò che le cose sono o ciò in cui esse consistono; è perché il pensiero umano è uno strumento o piuttosto un’ energia vitale di conoscenza o d’intuizione spiri­

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tuale; è perché l’attività pensante comincia non solo con delle difficoltà ma con delle vedu­ te (insights) o percezioni e termina in vedute che sono rese vere dalla dimostrazione razio­ nale o dalla verifica sperimentale e non dalla sanzione pragmatica, che il penserò umano è capace di illuminare l’esperienza, realizzare dei desideri che sono umani perché sono radi­ cati nel desiderio primordiale del bene illimitato e di dominare, controllare e foggiare di nuovo il mondo. Al principio dell’azione umana in quanto umana c’è la verità, conosciuta (o che si crede di conoscere) per se stessa, per amore cioè della verità. Senza la fede nella verità non c’è efficacia umana. Questa è, a parer mio, la critica principale da fare alla teo­ ria pragmatistica e strumentalista della conoscenza». Pour unephilosophie de l ’éducation, ed.cit., parziale traduzione italiana, L'educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1975, p. 28. 27) Cfr. Jacques Maritain, Contemplazione e spiritualità, antologia a cura di Gian­ carlo Galeazzi, A .V .E ., Roma 1978. 28) Jacques Maritain, Scienza e saggezza, tr.it., Boria, Torino 1964, p. 55. 29) «Per il reale sensibile considerato in quanto tale, ci sarà dunque una risoluzione di concetti e di definizioni che possiamo chiamare ascendente o ontologica verso l’essere intelligibile; in essa il sensibile è sempre presente con un ruolo indispensabile, ma indiretta­ mente, e al servizio dell’essere intelligibile, come connotato da esso; e ci sarà, d’altra par­ te, una risoluzione discendente, verso il sensibile, verso l’osservabile in quanto tale, in quanto osservabile; questo non significa che lo spirito cessi di riferirsi all’essere, il che è anche possibile; l’essere rimane sempre là, presente, ma passa al servizio del sensibile, dell’osservabile, è innanzi tutto del misurabile; diventa una incognita che assicura la co­ stanza di certe determinazioni sensibili e di certe misure», Quattro saggi sullo spirito incar­ nato, ed.cit., p. 146, cfr. anche I gradi del sapere, tr.it., Morcelliana, Brescia 1974, pp. 55-58. 30) Jacques Maritain, L ’educazione al bivio, ed.cit., p. 17. 31) «Ciò che abbiamo chiamato intellezione dianoetica ci appare qui come presa tra un’intellezione imperfetta in ragione della stessa imperfezione ontologica e della sotto­ intelligibilità della realtà cui si applica (intellezione perinoetica) e una intellezione imper­ fetta in ragione della troppo grande perfezione ontologica e della sovra-intelligibilità delle realtà che conosce (intellezione ananoetica). Da una parte e dall’altra del registro dianoeti­ co queste due imperfezioni in certo modo si corrispondono, ma la loro condizione pro­ pria, il loro stile è del tutto diverso. L ’in teilezione perinoetica si arresta alla superficie, a surrogati dell’essenza, tuttavia i mezzi che usa sono ricchi e danno all’intelletto la massima soddisfazione (non senza qualche amarezza finale). Vintellezione ananoetica impiega mezzi poveri, che danno all’intelletto solamente poca soddisfazione (è dall’oggetto che gli viene la gioia), che lo rendono, via via che conosce meglio, più cosciente della sua spropor­ zione nei confronti di ciò che conosce; tuttavia, grazie all’analogia dell’essere e dei tra­ scendentali che gli servono da strumento, questa intellezione, per imperfetta e precaria che ne sia la maniera, si porta ancora fino all’essenza del suo oggetto, colta enigmaticamente in altre nature che la riflettono e senza che nulla di quanto le appartiene sia conosciuto in se stesso», I gradi del sapere, ed.cit., p. 261. 32) I gradi del sapere, ed.cit. p. 260. 33) Non bisogna confondere la filosofia della natura, che è ricerca dell’intelligibilità della vita e del movimento, con le scienze naturali o le scienze fisico-matematiche, perché la filosofia usa un’analisi ontologica ascendente e le scienze naturali una analisi empiriologica discendente. (Cfr. Jacques Maritain, La filosofia della natura, tr.it., Morcelliana, Brescia 1974). Pertanto, i tre gradi di astrazione, fisica, matematica e metafisica, di cui parla Maritain ne I gradi del sapere, riguardano il sapere filosofico nel suo scandirsi a tre livelli ben differenziati di filosofia della natura (o cosmologia, o fisica) e filosofia della matematica, e filosofia prima. «La divisione dei tre ordini di astrazione è una suddivisione analogica; non fanno parte di un medesimo genere, ma costituiscono dei generi fonda­ mentalmente differenti; non sono classificabili l’uno al di sopra dell’altro sulla stessa linea generica, ma c’è tra loro una vera eterogeneità noetica. Ed è per questo che Tommaso in­ segna che nell’ordine metafisico non dobbiamo riferirci, come campo nel quale si verifica­ no i nostri giudizi, né ai sensi né alPimmaginazione; che nell’ordine matematico i nostri

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giudizi si realizzano nel mondo della immaginazione e non dei sensi; e che nell’ordine fisi­ co il giudizio si realizza nel mondo stesso del senso. Ed è per questo, aggiunge, che si fa un peccato intellettuale a voler procedere nel medesimo modo nei tre gradi della conoscenza speculativa», Scienza e saggezza, ed.cit., p. 87. 34) I gradi del sapere, ed.cit., p. 293. 35) I gradi del sapere, ed.cit., p. 295. 36) I gradi del sapere, ed.cit., p. 295. 37) Maritain in II contadino della Garonna affronta polemicamente gli indirizzi della teologia contemporanea che naturalizzano il cristianesimo con il neomodernismo che si in­ ginocchia davanti al mondo in una nuova sofistica: «Poveri cristiani sofisticati, di Socrate avrebbero bisogno!». Ed. cit., p. 21. 38) Cfr. Giovanni di Tommaso, Les dons du Saint-Esprit, traduzione di Raissa Mari­ tain, Téqui, Paris 1950. 39) Nel passaggio dal mondo del sensibile al mondo dell’intelligibile, dalla natura a Dio, dalla fisica (cosmologia) alla metafisica, la matematica rappresenta una deviazione nel processo conoscitivo, nel senso che la sua conoscenza, essendo una conoscenza co­ struttiva per segni-simboli prodotti dalla mente umana, non è una conoscenza diretta ma obliqua della realtà naturale, i cui dati sensibili sono manipolati dalle formule matemati­ che. Non confondiamo la fisica, come cosmologia, capitolo della filosofia della natura, preludio alla metafisica, sapere percettivo, primo grado del processo astrattivo, con la fisico-matematica, sapere costruttivo. Cfr. La filosofia della natura, ed.cit. pp. 91-93. 40) Cfr. Jacques Maritain, Arte e Scolastica, tr.it., Morcelliana, Brescia 1980; Jac­ ques Maritain, L'intuizione creatrice nella poesia e nell'arte, tr.it., Morcelliana, Brescia 1957; Raissa e Jacques Maritain, Situazione della poesia, tr.it., Morcelliana, Brescia 1979. 41) Situazione della poesia, ed.cit., p. 35 (testo di Raissa). 42) Situazione della poesia, ed.cit., p. 39 (testo di Raissa). Queste sono ìe conclusioni sulla natura della conoscenza poetica e sui rapporti tra poesia, magia e mistica: I) La co­ noscenza poetica è una conoscenza per connaturalità affettiva di tipo operativo, tendente ad esprimersi in un’opera. II) La conoscenza poetica non è concettualizzabile. Ili) Per la legge della trasgressione, la poesia tende alla creazione pura, come la metafisica alla visio­ ne di Dio, ma questa aspirazione transnaturale non è umanamente soddisfacibile, perché l’uomo non può infinitizzare la sua esperienza se non ad opera della grazia, delle virtù teo­ logali e dei doni dello Spirito Santo. 42bis) La poesia e la mistica si muovono nel mondo dell’ “ inconscio” , ma questo mondo ha due aspetti, uno “ subconscio” , istintuale, materiale evidenziato da Freud, ed uno “ sovraconscio” , musicale, spirituale evidenziato da Maritain. «Queste due specie di vita inconscia sono in stretto rapporto e in continua comunicazione l’una con l’altra; nell’esistenza concreta esse di solito si mescolano e si frammischiano in modo più o meno grande; e io credo che mai — eccetto in qualche raro esempio di suprema purificazione spirituale — l’inconscio spirituale operi senza che l’altro sia presente, anche se in misura minima. Ma sono essenzialmente distinti e di natura completamente diversa.» L'intuizio­ ne creativa nella poesia e nell'arte, ed. cit. p. 101. 43) Cfr. Azione e contemplazione in Jacques Maritain, Questioni di coscienza, tr.it., Vita e Pensiero, Milano 1979, pp. 90-151. 44) Cfr. L'esperienza mistica naturale e il vuoto nei Quattro saggi sullo spirito incar­ nato, ed.cit., pp. 103-136. 45) Scienza e saggezza, ed.cit., pp. 149-150. 46) Cfr. Piero Viotto, La filosofia della prassi, in A A .VV ., Storia e cristianesimo in J. Maritain, Massimo, Milano 1980, pp. 145-163. 47) Jacques Maritain, Per una filosofia della storia, tr.it., Morcelliana, Brescia 1967. 48) Cfr. La filosofia cristiana, tr.it., Vita e Pensiero, Milano 1978, pp. 34-58. 49) La filosofia cristiana, ed.cit., p. 38. 50) Cfr. La fine del machiavellismo in Jacques Maritain, Per una politica più umana, ed.cit., pp. 117-155. 51) La responsabilità dell'artista, tr.it., Morcelliana, Brescia 1973, p. 25.

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52) La responsabilità dell’artista, ed.cit., p. 24. 53) La filosofia cristiana, ed.cit., pp. 41-42. 54) La filosofia cristiana, ed.cit., p. 50. 55) La filosofia cristiana, ed.cit., p. 93. 56) Su questo argomento confrontare Sulla filosofia morale in La filosofia cristiana, ed.cit., pp. 86-125, e Eclaircissements sur laphilosophie morale in Science et Sagesse, Labergerie, Paris 1935, pp. 227-392. 57) La filosofia cristiana, ed.cit., p. 104. 57 bis) Cfr. H. Bars, Suje t et Subjectivité selon J. Maritain, in Les études philosophiques, gennaio-marzo 1975, pp. 31-46; S. Mosso, Fede, assolutezza e storicità nel pen­ siero morale di Jacques Maritain, in La civiltà cattolica, 3 novembre 1979, pp. 222-233. 58) I gradi del sapere, ed.cit., p. 12.

CAPITOLO PRIMO 1) R.P. Ed. Hugon o.p., professore al Collegio Angelico, Cursus philosophiae thomisticae, 6 voli., Lethielleux 1903. 2) R.P. Joseph Gredt osb, Elementa Philosophiae aristotelico-thomisticae, Friburgo in Brisgovia, Herder, 1909. 3) R.P. Paul Gény, professore aH’Università Gregoriana, Questions d ’enseignement de philosophie scolastique, Parigi, Beauchesne, 1913. 4) Op. cit., p. 12. Nella prefazione della sua Logica (quinta edizione, 1905) il cardina­ le Mercier scriveva che ai suoi occhi, per colui che vuole rimanere fedele allo spirito peripa­ tetico, l’ordine d’insegnamento deve essere il seguente: introduzione alla filosofia, cosmo­ logia, psicologia, criteriologia, ontologia, teodicea, logica, morale, storia della filosofia. È proprio l’ordine da noi adottato, salvo quanto concerne la logica che deve, secondo noi, costituire la prima parte del corso di filosofia, e pertanto seguire immediatamente l’introduzione, conformemente all’insegnamento di Tommaso e alla tradizione scolastica. L’ordine d’insegnamento che seguiremo (introduzione generale alla filosofia, logica, filosofia naturale e psicologia, critica, ontologia, teodicea, morale) concorda con quello del Cursus del padre Hugon, tranne questa differenza, che egli fa rientrare la critica nella logica maggiore e rinvia per la teodicea e la morale allo studio diretto di Tommaso. Il no­ stro ordine di insegnamento concorda pure con l’ordine degli Elementa del padre Gredt. Ma noi crediamo necessario sviluppare l’introduzione molto più di quanto hanno fatto questi autori. 5) Nei notevoli studi da noi prima citati, il padre Gény propone di scindere la metafi­ sica in quattro parti, ove le prime due costituiscono una introduzione alla filosofia reale e debbono seguire immediatamente la logica, mentre le altre due possono, senza inconve­

nienti, anzi con un considerevole vantaggio, riprendere il loro posto d ’un tempo tra la psi­ cologia e la teologia naturale (op. cit., p.102). La soluzione che proponiamo ci sembra pre­ sentare i medesimi vantaggi, con in più quello di non smembrare il trattato dell’essere co­ me essere e qùello di iniziare gli allievi sin dal principio alle nozioni fondamentali, che essi hanno bisogno di conoscere per studiare con frutto la logica stessa (soprattutto la logica maggiore). 6) Cicerone, Tusculanae., V, 8; cfr. Diogene Laerzio, I, 12. 7) Aristotele, Metafisica , I, 2, 982 b. Commentario di Tommaso, lezione III. Cfr. De Ventate, q.7, art. 7. 8) Cfr. P. Lemonnyer o.p. (secondo Schmidt), La Révélation primitive et les données actuelles de la Science, Paris, Lecoffre, 1914. 9) Trattando sommariamente le grandi religioni ariane, abbiamo dovuto non solo isolare per astrazione in queste religioni l’aspetto intellettuale che interessa il filosofo, ma anche semplificare e schematizzare considerevolmente dottrine la cui complessità immensa e toccante (soprattutto nel caso del brahmanesimo e del buddismo), l’imprecisione e talora

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l’incoerenza, scoraggiano lo storico. Aggiungiamo che le interpretazioni che i nostri erudi­ ti ci danno circa il pensiero orientale restano ancora a livello di congettura e debbono vero­ similmente, per quanto concerne la filosofia, essere spesso molto inadeguate. 10) Il termine panteismo è un termine relativamente recente, introdotto nel XVIII se­ colo da Toland nel vocabolario filosofico. Ma la realtà che indica è antica quanto i primi errori filosofici. Perché una dottrina sia a buon diritto qualificata come panteista, non è affatto neces­ sario che dichiari formalmente che Dio e le cose sono una cosa sola (da questo punto di vista ben pochi panteisti si professano tali); basta che le affermazioni da essa fatte siano logicamente inconciliabili con la distinzione assoluta di Dio e delle cose. Questa osservazione è particolarmente importante per quanto riguarda le filosofie orientali, il cui panteismo è il peccato comune. Esso proviene effettivamente, in tali filoso­ fie, dal modo stesso di pensare che usano e che pare consistere innanzitutto nelP usare con­ cetti analoghi (che si realizzano diversamente in cose diverse) come se esistessero tali e qua­ li fuori dello spirito, come se esistessero, di conseguenza, delle cose che rimanessero le me­ desime pur divenendo, in piani diversi del reale, essenzialmente altre. Perciò Atman è con­ temporaneamente il principio supremo dell’universo, superiore ad ogni molteplicità, e il principio costitutitvo e distintivo di ogni personalità. (Come gli scolastici, ma per motivi diversi, gli indù distinguevano del resto la personalità , che è per noi la sussistenza spiritua­ le delPanima, dall*individualità materiale, che proviene dalle disposizioni del corpo.) Questo modo di pensare (che si ritrova più o meno accentuato in tutte le dottrine a tendenza teosofica) permette di sfuggire in apparenza all’accusa di panteismo, poiché, gra­ zie alla contraddizione profonda che comporta, permette di affermare diversità essenziali fra termini che logicamente dovrebbero essere identificati. Ma proprio perché affermazio­ ni simili non sono possibili se non per una contraddizione di fondo, questo modo di pensa­ re implica in realtà un panteismo inestirpabile. 11) Si potrebbe dire da questo punto di vista che il pensiero induista offre un esempio eminente di puro intellettualismo metafisico. Considerando le cose unicamente in riferi­ mento alla speculazione intellettuale e all’ordine universale e non in riferimento alla retti­ tudine della volontà umana e a quell’ordine particolare che è l’ordine dell’uomo al suo fine ultimo, il pensiero induista arriva quasi a cancellare la nozione del bene e del male morale e la morale che comporta consiste innanzitutto in una purificazione metafisica orientata esclusivamente verso un certo ideale di conoscenza intellettuale. Si ritrova una tendenza analoga in tutte le dottrine che, per un esagerato intellettuali­ smo, confondono l’ordine morale con l’ordine metafisico (confusione che colpisce nell’i:tica di Spinoza, per esempio) e che, non capendo che Dio non è solo il provisor universalis della creazione, ma anche il provisor particularis della vita morale (cfr. Tommaso, Summa Theologiae I, a, q.103, art. 8, con il commento di Caietano), pretendono in ultima analisi di elevarsi al di sopra della distinzione fra il bene e il male e di negare l’esistenza del male morale. 12) Tale è almeno l’interpretazione corrente della metempsicosi. Non è inverosimile che questa interpretazione sia una traduzione popolare di una dottrina meno grossolana, secondo la quale ogni essere passa per una serie indefinita di stati o di cicli d’esistenza; ogni ciclo deve essere percorso una volta sola e l’esistenza terrena non è che uno stato par­ ticolare in mezzo a tutti gli altri. L’idea di reincarnazioni successive deriverebbe così da una deformazione abbastanza povera di questa teoria, che si sarebbe corrotta notevolmen­ te passando in Occidente (benché ci si possa chiedere se, all’origine, i pitagorici e gli orfici non intendessero soprattutto la trasmigrazione delle anime in un senso simbolico). E può essere anche accaduto, al contrario, che la teoria in questione sia un’interpreta­ zione dotta elaborata dai metafisici indù sulla base di una credenza popolare nella trasmi­ grazione. 13) Ved. nota 11 e nota j, cap. I. 14) Kanada attribuisce del resto a questi atomi delle qualità reali, per opera delle qua­ li ha luogo la loro unione. Notiamo che il brahmanesimo, che rifiuta l’atomismo, ammette cinque elementi ( Teiere costituisce il quinto elemento); il buddismo invece, che ha accolto

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Γatomismo, ammette solo quattro elementi. 15) Qualunque sia la razza dalla quale è opportuno far derivare i cinesi, in ogni caso la loro storia ha rapporti molto più stretti con quella degli ariani che non con quella dei se­ miti. Per questo trattiamo della filosofia dei cinesi nella presente sezione. 16) Essa insegnava resistenza di un solo Dio (Shang-ti) personale, intelligente, distin­ to dal mondo, sublime sovrano dei popoli; insegnava pure Pimmaterialità e Pimmortalità dell’anima umana e persino offriva alle anime degli antenati i medesimi sacrifici e gli stessi onori che tributava agli spiriti buoni, custodi degli uomini. 17) Secondo ogni verosimiglianza, il cielo ( Tien) non era un tempo che il sinonimo metaforico del sublime sovrano (Shang-ti). 18) Raimondo Lullo nei suoi tentativi di algebra ideografica procederà in una manie­ ra analoga. 19) Ved. nota 10. 20) Aggiungiamo che nel secolo XII della nostra èra, Tchou-Hi, che è stato conside­ rato, a torto, pare, come un materialista, ha formulato (riferendosi alla tradizione di LaoTzu) una dottrina che è diventata nell’insegnamento cinese una specie di filosofia ufficiale; egli vi spiega la costituzione delle cose con una dualità di principi (// e ki) che ricorda la dualità della forma e della materia in Aristotele e negli alessandrini. 21) Aristotele, De Anima, I, 5, 411 a 7. 22) Plac, p hilos., V, 19, 1. DOX. 430, 15. 23) PLUT. Strom., fr. 2 DOX. 579, 17. 24) PLUT., Symp. , Quaest. V ili, 579, 17. 25) Metafisica , IV, 5, 1010 a 13. 26) Fisica, 1,2, 185 b 19. 27) Con il suo maestro Leucippo. Leucippo e Democrito forse hanno subito l’in­ fluenza del filosofo indiano Kanada? Si può credere piuttosto ad una coincidenza dovuta ad una somiglianza di preoccupazioni intellettuali (soprattutto se è vero che Kanada, la cui cronologia è molto incerta, fu contemporaneo a Democrito o anche posteriore a lui). In generale non sembra che il pensiero orientale abbia mai agito sul pensiero greco per insegnargli qualcosa, nei senso proprio di questo termine né per trasmettergli questo o quel sistema particolare. Che invece esso abbia agito sui greci stimolandoli alla riflessione e fornendo loro materiale intellettuale (che essi soli sono giunti a trattare scientificamen­ te), questo emerge chiaramente dalla costatazione che la filosofia greca è nata nelle regioni del mondo ellenico in contatto con l’Oriente. 28) Cfr. Aristotele, Fisica, I, 4, 187 a 26. Simplicio, Fisica, 155, 23. 29) Metafisica, 1,3, 984 b 18. 30) In questa società regnava un’obbedienza assoluta persino in materia intellettuale. È nella società pitagorica, e non nelle scuole del medio evo cristiano, che tutto si piegava dinanzi al Magister dixit, αυτός εφα. 31) Come osserva Gomperz: «I greci asiatici e una parte della nazione indiana obbe­ divano già, prima che Pitagora lasciasse la sua patria ionica, al medesimo padrone, al fon­ datore dell’impero persiano, a Ciro» (Les Penseurs de la Grèc, I. V.). Più generalmente, sembra davvero che attraverso la scuola pitagorica alcune conce­ zioni e alcune maniere di pensare proprie dell’oriente penetrarono innanzitutto in Grecia, per passare dal pitagorismo al platonismo e al neo-platonismo, e di qui, accresciuta da nuovi apporti, alla gnosi e alla corrente più o meno occulta dei metafisici eterodossi. Ved. nota 12. 32) Simplicio, Fisica, 732, 30 D. Nietzsche, che era ossessionato e sconvolto dal pen­ siero del ritorno eterno delle cose, aveva preso dalla filosofia greca questa idea singolare. 33) Metafisica, 1,5, 986 a. De Caelo, II, 13, 293 a. 34) Simplicio, Fisica, 144, 25 - 145 23. (Diels, framm. 8, 22). 35) Aristotele, Fisica, I, 3. 36) Per Crizia, per esempio, la credenza negli dèi era l’invenzione di un uomo di stato avveduto, desideroso di mantenere i cittadini nell’obbedienza, avvolgendo la verità di fan­ tasie e finzioni.

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37) Era Protagora che voleva sottomettere alla ragione i generi dei nomi: così μήνις (la collera) doveva secondo lui diventare maschile; πηληξ (il casco) parimenti, eccetera. 38) Ricordiamo, per esempio, la famosa discussione che, in séguito ad un omicidio accidentale avvenuto durante un gioco, Protagora sostenne con Pericle, sul fatto di sapere chi meritasse la punizione: l’organizzatore del gioco, il maldestro tiratore, oppure il giavel­ lotto stesso. 39) Magna Moralia, VII, 8. Cfr. E t. , VII, 1. 40) Questione alla quale sembrava lui stesso non rispondere se non in una maniera piuttosto oscura. 41) Cfr. Tommaso, Summa theologiae, I, q. 117, art. 1. 42) Cfr. Aristotele, Metafisica , XI, 4 1078 b 17-32. 43) Parmenide stesso non si era innalzato alla nozione metafisica deH’essere se non fissando il suo sguardo sul solo mondo corporeo. 44) Lib. II, 362 A. 45) «Plato habuit malum modum docendi; omnia enim figurate dicit et per symbola, intendens aliud per verba, quam sonent ipsa verba»: Tommaso, in I De Anima, VIII. 46) Per questo ci fermiamo ad Aristotele con questo schizzo preliminare di storia del­ la filosofia o più esattamente di storia della formazione della filosofia. La storia della filo­ sofia antica dopo Aristotele e la storia della filosofia moderna saranno riassunte nell’ulti­ mo fascicolo di questo manuale. 47) E innanzitutto nell’intelligenza divina, preciseranno gli scolastici, dando la sua giusta parte all’esemplarismo platonico. 48) Cfr. Tommaso, Commento sulla Metafisica di Aristotele, lib. I, lez. 10, n. 158 (ed. Cathala). 49) Metafisica, I, 9, 992 a 25 - 992 b 10. 50) Metafisica, XII, 7,1072 b; IX, 1074 b 35. 51) Ib id .,X II, 10, 1076a. 52) Alessandro, Commento alla Metafisica, ad 1045 a 36. 53) Descartes lo dice molto chiaramente nel suo Discorso sul metodo : «Non vi è tan­ ta perfezione nelle opere composte da diversi elementi e fatte dalla mano di diversi artefici, quanta ce c’è in quelle alle quali uno solo ha lavorato». Ma aveva il torto: I. di credere che fosse proprio compito suo di fondare la filosofia, non avendo saputo l’antichità adempiere questo ufficio; II. di pensare che lui solo era ca­ pace (se però il tempo e le esperienze non gli fossero venuti meno) non solo di fondare, ma anche di portare a compimento la scienza; III. di buttar via con disprezzo tutto lo sforzo delle generazioni precedenti e della tradizione umana, mentre Aristotele non è riuscito nel­ la sua opera se non consultando, discutendo e analizzando il pensiero dei suoi predecesso­ ri, e traendo profitto da tutto il lavoro umano accumulato prima di lui. 54) Si sono attribuiti spesso ad Aristotele errori commessi dai suoi discepoli o dai suoi commentatori, particolarmente riguardo all’anima umana e riguardo alla scienza e al­ la causalità divine. Ma un esame attento delle sue opere mostra che il filosofo, allorché af­ ferma che Vintelletto è separato, intende dire che è separato dalla materia e non dairanima stessa (cfr. Comm. di Tommaso in III De Anima, 4 e 5) e di conseguenza non ha negato, come si dice sovente, l’immortalità personale dell’anima umana (cfr. anche Metafisica, XII, 3, 1070 a 26). Così pure egli non ha insegnato che Dio non è causa efficiente del mon­ do e non muove il mondo che a titolo di fine o di bene desiderato. (Il testo della Metafisi­ ca, XII, 7, significa unicamente che Dio muove a titolo di causa finale o di oggetto d’amo­ re lo spirito che muove il primo cielo; egli non dice che Dio non può agire che a titolo di causa finale e che egli non ha fatto le cose. Al contrario, nel libro II della Metafisica, 1, 993 b 28, viene detto che i corpi celesti dipendono dalla causa prima non soltanto quanto al loro movimento, ma quanto al loro stesso essere. Cfr. Metafisica, VI, 1, 1026 b 17. Cfr. pure il passo di Alessandro citato prima nel testo, ove la causalità efficiente di Dio nella dottrina di Aristotele è mirabilmente messa in luce). Quanto poi al testo {Metafisica, XII, 9) in cui Aristotele, cercando di determinare qual è l’oggetto formale dell’intelligenza divi­ na, osserva che sarebbe meglio ignorare che conoscere certe cose inferiori, questo non ha

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affatto il valore di una conclusione che voglia affermare che Dio non conosce le cose del mondo, ma è detto a questo punto solo per preparare la soluzione della questione posta. Tale soluzione, così come Aristotele la indica, è formalmente vera e consiste nel dire, come farà poi più esplicitamente Tommaso, che Pintelligenza divina, a causa della sua indipen­ denza assoluta, non ha per oggetto formale altro che l’essenza divina stessa; essa non co­ nosce pertanto le cose del mondo in se stesse, ma in questa essenza, ove tutto è vita. Rimane tuttavia vero che Aristotele ha commesso errori molto gravi (come il voler di­ mostrare che il mondo è esistito ab aeterno) e che gli si possono rimproverare numerose omissioni: in particolare l’idea di creazione, che emana dai suoi principi con una rigorosa necessità, non è in alcun luogo esplicitamente da lui formulata (nessun filosofo pagano, del resto, si è innalzato alla nozione chiara della creazione ex nihilo); e sulle questioni più difficili da risolvere senza l’aiuto della rivelazione, benché accessibili in se stesse alle di­ mostrazioni della ragione (relazione del mondo a Dio, sorte dell’anima dopo la morte), egli mantiene una riserva, forse assai prudente in sé, ma che dà alla sua opera un carattere evidente d’incompiutezza. 55) Riprendendo il tema della stupenda Scuola d ’Atene di Raffaello, ove Platone è rappresentato come un vegliardo ispirato, il volto levato verso il cielo e Aristotele come un uomo giovane e pieno di forza, in atto di mostrare con gesto trionfante la terra e la realtà, Goethe ha tracciato nella sua Teoria dei Colori (2. Abteil, Ueberliefertes) un interessante parallelo tra Platone e Aristotele: «Platone» dice «sembra agire come uno spirito sceso dal cielo, al quale è piaciuto abitare per qualche tempo sulla terra. Egli non cerca affatto di co­ noscere questo mondo: egli se ne è fatta già un’idea sufficiente e ciò che desidera soprat­ tutto è di comunicare agli uomini, che ne hanno un così grande bisogno, le verità che ha portato e che è felice di trasmettere a loro. Se penetra nel cuore delle cose, lo fa più per riempirle della sua anima che non per analizzarle. Egli brama sempre e ardentemente di in­ nalzarsi, per riguadagnare la dimora donde è disceso. Per mezzo dei suoi discorsi, cerca di risvegliare in tutte le menti l’idea dell’essere unico ed eterno, del bene, del vero, del bello. Il suo metodo, la sua parola sembrano fondere, ridurre in fumo i fenomeni scientifici che ha potuto prendere a prestito dalla terra. Aristotele al contrario tratta col mondo sempli­ cemente come un uomo. Pare che egli sia un architetto incaricato di dirigere una costruzio­ ne. Qui egli si trova, qui pertanto deve lavorare e costruire. Egli si accerta sulla natura del suolo, ma unicamente sino alla profondità delle fondamenta. Quanto a ciò che si estende oltre, sino al centro della terra, non se ne occupa affatto. Egli dà al suo edificio una base immensa: va a cercare ovunque del materiale, lo classifica e costruisce a poco a poco. Così egli s’innalza, simile a una piramide regolare, mentre Platone è salito velocemente verso il cielo come l’obelisco, come la punta aguzza della fiamma. Questi due uomini, che rappre­ sentano qualità ugualmente preziose e raramente unite insieme, si sono per così dire divisa l’umanità».

56) «Aggiungiamo che Stagira, città della Penisola Calcidica, era una colonia greca e che vi si parlava il greco: si ha dunque torto a qualificare talora Aristotele come un mezzo­ greco; egli è un puro elleno, un buon elleno come Parmenide, per esempio, o come Anas­ sagora» (Hamelin, Le Système d ’Aristote, p.4). 57) Le opere di Aristotele sono: 1. L’insieme dei trattati (Κατηγορίαι , Categorie, Α να λύτιχα πρότερα, ϋστερα , Analitici primi e secondi, Tórrixa, Topici, Περί σοφιστικών ελέγχω ν, Elenchi sofistici, Περί ερμηνείας , Sull*interpretazione, cioè sulla proposizione, opera che, malgrado l’opinione di Andronico, bisogna considerare autentica) che riguar­ dano la logica e che sòno stati riuniti sotto il titolo di Organo (o Strumento di ricerca). 2. La Fisica (Φυσιχή άχρόασις, il libro VII è incerto) alla quale si possono aggiunge Trattati sul Cielo (Περί ούρανου), Sulla generazione e la corruzione (Περί γενεοεως χαι φ ϋ ο ρας), Sulle parti degli animali (Περί ζ ώ ω ν μορίων ), Sull’anima (Περί ψυχής), Sulla sensazio­ ne (Περί αισϋήσεως χαι αίσΰητών), Sulla memoria (ΤΙερι μνημης χ α ι άναμνήσεως), Sulla me­ teorologia (Μετεωρολογικά), La storia degli animali (Περί τά ζ ώ α Ιστορίαι, il libro è incerto) e numerosi altri trattati, molti dei quali sono incerti, particolarmente il De mundo. (Il trat­ tato sulla Fisiognomica è spurio, ma sembra composto da diversi frammenti autentici.)

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3. La Metafìsica (τά μετά τά φυσικά), il cui secondo libro ( a ϊλαττον) è stato redatto da uno dei suoi discepoli, Pasicle di Rodi. 4. L*Etica Nicomachea (’Htfixcr Νιχομάχεια) e PEtica Eudemia (Ηθικά Eύόήμεια, que­ st’ultima opera è stata composta non da Aristotele ma da Eudemo stesso) alle quali si può aggiungere la Grande Etica (Magna Moralia, Ηθικά μεγάλα , opera questa che è il riassunto delle due precedenti e di conseguenza non è originale di Aristotele), la Politica (Πολιτικά), la Poetica (Περί ποιητικής) e la Retorica (Τέχνη ρητορική ). Il De Virtutibus et Vitiis, VEco­ nomico, la Retorica ad A lessandro sono opere non autentiche. È stata scoperta e pubblica­ ta nel 1891 la Costituzione degli Ateniesi (frammento di una raccolta — ΠολιτεΤαι — nella quale Aristotele aveva riassunto le costituzioni di 158 stati della Grecia). I commenti moderni più utili da segnalare sono quelli di Bonitz sulla Metafìsica, di Rodier sul De Anima e di Hamelin sul II libro della Fisica. Fra gli scolastici che hanno lavorato per spiegare le opere di Aristotele, si debbono ci­ tare in primo luogo Alberto Magno, Tommaso e Silvestro Mauro, la cui esposizione lette­ rale e la parafrasi possono essere ancora utilmente consultate. Tommaso ha scritto alcuni commenti: 1) sul trattato Deirinterpretazione (commento incompiuto, sostituito da quelli di Caietano per le lezioni 3-14 del libro II); 2) sui secondi Analitici; 3) sulla Fisica; 4) sul De Coelo et Mundo (Tommaso morì prima d’aver terminato il suo lavoro, che fu continuato, dopo il libro III, lezione 8, dal suo discepolo Pietro d’Auvergne); 5) sul De generatione et corruptione (il commento di Tommaso, incompiuto, è stato completato traendo soprattut­ to dal commento di Alberto Magno); 6) sulla Meteorologia (commento terminato da una persona diversa da Tommaso dopo il libro II, lezione 11). 7) Sul De anima (il commento dei libri II e III è di Tommaso stesso, quello del libro I è stato redatto da un uditore delle sue lezioni, Rainaldo da Piperno); 8) sui Parva naturalia (de sensu et sensato, de memoria et reminiscentia, de somno et vigilantia); 9) sulla Metafìsica (edizione recente fatta dal P. Cathala, Torino, Marietti, 1915); 10) sxx\YEtica Nicomachea; 11) sulla Politica (commento terminato da Pietro d’Auvergne, dopo il libro III, lezione 6; o, secondo altri, dopo il libro IV); cfr. De Rubeis, Dissert. 23 in voi. I Op. Omn. S. Thomae A q . , edizione leonina. Sugli scritti di Tommaso e sull’autenticità dei suoi diversi opuscoli, ved. Mandonnet o.p ., Des Ecrits authentiques de saint Thomas (estratto dalla Revue Thomiste, 1909-1910), Friburgo (Svizzera), Convict Albertinum. 58) Strabone, Geogr., XIII, 1, 54; Plutarco, Vita di Siila, c. 26. La testimonianza di Strabone ha una considerevole autorità. È dimostrato tuttavia che alcuni dei testi scientifi­ ci più importanti di Aristotele erano conosciuti dai peripatetici e dai loro avversari nel III e II secolo a.C. Bisogna dunque ammettere che il racconto di Strabone è esatto nella sua parte positiva, per quanto cioè concerne la storia dei manoscritti acroamatici di Aristotele; ma è inesatto o per lo meno esagerato nella sua parte negativa: copie più o meno complete dei libri del filosofo dovevano circolare nella scuola peripatetica prima della scoperta di Apellico. Si può tuttavia supporre con Hamelin che «non si leggeva affatto l’Aristotele scientifico, nemmeno nella scuola peripatetica, che era degenerata. La scoperta d’Apellico sarebbe venuta a rimettere in auge questo Aristotele». E sarebbe pertanto vero che prima di questa scoperta e prima dei lavori di Andronico, gli scritti scientifici di Aristotele erano non sconosciuti, come dice Strabone, ma almeno poco e male conosciuti. 59) Inoltre, essendo andato in parte perduto il lavoro di Boezio, certi libri dc\YOrga­ no, ritrovati grazie agli arabi, vennero solo dopo il 1141 a figurare nella biblioteca filosofi­ ca del medio evo, per costituire quel che allora si chiamava la logica nova (Analitici primi e secondi, Topici, Sofismi). Cfr. De Wulf, Histoire de la Philosophie médiévale, seconda edizione p. 149 sgg. 60) Alcune censure (decretate nel 1210 da un concilio della provincia di Sens riunito a Parigi, rinnovate nel 1215 nello statuto concesso all’università di Parigi dal legato Roberto de Cour?on, statuto confermato nel 1231 da Gregorio IX e nel 1263 da urbano IV) proibi­ rono l’uso dei libri di Aristotele nelle lezioni pubbliche o private. Si noti però che ognuno per conto suo e per suo uso personale, rimaneva libero, dice M. Forget (Rapp. au Congr. scientif. intern. descath ., Bruxelles, 1894), di leggere questi libri, di studiarli, di scrivere su di essi dei commenti. Inoltre tali censure valevano solo per

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l’università di Parigi. Nel 1229 l’università di Tolosa, fondata e organizzata sotto l’alto patronato del legato pontificio, attirava gli studenti annunciando la spiegazione dei libri proibiti a Parigi. Infine proprio a Parigi, quando la facoltà delle arti inserì nel suo pro­ gramma, a partire dal 1255, l’insegnamento pubblico della fisica e della metafisica, l’auto­ rità ecclesiastica non pensò nemmeno di intervenire. Anzi, alcuni anni più tardi il papa Ur­ bano IV stesso incoraggiava a proseguire nel loro lavoro Guglielmo di Moerbèke e Tom­ maso d’Aquino, che rispettivamente traducevano e commentavano i trattati di Aristotele. Cfr. Chollet, art. Aristotélisme de la Scolastique, nel Dictionnaire de Théologie, di Vacant et Mangenet; De Wulf, Hist, de la Philosophie médiévale , 1900, p. 242. 61) Alcuni libri di Aristotele sembrano essere stati utilizzati in un primo tempo nella versione arabo-latina; altri nella versione greco-latina. Quest’ultima in ogni caso non tardò a soppiantare completamente l’altra. Tommaso ha usato solamente versioni derivate direttamente dal greco. 62) La migliore di queste traduzioni è quella che, in seguito alla richiesta e secondo le indicazioni di Tommaso, fece Guglielmo di Moerbèke, dal 1260 al 1270; è una traduzione dell’opera intera di Aristotele, che ricalca per così dire il testo greco in una maniera assolu­ tamente letterale. 63) Giustino, In IIApoi. cap. 13. 64) Omne verum a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est. 65) Summa Theologiae, I, q. 1, art. 3, a d 2. 66) Senza dubbio essi si occupavano anche di molti problemi riguardanti le scienze particolari, poiché la differenziazione della conoscenza umana era allora molto meno progredita che non ai nostri giorni; tuttavia il punto sul quale il loro sforzo verteva innan­ zitutto non era questo e, almeno dopo Socrate, quelle fra le scienze particolari (astrono­ mia, geometria, aritmetica, musica, medicina, geografia...) che l’antichità coltivò con frutto, si svilupparono a parte, distinguendosi nettamente dalla filosofia. La storia stessa delle scienze particolari, che nei tempi moderni hanno fatto così enormi progressi differen­ ziandosi dalla filosofia e costituendosi in una struttura autonoma, mostra chiaramente che esse non fanno parte della filosofia. 67) «έι μεν φ ιλοοοφ η τέον , φ ιλοσοφ η τέον , καί, εί μή φ ιλοσοφ η τέον , φ ιλοσοψ ητέον , π ά ν τ ω ς αρα φιλοσοφ ητεόν.»

Questo dilemma si trovava nel Προτρεπτικός, opera oggi perduta, di cui ci sono perve­ nuti solo alcuni frammenti (cfr. fr. 50, 1483 b 29, 42; 1484, a, 2, 8, 18). 68) Per gli antichi, il termine filosofia indicava Tinsieme delle grandi discipline scien­ tifiche (fisica o scienza della natura, matematica o scienza delle proporzioni, metafisica o scienza dell’essere in quanto essere, logica ed etica). Non c’era dunque per loro il problema di distinguere la filosofia dalle scienze. Il solo problema che avevano era di distinguere la filosofia prima o metafisica dalle altre scienze. Noi invece, dopo l’immenso sviluppo rea­ lizzato dalle scienze particolari, dobbiamo distinguere da queste scienze non solo la meta­ fisica (scienza dei primi principi assolutamente parlando), ma anche lo studio dei primi principi analizzati in un campo determinato (nel campo della matematica o in quello della fisica, per esempio); costituendo questo insieme quel che chiamiamo la filosofia. 69) Soltanto la metafisica e la logica costituiscono ognuna, come si vedrà a suo tem­ po, una scienza universale specificamente una. 70) Per esprimerci con precisione, diremo che non sussiste un oggetto formale unico della filosofia, poiché la filosofia nel suo insieme non è puramente e semplicemente una, ma consiste invece in numerose scienze distinte (logica, filosofia naturale, metafisica...), specificate ciascuna di un oggetto formale distinto ( ens rationis logicum, ens mobile, ens in quantum ens... Ved. più avanti cap. II). Ma fra questi oggetti formali delle diverse scienze filosofiche c’è qualcosa di analogicamente comune: essi infatti fanno riferimento, ciascu­ no nel suo ordine, alle cause più alte e più universali ovvero sono considerati dal punto di vista di queste cause. Si può dire perciò che le cause più elevate costituiscono Toggetto fo r­ male o il punto di vista formale analogicamente comune della filosofia presa nel suo insie­ me. 71) Queste deviazioni e queste usurpazioni sono veramente molto frequenti. C’è, per

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esempio, una maniera di trattare le geometrie non euclidee che fa deviare le matematiche dal loro fine; le matematiche d’altra parte hanno invaso con Descartes il dominio di tutte le scienze; ai nostri giorni, la fisica e la chimica usurpano costantemente i diritti della bio­ logia, la medicina quelli della psicologia. Quanto poi alle usurpazioni della fisica o della biologia sulla filosofia stessa, non si contano! (Citiamo, per esempio, le teorie pseudo­ scientifiche sulla inesistenza delle cause finali , sulla irrealtà delle qualità, sul determini­ smo, sull’atomismo, eccetera; o anche, dalla parte della biologia, il dogma trasformista e il dogma meccanicista). 72) T. Richard, Philosophie du raisonnement dans la Science d ’après saint Thomas, Parigi 1919, p.14. 73) Tommaso, Commento sulla Metafisica di Aristotele, proemium. 74) In realtà, secondo Comte, è la sociologia che ha il compito di scientia rectrix, ma ordinando le scienze soltanto in funzione del soggetto umano, non in se stesse {sintesi sog­

gettiva). 75) «Licet locus ab auctoritate, quae fundatur super ratione humana, sit infirmissi­ mus, locus tamen ab auctoritate quae fundatur super revelatione divina, est efficacissimus», Tommaso, Summa Thelogiae, I, q .l, art. S,ad2. 76) La teologia è la sapienza teorica per eccellenza; sapienza che conosce Dio per mezzo dell’intelligenza e delle idee, cioè mediante i procedimenti normali della scienza umana. Vi è un’altra sapienza più elevata ancora, che è un dono dello Spirito Santo; que­ sta fa conoscere Dio sperimentalmente e attraverso la carità. Essa permette di giudicare delle cose divine istintivamente, come l’uomo virtuoso giudica della virtù {per modum in­ clinationis) e non scientificamente, come il moralista giudica della virtù {per modum co­ gnitionis). Cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I, q .l, art. 6, a d 3. 77) Questa luce ha valore in se stessa e nella filosofia basta a se stessa; la qual cosa non impedisce che essa possa anche (ma nella teologia , non nella filosofia) servire come strumento per una luce più alta; e questo non vuol dire certamente che la ragione umana nei suoi principi stessi non sia subordinata all’intelligenza prima. 78) La teologia può orientare le ricerche del filosofo in un senso piuttosto che in un altro; si può dire allora che essa lo dirige positivamente PER CASO. Ma ASSOLUTAMENTE PARLANDO, bisogna dire che la teologia dirige la filosofia solo negativamente, come è stato spiegato sopra; essa non la dirige positivamente né in una maniera diretta, fornendole i suoi mezzi di prova (come la fede riguardo all’apologetica) né in una maniera indiretta, ordinando le sue diverse parti (come la filosofia stessa ordina le scienze). 79) Si potrebbe dire, è vero, che secondo le intenzioni di Descartes stesso si trattava piuttosto di emancipare la filosofia dall’autorità di una certa teologia (della teologia sco­ lastica) che egli considerava senza valore per il fatto che si appoggia, nella filosofia e nella metafisica di cui si serve, sui principi di Aristotele. In realtà, tuttavia, è con la teologia stessa che egli rompeva rompendo con la teologia scolastica, che è la teologia tradizionale della Chiesa, poiché l’idea che egli si faceva della scienza implicava dopo tutto la negazione del valore della teologia come scienza. E in ogni caso la sua riforma ha avuto come effetto di condurre la filosofia a proclamare la sua indipendenza assoluta riguardo alla teologia (cfr. Blondel, Le christianisme de Descartes, Revue de Métaph. et de Morale , 1896). 80) La teoria della doppia verità , secondo la quale la stessa cosa può essere vera in fi­ losofia e falsa in teologia, è stata inventata dagli averroisti del medio evo, che volevano in tal modo sfuggire alle censure della Chiesa. Sotto forme diverse essa è stata ripresa nei tempi moderni da tutti coloro che, come i modernisti d’oggi, [per comprendere il valore di questo inciso dell’autore, occorre riferirsi alla data di composizione delTopera stessa, n.d.t.] vogliono conservare la qualifica di cattolici e professare liberamente, in filosofia, dottrine distruttrici di questa o quella verità dogmatica. 81) Questa differenza tra il caso della teologia in rapporto alla filosofia e quello della filosofia in rapporto alle scienze particolari, proviene dal fatto che essendo la teologia una partecipazione della sapienza divina, il soggetto umano si trova troppo debole nei suoi confronti, ed è costretto, per trarre delle conclusioni, ad aiutarsi (come con premesse) con

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le conclusioni a cui è giunta una disciplina inferiore. Ma essendo la filosofia una sapienza umana, alla quale la ragione può attingere, benché difficilmente, con le sue sole forze naturali, lo spirito umano deve poterne dedurre le conclusioni sicure (e innanzitutto le conclusioni sicure metafisicamente) senza servirsi, come di premesse, delle conclusioni delle scienze alle quali essa è superiore in dignità e in certezza. 82) Ved. Garrigou-Lagrange, De Revelatione, Parigi, Gabalda 1918, voi. I, cap. II. 83) Kleutgen, La philosophie scolastique, t.I, p.439. 84) Lettera del 5 marzo 1649. 85) Aristotele (Metafisica, I, 2) dice che la causa occasionale della filosofia è Γadmi­ ratio (το θαυμάζειν), cioè lo stupore misto a timore, stupore che la conoscenza ha come ri­ sultato di far scomparire. Intendiamo con questo termine lo stupore che non comprende, non l’ammirazione che comprende. Il saggio non si stupisce di nulla, poiché conosce le ra­ gioni supreme di tutte le cose, ma ammira molto più dell’ignorante. Cfr. De pari. anim., I, 5, 645 a 16: lv ηασι τόΐς φυσικοΤς ϊνεστι τί θαυμαστόν. CAPITOLO SECONDO 86) «Res autem de quibus est Logica, non quaeruntur ad cognoscendum propter seipsas, sed ut adminiculum quoddam ad alias scientias. Et ideo logica non continetur sub phi­ losophia speculativa quasi principalis pars, sed quasi quoddam reductum ad eam, prout ministrat speculationi sua instrumenta, scilicet syllogismos et definitiones, et alia huiu­ smodi, quibus in speculativis scientiis indigemus. Unde et secundum Boethium in Comment. sup. Porphyrium , non tam est scientia quam scientiae instrumentum» (Tommaso, Super Boethii de Trinitate, q.5, art. 1, ad 2). È pertanto solo riduttivamente che la logica appartiene alla filosofia speculativa. 87) Cfr. Tommaso, Super Boethii de Trinitate, q.6, art. 1, ad 3: «Dicendum quod in addiscendo incipimus ab eo, quod est magis facile, nisi necessitas aliud requirat. Quando­ que enim necesse est in addiscendo non incipere ab eo quod est facilius, sed ab eo a cuius cognitione cognitio sequentium dependet. Et hac positione oportet in addiscendo incipere a Logica nop quia ipsa sit facilior scientiis ceteris; habet enim maximam difficultatem, cum sit de secundo intellectis; sed quia aliae scientiae ab ipsa dependent, inquantum ipsa docet modum procedendi in omnibus scientiis. Oportet enim primum scire modum scien­ tiae (le condizioni proprie o i procedimenti del sapere) quam scientiam ipsam, ut dicitur II Metaph». 88) Metafisica, II, 995 a 12; e Tommaso, lezione 5: «Quia enim diversi secundum di­ versos modos veritatem inquirunt, ideo oportet quod homo instruatur per quem modum in singulis scientiis sint recipienda ea quae dicuntur. Et quia non est facile, qud homo si­ mul duo capiat, sed dum ad duo attendit, neutrum capere potest: absurdum est, quod ho­ mo simul quaerat scientiam et modum qui convenit scientiae. Et propter hoc debet prius addiscere logicam quam alias scientias, quia Logica tradit communem modum procedendi in omnibus scientiis». 89) Si osservi che questa divisione della filosofia in speculativa e pratica si riferisce al fine non alVoggetto stesso della scienza che, come tale, rimane sempre speculativa. Inol­ tre, non riguarda la specificazione propriamente detta delle scienze filosofiche. Ved. più avanti n. 58, testo a carattere minore, pp. 204. 90) Aggiungiamo che tra le scienze pratiche, una sola a dire il vero, l’etica, è vere et proprie scientia, cioè procede dimostrativamente, in materia necessaria e comporta una verità che consiste nel conoscere le cose conformemente a ciò che è, non nel dirigere come si deve un’azione contingente. Le altre scienze pratiche (medicina, architettura, arte mili­ tare, eccetera) sono arti e non scienze vere e proprie (cfr. Giovanni di San Tommaso, Logi­ ca, II P ., q .l, art. 5, p. 209). Ma se l’etica è una scienza vera e propria, non è (precisamente per questo) che im­ propriamente pratica: poiché procede facendo conoscere (speculabiliter) non facendo agi­ re (operabiliter) e dà molte regole prossime applicabili ai casi particolari, ma non è da essa,

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è dalla virtù della prudenza che deriva la buona applicazione stessa e il buon uso di quelle regole nel nostro agire (ved. più avanti, p. 198; Osservazione, e nota 160). D ’altra parte, vedremo più avanti che anche la filosofia dell’arte è, in un certo senso, una filosofia pratica. Ma è molto lontana dall’essere una scienza pratica, anche nel senso improprio in cui lo è la morale; essa non considera che i principi e non può scendere sino a regole prossime applicabili all’opera particolare da eseguire. 91) Perciò la filosofia pratica stessa è una sapienza teorica o per modo di conoscenza (ved. sopra p. 81). 92) Cfr. T. Richard, op. cit. , p. 21. 93) Il problema dell’universale deve essere studiato in logica, in psicologia o in meta­ fisica (critica)? In realtà deve essere studiato in queste tre trattazioni, da tre punti di vista diversi, secondo che si consideri ciò che costituisce la natura dell’universale (punto di vista della causa formale) o la maniera in cui l’universale viene formato dalla mente (punto di vista della causa efficiente) o il valore dell’universale per la conoscenza (punto di vista del­ la causa finale). 94) Si studiano comunemente in filosofia naturale o in metafisica le questioni concer­ nenti la filosofia delle matematiche. Vi è nondimeno, come sembra, una profonda necessi­ tà d’ordine da mantenere in quello che noi oggi chiamiamo la filosofia (conoscenza scienti­ fica delle cose attraverso le cause prime), dato che la divisione fondamentale delle scienze (il cui insieme costituiva per gli antichi la filosofia speculativa) in tre grandi parti: fisica, matematica, metafisica, corrisponde ai tre gradi di astrazione (ved. p. 118, testo a caratte­ re minore). Cfr. Aristotele, Metafisica, VI, 1: τρεΤς αν είεν φιλοσοφίαι θεωρητικοί, μαθη­ ματική, φυσική, θεολγική. (1026 a 18). È vero che, come più avanti si vedrà, la filosofia delle matematiche, per il fatto stesso che studia l’essenza della quantità, e che è pertanto, almeno risolutivamente, metafisica, esce dal campo specifico delle scienze matematiche e rimane propriamente distinta da queste. È però altrettanto vero che essa ha rapporto col secondo grado di astrazione e che richiede, a causa di questo, di essere studiata in una sezione speciale. 95) Nell’ordine logico delle scienze, le scienze della natura, che corrispondono al pri­ mo grado di astrazione (ved. p. 118, testo a carattere minore) precedono le scienze mate­ matiche, che corrispondono al sécondo grado di astrazione, in modo che, seguendo questo ordine, bisognerebbe dividere la filosofia speculativa in: 1) filosofia della natura (corri­ spondente al primo grado di astrazione); 2) filosofia delle matematiche (corrispondente al secondo grado di astrazione); 3) metafisica (corrispondente al terzo grado di astrazione). Conviene però porre la filosofia delle matematiche prima della filosofia della natura, e questo per due ragioni. Per un verso le verità d’ordine matematico sono più facili che non le verità d’ordine naturale, che postulano l’esperienza; per questo in una maniera generale le matematiche debbono essere insegnate ai bambini prima delle scienze della natura, per lo studio delle quali bisogna essere più avanti negli anni (Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI; Tomma­ so, Super Boethii de Trinitate, q.5, art. 1, ad 3). Sarà pertanto opportuno osservare la traccia di questo ordine nella filosofia e iniziare la mente allo studio della filosofia naturale, mediante lo studio della filosofia delle mate­ matiche. Dall’altro verso, e soprattutto, la filosofia della natura viene a contatto, attraverso l’ultima e la più nobile delle sue parti (la psicologia) con la metafisica. E tale continuità verrebbe infranta se si frapponesse tra la filosofia della natura e la metafisica, la filosofia delle matematiche. Nel XVII secolo, Silvestro Mauro affermava (in questo non era che l’interprete della tradizione aristotelica) che l’ordine naturale da seguire nell’insegnamento è: 1) logica; 2) matematica; 3) fisica; 4) metafisica {Quaestionesphilosophicae, lib. I, q.VII. Citato da p. Gény, Questions d*enseignement dephilosphie scolastique, p. 40). Circa il posto assegnato alla metafisica e particolarmente all’ontologia, ved. sopra prefazione, par. II. 96) La scienza dell’uomo ha pertanto questa particolarità singolare (che le deriva dal­

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la natura stessa del suo oggetto), di essere a cavallo di due scienze distinte, filosofia della natura e metafisica. Per questo, tutte le questioni che riguardano Γintelligenza e la parte propriamente spirituale della psicologia, comportano nell’uomo una così grande comples­ sità e sono per così dire obumbrate dalla materia. E si comprende perciò come i tomisti, per meglio studiare tali questioni allo stato puro, le abbiano considerate non nell’uomo ma nell’angelo. Donde l’estrema importanza, non soltanto teologica, ma anche filosofica e metafisica, del trattato De Angelis. 97) Si noti che la psicologia dei moderni non corrisponde esattamente al trattato sull’a­ nima degli antichi. Il περί ψυχής (De anima) di Aristotele non studia soltanto l’anima uma­ na, ma anche l’anima in generale come principio di vita (vita vegetativa come vita sensitiva e vita intellettiva). Questo trattato corrisponde quindi contemporaneamente a ciò che si chiama oggi la biologia e la psicologia. 98) Questa tendenza si ritrova anche in Kant (in morale, Soprattutto), benché egli neghi con i fenomenisti che la ragione possa dimostrare l’esistenza dell’anima. 99) Il nome di metafisica deriva dal fatto che nel catalogo delle opere di Aristotele re­ datto da Andronico di Rodi, il trattato consacrato alla filosofia prima (περί της πρώτης φ ι­ λοσοφίας, era questo verosimilmente il titolo che Aristotele stesso voleva dargli) vine dopo i libri che trattano della natura (μετά τά φυσικά). Sembra peraltro che Aristotele abbia se­ guito cronologicamente il medesimo ordine nella composizione stessa delle sue opere. 100) Distinguendo così la critica della logica e facendo della critica la prima parte o i priliminari specifici o anche, se si vuole, Vintroduzione apologetica della metafisica, se­ guiamo l’ordine e le divisioni di Aristotele stesso, che tratta sommariamente della critica nel IV libro della Metafisica , prima di abbordare i grandi problemi dell’essere in quanto essere. 101) Cfr. Summa theologiae, II - II, q. 172, art. 6: «Sicut se habet bonum in rebus, ita verum in cognitione. Impossibile est autem inveniri aliquid in rebus, quod totaliter bo­ no privetur: unde etiam impossibile est esse aliquam cognitionem quae totaliter sit falsa absque admixtione alicuius veritatis». 102) Tesi di Descartes, e dopo di lui di tutta la filosofia soggettivistica. 103) La conoscenza intellettuale ha luogo per mezzo delle idee. Ma le idee sono pura­ mente ciò per cui (id quo) e non ciò che (id quod) noi conosciamo direttamente; esse sono un puro mezzo di conoscere e non (se non in modo riflesse) un oggetto o termine conosciu­ to; per questo bisogna dire che l’essere delle cose è l’oggetto immediato della nostra cono­ scenza intellettuale ( immediato , cioè conosciuto senza l’intermediario di un altro termine o oggetto prima conosciuto). 104) Cfr. Aristotele, Metafisica , V. 105) Le nozioni esposte nei nn. 50, 51, 52 presentano per dei principianti, a causa del loro carattere molto astratto, una certa difficoltà. Tuttavia è impossibile ometterle, poiché la loro importanza è veramente primordiale. Crediamo particolarmente che sia molto im­ portante precisare con la più grande cura, sin dall’introduzione, la nozione capitale di es­ senza. Come osserva il p. Gény (Questions d ’enseignement dephilosophie scolastique, op. cit. , pp. 79-81), l’assenza, nei corsi classici, di uno studio speciale consacrato a tale nozio­ ne costituisce una lacuna delle più deplorevoli. I materiali per uno studio del genere sono sparsi qua e là, ma «non è forse per il fatto che ci si dimentica di riunirli, che il termine es­ senza, alle soglie della metafisica, suscita oggi tanta diffidenza o, se si fa accettare, lascia nelle menti tanto di vago?». Si dovranno pertanto studiare con una cura speciale le nozioni qui esposte, ma senza tentare ancora di penetrarle perfettamente. È sufficiente per il momento prendere con esse un primo contatto. Più tardi, quando le si ritroveranno in ontologia, dopo essersi famigliarizzati un po’ di più con la filosofia, appariranno molto più facili. 106) Si osservi che nell’esistenza stessa si possono considerare due cose: l’esistenza come fatto di esistere (exsistere in actu exercito) e l’esistenza cóme oggetto di pensiero (ex­ sistentia ut quod quid est); da questo secondo punto di vista 1’esistenza stessa riveste la condizione oggettiva di ogni oggetto di pensiero, ed è davanti all’intelligenza come un’es­ senza determinata o quiddità. «Esse dupliciter sumi potest, scilicet in actu exercito ipsius

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exsistentiae, et per modum quidditatis; et ut exercet exsistentiam, addit supra seipsum ut quod quid est; et consequenter ut objectum intellectus est abstractus (quam ut objectum voluntatis): quia est objectum voluntatis secundum quod stat in actu exercito exsistentiae, intellectus autem secundum quod rationem habet quidditatis cuiusdam in seipso» Caietano, In Iam, q. 82, a.3. 107) «Non enim res intelligibilis est nisi per suam definitionem et essentiam.» Tom­ maso, De Ente et Essentia, Cap. 1. 108) L’essenza, considerata in quanto è attribuita alla cosa {uomo, quando si dice, per esempio, Pietro è un uomo) è propriamente ciò che la cosa è necessariamente e innan­ zitutto come intelligibile. L’essenza considerata a parte o allo stato puro (come quando si dice, per esempio, l'umanità o l'essere uomo, e non si può dire allora Pietro è l'umanità o Pietro è l'essere uomo) è propriamente ciò per cui una cosa è quello che è necessariamente e innanzitutto come intelligibile, o ancora ciò per cui essa è costituita in un grado determi­ nato d’essere primieramente intelligibile. È pertanto opportuno, se si considera l’essenza allo stato puro, sostituire nelle nostre sinossi l’espressione ciò che una cosa è con l’espres­ sione ciò per cui:

109) Il ricalco latino dell’espressione greca è quod quid erat esse, id est, dice Tomma­ so {De Ente et Essentia, cap. 1) hoc per quod aliquid habet esse quid, quel che fa sì che un oggetto qualunque di pensiero sia questo o quello. 110) O anche, in una forma più sviluppata: id quod primo in re concipitur, sine quo

res esse non potest, estque fundamentum et causa caeterorum quae sunt in éadem re; ut animal rationale est hominis essentia. 111) Fatta eccezione per gli esseri di ragione, di cui non si può dire propriamente che abbiano un’essenza (ved. prima, nota h, cap. II). 112) Essentia dicitur secundum quod per eam et in ea res habet esse, Tommaso, De Ente et Essentia, cap. 1. 113) «Quidditas est ipsa rei entitas considerata in ordine ad definitionem explicantem

quid illa sit. Entitas vero rei considerata in ordine ad esse, dicitur essentia; in ordine ad operationem dicitur natura.» 114) E può afferrare direttamente (mediante un concetto proprio) queste essenze complete o completamente determinate, almeno se si tratta delle cose che sono alla nostra portata immediata, cioè, come si vedrà in psicologia, delle cose corporali. (Noi cogliamo, per esempio, completa o completamente determinata, l’essenza di Pietro, quando le co­ nosciamo non soltanto come essere vivente o come animale, ma come uomo.) 115) Anche in tal caso essa può determinarle solo mediante l’aiuto di una caratteristi­ ca apparente, prima conosciuta da noi (la facoltà di ragionare, per esempio, per la natura umana), di cui essa vede che la necessità entra nella loro costituzione. 116) Se, per esempio, posso dire Pietro è un uomo, ciò avviene perché la cosa (l’og­ getto materiale) che percepisco sotto l’oggetto di pensiero uomo è identica alla cosa che percepisco sotto l’oggetto di pensiero Pietro. Quando vado dall’esistenza delle cose nella mia mente alla loro esistenza nel reale, devo dire pertanto che l’oggetto di pensiero uomo, che è uno nella mia mente, si moltiplica in tutti gli individui in cui si trova realizzato e si identifica con ciascuno d’essi.

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117) Cfr. Aristotele, Metafisica, VII,8, 1033 b 22, 10, 1035 b 14. Noi parliamo qui soltanto delle cose corporali, le sole che siano alla nostra portata immediata (che siano connaturali all’intelligenza umana), le sole perciò di cui possiamo conoscere l’essenza di­ rettamente (in altro modo che per analogia) e di cui possiamo conoscere l’essenza comple­ ta o completamente determinata. 118) Da tutte queste osservazioni consegue che quando diciamo, per esempio, «Pie­ tro e Paolo hanno la medesima essenza o la medesima natura» il termine medesima si rife­ risce all’essenza di Pietro e di Paolo sotto lo stato in cui si trova nella mente (poiché ivi es­ sa è un oggetto di pensiero uno e il medesimo), non sotto lo stato in cui è nel reale (poiché ivi esa è identificata a Pietro e a Paolo, individui differenti). Ma poiché l’essenza in que­ stione non è individuale in se stessa (secundum se), in altre parole, poiché non è distinta in Pietro e in Paolo come essenza , bisogna dire che essa è in Pietro e in Paolo tale che può es­ sere còlta dalla mente in un solo concetto e costituire in esso un oggetto di pensiero uno e il medesimo. È quello che si esprime dicendo che l’essenza, formalmente universale nella mente, è fondamentalmente universale nelle cose o nel reale. (Come si vedrà in logica mag­ giore, la natura si trova, nella mente , sotto uno stato di universalità logica o formale , co­ me quando diciamo: uomo è l ’essenza di Pietro e di Paolo , o sotto uno stato di universali­ tà metafisica o fondamentale, come quando diciamo: l’uomo è mortale. Il vocabolo fon ­ damentale si riferisce in questo caso fondamento prossimo dell’universalità. Quando in­ vece diciamo che la natura o l’essenza è fondamentalmente universale nel reale, si tratta qui άύ fondamento remoto dell’universalità.) 119) Noi parliamo qui delle cose conosciute dalla nostra intelligenza, non trattiamo il problema di sapere come essa conosca il suo proprio atto individuale e immateriale. 120) Cfr. Tommaso, De Veritate, q.2, art. A. a d ì : «Intellectus noster singularia non cognoscens, propriam habet cognitionem de rebus, cognoscens eas secundum proprias ra­ tiones speciei». 121) Non parliamo qui delle caratteristiche puramente contingenti che differenziano un individuo da un altro: Pietro è a Parigi, per esempio, mentre Paolo è a Roma; Pietro è ricco mentre Paolo è povero, eccetera. Parliamo delle caratteristiche che dipendono dal­ l’essere costitutivo dell’individuo, dalle caratteristiche innate, che, almeno in radice, non possono mutare. 122) Benché in tutt’altro modo di quanto non lo siano le caratteristiche che derivano dall’essenza (le proprietà). Ved. più avanti la nota 128. 123) In quanto materia signata quantitate, come si vedrà in filosofia naturale. È chia­ ro che gli esseri assolutamente incorporei o immateriali (spiriti puri) non possono derivare la loro individuazione dalla materia prima. Essi l’hanno solo dalla loro essenza stessa e ognuno differisce perciò dall’altro come il cavallo, per esempio, è differente dall’uomo, essendo ognuno un’essenza specifica propria a lui solo. Non vi sono due esseri essenzial­ mente eguali in quel mondo. Negli spiriti puri di conseguenza (ma unicamente qui) l’essen­ za è qualcosa di individuale, e la nozione di essenza completa si confonde con quella di na­ tura individuale. 124) In questo senso T ommaso scrive che formae et perfectiones rerum per materiam determinantur {De Veritate, q.2, art. 2). 125) Aristotele , Metafisica, VII, 7, 1032 b 14: λέγω ό’ούσίαν ανευ ϋλης rò τι 7jv είναι. 126) Cfr. Tommaso, De Ente et Essentia, cap. 2: «Haec materia {signata) in defini­ tione hominis in quantum homo non ponitur; sed poneretur in definitione Socratis, si So­ crates definitionem haberet. In definitione autem hominis ponitur materia non signa­ ta...». Ne consegue: 1) che Socrate ha la sua essenza non precisamente in quanto è Socra­ te, ma in quanto è uomo, poiché l’essenza è quel che esprime la definizione. Cfr. De Veritate, q.2, art. 2, ad 9) e non c’è definizione di Socrate in quanto Socrate. La natura indivi­ duale di Socrate è l’essenza uomo individuata dalla materia signata', 2) che l’essenza consi­ derata allo stato puro o separato, come quando diciamo l’umanità o l’essere uomo, può essere considerata come l’essere reso immateriale (purificato dalle designazioni provenien­ ti dalla materia signata) o come l’essere formale della cosa tutt’intera (materia — non indi­ viduale — e forma compresa). È in questo senso che gli antichi davano all’essenza (com­

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prendente essa stessa la materia — non individuale — e la forma) il nome di forma (forma totius ): «Et ideo humanitas significatur ut forma quaedam. Et dicitur quod est forma to­ tius,... sed magis est forma quae est totum, scilicet formam complectens et materiam, cum praecisione tamen eorum per quae materia est nata designari» Ibid . , cap. 3). Si osservi be­ ne che se la materia individuale (cioè haec ossa, hae carnes) non è parte dell’essenza o na­ tura specifica, per contro, la materia non individuale o materia comune ( ossa et carnes) ne è parte. Quello che costituisce l’uomo, non è l’anima soltanto, ma il composto anima e corpo. (Cfr. Metafisica , 1. VII, lez. 10 di Tommaso, nn. 1492 e 1496, ediz. Cathala.) Questa materia non individuale o comune, essendo considerata semplicemente in quanto riceve la forma ed è da questa determinata e non in quanto prima radice di certe designa­ zioni (designazioni individuali) del soggetto, è conosciuta da noi mediante la forma ( mate­ ria cognoscitur per formam, a qua sumitur ratio universalis, Tommaso, op.cit. Cfr. De Ventate., q. 10, art. 4 e 5) ed è parte di ciò che noi qui chiamiamo l’essere immateriale (es­ sere archetipo) o essere formale della cosa (forma totius, seu potius forma quae est totum). 127) C’è di più (queste note individuanti, questo temperamento, per esempio) nella natura individuale che non nell’essenza, ma dal lato della materia, non da quello dell’esse­ re puramente intelligibile o essere immateriale. Le note individuanti non fanno parte di questo essere e non gli aggiungono niente, nel suo ordine. Si osservi qui che le caratteristiche individuali (biondo, sanguigno, eccetera), per il fatto che sono dalla parte della materia, sono necessarie e immutabili, diversamente dalle caratteristiche che derivano dall’essenza (le proprietà). Queste ultime sono necessarie di di­ ritto , come derivanti da un principio costitutivo dell’essenza e che le esige per la sua nozio­ ne stessa: è assolutamente impossibile che Pietro sia, senza essere mortale. Le caratteristi­ che individuali, al contrario non sono necessarie che di una necessità di fa tto , come deri­ vanti da determinate disposizioni della materia, supposte come date. Se è impossibile che Pietro sia senza avere quel temperamento, è supposto che sussitano determinate condizio­ ni materiali, in ragione elle quali Pietro ha quella natura individuale, ma che in se stesse non sono necessarie. Queste caratteristiche peraltro possono modificarsi in una certa mi­ sura e sono immutabili solo nella loro radice. 128) Noi parliamo sempre delle cose che sono alla nostra portata immediata, cioè del­ le cose corporali, che l’intelligenza umana non può cogliere direttamente nella loro indivi­ dualità per il fatto che, costretta a trarre dalle immagini le sue idee del tutto immateriali, essa deve per ciò stesso fare astrazione da ciò che costituisce la materialità della conoscen­ za sensitiva, cioè la materia individuale. Quanto alle cose immateriali (puri spiriti), la nostra intelligenza è parimenti incapace di afferrarle nella loro individualità, ma per una ben diversa ragione: poiché i puri spiriti sono al di fuori della nostra portata immediata e non possono essere conosciuti da noi se non per analogia, non per la loro essenza e senza che noi possiamo cogliere la loro essenza

completa. 129) Almeno se si tratta del mondo delle cose corporali. Nel mondo degli spiriti puri invece l’essenza è individuale (ved. sopra nota 124). E se conosciamo le essenze delle cose spirituali alla maniera di un universale, ciò accade perché non le conosciamo che in una maniera inadeguata e per analogia con le cose corporali prima conosciute da noi. L’espressione natura individuale non è rara in Tommaso (cfr. De Veritate, q.2, art. 5, natura singularis; Summa theologiae I-II, q.51, art. 1, natura individui, eccetera); si trova anche in lui, ma in un caso eccezionale, l’espresione essentia singularis (cfr. De Ventate, q.2, art. 7); checché ne sia della proprietà del termine, questo, in ogni caso, non significa per Tommaso altro che l’essenza individualizzata dalla materia (e non, in un senso spinozista, l’essenza in quanto non sarebbe completa come essenza se non nell’individuo). 130) Ved. nota 150. 131) Noi parliamo qui dei soggetti creati; una persona increata (divina) ha in se stessa tutto ciò che occorre per esistere d’una esistenza non ricevuta. Quando diciamo che la so­ stanza personale non è in alcun modo parte di un tutto nel quale essa esisterebbe, il termi­ ne tutto designa evidentemente un tutto che è uno per sé (ved. p. 188) e non un tutto collet­ tivo come l’universo, per esempio.

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132) Tale formula è preferibile, poiché resistenza stessa non può entrare come parte costitutiva nella definizione di alcuna cosa creata. Cfr. peraltro Tommaso, Quodlibet, 2, q. 2, art. 4, ad 2: ipsum esse non est de ratione suppositi. 133) Ved. nota 108. 134) Per il fatto che io la concepisco come provvista di un certo modo o di una certa maniera di essere, che i filosofi chiamano sussistenza o personalità e che la termina un po’ come un punto termina una linea. In questa introduzione non pretendiamo di apportare la soluzione del problema della sussistenza (distinzione della natura e della persona), che costituisce uno dei più importan­ ti problemi dell’ontologia. Ponendoci dal punto di vista pedagogico della coerenza dell’e­ sposizione, abbiamo voluto soltanto presentare e distinguere le nozioni in modo tale che siano nettamente precisate in una sintesi completa sin dall’inizio e indicare in nota i punti di contatto di questa sintesi con le soluzioni che proporremo più avanti. 135) La concepisco allora facendo astrazione da quel modo d’essere chiamato sussi­ stenza o personalità, che la termina. Posso parimenti pensare ad una linea, facendo astra­ zione dal punto che la termina; in tal caso la linea così esaminata non è più altro che una parte nel tutto costituito dalla linea e dal punto considerato insieme ed essa esiste in questo tutto. 136) In ragione della sua essenza nel senso proprio, se si tratta di un soggetto pura­ mente spirituale; in ragione della sua natura, nel senso di natura individuale, se si tratta di un soggetto corporale. Ved. nota 150. 137) La definizione dell’essenza data prima (a p. 161) conviene agli accidenti se si pensa al soggetto sotto un certo rapporto. Considerato in un senso concreto, come attri­ buito alla cosa ( triste, quando si dice, per esempio, Pietro è triste), l’accidente è ciò che una cosa è anzitutto come intelligibile sotto questo o quel rapporto (essere triste è per Pie­ tro la ragion d’essere di queste e quelle caratteristiche che derivano necessariamente dalla tristezza). Considerato in una maniera astratta, a parte o allo stato puro (come quando si dice, per esempio, la tristezza), è ciò per cui una cosa è quello che è prima di tutto come in­ telligibile sotto questo o quel rapporto. Si può anche prendere qui il termine essenza non piu in riferimento al soggetto Pietro, ma in riferimento agli accidenti stessi, e dire che la tristezza è ciò per cui una determinata passione è ciò che è anzitutto come intelligibile. 138) Si denomina anche il soggetto d’azione «ύπόστασις (ipò-stasi)», «πρώτον υποκεί­ μενον, primum subjectum attributionis». 139) Si osservi che il vocabolo sostanza (substantia) corrisponde alla parola greca ousìa ( ούσία) presa in senso stretto. La parola ουσία significa in primo luogo essenza o natu­ ra; ma le sostanze, essendo il primo oggetto al quale si volge l’intelligenza quando riflette su ciò che esiste, sono pure per ciò stesso il primo oggetto in cui l’intelligenza incontra la nozione d’essenza, in altre parole sono le prime cui spetta il nome di essehza o di natura. Pertanto, il termine ούσία, che preso in generale significa essenza e si suddivide allora in sostanza ed accidente, è giunto a designare in modo del tutto naturale, in senso stretto, il primo membro di questa suddivisione, cioè la sostanza. 140) Si vedrà più avanti (in ontologia) che il soggetto d ’azione {sostanza personale o persona) non è altro che la natura sostanziale compiuta in un certo modo (sussistenza o personalità), che la termina, come un punto termina una linea (senza nulla aggiungere ad essa nel suo ordine di natura) e che la rende assolutamente incomunicabile. La parola sostanza (corrispondente al greco ουσία, che significa in primo luogo essen­ za , ved. la nota precedente) la parola sostanza indica la natura sostanziale senza precisare se è terminata o no dalla sussistenza; conviene perciò contemporaneamente e alla natura (percepita dalla mente senza la sussistenza che la termina) e al soggetto d’azione (natura terminata oppure natura compiuta). Ma quando si distingue e si oppone l’uno all’altra la natura (non terminata) e il soggetto d’azione, il vocabolo sostanza rimane congiunto alla natura (non terminata) e si oppone allora al soggetto d’azione considerato come tale. Così, per esempio, dicendo la sostanza di Pietro , si designa precisamente la natura per la quale il soggetto d’azione Pietro ha l’essere primo e che fa parte di lui. Così pure d’altra parte i

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teologi dicono che nella Trinità divina il Padre e il Figlio (che sono due persone distinte) hanno la stessa sostanza, sono consustanziali, δμοούσιοι. Invece il termine greco ύπόστασις (ipòstasi, che ha la stessa formazione etimologica di sub-stantia ) si è fissato, dopo alcune oscillazioni, sul soggetto d’azione considerato come tale {persona), al quale esclusivamente si riferisce; e si oppone a sostanza considerata nel senso di natura non terminata dalla sussistenza. Se si fosse tentati di misconoscere Pimportanza vitale di queste nozioni e di queste di­ stinzioni astratte, ci si potrebbe ricordare che per il termine ομοούσιος, da cui dipende la vera conoscenza della Trinità e che non differisce che per uno iota dal vocabolo eterodosso δμοιούσιος, i cattolici, al tempo dell’eresia ariana, hanno sofferto ogni genere di persecu­ zioni e talora la morte. 141) Cfr. Giovanni di san Tommaso, Cursus philosophicus, t.I, Logica , II P ., q. 15, a. l. 142) L’esistenza stessa non può essere una parte costitutiva di alcuna natura creata. Per qusto bisogna definire la sostanza una cosa o natura fatta per esistere per se, o alla quale conviene esistere per se. La stessa osservazione è stata fatta sopra riguardo alla so­ stanza personale (nota 131). Precisiamo il senso della definizione proposta: se si intende perse (o in se) nel senso li­ mitato che qui indichiamo nel testo, tale definizione significherà: la sostanza è una natura cui conviene esistere per se (o in se) a titolo di natura o essenza, nella sostanza personale che essa costituisce una volta che è terminata dalla sussistenza. Se si intende perse (o in se) nel senso assoluto in cui questa espressione è stata da noi usata prima (p. 169), la definizio­ ne proposta significherà: la sostanza è una natura cui conviene essitere perse (o in se) a ti­ tolo di soggetto d’azione (sostanza personale o persona). 143) Quello che il termine sostanza indica è una cosa fatta per esistere in sé, o per sus­ sistere, cioè per tenersi in se stessa esistendo (funzione di subsistere), in modo che, una vol­ ta che esiste, essa sostiene nell’essere le realtà aggiunte o accidenti che la rivestono (funzio­ ne di substare). Ma è solo in quanto sostanza personale che la sostanza è immediatamente idonea ad esercitare queste due funzioni. Considerata come natura o essenza, essa chiede soltanto di esercitarle. 144) Metafisica, VII, 1. 145) Indubbiamente, quando Pietro cresce, questo cambiamento tocca la sua sostan­ za stessa, che aumenta; ma la tocca unicamente sotto il rapporto della quantità, non la toc­ ca certo in quanto sostanza. 146) L’accidente di cui parliamo qui è l’accidente predicamentale, che si oppone alla sostanza. Il termine accidente, in quanto si oppone alla proprietà e in quanto indica un predicato che non deriva dall’essenza (accidente predicabile), ha un altro significato, che sarà studiato in logica. Se si pensa all’accidente predicamentale o all’opposizione tra sostanza e accidente (opposizione tra esseri reali), l’espressione capace di ridere, per esempio, si riferisce ad un accidente (l’intelligenza, grazie alla quale l’uomo è capace di ridere, è un accidente real­ mente distinto dalla sostanza). Se invece si pensa all’accidente predicabile, cioè all’opposi­ zione fra quegli esseri di ragione logici {predicabili) che vengono chiamati genere, specie, differenza specifica, proprio o proprietà, accidente, allora l’espressione capace di ridere indica non un accidente, ma una proprietà (un predicato che vien detto del soggetto come qualcosa che non entra nella costituzione del suo essere specifico ma che ne deriva necessa­ riamente). Inversamente, se si pensa all’accidente predicamentale, bisogna dire che le caratteri­ stiche individuanti (avere questo temperamento, quell’ereditarietà) sono, almeno nella lo­ ro radice, d’ordine sostanziale e non d’ordine accidentale). Se al contrario si pensa all’ac­ cidente predicabile, bisogna dire che si tratta di accidenti (di predicati che si dicono del soggetto, come qualcosa che non entra nella costituzione della sua essenza specifica e che non ne deriva). 147) Possiamo ragionare così per il fatto che si tratta di cose che sono proporzionate alla nostra intelligenza, che le afferra mediante un concetto proprio e distinto (di cose che

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sono, come si dice, conosciute per la loro essenza). In un caso simile, se due concetti sono

interamente esteriori l’uno all’altro, ciò avviene perché le cose che presentano alla mente differiscono realmente l’una dall’altra, altrimenti la nostra intelligenza sarebbe falsa. Si dimostra con ciò, per esempio, che la quantità o l’estensione è un accidente realmente di­ stinto dalla sostanza corporale e che in ogni cosa creata l’essenza è realmente distinta dal­ l’esistenza. (Cfr. su quest’ultimo punto Giovanni di San Tommaso, Cursus philosophicus, t. II, Philosophia Naturales, q.7, a.4). (Nel caso della distinzione di ragione — Ved. Logi­ ca Maggiore — abbiamo sì due concetti distinti, ma non interamente esteriori l’uno all’al­ tro. Così si distingue in Pietro l’essere uomo e l’essere animale, che nella realtà fanno un essere solo. Ma il concetto di uomo, lungi dall’essere esteriore a quello di animale, al con­ trario lo implica). 148) Nel vocabolario aristotelico-scolastico, l’espressione substantia prima , ούοία πρώτη, indica (ved. sopra nota 141) la natura individuale del soggetto d’azione senza preci­ sare se è terminata o no dalla sussistenza, e assai di frequente si trova in realtà a designare la natura terminata o soggetto d’azione, Vhoc aliquid ; essa non significa tuttavia formal­ mente il soggetto d’azione considerato come tale e in opposizione alla natura (non termi­ nata); questo compito è riservato ai termini suppositum e persona (υπόστοσις). Si osservi che la distinzione tra il soggetto d’azione e la natura (non terminata dalla sussistenza) è soprattutto opera degli scolastici. Aristotele stesso non l’ha esplicitamente sviluppata. 149) Considerata proprio come ciò per cui il soggetto ha l’essere primo, la sostanza — substantia prima — è pertanto la natura individuale del soggetto. Abbiamo detto prima (pp. 167-168) che ciò per cui la cosa postula l’esistenza è l’essenza universale e l’abbiamo detto perché consideravamo precisamente ciò che è la ragione grazie alla quale la cosa po­ stula 1’esistenza, in opposizione a ciò che non è altro che una condizione o uno stato sotto il quale la cosa deve trovarsi per esistere. Ma qui si tratta di ciò in ragione del quale la cosa esiste, considerato precisamente sotto lo stato richiesto per esistere; e ci troviamo dinanzi non all’essenza universale, ma alla natura individuale del soggetto. 150) Così nel mondo degli spiriti puri e là soltanto (ove non c’è alcuna distinzione da fare tra natura individuale ed essenza, cfr. sopra nota 124 e nota 130), la sostanza , nel si­ gnificato primo della parola è anche l’essenza propriamente detta. Nel mondo materiale, al contrario, la sostanza nel significato primo della parola è la natura individuale del sog­ getto, e l’essenza propriamente detta è solo secondariamente chiamata sostanza. 151) Il quod e il quo. Abbiamo già osservato (ved. sopra nota 108) che l’essenza con­ siderata in un modo concreto o come attribuita alla cosa (CIÒ CHE una cosa è anzitutto come intelligibile), non è presentata alla mente allo stato puro ; in effetti essa viene allora presentata alla mente con la cosa o il soggetto che determina. Per averla allo stato puro bi­ sogna pensarla a parte, senza la cosa o il soggetto che determina, come quando si dice, per esempio l’umanità, o, forzando il linguaggio, l ’essere uomo, l ’entità uomo. Essa si defini­ sce in tal caso CIÒ PER CUI una cosa è quel che è anzitutto come intelligibile, o anche CIÒ PER CUI una cosa è costituita in un grado determinato d’essere primariamente intel­ ligibile. Per questo conviene sostituire nelle nostre sinossi l’espressione CIÒ CHE con l’espressione CIÒ PER CUI. Si ottiene così in definitiva il seguente schema:

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Come vedremo più tardi, in ontologia, la distinzione del quod e del quo ha una parte di primo piano nell’analisi metafisica delle cose. 152) Esistere per se o in se può, come abbiamo visto, (ved. sopra p. 150 e pp. 153154) essere inteso in una maniera più o meno rigorosa in modo da applicarsi sia alla so­ stanza , in generale, (in questo senso, ciò che esiste perse e in se ha in sé ciò che occorre per ricevere Γesistenza e non è parte di un tutto già esistente), sia esclusivamente al soggetto d ’azione (sostanza personale o persona , che ha in sé TUTTO ciò che occorre per ricevere 1’esistenza e che non esiste IN ALCUN MODO come parte di un tutto). 153) Cfr. Etica , p. I, prop. VII. 154) Principia philosóphiae, lib. I, art. 51. 155) Sarebbe interessante mostrare come la filosofia, dopo che ha abbandonato la tecnicità scolastica, si è messa progressivamente a parlare in una maniera materiale e non più formale. Donde molti problemi mal formulati e una moltitudine di malintesi, sia tra fi­ losofi moderni, sia soprattutto tra filosofi moderni e filosofi antichi, attaccati alle locuzio­ ni formali. Si può osservare inoltre che certi termini filosofici, presi in un senso materiale, hanno acquisito un significato interamente diverso dal loro significato primitivo. Così è accadu­ to, per esempio, con la parola oggetto. Per gli antichi, oggetto significava ciò che è posto dinanzi alla mente o presentato alla mente, considerato formalmente come tale. Donde nel caso degli esseri di ragione come la chimera, si dirà che questi esseri esistono oggettiva­ mente o a titolo di oggetti presentati alla mente, ma non realmente o a titolo di cose situate fuori della mente. Al contrario, i moderni intendono per oggetto la cosa stessa, o il sogget­ to, che si trova ad essere presentato alla mente; ed esistere oggettivamente diventa sinoni­ mo di esistere realmente o fuori della mente. 156) Si osservi tuttavia che si trova talvolta l’espressione potenzialmente, in potentia, usata impropriamente nel senso di virtualmente. 157) Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence, sa nature, Parigi, Beauchesne, terza edizione, 1920. 158) Il termine estetica, che è diventato d’uso corrente, sarebbe qui doppiamente improprio: gli autori moderni intendono effettivamente con questa parola la teoria del bel­ lo e dell*arte, come se le questioni concernenti il bello considerato in se stesso dovessero es­ sere trattate nella filosofia dell’arte (mentre questi problemi debbono venire trattati in on­ tologia) e come se non ci fossero che le belle-arti da considerare nell’arte (la qual cosa vizia tutta la teoria dell’arte). D ’altra parte, il termine estetica si riferisce etimologicamente alla sensibilità ( α ισ θ ά ν ο μ α ι = sentire): ora, l’arte, come il bello del resto, riguardano l’intelli­ genza almeno tanto quanto la sensibilità. I trattati scolastici generalmente non assegnano un posto a parte alla filosofia dell’ar-

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te e non studiano i problemi che la riguardano se non in psicologia o, per meglio spiegare il concetto di prudenza, in morale. La filosofia dell’arte peraltro, come la morale stessa, dovrebbe rientrare nella filosofia naturale, se ci si mettesse dal solo punto di vista della specificazione dele scienze filosofiche grazie al loro oggetto formale. Ma se ci si mette dal punto di vista più generale del fine al quale queste scienze sono ordinate, è necessario di­ stinguere la filosofia pratica dalla filosofia speculativa, ed è non meno necessario (sembra) distinguere nella filosofia pratica stessa la filosofia del fare e quella de\Y agire. Si ha con ciò il doppio vantaggio di rispondere ad una preoccupazione molto accentuata del pensie­ ro moderno, che tende a dedicare un trattato speciale {Estetica) alle questioni che riguar­ dano l’arte; e di ritornare a una delle divisioni fondamentali stabilite da Aristotele: n a c a ό ίά ν ο ια η π ρ α κ τ ικ ή ή , π ο ιη τ ικ ή ή θ ε ω ρ η τ ικ ή , {Metafisica, II, 1, 1025 b 25). Cfr. Topici VI, 6, 145 a 15, e V ili, 1, 157 a 10; Metafisica, VI, 1; EticaNicomachea, VI, 2, 1139 a 27. Hamelin {Système d ’Aristote, pp. 81 sgg.) difende molto bene su questo punto, contro Zeller, il vero pensiero di Aristotele. 159) Invece, le scienze essenzialmente pratiche, cioè le arti, procedono esse stesse all’applicazione delle loro regole ai casi particolari. Queste scienze sono propriamente pra­ tiche, ma non si tratta di vere scienze propriamente dette; esse sono scienze solo impro­

priamente. Vi sono pertanto molti gradi nel pratico. La filosofia dell’arte (il cui fine è pratico e il cui oggetto è un operabile, ma da conoscersi) non ha regole prossime applicabili ai casi particolari: essa è solo impropriamente e molto imperfettamente pratica. L’etica (il cui fine è pratico e il cui oggetto è un operabile, ma parimenti da conoscer­ si) non applica, ma ha regole prossime applicabili ai casi particolari: essa è pratica quanto

può esserlo una scienza propriamente detta, ma non è propriamente né perfettamente pra­ tica. Le arti (la medicina, per esempio, l’arte dell’ingegnere, eccetera; il loro oggetto è il da farsi, non è solo un operabile, ma è anche considerato come operabiliter) hanno regole im­ mediatamente applicabili e le applicano ai casi particolari, ma solo facendoci giudicare, non facendoci volere (poiché l’artista può, rimanendo artista, fare un errore perché lo vuole)', esse sono propriamente pratiche, ma non si trovano ancora all’ultimo grado del pratico. Infine, la prudenza (il cui oggetto è parimenti il da farsi) applica ai casi particolari le regole della scienza morale e della ragione, non soltanto facendoci giudicare circa l’atto da compiere, ma facendoci usare come si conviene la nostra libera attività stessa (poiché il prudente come tale Vuole sempre bene); essa è propriamente pratica, ed è al grado supre­ mo del pratico. 160) Cfr. Tommaso, Super Boethii de Trinitate, q.5, art. ad 3: «Scientia moralis, quamvis sit propter operationem, tamen illa operatio non est actus scientiae, sed actus vir­ tutis, ut patet V Ethic. Unde non potest dici ars, sed magis in illis operationibus se habet virtus loco artis et ideo veteres diffinierunt virtutem esse artem bene recteque vivendi, ut dicit August. X De Civ. Dei». 161) Ved. su questo punto Etica Nicomachea, VI, 9, 1142 a 9; Etica Eudemia, I, 8, 1218 b 13, e i due primi capitoli della Politia. Cfr. Hamelin, Le Système d ’Aristote, p. 85. 162) Cfr. Tommaso, Super Boethii de Trinitate, q.5, ad A. 163) Questa specificazione, come si vedrà in Logica Maggiore, dipende essenzialmen­ te dal grado di astrazione, cioè dal grado di immaterialità deW oggetto da conoscere. 164) «Sic pertinet ad Philosophiam (naturalem), et est pars illius, quia agii de anima ut est actus corporis, et consequenter de moralibus eius» (Giovanni di san Tommaso, Cur­ sus philosophicus, 1.1, p.732; Logica IL P., q.27, a .l).

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