Per Swing

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per Swing per Caroline e Simone Due biglietti da visita giganteschi. Sospesi sui fianchi della navata centrale, al centro di due cappelle. Enormi, almeno 5x3m ognuno. Due lenzuola di lino e canapa grezzi, di quelli che le ragazze portavano in dote ai matrimoni cento anni fa, di quelli con le fibre ruvide che strofinavano e consumavano i corpi senza consumarsi mai, perdurando molto più della carne umana ospitata, notte dopo notte. Sul bigliettino di sinistra due elementi: un paio di foglie di palma sospese, capovolte; e un grande pupazzo, al posto della faccia una foto di Antinous, i genitali che diventano una farfallina all’uncinetto. Sul bigliettino di destra una elaborazione di inchiostri e collage in materiali vari, anche roselline di stoffa applicate sulle frange, in cui si distinguono le forme dell’Afrodite di Dedalsa. Due enormi assemblaggi si fronteggiano come il maschile e il femminile, accomunati dall’essere prodotti da mano d’artista. Artisti diversissimi per generazione, sesso, modalità espressive. Uno in fuga infinita, si dilegua e si polverizza in milioni di fotografie e di elaborazioni fotografiche, prodotte come da una fontana a getto continuo; l’altra, donna, realizza la misura del permanere, Estia contrapposta ad Ermes (ma non solo) - del trattenersi in un lavoro certosino che ha nel ricamo e nel collage due punti di consistenza fortissimi. Chi è il visitatore di questa mostra? cosa fa? guarda? tocca? prende? o forse medita - come davanti al cumulo di macerie l’angelo di Benjamin, con le ali rivolte contro il futuro. E’ spaesato. Il disorientamento lo assale ad ogni sosta, ad ogni sguardo. Infila il guantino di cotone per sfogliare gli album e comincia a guardare; centinaia di pagine, centinaia di immagini provvisoriamente tenute insieme dalla cucitura del quaderno. Si sente sommerso e invaso dalla congerie di figurazioni. Mentre guarda si distrae e tocca, apre una scatola posta di fianco, sullo stesso tavolo, e scopre, solitaria,


una mano mozza; o un giocattolino infilato in una conchiglia; o una vecchia foto di bambina sulla spiaggia, tanti anni fa. Lo assale il deja-vu di una soffitta abbandonata, in cui si aggira toccando oggetti, tremebondo per una possibile agnizione. O si sente il flâneur appena uscito dalle pagine del Passagenwerk, o dalle strade parigine di Baudelaire, che passeggia tra i secoli e i millenni percorrendo immagini in cui si inseguono: l’o-sceno/fuori-scena e il classico; la carne-meat, che, attraverso Rubens, realizza il suo me(a)eting con le ninfe; la meccanica quantistica e la fisica delle particelle che squadernano la materia del ricordo e dell’infanzia. Il visitatorespettatore-scopritore si aggira smarrito in un bric-à-brac di figure, in un microcosmo allestito precariamente ma anche con una certa inesorabilità. Ogni oggetto esposto all’esperienza sembra gridare il suo essere in nessun-luogo, la sua eternità che si costituisce proprio a partire da un dileguare senza fine; da una inessenzialità che lo forma e lo costituisce in ogni intima fibra. Il Tempo è l’oggetto unico di questo grande squadernamento. Anzi. L’Eternità. Una mostra-mercato sull’eternità. Perché quale altra forma può assumere l’eterno che non sia quella della più estrema inconsistenza e volatilità? e quali oggetti, più che le fotografie, i collage/assemblage, possono meglio rendere ragione di questo comporsi e decomporsi infinito che abita e agisce, all’oscuro, in ciascun frammento di mondo? Paola Nasti 6 maggio 2018






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