Asp2009dispensa mistica2

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Attività Spirituale Nazionale

[ASP2009_07 Dispensa Mistica dell’Occidente.2]

L’UNITA’DELLE RELIGIONI E LA MISTICA DELL’OCCIDENTE (Seconda Parte)

Consiglio Centrale Sathya Sai d’Italia Via della Pace, 1 – 28040 Varallo Pombia (NO) 1


Indice

Prefazione * Prima parte: Il monachesimo benedettino

San Benedetto, Patrono d’Europa Vita di San Benedetto La Regola * Seconda parte: La mistica templare

San Bernardo e le Crociate I Cavalieri del Tempio Regola dei Poveri Soldati di Cristo * Terza parte: La spiritualitĂ francescana

San Francesco e il Duecento Vita di San Francesco I Fioretti

* Appendice Conclusioni

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Prefazione Proseguiamo in questo biennio ’09-’11 il nostro lavoro sulla Mistica dell’Occidente, presentando in questa Seconda Parte tre tradizioni di fondamentale importanza per la comprensione della spiritualità cristiana medievale: il monachesimo benedettino, la mistica templare e la spiritualità francescana. Trattandosi di tradizioni religiose appartenenti alla Chiesa Cattolica è bene precisare meglio le ragioni di una scelta tanto marcatamente (ed apparentemente) “clericale”: se infatti avessimo parlato di cerimonie tantriche tibetane, di rituali sciamanici o di qualunque altra forma di ritualità esotica ed orientale, probabilmente nessuno avrebbe sollevato obiezioni, ma dal momento che il nostro interesse è rivolto verso la tradizione contemplativa cattolica, ecco che sorgono un’infinità di resistenze. E sono proprio tali resistenze, d’altra parte, a confermare la giustezza della nostra scelta e a rendere necessaria una riconsiderazione profonda degli insegnamenti spirituali della nostra tradizione, che a causa di un pregiudizio anticristiano molto diffuso nella cultura contemporanea (anche e soprattutto negli ambienti esoterici e “spirituali”) rischiano di venir “gettate via insieme con l’acqua sporca”: non si tratta infatti di celebrare in questa sede la grandezza della Chiesa di Roma o di sottometterci alla sua autorità, bensì, molto semplicemente, di imparare a conoscere, o meglio a riconoscere, le tracce di un’antica spiritualità contemplativa perduta nell’oblìo dei secoli e sepolta nell’inconscio collettivo dei popoli d’Italia e dell’intera Europa. Come già detto nel biennio precedente, il nostro lavoro è infatti teso a contestualizzare il messaggio di Swami sull’Unità delle Religioni in ciascuna cultura e tradizione, per riscoprirne il senso profondo alla luce del Suo insegnamento: è dunque con questo spirito e con questa finalità che dobbiamo accostarci allo studio ed alla conoscenza delle principali forme di mistica occidentale, analogamente a quanto faremo in futuro, quando rivolgeremo la nostra attenzione alla spiritualità delle altre religioni - primitive, antiche od orientali che siano. Immergiamoci dunque insieme, ancora una volta, nel grande mare della Mistica dell’Occidente, per riscoprirvi tutta la ricchezza della spiritualità cristiana medievale, che più di ogni altra ha rappresentato la base originaria della nostra civiltà e della stessa identità europea; e ripartiamo da qui per edificare, in un prossimo futuro, quella “civiltà dell’amore” prefigurata negli insegnamenti spirituali del nostro amato Maestro, tesi a superare ogni rivalità e conflittualità fra le diverse fedi della terra, per risvegliare in ognuno la Divinità immanente che giace addormentata nella profondità di noi stessi. Ma prima di tutto dobbiamo ricordare: perché chi non ha un passato non ha un futuro e, quel che è peggio, non ha neppure un presente. Il presente è il frutto del passato, ma è anche il seme dell’avvenire. (Baba) Ai Piedi di Loto del Maestro, Om Sai Ram Roma, 2 Giugno 2009

Pierluigi Gallo

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Signore, fa di me uno strumento della tua pace. Dove c’è odio, io porti l’amore, dove c’è offesa, io porti il perdono, dove c’è discordia, io porti l’unione, dove c’è errore, io porti la verità, dove c’è dubbio, io porti la fede, dove c’è disperazione, io porti la speranza, dove ci sono le tenebre, io porti la luce, dove c’è tristezza, io porti la gioia. O divino Maestro, che io non cerchi tanto di essere consolato, quanto di consolare, di essere compreso, quanto di comprendere, di essere amato, quanto di amare. Perché dando, si riceve, dimenticandosi, si trova comprensione, perdonando, si è perdonati, morendo, si risuscita alla Vita eterna. (San Francesco)

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PRIMA PARTE: IL MONACHESIMO BENEDETTINO

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San Benedetto, Patrono d’Europa “(…) Per riuscire a comprendere l’Alto Medioevo dobbiamo partire dalla grande crisi della Tarda Antichità, quando dal punto di vista culturale, spirituale, filosofico e politico la cultura greco-romana comincia ad essere messa in crisi da una serie di eventi, che culmineranno nelle invasioni barbariche e nella rottura del “cerchio sacro” dell’Impero romano: questa rottura avviene attraverso la penetrazione all’interno dell’Impero di quelle popolazioni che erano rimaste fuori della romanitas, di questa grande cerchia culturale, prima ancora che politica, il cui centro era da tempo in una situazione di profonda crisi. L’antica civiltà classica viene dunque a cedere, e su di essa vengono a sovrapporsi una serie infinita di popolazioni, migrazioni ed eventi che porteranno ad una trasformazione definitiva del mondo antico: scompare Roma, crolla l’Impero d’Occidente, mentre Bisanzio continuerà ad esistere ancora per un lungo periodo. In questa situazione di totale anarchia e mancanza di punti di riferimento, (…) proprio quel Cristianesimo che é stato uno dei fattori fondamentali nella crisi dell’Impero sarà, paradossalmente, uno degli elementi che riusciranno a conservare la tradizione antica, altrimenti persa, della romanità (a livello politico) e della classicità (a livello culturale). All’interno dei monasteri vengono infatti copiati i codici e conservati gli antichi scritti degli autori classici (…): essi rappresentano dunque un evento preciso nella storia medievale, e ancora prima che un fenomeno di tipo spirituale saranno un vero e proprio fenomeno sociale, in quanto il monastero diventa un importante centro di cultura ed economico, ed insieme al feudo sarà una delle due grandi realtà dell’Alto Medioevo. (…) Da un punto di vista storico dobbiamo dunque considerare il Cristianesimo come il collante che ha fuso insieme le varie popolazioni europee: l’evangelizzazione dell’Europa si è infatti verificata attraverso l’opera di alcuni personaggi, santi, mistici, monaci che hanno portato il messaggio cristiano a popolazioni che cristiane non erano. (…) Lo stesso monachesimo, ad esempio, nacque in Irlanda, (…) in questo territorio celtico che aveva conservato molti elementi dell’antico paganesimo druidico, dal quale provengono personaggi come san Colombano o san Patrizio; successivamente questo fenomeno si svilupperà in Occidente attraverso un personaggio come san Benedetto, fondatore del monachesimo cenobitico, mentre in Oriente si svilupperà particolarmente il monachesimo eremitico, fatto cioè di singoli asceti isolati, testimoniato dalla tradizione dei Padri del deserto (…).” Pierluigi Gallo, Spiritualità del Medioevo latino (dispensa dattiloscritta non pubblicata) * “(…) Dallo sfacelo che seguì il crollo dell’Impero romano e le invasioni barbariche sorsero dunque nuovi valori, o meglio vennero ripresi e trasformati quelli antichi, tanto faticosamente sopravvissuti alla dissoluzione di un’intera epoca: benché sorta in opposizione al mondo aristocratico della Roma dei Cesari, la Chiesa divenne

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così l’erede della cultura classica, occidentalizzandosi e “romanizzandosi”, per meglio radicarsi nella sua nuova sede. Centro politico e amministrativo, prima ancora che spirituale, dell’intera società alto-medievale, la Chiesa di Roma fu così capace di tenere unita la Cristianità occidentale sotto la dominazione barbarica, riuscendo addirittura a convertire e assimilare i conquistatori, e compiendo in tal modo una poderosa opera di unificazione delle popolazioni europee. La civiltà europea ha di conseguenza un debito incalcolabile verso l’opera di conservazione della cultura classica, eseguita in centinaia di chiostri e monasteri dalla Chiesa romana nel corso dei secoli, un’opera di cui l’Italia può a ben diritto considerarsi mater et magistra: si deve infatti a san Benedetto da Norcia, il padre del monachesimo europeo, la fondazione dei primi centri monastici di Subiaco e Montecassino, dai quali la missione civilizzatrice benedettina si irradiò in tutto il continente. Dopo essere stata anticamente terra di eroi e di conquistatori, l’Italia medievale diventa ora terra di santi e di eremiti, e si ricopre di abbazie e monasteri, dove l’eredità classica viene conservata, studiata e tramandata: è la natura stessa di “costruttori e colonizzatori” della stirpe romana a rinascere ora nel monachesimo, dando vita ad immani opere di bonifica, disboscamento e canalizzazione, a beneficio delle popolazioni locali e dell’intera civiltà europea. In tal modo, il mito di Roma si tramanda nei secoli, e la sua missione civilizzatrice si perpetua nel tempo.” Pierluigi Gallo, Italia, Patria nostra (dispensa dattiloscritta non pubblicata) * “ (…) Il 21 Marzo prossimo (1980, n.d.r.) s’inaugurerà ufficialmente in tutto il mondo il XV centenario della nascita di San Benedetto. (…) Mi è dunque caro, in questa circostanza, rivolgere alle nazioni Europee, per il tramite dei loro rappresentanti, un mio paterno messaggio, ispirato all’opera che, per mirabile disegno divino, San Benedetto compì in questo antico continente attraverso la sua Regola e i suoi figli. Nei primi sei secoli che succedettero alla sua morte, la Regola benedettina invase pacificamente tutta l’Europa, eccetto i Paesi della sfera bizantina, che pur ne sentirono l’influenza: oltre l’Italia, subito anche la Gallia, l’Inghilterra, il Belgio, la Frisia, tutta la Germania, la Svizzera furono cosparse di monasteri benedettini. Passò qualche tempo, ed ecco che pur la Penisola Iberica, l’Olanda, l’Irlanda, la Boemia, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia, la Polonia, l’Ungheria, la Dalmazia, l’Albania e financo la Palestina, la Siria e Costantinopoli conobbero l’opera santificatrice e civilizzatrice dei figli di San Benedetto. L’opera mirabile da loro portata ad effetto (…) fu quella dell’unità dei popoli, fondata sulla comune fede cristiana: popoli che per storia, tradizione, educazione, caratteri, erano in tanto contrasto da opporsi spesso in guerre feroci, si sentivano però tutti cristiani, tutti credenti in Dio, tutti, per la fede, figli del medesimo Padre celeste e 7


della Chiesa di Roma. La medesima lingua latina, parlata comunemente dagli uomini della cultura ed usata nella liturgia, era vincolo ed espressione di quest’ideale unità. Tale unità di fede e di sentimento, che sta alla base delle varie fasi della storia alto-medievale, fu il tessuto spirituale creato dai benedettini, i quali del resto trovarono nella loro Regola i principi ispiratori per l’educazione e la formazione dell’unità: la compattezza della famiglia monastica costituita dalla regola, con un unico capo, che è anche padre e maestro responsabile di tutti i membri, con una gerarchia di persone e di valori ben fissati, con il voto di stabilità, con un preciso ordine di preghiera e di lavoro, con rapporti fraterni alimentati dalla viva carità, era tutta una scuola e un modello per i monaci evangelizzatori e per i nuovi popoli evangelizzati. Quest’unità vuol essere il tema e la finalità del mio messaggio, in questo momento così significativo, in cui i rappresentanti delle Nazioni Europee sono adunati in onore del Maestro e Padre dei loro popoli (…). Mi è dunque grato augurare il ritorno e il recupero dell’unità morale e spirituale operata da San Benedetto, affinché si formi un clima stabile e sincero di concordia, di mutua comprensione, di ordine, e perciò di pace, fra tutti i popoli dell’Europa, com’è desiderio ardente di tutti. (…)” Giovanni Paolo II, L’unità morale e spirituale di tutti i popoli dell’Europa, (Oss. Rom., 22.3.80)

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Vita di San Benedetto Gioventù e vocazione “(…) Parleremo oggi di un uomo veramente insigne, degno di ogni venerazione: si chiamava Benedetto quest’uomo, e fu davvero benedetto di nome e di grazia. Fin dai primi anni della sua fanciullezza era già maturo, e quasi precorrendo l’età con la gravità dei costumi, non volle mai abbassare l’animo verso i piaceri mondani. (…) Era nato da nobile famiglia nella regione di Norcia: pensarono di farlo studiare e lo mandarono a Roma, dov’era più facile attendere agli studi letterari. Lo attendeva però una grande delusione: non vi trovò altro, purtroppo, che giovani sbandati, rovinati per le strade del vizio. (…) Abbandonò quindi con disprezzo gli studi, abbandonò la casa e i beni paterni e partì, alla ricerca di un abito che lo designasse consacrato al Signore. (…) Si diresse verso una località solitaria e deserta chiamata Subiaco, distante da Roma circa 40 miglia, località ricca di fresche e abbondantissime acque, che prima si raccolgono in un ampio lago e poi si trasformano in un fiume. Si affrettava dunque a passi svelti verso questa località, quando s’incontrò per via con un monaco di nome Romano, che gli domandò dove andasse: conosciuta la sua risoluzione, gli offrì volentieri il suo aiuto. Lo rivestì quindi dell’abito santo, segno della consacrazione a Dio, lo fornì del poco necessario secondo le sue possibilità e gli rinnovò la promessa di non dire il segreto a nessuno. In quel luogo di solitudine, l’uomo di Dio si nascose in una stretta e scabrosa spelonca: rimase nascosto lì dentro tre anni e nessuno seppe mai niente, fatta eccezione del monaco Romano. Questi dimorava in un piccolo monastero non lontano, sotto la guida del padre Adeodato; con pie industrie, cercando il momento opportuno, sottraeva una parte della sua porzione di cibo e in giorni stabiliti la portava a Benedetto. (…) Poco tempo dopo anche alcuni pastori scoprirono Benedetto, nascosto dentro lo speco. Avendolo intravisto in mezzo alla boscaglia, coperto com’era di pelli, credettero sulle prime che si trattasse di una bestia selvatica: ma riconosciutolo poi come un vero servo di Dio, molti di essi, che veramente eran pari alle bestie, mutati dalla grazia, si diedero alla santa vita. In seguito a questi fatti la fama di lui si diffuse in tutti i paesi vicini. E le visite sempre più diventarono frequenti: gli portavano cibi per sostentare il suo corpo e ripartivano col cuore ripieno di sante parole, alimento di vita per l’anima loro. Il segno della croce (…) Non molto lontano dallo speco viveva una piccola comunità di religiosi, il cui superiore era morto di recente: tutti insieme questi uomini si presentarono al venerabile Benedetto e lo pregarono insistentemente perché assumesse il loro governo. Il sant’uomo si rifiutò a lungo, con fermezza, soprattutto perché era convinto che i loro costumi non si sarebbero potuti mai conciliare con le sue convinzioni. Ma alla fine, quando proprio non potè più resistere alla loro insistenza, acconsentì.

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Li seguì dunque nel loro monastero. Cominciò subito a vigilare attentamente sulla vita regolare e nessuno si poteva permettere, come prima, di flettere a destra o a sinistra dal diritto sentiero dell’osservanza monastica. Questo li fece stancare e indispettire, e, stolti com’erano, si accusavano a vicenda di essere andati proprio loro a sceglierlo per loro abate; la loro stortura cozzava troppo contro la norma della sua rettitudine. Si resero conto che sotto la sua direzione le cose illecite non erano assolutamente permesse, e d’altra parte le inveterate abitudini non se la sentivano davvero di abbandonarle: è tanto difficile, infatti, voler impegnare per forza a nuovi sistemi anime di incallita mentalità! E’ cosa purtroppo notoria che chi si comporta male trova sempre fastidio nella vita dei buoni; e così quei malvagi si accordarono di cercare qualche mezzo per togliergli addirittura la vita. Ci furono vari pareri e infine decisero di mescolare veleno nel vino, e a mensa, secondo una loro usanza, presentarono all’abate per la benedizione il recipiente di vetro che conteneva la mortale bevanda. Benedetto alzò la mano e tracciò il segno della croce. Il recipiente era sorretto in mano ad una certa distanza: il santo segno ridusse in frantumi quel vaso di morte, come se al posto della benedizione vi fosse stata scagliata una pietra. Comprese subito l’uomo di Dio che quel vaso non poteva contenere che una bevanda di morte, perché non aveva potuto resistere al segno che dona la vita. Si alzò sull’istante, senza alterare minimamente la mitezza del volto e la tranquillità della mente, fece radunare i fratelli e disse semplicemente così: “Io chiedo al Signore che voglia perdonarvi, fratelli cari: ma come mai vi è venuto in mente di macchinare questa trama contro di me? Vi avevo detto che i nostri costumi non si potevano accordare: vedete se è vero? Adesso dunque basta così; cercatevi pure un superiore che stia bene alla vostra mentalità, perché io, dopo questo fatto, non me la sento più di rimanere con voi”. E se ne tornò alla grotta solitaria che tanto amava, ed abitava lì, solo solo con se stesso, sotto gli occhi di Colui che dall’alto vede ogni cosa. Correzione del monaco dissipato (…) Nella sua solitudine Benedetto progrediva senza interruzione sulla via della virtù e compiva miracoli. Attorno a sé aveva radunati molti al servizio di Dio onnipotente, in sì gran numero che, con l’aiuto del Signore Gesù Cristo, vi potè costruire dodici monasteri, a ciascuno dei quali prepose un abate e destinò un gruppetto di dodici monaci, trattenendo con sé alcuni pochi, ai quali credette opportuno dare personalmente una formazione più completa. (…) In uno di questi monasteri, che aveva costruito nei dintorni, c’era un monaco che non era mai capace di stare alla preghiera: tutte le volte che i fratelli si radunavano per fare orazione, quello prendeva la via dell’uscita e con la mente svagata si occupava in faccende materiali di nessuna importanza. Il suo abate l’aveva già richiamato diverse volte: alla fine lo condusse dall’uomo di Dio, il quale pure lo rimproverò aspramente di tanta leggerezza. Ritornò al monastero, ma l’ammonizione fece presa a mala pena per un paio di giorni; il terzo giorno, ritornato alle vecchie 10


abitudini, ripigliò nuovamente a gironzolare durante il tempo della preghiera. L’abate riferì nuovamente la cosa al servo di Dio. Questi rispose: “Adesso vengo, e ci penserò io stesso a mettergli giudizio”. (…) Il giorno dopo, uscito dall’oratorio al termine della preghiera, il servo di Dio incontrò il monaco che stava fuori; allora lo frustò aspramente con una verga: era l’unico rimedio per la leggerezza di quella mente! Da quel giorno in poi questi non fu più influenzato da quella suggestione, ma perseverò fermo e raccolto nell’orazione: e l’antico nemico non osò più influenzare il suo pensiero, come se quelle frustate le avesse subite personalmente lui. La simulazione del re Totila (…) Al tempo dei Goti, il loro re Totila, avendo sentito dire che il santo era dotato di spirito di profezia, si diresse al suo monastero. Si fermò a poca distanza e mandò ad avvisare che sarebbe tra poco arrivato. Gli fu risposto dai monaci che senz’altro poteva venire. Insincero però com’era, volle far prova se l’uomo del Signore fosse veramente un profeta. Egli aveva con sé come scudiero un certo Riggo: gli fece infilare le sue calzature, lo fece rivestire di indumenti regali e gli comandò di andare dall’uomo di Dio, presentandosi come fosse il re in persona. Come seguito gli assegnò tre conti tra i più fedeli e devoti (…), i quali, in presenza del servo di Dio, dovevano camminare ai suoi fianchi, simulando di seguire veramente il re Totila. A questi aggiunse anche altri segni onorifici ed altri scudieri, in modo che, sia per gli ossequi di costoro, sia per i vestiti di porpora, fosse giudicato veramente il re. Appena Riggo entrò nel monastero, ornato di quei magnifici indumenti, e circondato dagli onori del seguito, l’uomo di Dio era seduto al piano superiore. Vedendolo venire avanti, appena fu giunto a portata di voce, gridò forte verso di lui: “Deponi, figliuolo, deponi quel che porti addosso: non è roba tua!”. Impaurito per aver presunto di ingannare un tal uomo, Riggo si precipitò immediatamente per terra e, come lui, tutti quelli che l’avevano seguito in questa gloriosa impresa. Poco dopo si rialzarono in piedi, ma di avvicinarsi al santo nessuno ebbe più il coraggio. Ritornarono al loro re e ancora sbigottiti gli raccontarono come a prima vista, con impressionante rapidità, erano stati immediatamente scoperti. La profezia per Totila Totila allora si avviò di persona verso l’uomo di Dio. Quando da lontano lo vide seduto, non ebbe l’ardire di avvicinarsi e si prosternò a terra. Il servo di Dio per due volte gli gridò: “Alzati!”, ma quello non osava rialzarsi davanti a lui. Benedetto allora, questo servo del Signore Gesù Cristo, spontaneamente si degnò di avvicinarsi al re e lui stesso lo sollevò da terra. Dopo però lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. “Tu hai fatto molto male – gli disse – e molto ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morrai”. Lo

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atterrirono profondamente queste parole, chiese al santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno diminuì di molto la sua crudeltà. Non molto tempo dopo andò a Roma, poi ritornò verso la Sicilia; nel decimo anno del suo regno, per volontà del Dio onnipotente, perdette il regno e la vita. Il chierico liberato dal demonio (…) Sempre in quel torno di tempo c’era nella chiesa di Aquino un chierico tormentato dal demonio e il suo venerando vescovo Costanzo l’aveva mandato in molti luoghi ai sepolcri dei martiri, per ottenere la grazia della liberazione: ma i santi martiri non vollero concedere questo dono, perché ancora una volta si manifestasse quanta fosse la grazia di Benedetto. Lo condussero quindi al santo e questi, effondendosi in preghiera al Signore Gesù Cristo, senza indugio lo liberò dall’antico nemico. Però, subito dopo avergli resa la guarigione, il santo gli diede questa ammonizione: “Adesso torna pure a casa; d’ora innanzi però non mangiare mai carne e non ardire accedere agli ordini sacri, perché nello stesso giorno sarai dato di nuovo in balia del demonio”. Il chierico risanato partì e si mantenne fedele agli avvisi dell’uomo di Dio, perché, come spesso succede, un recente castigo tiene stretto l’animo in impressione e paura. Ma dopo parecchi anni, osservando che i più anziani di lui erano ritornati al Signore e i chierici più giovani gli andavano avanti nella carriera ecclesiastica, non tenne più conto delle parole dell’uomo di Dio, quasi dimenticate per il lungo tempo, e si presentò a ricevere l’ordine sacro. Ma il diavolo che lo aveva lasciato, subito ne riprese possesso e non cessò di tormentarlo fino a togliergli persino la vita. Il furto dei bariletti di vino (…) Ti ricorderai certamente di quel certo Esilarato, che visse qui tra noi come monaco: egli un giorno fu mandato dal suo padrone al monastero a portare all’uomo di Dio due recipienti di legno, chiamati volgarmente fiasconi, pieni di vino. Durante il viaggio ne nascose uno lungo la via e l’altro lo presentò al Padre. L’uomo di Dio, a cui i fatti anche lontani non erano nascosti, accettò ringraziando quel solo bariletto; mentre però il servo stava per riprendere la via del ritorno, gli diede questo avviso: “Stai attento, figliuolo, a non bere a quel fiascone che hai nascosto; inclinalo invece con cautela e vedrai cosa c’è dentro”. L’altro restò assai sorpreso da quelle parole e si mise in cammino. Sulla via del ritorno volle accertarsi sugli avvisi del santo: inclinò il recipiente e subito ne scivolò fuori una serpe. Spaventato e impressionato da quella brutta sopresa, si pentì per il sotterfugio che aveva commesso. Il pensiero superbo del piccolo monaco (…) Un giorno il venerabile padre, già sull’ora del vespro, prendeva un po’ di cibo, ed un suo monaco, figlio di un avvocato, gli reggeva la lucerna davanti alla tavola. Mentre l’uomo di Dio mangiava e quello se ne stava lì in piedi a servirlo facendogli 12


lume, chiuso nella taciturnità, cominciò a ruminare nell’animo pensieri di superbia, dicendo in cuor suo: “E chi è costui, che io lo debba assistere mentre mangia, reggergli la lucerna e prestargli servizio? Sono proprio uno che deve fare il servo?”. Voltandosi all’improvviso verso di lui, il servo di Dio lo prese vivamente a rimproverare: “Fatti un segno di croce sul cuore, fratello! Che vai rimuginando nella mente? Fatti un segno di croce!”. Chiamati subito altri monaci, ordinò che gli togliessero dalle mani la lucerna, dicendo poi a lui di desistere da quel servizio e di sedersi tranquillamente al suo posto. In seguito, interrogato dai fratelli su cosa avesse avuto nel cuore, il monaco raccontò umilmente tutto quello che, in silenzio, aveva formulato contro il servo di Dio: apparve allora ancor più manifesto che nulla si poteva nascondere al venerabile Benedetto, perché alle sue orecchie giungeva persino il suono delle parole anche soltanto pensate. Una fabbrica regolata in visione (…) Un’altra volta fu pregato da un buon cristiano di mandare alcuni discepoli in un fondo di sua proprietà presso Terracina, perché vi voleva costruire un monastero. Acconsentì volentieri: scelse dei monaci e nominò chi doveva essere l’abate e chi il secondo dopo di lui. Al momento della partenza prese questo impegno: “Adesso voi partite subito: il tal giorno verrò io pure e v’indicherò dove dovrete edificare la cappella, dove il refettorio, dove la foresteria per gli ospiti e dove gli altri ambienti necessari”. Quelli, ricevuta la benedizione, si misero in cammino; intanto nell’attesa impaziente del giorno stabilito, cominciarono a preparare tutte quelle cose che sembravano loro necessarie per coloro che avrebbero accompagnato il venerato Padre. Ma nella stessa notte in cui cominciava il giorno della promessa, l’uomo di Dio apparve in sogno al sant’uomo da lui designato come abate e al suo priore, e tracciò loro, con le più minuziose indicazioni, le singole posizioni che conveniva dare a ciascun ambiente. Appena svegliati si raccontarono a vicenda quanto avevano visto; credettero meglio però farsi una risatella su questa visione che non meritava nessuna importanza e attesero ansiosi la promessa venuta dell’uomo di Dio. Ma il giorno stabilito non venne nessuno. Un po’ contrariati e rattristati tornarono dal santo a dirgli: “E com’è, Padre, che non sei venuto? Siamo stati tanto ad aspettare! Ci avevi promesso che saresti venuto ad indicarci dove e come dobbiamo fare le costruzioni. Com’è?”. Ed egli a loro: “Perché, fratelli, parlate così? E’ proprio vero che non sono venuto, secondo la promessa?”. “E quando sei venuto?”. “Ma non vi ricordate che tutti e due mi avete visto durante il sonno e vi ho tracciato la posizione dei singoli locali? Su, su, tornate, e costruite pure ogni reparto del monastero proprio come avete veduto nella visione”. Figuriamoci la loro meraviglia! Tornarono con gioia al podere e costruirono le singole parti del monastero come la rivelazione aveva loro indicato.

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Il monaco e il dragone (…) Aveva anche un monaco di carattere fiacco e incostante: stanco di stare in monastero voleva andarsene via. L’uomo di Dio era assiduo nel riprenderlo e spesso s’industriava a fargli coraggio; ma egli per nessun motivo voleva acconsentire a perseverare nella comunità, anzi non la finiva più di importunare affinché lo lasciassero partire. Alla fine il venerabile Padre, sopraffatto un giorno dalla sua importunità, gli comandò con sdegno che se ne andasse pure. Era appena uscito dalla porte del monastero, quand’ecco pararglisi incontro, lungo la strada, un dragone colle fauci spalancate, che voleva ad ogni costo divorarlo. Terrorizzato e tremante si diede ad urlare a gran voce: “Aiuto, aiuto! C’è un dragone che mi vuol divorare!”. Accorsero i fratelli, ma non videro nessun dragone. Lo riportarono dentro le mura del monastero, più morto che vivo, ed egli, lì, proprio sul momento, promise che non si sarebbe allontanato mai più. Perseverò difatti nella sua promessa. Erano state le preghiere del santo a fargli vedere il dragone che gli si lanciava contro, quel dragone che egli prima, non visibile, aveva seguito. Il monaco liberato dal demonio (…) Saliva egli un giorno all’oratorio del beato Giovanni, situato sulla cima di un monte, quando gli si fece incontro l’antico nemico in sembianze nientemeno che di veterinario, con in mano la cassetta dei medicinali e una corda. Benedetto gli domandò: “Dove vai?”. Rispose: “Sto andando dai monaci, a dare loro una piccola purga”. Il venerabile Padre proseguì lo stesso verso l’oratorio e terminata la preghiera, prese in gran fretta la via del ritorno. Il cattivo spirito intanto si era incontrato con un vecchio monaco che attingeva acqua, in un lampo era entrato in lui, lo aveva gettato a terra e lo strapazzava con feroce crudeltà: di ritorno dalla preghiera, nel vedere il poveretto tormentato con tanta violenza, il servo di Dio gli appioppò senz’altro uno schiaffo, e tanto bastò per scacciare immediatamente lo spirito, che non si azzardò mai più di rifarglisi nuovamente vicino. Il miracolo di sua sorella Scolastica (…) Egli aveva una sorella di nome Scolastica, che fin dall’infanzia si era anche lei consacrata al Signore. Essa aveva l’abitudine di venirgli a fare visita, una volta all’anno, e l’uomo di Dio le scendeva incontro, non molto fuori dalla porta, in un possedimento del monastero. Un giorno, dunque, venne e il suo venerando fratello le scese incontro con alcuni discepoli. Trascorsero la giornata intera nelle lodi di Dio ed in santi colloqui, e quando cominciava a calare la sera presero insieme un po’ di cibo; si trattennero ancora a tavola, e col prolungarsi dei santi colloqui l’ora si era protratta più del consueto. Ad un certo punto la pia sorella gli rivolse questa preghiera: “Ti chiedo proprio per favore: non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare,

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con le nostre conversazioni, le gioie del cielo”. Ma egli le rispose: “Ma cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori dal monastero”. La serenità del cielo era totale: non si vedeva all’orizzonte neanche una nube. Alla risposta negativa del fratello, la religiosa poggiò sul tavolo le mani a dita conserte, vi poggiò sopra il capo e s’immerse in una profonda orazione. Quando sollevò il capo dalla tavola, si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che né il venerabile Benedetto, né i monaci ch’eran con lui poterono mettere piede fuori dell’abitazione. La santa donna, reclinando il capo tra le mani, aveva sparso sul tavolo un fiume di lacrime, per le quali l’azzurro del cielo si era trasformato in pioggia. Neppure a intervallo di un istante il temporale seguì alla preghiera: ma fu tanta la simultaneità tra la preghiera e la pioggia, che ella sollevò il capo dalla mensa insieme ai primi tuoni: fu un solo e identico momento sollevare il capo e precipitare la pioggia. L’uomo di Dio capì subito che in mezzo a quei lampi, tuoni e spaventoso nubifragio era impossibile far ritorno al monastero, e allora, un po’ rattristato, cominciò a lamentarsi con la sorella: “Che Dio onnipotente ti perdoni, sorella benedetta; ma che hai fatto?”. Rispose lei: “Vedi, ho pregato te e non mi hai voluto dare retta; ho pregato il mio Signore e lui mi ha ascoltato. Adesso esci pure, se gliela fai: me lasciami qui, e tu torna al tuo monastero”. Ormai era impossibile proprio uscire all’aperto e lui, che di sua iniziativa non l’avrebbe voluto, fu costretto a rimanere lì contro la sua volontà. E così trascorsero tutta la notte vegliando e si riempirono l’anima di sacri discorsi, scambiandosi a vicenda esperienze di vita spirituale. Il passaggio all’eternità (…) Nell’anno stesso in cui doveva morire, il venerabile Padre annunziò il giorno del suo beatissimo transito ai suoi discepoli, alcuni dei quali vivevano con lui ed altri che stavan lontani. Ai presenti ordinò di custodire in silenzio questa notizia, ai lontani indicò esattamente quale segno li avrebbe avvisati che la sua anima si staccava dal corpo. Sei giorni prima della morte, si fece aprire la tomba: assalito poi dalla febbre, cominciò ad essere prostrato da ardentissimo calore. Poiché di giorno in giorno lo sfinimento diventava sempre più grave, il sesto dì si fece trasportare dai discepoli nell’oratorio, ove si fortificò per il grande passaggio ricevendo il Corpo e il Sangue del Signore. Sostenendo le sue membra prive di forze, tra le braccia dei discepoli, in piedi, colle mani levate al cielo, tra le parole della preghiera esalò l’ultimo respiro. In quel medesimo giorno, a due fratelli, uno dei quali stava in monastero, l’altro fuori, apparve un’identica visione: videro una via, tappezzata di arazzi e risplendente di’innumerevoli lampade, che dalla sua stanza volgendosi verso oriente s’innalzava diritta verso il cielo. In cima si trovava un personaggio di aspetto venerando e raggiante di luce, che domandò loro di chi fosse la via che contemplavano. Confessarono di non saperlo. “Questa – disse egli – è la via per la quale Benedetto, amico di Dio, è salito al

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cielo”. Così i presenti e i lontani videro e conobbero da quel segno predetto la morte del santo. Fu sepolto nell’oratorio del beato Giovanni Battista, che egli aveva dopo aver distrutto il tempio di Apollo (che sorgeva sulla cima del monte prima dell’arrivo del Santo, n.d.r.); e fino ai giorni nostri, se la fede degli esige, egli risplende per miracoli anche in quello Speco di Subiaco, dove egli primi tempi della sua vita religiosa.

edificato Cassino, oranti lo abitò nei

La pazza risanata nello Speco (…) Una donna, che per malattia mentale aveva perduto completamente la ragione, si aggirava per i monti e le valli lungo i boschi e attraverso i campi, sia di giorno che di notte, e si fermava soltanto quando la stanchezza la costringeva. Un giorno, lo stesso in cui il venerabile Padre salì al Cielo, in questo suo pazzo errare vagabondo capitò nello Speco del beatissimo Padre Benedetto, ed entrata così, all’insaputa, si fermò lì dentro e vi trascorse tutta la notte; al sorgere del sole ne uscì fuori, ma con la ragione in perfetto equilibrio, come se non avesse mai sofferto di malattia mentale. In seguito, finché visse, non perdette mai più la riacquistata sanità.”

San Gregorio Magno, Vita di San Benedetto, Città Nuova, Roma 1975

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Regola di San Benedetto Prologo “Ascolta, figlio, i precetti del maestro, porgi attento il tuo cuore, ricevi di buon animo i consigli di un padre che ti vuol bene e mettili risolutamente in pratica (…). Ora le mie parole sono rivolte a te, chiunque tu sia, che rinunzi alla tua volontà e, per servire nella milizia di Cristo Signore, vero Re, cingi l’armatura temprata e splendida dell’obbedienza. (…) Su, dunque, leviamoci finalmente al richiamo della Scrittura, che dice: E’ tempo ormai di levarci dal sonno! Apriamo gli occhi alla luce divina e ascoltiamo attoniti la voce ammonitrice che Iddio ci rivolge ogni giorno (…). Il Signore, rivolto alla moltitudine degli uomini, cerca il suo operaio e dice: Chi vuole la vita e desidera che i suoi giorni trascorrano beati? (…) Che cosa è più dolce, o carissimi fratelli, di questa voce del Signore che c’invita? (…) Perciò, cinti i fianchi di fede e della pratica delle buone opere, con la guida del Vangelo inoltriamoci nelle sue vie, per meritare di vedere nel suo regno Colui che ci ha chiamati. (…) Insieme al Profeta domandiamo dunque al Signore: Signore, chi abiterà nel tuo tabernacolo, chi avrà riposo sul tuo monte santo? Ascoltiamo dunque, fratelli, il Signore che risponde alla nostra domanda e ci insegna la via di quel tabernacolo: Chi procede immacolato e adempie alla giustizia; chi ha un cuore sincero; chi non ordisce inganni con la sua lingua; chi non fa male al suo prossimo e non raccoglie contro di lui la maldicenza (…) Così parla i Signore, e aspetta ogni giorno che noi rispondiamo con i fatti ai suoi santi avvertimenti. Diverse specie di monaci Si sa che quattro sono le specie di monaci. La prima è quella dei cenobiti, di coloro cioè che vivono in monastero, militando sotto una regola e un abate. La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, i quali non per un primo fervore di conversione, ma per lunga prova di vita monastica, ammaestrati dal conforto di molti, hanno ormai imparato a lottare col demonio; e bene addestrati, tra le schiere fraterne, al combattimento solitario dell’eremo, sicuri anche senza la consolazione degli altri, bastano, coll’aiuto di Dio, a combattere, col pugno e col braccio, i vizi della carne e dei pensieri. Una terza, tristissima specie di monaci è quella dei sarabaiti, i quali, non provati dall’effettiva pratica di alcuna regola come oro nella fornace, ma rammolliti come piombo, mentre ancora serbano fede al secolo con le loro opere, mostrano, con la tonsura, che mentiscono a Dio. Due a due, tre a tre, o anche soli, senza pastore, chiusi in ovili non del Signore ma propri, hanno per legge l’appagamento dei loro desideri: e chiamano santo ciò che pensano o scelgono, e ritengono illecito ciò che non vogliono.

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La quarta specie è di quei monaci che si chiamano girovaghi, i quali per tutta la loro vita, di provincia in provincia, sono ospitati tre o quattro giorni nei diversi monasteri, sempre vaganti e mai stabili, asserviti alle loro voglie e ai piaceri della gola, in tutto peggiori dei sarabaiti. Ma della miseria spirituale di tutti costoro è meglio tacere che parlare: e senza occuparcene oltre, veniamo, con l’aiuto di Dio, a ordinare la stirpe fortissima dei cenobiti. L’abate L’abate, che è degno governare il monastero, deve sempre ricordare come vien chiamato e adempiere con i fatti il nome di superiore. (…) L’abate perciò non deve insegnare o stabilire o comandare alcuna cosa fuori del precetto del Signore, ma i suoi comandi e la sua dottrina pervadano le menti dei discepoli come un fermento di divina giustizia. (…) Quando qualcuno, dunque, prende il nome di abate, deve governare i suoi discepoli con duplice dottrina e mostrare ciò che è buono e santo con i fatti ancor più che con le parole: ai discepoli più intelligenti e volonterosi proporrà con la sua voce i comandamenti del Signore, ai duri di cuore e ai più semplici indicherà col suo contegno i divini precetti. Inoltre, tutto ciò che avrà indicato ai discepoli come contrario alle leggi di Dio, mostri nei suoi atti che non si deve fare: perché, predicando agli altri, non sia trovato lui stesso riprovevole, e Dio non gli debba dire, mentre pecca: Perché vai esponendo i miei precetti, parli del mio patto, e poi fuggi la disciplina e ti getti dietro le spalle le mie parole? (…) Non faccia differenza di persone nel monastero. Nessuno sia amato da lui più di un altro, all’infuori di quello che troverà migliore nelle buone opere e nell’obbedienza, né anteponga il nobile a quello che si converte da schiavo, se non ci fosse altro motivo ragionevole. (…) Né dissimuli i peccati dei colpevoli, ma appena cominciano a mostrarsi, con ogni suo potere, li stronchi alla radice (…). (…) Così il pastore, sempre temendo il futuro rendiconto delle pecorelle a lui affidate, mentre bada ai fatti altrui si preoccupa maggiormente dei propri, e mentre corregge gli altri con le sue ammonizioni, si emenda dai suoi difetti. Convocazione dei fratelli a consiglio Ogni volta che nel monastero si devono trattare cose d’importanza, l’abate raduni tutta la comunità ed esponga egli stesso di che si tratta; e, udito il parere dei fratelli, consideri dentro di sé la cosa, e faccia quel che gli sembrerà più utile. Abbiamo detto di chiamare tutti a consiglio, perché spesso il Signore ispira al più giovane il partito migliore. I fratelli diano il loro consiglio con ogni umiltà e sottomissione, né osino difendere troppo insistentemente il loro modo di vedere: la decisione dipenda sempre dall’abate, e tutti gli obbediscano in ciò che avrà giudicato più conveniente; però, come conviene ai discepoli obbedire al maestro, così sta a lui disporre tutte le cose con prudenza e giustizia. 18


Tutti poi in tutto seguano, come maestra, la Regola, e nessuno sconsideratamente se ne discosti. Nessuno in monastero segua l’inclinazione del proprio cuore e ardisca di contrastare ostinatamente col suo abate, dentro o fuori del monastero: chi osasse farlo sia sottoposto alla disciplina regolare. L’abate dal canto suo faccia ogni cosa con timor di Dio ed osservanza della Regola, sapendo che di tutte le sue disposizioni dovrà rendere conto a Dio, giustissimo giudice: se infine si tratta di affari del monastero di minore importanza, ricorra semplicemente al consiglio degli anziani, come è scritto: Consigliati in tutto ciò che fai e dopo non avrai a pentirtene. L’obbedienza (…) Il sommo grado dell’umiltà è l’obbedienza senza indugio. Ciò si addice a quelli che nulla stimano caro più di Cristo; e per il servizio santo a cui si son votati, per timore dell’inferno e la gloria della vita eterna, appena dal superiore vien comandato loro qualche cosa, come se il comando fosse di Dio, non ammettono ritardo nell’eseguirlo. Di questi il Signore dice: Nell’atto stesso che udiva, mi obbedì.(…) Questi, smesse subito le loro cose e abbandonata la propria volontà, alzando all’istante le mani dal lavoro e lasciando incompiuto ciò che facevano, seguono coi fatti, con piede prontissimo all’obbedienza, la voce di chi comanda; e quasi in uno stesso momento il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo – l’una cosa e l’altra – si svolgono pari e sollecite, nella prontezza del timore di Dio, da quelli che sono animati da uno stesso desiderio di giungere alla vita eterna. Prendono così la via stretta, della quale il Signore dice: E’stretta la via che conduce alla vita, e non vivono a loro capriccio, né secondo i desideri e gusti propri, ma guidati dal giudizio e dal comando altrui abitano nel cenobio, contenti di esser soggetti all’abate. Costoro praticano, senza dubbio, quella sentenza del Signore che dice: Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di Chi mi ha mandato.(…) Il silenzio Facciamo come dice il Profeta: Dissi: veglierò sui miei passi per non peccare con la lingua: tenni a freno la mia bocca, ammutolii, mi umiliai e non parlai nemmeno di cose buone. (…) Quindi, a causa della gravità del silenzio, anche ai migliori discepoli si conceda raramente la facoltà di parlare, sia pure di argomenti buoni e santi ed edificanti; perché è scritto: Nei molti discorsi non eviterai il peccato, e altrove: La morte e la vita sono in potere della lingua. Parlare e insegnare appartiene al Maestro, tacere e ascoltare spetta al discepolo: e se occorrerà chiedere qualcosa al superiore si chieda in tutta umiltà, sottomissione e riverenza. L’umiltà La Scrittura divina, o fratelli, ci annunzia: Chiunque s’innalza sarà umiliato, e chi si umilia sarà innalzato. (…) 19


Il primo grado dunque dell’umiltà è che il monaco abbia il timore di Dio sempre innanzi agli occhi, si guardi di mai dimenticarlo, ricordi sempre tutto ciò che Dio ha comandato (…). Il secondo grado dell’umiltà è che il monaco non ami la propria volontà, né si compiaccia di soddisfare i suoi desideri, ma adempia la parola del Signore: Non venni a fare la mia volontà, ma quella di Chi mi ha mandato. (…) Il terzo grado dell’umiltà è che per amor di Dio il monaco si sottometta in tutta obbedienza al suo superiore, imitando il Signore, di cui dice l’Apostolo: Si fece obbediente fino alla morte. Il quarto grado di umiltà è che il monaco nella stessa obbedienza, in cose difficili e contrarie o ricevendo qualsiasi ingiuria, abbracci con animo quieto la pazienza, e non si stanchi di sopportare, né dia indietro, poiché dice la Scrittura: Sarà salvo solo chi avrà perseverato fino all’ultimo. (…) Il quinto grado dell’umiltà è che il monaco, con umile confessione, sveli al suo abate tutti i cattivi pensieri che gli vengono al cuore e le mancanze occulte commesse. La Scrittura ci incoraggia a farlo, dicendo: Manifesta al Signore la tua via, e confida in lui. (…) Il sesto grado dell’umiltà è che il monaco sia contento di qualunque cosa, per vile che sia o spregevole, e a tutto ciò che gli viene comandato si giudichi un operaio cattivo e indegno, dicendo col Profeta: Non fui più nulla, non intesi più, divenni come un bruto innanzi a te: ma son rimasto con te. Il settimo grado dell’umiltà è che il monaco non si riconosca solo con la lingua inferiore e peggiore di tutti, ma lo creda con intima persuasione del cuore, umiliandosi e dicendo col Profeta: (…) Buon per me che mi hai umiliato, perché imparassi i tuoi comandamenti. L’ottavo grado dell’umiltà è che il monaco non faccia nulla che non sia conforme all’usanza comune del monastero e all’esempio dei superiori e degli anziani. Il non grado dell’umiltà è che il monaco vieti alla sua lingua di parlare, e, abitualmente silenzioso, non parli finché non è interrogato (…). Il decimo grado dell’umiltà è che il monaco non sia facile e pronto al riso, perché è scritto: Lo stolto nel ridere alza la sua voce. L’undicesimo grado dell’umiltà è che, occorrendogli di parlare, il monaco lo faccia dolcemente (…), con umiltà e compostezza, con poche e ragionevoli parole: senza volersi imporre con la voce, come è scritto: Il saggio si rivela alle poche parole. Il dodicesimo grado dell’umiltà è che non solo abbia nel cuore, ma anche con la sua stessa persona il monaco mostri sempre umiltà a chi lo vede: e cioè nell’Ufficio divino, nell’oratorio, in monastero, nell’orto, per via, nei campi, o dovunque, seduto o camminando o in piedi, stia sempre col capo chino, gli occhi fissi a terra, e stimandosi sempre reo dei suoi peccati pensi di dover comparire dinanzi al tremendo giudizio di Dio 20


(…) Saliti dunque questi vari gradi dell’umiltà, il monaco arriva senz’altro a quel perfetto amor di Dio che scaccia il timore, e per virtù del quale tutto ciò che non osservava fino allora senza sgomento, ora comincia a praticare senza alcuno sforzo, con naturalezza e quasi per effetto d’abitudine; non più mosso dal timore dell’inferno ma dall’amore di Cristo, dalla stessa buona consuetudine e dalla compiacenza del bene. Il contegno durante la preghiera (…) Noi crediamo che Iddio è sempre presente dappertutto, e che in ogni luogo gli occhi del Signore osservano i buoni e i cattivi: (…) riflettiamo dunque come dobbiamo stare dinanzi a Dio e agli angeli e cantiamo in modo che la mente si accordi con la nostra voce. Riverenza nella preghiera Se nel chiedere qualche cosa alle persone potenti non osiamo farlo che con umiltà e riguardo, quanto più con somma umiltà e pura devozione dovremo supplicare Dio, Signore di tutte le cose! Sappiamo inoltre che non ci faranno esaudire le molte parole, ma la purezza del cuore e la compunzione del pianto. Perciò sia breve e pura la preghiera, a meno che non si protragga nell’ardore e nell’ispirazione della grazia divina: l’orazione comune, in ogni modo, sia assolutamente breve, e, al segno del superiore, tutti insieme si levino. Se il monaco può avere qualcosa di proprio (…) Nessuno osi dare o ricevere alcuna cosa senza ordine dell’abate, né avere qualche cosa di proprio, affatto nulla, né libro, né tavolette, né stilo, nulla assolutamente, come a gente cui non è lecito disporre a suo talento nemmeno del proprio corpo o della propria volontà: ogni cosa si aspetti dal padre del monastero. E non sia lecito tenere quello che l’abate non avrà dato o permesso: e tutto sia comune a tutti, come è scritto, e nessuno pensi o parli di qualche cosa come sua. Come soddisfano gli scomunicati (…) Colui che viene escluso per qualche mancanza grave dall’oratorio e dalla mensa, nel tempo in cui ha termine l’Opera di Dio nell’oratorio, giaccia prostrato dinanzi all’ingresso di questo senza dir parola: si limiti a stare disteso con la faccia a terra ai piedi di tutti quelli che escono dall’oratorio. E faccia questo fino a tanto che l’abate giudicherà che abbia espiato. Quando verrà chiamato dall’abate, si prostri ai suoi piedi e poi innanzi a tutti i fratelli, perché preghino per lui; allora, se lo vorrà l’abate, sia ricevuto in coro al posto che l’abate avrà designato, senza che però osi intonare nell’oratorio salmi, recitare lezioni o altro se l’abate non glielo ordinerà di nuovo. E a ciascuna ora, terminata l’Opera di Dio, si prostri in terra nel luogo in cui si trova, e così dia soddisfazione, finché l’abate non gli dirà di nuovo di smettere una tale penitenza.

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Il lavoro manuale quotidiano (…) L’ozio è nemico dell’anima: perciò i fratelli, in tempi stabiliti, devono attendere al lavoro manuale, e in altre ore, pure assegnate, alla sacra lettura. E pensiamo di ripartire bene il tempo tra l’una e l’altra cosa, disponendo che, da Pasqua fino al 14 di Settembre, la mattina, da prima fino a quasi l’ora quarta, attendano al lavoro che sarà da farsi, e dall’ora quarta fino quasi a sesta, studino. Dopo sesta, alzati da tavola, riposino in gran silenzio sui loro letti: e se qualcuno vuole leggere, lo faccia in modo da non disturbare gli altri. Si reciti Nona un po’ in anticipo, a metà dell’ora ottava, e di nuovo si applichino fino al tramonto nel lavoro che vi sarà da fare. E se la necessità del luogo e la povertà li costringe a badare essi stessi ai raccolti, non se ne contristino: perché sono veri monaci appunto quando vivono col lavoro delle loro mani, come i nostri padri e gli Apostoli. Ma si faccia tutto con moderazione, per riguardo ai più deboli. Dal 14 di Settembre al principio della Quaresima, studino fino alla seconda ora passata; all’ora seconda si dica Terza, e fino a Nona tutti si applichino nel lavoro ad essi assegnato. Fatto il primo segno di Nona, ognuno lasci il suo lavoro, e tutti siano pronti al suon del secondo segno; e dopo pranzo attendano alle loro letture o ai salmi. Nel tempo di Quaresima tutti ricevano un volume dalla biblioteca, e lo leggano ordinatamente e per intero (…). E’ importante, soprattutto, che uno o due anziani abbiano incarico di girare per il monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati alla lettura, vigilando che non si trovi qualche fratello accidioso che stia in ozio o in chiacchiere, invece di badare alla lettura, e riesca, oltre che inutile a sé, di cattivo esempio agli altri. Se fosse trovato un simile fratello – non sia mai! – venga ripreso per una o due volte: se non si emenda, sia sottoposto a castigo regolare, perché gli altri ne abbiano timore. Come si ricevono gli ospiti (…) Gli ospiti che arrivano siano accolti tutti come se fossero Cristo, perché Egli dirà un giorno: Fui pellegrino e mi riceveste. E a tutti si faccia onore come si conviene, ma particolarmente ai congiunti nella fede e ai pellegrini. Appena dunque sarà annunziato l’ospite, gli vada incontro il superiore o qualche fratello con ogni dimostrazione di carità: e anzitutto preghino insieme, poi si scambino l’abbraccio di pace. Questo però non sia offerto se non dopo la preghiera, per prevenire ogni illusione diabolica. Anche nel modo di salutare si mostri grande umiltà verso tutti gli ospiti che vengono o che partono: col capo chino o tutto il corpo prostrato in terra si adori Cristo che in essi viene ricevuto.

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Gli ospiti così accolti siano accompagnati all’orazione, dopo di che il superiore o quello che egli avrà a ciò destinato, terrà loro compagnia: sia letta all’ospite la Legge divina per sua edificazione, e dopo di ciò gli si usi ogni cortesia. (…) L’abate dia l’acqua alle mani degli ospiti: egli poi e l’intera comunità lavino i piedi a tutti gli ospiti, e, dopo la lavanda, dicano questo verso: Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel mezzo del tuo tempio. Soprattutto nel ricevere i poveri e i pellegrini si usi gran riguardo e premura, poiché in essi specialmente si riceve Cristo; mentre la potenza dei ricchi da se sola s’impone al rispetto. Norme per l’accettazione dei fratelli (…) A chi si presenta per abbracciare la vita monastica, non si conceda facilmente di entrare, ma, come dice l’Apostolo: Provate se gli spiriti sono da Dio. Ma se, dopo che è venuto, continuerà a insistere e mostrerà di accogliere con pazienza le ingiurie che gli sono fatte e la difficoltà dell’ingresso, in capo a quattro o cinque giorni, persistendo nella sua domanda, gli sia concesso di entrare, e per qualche giorno rimanga nella cella degli ospiti. Dopo entri nella cella dei novizi, nella quale mediterà e prenderà cibo e riposo. Gli sia destinato un anziano abile a guadagnare le anime, il quale lo osserverà con somma attenzione, vigilando se veramente cerca Dio, se è pronto all’Opera di Dio, all’obbedienza, alle contrarietà. Gli venga insegnato tutto ciò che di penoso e di faticoso ci conduce a Dio. E se promette di persistere nella sua stabilità, in capo a due mesi gli sia letta per intero questa Regola, e gli si dica: Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se puoi osservarla, entra, se non puoi, vattene pure liberamente. Se rimane fermo, sia condotto nella cella già detta dei novizi e provato in ogni esercizio di pazienza. Trascorsi altri sei mesi, gli si rilegga la Regola, perché sappia che cosa viene a fare: e se è sempre disposto, dopo quattro mesi gli sia letta di nuovo la stessa Regola. E se, dopo seria riflessione, promette di osservare ogni cosa e di fare tutto quello che gli sarà comandato, sia ammesso nella comunità e sappia che, anche secondo la legge della regola, da quel giorno non potrà più uscire dal monastero, né scuotere il collo di sotto il giogo della Regola, che, dopo così lunga deliberazione, fu libero di rifiutare o di accettare. Se al fratello vengono comandate cose impossibili (…) Se a un fratello venissero ingiunte cose ardue o impossibili, riceva ugualmente l’ordine che gli è dato con perfetta mansuetudine e obbedienza.

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Se poi vede che il peso è troppo al di là delle sue forze, presenti al superiore i motivi per cui la cosa non gli è possibile, con pazienza e opportunità, senza insuperbire né impuntarsi né contraddire. Che se, dopo le sue osservazioni, il superiore insiste ancora nel suo comando, l’inferiore sappia che così gli conviene di fare, e confidando in spirito di carità nell’aiuto di Dio, obbedisca. Nessuno prenda le difese altrui in monastero In un monastero bisogna evitare assolutamente che per qualsiasi motivo un monaco presuma difendere o farsi quasi protettore di un altro, siano pure congiunti in qualsiasi grado di parentela. I monaci non se lo devono permettere in nessun modo, perché ne può nascere gravissima occasione di scandali: se qualcuno mancherà in questo, sia punito severamente. Non tutta la pratica della perfezione è contenuta in questa Regola (…) Abbiamo tracciato questa Regola perché, osservandola nei monasteri, mostriamo una certa compostezza di modi o un principio di vita spirituale: ma, per quelli che hanno premura di giungere alla perfezione di questa vita spirituale, esistono gli insegnamenti dei Santi Padri, la pratica dei quali conduce l’uomo al sommo della perfezione. (…) Perciò, chiunque tu sia che ti affretti verso la patria celeste, poni in pratica, con l’aiuto di Cristo, questa piccolissima Regola da principianti, appena delineata; potrai in seguito finalmente raggiungere, con l’aiuto di Dio, quelle più alte vette di dottrina e di virtù, qui innanzi ricordate. Per Cristo Nostro Signore, Amen.”

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SECONDA PARTE: LA MISTICA TEMPLARE

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San Bernardo e le Crociate “(…) Nei secoli successivi all’anno Mille, gli ideali della Cavalleria medievale, celebrati e divulgati attraverso il cosiddetto amor cortese e la lirica amorosa provenzale, (…) costituivano un tentativo di raffinamento degli elementi barbarici ed incontrollati propri dell’ordine equestre del tempo, teso a trasformare questo ardore bellico e questa furia distruttiva in un processo di elevazione spirituale, nel quale la Dama (…) fungeva da tramite con il Divino. Il cavaliere del XII secolo, dunque, non era più espressione di una furia bellica incontrollata (…), ma diventava idealmente il vassallo della Dama, alla quale era stretto da una sorta di “servitù d’amore” e nella quale riconosceva il raggio, il lume, la luce divina che attraverso di lei risplendeva. Questo lavoro di “sgrossamento animico” raggiungerà il suo culmine con le Crociate: esse nascono infatti da una specie di profetismo, di fervore mistico, propagandato da personaggi come il famoso Pietro l’Eremita, che vanno in giro per l’Europa propagando questa febbre della riconquista dei luoghi santi, questo ideale di Guerra Santa (…) vissuta come forma estrema di sacrificio e di dedizione a Dio. In un’Europa percorsa da guerre feudali, da scontri e devastazioni di ogni tipo, il fenomeno delle Crociate nasce dunque essenzialmente come fatto mistico, come espressione di un moto animico e spirituale collettivo, (…) che raggiunse il suo culmine con la creazione degli Ordini cavallereschi, primo fra tutti quello dei Templari. (…) I Templari vengono chiamati i Vigilanti, i Veglianti in armi all’entrata del Tempio: dunque, innanzitutto, viene loro richiesta una costante autocoscienza e vigilanza su se stessi, per combattere, parallelamente con il nemico esteriore, anche il nemico interiore. Quindi il combattimento esteriore è un simbolo del combattimento interiore, affrontato attraverso un addestramento alla forza, al coraggio, al confronto con realtà infere interiori, condotto con estrema umiltà: con obbedienza ovviamente, militare e monastica, ma soprattutto con umiltà. Ecco dunque che cambia radicalmente il prototipo dell’eroe cristiano rispetto all’eroe pagano, perché mentre quest’ultimo è in un certo senso il superuomo, l’eroe cristiano invece è l’umile, l’eroe che non ha alcun vanto per le sue imprese, poiché egli in realtà sta combattendo se stesso. Dobbiamo quindi tenere ben presente che si trattava, per l’appunto, di una pratica spirituale, attraverso la quale il Templare comprendeva di essere, in realtà, egli stesso il proprio nemico: sembra quasi un processo inconscio di integrazione dell’Ombra. Potremmo presumere che attraverso questa azione continuata il Templare pian piano venisse a prendere coscienza della presenza della divinità in tutte le manifestazioni che lo riguardavano, che raggiungesse questo tipo di contatto con il Divino; e questo perché viveva sempre “al fronte”, il fronte volendo significare essere sempre alla presenza del Divino, alla presenza del Nemico. Come infatti diceva Meister Eckhart, “Dio, a volte, si traveste da Cavaliere Nero e va nella notte contro i suoi cavalieri, per provarne il valore”. Quindi per il mistico, per il monaco, per il cavaliere, “stare al fronte” significava stare sempre di fronte al Maestro, stare sempre di fronte alla sua ed alla propria morte: così come il monaco è sempre di fronte alla propria morte nell’abito che riveste e nella preghiera, allo stesso modo il guerriero, il Templare, è sempre di fronte alla propria

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morte sul campo di battaglia, e questo rappresentava per lui una vera e propria strada di realizzazione interiore, uno Yoga: la “Via della Guerra”. Inoltre è da sottolineare il fatto che, avendo essi posseduto la Sindone per un lungo periodo di tempo, pare usassero anche contemplarla fisicamente, come forma di preghiera e di identificazione col Maestro, per poi successivamente agire militarmente: si trattava dunque di una forma di contemplazione profonda, effettuata per entrare in contatto con l’essenza cristica, e successivamente agire. Questa è dunque la differenza dei Templari, come Ordine cavalleresco, rispetto ad altri Ordini contemplativi, questa è la loro specificità: tutti i monaci infatti si identificano con Cristo, ma i monaci-guerrieri prima si identificano e poi agiscono - “agire in contatto”, questa è dunque l’essenza dell’ideale monastico-cavalleresco templare.” Pierluigi Gallo, Spiritualità del Medioevo latino, op.cit. * “Fra le grandi figure del Medioevo ve ne sono poche il cui studio è più appropriato di quello di San Bernardo per dissipare certi pregiudizi cari allo spirito moderno: in effetti, cosa c’è di più sconcertante, per quest’ultimo, che il constatare come un contemplativo puro, che ha sempre voluto essere e rimanere tale, fosse chiamato a svolgere un ruolo preponderante nella conduzione degli affari della Chiesa e dello Stato, e riuscisse spesso laddove aveva fallito tutta la prudenza dei politici e dei diplomatici di professione? Secondo la maniera ordinaria di giudicare le cose, cosa c’è di più sorprendente che il vedere un mistico (…) trionfare senza sforzo sui dialettici più sottili del suo tempo? (…) Quale contrasto fra questi nostri tempi e quelli, ove un semplice monaco poteva diventare in qualche modo, per il solo fulgore delle sue eminenti virtù, il centro dell’Europa e della Cristianità, l’arbitro incontestato di tutti i conflitti (…), il giudice dei maestri più famosi della filosofia e della teologia, il restauratore dell’unità della Chiesa, il mediatore fra il Papato e l’Impero, ed infine vedere eserciti di parecchie centinaia di migliaia di uomini levarsi alla sua predicazione! (…) Fino a quel momento, la Terra Santa aveva occupato un posto molto limitato fra le preoccupazioni di San Bernardo, almeno in apparenza; tuttavia sarebbe un errore credere che egli sia rimasto insensibile a ciò che era ad essa relativo, e la prova la si ha da una vicenda sulla quale generalmente si insiste molto meno di quanto ad essa converrebbe. Ci riferiamo alla parte da lui svolta nella costituzione dell’Ordine del Tempio, il primo Ordine militare per data e per importanza e che servì da modello a tutti gli altri: fu nel 1128, circa dieci anni dopo la sua fondazione, che quest’Ordine ricevette la sua regola, al Concilio di Troyes, e fu Bernardo, in qualità di segretario del Concilio, che venne incaricato di redigerla, o quantomento di fissarne i primi lineamenti (…). Egli commentò poi questa regola nel trattato De laude novae militiae, ove espose, con una magnifica eloquenza, la missione e l’ideale della cavalleria cristiana, che egli chiamava la “milizia di Dio”. Questi rapporti tra l’abate di Chiaravalle e l’Ordine del Tempio, che gli storici considerano solo come un episodio alquanto 27


secondario della sua vita, ebbero sicuramente ben altra importanza agli occhi degli uomini del Medioevo, e (…) costituiscono senza dubbio la ragione per cui Dante scelse San Bernardo come sua guida negli ultimi cerchi del Paradiso. (…) Un ultimo tratto della fisionomia di San Bernardo, anch’esso importante da segnalare, è il posto eminente che, nella sua vita e nelle sue opere, occupa il culto della Santa Vergine, e che ha dato luogo al fiorire di tutta una serie di leggende (…) che lo hanno reso popolare nel tempo. Egli amava dare alla Santa Vergine il titolo di “NotreDame”, l’uso del quale si è diffuso a partire dalla sua epoca e senza dubbio perlopiù grazie alla sua influenza; il fatto è che egli era, come s’è detto, un vero “cavaliere di Maria”, che egli considerava veramente come la sua “dama”, nel senso cavalleresco del termine. (…) Monaco e cavaliere, dunque: questi che erano i due caratteri della “milizia di Dio”, dell’Ordine del Tempio, furono anche, fin dall’inizio, i caratteri dell’autore della loro regola, del grande santo che è stato definito l’ultimo Padre della Chiesa, e nel quale molti hanno inteso vedere, non senza ragione, il prototipo di Galaad, il cavaliere ideale e senza macchia, l’eroe vittorioso della “Cerca del Santo Graal”. René Guénon, L’esoterismo cristiano e San Bernardo, Arktos, Carmagnola 1989. *

“Nel 1112, il giovane Bernardo, con quattro suoi fratelli e venticinque compagni, entrò nell’abbazia cistercense di Citeaux. Per la storia europea si era appena inaugurato un grande secolo: un secolo di vita vigorosa e fiorente, il secolo delle Crociate, della nascita delle città, degli inizi dell’architettura gotica, dello sviluppo delle lingue nazionali, della ripresa degli studi latini, della fondazione delle prime università europee e del ricupero, attraverso i contatti con il mondo musulmano, della scienza greca. La riscoperta della vita spirituale e mistica negli ordini religiosi dei certosini, dei benedettini, dei cistercensi e degli agostiniani costituisce una parte importante ed essenziale di questo rinascimento del XII secolo. (…) Gli uomini del XII secolo erano profondamente interessati al problema dell’amore, sia carnale che spirituale. Perciò emerge l’ideale dell’amore romantico, così vividamente rispecchiato nella letteratura dell’epoca, e il misticismo è fondamentalmente un misticismo d’amore. (…) Per San Bernardo, Dio è amore e la Via Mistica consiste principalmente, se non esclusivamente, in un continuo apprendistato d’amore. Condizione fondamentale per conoscere e unirsi a Dio è il possesso di un amore puro e ardente. (…) L’amore terreno è il punto di partenza di san Bernardo. Prima viene l’amore e l’interesse per se stessi; poi viene l’amore in una forma più elevata, l’amore per il prossimo; e infine l’amore più alto, l’amore di Dio; e in questo c’è un’azione reciproca che ha la sua fonte in Dio stesso”. F.C.Happold, Misticismo, Mondadori, Milano 1987

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I Cavalieri del Tempio Le origini “(…) Secondo i primi cronisti dell’Ordine del Tempio (…) l’avvio dell’Ordine fu dato da Ugo di Payns, cavaliere della Champagne, e dai suoi nove cavalieri (nel 1111 d.C., n.d.r.): questo primo nucleo si propose di compiere il servizio cavalleresco in difesa dei Luoghi Santi e a tutela dei pellegrini, che numerosi – e spesso inermi – giungevano a far visita alla Terra Santa. I vittoriosi conquistatori crociati di Gerusalemme si trovarono, in pratica, assediati nella stessa città da essi conquistata, circondati da una popolazione rurale prettamente musulmana: le carovaniere erano tutte controllate da milizie musulmane. La strada che collegava lo sbocco marittimo di Giaffa a Gerusalemme era oggetto di scorrerie e incursioni continue di bande armate ai danni dei convogli cristiani: lo stesso pellegrinaggio ai luoghi santi di Galilea, tra Nazareth e Tiberiade, richiedeva una scorta armata, in quanto i saraceni assalivano i pellegrini. (…) Verso il 1118 (…) il re di Gerusalemme Baldovino II permise che la prima esigua confraternita dei cavalieri guidati da Ugo s’acquartierasse in un’ala del palazzo reale, che sorgeva sulla spianata sulla quale si ergeva il Tempio di Gerusalemme. I cavalieri alloggiarono nella Moschea di al-Aqsa, meglio conosciuta col nome di “Tempio di Salomone”: essi occupavano, in realtà, i sotterranei conosciuti col nome di “Stalle di Salomone” e ci tenevano, in ogni modo, a sottolineare la loro relazione ideale col grande e saggio re. Fu così che vennero a chiamarsi Milites Dei Templique Salomonis, abbreviandosi poi tale denominazione in Milites Templi e Templarii. Si trattava, all’inizio, non di un Ordine (…) ma di una sorta di terz’ordine laico (…). I cavalieri (…) formularono davanti al Patriarca di Gerusalemme quattro voti: i primi tre erano i consueti voti di povertà, castità ed obbedienza, il quarto riguardava specificamente il loro stato: combattere senza tregua i nemici di Dio, cioè, nella particolare situazione storica, principalmente i musulmani che vessavano i pellegrini. Il Rousset definisce il Templare “specie di crociato a vita, monaco in armi, laico religioso”. La loro situazione, nel seno dell’ordinamento canonico, era particolarissima e nuova (…): non si trattava in effetti né di monaci (ai quali era rigorosamente interdetto l’uso delle armi), pur avendo in comune con essi l’impostazione ascetica della loro vita, né di cavalieri in senso stretto, poiché le loro virtù erano diverse da quelle che generalmente spettavano alla cavalleria profana (secularis militia), secondo San Bernardo. (…) Fu Ugo di Payns a sollecitare al Santo uno scritto (il De Laude Novae Militiae, n.d.r.) che fosse, insieme, d’ammaestramento e d’ammonizione per i milites. A ciò probabilmente lo spinsero i legami di parentela che lo legavano a San Bernardo, uno zio materno del quale (…) sarebbe divenuto successivamente Maestro dell’Ordine. D’altro canto Bernardo proveniva da stirpe antica di cavalieri (…) e il senso militare fu una delle componenti profonde del suo carattere. (…) Ugo afferma che il desiderio della pura contemplazione avrebbe potuto rappresentare una prevaricazione. (…). Se si è guerrieri occorre combattere e morire offrendo la propria vita come martirio: infatti le pratiche ascetiche temperavano i rischi di una vita solamente militare, impedendo che la Militia Christi finisse per confondersi 29


con la cavalleria profana, ma il dovere di fondo restava quello del combattente. La guerra esteriore, che procede parallela alla guerra interiore contro i nemici invisibili che portiamo nel nostro cuore, è strumento di conversio, e quindi di salvezza (…): “è vergognoso ed indegno voler sottomettere una qualunque armata, se prima non siano a noi assoggettati i nostri corpi”. La Regola (…) Fu solo il 14 gennaio del 1128, col Concilio di Troyes, che la fraternità militare dei Cavalieri del Tempio fu approvata dalla Chiesa e ricevette il nome di Militia. I suoi appartenenti si chiamavano pauperes milites Christi (“poveri cavalieri di Cristo”): la povertà veniva raccomandata in massimo grado. Il Concilio di Troyes approvò la Regola dei Cavalieri del Tempio; anche se San Bernardo non la scrisse di suo pugno, è però certo che ne fu il principale ispiratore ed ebbe un ruolo preponderante nel far sì che i Padri presenti al Concilio approvassero l’esistenza della Militia. (…) I punti di contatto tra la Regola dei Templari e la Regula di S.Benedetto son tali e tanti (quasi 50) da autorizzarci a credere che il Santo trasponesse nella prima l’essenza della seconda, adattandone le forme al particolare stato di milites: se l’orare era comune alle modalità osservate dai monaci (i Templari recitavano lo stesso ufficio seguito dal Clero regolare della Città Santa, cioè dai canonici del Santo Sepolcro), il laborare aveva carattere prettamente guerriero: combattere in campo aperto, allenarsi, riparare le armi e le armature ed adempiere a tutti gli uffici che la professione militare richiede. Nel 1139 il papa Innocenzo II (…) imponeva ai Templari la stabilità nell’Ordine (…). Così pure s’imponeva ad essi di restare fedeli al loro monastero-fortezza, senza cambiare di sede senza esplicito consenso od ordine del loro Maestro: anche il principio della stabilitas loci derivava esplicitamente dalla Regola di San Benedetto (…). Anche il bianco mantello concesso ai Templari, e tra essi solo ai fratelli professi dell’Ordine, indicava lo stato di castità degli stessi (…), ma significava anche, in certo qual modo, la filiazione dell’Ordine del Tempio dal filone ascetico cistercense. La Cavalleria (…) Non può intendersi il Medioevo senza intendere il pensiero religioso che ne fu l’anima vivente. (…) Prima di stilare un giudizio sul Medioevo, bisogna rendersi conto che esso non fu semplicemente “migliore” o “peggiore” dei nostri tempi, ma fu essenzialmente “diverso”, perché fondato su una diversa antropologia e una diversa concezione della storia e del mondo. E ciò vale per qualunque civiltà “tradizionale”. (…) D’altro canto, si obietterà, il cristianesimo non è stato storicamente negatore di ogni forma di religione che non fosse cristiana? All’ombra della Croce non si è forse perseguitato, sfruttato, ucciso? E lo stesso Bernardo non afferma che “dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria, poiché il Cristo viene glorificato?” (De Laude, III,4). (…) Si noti tuttavia che il santo di Chiaravalle scrive in un tempo in cui Cristianità ed Islam si fronteggiavano sui campi di battaglia, in Terra Santa: egli 30


evidenzia con chiarezza il pericolo che la guerra in difesa dei luoghi santi si trasformasse in una guerra di conquista, dettata da interessi che con la charitas christiana non solo non avevano nulla a che fare, ma ne erano l’esplicita negazione. Si rivolge ad un nucleo di cavalieri consacrati che, dietro suo personale suggerimento, si erano votati ad una testimonianza di charitas attraverso il compimento della Via militare, per ammonirli a non perder di vista lo scopo ultimo per cui si erano costituiti in una militia che rappresentava l’antitesi della milizia profana, e per esortarli a fondare la coscienza della loro identità su una continua imitatio Christi, spinta fino all’accettazione del sacrificio della vita sull’esempio del Maestro. Così facendo Bernardo pone le basi dottrinali per una via ascetica militare cristiana. (…) San Bernardo nel De Laude non fa l’elogio della guerra né consiglia l’imposizione della fede con le armi, ma giustifica l’esistenza della guerra in difesa di chi, senza la protezione del milites, sarebbe esposto all’arbitrio del nemico: il popolo dei fedeli. Nella sua funzione di difensore il miles afferma la sua identità cristiana e pone la sua forza non a servizio di sé stesso ma degli altri: ciò è indicato dal santo come “buona causa”. “Se la causa per la quale si combatte è buona, l’esito della battaglia non potrà essere cattivo. Allo stesso modo, non sarà stimata buona conclusione quella che non sia preceduta da una buona causa e da una retta intenzione”. (D.L., 1,2) (…) Nel Templare coesistono il monaco e il cavaliere: per questo San Bernardo parla di “due spade” e di “due cingoli”. La spada del monaco è la Parola di Dio, quella del cavaliere è l’arma consacrata al servizio di Dio. Il cingolo del monaco esprime l’appartenenza alla Milizia di Cristo spiritualmente intesa e, nel contempo, esprime fedeltà al proprio Ordine; il cingolo del cavaliere rappresenta fedeltà all’Ordine della Cavalleria ed è insegna di dignità che solamente il cavaliere regolarmente investito può portare. (…) Cingolo e spada significavano dunque, rispettivamente, fedeltà alla verità ed affermazione del diritto della verità contro gli empi. (…) Per il Templare, e in genere per il cavaliere cristiano, la morte nella giusta battaglia, sofferta per il Cristo, apre i Cieli. Il sacrificio del guerriero è esattamente questo: versare il suo sangue sull’esempio di Cristo in difesa dei deboli, come testimonianza di verità. (…) In omaggio alla realtà universale dell’ideale cavalleresco accostiamo le parole di San Bernardo a un testo classico dell’India, la Bhagavad Gita, che prescrive i doveri e le norme di comportamento del guerriero: “Ucciso otterrai il cielo, vittorioso dominerai la terra; perciò […] sorgi risoluto alla battaglia. Ponendo sullo stesso piano piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e sconfitta, armati per la battaglia; in tal modo non avrai colpa”. (BG, II, 37-38). Analogamente l’etica guerriera islamica prescriveva di morire in battaglia, nel compimento della “piccola Guerra Santa”, poiché “il Paradiso è all’ombra delle spade”. (…) Si tratta, per il cavaliere, di combattere una doppia battaglia (duplex conflictus) nelle parole di Pietro il Venerabile, che aveva pronunciato parole simili a quelle di San Bernardo: “Chi non si allieterà perché voi avete intrapreso non una semplice, ma una doppia battaglia? […] Siate monaci nelle virtù, cavalieri nelle azioni”. (Lib., VI, ep.26).

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Il concetto della doppia battaglia è comune anche all’Islam, i cui guerrieri erano perfettamente coscienti, al pari degli antagonisti crociati, che in realtà il loro cammino comportava una Grande Guerra Santa (contro i nemici interiori, n.d.r.) ed una Piccola Guerra Santa (contro quelli esteriori, n.d.r.): sante dunque ambedue, ma la seconda essendo conseguenza e manifestazione esteriore della prima. Epilogo (…) In una rossa, calda sera africana, ad Ondurman, nel Sudan, eravamo ospiti di una tarikà sufi (…). Conversavamo con il Maestro ed alcuni sheik sul senso di una reciproca conoscenza e comprensione tra Islam e la Via di Cristo. Il dialogo fluiva con limpida spontaneità, sostenuto dall’autorevolezza dei nostri interlocutori: tutt’intorno, in silenzio, in bianche vesti, erano seduti i discepoli della tarikà. (…) Ci tornavano alla mente le parole del Santo di Chiaravalle, la dottrina delle due spade: ci chiedevamo come e perché era stato possibile morire, sotto lo stesso cielo, credendo nella paternità di uno stesso Dio, seppur con diversi nomi. Forse quel sangue fu necessario al giovane Islam e all’identità cristiana dell’ecumene medievale europea; fu necessario nella logica di quei tempi, in cui vivere e morire avevano un diverso valore, in cui la morte in Dio era ritenuta porta aperta sul paradiso di Dio e di Allah, dove, forse, ci si sarebbe ritrovati a combattere in suo nome e a conversare con Lui all’ombra dei palmizi nelle pause del combattimento (come talvolta avveniva anche durante le Crociate). I guerrieri combattevano e morivano per affermare l’irriducibilità della diversità, i filosofi s’incontravano nell’intuizione di una superiore Unicità.” Mario Polia, Introduzione, commento e note a San Bernardo, L’elogio della nuova Cavalleria, Il Cerchio, Rimini 1988 * Il De Laude Novae Militiae Prologo “A Ugo, cavaliere di Cristo, e Maestro della Milizia di Cristo, Bernardo, abate di Chiaravalle solo di nome: combattere il giusto combattimento (II Tim., 4,7). Per una, due e tre volte, se non erro, o dilettissimo Ugo, mi hai chiesto di scrivere un discorso di esortazione per te e per i tuoi compagni d’arme e di brandire lo stilo, dal momento che non mi è concesso brandire la lancia, contro un nemico tirannico. Affermi che sarà per voi di non poco conforto se io vi incoraggerò per mezzo dei miei scritti, dal momento che non posso farlo per mezzo delle armi. (…) Ho tardato alquanto, in verità, non perché la richiesta mi sembrasse da disprezzare, ma perché il mio consenso non fosse tacciato di leggerezza e frettolosità: (…) il lettore giudichi, dunque, se sono stato all’altezza del compito. (…)

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La nuova cavalleria (…) Da qualche tempo si diffonde la notizia che un nuovo genere di Cavalleria è apparso al mondo, e proprio in quella contrada che un giorno Colui che si leva dall’alto visitò, essendosi reso manifesto nella carne; in quegli stessi luoghi dai quali Egli con la potenza della sua mano (Is., 10,13) scacciò i principi delle tenebre, possa oggi annientare con la schiera dei suoi forti, e seguaci di quelli, i figli dell’incredulità, riscattando di nuovo il suo popolo e suscitando per noi un Salvatore nella casa di David, suo servo (Eph., 2,2; Lc., L,69). Un nuovo genere di cavalieri, dico, che i tempi passati non hanno mai conosciuto: essi combattono senza tregua una duplice battaglia, sia contro la carne ed il sangue, sia contro gli spiriti maligni del mondo invisibile (Eph., 6,12). In verità, quando valorosamente si combatte con le sole forze fisiche contro un nemico terreno, io non ritengo ciò stupefacente né eccezionale; e quando col valore dell’anima si dichiari guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora dirò che quello è segno di ammirazione, sebbene questa battaglia sia degna di lode, dal momento che il mondo è pieno di monaci. Ma quando il combattente ed il monaco con coraggio si cingono ciascuno il suo cingolo, chi non potrebbe ritenere un fatto del genere davvero degno d’ogni ammirazione, per quanto finora insolito? E’ davvero impavido e protetto da ogni lato quel cavaliere che, come si riveste il corpo di ferro, così riveste la sua anima con l’armatura della fede (I Thess., 5,8). Nessuna meraviglia dunque se, possedendo entrambe le armi, egli non teme né il demonio né gli uomini. E nemmeno teme la morte, egli che desidera morire: difatti, cosa avrebbe da temere, in vita o in morte, colui per il quale il Cristo è la vita, e la morte un guadagno? (Phil., 1,21). Egli sta saldo, invero, con fiducia e di buon grado per il Cristo; ma ancor più desidera che la sua vita sia dissolta per essere con Cristo (Phil., 1,23); questa è infatti la cosa migliore. Avanzate dunque sicuri, cavalieri, e con intrepido animo respingete i nemici della croce di Cristo (Phil., 3,18)! Siate sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio (Rom., 8,38). E ripetete nel momento del pericolo, ben a ragione: sia che viviamo, sia che moriamo apparteniamo al Signore (Rom., 14,8). (…) Per quanto la vita sia fruttuosa e la vittoria gloriosa, a giusto diritto ad entrambe è da anteporre la morte sacra: se, infatti, sono beati quelli che muoiono nel Signore (Apoc., 14,13), quanto più lo saranno quelli che muoiono per il Signore? (…) E’ senza dubbio preziosa al cospetto di Dio la morte dei suoi santi (Ps., 115,15), ma la morte in combattimento ha tanto più valore in quanto è più gloriosa. (…) Dei Cavalieri di Cristo (…) I Cavalieri di Cristo (…) combattono sicuri la guerra del loro Signore, non temendo in alcun modo né peccato per l’uccisione dei nemici, né pericolo se cadono in combattimento: la morte per Cristo, infatti, sia che venga subita sia che venga data, non ha nulla di peccaminoso ed è degna di altissima gloria. Infatti nel primo caso si 33


guadagna [la vittoria] per Cristo, nel secondo si guadagna il Cristo stesso. Egli accetta certamente di buon grado la morte del nemico come castigo, ma ancor più volentieri offre se stesso al combattente come conforto. Affermo dunque che il Cavaliere di Cristo con sicurezza dà la morte, ma con sicurezza ancora maggiore cade: morendo vince per se stesso, dando la morte vince per Cristo. Non è infatti senza ragione che porta la spada: è ministro di Dio per la punizione dei malvagi e la lode dei giusti (Rom., 13,4; I Petr., 2,14). Siano dunque disperse senza timore le nazioni che vogliono la guerra (Ps.,6731); siano estirpati coloro che ci minacciano, e siano scacciati dalla città del Signore tutti i malfattori che tentano di portar via da Gerusalemme le inestimabili ricchezze del popolo cristiano ivi riposte, che contaminano i luoghi santi, che si trasmettono di padre in figlio il santuario di Dio. Sia sguainata la doppia spada dei fedeli sulle teste dei nemici, per distruggere qualunque superbia che osi ergersi contro la conoscenza di Dio (…) affinché le nazioni non dicano: Dov’è il loro Dio? (Ps., 113,2). Come vivono i Cavalieri di Cristo (…) Ma per ora, per dare un esempio e per confondere i nostri cavalieri secolari, che certamente non militano per Dio ma per il diavolo, trattiamo brevemente dei costumi e della vita dei Cavalieri di Cristo: come essi si comportano in guerra e in pace, affinché appaia chiaramente quanto differiscano tra loro la Cavalleria di Dio e la cavalleria del secolo. Innanzitutto certamente non manca la disciplina, né l’obbedienza viene mai disprezzata: poiché, secondo la testimonianza della Scrittura, il figlio disobbediente perirà (Eccl., XXII, 3) e opporsi alla disciplina è peccato pari all’esercizio della magia, e non voler obbedire è peccato quasi come l’idolatria (I Reg., 15,23). Ad un cenno del superiore si viene e si va, si veste di ciò che egli donò; né si attende da altre fonti il nutrimento e il vestito. Nel vitto e nell’atteggiamento ci si astiene da ogni cosa superflua, si provvede alla pura necessità. Si vive in comune, con un genere di vita sobrio e lieto, senza spose né figli. E affinché la perfezione evangelica sia completamente realizzata, essi abitano nella stessa casa, con una stessa regola di vita e senza possedere niente di proprio, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace (Eph., 4,3). Diresti che tutta questa gente abbia un cuore solo ed un’anima sola: a tal punto ognuno si sforza di seguire non la propria volontà, ma quella di chi comanda. Non siedono mai oziosi, né gironzolano curiosi; ma quando non sono occupati in guerra (cosa che succede davvero di rado), per non mangiare il pane ad ufo riparano le armi e le vesti danneggiate, o rinnovano quelle vecchie, o si mettono in ordine ciò che è in disordine, ed infine la volontà del maestro e la comune necessità dispongono il da farsi.

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Tra di essi nessuna preferenza: il rispetto è dato al migliore, non al più nobile di natali. Fanno a gara ad onorarsi a vicenda (Rom., 12,10), e vicendevolmente portano il loro fardello, per compiere così la legge di Cristo (Gal., 6,2). Mai una parola insolente, un’azione inutile, una risata sguaiata, una mormorazione per quanto leggera e fatta sottovoce, quando vengono colte in fallo, restano impunite. Detestano il gioco degli scacchi e dei dadi; la caccia è tenuta in dispregio, né si rallegrano della cattura di uccelli da diporto, cosa molto in voga [altrove]. Sdegnano ed aborriscono i mimi, i saltimbanchi, i fattucchieri, i cantastorie, le canzoni scurrili, gli spettacoli dei giocolieri, e così pure le vanità e le follie contrarie alla verità. Tagliano corti i capelli sapendo che, come dice l’Apostolo, è vergognoso per un uomo curarsi la chioma (I Cor., 11,4). Non si acconciano mai, si lavano di rado, ma sono piuttosto irsuti per la capigliatura negletta, bruttati di polvere, abbronzati dall’armatura e dal forte calore. I Cavalieri in battaglia Quando giunge l’ora della battaglia, essi si armano di dentro con la fede e di fuori col ferro e non con l’oro, affinché i nemici abbiano terrore di loro e non invidia: essi sono armati, cioè, e non ornati. Vogliono cavalli forti e veloci e non ricoperti da sgargianti gualdrappe e finimenti di lusso: essi si preoccupano infatti della battaglia e non dello sfarzo, della vittoria e non della gloria, e badano d’esser piuttosto causa di terrore che d’ammirazione. Pertanto, non turbolenti ed impetuosi, senza precipitarsi con leggerezza, si ordinano ponderatamente e con cautela e prudenza si dispongono in assetto di guerra, così com’è stato scritto dai nostri padri, come veri figli del [nuovo] Israele, pieni di pace s’avanzano per la battaglia (cfr. II Macc., 15,20). Ma al momento dello scontro, e allora soltanto, smessa la dolcezza di prima, come dicessero: Non devo forse odiare chi Ti odia, o Signore, e detestare i tuoi avversari? (Ps., 138,21), fanno impeto contro i propri avversari, reputano i propri nemici branchi di pecore e mai, pur essendo pochissimi, temono la crudele barbarie e la schiacciante moltitudine: essi hanno infatti appreso a non confidare nelle proprie forze, ma ad attendere la vittoria dal volere del Dio degli eserciti, al quale, secondo quanto è scritto nel Libro dei Maccabei, pensano sia molto agevole mettere molti nelle mani di pochi; e che per il Dio dei cieli non fa differenza salvare i molti o i pochi, poiché la vittoria non sta nel numero dei combattenti, ma nella forza che vien dall’alto (I Mac., 3, 18-19). E di ciò hanno fatto molto spesso esperienza, così che generalmente uno solo ne incalza quasi mille e due ne hanno messi in fuga diecimila. (…) Così dunque, per una singolare ed ammirabile combinazione, sono, a vedersi, più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, a tal punto che esito se sia meglio chiamarli monaci o piuttosto cavalieri: ma, forse, potrei chiamarli più esattamente in entrambi i modi, poiché ad essi non manca né la dolcezza del monaco né la fermezza del cavaliere. 35


E di questa qualità che cosa si potrebbe dire, se non che è opera di Dio, ed è degna di ammirazione ai nostri occhi (Cant., 3,7-8)? Dio stesso ha scelto per sé tali uomini ed ha raccolto dai confini estremi del mondo questi suoi ministri (…) tra i più valorosi d’Israele, per custodire con fedeltà e vigilmente il letto del vero Salomone – cioè il Santo Sepolcro – tutti armati di spada ed esperti quant’altri mai nell’arte della guerra (Ps., 117,23). Il Tempio Il tempio di Gerusalemme, nel quale hanno comune dimora, è una costruzione senza dubbio più modesta dell’antico e di gran lunga più famoso tempio di Salomone, ma non gli è inferiore in gloria. (…) Il primo tempio infatti s’imponeva all’ammirazione per gli svariati colori, il secondo è degno di venerazione per le svariate virtù e le sante azioni. (…) L’aspetto di questo tempio è anch’esso ornato, ma di armi, non di gemme. Ed invece delle antiche corone d’oro, le pareti sono ricoperte di scudi appesi tutt’intorno; e invece dei candelieri, degli incensieri, dei vasi, la dimora è provvista d’ogni parte di freni, di selle, di lance. Queste cose dimostrano apertamente che i cavalieri fervano per la casa di Dio del medesimo zelo del quale una volta, violentissimamente infiammato, il condottiero stesso dei cavalieri, avendo armato la sua mano santissima non di spada ma di un flagello fatto di funicelle, entrò nel tempio e ne scacciò i mercanti, sparse il denaro dei cambiavalute e rovesciò i banchi dei venditori di colombe, giudicando cosa oltremodo indegna che una casa di orazione fosse macchiata da mercanti di tal fatta (cfr. Mt., 20,12-13; Jo., 2,14-16). (…) Questi fatti avvengono in Gerusalemme, ed il mondo intero ne è scosso. Le isole stanno in ascolto, i popoli lontani osservano e da Oriente ad Occidente ribollono come un torrente di gloria universale che straripa, e come l’impeto di un fiume che allieta la città di Dio (cfr. Is., 49,1). Epilogo (…) Sarete dunque in grado di custodire questi beni celesti a voi affidati con fedeltà e sicurezza se non confiderete mai nella vostra prudenza e nella vostra forza, ma solo nell’aiuto del Signore, sapendo che l’uomo non sarà mai sostenuto dalla propria forza (I Reg., 2,9) e ripetendo dunque col Profeta: Signore, mio sostegno, mio rifugio, mio liberatore (Ps., 17,3). Ed ancora: Custodirò per te la mia forza perché tu, o Dio, sei il mio difensore. Mio Dio, la tua misericordia mi verrà incontro (Ps. 58, 10-11). E infine: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo Nome dà forza (Ps. 113,1); affinché in ogni opera sia benedetto Colui che addestra le nostre mani alla battaglia, le nostre dita alla guerra (Ps., 143,1). San Bernardo di Chiaravalle, L’elogio della nuova Cavalleria, op. cit. 36


La Regola Regola dei Poveri Soldati di Cristo e del Tempio di Salomone nella Città Santa “Voi tutti certamente cercherete di ascoltare con pio e puro affetto le lodi mattutine e tutto intero il Divino Ufficio, secondo la canonica istituzione e la consuetudine dei Dottori Regolari della Città Santa, avendo rinunciato ai vostri propri piaceri e militando sotto il Sommo Re con cavalli e con armi per la salute delle anime. Perciò, o venerabili fratelli, questo a voi soprattutto tocca, perché prometteste perennemente di aver a vile, per amore di Dio, il mondo fallace, dopo aver disprezzata la luce della presente vita e non tenuto conto dei dolori dei vostri corpi; così dunque, rifocillati e saziati del Divino cibo, e istruiti e confermati nei Divini precetti, terminati i Divini misteri nessuno paventi la battaglia, ma sia preparato al premio. (…) Un verissimo testimonio ci riferì tuttavia che voi udite il Divino Ufficio con immoderato ed eccessivo stare: questo modo di fare non lo approviamo, anzi lo riproviamo, ma finito il Salmo e il Venite exultemus, (…) comandiamo che tutti siedano per evitare lo scandalo. Voi però che sedete, finito ciascun Salmo, nel recitare il Gloria Patri, per riverenza alla SS. Trinità alzatevi dai vostri sedili e rivolti verso l’Altare supplicate: e così pure aggiungiamo di stare nella recita del Vangelo, al Te Deum e per tutte le lodi, fino al termine del Benedicamus Domino, e questa regola sia seguita anche nel Mattutino di Santa Maria. (…) A pranzo e a cena sia sempre recitata la santa lezione. Se amiamo il Signore dobbiamo infatti attentissimamente udire i suoi precetti e le sue parole salutari; ed il lettore delle lezioni indichi il silenzio. Tre volte per settimana vi sia sufficiente di rifocillarvi di carne, a meno che non cada il giorno di Natale, di Pasqua, la festa della Madonna e di Tutti i Santi, perché il troppo mangiar carne guasta la salute del corpo. (…) Dopo pranzo e dopo cena comandiamo rigorosamente che con umile cuore si faccia il ringraziamento come si conviene, sempre in Chiesa, se è vicina, oppure dove ci si trova, al nostro Fattore Sommo, che è Cristo; con fraterna carità poi si devono (…) distribuire gli avanzi ai servi e ai poveri, riposto però il pane integro. (…) Quando poi il sole lascia la regione orientale e discende verso l’Ibernia, udito il segnale, secondo gli usi di questa stessa regione, bisogna che vi raduniate per le preghiere di compieta; però desideriamo che prima di questo tutti abbiate a fare una piccola refezione, che lasciamo a discrezione e giudizio del Maestro, affinché, quando a lui sembrerà opportuno, possa per sua misericordia comandare che venga distribuita soltanto acqua, o talvolta vino temperato secondo la giusta misura. (…) Finita dunque compieta dovete andare a letto; pertanto ai frati che escono da compieta non sia data alcuna licenza di parlare in pubblico se non per necessità, e quello che ciascuno deve dire al suo armigero, lo dica sommessamente.

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(…) Non lodiamo, così come pure a voi è manifesto, i militi che si alzano stanchi per le preghiere del mattino; ma col permesso del Maestro, o di colui al quale è stata affidata dal Maestro la direzione della casa, si lascino riposare, e si cantino senza di loro le tredici orazioni stabilite. (…) Questo però sempre a giudizio del Maestro. Si legge nel libro divino: “Veniva diviso fra tutti, secondo il bisogno di ognuno”: perciò non diciamo che vi debba essere considerazione di persone, ma considerazione di bisogni. Quando dunque uno è meno bisognoso, ringrazi il Signore e non si contristi; colui poi che umilmente ha bisogno, non si insuperbisca per la misericordia ricevuta, e così tutti i membri saranno in pace. Questo però proibiamo: che qualcuno abbracci astinenze smodate, ma viva sempre secondo la vita comunitaria. Agli armigeri e agli scudieri comandiamo che portino sempre la veste di un solo colore, per esempio bianco o nero, o, come suol dirsi, bigello: concediamo poi a tutti i militi professi, se è possibile, in inverno e in estate, il vestito bianco, affinché quelli che hanno abbandonato la vita tenebrosa del peccato sappiano, attraverso una vita limpida e bianca, riconciliarsi col loro Creatore. Che significa infatti la bianchezza se non l’integra castità? La castità è la sicurezza della mente e la sanità del corpo, e se ogni milite non preserverà nella castità, non potrà raggiungere il riposo eterno e vedere Dio, secondo le parole dell’Apostolo Paolo: “Cercate la pace e la castità con tutti, senza di essa non potete vedere il Signore”. Ma poiché tale vestito deve mancare di motivi o di arroganza e di ricercatezza, ordiniamo che sia tale per tutti, e che ognuno possa da solo, con facilità, indossarlo e toglierlo, e così mettersi e togliersi i calzari. Il procuratore posto a questo ufficio deve evitare (…) che qualcuno abbia il vestito troppo lungo o troppo corto, ma lo dia ai suoi fratelli misurato secondo la corporatura di ognuno. Quando poi i militi ricevono un nuovo vestito, ritornino sempre il vecchio al confratello incaricato, perché venga riposto dove verrà stabilito, per essere poi distribuito agli armigeri, ai clienti ed anche ai poveri. (…) Una volta i servi e gli armigeri avevano vestiti bianchi, donde provenivano gravi danni: sorsero infatti nelle parti di Oltremonte certi pseudo-frati, coniugati, e altri che dicevano di essere Templari pur essendo mondani. E questi procurarono all’Ordine Militare tante offese e tanti danni, e sotto la veste di clienti procurarono con la loro superbia molti scandali. Perciò portino sempre vesti nere, ma se non possono trovarle indossino pure quelle che possono trovare nella provincia in cui risiedono, o una veste, la meno nobile possibile, ma di un solo colore, cioè bigello: a nessuno infatti è concesso indossare le candide clamidi o avere mantelli bianchi, se non a coloro che sono stati nominati Militi di Cristo. Di comune consiglio decretiamo inoltre che nessun fratello abbia a indossare pelli, o pelliccia, o qualcosa del genere che appartenga all’uso del corpo, neanche la coperta, se non è pelle di agnello o di capretto. (…) E se qualche fratello, fuori del

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bisogno, per spirito di superbia volesse avere le più belle e le migliori, per tale presunzione merita assolutamente le peggiori. (…) Tutti i fratelli, specialmente quelli che sono fissi, devono avere i capelli tagliati in modo che si possano osservare regolati e ordinati sia davanti che di dietro; riguardo alla barba si osservi assolutamente la medesima regola, affinché non si possa denotare né vanità né ridicolaggine. (…) Agli altri poi che restano al servizio per un certo tempo, non permettiamo di portare né speroni e lacci, né la capigliatura troppo lunga, né le vesti smodatamente abbondanti; ma anzi, assolutamente lo proibiamo, perché a chi serve il Sommo Creatore è necessaria la mondezza tanto interna quanto esterna, secondo la testimonianza che dice: “Siate mondi, perché io sono mondo”. Ad ognuno di voi, militi, è permesso avere tre cavalli, perché la casa di Dio e l’esimia povertà del Tempio di Salomone non permettono al presente di poterne aumentare il numero, se non col permesso del Maestro. Ad ogni milite concediamo, per la medesima ragione, un solo armigero; ma se qualche milite avrà gratuitamente e caritatevolmente quell’armigero, non gli è lecito bastonarlo né, per qualsiasi colpa, percuoterlo. Comandiamo che si comperino con giustizia a tutti i soldati che desiderano servire per un certo tempo Gesù Cristo i cavalli adatti per il loro servizio quotidiano, e le armi e tutto ciò che ad essi è necessario. (…) E tutto ciò che sarà necessario al milite, al suo armigero o al suo cavallo venga procurato con carità fraterna dalla Casa, secondo le sue facoltà. Se poi in questo servizio, per qualche ragione, il milite perderà i suoi cavalli, il Maestro, data la facoltà del Tempio, gliene dia degli altri; quando poi sarà giunto il momento di rimpatriare, il milite donerà per amore di Dio la metà del prezzo, e se ne avrà piacere riceverà l’altra metà dai fratelli. Conviene poi che questi militi obbediscano sempre in tutto al loro Maestro, dal momento che non stimano niente al di sopra di Gesù Cristo, al servizio del quale sono votati, per la gloria della beatitudine eterna e per timore dell’inferno. Devono obbedire di maniera che appena il Maestro, o quello da lui incaricato, avrà dato un ordine, lo eseguano subito come se fosse un comando divino: di tali cose parla espressamente la Verità, che dice: “Mi obbediscono appena sentono”. Dunque comandiamo a tali militi che lasciano la propria volontà, e anche a quelli che servono per un certo tempo, che senza il permesso del Maestro, o del suo sostituto, non presumano assolutamente di andare in città, eccetto che di notte al Santo Sepolcro ed alle altre stazioni che sono dentro le mura della Città Santa. Coloro poi che camminano così non osino cominciare un viaggio, né di giorno né di notte, senza un custode, cioè un milite o un fratello a vita. Nell’esercito poi, quando saranno ospitati, nessun milite o armigero o servo cammini per gli atrii degli altri soldati, per vedere o per parlare con qualcuno senza il dovuto permesso. Pertanto comandiamo saggiamente che in questa Casa voluta da Dio nessuno cammini o stia a riposo secondo le proprie idee, ma sia del tutto soggetto all’ordine del 39


Maestro, affinché possa imitare quella sentenza del Signore che dice: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di chi mi ha mandato”. (…) Non vogliamo assolutamente che apparisca mai, né nei freni, né nei pettorali, né nei sandali, oro o argento, perché sono propriamente ricchezze, né è lecito ad alcun frate perpetuo di comperarne. Se per caso vengono dati vecchi strumenti per carità, l’oro e l’argento in essi contenuti vengano colati, affinché il loro colore o bellezza agli altri non sembrino arroganza. Se invece saranno donati nuovi, il Maestro ne faccia quello che crede. Non si usi copertura sugli scudi rotondi, né fodero nelle lance, perché questo nessuno lo stima come utile, anzi come dannoso a tutti noi. (…) A nessuno dei fratelli è permesso ricevere o mandare lettere ai propri parenti, né a qualsiasi uomo senza il premesso del maestro o del Procuratore. Dopo che il fratello ne avrà avuto licenza, si leggano alla presenza del Maestro, se questi lo desidera. Se poi gli sarà stato indirizzato qualcosa dai parenti, non osi prenderla se prima non ne sarà stato informato il Maestro. (…) (…) Noi comunemente giudichiamo che nessuno debba catturare uccelli per mezzo di richiami, perché non conviene alla religione abbandonarsi così ai piaceri mondani, ma bisogna ascoltare volentieri i comandi del Signore, darsi frequentemente alla preghiera e confessare a Dio i propri peccati ogni giorno con lacrime e gemiti nell’orazione: nessun fratello permanente presuma dunque di andare assieme ad un uomo che opera in tale maniera, cioè con lo sparviere o con qualche altro uccello. Ad ogni religioso conviene camminare con semplicità e senza ridere, umilmente, non pronunciare molte parole, ma assennate e non con voce assordante. Specialmente comandiamo ad ogni fratello professo che non si permetta di andare a frecciare nel bosco con arco o balestra, e nemmeno vada con chi abbia fatto tali cose, se non per preservarlo da qualche assalto dei saraceni; né osi gridare o aizzare i cani, né speronare il proprio cavallo per la voglia di pigliare qualche fiera. E’ cosa certa perché è affidato specialmente a voi, che dovete porre la vostra vita a bene dei fratelli d togliere dalla terra gli increduli che sempre minacciano il Figlio della Vergine, perché, riguardo al leone, leggiamo che esso va girando in cerca di qualcuno da divorare e si mette contro di tutti e tutti devono andare contro di lui. (…) Per Divina Provvidenza, come crediamo, ha avuto inizio da voi, nei Luoghi Santi, questo nuovo genere di religione, in modo di fondere la religione con la milizia, e così la religione proceda armata dalla milizia e possa ferire il nemico senza colpa. Giudichiamo dunque che per diritto, siccome siete chiamati Militi del Tempio, per insigne merito e per il dono speciale della probità possiate possedere terra e agricoltori e li amministriate giustamente (…). Bisogna usare una cura assidua per i fratelli ammalati e srevirli come si serve Cristo, tenendo a mente quel passo del Vangelo: “Fui ammalato e mi visitaste”. Questi ultimi si devono sopportare con pazienza e diligenza, perché si acquista certamente una ricompensa soprannaturale.

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(…) Bisogna evitare una colpa grave: che qualcuno ardisca di eccitare qualcun altro all’ira, perché la somma clemenza ha egualmente unito nella divina fratellanza i poveri e i potenti. (…) Se qualche milite dalla massa di perdizione (proveniente dalla vita mondana) o qualche secolare, volendo rinunciare al secolo, sceglierà la vostra compagnia e la vostra vita, non gli sia acconsentito subito, ma lo si ammetta secondo il detto di san Paolo: “Bisogna provare se gli spiriti sono da Dio”. Si legga dunque la Regola in sua presenza, e se lo stesso avrà obbedito diligentemente ai precetti della vostra Regola, se piacerà al Maestro e ai suoi fratelli radunati di riceverlo, esprima davanti a tutti con purità d’intenzione il suo desiderio e la sua domanda. Il termine poi del tempo di prova resta affidato al maestro, secondo l’onestà di vita del postulante. Ordiniamo inoltre di non radunare sempre tutti i fratelli al Concilio, ma solo quelli che il Maestro conoscerà più idonei e di valido aiuto. Però quando deve trattare delle cose più importanti (…), allora se ne avrà piacere il Maestro potrà convocare tutta la congregazione, e sentito il consiglio del Capitolo, farà ciò che gli sembrerà più utile e migliore. Ordiniamo inoltre che i fratelli, secondo che lo richiederà la condizione dell’anima e del corpo, preghino in piedi o seduti, ma sempre con grande riverenza, con semplicità e non rumorosamente, senza disturbarsi l’un l’altro. (…) Quantunque la Regola dei Santi Padri permetta di avere in congregazione dei fanciulli, noi non approviamo mai di addossarvene. Chi poi vorrà dare un figlio o un parente alla religione militare, lo nutra fino a quando potrà con mano armata distruggere i nemici di Cristo dalla Terra Santa. Quindi, secondo la Regola, il padre o i parenti lo portino in mezzo ai fratelli e dimostrino a tutti la sua domanda. E’ meglio non fare voti durante la fanciullezza, piuttosto che ritirarli dopo fatti uomini, commettendo così una grave enormità. (…) I fratelli che vanno nelle diverse province si studino di osservare, secondo le loro possibilità, la Regola nel bere, nel mangiare e in tutto il resto, e vivano in modo irreprensibile, cosicché possano essere ben giudicati dagli estranei. Non contaminino né con parole né con opere il voto della religione, ma mostrino a coloro coi quali saranno uniti l’esempio di sapienza e di buone opere. Colui presso il quale hanno stabilito di essere ospitati abbia una buona fama, e se è possibile la casa dell’ospite in quella notte non sia senza lume, affinché un nemico tenebroso non commetta qualche sua azione, il che auguriamo che non avvenga mai. Diciamo che devono dirigersi dove udirono che si riuniscono militi non scomunicati, non considerando tanto l’utilità temporale quanto la salute eterna delle loro anime. Per i frati poi che vanno nelle province di Oltremare con la speranza di fare nuovi proseliti, approviamo che ricevano coloro che vorranno perennemente congregarsi all’ordina militare, a condizione che tutti e due si presentino al vescovo di quella provincia, e il presule ascolti la volontà del postulante. Udita questa domanda, il fratello lo mandi al Maestro e ai fratelli che sono nel Tempio a Gerusalemme, e se la sua vita è onesta e degna di tale consorzio sia misericordiosamente accettato se sembrerà opportuno al maestro e ai fratelli. (…)

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(…) Se qualcuno, o parlando, o militando, o altrimenti, abbia commesso qualche colpa leggera, egli stesso manifesti il suo delitto al Maestro. Dei peccati leggeri, se non c’è consuetudine contraria, abbia una lieve penitenza. Se però, tacendo lui, fosse conosciuta la colpa per mezzo di qualche altro, soggiaccia ad un maggior castigo e correzione. Se invece il delitto sarà grave, sia ritirato dalla comunità dei fratelli e nello stesso tempo non mangi con loro alla stessa mensa, ma prenda il pasto da solo, sottostando al giudizio del Maestro, e sia così salvo nel giorno del giudizio. Prima di tutto, infatti, bisogna evitare che qualche fratello, potente o impotente, forte o debole, volendo esaltarsi e un po’ per volta insuperbire e giustificare la sua colpa, diventi indisciplinato: se avrà voluto emendarsi gli si applichi una punizione più rigida, se invece non avrà voluto fare ammenda malgrado pie esortazioni, dopo che si sia pregato per lui, ma anzi sarà cresciuto in superbia, allora, secondo l’Apostolo, sia sradicato dal gregge: “Allontanate il cattivo da voi”. Del resto il Maestro deve tenere in mano il bastone e la verga, il bastone cioè per sostenere le debolezze degli altri, la verga pure con cui colpire i vizi dei delinquenti; col desiderio della rettitudine dunque si studi, col consiglio del Patriarca e con la spirituale considerazione, affinché, come dice il beato Massimo: “La troppa dolcezza non toglie dall’abitudine del peccato, come la troppa severità non toglie dalla caduta”. (…) Vi comandiamo dunque di evitare e fuggire come peste le rivalità, l’odio, la mormorazione, i sussurri, le diffamazione, e questo per divino ordine. Cerchi ognuno con animo vigile di non accusare di nascosto o di riprendere il suo fratello, ma consideri attentamente le parole dell’Apostolo: “Non essere né accusatore né maldicente fra il popolo”. Quando poi scoprirà con certezza che il fratello ha mancato in qualche cosa, lo riprenda a tu per tu, con dolcezza e fraterna pietà, secondo il consiglio del Signore; e se egli non vorrà ascoltare, chiami un altro fratello e se non ascolterà né l’uno né l’altro sia rimproverato in convento alla presenza di tutti. Perché sono grandemente ciechi coloro che calunniano gli altri e molto infelici quelli che non si guardano dal livore, e per questo annegano nell’antica nequizia dell’astuto nemico. (…) Non nobis Domine non nobis sed Nomini Tuo da gloriam. Amen.”

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TERZA PARTE: LA SPIRITUALITA’ FRANCESCANA

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San Francesco e il Duecento “(…) All’interno della spiritualità del Duecento, Francesco si manifesta come espressione sublimata al massimo grado di quella “servitù d’amore” di cui il cavaliere era stato un simbolo in epoca feudale. Egli infatti era nato e cresciuto in un contesto di ideali cavallereschi; con la madre parlava francese e nella prima parte della sua vita cercò, senza riuscirvi, di fare il cavaliere, creando un suo piccolo e cercando la gloria sul campo di battaglia, secondo i modelli cavallereschi del tempo, sui quali si era formato. Ma poiché egli nacque in epoca comunale, quando era ormai morto il tempo dell’antica cavalleria, non riuscì più ad incarnare un ideale cavalleresco di tipo militare e così, una volta ferito e sconfitto, dopo un lungo periodo di convalescenza iniziò la sua conversione, abbracciando la sua vera Dama, la madonna Povertà: la sua guerra, la sua cavalleria divenne dunque questa, ed egli votò tutta la sua esistenza a madonna Povertà, arrivando a creare addirittura un Ordine religioso. Lui che non era neanche sacerdote, che era un laico, diventò così un faro per l’intera cristianità. In questo contesto di grande risveglio mistico, molto devozionale e molto orientale, di una spiritualità di tipo bhakti come quella dell’Italia duecentesca, Francesco esprime dunque il sentimento della semplicità assoluta, della rinuncia totale a quelli che erano i valori del tempo, fino ad abbracciare tutti gli uomini con questo senso di amore fraterno; per cui (…) i suoi confratelli non si chiameranno più monaci, non si chiameranno padri, abati, ecc., ma si chiameranno frati, fratelli, e quindi è proprio la fraternitas la caratteristica della spiritualità duecentesca italiana. Per cui questo “poverello d’Assisi” era un vero e proprio folle, un “pazzo in Cristo”, potremmo dire, che dopo essersi spogliato completamente nudo davanti al vescovo, al padre, al prefetto di Assisi, se ne andava in giro baciando i lebbrosi e mangiando nel loro stesso piatto; egli voleva inoltre che i suoi frati fossero “pazzi” quanto lui, che facessero le cose che faceva lui, era insomma una vera e propria “mina vagante” per la Chiesa del tempo e per i suoi stessi confratelli, che non riuscivano a seguirlo, non riuscivano a stargli dietro. La cosa interessante è che intorno a lui si è creato in pochissimo tempo un enorme gruppo, veramente enorme, che raccoglieva ad Assisi persone da tutta Europa, un gruppo che sarebbe potuto diventare anche molto eversivo nei confronti della Chiesa del tempo: lui fece invece una scelta molto precisa, quella cioè di sottomettersi all’autorità papale, una scelta che qualcuno considera discutibile, ma che in ogni caso ha fatto penetrare all’interno della Chiesa del tempo un elemento purificatore, che altrimenti non avrebbe potuto agire. Tant’è vero che lo stesso Papa Innocenzo III, prima che Francesco arrivasse a Roma, sognò che gli stava crollando una chiesa sulle spalle e che un frate sconosciuto lo stava aiutando a sorreggerla; per cui veramente, attraverso la sua azione, Francesco è riuscito a immettere nella Chiesa del tempo quell’elemento spirituale e trascendente che ne ha impedito, in un momento di crisi profonda, la completa sclerotizzazione. Un’altra cosa interessante è che Francesco è andato in Egitto, ha incontrato il Sultano, è stato in Terrasanta ed ha incontrato i cavalieri: lui disarmato e scalzo, i cavalieri armati ed a cavallo, sono dunque due diversi esempi, due diversi modi di 44


intendere la ricerca spirituale, che coesistevano entrambi, in questo periodo ricco di contraddizioni che è stato, appunto, il Medioevo latino. (…)” Pierluigi Gallo, Spiritualità del Medioevo latino op. cit. * “Nel lontano ottobre 1936, incontrandolo per la prima volta a Parigi, Louis Massignon (uno scrittore francese dedito alla ricerca di concordanze tra la vita di San Francesco e la tradizione islamica, n.d.r.) mi parlò con convinzione ed entusiasmo della Verna, di san Francesco, di Muhammad, della Mecca e di Medina: cose mai sentite, inaudite, strane. E dopo quel lungo e complicato discorso mi dette una consegna, che mai ho dimenticato: proprio perché ero un francescano della Verna, destinato allora alla missione dell’Alto Egitto, dovevo meditare sui misteriosi rapporti tra san Francesco a Damietta (nel campo del sultano, n.d.r.) e alla Verna, con la missione profetica di Muhammad, per adoperarmi a mettere in rilievo la speciale vocazione da Dio affidata a san Francesco e ai suoi figli, per il dialogo con l’Islam. (…) Profeta mandato da Dio alla sua Chiesa perché essa riscopra la via evangelica dell’accostarsi al mondo musulmano, nel sec. XIII Francesco, dopo sette secoli e mezzo, presenta il suo messaggio ai suoi figli e a tutti coloro che sono impegnati nel dialogo con l’Islam. (…) Ma uno degli aspetti essenziali della missione profetica del Santo, proprio quello concernente le relazioni con l’Islam, è purtroppo rimasto trascurato dai figli e dagli storici. (…) La testimonianza (…) data da Francesco dinanzi al sultano d’Egitto in Damietta, ha prodotto un addolcimento dell’Islam mistico e devoto, nella sottomissione più generosa e amorosa alla volontà di Dio. (…) E alla Verna la “Cristofania” resta l’assicurazione che per l’intercessione di san Francesco, attraverso le sue stimmate, l’Islam un giorno riconoscerà la realtà della crocifissione di Gesù sul Calvario, e potrà scoprire, come già alcuni dei suoi grandi mistici, che Dio è amore (…). Per la grazia e la luce che irradia dal Serafino crocifisso della Verna, per i meriti e l’intercessione di san Francesco stimmatizzato, anche ogni anima musulmana possa partecipare all’adozione dei figli di Dio ed entrare a vivere nel mistero della vita divina, di Dio uno e trino. (…)” G.Basetti Sani, L’Islam e Francesco d’Assisi, La Nuova Italia, Firenze 1975 * “(…) Il 3 ottobre 1226 alla Porziuncola Francesco benedisse i frati e li esortò all’amore. Era venuta la morte sorella a trovare il Santo della povertà. Frate Elia aveva il volto solcato da lagrime. Nel silenzio della verde Umbria, interrotto dal canto degli uccelli, forse Francesco ricordò la sua esperienza. Aveva ormai quarantaquattro anni e gli sembrò, in punto di morte, di avere vissuto un’eternità. Si rivide ancora giovane, quando aveva cominciato il suo apostolato. Con pochi amici aveva scoperto la gioia della povertà. 45


(…) A quarantaquattro anni, sul fare della sera, disteso sulla nuda terra in una cella minuscola, presso la Porziuncola, muore cantando. (…) Era l’ottobre del 1226. L’autunno umbro è consolante. L’ottobre è dorato e verde all’ombra degli ulivi che presto daranno i frutti. A Santa Maria degli Angeli riposa Francesco. La sua vita era stata avventurosa. (…) Ha lasciato speranze di liberazione e di salvezza. Tommaso da Celano dice che i frati nel tramonto videro l’anima di Francesco, avvolta in una nuvola d’argento, salire nel cielo.” F.Grisi, I fioretti di San Francesco, Newton Co., Roma 1993

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Vita di San Francesco A lode e gloria di Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo. Amen. Incomincia la vita del beatissimo padre nostro Francesco Costumi mondani della sua giovinezza Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco. Dai genitori ricevette fin dalla infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso. (…) (…) Sciupò miseramente il tempo, dall'infanzia fin quasi al suo venticinquesimo anno. Anzi, precedendo in queste vanità tutti i suoi coetanei, si era fatto promotore di mali e di stoltezze. (…) Così, circondato da facinorosi, avanzava altero e generoso per le piazze di Babilonia, fino a quando Dio, nella sua bontà, posando il suo sguardo su di lui, non allontanò da lui la sua ira e non mise in bocca al misero il freno della sua lode, perché non perisse del tutto. La mano del Signore si posò su di lui e la destra dell'Altissimo lo trasformò, perché, per suo mezzo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio. Dio visita il suo spirito con una malattia e un sogno Ecco dunque quest'uomo vivere nel peccato con passione giovanile! Trascinato dalla sua stessa età, dalle tendenze della gioventù e incapace di controllarsi, poteva soccombere al veleno dell'antico serpente (…) Ma la vendetta, o meglio la misericordia divina, all'improvviso richiama la sua coscienza traviata mediante angustia spirituale e infermità corporale, conforme al detto profetico: Assedierò la tua via di spine, la circonderò con un muro (Os 2,6 ). Colpito da una lunga malattia, come è necessario per la caparbietà umana, che non si corregge se non col castigo, egli cominciò effettivamente a cambiare il suo mondo interiore. Riavutosi un po', per ricuperare le forze, si mise a passeggiare qua e là per la casa, appoggiato ad un bastone. Un giorno uscì, ammirando con più attenzione la campagna circostante; ma tutto ciò che è gradevole a vedersi, la bellezza dei campi, l'amenità dei vigneti, non gli dava più alcun diletto. Era attonito di questo repentino mutamento e riteneva stolti tutti quelli che hanno il cuore attaccato a beni di tal sorta. Da quel giorno cominciò a far nessun conto di sé e a disprezzare ciò che prima aveva ammirato ed amato. Non tuttavia in modo perfetto e reale, perché non era ancora libero dai lacci della vanità, né aveva scosso a fondo il giogo della perversa schiavitù. (…) Pertanto Francesco cerca ancora di sottrarsi alla mano divina (…), sogna ancora grandi imprese per la gloria vana del mondo. Un cavaliere di Assisi stava allora organizzando grandi preparativi militari: pieno di ambizioni, per accaparrarsi maggior ricchezza e onore, aveva deciso di condurre le sue truppe fin nelle Puglie. Saputo questo, Francesco, leggero d'animo e molto audace, trattò subito per arruolarsi con lui: gli era inferiore per nobiltà di natali, ma superiore per grandezza d'animo; meno ricco, ma più generoso. 47


La sua mente era tutta consacrata al compimento di simile progetto, e aspettava ansioso l'ora di partire. Ma la notte precedente, Colui che l'aveva colpito con la verga della giustizia lo visitò in sogno con la dolcezza della grazia; e poiché era avido di gloria, lo conquise con lo stesso miraggio di una gloria più alta. Gli sembrò di vedere la casa tappezzata di armi: selle, scudi, lance e altri ordigni bellici, e se ne rallegrava grandemente, domandandosi stupito che cosa fosse. Il suo sguardo infatti non era abituato alla visione di quegli strumenti in casa, ma piuttosto a cataste di panno da vendere. E mentre era non poco sorpreso davanti all'avvenimento inaspettato, si sente dire: «Tutte queste armi sono per te e i tuoi soldati». La mattina dopo, destandosi, si alzò con il cuore inondato di gioia e, interpretando la visione come ottimo auspicio, non dubitava un istante del successo della sua spedizione nelle Puglie. Tuttavia non sapeva quello che diceva (…), ignorando ancora il compito che il Signore intendeva affidargli. (…) Ed ecco un’altra notte, mentre dorme, una voce gli parla par la seconda volta nella visione e gli chiede con insistenza dove voglia recarsi; egli per risposta espone il suo proposito di partire per combattere nelle Puglie, e la voce gli domanda chi possa giovargli meglio, se il servo o il padrone. Dice Francesco: “Il padrone!”. E l’altro: “Perché dunque cerchi il servo invece del padrone?”1 E Francesco: “Che vuoi che io faccia Signore?”. Ed il Signore a lui: “Torna alla tua terra nativa, perché la tua visione avrà per opera mia uno spirituale compimento”. Se ne ritorna senza indugio, divenuto già modello d’ubbidienza, e col rinunciare alla sua volontà, da Saulo si trasforma in Paolo. Saulo fu gettato a terra, e i duri colpi produssero dolci parole. Francesco cambia le armi carnali in spirituali, e invece della gloria militare riceve una divina investitura di sovranità. E poiché molti si stupivano della sua strana letizia, dicevano che sarebbe diventato un gran principe. (Vita II) Nasconde sotto il velo delle allegorie il segreto della sua trasformazione Già cambiato spiritualmente, ma senza lasciar nulla trapelare all'esterno, Francesco rinuncia a recarsi nelle Puglie e si impegna a conformare la sua volontà a quella divina. Si apparta un poco dal tumulto del mondo e dalla mercatura, e cerca di custodire Gesù Cristo nell'intimità del cuore. Come un mercante avveduto sottrae allo sguardo degli scettici la perla trovata, e segretamente si adopra a comprarla con la vendita di tutto il resto (...). Un giorno finalmente, dopo aver implorato con tutto il cuore la misericordia divina, gli fu rivelato dal Signore come doveva comportarsi. E fu ripieno di tanto gaudio da non poterlo contenere e da lasciare, pur non volendo, trasparire qualcosa agli uomini. Il grande amore che gli invadeva l'anima non gli permetteva ormai di tacere; tuttavia parlava in linguaggio enigmatico: (…) diiceva di rinunciare a partire per le Puglie, ma allo scopo di compiere magnanime imprese nella sua patria. Gli amici pensavano che avesse deciso di maritarsi e gli domandavano: «Vuoi forse prendere 1

Allusione al Papa Innocenzo III, “servo dei servi di Cristo”, che aveva indetto la Crociata, convocando i cavalieri nelle Puglie, da dove partire alla volta della Terra Santa (n.d.r.).

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moglie, Francesco?». Egli rispondeva: «Prenderò la sposa più nobile e bella che abbiate mai vista, superiore a tutte le altre in bellezza e sapienza». (…) Venduta ogni cosa, si libera anche del denaro ricavato Così il beato servo dell'Altissimo, sospinto e preparato dallo Spirito Santo, essendo scoccata l'ora stabilita si abbandona all'impulso della sua anima: calpesta i beni di questo mondo per la conquista di beni migliori. (…) Francesco pertanto balza in piedi, fa il segno della croce, appronta un cavallo, monta in sella e, portando con sé panni di scarlatto, parte veloce per Foligno. Ivi, secondo la sua abitudine, vende tutta la merce, e, con un colpo di fortuna, perfino il cavallo! Sul cammino del ritorno (…), avvicinandosi ad Assisi, si imbatte in una chiesa molto antica, fabbricata sul bordo della strada e dedicata a San Damiano, allora in stato di rovina per vecchiaia. Il nuovo cavaliere di Cristo si avvicina alla chiesa, e vedendola in quella miseranda condizione, si sente stringere il cuore. Vi entra con timore riverenziale e, incontrandovi un povero sacerdote, con grande fede gli bacia le mani consacrate, gli offre il denaro che reca con sé e gli manifesta i suoi proponimenti. Stupito per l'improvvisa conversione, il sacerdote quasi non crede a quanto odono le sue orecchie e ricusa di prendere quei soldi, temendo una burla. (…) Ma Francesco insiste e lo supplica ripetutamente di credere alle sue parole, e lo prega di accoglierlo con lui a servire il Signore. E finalmente il sacerdote gli permette di rimanere con lui, pur persistendo nel rifiuto del denaro, per paura dei parenti. Allora Francesco, vero dispregiatore della ricchezza, lo getta sopra una finestrella, incurante di esso, quanto della polvere. (…) Il padre lo perseguita e lo tiene prigioniero Mentre il servo dell'Altissimo viveva in quel luogo, suo padre andava cercando ovunque (…) notizie del figlio. Appena venne a conoscenza che Francesco dimorava in quel luogo e viveva in quella maniera, (…) radunò vicini e amici e corse senza indugio dal servo di Dio. Ma questi (…) si sottrasse alla loro ira, nascondendosi in un rifugio sotterraneo che si era preparato proprio in previsione di un simile pericolo. In quella fossa, che era sotto la casa ed era nota forse ad uno solo, rimase nascosto per un mese intero, non osando uscire che per stretta necessità. Mangiava nel buio del suo antro il cibo che di tanto in tanto gli veniva offerto, e ogni aiuto gli era dato nascostamente. (…) Benché chiuso in quel rifugio tenebroso, si sentiva inondato da indicibile gioia, mai provata fino allora. Animato da questa fiamma interiore, decise di uscire dal suo nascondiglio ed esporsi indifeso alle ingiurie dei persecutori. Si leva dunque prontamente e di scatto, pieno di zelo e di letizia, (…) e s'incammina verso la città, accusandosi, nel suo divino entusiasmo, di essersi attardato troppo per viltà. Tutti quelli che lo conoscevano, vedendolo riapparire e mettendo a confronto il suo stato attuale col passato, cominciarono a insultarlo, a chiamarlo mentecatto, a lanciargli contro pietre e fango. Quell'aspetto, macerato dalla penitenza, e quell'atteggiamento tanto diverso dal solito, li inducevano a pensare che tutti i suoi atti fossero frutto di fame patita e di follia. Ma (…) Francesco non si lasciava disanimare né sconfiggere da insulto alcuno e ringraziava Dio per quelle prove. (…)

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Quel vociare rumoroso e canzonatorio attorno a lui (…) rimbalzava di qua e di là toccando le orecchie di molti, finché giunse anche a quelle di suo padre. Questi, udito gridare il nome del figlio e saputo che proprio contro di lui era diretto il dileggio dei cittadini, subito andò da Francesco, non per liberarlo, ma per rovinarlo. Come il lupo assale la pecora, senza più alcun ritegno, con sguardo truce e minaccioso, afferrandolo con le mani, lo trascinò a casa. E, inaccessibile ad ogni senso di pietà, lo tenne prigioniero per più giorni in un ambiente oscuro, cercando di piegarlo alla sua volontà, prima con parole, poi con percosse e catene. Ma il giovane dalle stesse sofferenze traeva forza e risolutezza per realizzare il suo santo ideale. Né la debilitante reclusione né i martellanti rimbrotti gli fecero mai perdere la pazienza. (…) La madre lo libera, ed egli si spoglia davanti al vescovo di Assisi Affari urgenti costrinsero il padre ad assentarsi per un po' di tempo da casa, e il servo di Dio rimase legato nel suo sgabuzzino. Allora la madre, essendo rimasta sola con lui, disapprovando il metodo del marito, parlò con tenerezza al figlio, ma s'accorse che niente poteva dissuaderlo dalla sua scelta. E l'amore materno fu più forte di lei stessa: ne sciolse i legami, lasciandolo in libertà. Francesco, ringraziando Iddio onnipotente, senza perdere un istante se ne tornò al luogo dove aveva dimorato prima. (…) Frattanto il padre rincasa e, non trovandolo, (…) furente e imprecante corre da Francesco a San Damiano, nel tentativo di almeno allontanarlo dalla regione, se non gli riesce di piegarlo a ritornare alla sua vita precedente. Questa volta però (…) il figlio della grazia, appena sente che il padre terreno sta per sopraggiungere, gli va incontro spontaneamente, gioioso, dichiarando di non aver più paura delle catene e delle percosse, e di essere pronto a sopportare lietamente ogni male nel nome di Cristo. Allora il padre, visto vano ogni sforzo per distoglierlo dal nuovo cammino, rivolge tutto il suo interesse a farsi restituire il denaro. L'uomo di Dio aveva deciso di usarlo per i poveri e per il restauro della cappella; ma, staccato com'era da esso, non si lasciò sedurre dal miraggio apparente di poterne trarre del bene e non gli dispiacque affatto privarsene. Ritrovò la borsa del denaro che egli (…) aveva scagliato in mezzo alla polvere della finestra. Il recupero della somma placò in parte come un refrigerio l'ira e l'avidità del padre. Tuttavia impose al figlio di seguirlo davanti al vescovo della città, perché facesse nelle mani del prelato la rinuncia e la restituzione completa di quanto possedeva. (…) Comparso davanti al vescovo, Francesco non esita né indugia per nessun motivo: senza dire o aspettar parole, si toglie tutte le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti. Il vescovo, colpito da tanto coraggio e ammirandone il fervore e la risolutezza d'animo, immediatamente si alza, lo abbraccia e lo copre col suo stesso manto. Comprese chiaramente di essere testimone di un atto ispirato da Dio al suo servo, carico di un significato misterioso. Perciò da quel momento egli si costituì suo aiuto, protettore e conforto, avvolgendolo con sentimento di grande amore. (…) Assalito dai briganti è gettato nella neve, poi si applica a servire i lebbrosi Vestito di cenci, colui che un tempo si adornava di abiti purpurei se ne va per una selva, cantando le lodi di Dio in francese Ad un tratto, alcuni manigoldi si precipitano su di lui, domandandogli brutalmente chi sia. L'uomo di Dio risponde 50


impavido e sicuro: «Sono l'araldo del gran Re; vi interessa questo?». Quelli lo percuotono e lo gettano in una fossa piena di neve, dicendo: «Stattene lì, zotico araldo di Dio!». Ma egli, guardandosi attorno e scossasi di dosso la neve, appena i briganti sono spariti balza fuori dalla fossa e, tutto giulivo, riprende a cantare a gran voce, riempiendo il bosco con le lodi al Creatore di tutte le cose. Finalmente arriva ad un monastero, dove rimane parecchi giorni a far da sguattero di cucina. Per vestirsi ha un semplice camiciotto e chiede per cibarsi almeno un po' di brodo; ma non trovando pietà e neppure qualche vecchio abito, riparte, non per sdegno, ma per necessità, e si porta nella città di Gubbio. Qui da un vecchio amico riceve in dono una povera tonaca. Qualche tempo dopo, divulgandosi ovunque la fama di Francesco, il priore di quel monastero, pentitosi del trattamento usatogli, venne a chiedergli perdono, in nome del Signore, per sé e i suoi confratelli. Poi, come vero amante della umiltà perfetta, il Santo si reca tra i lebbrosi e vive con essi, per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi in decomposizione e ne cura le piaghe virulente (…). La vista dei lebbrosi infatti, come egli attesta, gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell'Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria. (…) Una volta, che aveva respinto malamente, contro la sua abitudine, poiché era molto cortese, un povero che gli aveva chiesto l'elemosina, pentitosi subito, ritenne vergognosa villania non esaudire le preghiere fatte in nome di un Re così grande. Prese allora la risoluzione di non negar mai ad alcuno, per quanto era in suo potere, qualunque cosa gli fosse domandata in nome di Dio. E fu fedele a questo proposito, fino a donare tutto se stesso, mettendo in pratica anche prima di predicarlo il consiglio evangelico: Dà a chi ti domanda qualcosa e non voltar le spalle a chi ti chiede un prestito (…). Restaura la chiesa di San Damiano. Vita delle religiose che vi dimorano La prima opera cui Francesco pose mano, appena libero dal giogo del padre terreno, fu di riedificare un tempio al Signore. Non pensa di costruirne uno nuovo, ma restaura una chiesa antica e diroccata; non scalza le fondamenta, ma edifica su di esse, lasciandone così, senza saperlo il primato a Cristo. (…) Tornato perciò nel luogo in cui, come si è detto, era stata costruita anticamente la chiesa di San Damiano, con la grazia dell'Altissimo in poco tempo la riparò con ogni diligenza. E’ questo il luogo beato e santo nel quale ebbe felice origine, per opera di Francesco stesso, l'Ordine glorioso delle «Povere Dame» e sante vergini, a quasi sei anni dalla sua conversione. E’ là che donna Chiara, pure nativa di Assisi, pietra preziosissima e fortissima, divenne la pietra basilare per tutte le altre pietre di questa famiglia religiosa. (…) Nobile di nascita, più nobile per grazia; vergine nel corpo, purissima di spirito; giovane di età, matura per saggezza; costante nel proposito, ardente ed entusiasta nell'amore a Dio; piena di sapienza e di umiltà; Chiara di nome, più chiara per vita, chiarissima per virtù. 51


Su di lei sorse il nobile edificio di preziosissime perle, la cui lode non può essere fatta da uomini, ma solo da Dio (…) E bastino ora queste poche parole per le vergini consacrate a Dio e devotissime ancelle di Cristo. La loro mirabile vita e la loro Regola encomiabile (…) richiedono uno studio particolare e un libro distinto. Francesco ripara la chiesa di Santa Maria della Porziuncola; poi, sentendo leggere un brano evangelico, lascia ogni cosa e inventa l’abito dei suoi frati Smesso l'abito secolare e restaurata la predetta chiesa, il servo di Dio si portò in un altro luogo vicino alla città di Assisi e si mise a riparare una seconda chiesa in rovina, quasi distrutta, non interrompendo la buona opera iniziata, prima d'averla condotta completamente a termine. Poi si trasferì nella località chiamata “la Porziuncola”, dove c'era un'antica chiesa in onore della Beata Vergine Madre di Dio, ormai abbandonata e negletta. Vedendola in quel misero stato, mosso a compassione (…) il Santo vi stabilì la sua dimora e terminò di ripararla nel terzo anno della sua conversione. L'abito che egli allora portava era simile a quello degli eremiti, con una cintura di cuoio, un bastone in mano e sandali ai piedi. Ma un giorno in cui in questa chiesa si leggeva il brano del Vangelo relativo al mandato affidato agli Apostoli di predicare, il Santo, che ne aveva intuito solo il senso generale, dopo la Messa pregò il sacerdote di spiegargli il passo. Il sacerdote glielo commentò punto per punto, e Francesco, udendo che i discepoli di Cristo non devono possedere né oro, né argento, né denaro, né portare bisaccia, né pane, né bastone per via, né avere calzari, né due tonache, ma soltanto predicare il Regno di Dio e la penitenza (…), subito, esultante di spirito Santo, esclamò: «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!». S'affretta allora il padre santo, tutto pieno di gioia, a realizzare il salutare ammonimento; non sopporta indugio alcuno a mettere in pratica fedelmente quanto ha sentito: si scioglie dai piedi i calzari, abbandona il suo bastone, si accontenta di una sola tunica, sostituisce la sua cintura con una corda. Da quell'istante confeziona. per sé una veste che riproduce l'immagine della croce, per tener lontane tutte le seduzioni del demonio; la fa ruvidissima, per crocifiggere la carne e tutti i suoi vizi (…) e peccati, e talmente povera e grossolana da rendere impossibile al mondo invidiargliela! Con altrettanta cura e devozione si impegnava a compiere gli altri insegnamenti uditi. Egli infatti non era mai stato un ascoltatore sordo del Vangelo, ma, affidando ad una encomiabile memoria tutto quello che ascoltava, cercava con ogni diligenza di eseguirlo alla lettera. Francesco predica la pace. Conversione dei primi frati Da allora, con grande fervore ed esultanza, egli cominciò a predicare la penitenza, edificando tutti con la semplicità della sua parola e la magnificenza del suo cuore. La sua parola era come fuoco bruciante, penetrava nell'intimo dei cuori, riempiendo tutti di ammirazione. Sembrava totalmente diverso da come era prima: tutto intento al cielo, disdegnava guardare la terra. (…)

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In ogni suo sermone, prima di comunicare la parola di Dio al popolo, augurava la pace, dicendo: «Il Signore vi dia la pace!» (…). Questa pace egli annunciava sempre sinceramente a uomini e donne, a tutti quanti incontrava o venivano a lui. In questo modo otteneva spesso, con la grazia del Signore, di indurre i nemici della pace e della propria salvezza, a diventare essi stessi figli della pace e desiderosi della salvezza eterna. Il primo tra quelli che seguirono l'uomo di Dio fu un abitante d'Assisi, devoto e semplice di spirito. Dopo di lui frate Bernardo, raccogliendo questo messaggio di pace, corse celermente al seguito del Santo di Dio per guadagnarsi il regno dei Cieli. Egli aveva già più volte ospitato Francesco nella sua casa; ne aveva osservato e sperimentato la vita e i costumi e, attratto dalla sua santità, cominciò a riflettere seriamente, finché si decise ad abbracciare la via della salvezza. Lo vedeva passare le notti in preghiera, dormire pochissimo e lodare il Signore e la gloriosa Vergine Madre sua, e, pieno di ammirazione pensava: «Veramente quest'uomo è un uomo di Dio!» Si affretta perciò, a vendere tutti i suoi beni, distribuendo il ricavato ai poveri, non ai parenti, e, trattenendo per sé solo il titolo di una perfezione maggiore, mette in pratica il consiglio evangelico: “Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che hai, dallo ai poveri, e avrai un tesoro in Cielo poi vieni e seguimi!” (…). Fatto questo, vestì l'abito e condivideva la vita di San Francesco, e stette sempre con lui, fino a quando, cresciuti i frati di numero, con l'obbedienza del pio padre fu inviato in altre regioni. La sua conversione a Dio servì di modello per tutti quelli che vennero dopo di lui: dovevano vendere i loro beni e distribuire il ricavato ai poveri. La venuta e la conversione di un uomo così pio riempirono Francesco di una gioia straordinaria: gli parve che il Signore avesse cura di lui, donandogli il compagno di cui ognuno ha bisogno e un amico fedele. (…) Spirito di profezia e predizioni di San Francesco (…) Un giorno, pieno di ammirazione per la misericordia del Signore in tutti i benefici a lui elargiti, desiderava conoscere dal Signore che cosa sarebbe stato della sua vita e di quella dei suoi frati. A questo scopo si ritirò, come spesso faceva, in un luogo adatto per la preghiera. Vi rimase a lungo invocando con timore e tremore il Dominatore di tutta la terra, ripensando con amarezza gli anni passati malamente e ripetendo: «O Dio, sii propizio a me peccatore!» (…). A poco a poco si sentì inondare nell'intimo del cuore di ineffabile letizia e immensa dolcezza. Cominciò come a uscire da sé: l'angoscia e le tenebre, che gli si erano addensate nell'animo per timore del peccato, scomparvero, ed ebbe la certezza di essere perdonato di tutte le sue colpe e di vivere nello stato di grazia. Poi, come rapito fuori di sé e trasportato in una grande luce, che dilatava lo spazio della sua mente poté contemplare liberamente il futuro. Quando quella luce e quella dolcezza dileguarono, egli aveva come uno spirito nuovo e pareva un altro. Allora fece ritorno ai suoi frati e disse loro pieno di gioia: «Carissimi, confortatevi e rallegratevi nel Signore; non vi rattristi il fatto di essere pochi; non vi spaventi la mia e vostra semplicità, perché, come mi ha rivelato il Signore, Egli ci renderà una innumerevole moltitudine e ci propagherà fino ai confini del mondo. Sono costretto a raccontarvi a vostro vantaggio quanto ho veduto; sarebbe più opportuno conservare il segreto, se la carità non mi costringesse a parlarne. Ho visto una gran quantità di uomini venire a noi, desiderosi di vivere con l'abito della santa Religione e 53


secondo la Regola del nostro beato Ordine. Risuona ancora nelle mie orecchie il rumore del loro andare e venire conforme al comando della santa obbedienza! Ho visto le strade affollate da loro, provenienti da quasi tutte le nazioni: accorrono francesi, spagnoli, tedeschi, inglesi; sopraggiunge la folla di altre varie lingue». Ascoltando queste parole, una santa gioia si impadronì dei frati, per la grazia che Iddio concedeva al suo Santo, perché assetati come erano del bene del prossimo, desideravano che ogni giorno venissero nuove anime ad accrescere il loro numero per trovarvi insieme salvezza. E Francesco riprese il suo discorso: «Per ringraziare con fedeltà e devozione il Signore Dio nostro per tutti i suoi doni, o fratelli, e perché conosciate come dobbiamo vivere ora e nel futuro, ascoltate la verità sugli avvenimenti futuri. All'inizio della vita del nostro Ordine troveremo frutti dolci e deliziosi, poi ne avremo altri meno gustosi; infine ne raccoglieremo di quelli tanto amari da non poterli mangiare, perché a motivo della loro asprezza saranno immangiabili per tutti, quantunque siano estremamente belli e profumati. Effettivamente, come vi dissi, il Signore ci farà crescere fino a diventate un popolo assai numeroso; poi avverrà come di un pescatore che, gettando le reti nel mare o in qualche lago, prende grande quantità di pesci (…), ma dopo averli messi tutti nella sua navicella essendo troppi, sceglie i migliori e i più grossi da riporre nei vasi e portar via, e abbandona gli altri». Di quanta verità e chiarezza rifulgano queste predizioni del Santo è manifesto a chiunque le consideri con spirito obiettivo e sincero. Ecco come lo spirito di profezia riposava su san Francesco! Francesco manda i frati a due a due nel mondo. Poco tempo dopo si ritrovano insieme (…) Allora il beato Francesco li radunò tutti insieme, e (…) li divise in quattro gruppi, di due ciascuno e disse loro: «Andate, carissimi, a due a due per le varie parti del mondo e annunciate agli uomini la pace e la penitenza in remissione dei peccati; e siate pazienti nelle persecuzioni, sicuri che il Signore adempirà il suo disegno e manterrà le sue promesse. Rispondete con umiltà a chi vi interroga, benedite chi vi perseguita, ringraziate chi vi ingiuria e vi calunnia, perché in cambio ci viene preparato il regno eterno». (…) Allora frate Bernardo con frate Egidio partì per Compostella, al santuario di San Giacomo, in Galizia; san Francesco con un altro compagno si scelse la valle di Rieti; gli altri quattro, a due a due, si incamminarono verso le altre due direzioni. Ma passato breve tempo, san Francesco, desiderando di rivederli tutti, pregò il Signore, il quale raccoglie i figli dispersi d'Israele (…), che si degnasse nella sua misericordia di riunirli presto. E tosto, secondo il suo desiderio e senza che alcuno li chiamasse, si ritrovarono insieme e resero grazie a Dio. Prendendo il cibo insieme manifestano calorosamente la loro gioia nel rivedere il pio pastore e la loro meraviglia per aver avuto il medesimo pensiero. (…) E così solevano fare sempre quando si recavano da lui; non gli nascondevano neppure il minimo pensiero e i moti involontari dell'anima, e dopo aver compiuto tutto ciò che era stato loro comandato, si ritenevano ancora servi inutili (…). E veramente la «purezza di cuore» riempiva a tal punto quel primo gruppo di discepoli del beato Francesco, che, pur sapendo operare cose utili, sante e rette, si mostrava del tutto incapace di trarne vana compiacenza. Allora il beato Francesco, stringendo a sé i figli 54


con grande amore, cominciò a manifestare a loro i suoi propositi e ciò che il Signore gli aveva rivelato. (…) Quando ebbe undici frati scrisse la prima Regola, che fu approvata da Innocenzo III Vedendo che di giorno in giorno aumentava il numero dei suoi seguaci, Francesco scrisse per sé e per i frati presenti e futuri, con semplicità e brevità, una norma di vita o Regola, composta soprattutto di espressioni del Vangelo, alla cui osservanza perfetta continuamente aspirava. Ma vi aggiunse poche altre direttive indispensabili e urgenti per una santa vita in comune. Poi, con tutti i suddetti frati, si recò a Roma, desiderando grandemente che il signor papa Innocenzo III, confermasse quanto aveva scritto. (…) (…) Era allora preposto alla Chiesa di Dio il signor papa Innocenzo III, uomo che si era coperto di gloria, dotto, ricco di eloquenza, ardente cultore della giustizia nel difendere i diritti e gli interessi della fede cristiana. Questi,. conosciuto il desiderio di quegli uomini di Dio, dopo matura riflessione diede il suo assenso alla loro richiesta, e lo completò dandogli effetto; li incoraggiò con molti consigli e li benedisse, dicendo: «Andate con Dio, fratelli, e come Egli si degnerà ispirarvi, predicate a tutti la penitenza. Quando il Signore onnipotente vi farà crescere in numero e grazia, ritornerete lieti a dirmelo, ed io vi concederò con più sicurezza altri favori e uffici più importanti». Veramente il Signore era con Francesco ovunque andasse, allietandolo con rivelazioni e animandolo con i suoi benefici. Una notte ebbe questa visione: sul ciglio della strada che stava percorrendo c'era un albero maestoso, robusto e bello, con un tronco enorme e altissimo. Avvicinatosi per osservarne la bellezza e grandezza, egli stesso all'improvviso crebbe tanto da poterne toccare la cima. Lo prese e con una sola mano lo piegò agevolmente fino a terra. Così era avvenuto veramente: papa Innocenzo, che è come l'albero più alto e potente del mondo, si era inchinato così benevolmente alla preghiera del beato Francesco. Ritorno del santo da Roma nella valle spoletana, e sua sosta nel viaggio Francesco con i compagni, pieno d'esultanza per il dono di un così grande padre e signore, ringraziò Iddio onnipotente, che innalza gli umili e conforta gli afflitti (…); fece subito visita alla basilica di San Pietro e, finita la sua preghiera, riprese con i fratelli il cammino di ritorno verso la valle di Spoleto. (…) I nuovi discepoli di Cristo avevano già conversato a lungo in ispirito di umiltà di questi santi argomenti, e il giorno volgeva al tramonto. Si trovavano, in quel momento, molto stanchi e affamati, in un luogo deserto, e non potevano trovare nulla da mangiare, poiché quel luogo era molto lontano dall'abitato. Ma all'improvviso, per divina provvidenza, apparve un uomo recante del pane; lo diede loro e se ne andò. Nessuno di loro l'aveva mai conosciuto, e perciò, pieni di ammirazione, si esortavano devotamente l'un l'altro a confidare sempre di più nella divina misericordia. (…) Alcuni di loro si recavano in città a cercare il vitto necessario e riportavano agli altri quanto erano riusciti a racimolare chiedendo l'elemosina di porta in porta, e lo mangiavano insieme lieti e ringraziando il Signore. Se avanzava qualcosa, quando non potevano donarla ai poveri, la riponevano in una fossa, che un tempo era servita da 55


sepolcro, per cibarsene il giorno seguente. Quel luogo era deserto e non vi passava quasi nessuno. Erano felicissimi di non vedere e di non possedere alcuna cosa vana o dilettevole ai sensi. Cominciarono così a stringere un patto d'alleanza con la santa povertà, e si proponevano di vivere con essa per sempre e dovunque, come in quel momento, tanta era la consolazione che provavano mentre erano privi di tutto ciò che il mondo ama. E poiché, liberi da ogni cura terrena, trovavano piacere solo nelle cose celesti, deliberano irrevocabilmente di non sciogliersi mai, per nessuna tribolazione o tentazione, dall'abbraccio della povertà. (…) Fama del beato Francesco e conversione di molti a Dio (…) Uomini e donne, chierici e religiosi accorrevano a gara a vedere e a sentire il Santo di Dio, che appariva a tutti come un uomo di un altro mondo. Persone di ogni età e sesso venivano sollecite ad ammirare le meraviglie che il Signore di nuovo compiva nel mondo per mezzo del suo servo. La presenza o anche la sola fama di san Francesco sembrava davvero una nuova luce mandata in quel tempo dal cielo a dissipare le caliginose tenebre che avevano invaso la terra, così che quasi più nessuno sapeva scorgere la via della salvezza. Erano infatti quasi tutti precipitati in una così profonda dimenticanza del Signore e dei suoi comandamenti, che appena sopportavano di smuoversi un poco dai loro vizi incalliti e inveterati. (…) Così in breve l'aspetto dell'intera regione si cambiò e, perdendo il suo orrore, divenne più ridente. (…) Ovunque risuonano azioni di grazie e inni di lode, e non pochi, lasciate le cure mondane, seguendo l'esempio e l'insegnamento di San Francesco, impararono a conoscere amare e rispettare il loro Creatore. Molti, nobili e plebei, chierici e laici, docili alla divina ispirazione, si recavano dal Santo, bramosi di schierarsi per sempre con lui e sotto la sua guida. E a tutti egli, come ricca sorgente di grazia celeste, dona le acque vivificanti che fanno sbocciare le virtù nel giardino del cuore. (…) A tutti dava una regola di vita, e indicava la via della salvezza a ciascuno secondo la propria condizione. Come la sua istituzione fu chiamata “Ordine dei Frati Minori” E’ ora il momento di concentrare l'attenzione soprattutto sull'Ordine che Francesco suscitò col suo amore e vivificò con la sua professione. Proprio lui infatti fondò l'Ordine dei frati minori, ed ecco in quale occasione gli diede tale nome. Mentre si scrivevano nella Regola quelle parole: «Siano minori», appena l'ebbe udite esclamò: «Voglio che questa Fraternità sia chiamata Ordine dei frati minori». E realmente erano «minori»; «sottomessi a tutti», ricercavano l'ultimo posto e gli uffici cui fosse legata qualche umiliazione, per gettare così le solide fondamenta della vera umiltà, sulla quale si potesse svolgere l'edificio spirituale di tutte le virtù. E davvero su questa solida base edificarono, splendida. la costruzione della carità. (…) Ogni volta che in qualche luogo o per strada, come poteva accadere, si incontravano, era una vera esplosione del loro affetto spirituale, il solo amore che sopra ogni altro amore è fonte di vera carità fraterna: ed erano casti abbracci, delicati sentimenti, santi baci, dolci colloqui, sorrisi modesti, aspetto lieto, occhio semplice, animo umile, parlare cortese, risposte gentili, piena unanimità nel loro ideale, pronto ossequio e instancabile reciproco servizio. 56


Formazione di coloro che vi entravano Questi docilissimi soldati non anteponevano (…) nulla ai comandi della santa obbedienza; vi si preparavano anzi in anticipo, e si precipitavano ad eseguire, senza discutere e rimosso ogni ostacolo, qualunque cosa veniva loro ordinata. Da cultori fedeli della santissima povertà, poiché non possedevano nulla, non s'attaccavano a nessuna cosa, e niente temevano di perdere. Erano contenti di una sola tonaca, talvolta rammendata dentro e fuori, tanto povera e senza ricercatezze da apparire in quella veste dei veri crocifissi per il mondo, e la stringevano ai fianchi con una corda, e portavano rozzi calzoni. Il loro santo proposito era di restare in quello stato, senza avere altro. Erano perciò sempre sereni, liberi da ogni ansietà e pensiero, senza affanni per il futuro; non si angustiavano neppure di assicurarsi un ospizio per la notte, anche se pativano grandi disagi nel viaggio. Sovente, durante il freddo più intenso, non trovando ospitalità, si rannicchiavano in un forno, o pernottavano in qualche spelonca. Di giorno, quelli che ne erano capaci, si impegnavano in lavori manuali, o nei ricoveri dei lebbrosi o in altri luoghi, servendo a tutti con umiltà e devozione. Non volevano esercitare nessun lavoro che potesse dar adito a scandalo, ma sempre si occupavano di cose sante e giuste, oneste e utili, dando esempio di umiltà e di pazienza a tutti coloro con i quali si trovavano. Amavano talmente la pazienza, che preferivano stare dove c'era da soffrire persecuzioni che non dove, essendo nota la loro santità, potevano godere i favori del mondo. Spesso, ingiuriati, vilipesi, percossi, spogliati, legati, incarcerati, sopportavano tutto virilmente, senza cercare alcuna difesa; dalle loro labbra anzi non usciva che un cantico di lode e di ringraziamento. Non cessavano quasi mai di pregare e lodare il Signore; esaminando ogni loro azione, ringraziavano Dio per il bene fatto e piangevano amaramente per le colpe e negligenze commesse. Quando poi nella preghiera non avvertivano la usuale dolcezza, si credevano abbandonati da Dio.(…) Se talvolta pareva loro di essere stati meno sobri del solito, per aver preso cibo e bevanda a sufficienza, oppure di aver oltrepassato sia pur per poco la misura della stretta necessità per la stanchezza del viaggio, si punivano aspramente con una astinenza di parecchi giorni. Si studiavano infine di domare gli istinti della carne con tal rigore, da non esitare spesso a tuffarsi nel ghiaccio e a martoriare il corpo tra i rovi acuminati rigandolo di sangue. Avevano tanto disprezzo per i beni terreni, che a stento sopportavano di accettare le cose più necessarie per vivere e, disabituati ormai da lungo tempo a qualsiasi comodità corporale, affrontavano senza paura alcuna le più dure privazioni. Ma mentre erano così severi con se stessi, il loro contegno era sempre garbato e pacifico con tutti; e attendevano solo a opere di edificazione e di pace, evitando con grande cura ogni motivo di mal esempio. Parlavano solamente quando era necessario, né mai dicevano parole scorrette o vane. In tutta la loro vita e attività non si poteva trovare nulla che non fosse onesto e retto. Dal loro atteggiamento traspariva sempre compostezza e modestia; e mortificavano talmente i propri sensi che non vedevano né sentivano se non quello che era essenziale e doveroso: sguardo rivolto a terra e mente fissa al cielo. Gelosia, malizia, rancore, diverbi, sospetto, amarezza non trovavano 57


posto in loro, ma soltanto grande concordia, costante serenità, azioni di grazia e di lode. Ecco i princìpi con i quali Francesco educava i suoi nuovi figli, e non semplicemente a parole, ma soprattutto con le opere e l'esempio della sua vita. Dimora a Rivotorto e osservanza della povertà Il beato Francesco era solito raccogliersi con i suoi compagni in un luogo presso Assisi, detto Rivotorto, ed erano felici, quegli arditi dispregiatori delle case grandi e belle, di un tugurio abbandonato ove potevano trovare riparo dalle bufere, perché, al dire di un santo, c'è maggior speranza di salire più presto in cielo dalle baracche che dai palazzi. Padre e figli se ne stavano così insieme, tra molti stenti e indigenze, non di raro privi anche del ristoro del pane, contenti di qualche rapa che andavano a mendicare per la pianura di Assisi. L'abitazione poi era tanto angusta, che a fatica vi potevano stare seduti o stesi a terra, tuttavia «non si udiva mormorazione né lamento; ognuno manteneva la sua giocondità di spirito e tutta la sua pazienza». (…) San Francesco insegnava loro non solo a combattere i vizi e a mortificare gli stimoli del corpo, ma anche a conservare puri i sensi esterni, per i quali la morte entra nell'anima. Passando un giorno per quelle contrade con grande pompa e clamore l'imperatore Ottone, che si recava a ricevere «la corona della terra», il santissimo padre non volle neppure uscire dal suo tugurio, che era vicino alla via di transito, né permise che i suoi vi andassero, eccetto uno, il quale doveva annunciare con fermezza all'imperatore che quella sua gloria sarebbe durata ben poco. Siccome il glorioso Santo aveva la sua dimora nell'intimo del cuore, dove preparava una degna abitazione a Dio, il mondo esteriore con il suo strepito non poteva mai distrarlo, né alcuna voce interrompere la grande opera a cui era intento. Si sentiva investito dall'autorità apostolica, e perciò ricusava fermamente di adulare re e principi. Cercava costantemente la santa semplicità, né ammetteva che l'angustia del luogo impedisse le espansioni dello spirito. Scrisse perciò i nomi dei frati sui travicelli della capanna, perché ognuno potesse riconoscervi il proprio posto per la preghiera e il riposo, e la ristrettezza del luogo non turbasse il raccoglimento dell'animo. (…) Il beato Francesco insegna ai frati a pregare. Obbedienza e purezza dei medesimi In quel tempo i frati gli chiesero con insistenza che insegnasse loro a pregare, perché, comportandosi con semplicità di spirito, non conoscevano ancora l'ufficio liturgico. Ed egli rispose: «Quando pregate, dite: “Padre nostro!” (…) e: “Ti adoriamo, o Cristo, in tutte le tue chiese che sono nel mondo e Ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo». (…) Fedeli alla esortazione di Francesco, essi, ogni volta che passavano vicino a una chiesa, oppure anche la scorgevano da lontano, si inchinavano in quella direzione e, proni col corpo e con lo spirito, adoravano l'Onnipotente, dicendo: «Ti adoriamo, o Cristo, qui e in tutte le chiese». E, cosa non meno ammirevole, altrettanto facevano dovunque capitava loro di vedere una croce o una forma di croce, per terra, sulle pareti, tra gli alberi, nelle siepi. Erano così pieni di santa semplicità, di innocenza, di purezza di cuore da ignorare ogni doppiezza. Come unica era la loro fede, così regnava in essi l'unità degli 58


animi, la concordia degli intenti e dei costumi, la stessa carità, la pratica delle virtù, la pietà degli atti, l'armonia dei pensieri. Il carro di fuoco e di come il beato Francesco, anche assente, vedeva i suoi frati Poiché camminavano con semplicità davanti a Dio e con coraggio davanti agli uomini, in quel tempo meritarono i santi frati la grazia di una rivelazione soprannaturale. Animati dal fuoco dello Spirito Santo, pregavano cantando il «Pater noster» su una melodia religiosa, non solo nei momenti prescritti, ma ad ogni ora, perché non erano preoccupati dalle cure materiali. Una volta che Francesco era assente, verso mezzanotte, mentre alcuni dormivano e altri pregavano fervorosamente in silenzio, entrò per la porticina della casa un carro di fuoco luminosissimo che fece due o tre giri per la stanza; su di esso poggiava un grande globo, che a guisa di sole rischiarò le tenebre notturne. I frati che vegliavano furono pieni di stupore, quelli che dormivano si destarono atterriti, sentendosi tutti quanti invasi da quella luce, non solo nel corpo, ma anche nello spirito. Riunitisi insieme, si domandavano il significato di quel misterioso fenomeno; ma ecco, per la virtù di tanto fulgore ognuno vedeva chiaramente nella coscienza dell'altro. Allora compresero e furono certi che si trattava dell'anima del beato padre, raggiante di così grande splendore, e che essa si era meritato da Dio quel dono straordinario di benedizione e di grazia, soprattutto a motivo della sua purezza e per la sua sollecitudine paterna verso i suoi figli. Spessissimo avevano avuto precisi e chiari indizi che Francesco, per la sua santità, poteva leggere i segreti della loro anima. Quante volte infatti, per rivelazione dello Spirito Santo, conobbe le vicende dei fratelli lontani, penetrò i cuori e le coscienze! Quanti avvertì in sogno di quello che dovevano fare o evitare! A quanti, che sembravano retti esteriormente, predisse il pericolo della perdizione, mentre ad altri, conoscendo il termine delle loro opere malvagie, predisse la grazia della salvezza! (…) La vigilanza sui suoi frati. Il disprezzo di se stesso. La vera umiltà Il beatissimo uomo Francesco (…) alla santa povertà riservava una cura tutta particolare e voleva che dominasse sempre da signora, tanto da non tollerare neppure il più piccolo utensile, appena s'accorgeva che si poteva farne a meno, temendo che vi si introducesse l'abitudine di confondere il necessario col superfluo. (…) Ovunque fosse ospitato di notte, non voleva materassi o coperte sul suo giaciglio, ma la nuda terra raccoglieva il suo nudo corpo avvolto solo nella tonaca. Quando poi concedeva un po' di riposo al suo corpo fragile, spesso stava seduto e non disteso, servendosi per guanciale di un legno o di una pietra. E quando lo prendeva desiderio di mangiare qualche cosa, come suole accadere a tutti, a stento si concedeva poi di mangiarla. Avendo un giorno mangiato un po' di pollo, perché infermo, riacquistate le energie per camminare si recò ad Assisi. Giunto alla porta della città, pregò un confratello che era con lui di legargli una fune attorno al collo e di trascinarlo per tutte le vie della città come un ladro, gridando: «Guardate questo ghiottone, che a vostra insaputa si è rimpinzato da gaudente di carne di gallina!». A tale spettacolo, molti, tra lacrime e sospiri, esclamavano: «Guai a noi miserabili, che abbiamo vissuto tutta la vita 59


solo per la carne, nutrendo il cuore e il corpo di lussuria e di crapule!». E tutti compunti erano guidati a miglior condotta da quell'esempio straordinario. E tante altre cose simili a queste egli compiva per praticare l'umiltà nel modo più perfetto possibile, che insieme gli attiravano però amore imperituro presso gli altri. (…) Spesso, quand'era da tutti esaltato, sentendosi ferito come da troppo acerbo dolore, controbilanciava e scacciava l'onore degli uomini, incaricando qualcuno di maltrattarlo. Chiamava per lo più qualche confratello e gli diceva: «Ti scongiuro per obbedienza di coprirmi di ingiurie, senza alcun riguardo e di dir la verità contro la falsità di costoro che mi elogiano». E quando quel fratello (ci si immagini quanto volentieri) lo chiamava villano, mercenario, buono a nulla, lui sorridendo e applaudendo diceva: «Ti benedica il Signore, perché dici cose verissime e quali convengono al figlio di Pietro di Bernardone». Con queste parole intendeva rammentare l'umiltà delle sue origini. Per farsi credere veramente degno di disprezzo e per dare agli altri esempio di una confessione sincera, se per caso commetteva qualche mancanza, non esitava a confessarla pubblicamente e sinceramente mentre predicava a tutto il popolo. Anzi, se gli capitava di pensar male, sia pur minimamente, di qualcuno, o gli sfuggiva qualche parola troppo forte, subito manifestava con tutta umiltà il suo peccato a colui che aveva osato giudicare, chiedendogli perdono. Pur non potendogli rimproverare proprio nulla, data la vigilanza che esercitava su di sé, la sua coscienza non gli dava pace, finché non avesse sanato con rimedio appropriato la ferita dell'anima. Bramava far progressi in qualsiasi specie di virtù, ma non voleva esser notato, per fuggire l'ammirazione e non cadere nella vanagloria. (…) Desideroso del martirio, Francesco cerca di andare missionario nella Spagna Poi in Siria, per suo merito, Dio moltiplica i viveri e scampa i naviganti dal naufragio Animato da ardente amore di Dio, il beatissimo padre Francesco desiderava sempre metter mano a grandi imprese, e, camminando con cuore generoso la via della volontà del Signore, anelava raggiungere la vetta della santità. Nel sesto anno dalla sua conversione, ardendo di un intrattenibile desiderio del martirio, decise di recarsi in Siria a predicare la fede e la penitenza ai Saraceni. Si imbarcò per quella regione, ma il vento avverso fece dirottare la nave verso la Schiavonia (Dalmazia, n.d.r.). Allora, deluso nel suo ardente desiderio e non essendoci per quell'anno nessun'altra nave in partenza verso la Siria, pregò alcuni marinai diretti ad Ancona di prenderlo con loro. Ne ebbe un netto rifiuto perché i viveri erano insufficienti. Ma il Santo, fiducioso nella bontà di Dio, salì di nascosto sulla imbarcazione col suo compagno. Ed ecco sopraggiungere, mosso dalla divina Provvidenza, un tale, sconosciuto a tutti, che consegnò ad uno dell'equipaggio che era timorato di Dio, delle vivande, dicendogli: «Prendi queste cose e dalle fedelmente a quei poveretti che sono nascosti nella nave, quando ne avranno bisogno». E avvenne che, scoppiata una paurosa burrasca, i marinai, affaticandosi per molti giorni a remare, consumarono tutti i loro viveri; poterono salvarsi solo con i viveri del poverello Francesco, i quali, moltiplicandosi per grazia di Dio, bastarono abbondantemente alla necessità di tutti finché giunsero al porto di Ancona. I naviganti compresero ch'erano stati scampati dai pericoli del mare per merito di Francesco, e ringraziarono l'onnipotente Iddio, che sempre si mostra mirabile e misericordioso nei suoi servi. 60


Lasciato il mare, il servo dell'Altissimo Francesco si mise a percorrere la terra, e solcandola col vomere della parola di Dio, vi seminava il seme di vita, che produce frutti benedetti. (…) E così, poco tempo dopo intraprese un viaggio missionario verso il Marocco, per annunciare (…) la Buona Novella. Era talmente vivo il suo desiderio apostolico, che gli capitava a volte di lasciare indietro il compagno di viaggio, affrettandosi nell'ebbrezza dello spirito ad eseguire il suo proposito. Ma la bontà di Dio (…) fece andare le cose diversamente, resistendogli in faccia. Infatti Francesco, giunto in Spagna, fu colpito da malattia e costretto a interrompere il viaggio. Ritornato a Santa Maria della Porziuncola, non molto tempo dopo gli si presentarono alcuni uomini letterati e alcuni nobili, ben felici di unirsi a lui. Da uomo nobile d'animo e prudente, egli li accolse con onore e dignità, dando paternamente a ciascuno ciò che doveva. E davvero, poiché era dotato di squisito e raro discernimento, teneva conto della condizione di ciascuno. Davanti al Sultano Ma non riesce ancora a darsi pace finché non attui, con tentativi ancor più audaci il suo bruciante sogno. E nel tredicesimo anno dalla sua conversione partì per la Siria, e mentre infuriavano aspre battaglie tra cristiani e pagani, preso con sé un compagno, non esitò a presentarsi al cospetto del Sultano. Chi potrebbe descrivere la sicurezza e il coraggio con cui gli stava davanti e gli parlava, e la decisione e l'eloquenza con cui rispondeva a quelli che ingiuriavano la legge cristiana? Prima di giungere al Sultano, i suoi sicari l'afferrarono, l'insultarono, lo sferzarono, ed egli non temette nulla: né minacce, né torture, né morte; e sebbene investito dall'odio brutale di molti, eccolo accolto dal Sultano con grande onore! Questi lo circondava di favori regalmente e, offrendogli molti doni, tentava di convertirlo alle ricchezze del mondo; ma, vedendolo disprezzare tutto risolutamente come spazzatura, ne rimase profondamente stupito, e lo guardava come un uomo diverso da tutti gli altri. Era molto commosso dalle sue parole e lo ascoltava molto volentieri. Ma in tutte queste cose il Signore non concedeva il compimento del desiderio del Santo, riservandogli il privilegio di una grazia singolare. Francesco predica agli uccelli e tutte le creature gli obbediscono Mentre, come si è detto, il numero dei frati andava aumentando, Francesco percorreva la valle Spoletana. Giunto presso Bevagna, vide raccolti insieme moltissimi uccelli d'ogni specie, colombe, cornacchie e «monachine». Il servo di Dio, Francesco, che era uomo pieno di ardente amore e nutriva grande pietà e tenero amore anche per le creature inferiori e irrazionali, corse da loro in fretta, lasciando sulla strada i compagni. Fattosi vicino, vedendo che lo attendevano, li salutò secondo il suo costume. Ma notando con grande stupore che non volevano volare via, come erano soliti fare, tutto felice, li esortò a voler ascoltare la parola di Dio. (…) Siccome poi era uomo semplice, non per natura ma per grazia divina, cominciò ad accusarsi di negligenza, per non aver predicato prima di allora agli uccelli, dato che questi ascoltavano così devotamente la parola di Dio; e da quel giorno cominciò ad invitare tutti i volatili, tutti gli animali, tutti i rettili ed anche le creature inanimate a lodare e ad amare il Creatore, poiché ogni giorno, invocando il nome del Signore, si accorgeva per esperienza personale quanto gli fossero obbedienti.

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Un giorno, recatosi ad Alviano a predicare e salito su un rialzo per essere visto da tutti, chiese silenzio. Ma mentre tutti tacevano in riverente attesa, molte rondini garrivano con grande strepito attorno a Francesco. Non riuscendo a farsi sentire dal popolo per quel rumore rivolto agli uccelli, disse: «Sorelle mie rondini, ora tocca a me a parlare, perché voi lo avete già fatto abbastanza; ascoltate la parola di Dio, zitte e quiete, finché il discorso sia finito». Ed ecco subito obbedirono: tacquero e non si mossero fino a predica terminata. Gli astanti, stupiti, davanti a questo segno dicevano: «Veramente quest'uomo è un santo e un amico dell'Altissimo!». E facevano a gara per toccargli le vesti con devozione, lodando e benedicendo Iddio. Era davvero cosa meravigliosa, poiché perfino le creature prive di ragione sapevano intendere l'affetto fraterno e il grande amore che Francesco nutriva per esse! Una volta, presso Greccio, gli fu portato da un confratello un leprotto preso vivo al laccio, e il santo uomo, commosso, disse: «Fratello leprotto, perché ti sei fatto acchiappare? Vieni da me». Subito la bestiola, lasciata libera dal frate, si rifugiò spontaneamente nel grembo di Francesco, come a un luogo assolutamente sicuro. Rimasto un poco in quella posizione, il padre santo, accarezzandolo con affetto materno, lo lasciò andare, perché tornasse libero nel bosco; ma quello, messo a terra più volte, rimbalzava in braccio a Francesco, finché questi non lo fece portare dai frati nella selva vicina. Lo stesso accadde con un coniglio animale difficilmente addomesticabile, nell'isola del lago di Perugia . Altrettanto affetto egli portava ai pesci, che, appena gli era possibile, rimetteva nell'acqua ancor vivi, raccomandando loro di non farsi pescare di nuovo. Un giorno standosi egli in una barchetta nel porto del piccolo lago di Piediluco, un pescatore gli offrì con riverenza una tinca che aveva appena pescato; egli accolse lietamente e premurosamente quel pesce, chiamandolo fratello poi lo ripose nell'acqua fuori della barca e cominciò a lodare il nome del Signore. E per un po' di tempo il pesce, giocando giulivo nell'acqua, non si allontanò, finché il Santo, finita la preghiera, non gli diede il permesso di partirsene. (…) San Francesco predica in Ascoli e per mezzo di oggetti toccati da lui, gli ammalati guariscono Nel tempo in cui, come si è detto, predicò agli uccelli, il venerabile padre Francesco, percorrendo città e villaggi per spargere ovunque la semente della benedizione, arrivò anche ad Ascoli Piceno. In questa città annunciò la parola di Dio con tanto fervore che tutti, pieni di devozione, per grazia del Signore accorrevano a lui, desiderosi di vederlo e ascoltarlo. La ressa della folla era straordinaria e ben trenta, tra chierici e laici, si fecero suoi discepoli, ricevendo dalle sue stesse mani l'abito religioso. Uomini e donne lo veneravano con tanta fede, che chiunque poteva toccargli la veste si considerava sommamente fortunato. Quand'egli entrava in una città, il clero gioiva, si suonavano le campane, gli uomini esultavano, si congratulavano le donne, i fanciulli applaudivano, e spesso gli andavano incontro con ramoscelli in mano e cantando dei salmi. L'eresia era coperta di confusione, la fede della Chiesa trionfava; mentre i fedeli erano ripieni di giubilo, gli eretici si rendevano latitanti. I segni della sua santità erano così evidenti, che nessun eretico osava disputare con lui, mentre tutta la folla gli obbediva.

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Egli riteneva sacrosanto dovere osservare, venerare e seguire in tutto e sopra ogni cosa gli insegnamenti della santa Chiesa romana, nella quale soltanto si trova la salvezza. Rispettava i sacerdoti e nutriva grandissimo amore per l'intera gerarchia ecclesiastica. I fedeli gli portavano pani da benedire e li conservavano a lungo, perché cibandosene guarivano dalle più diverse malattie. Sovente, spinti dalla grande fede, gli tagliuzzavano perfino la tonaca, per tenersene devotamente qualche parte, così che a volte il santo uomo restava quasi spoglio. E cosa più mirabile, qualche oggetto toccato dalla sua mano risanava gli infermi. (…) Purezza e costanza del suo spirito. Discorso davanti a Papa Onorio III. L'uomo di Dio Francesco si era abituato a cercare non il proprio interesse, ma soprattutto quanto vedeva necessario alla salvezza del prossimo, e sopra ogni altra cosa desiderava di essere liberato dal corpo e stare con Cristo (…). Era sempre intento alla preghiera, quando camminava e quando sedeva, quando mangiava e quando beveva. Di notte si recava, solo, nelle chiese abbandonate e sperdute a pregare; così, con la grazia del Signore, riusciva a trionfare di molti timori e di angustie spirituali. In quei luoghi doveva lottare corpo a corpo col demonio, che l'affrontava per spaventarlo non solo con tentazioni interiori, ma anche esteriormente con strepiti e rovine. Ma Francesco, da fortissimo soldato di Cristo, ben sapendo che il suo Signore poteva tutto dovunque, non si lasciava per nulla intimorire, ma ripeteva in cuor suo: «Non puoi, o maligno, scatenare contro di me le armi della tua malizia in questi luoghi, più di quanto mi faresti se fossimo tra la folla». Era veramente fermo e costante nel bene, e null'altro cercava se non di compiere la volontà di Dio. E infatti quando anche predicava la parola del Signore davanti a migliaia di persone, era tranquillo e sicuro, come se parlasse con il suo fratello e compagno. Ai suoi occhi un'immensa moltitudine di uditori era come un uomo solo, e con la stessa diligenza che usava per le folle predicava ad una sola persona. Dalla purezza del suo cuore attingeva la sicurezza della sua parola, e anche invitato all'improvviso, sapeva dire cose mirabili e mai udite prima. Quando invece si preparava prima accuratamente il discorso, gli poteva accadere che al momento di pronunciarlo non ricordasse più una parola, né altro poteva dire. Allora confessava a tutti candidamente e senza rossore che aveva preparato tante cose, ma le aveva tutte dimenticate. Ed ecco, all'improvviso parlava con tanta eloquenza da incantare gli uditori. Altre volte gli capitava di non riuscire a parlare affatto; allora congedava l'uditorio con la benedizione, e questo valeva più che se avesse tenuto una lunga predica. Recatosi una volta a Roma, per problemi dell'Ordine, sentì grande desiderio di predicare davanti a papa Onorio e ai cardinali. Venuto a saperlo, Ugolino, il glorioso vescovo di Ostia, che nutriva particolare affetto e ammirazione per il Santo di Dio, ne provò insieme gioia e timore, perché se ammirava il fervore di quel sant'uomo, ne conosceva però anche la ingenua semplicità; ma, confidando nella bontà dell'Onnipotente, che paternamente non lascia mai mancare ai suoi fedeli quanto è necessario, lo condusse davanti al Papa e ai cardinali. E Francesco, ricevuta la benedizione, alla presenza di così grandi principi incominciò a parlare senza timore. E 63


parlò con tanto fervore che, quasi fuori di sé per la gioia, mentre proferiva le parole muoveva anche i piedi quasi saltellando; ma quel suo strano comportamento, lungi dall'apparire un segno di leggerezza e dal suscitare riso, provenendo dall'ardore del suo cuore, induceva gli animi a intrattenibile pianto di compunzione. E molti di loro effettivamente ripieni di ammirazione per la grazia del Signore e per l'intrepido coraggio di quell'uomo, furono presi da sincero dolore. (…) Episodio della pecora e degli agnellini La sua carità si estendeva con cuore di fratello non solo agli uomini provati dal bisogno, ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a tutte le creature sensibili e insensibili. Aveva però una tenerezza particolare per gli agnelli, perché nella Scrittura Gesù Cristo è paragonato, spesso e a ragione, per la sua umiltà al mansueto agnello. Per lo stesso motivo il suo amore e la sua simpatia si volgevano in modo particolare a tutte quelle cose che potevano meglio raffigurare o riflettere l'immagine del Figlio di Dio. (…) Un altro giorno, pellegrinando per la stessa Marca, con il medesimo frate Paolo, che era ben felice d'accompagnarlo, si imbatterono in un uomo che portava al mercato due agnelli da vendere, legati, belanti e penzolanti dalle spalle. All'udire quei belati, il servo di Dio, vivamente commosso, si accostò, accarezzandoli, come suol fare una madre con i figlioletti che piangono, con tanta compassione e disse al padrone: «Perché tormenti i miei fratelli agnelli, tenendoli così legati e penzolanti?». Rispose: «Li porto al mercato e li vendo: ho bisogno di denaro». E Francesco: «Che ne avverrà?». E quello: «I compratori li uccideranno e li mangeranno». Nell'udire questo il Santo esclamò: «Non sia mai! Prendi come compenso il mio mantello e dammi gli agnelli». Quell'uomo fu ben felice di un simile baratto, perché il mantello, che Francesco aveva ricevuto a prestito da un uomo proprio quel giorno per ripararsi dal freddo, valeva molto di più delle due bestiole. Ma ricevuti gli agnellini, il Santo di nuovo si rese conto del problema imbarazzante: «Come provvedervi?» e, per consiglio di frate Paolo, li restituì al padrone, raccomandandogli di non venderli, di non recar loro danno alcuno, ma di mantenerli e custodirli con cura. Suo grande amore per le creature a motivo del Creatore. Suo ritratto fisico e morale Sarebbe troppo lungo, o addirittura impossibile narrare tutto quello che il glorioso padre Francesco compì e insegnò mentre era in vita. Come descrivere il suo ineffabile amore per le creature di Dio e con quanta dolcezza contemplava in esse la sapienza, la potenza e la bontà del Creatore? Proprio per questo motivo, quando mirava il sole, la luna, le stelle del firmamento, il suo animo si inondava di gaudio. (…) E quale estasi gli procurava la bellezza dei fiori, quando ammirava le loro forme o ne aspirava la delicata fragranza! (…) Se vedeva distese di fiori, si fermava a predicare loro e li invitava a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione, allo stesso modo le messi e le vigne, le pietre e le selve e le belle campagne, le acque correnti e i giardini verdeggianti, la terra e il fuoco, l'aria e il vento con semplicità e purità di cuore invitava ad amare e a lodare il Signore. E finalmente chiamava tutte le creature col nome di fratello e sorella, intuendone i segreti in modo mirabile e noto a nessun altro, perché aveva conquistato la 64


libertà della gloria riservata ai figli di Dio. Ed ora in cielo ti loda con gli angeli, o Signore, colui che sulla terra ti predicava degno di infinito amore a tutte le creature. E’ impossibile comprendere umanamente la sua commozione, quando proferiva il tuo Nome, o Dio! Allora, travolto dalla gioia e traboccante di castissima allegrezza, sembrava veramente un uomo nuovo e di altro mondo. Per questo, ovunque trovava qualche scritto, di cose divine o umane, per strada, in casa o sul pavimento, lo raccoglieva con grande rispetto riponendolo in un luogo sacro o almeno decoroso, nel timore che vi si trovasse il nome del Signore, o qualcosa che lo riguardasse. Avendogli una volta un confratello domandato perché raccogliesse con tanta premura perfino gli scritti dei pagani o quelli che certamente non contenevano il nome di Dio, rispose: «Figlio mio, perché tutte le lettere possono comporre quel nome santissimo; d'altronde, ogni bene che si trova negli uomini, pagani o no, va riferito a Dio, fonte di qualsiasi bene!». Cosa ancor più sorprendente, quando faceva scrivere messaggi di saluto o di esortazione, non permetteva che si cancellasse alcuna parola o sillaba, anche se superflua o errata. Quanto era incantevole, stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza di cuore, nell'amore di Dio, nella carità fraterna, nella prontezza dell'obbedienza, nella cortesia, nel suo aspetto angelico! Di carattere mite, di indole calmo, affabile nel parlare, cauto nell'ammonire, fedelissimo nell'adempimento dei compiti affidatigli, accorto nel consigliare, efficace nell'operare, amabile in tutto. Di mente serena, dolce di animo, di spirito sobrio, assorto nelle contemplazioni, costante nell'orazione e in tutto pieno di entusiasmo. Tenace nei propositi, saldo nella virtù, perseverante nella grazia, sempre uguale a se stesso. Veloce nel perdonare, lento all'ira, fervido di ingegno, di buona memoria, fine nelle discussioni, prudente nelle decisioni e di grande semplicità. Severo con se stesso, indulgente con gli altri. Era uomo facondissimo, di aspetto gioviale, di sguardo buono, mai indolente e mai altezzoso. Di statura piuttosto piccola, testa regolare e rotonda, volto un po' ovale e proteso, fronte piana e piccola, occhi neri, di misura normale e tutto semplicità, capelli pure oscuri, sopracciglia diritte, naso giusto, sottile e diritto, orecchie dritte ma piccole, tempie piane, lingua mite, bruciante e penetrante, voce robusta, dolce, chiara e sonora, denti uniti, uguali e bianchi, labbra piccole e sottili, barba nera e rara, spalle dritte, mani scarne, dita lunghe, unghie sporgenti, gambe snelle, piedi piccoli, pelle delicata, magro, veste ruvida, sonno brevissimo, mano generosissima. Nella sua incomparabile umiltà si mostrava buono e comprensivo con tutti, adattandosi in modo opportuno e saggio ai costumi di ognuno. Veramente più santo tra i santi, e tra i peccatori come uno di loro. Il presepio di Greccio (…) Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l'umiltà dell'Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro. A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore. C'era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama 65


e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l'asinello». Appena l'ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l'occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo. E giunge il giorno della letizia, il tempo dell'esultanza! Per l'occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s'accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l'asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l'umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme. Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l'Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima. (…) Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali. E davvero è avvenuto che in quella regione, giumenti e altri animali, colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati. Anzi, anche alcune donne che, durante un parto faticoso e doloroso, si posero addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito. Alla stessa maniera numerosi uomini e donne hanno ritrovato la salute. Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare e dedicata una chiesa ad onore di san Francesco, affinché là dove un tempo gli animali hanno mangiato il fieno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell'anima e santificazione del corpo, la carne dell'Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi. Egli con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna eternamente glorificato nei secoli dei secoli. Amen. Visione di un uomo in figura di Serafino crocifisso (…) Mentre dimorava nell’eremo che, dal luogo in cui è situato, si chiama la Verna, due anni prima di morire vide in una visione divina stare al di sopra di lui un uomo, con sei ali a guisa di Serafino, con le mani distese e i piedi uniti, confitto alla

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croce; due ali si alzavano sul capo, due si distendevano per volare, le due ultime coprivano tutto il corpo. A tal vista il beato servo dell’Altissimo rimaneva pieno di ammirazione, ma non sapeva comprendere il significato della visione. Si sentiva acceso di gioia per la dolcezza amorosa dello sguardo col quale era fissato dal Serafino di inestimabile bellezza, ma era atterrito dalla considerazione di quella croce cui era confitto e dall’amarezza della sua passione. Si alzò, se può dirsi così, triste e lieto ad un tempo, e il gaudio e il dolore si alternavano in lui. Intanto si sforzava di comprendere il significato della visione e da questo sforzo era tutto agitato il suo spirito. Non riusciva ad intendere nulla di preciso, e rimaneva preoccupato della singolarità dell’apparizione, quando cominciarono ad apparire nelle sue mani e nei suoi piedi segni di chiodi, come nell’uomo che poco prima sopra di sé aveva visto crocifisso. Le mani e i piedi suoi erano trafitti giusto nel mezzo da chiodi, le cui teste ci vedevano nel palmo della mano e nella parte superiore del piede, mentre le punte uscivano dalla parte opposta; erano rotondi quei sigilli nel palmo della mano, e sul dorso lunghi, ed appariva un po’ di carne, a guisa di punta di chiodi ritorta e ribadita, sporgente oltre l’altra carne. Così pure nei piedi erano impressi i segni dei chiodi, in rilievo sull’altra carne. Il lato destro poi era come trafitto da lancia, con una lunga cicatrice, e spesso mandava sangue. Ben pochi ebbero la fortuna di vedere la sacra ferita del costato del servo del Signore stimmatizzato mentre egli era in vita. Ma fortunato frate Elia che, ancor vivente il Santo, meritò di scorgerla almeno, e non meno fortunato frate Rufino che la poté toccare con le proprie mani. Mentre una volta gli praticava una frizione sul petto, la mano gli scivolò, come spesso capita, sul lato destro e così toccò quella preziosa cicatrice. Francesco ne sentì grande dolore e allontanò la mano, gridando che Dio lo perdonasse. Infatti con ogni cura teneva nascosto il prodigio agli estranei, ma anche agli amici e ai confratelli, tanto che non ne seppero nulla per lungo tempo perfino i suoi seguaci più intimi e devoti. Questo fedelissimo discepolo del Signore, pur vedendosi ornato con tali meravigliosi segni, quasi perle preziosissime del Cielo e coperto di gloria e onore più d'ogni altro uomo, non se ne gonfiò mai in cuor suo, né mai cercò di vantarsene con alcuno per desiderio di gloria vana, al contrario, temendo sempre che la stima degli uomini gli potesse rubare la grazia divina, si industriava il più possibile di tenerla celata agli occhi di tutti. Si era fatto un programma di non manifestare quasi a nessuno il suo straordinario segreto, nel timore che gli amici, non resistessero alla tentazione di divulgarlo per amicizia, come suole accadere, e gliene venisse una diminuzione di grazia. (…) Fervore di San Francesco e sua malattia agli occhi In quello stesso periodo, il suo corpo cominciò ad essere tormentato da mali fisici diversi e più violenti. Soffriva infatti parecchie malattie in conseguenza delle aspre penitenze cui già da anni sottoponeva il suo corpo. Esattamente per diciott'anni, quanti erano passati da quando aveva cominciato le sue peregrinazioni per varie e vaste regioni, impegnato a diffondere la parola evangelica, animato da costante e ardente spirito di fede, quasi mai si era preoccupato di dare un po' di riposo alle sue membra affrante. Aveva riempito la terra del Vangelo di Cristo. Era capace di passare per 67


quattro o cinque città in un sol giorno, annunciando a tutti il Regno di Dio. Edificava gli uditori non meno con l'esempio che con la parola, si potrebbe dire divenuto tutto lingua. (…) E siccome quella malattia si aggravava di giorno in giorno e sembrava peggiorare per la mancanza di ogni cura, frate Elia, che Francesco aveva scelto come madre per sé e costituito padre per gli altri frati, lo costrinse a non rifiutare i rimedi della medicina in nome del Figlio di Dio, che la creò, secondo la testimonianza della Scrittura: l'Altissimo ha creato in terra la medicina e il savio non la respingerà (Sir 38,4). A quelle parole Francesco obbedì. Al Cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, che lo riceve benevolmente a Rieti, il Santo predice la nomina a Sommo Pontefice Si provarono diversi medici con rimedi diversi, ma non se ne fece nulla; allora Francesco si recò a Rieti, dove si diceva dimorasse uno specialista molto esperto per la cura di quel male. Al suo arrivo fu accolto benevolmente e con amore da tutta la curia romana, che in quel periodo risiedeva in quella città, ma in modo tutto particolare lo ricevette con tanta devozione il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, famoso allora per rettitudine e santità di vita. Il beato Francesco lo aveva scelto col consenso e beneplacito del papa Onorio III, come signore e protettore del suo Ordine, proprio perché gli era cara la beata povertà e onorava assai la santa semplicità. Questo prelato imitava la vita dei frati e, desideroso di raggiungere la santità, era semplice con i semplici, umile con gli umili, povero con i poveri. Era un frate tra i frati, tra i minori il più piccolo e, per quanto gli era consentito, si ingegnava a diportarsi sempre come uno di loro nella sua vita e nei suoi costumi. (…) Quante volte, deposte le ricche vesti e indossatene altre rozze, lo si vedeva andarsene a piedi scalzi come un frate minore, per portare la pace. Ogni volta che gli si presentava l'occasione, si adoperava con ardore a ristabilire questa pace tra l'uomo e il prossimo e tra l'uomo e Dio. Per questo il Signore lo scelse poco tempo dopo come Pastore di tutta la sua santa Chiesa, conferendogli autorità e potenza su tutti i popoli.(…) Il cardinale Ugolino (…) nutriva profondo affetto per il Santo; gradiva quindi ogni sua parola e atto, anzi spesso si rasserenava tutto al solo vederlo. (…) Si diportava con Francesco come il servo rispetto al suo padrone; lo ossequiava come un apostolo di Cristo, e sovente, inchinandosi, lo riveriva, baciandogli le mani. Con devozione e sollecitudine si preoccupava di trovare un rimedio per far ricuperare al beato padre la sanità degli occhi, perché lo riteneva un uomo santo e giusto e necessario e molto utile alla Chiesa di Dio. (…) Perciò esortava il beato padre, a prendersi cura di sé e a non ricusare i mezzi necessari, ricordandogli che questa trascuratezza gli poteva essere imputata a peccato piuttosto che a merito. In spirito di umile obbedienza a questi autorevoli ammonimenti, San Francesco decise di avere con meno scrupolo un po' di riguardo per il suo male. Ma era ormai troppo tardi. Il male si era tanto aggravato, che per ricavarne anche solo un piccolo beneficio si richiedevano somma perizia medica e strazianti rimedi. Difatti, gli si bruciarono con ferri roventi le parti del capo credute lese, si incisero delle vene, si applicarono impiastri, si iniettarono collirii ma senza alcun miglioramento; anzi, l'infermità parve peggiorare sempre più.

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Ritorno di Francesco da Siena ad Assisi La chiesa di Santa Maria della Porziuncola e la benedizione ai frati (…) Sei mesi prima della sua morte, dimorando a Siena per la cura degli occhi, cominciò ad ammalarsi gravemente per tutto il corpo. A seguito di una rottura dei vasi sanguigni dello stomaco, a causa della disfunzione del fegato, ebbe abbondanti sbocchi di sangue, tanto da far temere imminente la fine. Frate Elia, a quella notizia, accorse in fretta da lontano e, al suo arrivo, Francesco migliorò al punto che poté lasciare Siena e recarsi con lui alle Celle presso Cortona. Ma dopo pochi giorni dall'arrivo, il male riprese il sopravvento: gli si gonfiò il ventre, si inturgidirono gambe e piedi, e lo stomaco peggiorò talmente che gli riusciva quasi impossibile ritenere qualsiasi cibo. Chiese allora a frate Elia il favore di farlo riportare ad Assisi. Da buon figliuolo questi eseguì la richiesta del caro padre prendendo tutte le precauzioni necessarie, anzi ve lo accompagnò personalmente. L'intera città esultò alla venuta del Santo e tutti ne lodavano Iddio, poiché tutto il popolo sperava che il Santo finisse i suoi giorni tra le mura della sua città, e questo era il motivo di tale esultanza. (…) Intanto le sue condizioni si aggravavano sempre i più, tutte le forze lo abbandonavano, e Francesco fu costretto all'immobilità. Eppure, quando un frate gli domandò un giorno se preferisse sopportare quella sofferenza grave e incessante o il martirio del carnefice, rispose: «O figlio, e sempre stato ed è per me più caro e dolce e gradito ciò che al Signore mio Dio più piace avvenga in me, e alla sua volontà soltanto voglio costantemente e in tutto trovarmi concorde, obbediente e docile. Ma se dovessi fare un paragone, dovrei dire che sopportare anche solo per tre giorni questa malattia mi sarebbe più doloroso di qualsiasi martirio; non parlo, evidentemente, in riferimento al premio, ma solo alla molestia che questa forma di passione arreca». (…) Quando sentì che stava per giungere il momento della sua partenza da questa terra, - come gli era stato anche indicato da una rivelazione divina due anni prima, convocati attorno a sé i suoi frati che desiderava rivedere, impartì a ciascuno la benedizione, conforme a quanto gli veniva indicato dal cielo (…). Alla sua sinistra stava frate Elia e tutti attorno gli altri suoi figli. Egli allora incrociò le braccia per porre la destre sul capo di frate Elia ed, essendo cieco, domandò: «Su chi tengo la mia mano?». «Su frate Elia», gli risposero. «Così voglio anch'io», disse, e aggiunse: «Ti benedico, o figlio, in tutto e per tutto; e come l'Altissimo, sotto la tua direzione, rese numerosi i miei fratelli e figlioli, così su te e in te li benedico tutti. In cielo e in terra ti benedica Iddio, Re di tutte le cose. Ti benedico come posso e più di quanto è in mio potere, e quello che non posso fare io, lo faccia in te Colui che tutto può. Si ricordi Dio del tuo lavoro e della tua opera e ti riservi la tua mercede nel giorno della retribuzione dei giusti. Che tu possa trovare qualunque benedizione desideri e sia esaudita qualsiasi tua giusta domanda». «Addio figli miei tutti, vivete nel timore di Dio e rimanete in Lui sempre, perché sta per sopraggiungere su di voi una prova e tribolazione assai grande e paurosa. Beati quelli che persevereranno nelle sante opere intraprese; non pochi purtroppo si separeranno da loro a causa degli scandali. Quanto a me mi affretto verso il Signore; ho fiducia di giungere al mio Dio cui ho servito devotamente nel mio spirito». Dimorava allora il Santo nel palazzo del vescovo di Assisi, e pregò i frati di trasportarlo in fretta a Santa Maria della Porziuncola, volendo rendere l'anima a Dio là 69


dove, come abbiamo detto, per la prima volta aveva conosciuto chiaramente la via della verità. Ultime parole e atti prima della morte Erano ormai trascorsi vent'anni dalla sua conversione e, come gli era stato comunicato per divina rivelazione, la sua ultima ora stava per scadere. Era avvenuto così. Mentre il beato Francesco e frate Elia dimoravano insieme a Foligno, una notte apparve in sogno a frate Elia un sacerdote bianco-vestito, di aspetto grave e venerando, che gli disse: «Va, fratello, e avverti Francesco che, essendosi compiuti diciott'anni da quando rinunciò al mondo per seguire Cristo, gli rimangono solo due anni e poi il Signore lo chiamerà a sé nell'altra vita». Così dunque stava per compiersi esattamente quanto la parola di Dio aveva annunciato due anni prima. Da pochi giorni riposava in quel luogo tanto bramato, e sentendo che l'ora della morte era ormai imminente, chiamò a sé due suoi frati e figli prediletti, perché a piena voce cantassero le Lodi al Signore con animo gioioso per l'approssimarsi della morte, anzi della vera vita. (…) Poi si fece portare il libro dei Vangeli, pregando che gli fosse letto il brano del Vangelo secondo Giovanni, che inizia con le parole: Sei giorni prima della Pasqua, sapendo Gesù ch'era giunta l'ora di passare da questo mondo al Padre (Gv 12,1; 13,1). Questo stesso passo si era proposto di leggergli il ministro, ancora prima di averne l'ordine, e lo stesso si presentò alla prima apertura del libro, sebbene quel volume contenesse tutta intera la Bibbia. E dato che presto sarebbe diventato terra e cenere, volle che gli si mettesse indosso il cilicio e venisse cosparso di cenere. E mentre molti frati, di cui era padre e guida, stavano ivi raccolti con riverenza e attendevano il beato «transito» e la benedetta fine, quell'anima santissima si sciolse dalla carne, per salire nell'eterna luce, e il corpo s'addormentò nel Signore. Uno dei suoi frati e discepoli, molto celebre, del quale non dico il nome, perché essendo tuttora vivente non vuole trarre gloria da un sì grande privilegio, vide l'anima del santissimo padre salire dritta al cielo al di sopra di molte acque; ed era come una stella, grande come la luna, splendente come il sole e trasportata da una candida nuvoletta. (…) Pianto e gaudio die frati che ammirano in lui i segni della crocifissione. Le ali del Serafino. Ed ecco, la gente accorre in massa, e glorifica Dio (…). A frotte accorre tutto il popolo d'Assisi e dei dintorni, per vedere i prodigi divini, che il Signore di maestà aveva manifestato nel santo suo servo. Ciascuno innalzava un inno di giubilo, come il cuore gli dettava, tutti poi benedicevano l'onnipotenza del Salvatore, che aveva esaudito il loro desiderio. Ma i figli si dolevano d'essere stati privati di un tale padre e sfogavano il loro dolore con lacrime e sospiri. Pure, una gioia misteriosa temperava la loro mestizia e la novità del miracolo riempiva le loro menti di straordinario stupore. Così il lutto si cambiò in cantico e il pianto in giubilo. Infatti mai avevano udito né letto quello che ora vedevano con i loro 70


occhi, e a stento ci avrebbero creduto se non ne avessero avuto davanti una prova così evidente. Veramente in Francesco appariva l'immagine della croce e della Passione dell'Agnello immacolato (…) che lavò i peccati del mondo: sembrava appena deposto dal patibolo, con le mani e i piedi trafitti dai chiodi e il lato destro ferito dalla lancia (…). Vedevano ancora la sua carne, che prima era bruna, risplendere ora di un bel candore, una bellezza sovrumana, che comprovava in lui il premio della beata resurrezione. Ammiravano infine il suo volto simile a quello di un angelo (…), quasi fosse vivo e non morto, e le altre sue membra divenute morbide e flessibili come quelle di un bimbo. Niente contrazione dei nervi, indurimento della pelle, irrigidimento del corpo, come suole accadere per chi è morto, ma la stessa mobilità di movimenti degli esseri viventi! Mentre risplendeva davanti a tutti per sì meravigliosa bellezza e la sua carne si faceva sempre più diafana, era meraviglioso scorgere al centro delle mani e dei piedi, non i fori dei chiodi, ma i chiodi medesimi formati di carne dal color del ferro e il costato imporporato dal sangue. E quelle stimmate di martirio non incutevano timore a nessuno, bensì conferivano decoro e ornamento, come pietruzze nere in un pavimento candido. I suoi frati e figli accorrevano solleciti e piangendo baciavano le mani e i piedi del padre amoroso che li aveva lasciati, ed anche quel lato destro sanguinante, ricordo di Colui che versando sangue e acqua dal suo petto aveva riconciliato il mondo (…) con il Padre. Ognuno dei fedeli stimava grandissimo privilegio se riusciva, non dico a baciare ma anche solo a vedere le sacre stimmate di Cristo che Francesco portava impresse nel suo corpo (…). Tutto questo realizzò a perfezione il beato padre Francesco, che ebbe figura e forma di Serafino e, perseverando a vivere crocifisso, meritò di volare all'altezza degli spiriti celesti. E veramente non si staccò mai dalla croce, perché non si sottrasse mai a nessuna fatica e sofferenza, pur di realizzare in sé e di sé la volontà del Signore. (…) Il pianto delle Povere dame di San Damiano e la sepoltura di Francesco I suoi frati e figli insieme alle folle accorse dai paesi vicini per avere la gioia di partecipare ai solenni funerali, passarono l'intera notte in cui Francesco morì, pregando e salmodiando; ed era tale la dolcezza dei canti e lo splendore delle luci da far pensare ad una veglia di angeli. All'indomani all'alba arrivarono i cittadini di Assisi con tutto il clero e, prelevando il sacro corpo, lo trasportarono onorevolmente in città tra inni e canti e squilli di trombe. Celebrando insieme la solennità di quelle esequie, tutti si erano muniti di rami d'ulivo e di altri alberi e procedevano cantando a piena voce preghiere e lodi al Signore nello splendore di innumerevoli ceri. I figli portavano il loro Padre, il gregge seguiva il suo pastore, che li aveva preceduti incontro al Pastore universale. Quando giunsero al luogo dove egli aveva fondato l'Ordine religioso delle sacre vergini e Donne Povere, deposero il sacro corpo nella chiesa di San Damiano, dove dimoravano quelle sue figlie dilette ch'egli aveva conquistate al Signore, e fu aperta la piccola grata attraverso la quale le ancelle di Cristo sogliono ricevere nei tempi stabiliti l'Eucarestia. Fu aperto anche il feretro, che conteneva quel tesoro di celesti virtù, portato ora da pochi, lui che era solito portare molti durante la sua vita . Ed ecco donna 71


Chiara, che era veramente chiara per ricchezza di meriti, prima madre di tutte le altre, perché era stata la prima pianticella di quella religiosa famiglia, viene con le figlie a vedere il Padre che più non parla con loro e non ritornerà più tra loro, perché se ne va altrove. (…) Giunti finalmente in città, con gioiosa esultanza tumularono il venerabile corpo in un luogo già sacro, ma ora più sacro, perché santificato dalla presenza delle spoglie di Francesco. Qui egli, a gloria dell'onnipotente e sommo Iddio, continua a illuminare il mondo con i miracoli, come prima l'aveva illuminato con la sua santa predicazione. Siano rese grazie a Dio. Amen.” Frà Tommaso da Celano, Vita Prima

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I Fioretti di San Francesco (…) In questo libro si contengono certi fioretti, miracoli ed esempi divoti del glorioso poverello di Cristo messer santo Francesco e d’alquanti suoi santi compagni. (…) “(…) In prima è da considerare che ‘l glorioso messere santo Francesco in tutti gli atti della sua vita fu conforme a Cristo benedetto: ché come Cristo nel principio della sua predicazione elesse dodici Apostoli a dispregiare ogni cosa mondana, a seguitare lui in povertà e nell’altre virtù, così santo Francesco elesse dal principio del fondamento dell’Ordine dodici compagni possessori dell’altissima povertà. Di frate Bernardo di Quintavalle, primo compagno di santo Francesco (…) Il primo compagno di santo Francesco si fu frate Bernardo d’Ascesi, il quale si convertì a questo modo: che essendo Francesco ancora in abito secolare, benché già esso avesse disprezzato il mondo e andando tutto dispetto e mortificato per la penitenza, intanto che da molti era reputato stolto, e come era schernito e scacciato con pietre, (…) ed egli in ogni ingiuria e ischerno passandosi paziente come sordo e muto, messere Bernardo d’Ascesi, il quale era de’ più nobili e de’ più savi della città, cominciò a considerare saviamente in santo Francesco il così eccessivo dispregio del mondo e la grande pazienza delle ingiurie (…), e cominciò a pensare e a dire fra sé medesimo: “Per nessun modo puote che questo Francesco non abbia grande grazia di Dio.” E sì lo invitò la sera a cena e albergo; e santo Francesco accettò e cenò la sera con lui e albergò. (…) E poi ch’ebbono udita la messa e istati in orazione insino a terza, il prete, a’ preghi di santo Francesco, preso il messale e fatto il segno della santissima croce, si lo aperse nel nome del nostro Signore Gesù Cristo tre volte: e nella prima apritura occorse quella parola che disse Cristo nel Vangelo al giovane che domandò della via della perfezione: Se tu vuogli essere perfetto, và e vendi ciò che tu hai, e da’ a’ poveri, e seguita me. Nella seconda apritura occorse quella parola che disse Cristo agli Apostoli, quando li mandò a predicare: Non portate nessuna cosa per via, né bastone, né tasca, né calzamenti, né danari; volendo per questo ammaestrarli che tutta la loro isperanza del vivere dovessono portare in Dio, ed avere tutta la loro intenzione a predicare il santo Vangelo. Nella terza apritura del messale occorse quella parola che Cristo disse: Chi vuole venire dopo me, abbandoni se medesimo, tolga la croce sua e seguiti me. Allora disse santo Francesco a messere Bernardo: “Ecco il consiglio che Cristo ci dà: và adunque e fa compiutamente quello che tu hai udito; e sia benedetto il nostro Signore Gesù Cristo, il quale ha degnato di mostrarci la sua vita evangelica”. Udito questo, si partì messere Bernardo, e vendé ciò ch’egli avea (ed era molto ricco), e con grande allegrezza distribuì ogni cosa a’ poveri, a vedove, a orfani, a prigioni, a monisterii e a spedali; e in ogni cosa santo Francesco fedelmente e providamente l’aiutava. (…) E santo Francesco dicea di lui ch’egli era degno di ogni reverenza e ch’egli avea fondato quest’Ordine; impero ch’egli era il primo che avea abbandonato il mondo, non riserbandosi nulla, ma dando ogni cosa a’ poveri di Cristo, e cominciata la povertà evangelica, offrendo sé ignudo nelle braccia del Crocifisso. Il quale sia da noi benedetto in saecula seculorum. Amen.

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Come andando per cammino santo Francesco e frate Leone, gli spuose quelle cose che sono perfetta letizia (…) Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angioli in Ascesi con frate Lione a tempo di verno, e ‘l freddo grandissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Lione il quale andava innanzi, e disse così: “Frate Lione, avvegnandioché li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione, nintemeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia”. E andando più oltre santo Francesco, il chiamò la seconda volta: “O frate Lione, benché il frate Minore allumini li ciechi e distenda gli attratti, iscacci le dimonia, renda l’udir alli sordi e l’andare alli zoppi, il parlare alli mutoli e, chè maggior cosa, risusciti li morti di quattro dì, iscrivi che non è in ciò perfetta letizia”. E andando un poco, santo Francesco grida forte: “O frate Lione, se ‘l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini, iscrivi che non è in ciò perfetta letizia”. Andando un poco più oltre, santo Francesco chiamava ancora forte: “O frate Lione, pecorella di Dio, benché il frate Minore parli con lingua d’Agnolo, e sappia i corsi delle istelle e le virtù delle erbe, e fussongli rivelati tutti i tesori della terra, e conoscesse le virtù degli uccelli e de’ pesci e di tutti gli animali e delle pietre e delle acque, iscrivi che non è in ciò perfetta letizia”. E andando ancora un pezzo, santo Francesco chiamò forte: “O frate Lione, benché ‘l frate Minore sapesse sì bene predicare che convertisse tutti glìinfedeli alla fede di Cristo, iscrivi che non è ivi perfetta letizia”. E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Lione, con grande ammirazione il domandò e disse: “Padre, io ti priego dalla parte di Dio che tu mi dica dove è perfetta letizia”. E santo Francesco sì gli rispuose: “Quando noi saremo a Santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ‘l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi? E noi diremo: Noi siamo due de’ vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via! E non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino a notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello poritinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi, o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia. E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà (…), se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore, o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia. E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolezzato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore, o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia.

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E però odi la conclusione, frate Lione: sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio, onde dice l’Apostolo: Che hai tu, che non abbi da Dio? E se tu l’hai avuto da lui, perché te ne glorii, come se tu l’avessi da te? Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo: Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo.” (…) Come frate Masseo (…) disse a santo Francesco che a lui tutto il mondo andava dietro, ed egli rispuose che ciò era a confusione del mondo e grazia di Dio, “perch’io sono il più vile del mondo” (…) Dimorando una volta santo Francesco nel luogo della Porziuncola con frate Masseo da Marignano, uomo di grande santità, discrezione e grazia nel parlare di Dio, per la qual cosa santo Francesco molto l’amava, uno dì tornando santo Francesco dalla selva e dalla orazione (…), il detto frate Masseo volle provare sì com’egli fusse umile, e feciegliesi incontra, e quasi proverbiando disse: “Perché a te? Perché a te? Perché a te?”. Santo Francesco risponde: “Che è quello che tu vuoi dire?”. Disse frate Masseo: “Dico, perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo nel corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile: onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?”. Udendo questo santo Francesco, tutto rallegrato in ispirito, rizzando la faccia al cielo, per grande spazio istette colla mente levata in Dio; e poi ritornando in sé, s’inginocchiò e rendette laude e grazia a Dio; e poi con grande fervore di spirito si rivolse a frate Masseo e disse: “Vuoi sapere perché a me? Vuoi sapere perché a me? Vuoi sapere perché a me tutto ‘l mondo mi venga dietro? Questo io ho da quelli occhi dello altissimo Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: imperciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno”. Allora frate Masseo, a così umile risposta, detta con fervore, sì si spaventò e conobbe certamente che santo Francesco era veramente fondato in umiltà. (…) Come santo Francesco fece aggirare intorno più volte frate Masseo, e poi se n’andò a Siena (…) Andando un dì santo Francesco per cammino con frate Masseo, il detto frate Masseo andava un po’ innanzi; e giungendo a un trivio di via, per lo quale si potea andare a Firenze, Siena e Arezzo, disse frate Masseo: “Padre, per quale via dobbiamo noi andare?”. Risponde santo Francesco: “Per quella che Dio vorrà”. Disse frate Masseo: “E come potremo noi sapere la volontà di Dio?”. Risponde santo Francesco: “Al segnale ch’io mostrerò; onde io ti comando per lo merito della santa obbidienza, che in questo trivio, nello luogo ove tu tieni i piedi, t’aggiri intorno, intorno, come fanno i fanciulli, e non ristare di volgerti s’io non tel dico”. Allora frate Masseo incominciò a volgersi in giro; e tanto si volse, che per la vertigine del capo, la quale si suole generare per cotale girare, egli cadde più volte in terra; ma 75


non dicendogli santo Francesco che ristesse ed egli volendo fedelmente ubbidire, si rizzava. Alla fine, quando si volgeva forte, disse santo Francesco: “Sta’ fermo e non ti muovere”. Ed egli stette; e santo Francesco il domanda: “Inverso che parte tieni la faccia?”. Risponde frate Masseo: “Inverso Siena”. Disse allora santo Francesco: “Quella è la via per la quale Iddio vuole che noi andiamo”. Andando per quella via, frate Masseo fortemente si maravigliò di quello che santo Francesco gli avea fatto fare, come fanciulli, dinanzi a’ secolari che passavano; nondimeno per riverenza non ardiva di dire niente al padre santo. (…) Come santo Francesco (…) predicò agli uccelli e fece stare quete le rondini (…) E passando oltre con quello fervore, levò gli occhi e vide alquanti arbori allato alla via, in su’ quali era quasi infinita moltitudine d’uccelli; di che santo Francesco si maravigliò e disse a’ compagni: “Voi m’aspetterete qui nella via, e io andrò a predicare alle mie sirocchie uccelli”. E entrò nel campo e cominciò a predicare alli uccelli ch’erano in terra; e subitamente quelli ch’erano in su gli arbori se ne vennono a lui insieme tutti quanti e stettono fermi, mentre che santo Francesco compie di predicare; e poi anche non si partivano infino a tanto ch’egli diè loro la benedizione sua. E (…) andando santo Francesco fra loro, toccandole colla cappa, nessuna perciò si movea. La sustanza della predica di santo Francesco fu questa: “Sirocchie mie uccelli, voi siete molto tenute a Dio vostro creatore, e sempre e in ogni luogo il dovete laudare, imperò che v’ha dato la libertà di volare in ogni luogo; anche v’ha dato il vestimento duplicato e triplicato; appresso, appresso, perché elli riserbò il seme di voi nell’arca di Noè, acciò che la spezie vostra non venisse meno nel mondo; ancora gli siete tenute per lo elemento dell’aria ch’egli ha deputato a voi. Oltre a questo, voi non seminate e non mietete, e Iddio vi pasce e davvi li fiumi e le fonti per vostro bene, e davvi i monti e le valli per vostro refugio, e gli alberi alti per fare li vostri nidi. E con ciò sia cosa che voi non sappiate filare né cucire, Iddio vi veste, voi e’ vostri figliuoli. Onde molto v’ama il vostro Creatore, poi ch’egli vi dà tanti benefici; e però guardatevi, sirocchie mie, dal peccato dell’ingratitudine, e sempre vi studiate di lodare Iddio.” Dicendo loro santo Francesco queste parole, tutti quanti quelli uccelli cominciarono ad aprire i becchi e distendere i colli e aprire l’alie e riverentemente inchinare li capi infino a terra, e con atti e con canti dimostrare che ‘l padre santo dava loro grandissimo diletto. E santo Francesco con loro insieme si rallegrava e dilettava, e maravigliavasi molto di tanta moltitudine d’uccelli e della loro bellissima varietà e della loro attenzione e famigliarità; per la qual cosa egli in loro divotamente lodava il Creatore. Finalmente, compiuta la predicazione, santo Francesco fece loro il segno della Croce e diè loro licenza di partirsi; e allora tutti quelli uccelli si levarono in aria con maravigliosi canti, e poi secondo la Croce ch’avea fatta loro santo Francesco si divisono in quattro parti: e l’una parte volò inverso l’oriente e l’altra parta verso occidente, e l’altra parte verso lo meriggio e la quarta parte verso l’aquilone, e ciascuna schiera s’andava cantando maravigliosi canti, in questo significando che come da santo Francesco gonfaloniere della Croce di Cristo era stato a loro predicato e sopra loro fatto il segno della Croce, secondo il quale egli si divisono in quattro parti del mondo, così la predicazione della Croce di Crosto rinnovata per santo Francesco si dovea per lui e per li suoi frati portare per tutto il mondo; li quali frati, a modo che gli uccelli, non possedendo alcuna cosa propria in questo mondo, alla sola provvidenza di Dio commettono la loro vita. (…)

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Del maraviglioso Capitolo che tenne santo Francesco a Santa Maria degli Agnoli, doive furono oltre a cinquemila frati (..) Il fedele servo di Cristo santo Francesco tenne una volta un Capitolo generale a Santa Maria degli Agnoli, al quale Capitolo si raunò oltre cinquemila frati; e vennevi santo Domenico, capo e fondamento dell’Ordine de’ frati Predicatori, il quale allora andava di Borgogna a Roma, e udendo la congregazione del Capitolo che santo Francesco facea nel piano di Santa Maria degli Agnoli, sì lo andò a vedere con sette frati dell’Ordine suo. (…) E veggendo sedere in quella pianura intorno a Santa Maria i frati a schiera, qui quaranta, ove cento, dove ottanta insieme, tutti occupati nel ragionare di Dio, in orazioni, in lagrime, in esercizi di carità; e stavano con tanto silenzio e con tanta modestia, che ivi non si sentia uno romore, nessuno stropiccìo; e maravigliandosi di tanta moltitudine in uno così ordinata, con lagrime e con grande divozione dicea: “Veramente questo è sì il campo e lo esercito de’ cavalieri di Dio!”. Non si udiva in tanta moltitudine niuno parlare favole o bugie, ma dovunque si raunava ischiera di frati, quelli oravano, o eglino diceano ufficio, o piagneano i peccati loro o dei loro benefattori, o l’ragionavano della salute delle anime. Erano in quel campo tetti di graticci o di stuoie, e distinti per torme, secondo i frati di diverse Provincie, e però si chiamava quel Capitolo, il Capitolo di graticci ovvero di stuoie. I letti loro si era la piana terra, e chi avea un poco di paglia; i capezzali si erano o pietre o legni. Per la qual ragione si era tanta divozione di loro, a chiunque li udiva o vedeva, e tanto la fama della loro santità, che della corte del Papa, ch’era allora a Perugia, e delle altre terre della valle di Spulito veniano a vedere molti conti, baroni e cavalieri ed altri gentili uomini e molti popolani e cardinali e vescovi e abati e con molti altri chierici, per vedere quella così santa e grande congregazione e umile, la quale il mondo non ebbe mai, di tanti santi uomini insieme; e principalmente veniano a vedere il capo e padre santissimo di quella santa gente, il quale avea rubato al mondo così bella preda e raunato così bello e divoto gregge a seguitarne l’orme del vero pastore Gesù Cristo. Del santissimo miracolo che fece santo Francesco, quando convertì il ferocissimo lupo d’Agobbio (…) Al tempo che santo Francesco dimorava nella città di Agobbio, nel contado di Agobbio apparì un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali ma eziandio gli uomini; in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura, però che spesse volte s’appressava alla città; e tutti andavano armati quando uscivano dalla città, come s’eglino andossono a combattere; e con tutto ciò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scpntrava solo. E per paura di questo lupo e’ vennono a tanto, che nessuno era ardito d’uscire fuori della terra. Per la qual cosa avendo compassione santo Francesco agli uomini della terra, sì volle uscire fuori a questo lupo, bene che li cittadini al tutto non gliel consigliavano; e facendosi il segno della santissima Croce, uscì fuori della terra egli co’ suoi compagni, tutta la sua confidanza ponendo in Dio. E dubitando gli altri di andare più oltre, santo Francesco prese il cammino inverso il luogo dove era il lupo. Ed ecco che (…) il lupo si fa incontro a santo Francesco, con la bocca apeta; ed appressandosi a lui, santo Francesco gli fa il segno della Croce, e chiamollo a sé e disse così:m “Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona”. Mirabile cosa a dire! Immantanente che santo Francesco ebbe fatta la Croce, il lupo terribile chiuse la bocca e ristette di correre; e fatto il comandamento, venne 77


mansuetamente come agnello, e gittossi alli piedi di santo Francesco a giacere. E santo Francesco gli parlò così: “Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malefici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza; e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto l’ardire d’uccidere uomini fatti all’immagine di Dio, per la qual cosa tu se’ degno delle forche come ladro e omicida pessimo, e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica.Ma io voglio, frate lupo,far la pace fra te e costoro, sicché tu non gli offenda più, ed eglino ti perdonino ogni passata offesa, e né li uomini né li cani ti perseguitino più”. E dette queste parole, il lupo con atti di corpo e di coda e di orecchi e con inchinare il capo mostrava d’accettare ciò che santo Francesco dicea e di volerlo osservare. Allora santo Francesco disse: “Frate lupo, poiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto ch’io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché non patirai più la fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male. Ma poich’io t’accatto questa grazia, io voglio, frate lupo, che tu mi imprometta che tu non nocerai a nessuna persona umana né ad animale: promettimi tu questo?”. E il lupo, con inchinate di capo, fece evidente segnale che ‘l prometteva. E santo Francesco sì dice: “Frate lupo, io voglio che tu mi facci fede di questa promessa, acciò ch’io me ne possa bene fidare”. E distendendo la mano santo Francesco per ricevere la sua fede, il lupo levò il piè ritto dinanzi, e dimesticamente lo puose sopra la mano di santo Francesco, dandogli quello segnale ch’egli potea di fede. (…) E poi il detto lupo vivette due anni in Agobbio, ed entravasi dimesticamente per le case, sanza fare male a persona e sanza esserne fatto a lui; e fu nutricato cortesemente dalla gente, e andandosi così per la terra e per le case, giammai nessuno cane gli abbaiava dietro. Finalmente dopo due anni frate lupo si morì di vecchiaia, di che li cittadini molto si dolsono, imperò che veggendolo andare così mansueto per la città si raccordavano meglio della vitrù e santità di santo Francesco. Come santo Francesco dimesticò le tortole selvatiche (…) Un giovane avea preso un dì molte tortole, e portavale a vendere. Iscontrandosi in lui santo Francesco, il quale sempre avea singulare pietà agli animali mansueti, riguardando quelle tortole con l’occhio pietoso, disse al giovane: “O buono giovane, io ti priego che tu me le dia, e che uccelli così innocenti le quali nella Scrittura sono assomigliate all’anime caste e umili e fedeli, non vengano alle mani de’ crudeli che gli uccidano”. Di subito colui, ispirato da Dio, tutte le diede a santo Francesco: ed egli ricevendole in grembo, cominciò a parlare loro dolcemente: “O sirocchie mie, tortole semplici, innocenti, caste, perché vi lasciate voi pigliare? Or ecco io vi voglio scampare da morte e farvi i nidi, acciò che voi facciate frutto e multiplichiate secondo i comandamenti del nostro Creatore”. E va santo Francesco e a tutte fece nido. Ed ellenò, usandosi, cominciarono a fare uova e figliare dinanzi alli frati, e così dimesticamente si stavano (…) come se fussono state galline sempre nutricate da loro. E mai non si partirono, insino che santo Francesco con la sua benedizione diede loro licenza di partirsi. E al giovane, che gliele avea date, disse santo Francesco: “Figliuolo, tu sarai ancora frate in questo Ordine e servirai graziosamente a gesù Cristo”. E così fu, imperò che ‘l detto giovane si fece frate e vivette nel detto Ordine con grande santità. A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.” 78


APPENDICE

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1. La benedizione del nuovo cavaliere Il cavaliere può essere creato e benedetto in qualunque giorno, luogo ed ora; ma se dev’essere creato in seno alla celebrazione della Santa Messa, il vescovo, (…) stando in piedi dinnanzi al centro dell’altare, (…) benedice (…) la spada, che qualcuno genuflesso davanti a lui tiene sguainata, e dice: “(…) O Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, che da solo ordini tutte le cose e le disponi secondo giustizia, tu che per reprimere la malvagità dei reprobi e per difendere la giustizia permettesti l’uso della spada sulla terra agli uomini secondo la tua salutare disposizione e volesti che fosse istituito l’Ordine della Cavalleria per la protezione del popolo (…). La tua clemenza, o Signore, supplichevolmente imploriamo, così come elargisti a Davide, fanciullo tuo, la capacità di superare Golia e facesti trionfare Giuda Maccabeo sulla malvagità delle genti che non invocavano il nome tuo, così anche a questo tuo servo, il quale testè sottopone il collo al giogo della milizia, concedi con pietà celeste le forze e l’audacia per la difesa della fede e della giustizia, e aumenta la sua fede, la sua speranza e la sua carità, e dagli, parimenti, il timore e l’amore nei tuoi riguardi, l’umiltà, la perseveranza, l’obbedienza, la buone pazienza e disponilo interamente verso il giusto, affinché non danneggi ingiustamente alcuno con codesta spada o con un’altra e affinché difenda con essa quanto vi è di giusto e di retto; e come egli stesso è promosso da uno stato inferiore alla nuova dignità della milizia, così, abbandonando il vecchio uomo che era e le sue azioni, accolga lui il nuovo uomo che è divenuto. Affinché ti tema e ti onori rettamente, eviti la famigliarità con i perfidi e rivolga al prossimo la sua carità, obbedisca rettamente al suo superiore in ogni occasione ed esegua sempre il suo ufficio secondo giustizia. Per Cristo nostro Signore. R. Amen. Allora asperge la spada con acqua benedetta. Dopodiché il vescovo, sedendo, presa la mitria, consegna la spada sguainata nella mano destra al nuovo cavaliere inginocchiato davanti a lui, dicendo: Ricevi questa spada nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, e utilizzala per la difesa di te stesso e della Santa Chiesa di Dio e per scompigliare i nemici della Croce di Cristo e della fede cristiana, e per quanto l’umana fragilità permetterà non ledere ingiustamente alcuno con essa: e si degni di assicurare ciò Colui che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna come Dio, per tutti i secoli dei secoli. R. Amen. Poi la spada viene riposta nel fodero e il vescovo cinge il nuovo cavaliere con la spada, dicendo: Ti cinga la santa spada sopra il femore, o fortissimo, e considera che i santi non con la spada, ma con la fede vinsero i regni.

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Perciò il nuovo cavaliere cinto dalla spada si leva in piedi ed estrae quella dal fodero e fa vibrare virilmente tre volte quella sguainata e la terge sopra l’avambraccio sinistro, poi la ripone nel fodero. Allora il vescovo dà al nuovo cavaliere il bacio della pace, dicendo: La pace sia con te. E il vescovo, prendendo di nuovo la spada sguainata nella destra, percuote leggermente tre volte con quella sopra le scapole il nuovo cavaliere inginocchiato davanti a lui, dicendo nel frattempo solamente: Sii cavaliere pacifico, valoroso, fedele e devoto a Dio. Poi, riposta la spada nel fodero, il vescovo dà con la mano destra un leggero schiaffo al nuovo cavaliere, dicendo: Sii destato dal sonno della malizia, e veglia nella fede di Cristo e sia lodevole la tua fama. E i cavalieri astanti impongono gli speroni al nuovo cavaliere; e il vescovo, stando seduto con la mitria, pronuncia l’antifona: Bello nell’aspetto davanti ai figli degli uomini, cingi, o fortissimo, il tuo fianco con la spada. Il vescovo si leva in piedi e stando rivolto verso il nuovo cavaliere, scoperto il capo, dice: Il Signore sia con voi. R. E con il tuo spirito. Preghiamo. Onnipotente, eterno Dio, sopra questo tuo servo che desidera essere cinto con questa insigne spada infondi la grazia della tua benedizione, e fa sì che egli, fidente nella virtù della tua destra, sia armato di celesti presìdi contro tutte le cose avverse, affinché in questo secolo non sia turbato da nessuna tempesta di guerra. R. Amen. Pronunciate queste parole, il nuovo cavaliere bacia la mano del vescovo e, deposti la spada e gli speroni, va in pace. (dal Pontificale Romanum)

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2. La Croce di S. Benedetto San Benedetto è considerato Patriarca dei monaci d’Occidente e Patrono degli esorcisti; invocato contro il veleno, i malefici, le infiammazioni, la febbre, la renella, i calcoli, la sua intercessione è potente in favore degli agonizzanti e per i combattenti. I miracoli ottenuti invocando la sua intercessione sono innumerevoli: si attribuisce alla medaglia che porta il suo nome, se debitamente benedetta, sia che la si tenga addosso, sia che si applichi sulle parti malate, sia che si beva l’acqua nella quale sia stata immersa, effetti prodigiosi contro le insidie del demonio, di aiuto nei pericoli e contro le malattie degli animali domestici. Ogni lettera dell’iscrizione presente sulla medaglia è parte integrante di un potente esorcismo: ne diamo di seguito la descrizione e la spiegazione.

Spiegazione delle iniziali presenti sulla Medaglia di San Benedetto:

C. S. P. B. Crux Sancti Patris Benedicti - Croce del Santo Padre Benedetto C. S. S. M. L. Crux Sacra Sit Mihi Lux - Croce Sacra Sia la Mia Luce N. D. S. M. D. Non Draco Sit Mihi Dux - Che il Dragone Non Sia il Mio Duce V. R. S. Vadre Retro satana - Allontanati satana! N. S. M. V. Non Suade Mihi Vana - Non Mi Persuaderai di Cose Vane S. M. Q. L. Sunt Mala Quae Libas - Ciò Che Mi Offri è Cattivo I..V. B. Ipsa Venena Bibas - Bevi tu stesso i tuoi Veleni Amen

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3. La Sacra Sindone e i Templari

I collegamenti tra la Sindone e i Templari sono al contempo noti e misteriosi. Storicamente si sa che, dopo essere stata conservata nei secoli precedenti in diverse località dell’Asia Minore, e trasportata successivamente in circostanze piuttosto oscure in Europa, al termine delle Crociate, essa finì nelle mani di un Cavaliere Templare, Goffredo di Charny, morto sul rogo nel 1311 insieme al Gran Maestro Jaques de Molay, per ordine del re di Francia Filippo il Bello e del papa Clemente V. Dalla prima metà del Trecento, dunque, la Sindone si trova in Francia, nelle mani di un Templare, per diventare successivamente di proprietà di Casa Savoia, che la custodirà dal 1578 a Torino, donandola infine alla Chiesa Cattolica, dalla quale viene periodicamente esposta al culto ed all’adorazione dei fedeli. I collegamenti tra il Sacro Lino e i Templari, tuttavia, non si fermano qui. Come è infatti stato da più parti ipotizzato, pare che i Cavalieri usassero contemplare l’immagine della Sindone, da essi custodita a Gerusalemme, nel corso delle loro pratiche religiose: un’eco di questa pratica potrebbe essere rinvenuto nell’accusa di adorare una “testa d’uomo barbuta” (identificata in una sorta di idolo, denominato “Baphomet”), formulata a loro carico durante il processo per eresia, che portò alla loro condanna. Il legame misterioso tra i Templari alla Sindone si accompagna inoltre ad un altro mistero, quello sulla sua autenticità; dopo aver infatti clamorosamente datato alcuni anni fa il lenzuolo all’incirca in epoca medievale, gli scienziati sono recentemente tornati sui propri passi, contestando la veridicità di questa datazione e ipotizzando un’origine ben più antica. Come si vede, il mistero sull’origine, la storia ed il significato di questa preziosa reliquia è tuttora fitto e impenetrabile, e si ricollega, non a caso, ad un altro mistero, altrettanto oscuro e indecifrabile: quello dei Cavalieri del Tempio e della loro spiritualità, dai tratti fortemente mistici ed esoterici, connessa con la famosa leggenda del Santo Graal. A quando una risposta definitiva su questa complessa questione?

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4. Il Tau di San Francesco Il Tau è l'ultima lettera dell'alfabeto ebraico; esso venne adoperato con valore simbolico sin dall'Antico Testamento, dove se ne parla già nel libro di Ezechiele: "Il Signore disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un Tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono..." (Ez. 9,4). Esso è dunque il segno che Dio posto sulla fronte dei poveri di Israele, per salvarli dallo sterminio. Con questo stesso senso e valore se ne parla anche nell'Apocalisse (Apoc.7,2-3), dove come ultima lettera dell'alfabeto ebraico rappresenta una profezia dell'ultimo giorno ed ha la stessa funzione della lettera greca Omega: "Io sono l'Alfa e l'Omega il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente dalla fonte dell'acqua della vita.... Io sono l'Alfa e l'Omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine" (Apoc.21,6; 22,13). Il Tau perciò è allo stesso tempo segno di redenzione e simbolo della croce di Cristo. San Francesco d'Assisi, che faceva riferimento in tutto al Cristo, all'Ultimo, per la somiglianza che il Tau ha con la Croce ebbe carissimo questo segno, tanto che esso occupò un posto rilevante nella sua vita, come pure nei gesti; in lui il vecchio segno profetico si attualizza, si ricolora, riacquista la sua forza salvatrice ed esprime la beatitudine della povertà, elemento sostanziale della forma di vita francescana. Per questo, grande fu in Francesco l'amore e la fede in questo segno. "Con tale sigillo, San Francesco si firmava ogni qualvolta o per necessità o per spirito di carità inviava qualche sua lettera" (FF980); "Con esso dava inizio alle sue azioni" (FF1347). "Nutriva grande venerazione e affetto per il segno del Tau. Lo raccomandava spesso nel parlare e lo scriveva di propria mano sotto le lettere che inviava" (FF 1079). Oggi, moltissimi amici di San Francesco portano il Tau come segno distintivo di riconoscimento della loro appartenenza alla famiglia o alla spiritualità francescana: esso tuttavia non è un feticcio, né tantomeno un ninnolo, ma rappresenta un segno concreto di devozione cristiana ed un impegno di vita nella sequela del Cristo povero e crocifisso.

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Conclusioni Con queste brevi note vorrei ricordare a tutti i devoti, in conclusione, alcuni punti essenziali da tenere a mente nel proseguire lo studio e la ricerca sulla Mistica dell’Occidente, onde impostare correttamente il nostro lavoro senza tema di sbagliare o di andare fuori strada. 1. Noi non siamo dei mistici. Stiamo solo imparando a conoscere gli insegnamenti e le testimonianze di questi santi e di questi maestri attraverso i loro aneddoti, le loro imprese o le loro parole: dunque non ci è richiesto di imitarne le cerimonie o i rituali (se non come mezzo per entrare in contatto con la loro spiritualità), ma solo di conoscerle, apprezzarle ed eventualmente approfondirle, sempre però sapendo bene che non siamo né benedettini, né templari, né francescani. Possiamo certamente compiere delle esperienze pratiche di questo tipo, se necessario, ma senza alcun atteggiamento consumistico, tipico di tanta cultura contemporanea, e soprattutto con il necessario rispetto e reverenza (oltre che naturalmente con l’entusiasmo che ci contraddistingue): non dobbiamo dunque cadere nell’errore di pensare che, imitando queste scuole mistiche o questi ordini religiosi, ci possiamo impadronire delle loro conoscenze o delle loro esperienze e ‘diventare come loro’, né tantomeno fossilizzarci sulle loro forme esteriori, ma ricercarne l’essenza in ogni testimonianza del loro passaggio. 2. Noi non siamo degli intellettuali. Per non infilarci nel vicolo cieco del mentale, nell’accostarci a queste tradizioni abbiamo scelto la via della preghiera, del racconto, della regola, del miracolo, di tutto quanto ci fa innalzare spiritualmente: è certamente possibile, ed anzi doveroso, che, laddove ci sia un interesse specifico per qualcuna di queste dottrine da parte di qualche devoto particolarmente preparato, si approfondisca la conoscenza di queste tematiche, ma questo non deve diventare un lavoro arido, mentale o speculativo, né ingolfare i cuori dei devoti con una quantità di nozioni inutili. Facciamo respirare questi insegnamenti, facciamoli ‘cantare’ e risuonare in noi: se poi li vogliamo anche approfondire e conoscere intellettualmente tanto meglio, è un’ottima cosa, è uno degli scopi di questo lavoro, ma non dobbiamo avere fretta, lasciamo che sia una cosa fluida, scorrevole e creativa, e che l’interesse sorga spontaneo. 3. Manteniamo sempre l’unidirezionalità. Teniamo cioè sempre presente che lo studio di queste tradizioni non costituisce per noi un’alternativa all’insegnamento di Swami: infatti, così come in ogni tradizione si ha accesso alla mistica solo dopo aver raggiunto la piena maturità ed essersi centrati e radicati negli insegnamenti delle rispettive religioni, allo stesso modo anche noi dobbiamo considerare questo studio come una prova di maturità, e portarlo avanti con la coscienza del suo legame con l’insegnamento di Baba, senza deviazioni. Un passo ulteriore nello sviluppo di questo lavoro, quello verso cui tende tutto quanto il nostro percorso, è infatti la ricerca del legame esistente fra queste tradizioni e l’insegnamento di Baba, in particolare con i cinque Valori Umani, vero perno e fondamento della nostra spiritualità: puntiamo dunque sempre in quella direzione, e scopriamo insieme ogni giorno di più l’essenza mistica di ogni religione, alla luce dell’insegnamento del nostro amato Maestro. Un abbraccio dunque a tutti, e buon lavoro! Om Sai Ram Roma, 2 Giugno 2009

Pierluigi Gallo 85


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