Piero Ardizzone
Un eroe mancato: Oreste Baratieri. Cronache del suo tempo
A Vittorio Salvadorini maestro di studi africani
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Sorte singolare quella di Oreste Baratieri: prima di divenire oggetto dell'esecrazione popolare perché ritenuto unico responsabile della sconfitta di Adua, era stato esaltato per il glorioso passato garibaldino, per i successi riportati contro i ras abissini, giungendo ai vertici della carriera militare, nominato governatore della colonia eritrea, uomo politico autorevole consacrato dalla elezione alla Camera dei Deputati per più legislature nel collegio di Breno, rispettato per la sua condizione di trentino irredento. Era entrato nell'immaginario collettivo tanto che nell'estate 1895 per le vie di Roma si cantava: "Evviva Baratieri e i belli bersaglieri - Vorrei di Menelicche far pillole e pasticche - e ras Mangascià - lo possino ammazzà".1 Ma era soprattutto il suo natio Trentino ad essere orgoglioso del vincitore dei Dervisci a Cassala, degli Abissini a Coatit e Senafè, che aveva pure represso la rivolta di Batha Agos; imprese esaltate dal giornale di Trento "L'Alto Adige" che scriveva: "al generale Oreste Baratieri giunga gradito il riverente e affettuoso saluto della sua terra natale" (28 luglio 1895). Il generale era nato in provincia di Trento, a Condino, nel 1841; tale origine condizionò fortemente la sua esistenza e per meglio intendere la sua vicenda umana e politica gioverà ricordare che essa si svolse un una stagione storica segnata dal dilemma se convenisse proseguire le lotte risorgimentali per completare l'unità nazionale con i territori dello Stato pontificio e con le regioni venete soggette all'Austria, le terre irredente come vennero allora definite, ovvero rassegnarsi ad una politica di basso profilo imposta dalle esigue forze economiche e militari del paese. Fino al 1870 l'attenzione maggiore fu riservata alla questione romana; divenuta Roma capitale d'Italia e ridotto simbolicamente lo Stato pontificio al possesso dei sacri palazzi , l'interesse degli irredentisti si concentrò sulle regioni venete. In corrispondenza ai mutamenti del clima storico a volte lo stesso personaggio oscillò tra una rassegnata prudenza e il proposito di un'audace iniziativa. Sidney Sonnino, che molti anni dopo da ministro degli Esteri nel 1915 spinse l'Italia nella guerra contro gli Imperi Centrali, a fianco delle potenze dell'Intesa, aveva in precedenza avuto una posizione ben diversa. In un articolo del 1881,2 alla vigilia della adesione italiana alla Triplice Alleanza nel 1882, aveva sottolineato i pericoli per l'Italia della occupazione francese della Tunisia, che rappresentava una minaccia per le coste italiane ed assicurava alla Francia il controllo delle vie commerciali del Mediterraneo, da cui l'Italia rischiava di restare esclusa. Si imponeva, affermava Sonnino, la necessità di assicurarsi l'amicizia di altri Paesi; nonostante le guerre del passato, l'impero austro1
"Omaggi trentini a Oreste Baratieri" Studi Trentini di Scienze Storiche. Rivista della Società di studi per la Venezia Tridentina. Anno XVI, 1935, fascicolo 3, siglato b.r. (Bice Rizzi). 2 Sidney Sonnino "La questione africana" - La Rassegna settimanale di politica, scienza, lettere ed arti".Roma, 29 maggio 1881, n. 178 pp. 137-139.
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ungarico era il naturale alleato, con il quale occorreva evitare ogni contrasto, rinunciando ad ogni aspirazione sulla Venezia Giulia, poichè era di vitale interesse per esso il porto di Trieste, che Vienna era disposta a difendere "a tutta oltranza". Inoltre in quella regione, come in tutte le zone di confine, viveva una popolazione mista di italiani e di slavi; rivendicarla, secondo Sonnino, sarebbe stata pertanto "una esagerazione del principio di nazionalità, senza poi rappresentare nessun interesse reale per la nostra difesa". Trento invece, proseguiva Sonnino, era "certamente terra italiana e rappresentava un completamento della nostra difesa, senza avere per l'Austria l'importanza di Trieste". Ma non per questo si doveva rivendicare il Trentino; osservava infatti l'autore: "...gli interessi che possiamo avere a Trento sono troppo piccoli di fronte a quelli rappresentati dalla nostra amicizia sincera con l'Austria. Questa amicizia rappresenta per noi la libera disposizione di tutte le nostre forze di terra e di mare; rappresenta, è inutile illudersi, la autorevolezza della nostra parola nel concerto europeo. Sarebbe infantile compromettere questa amicizia creando dissapori con l'Austria...L'amicizia coll'Austria è per noi una condizione indispensabile per una politica concludente ed operosa; coltiviamola con ogni cura, dissipando ogni malumore, se ci vogliamo stornare dal capo la tempesta che si addensa a danno nostro sulle coste dell'Africa". Ancora più rapida fu l'evoluzione di Ruggero Bonghi da una cauta politica desiderosa di evitare ogni controversia con l'Austria ad una posizione chiaramente irredentista. Bonghi nel 1889 divenne il primo presidente della Società Dante Alighieri, sorta per diffondere all'estero la lingua e la cultura italiana, con particolare interesse per difendere l'italianità delle popolazioni ancora soggette all'Austria, venendo così a coincidere le finalità culturali con quelle politiche. Quella italianità Bonghi l'aveva già affermata nella prefazione all'opera di Paulo Fambri sulla Venezia Giulia.3 Bonghi riprendeva i dati statistici del censimento austriaco del 1851 relativi alle popolazioni del Friuli-Venezia Giulia: 130.148 sloveni, 47.841 friulani, 15.134 italiani, 403 israeliti. Sommando friulani ed italiani si arrivava ad un totale di 62.975 abitanti, cioè meno della metà dei 130.148 sloveni: dati in realtà poco convincenti, come lo era lo scarso numero degli israeliti censiti, appena 403 secondo quella statistica, che veniva riequilibrata tenendo presente che in Istria secondo il Combi4 ci sarebbero stati 160mila italiani, 112 mila slavi, 3 mila romeni, per cui sommando i vari dati si arrivava ad un totale di 242.148 slavi e 222.975 italiani.
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"La Venezia Giulia - studio politico militare di Paulo Fambri, già capitano del genio militare italiano", con prefazione di Ruggero Bonghi. Venezia, tipografia di P. Naratovich editore, 2° edizione 1885. 4 Combi "Cenni etnografici sull'Istria" Porta Orientale - strenna per il 1859, volume 3° - p. 101.
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Messe comunque da parte le riserve sulla attendibilità di quelle statistiche, non si può che concordare con l'asserzione di Bonghi relativa agli slavi della Venezia Giulia: "presumere che non abbiano diritto di starvi sarebbe ridicolo; il pretendere che abbiano obbligo, per rimanervi, di scordare chi sono, sarebbe assurdo". (p. XII). Fatto questo riconoscimento dei diritti nazionali degli slavi nella regione, Bonghi sosteneva però l'italianità di Trieste, senza per altro ritenere lecita e conveniente una modifica del confine accettato dall'Italia nel 1866, anche se criticabile. Secondo la lettera di un ungherese allegata al volume di Fambri, Bonghi riteneva il possibile vantaggio per l'Italia di un confine fissato sulle Alpi, inferiore allo svantaggio rappresentato dal crollo dell'impero asburgico, baluardo contro le mire espansionistiche della Germania e della Russia. Era quindi preferibile mantenere lo statu quo: "meno si muta la distribuzione delle forze tra la Francia, l'Austria, la Germania e la Russia al di là delle Alpi, e più sicuri noi stiamo al di qua". (p. XXVIII). Era quindi legittimo aspirare ad una frontiera più sicura, rivendicando le terre irredente; ma occorreva operare "con intero rispetto delle relazioni internazionali e senza punto minacciare nè scuotere la potenza dell'Austria". (p. XXIX). L'italianità andava diffusa al di là dei confini allora esistenti attirando con la civiltà della cultura italiana le minoranze etniche presenti sul territorio senza destare i sospetti degli altri Stati, in particolare modo dell'Austria: "Noi non dobbiamo gridare che abbiamo Italia a redimere, L'uso di tale parola è già segno di molta confusione di mente e di grande insipienza del presente momento storico". Andavano pertanto evitate "le cospirazioni interne ed i clamori dell'Italia irredenta, dannose per l'Italia e per le popolazioni stesse delle regioni ancora al di fuori del regno d'Italia, che non avevano bisogno di "aiuti tanto fallaci e di strepiti tanto vani".(pp. XXXI - XXXII) Era nell'interesse dell'Italia favorire l'espansione austriaca ad Oriente, profittando della imminente dissoluzione dell'impero ottomano, per contenere l'avanzata russa ed essere più forte di fronte alla Germania; in cambio l'Austria avrebbe dovuto riconoscere all'Italia una maggiore influenza nell'Adriatico. Bonghi rimproverava infine ai politici italiani di non aver saputo armonizzare gli interessi italiani con quelli di altri paesi e di non aver riconosciuto la sincera volontà austriaca di una intesa con l'Italia. In seguito, da presidente della Dante Alighieri, Bonghi non fu tanto ben disposto nei confronti dell'Austria. Ma non tutti concordavano in questa politica conciliante verso l'Austria. Da iniziative isolate prive di un piano organico si passò presto all'azione coordinata di un movimento organizzato, quale fu
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l'Associazione in pro' dell'Italia irredenta", sorta nel 1877 per iniziativa del patriota napoletano Matteo Renato Imbriani, ex garibaldino nell'impresa dei Mille, ferito nelle guerre del 1859 e del 1866. Imbriani fu il segretario e l'anima dell'Associazione ed un altro ex garibaldino, il generale Giuseppe Avezzana, ne fu il presidente. Isaia Graziadio Ascoli in un articolo del 1891 sulla Nuova Antologia analizzò il significato del termine "irredentismo", divenuto di uso generale, tanto da essere usato in tutta Europa. L'Ascoli voleva però che le rivendicazioni italiane fossero solo di natura culturale ed era contrario ad ogni finalità politica: ogni aspirazione territoriale da parte italiana avrebbe portato ad una guerra con l'Austria, la cui diffidenza verso movimenti ed iniziative dirette contro il suo impero era riconosciuta legittima dall'Ascoli.5 In un successivo articolo del 1903 sull'Università italiana a Trieste, richiesta con insistenza dagli irredentisti, lo studioso giustificava il rifiuto austriaco ad istituirla poichè non era solo un centro di studi, ma un focolaio di rivendicazioni irredentiste.6 E l'Austria in effetti aveva di che preoccuparsi: le associazioni irredentiste si diffondevano sempre più in Italia e nello stesso impero asburgico. Il conte Taaffe, governatore del Trentino, ed il barone Friedenthal, luogotenente di Trieste, segnalavano al Ministro dell'Interno l'intensa attività degli irredentisti, che operavano grazie alla collaborazione sempre più stretta fra "l'Italia irredenta" di Imbriani, presente in molte città, l'Associazione democratica italiana di Milano, il circolo repubblicano di Civitavecchia, l'Associazione "Pensiero ed Azione" di Ancona, di chiara ispirazione mazziniana. A Padova si erano creati due distinti comitati, uno per Trieste, diretto da Salomone Morpurgo, israelita triestino; l'altro per il Trentino, diretto da Baratieri, all'epoca maggiore dell'esercito italiano e deputato nel Parlamento di Roma.7 Particolare preoccupazione destava la saldatura operatasi tra gli irredentisti operanti nel regno d'Italia e quelli attivi nell'Impero asburgico. Il "Circolo Garibaldi" di Trieste aveva creato a Milano una sezione molto attiva. Sempre a Milano, il 30 marzo 1884 era sorta l' "Associazione Alpi Giulie" di cui il triestino Rusconi e l'istriano Bonelli erano rispettivamente presidente e vice-presidente. "L'eco delle Alpi Giulie" era divenuto
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I. G. Ascoli "Gli irredenti" Nuova Antologia, 1° luglio 1895, pp. 34-74. "A proposito dell'Università italiana a Trieste. Lettera aperta al Direttore della Nuova Antologia", Nuova Antologia 1° febbraio 1903, pp. 401-406. 7 Rapporto del console d'Austria in Venezia al Ministro Affari-Esteri, 25 luglio 1878; citato da Augusto Sandonà, "L'irredentismo nelle lotte politiche e nelle contese diplomatiche italo-austriache", volume 2°, p. 14 - Zanichelli, Bologna 1938. 6
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l'organo ufficiale del Circolo Garibaldi di Trieste: nel suo primo numero del giugno 1885 aveva apertamente sostenuto la necessità di azioni terroristiche: si deprecava il fatto che la morte di Oberdan non era stata vendicata "portando l'incendio e la strage contro coloro che assassinarono vigliaccamente il nostro Guglielmo". Sul numero 3 del giornale (settembre 1885) Aurelio Saffi in una lettera aperta "ai patrioti di Trento, di Trieste e dell'Istria" condannava la mancata annessione nel 1866 delle terre rimaste all'Austria; c'era stata una "concessione ignominiosa ai disegni di Luigi Napoleone, cui non conveniva per le sue mire sul Reno e nel Mediterraneo, da un canto l'integrarsi dell'Unità germanica, dell'Unità italiana dall' altro. Secondo Saffi la Prussia nel 1866 aveva incoraggiato l'Italia a non limitare le sue aspirazioni al Veneto: ma in realtà non c'era stato alcun incoraggiamento di Bismarck a rivendicazioni italiane per il Trentino e la Venezia Giulia: aveva infatti stipulato un armistizio con l'Austria escludendo una ripresa delle ostilità per sostenere le richieste italiane. Nell'intreccio di attività ed iniziative irredentiste fu presente Baratieri: oltre a presiedere il comitato padovano per il Trentino, fu nel 1884 delegato a rappresentare il Municipio di Trento ai funerali del poeta e patriota trentino Giovanni Prati, da molti anni esule in Italia e divenuto senatore del regno nel 1876. Per onorare la memoria di Prati era sorto a Trento un comitato, presieduto dal podestà Ciani, per un monumento. L'iniziativa fallì sia per il veto austriaco, sia perchè non si raccolsero fondi sufficienti e perché sorsero rivalità tra Trento e Riva per la scelta del luogo ove realizzare il monumento.8 In Italia si formò un altro comitato per un altro monumento a Prati, con Terenzio Mamiani, presidente e Baratieri vice-presidente: ma il progetto non fu realizzato non è chiaro se per un intervento austriaco o per difficoltà economiche. Nel 1886 troviamo Baratieri presidente onorario del "Circolo Trentino in Roma", che il 20 gennaio 1887 propose la creazione di una "Società Generale Italiana per il mantenimento della lingua e dei costumi nazionali al di fuori dei nostri confini", ma rimase destinata a non operare; auspici Giosuè Carducci ed Aurelio Saffi nel dicembre 1887 sorse a Bologna una associazione con le stesse finalità che prese il nome di Giovanni Prati; ma anche questa associazione non decollò e si dovette attendere la nascita della "Dante Alighieri", sorta sempre allo stesso scopo nel 1889 su proposta del triestino Giacomo Venezian e ancora col patrocinio di Carducci. Era sorto pure in quel tempo un comitato con finalità più dichiaratamente politiche che prese nome dalle città simbolo dell'irredentismo, Trento e Trieste, precocemente cessato per lo scioglimento 8
Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri - serie 9°, busta 7, fascicolo 20 "Comitati per monumenti 1884-1885", documento 20. Lettera di N. Bolognini a Baratieri, Milano 14 giugno 1884.
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deciso da Crispi il 19 luglio 1889, volendo evitare difficoltà con Vienna. Per la stessa ragione Crispi decise con decreto del 22 agosto 1890, lo scioglimento dei circoli Oberdan e Barsanti;9 in quello stesso anno fu pure destituito il ministro delle finanze, Federico Seismit Doda, un dalmata di Ragusa, reo, secondo Crispi, di non aver manifestato il suo dissenso per un brindisi fatto in suo onore, in occasione di un banchetto ad Udine, esprimendogli l'augurio di poter presto tornare nella sua città natale divenuta italiana. Si rallegrò di quella destituzione il generale Pelloux, scrivendo a Baratieri: "Il Doda se n'è andato dopo la sua figura di Udine, e credo che non sia un male nè per le Finanze nè per il Gabinetto".10 La "summa" del pensiero di Crispi sull'irredentismo è costituita dal suo discorso dell'ottobre 1890 a Firenze, in cui considerava pericoloso quel movimento perchè, a rigor di logica, avrebbe dovuto indirizzare le aspirazioni italiane anche verso altre terre, oltre che verso la Venezia Giulia ed il Trentino: Nizza, la Corsica, Malta, il Canton Ticino avevano una popolazione italiana e quindi l'Italia avrebbe dovuto reclamare pure quei territori, ingaggiando un conflitto rovinoso con la Francia, l'Inghilterra, la Svizzera. A Crispi replicò subito il triestino Salvatore Barzilai, osservando che solo le popolazioni italiane soggette all'Austria erano coscienti della loro identità nazionale e nutrivano quindi aspirazioni irredentiste ignote invece in Corsica, a Malta, nel Canton Ticino. Crispi aveva avuto un ruolo importante nel movimento unitario italiano, ma, giunto al potere, aveva cambiato atteggiamento: l'occupazione francese della Tunisia aveva destato in lui violenti sentimenti anti-francesi e di conseguenza un accostamento agli Imperi Centrali culminato nell'adesione italiana alla Triplice Alleanza, pur avendo egli una formazione politico-culturale ispirata dal giacobismo francese. L'ostilità di Crispi all'irredentismo nasceva anche da ragioni di politica interna, essendo egli ossessionato dal timore di eventuali disordini ad opera degli irredentisti, che, sommati alla persistente ostilità del Vaticano e dei cattolici, potessero compromettere l'unita nazionale: posizione messa bene in luce da Giovanni Spadolini, secondo il quale Crispi faceva di una questione di opportunità politica una questione di principio.11 9
Pietro Barsanti (Lucca 30 luglio 1849 - Milano 27 agosto 1870) fu fucilato a Milano per aver partecipato ad una rivolta di militari a Pavia, per sollecitare il governo italiano ad occupare Roma dopo il ritiro delle truppe francesi che la presidiavano. La rivolta, scoppiata il 24 marzo 1870, fu sconfessata da Mazzini anche se appariva ispirata dal suo pensiero. Dopo il ritiro francese da Roma, dovuto alle difficoltà politiche con la Prussia, prima del 20 settembre 1870 ci furono varie pressioni sul governo italiano perchè occupasse la città. 10 Archivio di Stato di Venezia. Carte Baratieri, serie 11°, busta 8, fascicolo B 1890-1895, documento 40, Pelloux a Baratieri, 18 settembre 1890. 11 Giovanni Spadolini: "Crispi e l'irredentismo"; sta in "Problemi dell'irredentismo triestino", Edizione dell'Università di Trieste 1953, pp. 99-100. Cfr. pure Gaetano Salvemini "La politica estera di Francesco Crispi" - Roma, 1919, p. 47. A.C. Jemolo "Crispi " - Firenze, 1922, p. 141 e p. 143.
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Un incidente clamoroso nei rapporti italiani con l'Austria si verificò nel maggio 1884, a causa di una frase della commemorazione di Giovanni Prati, fatta dal presidente del Senato Salvatore Tecchio , che aveva espresso l'augurio di un ricongiungimento all'Italia della terra natia del poeta. L'irritazione austriaca era resa più viva dalla supposizione che il discorso di Tecchio fosse in realtà opera di un funzionario del Senato, Aurelio Salmonà, esule triestino. Il ministro degli esteri austriaco, conte Kálnoky, chiese la destituzione di Salmonà, rifiutata dal suo omologo italiano, Mancini, che chiese pure di voler scusare Tecchio, ormai poco lucido per l'età avanzata. Da quel serio imbarazzo il governo italiano fu liberato dalle dimissioni presentate da Tecchio, in un primo momento respinte; dopo la loro accettazione Depretis, presidente del Consiglio, ebbe parole di riguardosa stima per lui, destando l'irosa reazione dell'ambasciatore austriaco, Ludolf. La politica contraria all'irredentismo aveva il sostegno dei conservatori, animati da motivi di egoismo sociale meno nobili delle preoccupazioni per la tenuta dello stato unitario nutrite da Crispi, che poteva contare pure sull'appoggio della Corona: Umberto I il 28 aprile 1890 inviò a Crispi un telegramma di congratulazioni per lo scioglimento dei circoli "Oberdan" e "Barsanti". La solidarietà espressa dal re a Crispi era dovuta anche al fatto che gli irredentisti erano particolarmente numerosi tra i repubblicani, naturali avversari della monarchia. Solo negli anni successivi, all'inizio del secolo XX, l'irredentismo fu considerato un utile strumento diplomatico dagli eredi della Destra storica, Visconti-Venosta, Prinetti, Tittoni.12 Crispi comunque non mancò di protestare contro il decreto austriaco di scioglimento della Società Pro Patria, sorta a Rovereto nel novembre 1886 a difesa della italianità del Trentino, su proposta di Augusto Sartorelli, autore di un appello pubblico nel gennaio 1885 sul giornale locale "Il Raccoglitore", Lo stesso Sartorelli e l'Avvocato Carlo de Bertollini curarono la costituzione della Società, preparando uno statuto analogo a quello dello Schulverein austriaco. Le finalità statutarie consistevano nell'apertura di scuole e biblioteche italiane, in conformità alla proposta fatta dal triestino Felice Venezian in occasione dell'assemblea per l'unità d'azione di tutti gli italiani sudditi degli Asburgo. Lo Statuto fu approvato il 13 giugno 1885 dalla sezione trentina della luogotenenza di Innsbruck e la Società si diffuse nella Venezia Giulia oltre che nel Trentino. Il congresso costitutivo si tenne a Rovereto il 28 novembre 1886 e quello successivo si svolse a Trieste il 18 novembre 1888; si
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Confronta il saggio di Spadolini citato alla nota 11.
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rinnovarono allora gli organi sociali: il podestà di Spalato, Antonio Bajamonti, inviò un messaggio di adesione a nome del nascente comitato locale della "Pro Patria". Nel corso del 3° congresso della società (Trento, 29 giugno 1890) si verificò l'episodio causa del decreto austriaco di scioglimento in data 10 luglio 1890. Un anziano patriota trentino, Carlo Dardi, comunicò la recente formazione della "Dante Alighieri", sorta con finalità culturali analoghe a quelle della "Pro Patria" e propose l'invio di un saluto a quella società consorella e al suo presidente Ruggero Bonghi. La proposta fu approvata per acclamazione e fu ritenuta dalle autorità austriache un pericoloso atto politico, prova della connivenza tra la "Pro Patria" e la "Dante Alighieri" "malvista a Vienna perchè sospettata di favorire l'irredentismo; l'intervento di Crispi fu causato proprio da questa accusa lanciata contro la Dante", e la protesta italiana fu espressa con l'articolo "La Dante Alighieri" dello stesso Crispi, pubblicato il 26 luglio 1890 su "La Riforma". L'uomo politico italiano dichiarava di non voler occuparsi dell'attività della Pro Patria, essendo quella una questione interna all'impero asburgico; protestava invece per le insinuazioni fatte a carico della "Dante", e implicitamente del governo italiano che ne consentiva l'attività. Le finalità della "Dante Alighieri", affermava Crispi, erano soltanto culturali, analoghe a quelle dello "Schulverein" tedesco, dell'associazione slava dei "Santi Cirillo e Metodio", della società romena "Dacia". La Pro Patria comunque risorse presto dalle sue ceneri venendo sostituita con le stesse finalità dalla "Lega nazionale" nel 1891, il cui statuto fu approvato nel luglio di quell'anno dalle autorità austriache e già il 10 novembre si tenne il 1° congresso;13 campo d'azione della "Lega" dovevano essere il Trentino, la Venezia Giulia e la Dalmazia. La collaborazione tra trentini e triestini iniziata con la "Pro Patria" continuava nella "Lega Nazionale" e nella "Dante Alighieri", anche se in quest'ultima non mancarono contrasti per le diversità culturali e politiche esistenti fra un Trentino cattolico ed una Trieste laica con una forte impronta ebraica e massonica fra gli irredentisti.
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Sulla "Pro Patria" resta fondamentale l'articolo del suo primo ispiratore, Augusto Sartorelli, "La Società Pro Patria e il suo tempo" - Società Nazionale Dante Alighieri 1919. L'articolo era stato già scritto nel 1917, ma fu pubblicato sulla Rassegna della Dante soltanto a guerra finita, per non recar danno agli aderenti rimasti in territorio ancora austriaco. Cfr. Sergio Benvenuti "La Società Pro Patria (1886-1891)"; Bollettino del Museo del Risorgimento e della lotta per la libertà". Trento 1972, pp. 3-14.
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Di tali contrasti, maturati all'inizio del novecento, troviamo traccia nella corrispondenza tra Pasquale Villari, presidente della "Dante", e Guglielmo Ranzi, fiduciario della Società per il Trentino.14 Scriveva difatti Ranzi a Villari il 6 novembre 1901: "Accentuare l'impronta massonica della Dante Alighieri sarebbe certo un danno per tutti, anzi un disastro. Nel Regno ho sentito molti (e persone assennatissime) biasimarlo e fin condannarlo per l'influenza che vi hanno i massoni". Contro la Dante, osservava Ranzi, si erano perciò mossi i clericali, mobilitatisi anche nel Trentino con il giornale "Voce cattolica" (lettera n. 33, p. 51). Lo stesso Ranzi l'8 gennaio 1903 comunicava a Villari gli scrupoli di "una distinta gentildonna trentina" per aderire alla "Dante" giudicata in modo sfavorevole dal vescovo di Cremona, mons. Geremia Bonomelli, prelato di vedute molto larghe, amico di Baratieri e persona certamente non ostile agli irredentisti per pregiudizi bigotti. La contrarietà espressa da monsignor Bonomelli era largamente ripresa da molti cattolici, che accusavano la "Lega Nazionale" e la "Dante Alighieri" di ricevere finanziamenti dalla Massoneria. Accusa particolarmente dannosa nel Trentino, dove la causa nazionale era abbandonata da molti cattolici, prima su posizioni filo-italiane e sostenitori dell'autonomia del Trentino dal Tirolo, che assumeva un significato antiasburgico. "Il Trentino non è Trieste", concludeva perentoriamente Ranzi (lettera n, 60, pp. 76-79). Si era già detto d'accordo con questa osservazione Alberto Erche dell'Arco, vice presidente del Comitato fiorentino della "Dante"; nella sua lettera a Villari del 1° novembre 1901, citata da Ranzi (lettera n. 35, pp. 46-49): i cittadini "se non tollerano le imposizioni e le restrizioni di libertà del governo, non vogliono neppure quelle dei massoni". Erche dell'Arco preannunciava pertanto di volersi opporre alla nomina di un massone a segretario della "Dante, in occasione del prossimo congresso della Società a Siena; si rendeva conto della opportunità di evitare dissidi, ma osservava: "...perchè dovremmo aggirarci entro il cerchio di ferro della Massoneria?. Perchè dovremmo lasciar campo libero al partito triestino che cerca di ridurre a politica la Società, affrettandone la rovina? I triestini male rimasero quando feci loro capire che in questo campo i trentini non li avrebbero seguiti". Queste osservazioni finirono per convincere Villari, che il 2 novembre 1901 confidava a Ranzi di essere contrario alla nomina di Umberto Del Medico a segretario della Società, perchè era ebreo e massone.
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"Dai carteggi di Pasquale Villari, la società "Dante Alighieri" e l'attività nazionale nel Trentino (1896-1915). Documenti inediti a cura di Renato Monteleone." Comitato trentino, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano.
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Villari affermava di non nutrire alcun pregiudizio contro ebrei e massoni, tanto da contare fra essi molti amici e di considerare una fortuna avere Ernesto Nathan tra i soci della "Dante Alighieri": "...ma aver poi per segretario un 33, era troppo, era un voler sfidare la pubblica opinione" (lettera n. 36, p. 50). Ed alla fine Del Medico non fu eletto segretario della "Dante". Ma i dissidi tra triestini e trentini non furono mai tanto gravi da pregiudicare l'attività nazionale nel Trentino, dove, come si è già ricordato, già nel 1884 si era progettata l'iniziativa altamente simbolica di un monumento a Giovanni Prati. Il progetto fallì: Prati si era troppo esposto sul piano politico perchè il governo austriaco potesse dare il suo consenso: oltre che con la sua attività poetica Prati aveva dato un importante contributo alla causa italiana con la missione diplomatica da lui svolta a Villafranca nel 1859 per convincere Napoleone III a non concludere l'armistizio con l'Austria e successivamente era intervenuto a Parigi sempre presso lo stesso sovrano perchè appoggiasse l'Italia ad ottenere dall'Austria la cessione del Trentino oltre che del Veneto; di più: Prati era senatore del Regno d'Italia. Logicamente, quindi, il governo austriaco si oppose al monumento a Prati, ma si presentò presto l'occasione per una dimostrazione di italianità non meno significativa, anche se politicamente meno compromettente: un monumento a Trento dedicato a Dante Alighieri. Nel 1886 a Bolzano era stato inaugurato un monumento a Walter von Vogelweide, il poeta medievale simbolo della cultura tirolese, cui Guglielmo Ranzi, futuro responsabile della "Società Dante Alighieri" nel Trentino, ebbe l'idea di contrapporre un monumento dedicato a Dante a Trento. Si tardò ad attuare il progetto, ripreso nel 1889 dallo stesso Ranzi assieme a Carlo Dardi, deputato al Parlamento di Vienna ed esponente della "Pro Patria". Il 1° gennaio 1890 fu lanciato un appello chiedendo l'appoggio dell'iniziativa ai trentini. Dante era un poeta di fama universale, a differenza di Prati non legato direttamente all'attualità politica, anche se spesso citato a sostegno della italianità; il governo austriaco non potè quindi opporsi, anche se era chiaro il sottinteso valore politico di quel monumento. Il 6 marzo 1890 il consiglio municipale di Trento decise all'unanimità un contributo di 10 mila fiorini e la concessione gratuita del terreno su cui edificare il monumento (altri 6 mila fiorini il municipio li stanziò nel 1896, ad opera ultimata). Generose offerte di privati furono raccolte a Trento: don Giuseppe Grazioli diede subito 11.500 fiorini e fece in seguito un'altra cospicua donazione. Il conte Taaffe, presidente del consiglio dei ministri austriaco, il 15 giugno 1890 autorizzò la costruzione del monumento, ma al tempo stesso vietò ogni manifestazione che traendo spunto dal monumento potesse alimentare l'irredentismo; tale divieto non fu però applicato per le conferenze
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dantesche organizzate in tutta la regione dalla "Società degli studenti trentini". Taaffe inoltre diede istruzioni all'ambasciatore d'Austria a Roma perchè segnalasse a Vienna le reazioni dell'opinione pubblica italiana. Il governo italiano, volendo prudentemente evitare il suo coinvolgimento nell'iniziativa, in un primo momento vietò la raccolta di fondi per la costruzione del monumento; ma presto tale divieto fu revocato. Seppure con difficoltà l'iniziativa progrediva e la commissione trentina per il monumento, presieduta da Carlo Dardi, indisse un concorso per la scelta del progetto da realizzare; risultò vincitore lo scultore italiano Cesare Zocchi. L'inaugurazione si svolse senza incidenti l'11 ottobre 1896, e l'unica soddisfazione che il governo di Vienna potè concedersi fu il divieto di conferire a Ranzi una onorificenza italiana; essendo questi un suddito austriaco occorreva l'autorizzazione delle autorità asburgiche per la concessione di una onorificenza straniera: non ci fu invece alcuna difficoltà perchè il Ministro italiano della P.I, Gianturco, insignisse lo scultore Zocchi del titolo di commendatore della Corona d'Italia. Era reso evidente il malumore austriaco per la costruzione del Movimento dal divieto di una onorificenza italiana a Ranzi; ma già il malumore austriaco per l'atteggiamento italiano nei confronti delle terre irredente era stato eloquentemente espresso nel 1879 dal colonnello Alois Haymerle, ex addetto militare presso l'ambasciata austro-ungarica di Roma, con l'opuscolo "Italicae res". L'opera destò clamore, sia per la qualifica ufficiale dell'autore, sia per la critica radicale delle rivendicazioni irredentiste. Secondo Haymerle il principio di nazionalità non era riconosciuto dal diritto pubblico europeo: lo stesso Napoleone III e il governo italiano l'avevano rinnegato quando Nizza era stata ceduta alla Francia. Inoltre c'erano esempi importanti di stati plurinazionali e Haymerle ricordava che nel Regno unito di Gran Bretagna accanto agli inglesi vivevano irlandesi, gallesi, scozzesi. Era plurinazionale anche l'impero asburgico, cui, secondo Haymerle, andava riconosciuto il merito storico di aver bloccato l'espansione dei Turchi verso l'Europa occidentale. Non era giustificata inoltre la richiesta italiana di una modifica dei confini, essendo questi non sfavorevoli per l'Italia, nè avevano fondamento le proteste italiane per pretesi abusi polizieschi nell'impero austriaco, dove vigeva una esemplare amministrazione giudiziaria a differenza dell'Italia in cui c'erano state feroci repressioni del brigantaggio nelle province meridionali, combattuto senza alcun rispetto delle garanzie legali. Nel Tirolo meridionale e nella Venezia Giulia era rispettato l'uso della lingua italiana ed in quelle regioni accanto agli italiani vivevano popolazioni slave e tedesche i cui diritti nazionali e linguistici
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andavano rispettati al pari di quelli degli italiani. Ed ancora Haymerle ricordava come lo Stato italiano non assicurasse ai suoi cittadini condizioni di vita accettabili, come era dimostrato dal gran numero di emigranti. Per contro tutte le popolazioni dell'impero austro-ungarico. compresi gli italiani, godevano di soddisfacenti condizioni sociali. "Libertà politica e religiosa, fiorente proprietà, amministrazione prudente, compatta e adattata ai bisogni della popolazione, sicurezza della vita e degli averi, insegnamento sviluppatissimo, incremento dei costumi e delle consuetudini nazionali, servizio militare relativamente breve - ecco le forze che tengono inseparabilmente uniti i popoli della monarchia austriaca", affermava trionfalmente Haymerle.15 Non rispondeva quindi a verità che trentini e triestini aspirassero ad uscire dall'impero asburgico per unirsi all'Italia: Trieste prosperava perchè era il porto più importante ed il maggiore emporio commerciale dell'impero. In quanto poi ai compensi nei Balcani reclamati dall'Italia come corrispettivo del mandato amministrativo per la Bosnia-Erzegovina, affidato all'Austria dal Congresso di Berlino nel 1878, Roma non aveva alcun diritto ad ottenerli, piuttosto era l'Italia a dover offrire compensi, essendo divenuta un grande Stato di 27 milioni di abitanti con l'annessione di tante regioni allo staterello sardo-piemontese. Era pienamente legittimo il mandato per la Bosnia-Erzegovina affidato dalle Potenze all'Austria, che aveva svolto e continuava a svolgere nei Balcani una missione di civiltà, assicurando la convivenza di popolazioni molto diverse tra di loro per lingua, religione, costumi; la presenza austriaca nell'Adriatico era per l'Italia una garanzia e non una minaccia. La situazione esistente in quel mare era la più equilibrata e adatta ad assicurare amichevoli relazioni italoaustriache; la cessione del Tirolo meridionale all'Italia avrebbe creato un conflitto permanente tra Roma e Vienna; il riconoscimento austriaco del principio di nazionalità avrebbe segnato la fine dell'impero multietnico degli Asburgo. Già nella introduzione anonima all'edizione italiana dell'opera di Haymerle era criticato quel rifiuto di riconoscere il principio di nazionalità, divenuto un patrimonio irrinunciabile di tutti i popoli: disconoscerlo significava attardarsi in una anacronistica battaglia di retroguardia, perdente già in partenza. Ma la replica più decisa ad Haymerle si ebbe con una pubblicazione anonima (anche se è possibile riconoscervi la mano di Giacomo Venezian) edita a cura della "Associazione per l'Italia irredenta".16 In via preliminare era orgogliosamente rivendicata l'esistenza di una nazione italiana, invece "....l'Austria, priva di ogni fondamento etnografico, di ogni denominazione geografica e di 15
"Italicae Res del cavaliere Alois de Haymerle, colonnello di Stato Maggiore dell' i.r. esercito austriaco". Versione dal a tedesco con commenti e note politiche e militari (1879); 3 edizione, Firenze 1880, p. 42. 16 "Pro Patria. Risposta dell'Associazione in pro dell'Italia irredenta alla pubblicazione del colonnello austriaco Haymerle". In Bologna presso Nicola Zanichelli 1879.
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quell'organismo etico che fa gli Stati moderni". era una creazione artificiale, era "semplicemente una successione di trattati, cioè un'espressione diplomatica" (p.6). Dopo l'unificazione italiana era divenuto intollerabile un dominio austriaco in territori abitati da italiani; ad Haymerle andava riconosciuto un solo merito, aver attirata l'attenzione dell'Europa sull'irredentismo, movimento da non ignorare; a meno di non voler rinnegare la propria esistenza, l'Italia doveva rivendicare i suoi confini naturali. Lo stesso Haymerle riconosceva che l'affermazione del principio di nazionalità significava la dissoluzione dell'impero multietnico degli Asburgo; per contro l'Italia poteva vantarsi di aver innalzato in Europa "il labaro dei popoli oppressi" (p. 17). Tutti gli italiani, senza distinzione di partito, erano irredentisti, con l'eccezione di quelli interessati solo al denaro e disposti perciò a servire qualsiasi padrone. Con la Francia, malgrado Mentana, persisteva un'antica amicizia e con la Prussia c'erano identiche aspirazioni all'unità nazionale. Era invece sempre alta la tensione nei rapporti con l'Austria, resi difficili dai confini malsicuri su cui sorgevano imponenti fortificazioni austriache. Il Trentino, necessario per la sicurezza dei confini, era indubbiamente italiano, anche se, come in tutte le zone di confine, vi era una popolazione mista; italianità dimostrata "con lunghe ed unanimi proteste, con affermazioni continue, con studi, con scritti, con sacrifici, con sangue" (p. 123). Un sentimento nazionale e patriottico animava anche l'esercito italiano a differenza di quello austriaco, fedele all'imperatore e non ad una patria (p. 149). Il patriottismo dei triestini e dei trentini era dimostrato dal loro contributo sempre dato alla causa italiana. Haymerle aveva negato l'utilità per l'Italia dell'annessione del Trentino, della Venezia Giulia: era invece essenziale per l'Italia il loro acquisto: "...senz'Alpi, senza Adriatico non avvi Italia". Per raggiungere quell'obiettivo non occorrevano però stolte imposizioni, ma una preparazione attiva per trovarsi pronti all'azione" (pp. 177-178). Questi argomenti a sostegno dell'irredentismo erano analoghi a quelli usati già in precedenza dai trentini assertori della causa italiana. Antonio Gazzoletti, esule trentino in Piemonte e deputato al Parlamento Subalpino, nel 1860 si era rivolto alla Germania, che aspirava a ricongiungere le popolazioni tedesche dei ducati della Schleswig e dello Holstein, posseduti dalla Danimarca, perchè appoggiasse l'unione del Trentino all'Italia: l'impero austriaco era il comune avversario in quanto maggiore ostacolo all'unità nazionale sia tedesca che italiana.17 Lo stesso Gazzoletti alcuni anni dopo, nel 1866, ribadiva la necessità dell'annessione del Trentino, terra italiana, scrivendo: "...non è possibile che si costituisca un'Italia indipendente senza il 17
Antonio Gazzoletti "La questione del Trentino" - Milano, tipografia già Boniotti, diretta da F. Gareffi, 1860.
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Trentino, come è fuor di dubbio che il Trentino andrebbe a deperire del tutto quando le di lui sorti venissero separate dalla patria comune"; nè potevano esserci dubbi che questa patria fosse l'Italia: "...il Trentino è un paese italiano, e... i di lui abitanti italiani a nulla anelano con maggior desio, che ad esser riconosciuti ed a valere per tali". L'Austria pertanto non poteva vantare alcun diritto sul Trentino ed il confine al Brennero era necessario per la sicurezza italiana.18 In quello stesso anno 1866 a favore della italianità del Trentino si levò anche la voce di Jacopo Baisini, autore di una documentata storia dei ripetuti tentativi dei trentini per liberarsi del dominio austriaco; le loro affermazioni di italianità risalivano fino al 1794 quando Clementino Vanzetti di Rovereto aveva asserito in un sonetto "Italiani noi siam, non Tirolesi".19 Per affermare l'italianità c'erano stati tributi di sangue: il 15 aprile 1848 il colonnello austriaco Zobeb aveva fatto fucilare 21 combattenti italiani nel fossato del castello del Buonconsiglio a Trento, colpevoli di essere insorti contro l'Austria; nello stesso anno si era formato a Brescia la "Legione Trentina" a sostegno della causa italiana. Inoltre i due deputati del Trentino alla Assemblea Germanica di Francoforte (Giuseppe Festi per Trento e Giovanni a Prato per Rovereto) ed i 3 membri supplenti (fra cui il Gazzoletti) si erano sempre battuti per l'autonomia amministrativa del Trentino e la sua unione al Lombardo-Veneto, regione italiana. Tale obiettivo Giovanni a Prato continuò poi a perseguirlo come deputato al Parlamento nazionale di Vienna. Nel luglio 1859 chiesero l'unione del Trentino al Lombardo-Veneto i municipi di Trento, Rovereto, Ala, subito dopo l'armistizio di Villafranca; l'ironica risposta delle autorità austriache fu l'invito ad occuparsi di questioni di più stretta competenza municipale, come i problemi forestali: (comunicazione del pretore di Riva al podestà locale, Carlo Martini, in data 29 luglio 1859, pp.259260 dell'opera del Biasini). Non fu soltanto Gazzoletti a cercare l'appoggio della Germania alla causa italiana; lo faceva nel 1860 anche l'anonimo autore dei "Pensieri politici di un italiano dell'Italia oltre l'Isonzo", che scriveva: "Quando Italia sia tutta affrancata, quando Germania sia libera ed unita, e d'Austria non si parlerà più; nessuna maggiore amicizia di quella degli italiani coi tedeschi. I due popoli hanno 18
Antonio Gazzoletti "L'Italia rigenerata e il Trentino" Brescia, tipografia Bendisuoli 1866, p. 1,2,7. Antonio Gazzoletti (Mago 1813 - Brescia 1860), laureatosi in legge a Padova svolse l'attività forense a Rovereto e a Trieste. dove fu redattore de "La Favilla", divenendo amico di Pacifico Valussi, Tommaseo, Dall'Ongaro. Fu capitano della Guardia Nazionale nel 1848 e deputato dell'Assemblea germanica di Francoforte nel 1849; arrestato dalla polizia austriaca a Padova perchè accusato di avere idee rivoluzionarie. Tornato a Trieste, vi visse fino al 1856, quando si trasferì a Torino e fondò per invito di Cavour il giornale "Il Patriota". Eletto deputato di Piacenza al Parlamento di Torino per una legislatura, entrò poi in magistratura e divenne procuratore generale presso la Corte d'Appello di Brescia. 19 Jacopo Baisini "Il Trentino dinanzi all'Europa". Milano, tipografia di Pietro Agnelli 1866.
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ciascuno i loro pregi, assai tra loro diversi, ma è ben nella dissomiglianza che nasce più forte l'amicizia, dove nella somiglianza nasce più spesso gelosia. Italia e Germania libere ed amiche, saranno il vero cardine dell'equilibrio europeo...Ed è bene urgente, più che non si crede, e per l'Europa non meno che per esse, ch'esse libere e forti si costituiscano, e l'equilibrio europeo sopra tali basi si fondi. E il maggiore inciampo a questo giusto equilibrio, e quindi a una pace durevole e buona, è ancora pur sempre l'impero d'Austria".20 Era quasi un presagio dell'alleanza italo-prussiana nel 1866. Ma l'auspicio di una intesa italo-germanica non teneva conto dell'interesse tedesco per le terre italiane irredente. Il governo austriaco aveva chiesto il 6 aprile 1818 alla Dieta di Francoforte l'inclusione nella Confederazione Germanica del Friuli austriaco (circolo di Gorizia), di Trieste col suo circondario, della contea del Tirolo con i principati di Trento e di Bressanone. I Trentini avevano sempre osteggiato la loro inclusione nella Confederazione Germanica, voluta dall'Austria per rafforzare la propria posizione in seno alla Confederazione di fronte alla emergente Prussia. Uno studioso, Sigismondo Bonfiglio, con una sua poderosa opera sottopose ad una serrata critica giuridica la decisione di considerare parte della Confederazione Germanica il Trentino 21; ma, dobbiamo rilevarlo, era una questione politica, non risolvibile puramente in linea di diritto. L'autore riteneva illegittima quella decisione perchè presa senza rispettare i trattati: l'articolo 6 del trattato franco-austriaco stipulato a Parigi il 30 maggio 1814 prevedeva un legame federativo tra gli Stati germanici; successivamente l'articolo 5 del trattato del 9 giugno 1815 stabiliva l'ingresso nella confederazione di territori austriaci e prussiani, senza precisare quali fossero: e tale precisazione poteva farla l'Assemblea generale di Francoforte, non un singolo Stato quale era l'Austria. Inoltre, i territori italiani dell'impero asburgico nel corso del Medio Evo non avevano mai fatto parte dell'impero germanico; erano stati invece parte del regno d'Italia. Occorreva, inoltre, precisare cosa si intendesse per Trentino, chiamato Tirolo italiano in quei trattati, ma Rovereto era sempre stata una entità politica a parte, governata prima dai signori di Castelbianco e poi dalla repubblica di San Marco. La popolazione del Trentino era italiana, affermava Bonfiglio, ed all'Italia andava unita. 20
"Pensieri politici di un italiano dell'Italia oltre l'Isonzo. Milano, tipografia Pietro Agnelli 1860; pensiero 267, p. 33. L'autore era presumibilmente un triestino; la prefazione è datata Trieste 1860, ed a Trieste ed alla Venezia Giulia era rivolto nel pensiero finale questo commosso saluto: "Trieste generosa! o bei colli friulani di Gorizia obliata! O pallide rive istriane sì allegre e vivaci...! presto anche su voi si alzerà quel vessillo, che porta allegrezza alle terre e libertade ai popoli!" (pensiero 300, p. 36). 21 "Italia e Confederazione Germanica. Storia documentata di diritto diplomatico, storico e nazionale intorno alle pretensioni germaniche nel versante meridionali delle Alpi". Del prof. avv. Sigismondo Bonfiglio, 1865, presso G.B. Paravia, Torino-Milano.
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Lo stesso autore in un'opera precedente22 aveva già sostenuto l'appartenenza all'Italia del Friuli e del Trentino, da considerarsi parte del Veneto: anche dopo la fine della repubblica di Venezia vi si era mantenuta "una vita politica, civile ed economica somigliante a quella della restante contrada veneta" (p. 103). Non si poteva negare l'italianità della regione per la presenza di "pochi rozzi e degeneri resti di teutonici, di sloveni e di serbi, che scompariranno dalla penisola, come in questa cessarono popolazioni più numerose che furono politicamente dominanti e assai influenti" (p. 105). Bonfiglio concludeva affermando: "Ogni Stato deve estendersi a tutto ciò che si manifesta essere corpo ed anima, cioè a tutto lo special suo territorio, a tutta la particolare sua nazionalità" (pp. 112113). Appare singolare l'alternarsi di dotte considerazioni giuridiche ed espressioni di disprezzo razzista per le altre popolazioni presenti nel territorio; definire gli slavi della regione "pochi rozzi e degeneri resti di teutonici, di sloveni e di serbi, destinati a sicura scomparsa" era un significativo preludio ai futuri, accesi contrasti tra italiani e slavi. Rivendicava ancora i diritti dell'Italia sul Trentino Libero Liberi (pseudonimo di Antonio Panizza) affermando: "L'Italia non può dimenticare il Trentino. Deve curarne il riscatto. Il Trentino ha la coscienza di essere stato sempre generosamente italiano e fa voti perchè nuove circostanze mettano alla prova l'ardente suo patriottismo e la sua fede inconcussa nei destini propri e della sua madre, l'Italia". Oltre alle ragioni ideali spingevano all'annessione anche quelle economiche e strategiche e per quanto riguardava le seconde l'autore dimostrava di temere la Germania più che l'Austria; se la prima, sconfiggendo l'Austria, fosse divenuta limitrofa dell'Italia, questa avrebbe avuto sul confine la presenza di una potenza ancora più forte e temibile, cui sarebbe stato vano contendere il Trentino e sarebbe venuta meno l'antica amicizia italo-tedesca. Era fondamentale interesse italiano stabilire il confine lungo la catena alpina: fissarlo al passo di Cadimo, tra Bolzano e Trento, avrebbe significato per l'Italia rinunciare ad un vasto territorio, italiano nonostante la presenza di elementi germanici che avevano artificialmente mantenuto la loro identità grazie al sostegno dell'Austria.
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Sigismondo Bonfiglio "Degli studi fatti e da farsi sull'argomento dei confini d'Italia rispetto all'Austria e dei territori in cui si dovrà proporre la questione veneta". Rivista contemporanea, anno XI (1863), volume XXXIII, pp. 83-114.
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Panizza così concludeva: " Quei tedeschi venuti come ospiti o come padroni in Italia e in suolo necessariamente italiano secondo il moderno diritto delle genti, politicamente hanno perduto l'originaria loro nazionalità e si sono naturalizzati italiani".(pp. 216-217)23 Sull'importanza strategica dei confini era fondamentale l'opera dei fratelli Luigi e Carlo Mezzacapo, ufficiali che erano stati borbonici, combattenti per la causa italiana con Guglielmo Pepe nel 184949, divenuti generali dell'esercito sardo e poi di quello italiano.24 Gli autori studiavano attentamente le condizioni naturali di tutti i confini italiani, terrestri e marittimi, compivano anche simulazioni dei possibili eventi bellici, consigliando le mosse più efficaci per resistere ad eventuali attacchi e indicando le località da occupare perchè più idonee alla difesa. Particolare attenzione era riservata alla frontiera con l'Austria: era evidente, anche se sottinteso, che da quella parte potevano provenire i pericoli più gravi. Nell'arco alpino il settore più importante era quello centrale poichè il suo sfondamento avrebbe isolato dalla pianura padana il settore occidentale e quello orientale. Bolzano e Sterzing (Vipiterno) erano i punti nevralgici da controllare; a Bolzano confluivano tutte le strade dal Brennero e quindi da quella località poteva organizzarsi la difesa degli sbocchi alpini; Sterzing (il cui nome era italianizzato in Sterzinga) era il punto in cui concentrare le riserve destinate a sostenere le truppe dislocate nell'alta valle dell'Isarco. La stretta di Cadimo, posta tra Bolzano e Trento, era il varco attraverso il quale poteva esser superata la difesa naturale formata dai monti posti tra le valli dei fiumi Noce ed Avisio; la catena del Briglio ed i monti Lessini formavano una ulteriore difesa naturale per Rovereto, località strategica all'incrocio di strade rivolte in varie direzioni. Le difese naturali erano importanti, "ma osservavano i Mezzocapo - la difesa si renderà ancora più efficace, se un forte ordinamento di milizie ritempri l'animo e le forze delle popolazioni italiane. Quei labirinti di montagna e di passi conosciuti soltanto dagli abitanti dei luoghi può dar campo a mille combinazioni ed operazioni ardite sulle comunicazioni dell'invasore" (p. 392). Il Brennero era la miglior via d'accesso al Trentino; il settore alpino orientale era il più debole perchè i monti erano lì meno alti ed in molti luoghi meno disagevoli e più aperti" (p. 397). Tarvis (Tarvisio) si trovava al centro delle vie di comunicazione e quindi conveniva assicurarne la difesa fortificando l'imbocco delle valli della Pontebba e dell'Isonzo; ma era utile prevenire "l'avversario al di là delle Alpi, ed occupare Tarvis, Villach, l'alta Drava ed il corso della Sava, 23
"L'Italia esposta agli Italiani. Rivista dell'Italia politica e dell'Italia geografica nel 1871". Per Libero Liberi (Antonio Panizza) Valentini e Maes - Milano 1873. 24 "Studi topografici e strategici su l'Italia per Luigi e Carlo Mezzacapo" . Milano, dott. Francesco Vallardi tipografoeditore con stabilimento geografico, 1859.
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alfine di coprire tutte le vie che menano in Italia, da Toblach a Fiume; allora il Tirolo italiano non potrà essere altrimenti invaso che dalla parte del Tirolo Tedesco e della Baviera"(p. 405). Nel 1859 i Mezzacapo facevano una disamina teorica delle prospettive di un nuovo conflitto con l'Austria in futuro e delle esigenze strategiche che ne derivavano. Nel 1866 si realizzò l'eventualità da essi prevista con la guerra italo-prussiana contro l'Austria; spettò allora la parola al governo di Bettino Ricasoli e non più a quanti, militari, politici, studiosi erano intervenuti a titolo personale e privato sul problema del Trentino. Sia Ricasoli che Emilio Visconti-Venosta, ministro degli Affari Esteri, nel luglio 1866, quando era prossima la conclusione della guerra, si adoperarono perchè non solo il Veneto, ma anche il Trentino e l'Istria passassero all'Italia.25 Ricasoli in un appunto autografo dell'8 luglio 1866 sulla situazione politica interna annotava: " Da tutte le parti d'Italia i Prefetti hanno comunicato al Governo il sentimento di umiliazione e di abbattimento prodotto nelle popolazioni dalla notizia che la Venezia sarebbe ceduta all'Italia per mezzo della Francia, senza neppure parlare del Tirolo italiano e degli altri paesi i quali appartengono all'Italia tanto per diritto nazionale quanto per necessità di difesa. Ovunque è il desiderio che continui la guerra e il malumore per questa inazione delle forze militari è generale..." (Ricasoli, op. cit. p. 42). Per porre fine all'inazione dell'esercito regolare Ricasoli lo stesso giorno 8 luglio ordinava al generale Pettinengo di telegrafare a La Marmora di sostenere i garibaldini, che proseguivano la loro avanzata nel Trentino, con l'invio di una divisione, "mandandola ad occupare il Tirolo italiano" (p. 44). E sempre l'8 luglio Visconti Venosta telegrafava a Costantino Nigra, rappresentante dell'Italia a Parigi: "le territoire à réunir au Roy-aume devrait s'étendre aux frontières indespensables à sa sécuritè, le Tyrol italien en fairait par consequant partie" (p. 44 "Il territorio da riunire al Regno dovrebbe estendersi fin alle frontiere necessarie per la sua sicurezza, il Tirolo italiano di conseguenza ne farebbe parte"). Ed il 9 luglio 1866 Ricasoli telegrafava a Visconti Venosta, recatosi al fronte: "Faccia che si occupi Tirolo risolutamente, efficacemente, cosa impossibile se si persiste adoperare volontari soli" (pp. 46-47). Lo stesso giorno Ricasoli incalzava Visconti Venosta telegrafandogli: "L'occupazione del Trentino, occupazione seria e durevole, è ella fatta? Io credo che convenga appoggiare i volontari con una buona mano di truppe regolari, senza di che non vedo garanzia" (p. 52). 25
Bettino Ricasoli "Lettere e documenti", volume VIII - Firenze, successori Le Monnier, 1891.
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Da parte sua Visconti Venosta non restava inattivo, sempre lo stesso 9 luglio telegrafava a Nigra perchè facesse a Napoleone III questa comunicazione: "Le Gouvernement italien se réserve esplicitement de soulever dans les régociations de paix la question du Tyrol italien" ("Il Governo italiano si riserva esplicitamente di prospettare nei negoziati di pace la questione del Titolo italiano"); l'Italia confidava nell'appoggio dell'imperatore francese e proponeva per sancire l'annessione del Tirolo italiano il ricorso ad un plebiscito popolare come lo stesso governo francese aveva suggerito per l'annessione dei ducati danesi rivendicati dalla Prussia (p. 56). Con successiva lettera del 12 luglio a Visconti Venosta, Ricasoli includeva nelle rivendicazioni italiane anche l'Istria (pp. 56-57). Per concludere le trattative da una posizione di forza, sulla base del fatto compiuto, il presidente del consiglio scriveva da Firenze il 16 luglio 1866 a Visconti Venosta, ancora al fronte: "...si dovrebbe subito assicurare l'occupazione di quei territori che poco speriamo di avere se non li occupiamo, e per me insisto a dire e a proclamare che dessi sono due: Tirolo ed Istria. Io credo che l'uno e l'altro possano essere occupati in pochi giorni. Quanto a Trieste ricordo che il generale Cialdini disse che vi avrebbe distaccato una divisione" (p. 65). Da tali disegni dissentiva in parte Diomede Pantaleoni, scrivendo a Ricasoli da Macerata il 17 luglio 1866 per confermare con queste parole la necessità di occupare il Trentino: "Il Tirolo italiano è a noi più necessario di Venezia stessa. Esso è il punto, del quale la testa fortificata è Verona, e la via per la quale passano le più fatali invasioni nordiche; nè potremmo avere pace sicura finché il Trentino non sia nostro". Pantaleoni era invece decisamente contrario a rivendicare Trieste e l'Istria; scongiurava difatti Ricasoli "pel bene dell'Italia di non impegnare il suo governo, di non impegnare il Re in un sistema di dubbiose annessioni, difficili a condurre ed ancor più difficili a mantenere. Io non so" - precisava Pantaleoni - se Trieste con un terzo di abitanti italiani, un terzo slavi, un terzo tedeschi, possa dirsi città italiana; ma questo so che un porto di mare è la bocca che appartiene alla regione da esso porto provvista e che ne è lo stomaco; che Trieste provvede i paesi che si accolgono oltre al Danubio ed all'Elba, e che se la pace desse in nostre mani Trieste, il suo possesso ci sarebbe eternamente conteso...". Trieste doveva quindi restare austriaca ed in quanto all'Istria, Pantaleoni scriveva: "E dell'Istria cosa abbiamo a sperare? Ella sa quante difficoltà e quali pericoli specialmente per la nostra libertà ci han dato e ci danno le province meridionali che pure sono italianissime. Vuole ella ora raddoppiarle con l'annessione di province che per secoli ebbero altro regno, altra civiltà? Il vero interesse italiano è che Trieste sia città libera, città anseatica come Amburgo, come Lubecca, come Brema, e neutrale ognora in guerra".
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Doveva esser neutrale anche il Tirolo tedesco con la sua annessione alla Svizzera. In definitiva per Pantaleoni gli interessi dell'Italia non consistevano in una "artificiosa estensione di territori" ; ma in una pacifica espansione culturale ed economica in Oriente, era necessario solo l'acquisto del Trentino imposto dalla sicurezza dei confini (pp. 70-73; erroneamente a Pantaleoni è attribuito il nome Domenico anziché Diomede). Ben diverso era invece il giudizio di Raffaele Contarini, direttore dell'agenzia della triestina Riunione Adriatica di Sicurtà a Firenze, espresso in una serie di articoli pubblicati il 23,24,25 luglio 1866 su "La Nazione" di Firenze.26 Come Bonfiglio, anche Contarini giudicava illegittima l'inclusione di Trieste e degli altri territori austriaci in Italia nella Confederazione Germanica e negava l'importanza di Trieste per l'impero asburgico in quanto da quel porto passava solo il traffico diretto verso il Mediterraneo, gli scambi commerciali diretti verso l'Atlantico avvenivano invece attraverso i porti del Baltico e del Mare del Nord, collegati all'Austria da una efficiente rete ferroviaria e dalle vie fluviali del Weser, dell'Elba, del Reno, della Vistola e del Danubio. Per Contarini erano invece più importanti per Trieste i traffici commerciali con l'Italia; inoltre Trieste subiva "un fiscalismo oppressivo" imposto da Vienna. La conclusione di Contarini nell'ultimo articolo del 25 luglio era un atto d'accusa contro l'Austria: "Il Governo non tende che ad estorcere il denaro che servir deve a puntello di quell'edificio crollante senza il cui abbattimento l'Europa non godrà mai pace duratura". Delenda Austria, quindi, e Contarini si augurava che il governo di Ricasoli e gli italiani si convincessero che Trieste "estremo lembo d'Italia" era la "prima barriera contro l'invasione dello straniero"; essa avrebbe portato in dote all'Italia "il suo contingente di civiltà, di progresso e di splendore". Ma se erano contrastanti i pareri sulla opportunità per l'Italia di rivendicare Trieste e la Venezia Giulia, era invece unanime il riconoscimento della necessità di ottenere il Trentino. Su tale acquisto insistevano sia Ricasoli nella lettera a Visconti Venosta del 21 luglio 1866 (pp. 7980), sia Nigra che il 22 luglio chiedeva al Ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuis di appoggiare la richiesta italiana (pp. 82-83). Ma da Parigi non giunse alcun sostegno; l'Austria era da parte sua irremovibile e chiedeva prima di ogni altra cosa il ritiro delle forze italiane dal territorio occupato nel Trentino: richiesta avanzata con il minaccioso concentramento alla frontiera di un esercito forte di 100-140 mila uomini; lo
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Articoli poi raccolti nell'opuscolo "Trieste. Sue condizioni politiche ed economiche. Memoria presentata a S. E. il Barone Bettino Ricasoli Presidente del Consiglio dei ministri".
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comunicava Nigra a Visconti Venosta, asserendo di averlo appreso da sue fonti private a Vienna e consigliando di informare subito la Prussia di quella minaccia austriaca (p. 95). Ma si rivelò vana la speranza nella solidarietà prussiana: Visconti Venosta informava infatti Nigra con telegramma da Firenze in data 9 agosto del rifiuto di Berlino di proseguire la guerra affinché l'Italia potesse mantenere il controllo del territorio occupato nel Trentino (pp. 96-97). E Nigra da Parigi a sua volta comunicava a Visconti Venosta il 10 agosto il rifiuto austriaco a trattare l'armistizio senza un preventivo sgombero delle truppe italiane dal Trentino (p. 97). I generali austriaci delegati alle trattative agivano con una tracotanza tale da indurre Quintino Sella, commissario per i territori occupati dagli italiani nel Trentino, a telegrafare a Ricasoli da Udine l'11 agosto 1866 che gli austriaci si comportavano "con disprezzo e sconvenienza per noi"; pertanto chiedeva di poter al più presto lasciare lo scomodo incarico, accettato per amor di patria, al D'Afflitto, già designato a sostituirlo (pp. 97-98). Svanirono mestamente nel 1866 le speranze italiane di un possibile acquisto del Trentino, alimentando un clima di rimpianti e delusioni, alternati ad entusiasmi ed esaltazioni patriottiche già preesistenti: in tale clima appunto Baratieri si formò e crebbe. Ancora adolescente di 17 anni, quando era allievo dell'Imperial Regio Ginnasio dei padri Benedettini a Merano, Baratieri diede scandalo perchè il 12 dicembre 1858 fu sorpreso a leggere le poesie di Giuseppe Giusti in chiesa, durante una cerimonia religiosa. Era sconveniente agli occhi dei Benedettini il momento scelto da Baratieri per quella lettura; lo era ancor più perché Giusti era autore inviso alle autorità per le frecciate sarcastiche rivolte all'Austria. Al giovane Barater (a quell'epoca il cognome originario non era stato ancora italianizzato in Baratieri ) il libro fu subito sequestrato e già il giorno successivo fu disposta la sua espulsione. Il giovane, temendo l'ira del padre, fuggì da casa, facendovi ritorno dopo qualche tempo; ma si allontanò nuovamente per recarsi a Milano, dove entrò in contatto con gli ambienti garibaldini e si arruolò tra i Mille. Fu assegnato al piccolo reparto di artiglieria della spedizione e prese parte a tutti i combattimenti distinguendosi per il coraggio; raggiunse pertanto il grado di capitano ed ottenne la medaglia d'argento per il suo comportamento nella battaglia presso Capua nell'ottobre 1860. Fu uno dei pochi garibaldini ammesso nell'esercito regolare e prese parte alla battaglia di Custoza nel 1866 ottenendo la medaglia di bronzo grazie all'impegno ancora una volta da lui dimostrato, così descritto da Jules Claretie molti anni dopo nella prefazione all'edizione francese delle "Memorie d'Africa", in cui Baratieri volle difendersi dalle accuse rivoltogli dopo l'infausta giornata di Adua: "il se battait avec un achernement intrépide dans la journeé de Custoza, comme il s'était
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battu à Calatafimi et à Volturno" ("combatteva con un accanimento coraggioso nella giornata di Custoza, come si era battuto à Calatafimi e al Volturno"). 27 Oltre che per questo suo valoroso comportamento, Baratieri si mise presto in luce, non ancora trentenne, per la sua copiosa attività letteraria, legata alle vicende storiche del suo tempo ed ai problemi dell'organizzazione militare in Italia ed in altri paesi, dirigendo per lunghi anni la "Rivista militare italiana". Notevole già la sua prima opera dedicata alla guerra franco-prussiana del 1870, apparsa a puntate sul "Corriere di Sardegna" nel 1870 e poi pubblicata in volume a cura dello stesso giornale.28 Baratieri si sentì particolarmente coinvolto nelle vicende di quella guerra, in quanto giudicava analoghe le condizioni del suo Trentino e quelle dell'Alsazia-Lorena, essendo in entrambi i casi violata l'identità nazionale dalla occupazione straniera. In una intervista rilasciata molti anni dopo, il 23 aprile 1898, a "La France Militaire", Baratieri affermava: "...j'assimile volontiers ma position par rapport à l'Italie à celle d'un Alsacien-Lorrain vis-à-vis de la France. Ma province natal, le Tyrol italien, est dans les mains de l'Austriche, comme Metz et Strasbourg sont entre celles de l'Allemagne..." ("..io paragono volentieri la mia posizione rispetto all'Italia a quella di un alsazianolorenese di fronte alla Francia. La mia provincia natia, il Tirolo italiano, è nelle mani dell'Austria come Metz e Strasburgo lo sono in quelle della Germania..."). Malgrado la simpatia per la causa francese, i giudizi di Baratieri appaiono equilibrati: l'autore non poteva fare a meno di ammirare la perfetta organizzazione militare prussiana; non a caso Moltke, il geniale stratega artefice della vittoria germanica, volle poi conoscere Baratieri in occasione di una sua visita a Milano ("Gazzetta di Treviso", 11 dicembre 1876). E' una riprova di questa ammirazione di Baratieri per l'ordinamento militare prussiano l'articolo "I sottoufficiali in Prussia"; pubblicato contemporaneamente alle "Lettere Militari" sulla guerra franco-prussiana ("Rivista militare italiana", novembre 1871, pp. 261-289). Erano puntualmente analizzati i metodi di formazione dei sottoufficiali prussiani ed i compiti loro assegnati. In Prussia, come in molti altri paesi - scriveva Baratieri - era avvertito "il bisogno che le diverse parti dell'esercito siano armonicamente unite in un tutto, nel quale l'intelligenza dei capi si trasfonde man mano per i gradini della scala gerarchica, ad educare, preparare, dirigere la massa armata allo 27
"Mémoires d'Afrique par Oreste Baratieri" - Charles Delagrave - H. Charles Lavaurelle. Paris 1900 (?) prefazione di Jules Charetie, p. VIII. 28 "Da Weissenberg a Metz. Lettere militari (Estratte dal Corriere di Sardegna)" Tipografia del "Corriere di Sardegna", 1871. Non è indicato il nome dell'autore. Nella copia custodita presso la Biblioteca civica di Rovereto si legge aggiunto a penna dopo il titolo questa nota anonima: "Di Oreste Barattieri (sic), figlio di Domenico Barattieri (sic) di Rovereto, giudice in Condino, dove nacque Oreste, che nel 1860 fu uno dei primi fra i Mille di Garibaldi che sbarcarono a Marsalla (sic) e protesse lo sbarco dei suoi commilitoni. Ora egli è capitano di fanteria nell'Esercito Italiano. Bravo!"
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scopo supremo della vittoria. Nessun altro esercito di certo presenta questo tutto solido, ordinato, vigoroso come il prussiano. Ruota importante del micidiale meccanismo che abbiamo veduto nell'ultima guerra funzionare con tanta celerità, forza e precisione, è la classe dei sotto-ufficiali (p. 262)." L'ammirazione per tale spiccata professionalità finiva quasi per prevalere sulle ragioni ideali per cui Baratieri nutriva simpatie filo-francesi. Riscuoteva l'appoggio di Baratieri anche il nuovo regolamento militare austriaco, cui erano dedicati due articoli sempre sulla "Rivista Militare Italiana" ("Il nuovo regolamento di servizio per l'esercito austro-ungarico. I, gennaio 1874, pp. 41-66; II, maggio 1874, pp. 208-231). L'austriaco era il nemico di sempre, particolarmente inviso agli irredenti come Baratieri, ma in questi anche in tale occasione la solidarietà professionale finiva per prevalere, portandolo ad uno sfoggio di fair-play nella conclusione del primo articolo: il nuovo regolamento avrebbe continuato ad ispirare ai militari austriaci "quella disciplina seria, quella abnegazione costante, quel contegno dignitoso ed ardito, quella fiera sicurezza di sè che gli procurarono la stima, il rispetto e la simpatia degli eserciti tutti, ma specialmente di quelli che ebbero a provarne la salda bravura sul campo si battaglia" (I, p. 66). Nell'analizzare la guerra franco-prussiana Baratieri sottolineava anzitutto l'importanza della propaganda nel corso di una guerra, giudicando la diffusione di notizie false, utili a rincuorare i soldati, come aveva fatto Kutuzof dopo i primi scontri con gli invasori francesi e come nel 1870 facevano sia i francesi che i prussiani; criticava lo stato Maggiore italiano perchè aveva esagerato la gravità della sconfitta di Custoza nel 1866, dipingendo "come disastroso ciò che era un insuccesso e sparse il terrore nel paese" (lettera VII, 30 luglio 1870, p. 41). Erano invece censurati Napoleone III ed il maresciallo francese Bazaine, sia per i loro errori strategici che per la sfiducia nei volontari: "Quale terribile responsabilità pesa su chi ha ridotto a tale quella splendida armata e ne ha soffocato lo slancio patriottico col regime militare..." (Lettera XXVI, 20 agosto 1870, p. 101). La difesa popolare di Parigi destava una rinnovata speranza in Baratieri, malgrado gli scarsi armamenti, l'inesperienza degli uomini, l'inettitudine dei capi: "Ma l'entusiasmo patriottico, l'ira contro lo straniero invasore, il grande compito di salvare l'onore e il suolo della Francia possono compensare qualunque difetto militare..." (Lettera XXXVI, 18 settembre 1870, p. 169). Non si faceva comunque soverchie illusioni Baratieri sull'esito della guerra: l'esercito prussiano era animato da motivazioni ideali, a differenza di quello venuto nel 1793 per soffocare la rivoluzione francese. Nel 1792 -93 la Francia combatteva contro un esercito dinastico, ora combatteva contro una nazione armata. Allora non aveva contro che soldati senza idee, senza principi, educati in
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caserma, cresciuti al suon di tamburo; ora ha contro tutto un popolo forte dei suoi sentimenti, per la meravigliosa armonia colla quale si è unito contro lo straniero..." (Lettera XXXVII, 17 settembre 1870, p. 171). Lo slancio ideale era il segreto del successo: slancio ben presente nei volontari garibaldini accorsi a difendere la Francia dimentichi dell'intervento francese nel 1849 che aveva soffocato la repubblica romana e del triste episodio di Mentana nel 1867. Non nutriva molta speranza Baratieri nel generoso tentativo di Garibaldi, compromesso anche dalle divisioni esistenti tra i francesi (Lettera LI, 17 ottobre 1870, pp. 226-227). Non tutti i francesi difatti avevano accolto con simpatia l'intervento di Garibaldi per il timore di un attacco russo ed austriaco, in odio al condottiero italiano. Per contro il governo prussiano aveva dato disposizione perchè Garibaldi, se fatto prigioniero, fosse trattato con ogni riguardo (Lettera LX, 5 novembre 1870, p. 267). L'avversione del governo di Parigi ai volontari era il principale motivo del grave insuccesso francese. La Prussia poteva contare non solo su di un'efficiente organizzazione militare, ma anche sulla passione civile dei suoi soldati. Al contrario in Francia si era fatto dell'esercito un corpo separato della società: "Si è creduto miglior soldato, il più rotto alle fatiche, il più separato dalla vita del popolo". Si era rivolta ogni cura verso l'esercito regolare, trascurando per un pregiudizio ideologico ogni ricorso al volontariato. La negativa esperienza francese sperava Baratieri potesse giovare ad evitarne una simile in Italia, dove doveva sorgere "un ordinamento corrispondente alla nostra indole ed ai nostri bisogni", il quale valga a tutti educare, a tutti istruire per difendere la nostra unità, il nostro suolo e per tenere alto l'onore d'Italia" (Lettera LXII, 10 novembre 1870, p. 277). Un esercito di popolo alimentato da uno slancio patriottico era il costante ideale di Baratieri che lo ritrovava anche in altri paesi; come la Grecia, cui era dedicato l'articolo "Le condizioni militari della Grecia" (Nuova Antologia 15 novembre 1879, estratto pubblicato dalla tipografia Barbera, Roma 1879 da cui son tratte le citazioni). Dopo una lunga decadenza civile e militare, si era ridestato l'antico valore ellenico nel corso delle lunghe guerre contro i Turchi: la natura stessa del paese, montagnoso e marittimo, aveva temprato quei combattenti indomiti, ispirando ad essi "questo spirito di indipendenza, questo amore di patria, questa passione di intraprese e di avventure, che nella lotta contro la Turchia hanno reso possibili i più splendidi atti di eroismo coronati da incredibili successi" (p. 10 dell'estratto). Al di là di tale discutibile motivazione naturalistica, ragione fondamentale dell'eroismo greco era però la passione civile, frutto dell'educazione militare nella scuola, proposta dal generale Corneas in un discorso alla Camera; proposta pienamente approvata da Baratieri con queste parole: "Per
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provvedere efficacemente alla difesa di un paese occorrono istituzioni militari che entrino nella vita del popolo, che lo educhino man mano, che ne ingagliardiscano le fibre, che gli diano gusto ed attitudine alle armi, che gli indichino sempre i suoi sacrosanti doveri verso la patria". (p.20) La coscienza di questi sacrosanti doveri, a prescindere dalle particolarità della natura del territorio greco, - dobbiamo osservare noi - animava i soldati greci che davano il meglio di sè quando combattevano in difesa della loro patria: "I soldati, specialmente a giorni che corrono, sono figli del popolo, e ne rappresentano vizi e virtù. Forse l'esercito greco in teatro di guerra lontano, contro nemici sconosciuti non spiegherebbe le sue qualità. Ma contro i Turchi combatte strenuamente" (pp. 21-22). L'attività bellica aveva rafforzato la coscienza nazionale greca, che poteva divenire un esempio per gli altri popoli balcanici e portare alla soluzione della "troppo lunga e complicata questione orientale", fino ad allora solamente campo di manovra per le diplomazie europee (p. 36). Esisteva però il rischio che lo spirito risorgimentale e garibaldino, cui Baratieri continuava ad ispirarsi, degenerasse in una anarchia pericolosa per l'efficace azione dell'esercito e per la stessa vita civile. Tale rischio era chiaramente percepito da Baratieri nell'articolo "La guerra civile di Spagna. 1873-1874" (estratto di articoli pubblicati sulla "Nuova Antologia", Firenze successori Le Monnier 1875), in cui si sosteneva la necessità di imporre una severa disciplina per correggere gli eccessi di uno spontaneismo pericoloso. Osservava difatti Baratieri: "Le brillanti virtù, la fierezza, l'ardore della lotta, lo sprezzo dei beni materiali, l'insofferenza di giogo, l'entusiasmo...servono ad incidere pagine gloriose nella storia; ma quando oltrepassano la misura sono di danno al saggio regime ed al pacifico svolgimento del progresso. Egli è perciò che vediamo talvolta i popoli più generosi in preda alle più violente agitazioni politiche, le quali ne sconvolgono ogni ordinamento, ne sfibrano ogni energia, ne inaridiscono ogni sorgente di prosperità". Era quanto successo nella Spagna, dove le guerre avevano alimentato le passioni popolari e lasciato "uno strascico di mali, che solo un governo saggio, paziente e riparatore avrebbe potuto curare" (I, "La parte carlista", p. 71). Il principale di quei mali era forse il prevalere di interessi personali sulle ragioni ideali, "La serena bravura" del soldato spagnolo - affermava Baratieri - era "troppo sovente guasta e corrotta dalla piaga cancerosa dei pronunciamenti. Un generale qualunque chiama i reggimenti in piazza, li solleva, innalza una bandiera, impone un ministero, ovvero addirittura proclama il governo che meglio gli garba, ed in tal guisa ottiene gloria, ricchezza, trionfi".
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Questa degenerazione sociale e politica causata dai caudillos era così condannata: "...la spada non serve al paese, ma all'interesse proprio, all'ambizione altrui, alla lotta dissolvente dei partiti" (II, "L'esercito spagnolo e le campagne del 1873", p. 26 e p. 27). Molti anni dopo, nel 1888, quando era già iniziata la sua esperienza africana, Baratieri considerava la disciplina una caratteristica essenziale dell'ordinamento militare nel saggio "Di fronte agli Abissini" (Nuova Antologia, 1° agosto 1888, pp. 407-444), facendo questa significativa considerazione: "E' la disciplina che unendo gli atti individuali dà a ciascun soldato il sentimento della forza riunita; è la disciplina che imponendosi al disordinato volere nemico soffia nelle masnade il germe del panico che le volge in fuga; è la disciplina che rende possibile la manovra e quindi detta legge sul campo di battaglia; è infine la disciplina che strozza il numero ed agghiaccia l'ardore nemico" (pp. 419-420). Giovavano a mantenere la disciplina anche alcuni aspetti formali, come la cura dell'abbigliamento (p. 420). La disciplina non doveva però diventare oppressiva, scavando un solco tra gli ufficiali ed i soldati: il comando andava esercitato facendo rispettare un "disciplina severa e giusta, ma non arcigna ed autoritaria", senza comprimere il naturale buonumore dei giovani, "un tesoro nascosto che si converte in salute, in forza, in ardimento" (p. 443). Dell'ordinamento da dare all'esercito italiano, Baratieri si occupò a più riprese, a partire dall'articolo "La questione della ferma in Italia" (Nuova Antologia, 15 aprile 1880, pp. 716-737), in cui confermava la necessità di coniugare l'addestramento militare con l'educazione civile, sostenendo che occorreva reclutare i militari in tutte le classi sociali, senza escludere i cittadini privilegiati per il censo e l'istruzione. La tutela dell'ordine pubblico non doveva essere affidata all'esercito, come era avvenuto per la repressione del brigantaggio nelle regioni meridionali subito dopo l'unità: i compiti di polizia andavano piuttosto assegnati alla guardia nazionale. Per tener vivo nelle popolazioni lo spirito militare e patriottico ereditato dal Risorgimento occorrevano "istituzioni profonde ed armoniche col sentimento nazionale, che abbraccino tutti i cittadini, che sempre ad ogni momento ricordino loro il dovere della difesa della patria". C'era da trarre profitto anche dalle sconfitte: quella a Dogali, dove era stata massacrata la colonna dei cinquecento guidata dal tenente colonnello De Cristoforis ad opera del ras abissino Alula, aveva destato ammirazione per il valore dimostrato dai soldati italiani, che avevano "morendo, rinfrancati gli spiriti e sollevato patria ed esercito nella testimonianza propria ed altrui"; tanto valore Baratieri lo attribuiva alla natura stessa del territorio italiano, ricorrendo ad una spiegazione naturalistica già usata nel caso della Grecia; la costituzione fisica dell'Italia poneva "l'individuo del contado in lotta colle asprezze dei monti, od in faccia ai perigli del mare" ("Forza e spirito delle truppe combattenti italiane", Nuova Antologia, fascicolo XI 1887).
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Una palestra idonea per mantenere viva quella innata disposizione alla attività militare e alla passione patriottica secondo Baratieri potevano essere le Società di Tiro a Segno, antica istituzione risorgimentale, decisamente sostenuta da Garibaldi. Lamentava Baratieri che "per mancanza di direzione vigorosa, per difetto di iniziativa, per eccessivi riguardi nella spesa, per tentennamenti, imbarazzi di ogni natura, l'istituzione che doveva sorgere piena di vita e di forza" invece languiva. Si creavano le società, ma non si organizzavano i corsi di tiro. Con poche modifiche al regolamento e senza un eccessivo aumento di spesa si sarebbe potuto avere due o tremila società, - scriveva Baratieri nel suo articolo - "centro di addestramento, perni di difesa locale, focolai di spirito militare", testimonianza dello spirito risorgimentale sempre vivo nell'animo degli italiani: "E' una religione che unisce i cuori, che lega alla memoria del passato, che migliora ed eleva verso le serene e forti aspirazioni delle lotte avvenire..." Una conferma del costante interesse di Baratieri per le Società di Tiro a Segno ci proviene da molte lettere sue e dei suoi corrispondenti. Preoccupato per il fatto che molte società esistevano solo sulla carta, l'amico Brentani scriveva a Baratieri il 24 agosto 1884 perchè fosse approvata una legge più rispondente alle varie realtà locali, per "spoltrire e militarizzare i cittadini".29 E Baratieri dal canto suo esaltava tale funzione in una lettera alla Società di Tiro a Segno di Breno, lodata con queste parole perchè preparava i cittadini alla difesa della patria: "Ecco la fratellanza fra esercito e cittadini, ecco la nazione armata nel forte e ordinato senso della patria, ecco una istituzione civica che servirà a mantenere in Italia lo spirito militare, senza del quale nessuna nazione può dirsi sicura".30 Il presidente del Consiglio Depretis riconosceva la particolare competenza di Baratieri in quel campo e gli chiedeva una breve relazione sulla nuova legge per le Società di Tiro a Segno, già approvata dalla Camera e in discussione al Senato. Nonostante la lusinghiera richiesta Baratieri però lamentava lo scarso interesse di Depretis per il Tiro a Segno, non avendo favorito la partecipazione italiana alle gare internazionali di Lugano: "Ma ciò non gli aumenterebbe i voti in Parlamento: ed egli non guarda che a questo", scriveva all'amico Maranini.31
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Archivio di Stato - Venezia, carte Baratieri , serie 10 , busta 7 , fascicolo I A 1879-1885 Società di Tiro a Segno, documento 17. D. Brentani a Baratieri, Bassano 24 agosto 1884. 30 Ibidem, documento 14. Baratieri alla Società di Tiro a Segno di Breno - minuta priva di data. 31 Ibidem, documento 13, appunto di Depretis per Baratieri senza data; ibidem, fascicolo 10, documento 10 - Baratieri a Maranini, Lugano 9 luglio 1883.
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Per sostenere l'importanza educativa delle Società di Tiro a Segno, Baratieri iniziò a pubblicare un supplemento periodico della "Rivista militare italiana", dal titolo "Il Tiro a Segno", riassumendo così le finalità nell'articolo di presentazione: "Preparare la gioventù al servizio militare, promuovere e conservare la pratica delle armi in tutti coloro che fanno parte dell'esercito permanente e della milizia: ecco lo scopo che si vuole gradatamente raggiungere".32 Per questa sua attività Baratieri ottenne numerosi riconoscimenti, molte società gli offrirono la presidenza onoraria; particolarmente significativa fra le tante la dedica della società di Lucera per l'offerta fatta a Baratieri "come a valorosissimo soldato, come a cittadino di quella Trento che, speriamo, sarà presto anch'essa restituita alla gran madre Italia".33 In ogni occasione, anche in quelle che potevano sembrare una semplice impresa sportiva, affiorava in Baratieri lo spirito patriottico. Nel ricordare una sua scalata sulla cima dell'Adamello difatti Baratieri scriveva: " Una bandiera, recata lassù dai soldati alpini, m'infonde energia. Giungo all'asta e l'afferro come se fosse la mia salvezza. In quella solitudine infinita parlava la patria, e gli occhi mi si gonfiano di commozione. Ecco la mia confessione; me lo perdoni il lettore cortese. Vedevo i baldi nostri alpini arrampicarsi lassù pieni di fede e di santissimo zelo; la patria mi pareva rigenerata, mi splendevano innanzi i suoi giorni
avvenire come splendeva il sole sopra lo
sfavillante cielo".34 Fra le numerose relazioni di Baratieri con gli assertori dell'italianità del Trentino spicca quella con il venerando abate di Rovereto Giovanni a Prato, sostenitore dell'italianità della regione nella Confederazione germanica di Francoforte e poi nel Parlamento nazionale di Vienna. Venivano così a saldarsi le istanze autonomistiche proprie del periodo precedente l'unità italiana con le rivendicazioni irredentiste di cui Baratieri si faceva portatore. Divenuto membro del Consiglio dell'impero, l'abate si trovò a dover fronteggiare una difficile situazione quando vi furono discusse le cosiddette leggi confessionali negli anni 1873-74, che stabilivano la parità di tutte le confessioni cristiane ed abolivano ogni privilegio cattolico introdotto dai Gesuiti. In seno al partito nazionale liberale trentino, rappresentato dall'abate insieme ad altri 5 deputati nel Consiglio dell'impero, qualcuno dubitò della posizione che avrebbe egli assunto in quella occasione, temendo che la sua condizione di religioso prevalesse sui suoi sentimenti liberali per cui non avrebbe votato a favore di quelle leggi. L'abate ricordò fieramente di avere già in precedenza difesa la libertà di ciascuno e la parità delle religioni cristiane; ma non si espose troppo nel sostenere quelle tesi per non inasprire 32
Ibidem, documento 42, presentazione del supplemento "Il Tiro a Segno". Ibidem, fascicolo IA, documento 28, lettera a Baratieri del presidente della Società di Tiro a Segno di Lucera; 5 agosto 1884. 34 Oreste Baratieri "Una salita alla cima dell'Adamello". Per il mondo. Note di viaggio - Roma, Edoardo Perino editore 1884, pp. 67-81. Scalata fatta il 21 agosto 1883. 33
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ulteriormente i rapporti con i clericali conservatori, cui era già inviso per l'attività del "Nuovo Giornale del Trentino" da lui fondato e perchè cercava di conciliare il partito liberale con quello clerical-conservatore. Non intervenne quindi nel dibattito sulle proposte di legge, ma non mancò di votare a favore di esse. Dopo la loro approvazione a larga maggioranza contro di lui si scatenarono i rimbrotti e le polemiche dei clericali: il vescovo di Trento gli intimò di ritrattare il suo voto, minacciandolo della sospensione a divinis: l'abate fu costretto pertanto ad una ritrattazione, sperando che amici ed elettori si sarebbero resi conto della pesante costrizione cui era stato sottoposto. Ma non trovò comprensione, anche perchè i clericali sbandierarono come una loro vittoria quel passo indietro, e gli elettori chiesero le sue dimissioni dal Consiglio imperiale: amareggiato per la mancata comprensione e posto di fronte ad un nuovo ultimatum dopo quelli del vescovo, a Prato si ritirò dalla vita politica. In quella dolorosa occasione, Baratieri che si rivolgeva all'abate chiamandolo "maestro ed amico", gli dimostrò la sua solidarietà scrivendogli il 4 settembre 1874 che i Trentini, "passato il primo bollore", avrebbero capito l'errore commesso chiedendogli le dimissioni e gli avrebbero confermata la fiducia. Baratieri si metteva a sua disposizione anche come giornalista (scriveva sul "Fanfulla" usando lo pseudonimo di "Fucile"). La lettera fu di grande conforto per a Prato ed i due rimasero amici fino alla morte dell'abate, scambiandosi opinioni e consigli sui problemi italiani. Baratieri sperava in un accordo italo-austriaco per una rettifica del confine e conseguente passaggio del Trentino all'Italia. Nel 1878 scriveva all'abate di tenersi in contatto con i politici di tutti i partiti e di voler agire con prudenza per non essere sconfessato: "Una salus raccogliersi dignitosamente e prepararsi agli eventi che immancabilmente ci stanno sopra. Le chiacchiere non fanno farina e compromettono il nostro prestigio".35 Sempre prudente si mostrava Baratieri in un'altra lettera del 1878, priva di una data precisa e della indicazione della località di provenienza, diretta allo stesso a Prato: non bisognava suscitare il malumore dell'Austria confondendo la causa del Trentino con quella di Trieste: "Noi possiamo essere ceduti come rettificazione di frontiera: Trieste non può venire all'Italia chè in seguito ad una guerra sostenuta per terra e per mare. Io predico sempre la cosa sfidando le mormorazioni dei Triestini; non ho voluto intervenire ai loro convegni che tengono con alcuni nostri Trentini. Mi affretto a dirvi che anche questi sono del mio parere".
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Cfr. Bice Rizzi. "Il ritiro dalla vita politica di Giovanni a Prato e la sua amicizia con Oreste Baratieri". Trento, stabilimento arti grafiche A. Scatoni 1937. L'articolo della Rizzi utilizza lettere di Baratieri conservate dalla baronessa Tea Salvadori, custode dell'archivio di Giovanni a Prato.
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Ed ancora il 24 luglio 1878 Baratieri scriveva da Napoli all'abate condannando le accese manifestazioni degli irredentisti: " Io vedo con pena queste manifestazioni per noi, nelle quali purtroppo soffiano clericali e repubblicani, e troppo si confonde la causa nostra con quella di Trieste". Le manifestazioni erano causa di serio imbarazzo per Benedetto Cairoli, presidente del Consiglio, che non voleva ricorrere alla forza per reprimerle e sarebbe stato costretto a dimettersi".36 Quando nel 1878 Baratieri scriveva all'abate a Prato di mantenere contatti con i politici di ogni partito per la questione del Trentino, era già divenuto deputato, grazie proprio alla sua qualità di irredento. Una prima occasione gli era stata offerta a fine 1876, quando il comitato sorto per la scelta di un esponente progressista per la candidatura nel collegio di Conegliano l'aveva offerta proprio a lui con lettera del 25 dicembre 1876, esaltando con queste parole la sua qualità di irredento e l'integrità che lo ponevano al di sopra delle parti: "E per noi che riconosciamo la nostra redenzione quale meta dell'utile opera di ogni partito offrendovi questa candidatura sentiamo di mettervi a distanza da ogni fazione o personalità; per la sua lealtà Baratieri ha avuto la fiducia del nuovo e del caduto Ministero".37 Baratieri riscuoteva quindi il gradimento sia della Destra storica, caduta nel marzo 1876 a seguito di quella che fu detta una rivoluzione parlamentare, sia della Sinistra giunta al potere in quella occasione. La sua candidatura ebbe l'appoggio della "Gazzetta di Treviso", quotidiano liberale progressista vietato nell'impero austro-ungarico perchè ritenuto sovversivo. Ancor prima della candidatura ufficiale di Baratieri, il giornale aveva pubblicato il 26 ottobre 1876 un articolo intitolato "Oreste Barattieri" (sic) polemizzando con il periodico "La Venezia", diretto da Carlo Pisani, che aveva insinuato che certi capitani erano stati promossi "per renderli così eleggibili in qualche collegio contro le candidature di quei cani di moderati": era trasparente l'allusione a Baratieri divenuto di recente maggiore. Al "pazzo giornaletto veneziano" la "Gazzetta di Treviso" aveva replicato ricordando i meriti culturali e patriottici di Baratieri. La candidatura di Baratieri fu accolta con simpatia, fra gli altri si congratulò con lui Neera, la nota scrittrice di appassionati romanzi amorosi molto apprezzati in quel'epoca, scrivendogli di amarlo
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Cfr. Sergio Benvenuti "Breve carteggio del generale Oreste Baratieri con l'abate Giovanni a Prato (1874-1879)" Bollettino del Museo Trentino del Risorgimento. Trento, anno XXIX, 1980, n. 2 (pp. 8-14). 37 a a Archivio di Stato Venezia - Carte Baratieri serie 8 , busta 7 , fascicolo 1° - documento 10. Lettera a Baratieri del Comitato per la scelta del candidato progressista, Conegliano 25 dicembre 1876.
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come un fratello e concludendo così: "se sentirete il bisogno di sfogarvi in un petto amico...credete che vi sarò sempre affezionatissima sorella Neera".38 "La Venezia" si mantenne ostile, pubblicando alla vigilia delle elezioni la notizia che nel 1863 o nel 1864 Baratieri in un ristorante di Torino aveva ingiuriato il re, per cui un certo signor Anzino, segretario dell'Istituto di Belle Arti, indignato gli aveva scagliato contro una caraffa di acqua. Baratieri sfidò a duello Pisani, ma la sfida non ebbe un seguito per le scuse offerte dal giornalista veneziano dopo che Baratieri e lo stesso signor Anzino avevano smentito l'episodio. La notizia del mancato duello fu pubblicata da molti giornali ("Il Diritto", 7 gennaio 1877; "Il Bersagliere" 6-7 gennaio 1877, "Fanfulla" 8 gennaio 1877, "La Provincia di Brescia" 9 gennaio 1877). Baratieri non fu eletto perchè prevalse il candidato moderato, l'autorevole esponente della Destra storica Ruggero Bonghi. La mancata elezione di Baratieri fu commentata polemicamente da "La Gazzetta di Treviso" l'8 gennaio 1877 con l'articolo "Tristizie elettorali", accusando di doppiezza Bettino Ricasoli, in quanto il 30 dicembre 1876 aveva telegrafato al comitato elettorale di Baratieri asserendo che la sua elezione sarebbe stata un'ottima scelta e poi il giorno successivo aveva augurato a Bonghi di essere eletto. L'insuccesso di Conegliano non scoraggiò Baratieri che si presentò ancora candidato nel collegio di Breno in Val Camonica nel successivo dicembre 1877, risultando eletto. Fra le tante congratulazioni rivoltegli c'erano anche quelle di Zanardelli, che fino al 1893 fu il nume tutelare della sua carriera politica.39 Nel collegio di Breno Baratieri continuò ad essere eletto fino al 1896, l'anno infausto di Adua. Il successo del 1877 era stato molto facile; Baratieri era l'unico candidato e molti quindi non si erano neanche recati a votare, come gli scriveva da Edolo il 24 dicembre 1877 l'amico G.B. Adami.40 Ancor prima di essere eletto, e poi successivamente, Baratieri fu assillato da numerose ed insistenti richieste di raccomandazioni. Senza usare mezzi termini Stefano Morandini il 23 dicembre 1877 gli assicurava il suo appoggio oltre che per il rispetto dovutogli anche per l'interesse che gli abitanti di Breno come quelli di tutti gli altri comuni della val Camonica avevano "per la di lei valevole protezione" e per essere "rappresentati dalla S.V. Ill.mo pe' nostri bisogni ed interessi."
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Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri Serie 11 , busta 8 , fascicolo A, documento 26. Lettera di Neera a Baratieri, Milano 1876 (indicato solo l'anno). 39 a a Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri Serie 8 , busta 7 , fascicolo 2°, documento 4. Telegramma di congratulazioni di Zanardelli - Brescia dicembre 1877. Altri telegrammi furono inviati dagli amici Glisenti e Ciaffetti. 40 Ibidem, documento 30. Lettera di G. B. Adami a Baratieri, Edolo 24 dicembre 1877.
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Non era meno esplicito Achille Massari, che il 21 e il 23 diembre 1877 sollecitava un impiego. L'avvocato Candido Bonettini chiedeva a sua volta un impiego nella P.S. per il genero G.B. Mentasti, ricordando i meriti propri e del genero per essere stati "non ultimi propugnatori per la di lei candidatura in questo collegio". Successivamente, nel gennaio 1878, Benedetto Vaglia chiedeva a Baratieri di intercedere perchè fosse concessa la grazia sovrana al suo anziano suocero: a 73 anni stava scontando a Ponza 15 anni di lavori forzati per spaccio di moneta falsa; fu efficace l'interessamento di Baratieri, che Vaglia il 12 febbraio 1978 ringraziava per la concessione della grazia. G. B. Adami faceva una duplice raccomandazione perchè il notaio Antonio Guarnieri di Edolo e il tenente degli alpini Ignazio Agerini di Breno ottenessero la croce di cavaliere.41 Oltre che di casi personali Baratieri si occupava anche di questioni di interesse generale: il sindaco di Vilmirone in Val di Scalvo, Domenico Magni, lo ringraziava per aver evitato la chiusura della locale pretura e fatto istituire l'ufficio del censo. In segno di gratitudine il consiglio municipale aveva deciso di includere il nome di Baratieri tra i benemeriti della Val di Scalvo, disponendo l'apposizione di lapidi nei locali della pretura e dell'ufficio censorio per ricordare "i benefici conseguiti per l'opera e per l'influenza dell'onorevole Signor Deputato Baratieri". 42 In alcuni casi Baratieri spendeva la sua influenza anche a favore di località al di fuori del suo collegio elettorale: Samuele Napitelli e Gio Cristoforo Incoronati da Gioia dei Marsi, nell'Abruzzo molto lontano dalla Val Camonica, lo ringraziavano per aver evitato la soppressione della tenenza (probabilmente dei Carabinieri).43 Ma la maggiore attenzione era pur sempre dedicata alla Val Camonica: l'ispettore scolastico di Breno, Luigi Selmi, ringraziava Baratieri per essersi interessato all'istituzione di una scuola magistrale a Breno; Pietro Beretta, titolare della nota fabbrica d'armi di Gardone Val Trompia, a sua volta ringraziava per l'attenzione dedicata agli interessi di quella industria che dava lavoro a tanti operai.44 A farla breve, nelle carte Baratieri dell'Archivio di Stato di Venezia esiste una miriade di lettere di raccomandazione di ogni tipo: per insegnanti in cerca di una cattedra o di un trasferimento, per giornalisti, per pastori della Val Camonica aspiranti ad esenzioni fiscali, per sacerdoti alla ricerca di 41
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Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri Serie 8 , busta 7 , fascicolo 20°, documento 26. Morandini a Baratieri, Breno 23 dicembre 1877; doc. 27 e 27bis Achille Massari a Baratieri, 21 e 23 dicembre 1877, doc. 37 C. Bonettini a Baratieri, Breno 25 dicembre 1877; doc. 46 e 48 B. Vaglia a Baratieri, 27 gennaio e 12 febbraio 1878; doc. 47 G. B. Adami a Baratieri, Verona 3 febbraio 1878. 42 a a Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri Serie 9 , busta 7 , fascicolo 4°, "Ringraziamenti" , documento 5. Domenico Magni a Baratieri (manca la data). 43 Ibidem, doc. 6 - Lettera a Baratieri di S. Napitelli e G. C. Incoronati, Gioia dei Marsi, 21 gennaio 1892. 44 a a Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri Serie 8 , busta 7 , fascicolo 2°, documento 45, Selmi a Baratieri, Breno 11 gennaio 1878; fascicolo 6, doc. 37 P. Beretta a Baratieri.
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sussidi, per l'istituzione di scuole, per ufficiali in attesa di una promozione o di un trasferimento, per artisti, per notabili desiderosi di ottenere una decorazione; figuravano fra gli altri un tal Andrea Rebojals, inventore di un rimedio contro la filossera, che chiedeva un riconoscimento per la sua invenzione, ed il conte Ermanno Stradella, residente in Sud America, segnalato da Baratieri ai rappresentanti diplomatici italiani in Perù, Equador e Bolivia perchè fosse nominato console onorario in qualche località.45 Fra le voci di tanti questuanti finivano per restare quasi soffocate quelle di chi ricordava a Baratieri problemi più seri come quelli della rivendicazione del Trentino: l'amico Donati ricordava tale aspirazione a compenso della espansione austriaca nei Balcani e Giovanni Battista Calvi ammoniva Baratieri perchè tenesse presente che la sua elezione nel dicembre 1877 alla Camera dei Deputati era frutto di "un voto di simpatia per una regione che sebbene attualmente divisa è nullamente parte dell'Italia e deve...realizzare le proprie aspirazioni di unione alla patria comune".46 Baratieri nella sua lettera all'abate a Prato del 1878 (citata da Bice Rizzi nel suo articolo sul ritiro dell'abate dalla vita politica) assicurava di mantenere contatti con i politici di tutti i partiti per il problema del Trentino, ma di agire con prudenza per evitare di essere sconfessato. Ed a tale prudenza sembrò ispirarsi nella sua attività di parlamentare, poco occupandosi dell'irredentismo. Il 5 luglio 1878, quando il congresso di Berlino era ormai giunto alle sue battute conclusive e già era evidente un risultato deludente per l'Italia, l'onorevole Avezzana, il generale ex garibaldino presidente della Associazione pro Italia irredenta, rivolse una interrogazione a Benedetto Cairoli, presidente del Consiglio e ministro per gli Affari Esteri, per chiedere se, considerati i vantaggi ottenuti dall'Austria con il mandato per la Bosnia-Erzegovina, il conte Corti, capo della delegazione italiana al Congresso, avesse sollevato "la questione di rendere all'Italia i confini naturali delle Alpi Giulie e Retiche con le città di Trieste e Trento".47 Sul mandato austriaco per la Bosnia-Erzegovina presentarono interrogazioni anche gli onorevoli Branca e Savini. Nella successiva seduta del 6 luglio 1878 Avezzana e Savini sollecitarono una risposta; al posto di Cairoli, assente per malattia, rispose Zanardelli, ministro dell'Interno, dichiarando che il governo non poteva affrontare quegli argomenti perchè il Congresso di Berlino non si era ancora concluso; se non ci fosse stato quell'impedimento - assicurava Zanardelli - il Governo avrebbe dimostrato 45
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Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri Serie 3 , busta 4, "Memorie e appunti personali" (sono compresi in 23 agende e taccuini). 46 a a Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri Serie 8 , busta 7 , fascicolo 2°, Breno 1877, doc. 34. Donati a Baratieri, Bologna 25 dicembre 1877 Doc. 42 G. B. Calvi a Baratieri (manca l'indicazione del luogo e della data). 47 a Atti Parlamentari - Camera Deputati - Discussioni - Sessione 1878, 2 della XIII legislatura, volume 3°, tornata del 5 luglio 1878, p. 2675.
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come la delegazione italiana non fosse mai venuta meno "alla tutela della dignità e degli interessi italiani", cui il governo si era in ogni modo sforzato di restare fedele.48 Belle parole, che giovavano ad insabbiare quella scomoda questione; il 7 luglio la Camera tenne la sua ultima seduta prima delle ferie estive ed alla ripresa dei lavori parlamentari, il 21 novembre 1878, non si parlò più delle interrogazioni presentate in luglio; Baratieri tacque, forse perchè intimidito trovandosi all'esordio della sua attività parlamentare iniziata il 19 giugno 1878 con un intervento molto tecnico sulla funzione delle compagnie alpine per la difesa delle Alpi; ma soprattutto non volle interferire in alcun modo nelle dichiarazioni di Zanardelli, suo mentore politico, che abilmente aveva imbrigliato la discussione con le sue generiche assicurazioni. Sul comportamento italiano al Congresso di Berlino Baratieri intervenne col discorso tenuto agli elettori di Breno il 26 settembre 1878.49 Baratieri riconosceva essere notevoli i vantaggi ottenuti dall'Austria al congresso di Berlino, avendo esteso il suo territorio fino a Spitza sull'Adriatico e con il protettorato su Antivari in Albania, oltre ad aver avuto il mandato amministrativo per la Bosnia-Erzegovina. Alcuni in Italia avevano ritenuto propizia l'occasione per chiedere compensi (non si facevano i nomi di Avezzana e di Savini, autori delle interrogazioni parlamentari nel luglio precedente, ma era chiaro il riferimento ad essi). Ma l'Italia era impreparata sul piano militare ed isolata su quello diplomatico; non poteva quindi contrastare la politica di Bismarck che spingeva l'Austria nei Balcani. Il confine alpino tracciato nel 1866 era poco sicuro e l'Italia non era in condizione di negoziare la sua rettifica con l'Austria; unica difesa contro un eventuale attacco austriaco dal Trentino o dall'Istria erano i reparti alpini, come aveva già sostenuto nel suo discorso alla Camera del 19 giugno. Il prestigio italiano era stato salvato dalle manifestazioni irredentiste, ma non si poteva eccedere provocando una dura reazione austriaca; d'altra parte concedendo libertà di manifestare agli irredentisti si erano placati i loro bollenti spiriti: la repressione li avrebbe esacerbati e ci sarebbero stati gravi incidenti. Baratieri concludeva con un omaggio a Zanardelli sicuro difensore delle libertà istituzionali; Avezzana e l'Italia irredenta da lui presieduta erano stati un'utile valvola di sfogo per le passioni popolari; ma non bisognava appoggiare iniziative come l'interrogazione presentata da Avezzana nel luglio 1878 cui a ragion veduta Baratieri non aveva fornito alcun appoggio. Un analogo prudente riserbo Baratieri lo mantenne quando il 21 dicembre 1882 32 deputati rivolsero a Depretis una interrogazione (primi firmatari Bovio e Bertani) per chiedere se il governo 48
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Ibidem, 2 tornata del 6 luglio 1878, p. 2747. 49 Pubblicato sul n. 270 del 1878 del giornale "La Provincia di Brescia".
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avesse "speso una parola generosamente italiana per salvare la vita del giovane triestino Guglielmo Oberdank". Depretis si rifiutò di rispondere il giorno successivo, "sia per l'oggetto dell'interrogazione in se stessa, sia in presenza di agitazioni che si vorrebbero togliere a pretesto per turbare l'ordine pubblico, che il Governo intende mantenere inviolato". Pratica archiviata con il pieno consenso della Camera, attestato dai "Bravo! Bene!" a commento del discorso di Depretis riportati nel verbale della seduta.50 In tono sconsolato Scipione Sighele commentava la situazione che aveva messo in luce l'impotenza italiana a reagire, scrivendo a Baratieri da Milano il 31 dicembre 1882 "...Le sono di cuore riconoscente delle cure datesi per la causa dei nostri fratelli, se anche non riuscite allo scopo. E per verità la speranza di riuscire m'era venuta meno dopo quella malaugurata impiccagione e le conseguenti inconsulte manifestazioni. Scuso Depretis e Mancini: l'Austria è sospettosa e noi non siamo forti; perciò intendo ci conviene essere prudenti".51 Ma Baratieri "le cure...per la causa dei nostri fratelli", di cui Sighele lo ringraziava, se le dava in sede riservata, evitando accuratamente di esporsi con interventi in Parlamento, dove si occupava solo di argomenti tecnici di natura militare con esclusione di più impegnativi temi politici. Fu relatore per il disegno di legge sulla leva marittima militare della classe 1858, per quello sulla attività assistenziale della Croce rossa ai militari ammalati e feriti in guerra, per il decreto - legge sugli ufficiali della riserva, di complemento e della milizia territoriale.52 Intervenne nella discussione sulle spese militari, illustrando quali fossero a suo giudizio le fortificazioni necessarie per la sicurezza della frontiera.53 Di più ampio respiro fu il discorso sul bilancio del Ministero della Guerra, in larga parte dedicato ad illustrare la decisiva importanza del morale delle truppe, che dover essere improntato ad una aggressività che escludesse un atteggiamento puramente difensivo, da considerarsi perdente già in partenza come era avvenuto nel 1870 per l'esercito francese.
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Atti Parlamentari - Camera Deputati - Discussioni - Sessione 1882-83, 1 della XV legislatura, volume 1°, tornata del 21 dicembre 1882, p. 385; tornata del 22 dicembre 1882, p. 428. 51 a a Archivio di Stato Venezia . Carte Baratieri. Serie 11 , busta 8 , fascicolo A, doc. 20. Lettera a Baratieri di Scipione Sighele - Milano 31 dicembre 1882. 52 a Atti Parlamentari - Camera Deputati - Discussioni - Sessione 1878 - , 2 della XIII legislatura, volume 4°, tornata del 4 dicembre 1882, p. 3033. a Sessione 1880-81 - 1 della XIV legislatura, volume 9°, tornata del 24 gennaio 1881, p. 8438. a Sessione 1880-81 - 1 della XIV legislatura, volume 10°, tornata del 24 marzo 1881, p. 9808. 53 a Atti Parlamentari - Camera Deputati - Discussioni - Sessione 1886 1 della XIV legislatura, volume 10°, tornata 19 aprile 1881, pp. 9969, 9974.
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Era elogiato lo spirito combattivo dei militari italiani, la loro capacità di adattare la condotta tattica alla natura del terreno, lo spirito di iniziativa degli ufficiali, che però a volte poteva risultare eccessivo e andava quindi posto sotto il controllo del comandante in capo. Il grado di efficienza dell'esercito - asseriva Baratieri - condizionava la politica internazionale e finanziaria di un paese.54 Considerazioni acute, che andavano al di là di un puro tecnicismo; ma anche in questa occasione Baratieri evitava gli argomenti strettamente politici che potessero riguardare l'irredentismo. Ma l'attenzione dell'opinione pubblica e del mondo politico italiano era ormai sul punto di distrarsi dal movimento irredentista, concentrando l'interesse generale sugli importanti avvenimenti nella colonia Eritrea. Dopo l'occupazione di Assab nel 1870 da parte di Giuseppe Sapeto per conto della Società di navigazione Rubattino al fine di farne uno scalo ed un punto di rifornimento per le navi dirette in Oriente, la base rimase dimenticata per anni: fu un periodo di incertezze e di ripensamenti.55 Nino Bixio presentò una interpellanza al fine di fare di Assab una colonia statale il 4 marzo 1871 ed il 28 aprile dello stesso anno il Senato decise che fosse formata una commissione, presieduta da Cristoforo Negri, presidente della Società Geografica Italiana per valutare la proposta. La commissione diede un parere negativo, cui si associarono tra gli altri il console italiano in Aden e il viaggiatore Sebastiano Martini. Sapeto rispose agli oppositori con il volume "Assab e i suoi critici" (Genova 1879), sostenendo l'importanza di quello scalo, rivalutata dalle nuove linee di navigazione per l'Oriente aperte dalla Rubattino nel 1873 e nel 1876. Il Ministro della Marina incaricò il comandante Carlo de Amezaga di stendere una relazione su Assab e la sua attività: de Amezaga diede un parere favorevole al mantenimento della base. Si superarono le difficoltà col sultano di Raheita, che nel 1870 aveva ceduto in affitto a Sapeto i terreni per la stazione di rifornimento della Rubattino con un contratto decennale, senza che però gli fossero poi pagati i relativi canoni; il debito fu saldato prima del 16 marzo 1880, data di scadenza del contratto. Le esitazioni ed i dubbi sull'utilità di Assab furono superati quando si ebbero trattative angloitaliane dopo la rivolta in Sudan del Madhi, da fronteggiare con un'azione comune di Londra e 54
Atti Parlamentari - Camera Deputati - Discussioni - Sessione 1886 della XVI legislatura, volume unico, pp. 11221125. 55 Sul primo periodo della colonia Eritrea Cfr. Piero Ardizzone "Il Sultanato di Raheita e la colonia Eritrea". Africana, rivista di studi extraeuropei 2003, numero unico, pp. 7-33. Edistudio Pisa. "Controversie e trattative per il Sultanato di Raheita tra Italia. Francia, Russia, Abissinia". Africana, 2004, numero unico, pp. 7-24. Edistudio Pisa.
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Roma. A conclusione di quelle discussioni si ebbe prima il riconoscimento britannico all'occupazione italiana di Assab e successivamente il consenso allo sbarco di truppe italiane a Massaua nel febbraio 1885. Fino a quella data Massaua era stata un dominio egiziano, ma non ci furono serie difficoltà col Khedivé d'Egitto, che si limitò ad una protesta formale e ritirò la guarnigione di Massaua. Lo scontro frontale si ebbe invece molto presto col ras tigrino Alula; per assicurare le comunicazioni tra Massaua ed il retrostante altipiano etiopico, il generale Genè, governatore di Massaua, il 23 novembre 1886 fece occupare Uà-a, inviando pure una missione esplorativa verso Asmara, con scopi in apparenza solo commerciali, composta da un ufficiale, Federico Piano, e da due funzionari civili, Augusto Salimbeni e Savoireaux, tutti fatti prigionieri da Alula e poi rilasciati una volta concluse le ostilità, scoppiate quando Genè, il 26 gennaio 1887, dispose la partenza da Moncullo di una colonna al comando del tenente colonnello De Cristoforis, per soccorrere la guarnigione di Saati minacciata da ras Alula. La colonna De Cristoforis fu intercettata dal ras presso Dogali, dove caddero eroicamente quasi tutti i suoi componenti, i leggendari "cinquecento". Si destò una viva emozione in Italia, dove si moltiplicarono le manifestazioni di cordoglio e le cerimonie commemorative, civili e religiose; il vescovo di Cremona, mons. Bonomelli, per i funerali tenne un discorso non di semplice circostanza, esaltando le imprese coloniali dell'Italia ed il valore del suo esercito.56 Ma non potevano certo bastare le cerimonie a soddisfare la sete di rivincita italiana; si organizzò quindi una spedizione, affidata al generale Asinari di San Marzano e poi al generale Baldissera, essendosi dovuto ritirare per ragioni di salute il San Marzano. Presidente del Consiglio era Agostino Depretis; alla sua morte avvenuta il 29 luglio 1887, gli subentrò, il 7 agosto, Francesco Crispi, già membro del governo in qualità di ministro degli Interni. Baratieri prese parte alla spedizione col grado di colonnello dei bersaglieri, al comando del reggimento "Africa". Di tale incarico egli ringraziava Crispi con lettera del 27 dicembre 1887 dal Piano delle Scimmie.57 La spedizione fu organizzata accuratamente, senza lesinare i mezzi necessari; si fece uso anche di mezzi molto avanzati per quell'epoca, come le fotoelettriche per illuminare di notte le posizioni italiane e le mongolfiere, utili per il controllo dal cielo delle mosse del nemico; si costruì sul tratto
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Cfr. A. De Cesare - A. Doria "Dogali e l'Italia" - stabilimento tipografico Fratelli Ferrante, Napoli 1887, pp. 124-125. A.C.S. Roma Carte Crispi - Deputazione Storia Patria Palermo, busta 143, fascicolo 1066, doc. n. 1 Baratieri a Crispi, Piano delle Scimmie 27 dicembre 1887. 57
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Massaua-Saati una linea telegrafica ed una ferrovia per il trasporto delle truppe e del loro equipaggiamento. Mente direttiva delle operazioni fu il ministro della Guerra, il generale Ettore Bertolè Viale (Genova 1829 - Torino 1892), che aveva già ricoperto tale incarico negli anni 1867-69. Bertolè-Viale dimostrò un'accorta prudenza nelle istruzioni date al San Marzano e seppe contenere le ingerenze di Crispi, desideroso di azioni audaci per conseguire subito la vittoria. San Marzano ebbe pieni poteri civili e militari, compreso il comando delle navi da guerra ancorate nel porto di Massaua e il ministro gli impartì dettagliate istruzioni circa il dislocamento e l'impiego delle truppe a sua disposizione, circa 20 mila uomini tra italiani ed indigeni.58 La stessa prudenza di Bertolè - Viale l'aveva dimostrata il suo predecessore, generale Ricotti; prima dell'inizio della spedizione San Marzano ordinava, difatti, nel marzo 1887 al maggior generale Saletta, comandante delle truppe in Eritrea, di non inoltrarsi in territorio abissino, in ogni caso le operazioni non dovevano spingersi al di là di 5 o 6 giornate di marcia da Massaua.59 In sostegno di Alula si mosse presto il negus Giovanni, messo però in difficoltà dalla penuria di viveri e dalla minacciosa avanzata dei madhisti verso Keren, per cui si sparse la voce che mirava alla pace con l'Italia. Il proposito era gradito a Bertolè-Viale che incaricò San Marzano di comunicare al negus che anche il re Umberto voleva la pace per evitare lo spargimento di sangue cristiano; si proponeva perciò l'incontro di delegati di ambo le parti in una località costiera per trattare la pace. Ma al contempo, malgrado tali specifiche disposizioni, San Marzano trattava, tramite il conte Antonelli,60 con
Menelich, re dello Scioa, per un'alleanza
contro Giovanni,
fornendogli
armi e munizioni.61
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Ibidem, busta 56, fascicolo 358, sotto fascicolo 1 "Istruzioni del Ministro della Guerra Bertolè-Viale al tenente generale Asinari di San Marzano per spedizione contro l'Abissinia". Roma 26 ottobre 1887. 59 Ibidem, "Istruzioni del Ministro della Guerra Ricotti al maggior generale Saletta, comandante delle truppe in Africa", trasmesse per conoscenza al presidente del Consiglio (Depretis) con lettera riservata n. 2029 del 28 marzo 1887. 60 Il conte Pietro Antonelli nacque a Roma il 29 aprile 1859 da famiglia di origine ciociara e di recente nobiltà (era stata ammessa nel patriziato romano solo nel 1850); era un ramo secondario delle omonima famiglia di Velletri che già nel 1372 contava vescovi ed altre illustri personalità ("Enciclopedia storico-nobiliare italiana", diretta dal marchese Vittorio Spreti, vol. I, p. 404 Milano 1928, voce di Temistocle Bertucci). Il personaggio più notevole della famiglia fu lo zio paterno Giacomo, ordinato cardinale nel 1847 e Segretario di Stato di Pio IX negli anni 1850-1876. Dopo un periodo di vita mondana, non ancora ventenne, Pietro Antonelli nel marzo 1879 si imbarcò per l'Africa, diretto allo Scioa, in compagnia dell'esploratore Giulietti, nella spedizione diretta dal capitano S. Martini - Berardi. Dal novembre 1879 al novembre 1881 soggiornò nella stazione di Let-Marafià, organizzata dalla Società Geografica Italiana, e vi si trattenne anche dopo la morte di Antinori, direttore di quella stazione. Già in quel tempo ebbe contatti con Menelich, re dello Scioa, iniziando un lungo periodo di amicizia, che lo portò a farsi in seguito sostenitore della cosiddetta "politica scioana"; che vedeva in Menelick l'interlocutore privilegiato dell'Italia, in contrapposizione alla "politica tigrina" basata sull'amicizia con ras Mangascià.
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Nel marzo 1881 negoziò con Menelich l'apertura della via commerciale da Assab allo Scioa attraverso la Dancalia, itinerario da lui descritto in un diario di viaggio premiato dalla Società Geografica Italiana; al contempo stipulò con Menelich un contratto per la fornitura di 2 mila fucili Remington. All'inizio del 1882 tornò in Italia, ripartendone per il secondo viaggio in Africa il 27 agosto 1882; Menelich l'accolse con grandi onori e il 12 maggio 1883 firmò un trattato decennale di amicizia e commercio rimasto però inapplicato. Nel dicembre 1883 Antonelli fece ritorno in Italia; ripartì presto per il terzo viaggio in Africa, dove compì esplorazioni assieme a Leopoldo Traversi. Dopo Dogali (26 gennaio 1887) Antonelli divenne il consigliere di fiducia di Crispi per la politica africana e trattò con Menelich per un suo intervento contro il negus Giovanni; il 3 ottobre 1987 fu concluso un accordo per la fornitura a Menelich di 5 mila fucili in cambio della sua neutralità; il contratto rimase lettera morta per la ambiguità del re dello Scioa; ma in seguito alle assicurazioni date da Menelich per un suo intervento, fu poi stabilita la fornitura di 10 mila fucili e 400 mila cartucce. Il 13 luglio 1888 Antonelli si imbarcò per l'Italia e giunse a Roma in agosto; con Crispi preparò una bozza di trattato con lo Scioa in cui si assicurava una prevalente influenza italiana. Anche stavolta Antonelli si trattenne poco in Italia: nel settembre 1888 intraprese il suo quarto viaggio in Africa e nel febbraio 1889 sottopose la bozza di trattato elaborata con Crispi a Menelich che l'approvò. Morto il negus Giovanni, ucciso ad opera dei Dervisci il 10 marzo 1889 a Metenna, si riprese l'esame del trattato, che fu firmato il 2 maggio 1889 al campo imperiale di Uccialli ed Antonelli ripartì subito per l'Italia assieme a ras Makonnen ed ad una delegazione etiopica in visita in Italia. Instancabile, nel dicembre 1889 Antonelli ripartì per lo Scioa per trattare il confine al Mareb; la trattativa fallì; Menelich non accettava quel confine ed Antonelli inoltre si era messo in contrasto col governatore Orero, contrario al compromesso di un confine allo Scirek, rifiutato pure da Crispi. A quel punto la stella di Antonelli era al tramonto: Menelich a metà 1890 denunciò il trattato di Uccialli asserendo che era stato tratto in inganno da una traduzione infedele in amarico dell'art. 17 che affidava all'Italia il compito delle trattative internazionali dell'Etiopia. Era una forma larvata di protettorato. Dal dicembre 1890 al febbraio 1891 Antonelli tentò ancora un accordo con Menelich, il tentativo fallì ed Antonelli esasperato tornò in Italia assieme a tutti i rappresentati italiani in Etiopia (Traversi, Salimbeni, Nerazzini). Il 10 agosto 1891 Antonelli fu eletto deputato con l'appoggio di Crispi, cui restava legato; nel successivo governo Crispi fu nominato sottosegretario agli Esteri (15 dicembre 1893); si dimise il 21 giugno 1894 per contrasti sulla politica africana con il ministro Blanc; il 24 novembre 1894 partì per un esilio dorato come ministro plenipotenziario a Buenos Aires e il 21 novembre 1897 fu trasferito a Rio de Janeiro. Morì l'11 gennaio 1901 sulla nave che lo riportava in Italia. Del suo interlocutore ed antagonista Antonelli ci ha lasciato un interessante profilo ("Menelich imperatore d'Etiopia" Roma, stabilimento tipografico italiano 1891). L'autore ricordava la prigionia imposta dal negus Teodoro a Menelich ed i loro successivi contrasti, pur avendo dato il negus in sposa a Menelich la principessa Uorkika, sua figlia. Suicidandosi Teodoro a Magdala nel 1868 per non cadere prigioniero degli inglesi che avevano organizzato la spedizione Napier per vendicare gli oltraggi inflitti dal negus al console britannico, Menelich ebbe ancora rapporti difficili col negus successivo, Giovanni; questi invase nel 1879 lo Scioa ed il conflitto terminò grazie alla mediazione del clero. Perdurando la tensione, Menelich chiese l'aiuto italiano, oggetto di controverse trattative; Menelich comunque nel 1889 dopo la morte di Giovanni ebbe il sostegno dell'Italia per divenire Negus Neghesti. In quell'epoca Menelich aveva già sposato Taitù (1883) che fu una compagna ideale anche perchè accorta consigliera politica. In precedenza Menelich aveva avuto una movimentata vita sentimentale: oltre al matrimonio con Uorkika, aveva difatti avuto numerose relazioni. Antonelli descriveva Menelich come uomo bonario e alieno dalla violenza, anche se sfruttava gli altri a suo vantaggio, trascurando le persone divenute inutili per i suoi interessi. Grande merito di Menelich era l'aver riunito e pacificato tutti i popoli dell'Etiopia. Il negus era un valoroso, anche se non amava la guerra, disponeva di un esercito di 130 mila uomini con 60 mila fucili. Fino al 1891 (anno in cui Antonelli scriveva) non si era volto contro l'Eritrea ed una sua eventuale azione sembrava destinata a fallire; ma - aggiungeva Antonelli - Menelich aveva solo 48 anni e quindi aveva un luminoso futuro davanti a sè per cui non si poteva prevedere quale sarebbe stata la sua azione. Antonelli concludeva: " Auguriamoci che sia tale da fagli guadagnare una pagina lodevole nella storia coloniale d'Italia": augurio ottimistico sanguinosamente smentito nel 1896 ad Adua.
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Bertolè-Viale aveva però poca fiducia in Menelich, che non aveva sostenuto l'attacco italiano su Saati nè aveva soccorso il re del Goggiam, Tecla Aimamot, in guerra col negus Giovanni: tale inerzia non poteva giustificarsi ricordando che Menelich era in attesa delle armi dell'Italia. Crispi sollecitava una avanzata verso Asmara, ma Bertolè viale aveva fatto presente che quella operazione avrebbe richiesti almeno 25 mila uomini con molta artiglieria e mezzi di trasporto, con una spesa di circa 100 milioni, e sarebbero stati necessari almeno 3 mesi per eseguirla. Inoltre le operazioni dovevano svolgersi su di un terreno difficile, col rischio di imboscate dei nemici. Fino a Saati si poteva disporre della ferrovia, ma al di là si doveva ricorrere al trasporto su muli e rendere carreggiabile la strada verso Asmara. E poi mantenere il possesso di Asmara sarebbe stato più difficile che conquistarla; nè, infine, sembrava necessaria quella offensiva, poichè al negus importava di più domare la ribellione di Menelich che affrontare gli italiani. Gli indigeni reclutati dall'Italia erano ancora privi di addestramento nè si poteva contare su Menelich e le forze italiane bastavano appena a presiedere Saati e Massaua; la prevedibile necessità di dover abbandonare territori appena conquistati avrebbe compromesso il prestigio italiano. In definitiva Bertolè Viale riteneva possibile solo una rapida ricognizione verso l'Asmara, ritirandosi prontamente a Massaua. Crispi prendeva atto di queste convincenti argomentazioni del ministro e ridimensionava la sua richiesta di avanzare, asserendo di non aver proposto la conquista di Asmara, ma soltanto una rapida puntata per esplorare il terreno, facendo così propria la proposta di Bertolè-Viale. Era giustificabile l'atteggiamento di Menelich - proseguiva Crispi - poichè tra lui e gli italiani esisteva una diffidenza reciproca; credeva comunque alle assicurazioni di Antonelli circa l'impossibilità per Menelich di tirarsi indietro, poiché si era troppo compromesso. Proseguendo l'inattività, Menelich si sarebbe sentito tradito e sarebbe divenuto ostile all'Italia. Crispi dichiarava di rendersi conto dei rischi di una avanzata sull'altipiano, "ma non sarebbe questo il primo caso (e la gloriosa epopea garibaldina informi) in cui ad una saggia audacia corrisponde un luminoso successo".62 Bertolè-Viale attenuò la sua intransigente opposizione, comunicando il 9 gennaio 1889 a Crispi di aver appreso da Antonelli che Menelich sembrava accingersi ad intervenire contro il negus; pertanto aveva ordinato l'8 gennaio 1889 a Baldissera, subentrato a San Marzano nel comando della
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Ibidem, busta 56, fascicolo 358, sub fascicolo 2. Telegramma n. 375 San Marzano a Bertolè-Viale 21 marzo 1888; telegramma n. 226 Bertolè-Viale a San Marzano, 16 giugno 1888; lettera di Bertolè-Viale a Crispi, 26 giugno 1888. 62 Ibidem, busta 56, fascicolo 358, sub fascicolo 3. Lettera riservata di Bertolè-Viale a Crispi n. 39, 3 gennaio 1889. Lettera riservata di Crispi a Bertolè-Viale n. 759, 6 gennaio 1889.
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spedizione, di effettuare una ricognizione verso Asmara, per esplorare il terreno, per dimostrare la attiva presenza italiana e sostenere indirettamente Menelich. Non era comunque il caso di pensare ad una occupazione permanente dell'Asmara; riteneva però Baldissera che quell'ordine sarebbe stato accolto con gioia dai soldati. Sempre prudente BertolèViale aveva invece ordinato di evitare una battaglia campale: se il nemico si fosse presentato in forza, si sarebbe dovuto ripiegare su Massaua. Bertolè-Viale continuava comunque a restare perplesso sull'opportunità di quella ricognizione e la mantenne in sospeso; prima di muoversi, occorreva accertarsi che Menelich non fosse venuto a patti col negus Giovanni; occorreva inoltre almeno un mese per la preparazione dell'avanzata da intraprendere con forze maggiori e c'era il rischio che l'iniziativa italiana irritasse il negus e rendesse più difficile concludere quella pace, cui prima o poi si doveva arrivare, a meno di non volere la guerra a fondo per conquistare l'Abissinia ed imporre poi da vittoriosi le condizioni per la pace. Crispi tergiversò, ma il 12 gennaio scrisse a Bertolè-Viale rassicurandolo: salvo che nel caso di condizioni ultra favorevoli, le truppe italiane, una volta compiuta la ricognizione, sarebbero dovute rientrare a Massaua; faceva pure presente al ministro la necessità di tener conto dell'opinione pubblica, che esigeva di vendicare i caduti italiani di Dogali, giustificando le ingenti spese della spedizione. Invitava pertanto Bertolè-Viale a chiedere conferma della vittoria di ras Debeb, alleato dell'Italia dopo essersi ribellato al negus, riportata sulle forze di Giovanni; se ci fosse stata quella conferma, non si doveva più esitare circa la necessità politica (ed a giudizio di Crispi anche militare) di effettuare la ricognizione progettata; dava poi al ministro il provocatorio consiglio di consultare al riguardo il capo di Stato Maggiore, per non assumersi da solo e per intero la responsabilità dell'iniziativa.63 Bertolè-Viale continuò a resistere alle pressioni di Crispi, cui il 18 febbraio rispondeva che la vittoria di ras Debeb ad Adi Bora sulle forze del negus rendeva inutile una semplice ricognizione sull'altipiano, mentre invece appariva opportuna l'occupazione dell'Asmara e la sua fortificazione: ma a tal fine sarebbero stati necessari 3 o 4 milioni di cui non disponeva. Inoltre esisteva una difficoltà politica. Debeb, la cui vittoria era di grande utilità per l'Italia, chiedeva in compenso l'aiuto italiano per divenire negus, ma ci si era già impegnati a sostenere le analoghe richieste di Menelich. 63
Ibidem, busta 56, fascicolo 358, sub fascicolo 3. Lettera riservata di Bertolè-Viale a Crispi n. 234, 9 gennaio 1889; lettera di Bertolè-Viale a Crispi n. 368, 25 gennaio 1889. Lettera di Crispi a Bertolè-Viale n. 5809, 12 gennaio 1889.
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Con orgogliosa insofferenza Bertolè-Viale respingeva poi il consiglio di consultare il capo di Stato Maggiore datogli da Crispi, per condividere le responsabilità della decisione di avanzare sull'altipiano: spettava solo a lui decidere ed era pronto ad assumersi tutte le responsabilità. Il non richiesto e sgradito consiglio di Crispi lo respingeva dandogliene uno altrettanto provocatorio: Asmara era in territorio abissino e per deciderne l'occupazione occorreva una delibera formale del consiglio dei ministri. Piccato dalle osservazioni del ministro, per altro definite "giustissime ed ineccepibili", Crispi rispose il 27 febbraio 1889 di non comprendere perchè la vittoria di Debeb rendesse necessaria una stabile occupazione dell'Asmara; ridimensionava poi il senso della sua lettera del 12 gennaio. Non aveva chiesto di effettuare subito la tanto attesa ricognizione, ma solo di chiedere il parere di Baldissera al riguardo. Concordava con Bertolè-Viale nel ritenere difficile poter soddisfare le richieste di Debeb, in quanto cozzavano con quelle analoghe di Menelich, che il governo italiano si era già impegnato a sostenere. Si poteva porre fine a quella ambigua posizione effettuando la marcia-ricognizione su Asmara, utile anche per sedare il malcontento di molti ufficiali per l'inazione. Ed infine, concludeva asciuttamente Crispi, non occorreva alcuna delibera del Consiglio dei Ministri per una occupazione temporanea dell'Asmara. A questo lungo braccio di ferro tra Crispi e Bertolè-Viale pose fine una circostanza provvidenziale per l'Italia; la morte del negus Giovanni, ucciso il 10 marzo 1889 dai Dervisci vincitori della battaglia di Metemma. L'evento fu confermato da Baldissera a Bertolè-Viale con telegramma del 1° aprile 1889 e Crispi si affrettò il 2 aprile a telegrafare al ministro di profittare subito di quella occasione irripetibile, ordinando a Baldissera di occupare Asmara; in quanto a Debeb, si poteva tenerlo a bada con vaghe promesse. Ma Bertolè-Viale, sempre prudente, chiese lo stesso 2 aprile a Baldissera di confermare la morte del negus. Baldissera diede tale conferma, aggiungendo che l'esercito abissino era in pieno marasma; si avviò quindi l'avanzata sull'altipiano; ritardò però fino ad agosto l'occupazione dell'Asmara poichè era necessario trasformare prima la strada in una buona mulattiera; causa del ritardo fu pure la difficoltà per sostituire Debeb, già signore dell'Oculè Cupai, essendo stato fatto prigioniero a Macallè dai rivali ras del Tigrai, Mangascià e Alula. Crispi fremeva per l'impazienza e il 29 luglio 1889 scrisse a Bertolè-Viale di ordinare a Baldissera di procedere senz'altro augurando "...sia una volta per sempre finita questa eterna questione dell'occupazione dell'altipiano etiopico.".
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E finalmente il 3 agosto 1889 Asmara fu occupata ed il colonnello Albertone fu nominato comandante della piazza.64 Baratieri ebbe un ruolo marginale in questa campagna, al cui inizio ricordava l'esistenza di impazienze per la cautela temporeggiatrice con cui San Marzano la conduceva. Il 13 gennaio 1888 scriveva all'amico generale Pelloux: "Qui si va avanti lentamente. Molti si lagnano, ma bisogna tener conto delle difficoltà della situazione...Nelle posizioni che abbiamo e che fortifichiamo, possiamo sfidare qualsiasi attacco di forze anche superiori d'assai. Ma la difensiva non dà alcun utile risultato e mi pare che non siamo in Africa per difenderci". A queste considerazioni critiche Baratieri però faceva seguire un rinnovato riconoscimento della necessità di quella condotta, imposta da condizioni obiettive: "La situazione dunque non è delle più belle pel generale San Marzano, il quale è eziandio sofferente di salute. Ma colle poche forze onde dispone, colla scarsezza d'acqua che vi è a Dogali, colle minacce anche lontane che ci stanno sopra, colla possibilità sia pure remota di vedere piombare giù dai monti l'Abissinia in armi - possiamo addolorarci, non biasimarlo, se è prudente ed anche tardo a staccarsi da certe posizioni". Ed ancora a Pelloux scriveva Baratieri da Saati il 29 febbraio 1888: "---qui si desidera da tutti un attacco, ma ormai sarebbe pericoloso avventurarsi oltre Saati".65 Una volta concluse le operazioni di guerra con l'occupazione dell'Asmara, Baldissera rimase in Eritrea fin al novembre 1889 in qualità di governatore, carica ereditata da San Marzano assieme al comando militare. Su di lui ci furono giudizi contrastanti, giudicandolo alcuni un politico accorto, altri un dittatore privo di scrupoli. Era senz'altro una figura anomala nell'esercito italiano Antonio Baldissera, nato a Padova il 27 maggio 1838 e quindi suddito austriaco fino all'annessione del Veneto all'Italia nel 1866. Aveva frequentato la prestigiosa Accademia militare di Wiener Neustadt essendovi stato ammesso anche per la protezione accordatagli dall'imperatrice Marianna, moglie dell'imperatore Ferdinando I, interessatasi a quel giovane che già dimostrava capacità tanto notevoli. Nel 1857 uscì dall'Accademia con il grado di ufficiale; nel 1866 ai patrioti veneti, che l'invitavano a disertare, Baldissera rispose di non poterlo fare poiché glielo impedivano i vincoli di gratitudine verso gli Asburgo suoi benefattori. 64
Ibidem, busta 56, fascicolo 358, sub fascicolo 3 - Lettera n. 36 di Bertolè-Viale a Crispi, 18 febbraio 1889; lettera n. 7959 di Crispi a Bertolè-Viale, 27 febbraio 1889; telegramma 226 di Baldissera a Bertolè-Viale, 1° aprile 1889; tel. di Crispi a Bertolè-Viale 2 aprile 1889; tel. n. 59 di Bertolè-Viale a Baldissera, 2 aprile 1889; telegrammi di Baldissera a Bertolè-Viale n. 227 del 2 aprile, n. 230 del 3 aprile 1889; tel. n. 480 di Baldissera a Bertolè-Viale, 24 luglio 1889; lettera di Crispi a Bertolè-Viale, 29 luglio 1889; tel. di Baldissera a Bertolè-Viale, 20 agosto 1889. 65 Carteggio di Oreste Baratieri 1887-1901 con note biografiche a cura di Bice Rizzi. Collana del Museo Trentino del Risorgimento. Trento 1936. Lettere di Baratieri a Luigi Pelloux - Piano delle Scimmie, 13 gennaio 1888, pp. 30-31; Saati, 29 febbraio 1888, pp. 3132.
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Con il grado di capitano di Stato Maggiore combatté pertanto in Boemia contro i Prussiani ed ottenne l'ordine di Maria Teresa. A guerra finita passò nell'esercito italiano e le sue doti morali e intellettuali lo fecero apprezzare, anche se incontrò qualche difficoltà dato il suo passato nell'esercito asburgico. Nondimeno fece carriera: da colonnello ebbe il comando del 70° bersaglieri e promosso maggiore generale partecipò alla spedizione San Marzano; contribuì alla presa di Saati ed in seguito adottò una tattica efficace affidando di preferenza le operazioni militari a reparti indigeni e sfruttando abilmente le rivalità tra i ras secondo il principio del "divide et impera". Nel giugno 1888, dopo aver sostituito in aprile San Marzano ritiratosi per ragioni di salute, occupò con bande indigene Keren e tentò di arrestare il traditore ras Debeb a Saganeiti con reparti di basci-buzuk guidati da 5 ufficiali italiani. L'operazione fallì e furono uccisi molti indigeni e gli ufficiali italiani: il fallimento non causò comunque noie a Baldissera che nell'ottobre dello stesso anno provvide a costituire il primo reparto di ascari destinati a sostituire i basci-buzuk. Baldissera dimostrò la sua forza di carattere e la sua indipendenza di giudizio nel gennaio 1889, quando non obbedì all'ordine di avanzare poichè riteneva preferibile che le lotte fra i ras indebolissero ancor più gli abissini, che alla fine, stanchi della situazione insostenibile, avrebbero essi stessi richiesto l'intervento italiano: e il ministro Bertolè-Viale finì per concordare in tale decisione. Alla fine il 3 agosto 1889 Baldissera occupò Asmara, ma Crispi, reso più esigente dalla conclusione del trattato di Uccialli con Menelich, pretendeva un'ulteriore avanzata delle forze italiane verso il fiume Mareb: Baldissera trovò il modo ancora una volta di ottenere un successo senza impegnare forze italiane, spingendo il capo indigeno Batha Agos a rioccupare il suo antico dominio dell'Okulè Cusai: in tal modo pur non ottenendo il dominio diretto di quel territorio l'Italia si assicurava l'influenza fino alla linea del Mareb. Si astenne Baldissera da ulteriori avanzate nel Tigrè: sempre in attesa di un collasso delle forze abissine pensava però a risultati più importanti; meditava difatti di spingersi fino a Gondar e al monte Tabor, nel cuore del'Abissina, quando le circostanze si sarebbero mostrate più favorevoli. Propositi ambiziosi rimasti inattuati: a causa dei persistenti contrasti con Crispi, Baldissera fece ritorno in Italia nel novembre 1889 avendo chiesto il rimpatrio per ragioni di salute. Durante il mandato di Baldissera quale governatore e capo militare in Eritrea, si verificarono due avvenimenti di particolare importanza: il primo fu la conclusione del trattato firmato il 2 maggio 1889 da Antonelli con Menelich ad Uccialli; il secondo fu l'inizio del cosiddetto scandalo Livraghi, proseguito sotto il successore di Baldissera, il generale Orero.
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Il trattato di Uccialli diede l'illusione di un possibile protettorato italiano sull'Etiopia: se così fosse stato, avrebbe costituito uno straordinario successo. Il problema nasceva dall'interpretazione da dare all'articolo 17 del trattato, secondo il quale spettava all'Italia gestire i rapporti internazionali di Menelich: si pose la questione se ciò costituisse un obbligo per il negus, ovvero era semplicemente una facoltà di cui lui potesse avvalersi a sua discrezione. Nel testo italiano del trattato la funzione attribuita all'Italia era presentata come un obbligo; non così nella traduzione in amarico fatta dall'etiope Joseph Negussié e che Antonelli non potè controllare di persona non conoscendo l'amarico; nè il conte ebbe l'accortezza di far eseguire il controllo da persona di sua fiducia. I due testi, l'italiano e l'amarico, avevano pari valore e sarebbe quindi stato di essenziale importanza una loro perfetta corrispondenza. Alla firma del trattato seguì nell'estate del 1889 la visita di una folta delegazione scioana in Italia guidata da ras Makonnen, visitando molte città italiane oltre che Roma. La missione non fu una semplice prova d'amicizia, ma fu pure l'occasione di un importante atto politico: Makonnen incontrò Crispi a Napoli il 1° ottobre 1890 e fu concordata una convenzione addizionale al trattato di Uccialli, con la quale si fissavano nuovi confini tra l'Etiopia e l'Eritrea, in cui venivano incorporati in base al principio dell' "uti possidetis" territori non previsti dal trattato di Uccialli, ma già occupati dall'Italia. Dopo una revisione del testo per abrogare l'articolo 12 del trattato di Uccialli, relativo all'estradizione di etiopici autori di reati in territorio italiano, il 7 ottobre 1889 Makonnen firmò la convenzione a nome di Menelich. Ma fu un successo di breve durata: difatti alla fine dell'estate 1889 Menelich dimostrava già di non accettare un ruolo dell'Italia nei rapporti internazionali dell'Etiopia notificando direttamente alle potenze la sua incoronazione ad imperatore; dal canto suo il governo italiano si affrettava a notificare l'11 ottobre 1889 il trattato, come prescritto dall'articolo 34 dell'atto generale di Berlino del 26 febbraio 1885. Seguirono rapidamente le prese d'atto della Danimarca (15 ottobre 1889), del Belgio (16 ottobre); dell'Olanda (18 ottobre); del Portogallo (18 ottobre); della Francia (20 ottobre); dell'Austria-Ungheria (23 ottobre); della Germania (25 ottobre); dell'Inghilterra (30 ottobre); con qualche ritardo ci furono poi le prese d'atto della Svezia-Norvegia (23 dicembre 1889) e della Spagna (22 marzo 1890). La Russia il 30 novembre 1889 accusava ricevuta della notifica italiana, ma chiedeva chiarimenti su eventuali diritti dell'impero turco da rispettare: verificata l'inesistenza di
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tali diritti (la Turchia aveva esercitato tramite l'Egitto la sua autorità solo sul litorale eritreo, mai sull'Etiopia), si intendeva che anche la Russia prendeva atto della notifica italiana. 66 Era una situazione molto imbarazzante per il governo italiano ed Antonelli tornò in Etiopia nell'autunno 1890 per chiarire le difficoltà insorte e convincere Menelich ad accettare l'interpretazione italiana dell'art.17. Antonelli addossò la responsabilità dell'equivoco al traduttore del testo italiano in amarico, Joseph Negussè, colpevole a suo giudizio di una traduzione infedele; ma al tempo stesso il conte riconosceva esplicitamente le ragioni di Menelich in un colloquio con lui avuto a Macallè, ricordato in una sua lettera al negus allegata alla relazione sull'esito della missione presentata alla Camera. Nella lettera era ricordato come Menelich avesse posto ad Antonelli questa precisa domanda: "Ma è per amicizia o per obbligo che io devo servirmi del governo italiano per trattare colle altre potenze?" Altrettanto chiara la risposta di Antonelli: "E' per amicizia e per riguardo; e quando queste due cose fossero venute meno, Vostra Maestà poteva fare quel che voleva".67 Da parte sua Crispi per vederci più chiaro fece tradurre il testo amarico dell'articolo 17 da due interpreti etiopici in servizio al Ministero Affati Esteri, Iessayè e Stefanos. In un appunto dello stesso Crispi in data 4 ottobre 1890 si possono leggere le due traduzioni: Iessayè traduceva: "l'empereur d'Etiopie peut envoyer aux Puissances Européennes avec l'aide du gouvernement Italien pour toutes ses necessités"; il verbo "peut" (può) indica chiaramente una facoltà, non un obbligo. Ciò era confermato dalla traduzione di Stefanos, fatta in un italiano ancor più incerto del francese di Iessayé: "Re dei Re d'Etiopia, qualunque cosa occorrono in Regno d'Etiopia, col aiuto governo d'Italia potranno di fare tutte le cose". Ancora una volta era usato il verbo "potere" e non quello ben più impegnativo "dovere".68 Ancora una conferma di questa interpretazione dell'articolo 17 la dava Teresa Naretti, la mulatta interprete al servizio del governo coloniale, che a Ferdinando Martini spiegava che il termine amarico "icillalu" usato nell'articolo 17 significava "sopporta e non altro che sopporta": sopporta, cioè consente.69 66
Rivista militare italiana, dicembre 1895, pp. 2230-2231. a Atti parlamentari XVII legislatura 1 sessione 1890-91. Camera Deputati volume XVII (documenti). Documenti diplomatici presentati al Parlamento Italiano dal Presidente del Consiglio e ministro Affari Esteri (Di Rudinì) - Missione Antonelli in Etiopia. Seduta del 14 aprile 1891, documento n. 17, pp. 85-86. Lettera di Antonelli a Sua Maestà Menelik, imperatore d'Etiopia. Sulle controversie per l'articolo 17 cfr. Carlo Conti-Rossini "Italia ed Etiopia dal trattato di Uccialli alla battaglia di Adua". Roma, Istituto per l'Oriente 1935. 68 ACS Carte Crispi Deputazione Storia Patria. Palermo - busta 59, fascicolo 373, sotto fascicolo 7, appunto di Crispi in data 4 ottobre 1890. 69 Ferdinando Martini "Nell'Affrica italiana" - Milano Treves 1896, p. 45. 67
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Nonostante quelle precisazioni, Crispi prese alla leggera quel grave problema; con grande sicurezza infatti scriveva l'8 aprile 1891 al generale Gandolfi, governatore dell'Eritrea: "Le questioni con Menelik non hanno importanza, e potremo noi, con le mani libere, fare quello che meglio ci giova nel Tigrè". Secondo Crispi l'articolo 17 restava pienamente valido "e finchè non sia regolarmente abrogato nissuno potrà contestare il nostro diritto", non esisteva alcun pericolo, ma conveniva fortificare l'altipiano contro "qualunque attacco possibile" e bisognava conservare il confine del Mareb. "Le cose dell'Abissinia volgono a nostro vantaggio" - proseguiva Crispi - poichè Menelich non poteva avere alcuna autorità nel Tigrè "il quale non può vivere senza di noi". Menelich si trovava in gravi difficoltà perchè indebolito da dissensi interni e minacciato dai Dervisci. E la debolezza di Menelich - asseriva Crispi - "serve ad accrescere la nostra forza". La conclusione era un pistolotto retorico destinato a Gandolfi: "L'avvenire dell'Italia in Africa è nelle vostre mani. Voi avete a salvare la nostra dignità, l'onor nostro".70 Rimaneva inascoltato il saggio consiglio di Toselli:"...c'è la famosa questione del protettorato! Ebbene noi mostriamoci di spirito e facciamoci a dimenticare un'utopia, pure adoperandoci ad introdurre, a fare accettare e diffondere nell'impero quella influenza che un giorno diverrà protettorato effettivo".71 La missione di Antonelli del 1890-91 presso Menelich si concluse in modo burrascoso: il conte rimase indignato perchè in un testo amarico figurava la sua pretesa accettazione del punto di vista etiopico, lacerò il documento senza alcun rispetto del sigillo imperiale e nel febbraio 1891 fece ritorno in Italia assieme a tutti i rappresentanti italiani in Etiopia, Traversi, Nerazzini e Salimbeni. Seguì una missione affidata nel 1891 a Leopoldo Traversi dal governo Rudinì, di carattere ufficioso che non conseguì risultati utili. Il governo Giolitti conferì una qualche ufficialità alla missione, conclusasi a fine 1893 col richiamo di Traversi da parte di Crispi; ma quasi contemporaneamente Antonelli, divenuto sottosegretario agli Esteri nel governo Crispi, incaricò, all'inizio de 1894, il colonnello Federico Piano di un ultimo tentativo di conciliazione con Menelich, destinato pur esso a fallire.71bis
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ACS Roma Carte Crispi .- Deputazione Storia patria. Palermo, busta 142, fascicolo 981, doc. n. 1 - copia dattiloscritta di lettera di Crispi al generale Gandolfi, Roma, 8 aprile 1891. 71 "Pro Africa Italica per un eritreo" - Roma, Casa editrice libraria italiana, p. 61. Toselli usò lo pseudonimo "un eritreo"; forse perchè, in quanto militare, non voleva apertamente contrastare il governo. 71bis ACS Roma Carte Crispi Deputazione Storia Patria. Palermo, busta 102, fascicolo 646. Appunto anonimo della fine del 1893, sotto il governo Crispi.
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Piano arrivò ad Addis Abeba il 16 giugno1894 e dovette fare una lunga anticamera prima di esser ricevuto da Menelich. Questi alla fine gli concesse un'udienza il 26 giugno e lo accolse in modo poco incoraggiante; esprimeva stupore e rincrescimento perchè l'ufficiale non era latore di nuove e significative proposte, per cui gli chiedeva cosa fosse venuto a fare e quando sarebbe tornato in Italia. Sul piano delle formalità diplomatiche la situazione poi migliorò ed il negus si mostrò abbastanza cordiale: ma nella sostanza non ci fu alcun miglioramento e la spinosa questione dell'articolo 17 rimase irrisolta, continuando ad avvelenare i rapporti fra l'Italia e l'Etiopia.72 Le complicazioni causate dall'articolo 17 alimentarono la campagna degli antiafricanisti, rendendoli sempre più decisi a chiedere l'abbandono della colonia; ma contribuì ad ispirare tale richiesta lo scandalo suscitato dalle attività delittuose del tenente dei carabinieri Dario Livraghi, capo della polizia indigena, e dell'avvocato Eteocle Cognassi, influente funzionario dell'amministrazione coloniale. L'alfiere della campagna di stampa scatenatasi contro gli abusi attribuiti ai due ed ai loro complici fu "La Tribuna", primo giornale a denunciarli già con una corrispondenza di Napoleone Corazzini da Massaua dal significativo titolo "Le gesta della polizia indigena in Africa. Assassini e ricatti commessi dal tenente Livraghi. Una banda di briganti incaricati di portare la civiltà". (4 marzo 1891,pp.1-2) Livraghi era accusato della soppressione di ricchi notabili (Ligg Hagos, Getheon, Naib Osman), accusati ingiustamente di tradimento, per impossessarsi dei loro beni. Inoltre si erano compiute azioni provocatorie, nascondendo nei negozi sacchetti di hashish; ma una volta scoperti venivano arrestati i commercianti, poi liberati con l'estorsione di denaro da parte di Livraghi. Il giornale afferma che quei fatti andavano al di là della cronaca nera e ne dava una lettura politica: "In verità, se è con questi mezzi e con tali uomini che noi pretendiamo portare la civiltà in paesi barbari, io comprendo la ribellione per cacciarcene". Quei fatti deplorevoli erano da imputarsi ad un sistema corrotto, più che alla responsabilità di singoli. "La Tribuna" ricordava di aver chiesto da tempo un governo civile per l'Eritrea, ponendo fine all' "illegale stato di guerra", per cui erano esposti "migliaia di uomini (bianchi e neri che siano, poco importa) ad ogni genere di tirannia senza appello. Nessuno ha diritto di privare i cittadini delle guarentigie sancite dai codici e dalle leggi."
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Sulla missione Piano cfr. Piero Ardizzone "L'ultimo Antonelli e le vicende africane" - Africana, rivista di studi extraeuropei - numero unico 2014.
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Non bastava "porre a capo di una sistema sbagliato uomini egregi. Fatti simili si sono potuti perpetrare sotto gli occhi di onesti soldati come il Baldissera e l'Orero". E "La Tribuna" continuava a scuotere l'opinione pubblica incalzando i politici con la richiesta di una inchiesta oltre al processo contro i colpevoli: "una inchiesta di altro genere, la quale metta in chiaro l'andamento della amministrazione coloniale"; per accertare le responsabilità di tutti (5 marzo 1891, p. 1 "Domandiamo un'inchiesta"). Con un sincronismo perfetto e forse non fortuito, in Parlamento si mosse Napoleone Colaianni, che proprio il 4 marzo 1891 presentò questa interpellanza al presidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri, Di Rudinì: "Il sottoscritto chiede interpellare il ministro degli Esteri sui fatti delle autorità politiche preposte al governo della nostra colonia Eritrea, denunciati recentemente dalla stampa".73 Di Rudinì prese tempo per rispondere: il 6 marzo dichiarò che si trattava di fatti avvenuti sotto il precedente governo Crispi e sui quali non aveva sufficienti informazioni; pertanto era costretto a rinviare la sua risposta ad una data non precisata. Volle però fare subito questa impegnativa dichiarazione: "Vi sono, pare, italiani indegni del loro nome e della loro nazionalità che avrebbero commesso atti che tutti noi dobbiamo riprovare. Se così fosse, se vi fossero colpevoli di questa natura, saranno sicuramente puntiti". Venendo incontro alla richiesta de "La Tribuna" annunciava il proposito di ordinare un'inchiesta, "la quale possa dare un criterio di come le cose sono passate e scoprire se, oltre le responsabilità penali, possono esservi per avventura responsabilità di altra natura. Perchè è debito mio di far sì che, non solo la legge, ma anche la pubblica moralità sia rispettata".74 Dopo una breve schermaglia Colaianni accettò il rinvio chiesto da Di Rudinì, che da parte sua non indugiò e dispose una inchiesta, preferendo che fosse il Re a disporla; Umberto I su proposta del governo già l'11 marzo 1891 emanò il decreto n. 100 pubblicato in quella data sulla Gazzetta Ufficiale, che riconosceva "la convenienza di provvedere, anche dal punto di vista amministrativo e disciplinare, all'accertamento ed alla repressione dei gravi fatti denunciati come avvenuti nella colonia Eritrea". Al contempo si affermava "la necessità di stabilire nella Colonia medesima tale un ordinamento che, sotto ogni aspetto, presenti guarentigie assolute di regolarità e sicurezza". A tal fine l'articolo 1 del R.D. disponeva la formazione di una Commissione incaricata "di esaminare e riconoscere, in relazione coi fatti denunciati, il contegno e gli atti dei funzionari governativi d'ogni grado e categoria". L'art. 2 stabiliva l'accertamento della degenerazione del sistema amministrativo
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Atti Parlamentari - Camera Deputati. Legislatura XVII, 1°. 74 Ibidem, tornata 6 marzo 1891, pp. 673-674.
1a
sessione. Discussioni. Tornata 4 marzo 1891, p. 597, volume
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e della inosservanza delle norme di legge, al fine di poter disporre "un nuovo e completo ordinamento". Perchè la Commissione potesse svolgere il suo importante compito l'articolo 3 le conferiva tutti i poteri necessari. Con decreto a parte in pari data erano nominati i membri della Commissione, così composta: Giacomo Armò, senatore e procuratore generale presso la Cassazione di Torino, presidente; commissari Giovanni Bianchi, deputato; Tommaso Cambray Digny, deputato; Antonio di San Giuliano, deputato; Luigi Ferrari, deputato; Ferdinando Martini, deputato; Edoardo Driquet, tenente generale, comandante l'Ottavo corpo d'armata. Il presidente Armò fu poi sostituito da un altro magistrato, il senatore Giuseppe Borgnini, procuratore presso la Corte d'Appello di Napoli. Sui sette componenti della Commissione cinque erano deputati, ma ciò non bastò a Colaianni che lo stesso giorno dell'emanazione del regio decreto presentò questa mozione firmata pure dagli onorevoli Imbriani, Poerio, Barzilai ed altri: "La Camera in cospetto alla gravità delle accuse mosse ad alcuni rappresentanti delle autorità italiane nella Colonia Eritrea e convinta che debbasi conoscere in tutta la sua pienezza la verità dei fatti stessi e risalire alle cause dei medesimi, determina di nominare una Commissione d'inchiesta parlamentare composta da 9 membri per indagare su tutto ciò che si riferisce alle condizioni politiche, economiche e morali della nostra Colonia". Nel presentare la mozione Colaianni specificava che la richiesta non stava a significare sfiducia nella iniziativa presa dal Re; ma era preferibile un'inchiesta disposta dalla Camera per affermare la centralità del Parlamento. Gli onorevoli Prinetti e Cavallotti a loro volta presentarono interpellanze per ottenere la nomina di una Commissione parlamentare d'inchiesta. Intervenendo nel dibattito, Di Rudinì osservò che la Commissione voluta dal Governo e nominata dal Re era una soluzione buona, anche se non poteva ritenersi ottima. Ed alla fine Colaianni si disse soddisfatto e ritirò la mozione.75 La Commissione reale svolse coscienziosamente il suo compito, come risulta dalla relazione generale dell'onorevole San Giuliano, presentata il 12 novembre 189176. Si faceva una premessa constatando che la situazione in Eritrea era un problema complesso, destinato a suscitare frequenti e vivaci dibattiti fino al giorno in cui, calcolati vantaggi e svantaggi, si sarebbe potuto scegliere finalmente una delle due sole vie degne di un popolo serio: o abbandonare definitivamente l'Africa
75
Ibidem, tornata 11 marzo 1891, pp. 778-796. "Relazione generale della R. Commissione d'inchiesta sulla Colonia Eritrea,composta dei Signori..." Roma, tipografia delle Mantellate 1891. 76
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o "prefiggersi colà, una meta certa, definitiva, chiara, per quanto forse remota; ed a quella intendere con indirizzo e programma determinati e costanti, con criteri stabili e sicuri, con propositi fermi e virili" (p. 5). Si riteneva necessario diminuire le spese per l'amministrazione della colonia; si analizzavano le possibilità di emigrazione in Eritrea e le esperienze di colonizzazione fatte dall'on. Franchetti (pp. 35-36); si constatava pure la decadenza fisica della popolazione locale, dovuta alla cattiva nutrizione ed alle malattie (pp. 40-43). Politicamente importante era l'affermazione della necessità di un governatore civile, non distratto da occupazioni militari, dal quale sarebbero dovuti dipendere tutti gli organi di governo, anche se poteva "servirsi di organi militari nelle parti ove, per ragioni di sicurezza, d'economia, ciò potrà ancora parere opportuno". Non sfuggiva alla Commissione il rischio di possibili contrasti fra il governatore ed il comandante militare: per regolarli occorrevano tatto e patriottismo da parte di tutti (pp. 93-94). Si riteneva prematuro formare un consiglio consultivo, che oltretutto sarebbe stato inutile in quanto privo di reali poteri (p. 96). La colonia doveva conservare i suoi confini attuali e non restringersi al triangolo Massaua-AsmaraKeren, come proposto da alcuni (p. 79). Agli indigeni occorreva assicurare "una giustizia imparziale, onesta, pronta, semplice anzi sommaria, a buon mercato, anzi, quando si può, gratuita, la quale continui ad applicare, nei rapporti di diritto privato tra di loro, le rispettive leggi e costumanze tradizionali (p. 158). Al governatore spettava garantire la sicurezza e dirigere la polizia; ma doveva essere assicurata l'indipendenza dei magistrati (pp. 173-174). Una nota razzista affiorava nell'affermazione che le guardie indigene, tranne che nei casi di urgente necessità, non potevano esercitare alcuna autorità sui bianchi "per tenere alto il prestigio della razza" (p. 175). Infine, andava incoraggiata l'attività colonizzatrice dei privati che operavano con capitali propri, eliminando le complicazioni burocratiche (p. 186). La Commissione non andava oltre generici riferimenti ad una corretta amministrazione giudiziaria, senza entrare nel merito dei misfatti attribuito a Livraghi e Cagnassi: era in corso il processo a loro carico e sarebbe quindi stata una inopportuna interferenza occuparsene; il problema fu affrontato a processo concluso, con una successiva e specifica relazione. A turbare i rapporti tra il governatore Gandolfi e la commissione d'inchiesta intervenne quella che il generale considerò una interferenza ancor più inopportuna: il proposito della Commissione di
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incontrare ras Alula per trattare un accordo; l'iniziativa era stata suggerita da Luigi Mercatelli, giornalista del "Corriere di Napoli", e sostenuta dal colonnello Federico Piano. Di Rudinì si disse favorevole, a condizione però che fosse Alula a chiedere l'incontro e che si agisse con il consenso del governatore. Ma il colonnello Piano, per facilitare l'iniziativa, trasmise alla Commissione, impegnata in una ispezione all'interno della Colonia, il testo del telegramma inviato dal Mercatelli al suo giornale, in cui si diceva che il ras "desiderava" incontrare la Commissione, anzichè usare il termine "consentiva", adoperato nel testo destinato alla Commissione. Gandolfi si accorse del sotterfugio di Piano e il colonnello fu deferito al consiglio di disciplina:se la cavò con pochi giorni di detenzione a Napoli, ma non potè tornare al momento in Africa, venendo destinato al comando di un reggimento di cavalleria a Catanzaro.77 Gandolfi agì con rigore contro Piano perchè, geloso delle sue prerogative, era contrario all'iniziativa della Commissione per trattare con ras Alula: era quanto scriveva a chiare lettere il "Corriere Eritreo"; il generale non credette poter ammettere che la Commissione invadesse il campo politico riservato esclusivamente alla sua attività. Gandolfi non esitò a manifestare il suo malumore in modo quanto mai scortese: evitò di incontrare la Commissione di ritorno a Massaua dopo l'ispezione all'interno della colonia, imbarcandosi con un tempismo ben calcolato sulla nave "Archimede" diretta ad Assab qualche ora prima dell'arrivo dei commissari a Massaua.78 Poco tempo dopo questo incidente Gandolfi fece ritorno, si pensava definitivamente, in Italia; Baratieri, che era già vice governatore, fu incaricato di sostituirlo ad interim. I rapporti fra i due non erano mai stati facili: Gandolfi tendeva ad emarginare il suo vice ed in più occasioni aveva pure ironizzato sulle sue attività culturali, poichè in quegli anni Baratieri si era dedicato ad opere geografiche ed antropologiche su regioni e popolazioni dell'Eritrea ("Itinerario da Keren a Cassala", "Negli Habab", "Nei Maria", "La regione tra l'Anseba e il Barca"). Malgrado ciò il "Corriere Eritreo" descriveva in tono idilliaco le relazioni fra Gandolfi e Baratieri, scrivendo che essi si erano conosciuti a Montecitorio, poichè erano entrambi membri della Camera, "propugnando le stesse idee e difendendo gli stessi interessi" . Baratieri era quindi molto legato "al Governatore che parte, il quale lo propose al Ministero per sostituirlo" (Corriere Eritreo, anno I, n. 4, 30 giugno 1891, p. 2 "L'on. Baratieri"). Baratieri una volta avuta ad interim la nomina a governatore si comportò come se il suo incarico fosse definitivo, affrontando con grande impegno i gravi problemi della colonia, anche se già si 77
Cfr. Ferdinando Martini "Cose Affricane" Treves, Milano 1896. "Corriere Eritreo - Giornale Settimanale Politico, Commerciale di Massaua": anno I, n. 2 16 giugno 1891, p. 5 "La Commissione, Ras Alula e l'intervista sfumata"; Cronaca "L'arrivo della Commissione e la gita ad Assab del Governatore". 78
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presagivano minacce da parte di Menelich: si udiva un "brontolio lontano ai nostri confini etiopici", scriveva difatti il "Corriere Eritreo", che si soffermava anche a descrivere le numerose carenze nei servizi essenziali; mancavano le strade ed erano precarie le condizioni igieniche, poichè scarseggiava l'acqua e "alla pulizia delle latrine (quando ci sono) provvede ancora l'alta marea" (anno I, n. 7, 23 luglio 1891, p. 3 "L'onorevole Baratieri"). Lo stesso giornale si augurava che si provvedesse in modo definitivo alla sostituzione di Gandolfi e accoglieva con favore la voce di una nomina di Giovanni Branchi, esperto di cose africane, che per un anno era stato in missione straordinaria in Etiopia, e che nel 1880 era stato commissario ad Assab (Corriere Eritreo, anno I, n. 9, 7 agosto 1891, pp.1- 2 "Chi sarà il nuovo Governatore?"). La notizia fu però presto smentita e il "Corriere Eritreo" lodava l'attivismo di Baratieri:"...bisogna riconoscere che l'on. Baratieri - poco preoccupandosi della provvisorietà o meno del suo ufficio, ma inteso solo alla responsabilità assunta - ha dato un vigoroso impulso all'organizzazione governativa della Colonia; impulso di cui si vedono i risultati così nel campo militare come nel civile" (Corriere Eritreo, anno I, n. 11, 20 agosto 1891, pp.5-6 Cronaca "Provvisorio?"). Ma questa prima esperienza da governatore di Baratieri durò poco, dalla fine di giugno a circa la metà dell'ottobre 1891, poichè a sorpresa il 20 ottobre Gandolfi tornò in Eritrea e il 4 novembre il "Corriere Eritreo" salutava con simpatia la partenza di Baratieri, che "in questo brevissimo lasso di tempo introdusse riforme e miglioramenti". Ma Baratieri non tardò a tornare in Eritrea come governatore effettivo. La sua nomina ebbe luogo nel marzo 1892, ma già il 17 gennaio il "Corriere Eritreo", la preannunciò, dicendosi lieto della notizia che doveva risultare gradita a "tutti gli amanti del bene pubblico" e in modo particolare al generale Gandolfi che trovò nel Baratieri "un fedele continuatore dell'opera di riordinamento con tanta saviezza avviata" . (anno II, n. 3, p.1 "Il colonnello Baratieri", articolo di fondo non firmato). Ma quella decantata amicizia fra i due ufficiali era solo un pio desiderio del giornale e doveva suonare come una involontaria ironia. Gandolfi ancora una volta poco attento alle esigenze protocollari, come aveva fatto nei suoi rapporti con la Commissione reale d'inchiesta, evitò di incontrare il suo successore, affrettandosi a partire il 29 marzo 1892, qualche ora prima dell'arrivo di Baratieri: il "Corriere Eritreo", sempre attento cronista degli avvenimenti, scriveva difatti il 28 marzo 1892 (anno II, n. 13, p. 3 "Il nuovo governatore" e "La partenza del Governatore") che Baratieri sarebbe arrivato il pomeriggio del giorno successivo mentre Gandolfi sarebbe partito all'alba. Mal gliene incolse stavolta, poichè ci fu uno strascico il 1° aprile 1892 con l'interpellanza presentata da Ferdinando Martini, in cui si ricordavano analoghi precedenti altrettanto sgradevoli, come l'intempestiva partenza di Gandolfi per Assab proprio il giorno in cui la Commissione
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d'inchiesta rientrava a Massaua dopo aver visitati le zone interne dell'Eritrea; ed anche in occasione dell'arrivo dell'on. Franchetti a Massaua il generale Gandolfi non si era fatto trovare. Martini affermava che si potevano tollerare quegli episodi, poichè si era trattato di scortesie personali più che di inosservanza di precisi doveri d'ufficio; tale inosservanza poteva invece esser contestata a Gandolfi per non aver atteso l'arrivo di Baratieri, omettendo di fargli le consegne e di informarlo sulle ragioni dei gravi disordini verificatisi. Di Rudinì nella sua replica definì deplorevole il comportamento di Gandolfi, tanto più che gli aveva espressamente raccomandato di attendere l'arrivo del suo successore, ed assicurò che si sarebbe indagato sui fatti lamentati da Martini; a tale assicurazione del presidente del Consiglio si associò Pelloux, ministro della Guerra. Rudinì al contempo dichiarava però di assumersi ogni responsabilità per l'operato di Gandolfi. Ma a parte tale biasimo, non ci furono conseguenze disciplinari per Gandolfi,78
bis
che potè esporre le sue ragioni nell'intervista ad un giornalista amico, Giovanni
Borelli, su "Il Popolo Romano" (13 aprile 1892, p. 1 "Incidenti d'Africa",) in cui affermava di non essere ostile a Baratieri, da lui sempre stimato tanto da proporlo per l'interim durante il suo temporaneo rientro in Italia. Ma si era poi reso conto che Baratieri aveva idee personali diverse dalle sue e "percorreva, sebbene reggente...vie se non diametralmente opposte, profondamente diverse". Aveva pertanto proposto di nominare in via definitiva suo successore il generale Rosselli; il ministero aveva però preferito nominare Baratieri. Gandolfi asseriva di non esserne rimasto entusiasta, ma ribadiva di non avere nulla di personale contro Baratieri; non ne aveva atteso l'arrivo perchè aveva già dovuto rinviare la partenza a causa degli incidenti funestati dalla morte del capitano Bettini. Era partito qualche ora prima dell'arrivo di Baratieri e quindi l'Eritrea non era rimasta un solo giorno priva di un governatore, nè la situazione esigeva un suo incontro con il nuovo governatore: il capo di Stato Maggiore, colonnello Nava, aveva fatto le consegne militari ed il segretario generale della colonia quelle civili: era una prassi da seguire anche se fosse rimasto ad attendere Baratieri ed inoltre aveva lasciato un lungo rapporto sulla situazione da valere "come norma ed istruzione anche per il successore". A favore di Gandolfi si pronunciò anche il "Don Chisciotte" pubblicando una lettera di Guido Norsa (2 aprile 1892, p. 3 "Nostre notizie. Il generale Gandolfi"), in cui si criticavano i deputati pronti a giudicare subito il generale senza aver prima ascoltato le sue ragioni; era criticato pure Rudinì, che si era espresso con durezza contro Gandolfi mentre era stato molto benevolo con Baldissera. Il generale aveva sempre giustificato in precedenza le sue azioni e se si era mostrato scortese verso la 78 bis
a
Atti Parlamentari Camera Deputati - Legislatura XVII, 1 sessione (19 marzo - 15 giugno 1892). Discussioni. Seconda tornata 1° aprile 1892, pp. 7622-7636.
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Commissione d'inchiesta era perchè questa era andata oltre il mandato datole volendo interferire nella politica coloniale con il progettato incontro con ras Alula per trattative sul confine. Ma lo stesso "Don Chisciotte" in definitica si schierava contro Gandolfi, criticato il 31 marzo 1892 per la sua affrettata partenza senza attendere Baratieri (p. 3 "La politica d'Africa"); critica ribadita con l'articolo di fondo firmato "Il Saraceno" (3 aprile 1892, p. 1 "Il generale Gandolfi") in cui era ancora censurato il comportamento del generale, attribuito più che al suo cattivo carattere, alla convinzione dei militari di essere intoccabili. Anche "La Perseveranza" si pronunciava contro Gandolfi; era lodato Rudinì perchè si era associato alle critiche di Martini, ma si giudicava contraddittorio il fatto che il presidente del Consiglio aveva dichiarato di assumersi l'intera responsabilità del comportamento di Gandolfi. A sua volta "Il Fanfulla" respingeva perchè insufficienti le giustificazioni date da Gandolfi nell'intervista a "Il Popolo Romano" (13-14 aprile 1892, p. 3 "Nostre informazioni. Il generale Gandolfi"). Il "Corriere della Sera" si occupò a più riprese di quella vicenda; respingeva le spiegazioni date dal generale, che andava punito collocandolo nella riserva, come era avvenuto per Orero. Pelloux, ministro della Guerra, non aveva voluto agire prima di aver sentito le ragioni di Gandolfi; ma a quel punto, una volta che le aveva conosciute, sarebbe dovuto intervenire. Il generale aveva già avuto modo di giustificarsi, oltre che nell'intervista, anche in un lungo colloquio con il presidente del Consiglio ("Corriere della Sera", 14-15 aprile 1892, p. 1 "L'impressione sfavorevole fatta dalle spiegazioni del generale Gandolfi nei vari giornali"). Ma il lungo colloquio con Rudinì ebbe invece un effetto benefico per Gandolfi: il "Corriere della Sera" aveva in precedenza definito "angoloso e permaloso" il carattere del generale, citando precedenti episodi riprovevoli, come quello del tenente Castellani, punito da Gandolfi con la revoca dell'incarico di suo aiutante per essersi dimostrato troppo premuroso e cortese con la Commissione d'inchiesta (1-2 aprile 1892, p.1 "Note alla seduta della Camera. La prossima discussione africana e la scontrosità del generale Gandolfi"). Si trattò comunque di una tempesta in un bicchiere d'acqua, da cui Gandolfi uscì indenne. Era già un segno di considerazione il lungo colloquio concessogli da Rudinì, sebbene avesse motivo di nutrire ben più serie preoccupazioni. Già il 14 aprile si erano manifestate crepe nel suo governo a causa dei contrasti del ministro delle Finanze Colombo con gli altri ministri, sulla politica fiscale. Colombo si era dimesso e il re aveva congelato la crisi incaricando Rudinì di risolverla ricomponendo il suo ministero. Fallito quel tentativo, Rudinì aveva rinnovato le dimissioni, accolte stavolta dal re che il 15 maggio affidò a Giolitti l'incarico per un nuovo governo.
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Si era capito che le cose si mettevano bene per Gandolfi già ai primi di maggio con la sua nomina a grand'ufficiale della Corona d'Italia ("Corriere della Sera", 3-4 maggio 1892, p. 1 "Onorificenza che farà meraviglia"). Pochi giorni dopo ancora il "Corriere" informava che a Gandolfi era stato dato il comando di una brigata (20-21 maggio 1892, p. 1
"Il nuovo comando del generale
Gandolfi"): e così si concluse la vicenda, con buona pace di Martini e degli altri avversari di Gandolfi. Nel corso di questo avvicendamento nella carica di governatore erano maturati altri notevoli fatti. La Commissione d'inchiesta aveva concluso i suoi lavori e il "Corriere Eritreo" si diceva deluso del primo rapporto provvisorio, poichè non aveva riportato alcun nuovo elemento; il giornale comunque esprimeva la sua soddisfazione perchè, al contatto con la realtà, la Commissione si era dovuta ricredere delle prevenzioni anti-africane: "Non abbiamo mai dubitato nè dubiteremo mai della conversione alla fede africana di quanti scettici sono venuti e verranno a vederla da vicino, quest'Africa tanto calunniata" (anno I, n. 20, 20 ottobre 1891, p. 1 "Osanna!"). Esempio illustre di questa "conversione alla fede africana" fu Ferdinando Martini, membro di quella Commissione d'inchiesta, passato dalla avversione alle imprese coloniali ad una loro positiva valutazione, espressa con simpatia nelle sue opere "Nell'Affrica italiana" e poi "Cose affricane", e soprattutto con la sua illuminata attività di governatore, durata un decennio a partire dalla fine del 1897. Al contempo si veniva istruendo il processo contro Livraghi, Cagnazzi ed i loro complici, nominando il Tribunale di guerra che doveva giudicarli; presidente del Tribunale fu in un primo momento nominato il colonnello Baratieri ("La Tribuna", 7 aprile 1891, p. 1 "Cose d'Africa. Il Tribunale di Guerra"), presto sostituito da un altro ufficiale avendo Baratieri ricevuto l'interim del governatorato con la partenza di Gandolfi. Il processo tardò ad iniziare essendosi dovuta aspettare l'estradizione di Livraghi dalla Svizzera dove si era rifugiato. Ebbero però un rapido svolgimento, tra il novembre ed il dicembre 1891, i due distinti procedimenti intentati contro Livraghi e Cagnazzi: un primo procedimento per i reati di calunnia e concussione avendo essi ingiustamente accusato di tradimento e cospirazione contro l'Italia le loro vittime, per giustificare la persecuzione e poi la loro soppressione, estorcendo anche denaro da alcuni, per risparmiare loro la vita; l'altro procedimento riguardò invece l'imputazione ben più grave di omicidio plurimo. Le cose si misero subito bene per i maggiori imputati. Gli ex governatori Saletta, Baldissera, Orero, oltre al generale Fecia di Cossato, sostituto di Orero durante la sua assenza, deposero tutti favorevolmente, tessendo ampi elogi della capacità e correttezza di Livraghi e Cagnassi.
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Il generale Cossato nell'udienza del 3 novembre 1891 attribuiva le disavventure di Cagnassi alla sua operosità ed al suo zelo che gli avevano procurato molti nemici. Esisteva pure una ragione più alta, il contrasto con Salimbeni ed Antonelli, fautori della politica filo-scioana, mentre Cagnassi voleva che si dedicasse la maggiore attenzione ai rapporti con il Sudan ("La Tribuna", 5 novembre 1891, p. 3 "Il processo di Massaua"). Toselli, il futuro eroe dell'Amba Alagi, nella sua deposizione definì Cagnassi un eccellente consigliere ed un profondo conoscitore della Colonia; per il suo carattere spigoloso era antipatico a molti, ma era sempre stato inflessibile contro ogni tentativo di corruzione da parte degli appaltatori. Nella stessa udienza il generale Saletta dichiarò di aver avuto ottime informazioni su Cagnassi, che aveva dimostrato di essere un funzionario eccezionale, alieno da favoritismi ("La Tribuna", 10 novembre 1891, p. 4 "Il processo di Massaua"). "La Tribuna" definiva "un'apologia" le testimonianze di Saletta e Toselli tanto favorevoli a Cagnassi: altrettanto favorevole fu la deposizione successiva di Baldissera, che definì infondate le accuse mosse all'imputato di aver speculato sull'oscillazione di valore del tallero: erano dei bugiardi Mussa el Akkad e Ahmed Kantibai autori di quelle accuse. Pure favorevole si rivelò la testimonianza di Orero: allarmato dalle voci negative corse su Cagnassi, aveva disposto una attenta inchiesta da cui però non era risultato alcunché a suo carico ("La Tribuna", 11 novembre 1891, p. 3 "Il processo di Massaua"). Caddero pure le accuse a carico di Livraghi: il ricavato delle multe inflitte per spaccio di hashish era stato regolarmente versato nelle casse del comando ("La Tribuna", 14 novembre 1891, p. 3 "Il processo di Massaua"). Sulla base di quelle testimonianze il p.m. Lolli non poteva esimersi dal proporre il proscioglimento di Cagnassi e Livraghi chiedendo invece 20 anni di reclusione per Kassa, falso accusatore di Akkad e di Adam Aga, da lui definiti complici dei maggiori imputati. Lolli accusava inoltre la stampa di esagerazioni che avevano gonfiato il processo ("La Tribuna", 15 novembre 1891, p. 3 "Il processo di Massaua. La requisitoria"). Contro le accuse mosse alla stampa dal p.m. Lolli protestò Napoleone Corazzini, il corrispondente a Massaua de "La Tribuna", che era stato il primo a denunciare le malefatte di Livraghi e Cagnassi: Corazzini asseriva di aver soltanto denunciato l'ingiustizia di un processo contro Mussa el Akkad: era un malvagio, ma non meritava le accuse mossegli. Corazzini rivolgeva poi una frecciata a Lolli, augurandosi un suo diverso comportamento in occasione del processo per omicidio ("La Tribuna", 17 novembre 1891, p. 1 "Il processo di Massaua").
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Si arrivò alfine alla sentenza: secondo le previsioni Cagnassi e Livraghi furono assolti, Kassa fu condannato a 16 anni e mezzo di carcere, a fronte di 20 anni chiesti dall'accusa ("La Tribuna", 20 novembre 1891, p. 3 "Il processo di Massaua. La sentenza"). Il 24 novembre 1891 ebbe inizio il secondo e più grave processo per omicidio contro Livraghi e il cavalier Adam Aga, capo degli informatori, ed i loro complici. Livraghi dichiarò già in apertura del procedimento di aver agito su ordine di Baldissera ("Corriere Eritreo", anno I, n. 25-26, 26 novembre 1891, p. 1 "Processo Livraghi, Cagnassi e coimputati"). Nell'udienza successiva Adam Aga confermò la deposizione di Livraghi, asserendo di aver fatto uccidere una decina di indigeni, ritenuti pericolosi per la sicurezza della colonia. Baldissera avallò quelle deposizioni, precisando di avere ordinato a Livraghi di sopprimere Ligg Agos Scerif, Ali Tacher ed altri tre abissini. Era stata invece una autonoma iniziativa di Livraghi l'uccisione del commerciante Getheon, per cui aveva rimproverato l'ufficiale. Il generale Orero dal canto suo dichiarò di aver approvato l'ordine di uccidere Naib Osman, dato in sua assenza dal generale Fecia di Cossato ("Corriere Eritreo", anno I, n. 26, 2 dicembre 1891, p. 3 "Processo Livraghi, Adam Aga e complici"). Anche in questa occasione le testimonianze indussero il p.m. Lolli a scagionare gli imputati Livraghi e Adam Aga, che, come scriveva il "Corriere Eritreo", avevano agito per ordine di una autorità competente; Lolli pertanto chiedeva la loro assoluzione e quella dei nove agenti indigeni esecutori materiali delle soppressioni, a norma dell'articolo 267 del codice penale militare. Per l'uccisione di Getheon erano responsabili Livraghi e Abd-el-Raham, capo delle guardie; il p.m. invocò le attenuanti per il primo, chiedendone la condanna all'ergastolo, per il secondo chiese la pena di morte. Il Tribunale, riconosciuta la necessità delle esecuzioni disposte dai generali, decise l'assoluzione degli imputati; Livraghi fu assolto pure per l'uccisione di Getheon, che si disse avvenuta durante un tentativo di fuga; mentre Abd-el.Raham fu condannato all'ergastolo, e non alla pena di morte richiesta dall'accusa ("Corriere Eritreo", anno I, n. 27, 10 dicembre 1891, p. 2 "Processo Livraghi, Adam Aga e complici"). Molto rumore per nulla, verrebbe da dire: il processo reclamato a gran voce come una doverosa riparazione si sgonfiava come una bolla di sapone e ci furono condanne solo per gli imputati di secondaria importanza. "La Tribuna", che era stata all'avanguardia nel chiedere giustizia, a commento di quelle sconcertanti assoluzioni pubblicò la "Relazione della Commissione d'inchiesta sulle soppressioni africane" (8 dicembre 1891, p. 1).
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La Commissione riconosceva che Baldissera aveva disposto le esecuzioni perchè costretto dallo stato di necessità; non aveva però ordinato di uccidere Getheon, accusato di fornire munizioni a ras Alula e soppresso, secondo Livraghi, per aver tentato la fuga. La Commissione concludeva con una dura condanna di Baldissera per le decisioni da lui prese andando al di là dei suoi poteri e senza il rispetto delle procedure di garanzia: "Se gli individui dei quali egli ordinò l'esecuzione - osservava la Commissione - meritavano di essere puniti con tutto il rigore delle leggi militari, ciò poteva esser fatto nelle forme legali: con il mancato rispetto delle garanzie richieste per le esecuzioni capitali, si permise che quelle esecuzioni si compissero anzichè come vere fucilazioni militari colle forme di volgari omicidi, e si potè aprire l'adito ad abusi ed arbitri da parte degli esecutori.... per queste ragioni la Commissione, pur riconoscendo la eccezionalità della situazione, dichiara che questa può attenuare, non mai escludere la responsabilità incorsa del generale Baldissera". Parole molto chiare e molto dure, ma rimaste senza conseguenza per il generale, così inchiodato alle sue responsabilità. Baldissera continuò a godere della fiducia del governo ed ad avere importanti incarichi, come la designazione nel 1896 a sostituire Baratieri nel comando della campagna contro il negus. Non mancarono altre sbrigative esecuzioni, meno clamorose ma altrettanto gravi, pur esse rimaste impunite. Il generale Caruso a distanza di molti anni citò nei suoi "Ricordi d'Africa" un triste episodio avvenuto nel 1891 a Keren dove egli si trovava col grado si tenente d'artiglieria. Una trentina di Dervisci si erano presentati per sottomettersi; ma furono ritenuti spie e, malgrado Caruso ed altri ufficiali sostenevano trattarsi di una accusa infondata, furono in gran parte giustiziati.79 Altro documento relativo alla soppressione di indigeni sospetti è la lettera di Baratieri all'amica Amalia Rossi, inviata nel maggio 1892. Baratieri scriveva che la situazione si era tranquillizzata, ma aggiungeva: "...quanti grattacapi, quanti pensieri e quali dolorose decisioni per estirpare la mala pianta del brigantaggio e incutere ai tristi terrore. Ho dovuto ordinare molte fucilazioni, molte deportazioni, molte gravissime pene vincendo la debolezza del cuore, ma ciò era indispensabile per togliere di mezzo l'infame tratta degli schiavi e per ridare sicurezza ai poveri indigeni". 80 Baratieri come Baldissera: lo stato di necessità rendeva necessario agire in modo spietato; in più Baratieri accennava alla "debolezza del cuore" e metteva avanti motivi umanitari come la lotta alla tratta degli schiavi, che fu in effetti una sua costante preoccupazione.
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Generale Cosimo Caruso "Ricordi d'Africa" (1889-1896)" Estratto dalla rivista "Politica" - Roma 1939, pp. 38-39 (I ricordi furono scritti negli anni 1910-1911). 80 Archivio del Museo Centrale dei Risorgimento - Roma. Busta 77, fascicolo 54, lettera di Baratieri ad Amalia Rossi, Massaua 24 maggio 1892.
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Dai documenti dell'Archivio amministrativo della Società Geografica Italiana risulta difatti la sua attività a favore degli schiavi liberati dai negrieri, utilizzando a tal fine i fondi del Comitato Africano della Società. L'11 dicembre 1892 il generale scriveva al segretario generale della Società, prof. Giuseppe Della Vedova, di voler riprendere la direzione effettiva della Sezione Eritrea della Società, di cui era presidente onorario, per dare impulso alle iniziative contro i negrieri, applicando "con tutta energia l'atto di Bruxelles intorno alla tratta". Con lettera del 30 gennaio 1893 Baratieri ringraziava il marchese Doria, presidente della Società Geografica, per un finanziamento di duemila lire, da utilizzare per i ricoveri di Assab, Massaua, Asmara, destinati agli schiavi liberati. Successivamente, il 28 marzo 1893, era il marchese Doria a comunicare a Baratieri l'approvazione da parte del Consiglio direttivo di stanziare altre 1500 lire per l'assistenza ai giovanetti liberati dai negrieri; nella sua lettera di ringraziamento in data 18 aprile 1893 Baratieri scriveva: "Per ora i bambini sono ricoverati quasi tutti ad Assab ed il soccorso viene opportunissimo coi soccorsi governativi per installarli alla meglio, provvederli di vesti e migliorare il loro nutrimento". Ed ancora il 23 dicembre 1894 Baratieri si spendeva a favore dei piccoli assistiti chiedendo al marchese Doria altre duemila lire "allo scopo di soccorrere gli schiavetti liberati che non possono esser da Assab e da Massaua rinviati in patria". Ma Baratieri non curava soltanto l'assistenza agli ex schiavi: raccoglieva pure adesioni alla Società Geografica, come a più riprese comunicava a Della Vedova e svolgeva un'attività culturale divulgando le cognizioni geografiche, che, come asseriva nella sua lettera del 21 febbraio 1895 al marchese Doria, "dissipano le nebbie e preludono all'incivilimento".80bis
80bis
Archivio amministrativo della Società Geografica Italiana. Busta 32, fascicolo 4, doc. 1100. Baratieri a Carissimo Amico" (Della Vedova) Massaua, 11 dicembre 1892; comunica attività antischiavista. Busta 32, fascicolo 6, doc. 137. Baratieri al marchese Doria. Massaua, 30 gennaio 1893; ringrazia per il sussidio di 2000 lire. Busta 32, fascicolo 6, doc. 265 (minuta). Doria a Baratieri, Roma, 28 marzo 1893; destinate 1500 lire per gli schiavi liberati. Busta 32, fascicolo 7, doc. 359 Baratieri a Doria, Massaua, 18 aprile 1893; informa su assistenza ai bambini ex schiavi. Busta 32, fascicolo 9, doc. 849. Baratieri a Doria, Roma, 23 dicembre 1893; chiede altre 2000 lire. Busta 32, fascicolo 12, doc. 79. Baratieri a Doria, Massaua 21 febbraio 1893; informa su attività culturali. Busta 28, fascicolo 62, doc. 1136, 19 settembre 1890; busta 29, fascicolo 62, doc. 1445, 22 dicembre 1890; busta 29, fascicolo 66, doc. 164, 7 febbraio 1891; Baratieri a Della Vedova sempre per comunicare adesioni alla Società Geografica. Un sentito grazie alla dr.ssa Marina Scionti, archivista della Società Geografica, per l'aiuto nella ricerca dei documenti fornito con professionalità e cortesia.
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La debolezza del cuore di cui Baratieri faceva cenno nella lettera ad Amalia Rossi, era quindi una umana sensibilità che lo spingeva a soccorrere gli sventurati, non si trattava di un pretesto, ma era sincero nell'esporre all'amico la riluttanza che aveva dovuto vincere per usare la forza "per togliere di mezzo l'infame tratta degli schiavi e per ridare sicurezza ai poveri indigeni". C'è da osservare che l'opinione pubblica in Eritrea approvava quelle misure tanto rigorose da esser spietate, a giudicare dai resoconti del processo Livraghi-Cagnassi e dai relativi commenti pubblicati dai due giornali locali, il "Corriere Eritreo" e "L'Eritreo", in concorrenza tra di loro ma concordi nel dimostrare simpatia per gli imputati e nel ritenere infondate le accuse rivolte loro. "L'Eritreo" scriveva che il processo dimostrava "con quale leggerezza venne fatta l'istruttoria e compilato il famoso atto d'accusa, basato solo su semplici induzioni d'una assai dubbia attendibilità e che il dibattimento provò erronee". Lo stesso p.m. aveva demolito il castello accusatorio ("L'Eritreo", anno I, n. 3, 18 novembre 1891, pp. 1-3. "Processo Cagnassi-Livraghi e coimputati"). Ed ancora il giornale, una volta pubblicata la sentenza, difendeva il tribunale dalle critiche rivoltegli per l'assoluzione dei principali imputati, asserendo che il processo era stato solo una montatura architettata da Crispi che aveva bisogno "di colpi di gran cassa, di roboante reclame, di clamorosi scandali per affermarsi"("L'Eritreo", anno I, n. 4, 26 novembre 1891, p. 1. "Aspirazioni deluse", articolo di fondo non firmato). Tesi in realtà poco convincente, tenuto conto che un africanista convinto come Crispi non aveva certo interesse a screditare l'operato italiano in Eritrea divulgando scandali. Né Baldissera né Baratieri furono chiamati a rispondere dei loro atti, la stessa impunità fu accordata ad Orero, responsabile per aver coperto l'attività delittuosa di Livraghi e Cagnassi, iniziata sotto Baldissera e proseguita sotto il suo comando; ed inoltre egli aveva commesso un grave atto di indisciplina con l'avventurosa marcia su Adua, compiuta contro la volontà di Crispi. In tono scandalizzato "La Tribuna" trovava inaudito che un generale non avesse obbedito agli ordini di un ministro di un governo costituzionale e si chiedeva: "O dov'era dunque in quel momento la decantata energia dell'onorevole Crispi, quella energia che dispiegavasi nel destituire sindaci, nello sciogliere consigli comunali, nel reprimere le manifestazioni anche più innocenti dello spirito pubblico? "(29 aprile 1891, p. 1 "Chi comanda?"). Crispi aveva preferito agire in maniera discreta, evitando di prendere provvedimenti ufficiali contro Orero; non voleva mettersi contro l'esercito, di cui aveva bisogno come docile strumento di repressione; ma a distanza di poco tempo dalla marcia su Adua, nel giugno 1890 Orero aveva lasciato la carica di governatore e comandante militare, ufficialmente per ragioni di salute. Era
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rimasto in carica solo per alcuni mesi, dal novembre 1889 al giugno 1890 e gli subentrò il generale Gandolfi. Questi i fatti che fecero cadere in disgrazia Orero. All'inizio del gennaio 1890 il generale segnalava al ministro degli esteri che Adua era in preda all'anarchia da quando ras Alula si era ritirato lasciando la città in balia di rissosi capi minori per cui le carovane dall'Abissinia non potevano più arrivare a Massaua. Proponeva quindi un intervento italiano, facendo presente che sarebbe stato utile a Menelich. Crispi rispose subito, il 10 gennaio, di essere contrario: era pericoloso allontanarsi troppo dalle basi sulla costa e Menelich si sarebbe risentito per quell'iniziativa italiana, anziché gradirla come Orero supponeva. Prima di prendere una decisione doveva attendere l'imminente arrivo di Antonelli e consultarlo assieme a Makonnen , signore dell‟ Harrar e prezioso punto di riferimento per la politica italiana; gli abissini erano diffidenti e non avrebbero capito il nostro disinteresse e la nostra lealtà.81 Orero non si fece convincere da questi argomenti e replicò il 16 gennaio che per vincere la diffidenza abissina conveniva occupare Adua e nominarvi in rappresentanza di Menelich un governatore indicato da Makonnen . La risposta di Crispi in data 17 fu ancora negativa: a suo giudizio Menelich non sarebbe stato d'accordo; per rafforzare il prestigio italiano era preferibile occupare non Adua, ma qualche altra località. 82 Ma Orero tenacemente confermava il suo proposito telegrafando a Crispi il 19; questa serrata corrispondenza telegrafica si infittì con la comunicazione di Makonnen a Crispi fatta il 22 gennaio di aver sconsigliato ad Orero la conquista di Adua; al contempo il ras sollecitava Crispi perché dissuadesse Orero dal prendere questa iniziativa.83 Aderendo a tale richiesta Crispi rinnovò a Orero il divieto di occupare Adua; per tutta risposta Orero il 24 telegrafò al ministro della guerra insinuando che l'opposizione di Antonelli e Makonnen al suo piano era frutto di gelosia, in quanto i due aspiravano ad occupare essi stessi Adua; la stessa comunicazione il generale la faceva a Crispi in pari data, precisando che Antonelli e Makonnen si proponevano di occupare Adua con bande di irregolari indigeni soppiantando l'intervento di forze regolari italiane; ma avevano desistito da tale proposito dicendosi disposti ad unirsi ad Orero e alle sue truppe. "In questo stato di cose -proseguiva il generale- continuo senza preoccuparmi la mia
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ACS Roma, Carte Crispi. Deputazione Storia Patria. Palermo, busta 56, fascicolo 358, sub fascicolo 4. Tel. di Orero al Ministero Esteri, 7 gennaio 1890; tel. di Crispi ad Orero 10 gennaio 1890. 82 Ibidem, tel. Orero a Crispi 16 gennaio 1890; tel. N. 46 bis urgentissimo 17 gennaio 1890 Crispi ad Orero. 83 Ibidem, tel. n. 57 di Orero a Crispi 19 gennaio 1890; tel. di Makonnen a Crispi 22 gennaio 1890.
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marcia che procede sotto ogni aspetto benissimo. Spero il giorno 26, anniversario di Dogali, di essere in Adua.84 Ed il 26 gennaio 1890 Orero informava puntualmente Crispi di essere arrivato ad Adua, dove i soldati avevano recuperato con gioia una mitragliatrice presa a Dogali dagli abissini. In altro telegramma in pari data Orero affermava che essere arrivati nella capitale del Tigré era un compenso " ambito dovuto ai nostri bravi ufficiali e soldati", pertanto non gli dispiaceva di avere ricevuto in ritardo l'ordine di retrocedere. Al clero ed ai notabili di Adua aveva assicurato che l'Italia non mirava a conquiste territoriali e quindi, una volta ristabilito l'ordine, sarebbe tornato al confine del Mareb; si doleva soltanto di non poter nominare un governatore di Adua filo-italiano perché vi avrebbe trascorso troppo poco tempo.85 A questo punto a Crispi non restava che fare buon viso a cattivo gioco, rassegnandosi al fatto compiuto e inviava il 28 gennaio un telegramma di congratulazioni per il felice esito della spedizione; il giorno successivo Crispi ordinava al generale di attendere in Adua l'arrivo di Antonelli e Makonnen e di prendere con essi i necessari accordi per la nomina di un governatore, ritirandosi subito dopo in territorio italiano.86 Non erano però finite le controversie. Orero alla richiesta di Crispi perché spiegasse il suo comportamento replicò il 27 gennaio di aver voluto mantenere alta la dignità italiana, come prescritto dallo stesso Crispi. Aveva pensato di nominare governatore ras Sebhat , ma questi, istigato da ras Makonnen, non si era recato ad Adua; proponeva quindi di nominare il degiac Gazamedin, fedele all'Italia. Prevedendo l'opposizione a tale nomina da parte di Makonnen, preferiva lasciare Adua affidandone la reggenza al maggiore Di Maio , capo delle bande indigene, affidando a Makonnen la scelta del governatore. Molto meno remissivo Orero si dimostrava il successivo giorno 28, accusando Makonnen di agire contro gli interessi italiani. "Per non passare per troppo buono " voleva quindi evacuare completamente Adua, revocando l'ordine dato al maggiore Di Maio di attendere l‟arrivo di Antonelli e Makonnen per scortarli fino allo Scioa. Beffardamente Orero così concludeva: "Si vedrà allora come senza di noi la missione scioana di Antonelli potrà dar corso al progetto di passare per il Tigré con la sola scorta delle bande del degiac Sebhat." 84
Ibidem, tel Crispi a Orero n. 52, 23 gennaio 1890; tel. Orero a Ministero Guerra n. 64bis, 24 gennaio 1890; tel. di Orero a Crispi, trasmesso da Fecia di Cossato, 24 gennaio 1890. 85 Ibidem, tel. di Orero a Crispi da Adua, 26 gennaio 1890 trasmesso il 27 da Fecia di Cossato con tel. n. 74 da Massaua; tel. di Orero a Crispi da Adua, 26 gennaio 1890; trasmesso il 27 da Fecia di Cossato, con tel. n. 100 da Massaua. 86 Ibidem, tel. n. 66 Crispi ad Orero, 28 gennaio 1890; tel. n. 71 Crispi a Fecia di Cossato per Orero, 29 gennaio 1890.
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Con quella impudente dichiarazione Orero aveva passato il segno e Crispi, persa la pazienza, sbottava il 30 gennaio telegrafandogli che "era troppo suscettibile e negli affari di stato non bisogna agire d'impeto a seguito di notizie più o meno attendibili… Ella è precipitosa e non mi lascia neanche un momento a riflettere. In questo modo non si governa e temo che continuando così il nostro accordo non potrà durare. Intempestivamente andò in Adua e intempestivamente la vuole abbandonare". Concludeva con questa non meno brusca intimazione: "Stia al suo posto e attenda altro mio telegramma".87 Nel suo rapporto a Crispi del 2 febbraio 1890 Antonelli faceva il bilancio della situazione affermando: "La marcia nostra su Adua è stata compiuta con una imprudenza che spaventa", era impossibile pacificare il Tigrè come Orero si era proposto, non c'erano riusciti né il negus Teodoro, né il negus Giovanni: come avrebbe potuto farlo Orero con qualche migliaio di soldati? Il territorio occupato era un deserto dove si poteva sopravvivere solo con i rifornimenti dall'Italia; anziché pensare a nuove conquiste sarebbe convenuto sfruttare meglio i territori già occupati incoraggiando con premi i contadini a coltivarli. Concludeva annunciando di voler raggiungere Orero ad Adua e di augurarsi che il governo italiano continuasse a cercare l'amicizia di Menelich: era questa amicizia che stava soprattutto a cuore ad Antonelli, contrario all'iniziativa di Orero perché poteva turbarla vanificando il trattato di Uccialli appena concluso il 2 maggio 1889. Dopo la sfuriata di Crispi Orero cercò di correre ai ripari telegrafando l'8 marzo di aver fatto scortare Antonelli e Makonnen nel loro viaggio verso lo Scioa da ras Sebhat; successivamente l'11 marzo, lasciata alfine Adua, scriveva da Massaua al ministro della guerra Bertolè-Viale di aver disposto che il colonnello Fecia di Cossato e il capitano Toselli si recassero presso Menelich in Adua, per ossequiarlo. Il 23 Crispi rispondeva telegrafando di dare ad Antonelli disposizioni per un incontro del negus con Orero, per confermare la sovranità dell'Etiopia sul Tigrè; ma già si vedevano le crepe apertesi nell'accordo di Uccialli; "Ormai è chiaro che da Menelich nulla è da attendersi di bene".88 Ma ormai la posizione di Orero era compromessa ed era giunta alla fine la sua permanenza in Eritrea; il 17 aprile 1890 difatti il generale chiedeva al Ministero della guerra di essere richiamato in patria e collocato nella riserva, perché malato di reumatismi e sofferente agli occhi. Richiesta subito accolta senza il rituale invito di cortesia a restare in servizio. Difatti già il 25 aprile Crispi telegrafò
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Ibidem, tel. Orero a Crispi, Adua 27 gennaio 1890, trasmesso il 29 da Fecia di Cossato da Massaua; tel. Orero a Crispi 28 gennaio 1890 da Adua, trasmesso il 29 da Fecia di Cossato da Massaua; tel. Crispi a Fecia di Cossato, 30 gennaio 1890, da trasmettere ad Orero. 88 Ibidem, rapporto di Antonelli, rappresentante diplomatico italiano in Etiopia, a Crispi, 2 febbraio 1890; tel. riservato personale di Orero a Crispi, 8 marzo 1890; tel di Orero a Bertolè-Viale, ministro della guerra, 11 marzo 1890; tel. di Crispi a Orero, 23 marzo 1890.
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all'ambasciatore d'Italia a Londra, Tornielli, perché accertasse la disponibilità del generale Dal Verme ad accettare la nomina a governatore dell'Eritrea. Dal Verme rifiutò, dicendosi all'oscuro delle ragioni del richiamo di Orero in Italia, suo amico, di cui in linea di massima condivideva le idee. Fu quindi nominato governatore Gandolfi nel giugno 1890.89 Ma col rientro in patria di Orero non svanì il ricordo della marcia su Adua. Alcuni mesi dopo, difatti, il 17 dicembre 1890, nel corso della discussione alla Camera per preparare la risposta al discorso della Corona, Crispi aveva affermato di voler correggere notizie errate sul progetto di occupare Cassala, che non rientrava nei suoi propositi; se avesse realmente avuto quella intenzione, non l'avrebbe vietato come era invece avvenuto, ad Orero, che "dopo la marcia fortunata sopra Adua, un'altra voleva farne sopra Cassala: io l‟impedii". Intervenne allora Imbriani rivolgendo una interrogazione al ministro della guerra, Bertolè-Viale: poiché Crispi non era un militare sollecitava "la parola competente del Ministro della guerra" a proposito di marce gloriose che poi finirono in ritirate precipitose. Crispi l'interruppe gridando: "Non è vero!", ma Imbriani proseguì imperterrito: "Quella marcia dei nostri su Adua fu tutta piena di pericoli ed andò bene perché si ritirarono presto; quindi non capisco come possa dirsi marcia gloriosa". Ma su quella "gloriosa marcia" Crispi si limitò a quella brusca interruzione, né Bertolè-Viale pronunciò la "parola competente" richiestagli da Imbriani.90 Crispi (non più presidente del consiglio, essendogli subentrato Di Rudinì con Pelloux ministro della guerra) rimase ancora in silenzio il 29 aprile 1891, quando Imbriani affermò di apprezzare il valore del soldato italiano, che però avrebbe dovuto essere "altrimenti adoperato che non in sterili conati ed in marce sopra Adua, inutili, pericolose e costose, per acquistare una frontiera incerta che ci sarà ad ogni istante contesa, e non ci verrà in ogni caso d'utilità alcuna". Proponeva quindi Imbriani il ritiro dall'Eritrea, ricordando l'esempio dell'Inghilterra, che in più occasioni aveva avuto l'accortezza di ritirarsi dai territori occupati dopo aver sconfitto il nemico. A questa proposta si oppose Franchetti, asserendo che per ragioni politiche ed economiche (aveva già iniziato i suoi esperimenti di colonizzazione) non si doveva restituire alcun territorio a Menelich; poteva bastare una influenza economica, senza ricorrere ad un' occupazione militare, per assicurare il dominio italiano sull'altipiano. In quanto poi all'articolo 17 del trattato di Uccialli, denunciato dal negus, esso aveva perso importanza, poiché ormai l'influenza italiana era assicurata 89
Ibidem lettera di Orero al Segretario generale del Ministero della guerra, 17 aprile 1890; tel. cifrato e riservato di Crispi all'amb. a Londra, Tornielli, 25 aprile 1890; tel. di Tornielli a Crispi, Londra 25 aprile 1890, ore 18.40. 90 a Atti Parlamentari - Camera dei Deputati. Legislatura XVII, 1 sessione (1890-91) Discussioni. Volume 1°, tornata 17 dicembre 1890, pp. 64-66.
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dalle forti posizioni acquistate sull'altipiano: e se Menelich aveva denunciato l'articolo 17, l'Italia a sua volta doveva denunciare l'intero trattato. Prese poi la parola l'onorevole Sola, amico di Orero, ricordando di aver preso parte alla marcia su Adua e di conoscere pertanto bene i fatti. Riconosceva Sola che la marcia non poteva definirsi gloriosa perché si era svolta senza incontrare alcuna opposizione; si era trattato di un fenomeno spontaneo di cui governo non aveva avuto nè merito nè colpa; Crispi aveva cercato di bloccare Orero, ma il suo ordine arrivò in ritardo in quanto non era ancora entrata in servizio la linea telegrafica fino ad Adua, non essendoci nei magazzini di Massaua una sufficiente quantità di filo. Era stato solo il generale Orero a decidere la marcia, definita dall'onorevole Sola "cosa più pericolosa ed onerosa che utile"; era stata comunque una splendida operazione militare "per il senno dei capi, per lo slancio e la resistenza delle truppe, per la buona volontà di tutti"; si erano così superate le difficoltà logistiche.91 In verità sembra azzardato parlare di "senno dei capi", se essi si erano avventurati in una impresa "più pericolosa ed onerosa che utile", come riconosceva lo stesso onorevole Sola; ma il problema non fu ulteriormente approfondito, poiché nuove e più gravi preoccupazioni stavano per abbattersi sul mondo politico italiano: era infatti prossimo ormai a scoppiare lo scandalo della Banca Romana, in cui molti si trovarono implicati. Le prime difficoltà delle banche si erano avvertite già nel 1889, essendo entrata in crisi l'attività edilizia, cresciuta a dismisura per far fronte alle necessità urbanistiche di una Roma passata da una popolazione di 220 mila abitanti a più di 400 mila. Le banche si erano esposte concedendo ingenti finanziamenti ai costruttori; il governo dispose allora un'inchiesta sulla situazione bancaria, affidata ad una commissione presieduta dal senatore Alvisi. I risultati dell'inchiesta non furono però resi noti, per volere di Crispi, presidente del Consiglio, e di Giolitti, ministro del Tesoro negli anni 1890-91, per timore di uno scandalo politico e di un accentuato dissesto del sistema bancario A rendere complicata la situazione contribuiva il fatto che esistevano ben sei banche (Banca Nazionale, Banca Romana, Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banco di Napoli, Banco di Sicilia) tutte abilitate ad emettere moneta, creando una confusione che aveva reso più facile alla Banca Romana, di cui era governatore Bernardo Tanlongo, ricorrere ad espedienti illegali per risolvere i propri problemi. Dalla relazione della Commissione Alvisi risultava infatti che la Banca Romana aveva superato i limiti imposti alla sua attività di emissione, mettendo abusivamente in circolazione 65 milioni di lire; per coprire quella irregolarità banconote per un valore di 40 91
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Atti Parlamentari - Camera dei Deputati. Legislatura XVII, 1 sessione (1890-91). Discussioni. Volume 2°, tornata 29 aprile 1891, p. 1588, pp. 1603-1605, pp. 1608-1609.
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milioni duplicavano i numeri di serie di altri biglietti già messi in circolazione; c'era inoltre un vuoto di cassa di 20 milioni. Questi dati sconvolgenti, tenuti volutamente nascosti, furono rivelati da Napoleone Colajanni alla Camera nella seduta del 20 dicembre 1892, destando indignazione e sgomento.92 Giolitti, divenuto presidente del Consiglio al posto di Crispi, cercò di correre ai ripari istituendo, dopo la Commissione Alvisi, una seconda commissione d'inchiesta, presieduta dal senatore Finali; ma ce n'era già abbastanza per procedere contro il governatore della Banca Romana, Tanlongo, che fu difatti arrestato il 19 gennaio 1893. Fu tanto maggiore lo scalpore suscitato dalla notizia per il fatto che Giolitti inopportunamente aveva fatto nominare senatore il Tanlongo. Era questo un personaggio singolare: ex fattore, uomo ignorante ma molto astuto ed abile nell'arte della corruzione, aveva fatto la sua fortuna fino a divenire il governatore di una banca importante elargendo in abbondanza "prestiti" senza interessi a politici, giornalisti, affaristi, di cui era anche diventato consigliere economico: perfino il re era ricorso alla sua ben nota esperienza finanziaria per farsi consigliare nei suoi affari privati. La crisi bancaria fece anche delle vittime: l'ex direttore del Banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo, fu ucciso in treno mentre tornava a Palermo, perché aveva denunciato le irregolarità commesse dal suo successore e aveva rese note le illecite ingerenze del deputato Raffaele Palizzolo (condannato poi nel 1901 a 30 anni perché mandante del delitto). L'onorevole Rocco De Zerbi morì d'infarto, perché accusato di aver ricevuto da Tanlongo 500 mila lire affinché non agisse contro gli interessi della Banca Romana nella sua attività di componente della commissione della Camera per il riordino del sistema bancario. L'intero mondo politico italiano era posto sotto accusa: si pensò di arginare la crescente indignazione con la nomina, il 21 marzo 1893, di una nuova commissione d'inchiesta (la terza dopo le commissioni Alvisi e Finali) che fu detta dei Sette, dal numero dei suoi componenti (uno dei quali fu lo storico deputato della Sinistra Estrema, Bovio), presieduta dall'onorevole Mordini. Senza attendere la conclusione dei lavori della Commissione dei Sette, con legge 10 agosto 1893 si volle mettere ordine nel caotico mondo bancario istituendo la Banca d'Italia, nata dalla fusione della Banca Nazionale, della Banca Nazionale Toscana e dalla Banca Toscana di Credito, con facoltà di emettere moneta, cui fu affidata la liquidazione della Banca Romana; rimasero autonomi il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia che fino al 1926 conservarono la prerogativa di emettere moneta.
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Atti Parlamentari - Camera dei Deputati. Legislatura XVII; 1 sessione (1892-94). Discussioni. Volume 1°, tornata 20 dicembre 1892, pp. 708-713..
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Nel frattempo i sette proseguivano i loro lavori e il 23 novembre 1893 presentarono alla Camera dei Deputati le conclusioni che furono un duro atto di accusa contro Giolitti, responsabile di avere a lungo tenuti segreti i risultati della inchiesta Alvisi, di aver nominato senatore Tanlongo pur conoscendo le sue malefatte, di aver preso denaro dalla Banca Romana. Nella sua relazione la Commissione dei Sette non si limitò ad affrontare il caso più grave della Banca Romana, ma tracciò un quadro generale del sistema bancario italiano, a partire dal 1880.93 Giolitti il giorno successivo, 24 novembre 1893, rassegnò le dimissioni dopo un tempestoso dibattito in cui si distinse l'onorevole Imbriani rivolgendo al presidente del Consiglio questo sanguinoso insulto "Razzolate nel fango "; si fece sentire in quell'occasione anche la voce di Baratieri che flebilmente invitava a smetterla con gli insulti.94 La carriera politica di Giolitti sembrò esser ormai stroncata definitivamente. Nel suo editoriale del 25 novembre 1893 il "Corriere della Sera" impietosamente scriveva: "Il ministero Giolitti è stato il più detestabile che abbia avuto il nostro paese ed è caduto in modo brutto e vile"; ricordava come la Commissione dei Sette lo avesse sbugiardato su più punti: non era vero che ignorasse gli illeciti di Tanlongo, non era vero che non avesse preso dalla Banca Romana denaro per personali fini politici, non era vero che non avesse sottratto importanti documenti di Tanlongo. E fu proprio questa sottrazione di documenti, attribuita non si sa bene con quanto fondamento a Giolitti, a causare l'assoluzione di Tanlongo e degli altri imputati nel luglio 1894. Fu indubbiamente quello il momento più difficile per Giolitti, che però a distanza di anni divenne il protagonista assoluto sulla scena politica italiana: nessuno in quegli anni l'avrebbe creduto. Crispi in un primo momento fu al fianco di Giolitti, difendendolo dalle accuse rivoltegli da Colajanni nella seduta parlamentare del 20 dicembre 1892. Ma in seguito mutò l'atteggiamento di Crispi, che attribuì a Giolitti l'intera colpa di quanto accaduto; per scaricarsi delle proprie responsabilità arrivò al punto di far pervenire alla Commissione dei Sette tramite il suo fido Antonelli documenti che potevano danneggiare ancor più il suo ex amico.
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Atti Parlamentari - Camera dei Deputati. Legislatura XVIII, 1 sessione (1892-94). Discussioni. Volume 5°, tornata 23 novembre 1893, pp. 6347-6383. a I documenti della Commissione dei Sette furono raccolti in un apposito volume "Atti Parlamentari - Legislatura XVIII, 1 sessione (1892-94). Camera dei Deputati n. 169. Atti della Commissione d'inchiesta parlamentare sulle banche, composta dai deputati Mordini presidente - Paternostro e Fani segretari - Bovio, Pellegrini, Sineo, Suardi Gianforte. Processo alla Banca Romana. Documenti estratti dal volume I al volume XXXVI." Roma, tipografia della Camera dei Deputati 1894. 94 a Atti Parlamentari - Camera dei Deputati. Legislatura XVIII, 1 sessione (1892-94). Discussioni. Volume 5°, tornata 24 novembre 1893, pp. 6387-6388.
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Da parte sua Giolitti ricambiò presentando il suo cosiddetto "plico" con documenti compromettenti per Crispi. Ma in quel momento fu Giolitti a soccombere: temendo l'arresto si rifugiò in Germania, mentre invece Crispi, malgrado tutte le ombre che gravavano su di lui, nel dicembre 1893 tornò ad essere a capo del governo, fino all'infausto marzo 1896, il mese di Adua. C'è da chiedersi quali fossero le effettive responsabilità dei due. Denis Mack Smith nella sua "Storia d'Italia dal 1861 al 1969" ha minimizzato le colpe di Giolitti: egli avrebbe avuto dalla Banca Romana 60 mila lire, poi rimborsate, per finanziare la stampa francese affinché fosse favorevole alle celebrazioni colombiane del 1892. Ma dall' inchiesta dei Sette risulta invece che per le elezioni del 1892 ebbero finanziamenti sia Giolitti che i ministri Bernardino Grimaldi e Pietro Lacava. Più pesante comunque la situazione di Crispi: sia lui che la moglie, l'intrigante donna Lina, avevano avuto denaro per uso personale. Anni dopo Crispi si trovò ancora implicato in equivoci rapporti con il Banco di Napoli, incorrendo perciò in una censura politica della Camera nel marzo 1898. Nel 1893 se la cavò invece senza alcun inconveniente, divenendo anzi, come si è detto, il successore d i Giolitti come presidente del Consiglio dei ministri. Il clima politico arroventato dalle polemiche rendeva difficile trovare una soluzione della crisi e gli aspri commenti della stampa rendevano quasi una missione impossibile dare un governo al paese. Si cercò una soluzione con l'incarico affidato dal re a Zanardelli, presidente della Camera: ma contro di lui si levò subito la voce de "L'Osservatore Romano” (29 novembre 1893, p.2 "Ministero Zanardelli") che intonava il “De Profundis” per l'intera classe politica italiana e prevedeva il fallimento di quel tentativo scrivendo: "Cairoli, Crispi, Di Rudinì, Giolitti hanno preceduto nella tomba politica, e per qualcuno può dirsi anche nella tomba morale. Laonde o il signor Zanardelli è stanco di vivere politicamente, ovvero l'ultima sua ora è già inesorabilmente suonata. Come dicemmo l'altro giorno, quando uno sale al potere in Italia, non monta sul trono, ma scende nel sepolcro". L'infausto presagio era ribadito dal giornale vaticano il giorno successivo (30 novembre 1893, p.1“Un buon effetto"); il tentativo di Zanardelli era destinato ad un sicuro fallimento; per fare un governo mancava tutto, mancavano gli uomini e le idee e, soprattutto, mancava la fiducia del popolo nella classe politica. Il giudizio negativo de "L'Osservatore Romano” era certamente condizionato dalla preconcetta ostilità verso lo Stato italiano; ma anche un giornale su posizioni ben diverse, "L'Opinione Liberale", erede della "Destra storica", alle prime avvisaglie della crisi, ancor prima che Zanardelli ricevesse l'incarico, riteneva grave il momento, auspicando la formazione di un governo di pacificazione che segnasse una svolta decisiva rispetto al passato: "Or è evidente che se il Ministero prossimo futuro non sarà composto da uomini veramente insospettabili, alti nella pubblica
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estimazione, rimasti ben fuori dal turbine che ha devastato l'Italia morale, o usciti illesi da esso, le ritorsioni, le rappresaglie continuerebbero subito, riprendendo quel periodo tristissimo di malignazioni sospetti, accuse e calunnie, dal quale dovremmo essere già fuori e che, se non è ancora chiuso, chiuso vuol essere”. "L'Opinione" giungeva comunque ad una conclusione ottimistica: "Per fortuna, di quegli uomini l'Italia è ancor provveduta, e tra la Camera ed il Senato (anche l'accordo dei due rami del Parlamento deve esser reintegrato), ce n'è da comporre non uno, ma più Ministeri" (21 novembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato "Per la soluzione della crisi. I designati"). Il giornale, una volta che Zanardelli si era messo all'opera, gli riservava però un'accoglienza ostile: Zanardelli era stato un fiancheggiatore del governo Giolitti e quindi ne condivideva la responsabilità: "La catastrofe del Giolitti -che una Sinistra avrebbe ricostituito, che di questa neoSinistra fece la sua complice devota e nell'onorevole Zanardelli trovò il compiacente protettore, quella catastrofe logicamente escluderebbe la sinistra e l'onorevole Zanardelli". La Sinistra aveva dilapidato il patrimonio politico accumulato dai Sella, dai Lanza, dai Visconti-Venosta e non aveva quindi il diritto di formare il governo (29 novembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato "Chiare note"). Anche un altro giornale moderato, "La Perseveranza", alcuni giorni dopo, quando era già chiaro che il tentativo di Zanardelli stava per fallire, rinfacciava al presidente designato l'appoggio dato a Giolitti, accusandolo di non essersi reso conto di non essere l'uomo adatto a risolvere la crisi: "Strano caso! Di tutti gli uomini dell'antica Sinistra uno solo ha sorretto, patrocinato, difeso il ministero Giolitti, condotto così a precipizio e con tanta vergogna, e questi è stato appunto lo Zanardelli" (6 dicembre 1893, p. 1). Ma c'era anche chi difendeva Zanardelli: "La Tribuna" ne tesseva le lodi, affermando che si sarebbe mostrato degno della fiducia accordatagli "… da tutti coloro che pregiano in lui l'altezza della mente e la nobiltà del carattere". Gli faceva onore avere accettato l'incarico malgrado la difficoltà del momento e ciò doveva "persuadere tutti gli uomini politici di buona fede, tutti coloro che anche essendo all'opposizione sanno comprendere i doveri del patriottismo, della opportunità e convenienza di attendere il nuovo Ministero all'opera e di giudicarlo alla stregua dei fatti" (28 novembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato "L'incarico"). Zanardelli si rese subito conto della necessità di allargare la base parlamentare del governo in corso di formazione e chiese il sostegno di autorevoli esponenti del centro come l'onorevole Sidney Sonnino e il senatore Saracco.
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Questa linea politica era disapprovata da "La Lombardia", a cui giudizio la Sinistra era forte e compatta, in grado di formare da sola un governo omogeneo, in cui non potevano invece entrare personalità contrastanti e fra loro incompatibili, quali erano Sidney Sonnino, esponente dell'ala più conservatrice del Centro, e Fortis, appartenente al gruppo legalitario, contrario a collaborare con Zanardelli (29 novembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato" L'onorevole Zanardelli"). Ma sia Sonnino che Saracco, dopo un alternarsi di accettazioni e di rifiuti, finirono col respingere l'offerta della direzione degli affari economici e finanziari. "La Tribuna" individuava la maggior difficoltà alla soluzione della crisi proprio nelle preoccupanti condizioni dell'economia italiana e faceva proprio il giudizio del giornale londinese "Standard", riportando un ampio stralcio del suo articolo (1 dicembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato "Il nuovo ministero e la questione finanziaria. La soluzione della crisi italiana e un articolo dello Standard, Londra 30 novembre 1893"). Il giornale britannico approvava il conferimento dell'incarico a Zanardelli, uomo abile stimato da tutti, costretto però a cercare l'appoggio di una Camera definita "roba usata". Secondo lo "Standard" per superare le difficoltà occorrevano uomini e mezzi eroici e rivolgeva a Crispi l'accusa di ostacolare Zanardelli per ambizioni personali; inoltre era troppo compromesso per i debiti da lui contratti con le banche: l'avvento al potere di Crispi era quindi considerato una catastrofe. "La Tribuna" condivideva l'analisi dell'economia italiana fatta dallo Standard, messa in difficoltà da un deficit di 250 milioni di lire, dalla perdita di 14 punti subita in pochi mesi dalla rendita pubblica, da un cambio valutario sfavorevole: ma dissentiva dal giudizio tanto negativo su Crispi. L'uomo politico siciliano in realtà si era mostrato inizialmente favorevole a Zanardelli; su "Il Popolo Romano" aveva sostenuto la stessa formula politica delle larghe intese per la formazione del nuovo gabinetto. Era auspicato un governo "non di coalizione, ma di pacificazione che si proponga di richiamare lo spirito pubblico alla calma ed alla fiducia… Non è la coalizione, non è il trasformismo che consigliamo. È una tregua di Dio, che senza essere l'una cosa o l'altra consenta al futuro gabinetto di provvedere alle più stringenti necessità del momento" (25 novembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato "La crisi"). Il giornale tornava poi a riprendere l'argomento ricordando i precedenti storici di "un gabinetto eclettico, composto da persone di riconosciuta competenza tecnica ed amministrativa". Nel 1866 Bettino Ricasoli, uomo della Destra storica, aveva presieduto un governo di cui facevano parte Depretis, in rappresentanza della Sinistra, e personalità del Centro come Cordova, Berti, De Vincenzi: "E non fu davvero il peggiore dei governi!", concludeva "Il Popolo Romano" (26 novembre 1893, p. 1 "Né Sinistra né Destra").
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E come non ricordare, aggiungiamo noi, l'illustre precedente del “connubio Cavour-Rattazzi”?. Ed ancora "Il Popolo Romano” incoraggiava Zanardelli a formare un governo con uomini di varia provenienza ricordandogli che pur essendo esponente della Sinistra, era "non sospetto ai liberali e benviso ai conservatori" (28 novembre 1893, p.1 "L'incarico"). Zanardelli trovò invece difficoltà a costituire un governo con l'appoggio di varie forze politiche; si è già ricordato come nessuno volesse accettare il ministero-chiave delle Finanze (uno dopo l'altro lo rifiutarono Boselli, Sonnino, Guicciardini e Zanardelli fu costretto ad affidarne l'interim al ministro del Tesoro Vacchelli); Saracco non accettò il ministero degli Esteri o quello delle Finanze. A questo punto si aprirono le prime crepe nell'accordo tra Crispi e Zanardelli; in tono critico "Il Popolo Romano” osservava che la formazione ministeriale proposta aveva suscitato malumore "per il carattere eccessivamente personale datole da Zanardelli", “circondandosi di amici suoi -tutte brave ed eccellenti persone del resto- tratti quasi tutti da una sola frazione della Sinistra". Secondo il giornale crispino i ministri proposti non rappresentavano un valore aggiunto per il nuovo governo: "Il ministero è l'onorevole Zanardelli e sarà forte ed autorevole nella stessa misura che egli lo è.." ("Il Popolo Romano”, 5 dicembre 1893 p. 1 articolo di fondo “Il nuovo ministero"). Di quelle "brave e oneste persone", amici personali di Zanardelli, scelte da lui per entrare nel governo, faceva parte Baratieri, tra la sorpresa generale designato ministro degli Affari Esteri. Non era stata una decisione opportuna: malgrado la sua affermata abilità, Zanardelli sempre più perdeva colpi, suggerendo a Sonnino questa considerazione fatta in un colloquio con Saracco: "Zanardelli cerca di fare un ministero qualunque con la segreta speranza che il Re gli faccia delle difficoltà. Pare che stamane o iersera il Re abbia già fatto qualche osservazione riguardo a Baratieri agli Esteri". Sonnino aggiungeva che il Re si era consigliato con Boselli sulla opportunità di opporsi decisamente a quella nomina per tanti aspetti imbarazzante, Boselli gli aveva consigliato di non esporsi troppo e di lasciar correre.95 La designazione di Baratieri riuscì a mettere d'accordo "L‟Osservatore Romano” e "Il Popolo Romano” per criticarla: il giornale del Vaticano esprimeva i suoi dubbi sulle capacità dei ministri proposti da Zanardelli e si soffermava particolarmente su Baratieri, scrivendo: "A mo‟ d‟esempio vediamo Baratieri agli affari esteri. Quando e come si dimostrò egli abile diplomatico e uomo di Stato?" (6 dicembre 1893, p. 1 "Il nuovo Ministero "). Il giornale di Crispi non era da meno e criticava Zanardelli perché aveva proposto un governo formato "in una cerchia ristretta"; non si faceva il nome di Baratieri, ma era di dominio pubblico che egli apparteneva appunto alla "cerchia ristretta" degli amici personali del presidente incaricato. 95
S. Sonnino "Diario" - volume I con introduzione di Giorgio Spini - Laterza, Bari 1972; p. 171, nota del 4 dicembre ore 18.
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"Il Popolo Romano” concludeva con un monito minaccioso: se Zanardelli non avesse ampliato quella "cerchia ristretta", "nuovi disinganni lo attendevano" ("Il Popolo Romano”, 7 dicembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato "La crisi continua"). Sul nome di Baratieri piovevano numerose altre critiche. Gli veniva rinfacciata la mancanza di qualsiasi precedente esperienza diplomatica: con maggiore consapevolezza delle proprie capacità, il generale Luchino dal Verme rifiutò in seguito l'analoga offerta di assumere il Ministero degli Esteri fattagli da Crispi, che dopo Zanardelli aveva ricevuto dal Re l'incarico per la formazione del governo, conclusosi positivamente. Il generale difatti scrisse il 16 dicembre 1893 a Crispi ringraziandolo per l'offerta, ma rifiutandola perché sapeva" in coscienza… di non essere in grado di fare ciò che si chiedeva" a lui.96 Spavaldo, almeno in apparenza, Baratieri invece non rifiutò l'offerta di Zanardelli, venuta dopo il susseguirsi di una miriade di voci sulla candidatura di politici come Saracco e il duca Caetani di Sermoneta, di diplomatici di carriera come Nigra, ambasciatore a Vienna, Maffei ministro a Madrid, De Renzis ministro a Bruxelles. Si era pure fatto il nome di Dal Verme e si era parlato di una conferma di Benedetto Brin ministro uscente degli Esteri nel governo Giolitti. Personalità, quasi tutte, che potevano vantare quella precedente esperienza del tutto mancante invece a Baratieri. "La Lombardia" (27 novembre 1893, p. 1 "La crisi ministeriale") aveva pure ipotizzato che Zanardelli assumesse direttamente la responsabilità della politica estera. "La Tribuna", favorevole a Zanardelli, si arrampicava sugli specchi per giustificare la designazione di Baratieri ricordando i suoi positivi precedenti come governatore dell'Eritrea e come direttore della "Rivista militare italiana"; ma non poteva esimersi dal dimostrare le sue perplessità scrivendo: "Tutto nella sua vita è stato sincero, luminoso, simpatico. Buon augurio. È solo a dubitare che la pura schiettezza del militare sappia piegarsi agli accorgimenti della diplomazia" (6 dicembre 1893, p. 1 "I nuovi ministri"). In fondo all'animo suo lo stesso Baratieri sembrava nutrire dubbi sulla opportunità di accettare quell'impegnativo incarico: il "Corriere della Sera" riprendeva da "Il Diritto" la notizia che il generale avrebbe preferito restare in Eritrea. Esprimeva critiche anche "L'Opinione liberale": "Ma l'onorevole Baratieri agli Esteri? La cosa sembra così nuova, ed è pure così delicata che preferisco non parlare. Non si può spiegare che con la grande devozione dell'onorevole Baratieri verso l'onorevole Zanardelli. Ed intanto la colonia Eritrea perde quel più indovinato e meglio riuscito fra i governatori che l'onorevole Di Rudinì ebbe la felice idea di darle" (6 dicembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato "La combinazione Zanardelli"). 96
ACS Roma. Carte Crispi - Deputazione Storia Patria Palermo, busta 148, fascicolo 1340, documento n. 1 - Lettera di Luchino dal Verme a Crispi, 16 dicembre 1893.
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Per non privare l'Eritrea di un governatore tanto saggio, "La Lombardia" proponeva questo improbabile compromesso: lasciare a Baratieri l'incarico di governatore oltre a conferirgli la nomina di ministro degli Esteri; avrebbe continuato ad amministrare da Roma la colonia (6 dicembre 1893, p. 1 " Le prime reazioni"). Sulle esperienze africane di Baratieri, ricordate come una garanzia della sua attitudine ad occuparsi di politica internazionale da "La Tribuna", ironizzava la "Deutsche Zeitung” secondo la quale appunto gli unici precedenti diplomatici del generale erano le trattative con i ras abissini (riportato da"Il Popolo Romano” del 6 dicembre 1893, p. 1 "Il nuovo ministero all'estero"). E la stessa “Deutsche Zeitung” non rinunciava al ad un altro motto di spirito: ricordando che il nome di Baratieri era Oreste, si augurava che egli volesse trovare il suo Pilade a Vienna e non a Parigi (riportato da "La Tribuna", 9 dicembre 1893 "La crisi italiana all'estero. Commenti di Vienna"). La battuta del giornale portava allo scoperto un altro motivo di fondamentale importanza che comprometteva la candidatura di Baratieri: egli era un irredento, vederlo alla guida della politica estera italiana non poteva certamente essere visto con favore dal governo asburgico, sempre diffidente della lealtà di Roma agli obblighi della Triplice Alleanza: un irredentista, seppur moderato, poteva compromettere ancor più i legami italiani con Vienna, promuovendo un accostamento alla Francia. Tale eventualità era però esclusa dall'onorevole Fortis: a suo giudizio l'eventuale nomina di Baratieri non avrebbe compromesso i rapporti fra Roma e Vienna ("Corriere della Sera, 5-6 dicembre 1893, p. 1 "Le voci contraddittorie nella soluzione della crisi. Accolta di nomi a casaccio"). Ma pur a Parigi, secondo lo stesso "Corriere della Sera", non sarebbe stata accolta con favore la presenza di Baratieri alla guida del Ministero degli Esteri: la rigidità propria di un militare poteva portare il generale ad affrontare con maggior risolutezza il contenzioso italo-francese (7-8 dicembre 1893, p. 1 "Siamo daccapo! Il colloquio del Re con Zanardelli. La combinazione ministeriale andata a fascio"). Ma la maggiore preoccupazione francese era costituita da un eventuale nuovo governo del gallofobo Crispi: esprimevano questo timore “ Le jour” e “Le temps” (riportati da "La Tribuna", 9 dicembre 1893, p. 1 “La crisi italiana all'estero. Commenti francesi"). Baratieri sembrava essersi compenetrato del nuovo ruolo di ministro degli Esteri che gli si prospettava, al punto di designare l'onorevole Adamoli come suo futuro sottosegretario. L'iniziativa riuscì sgradita a Zanardelli: Adamoli era un suo conterraneo e quella nomina avrebbe rafforzato la voce già messa in giro di un governo fatto tutto di amici personali ("Corriere della
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Sera" 6-7 dicembre 1893, p. 1 "Nuovo ritardo all'annuncio ufficiale del Ministero dell'onorevole Zanardelli"). In fondo all'animo suo Baratieri comunque continuava a nutrire dubbi sull'opportunità di divenire ministro degli Esteri. Aveva forse ceduto ad un impulso momentaneo indicando in Adamoli il suo futuro sottosegretario e aveva fatto questa significativa affermazione: "Preferisco essere un buon governatore in Africa che un cattivo ministro a Roma" ("Il Raccoglitore", 9 dicembre 1893, p. 1 "Nostra corrispondenza" Napoli, 7, ore 20). Ed il giornale di Rovereto aggiungeva che, oltretutto, per Baratieri "uomo onesto e intelligente e d'un passato che molti invidierebbero, la successione a Benedetto Brin -a questi lumi di luna- sarebbe stato un'eredità troppo triste, troppo magra". Non era forse una semplice civetteria quanto Baratieri scriveva ad una sua cugina, rivolgendosi ad essa come "Cara Carmela": "Sebbene per fortuna mia sia fuggito a tempo dal pericolo di diventare ministro, pure ti ringrazio, per la gentile letterina e per le parole affettuose".97 All'inizio della crisi, in realtà anche Zanardelli si era mostrato perplesso sulla eventuale candidatura di Baratieri a ministro degli Esteri; in un colloquio col presidente del Senato, Farini, il 28 novembre 1893 si era rammaricato della impossibilità di designare l'ex governatore dell'Eritrea, Gandolfi, in quanto non faceva più parte della Camera, ritenendo inopportuno scegliere un "troppo giovane generale": e tale era appunto Baratieri. Da parte sua Farini aveva fatto presente che non sarebbe convenuto privare l'Eritrea di una "autorità efficace".98 Ed il 4 dicembre Farini ribadiva ancora i suoi dubbi su di una candidatura di Baratieri in un colloquio col deputato Costantino Peruzzi, motivandoli stavolta con le origini trentine del generale: "Baratieri, trentino, ministro degli Esteri, è per me come per lui un colmo" e ricordava che un altro parlamentare, Francesco Brioschi, si era detto "scandalizzato per la scelta di Baratieri a ministro degli Esteri".99 Il Re invece in un primo momento si era mostrato favorevole: aveva confidato a Farini che della terna di candidati propostagli da Zanardelli (Dal Verme, Marselli, Baratieri) la sua preferenza andava a quest'ultimo. Riferiva ancora Umberto che l'ambasciatore a Vienna, Nigra, aveva comunicato che l'imperatore Francesco Giuseppe nutriva simpatie per Baratieri, apprezzandone le vittorie riportate in Africa; inoltre Baratieri aveva ottimi rapporti con l'arciduca Alberto.100
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Archivio del Museo storico di Trento. Carte Baratieri I, fascicolo 4 B. Cartolina con l'intestazione "Camera dei Deputati". Baratieri a "Cara Carmela" - Roma, 20 dicembre 1893. 98 Domenico Farini "Diario di fine secolo" a cura di Emilia Morelli, Bandi editore in Roma 1961, vol. I, 1891 - 1896, p.342. 99 Ibidem, pp. 347-348 100 Ibidem, pp. 349-351.
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Ma presto cominciò a chiarirsi che c'erano serie difficoltà per la nomina a ministro degli Esteri e, seppure per smentire la notizia, i giornali cominciarono a parlare dell'ostilità del re a quella eventualità e di un veto opposto dall'Austria. Il "Corriere della Sera" negava che il re fosse contrario ed affermava trattarsi di una voce messa in giro dai seguaci di Zanardelli per giustificare il fallimento del tentativo del loro leader. Il re ormai aveva espresso preferenza per Baratieri rispetto ad altre possibili candidature, come quella del generale Dal Verme. Ed il cortese scambio di biglietti da visita tra Baratieri e l'ambasciatore austriaco de Bruck dimostrava l'inesistenza di un veto austriaco ad un irredento ministro degli Esteri (8-9 dicembre 1893, p. 1 “La risposta sospensiva del Re all'onorevole Zanardelli. Polemiche tendenziose di organi zanardelliani sull'attitudine della Corona"). Anche "Il Fanfulla" smentiva la voce di un veto austriaco, affermando trattarsi di una manovra concepita "allo scopo di dare vigore ad un Ministero, che non riesce a stare in piedi"; non era difatti in grado di risolvere le difficoltà del paese il Ministero in corso di formazione ad opera di Zanardelli (8 dicembre 1893, p. 1 "Nostre informazioni: una manovra indegna"). Con altrettanta risolutezza “ Il Popolo Romano” si univa al coro delle smentite: non esisteva alcun veto austriaco ed era falsa la notizia di una renitenza alla leva in Austria da parte di Baratieri, che, in quanto figlio unico, godeva della esenzione dal servizio militare, pure falsa la voce di un divieto ad entrare in territorio austriaco: ogni anno difatti Baratieri si recava nel Trentino (8 dicembre 1893, p. 3 " Ultime notizie. La crisi"). Per "L'Opinione liberale" era una "infame calunnia "attribuire le difficoltà di Zanardelli alla candidatura di Baratieri, ritenuta comunque inopportuna, in quanto essa "… denotava mancanza di ogni tatto e di ogni accorgimento, dovendo esser chiaro a tutti che poteva riuscire sgradita al re" (9 dicembre 1893, p. 1 articolo di fondo non firmato "Tra l'una e l'altra crisi"). Si cominciava così ad ammettere che potevano esserci difficoltà da parte della Corona. Ed in realtà dal favore iniziale Umberto era passato a manifestare preoccupazioni serie, nate in lui per le notizie giunte da Vienna. Un telegramma dell'ambasciatore Nigra informava della irritazione manifestata dal conte Kalnoky, ministro degli Esteri austriaco, per la candidatura Baratieri; l'opposizione austriaca era pure confermata dall'ambasciatore austriaco a Roma al ministro degli Esteri del dimissionario governo Giolitti, Benedetto Brin. Non ci è giunto il telegramma di Nigra; ma possiamo ricostruirlo in base alla risposta datagli il 5 dicembre 1893 dal re: "Je Vous remercie de Votre dépêche telégraphique. La nouvelle de la nomination du général Baratieri à ministre des affaires étrangères est un de ces bruits que l'on fait comme en cas de crise ministerielle. Mais il n‟y a rien de positif. En tout cas, j‟aurai présent
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l‟observation que Vous n‟avez communiqué et que je m‟avais fait moi même, aussitôt que on avait parlè de ce nom”.101 Messo in difficoltà Umberto tentava di sminuire l'importanza del fatto, declassandolo ad una semplice voce (bruit), da non prendere troppo sul serio. Dal canto suo Nigra in una lettera a Kalnoky affermava trattarsi di un tentativo francese per minare la Triplice Alleanza che si univa ad un'altra provocazione del deputato francese Jules Gaillard, finanziatore del preparativo di una spedizione italiana nel Trentino.102 In un appunto di Crispi troviamo traccia delle reazioni del re alla candidatura di Baratieri. Umberto si era mostrato turbato incontrando Crispi, rivelandogli che Nigra l'aveva dapprima rassicurato, poiché prevedeva che Vienna non avrebbe data troppa importanza alla nomina di Baratieri al Ministero degli Esteri e che in ogni caso non avrebbe spinto la sua reazione fino a compromettere i rapporti con Roma. Le previsioni di Nigra erano state smentite presto da una brusca reazione del governo austriaco. Il re lamentava l'intransigenza di Zanardelli che non voleva proporre un altro candidato agli esteri; da parte sua Umberto avrebbe accettato la presenza di Baratieri nel governo in corso di formazione, ma in un ministero che non fosse quello degli Esteri. Un'ulteriore preoccupazione del re era dovuta al fatto che era trapelata la notizia del telegramma con cui Nigra sconsigliava la nomina di Baratieri e quindi si era diffusa l'opinione di una sudditanza italiana ai voleri dell'Austria.103 L'attivo ruolo svolto da Vienna nella crisi governativa italiana del 1893 trova conferma nei documenti diplomatici austriaci. L'ambasciatore a Roma de Bruck col telegramma cifrato n. 63 del 4 dicembre 1893 segnalò al conte Kalnoky la candidatura di Baratieri. Il ministro rispose il giorno successivo col telegramma segreto e cifrato n. 53, definendo quella candidatura in contrasto con l'amichevole incontro da lui avuto di recente a Monza con Umberto I. Seguirono con ritmo incalzante ulteriori contatti tra l'ambasciatore de Bruck e il ministro Kalnoky. Con telegramma cifrato n. 65 de Bruck il 6 dicembre informava Vienna di aver comunicato al ministro degli Esteri dimissionario Brin l'opposizione austriaca alla nomina di Baratieri; aveva pure preso contatto con il presidente incaricato Zanardelli tramite Ferdinando Martini, ministro della Pubblica Istruzione nel governo uscente di Giolitti; non si era rivolto direttamente a Umberto I 101
Documenti diplomatici italiani (D.D.I.) Seconda serie 1870-1896, volume XXV - documento 629, p. 466. "Il re d'Italia Umberto I all'ambasciatore a Vienna, Nigra", telegramma senza numero. Roma, 5 dicembre 1893, ore 22. "Vi ringrazio per il Vostro telegramma. La notizia della nomina del generale Baratieri a Ministero degli Affari Esteri è una di quelle voci che si diffondono in caso di una crisi ministeriale. Ma non c'è nulla di sicuro. In ogni caso terrò presente l'osservazione che mi avete comunicato e che io avevo fatto a me stesso non appena si è fatto quel nome". 102 Ibidem, lettera di Nigra al conte Kalnoky, 5 dicembre 1893. 103 D.D.I. Seconda serie - volume XXV, documento 632, pp. 467-469. Colloquio tra il re d'Italia, Umberto I e l'on. Crispi. Appunto di Crispi da Carte Crispi - dal Museo Centrale del Risorgimento, Roma.
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perché l'aveva incontrato di recente e non voleva quindi risultare troppo assiduo nel cercare un contatto. Da parte sua Kalnoky informava l'ambasciatore che Nigra l'aveva messo al corrente che il re d'Italia aveva definito una semplice voce senza fondamento la candidatura di Baratieri (telegramma cifrato confidenziale n. 54 del 6 dicembre 1893). A conclusione di questo carteggio de Bruck inviava il rapporto n. 109 del 10 dicembre 1893 per informare che era trapelata la notizia dell'intervento austriaco, divenuta oggetto di smentite e di polemiche sulla stampa italiana.104 Zanardelli aveva reagito male alla comunicazione del veto austriaco fattagli dal re, gridando che si trattava di una ingerenza inammissibile e che non intendeva affatto rinunciare alla candidatura di Baratieri: se il re non fosse stato d'accordo, poteva togliergli l'incarico. A questo punto ad Umberto, messo alle strette, non restò che convocare Baratieri la mattina del 6 dicembre e dirgli, parlando "da soldato a soldato", delle difficoltà insorte per la sua candidatura, e Baratieri con prontezza dichiarò di rinunciarvi: non l'avrebbe più accettata "neanche con i cannoni". Nonostante la rinuncia di Baratieri, Zanardelli non demordeva: rinunciare di propria volontà all'incarico, neanche a parlarne: toccava semmai al re revocarglielo. Farini affermava toccare a Zanardelli fare un passo indietro: aveva commesso un grave errore politico candidando Baratieri e doveva quindi porvi lui riparo; sconsigliava al re di revocare il mandato a Zanardelli per non farne un martire politico. Brin criticava il re "per la sua loquacità e inettitudine", dimostrate nel contrasto con Zanardelli cui non avrebbe dovuto dire nulla sul veto austriaco; il Ministro della Real Casa, Rattazzi, riteneva che il Re dovesse consentire a Zanardelli di presentare alle Camere il suo governo, destinato ad essere subito bocciato dal Parlamento. Giolitti concordava in tale opinione: bisognava lasciare al Parlamento il compito di dare il benservito a Zanardelli. Il conte Luigi Ferrari, ex sottosegretario agli Esteri, faceva previsioni catastrofiche: della difficile situazione politica avrebbero approfittato gli estremisti come Cavallotti, con il rischio addirittura della caduta della monarchia e dell'avvento della Repubblica. Eventualità che l'Europa non avrebbe accettato, l'Austria sarebbe subito intervenuta invadendo l'Italia. Ferrari riferiva poi a Farini di essere stato pregato da Brin di convincerlo ad accettare lui l'incarico per formare un governo di larghe intese, che andasse da Crispi a Rudinì.105
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I documenti diplomatici austriaci qui citati sono tratti dall'opera di Augusto Sandonà "L'irredentismo nelle lotte politiche e nelle contese diplomatiche italo-austriache", volume 3°, Bologna. Zanichelli 1938, pp. 256-257. 105
Farini, op. cit. pp. 349-351, 353,354-355, 357-359,360.
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Alla rinuncia di Baratieri seguirono altre defezioni di candidati ministri, che però i seguaci di Zanardelli negavano decisamente esservi state. Secondo "La Lombardia" Baratieri si era ritirato per le difficoltà incontrate dalla sua candidatura fattegli presenti dal re; Vacchelli candidato al Tesoro aveva rinunciato per il timore della impopolarità che gli avrebbe procurato l'aumento delle tasse imposto dalla difficile situazione finanziaria, San Marzano e Racchia, candidati rispettivamente ai ministeri della Guerra e della Marina, per la ventilata diminuzione dei loro bilanci (8 dicembre 1893, p. 1 “ I commenti alla nuova crisi"). Della rinuncia dei candidati Vacchelli, San Marzano e Racchia, oltre che di Baratieri, dava pure notizia il “Corriere della Sera” 8-9 dicembre 1893, "La rinuncia di alcuni nuovi ministri. Zanardelli rassegna il mandato"). Ormai la barca affondava: l'isolamento politico di Zanardelli era completato dall'attacco rivoltogli dal giornale di fede crispina "Il Popolo Romano”, che l'accusava di sottoporre il re ad una "coazione irriguardosa dei suoi poteri sovrani. Il mandato, che l'onorevole Zanardelli n‟ebbe , è un mandato fiduciario, che l'investito ha il dovere di restituire, quando non può o non crede di poterlo eseguire secondo gli intendimenti del mandante" (8 dicembre 1893, p. 1 "Diritto e convenienza"). E Zanardelli a questo punto capitolò, rinunciando all'incarico. L'intervento de "Il Popolo Romano”, giovava chiaramente a preparare il terreno per un incarico a Crispi: ed Umberto non tardò ad affidarglielo, manifestando il 9 dicembre il suo malumore verso Zanardelli che tanto a lungo aveva rifiutato di farsi da parte: Zanardelli, affermava il re, proponendo la candidatura di Baratieri, aveva dimostrato di non avere un criterio politico; al che Crispi replicò sentenziando: "non ne ebbe mai".106 Sulla controversa vicenda del fallimento del tentativo di Zanardelli intervenne, a crisi conclusa, anche un giornale che si pubblicava in territorio austriaco, a Rovereto, "Il Raccoglitore", che non si sbilanciava a precisare quanti fra i candidati avessero ritirato la loro disponibilità; scriveva soltanto che a Zanardelli era venuto a mancare un collaboratore importante come Baratieri; in quanto al supposto veto austriaco scriveva con linguaggio criptico che nella rinuncia del generale "si volle vedere un atto di deferenza verso una Potenza alleata" (16 dicembre 1893, p. 1 "La crisi ministeriale"). Ancora a distanza di molti anni, nel 1915, un anonimo celato dietro lo pseudonimo "un bresciano" ribadiva che non c'erano state rinunce di altri candidati ministri, oltre a quella di Baratieri. Confermava il veto dell'Austria, attribuendo al conte Kalnoky questa affermazione fatta in un incontro con l'ambasciatore d'Italia Nigra: "La nomination de Monsieur Baratieri, par son origine n‟est pas conforme aux liens d‟alliance et d‟amitié entre les deux États”. 107 106 107
Farini, op. cit. p. 364. "L'intervento e le pressioni dell'Austria nella crisi ministeriale del 1893 "di un bresciano".
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Il “bresciano” elogiava poi Zanardelli per aver difeso la dignità nazionale rifiutando di sostituire un'altra candidatura a quella di Baratieri, che era risultata sgradita a Berlino oltre che a Vienna. L'ambasciatore francese a Roma, Billot, il 20 dicembre 1893 segnalava a Casimir Perier, ministro degli Esteri, la repentina sostituzione dell'ambasciatore germanico Roma, il conte de SolmsSonnerwald, con il principe von Bülow. Ufficialmente la sostituzione era dovuta a ragioni familiari e di salute, ma Billot smentiva quella versione scrivendo: "Personne ne croit à une retraite volontarie, chacun est disposè a y voir l‟effet d‟une de ces brusques décisions dont l‟empereur Guillaume est coutumier et qui, dans le cas actuel, se rattacherait aux incidents de la crisi ministerielle en Italie. D‟après les racontars de la presse, on aurait été aussi mécontents à Berlin comme à Vienne de la designation momentanéenne du général Baratieri pour les affaires ètrangères et l‟on ferait à l‟ambassadeur un grief de n‟avoir pas su le prévenir”.108 Da ricordare che non era una novità che il governo austriaco interferisse
nelle nomine di
diplomatici italiani. Nel 1883 aveva ostacolato la nomina del conte Tornielli ad ambasciatore a San Pietroburgo; Ludolf , ambasciatore d'Austria a Roma sospettava che Tornielli potesse promuovere una alleanza italiana con Russia e Francia, in contrapposizione agli Imperi Centrali, anche se l'Italia si era legata a questi nel 1882 con la Triplice Alleanza (rapporto n. 21B di Ludolf a Kalnoky). Lo stesso avvenne nel 1885, quando Tornelli sembrava destinato all'ambasciata di Costantinopoli ovvero ancora una volta a quella in Russia (stavolta l'ambasciatore tedesco a Roma von Kandell si associò all'ambasciatore austriaco per impedire la nomina di Tornielli). Ed infine, Tornielli tornò ancora ad essere vittima delle manovre austriache nel 1887, quando era candidato a succedere a di Robilant al Ministero degli Affari Esteri; l'ambasciatore d'Austria de Bruck si attivò per impedirlo (telegramma cifrato n. 56 di de Bruck a Kalnoky, 14 aprile 1887; Francesco Giuseppe postillò di suo pugno il telegramma sostenendo l'opportunità di intervenire).109 Crispi riuscì rapidamente a formare il suo governo, ottenendo la collaborazione di quegli stessi che l'avevano negata a Zanardelli: il 20 dicembre 1893 chiese la fiducia della Camera presentandosi con Sonnino ministro del Tesoro con l'interim di quello delle Finanze, Saracco ai Lavori Pubblici, Boselli all'agricoltura; nei due ministeri chiave degli Esteri e della Guerra erano titolari rispettivamente il senatore Blanc e il generale Mocenni. Nuova Antologia, 16 ottobre 1915 ("...la nomina del signor Baratieri a causa della sua origine non è conforme ai legami di alleanza e di amicizia tra i due Stati"). 108 ére Documents diplomatiques français - 1 série (1870-1900) - tome X, document 477, pp. 696-698. "Nessuno crede a dimissioni volontarie; ognuno è propenso a vedervi l'effetto di quelle brusche decisioni abituali per l'imperatore Guglielmo e che nel caso attuale si riferirebbe alle vicende della crisi ministeriale in Italia. Secondo le indiscrezioni della stampa a Berlino come a Vienna ci sarebbe malcontento per la momentanea designazione del generale Baratieri agli Affari Esteri e si muoverebbe all'ambasciatore il rimprovero di non aver saputo prevenirlo". 109 Sandonà, op. cit. pp. 117-118.
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In quella occasione il deputato repubblicano Salvatore Barzilai presentò al neo-eletto presidente del Consiglio un'interpellanza chiedendo se fosse vero che "la compiacente deferenza verso una potenza straniera avesse condizionato la soluzione della crisi". A sua volta Felice Cavallotti interrogò Crispi "circa gli effetti della Triplice Alleanza in rapporto all'indipendenza e all'onore nazionale, a proposito dell'incidente Baratieri, e circa i diritti statutari del Parlamento di fronte alla Corona”. Negli atti parlamentari non si trova traccia dello svolgimento di questa interpellanza, evidentemente perdutasi nei meandri di Montecitorio. Appare spiegabile l'indubbia arrendevolezza del governo italiano nei confronti di quello austriaco perché era quanto mai difficile la situazione dell'Italia nel contesto internazionale. Ad Aigues Mortes, in Francia, il 16 e 17 agosto 1893 c'erano stati incidenti sanguinosi, con molti operai italiani uccisi perché accusati di fare una concorrenza sleale ai lavoratori francesi accontentandosi di paghe più modeste. Il governo italiano cercò la solidarietà delle Potenze europee a sostegno delle sue proteste a Parigi; ma solo il conte Kalnoky intervenne presso il governo francese perché desse all'Italia una adeguata soddisfazione: lo comunicava il sottosegretario tedesco agli Esteri, Rothenamm, all'incaricato d'affari a Berlino, Della Salle. La stampa tedesca polemizzava con quella francese perché tentava di scaricare la responsabilità dei fatti di Aigues Mortes sugli operai italiani che li avrebbero causati con il loro atteggiamento provocatorio; ma il governo tedesco – affermava Rothenamm - non riteneva opportuno fare un passo ufficiale a Parigi, in quanto i rapporti tra Germania e Francia erano difficili e un intervento tedesco sarebbe stato controproducente. Per Della Salle gli attacchi dei giornali tedeschi più che una prova di solidarietà con l'Italia, erano un tentativo, ispirato dal governo stesso, per alimentare la tensione tra Italia e Francia.110 Tale tensione era preesistente ai fatti di Aigues Mortes; da parte italiana persistevano i sospetti di un appoggio francese alle rivendicazioni vaticane del potere temporale: era corsa nel 1892 pure la voce che la squadra navale francese aveva evitato di fare scalo a Civitavecchia per non irritare il Papa. Il governo italiano inoltre guardava con sospetto al concentramento di truppe francesi alla frontiera, per cui erano stati spostati sul versante occidentale alpino reparti militari italiani. E Brin nel giugno 1893 informava l'ambasciatore italiano a Berlino, Lanza, di aver appreso da un disertore francese che erano in corso di costruzione nuove fortificazioni a Briançon dove erano di stanza 30.000 soldati francesi, posti in stato di allerta con la sospensione della licenza degli ufficiali.111
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Archivio Storico Diplomatico Esteri (ASDE) Ambasciata di Berlino - serie 1867-1943, busta 79. Rapporto 1085/415 Della Salle al ministro Esteri Brin, 23 agosto 1893; rapporto 1074/422 Della Salle a Brin. 111 Ibidem, rapporto 1105 dell'incaricato d'affari a Berlino, Incisa di Beccaria, a Brin, 25 settembre 1892;
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Era pure sempre in atto una guerra commerciale e doganale italo-francese. Al riserbo tedesco si univa poi l'atteggiamento distaccato dell'Inghilterra. Gladstone nel febbraio 1893 aveva risposto all'interpellanza del deputato Labouchere, di origine francese, relativa ad un possibile sostegno inglese all'Italia in caso di un attacco francese, rassicurandolo perché non esisteva quella eventualità; linguaggio definito "senza dubbio laconico ed evasivo dall'incaricato d'affari italiano a Londra, conte Hierschell.112 L'episodio era precedente agli incidenti di Aigues Mortes, quando questi si verificarono, l'ambasciatore d'Italia a Londra, Tornielli, prese subito contatto col Foreign Office. Il sottosegretario Currie disse di non potere, in assenza del ministro, prendere l'iniziativa di un passo ufficiale a Parigi in sostegno all'Italia, tanto più che si doveva evitare di inasprire ancor più i rapporti anglo-francesi già difficili per le rivalità in campo coloniale. Currie si dilungava poi in divagazioni sociologiche, che erano quasi una giustificazione dell'eccidio di Aignes Mortes, affermando che quel triste episodio era "una di quelle esplosioni selvagge per la lotta per la vita che l'eccesso della concorrenza industriale e commerciale ha reso troppo frequenti fra i lavoratori anche se appartenenti ad una stessa nazionalità". Il caso di Aigues Mortes era stato particolarmente grave perché le parti in contrasto erano di nazionalità diversa. Currie comunque ammetteva essere inaccettabile il manifesto del sindaco di Aigues Mortes che addossava agli operai italiani la responsabilità degli incidenti; il sottosegretario inglese si diceva infine soddisfatto perché quella stessa mattina del 22 agosto l'ambasciatore d'Italia a Parigi aveva dichiarato che per il governo italiano l'incidente poteva considerarsi chiuso. Anche l'autorevole "Times", riferiva Tornielli, minimizzava i fatti, asserendo che non avevano un'importanza politica ed accusando la stampa tedesca di soffiare sul fuoco per alimentare il dissidio italo-francese. 113 In un successivo rapporto del settembre 1893 l'ambasciatore riferiva dell'incontro con il titolare del Foreign Office, Roseberg, anche esso compiaciuto per la rapida soluzione della controversia tra Roma e Parigi; il ministro assicurava "che una politica, tendente a smorzare le effervescenze che dagli incidenti stessi possono nascere, troverà sempre l'approvazione del Gabinetto di Londra".114 La Russia, infine, era saldamente legata alla Francia da un'alleanza concepita soprattutto in funzione anti-germanica, ma di riflesso rivolta anche contro l'Italia, aderente alla Triplice Alleanza.
dispaccio riservato 14498/216 del Ministro Esteri all'ambasciatore a Berlino, Lanza, 19 aprile 1892; dispaccio 20300 di Brin a Lanza, 3 giugno 1892. 112 ASDE - serie politica (P) 1891-1916 Gran Bretagna pacco 487; rapporto 79/124 Hierschell a Brin, 4 febbraio 1893. 113 ASDE - serie politica (P) 1891-1916 Ambasciata di Londra, corrispondenza in partemza, rapporto riservato 725/449, Tornielli a Brin - 22 agosto 1893. 114 Ibidem, rapporto riservato 838/501, Tornielli a Brin - 22 settembre 1893.
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E pertanto, essendo stato il governo austriaco l'unico ad intervenire a favore dell'Italia e non potendo contare su altri appoggi, il governo di Roma fu costretto a sottostare alle imposizioni di Vienna contrarie alla candidatura di Baratieri. Zanardelli, dopo il suo cocente insuccesso, il 20 dicembre 1893 in simultanea con la presentazione del governo Crispi rassegnò le sue dimissioni da presidente della Camera, ritenendo di non poter più contare sulla fiducia del Parlamento. Molti, fra cui lo stesso Crispi, respinsero quelle dimissioni e Zanardelli rimase ancora per breve tempo Presidente della Camera. Ma alla ripresa dei lavori parlamentari, dopo le ferie invernali, Zanardelli confermò le dimissioni con una lettera da Maderno, in data 17 febbraio 1894, che il vice presidente Villa comunicò alla Camera. Si ebbero quindi le elezioni per il nuovo presidente, svoltesi nei giorni 20 e 22 febbraio 1894. Nel ballottaggio del 22 febbraio risultò eletto presidente Biancheri con 191 voti prevalendo per un soffio su Zanardelli che ne ebbe 187: risultato molto lusinghiero per Zanardelli che, nonostante fosse dimissionario, aveva ottenuto circa la metà dei voti. Baratieri non prese parte alle vicende parlamentari successive alla rinuncia dell'incarico di formare il governo da parte di Zanardelli ed alle sue dimissioni dalla presidenza della Camera: in Africa la situazione si era aggravata per la sempre più minacciosa avanzata dei seguaci del Madhi e si rendeva pertanto necessaria la presenza del governatore; il 23 dicembre 1893 Arimondi ad Agordat aveva riportato una brillante vittoria contro i madhisti: ma questo fu un ulteriore motivo perché Baratieri affrettasse il suo ritorno nella colonia Eritrea. Fra i due infatti si era creata una accesa rivalità e Baratieri non voleva quindi lasciare ad Arimondi l'intera gloria. In passato Baratieri non aveva esitato a mettere in ombra Arimondi, attribuendosi anche funzioni che sarebbero spettate al suo rivale: lo aveva riconosciuto egli stesso in una lettera a Pelloux del 27 aprile 1892, scrivendo: "Veramente io faccio da sovrano assoluto… Il tenente colonnello Arimondi è, a dir vero, corretto, deferente, ossequiente in tutto e per tutto; ma io stesso comprendo che devo sovente invadere i suoi domini e pigliarmi le sue attribuzioni. Qui non si può andar tanto pel sottile: e guai a chi perde di vista lo scopo per il mezzo e per la forma". Ma, concludeva Baratieri, le difficoltà erano "superate grazie allo zelo e allo spirito conciliante di tutti".115 Alla lunga però Arimondi si stancò di mostrare "zelo" e "spirito conciliativo", specialmente dopo Agordat e persistendo l'ostilità di Baratieri nei suoi confronti, testimoniata tra l'altro da questo episodio riferito da Farini nel suo diario. In data 29 gennaio 1894 Farini annotava questa confidenza fattagli dal re nel corso di una battuta di caccia a Castel Porziano: Baratieri come tutta ricompensa 115
Collana del Museo Trentino del Risorgimento. Carteggio di Oreste Baratieri 1887-1901 con note biografiche a cura di Bice Rizzi. Trento 1936, pp. 47-50, lettera di Bararieri a Pelloux, Massaua 27 aprile 1892.
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ad Arimondi per la vittoria di Agordat aveva proposto di nominarlo cavaliere dell'ordine militare di Savoia; "Però noi -disse Umberto- lo faremo generale per merito di guerra e gli daremo una decorazione più alta".116 Il solco sempre più profondo fra i due generali e la reciproca avversione crearono gravi problemi compromettendo lo svolgimento dell'esito delle operazioni militari. Tornato in Africa Baratieri trovò una situazione difficile anche sul piano interno; Arimondi aveva respinto l'attacco dei Dervisci, ma fra le popolazioni locali covava un sordo malcontento per l'esproprio dei territori agricoli già coltivati dagli indigeni e ora destinati alla colonizzazione affidata alla direzione di Franchetti. In una lettera inviata il 23 agosto 1892 da Asmara ad un "Carissimo amico" Baratieri dimostrava di apprezzare l'opera di Franchetti, affermando di aver visitato gli orti sperimentali da lui istituiti e di aver constatato che andavano "benissimo". Nonostante l'apprezzamento nella stessa lettera affermava la necessità che il governo rivedesse il decreto sugli espropri e sulla colonizzazione, attribuendo "larghi poteri al Governatore". Comunicava inoltre Barattieri: “ Ho una decina di ufficiali in giro per determinare il territorio demaniale, perché soltanto in tal modo si possono fare concessioni senza offendere le tribù nella eterna giustizia e nelle tradizioni".117 Era un saggio proposito, ma le cose andarono in modo diverso: Baratieri ebbe un serio contrasto con Franchetti, culminato nell'agosto 1894, esautorandolo dalle sue funzioni colonizzatrici; e non furono rispettati i diritti delle tribù nell'attività di esproprio dei terreni, offendendole "nella eterna giustizia nelle tradizioni", contrariamente al proposito enunciato nella lettera del 23 agosto 1892 qui ricordata. Il 27 agosto 1894 Baratieri inviò al Ministro degli Esteri, Blanc, una relazione sull'attività colonizzatrice da svolgere in Eritrea, sostenendo che spettava al governatore la competenza per l'esproprio dei terreni da incamerare nel demanio e poi assegnare ai concessionari. Franchetti avrebbe potuto soltanto completare gli esperimenti di colonizzazione in corso; non sarebbe stato opportuno sostituirlo in tale compito, perché occorreva assicurare la continuità dei criteri e dei metodi fino ad allora adottati. I poteri ancora assegnati a Franchetti andavano comunque esercitati entro una data ben precisata e tenendo conto delle disponibilità finanziarie, come indicato all'articolo 2 della bozza di decreto allegata alla relazione. Il decreto proposto da Baratieri al Ministro stabiliva la costituzione di un ufficio per la colonizzazione alle dirette dipendenze del
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Farini, op. cit. pp. 403-404. ACS Roma. Carte Crispi - Deputazione Storia Patria Palermo. Busta 143, fascicolo 1066, doc. 2 - Baratieri a "carissimo amico". Asmara, 23 agosto 1892. 117
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governatore, che aveva il potere di decidere in merito alle concessioni ed alle vendite dei terreni agricoli o di altra natura, controllando il rispetto degli obblighi contrattuali assunti dai concessionari e dagli acquirenti. Un apposito ufficio avrebbe fornito informazioni ed assistenza agli immigrati; premi ed incentivi ai coltivatori di caffè, cotone, tabacco, indaco potevano essere assegnati dal governatore. Fino ad allora c'erano state soltanto concessioni di piccoli appezzamenti destinati a coltivatori diretti; col suo progetto Baratieri rendeva invece possibile la grande speculazione agraria: fino a 100 ettari la concessione veniva fatta dal governatore e poi ratificata dal ministro degli Esteri; le concessioni superiori a 100 ettari dovevano avere la preventiva approvazione del governo prima che il governatore firmasse il contratto, che andava infine sancito da un regio decreto. Era infine compito del governatore inviare al ministro degli Esteri una relazione annuale sulla colonizzazione, da allegare a quella generale sulle condizioni della colonia. Il progetto di regolamento proposto da Baratieri stabiliva chiaramente la fine della missione affidata a Franchetti con il regio decreto del 19 giugno 1890 e poi confermata dal regio decreto 19 gennaio 1893. Baratieri rimproverava a Franchetti di essersi arrogato il giudizio sulla opportunità politica delle concessioni di terreni, com'era avvenuto negando, contro il parere favorevole del governatore, la concessione di un terreno edificabile alla missione evangelica svedese, destinato alla costruzione di una chiesa all‟ Asmara.118 Alla base del contrasto fra Baratieri e Franchetti non c'erano semplicemente personali ambizioni di potere: i due antagonisti avevano una visione del tutto diversa sulle finalità della colonizzazione. Baratieri difatti prevedeva concessioni molto importanti (anche superiori ai 10 mila ettari) da assegnare ovviamente a chi disponeva di ingenti capitali e voleva fare grandi speculazioni; per contro Franchetti escludeva categoricamente tale eventualità: i terreni dovevano essere assegnati solo a piccoli coltivatori diretti per aprire agli emigranti italiani una prospettiva di lavoro in Eritrea, senza doverla cercare in Europa o nella lontana America. Franchetti scriveva a Crispi l'11 dicembre 1892 che i primi raccolti erano soddisfacenti e che gli immigrati italiani potevano trovare in Eritrea un lavoro non meno remunerativo di quello svolto in Italia, bisognava soltanto assicurare "ai nostri emigranti proletari l'indipendenza economica e la proprietà fondiaria nella colonia". Si mostrava ottimista Franchetti ancora nella successiva lettera inviata Crispi il 16 dicembre 1892, dicendosi soddisfatto del successo della colonizzazione "il cui concetto è stato più forte della 118
ACS Roma. Carte Crispi - Fondo Roma - Scatola 19, fascicolo 405, sotto fascicolo 4. Relazione di Baratieri a Blanc. Keren, 27 agosto 1894, con allegato progetto di decreto.
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malevolenza e della indifferenza altrui", larvata allusione che sembrava destinata all'ostile Baratieri; gli emigranti italiani-proseguiva Franchetti-sarebbero stati debitori a Crispi della loro indipendenza economica e dell'agiatezza".119 In una più lontana prospettiva però Franchetti non escludeva la possibilità di creare grandi aziende agricole affidate a ricchi capitalisti; restava comunque prioritario lo sviluppo di una classe di piccoli coltivatori diretti per evitare la riconquista abissina dell'altipiano; a tal fine bisognava pure limitare l'aumento della popolazione indigena; tale aumento poteva costituire un pericolo politico: una popolazione indigena numerosa sarebbe divenuta cosciente della propria forza e avrebbe rifiutato un dominio straniero. Attualmente docile e fedele, sarebbe divenuta ribelle e sarebbe pure state compromesse la fedeltà e la disciplina delle truppe indigene; il continuo pericolo di una ribellione avrebbe reso necessario aumentare i presidi militari italiani.120 Sulle possibilità della colonizzazione italiana in Eritrea nutriva grandi aspettative il senatore vicentino Alessandro Rossi, industriale laniero che si fece pure promotore dell'emigrazione in Eritrea di coltivatori veneti. Pur in un momento difficile come quello successivo all‟Amba Alagi, in occasione dello stanziamento di 20 milioni deciso il 20 dicembre 1895 dalla Camera per una spedizione vendicatrice, il senatore scriveva a Crispi per congratularsi della fiducia ottenuta, affermando: "ed io ho una fede romana nella colonizzazione in Eritrea e fissai un nucleo di 16 famiglie scielte (sic) sotto ogni aspetto, che formeranno la semenza della colonia. Faremo 10 volte più presto dei francesi in Algeria". A questo punto dovremo parlare di illusioni, più che di aspettative. Lo slancio patriottico con cui si concludeva la lettera doveva aver fatto velo ad un limpido giudizio del senatore Rossi, che concludeva la lettera con quest'assicurazione: "Là! Nei cuori dei vecchi non sono meno vivi i palpiti della patria!".121 Ma i "palpiti della Patria", per quanto generosi, non potevano assicurare il successo di una colonizzazione italiana rimasta in Eritrea sempre allo stato sperimentale e limitata a poche decine di famiglie: se Rossi parlava di 16 famiglie, Franchetti nella relazione a Crispi del 24 aprile 1894 aveva comunicato l'arrivo il 10 novembre 1893 di 10 famiglie (sette lombarde di Magenta, due della
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ACS Roma. Carte Crispi - Deputazione Storia Patria Palermo, busta 151, fascicolo 1485. Doc. n. 4 Franchetti a Crispi, Roma 11 dicembre 1892; doc. n. 5 Franchetti a Crispi, Asmara 16 dicembre 1893. 120 ACS Roma. Carte Crispi Fondo Roma, scatola 19, fascicolo 405, sotto fascicolo 3 - Relazione di Franchetti a Crispi sull'attività degli anni 1893-1894, con lettera di accompagnamento del 24 aprile 1894. 121 ACS Roma. Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 159, fascicolo 1956, doc. n. 9, lettera di A. Rossi a Crispi, 20 dicembre 1895.
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provincia di Catania, una friulana) per un totale di 29 uomini, 15 donne, 17 ragazzi di ambo i sessi.122 Franchetti si mostrava contrario alla colonizzazione da parte degli indigeni: bisognava evitare "usurpazione di terra" da parte loro.123 L'ostilità di Franchetti nasceva dal fatto che gli indigeni applicavano metodi di coltivazione poco produttivi: era un'agricoltura da rapina, alla ricerca di sempre nuovi terreni coltivabili, ottenuti bruciando boschi secolari, per cui veniva a mancare il legname e si correva il rischio di un dissesto idro-geologico. In Eritrea affluivano contadini anche da territori esterni alla colonia, per cui si aveva una crescita disordinata della popolazione indigena ed entro breve tempo i coloni italiani non avrebbero più avuto terreni a loro disposizione. Pur volendo proibire occupazioni abusive di terreni da parte degli indigeni, a tutela degli interessi italiani, occorreva comunque -asseriva Franchetti- lasciare agli indigeni terra sufficiente ai loro bisogni, poiché era utile la sopravvivenza di un'agricoltura indigena.124 Ma tale preoccupazione non bastò ad evitare un generale malcontento, destinato a sfociare presto in uno aperta ribellione. Franchetti non si rassegnò facilmente alla perdita del suo incarico e tentò di contrastare l'azione di Baratieri: il 27 agosto 1894, il giorno stesso in cui Baratieri inviava al ministro degli Esteri Blanc la relazione con allegata la bozza di decreto che stabiliva la fine del mandato di Franchetti, questi fece avere al ministro un promemoria per segnalare il comportamento scorretto del generale, che, senza tener conto del regio decreto del 19 giugno 1890 che non conferiva al governatore una competenza in materia di colonizzazione, aveva concesso un terreno; inoltre Baratieri aveva vietato al capitano Vittorio Fornaca, capo dell'ufficio demaniale, di aver rapporti con Franchetti, il quale aveva fatto finta di nulla, desiderando trovare un accordo. Franchetti inviava il promemoria al ministro da Roma, dove si trovava in quel momento, e si diceva disposto a tornare in Eritrea, se Baratieri si fosse mostrato disponibile ad un accordo. Prima della sua partenza per l'Italia, il governatore gli aveva però telegrafato da Keren il 12 agosto di non volere rivedere i provvedimenti già presi e di non volere discutere questioni inerenti il demanio e la colonizzazione e pertanto Franchetti il 15 agosto si era imbarcato per l'Italia.125
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ACS Roma. Carte Crispi. Fondo Roma, scatola 19, fascicolo 405, sotto fascicolo 3; relazione di Franchetti a Crispi sull'attività 1891-93 con lettera di accompagnamento del 24 aprile 1894, già citata alla nota 120. 123 ACS Roma. Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 151, fascicolo 1485, doc. n. 5 Franchetti a Crispi. Asmara 16 dicembre 1893. 124 Cfr. note 120 e 122. 125 ACS Roma. Carte Crispi. Fondo Roma, scatola 19, fascicolo 405, sotto fascicolo 4. Promemoria di Franchetti a Blanc, Roma 27 agosto 1894.
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Con successiva nota inviata a Blanc ancora da Roma il 6 settembre 1894, Franchetti denunciava come illegale un altro provvedimento di Baratieri col quale accordava al comandante del presidio di Cassala la facoltà di assegnare terreni agricoli per la durata di un anno. Questa nota era allegata da Franchetti ad una lettera a Crispi del 7 settembre inviata per lamentare le illegalità compiute da Baratieri e per sollecitare una rapida soluzione del problema, poiché era prevista per ottobre la partenza di nuovi coloni e quelli già residenti in Eritrea non potevano essere lasciati privi di assistenza.126 La rapida decisione sollecitata da Franchetti arrivò presto, ma era di segno del tutto opposto a quello desiderato. Blanc infatti l'11 settembre riferì a Baratieri le lamentele di Franchetti, dichiarando che a suo giudizio il regio decreto del 1890 e quello del 1893 non impedivano al governatore di concedere terreni; riconosceva che Franchetti aveva svolto il suo compito con "lodevole zelo e costante attività"; ma non era una ragione sufficiente per riconoscergli il monopolio delle concessioni, contrario alla lettera ed allo spirito dei decreti sulla colonizzazione, che ne sarebbe stata danneggiata. Inoltre non si poteva menomare la superiore autorità del governatore "il quale riunisce in sé e rappresenta il più alto grado dei poteri civili e militari". Secondo Blanc, Franchetti poteva esaminare i documenti del demanio, fare osservazioni e proposte, ma spettava al governatore decidere. Approvava quindi il rifiuto di Baratieri a rivedere le sue posizioni; l'unica concessione fatta a Franchetti era la raccomandazione di Blanc perché il governatore agisse con discrezione, senza ferire l'amor proprio del suo antagonista. Il ministro chiedeva la presentazione di un piano di colonizzazione da parte di Baratieri e si diceva d'accordo per favorire i coloni italiani rispetto ai coltivatori indigeni nella concessione dei terreni, senza però penalizzare troppo i locali per non spingerli alla ribellione. Blanc era pure favorevole alla concessione di terreni a stranieri non ostili all'Italia, come i missionari evangelici svedesi: aveva sbagliato quindi Franchetti col negare loro un terreno edilizio per costruire una chiesa all'Asmara. Ben diverso atteggiamento doveva tenersi verso i lazzaristi francesi, ritenuti ostili perchè volevano sostenere l'influenza francese: Blanc lasciava a Baratieri ogni decisione nei loro confronti ed il generale decise la loro espulsione.127
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Ibidem, nota di Franchetti a Blanc, Roma 6 settembre 1894; lettera di Franchetti a Crispi, Roma 7 settembre 1894 (con allegata la nota del 6 settembre a Blanc). 127 Ibidem, lettera di Blanc a Baratieri, Castellamare 11 settembre 1894. Ma alcuni anni dopo, nel maggio 1900, Ferdinando Martini, divenuto governatore della Colonia alla fine del 1897, riceveva amichevolmente il lazzarista padre Coulbeax e concedeva ai religiosi francesi il diritto di passaggio in Eritrea, negato da Baratieri. Nel 1905 Martini, alla richiesta di abrogare formalmente il divieto di Baratieri, rispose di non aver mai capito "come un governo possa aver paura di quattro monaci, anche quando essi siano nemici, ciò che in questo caso non è". Prima di decidere Martini comunque voleva consultare il vicario apostolico (F. Martini "Il diario eritreo" - Vallecchi, Firenze 1940, volume 2°, p. 188, nota del 20 maggio 1900; volume 3°, p. 591, nota del 16 giugno 1905).
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Blanc si era sollecitamente messo in contatto con Baratieri; tardò invece fino al 29 novembre 1894 a rispondere a Franchetti: fu un ben servito in piena regola, pur se infiorato da ringraziamenti formali per l'opera svolta. Secondo il ministro gli spiacevoli incidenti con Baratieri dimostravano il fallimento del regio decreto del 1893; pertanto era da considerarsi conclusa la prima fase della colonizzazione gestita da Franchetti, nel cui patriottismo il ministro confidava perchè si interessasse ancora dei problemi agricoli in Eritrea. A Franchetti non rimase che inviare a Crispi copia di quella lettera, cui allegava un suo progetto di colonizzazione, anche se in tono sconsolato si diceva consapevole chi non sarebbe stato preso in considerazione, visto l'orientamento politico manifestato dalla lettera di Blanc.128 Inutilmente Ferdinando Martini era intervenuto a sostegno di Franchetti, rivolgendosi il 20 settembre a Crispi per affermare che a ragione Franchetti pensava di dimettersi per tutelare la sua dignità, calpestata da Baratieri. Quelle dimissioni sarebbero state utilizzate dalla stampa ostile all'impresa africana per dichiararne il fallimento. Inoltre non era facile trovare chi sostituisse Franchetti; in ogni caso si sarebbe sostituito un "novizio" ad una persona esperta come Franchetti, che non chiedeva altro che il rispetto delle leggi emanate dallo stesso Crispi. Le dimissioni di Franchetti avrebbero compromesso la situazione in Eritrea e avrebbero rappresentato "una vittoria dell'elemento militare in un campo che non è il suo e in cui esso non intende nulla, nè è capace di far nulla". Martini si rivolse ancora a Crispi il 6 ottobre 1894 scrivendogli: "C'è un decreto vostro il quale stabilisce le attribuzioni del Franchetti, Baratieri pensatamente ne viola le disposizioni in questione, più che fra il generale e il commissario (il dissenso) mi pare fra il Governatore e il Governo. E la cosa a me par grave anche per questo. Il Governatore dell'Eritrea ha già una semindipendenza. Se il Governo centrale permette che questa indipendenza si spinga sino alla inosservanza meditata delle leggi che esso Governo centrale ha promulgato, a Roma non si avrà più, con l'andar del tempo, nessuna azione per l'andamento della colonia".129 Ma queste considerazioni di Martini non indussero Crispi a schierarsi con Franchetti, Crispi aveva bisogno del sostegno dell'esercito, grazie al quale erano stati repressi i moti dei Fasci siciliani e della Lunigiana. Inoltre l'esercito era l'unico strumento disponibile per il governo della Colonia; nel breve tempo intercorso dallo sbarco a Massaua nel 1885 (Assab era stato fino ad allora un episodio pressoché dimenticato) non si era potuta formare una classe di funzionari coloniali civili; anche
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Ibidem, lettera di Blanc a Franchetti, Roma 29 novembre 1894; lettera di Franchetti a Crispi 6 dicembre 1894. ACS Roma. Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 155, fascicolo 1694, doc. n. 5, lettera di Martini a Crispi, Monsummano 20 settembre 1894; doc. n. 6, lettera di Martini a Crispi, Monsummano 6 ottobre 1894. 129
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quando fu istituito un governo cosiddetto civile, esso restò affidato ai militari; solo con la nomina di Martini a fine 1897 si ebbe un governo che non fosse civile solo di nome.130 Ma l'attenzione di Baratieri nel 1894 doveva essere dedicata ai problemi imposti dalla situazione militare e politica, oltre che alla contesa con Franchetti, di importanza sicuramente minore. I Dervisci costituivano ancora una minaccia, nonostante la vittoria di Arimondi ad Agordat, che aveva suscitato la gelosia di Baratieri. Il generale organizzò una campagna per dare il colpo di grazia a quegli scomodi vicini; fu un'azione vittoriosa, le truppe italiane si spinsero fino a Cassala, la principale base dei Dervisci, e l'occuparono nel luglio 1894. Quell'occupazione destò grande entusiasmo in Italia, anche se costituiva un problema la lontananza di centinaia di kilometri della città dall'Asmara, per cui doveva essere rifornita con grandi difficoltà; non mancarono quindi voci discordi nel coro di lodi e riconoscimenti per Baratieri. Luigi Luzzati scriveva ad Urbano Rattazzi il 27 luglio 1894: "Dunque, siamo a Cassala, il che ci darà gloria senza nuove spese e senza nuovi pericoli". Il tono era in apparenza entusiastico, ma l'ironica conclusione svelava quale fosse il vero pensiero di Luzzatti: "Decisamente viviamo in un'era di miracoli". Scopertamente pessimista si dimostrava poi Antonio Di Rudinì nella lettera del 29 luglio 1894 diretta allo stesso Luzzatti: "Sulle cose d'Africa per ora non vi saranno guai ma nell'ultimo del 1894 o in quello del 1895 o anche in quello del 1896 io credo inevitabile una grossa guerra, di cui è difficile prevedere l'esito, ma che deve necessariamente costarci un buon centinaio di milioni. La gloria dell'acquisto di Kassala sarà tutta di Crispi e Baratieri…. la sconfitta che potrà essere inflitta a noi come lo fu agli Inglesi, si attribuirà per intero ai ministri futuri…" . Di Rudinì esprimeva pure il timore di una alleanza tra Abissini e Dervisci, anche se i primi erano cristiani e i secondi musulmani: data la "grande volubilità africana" non erano però possibili previsioni.131 Le difficoltà per mantenere il possesso di Cassala portarono poi alla convenzione anglo-italiana del 18 novembre 1897 per la cessione della città alla Gran Bretagna. Baratieri più di ogni altro si gloriava ovviamente di quella conquista; scriveva difatti ad Adriano Lemmi, gran maestro della Massoneria (Grande Oriente d'Italia) il 7 settembre 1894: "Io sono lieto perché la vittoria italiana e la conquista del mercato degli schiavi di Cassala è una vittoria e una conquista della civiltà e spero segni il risveglio al Risorgimento dei popoli del Sudan".132
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Sul ruolo fondamentale dell'esercito nel colonialismo italiano cfr. "In marcia verso Adua" di Nicola Labanca, Einaudi, Torino 1993, capitolo II "Esercito e politica". 131 Luigi Luzzatti "Memorie" volume 2° (1876-1890) Bologna, Zanichelli 1935: p. 413, lettera di Luzzatti a Rattazzi, Padova 27 luglio 1894; pp. 414-415 lettera di Antonio Di Rudinì a Luzzati, 29 luglio 1894. 132 Archivio Museo Centrale del Risorgimento Roma, busta 399, fascicolo 26 - Baratieri ad Adriano Lemmi, Asmara 7 settembre 1894. Baratieri si firma "amico e collaboratore" di Lemmi. Si può pensare ad una appartenenza di Baratieri
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La conquista di Cassala ebbe uno sgradevole strascico con le manifestazioni di una astiosa gelosia di Baratieri nei confronti di Arimondi, dimostrata già nella lettera a Crispi da Cassala in data 21 luglio 1894, in cui svalutava la vittoria di Agordat ritenendola non decisiva.132bis Ancor più chiaramente quella gelosia era manifestata nel carteggio fra Baratieri e Crispi nel settembre 1894; con telegramma del 24 settembre Baratieri si diceva malcontento per il ritardo nell'assegnazione delle onorificenze da lui proposte per la presa di Cassala e preannunciava le dimissioni. Stupito Crispi diceva, lo stesso giorno 24, di non capire le ragioni di quella grave decisione; chiedeva di tenere in sospeso le dimissioni promettendo di voler presto chiarire la situazione. Baratieri replicò la sera del 25: ringraziava Crispi per il benevolo interessamento, continuava a protestare perché le proposte di onorificenze per Agordat fatte da Arimondi erano state subito soddisfatte, mentre le sue non erano ancora state accolte; il ritardo svalutava l'importanza della conquista di Cassala e ledeva la sua autorità. Dimostrando una pazienza per lui insolita Crispi la mattina del 26 chiedeva al Ministro della Guerra, Mocenni, cosa si fosse fatto per soddisfare le richieste di Baratieri. Con fulminea prontezza Mocenni la mattina dello stesso 26 settembre rispondeva che le proposte di Baratieri erano all'esame della Commissione per le ricompense al valore; sperava di poter presto pubblicare i decreti e confermava che Baratieri sarebbe stato nominato commendatore dell'Ordine militare di Savoia. Sempre preoccupato di dare soddisfazione a Baratieri, Crispi raccomandava ancora il 26 settembre a Mocenni di accontentare Baratieri: lo rassicurò Mocenni il 27 comunicando che quasi tutte le richieste di Baratieri erano state accettate e quindi generale poteva dirsi soddisfatto. Crispi ne dava immediata notizia a Baratieri lo stesso 27 settembre; ma il generale il giorno successivo lamentava ancora il diverso comportamento seguito per Agordat: era lesivo della sua dignità il ritardo nel rispondergli. Seguì una trasmissione telegrafica notturna (ore 1.15 del 29 settembre) con cui Crispi faceva presenta a Baratieri che quasi tutte le sue proposte erano state accolte e che gli sarebbe stato conferito il titolo di commendatore dell'Ordine militare di Savoia. A sua volta Mocenni comunicava a Crispi, sempre il giorno 29 settembre, che un ulteriore riconoscimento per Baratieri sarebbe stato intitolare a suo nome il forte da costruire a Cassala. 133 alla Massoneria: non esistono però prove sicure. Non si trovano documenti che lo confermino nell'archivio del Grande Oriente d'Italia, ma potrebbero esser stati distrutti essendo stato l'archivio devastato sotto il fascismo. A. A. Mola nella sua "Storia della Massoneria italiana dall'Unità alla Repubblica" attribuisce a Baratieri il grado supremo di 33, senza però citare alcun documento che lo confermi. 132bis ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 143, fascicolo 1066, Baratieri a Crispi, Cassala 21 luglio 1894 (documento n. 4 ). 133 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo privo di numero. Telegramma personale di Baratieri a Crispi, Massaua 24 settembre 1894; tel. di Crispi a Baratieri 24 settembre1894; tel. cifrato di
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Ma non era finita: dopo una pausa di riflessione, Baratieri l'8 ottobre 1894 si rivolgeva ancora Crispi chiamandolo "illustre ed amato duce"; nonostante tale titolo adulatorio, il generale insisteva nella polemica, lamentando che Arimondi per la vittoria di Agordat era stato promosso generale, mentre a lui era toccato solo il titolo di commendatore. Sperava di poter rendere ancora servizi alla patria; erano in corso trattative per un accordo col Tigrè e l‟Harrar, bisognava sventare i tentativi dei Dervisci per una rivincita, andava curata la colonizzazione agricola e completato l'assetto civile e militare della colonia. Era però pronto a dimettersi ad un semplice cenno di Crispi, di cui chiedeva la protezione se Mocenni avesse smesso di manifestarsi favorevole a lui.134 Non ci è dato sapere cosa Crispi pensasse di questa noiosa insistenza di Baratieri: certo l'offerta di dimissioni per motivi tutto sommato futili toglieva credibilità alla successiva minaccia di dimettersi presentata più volte l'anno successivo, il 1895, quando era in atto una serrata discussione fra Baratieri e il governo di Roma per l'invio dei rinforzi necessari per far fronte alla prevista offensiva di Menelich e Mangascià. Nel corso del 1894 Baratieri si trovò costretto a fronteggiare, oltre a quelle provenienti dai Dervisci, anche minacce interne, appoggiate dal ras tigrino Mangascià. Baratieri e Franchetti in una cosa almeno si erano trovati d'accordo: andavano tutelati gli interessi dei coloni italiani, anche a scapito di quelli degli indigeni, passati presto dal semplice mugugno ad una rivolta aperta. Destò grande sorpresa il fatto che a guidare la rivolta, scoppiata nel dicembre 1894, fosse Batha Agos signore dell‟Oculè Cusai a seguito di una designazione italiana, ritenuto l'uomo più fedele all'Italia. Fedeltà attestata anche da Ferdinando Martini, che lo riteneva il capo indigeno più rispettabile e più rispettato dell'intera Eritrea. Martini riteneva il gesto di Batha Agos dettato dalla disperazione: essendosi conciliati Menelich e Mangascià era prevedibile un accordo generale dei ras contro l'Italia e quindi Batha Agos rischiava di restare isolato se si fosse mantenuto fedele agli italiani. Martini contestava poi l'affermazione di Baratieri fatta al tenente Sanguinetti, il residente italiano nell‟Oculè Cusai: Batha Agos era un traditore nato, si poteva leggerglielo in faccia. Se era tanto lampante la sua natura di traditore, si chiedeva Martini, come mai era stato considerato tanto a
Baratieri a Crispi 25 settembre 1894; tel. di Crispi a Mocenni 26 settembre 1894; tel. di Mocenni a Crispi 26 settembre 1894; tel. cifrato di Crispi a Mocenni 26 settembre 1894; tel. di Mocenni a Crispi 27 settembre 1894; tel. di Crispi a Baratieri 27 settembre 1894; tel. cifrato di Baratieri a Crispi 28 settembre 1894; tel cifrato di Crispi a Baratieri 29 settembre 1894, ore 1.15; tel. di Mocenni a Crispi 29 settembre 1894. 134 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 143, fascicolo 1066, documento n. 5, lettera di Baratieri a Crispi, 8 ottobre 1894.
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lungo persona assolutamente fedele, sì da insediarlo al comando dell‟Oculè Cusai con un ricco appannaggio di 15 mila lire annue? Avanzava pure l'ipotesi Martini che Batha Agos si fosse ribellato per i supposti maltrattamenti inflittigli dal tenente Sanguinetti.135 Ma l'ipotesi più diffusa in circolazione era che il capo indigeno avesse agito per istigazione del suo padre spirituale, un lazzarista francese (Batha Agos si era convertito al cattolicesimo, abbandonando la fede copta): non è dimostrato che fosse stata quella la ragione determinante, anche se poteva aver avuto un'importanza accessoria; era comunque sicura l'intesa stabilita con ras Mangascià. I giudizi di Martini sulla ribellione di Batha Agos risalgono al 1896, anno di pubblicazione del suo secondo volume sull'Eritrea, "Cose Affricane". Di lui Martini si era già occupato nella precedente opera "Nell'Affrica Italiana", frutto della sua permanenza in Eritrea nel 1891, quando vi si era recato come componente la commissione d'inchiesta. Martini aveva tracciato un ritratto fisico e al tempo stesso psicologico di quell'uomo, il cui aspetto dava una falsa impressione di furbizia e di sensualità: in realtà-affermava Martini-non esisteva "marito più fedele né un uomo più schietto". Tali qualità gli avevano procurato il rispetto di tutti; si concludeva così la presentazione di quel capo indigeno fatta da Martini: "Affabile, generoso, costante nelle amicizie (e noi Italiani ne avemmo più di una prova), meno borioso degli altri abissini". Non trascurava però Martini di ricordare un episodio truce nella vita di Batha Agos: aveva ucciso un fratello perché sordo ai suoi richiami di smetterla con le razzie. La considerazione più acuta fatta da Martini a proposito di Batha Agos è contenuta in una nota aggiuntiva del marzo 1895 a questo volume "Nell'Affrica italiana", contenuta nella prefazione alla seconda edizione del 1896: le ragioni della rivolta si potevano ritrovare nel programma dello stesso Batha Agos con cui chiamava a raccolta le popolazioni per opporsi agli italiani venduti a rubare la terra agli indigeni.136 Il governo italiano aveva seguito una politica oscillante fra l'amicizia scioana e quella tigrina, attuando l'immortale principio del "divide et impera". Ma se la machiavellica idea base poteva essere buona, poi fallì nella sua attuazione pratica, a causa di decisioni poco accorte quale la confisca di terreni su vasta scala, poco curandosi delle prevedibili reazioni degli indigeni duramente colpiti nei loro interessi.
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"Cose Affricane. Da Saati ad Abba Carima. Discorsi e scritti di Ferdinando Martini. Deputato al Parlamento". Milano, fratelli Treves editori 1896; pp. 87-88, pp. 102-103. 136 a F. Martini "Nell'Affrica italiana" 2 edizione, Milano Fratelli Treves editori, 1896; pp. 196-199, pp. 201-202.
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E pertanto, anziché dividere gli indigeni per potere così dominarli, si conseguì l'effetto opposto di renderli uniti, dimenticando le antiche rivalità, per far causa comune contro gli usurpatori delle loro proprietà. Dietro Batha Agos difatti c'era Mangascià, dietro Mangascià c'era Menelich: e così in una specie di infernale effetto domino si arrivò alla "grossa guerra" paventata da Di Rudinì fin dal luglio 1894, subito dopo la conquista di Cassala. Era rimasta lettera morta la felice intuizione di Baratieri manifestata nella lettera del 23 agosto 1892 al "carissimo amico", già ricordata, di non "offendere le tribù nella eterna giustizia e nelle tradizioni".137 Fu rapidamente repressa la rivolta di Batha Agos, sconfitto ed ucciso nello scontro avvenuto il 18 dicembre 1894 presso il forte di Haloi, ad opera di Toselli venuto in soccorso del forte assediato. Ma ras Mangascià non desisté dalle ostilità. Fallito il tentativo di conciliazione fatto dal tenente Mulazzani, Mangascià l'8 gennaio 1895 invase l'Eritrea e il 13 si scontrò a Coatit con Baratieri, ritirandosi perché sul punto di essere soverchiato; Baratieri si diede all'inseguimento e il 15 gennaio 1895 lo raggiunse a Senafè. Anche questo scontro di breve durata: sotto il fuoco dell'artiglieria italiana i tigrini fuggirono, una cannonata aveva colpito la tenda di Mangascià e furono lì ritrovate lettere di Menelich incitanti alla rivolta, lettere di Batha Agos, lettere di lazzaristi francesi che avevano fatto da mediatori tra Batha Agos e Mangascià. In Italia la notizia dei due scontri vittoriosi, anche se di modeste proporzioni, destò grande entusiasmo: Baratieri fu promosso tenente generale per meriti di guerra (e così poté ristabilire la sua preminenza gerarchica su Arimondi, dopo aver ricoperto per qualche tempo lo stesso grado di maggior generale) ed ottenne anche il lusinghiero riconoscimento del kaiser, intenzionato a decorarlo per le sue vittorie.138 Crispi telegrafò il 18 gennaio; si congratulava per le vittorie, scrivendo: “Il successo delle nostre armi è un vero trionfo della civiltà; si è data la pace alle tribù protette dall‟Italia, si è aperta la via del Sudan ai commerci dell‟Eritrea, è un nuovo titolo d‟onore per l‟Italia”. E con uno slancio per lui insolito, Crispi concludeva: “Le stringo con affetto la mano”. 139 Per quanto potesse essere lusingato da tanti onori, Baratieri manteneva ancora il senso della misura; scriveva difatti all'amica Amalia Rossi il 2 marzo 1895: "… mi pare che in Italia si siano
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Cfr. nota 117. ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651; telegramma dell'ambasciatore a Berlino, Lanza, al Ministero Esteri, Berlino 28 gennaio 1895. 139 Ibidem, telegramma di Crispi a Baratieri 18 gennaio 1895. 138
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entusiasmati troppo, ad ogni modo meglio così; ma non vorrei che ora si aspettassero troppo da me".140 Alle congratulazioni Crispi univa l'incitamento a proseguire l'offensiva, senza però indicare precisi obiettivi e pertanto Baratieri chiese istruzioni più chiare che precisassero contro chi dovesse muoversi: contro gli abissini, contro i Dervisci o contro entrambi? Chiedeva pure l'invio di rinforzi, e Crispi replicò invitandolo a precisare di cosa avesse bisogno.141 Ma già allora si avvertivano difficoltà e ristrettezze economiche: il maggiore Garofalo, direttore del deposito Africa di Napoli, era infatti costretto il 28 gennaio 1895 a sollecitare l'invio delle 150 mila lire richieste il 22, necessarie per far partire il 30 due battaglioni per l‟Eritrea.142 Fu quello il momento più felice per Baratieri, dubbioso però se al governo italiano convenisse proseguire l'offensiva, occupando il Tigrè, comprese Adua e la città santa di Axum; ovvero sospenderla, pur conservando le armi al piede in un prudente "raccoglimento"? Cesare Nerazzini, l'ufficiale medico esperto di cose africane grazie ai suoi lunghi soggiorni in colonia, con una memoria al Ministro degli Esteri Blanc in data 26 gennaio 1895 consigliava di non ampliare troppo le occupazioni perché non avrebbero resa più sicura la posizione italiana. Ma in pari data il capitano Perini, addetto all'ufficio coloniale del Ministero Affari Esteri, comunicava allo stesso Blanc, che la prospettiva dell'arrivo di truppe italiane aveva inizialmente destato apprensione nella popolazione di Adua e nel clero locale; ma si erano poi mostrati propensi ad accettare un protettorato italiano. A suo parere occorreva nominare un governatore fedele all'Italia ovvero tentare un accordo con ras Mangascià, per ridare al Tigrè l'antica supremazia in Etiopia e contrastare il potere del negus Menelich. Il Tigrè era in preda all'anarchia e bisognava intervenire: la peggiore scelta sarebbe stata una difesa passiva, restando fermi alla frontiera.143 Con uno scambio epistolare avvenuto il 29 gennaio 1895 Blanc e Mocenni si palleggiavano gli oneri finanziari per l'Eritrea, comprese le 150 mila lire richieste il giorno prima dal maggiore Garofalo per far partire il 30 due battaglioni per l'Africa: ulteriore riprova delle angustie finanziarie italiane.
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Archivio Museo Centrale del risorgimento Roma; busta 77, fascicolo 56. Lettera di Baratieri ad Amalia Rossi, 2 marzo 1895. 141 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 451. Telegramma di Baratieri al Ministero Esteri n. 137 in arrivo - 22 gennaio 1895; telegramma di Crispi a Baratieri (in bozza) 22 gennaio 1895. 142 Ibidem, telegramma del maggiore Garofalo al Ministero Esteri, Napoli 28 gennaio 1895. 143 "Libro Verde" XXIII bis, documenti presentati alla Camera con lettera del 27 aprile 1896 del Presidente del Consiglio Di Rudinì e del Ministro Affati Esteri Caetani di Sermoneta"; documento n. 11.
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Dal canto suo Baratieri con lettera del 9 febbraio 1895 ringraziava il ministro della Guerra Mocenni per gli onori ricevuti e per l‟offerta di rinforzi che confermavano “il fermo proposito del governo di Sua Maestà di procedere arditamente nelle cose coloniali”. Aveva però bisogno di chiare direttive, già richieste col telegramma del 22 gennaio; si scusava si avere esposto forse troppo “scolasticamente” le varie ipotesi possibili (l‟offensiva contro Menelik, o contro i Dervisci, ovvero contro entrambi); faceva presente “essere d‟uopo tener conto dell‟ambiente in cui mi trovo, del buio nel quale sono le cose italiane, delle infinite difficoltà nel farsi capire con telegrammi e (mi consente dirlo?) delle notizie incomplete che ha il Ministero della Guerra.144 Sembrava aprirsi uno spiraglio per arrivare alla pace con Mangascià; questi dichiarava di voler porre fine alla guerra, che era stata opera di Satana. Baratieri rispose che occorreva dare una prova di buona volontà disarmando le truppe tigrine e invitò il ras ad incontrare in Adua un delegato italiano alle trattative di pace. Ma presto svanirono le speranze di porre fine al conflitto: Mangascià non disarmava le sue truppe ed anzi ne raccoglieva altre ed invitava pure Menelich ad intervenire. Baratieri decise quindi di avanzare fino ad Adigrat145 e il 28 marzo proponeva di occupare l'intero Agamè per pacificarlo, come desiderato dalle popolazioni, e di annetterlo alla colonia con un decreto del re o con un suo decreto autorizzato dal governo. Mangascià si ritirava evitando lo scontro. Blanc e Crispi risposero prontamente che per l'annessione formale dell‟Agamè non era necessario un regio decreto, ma bastava l'occupazione di fatto senza bisogno di un riconoscimento legale. Proseguivano comunque le operazioni: una colonna italiana era arrivata a Macallè, il capo Agos Tafari, alleato dell'Italia, incolpava Mangascià, si era insediato ad Adigrat un presidio al comando del maggiore Toselli. L'avanzata italiana appariva irresistibile: il 31 marzo 1895 Baratieri comunicava al Ministero Esteri che il giorno successivo sarebbe entrato in Adua. A questo punto a Roma prevalse la prudenza: il 1° aprile con telegramma a firma congiunta CrispiMorenni-Blanc disponeva "per ragioni politiche e finanziarie" di non occupare stabilmente Adua: Adigrat doveva essere la punta estrema dell'occupazione italiana; al tempo stesso si ordinava a
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651. Lettera di Blanc a Mocenni, 29 gennaio 1895; lettera di Mocenni a Blanc, 29 gennaio 1895. Lettera di Baratieri a Mocenni, 9 febbraio 1895. 145 Ibidem, telegramma di Baratieri al Ministero Esteri, n. 411 in arrivo, 2 marzo 1895; tel. di Baratieri al Ministero Esteri, 10 marzo 1895; tel. riservato urgente di Baratieri al Ministero Esteri, 19 marzo 1895; tel. con precedenza assoluta di Baratieri al Ministero Esteri n. 566 in arrivo, Senafè 23 marzo 1895 (trasmesso il 25 da Massaua).
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Baratieri di sospendere o almeno ridurre per quanto possibile l'arruolamento di altri reparti indigeni.146 Ma Baratieri sembrava seguire le orme di Orero occupando Adua e la vicina città santa di Axum a scopo puramente dimostrativo, poco curandosi di ferire con quella profanazione l'amor proprio degli Abissini. Con l'arguzia consueta Martini nel discorso alla Camera del 19 dicembre 1895 tenuto in occasione del dibattito successivo all'episodio dell‟Amba Alagi, osservava: "…. il prendere Axum agli Abissini è come prendere la Mecca ai maomettani o Aquisgrana a Carlo Magno".147 Una esibizione muscolare destinata a restare fine a se stessa non era certo il mezzo più idoneo per rabbonire Menelich e fargli accettare il trattato di Uccialli. Sembravano rendersene conto in quel momento Crispi e Blanc: il ministro degli Esteri il 2 aprile telegrafava a Baratieri che il paese voleva un'attività puramente difensiva; il 5 Crispi ricordava a Baratieri la contrarietà ad ulteriori espansioni della colonia, presente soprattutto nell'Italia settentrionale, anche fra gli amici del governo; Sonnino, custode delle Finanze, esigeva che il bilancio coloniale non superasse i 9 milioni; era quindi ribadito che non si doveva andare oltre Adigrat. Baratieri
replicò telegrafando a Crispi il 4 aprile di aver occupato Adua per impedire che
Mangascià vi si insediasse; inoltre senza l'occupazione del Tigrè era difficile difendere il confine del Mareb. Crispi insisteva ancora sui problemi finanziari: era tempo ormai che la colonia divenisse autosufficiente per far fronte alle sue necessità e con ironia consigliava Baratieri: "Fanne oggetto dei tuoi studi".148 Ma l'incertezza sembrava regnare sovrana nella mente dei politici italiani: Blanc assieme a Crispi aveva ordinato a Baratieri l'evacuazione di Adua, ma in quegli stessi giorni si dimostrò possibilista al riguardo, affermando col telegramma del 6 aprile che si poteva controllare Adua a distanza, ma che Baratieri era il miglior giudice per decidere se occupare o meno la città; l'unico scoglio da superare era quello finanziario: il governo non si sarebbe opposto all'occupazione di nuovi territori
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Ibidem tel. urgente n. 593 in arrivo di Baratieri al Ministero Esteri, 28 marzo 1895; tel. a firma Crispi e Blanc a Baratieri, 29 marzo 1895: tel. di Baratieri al Ministero Esteri, 29 marzo 1895; tel. urgente n. 625 in arrivo di Baratieri al Ministero Esteri, 31 marzo 1895. Libro verde XXIII bis, documento 47, tel. di Crispi, Blanc e Mocenni a Baratieri 1° aprile 1895. 147 Riportato nel Volume "Cose Affricane", già citato, p. 97. 148 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651. Tel. "da decifrare personalmente" di Blanc a Baratieri, 2 aprile 1895; tel. "urgentissimo riservato alla persona" di Baratieri a Crispi, 4 aprile 1895; tel. di Crispi a Baratieri, 5 aprile 1895; tel. di Baratieri a Crispi, 7 aprile 1895, ore 14; tel. di Crispi a Baratieri, 7 aprile 1895, ore 18.50.
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se fatta con il ricorso a risorse locali: si alternavano così gli ordini di sgombero con gli incoraggiamenti a proseguire.149 Il giorno successivo Crispi e Blanc difatti sollecitavano ancora Baratieri a lasciare Adua, nominando governatore un capo indigeno degno di fiducia per impedire il ritorno di Mangascià. E non era ancora finita: il 10 aprile Crispi ribadiva l'esigenza di limitare l'iniziativa militare nel Tigrè e pertanto potevano rimpatriare due battaglioni. Le tendenze antiafricane presenti in modo particolare nell'Italia del Nord mettevano in pericolo la stabilità del governo: "… e noi non vogliamo cimentare le sorti d'Italia per un errore finanziario commesso in Africa…", era la drastica conclusione di Crispi. Alla resistenza opposta da Baratieri per evitare la riduzione delle truppe, per ragioni finanziarie, Crispi replicava sostenendo che la difesa della colonia doveva assicurarsi ricorrendo a risorse locali: era quasi una irrisione il consiglio di imitare Napoleone che "faceva la guerra col denaro dei vinti". Al che Baratieri faceva presente l'impossibilità di trovare risorse in un paese povero e per giunta devastato dalla guerra; pertanto con lettera del 23 aprile 1895 offriva le dimissioni.150 Blanc cercava di rabbonire Baratieri ricorrendo all'adulazione: il governo non voleva privarsi dell'opera del generale; deplorava anche lui le ristrettezze del bilancio coloniale, ma sperava in futuro potesse esserci una maggiore disponibilità finanziaria; proponeva a Baratieri una rapida visita in Italia, sia per trattare di persona i problemi che per controbattere la propaganda antiafricana. Rientravano così le dimissioni minacciate e con telegramma del 25 maggio il generale segnalava i minacciosi propositi di guerra di Menelich; comunque, aggiungeva col telegramma del 30 maggio, si poteva contare sulla defezione di alcuni ras disposti ad abbandonare Menelich per un'alleanza con l'Italia; a tale fine era utile l'occupazione di Adua, che accresceva il prestigio italiano; Mangascià, ormai isolato, poteva essere costretto a sottomettersi.151 Baratieri tuttavia restava ancora inquieto sulla prospettiva di dover affrontare la "grossa guerra" che prevedeva per il prossimo autunno con forze insufficienti, poiché prestava poca fede alle promesse di maggiori mezzi in futuro fattegli da Blanc; col telegramma del 10 giugno 1895 diretto sempre al ministro degli Esteri insisteva nel dare le dimissioni, affermando che i rinforzi erano assolutamente necessari e concludendo così: "potendo altri sia fare pace, sia difendere colonia con minori mezzi, rinnovo domanda mio rimpatrio".
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Libro Verde XXIII bis presentato alla Camera da Rudinì e Caetani il 17 aprile 1896, documento 52, tel. di Blanc a Baratieri, 6 aprile 1895. 150 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651. Tel. di Crispi e Blanc a Baratieri, 7 aprile 1895: tel. di Crispi a Baratieri, 10 aprile 1895; tel. di Crispi a Baratieri 13 aprile 1895. 151 Ibidem, tel. riservato 179R di Blanc a Baratieri, 7 maggio 1895. Tel. di Baratieri a Ministero Esteri n. 969 in arrivo 25 maggio 1895 e n. 988 in arrivo, 30 maggio 1895.
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Blanc tardava a rispondere e Baratieri il 18 giugno lo sollecitava;152 Blanc il 20 gli telegrafò di attendere una sua lettera prima di rendere irrevocabile la sua decisione; seguì la lettera in data 22 giugno 1895: il ministro affermava di non capire il motivo di quelle dimissioni presentate "in un momento in cui la sua presenza nella colonia è tanto più necessaria e preziosa".153 Ma Baratieri non sembrava disposto a recedere e il 7 luglio telegrafava di avere presentato le dimissioni a causa del rifiuto opposto all'invio di rinforzi, che doveva essere tempestivo poiché non poteva affidarsi all'improvvisazione; il suo patriottismo e tutto il suo passato gli imponevano di insistere in quelle “dimissioni offerte nella speranza che altri possa tener la colonia con minori mezzi e concludere una pace onorevole e durevole". A questa ripetizione delle ragioni già esposte nel telegramma del 10 giugno il governo diede una risposta immediata: il giorno successivo, 8 luglio 1895, un telegramma firmato da Crispi, Blanc e Mocenni, invitava Baratieri a recarsi a Roma per decidere insieme il da farsi prima dell'autunno. Il precedente invito di Blanc a Baratieri perché facesse una rapida visita in Italia (telegramma del 7 maggio 1895) non era stato accettato; ma stavolta il generale aderì alla richiesta col telegramma del 17 luglio preannunciando il suo arrivo a Roma il 27 dello stesso mese.154 E c'era stato pure il 1° maggio un invito di Crispi a Baratieri perché venisse Roma: la richiesta era stata fatta anche perché nell'imminenza delle elezioni politiche poteva essere utile un intervento del generale vittorioso per controbattere la propaganda degli avversari del colonialismo, ma Baratieri aveva obiettato che la situazione in Eritrea rendeva necessaria la sua presenza.155 Il viaggio di Baratieri in Italia nell'estate del 1895 si svolse tra manifestazioni entusiastiche: dal momento dello sbarco fino all'arrivo a Roma ovunque folle festanti inneggiavano al generale vittorioso e al suo arrivo alla Camera tutti i deputati si levarono in piedi, dopo che il presidente l'aveva accolto con una stretta di mano. La stampa dedicò commenti entusiastici all'avvenimento, ma alcune voci uscirono da quel coro di consensi. Il "Don Chisciotte” di Roma il 26 luglio pubblicò un articolo di fondo intitolato "Non intervenga" e firmato "Il Saraceno”, manifestava dubbi e riserve sulle imprese di Baratieri, affermando che "… l'occupazione di Cassala può essere stata un errore o unicamente lo sfogo di una nobile emulazione;
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Libro Verde XXIII bis doc. 85, tel. n. 200R in arrivo Baratieri a Blanc, 10 giugno 1895; doc. 86, tel. di Baratieri a Blanc, 18 giugno 1895. 153 Ibidem, documento 87, tel. di Blanc a Baratieri, 20 giugno 1895; doc. 88 lettera di Blanc a Baratieri, 22 giugno 1895. 154 Ibidem, doc. 91 tel. di Baratieri a Blanc, 7 luglio 1895; doc. 92 telegramma a firma Crispi, Blanc, Mocenni a Baratieri, 8 luglio 1895; doc. 95 tel. di Baratieri a Blanc 17 luglio 1895. 155 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 105, fascicolo 653. Tel.di Crispi a Baratieri, 1° maggio 1895; tel. di Baratieri a Crispi 2 maggio 1895.
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il non aver preveduto le rivolte di Bat Agos e di ras Mangascià possono (sic) esser documento di imprevidenza; l'aver voluto impossessarsi del Tigrè non è forse che l'effetto della imposizione d'impero; e il Governo dell'Eritrea tra le cure per l'organizzazione delle truppe ha forse dimenticato che di ben altri anche più gravi elementi si compone il problema coloniale; e la minaccia di altre spedizioni, di una vera guerra guerreggiata deve ben preoccupare il paese economicamente esausto". La doverosa celebrazione delle vittorie di Cassala e Coatit non doveva far dimenticare a Baratieri ed al Governo che spettava al Parlamento nella sua sovranità decidere la pace o la guerra; Baratieri quindi doveva astenersi dall'intervenire nelle discussioni parlamentari sull'Africa: era assurdo che cumulasse una carica militare con quella di deputato: Baratieri era un soldato e doveva tenere presente il famoso "obbedisco" di Garibaldi. Era critico nei confronti di Baratieri anche "Il Secolo Gazzetta di Milano"; scriveva difatti (25-26 luglio 1895, p. 1 “L‟arrivo di Baratieri") che si preparavano grandi feste per il vincitore di Coatit e aggiungeva: lungi da noi il pensiero di voler menomare le vittorie ottenute dal generale Baratieri; ma ci uniamo agli stessi giornali militari per invitare gli italiani a non dare esempio di esagerazioni, le quali contribuiscono a toglierci serietà presso gli altri popoli". Non era tempo di feste: la venuta di Baratieri sembrava confermare una prossima guerra con l'Etiopia e tale prospettiva era veramente poco allegra. Nel successivo numero del 26-27 luglio (p. 1 trafiletto senza titolo) “Il Secolo” denunciava le subdole manovre di Crispi che aveva voluto discutere la questione africana solamente dopo l'arrivo di Baratieri, chiedendo polemicamente “… perché si vuol trincerare dietro gli altri ed il valore del vincitore di Coatit? Quale italiano può rifiutare l'applauso al prode condottiero?". Ma la Camera doveva valutare con calma le conseguenze dell'impresa africana: "… e se i colpi di scena valgono ad abbagliare il grosso degli spettatori in teatro, non possono impedire la libertà di giudizio di un popolo che conosce le sue responsabilità". Ed ancora il 27-28 luglio (p.1 "Trionfo melanconico") il giornale tornava ad occuparsi dell'accoglienza trionfale riservata a Baratieri dalla Camera. Con una punta di ironia affermava: "Il generale Baratieri giunge in Italia con l'aureola della vittoria e a questo mondo è sempre meglio darle via che pigliarle. E per averle date via, noi pure l'applaudiamo". Proseguiva con un altolà all'eventuale proposito di Baratieri di continuare le assurde guerre africane, che costavano tanto e che rendevano niente, e servivano solamente per mantenere lo spirito e le ambizioni di un malinteso militarismo. Non si potevano spendere altri soldi per le pazzie coloniali trascurando i gravi ed annosi problemi interni: "….100 mila pellagrosi, 6 milioni di abitanti in regioni malariche, 4945 comuni in cui solo i benestanti mangiano carne, 1700 comuni in
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cui scarseggia il grano, 1454 comuni con poca acqua o cattiva, 600 comuni senza medico condotto, 336 comuni privi di cimitero". L'articolo si concludeva con l'esortazione a negare fondi per la prosecuzione della guerra in Africa. Ma erano una minoranza le voci critiche: già in precedenza c'erano state manifestazioni di esagerato ossequio, cui lo stesso Baratieri aveva voluto sottrarsi. Da Massaua il 20 aprile 1895 aveva scritto all'avvocato Pietro Sembenotti per declinare l'offerta di acquistare la casa di famiglia a Condino per farne un sacrario destinato a celebrare le sue imprese africane; Baratieri affermava di non meritare tanto onore. Accettava invece l'omaggio resogli dagli alpinisti trentini che avevano intitolato a lui una vetta alpina nella valle del Leno da essi scalata (lettera del 18 luglio 1895 al barone Malfatti, podestà di Rovereto e presidente della Società degli alpinisti tridentini).156 Esempio presto imitato da Carlo Gerbari, Mino Paoli e Giuseppe Zeni, i primi a scalare il 27 agosto 1895 una cima del Brenta, cui diedero appunto il nome di Baratieri. Tra le tante manifestazioni organizzate per festeggiare Baratieri destò un particolare entusiasmo il suo incontro con gli ex garibaldini, tra cui era lo stesso Crispi. Può apparire contraddittorio a prima vista che gli ex combattenti per la libertà d'Italia celebrassero le imprese coloniali rivolte contro la libertà di altri popoli; per gli ex garibaldini però le imprese africane erano una missione di civiltà: appare significativo il saluto rivolto a Baratieri da Menotti Garibaldi in occasione del viaggio dell'estate del 1895: "tu hai ravvivato in Africa lo splendore delle vittorie garibaldine". Non si trattò dell‟apostasia di singoli individui avvenuta nel passaggio dalle lotte e dagli ideali risorgimentali alle imprese africane; ci fu un'evoluzione ideologica di un'intera generazione, per la quale Agordat e Cassala erano la naturale continuazione di Calatafimi e Bezzecca. Quello stesso spirito d'avventura, ha annotato Mario Isnenghi, che aveva spinto i Mille ad affrontare arditamente i rischi di una spedizione che già in partenza appariva destinata a fallire, come era avvenuto ai trecento di Pisacane, ispirò le insidiose imprese africane. Dopo la sconfitta di Adua un ex garibaldino calabrese, Achille Fazzari, avanzò la proposta, non accolta dal governo Rudinì, di reclutare un corpo di volontari per ottenere una rivincita.157 156
Carteggio di Oreste Baratieri 1887-1901 con note biografiche a cura di Bice Rizzi. Trento 1936, pp. 73-74, lettera di Baratieri all'avvocato Pietro Sembenotti, Massaua 20 aprile 1895; p. 76 lettera di Baratieri al barone Emanuele Malfatti. Dalla nave che lo riporta in patria, 18 luglio 1895. 157 Cfr. Sergio Goretti "Garibaldini di fine ottocento dinanzi al programma coloniale" in "L'Italia nella crisi dei sistemi coloniali fra otto e novecento" a cura di A.A. Mola, Atti del Convegno di Vicoforte, 17 giugno 1997", 1999, pp. 151-157. Mario Isnenghi "Il colonialismo di Crispi" in "Adua. Le ragioni di una sconfitta"; a cura di Angelo Del Boca. Atti del Convegno internazionale per il centenario della battaglia di Adua, organizzato a Piacenza dall'Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea nei giorni 10,11,12 aprile 1996, pp. 71-78.
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Ma ci fu anche chi realisticamente pensò di profittare della presenza di Baratieri in Italia per promuovere iniziative economiche in Eritrea. L'industriale milanese Stefano Canzi, pure lui ex garibaldino e deputato per sette legislature, pioniere della coltivazione in Italia del tabacco e della barbabietola da zucchero, scriveva a Crispi il 15 agosto 1895: "Parecchie persone, avvedute e potenti, mi hanno parlato e fatto parlare per sentire la mia opinione circa la convenienza di costituire una Società di commercio, di importazione ed esportazione per l'Eritrea". Si era riservato di dare una risposta dopo aver sentito Crispi, ma dimostrava di esser già per conto suo favorevole alla proposta, scrivendo: "Il momento mi pare propizio, anche per la presenza in Italia dell'amico Baratieri, col quale io avrò opportunità di trovarmi in questi giorni".158 Non c'è traccia di quel previsto incontro, ma in ogni caso il momento non era affatto propizio e non ci fu alcun seguito al progetto. Si avviò invece in quella estate del 1895 l'ambiziosa iniziativa di una ferrovia Massaua-Cassala, proposta dai senatori Borgnini e Brambilla, affidata per la sua realizzazione alla Società Ferrovie Meridionali, di cui lo stesso Borgnini era presidente. Alla vigilia della sua partenza per l'Italia, Baratieri informava il 6 luglio Blanc che gli ingegneri della società avevano già ultimato gli studi preparatori; era prevista una spesa di 80 milioni per realizzare in 13 anni la ferrovia. Il 29 luglio, quando Baratieri si trovava già a Roma, Blanc gli comunicò di accettare la proposta e di autorizzare la costruzione del primo tronco da Saati a Ghinda; Baratieri lo stesso giorno ne informava Borgnini che, a stretto giro di posta, rispose il 30 luglio di accettare l'incarico. Ma Crispi si oppose: con telegramma del 19 agosto 1895 incaricava il prefetto di Firenze, sede della Società Ferrovie Meridionali, di informare Borgnini che il governo era estraneo al progetto e che non intendeva firmarlo. Successivamente Crispi sì mostrò invece disponibile, avendogli Baratieri scritto da Milano il 25 agosto che per il momento si voleva costruire soltanto il primo tratto e che la spesa avrebbe gravato interamente sul bilancio della Colonia, senza alcun onere per il governo centrale. Dopo tali chiarimenti, Crispi scrisse il 31 agosto al prefetto di Firenze ritirando la precedente opposizione. Ma non era finita: il ministro dei Lavori Pubblici, Saracco, scrisse a Crispi il 4 settembre, molto risentito perché era stata ignorata la sua competenza in quella materia; solo in ritardo Blanc gli aveva trasmesso "un rapporto del generale Baratieri, ricco di….. illusioni che non intendeva sottoscrivere".
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ACS Roma Carte Crispi Deputazione Storia Patria Palermo - busta 146, fascicolo 1206; doc. n. 3 lettera di Luigi Canzi a Crispi, 15 agosto 1895.
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Aveva quindi comunicato a Blanc il suo profondo dissenso dalle idee di Baratieri.159 Ed il progetto si arenò. Tra feste, manifestazioni e trattative economiche ci fu poco tempo per discutere la situazione in Eritrea, scopo principale del viaggio di Baratieri. Nei frettolosi incontri avuti con Crispi ed i ministri competenti, Blanc, Mocenni e Sonnino, Baratieri ottenne il consenso per arruolare 1000 ascari, acquistare 700 muli e portare il bilancio coloniale a 13 milioni. Ne diede notizia il 29 luglio al generale Arimondi perché provvedesse. Sonnino, ministro del Tesoro, rifiutò maggiori concessioni per non urtare l'opinione pubblica; Baratieri, sottovalutando le forze di Menelich (pensava potesse disporre solo di 20-30.000 uomini), si accontentò di quelle modeste risorse: non era il solo a sottovalutare l'Etiopia, giudicata dal colonnello Piano un colosso dai piedi d'argilla. Secondo Angelo Del Boca, Baratieri riteneva sufficienti 10 mila uomini per battere Menelich e prevedeva una spesa da 10 a 15 milioni di lire e sette mesi di tempo per concludere la guerra. Nel corso degli incontri né Baratieri né il ministro della Guerra, Mocenni, esposero un piano di guerra; e Crispi da parte sua considerava l'Africa un diversivo dai gravi problemi politici e sociali da affrontare.160 Ma nel fondo del suo animo Baratieri era preoccupato per la situazione cui doveva far fronte. Lasciata Roma si recò a Verona per incontrare l'amico Luigi Pelloux , dal gennaio 1895 comandante del quinto corpo d'armata di stanza in quella città. Nei suoi ricordi Pelloux annotava con molti particolari l'incontro con Baratieri, venuto in Italia per prendere accordi col governo, dal quale però non aveva avuto nulla "Ou du moins fort peu de choses". Baratieri era apparso depresso e Pelloux cercò di incoraggiarlo e gli raccomandò soprattutto di non tornare in Africa "sans être parfaitement d‟accord avec le gouvernement”. Baratieri si sfogò raccontando tutte le sue traversie e il suo imbarazzo: non aveva avuto mezzi sufficienti ed i suoi colloqui con Crispi, Blanc, Mocenni e Sonnino erano stati del tutto insoddisfacenti. Crispi aveva detto di prendere accordi con Mocenni , questi gli aveva consigliato di intendersi con Sonnino e quest'ultimo lo aveva rinviato a Crispi. Ironicamente commentava Pelloux che Baratieri era stato rinviato da Erode a Pilato, o piuttosto da Pilato a Pilato. Prima che Baratieri
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ACS Roma Carte Crispi Fondo Roma. Scatola 19, fascicolo 408. Rapporto di Baratieri a Blanc, Asmara 6 luglio 1895, lettera di Blanc a Baratieri, Roma 29 luglio 1895; lettera di Baratieri a Borgnini, Roma 29 luglio 1895; lettera di Borgnini a Blanc, 30 agosto 1895; telegramma di Crispi al prefetto di Firenze, Napoli 19 agosto 1895; lettera di Baratieri a Crispi, Monza 25 agosto 1895; tel. di Crispi al prefetto di Firenze, Napoli 31 agosto 1895; lettera di Saracco a Crispi, Roma 4 settembre 1895. 160 Angelo Del Boca "Gli Italiani in Africa Orientale" - volume 1°, pp. 555-557.
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partisse Pelloux gli consigliò ancora di sgravarsi di ogni responsabilità e di non tornare in Africa se Crispi non avesse accettato tutte le sue richieste. Ma, concludeva Pelloux, “on sait qu‟il partit de Rome sans avoir rien, ou presque rien, obtenu. On sait aussi le reste”.161 Quasi per trovare conforto alla sua amarezza ed ai suoi timori Baratieri si concesse una lunga vacanza nel suo Trentino, durata tutto il mese di agosto, dimenticando l'impellenza dei problemi in Eritrea: non a caso nel suo primo invito a venire in Italia fatto a Baratieri il 7 maggio 1895, Blanc aveva parlato di una rapida visita. Se le imprese africane avevano ispirato una Musa popolare a Roma, cantandosi nelle strade stornelli ingiuriosi per Menelich e Mangascià; a Rovereto, Gustavo Chiesa, il padre di Damiano, il patriota fucilato nel 1916 dagli austriaci, declamava in tono pretenziosamente aulico: "A te da queste sponde, che toccano – l‟acque de il Leno - fido l'augurio di nuove vittorie gloriose - per il cammino de la vita ti accompagni". Ed a Malè la signora Sbucca si rivolgeva così a Baratieri con enfasi non minore: "Torna, forte laggiù dove altri allori-presto forse ti attendono, ove ti segua-fido il voto sincero dei nostri cuori".162 Giunse brusco il richiamo alla realtà con la comunicazione di Arimondi sulle mosse sempre più minacciose di Menelich e Baratieri fu costretto ad un ritorno precipitoso in Eritrea. Crispi si concedeva ancora delle vacanze, trovandosi a Napoli per i bagni di mare. Con scarso entusiasmo si disse disposto ad interromperli e fissò con Baratieri un appuntamento a Napoli per il 13 settembre. Il generale, lasciati i beati ozi trentini, ebbe a Roma un colloquio col sottosegretario agli Interni, Galli, per trattare i problemi della colonizzazione e chiese a Crispi di spostare al 16 settembre l'incontro fissato per il 13: ma le notizie sempre più allarmanti dall'Eritrea lo spinsero a telegrafare il 12 a Crispi che la grave situazione della colonia rendeva necessario affrettare il rientro e propose di vedersi il 14, senza attendere il rientro di Crispi a Roma fissato per il 16, come avrebbe voluto il presidente del consiglio: il vorticoso susseguirsi di date ci fa capire quale fosse lo stato di agitazione di Baratieri: dopo aver tanto indugiato senza necessità, adesso chiedeva febbrilmente di non rinviare l'appuntamento neanche di due giorni. Ci fu quindi il 14 a Napoli il frettoloso incontro con Crispi, ridotto ad un semplice saluto, senza alcun approfondimento dei problemi ed il giorno successivo, domenica 15 settembre 1895, Baratieri si imbarcò con tutta fretta a Brindisi. Un colloquio altrettanto sbrigativo Baratieri l'aveva avuto a Roma con il ministro Mocenni e c'era stato un 161
Luigi Pelloux "Quelques souvenirs de ma vie" - a cura e con introduzione di Gastone Manacorda. Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento 1967, pp. 166-167 ("o quanto meno pochissimo"; "senza essere perfettamente d'accordo con il Governo"; "si sa che partì da Roma senza avere ottenuto niente, o quasi niente. Si conosce anche il resto!".) 162 "Omaggi Trentini a Oreste Baratieri" in "Studi Trentini di Scienze Storiche" - Rivista della Società di studi per la Venezia Tridentina". Annata XVI, 1935, XIV, fascicolo 3, siglato b.r. (Bice Rizzi).
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vorticoso giro di telegrammi tra lo stesso Mocenni, Crispi, Galli e Baratieri per stabilire un calendario degli incontri;163 nell'incontro di Napoli Crispi si limitò a confermare a Baratieri la sua fiducia. Baratieri sbarcò a Massaua il 26 settembre e trovò la colonia in subbuglio per l'offensiva di Mangascià e l'incombente minaccia di Menelich; per fronteggiare l'avanzata del ras tigrino Baratieri si recò il 3 ottobre ad Adigrat e preparò una controffensiva basata su di un piano per accerchiare Mangascià tagliandogli la via per una ritirata. Le forze italiane erano divise su due colonne: una, al comando di Baratieri doveva puntare su Debra Ailà, l'altra, guidata da Toselli, doveva sbarrare a Mangascià la strada per l‟Amba Alagi. Ma la manovra non riuscì poiché Mangascià si era rapidamente ritirato prima di essere accerchiato, lasciando soltanto una piccola retroguardia a Debra Ailà, facilmente sopraffatta da Baratieri il 9 ottobre 1895. Si trattò di una semplice scaramuccia e creò pericolosi illusioni; corsero pure false voci, che il poco efficiente servizio italiano di informazione non riuscì a controllare: si disse che Menelich, colpito da un fulmine, era rimasto paralizzato e incapace di parlare: il negus invece godeva di ottima salute ed era più che mai pronto ad affrontare il nemico. Il 17 settembre aveva lanciato un proclama alle popolazioni incitandole a prendere le armi contro l'Italia; il negus faceva ricorso pure ad argomenti religiosi, accusando gli italiani di svolgere un'azione di proselitismo a favore della Chiesa cattolica ed a danno di quella copta. Si era inoltre abilmente assicurata la sicurezza all'interno dell'impero, disarmando le popolazioni ritenute infide, facendo giurare ai capi Galla la loro fedeltà, garantita dai loro figli presi in ostaggio; in territorio francese, a Gibuti il porto da cui giungevano le armi a lui destinate dal governo di Parigi, il negus stabilì pure un centro di spionaggio. Oltre che sui concreti aiuti francesi Menelich poteva pure contare sulla simpatia dello zar; da San Pietroburgo comunque gli giungevano soltanto incoraggiamenti ed espressioni di solidarietà. Di fronte a tanto attivismo Baratieri si limitò a fortificare Macallè ed a rinforzare le difese di Adigrat; dispose inoltre l'arruolamento di due battaglioni indigeni. La posizione italiana era peraltro indebolita dal persistente dissidio di Baratieri ed Arimondi. Il capitano Mario Bassi fu il cronista attento di quel periodo, descritto in una serie di lettere inviate al padre ed ad un misterioso signor C., da identificarsi probabilmente con il commendatore Censa, capogabinetto del Ministro della Guerra, Mocenni: la posizione di questo secondo destinatario può far pensare che Bassi avesse ricevuto l'incarico di osservare gli avvenimenti eritrei per riferirli direttamente al Ministro.
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 105, fascicolo 653.
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A partire dal maggio 1896 le lettere di Bassi furono pubblicate sul giornale bolognese "Il Resto del Carlino", cui le aveva cedute Ottavio Bassi, padre dell'ufficiale, morto ad Adua. La prima di queste lettere porta la data del 24 febbraio 1895 e fu pubblicata il 13 maggio 1896. A Bassi, appena giunto a Massaua, Arimondi fece subito intendere il suo profondo disaccordo con Baratieri e col maggiore Tommaso Salsa, che ne era l'uomo di fiducia. Bassi scriveva che Baratieri era "infatuato di quella enorme b (ischerata) che fu la conquista di Cassala, la sua attenzione era "per espandersi verso il Ghedaref, per una ferrovia da Massaua a Cassala, per un mucchio di poesie”. L'aria, scriveva Bassi, era avvelenata; si agiva" a base di malintesi, di gelosie, di sgarbi, di silenzio"; mancava del tutto l'entusiasmo e sembravano svaniti "il senso della misura e la comprensione delle cose". Lo stesso Bassi contribuiva però a complicare la situazione: nominato il 20 marzo capo di gabinetto di Baratieri già il 25 si scontrava violentemente con il maggiore Salsa, capo di stato maggiore, che godeva la massima fiducia del governatore, su cui esercitava grande influenza. Baratieri, a giudizio di Bassi "come tutti gli spiriti deboli avrebbe voluto liberarsene, senza però osare di farlo con un atto energico”. La profonda antipatia di Bassi per Salsa perdurò fino all'ultimo. Bassi rimproverava a Salsa e ad Arimondi di dare disposizioni "con poco ordine e minore chiarezza"; mancava "una testa unica", che assicurasse "un criterio costante" per le iniziative prese (lettere del 2 e 5 marzo 1895 pubblicate il 13 maggio 1896). Bassi osservava sconsolato: "Le condizioni politiche generali quindi sono poco liete e per uscirne occorrerebbe un'energia che qui non si trova che nei momenti estremi". Baratieri quindi appariva autoritario, più che autorevole, agli occhi di Bassi, che faceva le più fosche previsioni: la recente conquista di Adigrat era "il primo passo di infinite noie per l'avvenire"; il paese era in condizioni disastrose, Adua era "un orrore", ridotta come Casamicciola dopo il terremoto (lettera del 29 marzo). Bassi non si limitava a commentare la cronaca spicciola: dava giudizi sulla politica generale da seguire: era giunto il tempo "di calmarsi, ricomporsi e, abbandonando l'idea di conquistare lo Scioà a sud e il Sudan a occidente, pensare a dirigere qui una corrente di immigrazione agricola italiana". Invece la politica italiana consisteva "nel provocare con atti di mala fede o di imprudente temerità i nostri avversari". Si augurava Bassi con scarsa convinzione: "Speriamo che lo stellone ci aiuti" (lettera del 29 aprile 1895, pubblicata il 14 maggio 1896).
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Era insanabile il dissidio tra Baratieri ed Arimondi, che avrebbe voluto lasciare l'Eritrea "Lui e Baratieri oramai sono ai ferri corti. Ieri l'altro ebbero una spiegazione violenta per cercare un modus vivendi" (lettera del 12 maggio 1895). Il governatore aveva presentato ancora una volta le dimissioni ed era di pessimo umore perché non aveva ricevuto una risposta da Roma, Bassi prevedeva "guai seri" se non si fosse sostituito Baratieri (lettera del 22 giugno 1895). Alla fine era giunta la risposta del governo: erano respinte le dimissioni di Baratieri e le cose si mettevano male; Bassi consigliava di "abbandonare Cassala, inutile e dispendiosa, di unire le forze verso l'Etiopia, fare la pace con Menelich restituendo Adua" (lettera 7 luglio 1895). Avuta notizia delle accoglienze trionfali ricevute da Baratieri in Italia, Bassi osservava: "E' certo che se Baratieri tornerà non mancherà di andare a stuzzicare gli abissini per conquistare qualche altro palmo inutile di territorio" (lettera 4 agosto 1895). Mutava poi l'opinione di Bassi sulla utilità della colonizzazione agricola italiana in Eritrea, espressa nella lettera del 29 aprile 1895, pubblicata il 14 maggio 1896, già citata. Il 31 agosto 1895 difatti scriveva (lettera pubblicata il 15 maggio 1896) che sarebbe stato meglio inviare 4 o 5 mila famiglie contadine nell'agro romano o in Sardegna, piuttosto che in Eritrea. Facendo proprie le convinzioni degli antiafricanisti, Bassi scriveva: "Più tempo passa più mi accorgo della insigne corbelleria che abbiamo commesso a venire qui a impiantare una colonia". L'inutilità di questa impresa era confermata da Bassi nella lettera del 7 settembre 1895: l'accordo trovato da Baratieri col governo lo preoccupava: "Ciò significa che andremo a conquistare altri sassi e sprecare altri milioni per poco che Crispi stia in piedi". Trovava disastrosa Bassi l'idea di Baratieri di un'offensiva per conquistare l'Etiopia e confidava a Salsa: ".. si rischia di fare la campagna di Russia ". Il 27 settembre era commentato il ritorno del generale: Baratieri in Italia non aveva persuaso nessuno a “cacciar via i denari per conquistare altri sassi”; al generale sembravano essere "un poco sbolliti i grandi bollori guerreschi, anche se le grandi accoglienze in Italia avevano lusingato la sua vanità". Mangascià, costretto a ritirarsi, non rappresentava più un pericolo; ce ne sarebbe stato invece uno serio se Menelich avesse attaccato. Erano pure preoccupanti le condizioni di Baratieri, che Bassi trovava "giù di salute e di intelligenza” (lettera del 10 novembre 1895). Era ormai vicino l'inesorabile epilogo: nella lettera del 9 dicembre 1895 Bassi riteneva la sconfitta dell'Amba Alagi un frutto avvelenato degli entusiasmi generati dalla facile vittoria riportata a Debra Ailà, frutto maturato a causa della “impreparazione” e della “asinità”.
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Ma Bassi aveva uno spiccato senso dell'onore: era sempre stato critico della impresa coloniale, di cui era prevedibile un esito disastroso; malgrado tutto dichiarava: "Chiederò di andare a fare il mio dovere nelle imminenti battaglie", non voleva trarre vantaggi dalla sua posizione di capo gabinetto del governatore e rinunciava ai "privilegi derivanti da tale carica" che gli avrebbero assicurata l'esenzione dai rischi della prima linea. Nella lettera del 16 dicembre 1895, apparsa su “Il Resto del Carlino” il 17 maggio 1896, Bassi tornò ad occuparsi della tragedia dell‟Amba Alagi, risalendo agli antefatti. Il 29 ottobre 1895 Baratieri si era opposto alla spedizione punitiva nel Lasta, dove operavano gruppi armati a sostegno di Menelich, proposta da Arimondi e questi 10 novembre aveva rinnovato la richiesta di rimpatrio. Baratieri il 13 novembre telegrafò a Blanc facendo la cronistoria delle richieste di rimpatrio di Arimondi: già nel novembre 1894 voleva lasciare l'Eritrea, ma aveva desistito per le pressioni di Mocenni. Nell'aprile del 1895 aveva rinnovato la richiesta, irritato per il divieto opposto da Baratieri al suo progetto di una spedizione contro i Dervisci: di comune accordo la pratica era rimasta in sospeso; c'era stato il viaggio di Baratieri in Italia che rendeva necessaria la permanenza di Arimondi in Eritrea. Ma non erano più possibili ulteriori rinvii essendo diventata insostenibile la situazione: pertanto Baratieri il 13 novembre 1895 telegrafò in questi termini al Ministero Esteri: "Ora Arimondi rinnova domanda. Gravi ragioni consigliano accettarla subito. Esperienza dimostrò incompatibile tempo guerra coesistere colonia comandante truppe governatore con poteri militari". Proponeva quindi di sostituire Arimondi con un colonnello o un tenente colonnello che in tempo di pace avrebbe avuto ampi poteri e per quell‟incarico faceva il nome del colonnello Valenzano.164 Non era passato nemmeno un anno, ma sembrava trascorso molto tempo dal 4 gennaio 1895 quando Baratieri nella relazione a Mocenni sulla situazione del Tigrè aveva scritto: "Era con me il generale Arimondi il quale mi seguì in ogni operazione come comandante in seconda col quale procedetti sempre in pieno accordo valendomi dei suoi autorevoli consigli".165 In realtà già nel gennaio 1895 si erano incrinati i rapporti tra i due generali divisi da gelosie e rivalità: la vittoria di Arimondi sui Dervisci ad Agordat nel dicembre del 1893 era risultata indigesta per Baratieri, che difatti aveva cercato di sminuirne l'importanza proponendo come ricompensa del suo rivale semplicemente la nomina a Cavaliere dell'ordine militare di Savoia: era stato il re a volere la promozione a generale per meriti di guerra e già nel novembre 1894, come ricordato dallo stesso Baratieri, Arimondi aveva avvertito un forte disagio tanto da chiedere il rimpatrio. Ma i
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651, telegramma n. 201 di Baratieri al Ministero Esteri, 13 novembre 1895, ore 10,15. 165 Archivio Storico Esercito Stato Maggiore - cartella 12 L7 - Relazione di Baratieri sulla situazione nel Tigrè al Ministro della Guerra. Adi Ugri, 4 gennaio 1895.
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contrasti erano rimasti sottotraccia anche se non erano ancora esplosi in modo tanto evidente come avvenne successivamente. Nel novembre 1895, in occasione dell'ennesima offerta di dimissioni presentata da Arimondi, sarebbe forse convenuto accettarle per troncare di netto le lunghe diatribe fra i due generali, stabilendo un unico comando sì da evitare divisioni laceranti ed il perpetuarsi di un'ambiguità paralizzante le operazioni militari. Ma Crispi decise diversamente e lo stesso giorno 13 novembre telegrafò a Baratieri di giudicare inopportuno il rimpatrio di Arimondi nel corso delle operazioni contro Menelich, generando "dubbi ostili" contro il governo e contro la politica coloniale; Crispi sembrava preoccuparsi delle ripercussioni sulla situazione politica in Italia e della possibile destabilizzazione del suo governo più che della grave situazione militare in Africa; faceva pertanto appello al sentimento patriottico dei due rivali perchè pazientassero ancora per qualche tempo e si evitassero le dimissioni di Arimondi.166 Si videro presto le negative conseguenze di quel temporeggiare. Il 18 novembre Arimondi, ritirate le dimissioni sempre annunciate e mai effettivamente date (come del resto aveva sempre fatto Baratieri), dispose, seguendo le istruzioni ricevute, l'invio in avanscoperta della compagnia del capitano Persico per una semplice attività di ricognizione, in grado di ritirarsi rapidamente in caso di necessità, perché non aveva l'ingombro di artiglierie e salmerie. Ma in seguito, il 24 novembre, Arimondi ordinò che l'intero battaglione Toselli con quattro cannoni, rinforzato dalla banda degli irregolari di ras Sebhat si spingesse al di là dell'Amba Alagi, fino a Belagò, senza rispettare l'ordine di Baratieri di non avanzare oltre penetrando in territori inesplorati. Toselli disponeva in totale di 2350 uomini, circa la metà dell'intera forza di Arimondi: era un contingente troppo numeroso per una semplice attività ricognitiva che non era in grado di compiere una rapida ritirata come era nelle intenzioni di Baratieri. Questi il 30 novembre telegrafò da Massaua ad Arimondi di concentrare tutte le sue truppe a Macallè; nel frattempo Toselli, accortosi dell'avanzata abissina, aveva chiesto il giorno 28 ad Arimondi di potersi ritirare da Belagò sull‟Amba Alagi e il 29 chiese ancora istruzioni al generale. Arimondi gli riferì il giorno 30 in modo distorto le istruzioni di Baratieri: occorreva contenere l'attacco nemico, senza però scatenare una controffensiva; lasciava Toselli arbitro di decidere se restare a Belagò o ritirarsi sull‟Amba Alagi come da lui richiesto il 28 novembre: taceva l'ordine di Baratieri di ritirarsi a Macallè pervenuto lo stesso giorno 30 novembre 1895.
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651, telegramma riservato n. 218R di Crispi a Baratieri, 13 novembre 1895, ore 17,45 in risposta al telegramma n. 201 di Baratieri inviato alle ore 10,15 dello stesso 13 novembre.
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Dopo la catastrofe del 7 dicembre Arimondi cercò di giustificare la sua disubbidienza agli ordini di Baratieri aggiungendo nella sua relazione le parole "ed anche oltre", riferite alla Amba Alagi, indicata invece a Toselli come punto estremo della ritirata nel telegramma del 30 novembre.167 Inoltre Arimondi per rassicurare Toselli, ritiratosi sull‟ Amba Alagi e sempre più allarmato per l'imminente attacco abissino, gli comunicò il 6 dicembre che si apprestava ad accorrere in suo aiuto. In un primo momento Baratieri bloccò quella iniziativa di Arimondi: il divieto corrispondeva logicamente al suo piano di concentrare le truppe a Macallè, senza disperderle stabilendo un forte presidio all‟Amba Alagi. Baratieri si era fino ad allora dimostrato sempre prudente: il 10 aprile 1895, subito dopo l'avanzata conclusasi con l'occupazione di Adua compiuta il 1° aprile, aveva scritto al Ministro della Guerra di aver voluto "impegnare il meno possibile le forze della colonia, resistendo come ho resistito fin qui, anche all'indomani della vittoria, alla splendida attrattiva della conquista di paesi fertili, che sarebbero fonte di potenza e di ricchezza".168 Anziché autorizzare la spedizione di Arimondi in soccorso di Toselli, dispose che fosse ordinato a quest'ultimo di ritirarsi dall‟ Amba Alagi per attestarsi su posizioni più sicure. Una volta di più restarono inascoltate le disposizioni di Baratieri, trasmesse incomplete ed in ritardo a Toselli. Baratieri ebbe un ripensamento: resosi conto del grave pericolo che incombeva su Toselli, finì per autorizzare Arimondi ed andare in aiuto della guarnigione posta sull‟ Amba Alagi. Tremila uomini partirono quindi da Macallè alle 16.00 del 7 dicembre, arrivando troppo tardi a destinazione: le forze al comando di ras Makonnen avevano già sterminato il battaglione italiano. Baratieri fu accusato di essere responsabile del disastro per aver ritardato i soccorsi: anche Bassi si associò a tale accusa, sostenendo che se Arimondi fosse giunto due ore prima, avrebbe riportato una vittoria simile a quella di Agordat. È sempre azzardato formulare ipotesi a posteriori su un diverso svolgimento dei fatti, a determinate condizioni. Ipotesi per ipotesi, si può anche supporre che il disastro sarebbe stato reso ancora più grave dallo sterminio dei reparti di Arimondi: si trattava di altri 3 mila uomini che, aggiunti ai superstiti del battaglione Toselli ed alle centinaia di irregolari di ras Sebhat , avrebbero dovuto affrontare i circa 30 mila abissini di Makonnen. Arimondi ovviamente sostenne che se fosse partito prima arrivando in tempo avrebbe evitato la strage dell‟ Amba Alagi; e, ancor prima che questa si verificasse, fece ricorso ad una difesa preventiva del suo operato il 6 dicembre 1895 in una lettera da Macallè indirizzata ad un amico dal 167
Cfr. Emilio Bellavista "Adua. I precedenti. La battaglia. Le conseguenze (1881-1931)". Genova, rivista di Roma a editrice 1931. Parte 2 , capitolo XIX "Amba Alagi" (7 dicembre 1895", pp. 221-242.) 168 Archivio Storico Esercito Stato Maggiore. Cartella 12 L7 fascicolo 9. Relazione di Baratieri su Agamè e Tigrè al Ministero della Guerra, 10 aprile 1895.
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nome imprecisato affermava che la strategia di Baratieri era stata "un fiasco colossale constatato da tutta la colonia militare". Informato dell'arrivo dell'esercito di Makonnen - scriveva Arimondi - aveva riunito le sue forze a Macallè , disponendosi a soccorrere Toselli. Ma era stato trattenuto da un telegramma di Baratieri, pervenutogli la sera del 5 dicembre, che gli proibiva di portare aiuto a Toselli in quanto conveniva non disperdere le forze, ma unirsi alle altre truppe per ritirarsi tutti su posizioni più sicure. Arimondi faceva questo commento alle istruzioni di Baratieri: "Ora tutto è possibile, e Toselli può anche essere schiacciato senza che io lo possa soccorrere; e per la precisa ragione di non essere divisi in due gruppi (Amba Alagi e Adigrat per ora) lo saremo in tre, cioè Amba Alagi, Makallè ed Adigrat”. Arimondi aggiungeva di ritenere le trattative di pace soltanto un espediente abissino per dare al negus il tempo di arrivare all‟Amba Alagi con il suo imponente esercito e scriveva all'amico: "Se succederà qualche disastro, tu saprai almeno che non è mia la colpa ". Lo sfogo di Arimondi proseguiva così: "Da molto tempo io mi trovo in una posizione ibrida, ogni qualvolta c'è qualcosa da fare, il Baratieri assume il comando delle truppe; recentemente, avendo io chiesto l'esonerazione dalla carica, egli mi mise di nuovo al comando delle truppe e tenne per sé i servizi col pretesto che da lontano non posso dirigerli". Più volte aveva segnalato al Ministero la insostenibile situazione; i servizi non funzionavano meglio dopo la "illegale determinazione "che l'aveva privato della loro direzione. Proseguiva in tono sconsolato: "Non so cosa farà il Ministero. Ormai il Baratieri è onnipotente, un po' per la politica e, un po' per l'appoggio di Crispi, un po' per quello della Massoneria". Non si augurava comunque la destituzione di Baratieri, che avrebbe causato "un regresso nei tanto vantati nostri successi". Ed Arimondi concludeva sperando anche lui nella protezione dello stellone d'Italia.169 Arimondi confermò le accuse a Baratieri, considerandolo l'unico responsabile di quanto accaduto, nel rapporto al governo sulla sconfitta all‟Amba Alagi.170 Nell'appunto anonimo per Crispi del 22 febbraio 1896, alla vigilia cioè della battaglia di Adua, con puntigliosa minuzia sono riportati tutti i particolari della vicenda.171 Il 5 dicembre 1895 Baratieri aveva telegrafato ad Arimondi di non spingersi oltre Macallè e di fare arretrare Toselli. La comunicazione arrivò alle 7.00 del mattino del giorno cinque; c'è da osservare 169
"Lettere e diari d'Africa" a cura di Francesco Lemmi. Edizioni Roma 1936. Lettera di Arimondi a "Caro...", Macallè 6 dicembre 1895, pp. 111-113. 170 ACS Roma Carte Crispi Busta 103, fascicolo 651 - telegramma n. 635 di Arimondi a Ministero Guerra, 19 dicembre 1895 (non pubblicato nel Libro Verde). 171 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 155, fascicolo 1725, documento n. 21 bis "Appunto sull'Africa per S.E. il Presidente del Consiglio" di autore anonimo.
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scrive l'anonimo autore dell'appunto - che erano partiti da un'ora, cioè alle sei del mattino, i tenenti Botero e Pagella con un carico di viveri e munizioni destinato al maggiore Toselli: ci sarebbe stato il tempo per fare pervenire con un veloce messaggero indigeno l'ordine di Baratieri che disponeva il ritiro del battaglione del maggiore. Ma Arimondi non inviò alcun messaggero fino alla notte tra il 6 e il 7 dicembre e, ricevuta l'autorizzazione di Baratieri per soccorrere Toselli, indugiò ancora a partire, giungendo pertanto in ritardo ad Aderà, posizione vicina all‟Amba Alagi, quando si era già verificata la strage. Fra le critiche rivolte ad Arimondi da Bellavista nel suo saggio sulla battaglia di Adua ed i suoi precedenti, c'è anche quella di aver fatto marciare troppo lentamente le sue truppe, che impiegarono 16 ore per percorrere i 47 km da Macallè ad Aderà. Nell'anonimo appunto per Crispi era riportato pure il particolare della manipolazione del dispaccio a Toselli fatta da Arimondi aggiungendo le parole "ed anche oltre" (riferite all‟Amba Alagi) per indicare il punto estremo della ritirata consigliata: Arimondi, sempre secondo l'anonimo, aveva agito con molta leggerezza e doveva essere anzi considerato un volgare falsario; era quindi incomprensibile come malgrado tutto ciò Arimondi potesse ancora avere il comando di una brigata. Una critica larvata ad Arimondi possiamo vederla anche in quello che "L'Africa Italiana. Gazzetta di Massaua" scriveva il 15 dicembre 1895 (anno V, n. 310, p. 1 "Il combattimento di Amba Alagi. Sursum corda", articolo di fondo firmato "L'Africa Italiana). Il giornale rendeva omaggio agli eroici caduti " in quelle Termopili della colonia" ed aggiungeva questo commento: "Certo le perdite per noi sono dolorosissime; certo il mancato concentramento intorno alla bella posizione di Macallè, già fortificata con incredibile operosità dal maggiore Toselli, torna a danno della colonia, costringendo a modificare il piano primitivo…". Ed era stato proprio Arimondi ad impedire il "concentramento intorno alla bella posizione di Macallè". Makonnen, una volta finito il combattimento, si comportò cavallerescamente disponendo che fossero tributate a Toselli le onoranze funebri e dandogli degna sepoltura, contro il parere dei parenti di alcuni caduti abissi, cui in altra occasione ciò era stato negato per ordine di Baratieri. Il figlio secondogenito di Makonnen, ras Tafari, - sarà il caso di ricordarlo - assurto al trono di Negus Neghesti col nome di Hailè Selassiè, si comportò con analoga umanità e larghezza di vedute nei confronti degli italiani rimasti in Etiopia nel 1941, dopo aver riconquistato il suo impero grazie alla vittoria inglese, superando ogni legittimo risentimento. Da parte italiana Makonnen era considerato il migliore interlocutore per giungere alla pace: ma al contempo si voleva intimidirlo progettando una spedizione nell‟Harrar per creare un diversivo utile a distogliere forze etiopiche dal fronte eritreo.
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A tale fine si intavolarono trattative con Londra perché consentisse lo sbarco di truppe italiane, destinate alla spedizione nell‟Harrar, nel porto di Zeila, posto in territorio britannico. Baratieri nel suo telegramma a Blanc del 12 dicembre 1895 si disse convinto che lo sbarco italiano a Zeila avrebbe grandemente impressionato ras Makonnen. 172 Le trattative con Londra si conclusero con un nulla di fatto perché il Foreign Office subordinò la concessione di uno sbarco italiano a Zeila al beneplacito di Parigi, non volendo inimicarsi ancor più la Francia, con la quale già esisteva un nutrito contenzioso coloniale. “ Non avevamo bisogno di passare per Londra per intenderci con Parigi. Potevamo farlo direttamente"; era lo stizzito commento di Blanc espresso nel telegramma all'ambasciatore a Londra in data 8 gennaio 1896.173 Baratieri ebbe però presto un ripensamento a proposito dell'opportunità della spedizione nell‟Harrar poiché comportava molte difficoltà ed avrebbe richiesto l'impiego di almeno 5 o 6 mila uomini, da distogliere dal fronte eritreo. Con un telegramma a Blanc del 19 dicembre 1895 Baratieri faceva presenti gli ostacoli da superare; con un successivo telegramma a Crispi del 25 dicembre dava notizie sulle notevoli forze di cui disponeva Makonnen, circa 30-35 mila uomini, cui dovevano aggiungersi le forze del re del Goggian, Tecla Aimamot, alleato di Makonnen, cioè altri 12 mila uomini. I 10 mila italiani di stanza in Eritrea bastavano appena alla difesa della colonia; sarebbe quindi stata possibile una spedizione nell‟Harrar solo se affidata ad altre forze giunte dall'Italia. Riteneva sufficienti 6 o 7 battaglioni con due batterie da montagna. Ancora alcuni anni dopo, nel 1899, Baratieri tornava sull'argomento con un articolo sulla "Revue des deux Mondes”, dicendosi convinto che sarebbe stato diverso l'esito della guerra se l'Inghilterra avesse consentito lo sbarco italiano a Zeila.174 Ancor di più difficile attuazione appare l'altro progetto di raggiungere l‟Harrar partendo da Assab, concepito dopo il fallimento delle trattative con Londra per poter sbarcare a Zeila. Nelle istruzioni per il colonnello Pittaluga designato al comando di quella spedizione, impartite da Mocenni il 1° febbraio 1896, si poneva anzitutto il problema di quale strada scegliere fra le tre esistenti da Assab a Beilul in direzione dell'interno; in ogni caso occorreva migliorare quella prescelta per renderla in un primo momento accessibile ai muli e poi trasformarla in una carreggiata; lungo la strada si sarebbero dovuti predisporre luoghi per le soste, assicurando il rifornimento dell'acqua, costruendo pure fortificazioni e depositi per il materiale; uno di quei forti 172
Libro Verde XXIIIbis, documento 515, p. 297 - telegramma di Baratieri a Blanc, n. 2291 in arrivo, 12 dicembre 1895. Ibidem, documento 537, p. 306 - telegramma riservatissimo n. 37 di Blanc all'ambasciata in Londra, 8 gennaio 1896. 174 Libro Verde XXIIIbis, documento 526, p. 301, tel. "riservatissimo per lei solo" n. 2341 in arrivo, Baratieri a Blanc, 19 dicembre 1895. ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651; tel. riservatissimo per lei solo Baratieri a Crispi 25 dicembre 1895 (e da Crispi trasmesso a Mocenni). Oreste Baratieri "Les anglais au Sudan et la guerre d'Abyssinie". Revue des deux Mondes, 15 gennaio 1899, p. 39. 173
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avrebbe dovuto essere munito di artiglieria e reso adatto ad ospitare una guarnigione numerosa. Era previsto che per adempiere a tali compiti si sarebbero usati due battaglioni indigeni con sei cannoni, oltre agli artiglieri, al personale sanitario ed a genieri. Era un programma attento e dettagliato, ma che certamente avrebbe richiesto molto tempo per la sua attuazione; tempo che certamente mancava, essendo stato formulato il 1° febbraio 1896, appena un mese prima della battaglia di Adua. Era sicuramente più realistica la proposta del capitano Antonio Cecchi fatta in un rapporto a Crispi e Blanc, da collocarsi nella primavera del 1895. In quel tempo Menelich non aveva iniziato la guerra, ma apparivano già chiari i suoi propositi offensivi; Cecchi suggeriva di attaccare l'Etiopia dal sud, profittando della antica ostilità dei sultani di Olbia e di Abula contro gli scioani, autori di tante razzie nell‟Ogaden: le tribù - prevedeva Cecchi - sarebbero insorte in massa per vendicare le violenze subite. Olbia poteva essere una buona base operativa per l'Italia, che non disponeva di porti nel Golfo di Aden. Occorreva finanziare i due sultani e sarebbero bastati 3 mila talleri d'argento di Maria Teresa. Ai 5-6 mila uomini che potevano mettere in campo i sultani di Olbia e Abula poteva unirsi, a parere di Cecchi, qualche migliaio di somali al comando di un ufficiale italiano: ma il progetto rimase nel dimenticatoio.175 Pienamente convinto della necessità di una spedizione nell‟Harrar si mostrava comunque Edoardo Scarfoglio, che in una lettera al "Mattino" (4-5 febbraio 1896, p.1 “ Gli avvenimenti d'Africa. La questione dell‟Harrar”) affermava perentoriamente: "…. senza l'occupazione dell‟Harrar sono parimenti impossibili una guerra e una pace risolutiva immediata: occorre inviare subito una colonna da Assab a Gildessa: sarebbe troppo tardi attendere anche 15 giorni". Questi piani di guerra erano approntati nel pieno della emozione suscitata nell'opinione pubblica e nella classe politica italiana dalla tragedia dell‟Amba Alagi, appresa con sgomento ed ispirando nei più l‟ansiosa volontà di rivincita. Sentimento questo non condiviso però da tutti. Su "Il Secolo. Gazzetta di Milano" del 10-11 dicembre 1895 (p. 1 “Cassandra”, articolo siglato m., cioè Moneta, il pacifista premio Nobel per la pace, nel 1890 direttore del giornale) possiamo infatti trovare un totale rifiuto di ulteriori imprese belliche. Quanti anelavano ad una rivincita - osservava Moneta - non si erano chiesti perché l'Italia fosse andata in Africa. All‟Amba Alagi c'era stata una sconfitta, ma, anche se non ci fosse stata, una nemesi storica avrebbe causato una punizione per una 175
ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 107, fascicolo 674. Copia della relazione del capitano Cecchi a Crispi e Blanc. Oggetto "Azione dei Sultanati di Olbia e Abula contro gli Amhara", data da collocarsi nella primavera 1895 poichè nella relazione è citato un telegramma del 3 marzo 1895
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impresa coloniale ingiusta ed azzardata. Scriveva Moneta: "Noi siamo andati in Africa quando nessuno lì ci chiama, quando tutti gli interessi politici, morali, economici dovevano tenercene assolutamente lontani. Vi siamo andati per soddisfare a un sentimento malsano di orgoglio nazionale, e per rialzare, mettendoci in guerra contro deboli e sparpagliate tribù, la causa del militarismo, che lo spirito democratico e positivista del tempo tendeva ad eliminare. Si è andati in Africa col pretesto di portarvi la civiltà, ma presto ci sono stati casi di corruzione e violenza, come quelli delle fucilazioni disposte da Livraghi. Se questa è la civiltà, allora è meglio che l'Africa resti ancora nel suo stato attuale, fin quando l'Europa, costituita in federazione, andrà in Africa non per spirito di rapina o per cercarvi, come detto cinicamente da Crispi, l'occasione di una guerra europea, ma veramente con scopi di civiltà”. La guerra in Africa aveva portato a sperperare più di 300 milioni e causato molti lutti. Il giornale tornava sull'argomento il giorno successivo (12-13 dicembre 1895, p. 1 “Duemila morti", articolo non firmato) facendo una lugubre descrizione del campo di battaglia, su cui giacevano "cadaveri mutilati e putrefatti sotto il sole, sui quali gli uccelli di rapina contendono alle iene il pasto delle membra insepolte". E nello stesso numero de "Il Secolo" (p. 1 "Agli africanisti") era pubblicato pure l'invito agli africanisti di smetterla di parlare dell'onore italiano compromesso dall'Amba Alagi; non si poteva perdere l'onore "per un combattimento in terra lontana", l'Italia lo perdeva "invadendo senza ragione un suolo non suo, abusando della inferiorità degli abitanti che l'occupano, mancando ad impegni solennemente assunti". Ma era una minoranza a pensarla in quel modo: la maggioranza spingeva per una decisa iniziativa militare che vendicasse i morti dell'Amba Alagi: al confronto appariva ragionevole Antonelli che dalla lontana Argentina il 12 dicembre consigliava a Crispi di non scatenare offensiva nel Tigrè, di limitarsi alla difensiva all'Asmara ed a Cassala, abbandonando Adigrat. Per contro riteneva utile una spedizione nell'Harrar.175bis Ma la minoranza parlamentare era estremamente combattiva e rese difficile la vita a Crispi, anche se questi alla fine si impose con una forte maggioranza. Già nella seconda tornata del 16 dicembre 1895, all'inizio del dibattito, fu contestata la richiesta del governo di 20 milioni, per la guerra in Africa.
175bis
ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651. Antonelli a Crispi, tel. cifrato riservato al solo Crispi - Buenos Aires 12 dicembre 1895. 176 a Atti Parlamentari - Camera dei Deputati - Legislatura XIX, 1 sessione. Discussioni.
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Cavallotti eccepì che 20 milioni richiesti dal governo erano una cifra irrisoria: solo per le operazioni iniziali ne occorrevano 54 e quindi il governo voleva mantenere la Camera all'oscuro delle reali necessità. Sferzante l'intervento di Andrea Costa: l'impresa africana era contraria al principio di nazionalità che aveva portato all'indipendenza ed all'unità d'Italia. Si sosteneva quella guerra in nome dell'onore della patria e Costa chiedeva con irrisione e con evidente riferimento al recente scandalo della Banca romana: "Ma quale patria? La patria delle banche, dei loschi interessi, la patria che sfugge alle questioni morali?". Aggiungeva poi che i denari per la guerra "li pagano quei poveri diavoli che vivono nei campi, nelle officine e nelle miniere per mantenere voi e il bello italo Regno". I 20 milioni richiesti non giovavano soltanto ad appagare la megalomania di un singolo, ma a mantenere una classe che aveva ormai esaurita la sua funzione storica. Anche il rappresentante liberale, il marchese Antonio di San Giuliano, si unì al coro delle critiche, rinfacciando al ministro degli esteri, Blanc, di avere il 28 novembre, pochi giorni prima dell‟Amba Alagi, minimizzato il pericolo imminente, sostenendo che pochi capi tigrini rimasti fedeli a Mangascià erano dei semplici fuorusciti privi di influenza, più dannosi che utili al negus poiché con le loro rivalità creavano problemi. Crispi replicò esortando i deputati a seguire l'esempio dei municipi e delle popolazioni da cui aveva ricevuto molti telegrammi di solidarietà. Era una forma di populismo sovversivo, facendosi appello alla piazza contro il Parlamento; erano ancora ben lontane le "radiose giornate di maggio" del 1915, quando le pressioni dei nazionalisti imposero l'entrata in guerra dell'Italia contro la volontà di una maggioranza parlamentare formata da socialisti, cattolici, liberali giolittiani: ma la via era tracciata. Nel seguito della discussione (seconda tornata del 18 dicembre 1895) ci fu ancora una convergenza di Imbriani, elemento di spicco dell‟Estrema Sinistra con il marchese di Rudinì, autorevole esponente liberale: entrambi giudicarono insufficiente la richiesta di 20 milioni e l‟invio di 6 mila uomini in Africa, come chiedeva Baratieri. Rudinì faceva risalire alla conquista di Cassala tutte le complicazioni successive: era stato un errore militare con gravi conseguenze politiche, aver suscitato la rivolta di Batha Agos; era stato opportuno soffocarla, ma – si chiedeva Rudinì – se poi si fosse operato con prudenza: era stata una provocazione occupare Adua e Axum, le città sante care agli abissini. Cavallotti poi insistè sul lato economico: il governo chiedeva troppo o troppo poco; troppo se veramente ci si voleva limitare alla difesa della colonia, come chiedeva il paese; troppo poco per realizzare gli inconfessati propositi espansionistici. Nella seduta conclusiva (seconda tornata del 19 dicembre) tennero i loro interventi Ferdinando Martini e Prinetti; il primo con l'abituale arguta
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ironia condannò l'occupazione di Adua e Axum : era come prendere la Mecca ai maomettani o Aquisgrana a Carlo Magno; il secondo chiese al Parlamento di precisare se voleva una politica di espansione o una puramente difensiva. Crispi nel
suo discorso insistè a negare ogni sua
responsabilità: era ingiusto accusarlo di megalomania e addossargli tutte le colpe: la conquista dell'Eritrea l'avevano iniziata altri, prima del suo avvento al potere. Prendeva poi le distanze da Baratieri: "Il generale Baratieri, mio compagno ed amico, non è governatore per me" asseriva; l'aveva nominato Rudinì e lui si era limitato a confermare la nomina e le istruzioni dategli in precedenza. Non erano dovute a lui la rivolta di Batha Agos e l'offensiva di Mangascià. Menelich aveva consentito l'espansione italiana in cambio del sostegno datogli contro il negus Giovanni e per farlo ascendere al trono imperiale. Il trattato di Uccialli era stato ispirato dalla volontà di impedire la tratta degli schiavi, seguendo le deliberazioni del congresso di Bruxelles, il governo aveva soddisfatto le richieste di rinforzi esposte da Baratieri, convocato a Roma. Crispi faceva poi una velenosa citazione storica: il 12 maggio 1873 la Convenzione francese non aveva posto in stato di accusa Carnot, il politico autore della vittoria, ma i militari colpevoli di non aver fatto le richieste necessarie per vincere: era un attacco frontale a Baratieri, non più una semplice presa di distanza. Non aveva spinto Baratieri a conquistare il Tigrè: sarebbe stato folle farlo; in ogni caso si era occupato il Tigrè solo a scopi difensivi e toccava ora al generale decidere quali misure prendere per conservarlo. Riscuotendo molte approvazioni Crispi concludeva proponendo "il giusto mezzo. Né viltà né imprudenza. Le viltà disonorano i governi, rovinano gli Stati; le imprudenze li perdono”. Crispi fece un ulteriore intervento dopo l'approvazione della Camera alla concessione dei 20 milioni richiesti dal governo, affermando: "Sento il bisogno di protestare contro qualunque supposizione che io abbia nel mio discorso inteso mancare di affetto e di fiducia al generale Baratieri. Il mio continuo carteggio con lui è conferma di questo affetto e di questa fiducia". A questa smaccata dichiarazione, contraria ad ogni evidenza, Crispi fece seguire la lettura del telegramma del 9 dicembre che ribadiva la fiducia del governo nel generale e nel suo esercito, malgrado il grave rovescio subito. La più efficace risposta a Crispi la diede Salvatore Barzilai, ricordando che Carnot, evocato dallo stesso Crispi, aveva difeso i generali suoi collaboratori e Crispi invece aveva apertamente sconfessato Baratieri. Barzilai presentò un ordine del governo, sottoscritto anche da Imbriani, di totale disapprovazione della politica del governo, cui era negato pure di prendere i provvedimenti d'urgenza necessari per la sicurezza, da lasciare ad altri ministri "politicamente impregiudicati". Ma alla fine prevalse largamente Crispi; ritirati l'ordine del giorno Barzilai-Imbriani e molti altri di varia provenienza, fu posto in votazione nominale per parti separate l'ordine del giorno Torrigiani-
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Garibaldi. La prima parte accordava la fiducia al governo ed era così concepita: "La Camera, confidando che il governo saprà tenere alto il prestigio delle nostre armi, ristabilire la pace nei possedimenti africani e provvedere alla sicurezza per l'avvenire…." fu approvata con 255 sì, 48 no e otto astenuti (presenti e votanti 411, maggioranza 206). La seconda parte dell'ordine del giorno recitava: "… la Camera riaffermandosi contraria ad una politica di espansione, prende atto delle dichiarazioni del governo e passa alla discussione dell'articolo unico della legge" ed ebbe 301 voti favorevoli, 36 contrari con 3 astenuti (votanti 340, maggioranza 171). Prima del voto finale sul disegno di legge, Imbriani dichiarò con beffarda amarezza: "Ormai vi siete presi i denari, e buona notte. Ma faccio notare che noi siamo mondi del sangue che si versa in questa guerra stolta ed ingiusta". Sedati i "rumori vivissimi" destati da quella dichiarazione e ricordati nel verbale, si passò con votazione segreta all'approvazione dell'articolo unico per lo stanziamento di 20 milioni, passato con larga maggioranza: su 273 presenti votanti la maggioranza necessaria era di 137 voti ; risultarono favorevoli 237, contrari 36 e nessuno si astenne. Si concluse così la discussione con una vittoria di Crispi, destinata però a durare pochissimo.176 L'Amba Alagi determinò una svolta radicale nel comportamento politico di Crispi: fino ad allora l'Africa era stata un diversivo per distrarre una opinione pubblica interna, ostile a Crispi, con successi in politica estera. Diversivo cercato da Crispi anche su altri fronti, offrendo all'Inghilterra la collaborazione di una squadra navale italiana nel Mediterraneo Orientale per affrontare insieme l'annosa ed intricata questione d'Oriente: Londra rifiutò altezzosamente quella offerta e quindi solo in Africa poteva esser risollevato il prestigio italiano. Per contro questo era stato compromesso dalla sconfitta subita: occorreva quindi una rivincita che ne segnasse il riscatto. A tale fine Mocenni, con telegramma del 9 dicembre 1895, nel confermare a Baratieri la fiducia del governo, assicurava l'invio di rinforzi grazie ad una maggiore disponibilità finanziaria, ponendo fine alla precedente politica della lesina sempre opposta alle richieste del generale. 177 Ed il 12 dicembre Mocenni comunicava a Baratieri l'invio di rinforzi e l'arrivo del colonnello Valenzano, destinato ad assumere la carica di capo di Stato Maggiore, come richiesto dallo stesso Ma la disponibilità di Mocenni era soltanto un'apparenza: già l'11 dicembre, infatti, il Ministro comunicava a Crispi di avere preso contatto con il generale Baldissera, di cui vantava la grande esperienza africana, per sostituire Baratieri. Baratieri. Seguì il 14 dicembre la richiesta del 176
Atti Parlamentari Camera dei Deputati Legislatura XIX, 1° sessione. Discussioni a 2 tornata 16 dicembre 1895, p. 3215, p. 3216, p. 3221, p. 3227. a 2 tornata 18 dicembre 1895, pp. 3335-3352. a 2 tornata 19 dicembre 1895, pp. 3215, p. 3385-3421. 177 Libro Verde XXIII, doc. 74, p. 53 - tel. di Mocenni a Baratieri, 9 dicembre 1895.
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gradimento di Baratieri perché il colonnello Albertone fosse destinato in Eritrea: Baratieri definì subito "graditissimo" Albertone.178 Con una lettera del 23 dicembre a Crispi, Mocenni criticava poi apertamente Baratieri, cui rimproverava la riluttanza a chiedere rinforzi, accettandoli "più imposti che desiderati". "Quest‟uomo - scriveva il Ministro - non mi ispira più fiducia e mi pare che egli non abbia più fiducia in se stesso. Se si aggiunge che egli colto, energico e coraggioso è di carattere leggero, vi ha di che rimanere perplessi". Erano in molti ormai a non avere più fiducia in Baratieri e a volerne la sostituzione. Mocenni chiese a Crispi l'autorizzazione per farlo, prefigurando anche il modo come organizzare il viaggio in Eritrea del generale designato a sostituire Baratieri: da Trieste, porto austriaco, sarebbe partito per Alessandria d'Egitto e Aden da dove una nave militare italiana l'avrebbe condotto a Massaua. Non si faceva il nome di Baldissera, anche se era ormai chiaro che si puntava su di lui; con analoga prudente discrezione Mocenni parlava in seguito di una "nota personalità" da lui incontrata in una località vicina a Siena: la "nota personalità si era detta disposta a sostituire Baratieri, anche se gli spiaceva farlo; consigliava di agire con discrezione", conoscendo il carattere di Baratieri c'era da temere una sua reazione incontrollata, compiendo "qualche atto precipitoso e meno corretto". Secondo Baldissera, contro Menelich conveniva agire sul piano diplomatico più che su quello militare: prevedeva che Menelich si sarebbe ritirato senza affrontare gli italiani, come aveva fatto il negus Giovanni. La "nota persona" si metteva comunque a disposizione del governo e ne attendeva gli ordini. Crispi trovava saggia la raccomandazione di Baldissera perché si agisse con prudenza e da Napoli diede questa disposizione: "nulla si faccia per ora".179 Al tempo stesso Crispi cominciava a fare la voce grossa con Baratieri, telegrafandogli il 17 dicembre in tono minaccioso: "Il momento è critico per te e per noi. Ti abbiamo mandato e mandiamo più di quanto hai domandato. Se per insufficienza di mezzi o per impreviggenza avvengono disgrazie, la colpa non sarà nostra". Si iniziava così una nuova polemica tra Crispi e Baratieri: con ragionevolezza il generale replicò a quell'avvertimento asserendo di aver limitato la richiesta di rinforzi perché sarebbe stato difficile poterli mantenere senza rifornimenti adeguati. Accettava comunque di buon grado l'annunciato
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 103, fascicolo 651. Tel. di Mocenni a Baratieri 12 e 14 dicembre 1895; tel. di Baratieri a Mocenni, 15 dicembre 1895. 179 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 105, fascicolo 655. Lettere di Mocenni a Crispi 11 e 23 dicembre 1895; tel. di Mocenni a Crispi, Siena 25 dicembre 1895; tel. di Crispi a Mocenni, Napoli 25 dicembre 1895.
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invio di 14 battaglioni e di 5 batterie da montagna," ma provvisti di tutto, ma con corrispondenti approvvigionamenti".180 Rimase però un pio desiderio di Baratieri poter disporre di reparti ben organizzati ed equipaggiati: le truppe inviate in Africa erano formate da elementi di varia provenienza, prelevati qua e là, privi di affiatamento e spesso scelti fra i peggiori, essendo ben lieti i comandi di sbarazzarsene. Era inesistente lo spirito di corpo e gli ufficiali non conoscevano i loro soldati, che in molti casi avevano precedenti penali. Felter ebbe un'impressione penosa di quei battaglioni, giudicandoli "organismi composti da un mosaico, destinato a sgretolarsi al più leggero urto". Questa negativa impressione trovava conferma nella sua constatazione dei freddi rapporti tra gli ufficiali di una stessa compagnia, che stonavano maledettamente con l'affiatamento e il buon umore che regnavano nelle mense dei battaglioni indigeni. I reparti erano stati formati con elementi di varie unità, "nell'illusione che i comandanti dessero ciò che avevano di meglio, e non si liberassero invece dell'elemento più turbolento". Inoltre, come affermato dal generale Caruso nei suoi "Ricordi d'Africa", molti degli ufficiali venuti dall'Italia non conoscevano le necessità dei muli arrivati con loro e abituati ad una dieta a base d'orzo; pensarono bene di abolire quel vitto e mandarono i muli a pascolare assieme a quelli locali: in poco tempo gli animali si ridussero a scheletri. Solo gli alpini formavano un reparto affiatato e gli ufficiali conoscevano bene i loro uomini. Era ancora più drastico il giudizio negativo espresso in un appunto anonimo destinato a Crispi in data 20 febbraio 1896: "Qui sono arrivati non battaglioni di rinforzo, ma greggi di uomini mal equipaggiati, male armati. Un vero disinganno". Si ricordava come una vergogna che per evitare il saccheggio dei magazzini del forte di Adigrat ad opera dei nuovi arrivati dall'Italia, la sorveglianza fosse stata affidata a sentinelle indigene.181 Era questo il materiale umano: ma pur non essendo quei militari dei cavalieri senza macchia e senza paura, non mancarono, nella maggior parte dei casi, di far bravamente il loro dovere combattendo strenuamente ad Adua, forse anche perché sorretti dalla forza della disperazione: basti ricordare il comportamento degli artiglieri siciliani, descritti con ammirazione da Luigi Mercatelli (lettera su "La Tribuna" del 30 marzo 1896). 180
ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 103, fascicolo 651. Tel. cifrato urgente di Crispi a Baratieri, 17 dicembre 1895; tel. di Baratieri a Crispi, 18 dicembre 1895. 181 Pietro Felter "Le vicende affricane 1895-1896" Guido Vannini editore Brescia 1935; p. 70, pp. 75-76. Generale Cosimo Caruso "Ricordi d'Africa" 1889-1896". Estratto dalla Rivista Politica, Roma 1939, p. 121. ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 155, fascicolo 1725., documento n. 21 bis "Appunti sull'Africa per S.E. il Presidente del Consiglio, 20 febbraio 1896".
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Rimase però irrisolto il problema dello scadente equipaggiamento: mancavano i caschi necessari sotto il cocente sole africano e si cercò di rimediare acquistando in Egitto fondi di magazzino. Un vero calvario per i soldati la mancanza di calzature adeguate, per cui molti furono costretti a camminare scalzi o con scarpe che erano uno strumento di tortura. In qualche caso si trovarono in difficoltà anche gli ufficiali: nella battaglia di Agordat del 21 dicembre 1893 contro i Dervisci il tenente Masotto aveva le scarpe sfondate e, come attesta il generale Caruso nei suoi ricordi, non potendo camminare su pietre e spine, dovette essere portato via di peso dai suoi ascari. Lo stesso Caruso ricorda un episodio che sarebbe umoristico se non attestasse una tragica impreparazione: Caruso si trovava a Keren con la sua batteria e Baratieri, giunto in quella località volle passare in rassegna gli artiglieri. Ma questi erano scalzi e nei magazzini non vi erano né uniformi né scarpe per evitare uno spettacolo indecoroso. Caruso escogitò questo sotterfugio: ricavò da vecchie scarpe le tomaie facendole legare ai piedi dei soldati: la pianta dei loro piedi sostituiva la suola mancante. Baratieri si accorse che qualcosa non andava e chiede spiegazioni: seppur confuso, Caruso non poté tacere la verità. Baratieri sorrise e telegrafò al comando di Massaua perché provvedesse. Passarono due mesi prima che le scarpe arrivassero a Keren: la gioia dei soldati durò poco, poiché le scarpe, vecchie di decenni, avevano le cuciture marcite e le suole presto si staccarono: in capo ad un mese le scarpe erano inservibili. Non era quello delle scarpe un problema nuovo. Nel 1890 il generale Orero eseguì una spedizione al Mareb e si dolse per la lentezza della marcia. Il colonnello Airaghi gli spiegò che quella lentezza non era dovuta al caldo soffocante, ma alle scarpe "le quali si scucivano per logoramento del cuoio e dello spago, e questo per la cattiva qualità del materiale, per il cattivo funzionamento e soprattutto per il deperimento dovuto al lungo tempo in cui le scarpe erano rimaste giacenti nei magazzini d'Italia".182 "L'Africa Italiana. Gazzetta di Massaua" descriveva ben diversamente i rinforzi in arrivo dall'Italia, scrivendo che Baratieri aveva voluto "assistere allo sfilamento delle marziali colonne… Tutti ammiravano la resistenza, la celerità, la spigliatezza nella marcia dei nostri soldati, ancora più ammirevoli perché carichi di coperta, mantellina, tenda, scarpe di ricambio, tascapane con le cartucce, borraccia e gavetta… Bellissime le batterie da montagna, le forme atletiche degli artiglieri fecero prorompere gli indigeni in esclamazioni di meraviglia". (n. 314, 12 gennaio 1896, p. 1 “Dal campo. L‟arrivo dei rinforzi. Adigrat 10 gennaio 1896").
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Generale Caruso, op. cit. p. 75 e p. 37. Baldassarre Orero "Ricordi d'Africa" Roma, Forzani e C. tipografi del Senato, 1901. (estratto da "Nuova Antologia" 1° e 16 febbraio 1901) - p- 18.
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Oltre al problema del lacunoso e difettoso equipaggiamento (anche se “L‟Africa Italiana” parlava di scarpe di ricambio, mentre spesso i militari non disponevano neanche di un paio di calzature), esistevano gravi difficoltà per i rifornimenti di viveri. Felter poté constatare che nei magazzini del forte di Adigrat c'era abbondanza di Vermouth, Fernet Branca, vino del Chianti, tortellini: scarseggiavano invece pasta e farina, oltre che le munizioni; si poteva spiegare quella situazione col fatto che le carovane scaricavano ad Adigrat i prodotti non di prima necessità e portavano gli altri generi alimentari ad Alequà. Il generale Caruso lamentò la scarsezza di viveri durante l'occupazione di Adua, dove però non mancava il "Barlettone", vino pugliese ad alta gradazione alcolica.183 Poco informato o incurante di queste irrazionalità logistiche, Crispi continuava imperterrito a tempestare Baratieri con proposte di inviare maggiori rinforzi senza badare alle capacità degli uomini ed alla fornitura di mezzi sufficienti al loro mantenimento. Col telegramma del 17 dicembre, già ricordato, Crispi aveva rinfacciato a Baratieri di aver inviato più di quanto richiesto ed aveva tuonato che eventuali rovesci dovuti all'imprevidenza del generale ed alla sua riluttanza a chiedere rinforzi sarebbero stati da addebitare alla sua responsabilità. Senza attendere troppo, col telegramma del giorno successivo, 18 dicembre 1895, Crispi ancora rivolgeva a Baratieri questa brusca e perentoria intimazione: "Spiegati subito, ci va dell'onor tuo e dell'onore d'Italia. Pare che nella mente tua ci sia confusione ed incertezza: è tempo di provvedere".184 Baratieri cercava di difendersi da quelle accuse e da quei rimbrotti, affermando con telegramma del 19 dicembre. "….. nella mente mia situazione chiara, confidenza grande tenere alto il nome Italia". Confermava poi la richiesta già avanzata a Mocenni: alla prima richiesta di nove battaglioni e tre batterie univa quella di altri 5 battaglioni e 2 batterie. Questo telegramma di Baratieri del giorno 19 si incrociò con quello inviatogli da Crispi in pari data: oltre ad insistere e pressare il generale gli chiedeva se avesse bisogno di ulteriori rinforzi. Crispi, vestiti i panni dell'agnello, assicurava di non aspirare a nuove conquiste portando la guerra nel cuore dell'Etiopia: voleva solo respingere l'attacco nemico per difendere la colonia.185 Ma non si erano ancora esaurite le pressioni di Crispi su Baratieri: il 7 gennaio tirava ancora in ballo l'onore da difendere, rivolgendo al generale questo minaccioso monito che ricalcava quello del 18 dicembre: " Bada a quel che fai. Ci va dell'onor tuo e della dignità dell'Italia nostra". L'accusa rivolta a Baratieri era quella ormai solita di non chiedere rinforzi adeguati per una offensiva vittoriosa. 183
Felter op. cit. p. 68, Caruso op. cit. p. 87. ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 103, fascicolo 651. Tel. cifrato di Crispi a Baratieri, 18 dicembre 1895. 185 Ibidem, tel. di Baratieri a Crispi, 19 dicembre 1895; tel di Crispi a Baratieri, 19 dicembre 1895. 184
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Ed il generale replicava facendo presente che bisognava considerare la difficoltà di assicurare alle truppe i necessari rifornimenti, dovendoli far pervenire attraverso "aspri sentieri": a Mocenni telegrafava che un maggior numero di uomini anziché essere utile avrebbe creato maggiori problemi. Baratieri replicava che con le forze a sua disposizione in quel momento sarebbe stata una follia attaccare: lo avrebbe fatto dopo l'arrivo dei rinforzi annunciati, da cui si proponeva di trarre "massimo profitto non avendo altro pensiero che l'onore e decoro patriottico".186 Il nervosismo e l'impazienza di Crispi possono spiegarsi, oltre che con la rabbiosa ansia di rivincita, anche con il fatto che c'era il serio rischio di una nuova strage successiva a quella dell'Amba Alagi. Ancora una volta Arimondi aveva creato una situazione pericolosa: dopo il combattimento dell'Amba Alagi, anziché evacuare il forte di Macallè facendo ritirare tutte le truppe come disposto da Baratieri, aveva preferito mantenervi un presidio costituito dal battaglione del maggiore Galliano. La difesa era malsicura perché i rifornimenti d'acqua erano garantiti da una fonte esterna al forte stesso, per cui sarebbe bastato che gli abissini impedissero l'accesso alla fonte per costringere Galliano alla resa. Arimondi aveva fatto quella scelta perché riteneva che il forte di Macallè sarebbe stata come una spina nel fianco di Makonnen e Menelich, ritardando la loro avanzata, ed avrebbe potuto costituire un'utile base per una successiva controffensiva italiana, senza tener conto del fatto che un migliaio di uomini sarebbero stati un ostacolo insignificante di fronte all'immenso esercito etiopico. Makonnen non volle però sferrare subito un attacco contro Macallè; voleva evitare un nuovo spargimento di sangue cristiano, che avrebbe certo fatto fallire le trattative di pace da lui intavolate. Si diceva dispiaciuto per il triste episodio dell'Amba Alagi; l'attacco abissino si era svolto non per sua volontà; gli era sfuggita di mano la situazione dopo che il fitaurari Gabriechè si era lanciato all'attacco senza attendere un suo ordine perché c'era stata una scaramuccia tra i suoi uomini ed alcuni ascari che si erano trovati tutti insieme ad abbeverare nello stesso momento gli animali: da ricordare che gli onori funebri resi a Toselli erano una prova del suo sincero proposito di porre fine alla guerra. Per intavolare le trattative Makonnen pose la condizione che da parte italiana fosse Pietro Felter a condurle: Felter era un amico di Makonnen e nella sua qualità di agente della società Bienenfeld aveva fatto avere al ras un notevole prestito: si disse pure che a Makonnen fu promesso il condono del debito per facilitare le trattative di pace.
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Ibidem, tel di Crispi a Baratieri, 7 gennaio 1896; tel. di Baratieri a Mocenni, 8 gennaio 1896; tel. cifrato di Baratieri a Crispi, 8 gennaio 1896.
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Dopo i primi attacchi sferrati contro il forte di Macallè, che avevano causato perdite notevoli alle truppe abissine, Makonnen aveva desistito da ulteriori attacchi; si preferì, sembra per consiglio della regina Taitù, costringere alla resa gli italiani tagliando loro i rifornimenti d'acqua dalla fonte esterna alla fortezza.Baratieri non voleva sembrare troppo ansioso di concludere la pace: e consigliò al ministro Blanc di prendere tempo prima di inviare Felter a Macallè per trattare con Makonnen.187 Ma a ritardare quella missione, che avrebbe potuto essere decisiva per porre fine alla guerra, oltre alla tattica temporeggiatrice di Baratieri, contribuì anche Cesare Nerazzini, agente italiano a Zeila, facendo arrivare in ritardo a Felter la notizia della richiesta di Makonnen di avere in lui l'interlocutore per le trattative di pace: Nerazzini fu pertanto successivamente l'oggetto di aspre polemiche. Blanc lasciò a Baratieri la decisione sul comportamento da tenere con Makonnen; il ras si era spazientito per le lungaggini italiane e aveva minacciato di desistere dai suoi tentativi per convincere gli altri ras ad accettare la pace: anzi si diceva pronto a versare egli stesso il suo sangue per Menelich. Dichiarazioni che spinsero ancora più Baratieri a diffidare della sincerità di Makonnen nel proporre le trattative: telegrafò pertanto a Blanc che a suo giudizio il ras voleva "giocare doppia partita". Comunque, seppur di malavoglia perché la giudicava inutile, Baratieri consentiva la missione di Felter, riteneva che il suo compito sarebbe stato facilitato dalla notizia dell'arrivo di rinforzi dall'Italia, che avrebbe intimorito gli abissini ammorbidendo la loro posizione. Crispi e Blanc si dissero d'accordo per tale operazione.188 Con Makonnen si seguì la politica del bastone e della carota; mentre si disponeva alfine l'invio di Felter presso il ras, Primo Levi, responsabile dell'ufficio coloniale del Ministero degli Esteri, consigliava a Crispi di informare il ras che era in corso la preparazione di una spedizione nell‟Harrar, dominio di Makonnen, partendo da Zeila dove le truppe italiane sarebbero sbarcate, con il consenso inglese: consenso, come abbiamo visto, però sfumato presto. Blanc comunicò a Baratieri di dichiarare al ras che solo per un riguardo nei suoi confronti non si era ancora realizzata quella spedizione: ma se si fosse mostrato ostile, ci sarebbe stato l'attacco italiano nell‟Harrar. A Makonnen doveva essere rivolto questo duro avvertimento: "Pensi momento decisivo per il suo avvenire. Scelga tra Italia potente e Menelich morituro".189
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Ibidem, tel. di Baratieri a Blanc, 26 dicembre 1895. Ibidem, telegramma riservatissimo di Blanc a Baratieri, 28 dicembre 1895; tel di Baratieri a Blanc, 28 dicembre 1895; tel. cifrato riservatissimo per lei solo di Baratieri a Blanc, 30 dicembre 1895; tel riservatissimo n. 255R di Crispi e Blanc a Baratieri, 31 dicembre 1895. 189 Ibidem, tel. di Primo Levi a Crispi, 4 gennaio 1896; tel riservatissimo per lei solo di Blanc a Baratieri, 4 gennaio 1896. 188
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Questi alti e bassi nelle trattative avevano compromesso la possibilità di concludere un trattato di pace: restava inoltre da risolvere il problema del forte di Macallè, di cui appariva ormai segnato il destino. La guarnizione, privata dell'acqua, era ridotta allo stremo, tanto che Galliano pensava di emulare Pietro Micca facendo saltare il forte con tutti i suoi difensori. Galliano ha lasciato un diario dell'assedio, sotto forma di una lunga lettera all'amico maggiore Rayneri, cui il 2 gennaio 1896 scriveva di essere stufo di vivere "come un merlo in gabbia". Le lungaggini nelle trattative di pace, di cui aveva avuto notizia, riteneva dipendessero dall'interesse di entrambe le parti a ritardare una loro conclusione: Makonnen voleva dare Menelich il tempo per arrivare, gli italiani volevano trarre profitto dal ritardo perché giungessero i rinforzi dall'Italia. Il suo battaglione nel pomeriggio del 7 dicembre 1895 aveva assicurato la ritirata dei superstiti dell'Amba Alagi; i suoi soldati cominciarono "a sgonfiarsi ", ma era riuscito a rianimarli. Il 4 gennaio 1896 Galliano annotava l'ultimatum di Makonnen per la resa del forte: il ras si sentiva più sicuro essendo arrivato l'esercito di Menelich; sperava Galliano che Baratieri attaccasse il nemico alle spalle, per cui "il signor Menelich sarà fregato appena giunto". Si sarebbe così vendicato Toselli e lui sarebbe divenuto "un mezzo grand'uomo a buon mercato". Si mostrava però pessimista sulla possibilità di ottenere riconoscimenti, a causa dell'invidia che già lo aveva privato della Croce di Savoia per la sua partecipazione al combattimento di Coatit. Galliano ricordava poi gli attacchi abissini nei giorni successivi: l'11 gennaio c'era stato un tentativo di scalare le mura del forte, ma i nemici erano stati respinti ed avevano subito gravi perdite; avrebbe fatto una sortita se avesse avuto due compagnie di più. Sognava l'arrivo di Baratieri: "se domani spuntasse l'avanguardia del corpo di spedizione sarebbe una vittoria sicura ed una ritirata precipitosa per Menelich, che difficilmente arriverà allo Scioa. Se il governo tarda, io non so come andrà a finire". Appariva ancora più sfiduciato Galliano il 20 gennaio: da 13 giorni non poteva rifornirsi d'acqua, perché gli abissini avevano occupato la fonte; si chiedeva angosciato: "chissà quale fatalità impedisce a Baratieri di soccorrermi, è questione di ore, poi il sacrificio". E concludeva: "Io muoio sereno pensando a voi, all'Italia ed augurandomi che questa bandiera che ho ammirato superba sventolare per tanto tempo sul mio capo fidando in essa, e che ho strenuamente difeso, non abbia ad arrossire agli errori di chi ci ha sacrificati. Viva l'Italia". Il patriottismo non impediva a Galliano di manifestare il suo risentimento contro chi l'aveva sacrificato assieme ai suoi uomini; era ancora più polemica la lettera del maggiore Rayneri, in data 25 marzo 1896, allegata al diario di Galliano. Rayneri aveva combattuto nella brigata Dabormida ad Adua ed inveiva contro Baratieri perché nel suo telegramma al Ministero del 3 marzo 1896 aveva accusato i soldati di non essersi battuti: “ vile, vile, vigliacchissimo" era l'epiteto scagliato contro
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Baratieri da Rayneri, che concludeva con l'augurio di una futura strategia migliore di quella impiegata ad Adua, dove "ci portarono asinescamente al macello".190 Ma almeno dell'avventata decisione di mantenere un presidio nel forte di Macallè non era stato responsabile Baratieri. Il generale Caruso nei suoi ricordi riferisce che dopo la sconfitta dell'Amba Alagi c'erano stati pareri contrastanti sulla opportunità di conservare il forte di Macallè. Baratieri aveva disposto un ritiro totale, volendo concentrare tutte le truppe ad Adigrat. I maggiori Cossu e D‟Ameglio avevano concordato con quella decisione, mentre Galliano invece aveva insistito per restare a presidio del forte. Cedendo a quelle insistenze, e disobbedendo ancora una volta a Baratieri, Arimondi aveva accolto la richiesta di Galliano. Caruso giudicava errata la decisione di Arimondi: sarebbe stato più vantaggioso attestarsi con tutte le forze a disposizione ad Adigrat, dato che quel forte era più vicino a Massaua e più facile da rifornire; invece Macallè rimase isolata, tagliata fuori da ogni contatto con le truppe di Baratieri.191 Il provvidenziale anche se tardivo arrivo di Felter presso Makonnen a Macallè evitò il sacrificio di Galliano, almeno per il momento. Il ras infatti convinse Menelich ad acconsentire la pacifica evacuazione del forte e la ritirata indisturbata della guarnigione italiana, a cui fu pure permesso di portare con sé le armi. Il forte fu evacuato il 21 gennaio 1896 e sorsero molti interrogativi sulle ragioni che avevano spinto Menelich ad un accordo che sembrava superfluo e contrario ai suoi interessi, dal momento che ormai era inevitabile la capitolazione. In una lettera al re Umberto del 24 gennaio fatta pervenire a Baratieri tramite Felter il negus asserì di aver accettato l'accordo per spirito cristiano e sollecitò l'invio di un delegato italiano per trattare la pace.192 La decisione di Menelich era dipesa soprattutto dal suo desiderio di concludere la pace a prescindere dal sentimento religioso, motivazione propria della mentalità abissina, citata pure da Makonnen nelle sue profferte di pace. Al desiderio di pace di Menelich credeva Baratieri, che il 24 gennaio telegrafava a Blanc e Mocenni “ nemici sperano ora pace non potendo altrimenti spiegare condiscendenza Menelich essendo tutti convinti caduta forte”.193 Lo sgombero del forte si svolse non senza difficoltà: i capi tigrini erano molto malcontenti per l'accordo accettato da Menelich, alcuni spiegavano la condotta del negus con una supposta 190
Archivio Storico Esercito Stato Maggiore, busta 55 L7, fascicolo 3. Lettera-diario di Galliano al maggiore Rayneri con allegata la lettera di quest'ultimo in data 25 marzo 1896. 191 Generale C. Caruso, op. cit., pp. 105-106. 192 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 103, fascicolo 651. Tel. cifrato di Baratieri a Mocenni - Mai Meghetti, 26 gennaio 1896; trasmesso da Massaua il 26 gennaio 1896, ore 4,50 p.m. 193 Ibidem, tel. di Baratieri a Blanc e Mocenni - Adaga Hamus 24 gennaio 1896, trasmesso da Massaua il 24 gennaio 1896, ore 9,45 sera.
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promessa italiana di sgomberare l‟Agamè; il battaglione Galliano marciava circondato dalle truppe di Makonnen per difenderlo da eventuali attacchi degli uomini degli altri capi "esasperati lunga resistenza e spiacenti condizioni accordate". Il battaglione procedeva formando un quadrato, con gli ufficiali, i feriti e le armi al centro. Era corsa la voce che i soldati di Galliano sarebbero stati lasciati liberi solo a guerra finita.194 Crispi diffidava delle intenzioni del negus e telegrafava Baratieri il 28 gennaio 1896: "In tutta la condotta del nemico io vedo una insidia. Esso avanza senza combattere né essere combattuto verso il territorio da noi occupato. Sii vigilante mettendo il nostro esercito in posizione da poter attaccare e da poter rispondere all'attacco".195 Indubbiamente la presenza del battaglione Galliano in marcia incolonnato con le forze etiopiche era uno scudo per Menelich che poteva avanzare indisturbato, come Crispi aveva notato con preoccupazione: preoccupato si mostrava pure Baratieri temendo che il negus volesse trattenere prigioniero Galliano: a tale eventualità reagiva veemente Crispi, che nella bozza di un telegramma poi annullato scriveva a Baratieri: "Il nemico ci vuol fare pagare cara la liberazione di Galliano e dei suoi soldati. Bisogna prevenire gli ulteriori suoi provvedimenti e romanamente rispondere"; quale dovesse essere tale risposta Crispi lasciava libero Baratieri di deciderlo, poiché, trovandosi sul posto, poteva meglio vedere cosa occorresse fare. Delle preoccupazioni di Crispi si rendeva interprete Mocenni telegrafando a Baratieri il 29 gennaio che facendosi scudo della battaglione Galliano, il negus poteva occupare "buone posizioni, che diversamente non avrebbe occupato senza contrasti". Senza troppo preoccuparsi della sorte di Galliano e dei suoi uomini, il ministro aggiungeva che "la presenza di quel battaglione in mezzo agli scioani non deve trattenere da quelle operazioni che la sua avvedutezza suggerisca”.196 E Baratieri si affrettava a rassicurare il ministro cui telegrafava il 30 gennaio: "Presenza battaglione Galliano non mi trattenne nè mi trattiene operare". Non aveva attaccato perchè in attesa "occasione favorevole impegnare azione definitiva". Non durarono ancora a lungo le preoccupazioni per quella marcia congiunta del battaglione Galliano e dell'esercito di Menelich; il 30 gennaio infatti Baratieri, al telegramma del mattino a Mocenni che assicurava non avrebbe impedito la sua azione, per la presenza del battaglione Galliano in seno all'esercito etiopico, faceva seguire nel pomeriggio un altro telegramma a Blanc 194
Ibidem, tel. di Baratieri a Blanc e Mocenni - Adaga Hamus 25 gennaio 1896, trasmesso da Massaua il 25 gennaio 1896, ore 9,30 sera; tel. cifrato e riservato di Baratieri a Mocenni, 27 gennaio 1896. 195 Ibidem, tel. cifrato di Crispi a Baratieri, 28 gennaio 1896. 196 Ibidem, bozza di telegramma di Crispi a Baratieri, 29 gennaio 1896, annullato; tel. cifrato di Mocenni a Baratieri, 29 gennaio 1896.
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per comunicare il felice arrivo ad Adagamus del battaglione Galliano, accompagnato da un sottocapo di Makonnen, per congiungersi alle forze italiane. Non si era verificato il timore che Menelich trattenesse in ostaggio Galliano, ma Menelich volle però come garanzia trattenere 10 ufficiali italiani: da parte italiana si consegnarono 9 ufficiali e un sottoufficiale.197 Era un sotterfugio, ma la pretesa abissina di trattenere ostaggi era arbitraria, perchè non prevista dagi accordi: Del Boca riporta il fatto senza commenti negativi per il comportamento di Menelich.198 Gli ostaggi italiani furono comunque presto rilasciati.199 La spietata decisione di Mocenni, timidamente accettata da Baratieri, di sacrificare il battaglione Galliano, attaccando l'esercito etiopico senza preoccuparsi della sua sorte, non mancò di suscitare l'approvazione di un generale che in una intervista a "Il Mattino" dichiarò che Baratieri avrebbe fatto malissimo a preoccuparsi della salvezza del battaglione Galliano, compromettendo l'esito della guerra. "Il sacrificio della colonna Galliano - ammetteva il generale rimasto anonimo - riuscirebbe senza dubbio impopolare in Italia, ma la guerra ha le sue terribili e inesorabili necessità" ("Il Mattino", 30-31 gennaio 1896; p. 1 "La colonna Galliano baluardo dell'esercito del negus. Intervista con un generale"). Lo stesso giornale in precedenza aveva pubblicato notizie ottimistiche sulla sorte di Macallè, asserendo che il colonnello Albertone aveva rotto l'accerchiamento degli scioani attorno al forte e che circolavano voci insistenti della sua liberazione; si era in ansiosa attesa di una conferma ufficiale:ma invece della conferma arrivò presto la smentita ("Il Mattino", 15-16 gennaio 1896, p. 1 "Ultim'ora. Macallè libera"; 17-18 gennaio 1896, p.1 "La liberazione di Macallè"; 19-20 gennaio 1896, p. 1 "La situazione gravissima di Macallè"). La notizia dell'arrivo di Galliano e dei suoi soldati, incolumi, ad Adagamus, suscitò entusiasmo in Italia, quasi che si fosse trattato di una vittoria e non di una resa; "Il Mattino", con un realismo subentrato alle ottimistiche notizie date in precedenza sulla presunta liberazione di Macallè, pubblicò invece un articolo di Edoardo Scarfoglio (26 gennaio 1896 "La capitolazione") che sosteneva essere la capitolazione del forte più grave sul piano morale dell'Amba Alagi: gli abissini avevano dimostrato capacità militari, anche se era stato confermato il valore degli italiani. Ma prima che avvenisse il disastro di Adua, il giornale tornò a dare resoconti improntati ad un roseo ottimismo, come nel caso dell'articolo pubblicato sul numero del 16-17 febbraio 1896, ispirato dalla lettera del tenente Carlo Amore di Catania ad un suo zio in data 19 gennaio da Ada-Gamus (p. 1 197
Ibidem, tel. Cifrato di Baratieri a Mocenni, 30 gennaio 1896, ore 10.45; tel. Di Baratieri a Blanc, 30 gennaio, ore 18.00; trasmesso da Massaua 30 gennaio 1896, ore 9 di sera. 198 Angelo Del Boca "Gli Italiani in Africa Orientale". Laterza, Roma - Bari 1976, volume 1°, pp. 630-631. 199 ACS Roma. Carte Crispi - Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651, tel di Baratieri a Blanc, 30 gennaio 1896.
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"Come vivono al campo: una bicchierata"). Nel momento in cui i soldati italiani dovevano fare i conti con gravi ristrettezze alimentari, l'ufficiale scriveva: "Ogni compagnia ha la sua mensa e si mangia meglio che non costì. Ad esempio, stamattina a colazione ho avuto minestra di riso in brodo, carne in umido, rognone, frutta, formaggio, caffè, cognac e poi sigari italiani; insomma non ci manca niente, perchè nei magazzini della colonia troviamo tutto il desiderabile". Invenzione giornalistica ai fini di una rassicurante propaganda, o il sogno di un affamato, analogo a quelli di Charlie Chaplin ne "La febbre del'oro"?. Ma sull'accordo col Negus per l'evacuazione di Macallè non mancarono voci di intese sotterranee col negus, cui il re Umberto avrebbe pagato due milioni di lire in cambio della libertà della guarnigione: lo denunciò Maffeo Pantaleoni. La notizia fu smentita non soltanto da Felter, ma anche dall'ingegnere svizzero Ilg, consigliere di Menelich, in una intervista concessa al corrispondente del "Giornale d'Italia". La marcia del battaglione Galliano verso Ada Agamus fu turbata solo dai gesti di intemperanza di Galliano nei confronti degli abissini, riportati da Felter;200 secondo una tradizione abissina, in segno di rispetto verso un capo, le truppe dovevano seguirlo mantenendo una distanza di una cinquantina di metri; la scorta abissina di Galliano era rimasta ad una distanza maggiore ed allora un gregario del fitaurari Dessalagui, capo della scorta, fermò la mula dell'ufficiale italiano perchè gli abissini potessero accorciare la distanza. Felter spiegò a Galliano che quel gesto voleva esser rispettoso, ma il maggiore protestò vivacemente con Dessalagui, che, per dargli soddisfazione, fece frustare il suo incolpevole uomo. Lo stesso Felter ricorda che una delle tante versioni sulla morte di Galliano, ucciso ad Adua, attribuiva la sua fine alla vendetta dell'uomo da lui fatto ingiustamente frustare. In un'altra occasione - come riferito ancora da Felter - Galliano si fece giustizia da sé, frustando egli stesso alcuni abissini perché avevano tagliato l'erba di un prato, non sapendo che proprio lì gli italiani volevano accamparsi.201 Galliano divenne un eroe, ammirato anche fuori dall'Italia: fu promosso tenente colonnello ed il re incaricò Baratieri di comunicargli anche che aveva assistito con ammirazione alla sua "eroica condotta" e che si rallegrava per il suo "felice e glorioso ritorno" tra le truppe italiane d'Africa. Altro lusinghiero riconoscimento pervenne a Galliano dal kaiser, che telegrafò al re Umberto di aver decorato l'ufficiale italiano con la croce di seconda classe dell'ordine della Corona scrivendo: "Galliano a su joindre des nouveaux lauriers à ceux cueillis par Baratieri, et c‟est une vive satisfaction que mon armèe et moi nous éprouvons en contemplant la bravoure des officiens et des soldats de nos alliés. Ils sont dignes d' être rangés à coté des anciens soldats Romains!”. 200 201
Pietro Felter "Le vicende affricane 1896-96". Guido Vannini editore, Brescia 1935, pp. 42-43. Felter, op. cit. pp. 55-56.
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Il console d'Italia a Tunisi, Carletti, esprimeva a Blanc a nome della comunità italiana locale, "viva esultanza per l'arrivo campo italiano eroico presidio Macallè”. Tessevano le lodi di Galliano anche il giornale francese "Temps” (Parigi, 17 gennaio 1896, mentre era ancora in corso la resistenza di Macallè) e quello del lontano Brasile "Paiz” (Rio de Janeiro 27 gennaio 1896). In Germania anche Bismark faceva voti augurali per il successo della politica di Crispi e per la gloria dell'esercito italiano. Pur in mezzo a tante preoccupazioni Crispi non aveva trascurato di fare omaggio di generosi vini siciliani al cancelliere di ferro, che così lo ringraziava: "Très touchè cher ami de ce que Vous ne m‟oubliez pas au milieu de vos graves occupations, je Vous remercie cordialement de l‟aimable envoi de votre vin execellent et Vous prie d‟agréer mes meilleurs voeux pour le succès de votre politique et pour la glorie de l‟armée italienne”.202 Dalla tragica esperienza dell'Amba Alagi il governo italiano non sembrava però aver tratto alcun insegnamento: continuava difatti a proporre a Menelich condizioni di pace inaccettabili, così esposte da Blanc a Baratieri il 18 gennaio 1896. Il ministro partiva da una premessa fuori dalla realtà: era possibile dividere l'Etiopia tra vari ras, tutti sottomessi all'Italia, ed indicava poi questi punti: 1) L'intero Tigrè, fino al lago Ascianghi ed al fiume Tecarrà, doveva essere un dominio italiano. 2) Il resto dell'Etiopia, compreso l‟Harrar, doveva divenire un protettorato italiano. 3) Le relazioni internazionali etiopiche dovevano essere affidate alla diplomazia italiana; il residente generale italiano in Addis Abeba avrebbe mantenuto i contatti con gli ambasciatori delle varie Potenze. 4) Il governo italiano avrebbe fissato i limiti delle forze militari del negus e dei ras. 5) I rapporti commerciali del negus e dei ras con l'estero erano soggetti al consenso italiano. 6) L'Italia avrebbe mantenuto in Etiopia una scorta armata a difesa del suo residente generale. 7) Le dogane erano sottoposte al controllo italiano. 8) Dovevano essere espulsi dall‟Etiopia i cittadini stranieri sgraditi al governo italiano. 9) La nomina dei ras era soggetta all'approvazione italiana. 10) I cittadini italiani residenti in Etiopia dipendevano dalla giurisdizione del residente italiano. 11) La richiesta di prestiti da parte del negus e dei ras doveva avere l'approvazione italiana. 12) La zecca italiana aveva il monopolio del conio di monete etiopiche. 202
ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 105, fascicolo 659 - tel. senza data del re a Baratieri; tel. del kaiser al re Umberto, 23 gennaio 1896 ("Galliano ha saputo unire nuovi allori a quelli raccolti da Baratieri; ed il mio esercito ed io stesso proviamo una viva soddisfazione nel contemplare il coraggio degli ufficiali e dei soldati dei nostri alleati. Essi son degni d'esser posti a fianco degli antichi soldati Romani"). Busta 144, fascicolo 1116, tel. di Bismarck a Crispi, 22 febbraio 1896.
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13) Il governo italiano non riconosceva precedenti impegni e debiti contratti dal negus e dai ras. 14) Gli italiani potevano acquistare proprietà immobiliari in Etiopia. 15) L'Etiopia era tenuta a concorrere alla difesa della colonia Eritrea. 16) Per assicurare lo sviluppo civile ed economico dell'Etiopia sarebbero stati affidati all'Italia i servizi pubblici (strade, telegrafo, scuola, attività commerciali ed industriali). 17) Le controversie tra il negus ed i ras dovevano essere regolate dal governo italiano. 18) L'Italia garantiva la successione sul trono dell'Etiopia ai discendenti del negus.203 Erano condizioni assurde nella loro incredibile esosità: non si sarebbero potute proporre neanche se l'Italia avesse riportato una grande vittoria, anziché una cocente sconfitta. Al paragone il trattato di Uccialli, compreso il famoso articolo 17, era un modello di prudenza e moderazione politica; impossibile arrivare alla pace partendo da quelle richieste. Per contro Felter nel corso delle trattative per l'evacuazione di Macallè largheggiava in promesse e concessioni; si era persino asserito che avesse promesso la cessione di Massaua per dare all'Etiopia il tanto agognato sbocco al mare. Si dovettero rendere conto a Roma di avere esagerato nelle richieste: le pretese esposte da Blanc nel dispaccio a Baratieri del 18 gennaio 1896 erano difatti almeno in parte ridimensionate l'8 febbraio successivo, quando il ministro autorizzava Baratieri a trattare con Menelich ponendo come condizioni irrinunciabili il possesso definitivo dei territori occupati nell'agosto 1895 lungo la linea Adigrat-Adua e la conferma del trattato di Uccialli, oltreché l'occupazione temporanea di Macallè e dell'Amba Alagi. Dopo lunga discussione anche i ministri Saracco e Sonnino, da sempre contrari all'impresa africana, avevano aderito a quella linea negoziale e quindi c'era stata l'approvazione unanime del Consiglio dei Ministri.204 Era piuttosto rara una simile unanimità, poiché le posizioni contrarie alle iniziative coloniali si erano venute rafforzando nel paese e trovavano un riflesso anche all'interno del governo. Al tempo della spedizione San Marzano, nel 1887, esistevano già focolai di opposizione, ma si era trattato di fenomeni marginali. Il questore di Roma, Serrao, segnalava il 22 agosto 1887 al governo che soltanto 25 persone avevano partecipato alla riunione organizzata contro la guerra d'Africa dal circolo della gioventù operaia, dotata di "mezzi meschinissimi"; il prefetto di Torino, Lovere, il 24 aprile 1889 faceva una segnalazione analoga, prevedendo che soltanto pochi avrebbero aderito alla
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Libro Verde n. 23, doc. 202 - dispaccio di Blanc a Baratieri, 18 gennaio 1896. ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo - busta 107, fascicolo 674. Dispaccio di Crispi a Baratieri, 8 febbraio 1896. 204
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manifestazione anticolonialista organizzata per il giorno 28 dalle società democratiche, poiché esse avevano un seguito molto ridotto. L'esiguità delle forze antiafricaniste non aveva comunque impedito una loro manifestazione davanti a Montecitorio: il prefetto di Roma, Gravina, comunicava al Ministro dell'interno il 24 maggio 1887 che a seguito dei disordini causati da quella manifestazione c'erano state sei condanne a 15 mesi per gli atti di ribellione compiuti, mentre quattro erano state le assoluzioni.205 Ben diversa la situazione all'inizio del 1896, destinata poi ad aggravarsi dopo Adua; all'opposizione antiafricanista animata dai socialisti e dalla cosiddetta "Estrema" aderivano ormai anche elementi moderati: le proteste erano accresciute anche per il malcontento suscitato dalla decisione di Crispi di prolungare la chiusura natalizia della Camera per evitare imbarazzanti dibattiti nel Parlamento. Il 12 febbraio 1896 un corrispondente romano del "Corriere della Sera" segnalava al giornale il rinvio alla settimana successiva di una riunione dei senatori moderati indetta per discutere appunto della lunga vacanza del Parlamento; il 15 febbraio da Milano un giornalista comunicava al "Popolo di Roma" la rinuncia dei deputati moderati ad un appello al re per protestare contro la chiusura della Camera, in quanto si era saputo che ne era stata fissata la riapertura per il 5 marzo 1896. Rudinì sosteneva le proteste dei moderati; il 22 febbraio il prefetto di Milano, Winspeare, telegrafava a Crispi la bocciatura da parte dell'associazione costituzionale di un ordine del giorno che auspicava il ritorno del tricolore sull'Amba Alagi; era stato invece approvato l'ordine del giorno del consiglio direttivo contrario al proseguimento della guerra.206 Più decisa si mostrava l'opposizione di sinistra, divenuta molto più agguerrita rispetto alla fine degli anni „80; anche in Parlamento era ormai possibile un'azione più incisiva, essendo divenuti più numerosi i deputati socialisti, la cui azione era seguita attentamente dalla stampa francese. Nella stessa giornata del 6 febbraio 1896 i corrispondenti romani del giornale parigino "Temps” e della agenzia Havas segnalavano a Parigi la riunione dei deputati socialisti tenutasi a Montecitorio per protestare contro la chiusura della Camera e la politica africana del governo. La corrispondenza dell'agenzia Havas comunicava pure l'intenzione dei socialisti di mobilitare l'opinione pubblica organizzando nel paese manifestazioni di protesta. Il questore di Roma, Sironi, il 10 febbraio informava il Ministro dell'Interno sulle mosse dei socialisti. 205
Ibidem, busta 57, fascicolo 360, sottofascicolo I. Tel. n. 10961, Serrao, questore di Roma, a Ministro interno - 22 agosto 1887. Tel. cifrato n. 5182, Lovere, prefetto di Torino, a Ministro Interno, 24 aprile 1889. Tel. n. 4340, Gravina, prefetto di Roma, a Ministro Interno, 24 maggio 1887. 206 Ibidem, busta 104, fascicolo 652, sottofascicolo I. Tel. di un redattore al "Corriere della Sera", Roma 12 febbraio 1896. Tel. di un redattore al "Popolo di Roma", Milano 15 febbraio 1896. Tel. cifrato del prefetto di Milano, Winspeare, a Crispi - 22 febbraio 1896.
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Nel corso di una riunione socialista l'avvocato Bonavita aveva sostenuto che Crispi aveva voluto la guerra in Africa per compiacere i militari e distrarre l'attenzione dalla repressione da lui voluta in Sicilia contro proletari inermi, gravati dal peso dell'impegno economico dovuto alla guerra ancor più della borghesia. Anche i soldati erano dei proletari e quindi occorreva svolgere anche nell'esercito una attiva propaganda contro la guerra. Il professor Antonio Labriola aveva affermato che la guerra rafforzava la monarchia e che era giunto il momento di agire, non limitandosi più a votare documenti di protesta, come facevano i democratici borghesi. L'avvocato Lollini si era spinto sino ad augurarsi "una solenne sconfitta" italiana, poiché una vittoria avrebbe rafforzato gli africanisti. Prevedeva che anche dopo la sconfitta il governo avrebbe chiesto fondi per continuare quella "rovinosa spedizione"; era dovere dei socialisti opporsi a tale richiesta e chiedere "il ritiro puro e semplice delle truppe". Bonavita aveva replicato a Lollini di non farsi illusioni: le richieste di nuovi stanziamenti da parte del governo sarebbero state accolte da una maggioranza parlamentare compiacente in grado di respingere gli sforzi dei proletari. A quella riunione presero parte anche alcuni operai, come il tipografo Luigi Pacini, reduce da una disavventura: era stato costretto a fuggire avendo corso il rischio di essere bastonato per avere in una osteria auspicato una sconfitta italiana. 207 Non meno attiva dei socialisti nel contrastare la politica di Crispi si mostrava l‟Estrema Sinistra, organizzando una manifestazione di protesta per il 30 gennaio 1896, cui avrebbero partecipato tutti i suoi deputati, secondo quanto telegrafava al "Secolo" di Milano il corrispondente da Roma. Il deputato di Trapani, Pipitone, in partenza per Roma, era stato accompagnato alla stazione ferroviaria da una folla di oltre 300 persone, secondo quanto comunicava in data 28 gennaio il prefetto di Trapani, De Rosa; prima di partire Pipitone aveva arringato i presenti comunicando di recarsi a Roma per porre fine alla chiusura della Camera, voluta da Crispi per evitare discussioni sul suo operato. Nella riunione del 30 gennaio dell'Estrema - comunicava al "Caffaro” di Genova il corrispondente da Roma - era stato votato un ordine del giorno che definiva uno sfregio al Parlamento aver deciso, violando lo Statuto, una guerra disastrosa condannata dalla coscienza popolare. Si era pure tirata in ballo la responsabilità del re, che avrebbe dovuto far rispettare lo Statuto ed opporsi alla chiusura della Camera.208 207
Ibidem, busta 104, fascicolo 652, sottofascicolo I. Tel. del corrispondente a Roma al "Temps", 6 febbraio 1896. Tel. del corrispondente a Roma all'agenzia Havas, 6 febbraio 1896. Tel. del questore di Roma, Sironi, al Ministero Interno, 10 febbraio 1896. 208 Ibidem, tel. del corrispondente romano al "Secolo" di Milano, 22 gennaio 1896.
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Il “Pungolo” di Napoli si interessò alla riunione dei deputati dell'Estrema, dando notizia del passo compiuto dai deputati Mussi, Verderami e Cavallotti, che avevano consegnato al segretario della camera l'ordine del giorno votato il 30 gennaio ed una lettera diretta al presidente della Camera, Villa. Il corrispondente dell'agenzia Havas telegrafava il 30 gennaio a Parigi un dettagliato resoconto della riunione dei deputati dell‟Estrema svoltasi in quella stessa giornata. Cavallotti aveva proposto di portare l'agitazione in tutto il paese, se non si fosse ristabilita la legalità riaprendo la Camera. Giampietro, poco fiducioso in un risveglio democratico del popolo, aveva invece suggerito un'azione meno impegnativa, limitandosi a chiedere la riapertura della Camera, senza indagare sulle responsabilità politiche e militari della guerra, che Imbriani voleva invece accertare con un ampio dibattito popolare: proponeva le dimissioni collettive di tutti i deputati, se si fossero dimostrate insufficienti le altre iniziative. Barzilai addebitava le responsabilità della guerra ad una autorità superiore al governo: era evidente l'allusione alla monarchia; Morza infine auspicava un'azione unitaria di tutta l'opposizione: ma i socialisti non avevano partecipato, benché invitati, a quella riunione dell'Estrema. L'ordine del giorno da essa votato il 30 gennaio trovò comunque il sostegno di deputati di altri gruppi dell'opposizione, come telegrafava il 2 febbraio a "Il Secolo" il corrispondente da Roma. A quelli che trovavano troppo blanda quella protesta, Cavallotti spiegò che si era voluto per il momento agire nell'ambito della legalità, facendo appello al rispetto dello Statuto; qualora ciò non fosse bastato, si sarebbe fatto ricorso a metodi più spinti. Il corrispondente de "Il Secolo" segnalava pure con due distinti telegrammi del 30 gennaio diretti al giornale l'allargarsi della protesta, cui partecipava anche Napoli, città per antica tradizione favorevole al colonialismo; c'erano state adesioni popolari alla protesta pure a Venezia.209 Ma Crispi si dimostrava preoccupato della fronda in seno al consiglio dei ministri più che delle manifestazioni popolari. Sonnino, ministro del Tesoro, ed ancor più Saracco, ministro dei Lavori Pubblici, gli rendevano infatti difficile la vita; l'opposizione di Sonnino dipendeva soprattutto da ragioni economiche, cui era particolarmente sensibile data la sua condizione di responsabile della spesa pubblica.
Tel. cifrato del prefetto di Trapani. De Rosa, al gabinetto Ministero Interni, 28 gennaio 1896. Tel. del corrispondente romano al "Caffaro" di Genova, 30 gennaio 1896. 209 Ibidem, tel. del corrispondente romano al "Pungolo" di Napoli, 31 gennaio 1896; tel. del corrispondente da Roma all'agenzia Havas di Parigi, 30 gennaio 1896; tel. del corrispondente romano a "Il Secolo" di Milano, 2 febbraio 1896; due telegrammi dello stesso a "Il Secolo" in data 30 gennaio 1896.
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Più complesse erano le ragioni della contrarietà di Saracco, che si opponeva per ragioni politiche e anche di prestigio personale. Il 30 dicembre 1895 Saracco lamentava con Mocenni, ministro della Guerra, che per l'Africa erano partiti 10 mila uomini, cioè più dei 6 mila chiesti da Baratieri; aveva inoltre appreso che si era disposta la partenza di altri 13 battaglioni. Stizzito Saracco ricordava a Mocenni che le decisioni comportavano la responsabilità dell'intero consiglio dei ministri, cui sarebbe spettato decidere; quelle prese andavano ben oltre il programma deciso dal Parlamento. Lo stesso giorno Mocenni gli rispose facendo presente che tutti i ministri, Saracco compreso, erano al corrente delle richieste di Baratieri, che il Consiglio dei Ministri aveva deciso di accettare il 19 dicembre, se il generale avesse confermato le sue necessità; tale conferma Baratieri l'aveva data con un telegramma a Crispi del 20 dicembre ed un successivo telegramma del 22 inviato a Mocenni stesso. In ossequio alla decisione presa il 19 dicembre all'unanimità dal Consiglio dei Ministri, si erano inviati rinforzi senza far violenza alla volontà degli altri ministri; Mocenni assicurava che si sarebbe agito sempre con il consenso di tutti e che era falso che fossero in partenza altri 13 battaglioni. Per cautelarsi contro possibili sorprese si erano mobilitati cinque battaglioni, senza però disporne la partenza.210 Le assicurazioni di Mocenni rabbonirono per il momento Saracco, ma si trattò di una breve tregua; difatti tornò presto polemizzare, facendo sue le proteste degli oppositori per il prolungarsi della chiusura della Camera e presentando a Crispi le sue dimissioni dal governo. Con lettera dell'11 febbraio 1896 Saracco faceva la cronistoria dei dibattiti sulla questione africana in seno al consiglio dei ministri; ricordava di avere a malincuore consentito all'invio di rinforzi chiesti da Baratieri perché gli era stato assicurato che non ci sarebbe stata la spedizione da Assab nell‟Harrar; la situazione esigeva la convocazione della Camera, cui spettava "pronunciare l'ultima parola intorno all'uso che il governo del Re" aveva fatto dei suoi poteri, e soprattutto fissare la linea politica per il futuro. Senza usare mezzi termini Saracco concludeva: "Questa è la mia opinione, ferma e decisa, a cui Ella, Signor Presidente, ha mostrato chiaramente di non partecipare e perciò sento il dovere di rassegnare avanti di V.E. le mie dimissioni dalla carica di Ministro…". Piccato per la critica, Crispi così rispose il 12 febbraio 1896: "Onorevole collega, non ebbi mai in mente di sottrarre gli atti nostri al giudizio del Parlamento e mi offenderebbe colui che, associandosi anche involontariamente ai miei nemici, mi imputerebbe codesto peccato. Dissi e sostengo che noi, nelle cose d'Africa, siamo nei termini del programma decretato dalla Camera il 19 dicembre 1895, e
210
ACS Roma, Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 651. Lettera di Saracco a Mocenni, 30 dicembre 1895; lettera di Mocenni a Saracco, 30 dicembre 1895.
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che a tempo debito daremo conto alla Rappresentanza Nazionale del modo come abbiamo eseguito il mandato che a noi venne affidato". Crispi ricordava poi che la sospensione dei lavori della Camera era stata decisa contro la sua volontà su proposta dell'onorevole Curioni fino al 20 gennaio 1896; il 12 gennaio quel termine era stato prorogato dal Consiglio dei Ministri con il parere favorevole dello stesso Saracco; si chiedeva Crispi perché Saracco non avesse chiesto la ripresa dei lavori parlamentari in occasione del recente Consiglio dei Ministri. Era antipatriottico alimentare dissidi in seno al governo, nel momento in cui era in corso una difficile guerra, cui Saracco non aveva mai chiesto di porre fine; facendo appello al suo patriottismo, Crispi invitava il ministro a non insistere nelle dimissioni e di non unirsi ai nemici che pretendevano l'immediata convocazione della Camera: se lo avesse fatto, Saracco in futuro avrebbe avuto di che pentirsi. Crispi non poté evitare di chiedere al Re la ripresa dei lavori parlamentari entro un paio di settimane; avutane notizia Saracco ritirò le dimissioni. Sembrava pertanto fosse tornato il sereno nei rapporti fra Crispi e Saracco, ma tra i due rimase una ruggine indelebile; in un suo appunto autografo, privo di data ma riconducibile a dopo la caduta del suo gabinetto avvenuta il 5 marzo 1896, Crispi commentava compiaciuto il fallimento del tentativo di Saracco di formare un governo.211 Ma non era solo Saracco a manifestare malcontento per la politica di Crispi; anche Sonnino ministro del Tesoro, minava la compattezza del governo proprio negli stessi giorni. Il 7 febbraio 1896 Sonnino scrisse a Crispi di ritenere indispensabile la convocazione del consiglio dei ministri perché ognuno si assumesse le proprie responsabilità e ci fosse un giudizio collettivo sulla guerra d'Africa e sui provvedimenti da prendere; sulla terza pagina di quella lettera Crispi appuntò la minuta della sua risposta, intesa ad assicurare che era stato già convocato per il giorno successivo, 8 febbraio, il Consiglio dei Ministri per una decisione presa ancor prima di aver ricevuto la richiesta di Sonnino.
211
Ibidem, busta 160, fascicolo 2004 - doc. n. 33 lettera di Saracco a Crispi, 11 febbraio 1896; doc. n. 53 lettera di Crispi a Saracco, 12 febbraio 1896; doc. n. 34 lettera di Saracco a Crispi, 12 febbraio 1896; busta 105, fascicolo 647, appunto autografo di Crispi, privo di data, ma riconducibile a dopo la caduta del suo governo (5 marzo 1896). Saracco era un politico di lungo corso, nel governo diretto da Depretis e poi dallo stesso Crispi, a seguito della morte del vecchio politico di Stradella, Saracco era già stato ministro dei Lavori Pubblici. Fu presidente del Senato e il 24 giugno 1900 subentrò a Pelloux nella presidenza del consiglio dei Ministri e mantenne tale incarico in un momento politico molto delicato, essendo stato re Umberto ucciso il 29 luglio dall'anarchico Bresci. Si mantenne fedele ai principi liberali anche in occasione dello sciopero generale del gennaio 1901 a Genova a causa del quale si dimise nel successivo febbraio. Fu ancora presidente del Senato dal 24 febbraio 1901 fino al 1904, quando per contrasti con Giolitti, presidente del Consiglio, lasciò la carica.
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I dubbi di Sonnino non si risolsero però a seguito delle discussioni avvenute in quel Consiglio dei Ministri del giorno 8 febbraio 1896 e quindi ci furono anche le sue dimissioni; presto ritirate per l'insistente appello di Crispi. Questi il 22 febbraio esprimeva a Sonnino il suo compiacimento perché il Consiglio dei Ministri tenutosi il 21 si era svolto con una calma ammirevole, dopo "gli ardori del giorno sette e la vivace discussione dell'otto". Assicurava di avere dimenticato i contrasti avuti, poiché Saracco e lo stesso Sonnino si erano "convertiti al partito della guerra", da condurre, a suo giudizio, diversamente dalla strategia di Baratieri, dato che non ci si poteva limitare alla difesa. Si diceva favorevole Crispi ad una spedizione nell‟Harrar attaccando dall‟Aussa o dalla Somalia (era la seconda ipotesi un riferimento alla proposta di Cecchi, che non veniva però nominato), poiché quella iniziativa italiana avrebbe spinto Menelich e Makonnen a ritirarsi dal Tigrè; si sarebbe così posto fine alla guerra e si sarebbe data all'Italia l'occasione di mostrarsi generosa col negus nelle trattative di pace restituendogli i territori occupati. Sonnino manifestò subito il suo dissenso dai progetti di Crispi, assicurando di essere stato sempre contrario alla guerra; nel Consiglio dei Ministri del 21 febbraio non aveva però voluto assumersi la responsabilità di negare i mezzi ritenuti necessari per la continuazione della guerra dal Ministro della Guerra e dal Capo di Stato Maggiore. Si diceva contrario alla spedizione nell‟Harrar perché avrebbe richiesto decine di migliaia di uomini ed una spesa di decine di milioni; inoltre si sarebbe dovuta affrontare l'ostilità francese, negata ma attiva. Giudicava opportuno il ritiro da Cassala, attestandosi lungo il confine esistente prima della vittoria di Coatit e Senafè; in via diplomatica, conclusa la guerra, si sarebbe potuto migliorare quel confine rendendolo più sicuro. Non era necessario insistere per il mantenimento del trattato di Uccialli: ad assicurare l'influenza italiana in Etiopia sarebbe bastato mantenere il possesso di Adua e di Axum (trascurava però Sonnino il fatto che era proprio quello il principale pomo di discordia). Il nemico aveva dimostrato di essere più forte e meglio organizzato di quanto si era creduto: non era quindi possibile proporsi di "andare a fondo", di "volerla finire una buona volta et similia”. Era un'illusione, poiché mancavano per la sua realizzazione i mezzi finanziari e le forze militari; inviare nell‟Harrar 6 mila o anche 10 mila uomini avrebbe significato "mandarli al macello" ed esporsi "ad una vera catastrofe militare, politica e finanziaria", restando indifesi in Europa oltre che in Africa. Conveniva pertanto limitarsi a difendere l'Eritrea, "riducendo e precisando meglio gli obiettivi fin qui avuti di mira".212 212
Ibidem, busta 61, fascicolo 2061. Documento n. 14 lettera di Sonnino a Crispi (con la minuta della risposta di Crispi), 7 febbraio 1896;
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Ma non si ebbe il tempo per realizzare quei saggi propositi, formulati pochi giorni prima di Adua, che fu la catastrofe temuta da Sonnino. Crispi aveva continuato sempre a martellare Baratieri con esortazioni ad agire più risolutamente e con accuse di eccessiva timidezza. Il 28 gennaio 1896 Crispi, ritenendo insidiosa la condotta del negus, metteva sull'avviso Baratieri rivolgendogli questo consiglio "... Sii vigilante mettendo il nostro esercito in posizione da poter attaccare e da poter rispondere all'attacco”.213 Ma in quel continuo stillicidio di esortazioni e rimproveri, propinati con insistenza da Crispi a Baratieri, la goccia che fece traboccare il vaso fu il telegramma di Crispi del 25 febbraio 1896. Consapevole forse di aver ecceduto con il tono provocatorio di quel telegramma, Crispi lo tenne segreto, tanto da non figurare nella raccolta dei documenti da lui predisposti d'intesa con i ministri Blanc e Mocenni per la pubblicazione, poi avvenuta a cura del suo successore Di Rudinì (libro verde XXIII, presentato alla camera il 27 aprile 1896); il telegramma fu pubblicato invece nel libro verde XXIII bis curato da Di Rudinì e dai ministri Caetani di Sermoneta e Ricotti, presentato alla Camera nella stessa data del 27 aprile 1896). Il primo a rendere noto il telegramma fu il giornalista e deputato Ferruccio Macola, al ritorno dall'Eritrea dove si era recato in qualità di corrispondente del "Corriere della Sera". Si rivolgeva così Crispi a Baratieri: “… codesta è una tisi militare, non una guerra: piccole scaramucce, nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinnanzi il nemico; scempio di eroismo senza successo. Non ho consigli da dare perché non son sul luogo, ma constato che la campagna è senza un preconcetto e vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l'onore dell'esercito ed il prestigio della monarchia". Era una staffilata in pieno volto quella data da Crispi a Baratieri: si cercò poi di sottilizzare affermando che c'era stato un errore nella trasmissione telegrafica, Crispi aveva parlato di "tesi" non di "tisi": ma il tono estremamente critico del telegramma non dipendeva da una singola parola, quanto piuttosto dal giudizio generale tanto negativo; era una diffida ed una aperta dichiarazione di sfiducia, non un semplice richiamo e indubbiamente poteva spingere Baratieri a prendere sconsideratamente la decisione di attaccare; si disse che Baratieri, saputo del prossimo arrivo di Baldissera per sostituirlo, spinto da un orgoglio eccessivo avesse deciso l'offensiva nel tentativo di ottenere una vittoria prima di essere privato del comando.
continua nota 212 doc. n. 25 lettera di Crispi a Sonnino, 22 febbraio 1896, ore 15; doc. n. 15 lettera di Sonnino a Crispi, 22 febbraio 1896. Ore 23. 213 Ibidem, busta 103, fascicolo 651 - telegramma cifrato di Crispi a Baratieri, 28 gennaio 1896.
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Non fu poi dimostrato che il generale fosse venuto a conoscenza della sua sostituzione prima della battaglia: si era favoleggiato di un'amica trentina che avrebbe inviato a Baratieri un telegramma in codice da Trieste per informarlo; ma la voce non trovò alcuna conferma. Il provvedimento del governo per sostituire Baratieri era comunque nell'aria: se ne parlava apertamente anche tra le truppe ed erano in molti ad augurarselo. Mercatelli, inviato de “La Tribuna” che seguiva le operazioni di guerra, scriveva al direttore del giornale, Luzzatto, da Adi Deca Ferka il 14 febbraio 1896: "Siamo in vista del campo scioano, però inattaccabile: che faremo? Non lo so e non lo sa nemmeno chi sta al sommo delle cose". Giudicava Baratieri "rimbambinito", oppresso dal peso delle sue responsabilità. “Ed intorno a lui, tot capita, tot sententiae!". A quella babele di opinioni doveva esser sostituita una guida solida e sicura e Mercatelli rivolgeva a Luzzatto questo invito: "Andate e dite che mandino un uomo coi coglioni” (sottolineato nel testo originale) e lo mandino in tempo, chiunque esso sia, altrimenti se ne pentiranno". Era perentoria la conclusione: "Se i rinforzi nuovi arriveranno in tempo e vi sarà un uomo" (sottolineato nel testo originale) "la situazione si può riprendere, se no, no!".214 Impietoso, ma rispondente a verità, il ritratto di un Baratieri "rimbambinito" fatto da Mercatelli: già da qualche tempo il generale stentava a controllare la situazione: nel gennaio 1895 aveva scritto all'amica Amalia Rossi di "non potere tenere testa a tutto"215, ed al capitano Bassi non era sfuggita la depressione in cui era caduto il generale; nella sua lettera del 10 novembre 1895 (pubblicata il 15 maggio 1896 da "Il Resto del Carlino") aveva scritto: "Baratieri è giù di salute e di intelligenza". Ancor più grave il quadro clinico di Baratieri tracciato sempre da Bassi alla vigilia di Adua, il 26 febbraio 1896: "Baratieri è ammalaticcio, e in preda ad un grave esaurimento nervoso, non dorme, non mangia, è un uomo fisicamente finito e se deve durare tutta la campagna ancora un mese, non ci resisterà. Che crollo, poveretto." (Pubblicato il 22 maggio 1896 su"Il Resto del Carlino"). Circolò addirittura la voce che Baratieri avesse meditato il suicidio per porre fine all'angoscia che lo opprimeva. Non si può certo far dipendere solo dalla cattiva salute del generale l'infelice giornata di Adua: poté comunque essere un fattore concomitante con tanti altri. Principale fra tutti il cattivo rapporto con i dipendenti che poco rispettavano la disciplina. Baratieri era autoritario più che autorevole e non riusciva ad imporsi.
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 103, fascicolo 662. Copia della lettera di Mercatelli a Luzzatto, Adi Deca Ferka 14 febbraio 1896. Lettera pubblicata su "La Tribuna" il 4 marzo 1896, p. 1 sotto il titolo "Tre giorni troppo tardi". 215 Archivio del Museo Centrale del Risorgimento, Roma, busta 77, fascicolo 56, lettera di Baratieri ad Amalia Rossi, 7 gennaio 1895.
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Non era riuscito a tenere a freno Arimondi, sostenitore di una condotta aggressiva, causa di conseguenze tragiche come l‟Amba Alagi. Anche gli altri generali scalpitavano perché non si restasse inerti di fronte a Menelich, che da Adua fronteggiava le posizioni italiane stabilite a Sauria. I due eserciti si erano a lungo mantenuti sulla difensiva ed erano ormai ridotti allo stremo per la penuria di viveri e logorati da una lunga attesa. Menelich aveva già pensato a ritirarsi, non riuscendo più a mantenere la massa umana che lo seguiva: oltre ai combattenti c'erano le loro famiglie, che secondo il costume etiopico seguivano la armata: si è calcolato che complessivamente si trattava di più di 200 mila persone: più che un esercito, era una migrazione di popolo. Il paese, impoverito dalla guerra e dalle numerose razzie, non offriva più risorse, i soldati, stanchi dalla prolungata assenza dalle loro case, anelavano farvi ritorno anche per accudire alla coltivazione dei campi da tempo abbandonati. Si prospettava quindi una conclusione analoga a quella del 1889, al tempo cioè della spedizione San Marzano, dopo Dogali, quando il negus Giovanni, venuto a dare man forte al ras tigrino Alula, senza arrivare ad uno scontro decisivo, si era ritirato perché doveva far fronte alla minaccia dei mahdisti. Era pure difficile la situazione di Baratieri: i rifornimenti erano insufficienti, nella sua ultima del 27 febbraio 1896 Bassi riferiva che, in mancanza di farina, agli ascari erano stati dati inutili talleri perché acquistassero qualcosa per integrare il loro scarso vitto a base di orzo abbrustolito, sottratto ai muli ("Il Resto del Carlino", 22 maggio 1896): quasi che su quei monti deserti esistessero mercati e negozi da cui fornirsi. Le condizioni dei rifornimenti non erano comunque per gli italiani gravi al punto da rendere necessaria una immediata ritirata o un attacco disperato. Proprio il 1° marzo, il giorno cioè della battaglia, era attesa una carovana guidata dal maggiore Mario Angelotti, formata da 700 muli, carichi di viveri, sufficienti per alcuni giorni ancora. Provviste che andarono perdute: nell'angoscia della sconfitta ci fu una fuga generale, con uno sciupio ed un saccheggio disordinato. Il capitano Di Giglio, nel suo rapporto del 20 aprile 1896 al vice governatore Lamberti, scriveva: "…. con mia viva sorpresa, nell'oscurità della notte, vidi sulla strada ed ai lati di essa, buttati a rifascio, casse di gallette e di scatolette di carne in conserva, sacchi di farina e di biada, casse da vestiario, cassette di ufficiali, registri, fogli di carta, ecc. ecc. Tutta questa roba dava gli indizi evidenti di essere già stata manomessa e trafugata". Il saccheggio era ancora in corso: Di Giglio scorse alcuni soldati intenti a frugare "tra gli avanzi incomposti dei sacchi e delle casse": li rincorse, prendendo alcuni a scudisciate e minacciandoli di morte se non avessero desistito dal saccheggio.
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Più comprensivo si dimostrava il tenente Allevi, scrivendo al vicegovernatore Lamberti nel rapporto dell'8 aprile 1896, che soldati della sua colonna "si rifornivano del necessario per mangiare, perché la buona parte avevano perduto tutto nel combattimento...". Ed il colonnello Stevani fin dall'11 marzo denunciava a Baldissera che i conducenti dei muli avevano gettato il carico per montarli e darsi più celermente alla fuga. Era un fatto grave, asseriva Stevani, che gli ufficiali fossero fuggiti per primi, anziché tentare di salvare i viveri. Lamberti smentì il racconto di Stevani, chiedendo a Baldissera che l'ufficiale precisasse i nomi dei responsabili. Con qualche ritardo, il 24 maggio 1896, Stevani inviò a Baldissera un secondo rapporto, affermando di non poter indicare nomi in quanto non era stato testimone diretto di quel saccheggio, di cui aveva avuto da altri notizia; a conferma allegava le relazioni del maggiore Cossu e dei capitani Paoletti e Zoli.216 Dalla descrizione di quello scempio si può arguire la quantità dei rifornimenti arrivati. La penuria di viveri non può quindi essere ritenuta il motivo determinante della decisione di attaccare presa da Baratieri a fine febbraio; aveva anzi dato l'ordine di ritirarsi, verso Adì Cajè, presto revocato il 24 febbraio. Si è discusso sul motivo di quella subitanea revoca: esiste forse un'altra spiegazione valida, se non si vuol tenere conto della irritazione che il telegramma di Crispi del 25 febbraio, quello che accusava Baratieri di "tisi militare", poteva aver prodotto nel generale, che peraltro smentì di essere stato spinto all‟offensiva dalle oltraggiose parole di Crispi, forse anche perché non voleva far credere di aver preso per ripicca quella fatale decisione. Uno studioso russo, J.J. Eler, sulla base di documenti e testimonianze abissini, ha sostenuto che nella notte fra il 23 ed il 24 febbraio Menelich, avendo appreso dal suo efficiente servizio di spionaggio che Baratieri voleva ritirarsi, inviò a Gundet 10 mila uomini al comando di ras Gabeju per tagliare agli italiani la strada della ritirata. Baratieri inviò allora contro Gabeju il quinto battaglione indigeni del maggiore Ameglio con le bande del Senè e pensò pure ad una massiccia dimostrazione offensiva verso Adua, condotta da 14 battaglioni, al fine di bloccare le forze abissine e potersi ritirare.
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Archivio Storico dello Stato Maggiore Esercito. Busta 51 D4 - Documenti su salmeria e retrovie. Rapporto capitano Di Giglio al vice governatore Lamberti, Massaua 20 aprile 1896, p. 356 verso, p. 357 retro; rapporto del tenente Allevi a Lamberti, Massaua 8 aprile 1896, p. 385; rapporto del col. Stevani a Baldissera, Asmara 11 marzo 1896, p.409; minuta di lettera, priva di data, di Lamberti a Baldissera, pp. 413-414; rapporto del col. Stevani a Baldissera, 24 maggio 1896, p. 415; annessi il rapporto del maggiore Cossu a Stevani, Cassala 20 aprile 1896, p. 416 ed il rapporto del capitano Paoletti a Stevani, Cassala 28 aprile 1896, pp. 417-418.
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Ma la “dimostrazione offensiva” si mutò in una vera e propria offensiva, perché Baratieri fu tratto in inganno da informatori che assicuravano essersi allontanati dal campo molti soldati abissini per fare razzie: il generale italiano contava pertanto di poter affrontare il nemico con forze pari. Secondo lo studioso russo, Baratieri convocò il consiglio dei generali "quasi per subire da questi una decisione piuttosto che imporla": e si arrivò così alla battaglia del 1° marzo.217 Secondo questa ricostruzione dei fatti, Baratieri quindi, revocò l'ordine di ritirarsi per una decisione motivata e meditata, non presa alla leggera per un impulso dovuto a volubilità di carattere, come gli fu poi rimproverato giudicando inspiegabile il suo comportamento. Baratieri convocò il consiglio dei generali per la sera del 28 febbraio, al fine di fare il punto della situazione e decidere il da farsi; presero parte alla riunione i generali comandanti delle quattro brigate (Albertone, Arimondi, Dabormida, Ellena) ed il colonnello Valenzano, capo di Stato Maggiore. Fino all'ultimo si erano condotte trattative di pace con Menelich, affidate al maggiore Salsa ed arenatesi sullo scoglio del trattato di Uccialli, di cui il negus voleva l'abrogazione contro l'opposta volontà italiana di confermarlo. Il quadro politico restava quindi negativo e la sua soluzione andava cercata sul campo di battaglia e non con trattative diplomatiche All'apertura della riunione dei generali Baratieri volle precisare che non si trattava di un consiglio di guerra che avrebbe comportato una responsabilità collettiva dei partecipanti; ma di un semplice scambio di idee: unico responsabile delle decisioni da prendere restava quindi solo lui. Le discussioni e le decisioni furono poi riferite in modo diverso dai partecipanti; la ricostruzione più convincente di quei momenti decisivi ci sembra quella fatta dal maggiore Salsa: pur non avendo preso parte direttamente a quella riunione, l'ufficiale era sempre ben informato di tutto quanto accadeva essendo il factotum di Baratieri. Nel suo rapporto al vicegovernatore Lamberti del 30 maggio 1896218 Salsa riferiva che Baratieri il 23 febbraio si accingeva a ritirarsi (Bassi aveva accolto la notizia con un sospiro di sollievo), ma la mattina del 27 comunicò al capo di Stato Maggiore Valenzano di voler restare a Sauria il più a lungo possibile, finché fossero durati i viveri per trarre profitto dalle difficoltà in cui Menelich sembrava trovarsi.
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Lo studio di Eler fu pubblicato sul numero 3 del marzo 1897 della rivista di San Pietroburgo Vaiennji Sbornich God Sorocovoj - tomo CCXXXIV, pp. 153-159. E.B. ne diede un'ampia recensione sulla "Rivista Militare Italiana", dispensa 35 del 1897, pp. 572-591, da cui si sono tratti i giudizi dell'autore russo qui riportati. 218 Archivio Storico dello Stato Maggiore Esercito, busta 52 D4, pp. 28-53. Rapporto del maggiore Salsa al vice governatore Lamberti su Adua, Massaua 30 maggio 1896.
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Contava di ritirarsi solo in un secondo tempo, concentrando le forze di cui già disponeva con i rinforzi in arrivo dall'Italia. Nella riunione svoltasi la sera del 28 febbraio, secondo quel che riferiva Salsa, tutti sostennero la necessità di un attacco. Una attenta analisi di quel consiglio è stata poi data da Roberto Battaglia nella sua opera "La prima guerra d'Africa", fondamentale per la ricchezza della documentazione e l'equilibrio dei giudizi. Baratieri propose l'alternativa: restare a Sauria o ritirarsi data la scarsezza dei viveri; era al corrente dell'imminente arrivo della carovana con i viveri sufficienti fino al 7 marzo; ma non c'era possibilità di successivi rifornimenti; sembrava quindi propendere per la ritirata. Insorse subito Albertone, affermando essere una follia, più che un errore, ritirarsi nel momento in cui si era raggiunto il massimo delle forze e dopo aver battuto il traditore ras Sebhat, l'ex alleato passato al nemico. Ritirandosi si sarebbe ammessa la propria sconfitta e si sarebbe data al negus la possibilità di rifornirsi In seguito Albertone smentì a Salsa di essersi pronunciato per l'offensiva, come avevano invece fatto gli altri tre generali: si era invece detto favorevole a restare a Sauria. Restava comunque confermata dalla smentita di Albertone che c'era stata una maggioranza propensa ad attaccare: Dabormida illustrò quali a suo parere sarebbero state le disastrose conseguenze di una ritirata e consigliò di profittare dell'occasione favorevole per un attacco che si sarebbe concluso con una facile vittoria, affermando nel suo dialetto piemontese che sarebbe bastato gettare quattro bombe per mettere in fuga il nemico. Arimondi non fu da meno, confermando la sua propensione ad una strategia audace ed aggressiva; affermò che l'esercito nemico, composto in gran parte da "scioani effemminati" non avrebbe retto l'attacco italiano: al pari di Dabormida riteneva esser giunta l'occasione favorevole. Ellena, infine, giunto di recente dall'Italia e che ben conosceva l'impazienza di Crispi per cogliere una vittoria vendicatrice dell‟Amba Alagi e rafforzare la sua posizione politica, si schierò con gli altri generali. Baratieri prese atto delle dichiarazioni dei generali, si concesse una pausa di riflessione, riservandosi di far conoscere in seguito le sue decisioni. Salsa ebbe l'impressione che Valenzano alla fine della riunione fosse poco convinto della possibilità di una vittoria; ma lo stesso Valenzano pose bruscamente fine al tentativo fatto da Salsa per spingerlo a convincere Baratieri a non attaccare, affermando che il parere favorevole ad un attacco dei comandanti di brigata non rendeva più possibile tornare indietro.
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Salsa comunque fece un tentativo con Baratieri perché rivedesse la sua posizione: il generale sembrò scosso dalle parole del suo più fidato collaboratore, ma non si convinse ad adottare una strategia più prudente. L'evidente disprezzo per gli abissini espresso da Arimondi e Dabormida e la loro supponenza per cui ritenevano sicura una facile vittoria corrispondeva alla mentalità di una casta militare boriosa, in buona parte proveniente dal vecchio Piemonte, che giudicava Garibaldi un avventuriero inaffidabile e mal sopportava Baratieri, considerato un “parvenu” che non aveva frequentato l'accademia e la scuola di guerra: poco importava che il più illustre rappresentante della tradizione militare prussiana, Moltke, avesse dimostrato per Baratieri tanta stima da volerlo incontrare in occasione di un suo viaggio a Milano. Quale considerazione pertanto potevano quei generali avere dei ras, giudicati barbari ignoranti: non provenivano da prestigiose accademie militari, non avevano studiato le campagne di Napoleone e di Moltke, non conoscevano neanche il nome di Clausewitz. Eppure quegli abissini, tanto disprezzati. per due volte, nel 1875 nel 1876, sotto la guida del negus Giovanni aveva respinto gli eserciti egiziani bene armati ed addestrati che da Massaua si erano spinti sull'altopiano. Non erano del tutto privi di capacità tattiche quei ras, anche se le applicavano schematicamente con le tradizionali manovre avvolgenti delle posizioni nemiche. I generali italiani ebbero il torto non solo di considerare con altezzoso disprezzo i combattenti abissini, ma anche di essere rimasti a lungo increduli circa il loro stragrande numero: chiamavano ironicamente "quelli dei centomila" Salsa e Mercatelli che stimavano allarmati essere quello il numero dei soldati del negus. Faceva eccezione a tanta sicumera il capitano Bassi: nella sua lettera del 23 febbraio 1896 elogiava le capacità militari del nemico: "Bravo Menelich! Bravo Alula!.... Come sanno far bene la guerra! Tutto senza una battaglia in cui arrischiare seriamente…. con le sole gambe ed a furia di marciare. Bravi!". Ed a tale elogio si univa una pessimistica previsione sull'esito delle imprese italiane in Africa. "Credo che ormai cominci la fine della farsa coloniale e che l'abbraccio sognato dell'Etiopia da parte di Baratieri si muti, come ho sempre creduto, in un abbraccio mortale per lui e per l'Italia. Ecco l'opera di Crispi…!" ("Il Resto del Carlino", 22 maggio 1896). E qualche giorno prima, nella lettera del 10 febbraio, Bassi aveva riconosciuto le ragioni degli avversari: "… penso che chi ha torto siamo noi, che li abbiamo stuzzicati con conquiste inopportune, mentre essi non vogliono che la libertà" ("Il Resto del Carlino", 21 maggio 1896). Alla riunione dei generali svoltasi la sera del 28 febbraio fece seguito quella del mattino del 29: Baratieri comunicò la sua decisione di attaccare, accolta con gioia dai generali, stanchi di una lunga attesa. Baratieri espose l'ordine di servizio: nella notte successiva tra il 29 febbraio ed il 1° marzo,
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tutte le brigate dovevano avanzare disponendosi su tre colonne parallele, Arimondi al centro, Albertone a sinistra, Dabormida a destra, con Ellena di riserva collocato dietro Arimondi. Si doveva avanzare fino ai colli di Rebbi Arienni e Chidane Meret, definiti il primo obiettivo da raggiungere: si è ritenuta poi poco felice l'espressione "primo obiettivo", che nella sua ambiguità poteva far supporre una ulteriore avanzata per raggiungere successivi obiettivi; ma dal contesto doveva risultare chiaro l'intento di Baratieri: bisognava occupare quelle posizioni dominanti i canaloni di accesso interposti alle impervie montagne circostanti ed attendere lì l'eventuale attacco dei nemici, fulminandoli col fuoco dell'artiglieria posta in alto sui monti sovrastanti. Ad accrescere la confusione contribuì l'imperfetta conoscenza dei luoghi, causa di un grave equivoco derivante dal fatto che nello schizzo sommario dei luoghi fatto da Salsa e da altri ufficiali era indicato col nome di Chidane Meret uno dei due colli da occupare, il cui vero nome era invece Erarà; esisteva un'altra località con lo stesso nome, posta a circa 6 km più avanti in direzione di Adua, in prossimità del campo di Menelich. Non si tenne conto della usanza abissina di indicare località diverse con lo stesso nome, ricavandolo da quello di un fiume, di un monte, di una chiesa o di un'altra particolarità geografica che aveva la stessa denominazione. Baratieri si affidò alle sommarie conoscenze dei luoghi possedute da Salsa e dagli altri autori dello schizzo sommario ed impreciso distribuito ai generali di brigata a corredo delle istruzioni contenute nell'ordine di servizio, peraltro letto frettolosamente da Albertone al momento della partenza, dopo essere montato a cavallo. Si è criticato il fatto che durante l'occupazione di Adua da parte di Baratieri, durata alcuni mesi a partire dal 1 aprile 1895, non si fosse compilata una carta dei luoghi; nei suoi "Ricordi d'Africa" il generale Caruso annota che da tenente durante quel soggiorno ad Adua aveva cercato di procurarsi due tacheometri per eseguire i rilievi, ma gli strumenti non arrivarono in tempo.219 Inoltre l'attività della guarnigione era dedicata soprattutto alla repressione dei ribelli; ulteriori difficoltà furono create dall'inizio della stagione delle piogge. Proprio nell'anno 1896, ma troppo tardi perché Baratieri potesse disporne, l‟ Istituto Geografico Militare di Firenze pubblicò una carta con una scala 1:250.000 della zona tra Adua e Adigrat, indicando la posizione del cosiddetto colle di Chidane Meret tra il monte Semaiata ed il monte Raio e quella del colle Rebbi Arienni, situata tra il monte Raio e il monte Esciscià. Albertone avrebbe dovuto occupare il colle dal vero nome di Erarà ma riportato col nome Chidane Meret nello schema di Salsa: le guide non lo conoscevano col nome attribuitogli da Salsa e ritennero si trattasse invece dell'altra località dallo stesso nome posta più avanti; convinsero quindi 219
Generale C. Caruso "Ricordi d'Africa" 1889-1896. Estratto dalla rivista "Politica" Roma 1939 (i Ricordi furono scritti negli anni 1910-1912), p. 89.
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il generale a procedere oltre, per cui la brigata indigeni di Albertone si spinse troppo avanti e restò isolata. Persiste comunque il dubbio di una deliberata disobbedienza di Albertone agli ordini di Baratieri, dovuta al suo eccessivo protagonismo; ipotesi avvalorata dal fatto che ci fu anche un avvertimento del maggiore Turitto, che, resosi conto di aver già raggiunto l'obiettivo assegnato, avvertì Albertone; questi reagì bruscamente chiedendo a Turitto se per caso avesse paura; quella domanda toccava un nervo scoperto dell'ufficiale, già accusato in precedenza di eccessivi timori davanti al nemico. Inoltre Albertone avrebbe dovuto rendersi conto di essere arrivato alla posizione assegnatagli, tenendo conto della conformazione dei luoghi ed in particolare della sagoma inconfondibile del Monte Raio, a lui ben nota per averla a lungo osservata dal campo di Sauria. Corsero pure voci di una segreta intesa tra Albertone e Dabormida per agire di propria iniziativa senza tener conto degli ordini ricevuti al fine di accaparrarsi la gloria di una vittoria in cui essi credevano fermamente: ritenne fondata quella voce il maggiore Cossu, comandante di battaglione della brigata di Albertone, in un suo rapporto del 16 aprile 1907, successivo cioè ad Adua di circa 10 anni.220 Lo stesso Cossu già il 29 marzo 1896 in una lettera all'avvocato fiscale del tribunale militare di Massaua aveva riferito che alle 18.00 del 29 febbraio il generale Albertone aveva dichiarato ai suoi ufficiali chiamati a rapporto di voler attaccare gli abissini spingendosi oltre Chidane Meret. Angelo Del Boca non crede alla buona fede di Albertone: il generale avrebbe dovuto capire di essersi spinto troppo avanti perché si era lasciato alle spalle il monte Rajo e si era allontanato troppo da Rebbi Arienni, dove era attestata la brigata Dabormida con la quale doveva mantenersi in contatto. Lo storico censura così il comportamento del generale: “Ma Albertone non è in buona fede, ha sbagliato di proposito, tanto è vero che non raggiunge il colle di Chidane Meret, che sa benissimo ormai essere a più di 10 km dal falso Chidane Meret " ; difatti Albertone si attestò su di una posizione intermedia tra i due Chidane Meret, sul colle di Adi Beccio. Più indulgente il giudizio di Roberto Battaglia: Albertone doveva capire che avanzando ancora avrebbero lasciato scoperto il fianco sinistro dello schieramento italiano: ma tale rilievo - afferma Battaglia - è facile farlo a posteriori; non lo era invece per il generale che procedeva nell'oscurità della notte, prima dello spuntare dell'alba; inoltre il supposto Chidane Meret non offriva spazio
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Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 83 L3, rapporto del maggiore Cossu riportato dopo p. 292 con numerazione a parte da 1 a 11.
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sufficiente per lo schieramento di una intera brigata; raggiungendo Adi Beccio doveva credere di aver rispettato in difetto gli ordini, poiché il vero Chidane Meret era più avanti di circa 2 km.221 Carlo Conti Rossini in un primo momento aveva creduto ad un errore commesso da Albertone in buona fede a causa della confusa toponomastica, ma dopo aver visitato i luoghi della battaglia si convinse di una deliberata violazione degli ordini da parte del generale.222 Secondo Conti Rossini già nella riunione dei generali tenutasi il 29 febbraio, Albertone aveva manifestato propositi molto bellicosi: data la maggiore velocità delle sue truppe indigene contava di arrivare alla posizione assegnatagli prima che i reparti italiani giungessero ad occupare le loro, ed avrebbe quindi potuto inoltrarsi più avanti per sostenere Dabormida nell'attacco al campo nemico di Mariam Sciavitù; Baratieri gli aveva detto di rallentare la marcia della sua brigata perché doveva esserci una occupazione simultanea delle varie posizioni.223 Quella occupazione simultanea non avvenne perché nel corso della marcia notturna le tre brigate dovevano avanzare lungo strade parallele, ma ad un certo punto si intersecarono quelle seguite dalle brigate Albertone ed Arimondi, per cui gli ascari della brigata indigena sbarrarono la strada ai reparti italiani di Arimondi, costretti a sostare per dar tempo agli indigeni di sgombrare la strada: questi ultimi quindi poterono arrivare prima degli altri alla posizione assegnata, grazie a questo incidente oltre che per la loro maggiore velocità. Ironia della sorte o frutto di incapacità, ad Adua le cose si svolsero in maniera del tutto opposta a quei basilari principi di disciplina, illustrati chiaramente da Baratieri. Aveva scritto Baratieri: "E‟ la disciplina che unendo gli atti individuali dà a ciascun soldato il sentimento delle forze riunite, è la disciplina che quanto più salda innalza codesta forza a potenza tanto maggiore; è la disciplina che imponendosi al disordinato valore nemico soffia nelle masnade il germe del panico che lo volge in fuga; è la disciplina che rende possibile la manovra e quindi detta legge sul campo di battaglia; è infine la disciplina che stronca il numero ed agghiaccia l'ardire nemico". ("Di fronte agli Abissini", Nuova Antologia 1° agosto 1888, pp. 419-420). E proprio per la mancanza di disciplina, deliberata o frutto di malintesi che fosse, fallì miseramente la strategia di Baratieri. Questi aveva criticato le disposizioni date da Munzinger alla spedizione egiziana contro gli abissini, da lui guidata nel 1876, perché gli uomini erano stati costretti ad una 221
Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 36 bis H5, 1° volume, pp. 107-108. Deposizione del maggiore Cossu, comandante il 6° battaglione indigeni della brigata Albertone, resa con lettera del 29 marzo 1896 all'avvocato fiscale del tribunale militare di Massaua. Angelo Del Boca, op. cit. p. 662. Roberto Battaglia, op. cit. capitolo 5° "Il colle fantasma e il combattimento della brigata Albertone". 222 C. Conti Rossini: "Italia ed Etiopia dal trattato di Uccialli alla battaglia di Adua". Roma Istituto per l'Oriente 1935. C. Conti Rossini "La battaglia di Adua". Roma Edizioni Universitarie 1939. 223 C.Conti Rossini "Italia ed Etiopia ecc." , pp. 335-337.
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marcia faticosa su di un terreno scosceso: "Ma perché avventurarsi a fondo in quell'anfiteatroscriveva Baratieri-scendendo nei burroni, con un dislivello di oltre 600 m, così vicini ad Adua (60 km) in paese nemicissimo per giungere alla quale era forza risalire per un ripido pendio per circa ottocento metri…": era lo stesso terreno su cui Baratieri dovette operare, incontrando le stesse difficoltà di Munzinger, costretto a procedere alla cieca, privo di informazioni, a differenza del negus Giovanni che ben conosceva i luoghi e la posizione del nemico; allo stesso modo Baratieri ad Adua era privo di sufficienti informazioni, mentre Menelich era perfettamente informato di tutto (diario di Baratieri per gli anni 1887-1888, pubblicato in "Pagine Africane", a cura di Nicola Labanca, p. 36). Baratieri aveva manifestato una grande considerazione del valore delle capacità militari dimostrate dagli abissini a Gura contro gli egiziani: "Gli Abissini manovrarono benissimo. Ras Alula da una parte, il negus dall'altra cacciarono gli egiziani nelle gole di Gundet, massacrandoli”. Baratieri riteneva avventata la decisione di Munziger di attaccare, malgrado la disparità delle forze: "È difficile concepire tanti errori e tanta trascuratezza volendo condurre una campagna e fare un colpo con sì piccolo numero". L'errore capitale di Munzinger era stato la mancanza di un comando unico e di un appoggio reciproco dei vari reparti. (Ibidem, pp. 37-38) Tutti gli errori di Munziger furono ripetuti da Baratieri ad Adua: sfiancò i suoi soldati scalzi con una faticosa marcia notturna, procedette anche lui alla cieca privo di informazioni esatte sui luoghi, affrontò gli abissini malgrado la disparità delle forze, non riuscì a far agire le sue brigate secondo un'azione unitaria bene coordinata. E da ultimo Baratieri aveva ammonito: "Non bisogna né esagerare il valore ed il numero del nemico e neppure soverchiamente disprezzarlo". (Ibidem, p. 48): disprezzo chiaramente dimostrato dai generali italiani, convinti di poter riportare una facile vittoria. Non è comunque provato se a tutti questi inconvenienti si sia pure unito il supposto patto segreto tra Albertone e Dabormida di non rispettare gli ordini di Baratieri agendo di propria iniziativa: sembra anzi priva di fondamento tale ipotesi, in quanto i due generali condussero offensive del tutto slegate fra loro, combattendo ognuno per proprio conto. Per un altro fatale errore Dabormida anziché avanzare verso Albertone per dargli un sostegno, s'inoltrò nell'appartato vallone di Mariam Sciavitù, dove si era accampato Makonnen con circa 30.000 uomini: Baratieri nelle sue "Memorie d'Africa" definì inspiegabile il comportamento di Dabormida. L‟aiutante di campo di Dabormida , Bellavita, nella sua dettagliata monografia su Adua, lamenta che Dabormida non aveva comunicato a nessuno, neanche agli ufficiali di grado superiore, le istruzioni di Baratieri e descrive il generale intento a studiare lo schizzo topografico fornitogli senza
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esaminare i luoghi avendo serie difficoltà a riconoscerli data la sua forte miopia: a chi timidamente cercava di fargli notare che si procedeva in una direzione errata, il generale replicava stizzito di non volersi far prendere la mano da altri e la brigata sempre più si addentrava in quella valle isolata.224 Si è giustamente osservato che ad Adua non ci fu una battaglia, ma tre distinti combattimenti, sostenuti in luoghi e tempi diversi singolarmente alle tre brigate, costrette ad affrontare ognuna per conto proprio l'intero esercito abissino. Toccò per primo ad Albertone affrontare la furia nemica. Il maggiore Turitto comandava l'avanguardia; profondamente toccato dall'accusa di codardia rivoltagli dal generale, l'ufficiale si spinse temerariamente fino all'accampamento nemico: fu rapidamente travolto l'intero battaglione e la brigata fu sgominata, gli ascari di Albertone nella loro ritirata divenuta presto precipitosa dopo un'iniziale resistenza scompaginarono la linea difensiva della brigata Arimondi, costringendola a ripiegare disordinatamente. Dal canto suo Dabormida ormai del tutto isolato dalle altre brigate, affrontava le forze di Makonnen, cui si aggiunsero poi gli altri reparti abissini che, avendo già liquidato le brigate Albertone e Arimondi, poterono concentrarsi tutte nel vallone di Mariam Sciavitù. Ellena ebbe un ruolo marginale: la sua brigata era stata tenuta di riserva, ma fu depauperata dal progressivo distacco di alcuni suoi reparti, andati a soccorrere le brigate Albertone e Arimondi: nel momento conclusivo degli scontri pertanto fu poco efficace l'azione di quella riserva costretta a combattere con forze ridotte. Nonostante il totale scollamento dell'azione delle varie brigate, non mancarono le prove di valore da parte dei soldati, che combattevano con la forza della disperazione. Il capitano Manasseo nella sua relazione sulla brigata Dabormida riferì che i soldati respiravano male a causa dell'altitudine, ma "si portarono ottimamente nonostante le privazioni sopportate"; la difficoltà maggiore era "la calzatura in modo assoluto deficiente, tanto che ogni compagnia aveva perlomeno dieci soldati sprovvisti di scarpe"; tutti gli altri portavano "legate le suole alle tomaie con funicelle o filo di ferro, tanto per avere qualcosa sotto le piante del piede che li difendesse dai ciottoli".225 Durante tutta la giornata Baratieri ebbe difficoltà per comunicare con i comandi delle brigate con un affannoso e confuso andirivieni di messaggeri per comunicare le varie situazioni e far pervenire gli ordini. Le varie brigate e il comando centrale disponevano del telegrafo ottico con cui si sarebbe
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E. Bellavita, ex aiutante di campo della brigata Dabormida a Adua. I precedenti. La battaglia. Le conseguenze (18811931); Genova, Rivista di Roma Editrice 1931, pp. 372-390. 225 Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 51 D4, documento n. 5, relazione sulla brigata Dabormida, memoria del capitano Mamasseo.
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potuto più facilmente e sicuramente comunicare; ma, dimenticanza incredibile, gli strumenti erano rimasti nei depositi di Sauria. Una somma di errori, dovuti ad imprevidenza e superficialità, oltre all' enorme disparità delle forze, fu causa della disfatta italiana. Agli episodi di valore si alternarono momenti di panico e sbandamento, che costrinsero gli ufficiali a ricorrere alle maniere forti per arginare la rotta. Ci sono giunte testimonianze contrastanti al riguardo. Il capitano Vittorio De Lutti nella sua relazione sulla battaglia descrisse così il comportamento dei soldati di Arimondi nella fase finale: "I soldati, stanchi per aver marciato e combattuto per 19 ore ininterrotte, sfiniti, sconfortati, furono invasi dalla panico ed il suolo apparve allora cosparso di armi, di oggetti di vestiario, di scarpe che i soldati si toglievano per poter camminare spediti, mentre il nemico incalzava alle spalle e colla cavalleria galla tempestava i fianchi".226 Ben diverso era invece il quadro tracciato da Macola sul "Corriere della Sera" (6-7 marzo 1896, pp.1-2 "La rotta di Abba Garima raccontata dall‟on. Macola. L'eroismo dei nostri ufficiali"). Gli ascari di Albertone "…. restavano intorno ai loro amati superiori, coprendoli col proprio corpo, selvaggiamente fedeli, sparando, colpendo col rovescio del fucile, caricando alla baionetta, mordendo quando caduti…". Macola proseguiva però riferendo la caotica ritirata finale: "… i superstiti si riversarono, triste fiumana, dentro la gola che passava sotto il colle, dove stava il quartiere generale, mescolati i vinti ai vincitori… Uomini e bestie, urtati, confusi, molestati da palle dei nemici, ruppero gli ordini ben presto e lo sbandamento si iniziò. Invano gli ufficiali col revolver in mano tentarono di ricondurre la massa spaventata, invano sciabolavano i fuggiaschi, l'ondata tutto travolse, i cavalieri Galla, sbucati dal campo a sciami, dispersero presto la tentata resistenza". Era meno disastroso il resoconto fatto da Mercatelli su “La Tribuna” (30 marzo 1896, pp. 1-2 “La battaglia di Adua"; articolo datato Massaua 4-8 marzo): "Non è vero che il nostro soldato non si sia battuto, non è vero che si sia sbandato al primo urto. Dove fu ben condotto rimase in piedi e resisté per tutta la giornata senza mangiare e dopo una notte di marcia; dove fu mal condotto, solo che abbia potuto schierarsi, anche malamente, rimase in piedi e morì sul posto. Lo scoramento invase solo coloro che si trovarono esposti per lunghe ore alla morte, senza poter sparare il fucile". L'eroismo dei soldati e la cattiva direzione da parte degli ufficiali secondo Mercatelli caratterizzarono la battaglia del 1 marzo 1896: ben diversa la versione dei fatti data in un primo momento da Baratieri.
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Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 52 D4, pp. 92-101. Relazione particolareggiata del combattimento del 1° marzo fatta dal capitano di Stato Maggiore Vittorio De Lutti, p. 99 retro.
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Il generale nel telegramma inviato il 3 marzo al Ministero della Guerra ebbe il torto di generalizzare, attribuendo poco generosamente la sconfitta allo scarso impegno delle truppe: gli venne perciò rinfacciato di aver calunniato il soldato italiano per negare le sue responsabilità. Baratieri riconobbe l'errore e tentò di giustificarsi asserendo che le sue dichiarazioni dovevano restare riservate e male aveva fatto il governo rendendole pubbliche: se l'avesse previsto, si sarebbe espresso in maniera diversa: giustificazione in realtà piuttosto debole e che non rettificava il giudizio negativo sul comportamento dei soldati nella battaglia; le ingenti perdite italiane stavano da sole a dimostrare quanto accanita fosse stata la resistenza. Una ritrattazione vera e propria Baratieri la fece invece col rapporto al suo successore Baldissera in data 7 marzo 1896. Era elogiato il valore dei soldati, ma soprattutto quello degli ufficiali: essi avevano "tenuto in pugno il soldato con fermezza, calma ed energia", ed erano caduti eroicamente. L'attenzione di Baratieri era rivolta in modo particolare ai generali: ricordava Dabormida, " che così fieramente e fortemente diresse la sua brigata nell'intera giornata"; Albertone "che nel fulminare del combattimento si lanciò sempre innanzi col massimo delle forze, ostinato nel vincere sul posto o morire"; Arimondi "che freddo ed impavido dinnanzi all'insenatura di Monte Rajo diresse le operazioni."227 Non ci fu in quel rapporto di Baratieri alcuna recriminazione per la disobbedienza dei generali e per i loro errori: sarebbe stato controproducente incolparli, dal momento che Arimondi e Dabormida erano caduti, Albertone era rimasto ferito e fatto prigioniero. I resti dei due generali uccisi andarono perduti e non fu possibile dare loro una degna sepoltura. A distanza di 10 anni, il 13 aprile 1906, Martini annotò nel suo diario eritreo di aver avuto la notizia che le ossa di Arimondi si trovavano nella località di Carran (territorio di Jehà): ma le ricerche effettuate rimasero infruttuose.228 Secondo la testimonianza resa dal soldato Giuseppe Bertetti del 2° battaglione del 75º reggimento fanteria Torino, Arimondi fu ucciso a sciabolate, venne decapitato, spogliato ed evirato. Diversa la versione sulla sua fine data dal soldato Carmelo Cristaldi del 13º battaglione 84º reggimento fanteria Catania: il generale sarebbe stato colpito da una pallottola mentre era a cavallo, la testimonianza tace su possibili sevizie compiute sul cadavere. 229
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Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 83 L3, pp. 1-23. Rapporto di Baratieri su Adua a Baldissera, Asmara 7 marzo 1896. 228 F. Martini, "Diario eritreo" - Vallecchi editore, Firenze 1940, volume IV p. 294. 229 ACS Roma - Ministero Guerra - Direzione personale - Giustizia militare. Busta unica, fascicolo 8° testimonianze sui caduti di Adua, doc. n. 107.
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Pure Dabormida subì lo stesso trattamento, venendo evirato dopo la morte, come riferito dal capitano Tola, che aveva pietosamente riportato alla famiglia il portafoglio del generale con la foto della moglie e delle due figlie, una delle quali macchiata dal suo sangue.230 Il delicato particolare della evirazione dei due generali non fu reso pubblico per una sensibilità che non ebbe invece Edoardo Scarfoglio nel riferire particolari scabrosi riportandoli in una lettera priva di data diretta all'onorevole Giampietro; citava la dichiarazione resa all'onorevole Morra da un caporale reduce dalla prigionia, che aveva subito "l'estremo oltraggio" come "quasi tutti gli ufficiali e graduati prigionieri, che furono legati agli alberi e stuprati. Molti, non sapendo sopportare l'atroce violenza, si uccisero".231 Sulla morte di Galliano circolarono diverse versioni. Il sergente Domenico Alonzo del 9° battaglione 53º reggimento fanteria Frosinone attestò che, ferito alla testa da una pallottola, rotolò lungo la china di un monte; secondo il soldato Amedeo Cecconi fu invece colpito due volte, la prima alla testa e poi al petto, morendo poco dopo.232 Più ricca di particolari e molto diversa la ricostruzione della morte di Galliano fatta dall‟agente commerciale italiano nel Tigrè, Teodoroni, a distanza di molti anni, nel settembre 1912. Galliano rimasto solo e ferito si sarebbe fermato presso una fonte, a circa 3 ore ad est di Adua, dove fu raggiunto da due abissini che andavano alla ricerca del cadavere del loro capo, il fitaurari Ghebejà. Galliano avrebbe chiesto un bicchiere per potersi dissetare ed un mulo, poiché aveva difficoltà a camminare. Un altro abissino sopraggiunto riconobbe Galliano e voleva portarlo subito dal negus. L'ufficiale rinnovò la richiesta di un mulo rifiutando di procedere a piedi; uno degli abissini allora gli diede una spinta per farlo avanzare Galliano adirato schiaffeggiò l'abissino e questi gli sparò, ferendolo gravemente. Il capo Uoldegherghis, trovatolo in fin di vita, informò Menelich che ordinò di condurlo da lui su di una lettiga o a cavallo, ma, quando si recarono a prelevarlo, Galliano era già morto; Menelich, addolorato, avrebbe ordinato di dare "onorata sepoltura al colonnello Galliano". E così fu fatto. Questo dettagliato racconto fu smentito da un maresciallo del 1° battaglione bersaglieri (nome illeggibile), reduce di Adua, in una nota del 31 ottobre 1912: Galliano, ferito al volto, era rimasto sul monte Rajo ed aveva rifiutato di recarsi dal negus, perché non voleva vedere la faccia di quel "canzir” (maiale). 230
Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 55 L7, fascicolo 1°. Sommario dell'interrogatorio dei prigionieri di guerra rientrati. Napoli 6 maggio 1897. 231 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 105, fascicolo 666. Lettera di Scarfoglio all'on. Giampietro, priva di data (deve essere del 1897, anno del rientro dei prigionieri dall'Abissinia). 232 ACS Roma - Ministero Guerra - Direzione personale - Giustizia militare. Busta unica, fascicolo 8°. Testimonianze sui caduti di Adua, doc. 61.
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Il maresciallo non riferiva particolari sull'uccisione di Galliano, ma asseriva di aver visto in Adua la sua testa mozzata; i vestiti erano portati in trionfo come un macabro trofeo.233 Non meno raccapricciante delle evirazioni fu l'amputazione del piede sinistro e della mano destra subita dagli ascari fatti prigionieri. Secondo alcuni quella pena atroce fu inflitta solo agli ascari originari del Tigrè, considerati traditori; furono invece risparmiati gli ascari sudanesi, dancali, somali che non erano sudditi del negus e quindi non potevano esser giudicati traditori. Secondo altri invece furono mutilati tutti gli ascari catturati, senza tener conto della loro origine. Agli ascari così atrocemente puniti il governo italiano cercò di dare un qualche sollievo inviando in Eritrea degli ortopedici per applicare delle protesi ai mutilati. Secondo i dati riportati da Del Boca furono mutilati 426 ascari sui circa 800 fatti prigionieri; i prigionieri italiani furono 1900, cioè più del doppio degli ascari. Caddero 289 ufficiali e 4600 soldati italiani, circa 1000 ascari; i feriti furono 1500, di cui quasi 500 italiani. Pesante il bilancio totale delle perdite: tra morti, feriti e prigionieri (tenendo conto sia degli italiani che degli indigeni) andò perduto circa il 50% degli effettivi, in percentuale molto di più che nelle battaglie combattute in Europa. Napoleone ad Eylau subì perdite pari al 33,8%, a Waterloo per il 29,6%, a Marengo per il 22%. Nella battaglia di San Martino e Solferino le perdite furono del 16,30%, a Sedan del 14,5% ed a Sadowa appena il 6,20%. Del Boca ricorda ancora che le amputazioni inflitte agli ascari erano la pena prevista dal codice tradizionale abissino, il Feth Nagast, cui si attenne Menelich nell'ordinarle. Ma ci sembra che tale giustificazione aggravi, anziché alleggerire, le responsabilità abissine: non si trattò di una decisione presa a caldo, nel furore di una battaglia cruenta; ma di una sentenza sancita dalla legge e freddamente seguita. Condivisibile appare invece l'altra osservazione di Del Boca sul comportamento degli abissini; a quegli atti di ferocia da essi commessi si unirono gesti di umanità: Makonnen aveva disposto gli onori funebri all'Amba Alagi per Toselli, la regina Taitù, benché ostile agli italiani, dispose che ad Adua fossero soccorsi anche i loro feriti, oltre a quelli abissini. Ed il trattamento riservato ai prigionieri italiani fu in genere mite, anche se non sempre essi si comportarono correttamente; alcuni giornali francesi riportarono difatti episodi di truffe compiute dai prigionieri italiani ai danni degli abissini, cui vendevano strani intrugli spacciandoli per filtri medici miracolosi; in altri casi avrebbero confermato il tradizionale gallismo italico spassandosela allegramente con le donne dei loro stessi carcerieri. 233
Archivio Storico Stato Maggiore Esercito. Busta 55 L7, fascicolo 14.
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Si possono esprimere riserve sull'autenticità di questi fatti, poiché la malevolenza francese nei confronti delle iniziative coloniali italiane non era certo una garanzia di veridicità, ma non possono invece esserci dubbi sui gravi episodi riferiti da fonti ufficiali italiane circa il comportamento riottoso ed indisciplinato nei confronti degli ufficiali e dei graduati italiani tenuto in varie occasioni dai soldati prigionieri, desiderosi di vendicare le peripezie e le sofferenze da essi subite. Dall'interrogatorio dei prigionieri del 5° scaglione, fatto al loro rientro dal capitano Tola a Napoli, risulta difatti che tra essi regnava una "indisciplinatezza agli estremi". Alla minima osservazione dei loro superiori i soldati reagivano dicendo "qui è finita la camorra, non siamo più in Italia, siamo tutti eguali, non esistono i gradi". Ci furono anche casi di violenza fisica: durante una marcia un ufficiale che stava bevendo ad una fonte fu percosso da un militare impaziente di dissetarsi a sua volta; per impossessarsi di un pagliericcio il soldato Di Salvo minacciò con un coltello il capitano dei bersaglieri Brancato, venne bastonato un tenente per aver rimproverato un militare che aveva preso una doppia porzione di cibo; bastonato anche il capitano Fiori perché aveva chiesto di marciare più lentamente non riuscendo a tener dietro agli altri a causa della sua malattia. Nel corso della ritirata il sottotenente Gilberti fu costretto a far fuoco contro il soldato Vincenzo Schioppa, rimpatriato col 4° scaglione dei prigionieri, perché intento a derubare i morti.234 Episodi certo riprovevoli, ma comprensibili data l‟esasperazione dei soldati per quanto avevano dovuto soffrire; tali comunque da complicare le trattative di pace con il negus, che chiese di essere risarcito delle spese sostenute per mantenere i prigionieri italiani; per migliorare le loro condizioni di vita e per accelerare la loro liberazione ci furono anche iniziative di autorità non italiane e di privati. Il Vaticano tra l'altro offrì la sua mediazione e ne fu mortificato l'orgoglio laico dei politici poiché consideravano l'offerta una ingerenza che menomava l'autorità dello Stato; l'iniziativa non ebbe però un seguito; intervenne pure la Croce Rossa russa: si ottenne un risultato con la liberazione di un gruppo di prigionieri disposta dal negus come omaggio allo zar Nicola secondo. Un gruppo di nobildonne romane costituì un comitato per soccorrere i prigionieri ed organizzò una spedizione in Etiopia affidata ad un religioso slavo (boemo o polacco), mons. Wersowitz, incaricato di far pervenire gli aiuti ai prigionieri. Crispi fu contrario a quella iniziativa: il 16 maggio 1896 scrisse difatti alla contessa Ersilia Caetani Lovatelli criticando l'attività del comitato; iniziativa analoga era stata presa in passato - ricordava Crispi - quando l'Italia non ancora unita, divisa in sette Stati, non era in grado di agire per liberare 234
Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 55 L7 - Notizie sull'interrogatorio dei prigionieri del 5° scaglione, reduci dallo Scioà, fatto a Napoli dal capitano Tola; rapporto inviato dal secondo corpo d'armata di Napoli al Segretariato generale del ministero della Guerra l'8 maggio 1897.
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gli schiavi in mano ai pirati barbareschi del Nord Africa; ma l'Italia era divenuta uno Stato con 32 milioni di abitanti e doveva fare rispettare in altro modo i suoi diritti: "i nostri fratelli, fatti prigionieri ad Abba Carima, aspettano ansiosi un esercito liberatore e le donne italiane, come nel 1848 e nel 1860, dovrebbero ispirare il coraggio ed organizzare la vittoria". Era inutile trattare con gli abissini, barbari che impedivano di far pervenire soccorsi ai prigionieri; esortava pertanto la contessa Lovatelli a consigliare alle sue amiche di agire in altro modo. "Il Messaggero" (18 maggio 1896, p. 1 "Il vero e grande profeta ovverossia il due di briscola") attaccò pesantemente Crispi: viveva comodamente in una bella villa, circondato da tutti gli agi e non poteva quindi rendersi conto delle necessità dei prigionieri. Crispi credeva di essere un profeta: ma per fortuna, scriveva il giornale, non era più al potere e contava ben poco, quanto il due di briscola. Crispi - lo stesso giorno 18 maggio - invitò la Lovatelli a leggere l'articolo, attribuendolo agli avversari desiderosi di screditarlo. La contessa si disse costernata per l'indiscreta pubblicazione di una lettera che doveva restare riservata, l'aveva data in lettura alla contessa Santafiora che l'aveva chiesta in visione, trattenendola per qualche ora prima di restituirla: probabilmente qualcun altro aveva avuto modo di leggere la lettera e divulgarla; assicurava a Crispi di aver consigliato alle amiche di dare un diverso indirizzo all'attività del comitato. Crispi si riconciliò presto con la Lovatelli: il 19 maggio le assicurò di non ritenerla responsabile dell'accaduto, attribuendo l'indiscreta pubblicazione al marito di una delle signore del comitato.235 Con un buon senso conciliante Martini non condannò l'attività del comitato delle dame romane, che svolgeva una propria attività facendosi carico di tutti i relativi rischi. Smentiva finanziamenti politici al comitato; era pure falso che nons. Wersowitz fosse latore di lettere degli ambasciatori francese e tedesco presso il Quirinale, destinate al negus: aveva solo ricevuto una lettera di presentazione dello ambasciatore francese Billot per il governatore di Obock Lagarde perchè agevolasse la spedizione ed una lettera del cardinale Rampolla per una alto prelato dell'Harrar. Alle critiche rivolte da Crispi al comitato Martini si opponeva facendo presente l'opportunità che ognuno si adoperasse per la liberazione dei prigionieri, agendo in conformità alle proprie idee. Su Monsignor Wersowitz la stampa aveva espresso giudizi contrastanti: per alcuni era un avventuriero, per altri un sant'uomo in grado di far liberare i prigionieri senza pagarne il riscatto. Il prelato, riconosceva comunque Martini, era uno strano personaggio: aveva assicurato alla contessa Dabormida che il marito era ancora vivo e che presto sarebbe tornato in patria. 235
ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 145, fascicolo 1181. Doc. n. 7 Crispi alla contessa Lovatelli, 16 maggio 1896; doc. n. 9 bis copia del Messaggero del 18 maggio 1896; doc. n. 9 Crispi alla contessa Lovatelli, 18 maggio 1896; doc. n.15 la contessa Lovatelli a Crispi, 18 maggio 1896; doc. n. 10 appunto di Crispi sul suo incontro con la Lovatelli avvenuto il 19 maggio 1896.
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Ma tali stranezze non dovevano impedire il tentativo di soccorrere i prigionieri ed il comitato restava responsabile della gestione dei fondi messi a sua disposizione con offerte di privati; governo e comitato dovevano agire liberamente utilizzando ognuno i propri mezzi.236 Era molto più duro il giudizio su Monsignor Wersowitz dato da Scarfoglio su "Il Mattino" (28-29 marzo 1896, p.1 "Fra Roma e lo Scioà. I Il gesuita", articolo di fondo firmato Tartarin); Wersowitz era considerato uno squilibrato oppure "uno di quegli avventurieri di cui specialmente l'ordine dei domenicani e la compagnia di Gesù diedero più di un esempio alla Chiesa in generale e all'opera delle missioni". Il religioso era partito con poco denaro e poca roba, "lasciando alle signore del comitato la cura di fare il resto". Riteneva che fosse un pazzo o un ciarlatano poiché aveva dimostrato grande faciloneria: era andato a Gibuti gridando che avrebbe riportato i prigionieri in Italia, dimenticando che in Etiopia tutti i religiosi estranei alla Chiesa copta, dal D‟Abbadie al cardinal Massaia, avevano incontrato serie difficoltà. Il tanto chiacchierando Wersowitz non poté comunque portare a termine la sua missione, essendo morto nel corso del suo svolgimento. Ma quella dei prigionieri era solo una delle preoccupazioni che dopo Adua crearono sgomento in Italia, dove l'opinione pubblica era del tutto impreparata ad affrontare la tragica realtà. Proprio il 29 febbraio 1896, giorno in cui Baratieri consultava i suoi generali sulla opportunità di un attacco, il re a Napoli salutava i soldati in partenza per l'Africa, definita "terra consacrata dal sangue dei nostri fratelli", dove avrebbero trovata" ancora viva l'eco di nostre vittorie, vivi i ricordi di virtù, di valore, di sacrificio". "A voi emulare i gloriosi esempi", era l'esortazione finale. Ed in data 1° marzo 1896, proprio il giorno di Adua, il cavaliere Baldassarre Fasunari, notaio in Napoli, inviava al re ed a Crispi un inno la cui strofa iniziale declamava: “Oh prodi soldati - con Voi è la gloria – In Africa andate. Portate vittoria". L'ingenua musa ispirava al patriottico notaio anche un'ode improntata ad un ottimistico auspicio: "Contro quegli Abissini – Quali mostri di rapina - che infestano quei paesi – Danno al mondo la ruina – Nostra Italia pugnerà - Gran vittoria porterà”.237 Meno ingenuo ma altrettanto ottimista si dimostrava Manfredi Camperio, che da Milano scriveva il 29 febbraio a Crispi: "Per quanto riguarda poi la guerra d'Africa non ho il minimo dubbio che noi
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"Cose Affricane ecc." già citato, capitolo "Comitati e soccorsi", pp. 308-315. ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 105, fascicolo 654. Saluto del Re alle truppe in partenza per l'Africa, 29 febbraio 1896. Inno e ode del notaio in Napoli, Baldassarre Fasunari, inviati al Re ed a Crispi, in occasione del saluto del Re alle truppe in partenza da Napoli, 1° marzo 1896. 237
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daremo al negus una buona lezione. Colla calma vinceremo"; la vittoria avrebbe fatto cambiare opinione anche agli oppositori di Crispi attivi in Lombardia. Testimonianze che confermano una nota di Crispi, priva di data: "La notizia della battaglia del 1° marzo ci giunse improvvisa".238 La prima preoccupazione di Crispi e dei suoi ministri, costretti alle dimissioni presentate alla Camera il 5 marzo 1896, fu quella di scaricare su Baratieri l'intera responsabilità della sconfitta. È quanto mai significativa al riguardo una nota in data 4 marzo 1896 del diario di Sonnino; nella seduta del consiglio dei Ministri del 4 marzo Mocenni aveva letto il telegramma inviato da Baratieri il giorno 3, in cui accusava i soldati come responsabili del disastro perché non si erano battuti e Sonnino faceva questo commento su Baratieri: " Mostra una grande incoscienza morale. Non dice perché attaccammo, dice non potersi sgomberare Adigrat. Nel consiglio Mocenni dice non potersi cogli articoli del Codice Militare processare Baratieri. Io dico che basta per noi denunciarlo. Il resto lo farà l'opinione pubblica".239 Denunciare Baratieri pur sapendo che non c'erano i presupposti giuridici per farlo, al fine di esporlo al linciaggio morale da parte dell'opinione pubblica: fu questa la linea di condotta decisa dal governo con freddo cinismo. Pochi giorni dopo aver affermato l'inesistenza di reati da attribuire a Baratieri, l'8 marzo 1896 Mocenni scrisse all'avvocato generale presso il Tribunale Supremo Militare di essere perfettamente d'accordo per un'azione penale contro Baratieri; si sarebbero cercati altri elementi a suo carico per procedere contro di lui. Restava soltanto da chiarire la questione dell'immunità di cui il generale godeva in quanto deputato al Parlamento: il ministro della Guerra nel nuovo governo successivo a quello di Crispi si sarebbe occupato del problema e avrebbe valutato i nuovi elementi di colpa raccolti contro Baratieri.240 Alle dimissioni del governo Crispi presentate il 5 marzo 1896, subentrò l'incarico affidato dal re a Saracco il 7 marzo per la formazione del nuovo governo. Tentativo rapidamente fallito e così commentato con evidente soddisfazione da Crispi nei suoi appunti autografi: "Saracco è uno spirito negativo. Analizza, censura, teme di affermarsi, fugge le responsabilità. È un retore, non un uomo di Stato. La prova della sua inettitudine la diede, quando il
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo. Busta 146, fascicolo 1196, doc. n. 6 lettera di Manfredi Camperio a Crispi, Milano 29 febbraio 1896; busta 105, fascicolo 667 appunti autografi di Crispi privi di data. 239 Sidney Sonnino "Diario" - Laterza, Bari 1972, volume 1° (1866-1912), p. 257. 240 Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 36 bis H5, p. 14. Lettera riservata del ministro Mocenni all'avvocato generale presso il Tribunale Supremo Militare, 8 marzo 1896.
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7 marzo 1896 ricevuto il mandato di comporre un ministero, ebbe paura del problema abissino e delle pretese dei partiti politici, e si ritirò". Ed ancora Crispi stroncava Saracco con queste parole: "Saracco era la nota stonata del Ministero, quando nei consigli non votava contro, borbottava sottovoce, o comunicava al suo vicino l'opposizione sua". Ricevuto il 7 marzo l'incarico di formare il governo, "…. non chiese l'aiuto dei suoi colleghi, e nessuno di loro egli volle nel ministero che avrebbe dovuto comporre… per questa malignità dell'animo suo non poté adempiere alla sua missione e si lasciò sfuggire il potere".241 Ritiratosi Saracco, Rudinì riuscì in qualche giorno a formare il nuovo governo, presentato alla camera il 10 marzo 1896 con Ricotti ministro della Guerra e Caetani di Sermoneta agli Affari Esteri. Sarebbe stato più corretto lasciare al nuovo governo l'iniziativa penale contro Baratieri: ma Crispi e Mocenni per cautelarsi l'avevano già iniziata, confidando nell'opinione pubblica per una condanna quanto meno morale. Ma le cose non andarono così lisce come da essi sperato: i giornali infatti non si limitarono ad attaccare Baratieri: furono tirate in ballo anche le responsabilità politiche del governo dimissionario. Era colpevole Baratieri per aver deciso un attacco suicida, ma erano ancor più gravi le colpe di quanti non avevano curato un'attenta preparazione, avevano preteso vittorie per rafforzare la propria posizione politica, senza però fornire tempestivamente i mezzi necessari, ignorando a lungo le richieste di Baratieri; averlo mantenuto al comando anche dopo l'Amba Alagi era stato un errore e, fatto non meno grave, si era resa impossibile la pace pretendendo di imporre a Menelich condizioni assurde anche dopo i rovesci dell'Amba Alagi e di Macallè che avrebbero dovuto suggerire più miti consigli. Sulla stampa erano formulati interrogativi cui era difficile dare una risposta: per quale ragione Baratieri, dopo aver disposto la ritirata il 23 febbraio, aveva deciso un attacco nonostante l'inferiorità numerica delle sue forze, quali altre responsabilità potevano rinvenirsi, che giudizio era da darsi sul suo piano strategico e quali erano in partenza le possibilità che potesse avere successo. Il "Corriere della Sera" (3 marzo 1896, p. 1 "Un'altra supposizione che spiegherebbe l'attacco di Baratieri") avanzava l'ipotesi che Baratieri avesse temuto di essere circondato dagli abissini e per evitarlo avesse deciso di sventarlo con un attacco disperato; il giornale propendeva però per un'altra spiegazione: Baratieri aveva saputo che Menelich si era allontanato da Adua e aveva voluto
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 105, fascicolo 662. Appunti autografi di Crispi privi di data sulla guerra d'Africa, sul ministro Saracco e le misure tenute con vari ministri sull'atteggiamento del generale Baratieri.
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attaccare in un momento in cui l'esercito nemico era privo del suo capo supremo. Ma l'informazione era falsa e Menelich si trovava ancora al suo posto di comando. La minaccia di un accerchiamento abissino che avrebbe spinto Baratieri ad attaccare, prospettata dal "Corriere", ricorda la manovra di ras Gabejù per sbarrare agli italiani la via della ritirata di cui parla il russo Elez, già citato. Molto meno benevolo il commento de l‟ “Opinione Liberale” (4 marzo 1896 “Il primo annuncio”). Baratieri aveva preso quella decisione non soltanto perché ingannato da false informazioni ma anche per motivi personali: era rimasto turbato dalla notizia che Baldissera l'avrebbe sostituito, comunicatagli dal telegramma di un'amica di Trento. E concludeva il giornale: "Dunque, dobbiamo logicamente supporre, pel momento, che fattori psicologici e soggettivi abbiano trascinato il generale ad un passo così insano, ad un errore così sciagurato, scontato crudelmente". Ma presto "L'Opinione" rivide tale giudizio (7 marzo 1896, p. 1 "La guerra in Africa. Perché Baratieri attaccò"), riportando il parere di Mercatelli: Baratieri attaccò perché ritenne umiliante la ritirata e quindi revocò l'ordine del 23 febbraio di prossima esecuzione. Il giornale escludeva quindi un colpo di testa dovuto alla notizia dell'arrivo di Baldissera; riteneva comunque fosse stato un errore prendere quella decisione. "Il Popolo Romano” (9 marzo 1896, p. 1 "Fatti e giudizi d'Africa"; 10 marzo, p. 1 "Chi avvertì Baratieri") insisteva invece nell'affermare che Baratieri, informato dell'arrivo di Baldissera, aveva voluto prevenirlo con una sua vittoria. Il generale era inoltre criticato per non avere informato il governo della sua decisione, già presa quando aveva inviato alle 16.00 del 29 febbraio un telegramma a Roma in cui non ne faceva parola; il giornale crispino nell'articolo del 10 marzo riteneva che il silenzio fosse dovuto all'intenzione di evitare un divieto governativo all'offensiva. Su una posizione analoga era il "Corriere di Napoli" (riportato dal "Fanfulla” del 3 marzo), scrivendo: "Per un miserabile prestigio, quest'uomo, che ora deve essere lacerato dai più insostenibili rimorsi e oppresso dalla vergogna della propria colpa, appena ha saputo che il generale Baldissera andava a sostituirlo nel comando, non ha voluto nemmeno aspettare l'arrivo dei rinforzi già in marcia per l'altipiano ed ha gettato le sue truppe nel formidabile cerchio di ferro dell'esercito scioano”. Era più equilibrato il giudizio de “La Perseveranza" (6 marzo 1896, “Motivi probabili dell‟attacco di Baratieri"): la situazione era difficile per la penuria di viveri e per gli attacchi dei guerriglieri nelle retrovie e il generale per uscirne aveva deciso di attaccare. Ma alle critiche rivolte a Baratieri si univano quelle a Crispi per le continue pressioni esercitate sul generale affinché si decidesse ad attaccare: "La Tribuna" (12 marzo 1896, p. 1 "In difesa di Baratieri e contro Crispi") ricordava il telegramma reso noto da Macola in cui Crispi aveva accusato Baratieri di "tisi militare”. Alcuni tendevano a ridimensionare la gravità della sconfitta di Adua: lo
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faceva il giornale viennese "Extrablatt” nell'articolo "Crispi in Italia" (riportato da "Il Raccoglitore" di Rovereto il 10 marzo 1896, p. 2 "Ultime notizie"), affermando che l'emozione italiana era la tipica reazione di "un popolo meridionale che ha sangue caldo ed appassionato". L‟ “Extrablatt” non si lasciava poi sfuggire l'occasione per tessere l'elogio della Triplice Alleanza, che assicurava all'Italia la sicurezza in Europa, per cui poteva "gettare in Africa tutti i suoi reggimenti ed i suoi cannoni ed annichilire la potenza scioana”. Attenuava il suo precedente attacco a Crispi “La Tribuna” asserendo che il telegramma della “tisi militare” doveva essere un falso: non era credibile Crispi l'avesse inviato il 25 febbraio dopo che il 22 era già stato firmato dal re il decreto per sostituire Baratieri con Baldissera. Lo stesso giornale pubblicò il 13 marzo un articolo di Luigi Mercatelli (p. 3 “Una intervista a Baratieri. I motivi per cui egli attaccò il campo scioano” ): il generale dichiarava di aver deciso l'attacco perché difettavano i viveri e il morale delle truppe italiane era alto, mentre invece, secondo le sue informazioni, era depresso quello degli abissini. Baratieri inoltre ricordava in quella intervista le responsabilità di Albertone che aveva equivocato sulla località da occupare, spingendosi troppo avanti. Delle responsabilità politiche di Crispi si occupava ancora “L‟Opinione Liberale” (30 marzo 1896, p. 1 “ La seconda lettera dell'on. Macola, pubblicata sulla “Gazzetta di Venezia”): si era fatto da parte del governo un uso strumentale delle vittorie di Baratieri, esagerandone l'importanza e si era trascurata la preparazione militare, ignorando le proteste di Menelich per il trattato di Uccialli, "indegna e sciocca soperchieria", e gli avvertimenti di Baratieri che fin dal marzo 1895 aveva previsto la guerra. In una sua terza lettera (riportata da “L‟Opinione” il 31 marzo 1896, a pagina 1) Macola criticava l'invio in Africa di militari inesperti, formando battaglioni raccogliticci con soldati di vari reparti, dotati di uno scadente equipaggiamento, armati con fucili Wetterly, definiti veri catenacci, al posto del più moderno moschetto ‟91. I cannoni erano quelli acquistati da Bertolè Viale nel 1887, rimasti ad arrugginire nei depositi. I mortai non erano utili in battaglie combattute in campo aperto, potevano esserlo solo per bombardare fortezze e di queste gli abissini non disponevano. Mancavano perfino le uniformi: si erano dovute adoperare quelle date come riserva perché ogni soldato ne avesse una (“L‟Opinione Liberale” , 2 aprile 1896, p. 1 “Quarta lettera dell‟on. Macola”, ripresa dalla “Gazzetta di Venezia”). Baratieri e Crispi erano poi accomunati nell'accusa di aver fatto opera di disinformazione, il primo censurando gli articoli dei corrispondenti ai loro giornali, il secondo tenendo all'oscuro non solo l'opinione pubblica ma perfino gli stessi ministri (“L‟opinione Liberale” 4 aprile 1896, p. 1 “Una guerra in Africa. La 5° lettera dell‟on. Macola”)
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Al solo Baratieri erano invece destinate le successive critiche di Macola per avere organizzato male il servizio di informazioni e per una eccessiva indulgenza verso gli indigeni, ponendo fine al giusto rigore di Baldissera (“L‟opinione Liberale” 7 aprile 1896, p. 1 “Le responsabilità della campagna", ripreso dalla “Gazzetta di Venezia”). Macola arrivava infine ad una stupefacente conclusione: assolveva Crispi dall'accusa di aver fatto una guerra senza l'autorizzazione del Parlamento dato che questo istituto era "nei paesi latini... il principale demolitore legale e strapotente di ogni principio di ordine e di autorità, e la causa prima anche dello sfacelo delle finanze”. Crispi però, secondo Macola, aveva il torto di aver voluto la guerra pur avendo alle spalle "un paese fiacco come il nostro, facile alle esaltazioni e facile alla depressione". Erano una inerzia i 400 o 500 milioni necessari per condurre seriamente la guerra, di fronte ad un debito pubblico di 15 miliardi. Lesinando i mezzi necessari alla guerra, i governanti si erano rivelati "gli uomini dei mezzucci e dei rattoppi. Ci voleva ben altro che un cervello stanco come quello di Francesco Crispi, insidiato, combattuto, affranto dal lavoro e dalle responsabilità quotidiane della piccola politica interna a divinare e a gestire la nobile impresa di un battesimo glorioso e di un'affermazione incontestabile delle armi italiane. E ci voleva ben altro che quel generale da parata di Stanislao Mocenni per eseguire il piano profondamente ed altamente politico di un uomo di Stato. Il paese è vittima di una inescusabile, di una grande insufficienza politica militare" (“L‟Opinione Liberale”, 8 aprile 1896, p. 1 “ Le conclusioni dell‟on. Macola”, dalla “Gazzetta di Venezia”). Adua aveva messo a nudo tutte le magagne di Crispi, fra l'altro la sottrazione di documenti del Ministero degli Esteri e del Ministero degli Interni, compresi quelli relativi alla evacuazione di Macallè e pertanto il nuovo ministro degli Affari Esteri, Caetani di Sermoneta aveva chiesto al governo di Massaua di inviare le copie a sua disposizione. Non era nuovo Crispi ad un tale comportamento: nel 1891 Di Rudinì, succeduto a Crispi nel governo, non aveva trovato alcun documento sul rinnovo della Triplice, ed era dovuto ricorrere alle informazioni di un ambasciatore accreditato presso una grande potenza. Non si trovarono neanche nel 1896 i telegrammi con gli ordini di Crispi a Baratieri per occupare il Tigrè. Furbescamente Crispi aveva pure omesso la pubblicazione di documenti per lui scomodi nel "Libro Verde" da lui preparato e poi presentato alla Camera da Rudinì il 27 aprile 1896, dal titolo "Avvenimenti d'Africa" e recante il numero XXIII. I documenti omessi erano quelli del periodo dicembre 1895 - febbraio 1896 che dimostravano l'impazienza di Crispi e le sue insistenti sollecitazioni rivolte a Baratieri per una vittoria italiana.
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Di Rudinì colmò quelle lacune presentando il libro verde XXIII bis unitamente al n. XXIII preparato da Crispi. Ne nacque un vespaio; “La Tribuna” (27 aprile 1896, p. 1 “I documenti d'Africa") cercò in un primo momento di prendere le difese di Crispi, affermando che dalla pubblicazione dei documenti anticipata dal giornale francese “Le Jour” non risultava che quelli resi noti da Rudinì attestassero pressioni del governo su Baratieri; ancora il 30 aprile (p. 3 “I libri verdi africani") il giornale definiva di scarso interesse i documenti pubblicati da Rudinì e poi il 10 maggio 1896 criticò la pubblicazione perché poteva suscitare complicazioni internazionali, in quanto i rapporti inviati al governo da Nerazzini, residente italiano a Zeila, rendevano note le forniture francesi di armi al negus ( p. 1 “La pubblicazione dei Libri Verdi”). Sullo stesso numero del 1° maggio (p. 1 “ Sfogliando i Libri Verdi sull'Africa") si affermava che Crispi "dopo Coatit e Senafè non si accese di furore bellico", ed anzi aveva frenato Baratieri sconsigliando l'occupazione permanente di Adua. Era vero, ma il giornale trascurava la svolta radicale della politica di Crispi dopo l‟Amba Alagi , quando iniziò a smaniare per una rivincita. Riconosceva invece “L‟Opinione Liberale” che il Libro Verde preparato da Crispi era "una pubblicazione monca ed incompleta", concepita per addossare a Baratieri tutte le responsabilità politiche oltre che militari: al generale - si affermava in base a quei documenti - era stato concesso tutto ciò che aveva chiesto. “In tal modo, si è costretti a riconoscerlo, la verità storica era indecentemente e spudoratamente falsata", concludeva duramente il giornale. Crispi e Blanc avevano mascherato i loro propositi aggressivi con espressioni del tipo "difesa attiva", "difesa attiva oltre il Mareb”: l'artificio era condannato con queste parole: "ma questo ipocrita lenocinio di forma aggrava, non altera la responsabilità del passato Ministero ". Fino al luglio 1895, continuava il giornale, Baratieri aveva resistito alle pressioni di Crispi, arrivando ad offrire le dimissioni per tre volte. Finì poi per cedere quando venne in Italia e, tornato in Africa, attuò le misure concordate a Roma con Crispi e Mocenni. Dopo l‟Amba Alagi la politica di Crispi era allo sbando e, aggiungeva “L‟Opinione”, aveva cercato di imporre condizioni assurde a Menelich per la pace. Crispi non poteva esser giustificato per il tardivo invio di rinforzi a Baratieri che non poteva in breve tempo costruire le strade e organizzare i trasporti; era responsabile Crispi di tutte le carenze logistiche. “L'Opinione Liberale” tornava alla carica il 7 maggio 1896 (p. 1 “I Libri Verdi. Chi volle la conquista e come fu diretta"): ricordava che erano stati i Ministri a dirigere le operazioni militari,
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scavalcando Baratieri, dimissionario per tre volte (23 aprile, 10 giugno, 7 luglio 1895: l'ultima lettera del 7 luglio non figurava nel Libro Verde curato da Crispi). Ed ancora l'8 maggio il giornale (p. 1 “I Libri Verdi. Incapacità ed insicurezza") rinfacciava a Mocenni l'infelice dichiarazione fatta il 9 dicembre 1895 alla Camera, quando aveva definito di scarsa importanza la sconfitta dell'Amba Alagi, fatta eccezione per la morte di Toselli, perché non si era perduto un territorio. Sempre più martellante nel rivolgere accuse al governo di Crispi, “L'Opinione Liberale” (11 maggio 1896, p. 1-2 "I Libri Verdi. Cattive armi e cattivi consigli") denunciava l'inutilità dei mortai da 9 mm, rimasti nei depositi di Massaua. La serie di attacchi dell‟ “L'Opinione Liberale” si concluse infine il 17 maggio (p. 1 “I Libri Verdi. Il diario del capitano Bassi") con l'accusa rivolta "ai guerrafondai" di ignorare il diario Bassi in corso di pubblicazione su "Il Resto del Carlino” perché confermava i “Libri Verdi”; Bassi era un distinto ufficiale che non era soggetto alla " incosciente influenza del generale Mocenni, ministro della Guerra", autore della rovina del Paese. Ma Baratieri non doveva subire soltanto gli attacchi giornalistici; contro di lui già il 21 marzo 1896 aveva spiccato un mandato di cattura il giudice istruttore del tribunale militare di Massaua, Vianello, ai sensi dell'articolo 88 del codice militare, incaricando il governatore Baldissera di eseguire il mandato e di assicurare che l'imputato restasse a disposizione dell'autorità giudiziaria.242 A Rudinì, neo presidente del Consiglio, non dispiaceva dare corso al provvedimento contro Baratieri perché poteva ritorcersi anche contro Crispi, suo rivale. Il 17 marzo 1896 Rudinì aveva tuonato alla Camera: "Se nella suprema direzione vi furono deficienze di comando o colpe esse saranno attentamente ricercate e severamente punite". Al tempo stesso rendeva omaggio all'esercito che aveva " versato nobilmente il suo sangue a difesa della nostra bandiera" a scopi puramente difensivi, poiché l'Italia voleva la pace e non aspirava a conquistare il Tigrè. Nel successivo dibattito Imbriani attaccò Crispi per aver violato lo Statuto, decidendo le spese della guerra senza l'approvazione del Parlamento; andava quindi messo in stato di accusa il precedente governo. Sonnino tentò di fare distinzione tra le responsabilità dei singoli ministri e affermò che il disastro di Adua non poteva essere attribuito a preparazione insufficiente, da imputare eventualmente all'ex ministro della Guerra, Mocenni.
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Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 36 bis H5, 1° volume, p. 13. Mandato di cattura per Baratieri.
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Insorse Mocenni chiedendo la pubblicazione della sua corrispondenza con Baratieri e Baldissera per far luce sulle responsabilità di ognuno; pubblicazione negata da Rudinì in quanto era in corso un'azione giudiziaria contro Baratieri e doveva quindi evitarsi ogni interferenza del governo. Ma, nonostante tale diniego, poco più di un mese dopo, il 27 aprile 1896, con il processo contro Baratieri ancora in corso, Rudinì presentò alla Camera il Libro Verde XXIII curato da Crispi ed il XXIII bis da lui stesso preparato ed arricchito di molti documenti. La seduta parlamentare del 17 marzo si concluse con la presentazione di due mozioni: quella dei socialisti (primo firmatario Enrico Ferri, cofirmatari Agnini, Andrea Costa e Prampolini) attribuiva al governo Crispi l'intera responsabilità dell'accaduto e rivolgeva ad esso l'accusa di aver sistematicamente violato lo Statuto e di avere tenuto il Paese all'oscuro della realtà degli avvenimenti africani. Si chiedeva pertanto l'immediato ritiro delle truppe dall'Africa e la messa in stato di accusa di Crispi e dei suoi ex ministri. Analoghe richieste le avanzò la mozione dei democratici, presentata dall'onorevole Sacchi, con Bovio, Pantano, Barzilai, Imbriani, Poerio cofirmatari. Il presidente Villa prese tempo comunicando che avrebbe successivamente fissata la data in cui discutere le due mozioni, destinate a restare lettera morta.243 L'azione giudiziaria contro Baratieri comportava una complicazione giuridica e politica al tempo stesso, in quanto la sua condizione di parlamentare rendeva necessaria, secondo l'articolo 45 dello Statuto, l'autorizzazione della Camera perché fosse processato. Il “Corriere della Sera” (31 marzo – 1° aprile 1896, p. 1 “L‟ immunità parlamentare e Baratieri") negava che Baratieri potesse godere di quella garanzia offerta dallo Statuto, non applicabile in caso di flagranza di reato; inoltre il generale, anche se posto in disponibilità e quindi privo di incarichi, restava sempre soggetto al codice militare; senza bisogno di formalità giuridiche avrebbe dovuto essere arrestato già il 3 marzo, al suo arrivo ad Adi Cajè dove si era diretto fuggendo da Adua. Il procuratore militare avrebbe studiato la questione; ma lo stesso "Corriere" dava notizia di una lettera che ricordava un analogo precedente: l'ammiraglio Persano dopo Lissa era stato giudicato dal Senato costituito in alta Corte di Giustizia e non da un tribunale ordinario; secondo lo Statuto doveva esser giudicato dai suoi pari e tale prerogativa era equivalente all'immunità assicurata ai deputati dall'articolo 45 dello Statuto. La questione, imbarazzante sia per il governo che per il Parlamento, fu dibattuta alla Camera il 14 maggio 1896. Il guardasigilli Costa nel rispondere ad una interrogazione di Imbriani affermò che il problema era di competenza della Camera. 243
Atti Parlamentari. Camera - Discussioni. Legislatura XIX Sessione 1895- 96, volume 3°; tornata 17 marzo 1896, pp. 3427-3453.
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L'autorità giudiziaria non aveva fino a quel momento richiesta l'autorizzazione a procedere contro Baratieri, il ministro non lo riteneva però necessario poiché lo status di militare doveva giudicarsi prevalente su quello di parlamentare. Imbriani replicò che la carica di governatore propria di Baratieri equivaleva a quella di ministro, per cui il giudizio doveva svolgersi davanti all'alta corte di Giustizia e non di fronte ad un tribunale militare. Il ministro sostenne che Baratieri era anzitutto un militare, poiché il suo più alto compito era la difesa della patria; nella sua ulteriore replica Imbriani fece ricorso ad una mozione degli affetti, affermando che un ex garibaldino come Baratieri aveva diritto ad essere trattato con riguardo e quindi era necessaria l'autorizzazione della Camera per procedere contro di lui. Una mozione in tal senso fu presentata il 25 maggio dallo stesso Imbriani oltre che da Andrea Costa, Enrico Ferri ed altri; si associarono a quella richiesta molti deputati, tra cui Sonnino, preoccupati di tutelare le prerogative del Parlamento più che di garantire Baratieri. Il guardasigilli Costa attenuò la portata della sua dichiarazione del 14 maggio, affermando di aver parlato solo a titolo personale, e non a nome del governo, nel sostenere che non era necessaria l'autorizzazione a procedere da parte della Camera. L‟on. Cocco Ortu presentò un ordine del giorno in cui si diceva fiducioso del rispetto dell'articolo 45 dello Statuto e quindi riteneva necessaria l'autorizzazione parlamentare per processare Baratieri: l'ordine del giorno fu approvato con larga maggioranza e fu accettato dal governo. Rudinì si era convinto della inopportunità di dimostrare accanimento contro Baratieri non riconoscendogli le garanzie statutarie; se ne era già convinta la stessa autorità giudiziaria militare, inviando il 10 maggio al presidente della Camera l'atto di accusa contro Baratieri e chiedendo che fosse concessa l'autorizzazione a procedere. Si svolse quindi alla Camera il 1° giugno un acceso dibattito, aperto da Imbriani con la contestazione all'autorità giudiziaria militare del ritardo della richiesta dell'autorizzazione a procedere, della cui evidente necessità si sarebbe dovuta accorgere prima. Il socialista Agnini chiese la sospensione del procedimento giudiziario per accertare preliminarmente le responsabilità di Crispi e di tutto il suo governo; Finocchiaro Aprile accusò quanti negavano la necessità dell'autorizzazione a procedere di non rispettare le prerogative della Camera. Colajanni sostenne la necessità di un rapido svolgimento del processo: sarebbe stato difficile tenerlo in Italia e propose di tagliar corto concedendo subito l'autorizzazione a procedere. L'onorevole Sacchi chiese che fossero presi in esame anche i fatti precedenti a Adua e si chiese perché Baratieri avesse revocato l'ordine di ritirata del 23 febbraio. L'Estrema Sinistra presentò quest'ordine del giorno a firma dell'onorevole Garavetti ed altri. “La Camera, riaffermando il dovere del governo di accertare le responsabilità dell'impresa africana,
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risponde agli uffici della giustizia e accorda la richiesta autorizzazione di procedere contro il generale Oreste Baratieri". L'ordine del giorno fu posto in votazione per punti: la prima parte, che chiedeva l'accertamento delle responsabilità, fu approvata solo dall'Estrema; la seconda parte favorevole a concedere l'autorizzazione a procedere fu invece approvata da tutti. Entrambe le votazioni si svolsero con voto pubblico. Per esaminare la richiesta di autorizzazione a procedere fu costituita una apposita commissione con relatore l'onorevole Finocchiaro Aprile che espresse parere favorevole a procedere.244 Alla decisione si era mostrata favorevole “La Tribuna” (31 maggio 1896, p. 3 " L'autorizzazione a procedere contro il generale Baratieri"), augurandosi che il processo potesse svolgersi senza intoppi; lo stesso giornale (2 giugno 1896, p. 1 "L'autorizzazione a procedere") lodò la relazione di Finocchiaro Aprile per la sua stringatezza e per avere evitato riferimenti alle responsabilità politiche di Crispi; bene aveva fatto il governo ad accettare quella decisione, togliendo così all'Estrema il monopolio della questione africana. Nel suo intervento alla Camera il 1° giugno Colajanni aveva pure trattato il problema se celebrare il processo in Italia o in Eritrea e aveva optato per farlo in Eritrea al fine di un più
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svolgimento. Era di questa opinione anche il governo: i fatti si erano svolti nella colonia e lì bisognava quindi processare Baratieri per una questione di competenza territoriale. Ma alla questione giuridica ne restava sottintesa una politica: la celebrazione in Italia del processo, come chiedeva l'Estrema Sinistra, sarebbe stata sicuramente un'occasione per manifestare contro Crispi e il precedente governo nei cui confronti Rudinì non era certamente tenero; ma temeva nuove e più violente manifestazioni dopo quelle di cui la stampa si era già occupata e nelle quali rischiava di essere esso stesso coinvolto assieme al suo governo. “Il Fanfulla” (4 marzo 1896, p. 1 “La guerra d'Africa. I commenti militari. Le dimostrazioni antiafricaniste”) aveva commentato negativamente quelle manifestazioni, asserendo che i socialisti, i repubblicani, gli oppositori tutti avevano fatto un uso strumentale del disastro di Adua " per trascinare le masse incoscienti" a protestare contro il governo, ma "ovunque l'insano ed antipatriottico tentativo" era fallito. Il giornale comunque non poté fare a meno di ricordare che gravi disordini si erano verificati in Lombardia, in particolar modo a Milano.
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Atti Parlamentari Camera Deputati XIX Legislatura 1° sessione 1895-96. Discussioni volume 4°. Tornata 14 maggio 1896, pp. 4187-4190; 2° tornata 25 maggio 1896, pp. 4717-4735; 2° tornata 1° giugno 1896, pp. 5011-5014 (intervento onorevole Sacchi); p. 5020 (intervento on. Colajanni); pp. 5025-5026 (o.d.g. Garavetti); pp. 5023-5025 (relazione Finocchiaro Aprile).
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Per non dare ulteriore occasione a gravi disordini si decise quindi di celebrare il processo in Eritrea e non in Italia, come chiedeva l'estrema sinistra; una volta sgombrato il terreno dalle questioni procedurali, il tribunale militare speciale potè iniziare all'Asmara i suoi lavori. Fu criticata la decisione di affidare l'istruttoria ad un ufficiale contabile poco esperto di questioni strategiche, ma ciononostante chiamato ad esaminare l'operato di Baratieri; inoltre l'azione penale avrebbe dovuto, come prescritto dall'articolo 52 del codice militare, promuoverla il capo di Stato Maggiore e non il ministro della Guerra; le norme eccezionali previste per il tempo di guerra, a norma degli articoli 540 e 542 dello stesso codice, andavano applicate solo per la formazione del tribunale speciale e per la formulazione dell'ordine a procedere e non per l'intero procedimento come si pretese; l'accusa fu sostenuta da un magistrato militare (il sostituto avvocato generale Bacci) e non da un pubblico ministero del tribunale militare ordinario come stabilito dall'articolo 316; il collegio giudicante fu costituito da generali scelti fra quelli di stanza in Eritrea e non fra tutti quelli in servizio anche al di fuori della colonia; quel collegio avrebbe dovuto presiederlo un generale d'armata ed essere composto da due tenenti generali e tre maggiori generali: norma non rispettata in quanto il presidente del collegio fu il tenente generale Del Mayno, pari grado di Baratieri seppure con una maggiore anzianità di servizio (analoga la posizione gerarchica del generale Heutsch, altro componente del collegio); la difesa fu affidata ad un ufficiale di grado inferiore, il capitano del genio Cantoni. Baratieri aveva trascorso in trepida attesa il tempo precedente l'inizio del processo, in stato di detenzione, essendo stato posto agli arresti domiciliari nel palazzo del governatore Massaua. Gli erano di conforto i messaggi di solidarietà degli amici: già il 5 marzo 1896 l'avvocato Scipio Sighele gli telegrafava da Roma: "Con cuore trentino offromi difensore"; non fu possibile accettare l'offerta poiché in un tribunale militare non poteva assicurare il patrocinio un avvocato civile. Ed il 7 marzo Pietro Vittadini, presidente della società di tiro a segno di Breno, scriveva a Baratieri essere intatto, anzi aumentato l'affetto degli amici della Val Camonica. Il generale Temistocle Mariotti, capo sezione al Ministero della Guerra, il 4 maggio assicurava a Baratieri che nessun generale gli era ostile; anche molti deputati erano ben disposti nei suoi confronti; aveva fatto osservare a Cavallotti che una "condanna, anche minima, sarebbe la fine della italianità d'oltre confine", perché l'Austria se ne sarebbe giovata “ per rendere odioso il governo italiano agli occhi delle popolazioni ancora soggette al suo dominio". Mariotti denunciava poi le manovre di Crispi per fare di Baratieri il capro espiatorio, scrivendo "… quale macchina infernale non ha saputo montare quel vecchio cospiratore".
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Erano un balsamo per l'animo ferito di Baratieri quelle affettuose parole e ringraziava gli amici con la sua lettera del 15 maggio 1896, asserendo che i loro nomi lo riportavano "alle più soavi memorie".245 Per contro destavano in lui amarezza gli attacchi di quanti in precedenza gli si erano dimostrati amici; con la massoneria Baratieri aveva avuto un buon rapporto, anche se resta da dimostrare la sua appartenenza ad essa: la loggia "Oriente" di Catania e la loggia "Centrale" di Palermo si erano caldamente congratulate con lui per le sue vittorie (“Rivista della Massoneria Italiana", anno XXVI 1895, nn. 1-2 gennaio – febbraio, p. 29 “Notizie massoniche della comunione. Plausi al generale Baratieri") ed anche il gran Maestro Adriano Lemmi si era complimentato. Ma nel celebrare la data del 10 marzo 1896, consacrata alla memoria dei fratelli scomparsi, Umberto Del Medico, venerabile della loggia "Universo" di Roma, attaccò duramente Baratieri, assicurando che non avevano mai fatto parte della Massoneria "generali che che dall'aver partecipato alla immortale audacia presaga di vittorie dei Mille liberatori si erano fatta scala a salire e licenza a gettarsi in follie criminose"; non ne avevano fatto parte "governatori che abbiano abiettato la dignità d'uomo e di soldato della nuova Italia in superstiziose genuflessioni dinnanzi a barbe cappuccinesche per quanto umanamente venerabili": non meno del riferimento alla partecipazione di Baratieri alla spedizione dei Mille era chiara questa allusione ai suoi buoni rapporti con il padre cappuccino Michele da Carbonara, prefetto apostolico per l'Eritrea ("Rivista della Massoneria Italiana", anno XXVII, 1896, nn. 4-5-6 febbraio-marzo, p. 81). Nella sua filippica Del Medico non faceva il nome di Baratieri, ma a scanso di equivoci si volle poi precisare l'estraneità di Baratieri alla Massoneria("Rivista della Massoneria Italiana", anno XXVII, 1896, nn. 7-8 aprile, p. 124 " Baratieri e la Massoneria"). La Società Geografica Italiana si astenne da una aperta scomunica; ma condannò all'oblio il nome di Baratieri, senza tener conto di tutta la sua meritoria attività a vantaggio della Società. Ancora qualche anno dopo, il 25 febbraio 1898, il professor Giuseppe Della Vedova, segretario generale e poi presidente della Società, con il quale Baratieri aveva mantenuto un nutrito carteggio sull'attività della sezione Eritrea, ricordava i nomi di alcuni soci benemeriti di recente scomparsi ed attribuiva al generale Arimondi il merito esclusivo della formazione in Eritrea di una sezione, tacendo su quanto Baratieri aveva fatto e di quante iniziative era stato solerte promotore sia in Italia che nella Colonia (Giuseppe Della Vedova “I recenti lutti della Società Geografica Italiana -Roma 1898).
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Carteggio di Oreste Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato; p. 79 telegramma di Scipio Sighele a Baratieri, Roma 5 marzo 1896; p. 80 lettera di P. Vittadini a Baratieri, Breno 7 marzo 1896; p. 93 lettera di T. Mariotti a Baratieri, Roma 4 maggio 1896; p. 102 lettera di Baratieri agli amici di Arco, Massaua 9 maggio 1896.
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Anche la morte del generale fu ignorata
dalla Società Geografica Italiana, di cui era stato
vicepresidente; lo rimproverò la Rivista Geografica Italiana, pubblicando un commosso necrologio a firma di Attilio Moro (fascicolo 8°, agosto 1901, pp. 534). Dimostrò una maggiore sensibilità la sezione romana del CAI, di cui Baratieri era stato vicepresidente, respingendo le dimissioni del generale, poi confermate (Verbali delle riunioni del consiglio direttivo della sezione CAI di Roma dal febbraio 1896 al febbraio 1897, rubrica 2, verbale della riunione dell'11 febbraio 1897, punto 3 dimissioni di soci). Il nome di Baratieri rimase però alla cima del gruppo del Brenta, datole dagli alpinisti Carlo Garlani, Nino Paoli e Giuseppe Zeni, i primi a scalarlo il 27 aprile 1895. Conservò il nome di Baratieri anche il forte da lui fatto costruire a Cassala, come stabilito nell'accordo anglo-italiano per la cessione di quella località all'Inghilterra; manifestò il suo dissenso il "Corriere della Sera" (15-16 novembre 1897, p. 1 “La cessione di Cassala e il forte Baratieri "), affermando che sarebbe stato d'accordo se il forte avesse portato il nome di qualche eroico caduto e ritenendo che dopo Adua sarebbe stato opportuno intitolare il forte ad altri, come ad esempio il capitano Carchidio, morto proprio a Cassala. Una volta concluse le discussioni in Parlamento sui problemi procedurali nella seduta del 1° giugno 1896 gli eventi si susseguirono con grande rapidità; il processo ebbe inizio il giorno 5 di quello stesso mese; il capo d'accusa era stato formulato in base agli articoli 72 e 88 del codice penale militare; entrambi prevedevano la pena di morte; l'articolo 72 la stabiliva per chi avesse lasciato in mano al nemico soldati, viveri, munizioni ovvero avesse esposto a grave pericolo le truppe affidate al suo comando; l'articolo 88 riguardava l'abbandono del comando davanti al nemico o in altra circostanza di pericolo; erano gravissime le accuse contro Baratieri, formulate sebbene il ministro della Guerra, Mocenni, già in partenza nella seduta del consiglio dei ministri del 4 marzo 1896 avesse escluso una responsabilità penale per Baratieri. Lo svolgimento del processo fu celere anche perchè il generale rinunciò ad ogni eccezione per le irregolarità istruttorie di cui si è già detto; ma ci fu comunque già all'inizio uno scontro fra l'accusa e la difesa per la richiesta di chiamare Baldissera a testimoniare, fatta dal capitano Cantoni difensore di Baratieri; l'accusatore Bacci eccepì che quella testimonianza era incompatibile con la carica di governatore ricoperta da Baldissera. Il tribunale in un primo momento respinse l'eccezione sollevata dall'accusa, ma finì poi per accoglierla e quindi Baldissera non poté deporre in sede giudiziaria; ma in altra sede si espresse a favore di Baratieri, affermando che il suo piano strategico era valido e che in quelle condizioni egli stesso avrebbe preso misure analoghe.
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La perizia tecnica affidata dal tribunale al colonnello Corticelli confermò nella sostanza un giudizio favorevole a Baratieri; la sconfitta era da prevedersi per la disparità delle forze in campo, ma le cause che la produssero erano state "varie e complesse e di natura principalmente politica e finanziaria; tali cioè da escludere... una responsabilità diretta in linea puramente militare". Pertanto il comportamento di Baratieri poteva giudicarsi avventato, ma non doloso; non esistevano quindi presupposti per una condanna: era così ripresa di sana pianta l'opinione già espressa da Mocenni. Nella sua deposizione del 6 giugno Baratieri fece ammenda delle accuse da lui rivolte contro i soldati con il telegramma del 3 marzo, inviato - si scusava in generale - in un momento di grande smarrimento, sotto l'impressione della recente sconfitta. Inoltre era un telegramma cifrato, che doveva restare riservato, non si sarebbe espresso in quel modo se avesse saputo che invece sarebbe stato reso pubblico, Baratieri riabilitava l'onore dei militari affermando che i caduti di Adua erano gloriosamente morti; il disastro era avvenuto per fatalità ed errore, egli aveva sempre agito "però con l'intima convinzione di operare per la grandezza della patria…". Era una linea difensiva che ammetteva parzialmente di aver commesso errori, ma escludeva una responsabilità dolosa; linea resa più salda dai documenti dei "Libri Verdi” attestanti la continua dannosa ingerenza di Crispi, ingerenza giudicata però dal “Corriere della Sera” tale da attenuare le responsabilità di Baratieri, ma non da cancellarle del tutto: il generale con la sua remissività di fronte al governo aveva confermato di essere inadeguato al comando (12-13 giugno 1896, p. 1 “Intorno al processo Baratieri"). Non mancarono i difensori a Crispi: “La Tribuna” (9 giugno 1896, p. 1 articolo di fondo privo di firma “Dalla disfatta al processo”) affermò che contro Crispi c'era una macchinazione di Rudinì: per compromettere il suo rivale politico avrebbe fatto pressioni sull'accusatore Bacci, che però per consiglio di Baldissera non ne aveva tenuto conto; nell'udienza del 9 giugno la difesa segnò un punto a suo favore, poiché fu escluso che Baratieri sapesse dell'arrivo di Baldissera e avesse perciò voluto ottenere una vittoria prima di essere sostituito. Risultarono favorevoli a Baratieri le testimonianze del colonnello Valenzano, capo di Stato Maggiore, del generale Ellena, del capitano Enrico Caviglia; si profilava ormai una conclusione assolutoria e se ne rese conto anche l'accusa; Bacci ritirò le gravissime imputazioni formulate ai sensi degli articoli 72 e 88 per cui era prevista la pena di morte, l'accusa fu ridimensionata, ridotta ad avere agito con negligenza e aver attaccato senza una effettiva necessità. In applicazione dell'articolo 74 del codice penale militare Bacci chiese la condanna a 10 anni di reclusione e al tempo stesso fece questa dichiarazione singolare per un accusatore: "Nel chiedere la condanna del generale Baratieri adempio ad un sacro dovere. Se voi, giudici, nella vostra coscienza
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riconoscerete non trattarsi di delitto, ma di errore, sarò il primo ad inchinarmi al vostro verdetto, anzi a goderne. Nella sventura pel paese, per l'esercito è minor danno l'avere un generale sfortunato ed incapace che l'averlo colpevole". Era quasi un esplicito invito a non tener conto della richiesta di condannare Baratieri. Il difensore chiese nell'udienza del 12 giugno la completa assoluzione: il generale aveva attaccato perché convinto di poter vincere e non aveva nel corso della battaglia mantenuto i contatti con i reparti per una impossibilità oggettiva, non per negligenza: si trascurava il fatto che era stata grave negligenza lasciare nei depositi gli strumenti del telegrafo ottico che avrebbero certamente resi più facili quei contatti tanto necessari. "Sfortunato ed incapace" era stato definito dall'accusa Baratieri: ed a tale definizione sembrò ispirarsi la sentenza. Baratieri fu assolto, ma al tempo stesso gli veniva impresso il marchio di incapacità: con la sua iniziativa avventata aveva causato un disastro. Il generale contestò quel giudizio del tribunale: era una materia di cui avrebbe dovuto occuparsi un consiglio di disciplina, non un organo giudiziario. Nella sentenza ce ne fu anche per Crispi, ricordando le sue continue ed indebite pressioni su Baratieri perché si decidesse ad attaccare. Lo stesso accusatore aveva riconosciuto che i telegrammi di Crispi a Baratieri erano stati "urtanti, offensivi ed incitanti alla battaglia". La sentenza non giunse inattesa. “Il Resto del Carlino” aveva intitolato l'articolo di fondo del 13 giugno 1896 "Prevedendo una assoluzione". Si attribuiva il fallimento del piano di Baratieri alla indisciplina dei generali di brigata: se avessero rispettato gli ordini, si sarebbe avuta se non una vittoria, quanto meno una sconfitta più onorevole. La relazione Corticelli aveva giudicata valida la strategia di Baratieri, né si poteva accusarlo di personalismi: non sapeva dell'arrivo di Baldissera e non aveva quindi attaccato per ottenere una vittoria prima di essere sostituito. Il giornale bolognese dichiarava di non voler comunque giustificare l'operato di Baratieri: anche se assolto dal tribunale, sarebbe stato condannato dall'opinione pubblica e dalla storia, in quanto "complice necessario di una nefasta e sciagurata politica...di cui il triste autore fu Francesco Crispi, da lui assecondato con leggerezza per l‟ambizione di gloria”. “Il Fanfulla” sostenne la necessità di estendere le indagini al periodo precedente Adua, almeno fino alla sconfitta dell‟Amba Alagi, per accertare le responsabilità di tutti, ponendosi questi interrogativi: perché non si era soccorso in tempo Toselli e non si era disposto tempestivamente il suo ritiro? Perché il governo non aveva inviati subito i rinforzi? Come mai nei depositi di Napoli per l‟Africa c‟era solo l‟equipaggiamento per mille uomini? Come mai tanto nell‟Eritrea come a Roma vi fu
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tanta irresolutezza, tanta confusione, tanta cecità? (17 giugno, p. 1 articolo di fondo firmato “Il Fanfulla”, intitolato “La sentenza”). “Il Popolo Romano”, organo vicino a Crispi, si destreggiò per giustificarlo; riteneva giusto aver limitato ad Adua l‟indagine giudiziaria ed approvava la sentenza, arrivando a questa conclusione: “Finalmente, resa giustizia all‟eroismo dei soldati, là dove l‟eroismo fu possibile, il giudizio definitivo che gli avvenimenti, ossia la situazione fosse divenuta superiore all‟uomo, è purtroppo la sentenza vera dell‟infelice risultato della campagna. L‟inettitudine di Baratieri era stata la causa principale, se non unica, della disfatta" (16 giugno 1896, p. 1 “Fatti e giudizi d‟Africa. La sentenza del processo Baratieri”). I contorcimenti sintattici sembrano dimostrare quelli logici cui il giornale aveva dovuto ricorrere per assolvere Crispi. “Il Popolo Romano” faceva poi una chiamata di correo, sempre allo stesso fine assolutorio: come Crispi aveva ricordato nel suo intervento alla Camera del 19 dicembre 1895, Baratieri era stato nominato governatore da Rudinì e poi Giolitti aveva rafforzato i suoi poteri col decreto che gli conferiva il comando delle truppe in caso di guerra. Anche “L‟Opinione liberale” sottolineava le responsabilità dei politici, osservando che Baratieri aveva ricevuto una condanna morale per la sua incapacità, ma “coloro che non conobbero che egli era al disotto delle esigenze della situazione” avevano avuto “nella sentenza la loro parte di condanna” (17 giugno, p. 1, articolo di fondo non firmato, “La sentenza di Asmara”). Era già evidente l‟allusione a Crispi, ma “L‟Opinione “ volle essere più esplicita e in un successivo articolo ricordò “le insistenze non sempre misurate del governo onde uscire dall‟inazione”, rivolte a Baratieri e citate nella sentenza (18 giugno 1896, p. 1 “Il processo Baratieri. La sentenza”). Insoddisfatta della sentenza si mostrava "La Perseveranza": si sarebbe dovuto condannare Baratieri quanto meno per la sua imprudenza ed impreparazione; la relazione Corticelli era stata "monca ed incompleta"; era poi citato un articolo di Mercatelli su "La Tribuna" che criticava l'aver affidato l'istruttoria ad "un umile tenente contabile" (14 giugno 1896 "L'assoluzione di Baratieri" e "Un articolo di Mercatelli sul processo"). Nell'articolo ricordato da "La Perseveranza" Mercatelli deplorava che il processo fosse scaduto alle proporzioni di un processo per truffa o borseggio; si chiedeva poi quale giudizio potesse darsi "sulla competenza, sulla avvedutezza...e sulla disciplina dei nostri ufficiali superiori"; chiaro riferimento alla condotta di Albertone e Dabormida, ignorata invece dagli altri giornali. Mercatelli infine dichiarava che avrebbe preferito una approfondita inchiesta militare anzichè istruire un processo a Baratieri ("La Tribuna", 14 giugno 1896, pp. 1-2 commento di Luigi Mercatelli alla sentenza).
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Il "Corriere della Sera" dopo aver ricordato le responsabilità di Crispi, ironizzava sulla richiesta di un'inchiesta parlamentare avanzata da molti: era più facile chiederla che farla, poichè la Camera che avrebbe divuto disporla era la stessa che aveva sempre sostenuto Crispi (12-13 giugno 1896, "Intorno al processo Baratieri"; 15-16 giugno "L'assoluzione di Baratieri"; entrambi gli articoli sono siglati a.r.). A caldo, subito dopo la sentenza, Baratieri aveva escluso le sue dimissioni da deputato, con la speciosa motivazione di non voler dare l'impressione di sollecitare un plebiscito degli elettori a suo favore ("Corriere della Sera" 17-18 giungo 1896, p. 1 "Un colloquio col generale Baratieri dopo l'assoluzione"). Ma dovette poi convincersi della inopportunità di una sua permanenza alla Camera. Fu una decisione sofferta la sua, presa dopo aver ricevuto i pareri contrastanti degli amici, divisi fra l'incoraggiamento a proseguire l'attività politica e l'esortazione a ritirarsi. Agostino Zuccoli il 17 luglio 1896 scriveva al Bertelli, comune amico suo e di Baratieri, di giudicare opportuna una nuova candidatura alla Camera, ritenendo che gli elettori avrebbero confermata la loro fiducia nel generale, malgrado il risentimento dei reduci nei suoi confronti, e quasi contemporaneamente, il 21 luglio, l'avvocato Pietro Ghera confermava la fedeltà degli elettori di Breno. Per contro, tre gioni dopo, il 23 luglio, un altro amico di Breno, Pietro Vittadini, segnalava il malumore di quegli stessi elettori, risentiti più che per il disastro africano, per il fatto che, a loro dire, Baratieri aveva da deputato curato i propri interessi e non quelli dei cittadini. Il vescovo di Cremona, monsignor Bonomelli, a sua volta consigliava a Baratieri di starsene per il momento "tranquillo e passivo", poichè era "cosa ardita" presentarsi candidato alla Camera; aggiungeva: "Respiri l'aria libera dei monti, attinga in sè la forza di portare nobilmente la sua sventura" e proseguiva infine condannando "i nemici ed i malevoli dell'ultima ora...fedeli amici nella prosperità, avversari implacabili nella sfortuna". Questa lettera del prelato in data 26 luglio 1896 era la risposta a quella inviatagli il 23 da Baratieri per chiedergli che fare: temeva "il fango della stampa" e riteneva di perdere una tribuna da cui parlare abbandonando il Parlamento. Giovanni Antonio Ronchi il 1° agosto sconsigliava da Breno di recarsi nella Val Camonica: una sua visita privata e quasi clandestina sarebbe riuscita gradita agli amici, ma avrebbe avuto un effetto negativo se paragonata alle accoglienze trionfali riservategli nelle precedenti visite ufficiali, cui ormai non era più il caso di pensare. Ed il barone Emanuele Malfatti rivolgeva poi il 12 settembre 1896 l'invito a Baratieri di astenersi da ogni pubblico intervento, rinunciando pure a difendersi, nell'attesa che col tempo gli animi si
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placassero: aveva espressa la stessa opinione l'ex presidente della Camera Biancheri, incontrato a Tabiano dal barone.246 Alfine Baratieri prese la sua decisione: il 2 febbraio 1897 scrisse da Arco ai suoi elettori di Breno per comunicare il ritiro dalla vita politica, affermando "gli uomini passano e la Nazione resta". Un'altra dura prova fu per Baratieri la fine della sua carriera militare: Ricotti, ministro della Guerra nel governo Rudinì, aveva disposto il suo collocamento nella riserva ed il suo successore Pelloux, ministro ancora con Rudinì presidente, fu costretto a confermare quella misura nonostante la sua amicizia con Baratieri. Quel provvedimento punitivo fu preannunciato da Baldissera a Baratieri il 19 luglio 1896, rivolgendogli al tempo stesso questa esortazione: "Fa di distrarti, occupati il meno possibile d'Africa e di politica e attendi paziente dal tempo quei conforti che per un momento potranno esserti negati". Parole che non promettevano nulla di buono: e difatti l'8 agosto Baldissera comunitò la conferma da parte di Pelloux del decreto di Ricotti per il collocamento nella riserva, cercando di consolare Baratieri con queste parole: "la cosa è dura quanto inusitata, ma è forza accettarla con filosofia, poichè la posizione di riposo è sempre senza dubbio la più adatta a restituirti quella serena tranquillità d'animo alla quale ti danno diritto i dieci anni di lavoro indefesso spesi nobilmente per la patria". Era senz'altro una cosa dura, come scriveva Baldissera, il collocamento nella riserva, ma non inusitata: per molto meno, solo per il supposto proposito di volersi sottrarre ad altri rischi tornando in Italia per curare la ferita ricevuta ad Adua, il generale Ellena era stato considerato inabile al comando e collocato nella riserva, senza tenere conto che il vice-governatore Lamberti aveva autorizzato il rimpatrio. Pelloux dal canto suo scrisse a Baratieri in termini molto affettuosi per comunicargli di essere stato costretto a confermare il decreto di Ricotti, poichè la sua permanenza in servizio attivo sarebbe stata criticata da tutti. Per attenuare la gravità del provvedimento consigliava a Baratieri di chiedere egli stesso il collocamento nella riserva ed in tono consolatorio aggiungeva: "talvolta, anche senza colpa nostra, si deve pagare" ed assicurava: "un vero dolore io provo a scriverle a quel modo; ma ciò, 246
Archivio di Stato Venezia Carte Baratieri, busta 7, fascicolo 10 "Elezioni 1896". Doc. 1 lettera di Agostino Zuccoli al Bertelli, Capo di Ponte 7 luglio 1896. Doc. 3 lettera dell'avvocato Pietro Ghera a Baratieri, Breno 21 luglio 1896. Doc. 5 lettera di P. Vittadini a Baratieri, Breno 23 luglio 1896. Doc. 7 lettera di mons. Bonomelli a Baratieri, Cremona 26 luglio 1896. Doc. 9 lettera di G.A. Ronchi a Baratieri, Breno 1° agosto 1896. Doc. 12 lettera del barone E. Malfatti a Baratieri, Salsomaggiore 12 settembre 1896. Archivio del Museo storico di Trento, Carte Baratieri, busta 1, fascicolo 9, lettera di Baratieri a mons. Bonomelli, Arco 23 luglio 1896.
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creda, caro Baratieri, non cancella menomamente l'amicizia che avevo per lei e che conservo tutta intera ora come prima".247 Quel cumulo di amarezze e di avversità di abbattè su di un uomo già in stato di depressione ancor prima di Adua, come attestato da Bassi nel suo diario. Quale effetto avesse poi avuto il disastro di Adua su di un sistema nervoso già compromesso dal peso di tante responsabilità può desumersi da quanto Macola scriveva tornato in Italia a fine marzo 1896: "Quando andai a trovarlo appena giunse a Massaua mi fece un senso di pietà, mi parea un uomo finito; tre giorni dopo lo rividi. Gli era tornato il sussiego". ("L'Opinione Liberale", 26 marzo 1896, p. 1 "La guerra d'Africa. L'arrivo del Sumatra. L'on. Macola"). Ma quel "sussiego" doveva essere una maschera impostasi per darsi un contegno; il grave stato in cui versava Baratieri sembra confermato dalle voci di un suo tentativo di suicidio, fallito per il pronto intervento del maggiore Salsa per deviare il colpo di pistola. Ma se Baratieri aveva dovuto sostenere prove tanto difficili, Crispi da parte sua aveva anche da affrontare seri problemi: aveva perso il potere e contro lui montava implacabile una crescente impopolarità che dava luogo a manifestazioni violente. Crispi aveva subito temuto il verificarsi di incidenti causati dalla sconfitta di Adua; il 3 marzo 1896 aveva già allertato i prefetti con la circolare telegrafica 2846 circa le possibili agitazioni sovversive e aveva dato questa istruzione: "Tenga elevato lo spirito delle popolazioni e faccia appello alla stampa liberale affinché cooperi a questo dovere di patria".248 Le risposte dei prefetti alla circolare ci danno un quadro della complessa e variegata situazione esistente. Alcuni prefetti rassicurarono Crispi affermando di ritenere improbabili atti sovversivi; con grande sollecitudine lo stesso 3 marzo il prefetto dell'Aquila escludeva l'eventualità di quel rischio, ma assicurava di aver comunque "provveduto per l'oculata prevenzione e repressione". Era pure rassicurante quanto comunicava il prefetto di Arezzo l'8 marzo 1896: aveva negato il teatro Politeama per una manifestazione antiafricanista del partito democratico, svoltasi in una sala privata con circa trecento partecipanti; ma, concludeva il prefetto, “ la popolazione rimase indifferentissima. Quiete e ordine perfetto ".
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Carteggio di Oreste Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato, pp. 300-301, lettera di Baratieri agli elettori del collegio di Breno, Arco 2 febbraio 1897; pp. 117-118 lettera di Baldissera a Baratieri, Savona 19 luglio 1896; p. 128 lettera di Baldissera a Baratieri, Roma 8 agosto 1896; pp. 125-126 lettera di Pelloux a Baratieri, Verona 28 luglio 1896. 248 ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria, busta 104, fascicolo 652, sottofascicolo 16. Tel. circolare di Crispi ai prefetti n. 2846, 3 marzo 1896.
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In altre città c'erano stati tentativi di agitazione, presto falliti: a Bari un gruppo di studenti aveva tentato una dimostrazione, ma "al semplice intervento funzionari ed agenti forza pubblica" si erano "sciolti tranquillamente". A Catania (patria di De Felice, l'animatore dei fasci siciliani) non andarono meglio le cose per gli antiafricanisti: gli studenti tennero un comizio nel cortile dell'Università, a porte chiuse, per il divieto di tenerlo all'aperto. Secondo il prefetto ci furono "soliti discorsi e conclusioni contro spedizione africana"; ingloriosa la conclusione del comizio: gli studenti uscirono "alla spicciolata ed in silenzio" avendo trovato il portone dell'Università presidiato da militari e da agenti di polizia.249 Si mostrarono più combattivi i manifestanti a Palermo, tra i primi a scendere in piazza: il corrispondente locale de “Il Popolo” di Torino telegrafò al giornale il 2 marzo che una "cinquantina di insensati" aveva inneggiato alla "rivoluzione sociale" e aveva accolto con fischi gli addetti alla raccolta di offerte per le famiglie disagiate dei caduti in Africa, affermando che occorreva dar lavoro agli operai piuttosto che fare elemosine offensive; c'erano stati disordini pure a Piana degli Albanesi, centro socialista patria di Barbato; e di chiara impronta classista erano state difatti le manifestazioni con la richiesta di lavoro per gli operai. Il prefetto di Agrigento (all'epoca chiamata Girgenti) attribuiva motivazioni socialistiche alla manifestazione fissata per il giorno successivo, poichè vi avrebbero partecipato soprattutto operai disoccupati, la maggioranza della popolazione - assicurava il prefetto - era però animata da spirito patriottico e confidava nel governo perché vendicasse la sconfitta. Altrettanto patriottici i cittadini di Trapani: nel corso di una recita nel teatro locale si era sparsa la notizia della partenza di una compagnia di militari per l'Africa e gli spettatori avevano improvvisato una manifestazione entusiastica inneggiando al re ed all'esercito mentre veniva eseguita la marcia reale. I cittadini di Foggia a loro volta manifestarono fiducia " nel senno e nel patriottismo del re e di Crispi", per cui erano sicuri della vittoria finale; nel comunicarlo, il prefetto non rinunciava però al suo ruolo di difensore della sicurezza, assicurando che "ordine pubblico sarà in ogni evento mantenuto". Tutto tranquillo a Messina: il prefetto comunicava che nulla aveva turbato l'ordine e che una folla numerosa aveva salutato con applausi la partenza per l'Africa di due compagnie del locale presidio.
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ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo. Busta 104, fascicolo 652, sottofascicolo 18, tel. prefetto Aquila a Ministero Interno P.S. 3 marzo 1896; tel. prefetto Arezzo a Ministero Interno P.S., 8 marzo 1896; tel. prefetto Bari a Ministero Interno, 7 marzo 1896. Sottofascicolo 12, tel prefetto Catania a Ministero Interno, 4 marzo 1896.
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Meno tranquilla invece la situazione a Ravenna: il prefetto segnalava con allarme una manifestazione di contadini venuti a reclamare pane e lavoro; ma il prefetto riteneva che ci fosse stata anche una sobillazione di estremisti. Per sedare la manifestazione fu necessario addirittura l'intervento della cavalleria a sostegno dei carabinieri e delle guardie di città.250 Pure in provincia di Alessandria, ad Asti, il sottoprefetto chiese l'intervento di reparti di cavalleria per assicurare l'ordine pubblico mentre si teneva un comizio antiafricanista; in tutto il circondario ci furono disordini, in particolare a Novi dove ci furono sette arresti; la preoccupazione di un prelievo forzoso dei loro risparmi spinse i cittadini a ritirare dalle casse postali somme più cospicue di quelle abituali. A Napoli l'epicentro delle manifestazioni fu l'Università; una delegazione di studenti guidata dagli onorevoli Pantaleoni e Colajanni si recò dal prefetto per chiedere la punizione dei responsabili del rovescio di Adua; il prefetto obiettò che solo il Parlamento aveva l'autorità di cercare le colpe e punirle. Un altro gruppo composto da un migliaio di persone, per lo più studenti, con alla testa il professor Francesco Saverio Nitti chiese al commissario prefettizio reggente il Comune di proporre la riapertura del Parlamento e la messa in stato di accusa del governo Crispi. Una folla di popolani manifestò nella piazza del mercato facendo sventolare la bandiera nera, simbolo dell'anarchia. Per essere in grado di controllare la situazione, il prefetto aveva fatto consegnare le truppe, assicurando al Ministero "manterrò ordine pubblico con prudenza ed energia occorrendo". Ad Ancona furono i monarchici a chiedere non solo l'intervento dell'esercito per assicurare l'ordine pubblico, ma addirittura la formazione di un governo militare. Il prefetto di Forlì, temendo disordini, spinse la sua prudenza fino a vietare la commemorazione di Mazzini fissata per l'anniversario della morte, il 10 marzo. Sulla situazione a Roma riferiva al Ministro il questore Sironi: all'Università c'erano stati scontri tra studenti socialisti e studenti monarchici, il deputato socialista Venedemini era stato allontanato e il rettore dell'Università aveva sospeso le lezioni e fatto sprangare il portone per tenere lontani gli estranei; a piazza Colonna e davanti a Montecitorio gli "affiliati ai partiti estremi" avevano applaudito al loro passaggio i deputati antiafricanisti e fischiato i sostenitori di Crispi. Si era poi formato un corteo da piazza Colonna a via del Tritone ed erano stati scagliati sassi, mandando in 250
Ibidem, sottofascicolo 12 – tel. del corrispondente a Palermo de “Il Popolo” di Torino, Sanfilippo, 2 marzo 1896; tel. del prefetto di Girgenti al Ministero Interno, 3 marzo 1896; tel. del prefetto di Trapani a Ministero Interno – Gabinetto, 9 marzo 1896; tel. prefetto Ravenna a Ministero Interno, 7 marzo 1896; tel. cifrato prefetto Foggia a Crispi, 3 marzo 1896; tel. prefetto Messina a sottosegretario Ministero Interno, 8 marzo 1896.
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frantumi le vetrine di alcuni negozi ed i vetri delle finestre della direzione del giornale "La Tribuna". Il ministro dell'interno aveva chiesto a quello della guerra di rinforzare con due battaglioni la guarnigione di Roma.251 Gli atti vandalici commessi nel corso del corteo in via del Tritone furono condannati nella riunione dei deputati socialisti, Andrea Costa, Prampolini, Agnini, De Marinis, svoltasi la sera del 7 marzo, che li attribuivano ad agenti provocatori infiltratisi nel corteo; ne dava notizia al ministero il questore di Roma, aggiungendo che Costa aveva fatto una fosca previsione: era imminente il momento in cui tutto il popolo sarebbe sceso in piazza a manifestare e quello sarebbe stato il giorno del giudizio universale. Ma non fu tanto terribile la manifestazione a Sassari di pochi studenti universitari e liceali, facilmente dispersi senza incidenti: c'era stato solo qualche isolato" evviva la Repubblica"; normali, tranne che a Tempio Pausania, i prelievi dalle casse postali.252 Fatti molto gravi si verificarono invece a Milano: furono quasi la prova generale di quelli ancor più sanguinosi stroncati nella primavera 1898 da Bava Beccaris. Le manifestazioni di protesta a Milano assunsero presto un carattere di massa, coinvolgendo larghi strati della popolazione. Ne fu allarmato il prefetto Winspeare, che già il 3 marzo si rivolse a più riprese a Crispi perché temeva la partecipazione non soltanto dei sovversivi, ma quella "assai più larga di gran parte della cittadinanza"; si confermava così la tradizionale ostilità della Lombardia a Crispi ed alle imprese africane. Il prefetto lamentava di avere a sua disposizione un numero insufficiente di carabinieri e di agenti di polizia, c'era inoltre da fare poco affidamento sui militari della guarnigione, formata in gran parte da coscritti inesperti. Sentiva la necessità Winspeare di parlare sinceramente: "eventi gravissimi" potevano verificarsi se si fosse prolungata la chiusura del Parlamento. Al primo telegramma inviato alle 15.00 del 3 marzo fece seguito alle ore 15,50 una seconda comunicazione telegrafica: il prefetto confermava le sue preoccupazioni per una partecipazione massiccia alle manifestazioni che si venivano organizzando, lamentava ancora l'insufficienza delle forze a sua disposizione e annunciava trepidante, se si fosse prolungata la chiusura del Parlamento: "non so dove si andrebbe a parare"; l'opinione pubblica addossava le colpe della sconfitta sia a Baratieri che a Crispi.
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Ibidem, sottofascicolo 17, tel. cifrato prefetto Alessandria a Ministero Interni, 3 e 7 marzo 1896; tel prefetto Napoli a Ministero Interni 3 e 4 marzo 1896; tel. cifrato prefetto Ancona a Ministero Interni P.S., 3 marzo 1896; tel prefetto Forlì a Ministero Interni P.S., 7 marzo 1896; tel del questore di Roma Sironi al Ministero Interni, 4 e 5 marzo 1896. 252 Ibidem, sottofascicolo 17, tel del questore di Roma, Sironi, a Ministero Interno P.S., 7 e 8 marzo 1896; tel cifrati del reggente la prefettura di Sassari, Fabris, a Ministero Interno, 4,6,7 e 8 marzo 1896.
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Un terzo telegramma inviato alle 23.40 dava informazioni sulla manifestazione iniziata verso le 20.00. Era rimasto ignorato l'appello alla calma rivolto dal sindaco ad una delegazione dei manifestanti, la folla aveva continuato a fischiare ed a gridare "abbasso Crispi" chiedendo il ritiro dall'Africa. Winspeare aveva rifiutato di ricevere una delegazione; si erano effettuati 15 arresti e c‟era stato un incidente mortale capitato ad un giovane operaio di cui non si faceva ancora il nome: sospinto dalla calca era rimasto infilzato dalla baionetta di un soldato, trovando così la morte. Un altro dimostrante era rimasto ferito allo stesso modo, senza però conseguenze mortali. Il successivo giorno 4 il corrispondente a Milano de "La Tribuna” di Roma inviò maggiori dettagli nel suo telegramma al giornale. Il sindaco Vigoni aveva cercato di calmare gli animi assicurando di condividere la protesta ed impegnandosi a comunicarlo a Roma. Mentre dava queste assicurazioni alla delegazione dei manifestanti, si era verificato l'incidente già segnalato dal prefetto: un giovane tipografo di 19 anni, Carlo Osmaghi,spinto dalla folla era rimasto trafitto da una baionetta ed era morto. A richiesta del sindaco furono ritirate le baionette ai soldati e ci fu una breve pausa di calma. Ma già alle 23 a piazza Duomo la folla riprese a manifestare; ci furono 60 arresti e 29 feriti, tra dimostranti e polizia, a causa di una fitta sassaiola. Intervenne la cavalleria per disperdere i dimostranti, uno dei quali rimase ferito perché travolto da un cavallo. Il prefetto col suo telegramma del 4 marzo aggiunse altri dettagli: la folla aveva invaso la stazione ferroviaria per impedire la partenza o l'arrivo dei convogli militari. Carabinieri ed agenti di polizia avevano respinto i dimostranti fino al piazzale della stazione, dove furono caricati dalla cavalleria; un ispettore e tre agenti di polizia erano stati feriti dai sassi scagliati contro di essi e per difendersi i poliziotti avevano fatto uso delle armi, senza però che ci fossero feriti; anche due o tre soldati erano stati colpiti dalle sassate. Il sindaco Vigoni, tenendo fede alla promessa fatta, telegrafò il 4 marzo a Crispi per comunicargli le preoccupazioni suscitate nei cittadini dagli avvenimenti africani e concludeva: ” esprimiamo il voto che l'esperienza sia consigliera affinché non si accumulino nuovi errori e nuovi dolori persistendo nello sterile programma di conquiste militari”. Le violenze continuarono, il 5 Winspeare telegrafò a Crispi che a piazza San Fedele “ qualche centinaio di Barabba” avevano scagliato sassi contro il portone della questura e si erano fatti molti arresti. Ricacciati da piazza San Fedele, i dimostranti si erano di nuovo riuniti continuando a tirare sassi; erano rimasti feriti cinque poliziotti e le vetrine della birreria Gambrinus erano state mandate in frantumi.
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Secondo il prefetto era scaduto il tono della manifestazione: come era avvenuto per i tumulti causati dall'eccidio di Aigues Mortes, “ dopo la prima giornata di manifestazione politica” si verificavano “moti teppistici di giovinastri". Ribadiva il prefetto questo giudizio nel telegramma del 6 marzo, affermando che la manifestazione a Lodi in realtà fu “esplosione plebaglia”. A Milano era comunque tornata la calma, anche per il divieto di nuove manifestazioni; le vie di Milano continuavano ad essere presidiate da pattuglie di cavalleria, notava soddisfatto il prefetto che la parte sana della popolazione aveva iniziato a reagire alla cieca violenza. Ma anche se era iniziato il riflusso la sera del 6 marzo circa 1000 persone avevano manifestato gridando e tirando sassi contro i due squadroni di cavalleria intervenuti; erano stati esplosi due colpi di pistola, avevano risposto al fuoco un tenente di cavalleria ed un agente di polizia, ma non c'erano stati feriti. Benché dimissionario Crispi continuava a seguire la situazione milanese con una preoccupata attenzione: il 7 marzo telegrafò al prefetto di avere appreso che si stava preparando per il giorno successivo una dimostrazione che poteva degenerare in una aperta rivoluzione; invitava quindi Winspeare a prendere ogni possibile precauzione d'intesa con il comando militare. Il prefetto nella risposta a Crispi precisò che la temuta dimostrazione era il funerale del giovane Osmaghi: questi in realtà era stato già sepolto nel cimitero del Musocco con una cerimonia privata, poiché la famiglia era contraria ad ogni speculazione di parte. Sembravano ormai i sbolliti gli umori bellicosi, anche per la fermezza dimostrata dalle autorità; non si potevano comunque escludere ulteriori disordini ad opera di malintenzionati, contro i quali aveva predisposto le opportune misure. Il giorno dei funerali, 8 marzo 1896, trascorse tranquillamente. Erano arrivati da Pavia 500 studenti, comunicava il prefetto a Crispi, per deporre una corona di fiori sulla tomba di Osmaghi, ma trovarono il portone del cimitero chiuso e presidiato dalla polizia; si diressero quindi al monumento delle Cinque Giornate del 1848 e deposero lì la corona, quasi a sottolineare una continuità ideale con le lotte del Risorgimento. Ma Crispi restava inquieto e chiese al prefetto di continuare ad informarlo; obbediente, Winspeare telegrafò alle 13.45 dell' 8 marzo assicurando che regnava un‟assoluta calma e per comunicare l'arrivo a Milano di tre reggimenti; alle 23.00 telegrafò ancora affermando che ormai erano finite le agitazioni.253 253
ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 104, fascicolo 652, sottofascicolo 13 Tel. cifrati del prefetto di Milano Winspeare a Crispi n. 4129 3 marzo 1896 ore 15,00 – n. 4163 ore 15,51 – ore 23,40 precedenza assoluta. Tel del corrispondente a Milano de “La Tribuna” di Roma, 4 marzo 1896. Tel di Winspeare a Crispi 4 marzo 1896. Tel del sindaco di Milano, Vigoni, a Crispi 4 marzo 1896. Tel di Winspeare a Ministero Interno 5 marzo e 6 marzo 1896 (cifrato). Tel di Winspeare a Crispi 7 marzo 1896. Tel di Crispi cifrato con precedenza assoluta a
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I pavesi contribuirono alle proteste non soltanto con la solidarietà manifestata ai milanesi deponendo una corona di fiori sul monumento alle Cinque Giornate. Si adoperarono attivamente sabotando le linee ferroviarie per impedire la partenza dei treni militari: gli studenti avevano divelto i binari a tale scopo. Il giorno 3 marzo il prefetto di Pavia, Gatti, aveva rassicurato il sottosegretario agli Interni, Galli, che aveva chiesto notizie, affermando che la situazione era calma. Ma già il 4 marzo comunicava l'esistenza di un certo fermento tra gli studenti. Questi avevano chiesto al rettore la chiusura dell'Università e l'esposizione della bandiera nazionale listata di nero in segno di lutto; formato un corteo avevano chiesto ai negozianti di chiudere i loro locali e di esporre pure essi la bandiera abbrunata, come avevano già fatto gli uffici pubblici e molti privati cittadini. Ci fu l'intervento delle truppe e ci furono arresti di operai e studenti poi rilasciati per l'intervento del rettore e dell‟on. Rampoldi. Ma la protesta dilagò in provincia, a Voghera, Bobbio, Mortara. La situazione peggiorò: il 6 marzo il prefetto comunicava al Ministro dell'Interno (era in carica ancora Crispi) il sabotaggio delle linee ferroviarie e telegrafiche da parte di una folla di 5-6 mila persone; carabinieri e polizia non avevano potuto impedirlo e il prefetto aveva disposto l'intervento dei militari per "contenere codesti forsennati"; alle 23.00 i treni avevano ripreso a circolare. Con altro telegramma in pari data il prefetto segnalava che la protesta si era spostata davanti alla prefettura; la folla aveva rotto a sassate i vetri delle finestre, venendo poi dispersa dalle truppe affluite dalla stazione. Un dispaccio dell'agenzia francese Havas a Roma confermò il sabotaggio delle linee ferroviarie, aggiungendo un particolare taciuto dal prefetto: la polizia aveva sparato facendo molti feriti. L'ordine era stato alfine ristabilito grazie all'intervento di due squadroni di cavalleria. A tumulti finiti, il prefetto ci tenne ad esprimere il suo disappunto per la libertà provvisoria accordata dalla magistratura agli arrestati con l'imputazione di ribellione e violenza: "onesti stigmatizzano provvedimento del tribunale e contegno del medesimo", era l'amara rampogna del solerte funzionario.254
Continua nota 253 Winspeare n. 3071, 7 marzo 1896. Tel cifrato di Winspeare a Crispi 7 marzo 1896, e tel. 8 marzo 1896. Tel di Crispi cifrato urgente a Winspeare 8 marzo 1896. Tel cifrati di Winspeare a Crispi 8 marzo 1896, ore 13,45 e ore 23,00. 254 Ibidem, tel del sottosegretario agli Interni, Galli, al prefetto di Pavia, 3 marzo 1896; tel. del prefetto di Pavia, Gatti, al sottosegretario Galli, 3 marzo 1896; tel. del prefetto Gatti al Ministero Interni P.S., 4 marzo 1896; tel. di Gatti a S.E. Ministro Interni 6 (recte 7) marzo 1896; tel. del corrispondente a Roma all’agenzia Havas a Parigi, 6 marzo 1896; tel. prefetto Gatti a Ministero Interni P.S. 9 marzo 1896.
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Furono numerose e veementi le proteste contro Crispi e le imprese coloniali: non mancarono però le manifestazioni di solidarietà ed a quelle pubbliche si unirono anche le private con telegrammi e lettere personali. Manfredi Camperio il 4 marzo 1896 telegrafava a Crispi "sempre con Voi nella buona e nell'avversa fortuna" ed il 7 marzo gli scriveva: "La lotta infame e personale contro di Voi è lotta contro la patria". Altrettanto deciso nell'affermare la sua fedeltà si mostrava l'ex garibaldino calabrese Achille Fazzari, telegrafando il 3 marzo: "Credo farmi interprete nostri compagni armi mettendo tua disposizione brandello che ancora esiste camicia rossa. Saremo compatti con stessa fede come vivo nostro amato generale. Nessuna preoccupazione. Avanti oggi più che ieri". E Fazzari in seguito offrì al governo di Rudinì la partecipazione di un corpo di volontari che contava di reclutare per combattere a fianco del regio esercito contro gli abissini, offerta declinata dal Ministro della Guerra perché erano sufficienti i reparti regolari (“Fanfulla” 18 marzo 1896, p. 1 “I volontari in Africa" ). Spirito avventuroso, Fazzari propose alcuni anni dopo a Menotti Garibaldi una spedizione in Nuova Guinea per formarvi una colonia: proposta saggiamente sconsigliata dal figlio dell'eroe dei due mondi (lettera di Achille Fazzari su "Camicia Rossa", anno III, 15 novembre 1903). Sempre in nome della solidarietà tra ex garibaldini Giacinto Bruzzesi ricordava l'episodio di Garibaldi, ferito ad Aspromonte, vittima di intrighi stranieri e faceva un parallelo con la situazione di Crispi: "La stessa prepotenza ora, in altra veste, sotto altra forma ed altri inganni, talché ambiziosi e denigratori, resi strumento dell'intrigo straniero, trascinano oggi al delitto gli incauti, cui han pervertito il cuore, e gridano viva Menelich. Disonorano la patria, la tradizione e sono sfrontatamente liberi". Antonelli, dalla lontana Buenos Aires dove rappresentava l'Italia, faceva pure sentire la sua voce: non attribuiva a trame oscure le manifestazioni contro Crispi, ma anche lui le deprecava e rimpiangeva di non poter essere vicino a Crispi in quel difficile momento per manifestargli solidarietà: "Quello che più mi affligge è di non aver potuto esserle vicino per esprimerle di viva voce la inalterata mia ammirazione pel suo animo forte generoso. Il più doloroso è vedere l'atteggiamento perverso di alcune città. Qui tutti ne furono indignati…”.255 Una serie di appunti autografi dello stesso Crispi privi di data ci chiarisce quali fossero le sue opinioni di fronte al montare della protesta dopo Adua. 255
ACS Roma Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 146, fascicolo 1196, documento n. 7, telegramma di M. Camperio a Crispi 4 marzo 1896; documento n. 8 lettera di Camperio a Crispi 7 marzo 1896; busta 146, fascicolo 1444, telegramma di Achille Fazzari a Crispi 3 marzo 1896; fascicolo 1169, documento n. 7 lettera di Giacinto Bruzzesi a Crispi 10 marzo 1896. Busta 142, fascicolo 10302, lettera di Antonelli a Crispi, Buenos Aires 16 marzo 1896.
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Un inizio di autocritica sembrava dimostrarlo questa riflessione: "La nostra colpa, la vera colpa nostra è di esserci illusi con le vittorie di Baratieri. Ma si illuse anche questa Camera". In un primo momento Crispi si astenne dall'esprimere giudizi affrettati sugli avvenimenti: "La notizia della battaglia del 1° marzo ci giunse improvvisa. Non conosciamo ancora il motivo per cui fu impegnata. Riserviamo il nostro giudizio al tempo in cui ci saranno note tutte le circostanze di fatto": era un "no comment" utile anche a rinviare spiegazioni imbarazzanti. Crispi nel rivangare il passato ricordava le difficoltà del suo governo, minato all'interno dalle discordie tra i ministri ed insidiato dagli attacchi dei radicali interessati a strumentalizzare la sconfitta di Adua per farlo cadere. Avrebbe potuto sventare quelle trame, se il governo "infirmato da tre o quattro vigliacchi non fosse stato incapace di atti audaci". E Crispi specificava quali avrebbero dovuto essere questi "atti audaci": "Chiuse ermeticamente le porte di Montecitorio, arrestati sei o sette demagoghi, non si sarebbe inoculato nelle vene della nazione il veleno della viltà"; Adua sarebbe stata vendicata: non era una sconfitta irreparabile. Non riconosceva alcuna responsabilità del governo per Adua. "Fu un atto di pazzia di quello sciagurato"; Baratieri dopo aver portato l'esercito alla rovina" con un telegramma incivile e menzognero gettò la colpa sui poveri soldati che invece si batterono con valore". Erano poi smentiti i prudenti propositi pacifici a più riprese sbandierati: ".... bisognava attaccare il nemico in casa sua e questo sarebbe stato il vero modo di vincere. Non mi riuscì di farlo, ed allora avrei dovuto dimettermi… le mezze misure portano alla rovina". Ma ancor più disastroso della sconfitta fu non aver cercato la rivincita: "Gli effetti della viltà sono peggiori di una battaglia perduta. Non fu Adua che rovinò l'Italia, ma il contegno che seguì il governo dopo la sconfitta del 1° marzo". Era in gioco l'onore nazionale più che il possesso della colonia: "si può lasciare l'Africa, ma prima occorre una vittoria. È una questione nazionale, non coloniale. Gli inglesi vinsero, partirono dappoi". Con un susseguirsi di pensieri contraddittori Crispi rinnegava l'idea di un attacco a fondo da condurre fino in casa del nemico: “A noi non conveniva affatto la battaglia. A noi conveniva rinforzarci ed attendere. Nell'attesa era il segnale della vittoria. Si avvicinava la stagione delle piogge e Menelich sarebbe stato costretto a ritirarsi".256 Quello di Crispi era un buon senso momentaneo, sopravvenuto dopo tutte le mortificazioni ed i rimproveri inflitti a Baratieri accusato di un miope attendismo. Crispi in definitiva confermava il suo bellicoso oltranzismo nel cercare ad ogni costo una rivincita; si poteva uscire di scena lasciando 256
ACS Carte Crispi. Deputazione Storia Patria Palermo, busta 105, fascicolo 667. Appunti autografi di Crispi, privi di data, ma chiaramente successivi alla sconfitta di Adua.
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l'Africa, ma a testa alta, dopo aver vendicato sul campo la sconfitta. Avevano fatto così gli inglesi, ricordava Crispi; dopo la perdita di Kartum e la morte di Gordon pascià avevano sconfitto il Mahdi. Ma Baldissera non poté essere il Kitchener italiano: esisteva una profonda differenza tra il colonialismo britannico, capace di resistere alle sconfitte grazie alle sue radici ben salde per l'unanime consenso popolare e per la ricchezza dei mezzi dispiegati, e le velleitarie aspirazioni coloniali italiane, avversate da gran parte della popolazione e prive di mezzi adeguati. È fu proprio per l'insufficienza dei mezzi messi a sua disposizione che Baldissera, pur disponendo di 42.000 uomini, più del doppio di quanti Baratieri ne avesse avuta ad Adua, già nel 1897 lasciò l'Eritrea, per il rifiuto opposto alla sua richiesta di proseguire la ferrovia da Saati fino all‟Asmara; prosecuzione ritenuta da lui essenziale per trasportare uomini e materiale. In questi appunti di Crispi colpisce soprattutto un acceso sentimento antiparlamentare: bisognava chiudere Montecitorio, arrestare i demagoghi che vi facevano una velenosa propaganda antinazionale, governare col pugno di ferro e senza neanche il guanto di velluto; si anticipava quasi la definizione di Montecitorio data poi da Mussolini come “un'aula sorda e grigia"; ma nella società italiana di quel tempo, seppur viziata da incipienti pulsioni autoritarie, esistevano ancora anticorpi democratici sufficienti ad impedirlo. Coglieva comunque nel segno, almeno in una certa misura, l'affermazione che ancor più della sconfitta di Adua di per se stessa, nocque la sua percezione da parte della classe politica e dell'intera nazione, pervase da un avvilimento generale non temperato dai velleitari propositi di rivincita; per contro, nei paesi africani, e non solo in Etiopia, ci fu una trionfalistica enfatizzazione del significato storico di Adua. Il 7 marzo 1896, appena appresa la notizia della vittoria di Menelich, il "Lagos Weekley Record”, il più importante giornale dell'Africa occidentale britannica, nel suo articolo di fondo condannava il colonialismo europeo in generale e quello italiano in particolare, esprimendo soddisfazione per quella sconfitta inflitta da un popolo africano ad uno europeo ed ancora il 21 novembre dello stesso anno il giornale condannava la violenza degli europei contro gli africani, commessa con il pretesto di voler diffondere la civiltà nel continente nero. Un altro giornale, il “Lagos Standard” (8 giugno 1896, “For God. The Queen and the people”) esaltava la prudente moderazione di Menelich, dimostratosi dopo il trionfo di Adua "d'animo nobile, riflessivo, serio, reale e autentico indigeno d'Africa". Il “Lagos Standard” il 16 dicembre 1896 lodava ancora il negus per il buon trattamento riservato ai prigionieri italiani. Sullo stesso numero del giornale era pubblicata una lettera di Menelich ad un
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missionario europeo non identificato, in cui erano condannate le violenze antisemite in Europa, paragonate a quelle commesse in Africa dai colonialisti.257 A fini apologetici si tacevano le mutilazioni inflitte agli ascari e le evirazioni subite dagli italiani; il mito di Adua è sopravvissuto fino ai giorni nostri nell'immaginario abissino: è difatti del 1999 il film del regista etiopico Hailè Gerima dall'eloquente titolo "Adwa. An African Victory”; la vittoria di Menelich è considerata un importante incentivo del movimento panafricano, assumendo un valore emblematico: oltre all'orgoglio nazionale sembrano avere ispirato il regista ragioni ed affetti familiari, poiché un suo nonno aveva combattuto ad Adua.258 Gli alti comandi militari italiani da parte loro reagirono alla sconfitta di Adua distribuendo con larghezza ricompense al valore. Ai caduti ed ai superstiti di Adua furono elargite in totale 915 medaglie (10 d'oro, 397 d'argento, 508 di bronzo), in massima parte assegnate a militari italiani; gli ascari ebbero 47 medaglie di bronzo, 37 quelli della brigata Albertone, 3 per la brigata Arimondi e 7 per la brigata Dabormida; 2 sole d'argento, entrambe attribuite ad indigeni del settimo battaglione della brigata Albertone: si trattavano dell'ascaro Selma, rimasto ferito cinque volte mentre difendeva il suo capitano, e del cantibai Tedda, ucciso nel difendere il tenente Lucca: loro maggior merito fu forse considerata la fedeltà dimostrata verso gli ufficiali italiani. Fra i decorati con medaglia d'argento ci furono anche due civili caduti nel combattimento cui avevano preso parte da volontari: il giornalista Della Valle e Luigi Bocconi, ex sottotenente degli alpini, il cui nome fu dato dal padre al prestigioso Istituto universitario milanese di scienze economiche, sorto grazie al mecenatismo della famiglia, dotata di una notevole ricchezza (il padre era un importante industriale). Il giovane milanese armato di un moderno fucile a ripetizione, ben più efficace degli antiquati Wetterli in dotazione ai soldati, aveva combattuto ostinatamente fino all'ultimo, ignorando l'esortazione a ritirarsi rivoltagli da un ufficiale.259 Ebbero la medaglia d'oro alla memoria i generali Arimondi e Dabormida, il tenente colonnello Galliano; ad Albertone, ferito e fatto prigioniero, fu conferita la medaglia d'argento con questa motivazione: "Albertone cavaliere Matteo, maggior generale comandante la brigata "Albertone" 257
Cfr. Basil Davidson "Adua. Alcune riflessioni cento anni dopo", in "Adua. Le ragioni di una sconfitta", a cura di A. Del Boca. Laterza, Bari 1997, pp. 285-299. 258 Cfr. la scheda di Giulio Bazzanella "Il cinema ed il colonialismo italiano" su Internet. 259 Luigi Bocconi non era ancora trentenne (era nato l'8 novembre 1869) ed aveva già dato prova del suo generoso carattere quando, imbarcato su di un piroscafo della linea Londra-Amburgo, essendo scoppiato un incendio, aveva validamente cooerato al salvataggio dei passeggeri, lasciando la nave fra gli ultimi. Altra prova di generosità la aveva data a Monaco di Baviera: insultato in una birreria aveva sostenuto un duello con chi l'aveva offeso e aveva risparmiato la vita del suo avversario, che aveva fallito il colpo, sparando volutamente verso l'alto. Sulla scia dell'emozione popolare suscitata dall'Amba Alagi, Luigi Bocconi si recò in Africa come corrispondente del giornale "La Riforma". Per onorarne la memoria il padre, oltre ad intitolargli l'istituto universitario a Milano, destinò 200 mila lire ad opere di beneficenza e curò la pubblicazione di un opuscolo con sue lettere e ricordi ("Corriere della Sera", 27-28 febbraio 1898, p. 3 "Corriere milanese. In memoria di Luigi Bocconi").
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(indigeni). Comandò con fermezza e coraggio esemplare la sua brigata durante tutto il combattimento infondendo il suo ardire in quanti lo circondavano. Ultimo a ritirarsi, cadutogli il cavallo per una palla nemica, circondato e sopraffatto, rimase in mano degli scioani." Da giovane sottotenente del 35º battaglione bersaglieri, Albertone era stato già decorato con medaglia d'argento " pel valore dimostrato nel combattere contro i briganti, Bosco Monticchio 29 luglio 1864"; per la sua partecipazione a quello stesso combattimento aveva pure avuto questa menzione d'onore: "si distinse nella repressione del brigantaggio e per altri atti di valore". Ancor prima aveva già ricevuto un'altra menzione d'onore, così motivata: "per lo zelo ed il valore spiegato nella repressione del brigantaggio. Fondissi d‟Opi, 3 gennaio 1862.260 Può stupire la medaglia d'argento conferita ad Albertone per il suo comportamento nella battaglia di Adua; aveva dato prova di valore personale, ma si era reso responsabile di una colpevole confusione, risultata disastrosa, procedendo oltre la posizione assegnatagli da Baratieri. Il vice-governatore Lamberti nella relazione inoltrata il 10 maggio 1896 al Ministero della Guerra sulla battaglia di Adua cercò di attenuare la responsabilità di Albertone affermando che forse era stato tratto in inganno dalle guide indigene ed aveva perciò creduto di dover occupare il colle Enda Chidane Meret, posto 7 km più avanti in direzione di Adua, rispetto al colle di Errà, erroneamente chiamato Chidane Meret, posizione assegnatagli da Baratieri. Ma Lamberti non poteva fare a meno di riconoscere: "Forse fu questo equivoco che portò le peggiori conseguenze per l'esito della battaglia".261 Emilio Bellavita aveva partecipato alla battaglia di Adua come aiutante di campo del generale Dabormida e descrisse poi gli avvenimenti del 1° marzo nella sua dettagliata monografia "Adua. I precedenti. La battaglia. Le conseguenze (1881-1931)", dando una valutazione positiva di Albertone, definito "prudente, pratico valorosissimo generale". Secondo Bellavita, il generale la sera del 29 febbraio, al termine della riunione con Baratieri, si lagnò col capo di Stato Maggiore Valenzano perché trovava sommario ed errato lo schizzo topografico fornitogli; Valenzano lo rassicurò affermando che cinque guide esperte e fidatissime lo avrebbero accompagnato e gli promise di fargli avere al più presto il testo completo delle istruzioni di Baratieri: ma in realtà Albertone ebbe quel testo solo al momento della partenza, quando era già 260
Sulle decorazioni assegnate per Adua Cfr. ACS Roma Ministero Guerra Direzione Personale Giustizia militare, busta unica, fascicolo 7. Delle precedenti decorazioni ottenute da Albertone per la guerra contro il brigantaggio si è avuta notizia dal Ministero della Difesa, Direzione Generale per il Personale militare; 3° reparto Servizio ricompense e onorificenze. 261 Ministero della Guerra - Guerra d'Africa. Documenti sulla battaglia di Adua e sulla operazione per la liberazione di Cassala. Enrico Vaglia tipografo 1896. Relazione del vice-governatore maggior generale Lamberti al Ministero della Guerra sulla battaglia di Adua, 1° marzo 1896, p. 14.
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montato a cavallo, e poté quindi informare i suoi ufficiali utilizzando soltanto gli appunti presi nel corso della riunione. Tale sfortunata circostanza potrebbe forse spiegare per quale motivo Albertone avanzò molto al di là della posizione assegnatagli, restando isolato dalle altre brigate. Ma Bellavita, pur dimostrandosi favorevole ad Albertone, onestamente riporta anche il giudizio dei suoi critici, che hanno osservato che il generale, malgrado la confusione causata dal ritardo nel ricevere gli ordini di Baratieri e dall'errata denominazione di Chidane Meret data nella cartina topografica fornitagli al colle Errà, avrebbe dovuto orientarsi sapendo di doversi fermare sulla linea segnata dai monti Semaya e Rajò, a lui ben noti per averli contemplati durante i 15 giorni trascorsi a Saurià. Alberto Pollera dopo aver visitato i luoghi della battaglia e riconosciuto l'errore commesso nel denominare Chidane Meret il colle Errà afferma che Albertone avrebbe dovuto capire di essere arrivato alla posizione assegnatagli in quanto era contigua al colle Rebbi Arienni su cui doveva attestarsi Arimondi. Decise invece di andare oltre per sorprendere il nemico, ed al maggiore Turitto, che gli aveva fatto osservare di essere arrivati alla posizione prestabilita, chiese sprezzante: "Avrebbe forse paura?". L'ufficiale, risentito, a sua volta si spinse poi fino al campo abissino ed il suo battaglione restò travolto dai nemici. Per Pollera Baratieri avrebbe condotto le operazioni "con sapiente sagacia militare", ma il suo piano di battaglia fu compromesso da Albertone e Dabormida, inoltratosi inspiegabilmente nel vallone di Mariam Sciavitù finendo per restare anche egli isolato. L'azione di Albertone è stata condannata pure da Giuseppe Bourelly; anche se poteva trarlo in inganno il falso nome Chidane Meret, doveva essergli chiaro che bisognava disporsi lungo la linea tracciata dal falso Chidane Meret – Monte Rajò – Rebbi Arienni, come aveva spiegato con chiarezza Baratieri; ma Albertone – affermava Bourelly - "mostrò di intendere il proprio compito in un modo affatto speciale, indipendente dall'azione del comando generale ".262 Giudizio fatto proprio anche dal colonnello Corticelli nella relazione tecnica affidatagli dal tribunale militare di Asmara; l'errore di Albertone da tanti riconosciuto avrebbe dovuto scagionare completamente Baratieri e riconoscere la responsabilità del primo, ma giustificare Albertone, premiandolo addirittura con una medaglia, significava aggravare la posizione di Baratieri, che doveva pagare per tutti.
262
Emilio Bellavita "Adua. I precedenti. La battaglia. Le conseguenze (1881-1931)". Genova, Rivista di Roma editrice 1931 - Capitolo XXVI "Colonna Albertone", pp. 342-359. Alberto Pollera "La battaglia di Adua del 1° marzo 1896 narrata nei luoghi dove fu combattuta". Carpignani e Zipoti editori Firenze 1928, pp. 53-56, 130-131. Giuseppe Bourelly "La battaglia di Alba Garima" Milano, tipografia editrice L.F. Cogliati 1901, pp. 310-314.
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Albertone trascorse più di un anno da prigioniero in Etiopia; tornato in Italia nel 1897 gli fu assegnato il comando della brigata Re, ma a sua richiesta fu posto nella riserva in quello stesso anno. In una intervista concessa a Mercatelli, pubblicata su "La Tribuna" del 3 agosto 1897, Baratieri non volle infierire contro Albertone, affermando che questi aveva sbagliato in buona fede e non per un deliberato proposito di disobbedire agli ordini. Albertone si risentì di quella critica seppure attenuata dall'avergli attribuito una buona fede non da tutti riconosciuta; si sfogò con l'amico maggiore Serpici limitandosi per il momento a correggere qualche particolare di secondaria importanza contenuto dell'intervista di Baratieri, come il fatto che la riunione dei generali si era tenuta la mattina del 28 febbraio e non nel pomeriggio del 29; più significativa era la smentita di essersi pronunciato per l'attacco, si era limitato a sconsigliare la ritirata senza però proporre un'offensiva ("Corriere della
Sera”, 4-5 agosto 1897, p. 1 “Le
dichiarazioni che Albertone contrappone all'intervista di Baratieri"). Successivamente, essendoci state anticipazioni della stampa su una prossima pubblicazione delle memorie di Baratieri, Albertone annunciò che a sua volta avrebbe pubblicato un libro di ricordi dal titolo "Africa calamitosa": in 51 capitoli avrebbe esposto gli avvenimenti africani dal 1885 al 1897 ("Corriere della Sera”, 24-25 novembre 1897, p. 1 “Le memorie del generale Albertone") Il libro di Albertone non vide mai la luce; ma il generale si sfogò ancora contro Baratieri, dichiarando a “Il Fanfulla” (27 novembre 1897, p. 1 “ Un colloquio col generale Albertone") che le giustificazioni addotte a sua difesa da Baratieri avevano indignato anche coloro che "avevano un senso di dolorosa comprensione per la caduta di un uomo che aveva fatto troppo presto a salire, senza aver mai giustificato la rapida fortuna con le sue attitudini". La stilettata finale era il ricordo della sfortunata candidatura di Baratieri a Ministro degli Esteri, proposta da Zanardelli. Albertone ebbe ancora gli onori della cronaca per un clamoroso episodio di cui si rese protagonista. Il principe Enrico d'Orleans aveva dato giudizi sprezzanti sugli ufficiali italiani prigionieri di Menelich ed in particolare su Albertone che avrebbe brindato alla salute del negus nel corso di un banchetto celebrativo della battaglia di Adua; il generale era inoltre accusato di aver trafugato un organetto prestatogli perché con la musica potesse ingannare la noia della prigionia. L'opinione pubblica italiana insorse e Albertone smentì di aver partecipato a cerimonie indette dagli abissini per celebrare la loro vittoria di Adua; il famoso organetto, al momento di rientrare in Italia, l'aveva lasciato nel suo alloggio e probabilmente qualcuno l'aveva sottratto. Ne seguì una sfida cavalleresca lanciata al principe francese dal generale Albertone e da un altro reduce della prigionia, il tenente Pini. Ma la difesa dell'onore militare italiano fu assunta da un principe di casa Savoia, il conte di Torino, che per il suo alto rango ebbe la precedenza. Il conte
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uscì vittorioso dallo scontro, ferendo in modo non grave il principe d‟Orleans (“La Tribuna”, 4 luglio 1897, p.1 “Il principe Enrico d‟Orleans e gli ufficiali italiani"; 5 luglio 1897, p.1 “Una lettera del generale Albertone"; 17 agosto 1897, p. 1 “Il duello del conte di Torino con Enrico d‟Orleans”). Albertone al ritorno dalla prigionia fu trattato con tutti i riguardi; ben diverso invece il trattamento riservato al generale Ellena, l'unico dei quattro generali di brigata presenti ad Adua a non esser stato decorato. Ellena se ne lamentò con Baratieri, nella sua lettera del 9 ottobre 1896 scriveva "… proposti per la ricompensa sono i generali che hanno disobbedito mentre io non ho fatto che obbedire e, tra i generali in sott'ordine, resto così l'unico escluso".263 Ma i guai di Ellena non erano finiti: oltre alla mancata decorazione gli toccò pure l'umiliazione di esser posto d'ufficio nella riserva perché giudicato inadatto al comando dalla Commissione incaricata dopo Adua di valutare le qualità degli ufficiali. Ad Ellena fu rinfacciato di essere tornato in Italia per curare la ferita ricevuta ad Adua: con quel comportamento - a giudizio della Commissione - il generale aveva dato l'impressione di voler sottrarsi ad altri combattimenti; la sua ferita non era tanto grave da giustificare il rientro in Italia, sarebbe stato possibile curarla anche in Eritrea ed in tal modo Ellena avrebbe evitato di essere considerato un codardo. “La Tribuna” pubblicò, dandole grande risalto, una documentata lettera del generale (17 luglio 1897, pp. 1-2 “Una lettera del generale Ellena”), il quale lamentava la decisione presa contro di lui dalla Commissione formata dai generali San Marzano, Adami e Saletta, incaricata di valutare anche il comportamento e le attitudini del generale Albertone e del colonnello Valenzano. Albertone, lamentava Ellena, aveva avuto il comando di una brigata ed a Valenzano era toccato il comando di un reggimento di fanteria, solo a lui era toccata una punizione. Alla sua lettera Ellena ne allegava due del ministro della guerra, Pelloux; con la prima, in data 25 maggio 1897 il ministro gli comunicava che la Commissione non aveva trovato nulla di riprovevole nella sua condotta prima e durante la battaglia di Adua; ma con la successiva lettera del 13 giugno 1897 il ministro lo informava che a maggioranza (cioè con due voti contro uno) la Commissione aveva giudicato lesivo per il suo prestigio il subitaneo imbarco a Massaua per l'Italia al fine di curare la ferita ricevuta ad Adua. Nell'atto di accusa non era citata quella partenza (in verità alla Commissione era stato dato il generico incarico di valutare anche il comportamento di Ellena durante la ritirata). A sua discolpa Ellena ricordava anche una lettera del vice-governatore Lamberti in data 10 marzo 1896, che assicurava non essere prevista una prossima ripresa delle ostilità per cui poteva tranquillamente 263
Carteggio di O. Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato, pp. 134-135, lettera del generale Giuseppe Ellena a Baratieri, Firenze 9 ottobre 1896.
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partire per l'Italia; ci voleva un mese perché la ferita si cicatrizzasse e doveva poi seguire un periodo di convalescenza. “La Tribuna” riteneva irregolare la procedura seguita dalla commissione e affermava essere discutibili molte decisioni prese dalla giustizia militare. Il giornale riprese poco tempo dopo l'argomento (“La Tribuna” 23 luglio 1897, p.1 “Polemiche militari") rinnovando la critica al provvedimento per collocare Ellena nella riserva: la partenza del generale era stata autorizzata dal vicegovernatore Lamberti ed Ellena si era comportato in modo onorevole nel corso della battaglia; era falsa la voce che quella disposizione era stata presa per avere Ellena abbandonato alla sua sorte il reggimento Romero, nè era fondata l'altra voce di un collocamento nella riserva disposto per ragioni di età: Ellena aveva 58 anni. A conclusione dell'articolo era criticata la prassi di collocare nella riserva gli ufficiali ritenuti non idonei al comando; in caso di guerra potevano essere richiamati in servizio anche con mansioni di maggiore responsabilità rispetto alle precedenti: "Cose da far pietà", era la sarcastica riflessione finale. Stava per incappare in un'altra disavventura giudiziaria anche uno dei futuri vincitori di Vittorio Veneto, Enrico Caviglia, all'epoca capitano di Stato Maggiore. Nella sua relazione per il processo Baratieri il colonnello Corticelli aveva manifestato dubbi sul comportamento e sul coraggio dell'ufficiale, in quanto il 2 marzo 1896 l'aveva incontrato ad Adi Cajè in compagnia del tenente Bodrero e si era chiesto cosa ci facessero in quella località i due. Inoltre Caviglia aveva trascurato di telegrafare notizie sulla battaglia, lasciando che fosse Bodrero, inferiore di grado, a farlo; ed infine Caviglia si era presto recato a Massaua, quasi volesse mettersi al sicuro, anziché riprendere il suo posto nello Stato Maggiore di Baratieri. Caviglia chiese di essere sottoposto ad un Consiglio di disciplina per accertare la verità dei fatti. Spiegò la sua presenza ad Adi Cajè: aveva cercato di arginare la precipitosa fuga dei soldati e, rimasto staccato dallo Stato maggiore, unitosi a Bodrero, aveva raggiunto Adi Cajè e si era recato subito a Massaua perché convocato da Baldissera. Tanto dichiarò Caviglia con lettera a Baldissera del 12 maggio e il generale con lettera al segretario generale del Ministero della Guerra dichiarò opportuno sottoporre Caviglia ad un consiglio di disciplina presieduto dal colonnello Stevani. All'unanimità il 22 agosto 1896 il consiglio prosciolse Caviglia da tutte le accuse; Baratieri il 20 giugno aveva scritto che il capitano durante la battaglia era rimasto "calmo e fermo" al suo fianco, restando poi travolto dalla marea di soldati in fuga e staccato dal quartiere generale. Il colonnello Valenzano con lettera del 18 agosto confermò la versione dei fatti data da Caviglia ed il vice-governatore Lamberti telegrafò il 19 agosto a Roma, al capo di Stato maggiore, per
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comunicare che Caviglia, convocato a Massaua dal generale Baldissera, aveva dovuto obbedire a quell'ordine, pur avendo chiesto già il 3 marzo di tornare al suo posto al quartiere generale.264 Caviglia uscì a testa alta da quell'incresciosa situazione, ma l'episodio comunque conferma la parzialità della giustizia militare: Caviglia costretto a chiedere il giudizio di un consiglio di disciplina, Ellena giudicato inadatto al comando e posto nella riserva, Baratieri trascinato in giudizio anche se fin dal 4 marzo Mocenni aveva dichiarato inesistenti i motivi per un'azione penale, solo al fine di farne il capro espiatorio; Albertone, giudicato da molti il vero responsabile della sconfitta e sospettato di aver voluto espressamente disobbedire per l'ambizioso proposito di ottenere la gloria, decorato al valore con medaglia d'argento. Caviglia nel suo diario afferma di non aver mai capito le ragioni del comportamento di Albertone, per il quale comunque dichiarava di avere una stima che in un primo momento l'aveva indotto a credere che avesse agito a quel modo solo per un errore. Ma, poi a distanza di quarant'anni (la nota porta la data del 25 luglio 1936) si era convinto che si era volutamente spinto tanto avanti per sorprendere le truppe di Menelich nel sonno; opinione in lui confermata dalla frase più volte ripetuta del colonnello Valenzano: "Ad Albertone tocca la medaglia d'oro e la fucilazione nel petto ".265 L'assegnazione delle decorazioni tanto largamente distribuite subì un certo ritardo perché la commissione presieduta dal generale Heutsch incaricata di quel compito trovò insufficienti i documenti allegati alle proposte e pertanto ne richiese l'integrazione al Ministero della Guerra, proponendo un proroga al gennaio 1898 dei termini fissati per la conclusione dei suoi lavori ("La Tribuna” 25 dicembre 1897, p. 3 “Informazioni. Commissione per le onorificenze di Adua"). Ma i lavori si protrassero oltre quella data e l'onorevole Santini nel febbraio 1898 presentò una interrogazione al ministro della Guerra per chiedere spiegazioni sul ritardo nel conferimento delle decorazioni "a coloro che, caduti e superstiti, tennero alto e glorioso il nome italiano nella battaglia di Adua” (“La Tribuna” 21 febbraio 1898, p. 3 “Le onorificenze della battaglia di Adua. Interrogazione dell'onorevole Santini alla Camera"). Alla fine, nel marzo del 1898, si conclusero i lavori della Commissione e furono confermate tutte le decorazioni proposte ("La Tribuna” 13 marzo 1898, p. 3 “Le ricompense per Adua"; 14 marzo 1898, p. 1 “ Le ricompense al valore per la battaglia di Adua"). Le onorificenze erano state assegnate con larghezza; non può dirsi altrettanto per le pensioni ed i sussidi destinati ai superstiti e alle famiglie dei caduti.
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Archivio Storico Stato Maggiore Esercito, busta 55, L7, fascicolo 16 "Consiglio di disciplina per il capitano di S.M. Enrico Caviglia. 265 Enrico Caviglia "Diario (aprile 1925 - marzo 1945)". Casini editore Roma, 1952 Nota del 25 luglio 1936, pp. 154-155.
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La Commissione centrale per la ripartizione delle ricompense disponeva di un fondo di 1.409.903 lire (400 mila offerte dal re, 300 mila stanziate dal ministero della Guerra, 459.635 offerte da privati in Italia e 225.300 da privati all'estero, 10.718 lire di aggio e 14.129 per interessi sulle somme depositate in banca). A fine gennaio 1898 erano state distribuite 1.177.476 lire, con una rimanenza di altre 232.427 per ulteriori sussidi (“Il Popolo Romano” 31 gennaio 1898, p. 1 “Per i militari caduti in Africa"). Nell'assegnazione delle pensioni c'erano state esclusioni dolorose, come il rigetto della richiesta di Sante Turitto, l'anziano padre del maggiore caduto ad Adua, in serie difficoltà economiche perché gli era venuto a mancare l'aiuto economico datogli dal figlio fino alla sua morte e non essendo l'altro figlio in condizioni tali da poterlo aiutare. Il “Corriere della Sera” prese a cuore quel caso e già a fine novembre 1897 aveva dato notizia del ricorso presentato dall'interessato contro il rifiuto opposto dalla Corte dei Conti, 2a sezione, alla sua richiesta (24-25 novembre 1897, p. 3 “Recentissime telegrafiche. Un ricorso del padre del maggiore Turitto per avere la pensione"); nella stessa occasione il giornale milanese riferiva che era avviata a soluzione la pratica “per l‟aumento di pensione (!)" chiesto dal generale Baratieri: il sarcastico punto esclamativo è nel testo originale. A più riprese, ma inutilmente, il "Corriere" tornò sul caso, sollecitando anche l'interessamento del Comitato Centrale della Croce Rossa oltre a quello della Commissione per la assegnazione dei sussidi, presieduta dal generale Mezzacapo (2-3 gennaio 1898, p. 1 "Per il padre del maggiore Turitto"; 5-6 gennaio 1898, p. 1 "Il padre del maggiore Turitto e la Croce Rossa"). Fu pure proposto da un illustre italianista, il prof. D'Ancona, di ricorrere ad offerte di privati per venire in aiuto al signor Turitto; il "Corriere" riteneva però opportuno attendere le decisioni della Commissione Mezzacapo prima di ricorrere all'espediente consigliato dal professor D'Ancona: ma fu tutto inutile e non si ottenne la pensione. Non fu quello l'unico caso in cui lo Stato tenne ben stretti i cordoni della borsa: il "Corrire della Sera" pubblicò la lettera inviata da un lettore di Bergamo per segnalare il caso di Giuseppe Ravasi, che aveva combattuto ad Adua nel 5° reggimento alpini ricevendo ben nove ferite: 3 d'arma da fuoco, 2 colpi di sciabola e 4 colpi di lancia. Era pure stato prigioniero ad Addis Abeba ed era rimasto inabile al lavoro, venendo poi compensato con un sussidio di 200 lire (lire 22,20 a ferita) ("Corriere della Sera", 29-30 novembre 1897, p. 1 "Nove ferite ad Adua, un anno di prigionia e un sussidio di 200 lire"). Casi dolorosi, ma di cui poco si preoccupava Crispi, preferendo piuttosto perseverare nella esaltazione patriottica e nel tentativo di colpire Baratieri in ogni modo ed in ogni occasione.
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A Milazzo il 20 luglio 1897 fu inaugurato un monumento a Garibaldi per commemorare la battaglia combattuta in quella località il 20 luglio 1860. Toccò a Crispi l'onore di tenere il discorso celebrativo: dopo aver esaltato la grandezza italiana Crispi ricordava così Adua: "E dovremmo arrestarci nel nostro cammino per un disastro militare dovuto all'impreviggenza del capitano e non alla deficienza della nazione? Prove più infelici e gravissime hanno subito altri popoli e seppero rilevarsi". Non era un disastro irreparabile la sconfitta di Adua ed era citato l'esempio della Francia, risorta dopo la sconfitta del 1870, seppure a costo di lunghi sacrifici, mentre invece - proseguiva Crispi - "noi dopo la battaglia di Adua non avemmo bisogno di tempo sì lungo e di cotanti sacrifici, avendo il nostro esercitò intatto e 40 mila uomini nell'Eritrea, pronti a riprendere le armi, se si fosse voluto".266 Il discorso di Milazzo suscitò un vivace dibattito sulla stampa, in larga parte ostile Crispi e fu per Baratieri un ulteriore stimolo a pubblicare le sue memorie africane. Il "Corriere della Sera" asserì che, anche a giudizio dei suoi seguaci, Crispi avrebbe fatto meglio a tacere; il suo discorso non aveva importanza politica e confermava la sua aggressività, rivolta ad affermare una espansione coloniale piena di pericoli (22-23 luglio 1897, p. 1 "Impressioni sul discorso Crispi. Avrebbe fatto meglio tacendo"). L'ufficiosa "Italie” riteneva che quel consiglio di tacere dato a Crispi (non era comunque citato il "Corriere" che l'aveva formulato) riguardava un problema personale di cui preferiva non occuparsi. Confutava invece la pretesa di Crispi di atteggiarsi ad un unico campione di patriottismo autore di tanti successi. Secondo l‟ “Italie” invece la sua politica era stata fallimentare: "En dehors des phrases creuses, il ne saurait pas citer un seul fait, propre à prouver que M. Crispi a su reporter un succès diplomatique ou politique quelconque” (“eccettuate vuote frasi, non avrebbe saputo citare un solo fatto comprovante che il signor Crispi abbia saputo ottenere un qualsiasi successo diplomatico o politico"). Da presidente del consiglio Crispi aveva agito come un dittatore, ma, nonostante i suoi pieni poteri, "il n‟a pas écrit une seule page d‟histoire, honorable pour lui même et pour son pays” (“ non ha scritto una sola pagina di storia onorevole per lui e per il suo paese"). La Russia si era fatta beffe del trattato di Uccialli e Crispi aveva tollerato in silenzio quella irrisione. La conclusione dell'articolo era solo in apparenza benevola: " malgrè tout, l‟âge de M. Crispi nous impose un grand respect pour lui” (“ malgrado tutto, l'età del signor Crispi ci impone un gran rispetto per lui"): non doveva certamente riuscire gradito al focoso uomo politico essere considerato
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F. Crispi "Ultimi scritti e discorsi extra parlamentari (1891-1901)" a cura di T. Palamenghi Crispi, L'Universelle Roma 1912, "Per l'inaugurazione di un monumento a Garibaldi in Milazzo 20 luglio 1897", pp. 240-241.
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quasi un vecchio nonno un po' rimbambito, cui perdonare le stranezze e la scarsa lucidità (“L‟Italie”, 22 luglio 1897, p. 1 “Le discors de M. Crispi”). Ma quel trattamento oltraggioso era ancora poco a paragone di quanto scriveva "Il Secolo. Gazzetta di Milano", rammaricandosi perché non era stato invitato a tenere il discorso a Milazzo Missori, che aveva partecipato alla battaglia e salvato la vita a Garibaldi, oppure un altro reduce garibaldino. Era stato invece invitato Crispi, perfetta antitesi di Garibaldi "perché questi fu tanto puro quanto l'altro è tanto... soggetto ad inquisizioni giudiziarie". I garibaldini erano rattristarti per la scelta di un personaggio equivoco come Crispi ed era prova della bassezza del carattere degli italiani il tentativo di riabilitare un tale individuo (21-22 luglio 1897, p. 1 “La nota del giorno"). Ancora più duro, se possibile, si dimostrò Moneta, direttore dello stesso giornale, nel suo articolo di fondo del giorno successivo. C'era da sorprendersi - asseriva Moneta - per la sfacciataggine di Crispi, responsabile di tanti mali, che pretendeva di essere considerato uno statista ed un campione di patriottismo. Era doloroso che politici, anche di primo piano, avessero appoggiato quel megalomane, autore di una politica rovinosa, tanto ostile alla Francia, dimenticando il contributo da essa dato alla causa italiana, riconosciuto invece da Garibaldi: "Ma Garibaldi era Garibaldi, e Crispi è Crispi, vale a dire un delinquente che in qualsiasi veramente libero paese espierebbe in fondo ad una prigione i suoi delitti" (23-24 luglio 1897, p. 1 “Il discorso di Milazzo”, articolo di E.T. Moneta). Quasi non bastasse, sullo stesso numero de “Il Secolo” era pubblicato un trafiletto sul monumento a Garibaldi in Milazzo, opera egregia dello scultore Greco, ma - si affermava - profanato perché era stato Crispi ad inaugurarlo (23-24 luglio 1897, p. 1 “Il monumento profanato"). “La Perseveranza”, organo dei moderati lombardi, pubblicò il resoconto della cerimonia di Milazzo e riportò senza commenti il testo integrale del discorso di Crispi (21 luglio 1897, p. 1 “Telegrammi Stefani. Il discorso di Crispi. Commemorazione storica della spedizione dei Mille”). Il giorno successivo “La Perseveranza”, riportò i giudizi di altri giornali senza ancora formularne uno proprio. Secondo l‟“Avanti!” Il discorso era indice del basso livello di moralità politica in Italia; "Il Fanfulla” e il “Don Chisciotte” ritenevano inopportuno il discorso di Crispi dato che contro di lui esisteva un'azione giudiziaria (era in corso, come vedremo, un procedimento penale a causa dei suoi equivoci rapporti con il Banco di Napoli) (“La Perseveranza”, 22 luglio 1897, p. 3 “Corrispondenza telegrafica della Perseveranza. Per la nuova aula della Camera. Il discorso Crispi").
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“La Perseveranza” si era astenuta dal dare un suo giudizio, limitandosi significativamente a riportare quelli negativi espressi da altri. Scelta quasi obbligata, poiché erano ben pochi a difendere Crispi. Per farlo “La Tribuna” ricorse alla citazione di un giornale tedesco, la “National Zeitung”, che esaltava i meriti di Crispi, convinto sostenitore della Triplice Alleanza, cui l'Italia partecipava in una posizione di pari dignità con gli Imperi Centrali; uscendo dalla Triplice, l'Italia sarebbe stata vassalla della Francia (23 luglio 1897, p. 1 “ Commenti al discorso di Crispi. Berlino, 21 ore 7,15 pomeridiane): ma quello del giornale tedesco era un riconoscimento interessato, fatto allo scopo di rinsaldare i legami della Triplice. “La Tribuna” parlò ancora del discorso di Milazzo, affermando che il governo Rudinì, per far fronte alle difficoltà incontrate in Africa a causa della sua imprudente politica, aveva trovato un alleato in Baratieri. Questi in una lettera privata, ma pubblicata sul “Don Chisciotte” e ripresa da molti altri giornali, aveva scritto che sarebbe stato facile replicare subito a Crispi utilizzando i documenti diplomatici, ma preferiva rinviarlo ad un libro di prossima pubblicazione, destinato a confutare le affermazioni di Crispi. Il giornale osservava che Crispi col suo discorso non aveva inteso addossare a Baratieri tutte le responsabilità negando le proprie: tra queste responsabilità di Crispi c'era quella di aver mantenuto il generale al suo posto di comando anche dopo il grave fatto dell'Amba Alagi (29 luglio 1897, p. 1 “ Baratieri ufficioso"). Altri giornali, oltre a “La Tribuna”, diedero notizia del volume di Baratieri di prossima pubblicazione. “L'Opinione liberale” affermava di non attendersi nuove rivelazioni da quell'opera, tali da modificare il giudizio sugli eventi africani e sulle relative responsabilità. Il giudizio più attendibile su Baratieri l'aveva dato di Rudinì nel suo intervento del 20 maggio nel dibattito parlamentare sul futuro dell'Eritrea, condannando Baratieri per non avere nel luglio del 1895 mantenute le dimissioni più volte offerte: il generale aveva preferito piegarsi a Crispi (31 luglio 1897, p. 1 “ A proposito di una lettera", articolo di fondo non firmato). In un successivo articolo “L'Opinione” distribuiva le responsabilità in eguale misura tra Crispi e Baratieri: "Ora il generale Baratieri ha tutti i torti possibili ed immaginabili, ma nessuno gli negherà il diritto di affermare che i suoi errori si addentellano con altri errori commessi dal governo centrale". Si poteva ritenere che il generale fosse "responsabile della sconfitta di Adua, ma non si poteva giudicare l'esito della campagna dalle sorti dell'ultimo atto", ignorando tutti i precedenti. Aveva ragione Baratieri nel negare a Crispi il diritto di criticarlo, perché Crispi stesso "con un indirizzo spropositato, senza nesso, preparò da Roma il disordine africano, accumulò giorno per
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giorno le cause della sconfitta e sarà per sempre il vero autore morale del disastro del 1° marzo (“L'Opinione”, 1° agosto 1897, p. 1 “Crispi e Baratieri"). Era proprio quello che Baratieri si proponeva di dimostrare con il suo volume in preparazione; ma si avvertiva ormai una certa stanchezza per quelle polemiche che apparivano datate. Il “Corriere della Sera” osservava che Baratieri aveva certamente molto da rimproverare a Crispi, “ma è roba ormai troppo vecchia e di cui il paese è ristucco e disgustato” (23-24 luglio 1897, p. 1 “Fra Baratieri e Crispi”). L‟“Avanti” riportò la notizia della prossima pubblicazione del libro di Baratieri, ma anziché soffermarsi sulla polemica del momento, preferì attaccare tutta la tradizione militare italiana. Traeva spunto dal collocamento nella riserva del generale Ellena, affermando che l'assoluzione di Baratieri da parte del tribunale dell'Asmara avrebbe dovuto comportare l'assoluzione anche per Ellena. Ma se era stato assolto l'individuo, non si era però assolta l'istituzione militare, responsabile di tante disfatte, a partire da Custoza: "Tra Custoza e Abba Garima” - scriveva il giornale socialista – “è tutta una storia di favoritismi, di gelosie e rivalità di armi e di corpo, di mistificazioni organiche, tecniche, amministrative, le quali non potevano, alla prova, dare risultato diverso da quello che hanno dato "(24 luglio 1897, p. 1 “Nell‟esercito. Colpevoli e complici"; p. 3 “Informazioni. Una pubblicazione del generale Baratieri”). Tornò ad occuparsi dell'attualità “Il Secolo. Gazzetta di Milano" riferendo che i giornali militari escludevano la possibilità per Baratieri di giustificarsi adducendo gli ordini ricevuti dal Crispi: nessuno avrebbe potuto sovrapporre la propria autorità a quella del comandante supremo. Lo stesso giornale dava pure notizia di una riunione di reduci dell'Africa tenutasi a Brescia in cui sarebbe stato deciso di sconsigliare a Baratieri la pubblicazione del suo libro (31 luglio – 1° agosto 1897, p.1 “Echi della lettera di Baratieri"; 1-2 agosto 1897" si vuole impedire la pubblicazione di Baratieri?"). “Il Popolo Romano” riferiva la smentita opposta da Albertone ad alcune affermazioni di Baratieri: nel consiglio dei generali del 28-29 febbraio 1896 non si era pronunciato per un attacco, aveva soltanto sconsigliato la ritirata; e il servizio informazioni non dipendeva da lui, ma da Baratieri. Il giornale non si pronunciava su questa smentita e cercava di smorzare i toni, asserendo che quella polemica sarebbe stato “ assai bene che si chiudesse una buona volta e che cessassero quelle polemiche postume, dalle quali nè l'esercito nè la patria potranno trarre vantaggi di sorta". Era difficile accertare la verità sulla giornata del 1° marzo; rivolgeva pertanto a tutti questa esortazione: "copriamola col silenzio e ricordiamola soltanto per ammonimento dell'avvenire" (5 agosto 1897, p.1 “ Albertone e Baratieri").
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Meno conciliante si era dimostrato “Il Popolo Romano” qualche giorno prima (29 luglio 1897, p.1 “La lettera di Baratieri”) affermando di conoscere i documenti su cui Baratieri voleva fondare la sua opera; tra quei documenti era compreso l'ordine dato ad Albertone, ingiustamente accusato di averlo violato spingendosi troppo avanti; quell'ordine invece dimostrava" luminosamente che la località da lui occupata era precisamente quella designatagli per iscritto dal comandante in capo". A questa stupefacente affermazione seguiva l'altra sulla inutilità degli sforzi di Baratieri per giustificare i propri errori, che nessun libro avrebbe mai potuto scusare. Ma sebbene fossero in molti a negare l'importanza del libro annunciato da Baratieri, in realtà quella pubblicazione destava crescenti timori in Crispi, sospettoso di quello che il generale avrebbe potuto rivelare. Inizialmente Crispi non si era troppo preoccupato: le anticipazioni di alcune parti delle memorie di Baratieri non gli erano sembrate per lui dannose. Il 23 agosto 1897 scriveva a Mocenni di aver letto il sommario dell'opera apparso sulla stampa e di ritenere che "i buoni e gli imparziali vedranno che la colpa non è da parte nostra". Ancora l'8 novembre lo stesso Crispi scriveva al suo ex ministro ostentando sicurezza; ma pochi giorni dopo, il 21 novembre, si mostrava preoccupato perché dalla lettura di un articolo sul “Don Chisciotte di Roma” del giorno 18 appariva chiaro che Baratieri, non contento di aver fatto tanto male all'Italia e di aver rovinato se stesso, "voleva ad ogni costo trascinare con sé nella rovina coloro che tanto fecero per lui", dicendo falsità ed arrivando a conclusioni illogiche dalle poche verità esposte. In precedenza, il 24 agosto 1896, Crispi aveva manifestato solidarietà con Mocenni per il suo collocamento a riposo disposto dal re; erano risultati inutili i tentativi di evitarlo fatti "in alto loco”; quel provvedimento era una “ indegna vendetta", sintomo del malessere dell'esercito che sarebbe potuto divenire" pericoloso per la patria e per le istituzioni". Malgrado la sicurezza fino ad allora ostentata Crispi volle cautelarsi dagli eventuali attacchi di Baratieri chiedendo a Mocenni il 21 agosto 1897 di fornirgli i documenti in suo possesso utili a rintuzzare le accuse di Baratieri: occorreva prevedere ogni eventualità, poiché il generale era un uomo leggero, come lo dimostrava la sua reazione al recente discorso di Milazzo, inteso solamente a rivendicare l'onore italiano: Adua era stata una battaglia perduta, ma quel semplice episodio non era stato "una sconfitta nazionale".267 Crispi chiese inoltre con lettera del 18 agosto 1897 a Sonnino, anch'esso intervenuto nelle trattative con Baratieri da Ministro del Tesoro, di fornire i documenti sulle vicende africane: in particolare 267
ACS Roma Carte Crispi Deputazione Storia Patria Palermo busta 156, fascicolo 1743, doc. 16 lettera di Crispi a Mocenni 23 agosto 1897; doc. 18 lettera di Crispi a Mocenni 8 novembre 1897; doc. 20 lettera di Crispi a Mocenni 21 novembre 1897; doc. 22 lettera di Crispi a Mocenni 24 agosto 1896; doc. 23 lettera di Crispi a Mocenni 21 agosto 1897.
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desiderava ricevere gli appunti forse presi nell'estate del 1895 in occasione del viaggio di Baratieri in Italia. Sonnino rispose prontamente il 20 agosto di aver incontrato Baratieri una sola volta, a Montecitorio nel luglio del 1895 e di avere accettato la richiesta di aumentare di 3 milioni il bilancio della colonia, riducibili a due nel successivo esercizio finanziario 1896-1897. Baratieri aveva quindi telegrafato ad Arimondi di arruolare 1000 ascari e di acquistare 700 muli; il generale riteneva sufficienti quelle misure per affrontare Mangascià, ma non un intervento di Menelich nel Tigrè. Non riteneva probabile tale eventualità, ma, se si fosse verificata, avrebbe chiesto maggiori mezzi. Baratieri aveva assicurato di volersi mantenere sulla difensiva e di non voler provocare il nemico con ulteriori conquiste di territorio. In seguito, fino all'Amba Alagi, Baratieri non aveva fatto altre richieste finanziarie. Al momento Sonnino si trovava in villeggiatura ad Ardignano, vicino a Livorno, e non disponeva dei suoi appunti, rimasti a Roma; appena rientrato nella capitale li avrebbe fatti avere a Crispi e difatti il successivo 18 ottobre Sonnino confermò a Crispi quanto gli aveva prima comunicato: dopo l'incontro del 28 luglio non aveva più visto Baratieri e aveva seguito le vicende africane solo leggendo i giornali; era stato informato il 2 dicembre 1895 di un telegramma di Baratieri relativo alle offerte di pace fatte da Makonnen e il 7 dicembre, il giorno dell'Amba Alagi, dell'avanzata di Menelich per cui si era convinto che l'iniziativa di Makonnen mirava solo a guadagnare tempo.268 Ad accrescere le preoccupazioni di Crispi ed a mantenere vivo l'interesse della stampa sulle vicende africane e sulle relative polemiche giovò l'intervista concessa da Baratieri a Luigi Mercatelli, pubblicata il 3 agosto 1897 su “La Tribuna”, che abbiamo già ricordato. Il giornale dava risalto allo stato d'animo del generale dopo la tempesta abbattutasi su di lui, tracciando questo quadro: "... sotto l'aspetto vegeto e florido continua l'opera di un forte dolore, tanto più deleterio quanto più vuol essere tenuto segreto". Alla domanda postagli se la sua opera avrebbe avuto una forte impronta polemica Baratieri rispose assicurando che sarebbe stata "una semplice successione di date e di fatti, basata su documenti, scritta per la verità, senza passione e senza ira": l'uomo con le sue passioni non sarebbe prevalso sullo scrittore e tra i due ci sarebbe stato uno sdoppiamento perfetto. Mercatelli, entrando nel vivo dell'intervista, poneva a Baratieri tutta una serie di domande sulla sua opinione sul caso del generale Ellena, retrocesso nella riserva, sulle ragioni che l'avevano indotto ad attaccare, sulla posizione assunta dai generali di brigata riguardo all'attacco poi verificatosi e se
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ACS Roma Carte Crispi Deputazione Storia Patria Palermo busta 161, fascicolo 2061, doc. 27 lettera di Crispi a Sonnino, Napoli 18 agosto 1897; doc. 17 lettera di Sonnino a Crispi, Ardignano (Livorno) 20 agosto 1897; doc. 18 lettera di Sonnino a Crispi, Ardignano 25 agosto 1897;doc. 19 lettera di Sonnino a Crispi, Roma 18 ottobre 1897.
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c'era stata una unanime loro decisione in tal senso, che secondo alcuni non c'era stata. Baratieri confermò tale unanimità, leggendo alcune pagine delle sue memorie, ricordando l'affermazione del giurì nominato dal Ministro della guerra che escludeva che Albertone e Dabormida fossero d'accordo per attaccare, come ricordava Mercatelli. Al che Baratieri tagliò corto, rivendicando, come aveva già fatto in precedenza, la sua totale responsabilità per la decisione presa di attaccare. Non volle poi soffermarsi su alcune infamanti accuse mossegli, del tutto inverosimili, come l'aver avuto a sua disposizione a Massaua un intero harem, di essersi rammollito nell'ozio, di aver trafugato milioni. Quasi divertito ricordava l'elogio fattogli da un sacerdote perché si era limitato ad appropriarsi di 4 milioni sui 30 a sua disposizione: un giornalista del giornale austriaco "Neue Freie Presse”, presente in quell'occasione, aveva pubblicato la notizia, che si era diffusa in Europa; il particolare più gustoso secondo Baratieri (ammesso che potesse esserci qualcosa di gustoso in una vicenda disgustosa) era che sia il sacerdote che il giornalista credevano di avergli reso un servizio. Con una punta di rimpianto Baratieri ricordava poi che Menelich, a corto di viveri, era sul punto di ritirarsi: sarebbe bastato attendere un paio di giorni perché ciò avvenisse e sarebbe stato un successo italiano quella ritirata del negus . Aveva pensato di ritardare ancora di qualche anno la pubblicazione del suo libro, destinato più che altro alle future generazioni, ma era stato convinto ad anticiparla per dare una risposta Crispi; Baratieri negava però di voler fare contro di lui attacchi personali e affermava:" perché fare un libro contro Crispi? Sarebbe stato volgare". Non risparmiava però una stoccata a Brin, ministro degli Esteri nel governo Giolitti, che aveva consentito di vendere al negus 2 milioni di cartucce, in gran parte adoperate contro gli italiani ad Adua. Rimproverava poi a Nerazzini di aver fatto ritardare, inconsultamente, il Felter, chiamato in Tigrè da una lettera di Makonnen per trattare la pace, che senza quel ritardo poteva essere conclusa. Makonnen aveva attribuito quel ritardo alla volontà degli italiani di sabotare le trattative, essendo decisi a continuare la guerra; Felter sarebbe potuto arrivare nel Tigrè già il 25 novembre 1895 e ciò avrebbe evitato la strage dell‟Amba Alagi. Makonnen aveva insistito fino all'ultimo con Toselli perché sollecitasse l'arrivo di Felter. Si stupiva poi Baratieri che al Ministero degli Esteri qualcuno credesse ancora che per fare uscire Galliano indenne da Macallè si fosse pagato un milione a Menelich. Ed infine in quella intervista Baratieri rifiutava di dare un giudizio sulla deviazione della brigata Dabormida rispetto all'itinerario stabilito: si limitava a constatare il fatto, per lui inspiegabile (“La Tribuna”, 3 agosto 1897, pp. 1-2 “Frammenti di una intervista col generale Oreste Baratieri" di Luigi Mercatelli).
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“Il Popolo Romano” dichiarò di non aver trovato nulla di nuovo e di importante nella intervista di Baratieri, ma tuttavia ricordava con soddisfazione come il generale avesse escluso l'esistenza di pressioni del governo perché ci fosse l'offensiva di Adua, di cui Baratieri rivendicava l'esclusiva sua responsabilità. Non voleva il giornale pronunciarsi su alcune contraddizioni trovate nelle dichiarazioni di Baratieri, ritenendo opportuno farlo dopo la pubblicazione del libro; esprimeva l'augurio che questo non sarebbe stato "un pamphlet a base di volgare pettegolezzo, scritto contro un uomo o contro un ministero, come hanno spiegato alcuni troppo zelanti partigiani del governo attuale. Ci guadagnerà la storia e ci guadagnerà il Baratieri stesso, non aggiungendo agli errori già commessi quello di calunniare chi ebbe il solo torto di concedergli una fiducia dimostratasi poi eccessiva " (3 agosto, p. 1 “Una intervista col generale Baratieri"). “La Perseveranza” nella sua prima notizia dell'intervista di Baratieri sottolineava che era stata concessa ad un giornalista che per primo l'aveva definito inetto e ad un giornale favorevole a Crispi: era stata la sua una mossa abile (3 agosto 1897, p. 3 “Corrispondenza
telegrafica della
Perseveranza. L'intervista di Mercatelli col generale Baratieri"). Tornava poi ad occuparsi più diffusamente dell'intervista, chiedendosi se Baratieri nel suo libro di prossima pubblicazione si sarebbe occupato dei fatti avvenuti prima di Adua, su cui aveva taciuto nell'intervista. Accusava poi Baratieri di incoerenza, essendo venuto meno al proposito di tacere fino alla pubblicazione del libro: silenzio che sarebbe stato opportuno mantenere; Baratieri non avrebbe dovuto" offrire continuamente, e senza bisogno, i suoi sfoghi in pasto alla discussione politica, troppo spesso pettegola". Sui dubbi esistenti anche dopo l'intervista, il giornale si riprometteva di pronunciarsi dopo la pubblicazione del libro (“La Perseveranza”, 4 agosto 1897, p. 1 “ La difesa del generale Baratieri"). “L‟Opinione liberale” preferì invece entrare subito nel merito delle affermazioni fatte da Baratieri nella sua intervista, prendendo le difese di Nerazzini presentato quale principale responsabile del fallimento delle trattative di pace con Makonnen per aver ritardato l'arrivo di Felter: era una calunnia rivolgere tale accusa a chi si era reso benemerito riuscendo a far liberare gli italiani fatti prigionieri ad Adua (4 agosto, p. 1 “La storia ed i giornali. A proposito dell'Africa"). “Il Secolo. Gazzetta di Milano" si mostrava stufo delle continue polemiche sull'Africa, volte a stabilire singole responsabilità, che invece ricadevano su tutti; bisognava accomunarli "in una sola condanna e in una sola maledizione. La spedizione africana - tuonava il giornale - dagli inizi fino all'epilogo è stata opera esclusiva di uomini politici corrotti fin nel midollo delle ossa, di giornalisti venduti e di loschi affaristi".
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I soldati che si fecero uccidere nutrivano ideali di civiltà e credevano nell'onore nazionale: ma quei nobili principi "non entrarono mai, neppure di straforo negli intenti di coloro che idearono e sfruttarono la sciagurata spedizione". L'iniziativa era stata presa per far votare le concessioni ferroviarie a compagnie private superando le resistenze di una Camera riluttante: e Crispi usò poi la questione coloniale come un diversivo utile a rafforzare il suo potere (8-9 agosto 1897, p. 1 “Polemiche africane"). La stessa insofferenza de “Il Secolo” per le continue polemiche la dimostrava anche “L‟Opinione liberale” riprendendo da “LOrdine” di Ancona la condanna dei personalismi di militari che conducevano una “ lotta di rancori partigiani, di preferenze politiche"; immiserivano così la questione africana, riducendola ad una scelta fra Crispi e Baratieri (5 agosto 1897,p. 1 “A proposito delle interviste"). Attendeva invece con interesse la pubblicazione del libro di Baratieri "Il Mattino”, perché si sarebbe così chiarita finalmente la posizione di Crispi, accusato della sottrazione di documenti per celare le sue responsabilità. Senza attendere comunque l'uscita del volume, Scarfoglio, che si firmava con lo pseudonimo "Tartarin”, accusava già Baratieri di due colpe inescusabili: esser tornato dall'Italia a Massaua nel settembre 1895 pur non avendo ottenuto i mezzi necessari per una difficile campagna ed averla poi condotta in modo disastroso. Il giornalista insisteva soprattutto sul primo punto, scrivendo che, se Baratieri avesse insistito nelle sue richieste, "il ministero poteva cedergli o non cedergli, questo era affar suo; ma un generale che ha la responsabilità del comando non torna al campo con due battaglioni e con seicento muli, quando sa che avrà in breve sulle braccia tutta l'Etiopia." Baratieri avrebbe dovuto confermare le dimissioni e il governo, non potendo in quel momento accettarle, gli avrebbe dato mezzi adeguati”. “Non avendo fatto ciò, che cosa vuole? Con chi se la prende?", chiedeva polemicamente Tartarin (“Il Mattino” 29 luglio, p. 1 “Anche Baratieri?", articolo di fondo di Tartarin). Alle lunghe, estenuanti schermaglie giornalistiche seguì finalmente la pubblicazione di quel libro tanto chiacchierato. L‟ “Avanti!” il 30 ottobre 1897 ricordava gli sforzi fatti a Roma per impedire l'uscita di un libro che sembrava ispirare una paura folle per le rivelazioni da cui poteva "uscire malconcio qualche pezzo altissimo e grossissimo"; per evitarlo si era pure minacciato il sequestro preventivo del volume, "se questo avesse a spiacere ai numi che fanno il sole e la pioggia, la pace e la guerra in questo basso mondo". Si era cercato di avere anticipazioni, cui Baratieri si era fino ad allora opposto anche per ragioni editoriali, ma il divieto era stato di recente eluso dal "Corriere delle Puglie", giornale di Bari, con la
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pubblicazione di 64 pagine, presto riprese da altri giornali con grande dispetto di Baratieri e degli editori Bocca. Era attesa per metà novembre la pubblicazione ufficiale ed integrale: si prevedevano discussioni vivaci, anche se si assicurava che il libro, molto documentato, sarebbe stato scevro di toni troppo polemici. (L‟ “Avanti!” 30 ottobre 1897, p.1 “Informazioni. Il libro di Baratieri sulla campagna d'Africa"). L‟ “Avanti!” tornò ad occuparsi delle difficoltà opposte a Baratieri per impedire la pubblicazione del volume: il Ministro della Guerra aveva minacciato un'azione penale se avesse pubblicato documenti riservati e il generale avrebbe voluto parlarne a Zanardelli che aveva rifiutato di riceverlo. A Baratieri era pure stata minacciata la perdita della pensione se non avesse tenuto conto degli avvertimenti rivoltigli e avesse pubblicato i documenti: "Il Baratieri ha ceduto e il libro uscirà monco", concludeva il giornale (17 novembre 1897, p. 3 “Il generale Baratieri e la sua pensione"). Sulla supposta arrendevolezza del generale il giornale socialista aveva in precedenza ironizzato, asserendo che egli pagava "mal volentieri di persona e, pare, peggio ancora di borsa". Per evitare la perdita della pensione quindi Baratieri aveva eliminato i documenti che chiarivano le responsabilità "del delitto africano", pur se essi figuravano già nelle prime bozze di stampa con i loro numeri di riferimento (L‟ “Avanti!” 3 novembre 1897, p. 3 “Informazioni. Il libro del Baratieri. Paure e minacce di altre persone"). Non era precisato quali personalità fossero intervenute per impedire la pubblicazione del libro: appare verosimile che non si trattasse del presidente del Consiglio di Rudinì o di qualche suo seguace, poiché chi poteva essere compromesso dalle eventuali rivelazioni di Baratieri era soprattutto quel Crispi da essi tanto avversato. Di quei retroscena, non si sa bene quanto reali, non parlò “La Tribuna”, pur essa sollecita ad occuparsi della ormai imminente uscita del volume, cui dedicò una serie di articoli. Il primo, in data 31 ottobre 1897, esaminava gli avvenimenti del periodo marzo-luglio 1895; il giornale deplorava la poca chiarezza delle istruzioni date a Baratieri e faceva la storia dei rapporti con Mangascià, divenuto l'interlocutore privilegiato del governo di Roma dopo l'incontro col generale Gandolfi, governatore della colonia, al Mareb. Si era così avviata la politica cosiddetta tigrina, prendendo le distanze da Menelich, giudicato poco affidabile. Ma il successivo governo Giolitti sterzò bruscamente, riprendendo quella che fu detta la politica scioana, iniziata da Antonelli e basata sulla ricerca dell'amicizia di Menelich, non condivisa da Baratieri. Questi, osservava "La Tribuna”, avrebbe dovuto opporsi dimettendosi: ma non lo fece e il generale giustificava il suo comportamento ricordando che era stato nominato governatore appena da quattro
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mesi e che in ogni caso le sue dimissioni non avrebbero convinto il governo a mutare politica. Baratieri era tornato in Africa nel gennaio 1894 per fronteggiare i Dervisci, minacciosi anche dopo essere stati sconfitti da Arimondi ad Agordat nel dicembre 1893: in quel momento difficile sarebbe stato inopportuno dimettersi (“La Tribuna” 21 ottobre 1897, pp. 1-2 “Il libro del generale Baratieri ancora in bozza"). Nel successivo articolo (“La Tribuna” 6 novembre 1897, pp. 1-2 “Il libro di Baratieri") si citava la aspirazione del generale ad una politica "equanime, perseverante, dignitosa" aliena da personalismi e conforme agli interessi italiani. L'articolo del 10 novembre ((“La Tribuna”, pp. 1-2 “Il libro del generale Baratieri") analizzava le posizioni di Baratieri relative alle conquiste territoriali, esposte nel volume: Baratieri non aveva pensato ad un'occupazione definitiva di Cassala e non era stato contrario all'annessione del Tigrè, proposta dal Ministro degli Esteri Blanc, a condizione però di ricevere rinforzi costituiti da reparti ben organizzati e non raffazzonati; era un problema, osservava il giornale, destinato a durare fino ad Adua. Occupandosi ancora del volume di Baratieri " La Tribuna" (13 novembre 1897, pp. 1-2 “Il libro del generale Baratieri") illustrava i suoi difficili rapporti con Arimondi e prendeva posizione a favore di Baratieri in quella contesa tra i due generali, esprimendo questo "angoscioso pensiero": "se Arimondi si fosse attenuto alle disposizioni di Baratieri, se, soprattutto, egli avesse comunicato subito a Toselli il telegramma del governatore, il disastro dell‟Amba Alagi non sarebbe forse stato evitato?". “La Tribuna” (16 novembre 1897, pp. 1-2 “Il libro del generale Baratieri") riportava ancora il giudizio negativo del generale sulle truppe arrivate dall'Italia dopo l‟Amba Alagi: erano male organizzate e male equipaggiate. Era inoltre smentito il pagamento di 1 milione di lire al negus perché consentisse l'evacuazione di Macallè e si assicurava che successivamente il mancato attacco agli abissini era dovuto alle difficoltà del terreno e non al fatto che Menelich si era fatto scudo del battaglione Galliano che, dopo l'evacuazione di Macallè, procedeva mescolato alle forze abissine. Nel commentare poi la descrizione della cruciale giornata di Adua fatta da Baratieri, "La Tribuna” (23 novembre, pp. 1-2 “Il libro del generale Baratieri") ricordava i fatali errori di Albertone, spintosi troppo avanti, e di Dabormida, incautamente inoltratosi nel vallone di Mariam Sciavitù; ma Baratieri non infieriva contro i due generali e negava che avessero volutamente disobbedito agli ordini perché smaniosi di conquistare la gloria con la loro audacia. L'augurio conclusivo dell'articolo era che le memorie di Baratieri fossero "giudicate dal popolo italiano con la imparzialità dei popoli forti ed equanimi". Non erano mancati da parte de "La Tribuna" nella sua dettagliata analisi dell'opera di Baratieri spunti ed accenni favorevoli al generale, ma risultò poi negativo il giudizio complessivo: si
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prevedeva per il libro un buon successo di pubblico, cui però non sarebbe corrisposto un successo politico. Come aveva già fatto Scarfoglio su "Il Mattino" si rimproverava a Baratieri l'aver chiesto nell'estate del 1895 il modesto rinforzo di 1000 ascari, del tutto insufficienti per respingere Menelich ed era giudicata avventata la decisione di attaccare, presa il 29 febbraio 1896, senza attendere l'arrivo dei rinforzi del generale Heutsch: errore riconosciuto dallo stesso Baratieri, che si era assunta l'intera responsabilità di quella decisione. Il giudizio era negativo anche perché, secondo il giornale, Baratieri non aveva dato la prova regina che avrebbe potuto giustificarlo, l'aver ricevuto da Crispi l'ordine preciso e perentorio di attaccare: "la prova essendo mancata" - scrive il giornale - "il Baratieri è condannato ed il suo libro, il quale nel punto più importante non serve più allo scopo, è dannato alle fiamme" ("La Tribuna”, 24 novembre 1897, p. 1 “Le memorie del generale Baratieri"). Ma come dimenticare le continue provocazioni ed i rimbrotti di Crispi, fino alla famosa accusa di "tisi militare", lanciata per giunta contro Baratieri quando era già stato deciso di sostituirlo con Baldissera? Crispi non era stato il solo a punzecchiare Baratieri, martellandolo con insistenti richieste di passare all'offensiva. Da tempo infatti c'era stato un coro di esortazioni, critiche, gratuiti consigli, rimproveri, stimoli di ogni genere per spingere Baratieri ad attaccare; si era distinto in quell'attività Eduardo Scarfoglio a partire dall'inizio del 1895 con l'articolo "La sconfitta di Mangascià" ("Il Mattino" 18-19 gennaio 1895). Il giornalista napoletano aveva esortato a condurre un'offensiva risolutiva non soltanto contro il ras tigrino, ma anche contro il negus, poiché erano inutili le trattative diplomatiche con gli abissini: bisognava attaccarli, per sconfiggerli bastava procedere "con poche forze bene ordinate e con una buon piano di battaglia". Concetto ribadito da Scarfoglio nel volume "Le nostre cose in Africa", pubblicato nell'autunno 1895: a Baratieri si rimproverava di non aver inseguito Mangascià dopo averlo battuto a Senafè, anziché ritirarsi a Massaua in attesa dei rinforzi promessi dal governo. Si sarebbe dovuto approfittare del momento favorevole, poiché Menelich era ancora impreparato; si chiedeva Scarfoglio: "Che stiamo più a discutere ed a tentennare? Andiamogli addosso con quelle forze che son reputate sufficienti a vincerlo, e, più presto ci saremo sbarazzati di lui, tanto meglio sarà per noi". Tutto, a parere di Scarfoglio, spingeva all‟attacco; la situazione era divenuta insostenibile per l‟Italia da un punto di vista economico (la difesa della colonia costava quanto la guerra), politico
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(un ulteriore indugio avrebbe spinto i ras a disconoscere la sovranità italiana), militare (più difficile di una offensiva era la difesa di una frontiera lunga 650 chilometri da Cassala ad Assab).269 E già in occasione della venuta di Baratieri in Italia Scarfoglio aveva affermato: "esitare dunque sarebbe assurdo; non v‟è che accordare al Baratieri tutto quello che chiederà" (“Il Mattino” 20 luglio 1895 "Baratieri"). Le critiche a Baratieri erano rinnovate da Scarfoglio perché nel 1894 anziché inseguire Mangascià era tornato a Massaua "a raccogliere le meritate ovazioni e a farsi cantare il Te Deum da padre Michele" (era fra Michele da Carbonara, delegato apostolico per l'Eritrea e grande amico di Baratieri). Un altro rimprovero era mosso poi da Scarfoglio a Baratieri: invischiato con manifestazioni e banchetti, il generale aveva inopportunamente prolungato il suo soggiorno in Italia nell'estate del 1895: "un generale che sa di dover muovere per una guerra ai primi di ottobre, non parte dall'Italia a fine settembre" (“Il Mattino”, 21 ottobre 1895 "La guerra d'Africa"). Poco prima del disastro di Adua Scarfoglio si schierò dalla parte di Crispi; la difficile situazione era "frutto in parte della imprevidenza e della scarsa preparazione del generale Baratieri, e in parte delle condizioni del gabinetto", poiché alcuni ministri insidiavano Crispi: per prendere il suo posto sfruttavano i problemi africani ed ostacolavano la progettata spedizione nell‟Harrar, proposta da Crispi per aprire un secondo fronte e costringere Menelich e Makonnen a desistere dall'attaccare l'Eritrea (“Il Mattino” 17 febbraio 1896 "La nostra patria è vile"). E quando, dopo Adua, Crispi fu costretto a dimettersi, Scarfoglio riconobbe che sicuramente aveva commesso degli errori, ma aveva avuto il merito di proporre sempre "provvedimenti energici, i quali, se fossero stati adottati, avrebbero dato alle cose un andamento ben diverso" (“Il Mattino” 4 marzo 1896, “La Crisi”). In questo clima politico Baratieri aveva dovuto operare; il suo libro avrebbe dovuto chiarire le responsabilità di tutti e non soltanto quelle di Crispi; era quindi destinato a suscitare il malcontento di quanti si sentivano minacciati, tanto che corse la voce, peraltro subito smentita dal Ministero della Guerra, di un provvedimento disciplinare contro di lui (“La Tribuna” 27 novembre 1897, p. 3 “Informazioni. A proposito del libro di Baratieri"). Nonostante gli sbandierati propositi di voler dare un giudizio imparziale sull'opera di Baratieri, già prima della pubblicazione delle sue "Memorie d'Africa" c'erano state posizioni critiche preconcette da parte della stampa; il "Corriere della Sera" aveva fatto suo questo giudizio de “L‟Opinione liberale”: “Attendiamo il libro che Baratieri promette, ma ci pare difficile che esso riesca a modificare gli apprezzamenti derivanti da fatti terribili e da sventure il cui ricordo fa sanguinare il 269
Eduardo Scarfoglio "Le nostre cose in Africa" Napoli, 1895, pp. 14-15, p. 31, pp. 52-53. La prefazione è datata 30 ottobre 1895.
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cuore di tutti gli italiani" ("Corriere della Sera" 31 luglio - 1 agosto 1897, p. 1 "L'opinione ed i commenti alla lettera di Baratieri"; si trattava della lettera pubblicata sul "Don Chisciotte" in cui era annunciata la pubblicazione del libro in risposta al discorso tenuto da Crispi a Milazzo il 20 luglio). Quando poi fu noto il libro di Baratieri, il "Corriere Della Sera" gli rimproverò di addossare ad Albertone e a Dabormida la responsabilità della sconfitta di Adua e ad Arimondi quella per l'Amba Alagi; tali accuse dimostravano "che al Baratieri nessuno obbediva, la qual cosa non potrà mai essere una giustificazione per lui, e sarebbe tutt'al più nuova prova di inettitudine" ("Corriere della Sera" 16-17 novembre 1897, p. 1 “Le polemiche che suscita il libro di Baratieri. Le responsabilità di Amba Alagi gettate tutte sul generale Arimondi e un diario che pubblica “l'Italia militare"). Malgrado tale critica rivolta a Baratieri, il "Corriere" ricordava che il generale aveva disposto il ritiro di Toselli, ma la trasmissione di quell'ordine era stata ritardata da Arimondi. L'importanza di questo fatto era però minimizzata dal giornale con questa affermazione: "Frattanto è certo che quantunque Baratieri possa addurre qualche argomento per ridurre la propria responsabilità, questo rovesciare tutta quanta la colpa di Amba Alagi su Arimondi produce una disgustosa impressione". Il "Corriere della Sera" giunse poi ad una condanna totale e definitiva dell'operato di Baratieri e del suo tentativo di giustificarlo con le "Memorie d'Africa". Il generale era responsabile dell'occupazione del Tigrè e dell‟Agamè nel marzo 1895, provocando così l'intervento di Menelich; ma quell'occupazione era stata approvata dai ministri Blanc e Mocenni, oltre che da Crispi; erano stati invece contrari i ministri Saracco e Sonnino. Come risultava dai "Libri Verdi" era stata una iniziativa di Baratieri l'occupazione di Adua e il governo, messo di fronte al fatto compiuto, l'aveva poi accettata. Il soggiorno di Baratieri in Italia si era protratto troppo a lungo e senza una ragione, da luglio a settembre 1895 e si era concluso con un frettoloso ed inconcludente incontro con Crispi a Napoli; Mocenni aveva incoraggiato Baratieri a confidare nella sua tradizionale fortuna "e l'uomo vanitoso e debole partì con questo viatico". Arrivato in Africa, Baratieri si era spinto fino a Macallè ed all‟Amba Alagi, portando l'estensione della colonia a 240.000 kmq; lo annunciò trionfalmente egli stesso il 4 novembre 1895, un mese prima del massacro dell‟Amba Alagi, imputato ad Arimondi, così come per Adua dava la colpa ad Albertone e Dabormida. Si chiedeva poi il giornale quale fosse lo scopo del libro di Baratieri e concludeva che "malgrado le sue lacune, malgrado le citazioni monche, malgrado l'artificio della narrazione, esso è la documentazione solenne della sua fatuità, della sua leggerezza, della sua presuntuosa incapacità".
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Si rallegrava poi il "Corriere" alla prospettiva di non doversi più occupare di Baratieri, scrivendo: "Egli era già morto: il suo libro è la pietra che chiude il sepolcro" (1 dicembre 1897, p. 1 “La pietra sul sepolcro", articolo di fondo non firmato). Questa funerea conclusione del giornale milanese era stata preceduta da un veemente attacco de “L‟Opinione liberale” (24 novembre 1897, p. 1 “Il libro di Oreste Baratieri"): "... nessun fiume d'inchiostro varrà a cancellare la memoria terribile del fiume di sangue, che, indarno per la patria, egli ha fatto versare…". Il libro andava condannato "soprattutto se si considera ciò che vi ha in esso di più disgustoso e di più deplorevole: le responsabilità addossate a coloro, che, non avendo potuto o saputo vincere… seppero morire!". Avrebbe dovuto Baratieri ritardare la pubblicazione, accontentandosi dell'indulgenza degli italiani, "che gli concedeva, se non il perdono, l'oblio, a condizione, però, che egli non rompesse il silenzio attorno alla sua persona". Il libro era offensivo per i vivi e per i morti oltre ad essere inutile poiché erano già note le responsabilità di tutti. Si compromettevano con quella pubblicazione gli sforzi del governo, del parlamento, del paese, dediti "ad opere di riparazione, che hanno bisogno di concordia, di reciproche condiscendenze e di calma". Il giornale ricordava poi quanto aveva scritto il 14 marzo 1896: la prostrazione fisica e morale di Baratieri non doveva "impietosire morbosamente"; pubblicando il libro il generale aveva dato prova di "un'audacia che gli italiani perdoneranno ancor meno facilmente della sua sconfitta, perché se questa addolora e commuove, quella irrita e disgusta". In tono più misurato" Il Mattino" (24-25 novembre 1897, p.1 "Il libro di Baratieri. Un primo giudizio"), di solito molto critico nei confronti del generale, gli rimproverava di avere incolpato della sconfitta i caduti di Adua e di aver attaccato i giudici del tribunale che l'aveva assolto. Si chiedeva pure se Baratieri, posto nella riserva, non avesse più doveri disciplinari da rispettare e potesse incolpare i comandi militari per difendersi. Suscitò qualche delusione la pubblicazione delle "Memorie d'Africa" poiché non conteneva elementi nuovi di grande importanza e perché la curiosità era stata già soddisfatta dalle anticipazioni.270 Non si trattava comunque di un'opera inutile, anche se "Il Secolo. Gazzetta di Milano" (24-25 novembre 1897, p. 1 "Il libro di Baratieri") insisteva nel giudicarla tale. Una lacuna in particolare era rimproverata a Baratieri: avrebbe dovuto dare evidenza al fatto che le ingerenze di Crispi nascevano dal suo tentativo di creare un diversivo rispetto ai tanti problemi esistenti al fine di 270
Oreste Baratieri "Memorie d'Africa" (1892-1896) Torino, Fratelli Bocca editori 1898 (recte 1897); ristampa, Fratelli Melita editori "I Dioscuri" Genova 1988, con introduzione di Claudio Asciutti.
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rafforzare la sua posizione politica traballante. Era pure censurata l'accusa di viltà rivolta ai soldati per cercare di giustificarsi. Aveva però ragione il generale di risentirsi dell'accusa di incapacità rivoltagli dal tribunale: era stato nominato governatore, promosso tenente generale, era stato mantenuto al comando anche dopo l'Amba Alagi: era tutto ricordato nelle "Memorie" e quindi di quella supposta incapacità dovevano rispondere Crispi ed i ministri. Ma quella de "Il Secolo" più che una assoluzione era una chiamata di correo: era questa difatti la conclusione cui perveniva il giornale: "E quest'ultima stoccata va proprio diritta diritta al Cav. Francesco Crispi, di cui il generale Baratieri non fu che il disgraziato compare". L‟ “Italie” fu l‟unico giornale a dimostrare una qualche comprensione per Baratieri (29 novembre 1897, pp. 1-2 “Le livre du général Baratieri”); non trovava motivo di scandalo nel libro, esente da indiscrezioni offensive per l'etica militare, l'unico torto di Baratieri era non esser morto ad Adua. Una punta d'ironia il giornale se la concedeva osservando quanto fosse dura la vita del generale, anche se godeva di una lauta pensione di 8 mila lire all'anno: ma - e qui il tono si faceva più serio il disprezzo di tutti e il rimorso per tante vite sacrificate l'opprimevano. L‟ “Italie” riteneva difficile anche per la generazione successiva accertare l'esistenza di persone ancora più colpevoli del generale; tale difficoltà derivava dal carattere passionale degli italiani, portati a giudicare in base a simpatie ed antipatie e non con una lucida razionalità. Nella sua storia, malgrado il valore dei soldati, l'Italia aveva subito molte sconfitte, ma nessun generale era mai stato condannato; era avvenuto anche per Baratieri, assolto sul piano penale, ma condannato moralmente e bollato dall'accusa di incapacità. Alcuni dettagli precisati da Baratieri nella sua minuziosa ricostruzione della battaglia di Adua non potevano scagionarlo. La colpa maggiore da rimproverargli più che la sconfitta del 1° marzo era il comportamento precedente: aveva iniziato con leggerezza la guerra dopo aver provocato Menelich con inopportune ed inconcludenti iniziative. Anche se espresso pacatamente il giudizio del giornale era negativo: era stato folle il comportamento di Baratieri, ma ancora più folli si erano dimostrati coloro che avrebbero dovuto controllarlo. Una conclusione meno dura sarebbe forse stata possibile se Baratieri nel suo libro avesse fatto una aperta revisione critica dei suoi precedenti comportamenti e giudizi, confermati invece in molti casi. Batha Agos, ad esempio, era ancora presentato come un personaggio torbido ed infido, senza tener conto che la sua ribellione era dipesa da motivi sociali e nazionali: solo di sfuggita si accennava al diffuso malcontento delle popolazioni per le numerose requisizioni dei terreni agricoli più fertili.
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Si riconosceva che col senno di poi poteva esser considerato un errore l'aveva occupato a Adua, ma tale ammissione era indebolita dal parlare di "un senno di poi” e dall'affermazione che il maggiore responsabile era il governo che aveva negato tempestivi rinforzi. Baratieri inoltre non dava alcuna spiegazione del suo troppo lungo soggiorno in Italia, da luglio a settembre 1895, nonostante la grave situazione esistente in Eritrea con Menelich e Mangascià sul piede di guerra. Un argomento particolarmente delicato era il difficile rapporto con Arimondi: dopo la sua eroica morte ad Adua era da considerarsi inopportuno attaccarlo per il suo comportamento indisciplinato: e Baratieri pertanto ricordava i fatti che avevano portato alla sconfitta dell‟Amba Alagi, senza però insistere troppo nel condannarli; cercava anzi di giustificare in qualche modo Arimondi, asserendo che probabilmente era all'oscuro dell'avanzata di Menelich: se ne fosse stato al corrente, avrebbe fatto ritirare per tempo Toselli evitandone il sacrificio. Nel ricordare la tormentata vigilia di Adua Baratieri insisteva nell'affermare che il parere unanime espresso nelle riunioni dei generali tenute il 28 e il 29 febbraio era per l'attacco: sarebbe stata pericolosa una ritirata, esposta agli attacchi nemici, e che avrebbe aperto a Menelich la via per l‟Oculè Cusai. Era quanto affermato da Baratieri nell'udienza del 6 giugno 1896 durante il processo davanti al tribunale dell'Asmara. Nelle sue "Memorie" Baratieri illustrava il suo piano strategico per Adua: avanzare fino al colle Rebbi Arienni e al colle Erarà, erroneamente denominato Chidane Meret, posti fra i monti Semayata e Esciasciò, attendendo l'attacco nemico da posizioni favorevoli, rese inespugnabili dalla postazione dell'artiglieria sulle alture. Se Menelich non avesse attaccato, le truppe italiane si sarebbero ritirate sulle precedenti posizioni a Sauria; era da considerarsi un successo italiano il mancato attacco di Menelich, dimostratosi ancora una volta pauroso non volendo affrontare gli italiani in una battaglia campale. Secondo i suoi piani doveva trattarsi di una semplice dimostrazione offensiva, evitando di spingersi troppo avanti verso Adua. L'aggressività eccessiva di Albertone aveva però compromessa la situazione: nel corso della riunione tenuta alla vigilia di Adua Albertone si era già dimostrato troppo audace, proponendo di affidare ai suoi ascari una puntata offensiva verso Mariam Sciavitù, poiché essi, più veloci degli italiani, sarebbero giunti in anticipo alle posizioni prestabilite. Baratieri l'aveva vietato, ordinando ad Albertone di rallentare la marcia della sua brigata che doveva prendere posizione contemporaneamente alle altre. L'equivoco nato per il nome sbagliato di Chidane Meret dato al colle Erarà Baratieri lo spiegava col fatto che Chidane Meret era il nome della regione, attribuito poi anche a quel colle; esisteva però un
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altro colle con lo stesso nome, posto 7 km più avanti verso Adua, e le guide condussero Albertone fino a quella località. Ma, osservava Baratieri, Albertone conosceva quale fosse realmente la posizione assegnatagli, situata fra i monti Semayata ed Esciasciò a lui noti essendo ben visibili da Sauria; inoltre il piano disposto da Baratieri specificava che erano simmetriche le posizioni dei due colli, Rebbi Arienni e il falso Chidane Meret, da occupare, mantenendo il contatto tra la brigata Albertone, schierata a sinistra, e la brigata Dabormida, attestata a destra, con la brigata Arimondi disposta al centro. Il colonnello Corticelli nella sua relazione al tribunale dell'Asmara aveva denunciato il comportamento di Albertone, accennando anche ad una sua deliberata disobbedienza agli ordini di Baratieri: secondo Corticelli Albertone "dimostrò di intendere il proprio compito in modo affatto speciale, indipendente cioè dall'azione di comando del generale Baratieri". Il maggiore Cossu, comandante del sesto battaglione indigeni della brigata Albertone, testimoniò che la sera del 29 febbraio Albertone aveva comunicato ai suoi ufficiali che era disposto un attacco fino a Chidane Meret " ed oltre", espressione che faceva intendere quale fosse il suo proposito. C'era stato poi l'avvertimento del maggiore Turrito ad Albertone: resosi conto che era stata raggiunta la posizione prevista da Baratieri, l'ufficiale l'aveva fatto presente ad Albertone invitandolo a non spingersi più avanti: la sprezzante replica di Albertone fu chiedergli se per caso avesse paura. Baratieri nel suo libro evitava però di commentare in prima persona l'operato di Albertone, limitandosi a ricordare le affermazioni di Corticelli e Cossu. Prospettava le cose in modo diverso Eduardo Ximenes in un articolo sul "Corriere Della Sera" (7-8 agosto 1897, pp. 1-2 " Echi della dichiarazione di Baratieri. Il Monte Bellah”), asserendo che dall'alto del monte Bellah Baratieri aveva potuto seguire l'avanzata di Albertone: si era così reso conto dell'errore ma non aveva fatto nulla per porvi rimedio. In quanto alla deviazione nel vallone di Mariam Sciavitù fatta dalla brigata Dabormida, Baratieri si limitava a definirla un enigma: Dabormida avrebbe dovuto disporre la sua brigata sul monte Bellah, da cui poteva seguire i movimenti di Arimondi ed intervenire a sostegno di Albertone: con quella inspiegabile diversione perse invece il contatto con le altre brigate. L'isolamento di Dabormida completò il disastro. Baratieri ricordava le affermazioni del capitano Bellavita, aiutante di campo di Dabormida, nella sua monografia su Adua271: Dabormida non aveva informato gli ufficiali del piano di Baratieri e procedeva nel vallone di Mariam Sciavitù consultando la sommaria cartina preparata dal maggiore 271
E. Bellavita - ex aiutante di campo della brigata Dabormida "Adua". I precedenti. La battaglia. Le conseguenze (1881-1931). Genova, Rivista di Roma editrice 1931.
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Salsa e da altri ufficiali; fortemente miope non sembrava rendersi conto dei luoghi in cui si trovava e reagiva stizzito ai timidi avvertimenti degli ufficiali, da lui considerati un tentativo di insubordinazione. Baratieri illustrava poi le serie difficoltà per mantenere i contatti con le brigate; non dava però alcuna spiegazione del motivo per cui erano rimasti nei depositi gli strumenti del telegrafo ottico che avrebbero reso questo servizio. Ci fu un totale scollamento nell'azione delle varie brigate, tanto che si è giustamente detto che ad Adua non si svolse un'unica battaglia, ma ci furono tre distinti combattimenti, in cui ognuna delle brigate Albertone, Dabormida, Arimondi dovette sostenere da sola l'attacco dell'intero esercito di Menelich. Da ultimo Baratieri affrontava il difficile tema del processo a suo carico, denunciando le numerose irregolarità procedurali. Deplorava come il tribunale, pur assolvendolo, l'avesse censurato con l'accusa di incapacità, costituendosi arbitrariamente in consiglio di disciplina. L'opera di Baratieri destò vivo interesse anche fuori dall'Italia, in Francia particolarmente. Sulla "Revue des deux Mondes” (1° marzo 1898, pp. 204) fu pubblicato una recensione di M. G. Valbert, ,”Le général Baratieri, ses commentaires sur la guerre d‟Abyssinie”, tutta favorevole. Il critico francese asseriva che Baratieri, dopo "la calamiteuse et sinistre journée d‟Adoua, a été le bouc emissaire sur lequel des ministres imprevoyans ont fait retomber tous leurs torts” ("dopo la disgraziata e sinistra giornata di Adua, è stato il capro espiatorio sul quale dei ministri imprevidenti hanno fatto ricadere tutti i loro torti"). A questa significativa premessa faceva seguito un'attenta analisi dei successi del generale ottenuti prima di Adua: aveva sconfitti i ras tigrini in un impervio territorio montano con angusti sentieri al posto delle strade; aveva represso la pericolosa rivolta di Batha Agos, accrescendo il prestigio italiano; aveva dimostrato doti non comuni di accortezza e prudenza, avendo ai suoi ordini ufficiali capaci e coraggiosi, soldati resistenti e disciplinati; si era così meritate le congratulazioni del governo, che incoraggiava ad annettere alla colonia i territori occupati, senza fornire però i mezzi necessari. Saggiamente Baratieri aveva messo in guardia i politici contro le possibili complicazioni; si erano distinti in quelle operazioni di guerra gli ascari, elogiati da Valbert per il loro valore e la loro fedeltà. Baratieri ne avrebbe voluto arruolarne altri, ma il loro addestramento richiedeva tempo e il governo indugiava a soddisfare quella richiesta; occorreva tempo anche perché i militari italiani si acclimatassero in Africa e solo all'ultimo minuto furono inviati dall'Italia i rinforzi necessari, costituiti per giunta da reparti male organizzati e male equipaggiati: si trattava di elementi
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provenienti da vari reggimenti, spesso indisciplinati e a volte con precedenti penali e di cui i comandanti erano stati lieti di sbarazzarsi inviandoli in Africa. Era stata fallimentare pure la preparazione politica della campagna, basata sull'ambizioso proposito di esercitare un protettorato su tutta l'Etiopia, pur disponendo solo di mezzi inadeguati. Il negus aveva rifiutato di riconoscere l'articolo 17 del trattato di Uccialli che metteva il suo paese sotto il controllo italiano, le larghe concessioni fattegli dall'Italia per indurlo ad accettare quell'articolo erano state ritenute da Menelich prova di debolezza; il negus lamentava di essere stato tratto in inganno, asserendo che il testo italiano del trattato non corrispondeva a quello in amarico. Il governo di Roma reagì in modo contraddittorio, oscillando fra gli amichevoli tentativi di convinzione col negus e le intese con gli avversari di Menelich, principalmente con Mangascià, signore del Tigrè. Tale politica finì per disgustare anche ras Makonnen, tradizionale amico dell'Italia e perciò in passato sospettato da Menelich, e i ras si strinsero attorno al negus, compreso lo storico avversario Mangascià; Baratieri lo sconfisse ed occupò il Tigrè, con il pieno consenso del governo italiano, che, non tenendo conto dei successi ottenuti, volle ridurre il bilancio dell'Eritrea. Alle rimostranze insistenti di Baratieri, che metteva in guardia contro la probabile alleanza di Mangascià con Menelich, Crispi rispondeva con frasi ad effetto, ma prive di senso, come quella di seguire l'esempio di Napoleone I, che faceva la guerra con le risorse prese nei territori conquistati. Per far fronte ad un'opposizione aggressiva ed insofferente del suo governo autoritario, Crispi aveva bisogno di successi in Africa, ma lesinava i mezzi necessari a tal fine. Il viaggio in Italia di Baratieri nell'estate del 1895, programmato per trovare un'intesa tra il governo e il generale, non raggiunse quello scopo: alle trionfali accoglienze riservate al generale corrisposero poche e tardive concessioni, tanto che lo stesso Baratieri riconobbe in seguito di aver commesso un errore accontentandosi e tornando in Africa. Makonnen aveva tentato di giungere alla pace, ma le lungaggini da parte italiana fecero fallire le trattative, ritenute da Crispi un espediente di Menelich per guadagnare tempo. Anche dopo il grave episodio dell‟ Amba Alagi sarebbe stato possibile un accordo con il negus: ma il governo italiano pose condizioni inaccettabili per la loro assurdità, quasi che all'Amba Alagi si fosse riportata una vittoria, non una sconfitta. Nel suo orgoglio smisurato Crispi credeva di poter piegare Menelich e tempestava Baratieri con esortazioni spesso offensive perché si decidesse ad attaccare ed alla fine il generale dovette cedere, abbandonando la cauta difensiva fino ad allora applicata. Si era pure detto che Baratieri si fosse deciso ad attaccare perché era stato informato dell'arrivo di Baldissera destinato a sostituirlo e avrebbe voluto riportare una vittoria prima che ciò avvenisse: il Tribunale dell'Asmara smentì tali voci, affermando che il generale, dimostrando una saggezza simile a quella del console romano
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Fabio Massimo, il temporeggiatore, aveva a lungo evitato lo scontro, ma alla fine aveva ceduto alle pressioni dell'opinione pubblica italiana, desiderosa di vendicare la sconfitta dell'Amba Alagi: non era stato solo Crispi ad insistere per una rivincita. Valbert riconosceva l'errore fatto da Baratieri cedendo a quella insistenza, " mais" - concludeva l'autore – “il est en droit d‟affirmer qu‟il n‟a pas la principal part dans la responsabilità du disastre. Ce qui à été vaincu à Adoua, c‟est moins un général et son armée, qu‟une politique imprevoyante, qui se targuait de faire facilement et à peu de frais des choses difficilee et coûteuses” (“ma egli ha il diritto di affermare che non è sua la parte principale della responsabilità del disastro. Ad Adua ad essere stato sconfitto non è tanto un generale ed il suo esercito, quanto una politica imprevidente che si vantava di fare facilmente e con poca spesa cose difficili e costose"). Resta da accertare se la dura condanna di Crispi fosse ispirata soltanto da una serena valutazione dei fatti, unita a simpatia per lo sfortunato Baratieri o non sia da attribuirsi anche alla avversione francese per il gallofobo Crispi. Sembra legittimo affermare che la simpatia francese per Baratieri era direttamente proporzionale alla avversione per Crispi, come appare dai rapporti dell'ambasciatore di Francia a Roma e da quelli degli ambasciatori accreditati in altre capitali europee, attenti a cogliere e riferire ogni dichiarazione contraria a Crispi. Herbette, ambasciatore a Berlino, scriveva il 3 febbraio 1891 al ministro degli esteri Ribot che la caduta del governo Crispi aveva ispirato stupore, ma non rimpianto, poiché Crispi non era amato, ma solo tollerato in Germania grazie al suo deciso appoggio alla Triplice Alleanza: “Son passé d‟aventurier, ses changements d‟opinion, la violence de son langage, les ruses audacieuses que lui inspirait son tempérament de sicilien, tous les traits de sa vie, tous les aspects de son caractère interdisaient à coup sûr aux Allemands de lui accorder leur estime; mais comme ils ne voulaient voir en lui que le partisan de la Triple Alliance, l‟adorateur exalté de leur puissance, ils s‟abstenaient de refroidir une telle passion par des critiques de détail…” (“Il suo passato di avventuriero, i suoi cambiamenti d'opinione, la violenza del suo linguaggio, le audaci astuzie che gli ispirava il suo carattere di siciliano, tutte le caratteristiche della sua vita, tutti gli aspetti del suo carattere impedivano di sicuro ai Tedeschi di concedergli la loro stima, ma poiché essi volevano vedere in lui soltanto il più ardente sostenitore della Triplice Alleanza, l'esaltato adoratore della loro potenza, essi si astenevano dal raffreddare una tale passione con critiche sui dettagli...". E l'ambasciatore a Londra, Waddington, nel rapporto del 9 febbraio 1891 al ministro Ribot affermava che in Inghilterra “on n‟est même pas fàché d‟être débarassé d‟un homme d‟État dont rien pouvait contenir la fougue et dont les agitations perpétuelles étaient presque toujours un probléme pour eux qui avaient à faire avec lui, et souvent aussi un danger” (“non si è neanche
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dispiaciuti di essersi liberati di un uomo di Stato di cui niente poteva frenare l'irruenza e le cui continue agitazioni quasi sempre erano una fatica per chi aveva a che fare con lui, e spesso anche un pericolo"). Ed ancora Waddington riferiva a Ribot l'antipatia della regina Vittoria per Crispi nel rapporto del 12 marzo 1891: "Sa Majestè m'a exprimé une certaine satisfation de la chute de M. Crispi, dont elle a critiqué les allures agitées et le tempérament violent” (“Sua Maestà mi ha manifestato una certa soddisfazione per la caduta del signor Crispi, del quale essa ha criticato i comportamenti agitati ed il carattere violento").272 Ma anche in Italia Crispi riscuoteva antipatie: in una sua nota segreta in data 21 novembre 1891 il Ministro Ribot annotava la confidenza fattagli dal Ministro degli Esteri russo, Giers, riportando un giudizio negativo su Crispi, espresso dal re Umberto: "Cet homme, a-t-il dit, avait toutes les cartes en main! Mais, par son manie de toucher à tout, il a tout brouillè et n‟est arrivé qu‟à se discréditer” (“Quest‟uomo aveva in mano tutte le carte! Ma per la sua mania di impicciarsi di tutto ha imbrogliato tutto ed è riuscito soltanto a screditarsi"). In altra occasione lo stesso re Umberto dava un giudizio meno severo su Crispi, pur criticando la prepotenza con cui si imponeva sul ministro degli Esteri Blanc; lo comunicava il 1° gennaio 1894 l'ambasciatore Billot al ministro degli Esteri Casimir Perier riferendo quanto dettogli dal re: "Du reste, M. Crispi n‟est pas l‟ogre qu‟on s'est plu à en faire; au fond, il est bon, et il a de grandes qualités de travail et d‟énergie. Vous vous entendait bien avec lui, n‟est-ce pas, pendant la première année de votre mission?” (“Del resto, il signor Crispi non è l'orco che ci si è compiaciuti di farne; in fondo, egli è buono ed ha grandi qualità di lavoro e di energia. Voi andavate bene d'accordo con lui, non è vero, durante il primo anno della vostra missione?"). L'ambasciatore aveva assentito, facendo però presente che era Blanc, ministro degli Esteri, il suo interlocutore. Umberto, con una punta di disprezzo, aveva replicato: "Ah! Blanc, c‟est Crispi et rien d‟autre!” (!Ah! Blanc, è Crispi e nient'altro!). Billot, sconcertato per le parole del re che screditavano il ministro, aveva allora ricordato le capacità e l'autonomia di giudizio di Blanc, ma il re aveva insistito asserendo: "C‟est Crispi qui l‟a mis à la Consulta; il devra marcher comme veut Crispi, et, s‟il ne marche pas, on le revoquera Vous
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Documents diplomatiques français (1871-1914) - Première Série (1871-1901). Tome VIII (20 mars 1890-28 août 1891) doc. 247, p. 344 M. Herbette, ambassadeur de France à Berlin, à M. Ribot, ministre Affaires Étrangères - Berlin 3 février 1891, doc. 251, p. 350, M. Waddington, ambassadeur de France à Londres, à M. Ribot, Londres 9 février 1891, doc. 307, p. 422 M. Waddington à M. Ribot, Londres 12 mars 1891.
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connaissez bien M. Crispi!” (“E‟ Crispi che l'ha messo alla Consulta; egli dovrà comportarsi come vuole Crispi, se non lo farà, sarà destituito. Voi conoscete bene il signor Crispi".)273 Il carattere autoritario Crispi lo dimostrava in ogni occasione; nel rapporto del 10 gennaio 1895 al ministro degli Esteri, Hanoteaux, Billot comunicava che Crispi aveva deciso da solo il richiamo in Italia dell'ambasciatore d'Italia a Parigi, Ressmann, senza neanche informare i ministri; e Billot commentava così: "On peut juger par là des procedès de M. Crispi, de son état d‟esprit , des responsabilités qu‟il ne craint pas d‟endosser, de l‟éspece de dictature qu‟il s‟arroge” ("Da ciò si possono giudicare i metodi del signor Crispi, le sue condizioni di spirito, le responsabilità che non teme di assumere, la specie di dittatura che egli si arroga"). Oltre ad agire tenendo all'oscuro i ministri, Crispi non si era curato della protezione del re Umberto accordata a Ressmann, richiamandolo da Parigi con il pretesto di un vasto movimento diplomatico. Ma pochi credevano a quella versione ufficiale: Crispi aveva preso quel provvedimento punitivo perché era irritato con l'ambasciatore che non era riuscito ad impedire la pubblicazione di attacchi contro di lui sul giornale "Temps". Le scarse simpatie per Crispi anche nei paesi della Triplice furono dimostrate dalle reazioni poco favorevoli al suo ritorno al potere nel dicembre 1893. L'ambasciatore a Berlino, Herbette, scriveva il 26 dicembre di quell'anno al ministro Casimir Perier di aver ricevuto dall'ambasciatore d'Italia in Germania, Lanza, una confidenza sul timore tedesco che Crispi divenisse ministro degli Esteri, oltre che presidente del Consiglio, ispirato dal suo carattere scortese. Inoltre, era vista con diffidenza la sua tenace amicizia con Bismarck, anche dopo che il cancelliere di ferro, nel 1890, era caduto in disgrazia ed aveva dovuto dimettersi a causa del contrasto con il kaiser. Crispi, costante nell'amicizia come nell'odio, continuava a fare gradito omaggio Bismark di vini italiani, ancora nel 1896, ricevendo i commossi ringraziamenti dell'amico tedesco. Anche in Austria Crispi non era ben visto: un alto funzionario del Ministero degli Esteri si era difatti lamentato con l'incaricato d'affari francese Le Marchand del rapporto privilegiato di Crispi con la Germania, trascurando invece l'Austria: " Il a toujour traitè l‟Austriche en qualité negligeable et pourant nous somme davantage pour l‟Italie surtout” (“Ha trattato sempre l'Austria come un'entità trascurabile, e tuttavia noi siamo di più, per l'Italia soprattutto"). Ma quando voleva, Crispi sapeva essere gentile, talvolta in modo eccessivo.
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Ibidem, tome IX (23 août 1891 - 19 août 1892). Doc. 76 p. 112. Nota segreta del ministro Ribot in data 21 novembre er 1891; tome XI (1 janvier 1894- 7 mai 1895) doc. 1 confidenziale - M. Billot, ambassadeur de France à Rome à M. er Casimir - Perier, Ministre des Affaires Étrangères, Rome 1 janvier 1894.
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Billot, nel rapporto del 20 aprile 1890 al ministro Ribot, descriveva così il suo primo incontro con Crispi, cui era giunto con una certa preoccupazione a causa delle voci messe in giro sui modi scortesi del politico siciliano nei confronti degli ambasciatori stranieri. Era stato invece accolto con un'estrema cordialità, così descritta nel rapporto al ministro: "L‟homme vient à moi la main tendue, le sourire aux lèvres. Il me fait assoir, avec force compliments de bienvenue, et il approche son siège. Nous engageons la conversation, genoux contre genoux. Il me prend la main et la garde, en accentuant par les pressions reiterées l‟énergie de ses déclarations. Sa voix est chaude, vibrante, presque affecteuse et câline. Il me flatte et me caresse, au sens propre et au figuré. Rien du dictateur irritable et violent”. (“L‟uomo viene verso di me, con la mano tesa ed il sorriso sulle labbra. Mi fa sedere, con molti complimenti di benvenuto e accosta la sua sedia. Iniziamo a discutere, con le ginocchia appoggiate alle ginocchia. Mi prende la mano e la trattiene, accentuando con ripetute pressioni l'energia delle sue affermazioni. La sua voce è calda, vibrante, quasi affettuosa e carezzevole. Mi adula e mi accarezza, nel senso proprio ed in quello figurato. Non c'è nulla del dittatore irritabile e violento".) Quella imbarazzante fisicità nel comportamento di Crispi ricorda più un intimo colloquio tra innamorati trepidanti per l'emozione, che una discussione su gravi problemi di Stato tra un presidente del Consiglio ed un ambasciatore. Ed ancora Billot il 13 ottobre 1895 descriveva al ministro Hanoteaux la cordiale accoglienza ricevuta da Crispi nonostante avesse temuto un incontro tempestoso a causa di alcuni fatti recenti (la denunzia del trattato italo-tunisino, il rifiuto francese di estradare l'ex poliziotto italiano Santoro, accusato di reati comuni e rifugiato in Francia, l'assenza francese alle celebrazioni del 20 settembre). Ed invece Crispi, "loin d‟affecter la moindre raideur, il a peut-être mis dans son accueil plus de prévenance qu‟à l‟ordinaire, parlant du plaisir qu‟il avait à me revoir, s‟intéressant à l‟emploi de mes vacances et à la santé des miens. Il était calme et souriant” (“ lungi dal dimostrare il minimo rigore, ha forse messo nell'accoglienza più premura del solito, parlando del piacere che aveva nel rivedermi, interessandosi al modo come avevo passato le vacanze ed alla salute dei miei. Era calmo e sorridente”).274 274
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Ibidem, tome XI (1 janvier 1894 - 7 mai 1895) doc. 334 pp. 521-522 M. Billot à M. Hanoteaux, ministre Affaires Étrangères, 10 janvier 1895; tome X (21 août 1892 - 31 decembre 1893), doc. 483, p. 702 M. Herbette a M. CasimirPerier, Berlin 26 decembre 1893; doc. 484 p. 703 M. Le Marchand, Chargé d'affaires a Vienne, à M. Casimir Perier, Vienne 27 decembre 1893. Ibidem, tome VIII (20 mars 1890 - 28 août 1891) doc. 41, p. 55 M. Billot a M. Ribot, Rome 20 avril 1890. Ibidem, tome XII (8 mai 1895 - 14 octobre 1896) doc. 171, p. 238 M. Billot a M. Hanouteaux, Rome 13 octobre 1895. ACS Carte Crispi Deputazione Storia Patria Palermo, busta 144, fascicolo 1116; lettera di Bismarck a Crispi 22 febbraio 1896.
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Ma erano semplici episodi, rimasti senza serie conseguenze. Anni dopo, quando Crispi era ormai divenuto estraneo alla vita politica, Barrère, ambasciatore a Roma, ricordava nel rapporto del 2 marzo 1901 al ministro degli Esteri Delcassè l'appoggio incondizionato di Crispi alla Triplice Alleanza ed il suo sforzo per una definitiva adesione italiana: "Afin d‟y river définitivement le peuple italien, peu enclin, au fond, a courir cette aventure, des hommes comme M. Crispi ont recouru aux plus détéstables procedés” (“Per legarvi definitivamente il popolo italiano, poco disposto, in fondo, ad affrontare questa avventura, uomini come il signor Crispi hanno fatto ricorso ai metodi più detestabili"). Da strumento difensivo la Triplice era così divenuta un mezzo per aggredire la Francia. Ed ancora qualche mese dopo, l'8 maggio 1901, una comunicazione del Ministero della Guerra francese sugli accordi militari della Triplice Alleanza ricordava che due corpi d'armata italiani avrebbero dovuto sostenere sul Reno un'eventuale offensiva tedesca contro la Francia ed era pure previsto un attacco italiano dalle Alpi e da Nizza, secondo i propositi di Crispi sostenuti da Bismarck: "L‟âme de cet accord aurait été M. Crispi fortement appujé par M. de Bismarck”. ("L'anima di questo accordo sarebbe stato il signor Crispi, fortemente sostenuto dal signor Bismarck").275 Riaffioravano vecchi rancori, anche se era stata ormai stata avviata nel 1901 da Visconti-Venosta la distensione nei rapporti italo-francesi, tanto da arrivare nel 1902 al patto di reciproca non aggressione stipulato da Prinetti, ministro degli Esteri nel governo Zanardelli. Altrettanto duraturi si dimostrarono in Francia l'interesse e la simpatia per Baratieri, che non vennero meno e non si esaurirono con l'articolo di Valbert sulla “Revue des Deusx Mondes”. Nello stesso anno 1898 fu difatti pubblicata l'edizione francese delle "Memorie d'Africa" con una prefazione di Jules Claretie (Memoires d‟Afrique 1896 – prèface de M. Jules Claretic de l‟Académie Francaise” – Paris, Charles Delagrave – H. Charles Lavauzelle 1898). Secondo Claretie l'interesse del libro consisteva nel fatto che vi erano descritti gli sforzi eroici di un popolo europeo di razza latina per diffondere la civiltà; al tempo stesso il libro sarebbe stato istruttivo per gli africanisti, fornendo utili indicazioni per le loro iniziative. L'accademico francese deplorava la leggerezza con cui ci si avventurava in imprese coloniali senza conoscere il territorio ed i problemi da affrontare, trascurando di studiare testi e documenti già disponibili: come esempio di tale trascuratezza era citata la mancata consultazione della relazione sull'Etiopia fatta dal generale 275
Documents diplomatiques français (1871-1914) Deuxième Série (1901-1911) Tome I (2 janvier - 31 decembre 1901) doc. 118, p. 154. Barrère, ambassadeur de France à Rome à M. Delcassè, Ministre Affaires Etrangères, Rome 2 mars 1901. Doc. 227, pp. 268-269, "Conventions militaires de la Triple Alliance. Communication 1038 du Ministre de la Guerre. Berlin 8 mai 1901".
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Osio, che da maggiore aveva seguito come osservatore la spedizione britannica del generale Napier contro il negus Teodoro; la relazione era ricca di acute osservazioni, ma era rimasta ignorata a giacere negli archivi del ministero della Guerra italiano. Era poi definita tragica la sorte di Baratieri prima osannato e poi divenuto oggetto di una generale esecrazione: il generale aveva agito con prudenza ma aveva alla fine ceduto alle pressioni del governo, ansioso di ottenere a qualunque costo una vittoria. Baratieri dal glorioso passato garibaldino era stato vittima delle ambizioni cieche dei politici: si era trovato a dover combattere contemporaneamente due guerre, una contro Menelich e l'altra contro il governo italiano, che non gli forniva i mezzi necessari per difendere la colonia da Abissini e Dervisci. Fra i successi di Baratieri era ricordata la conquista di Cassala, che aveva facilitata la vittoria britannica sul Madhi; l'Italia aveva però ceduta Cassala agli inglesi, spianando loro la strada per la conquista del Sudan: quella bella vittoria, deplorava Claretie, era stata quindi utile a Londra, a danno dell'Italia, venendo ad essere l'Eritrea accerchiata dall'impero anglo egiziano, che puntava ad estendersi in Etiopia: le considerazioni di Claretie sembrano ispirate dalla rivalità tra Inghilterra e Francia nel campo coloniale, accentuatasi proprio in quel periodo con la spedizione francese del comandante Marchand spintosi fino a Fashoda, arrivando così sull'orlo di una guerra. Della sconfitta di Adua erano ritenuti responsabili Albertone e Dabormida: nonostante i loro errori l'autore rendeva omaggio al loro valore; una critica era poi riservata al tribunale dell'Asmara che aveva definito incapace Baratieri. Le "Memorie "di Baratieri stavano a dimostrare quanto pericolose potessero essere le ambizioni coloniali dei politici e le loro ingerenze nelle operazioni militari: il libro, concludeva Claretie, "montre ce que devient toute expédition subordinnée à l‟intérêt d‟un Ministère qui, dans ce jeu de la Mort qui s‟appelle la Guerre, ne voit qu‟un jeu de majorité à l‟usage des politiciens” (“ dimostra cosa diviene qualsiasi spedizione subordinata all'interesse di un governo, che nel gioco mortale che si chiama Guerra, vede soltanto un gioco di maggioranza utile ai politici "). Altrettanto favorevole a Baratieri si dimostrò il comandante francese E. Bujac in un'opera dedicata alle guerre di quel tempo, fra cui quelle degli italiani in Africa ("Précis de quelques campagnes contemporaines”, volume 3° “Egypte et Sudan” Paris, H.C. Lavauzelle
1899 – 3a parte
“Campagnes des Italiens en Afrique”). L'autore riteneva che la ribellione di Mangascià fosse un pretesto inventato da Baratieri per attaccarlo; attribuiva poi ad Arimondi la colpa dell‟Amba Alagi e faceva sua la critica del capitano tedesco von Graveniz, formulata in un articolo dell'ottobre 1896 sul "Neue Militarische Blätter” in cui aveva giudicato temerario avere lasciato solo e lontano il battaglione Toselli. Bujac criticava la lentezza di Arimondi nel soccorrere Toselli: aveva impiegato bene 15 ore per una marcia di 30 km;
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lanciava una dura accusa ad Arimondi, ritenendo fosse da attribuirsi la sconfitta "aux aternoiements, à la pusillaminité" ("agli indugi, alla incertezza, alla vigliaccheria") da lui dimostrati: giudizio ingeneroso, poiché Arimondi non era certamente un vile, aveva anzi sempre dimostrato un coraggio che sconfinava nella temerarietà, sempre propenso all'offensiva piuttosto che alla difensiva. A Baratieri era riservata una critica più fondata, l'esser tornato in Africa nel settembre 1895 senza aver ottenuto i rinforzi necessari per respingere l'attacco prevedibile di Menelich. Galliano dopo l'Amba Alagi era rimasto a presiedere Macallè, le cui fortificazioni erano ancora incomplete; per consentirne la pacifica evacuazione ci sarebbe stato un accordo, con il quale l'Italia garantiva al negus di poter procedere indisturbato verso Adua e si impegnava a non impiegare il battaglione Galliano in operazioni di guerra: era quanto affermava l'ingegnere svizzero Ilg, uno dei consiglieri di Menelich, ma, osservava Bujac, il battaglione Galliano partecipò invece alla battaglia di Adua ed il suo eroico comandante rimase ucciso. Bujac citava poi una lettera del professor Pantaleoni su “Il Secolo. Gazzetta di Milano" che spiegava la disponibilità di Makonnen a favorire trattative di pace con il condono a lui concesso di un suo debito di 3 milioni di lire contratto con la ditta Bienenfeld: rappresentante di quella ditta era proprio quel Felter delegato italiano per le trattative di pace. Voce smentita da Baratieri e dallo stesso Felter; nè era stato pagato un riscatto a Menelich per consentire l'evacuazione di Macallè, concessa dal negus secondo le fonti abissine soltanto per cristiana carità. La posizione di Macallè era stata mantenuta da Arimondi contro il volere di Baratieri, che non intervenne per sostenere la guarnigione a causa della grande disparità delle forze; le critiche mossegli per tale inattività erano respinte da Bujac con queste parole: "…tout le passé militaire du général Baratieri proteste contre les calomnieuses accusations dont on a voulu le flageller” (“tutto il passato militare del generale Baratieri protesta contro le accuse calunniose con cui si è voluto colpirlo"). Crispi accentuò le sue pressioni su Baratieri perché lanciasse un'offensiva nell'approssimarsi del 5 marzo 1896, data fissata per la riapertura della Camera cui l'uomo politico voleva presentarsi forte di un successo militare in Africa. Si arrivò così al disastro di Adua, dovuto secondo Bujac soprattutto ad Albertone che spingendosi troppo avanti aveva rovinato il piano strategico di Baratieri e riteneva Bujac una semplice scusa l'affermazione di Albertone di essere stato tratto in inganno dalla omonimia di due diverse Chidane Meret; scriveva difatti autore: "Cette explication ne sera peut-être qu‟une excuse évitant au général Albertone l‟aveu d‟avoir cédé aux entrainements de son caractère” (“Questa spiegazione non sarà forse che una scusa per evitare al generale Albertone la confessione di aver ceduto agli impulsi del suo carattere”).
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Il disastro fu completato da Dabormida, spintosi inspiegabilmente nel vallone di Mariam Sciavitù, anziché attestarsi sul monte Bellah, come aveva disposto Baratieri, per essere in grado di sostenere l'azione della brigata Albertone. Bujac elencava poi le varie cause della sconfitta italiana: i rinforzi arrivati erano composti da reparti raccogliticci (era però respinta l'affermazione di Macola sul "Corriere Della Sera" circa il reclutamento di camorristi e mafiosi); si era avanzato su di un terreno sconosciuto; era inefficiente il servizio di informazione; era mancato il coordinamento nell'azione delle varie brigate; i soldati erano stanchi per la faticosa marcia notturna fatta alla vigilia della battaglia. Ma soprattutto, affermava Bujac, la sconfitta era dipesa dal comportamento dei generali Albertone e Dabormida, accusati di una deliberata disobbedienza agli ordini di Baratieri, senza neanche l'attenuante di aver sbagliato in buona fede: "Ainsi Albertone, le premier, puis Dabormida – tous deux sans la moindre excuse valable – ainsi les commandants des deux ailes désobeissent aux instructions formelles du général en chef et, sous prétexte d‟initiative, se rendent coupables d‟actes de précipitation et d‟indépendence” (“Così per il primo Albertone e poi Dabormida - entrambi senza la più piccola scusa valida - così i comandanti delle due ali disobbediscono alle formali istruzioni del comandante in capo, e, col pretesto della iniziativa, si rendono colpevoli di atti di precipitazione e di indipendenza”). Secondo Bujac Baratieri avrebbe dovuto affiancare ad Albertone un ufficiale di sua fiducia per assicurare l'esecuzione dei suoi ordini; la stessa osservazione fu fatta poi da Caviglia nel suo diario affermando che Baldissera l'avrebbe disposto276: ma dobbiamo osservare che Baratieri non poteva prevedere l'avventato comportamento di Albertone e che quest'ultimo non avrebbe accettato il controllo di un ufficiale di grado inferiore. Baratieri replicò all'opera di Bujac con un articolo di precisazione (“Poche osservazioni su “Les campagnes des Italiens en Afrique” del comandante Bujac – La Settimana, giornale di Firenze, anno IV, n. 18 -30 aprile 1899). Baratieri lodava l'opera di Bujac, definita chiara ed equilibrata, dalla cui analisi potevano trarsi utili insegnamenti. Riteneva comunque necessario fare alcune rettifiche e precisazioni; negava anzitutto che la ribellione di Mangascià fosse un semplice pretesto inventato di sana pianta; il ras aveva promesso di partecipare alla difesa contro i Dervisci, ma anziché schierare le sue forze verso occidente, in direzione di Ghedaref, da dove poteva provenire l'attacco nemico, le aveva disposte verso sud, al confine dell‟Oculè Cusai, dov'era scoppiata la rivolta di Batha Agos con il chiaro proposito di sostenerla. Nè Baratieri aveva interesse ad affrontare Mangascià, che disponeva di 18 276
Enrico Caviglia "Diario (aprile 1925-marzo 1945)". Casini editore, Roma 1952. Nota del 25 luglio 1936, pp. 154-155.
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mila uomini contro i 3900 fra italiani ed ascari, tanto più che già incombeva la minaccia dei madhisti. Negava poi il generale di essere tornato dall'Italia in Eritrea nel settembre 1895 a mani vuote: avevo ottenuto quanto richiesto (arruolare altri 1000 ascari e comprare 700 muli) e contava inoltre sulla promessa di Blanc di ulteriori rinforzi in caso di necessità. Non si può non sottolineare come si trattasse di mezzi molto esigui, del tutto insufficienti per affrontare il potente esercito di Menelich oltre che i tigrini di Mangascià. Lamentava poi Baratieri che con l‟Amba Alagi, oltre che una pesante sconfitta militare, si fosse avuto il crollo del piano di alleanze stipulate con i ras, subito pronti a schierarsi dalla parte del vincitore Menelich; smentiva che per ottenere la libertà della guarnigione di Macallè si fosse promesso al negus che essa non avrebbe partecipato a future operazioni di guerra: non ne aveva parlato Menelich e non ne aveva fatto cenno un notabile abissino nella lettera inviata al giornale francese “Temps” in cui esaltava la generosità del negus che senza alcuna contropartita aveva generosamente concessa la libertà al battaglione Galliano. Il mancato attacco a Menelich durante la sua marcia verso Adua dopo l'evacuazione di Macallè era stato dovuto - spiegava Baratieri - al fatto che fino al 30 gennaio 1896 disponeva solo di metà delle sue forze e inoltre avrebbe dovuto procedere su di un terreno insidioso. Chiariva ancora Baratieri perché non si fosse compilata una carta geografica della zona di Adua, pur avendola occupata per alcuni mesi a partire dall'aprile 1895: non si erano potuti eseguire i necessari rilievi dovendo reprimere il brigantaggio e disporre l'amministrazione del nuovo territorio; inoltre ogni attività era rimasta paralizzata dall'arrivo delle grandi piogge. Non aveva trascurato di compiere una ricognizione del terreno prima della battaglia del 1° marzo: era proprio quello lo scopo della marcia notturna tra il 29 febbraio ed il 1° marzo. In verità convince poco una ricognizione fatta con 20.000 uomini e 56 cannoni, a breve distanza dalle posizioni nemiche, dopo esser rimasto fermo a Saurià per più settimane. Ma particolare interesse rivestiva la difesa di Albertone e Dabormida contro le accuse mosse loro da Bujac di avere espressamente disobbedito agli ordini. Era ingeneroso accusare Dabormida, morto dopo aver combattuto con valore; ed Albertone si era comportato con pari valore e, ferito, aveva poi dovuto subire una dura prigionia. Baratieri ribadiva che Albertone aveva agito in perfetta buonafede ed asseriva di non aver mai detto, scritto o pensato che Dabormida non si fosse attenuto agli ordini per la smania di ottenere un successo personale. Una simile affermazione - sosteneva Baratieri - avrebbe dimostrato l'ignoranza di quanto scritto nelle "Memorie d'Africa" e sarebbe stato una calunnia rivolta contro Dabormida e lui stesso;
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concludeva però affermando che se si fosse seguito il suo piano, sarebbe stata molto probabile una vittoria italiana. Nel complesso, malgrado alcune critiche espresse nell'articolo su "La Settimana", Baratieri era rimasto soddisfatto dell'opera di Bujac, che lui lodava in una lettera all'amica Marinuzzi in data 9 marzo 1899, perché conteneva "osservazioni molto giuste" ed era quasi interamente dedicata a difendere il suo operato. I rapporti tra Bujac e Baratieri erano già in precedenza amichevoli: l'ufficiale francese aveva ringraziato Baratieri con lettera del 10 febbraio 1898 per l'invio di una copia delle "Memorie d'Africa" e gli aveva chiesta una lettera sulle responsabilità di Crispi per farla pubblicare su “La France militaire”; era una prova evidente dell'interesse francese a sfruttare la vicenda Baratieri per colpire l'odiato gallofobo Crispi.277 Ma, forse intuendo la manovra, Baratieri rifiutò quell'interessato invito, poiché non voleva eccedere nella polemica contro Crispi. Si dimostrò invece disponibile a concedere alla stessa rivista "La France militaire” un'intervista sui rapporti italo-francesi , in occasione di un suo soggiorno a Parigi, qualche mese dopo, nell'aprile del 1898. La rivista pubblicò l'intervista in prima pagina, con grande evidenza.278 Baratieri confermava i suoi sentimenti patriottici, dicendosi sempre pronto a battersi per l'Italia; precisava, a richiesta del giornalista, che però non ci sarebbe mai stata una guerra dell'Italia contro la Francia, nazione sorella. All'osservazione che la Triplice Alleanza poteva portare a quel conflitto, Baratieri replicava che essa aveva un carattere puramente difensivo e poiché non era prevedibile un attacco francese all'Italia, questa, in caso di una guerra tra gli Imperi Centrali e la Francia, non vi avrebbe preso parte: era proprio la situazione creatasi nel 1914, quando l'Italia si mantenne neutrale allo scoppio della prima guerra mondiale. Le manifestazioni antifrancesi in Italia erano opera di una minoranza ed i sentimenti del popolo italiano non potevano identificarsi con le "crialleries de quelques étudiants de Rome ou d‟une de brailleurs soudoyés par la presse antifrançaise” (“ gli strepiti di alcuni studenti di Roma o di uno strepito di assoldati dalla stampa antifrancese"). Il generale affermava poi di ritenere simili le condizioni di vita sue e quelle di un abitante della Alsazia o della Lorena, terre francesi occupate dalla Germania dopo la guerra del 1870: anche il suo Trentino era terra italiana, ma soggetta all'Austria; un esule alsaziano sarebbe stato arrestato dalla polizia tedesca se avesse tentato di rientrare in patria, allo stesso modo sarebbe stato lui stesso arrestato dagli austriaci nel 1860 se fosse rientrato dall'esilio in Trentino. Baratieri taceva però sul
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Carteggio di Oreste Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato; p. 244 lettera di Baratieri alla Marinuzzi, Venezia 9 marzo 1899; pp. 238-239 lettera di Bujac a Baratieri, Bordeaux 10 febbraio 1898. 278 "Interview du général Baratieri", "La France militaire", 23 aprile 1896. Copia della rivista si trova presso l'Archivio di Stato di Venezia, Carte Baratieri. Serie XV, busta 13, fascicolo 5A.
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fatto che, concluse le ostilità tra Italia ed Austria, poteva vivere indisturbato ad Arco, in territorio austriaco cioè. L'intervista si concludeva con un'ardente professione di fede patriottica e rendendo omaggio al contributo dato dalla Francia alla causa nazionale italiana: "de ma naissance en pays injustement possedé par l‟Austriche, je suis ardent patriote italien et, comme tel, fervent ami de la France, aux généreux et magnanimes efforts de la quelle est due notre vie nationale” (“… fin dalla mia nascita in un paese ingiustamente posseduto dall'Austria io sono un ardente patriota italiano e, in quanto tale, fervido amico della Francia, ai cui generosi e magnanimi sforzi è dovuta la nostra vita nazionale"). C'è da osservare che la contrarietà di Baratieri ai moti di piazza antifrancesi era simile alla sua condanna delle manifestazioni irredentiste contro l'Austria, da lui giudicate rumorose ma inconcludenti; affermazione più volte ripetuta, fra l'altro anche in occasione del progetto di un monumento a Prati nel Trentino. Iniziativa vista con favore dal generale in quanto ritenuta utile per contrastare la germanizzazione del Trentino, attuata dall'Austria. Ma Baratieri ci teneva a precisare in una lettera all'amico Bolognini del 13 maggio 1884, essere sua intenzione" non di fare una dimostrazione irredentista, ma bensì di italianità a favore del Trentino".279 Distinzione in verità alquanto sottile, essendo l'azione degli irredentisti rivolta proprio all'affermazione della italianità: se distinzione voleva farsi, era tra i diversi metodi scelti, e non tra le finalità coincidenti. Le simpatie filo-francesi di Baratieri erano attestate anche dall'articolo "Les anglais au Sudan et la guerre d‟Abyssinie” (Revue des deux Mondes, 15 gennaio 1899, pp. 386-396). Era di data recente la spedizione Marchand spintosi fino a Fashoda località di importanza strategica per controllare l'Abissinia, tanto più che la Francia possedeva di già il porto di Obock ed altre località sul mar Rosso. L'opposizione inglese aveva costretto Marchand a ritirarsi da Fashoda, ma, osservava Baratieri, presto la Francia avrebbe avuto altre occasioni e sarebbero sorte altre questioni simili. Occupando territori confinanti con l'Abissinia, le potenze europee avevano il dovere di impedire le razzie, provenienti in modo particolare dall‟Harrar, regione di cui si era interessato nel 1895-96 il governo italiano per crearvi un secondo fronte contro Menelich; rimpiangeva Baratieri l'occasione allora perduta per il rifiuto britannico di far sbarcare a Zeila il corpo di spedizione italiano. Facendo tale riferimento, Baratieri però taceva due fatti molto importanti: nel 1895 lui stesso era stato almeno inizialmente contrario a quella spedizione difficile sia per il costo che per la lunga marcia da compiere in un territorio ostile; l‟Inghilterra in linea di massima si era dimostrata disposta ad 279
Archivio di Stato Venezia Carte Baratieri, serie IX, busta 7, fascicolo 2° "Monumenti e lapidi per La Marmora, Sirtori, Prati; doc. 19 lettera di Baratieri a N. Bolognini, Milano 13 maggio 1884.
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accordare lo sbarco italiano a Zeila, ma aveva subordinato tale consenso a quello francese: e proprio Parigi si era opposta, facendo naufragare il progetto italiano. L'Abissinia offriva un rifugio sicuro ai razziatori ed era sempre un paese in preda all'anarchia; per imporsi Menelich aveva dovuto lottare contro il re del Goggiam e lasciare il Tigrè all'infido Mangascià. Addis Abeba era una fucina di inganni ed era pura illusione fidarsi degli accordi fatti con il negus. Il dominio britannico nel Sudan poteva essere insidiato dall'Abissinia, anche se questa poteva essere invasa proprio dal Sudan, come aveva fatto Lord Napier nel 1868, arrivando fino a Magdala e costringendo il negus Teodoro a suicidarsi per non esser fatto prigioniero. In caso di un nuovo intervento inglese in Abissinia Baratieri auspicava un accordo italo-francese per un'azione comune; un accordo era stato già raggiunto tra i due paesi per risolvere la questione di Raheita legata a controversie di confine tra i possedimenti italiani e quelli francesi. Con questo auspicio di una intesa franco-italiana che confermava la posizione filo-francese di Baratieri si concludeva l'articolo: ma l'interesse per Baratieri e per le sue "Memorie d'Africa era presente anche in Germania: nel marzo 1898 lo “Jarbücher für die Deutsche Armee und Marine”, organo delle forze armate tedesche, dedicò un articolo al libro di Baratieri, che rispose su "La Settimana” di Firenze dell'11 settembre 1898 ("A proposito di un articolo sulle Memorie d'Africa pubblicato su “Jarbücher für die Deutsche Armee und Marine”, marzo 1898). Baratieri si rallegrava perché il giornale tedesco riteneva legittimo il suo diritto a difendersi, che molti in Italia invece gli negavano; ci teneva comunque a precisare che il suo libro non si riduceva ad una autodifesa. Il giornale tedesco, osservava Baratieri, aveva esposto correttamente gli avvenimenti del gennaiofebbraio 1895, successivi alla sconfitta di Mangascià, chiedendosi però per quale ragione il generale, che diceva di volere la pace, avesse occupato Adigrat ed Adua: Baratieri chiariva che ciò si era reso necessario per evitare un ritorno offensivo di Mangascià; l'occupazione era stata fatta con il consenso del governo. Ritirandosi avrebbe compromesso il prestigio italiano ed anzi il governo insisteva per l'occupazione permanente di tutto il Tigrè e Baratieri cautamente cercava di frenare quei programmi di un'eccessiva espansione. Altro punto controverso era il viaggio di Baratieri in Italia nell'estate 1895, quando già in Africa si veniva incrementando la minaccia abissina; il generale chiariva che non si era potuto opporre all'ordine di Crispi, Blanc e Mocenni di recarsi a Roma; inoltre il viaggio era necessario per giungere ad un accordo sui rinforzi da inviare in Africa. Baratieri però sorvolava sul fatto che quell'accordo poteva essere raggiunto in un tempo molto più breve dei due mesi e mezzo da lui trascorsi in Italia mentre diventava sempre più difficile la situazione nella colonia.
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Alla fine, fiducioso anche nella promessa di Blanc di inviare altri rinforzi se fosse stato necessario, era tornato nella colonia per curare la preparazione politica oltre che quella militare in vista della prossima guerra. Ma la sua azione diplomatica era stata intralciata dalle trattative contemporaneamente condotte da Nerazzini con Makonnen ed era andata poi in frantumi con l'episodio gravissimo dell‟Amba Alagi, che aveva segnato un punto di svolta nel contrasto con Menelich e Mangascià. Baratieri lamentava la mancata osservanza dei suoi ordini da parte di Arimondi, spintosi circa 200 kilometri oltre la posizione assegnatagli, ed il ritardo di Felter nel recarsi da Makonnen, facendo fallire le trattative di pace che in quel momento Menelich che sembrava volere veramente. In quanto alla battaglia di Adua il critico tedesco approvava la decisione di Baratieri di avanzare da Sauria; Baratieri tornava a difendere l'operato di Albertone e Dabormida asserendo che, se avevano sbagliato, era stato in buona fede e ribadiva però che se si fossero attestati lungo la linea Rebbi Arienni e il falso Chidane Meret, Menelich forse non avrebbe osato attaccare quelle forti posizioni. Inoltre, l'esito della battaglia sarebbe stato diverso se le brigate italiane non avessero combattuto in ordine sparso; non c'era stata un'azione coordinata essendo difficili le comunicazioni tra il comando generale e le brigate e quelle tra brigata e brigata. I soldati italiani e gli ascari si erano comunque battuti con valore ed avevano inflitto gravi perdite al nemico: Menelich si ritirò dopo la battaglia e Mangascià procedette con estrema lentezza tanto da arrivare a Sauria solo il 3 o il 4 marzo e non ci fu alcun tentativo abissino per inseguire gli italiani. Le" Memorie d'Africa" contribuirono pure a restituire un po' di serenità a Baratieri, grazie all'apprezzamento dimostrato per esse da autorevoli personalità straniere, con le quali egli poté dialogare. Di tale conforto aveva veramente bisogno il generale sottoposto a tante prove: l'accanimento di gran parte della stampa nell'accusarlo, il processo di fronte al tribunale militare, il voltafaccia di tanti amici fedeli nella buona sorte e di istituzioni importanti come la Massoneria e la Società Geografica Italiana, fino ad allora prodighe di riconoscimenti, la fine della carriera politica e di quella militare. Ci furono inoltre anche attacchi personali da parte di singoli, in qualche caso sul punto di sconfinare nella violenza fisica, come nel caso del doganiere che, riconosciuto il generale al rientro dall'Africa, lo insultò volgarmente. Il giornale fiorentino “La Settimana” (9 agosto 1896, p. 1 articolo "Coraggio civile", firmato “Motivo per cui”) descrisse l'incidente dicendo del doganiere: "era armato contro un inerme, era accompagnato contro un solitario, era forte contro un debole, la bocca avvinazzata doveva schizzare fuori l'oscuro veleno delle male passioni". Era un vigliacco "avvezzo a vivere tra le immondezze, a trufolare il grugno schifoso nella spazzatura".
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Il giornale si rammaricava che nessuno fosse intervenuto "a difesa del vinto generale, che non un piede avesse percosso il ripugnante animale". L'episodio tanto sgradevole impressionò a lungo Baratieri, che, temendo fatti analoghi, il 27 dicembre 1898 scriveva all‟amica Martinuzzi di essere incerto se recarsi a Trieste perché temeva una cattiva accoglienza, se fosse stato riconosciuto. Esprimeva ancora alla stessa Martinuzzi quel timore il 10 gennaio 1899, aggiungendo però in un sussulto di orgoglio: "Per parte mia sento di poter portare, come porto, la mia fronte alta dovunque, e sento di sapermi fare rispettare, in caso di bisogno, da qualsiasi mascalzone".280 Non erano infondati timori di Baratieri per il rinnovarsi di manifestazioni a lui ostili; se ne avverte l'eco in una nota de l‟ “Italie” (4 luglio 1897, p. 1 “Le général Baratieri en voyage”): il generale si era recato a Sirmione per una cura termale e, scriveva il giornale, "il ne serait pas improbabile qu‟une manifestation hostile de la part de la population ne se produise contre l‟ancien gouverneur de l‟Erythrée pendant son séjour en cette localité” (“non sarebbe improbabile che si verifichi una manifestazione ostile della popolazione contro l'antico governatore dell'Eritrea durante il suo soggiorno in questa località”). Non si ha notizia se poi quella temuta ostilità si sia veramente manifestata: ma è già significativa l‟esistenza di tale timore e che se ne rendesse interprete un giornale importante come l‟ “Italie”. Contro Baratieri non si esitava ad usare ogni argomento, anche quelli relativi alla sua vita privata, del tutto estranei alle attività politiche e militari. Si erano diffuse in Eritrea voci infamanti sul suo conto, attribuendogli eccessi licenziosi dopo "cene pantagrueliche” con uno stuolo di donne compiacenti a sua disposizione. Baratieri sdegnosamente rifiutò di difendersi da tali accuse nella intervista a Mercatelli apparsa su "La Tribuna" il 3 agosto 1897. Era stato invece difeso energicamente dall' “Africa italiana. Il giornale di Massaua" il 26 aprile 1896 (quando non si era ancora celebrato il processo a suo carico) con un articolo dal titolo quanto mai significativo "Vae Victis”, a firma e.d.g., cioè Edoardo di Gennaro, direttore del giornale. Si ricordava la vita operosa e morigerata di Baratieri; ci sarebbe stato da ridere per quelle accuse inverosimili e grottesche; ma si era invece colti da dolore e nausea nel leggere "quel tessuto di 280
Carteggio di Oreste Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato, pp. 232-233 lettera di Baratieri a Giuseppina Martinuzzi, Arco 27 dicembre 1898; p. 235 lettera di Baratieri alla Martinuzzi, Arco 10 gennaio 1890. Giuseppina Martinuzzi (Albona d'Istria 1844-1925) a Trieste fu maestra elementare e giornalista. Diresse le riviste "Pro Patria" e "Pro Patria nostra"; collaborò al "Raccoglitore" di Rovereto e al "Il Lavoratore" di Trieste. Fu in contatto con molte personalità, fra gli altri con Baratieri di cui fu amica fedele e corrispondente assidua, prendendone a più riprese la difesa. Intorno al 1898 si orientò verso il socialismo più radicale, nutrito dalla lettura delle opere di Marx, Engels, Lassalle, destando in Baratieri un certo interesse per il socialismo, con qualche riserva perchè il generale rimproverava ai socialisti di trascurare i problemi della nazionalità. Non c'era stata ancora l'esperienza di Cesare Battisti, al tempo stesso socialista e patriota.
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calunnie infami perché mai come in quel momento, in cui si istruiva un processo a carico di quest'uomo, la sua persona dovrebbe essere sacra". Si era pure attribuita ad un generale reduce dall'Africa l'affermazione, peraltro smentita subito, che il disastro di Adua sarebbe avvenuto perché Baratieri era debilitato dalla sua vita licenziosa. Va attribuito a "il Popolo Romano", giornale crispino certo non favorevole a Baratieri, il merito di aver preso posizione contro quelle accuse vergognose; riportando il 13 maggio 1896 l'articolo del giornale di Massaua si asseriva di avere ritenuto doveroso farlo "perché si aveva e si ha tutto il diritto di discutere ed apprezzare anche nei modi più severi la condotta militare dell'ex Governatore dell'Eritrea, è opera inumana di gente trista quella di raccogliere invenzioni, chiacchiere e calunnie che dipingono moralmente diverso un uomo che non può difendersi, dopo averne esagerato le virtù ed i meriti quando la fortuna lo assisteva” (13 maggio 1896, p. 2 “Sulla vita di Baratieri"). Baratieri non era insensibile al fascino femminile, ma era certamente ben lontano dagli eccessi di depravazione attribuitogli dai pettegolezzi eritrei. In alcuni suoi appunti, privi di data, ma da riportare alla sua gioventù, relativi ad un soggiorno nella zona tirolese di Equo-Menmarkt, figura il ritratto di una giovane donna, Diana Maur, conosciuta in quella occasione: "Parla correttamente tedesco, italiano,ladino. Conosce il nome di tutti monti. Scrive colla massima cortesia e gentilezza. Vi fa dei croccanti e dei dolci stupendi. È in relazione con tutti i geologi d'Europa. Ha 20 anni. Vi dice in tre idiomi il nome dei monti. Veste in maniche di camicia che è un amore… Calze bianche ai piedini di duchessa. Petto, oh Dio. Volto latte e rosa. Labbra che contrastano ai propri occhi… volto voluttuoso, animato, risoluto… occhi nerissimi che strappano i cuori. Fronte ovale. Sopracciglia marcate, ecc.”281 Doveva essere molto giovane Baratieri quando faceva quella incantata descrizione, attribuendo alla ragazza fra le tante attrattive anche improbabili relazioni con tutti i geologi d'Europa. Nel soffermarsi poi sulle sue caratteristiche fisiche, oltre che sulle conoscenze linguistiche e geografiche e sulle capacità di esperta pasticciera, Baratieri dimostrava una rispettosa ammirazione, lasciandosi sfuggire soltanto un sospiro di desiderio con l'esclamazione "oh Dio" al ricordo del petto della giovane; e non vi è traccia di feticismo nell'accenno ai "piedini di duchessa". Ed un Baratieri avanti negli anni ricordava con tristezza il 18 giugno 1892 all'amica napoletana Amalia Rossi il fallimento del matrimonio con la separazione legale avvenuta nel 1876: ne aveva sofferto molto e si rallegrava al pensiero di non aver avuto figli, anche se ciò lo aveva condannato alla solitudine.
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Archivio di Stato Venezia Carte Baratieri serie 3 , busta 4 (racchiude 23 agende e taccuini) "Memorie e appunti personali", agenda n. 6 ,p. 9.
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Si rammaricava di non potersi rifare una vita familiare, profittando della legge sul divorzio allora in procinto di essere riproposta, se fosse stata approvata, poichè era ormai troppo anziano. Era un costante rimpianto la mancanza di una serena vita coniugale; aveva scritto difatti il 17 aprile dello stesso anno all'amica Rossi: "oh, come sarei lieto di avere una famiglia a me…"282 Fu una consolazione per Baratieri l'affetto per un suo nipote, figlio di sua sorella, in suo onore chiamato Oreste e da lui ricordato teneramente con il diminutivo di Orestuccio; ma a Baratieri, sfortunato anche in questo, mancò presto anche quel conforto, essendo il bambino morto precocemente. Non erano certamente comportamenti e pensieri da libertino: ma non esistevano limiti per l'avversione a Baratieri e gli si poteva quindi attribuire tutto; quella avversione durò per tutta la sua vita; ancora nel gennaio 1901, alla vigilia della sua scomparsa, il suo nome stesso era maledetto. L‟ “Avanti!”, avuta notizia che all'ambasciata di Parigi era stato nominato addetto militare il colonnello Baratieri di San Pietro, riteneva necessario precisare che non era da confondersi con il "nefasto uomo di Adua" (16 gennaio 1901, p. 3 "Informazioni. Non è il Baratieri di Adua"). Ma al “nefasto uomo di Adua” non mancarono comunque attestati di solidarietà. Un illustre ex garibaldino, il generale Türr, prese difatti le difese di Baratieri, asserendo che era suo dovere difenderlo dagli attacchi di Crispi, di cui aveva diffidato fin dal 1860, nell'ultima fase della spedizione dei Mille, quando lo aveva espulso da Napoli assieme ad Agostino Bertani, per evitare che due suscitassero una guerra civile. A questa lettera del 30 luglio 1897 Türr ne fece seguire un'altra, in data 7 agosto 1897, accusando Crispi di calunniare Baratieri per giustificare se stesso; di Crispi diceva "il megalomane sapeva gettare polvere nell'occhio, e la disgraziata maggioranza era felice di avere un uomo che faceva tutto e non vedevano che egli conduceva l'Italia nell'abisso".283 Ma oltre che dagli attacchi di Crispi Baratieri era angustiato dal peso dei suoi dolorosi ricordi. Ad Amalia Rossi scriveva il 16 agosto 1896 da Rovereto: "Di salute sto bene ma l'animo mio è addoloratissimo pei fatti accaduti. Il cuore sanguina sempre quantunque la coscienza sia pura. A voi, mia cara, confido che spesso mi vedo dinanzi i caduti della battaglia di Adua, che io amavo come miei figlioli." Ed ancora all'amica Rossi scriveva Baratieri il 1° marzo 1897: "Vi scrivo nell'anniversario più triste della mia vita…" Oltre che i fantasmi del passato era motivo di amarezza per Baratieri l'ingratitudine di molti, da lui beneficati, ma divenuti suoi critici quando era caduto in disgrazia: il 21 settembre 1900 il generale 282
Archivio Museo Centrale del Risorgimento Roma, busta 77, fascicolo 54; lettera di Baratieri ad Amalia Rossi, Massaua 18 gugno 1892; lettera di Baratieri alla stessa, Massaua 17 aprile 1892. 283 Carteggio Oreste Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato, pp. 174-175, lettera di Türr a Baratieri, Chateau de Colpach-Gran Duché du Luxembourg, 30 luglio 1892; p. 178; lettera di Türr a Baratieri, Bruxelles 7 agosto 1897.
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si sfogava così con la Rossi: "oh, se sapeste come sono stato pagato di ingiustizia da tanti, da tutti quelli che ho beneficato; oh, se sapeste che cumulo di calunnie, che lordura, che fango hanno gettato sopra di me coloro che strisciavano ai miei piedi!". Ma di tale ingratitudine Baratieri se ne faceva una ragione, scrivendo alla Rossi il 4 gennaio 1901: "Ho smesso le memorie tristi e le angustie… giusto non può essere che Dio ed io attendo da lui il conforto e dalla storia verdetto imparziale".284 A questa serena accettazione dei dolorosi avvenimenti da parte di Baratieri contribuirono soprattutto Giuseppina Marinuzzi, che con femminile sensibilità lo consolò, e Monsignor Geremia Bonomelli, suo confidente e guida spirituale. Oltre alle numerose lettere private inviate a Baratieri, la Martinuzzi dedicò al suo caso articoli sui giornali "Il Raccoglitore" di Rovereto e "Il Lavoratore" di Trieste, sposando, anche dopo la sua adesione alla fede socialista, la causa del generale, bestia nera dell‟ “Avanti!”. Già pochi giorni dopo Adua, il 10 marzo 1896, apparve su "Il Raccoglitore" l'articolo "Tolle!Tolle!”, aspramente critico nei confronti degli accusatori di Baratieri; la Martinuzzi scriveva con amaro sarcasmo: "Oh che gioia, ai tanti caduti sotto le armi del feroce scioano aggiungerne ancor uno! Che soddisfazione esilarante per gli italiani il poter dire: i nostri reggitori avevano affidato ad un inetto, ad un vile la colonia Eritrea! Che gloria nuova per il valoroso esercito il gridare ai quattro venti: uno dei nostri fu codardo!". Osservava la paladina di Baratieri che non venivano censurati quanti avevano avuto "l'infelice idea di una colonia nell'Eritrea”, l'unico ad essere attaccato era il generale condannato a vincere dopo i successi di Coatit e Senafè; paragonava Baratieri a Colombo, tornato in catene dall'America: perché non riservargli lo stesso trattamento, si chiedeva la Martinuzzi, sferzando coloro che, dopo aver esaltato il generale, lo lapidavano impietosi: "Spettacolo sublime in vero questo di un popolo che gioisce nel lapidare chi ieri, venuto per pochi istanti a respirare l'aria della patria, aveva accolto con segni di ammirazione, di esaltazione, con plausi di trionfatore! Sì, oggi sugli altari, domani nella polvere, questi sono i colpi di scena nella gran commedia della vita". Si rinfacciava a Baratieri di non esser caduto sul campo di Adua; ma era un dovere del generale sopravvivere per guidare verso la salvezza i superstiti; sarebbe stata per lui una fortuna la morte, poiché il suo sangue "avrebbe calmato le ire di parte e le madri italiane, or fatte stolte dall'immenso dolore", non avrebbero invocato "la vendetta della legge che volgarmente si chiama giustizia".
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Archivio del Museo Centrale del Risorgimento Roma, busta 77, fascicolo 56, lettera di Baratieri ad Amalia Rossi, Rovereto 16 agosto 1896; fascicolo 57, lettera di Baratieri alla stessa, Rovereto 1° marzo 1897; fascicolo 58, Baratieri alla stessa, Arco 21 settembre 1900; Baratieri alla stessa, Venezia 4 gennaio 1901.
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Nel suo generoso slancio la Martinuzzi si lasciava andare ad affermazioni inesatte: la ritirata dei sopravvissuti alla strage si compì disordinatamente, senza un intervento di Baratieri che la rendesse meno disastrosa. Il giornale prese in qualche modo le distanze dalla infuocata prosa della Martinuzzi, affermando in una nota di aver voluto imparzialmente riportare le opinioni di tutti, senza lasciarsi influenzare dalle origini trentine di Baratieri. Era comunque elogiata dal redattore la Martinuzzi, definita "… donna egregia, la quale elevandosi serenamente al di sopra delle ire partigiane" aveva criticato i giudizi frettolosi di condanna, prima ancora "di conoscere i precedenti e le cause che condussero Baratieri all'attacco ed al conseguente disastro". La Martinuzzi, interpretando il pensiero di tutti i trentini, aveva svergognato quei giudici di parte, che, a lasciarli fare, "condurrebbero dapprima all'ingiustizia, quindi alla ruina dell'Italia". E successivamente, subito dopo l'assoluzione di Baratieri, "Il Raccoglitore" preferì non pubblicare un altro articolo della Martinuzzi, che portava la data del 16 giugno 1896, temendo che avrebbe contribuito ad inasprire le polemiche. Rivolgendosi a Baratieri l'autrice scriveva: " E in mezzo a tanto ludibrio che fanno di te, anche dopo riconosciuto incolpevole, ti conforti la coscienza di tutto il tuo lungo passato, speso valorosamente per la patria; e ti sia di gloria il ricordo di essere stato compagno nelle imprese di Garibaldi, quando le donne d'Italia mandavano liete i figli alla riscossa, ed ogni giovanetto era un eroe, perché allora si trattava di redimere la patria, e non già di conquistare quella degli altri, come nell'Africa disgraziata. Ma tu, Generale, hai avuto la sventura di sostenere per cinque anni una campagna invisa alle popolazioni italiane, ed i soldati tuoi non erano quelli di Garibaldi, e perché le madri d'Italia piangevano dietro i figli che ti venivano mandati. A che stupire adunque delle calunnie atroci su di te scagliate dopo l'eccidio di Adua? A che stupire se la sentenza di assoluzione ti infligge un biasimo?". L'entusiastica difesa di Baratieri non faceva velo al giudizio della Martinuzzi, che lucidamente coglieva la profonda differenza tra le guerre del Risorgimento e quelle coloniali di conquista e si rendeva conto della ragione per cui Baratieri era stato assolto con una sentenza che lo bollava però come incapace. La Martinuzzi si rivolgeva al generale con una disinvolta familiarità, gli dava del tu, avendo già iniziato con lui un lungo sodalizio epistolare. Il 12 aprile 1896 gli aveva scritto rivolgendosi a lui come ad un "illustre sventurato", confortandolo con queste parole: "Coraggio generale! L'innocenza deve trionfare. Questa è la mia fede". Per il termine "sventurato" la Marinuzzi dimostrava una particolare preferenza: la successiva lettera del 26 aprile 1896 si iniziava difatti "Generale sventurato", ma il tono era ottimistico: "Attendo con ansia pensosa la fine del processo; ma in fondo all'anima mi sorride la certezza di vederla fra pochi
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mesi nel suo amato Trentino, ove tutti le vogliono bene e fanno voti per la sua assoluzione", è la fiduciosa speranza espressa nella lettera. Seguiva una considerazione di stampo manzoniano sulla "provvida sventura": la sconfitta di Adua aveva evitato mali maggiori evitando la totale rovina dell'Eritrea. Baratieri non aveva di che crucciarsi: "… perché tanto inconsolabile dolore? Abba Garima non fu Lissa per l'Italia". Ancora la lettera del 18 maggio si iniziava con l'esordio divenuto abituale: "Generale! Sventurato sì, immensamente colpevole no!". La Martinuzzi rivelava la sua emotività confidando al generale di aver pianto leggendo la sua lettera; si rallegrava perché i giornali, dopo averlo attaccato indegnamente, cominciavano a dare giudizi più sereni; sulla stampa triestina era apparsa addirittura una difesa del suo operato. E la Martinuzzi concludeva la lettera con un richiamo alla comune condizione di irredenti dichiarando in tono appassionato: "Io amo il suo Trentino come fosse la mia patria, e vorrei anche per tale ragione ch‟ella uscisse dal processo trionfante".285 Lo scambio epistolare tra Baratieri e Giuseppina Martinuzzi durò a lungo; dopo l'assoluzione il generale si rivolgeva all‟amica per trattare argomenti politici e sociali, con particolare riferimento al nascente movimento socialista di cui la Martinuzzi era una fervida sostenitrice. Da Arco il 17 luglio 1897 il generale le scriveva: "Purtroppo il nostro paese dopo avere strenuamente lottato si accomoda al quieto vivere. Solo ha preso un certo sviluppo il socialismo, che purtroppo fa astrazione da ogni sentimento di nazionalità, da ogni aspirazione all'italianità, ed assorbe alcuni giovani che avrebbero mente e cuore". 286 Alla Martinuzzi Baratieri scriveva anche quando si trovava in viaggio; da Wiesbaden il generale si rivolgeva il 26 maggio 1898 all'amica che gli aveva chiesto un giudizio sui gravi fatti di Milano, dove Bava Beccaris aveva represso nel sangue le dimostrazioni popolari per migliori condizioni di vita. Baratieri partiva nella sua risposta dalla premessa di non poter dire "qualcosa di competente e di autorevole" essendo ormai da tempo lontano dalla vita politica. Ma si pronunciava tuttavia con chiarezza e precisione, scrivendo: "Ma questo mi pare, che il Governo di Roma prima ed ora ha sempre avuto come prima preoccupazione quella di contentare la Camera, la quale ormai concentra in sé tutto il governo in Italia. Si è badato più alle questioni politiche del momento che alla grande questione del bene generale, del sollievo delle classi povere. 285
Archivio Museo storico di Trento. Carte Baratieri, busta 1 fascicolo 8, originale dell'articolo pubblicato da "Il Raccoglitore" e copia conforme fatta il 27 novembre 1933. Busta1, fascicolo 4, lettere della Martinuzzi a Baratieri, Trieste 12 aprile, 27 aprile, 18 maggio 1896. 286 Carteggio di Oreste Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato; p. 170 lettera di Baratieri a Giuseppina Martinuzzi, Arco 17 luglio 1897.
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Noi tutti siamo responsabili, compreso me quando ero deputato. Abbiamo votato a cuor leggero le grosse spese nella illusione che bastasse all'Italia di avere un grosso esercito, una grossa flotta, molte ferrovie… per corrispondere a tutte le nuove esigenze del paese risorto. E non abbiamo abbastanza badato alla distribuzione delle imposte, alla coltivazione del terreno, allo sviluppo dell'industria: e così del paese più ricco, del popolo più laborioso abbiamo fatto il paese più povero ed il popolo più affamato che esista". Era posta in stato di accusa tutta la politica post risorgimentale, indifferente ai problemi sociali lucidamente esposti da Baratieri: giustizia fiscale, sviluppo agricolo ed industriale erano posti in ombra dalle aspirazioni di grandezza, dalle tendenze bellicistiche dimostrate dal soverchiante interesse ad avere "un grosso esercito, una grossa flotta". Il malessere sociale aveva spinto molti giovani a nutrire principi rivoluzionari e repubblicani presenti nella fase iniziale del Risorgimento e tutto sommato il generale restava pur sempre un uomo d'ordine quando lamentava: "I principi di ordine di disciplina sono scomparsi in un certo strato del popolo colla scomparsa del sentimento religioso, che costituisce una forza potente, massiccia per una monarchia. Le forme democratiche e l'abuso della libertà in tutto massime della stampa, hanno contribuito non poco a preparare i fatti atroci". Conservatore sì, ma illuminato si dimostrava comunque Baratieri, scrivendo : "….. ma guai se i Governanti in Italia si fermassero alla cieca repressione. Col terrore non si governa che momentaneamente e la quiete ottenuta colle sole baionette è la peggiore condizione nella quale si possa trovare un popolo”. Il maggiore interesse di Baratieri restava pur sempre e comunque la causa nazionale: l'Italia era una vera nazione come la Francia e avrebbe mantenuto la unità" per quanto si faccia da anarchici, da clericali, da socialisti, da repubblicani, da illusi e disillusi”: tutti nello stesso calderone, dunque dalla destra clericale all‟estrema sinistra degli anarchici, accomunati dalla condanna del loro spirito antinazionale: una nazione unita era il bene supremo da tutelare, ancor più della necessità di una società più giusta. Posizione ribadita da Baratieri nella lettera alla Martinuzzi del 10 gennaio 1899 da Arco, in cui ringraziava l'amica per l'invio dell'almanacco socialista, che diceva di aver letto con interesse perché sentiva "potente l'attrattiva di studiare la questione sociale". Ma al tempo stesso era rivolta ai socialisti del Trentino e forse anche a quelli di Trieste l'accusa abituale di indifferenza al sentimento di Patria, base ideale della democrazia. Lamentava che l'adesione al socialismo distoglieva molti dal movimento nazionale: ciò era dannoso anche per la tutela degli interessi sociali, perché ostacolava
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"la soluzione progressiva, senza violenza, delle questioni che man mano si presentavano per far godere ai più la maggiore agiatezza compatibile col lavoro e col pacifico sviluppo dell'umanità.287 Era un cauto riformismo ad ispirare gli interessi sociali di Baratieri: il progresso sociale doveva essere assicurato con mezzi pacifici e gradualmente, senza farsi fuorviare da pericolose ubbie Internazionalistiche. Entro quei precisi limiti Baratieri già in precedenza non si era mostrato insensibile alle necessità dei lavoratori: il 10 febbraio 1887 gli operai della Ansaldo di Genova l'avevano ringraziato per il suo interessamento presso il governo in difesa dello stabilimento; esprimevano la loro riconoscenza da "figli del lavoro fieri e superbi di essere italiani" ed esponevano la fiducia che anche in futuro Baratieri avrebbe difeso i loro interessi, legati così strettamente, anzi indissolubilmente con quelli del Paese.” Figli del lavoro e al contempo fieri della propria italianità: quella duplice condizione rispondeva pienamente alle convinzioni di Baratieri.288 E Baratieri lodava la Martinuzzi nella lettera del 24 agosto 1899 perché aveva ritrovato nell'opuscolo da essa inviatogli spunti patriottici oltre che filo-socialisti; aveva letto con interesse quello "opuscolo così bello, così elevato per concetti, così fervido per fede e d'amore, intorno al Socialismo ed alla Patria. Brava!" Bisogna ricordare che il patriottismo di Baratieri si era venuto spogliando dei pregiudizi ultra nazionalisti e ciecamente antiaustriaci, come confidava all'amica da Carlsbard l'8 luglio 1899: a Weimar aveva conosciuto il feld maresciallo Hotze , di cui tesseva questo elogio: "nessuno più austriaco di lui, ma è uomo di un'elevata intelligenza e di una grande rettitudine. Egli mi ha parlato delle condizioni degli Slavi e degli Italiani nell'Istria e mi ha detto delle cose che Ella mi ha scritto". Un feld maresciallo austriaco in sintonia con le idee di una passionaria istriana come la Martinuzzi: c'era ricredersi sul conto degli austriaci che mettevano gli slavi contro gli italiani attuando la politica del "divide et impera"…. E da Parigi, in precedenza, il 25 maggio 1899, Baratieri aveva attribuito alla società francese il merito di essere "elevata e serena"; pur amando la patria era esente "dalle meschine miserie che
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Ibidem, pp. 223-224 lettera di Baratieri alla Martinuzzi, Wiesbaden 26 maggio 1898; pp. 232-233 lettera di Baratieri alla stessa, Arco 27 dicembre 1898; p. 235 Baratieri alla Martinuzzi, Arco 10 gennaio 1899. 288 Archivio di Stato Venezia. Carte Baratieri, serie IX, busta 7, fascicolo 4, lettera degli operai dell'Ansaldo a Baratieri, Sampierdarena 10 febbraio 1887.
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ammorbano l'aria dei sedicenti patrioti, i quali in Francia, in Italia sfruttano loro profitto un'idea nobile ed umana, un'idea che dovrebbe servire ad affratellare i popoli, non a dividerli…".289 L'ideale mazziniano della fratellanza dei popoli poteva quindi essere favorito e non ostacolato da un patriottismo scevro da nazionalismi esagerati: Baratieri avvertiva la novità di questa idea; il 12 giugno 1899 aveva già confidato alla Martinuzzi: "Dopo la mia sventura mi pare di vedere più chiaro di prima. Certo parecchi pregiudizi si sono dissipati e la meditazione ha giovato al mio uomo interno, massime di fronte agli altri uomini: e sento venire la fede in un avvenire migliore della umanità, al disastro delle miserie, delle lotte, delle prepotenze, dell'ingiustizia, della corrutela e dell‟“auri sacra fames che tutto guasta e rovina”.290 A questa maturazione di Baratieri giovò in larga misura l'amicizia del vescovo di Cremona, Monsignor Geremia Bonomelli, divenuto suo sollecito consigliere e guida spirituale grazie anche alla condivisione degli stessi interessi sociali.291 289
Carteggio di Oreste Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato, p. 258 Baratieri alla Martinuzzi, Vigo di Fassa 24 agosto 1899; p. 258 lettera di Baratieri alla stessa, Carlsbad 8 luglio 1899; pp. 251-252 lettera di Baratieri alla Martinuzzi, Parigi 25 maggio 1899. 290 Ibidem, p. 254 lettera di Baratieri alla Martinuzzi, Wiesbaden 12 giugno 1899. 291 Monsignor Geremia Bonomelli (1831-1914) insegnò teologia a Brescia prima di essere nominato vescovo di Cremona nel 1871. Fu leale sostenitore dello Stato italiano e si mostrò pure favorevole alle imprese coloniali divenendo perciò amico di Baratieri, cui scriveva l'11 novembre 1887, quando da colonnello dei bersaglieri era in partenza per l'Eritrea con la spedizione San Marzano: “… getti l'ancora sulla sponda di Massaua, la prima colonia che l'Italia, rifatta nazione, ha fondata e bagnata dal sangue dei suoi figli. Dio, il buon Dio li accompagni sempre e dovunque, benedica ogni loro impresa e, se su i suoi passi troverà il nemico, oh!, lo volga in fuga e lo disperda come la polvere del deserto. Oh! La guerra non dovrebbe avere luogo sulla terra (perché siamo tutti fratelli), ma pure è necessaria alcuna volta e purtroppo le grandi fasi della civiltà e le vie del progresso sono aperte dal ferro e irrigate dal sangue" (dalle carte di Monsignor Astori, Cremona, citato da "Geremia Bonomelli" di Carlo Belli, p. 285, Morcelliana 1961). Commemorò i caduti di Dogali e nel gennaio 1896 quelli dell’Amba Alagi con un discorso rimasto inedito, in cui ricordava l'incontro con Baratieri avvenuto il 19 febbraio 1887. Il prelato ebbe contatti anche con Zanardelli e la regina Margherita e fu sostenitore della conciliazione fra Stato e Chiesa, rivolgendo a tal fine per il Natale 1886 un appello al Papa Leone XIII, che, dopo averlo accolto con favore, si mostrò ostile come lo furono i cattolici intransigenti che dalle colonne dell’ “Osservatore Cattolico” di Don Davide Albertario attaccarono mons. Bonomelli, che continuò a sostenere la necessità della conciliazione con l'articolo "Roma e l'Italia e la realtà delle cose" (“ Rassegna Nazionale 1° marzo 1889) messo all'indice dal pontefice con decreto del 13 aprile 1880. Bonomelli fece subito atto di sottomissione e Leone XIII ne fu lieto inviandogli la sua benedizione; nei rapporti con il papa ci furono però altre difficoltà per ragioni dottrinali: il commento all'opera "L'esposizione del dogma cattolico" di J. Monsabrè fu criticato dal cardinale Zigline ed il Papa richiamò Bonomelli a mantenersi fedele all'insegnamento della Chiesa (8 giugno 1890). Il vescovo si interessò pure dei problemi sociali auspicando un'intesa fra i lavoratori ed i capitalisti (pastorali “Proprietà e socialismo” del 1886, "Capitale e lavoro" del 1891, "La questione sociale è questione morale" del 1892). Operò concretamente per il progresso economico e sociale dei lavoratori promuovendo la fondazione di società di mutuo soccorso e di casse rurali. Si accostò a Guido Miglioli, il fondatore delle leghe contadine promotrici di scioperi, che gli valsero il titolo di "bolscevico bianco"; nel 1907 Bonomelli accettò la proposta di Miglioli per fare del 1° maggio la festa del lavoro. Sempre sensibile ai problemi dei lavoratori Bonomelli nel maggio 1900 aveva fondato un'opera per l'assistenza agli emigranti. Pio X SI disse addolorato per la rinnovata attività per la conciliazione fra Stato e Chiesa cui Bonomelli si era ancora dedicato; ma il vescovo fu un sacerdote "moderno", non "modernista", sottomettendosi ai richiami papali e restando
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L'interesse di Monsignor Bonomelli per i problemi sociali non comportava comunque una sua accettazione del ricorso alla violenza per risolverli. Nella lettera a Baratieri del 14 giugno 1898 Bonomelli prendeva le distanze dai moti insurrezionali scoppiati a Milano nel maggio 1898, duramente repressi dal generale Bava-Beccaris e così dal vescovo condannati, perché ritenuti pericolosamente sovversivi, pur avendovi preso parte anche cattolici, oltre che socialisti, anarchici e repubblicani: "ora dovrebbesi capire che bisogna tornare indietro e frenare la licenza se non vogliono che la libertà compia il suo suicidio. Vogliono la Repubblica, che in Italia vuol dire anarchia, come se non avessimo libertà e anche di troppa". Il disordine era attribuito ad "una istruzione pubblica che è un flagello ed alla terribile piaga fra clero e laicato, tra Chiesa e Stato, che nuoce ad entrambi, e quanto!". Una posizione più coraggiosa la prese in quell'occasione Baratieri, scrivendo all'amico Pelloux, incaricato di formare il governo dopo le convulsioni del maggio 1898. Il governo Pelloux, più reazionario che conservatore, era destinato a deludere le aspettative di Baratieri che il 20 giugno 1898 gli aveva scritto dalla Germania per congratularsi dell'incarico affidatogli dal re, esprimendo l'augurio per l'Italia di "avere un governo forte, non appassionato da ire politiche e nella cerchia delle istituzioni", che ponesse fine alla politica del pugno di ferro. In una lettera a Bonomelli del 20 ottobre 1900 Baratieri criticava il fiscalismo oppressivo dello Stato, sordo alle rivendicazioni sociali e faceva questo sconsolato quadro della situazione:”... le condizioni d'Italia sono davvero dolorose: siamo moralmente accasciati e ci troviamo in una cerchia di interessi dalla quale non si ha uscita. Necessità di scemare le imposte ai poveri, cioè al massimo numero di contribuenti; necessità di aumentare le spese per le riforme e per le contingenze politiche. Governo e Parlamento egoisti, ignavi, solo preoccupati di conservare il potere. Burocrazia apatica, neghittosa, malcontenta, misera ed inetta. Borghesia stanca di idee, di fede, di energia, di carattere; popolo depresso, angosciato, pronto a dare orecchio alle fallaci promesse, partito socialista audace, battagliero, allargato ed allargantesi quanto più indeterminato il programma, quanto maggiore è la
Segue nota 291 nei limiti dell'ortodossia, pur dimostrando un'indipendenza di giudizio con il conforto religioso dato nel 1911 al Fogazzaro, autore messo all'indice. I cattolici conservatori gli furono sempre ostili. "La Civiltà Cattolica" (1914, volume 3°, quaderno 1541, 5 settembre 1914, p. 632) gli dedicò un necrologio in cui si lodava il suo zelo religioso, ma si facevano molte riserve per la sua adesione a teorie "non rettamente conciliative pencolanti al liberismo"; l'organo dei Gesuiti affidava comunque la sorte di Bonomelli alla pietà di Dio, che ha “sì gran braccia” da non respingere nessuno.
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miseria, quanto più palpanti gli errori dei governanti, quanto più evidenti le ragioni di malcontento, quanto minimi i legami religiosi".292 Pesava su Baratieri la delusione causatagli dalla politica reazione di Pelloux, improntata ad un autoritarismo che agiva al di fuori della "cerchia delle istituzioni", contrariamente all'auspicio espresso dal generale con la lettera allo stesso Pelloux del 20 giugno 1898. Baratieri aveva la sensazione di un totale fallimento del suo mondo: qualche mese prima della sua morte, il 27 maggio 1901 esponeva all'amico vescovo queste amare riflessioni: "… siamo sulla china di non giovare ai poveri mentre il governo di concessione in concessione scivola nelle mani della moltitudine incosciente dominata da ambiziosi e facinorosi, al di fuori dell'orbita della legge e dell'ordinamento necessario alla vita, all'equilibrio e al benessere sociale". Da notare che Baratieri affrontava il problema sociale con un'ottica umanitaria più che politica: preferiva parlare di "poveri" più che di "lavoratori".293 Alla prova dei fatti si dimostrò eccessivo il pessimismo di Baratieri: negli anni 1901-1903 si ebbe difatti il governo Zanardelli, uno dei migliori dell'Italia prefascista per la sua politica liberale. Non sfuggivano all'attenzione di Baratieri i diseredati come gli zingari, da lui incontrati nel suo viaggio in Spagna; al ritorno in Italia, il 5 febbraio 1900 scriveva all'amico vescovo di aver conosciuto a Granada i gitani del Sacro Monte, soccorsi unicamente da un "povero frate" che aveva aperta per essi una scuola; il generale giudicava preziosa quell'iniziativa, che, se avesse avuto successo, avrebbe nel giro di due o tre generazioni fatto dei gitani i migliori cittadini di Granada. Concordava il vescovo in quella previsione asserendo nella sua risposta: "se sono uomini si possono incivilire: sarà questione di tempo e di pazienza". In una successiva lettera del 4 agosto 1900 Baratieri si addentrava in una analisi storica della formazione dell'Italia unita, cui faceva risalire i problemi esistenti; a suo giudizio infatti era da considerarsi negativo il fatto che l'Italia fosse stata formata "dalle società segrete, dalle congiure, dai giuramenti col pugnale nei momenti nei quali era considerato un sacro dovere (e forse era) valersi di qualunque arma per cacciare lo straniero". Ne erano state tristi le conseguenze: "… si venne così sfasciando per intransigenza dei partiti la morale religiosa e si venne offuscando la fulgida idea della vera giustizia”. La classe politica, "perduto di vista ogni ideale", aveva governato alla giornata, non curandosi “di altro che di contentare un Parlamento scettico, vanitoso, affarista, che guarda il Popolo solo per imporre balzelli o per ricavarne voti".
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Carteggio di Oreste Baratieri a cura di Bice Rizzi, già citato; p. 226 lettera di mons. Bonomelli a Baratieri, Cremona, 14 giugno 1898; p. 227 lettera di Baratieri a Pelloux, Schlengenbad (Hessen), 20 giugno 1898; p. 271 lettera di Baratieri a mons. Bonomelli, 20 ottobre 1900. 293 Ibidem, pp. 281-282 lettera di Baratieri a mons. Bonomelli, 27 maggio 1901.
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La crisi sociale e politica dell'Italia per Baratieri era una conseguenza della crisi religiosa: sul problema della fede il generale dialogò a lungo con l'amico vescovo, confidandogli la sua ansiosa ricerca di Dio, e il monsignore gli fu sempre prodigo di consigli e di esortazioni. Il 12 maggio 1899 si esprimeva così: "Continui, come altre volte le ebbi a scrivere, a cercare giustamente la verità, l'animo disposto a ricercarla quando l'avrà conosciuta: il ritorno della fede deve essere privo di pensiero e a poco a poco, senza sforzo della mente". Monsignor Bonomelli esortava a pregare "più col cuore che colle labbra", gli indicava letture come "La buona sofferenza" del Coppée. Baratieri ricavò suggestioni di fede anche dal suo viaggio in Spagna: il 14 novembre del ‟99 scriveva al Bonomelli, di essere rimasto colpito dalla cattedrale di Burgos, “ meraviglioso tempio, che come la preghiera di un popolo fervente sale in alto aiutata dai santi verso l'infinito azzurro del cielo". Era lungo il cammino da percorrere per arrivare alla fede, ma seppur lentamente Baratieri vi faceva progressi: qualche mese prima della morte, il generale confidava alla sua guida spirituale: "Comincio a sentire la sublimità del Pater Noster, la preghiera veramente divina, che tanta consolazione ha versato in miliardi di cuori esulcerati e che forse consolerà anche me, quando venga la fede che imploro"; ma se il cuore era già disposto a credere, permaneva l'opposizione della ragione restia ad accettare dogmi religiosi. Prontamente rispondeva il vescovo: "Godo assaissimo di ciò che mi scrive. Nelle cose di fede ha la sua parte la ragione: ma il sentimento l'ha anche maggiore"; il suo consiglio era di continuare "… a pregare colla semplicità e col candore del fanciullo e la fede verrà come un ruscello d'acqua limpida e fresca che entra nel canale preparato". Nel suo cammino verso la fede Baratieri fu assistito anche da un altro religioso, padre Bernardino da Cavana, ministro provinciale dei frati minori in Puglia, che il 9 aprile 1901, replicava al generale: "Ella mi scrisse altra volta che desidera la fede ma non la sente in cuore: ed io Le risposi che la Fede c'è; ha solo bisogno di risvegliarsi, ed è perciò che io prego il Signore che risorga nel suo cuore. Ella lo desidera: ebbene, aiuti il Signore a questa resurrezione, la cooperazione è necessaria, perché il Signore vuole che noi cooperiamo alla nostra salute. Preghi il Signore, la S.S. Vergine, la madre di Gesù".294
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Ibidem, p. 251 lettera di Mons. Bonomelli a Baratieri, Cremona 12 maggio 1899; p. 260 lettera di Baratieri a mons. Bonomelli, Burgos 14 novembre 1899; p. 276 lettera di Baratieri a mons. Bonomelli, Venezia 24 febbraio 1901; p. 277, lettera di mons. Bonomelli a Baratieri, Cremona 26 febbraio 1901. Archivio del Museo storico di Trento, Carte Baratieri busta 1, fascicolo 4, lettera di padre Bernardino da Cavana a Baratieri, Molfetta 9 aprile 1901.
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Nello stesso tempo in cui Baratieri cercava di risolvere i suoi problemi religiosi, Crispi doveva affrontare quelli di natura giudiziaria; era difatti incorso in una scabrosa vicenda per aver ricevuto dalle sedi di Bologna e di Roma del Banco di Napoli illeciti finanziamenti per più di 500.000 lire, destinate a soddisfare sue esigenze politiche e private. Non era la prima volta per il politico siciliano ad essere implicato in uno scandalo bancario: già nel 1893 era stato coinvolto nella brutta vicenda della Banca Romana causata dalle gravi irregolarità commesse dal governatore di quell'istituto, Bernardo Tanlongo, da Giolitti nominato senatore con una inopportuna decisione, risultata fatale per lo statista piemontese, costretto a dimettersi da presidente del Consiglio dei Ministri. In quell'occasione Crispi se l'era cavata, divenendo addirittura il successore di Giolitti nella direzione del governo; ma era ben diversa nel 1897 la sua posizione politica, dopo il disastro di Adua e le successive dimissioni del suo governo. Il funzionario della sede bolognese del Banco di Napoli, Favilla,accusato di avere procurato a Crispi quegli illeciti vantaggi, fu deferito all'autorità giudiziaria ed agli inizi del 1898 era ancora pendente il processo a suo carico di fronte al tribunale di Bologna; Crispi, invece, in quanto parlamentare ne era stato tenuto fuori, dovendo essere il Senato, costituito in alta Corte di Giustizia, a processarlo; non erano però mancate voci favorevoli al suo rinvio a giudizio di fronte ad un tribunale ordinario. Fu costituita una commissione di parlamentari, detta dei Cinque per il numero dei componenti, di cui fu presidente e relatore l'onorevole Palberti, con il compito di condurre l'istruttoria e riferirne i risultati al Parlamento. I lavori della Commissione, iniziati nel 1897, si conclusero nel marzo 1898 e sia nel paese che nella Camera regnava una grande aspettativa del verdetto conclusivo da emettere sulla base della relazione Palberti. Tutta la stampa seguì la vicenda, analizzando la relazione dei Cinque e il dibattito in Parlamento fino al voto conclusivo. La Commissione pervenne alla conclusione che non esistevano elementi sufficienti per incriminare Crispi e proponeva quindi per lui una censura politica. “La Perseveranza” del 19 marzo 1898 (p. 3 “Corrispondenza telegrafica della Perseveranza. L‟impressione della relazione dei Cinque”) riferiva sulle accese discussioni svoltesi nei corridori della Camera fra deputati e giornalisti. I seguaci di Crispi erano indignati perché il loro leader aveva già subito una condanna morale senza potersi difendere; il giornale si poneva lo stesso interrogativo già formulato da "La Tribuna", se la Commissione avesse il potere di proporre una condanna
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politica, avendo ricevuto soltanto il mandato di accertare l'esistenza di fatti sufficienti per un rinvio alla giustizia ordinaria ovvero all'Alta Corte competente a giudicare i parlamentari. Lo stesso giornale (22 marzo 1898, p. 1 “Oggi alla Camera. Critiche alla conclusione dei Cinque") osservava poi come la relazione Palberti potesse riuscire gradita sia ai sostenitori che agli avversari di Crispi: i primi perché Crispi avrebbe evitato il processo, agli altri perché la censura politica sarebbe stata una macchia indelebile sulla figura dell'ex presidente del Consiglio. Poteva prevedersi che la Camera avrebbe adottata la misura proposta dai Cinque e "La Perseveranza" si augurava una serena discussione, non viziata da passioni di parte. Sullo stesso numero (p. 3 “ Le previsioni sulla seduta d'oggi") si riteneva incerto l'esito del voto; era però ritenuta sicura la bocciatura della proposta della Estrema Sinistra per un rinvio di Crispi al tribunale ordinario. Crispi non sarebbe intervenuto nel dibattito, affidando la sua difesa all'onorevole Maggiorino Ferraris. Tutti i deputati della Destra avrebbero approvato la relazione Palberti , i 15 o 16 deputati fedeli a Zanardelli avrebbero deciso soltanto all'ultimo minuto quale posizione prendere, ma sembrava prevalere la decisione di sostenere la proposta della Commissione. Favorevole in qualche misura a Crispi si mostrava il "Corriere della Sera" (19-20 marzo 1898, p. 2 "Conclusioni del Comitato Parlamentare dei Cinque), affermando non essere Crispi imputabile di concussione in quanto non esisteva una legge sulla responsabilità di un ministro in casi simili. Non si poteva dimostrare che Crispi fosse al corrente del comportamento illecito del Favilla per concedergli finanziamenti e dovesse quindi comparire di fronte al Senato per concorso in peculato. A Crispi comunque andava attribuita una responsabilità politica per il denaro ricevuto, in parte per scopi elettorali, e per essersi adoperato al fine di evitare ispezioni della Direzione generale del Banco di Napoli presso la sede di Bologna; meritava pertanto la censura politica. Chiariva ancor più la posizione del "Corriere" un articolo di fondo successivo, privo di firma (20-21 marzo 1898, p. 1 "Crispi ed i Cinque"): la Commissione, pur apparendo ben disposta verso Crispi, non aveva potuto evitare di proporre la censura politica. Secondo il giornale, Crispi aveva: "...reso un tempo un gran servigio alla patria", ma, se non voleva perdere tutto il merito, doveva ora "sparire dalla scena politica, rinunziare ad ogni influenza sull'andamento della vita pubblica". Se non si fosse ritirato volontariamente dalla vita pubblica, il mondo politico l'avrebbe comunque considerato un defunto. Si mostrava cauta nel pronunciarsi "L'Opinione liberale" (24 marzo 1898, p. 1 "Mentre si discute", articolo di fondo non firmato) augurandosi un voto preso a larga maggioranza dalla Camera affinché potesse avere "...quel maggiore valore morale e politico, che alle risoluzioni parlamentari, destinate ad avere eco nel paese, è accresciuto dal numero dei voti che le sanziona".
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Le proposte dei Cinque corrispondevano alle richieste dell'opinione pubblica e non erano un ostacolo "...all'azione dell'autorità giudiziaria, se nuove risultanze venissero a richiederla". "Il Popolo Romano" (23 marzo 1898, p. 1 "Il voto d'oggi, fondo non firmato) commentava in modo favorevole la relazione Palberti; la Commisione, formata da giuristi, era stata unanime nel negare il rinvio a giudizio di Crispi, poiché nella sua condotta non aveva ritrovato elementi significativi sotto l'aspetto penale, ma "...soltanto qualche atto contrario alle più corrette norme di governo, meritevole secondo essa di una censura politica". Si concludeva in tono accomodante: "...per quanto ai più caldi amici dell'onorevole Crispi possa sembrare amara la censura, sarebbe un errore grave il non rassegnarsi"; seppure per il rotto della cuffia, Crispi aveva evitato un processo penale e quindi era opportuno non mantenere aperta una questione pericolosa: sembrava questo il pensiero inconfessato del giornale sempre fedele a Crispi. "Il Mattino" (19-20 marzo 1898, pp. 1-2 "La relazione del Comitato dei Cinque sulla questione Crispi", articolo siglato T., probabilmente iniziale di Tartarin, pseudonimo di Edoardo Scarfoglio) criticava invece con asprezza i Cinque, accusandoli di avere agito col proposito di distruggere particolarmente Crispi; essi erano andati con la proposta della censura politica al di là del loro mandato, ricorrendo ad un compromesso fra la verità e l'odio contro Crispi: come tutti i compromessi era "una cosa artificiosa e falsa". Ancora critico nei confronti della relazione Palberti si dimostrava successivamente "Il Mattino" (2021 marzo 1898, p. 1 “Il responso", fondo firmato Tartarin): le accuse di Favilla a Crispi si erano dimostrate false. Se pure ci fossero stati, i finanziamenti a Crispi erano stati regolarmente rimborsati; inoltre quel denaro doveva servire a coprire le spese della pubblica sicurezza; poteva trattarsi di spese discutibili, ma in ogni caso erano necessarie e non bastava a sostenerle il fondo statale ridotto da Nicotera ad un milione di lire, dal milione e mezzo originario. Anche Giolitti era stato costretto a ricevere per lo stesso scopo 50 mila lire dalla Banca Romana; Tartarin sorvolava sulla differenza tra le 50 mila lire avute da Giolitti e le oltre 500 mila date a Crispi. In un successivo articolo Tartarin (“Il Mattino” 23-24 marzo 1898, p. 1 “Uno spettacolo edificante") non attaccava più solamente la Commissione dei Cinque, ma la Camera intera, trasformatasi in una Convenzione simile a quella rivoluzionaria della Francia del 1789, poiché era intenta a processare più che a legiferare, arrogandosi i poteri della magistratura: neanche San Luigi Gonzaga si sarebbe potuto salvare da quei furori giustizialisti. Alla Camera spettava soltanto pronunciarsi su di una possibile azione penale, revocando l'immunità parlamentare; una condanna politica e morale potevano pronunciarla solo gli elettori col loro voto. Gli elettori non avevano condannato Giolitti, rimasto al centro della scena politica dopo un temporaneo ritiro, per le 50 mila lire avute dal
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governatore della Banca Romana, Tanlongo, e per avere inopportunamente nominato senatore quell'equivoco banchiere; allo stesso modo avrebbe assolto Crispi per un prestito destinato a coprire le spese necessarie per la sicurezza pubblica e poi rimborsato. L'ufficiosa “L‟Italie” si occupò a più riprese dell'affare Crispi, iniziando con un minuzioso resoconto delle somme ricevute (20 marzo 1898, p. 1 fondo non firmato "La Commission des Cinqs. Son rapport”); era pure criticato il sistema italiano delle commissioni parlamentari, cui non si ponevano domande precise che richiedevano risposte altrettanto precise. Era riportato un ampio stralcio della relazione Palberti da cui risultava come Crispi avesse ricevuto negli anni 1894-95 dal Banco di Napoli circa 700 mila lire, di cui 140 mila per assicurare la sicurezza pubblica in Sicilia e nella Lunigiana, poi rimborsate con fondi statali. Sonnino, ministro del Tesoro, aveva autorizzato un finanziamento di 200 mila lire da parte del Banco di Napoli e poi un altro finanziamento di 150 mila lire, sempre per soddisfare le esigenze della sicurezza; il Banco di Napoli tramite Favilla li aveva concessi. Prima di pronunciarsi sulla censura politica proposta dai Cinque, il giornale voleva attendere la discussione nel Parlamento. Ma senza attendere quell'evento, “L‟Italie” continuò ad occuparsi della vicenda: dapprima, il 21 marzo 1898 (p.3 “Dernières Nouvelles. Encore le rapport des Cinqs”), affermando che molti deputati erano per una soluzione conciliante, volendo evitare ulteriori polemiche retrospettive per non turbare ancora più la vita politica. Il giorno successivo, 22 marzo, un nuovo articolo (p.1 “Le rapport des Cinqs” fondo privo di firma) sferrava un duro attacco al rapporto, definito "mal conçu et mal redigé, et il manque à son but” (“concepito male e scritto male, esso fallisce il suo scopo”); si erano accresciute le polemiche, anziché porvi fine. Il rapporto dimostrava l'incapacità della Camera a dare giudizi imparziali ed a porre precise domande alla Commissione da essa istituita. Era pure deplorato il silenzio mantenuto sui lavori dei Cinque, favorendo in tal modo compromessi vergognosi. Si era pure messa in luce la possibilità per un ministro di ottenere altri fondi oltre a quelli ufficiali, senza che il Parlamento potesse esercitare il suo controllo e dare la necessaria approvazione. Per le gravi accuse mossegli Crispi sarebbe stato passibile di subire non uno solo, ma due o tre processi. A pagina 3 dello stesso numero del 22 marzo ("Derniére Nouvelles. Chambre des deputés”) si dava notizia della presentazione di un ordine del giorno della Estrema Sinistra e di un altro dell'onorevole Prinetti. Si parlava pure di un ordine del giorno Carmine, in cui si sarebbe proposta l'accettazione della censura politica proposta dalla relazione Palberti, si prevedeva che la Camera avrebbe votato a favore di quest'ultimo ordine del giorno.
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Ed ancora“L‟Italie” il 24 marzo 1898, quando il dibattito parlamentare si era ormai svolto, pubblicò un articolo (p.1 fondo non firmato "Embollement, cioè “Infatuazione”) in cui si affermava che gli italiani erano portati ad infatuarsi, dedicando lunghe discussioni a problemi che con un po' di buon senso si sarebbero potuti risolvere in due o tre giorni, anziché trascinarsi per mesi, come era accaduto per la questione Crispi. “L‟Italie” ricordava i fatti: Favilla aveva fatto una chiamata di correo per Crispi, che in quel momento non era un parlamentare in carica e fu quindi interrogato dal magistrato. Ma una volta rieletto Crispi fece un ricorso, sostenendo che ai sensi dell'articolo 47 dello Statuto doveva essere giudicato dal Senato costituito in alta Corte di Giustizia e non dal tribunale ordinario. La Corte di Cassazione accettò quel ricorso ed allora la Camera nominò la Commissione dei Cinque, affidandole l'incarico di accertare l'eventuale colpevolezza di Crispi. Ma la Commissione non si era limitata a svolgere quel mandato e aveva processato Crispi a porte chiuse, proponendo alla fine una censura politica. Ma, formulando quella proposta, si era confusa l'azione politica con quella giudiziaria: un'assemblea parlamentare o una commissione da essa nominata non potevano assolvere o condannare, usurpando un potere che non spettava loro, ma all'Alta Corte di Giustizia o al tribunale ordinario. Era già di per sé una condanna rinviare Crispi a giudizio per le gravi imputazioni fattegli (sparizione di documenti, ricorso a finanziamenti non autorizzati dal Parlamento, ingerenze per evitare ispezioni del Banco di Napoli presso la sede di Bologna). Lo stesso Crispi, nel suo interesse, avrebbe dovuto chiedere un processo fatto alla luce del sole: ma, secondo “L‟Italie”, tutto faceva prevedere che quel processo non ci sarebbe mai stato. Dopo questa vigilia così inquieta il dibattito parlamentare infine ebbe luogo nei giorni 22 e 23 marzo 1898. Primo a prendere la parola fu il radicale Alessio, che esordì rendendo omaggio all'illustre passato di Crispi, aggiungendo essere comunque prevalenti gli interessi della collettività; quasi contrito per l'ingrato compito da assolvere, esclamava: “Un uomo, il cui nome è indissolubilmente legato alla storia del Risorgimento nazionale, attende il giudizio dei suoi pari. La sua tarda età, gli uffici di cui fu insignito, richiamano sopra di lui rispetto e la reverenza. Ma al di sopra dell'individuo sono gli interessi del popolo e dello Stato ". Giungeva quindi Alessio a questa dura conclusione: se si fosse accettata la proposta fatta dalla Commissione dei Cinque di infliggere a Crispi soltanto una censura politica "nessuno potrà togliere ai nostri lettori la persuasione che….si sia perpetrato un salvataggio ingiusto ed iniquo.” Crispi pertanto andava deferito all'autorità giudiziaria ordinaria.
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Di rincalzo a tale intervento ci fu quello del repubblicano Barzilai, che si soffermava sulla decisione dei Cinque di non perseguire Crispi per reati commessi da ministro, in quanto non esisteva una legge che li punisse. Motivazione ritenuta poco valida: neanche in Francia esisteva una legge del genere e tuttavia personaggi illustri come Fernando de Lesseps colpito da accuse analoghe era stato condannato; perfino Clemenceau, leader politico di prima grandezza, non era stato rieletto perché, a torto o a ragione, il suo nome figurava nell'inchiesta per lo scandalo di Panama. L'onorevole Alessio aveva chiesto il rinvio di Crispi al tribunale ordinario, ma aveva parlato con rispetto del suo passato; il socialista Bissolati non aveva invece usato alcun riguardo nel chiedere pure lui il deferimento di Crispi alla giustizia ordinaria per abuso di autorità (articolo 172 del Codice Penale) avendo ostacolato l'inchiesta disposta dalla Direzione Generale del Banco di Napoli presso la sede di Bologna, che aveva concesso quei finanziamenti illeciti a Crispi. Il compiacente ispettore Simeoni, tanto sollecito ad accettare l'intervento di Crispi, anziché esser punito per la sua colpevole arrendevolezza, era stato premiato con la nomina a direttore generale del demanio pubblico. Se si fosse colpito Crispi solo con una censura politica, il popolo avrebbe capito che si era voluto "salvare il più genuino rappresentante del parassitismo italiano". A questo punto ci fu un richiamo del presidente della Camera, Biancheri, a Bissolati perché si astenesse dall'usare un linguaggio sconveniente. Il deputato socialista si espresse allora con termini in apparenza meno crudi, ma politicamente più gravi, correggendo così il suo dire: il popolo avrebbe intuito che si voleva salvare "il cugino di Sua Maestà"; era la parentela onorifica attribuita a chi, come Crispi, era insignito del Collare dell'Annunziata, la più alta delle onorificenze.295 Nella successiva tornata del 23 marzo 1898 la discussione proseguì con l'intervento dell'onorevole Franchetti, anche lui favorevole a rinviare Crispi alla magistratura ordinaria, affermando: "il mio convincimento è che, di fronte alle risultanze simili a quelle dell'istruttoria eseguita dalla Commissione dei Cinque, nessuna Camera di Consiglio, nessuna Sezione di accusa potrebbe esimersi dal rinviare la causa innanzi al tribunale ordinario". Tanto valeva nei casi di reati comuni, andavano invece deferiti all'alta Corte di Giustizia i ministri imputati di reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni a fini politici. Si udì poi una voce alfine favorevole a Crispi, quella del deputato Nunzio Nasi, che ricordava di essere siciliano come Crispi per spiegare la sua posizione.
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Atti Parlamentari, camera Deputati. Legislatura XX, 1 sessione 1897-1898. Volume 5°. Tornata 22 marzo 1898. Discussione sulla relazione della Commissione incaricata di esaminare le conseguenze della sentenza 8 novembre 1897 della Cassazione di Roma relativa al deputato Crispi. Intervento Alessio, pp. 5486-5491; intervento Barzilai, pp. 5494-5495; intervento Bissolati, pp. 5498-5499, p. 5501.
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Ma, oltre che alla "carità del natio loco", l'intervento di Nasi era attribuirsi alla sua serrata critica avanzata contro la relazione del presidente della Commissione dei Cinque, Palberti, molto abile nel proporre una censura politica dopo aver riconosciuto che non erano stati trovati elementi di colpevolezza nell'operato di Crispi. Ma una censura politica, secondo Nasi, sarebbe stata una condanna tanto più crudele in quanto avrebbe avuto l'aria "di una transazione, e quasi il significato di un atto pietoso". Era poi lamentata l'assenza di Crispi nel dibattito. Sarebbe stato preferibile un intervento di Crispi per ripetere "le fiere parole del 2 dicembre", in risposta alla sentenza della Cassazione dell'8 novembre che escludeva la competenza del giudice ordinario cui la Camera non poteva rinviare Crispi: poteva deferirlo soltanto all'Alta Corte di Giustizia. Proponeva quindi Nasi che il Senato completasse le indagini della Camera e, quasi in tono di rimpianto, affermava che, senza Abba Garima, Crispi sarebbe stato ancora ministro: l'ombra della sconfitta tornava così a gravare su Crispi. Nasi ricordava infine che a Giolitti, travolto dallo scandalo della Banca Romana, era subentrato proprio Crispi, senza però indagare sulle responsabilità di molti altri: era quasi una larvata minaccia di riaprire il caso, portando alla luce particolari imbarazzanti. Cominciavano ad essere presentati gli ordini del giorno per illustrare le concrete proposte e il presidente Biancheri ritenne opportuno fare il punto della situazione dandone lettura, fino a quel momento ne erano stati presentati tre: Prinetti ed altri proponevano di infliggere a Crispi la censura politica, secondo le indicazioni date dalla Commissione dei Cinque, fermo restando che la giustizia ordinaria avrebbe comunque potuto agire sempre contro Crispi se si fosse accertata una sua responsabilità per reati comuni. Un secondo ordine del giorno, presentato dall'onorevole Rovasenda, prevedeva invece l'immediato rinvio di Crispi al giudice ordinario per concorso in peculato, ritenendo già sufficienti le prove acquisite. Ed infine vi era l'ordine del giorno dell'onorevole Carmine, il più favorevole a Crispi, che proponeva di prendere atto della relazione dell'onorevole Palberti, senza adottare ulteriori provvedimenti punitivi. Prinetti, illustrando il suo ordine del giorno, contestò il non luogo a procedere contro Crispi per reati ministeriali, sostenuto dai Cinque in assenza di una legge rivolta contro quei casi. Come Barzilai aveva già osservato il giorno precedente, anche Prinetti ricordava l'esempio del Senato francese, che aveva posto fine alla carriera politica del principe di Polignac. Criticava inoltre i Cinque perché non avevano fatto indagini più approfondite per chiarire se Crispi avesse commesso reati comuni. Prinetti tuttavia accettava le conclusioni della Commissione: riteneva intangibile il potere della magistratura ordinaria per giudicare reati comuni, ma la Camera non poteva proporre ad essa un'azione penale in quanto sua unica facoltà era rinviare Crispi all'Alta Corte di Giustizia;
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concludeva ricordando di essere sempre stato un oppositore di Crispi e riteneva essere un provvedimento giusto ed equilibrato la censura politica proposta all'unanimità dai cinque commissari. A questi era stato però rimproverato di avere preso per buone le affermazioni di Crispi e di non aver invece dato credito a quelle di Favilla, ritenuto suo complice. L'onorevole Palberti, nella sua qualità di presidente della Commissione, volle quindi spiegare che le affermazioni di Crispi avevano trovato un riscontro in prove concrete accertate dalla Commissione, mentre quelle di Favilla non erano state in alcun modo confermate. Si erano nel frattempo moltiplicati gli ordini del giorno e il presidente della Camera elencava quelli ulteriormente presentati dopo i tre di cui già aveva dato conto. Badaloni, Bissolati ed altri chiedevano il rinvio di Crispi al giudice ordinario; Albertoni, Barzilai ed altri proponevano che il tribunale ordinario proseguisse la sua azione; Alessio ed altri volevano che fosse "restituita piena libertà d'azione all'autorità giudiziaria" ed in via preliminare esprimevano già il loro consenso a procedere contro Crispi; l'onorevole Sacchi era per i rinvio degli atti all'autorità giudiziaria e chiedeva ai Cinque di svolgere una più approfondita analisi; anche l'onorevole Franchetti era per il rinvio degli atti al tribunale ordinario per i provvedimenti del caso. Con toni ed argomenti pressoché simili quasi tutti chiedevano il deferimento di Crispi alla giustizia ordinaria e sembrava quasi segnata la sua sorte. L'onorevole Rovasenda proponeva invece il rinvio di Crispi al Senato per concorso in peculato; solo l'ordine del giorno Carmine e quello pressoché identico presentato dall'onorevole Carcano chiedevano che la Camera facesse sua la proposta di una censura politica senza ulteriori provvedimenti a carico di Crispi. Ci fu un intervento chiarificatore del guardasigilli Zanardelli, che ricordava come in precedenti casi analoghi il governo si fosse sempre astenuto da un qualsiasi intervento ed affermava che la Camera aveva il potere di rinviare Crispi al giudizio dell'Alta Corte di Giustizia, ma non a quello del giudice ordinario, che avrebbe potuto prendere lui stesso l'iniziativa di un'azione, poiché l'indipendenza della magistratura andava tutelata, come già avevano affermato i Cinque. Cominciava a sfoltirsi la massa degli ordini del giorno: Bissolati e Sacchi ritirarono i loro e aderirono all'ordine del giorno Alessio, emendato con la soppressione del capoverso relativo alla concessione dell'autorizzazione a procedere da parte della magistratura ordinaria, essendo stato riconosciuto irrituale averla espressa in anticipo, prima che fosse stata richiesta. Prinetti dichiarava di non potere a sua volta aderire all'ordine del giorno Alessio perché ipotizzava l'esistenza di reati comuni commessi da Crispi. Carcano aderiva all'ordine del giorno Carmine tanto simile al suo, Prinetti riprendeva la parola per dichiarare di aderire all'ordine del giorno Carmine-
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Carcano, avendo Zanardelli assicurato il rispetto dell'indipendenza della magistratura, che avrebbe potuto quindi prendere una sua iniziativa a prescindere dal voto della Camera. Si passò infine alla votazione con appello nominale, iniziando con l'ordine del giorno Alessio, che su 315 presenti e votanti (158 voti assicuravano la maggioranza) ottenne 106 voti favorevoli, 184 contrari con 25 astenuti: tra i contrari erano Guido Baccelli, San Giuliano, Coppino, Salandra; tra i favorevoli si contavano Barzilai, Dal Verme, Agnini, Bissolati, Turati, Facta; tra gli astenuti spiccavano i nomi di Boselli, Brin, Cocco Ortu, Rudinì, Gianturco, Giolitti, Luigi Luzzatti, Zanardelli e Sidney Sonnino, che era stato ministro del governo Crispi seppure su posizioni critiche. Fu rapidamente archiviato con un voto negativo l'ordine del giorno Rovasenda ed infine si votò l'ordine del giorno Carmine-Carcano cui fu aggiunto, su proposta dell'onorevole Palberti, che la Camera approvava la relazione della Commissione oltre ad adottarla: precisazione in verità pleonastica in quanto sembra implicita l'approvazione della relazione se la si adottava. Il numero dei presenti e votanti era sceso da 315 a 279 (maggioranza 140 voti) l'ordine del giorno fu approvato a larga maggioranza, con 207 si, contro 65 astenuti e soltanto sette voti contrari. Tale esito fu propiziato dal fatto che molti oppositori di Crispi votarono a favore affinché gli fosse almeno riservata una censura politica, essendo stata respinta la proposta di misure più gravi, come il rinvio alla magistratura ordinaria o all'Alta Corte di Giustizia. Votarono difatti a favore anche socialisti, radicali repubblicani, come Agnini, Barzilai, Bissolati, Bovio, Andrea Costa, Pantano, Rovasenda, Turati; si astennero Guido Baccelli, Cocco Ortu, Rudinì, Luigi Luzzatti, Salandra e i due ex ministri del governo Crispi Mocenni e Sonnino. Tra i 7 voti contrari ci fu quello di Nunzio Nasi, che nel suo intervento aveva dichiarato di ritenere infamante per Crispi anche la semplice censura politica.296 L'esito del dibattito svoltosi alla Camera non disarmò i più accaniti oppositori di Crispi che continuarono a chiedere il suo deferimento al tribunale ordinario attribuendogli reati comuni. Insorse contro tale richiesta “Il Popolo Romano”, negando tale possibilità dopo l'esclusione da parte del Parlamento dell'esistenza di un qualsiasi reato; era questo il polemico commento del giornale: "dopo quest'ultima constatazione della perfidia colla quale si è tentato di colpire Crispi alle spalle, si può accettare in pace anche la censura, la quale, come dicemmo dal primo giorno, non può davvero
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Ibidem, tornata 23 marzo 1898 - Intervento Franchetti p. 5525; intervento Nasi pp. 5528-5531; intervento presidente Camera Biancheri p. 5531; intervento Prinetti pp. 5543-5546; intervento Carmine pp. 5546-5547; intervento Carcano p. 5547; elenco ordini del giorno fatto dal presidente Biancheri p. 5548; intervento Zanardelli p. 5549. Adesione di Bissolati e Sacchi all'o.d.g. Alessio e titubanza di Prinetti ad aderirivi p. 5551. Adesione di Franchetti all'o.d.g. Alessio e di Prinetti all'o.d.g. Carmine-Carcano; esito delle votazioni pp. 5553-5557.
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alterare la figura storica di Francesco Crispi, patriota e uomo di Stato" (24 marzo 1898, p. 1 “Finis”, fondo non firmato). Ed il "Corriere della Sera” nel commentare il voto della Camera sottolineava il fatto significativo, al di là del risultato numerico, della presenza di illustri parlamentari fra quelli favorevoli all'ordine del giorno Alessio e fra gli astenuti (25-26 marzo 1898, p. 1 “Le dimissioni del deputato Crispi"). E successivamente, il giornale affermò che il proposito di Crispi di riproporre dopo le dimissioni la sua candidatura nel secondo collegio elettorale di Palermo, al fine di ottenere la sua riabilitazione con un voto popolare a lui favorevole, non poteva cancellare la censura politica inflittagli dalla Camera, rappresentante l'intero corpo elettorale, di cui il secondo collegio di Palermo era soltanto una minima frazione (Corriere della Sera, 16-17 aprile 1898, p. 1 “Per un incidente", fondo non firmato). Tartarin, cioè Edoardo Scarfoglio, su "Il Mattino” ricordava l'accusa fatta a Crispi di avere protetto Favilla, l'infedele funzionario del Banco di Napoli, bloccando l'inchiesta a suo carico; ma sedeva "indisturbato e rispettato" nella Camera l'onorevole Colombo, a sua volta
protettore del suo
prossimo genero Mariani, minacciato dai rigori della giustizia. Nella censura politica inflitta a Crispi, Scarfoglio vedeva un attacco al meridione e rinfacciava alla borghesia italiana di essersi dimostrata ingrata abbandonando alla sua sorte l'uomo politico cui si era rivolta per essere difesa dai pericoli della sovversione; metteva poi in relazione la censura a Crispi con le manifestazioni socialiste a favore della Repubblica considerando entrambi i fatti l'espressione di intenti sovversivi ("Il Mattino” 24-25 marzo 1898, p. 1 “La condanna", fondo di Tartarin). “La Perseveranza” ricordava il contributo dato alla salvezza di Crispi da Prinetti e dai deputati fedeli a Zanardelli, che con un improvviso voltafaccia avevano votato a favore dell'ordine del giorno Carmine-Carcano, ritenendo comunque necessario procedere contro Crispi se si fossero accertate le sue responsabilità penali. Ma " - scriveva il giornale – allo stato attuale delle cose, non ci sembra dubbio che la maggioranza della Camera abbia col suo voto obbedito ai suggerimenti dell'equità" (25 marzo 1898, p. 1 “Due sole parole"). Approvava la decisione della Camera anche “L'Opinione Liberale” (25 marzo 1898, p. 1 “Le votazioni della Camera", fondo non firmato): era stata la migliore decisione possibile; convinti dagli eloquenti discorsi dell'onorevole Palberti presidente della Commissione dei Cinque e del guardasigilli Zanardelli, Prinetti e gli altri deputati della Destra avevano votato per l'ordine del giorno Carmine-Carcano; il giornale elogiava anche Zanardelli che si era espresso a favore della neutralità del governo per non influire sull'esito del dibattito. A questo elogio dei deputati favorevoli all‟assoluzione di Crispi da imputazioni penali corrispondeva invece l'aspra critica dell‟ “Avanti!".
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Il giornale socialista scriveva che Crispi si era salvato per miracolo; sarebbe stato deferito alla Corte d'Assise, se i deputati avessero votato liberamente secondo coscienza; ma erano stati minacciati di una pubblicazione di documenti riservati per molti di essi compromettenti se avessero votato per il rinvio di Crispi a giudizio; quindi avevano votato perché fosse prosciolto da ogni responsabilità penale. Si erano quindi avuti improvvisi voltafaccia, fra i quali quello di Prinetti, avvenuto all'ultimo minuto (l‟ “Avanti!", il 5 marzo 1898, p. 1, “ Una speranza", fondo non firmato). L‟ “Avanti!" riportava poi (27 marzo 1898, p. 1 “ Crispi e la stampa estera") il giudizio del "Daily Chronicle” secondo il quale l'Italia aveva dimostrato di non tollerare più la corruzione, anche se Crispi non era stato condannato penalmente; il successivo giorno 28 erano citate le affermazioni della "Frankfurter Zeitung” e dell‟Hamburger Echo” sulla fine della carriera politica di Crispi (p.1 “Crispi e la stampa estera"). Sullo stesso numero del 28 marzo (p.1 fondo privo di firma " Ricapitolando") era sferrato un duro attacco a Sonnino, giudicato più pericoloso di Crispi per la sua lucida intelligenza; in quanto ministro del Tesoro, Sonnino avrebbe dovuto sostenere l'inchiesta sulla sede bolognese del Banco di Napoli, anziché bloccarla. Poco importava che Sonnino non aveva avuto vantaggi finanziari personali: "A Crispi la pace giudiziaria, seppure amareggiata dalla censura; a Sonnino le speranze del potere, condizionato dal calcio dell'asino a Crispi". Il giornale giungeva a questa conclusione: "Ricapitolando: Crispi è morto, ma il crispismo è ancora vivo”. I socialisti erano direttamente interessati all'esito del voto del secondo collegio di Palermo, poiché l'unico avversario di Crispi era un loro candidato, il carismatico Nicola Barbato, proposto in odio a Crispi anche da un deputato della Destra estrema secondo "La Perseveranza", venendosi così a saldare anche a Palermo l'alleanza antigovernativa tra socialisti ed ultraconservatori. La candidatura di Barbato riusciva gradita anche ai crispini, perché, data la sua autorevolezza, avrebbe dato maggior lustro alla vittoria dei loro leader ("La Perseveranza”, 26 marzo 1898, p. 3 “Barbato contro Crispi nel collegio di Palermo"). Le previsioni di una vittoria di Crispi erano giustificate dai numerosi telegrammi di solidarietà inviatigli da Comuni siciliani; quello del Comune di Palermo era firmato da ben 4000 sostenitori. Era stata pure organizzata una manifestazione di sostegno nel Consiglio comunale di Palermo, revocata a richiesta dei socialisti ("La Perseveranza", 27 marzo 1898,p. 1 “La questione Crispi a Palermo"). Nell'approssimarsi della campagna elettorale ci fu una polemica tra l‟“Avanti!” e “La Tribuna", dovuta all'affermazione del giornale socialista che l'eventuale rielezione di Crispi si sarebbe avuta grazie al potente aiuto della mafia; l‟“Avanti!” dichiarava di aver voluto con quella affermazione aprire gli occhi agli ingenui, facendo loro capire chi fosse Crispi, e al tempo stesso "risparmiare a
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Palermo l'onta di un nuovo trionfo dell'assassino dei contadini siciliani". In ogni caso l'eventuale vittoria di Crispi non avrebbe cancellato le sue infamie: non sarebbe stato un giudizio definitivo quello degli elettori di Palermo, contrariamente a quanto affermato da “La Tribuna” (L‟“Avanti!”, 30 marzo 1898, p. 1 “Urli di sciacallo ", fondo senza firma). Nell'immediata vigilia delle elezioni, fissata per il 17 aprile 1898, il presidente del Comitato elettorale di Crispi, il duca della Verdura, e sei senatori di Palermo inviarono a Crispi un telegramma di solidarietà, definendo il voto della Camera per la censura politica una oscura manovra di alcuni deputati sostenuti dai nemici dell'Italia. L'onorevole Engel protestò contro quell'affermazione offensiva ed il presidente della Camera, Biancheri, assicuro che si sarebbe agito per tutelare il rispetto dovuto alla Camera. Ma la questione non ebbe un seguito, perché i senatori firmatari di quel telegramma assicurarono al presidente del Senato di non aver voluto offendere i deputati con quelle parole, (“La Perseveranza”, 15 aprile 1898, p. 3 “La seduta della Camera. L'incidente Engel”; 16 aprile 1898, p.3 “Commenti alla seduta della Camera. Spiegazioni dei sei senatori crispini di Palermo"). Pochi giorni prima delle elezioni Scarfoglio intervenne ancora favore di Crispi, ritenuto vittima delle razze longobardiche, ostrogotiche, allobroghe del Nord, mentre le razze greco-latine del sud invece lo sostenevano: "Che ci possiamo fare? È questione di clima!", concludeva ironicamente Tartarin, alias Scarfoglio ("Il Mattino”, 11-12 aprile 1898, p. 1 “La rielezione di Crispi", fondo di Tartarin). Ed arrivò al fine il 17 aprile, giorno delle elezioni. Secondo le previsioni Crispi vinse; ma non ebbe il trionfale plebiscito sperato; fu eletto con 1176 voti contro i 295 di Barbato, cui non furono attribuiti altri 20 voti annullati. Crispi aveva mantenuti i voti delle precedenti elezioni del 1896, mentre quelli di Barbato erano diminuiti rispetto ai 386 del 1896 (nel maggio 1895 era stato eletto con 701 voti, favorito anche dallo sdegno suscitato dalla sua detenzione). L‟“Avanti!”, (19 aprile 1898, p. 3 “Le elezioni di ieri. Collegio di Palermo". Corrispondenza di Nemus datata giorno 18 ore 0,15) commentò con amarezza l'elezione del "gran ladro", denunciando le violenze antisocialiste dei crispini durante la campagna elettorale. Era pure deplorato il rifiuto opposto alla candidatura da Barbato, espresso nella lettera pubblicata il 12 aprile dal "Giornale di Sicilia" di Palermo, di tendenza crispina, polemizzando contro chi voleva mandarlo in Parlamento contro la sua volontà. Barbato inoltre non spendeva in quella lettera una parola a favore dell'impegno elettorale dei socialisti palermitani; solo il 19 aprile, ad elezioni avvenute, inviò alla direzione del partito un telegramma di solidarietà per quanto essi avevano fatto. L'elezione di Crispi, anche se non trionfale, scottava ai socialisti e l‟“Avanti!”, tornò ad occuparsene il 21 aprile 1898 (p.1 “Dopo la lotta. Considerazioni numeriche". Corrispondenza di
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Nemus del 18 aprile 1898), ironizzando sul mancato plebiscito per Crispi; lamentava poi il mancato appoggio da parte della popolazione di Palermo ai socialisti, gli unici a votare per Barbato; ma anche Crispi aveva avuto solo il voto della sua banda, essendosi astenuti i clericali ed i moderati. Il 22 dello stesso mese (pp. 1-2 “La parola a Barbato") il giornale socialista pubblicò una lettera di Barbato inviata a Bissolati in data 16 aprile per spiegare le ragioni del suo rifiuto della candidatura: non poteva trascurare il lavoro di medico, unica sua fonte di sostentamento; polemizzava poi con Bissolati, invitandolo a venire a vivere al suo posto a Piana degli Albanesi, nel caso avesse insistito a proporgli altre candidature. A commento della lettera il giornale affermava non essere quello il momento per discutere le ragioni del rifiuto di Barbato; ma questi avrebbe dovuto inviare tempestivamente il suo telegramma di solidarietà con i socialisti di Palermo e non farlo solo dopo le elezioni; seppure tardivo, quel telegramma era stato comunque utile per porre fine alle insinuazioni de “La Tribuna”. L‟“Avanti!” tornò ad occuparsi ancora delle elezioni a Palermo (23 aprile 1898, pp. 1-2 “Dopo la lotta. Considerazioni morali". Corrispondenza di Nemus in data 20 aprile) osservando come i crispini avessero messo da parte ogni trionfalismo e si limitassero a ricordare che Crispi aveva avuto gli stessi voti del 1896, dopo aver dichiarato che avrebbe ottenuto un successo tanto travolgente da cancellare la censura politica datagli dalla Camera. Per i socialisti era stato un successo averlo impedito, avendo reso gli elettori consapevoli dell'imboscata politica preparata dai seguaci di Crispi con l'astensione di due terzi degli elettori; questi non avevano raggiunto una maturità politica sufficiente per farli votare per i socialisti: era quello un traguardo da raggiungere lavorando con costanza ed unendo l'organizzazione alla passione politica. Al Parlamento italiano era toccato l'ingrato compito di dare alla carriera politica di Crispi una poco gloriosa conclusione; ma dobbiamo ricordare che già in precedenza aveva dovuto occuparsi di una questione altrettanto difficile e delicata: cosa fare di quella colonia Eritrea causa continua di spese e preoccupazioni, oltre che di dolorose perdite umane? L'abbandono dell'Eritrea era stato più volte proposto dagli antiafricanisti: già il 30 aprile 1891 Imbriani l'aveva sostenuto intervenendo alla Camera nel dibattito sul bilancio della colonia e sull'autorizzazione alla spesa per una inchiesta disciplinare ed amministrativa necessaria a far luce sullo scandalo Livraghi. In quella occasione Imbriani aveva dichiarato di apprezzare il valore del soldato italiano, ma di volerlo vedere adoperato per fini più nobili ed utili che non l'acquisto di "una frontiera incerta che ci verrà ad ogni istante contestata, e non ci sarà in ogni caso di utilità alcuna". Aveva quindi chiesto il completo ritiro dall'Eritrea, affermando: "Qui la sorte nulla ci può dare. L'Inghilterra ha dato esempi simili perché è forte. Mostriamo saldezza di propositi con un vero atto di coraggio. Indietro dall'Africa!". Franchetti, pioniere ed artefice della colonizzazione Eritrea, si
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era opposto dichiarando inopportuno per ragioni politiche ed economiche cedere a Menelich territori che potevano essere mantenuti anche senza ricorrere ad un'occupazione militare, attuando iniziative agricole ed economiche.297 Dopo Adua il ritiro dall'Eritrea fu sostenuto con rinnovato vigore, suscitando i timori di quanti vi si erano recati per fare fortuna. Si rese interprete di tali timori “l'Africa italiana. Gazzetta di Massaua", riferendo allarmata la notizia di un abbandono della colonia comunicata all'agenzia britannica Reuters dal corrispondente del “Times” a Roma, secondo il quale Rudinì era disposto tutt'al più a conservare solo Massaua. “L'Africa italiana” definiva quella notizia "inverosimilmente strana" e "ferocemente antiafricanista", tale che mai sarebbe stata approvata dalla Camera (7 febbraio 1897, p. 2 “In macchina. L'abbandono della Colonia"). Nonostante quella ottimistica previsione, l'allarme fra gli italiani di Massaua non cessò: essi si mobilitarono e la sera del 12 febbraio 1897, riferiva ancora il giornale locale, tennero una affollata assemblea di protesta. Fu costituita una Commissione incaricata di far presente al Parlamento il grave danno che sarebbe derivato dall'abbandono della colonia per i cittadini italiani residenti in Eritrea; la stessa commissione doveva pure rivolgere un appello al re perché fossero tutelati i diritti e gli interessi legati al mantenimento della colonia; si doveva chiedere al governatore di far conoscere al governo di Roma le ansie degli italiani per l'incerta situazione. Infine, occorreva mobilitare l'intera comunità italiana, coinvolgendo nell'azione quanti non avevano partecipato all'assemblea (“L'Africa italiana. Gazzetta di Massaua", 14 febbraio 1897, p. 1 “L‟abbandono della colonia"). Eccedendo al di là del vero nelle assicurazioni, Visconti-Venosta, ministro degli Esteri, telegrafò al vicegovernatore Viganò per "smentire recisamente voce che il governo pensi menomamento abbandono colonia. Governo centrale – affermava il ministro – intende anzi occuparsi caldamente della sua prosperità”. Il giornale di Massaua, nel prendere atto della smentita, si rallegrava dello sventato pericolo (“L‟Africa italiana. Gazzetta di Massaua”, 21 febbraio 1897, p. 1 “La smentita ufficiale del‟abbandono della Colonia”). Ma la smentita di Visconti-Venosta era solo un tentativo fatto per calmare l'agitazione dei coloni italiani ed era sempre sul tappeto il progetto di ritiro dall'Eritrea. Nell'imminenza del dibattito parlamentare la questione fu presto dibattuta sulla stampa italiana, con "Il Mattino” in prima fila, protagonista Edoardo Scarfoglio, il più convinto tra gli africanisti; si oppose invece "Il Secolo. Gazzetta di Milano", organo dei democratici. Tartarin, cioè Scarfoglio, collegava il problema della permanenza italiana in Africa alla trattativa in corso con il negus per i confini e attaccava Martini perché "invasato da furia anticrispina e da un 297
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Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. Legislatura XVII, 1 sessione (1890-91). Discussioni. Volume 2° (27 aprile-2 giugno 1891). Tornata 30 aprile 1891, p. 1588 e p. 1603.
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delirio rudiniano assolutamente inconcepibili e stravaganti in un uomo d'ingegno abusò dell'autorità che gli viene dalla sua esperienza e dalla sua cultura per farsi il compare delle porcherie di Rudinì e di Ricotti". Dopo la cessione di Adigrat a ras Sebath e l'abbandono della frontiera del Mareb, ci si voleva arroccare a Massaua, “donde non si potrà più risalire sull'altipiano se non dopo una nuova guerra". C'era da chiedersi, proseguiva Tartarin, se Martini fosse cosciente delle sue azioni; c'era da augurarsi, concludeva il giornalista, che le numerose umiliazioni patite dall'Italia alla fine aprissero gli occhi al politico, la cui unica colpa, dobbiamo ricordare, fu poi quella di proporre di non prendere decisioni affrettate, prima che si fossero conclusi i negoziati con Menelich (“Il Mattino”, 14-15 maggio 1897, p. 1 “Lo scandalo africano", fondo di Tartarin). Dopo la censura fatta a Martini da Scarfoglio, il giornale napoletano elogiava per contro i pochi deputati dotat "d'ingegno e di carattere" che si opponevano alle vergognose concessioni che Rudinì era disposto a fare al negus (“Il Mattino”, 15-16 maggio 1897, p. 1 “L‟Africa alla Camera", articolo siglato L.M.). Tartarin tornava alla carica contro Rudinì, trovando contraddittorie le sue affermazioni: aveva assicurato di voler mantenere in Eritrea lo status quo, ma al contempo proponeva di limitare a Massaua l'occupazione italiana. Secondo Tartarin il proposito di lasciare l'Africa nutrito da Rudinì era ostacolato da pressioni straniere o da un orientamento della Camera contrario all'abbandono, forse da entrambe le ragioni. Ma chiari sintomi del progettato ritiro erano stati l'accenno esplicito del ministro Luzzati alla necessità di sopprimere il bilancio coloniale, lo smantellamento delle fortificazioni nella colonia, la nomina di un colonnello al posto del vice-governatore il generale Viganò ((“Il Mattino”, 16-17 maggio 1897, p. 1 articolo di fondo di Tartarin). Instancabile Tartarin ironizzava poi sull'ottimismo dimostrato da Traversi che aveva riconosciuto all'Eritrea possibilità di sviluppo economico con un articolo sulla "Nuova Antologia", “mentre l'onorevole Rudinì studiava di qual morte far morire quella povera cenerentola dell' Eritrea, contro la quale egli ha l'odio bestiale che i ragazzi ciuchi hanno per la grammatica latina e per l'aritmetica". (“Il Mattino”, 18-19 maggio 1897, p. 1 “Un ottimista", fondo di Tartarin). Mentre Scarfoglio-Tartarin imperversava con i suoi articoli contrari al ritiro dall'Eritrea, si iniziò alla Camera la discussione sulle prospettive in Africa. Il 14 maggio Imbriani rinfacciava a Rudinì, al ministro della Guerra Pelloux ed a Martini di esser divenuti sostenitori del colonialismo, cui in passato si erano invece opposti. Rivendicava di essere sempre stato invece coerente nella sua costante opposizione; condannava come incivile uccidere poveri indigeni armati solo di giavellotti (affermazione, in verità, discutibile dopo Adua).
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Martini replicò con una citazione di Victor Hugo per spiegare il suo mutato atteggiamento" Soltanto gli uomini che non pensano e che non osservano, non mutano mai d'opinione".298 Nella successiva seduta del 15 maggio Rudinì illustrò la sua politica africana: era sua intenzione conservare lo status quo in Eritrea, mantenendo il confine sul Mareb o su altra posizione da definire; comunque si doveva rinunciare al trattato di Uccialli. Smentiva l'esistenza di patti segreti per il confine ed affermava l'inutilità di Cassala per difendere la colonia. Non escludeva comunque l'espansione verso altri territori, resa necessaria dalla condizione di colonia militare dell'Eritrea, dove permaneva uno stato di guerra latente. Ragioni politiche ed economiche avevano impedito di fare dell'Eritrea una colonia di popolamento, in quanto le risorse agricole non erano tali da incoraggiare l'emigrazione. Per l'occasione Rudinì citava Baratieri, asserendo di non potergli perdonare di esser tornato in Africa nel 1895, reduce dall'incontro a Roma con Crispi e gli altri ministri, dai quali non aveva ottenuto i mezzi necessari per affrontare la guerra che si annunciava prossima. Secondo Baldissera, affermava Rudinì, per far fronte in tempo di pace alle necessità della colonia occorrevano 20 milioni l'anno; in caso di guerra con il Tigrè sarebbero cresciute le spese, fino a lievitare ad 80 milioni se ci fosse stata una nuova guerra contro l'Etiopia. Nell'immediato, a parere del ministro della guerra, era da prevedersi una spesa di 35 milioni per assicurare la difesa. Rivolto all'assemblea, Rudinì poneva questo interrogativo: "Volete restare in Africa nelle recenti condizioni? Abbiate il coraggio di assumere tutta quanta la responsabilità, compresa quella delle spese". Sarebbe stato folle restare sull'altipiano con un bilancio annuo di 6-7 milioni: ciò avrebbe significato una sicura disfatta. Ma un aumento del bilancio coloniale comportava un aumento della pressione fiscale, aggravando l'imposta fondiaria o quella sul sale. Secondo logica quindi conveniva lasciare l'Africa; ma la politica- riconosceva Rudinì - non è fatta solo di logica. In cuore suo dava ragione ad Imbriani: ma nessuno era disposto a cedere territori al negus od a lasciare ad un'altra potenza Massaua, da dove l'Italia poteva esercitare la propria influenza sul mar Rosso, come facevano la Francia da Gibuti e l'Inghilterra da Zeila. Affidare l'altipiano a capi locali amici non avrebbe esentato l'Italia dalla necessità di intervenire in caso di un conflitto tra di essi. La migliore politica consisteva nel favorire una situazione pacifica che consentisse di ridurre al minimo l'impegno militare e, di conseguenza, le spese, raggiungendo intese sui confini con l'Etiopia e l'Inghilterra. 298
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Atti parlamentari. Camera dei Deputati XX legislatura 1 sessione. Discussioni, volume 1° (5 aprile - 29 maggio 1897). Tornata 14 maggio 1897, pp. 658-660 intervento Imbriani, p. 671 intervento Martini.
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Non era possibile stabilire una data per la realizzazione di tale obiettivo, da perseguirsi - assicurava Rudinì - nel rispetto delle decisioni parlamentari. Poco curandosi delle proposte di Rudinì, l'onorevole De Marinis presentò questa mozione: "La Camera, ritenendo contrario agli interessi del paese ed ai fini della civiltà proseguire nella presente politica coloniale, invita il Governo a provvedere per l'abbandono della Colonia Eritrea". Seguì l'intervento di Franchetti che sostenne le potenziali risorse economiche dell'Eritrea, negate da Rudinì; non era possibile limitare a Massaua l'occupazione italiana, essendo malsicura la posizione della città, posta ad 80 km dall'altipiano e dipendente per il rifornimento dall'acqua da una fonte posta a 3 km di distanza: bisognava quindi optare per l'abbandono totale o per la conservazione integrale della colonia. L'abbandono avrebbe compromesso il prestigio dell'Italia: una decisione andava comunque presa dopo la conclusione degli accordi col negus. Proposta subito contrastata dalla mozione presentata dall'onorevole Ponzi ed altri, di tenore analogo a quello della mozione De Marinis: “La Camera, interprete degli interessi e della volontà del Paese, invita il Governo a richiamare le truppe dall'Africa e ad abbandonare definitivamente la Colonia Eritrea".299 Nella seduta del 18 maggio ci fu l'intervento del marchese di San Giuliano, che sostenne che una presenza italiana nell'altipiano, limitata al confine del Mareb, sarebbe convenuta anche a Menelich poiché avrebbe fatto da contrappeso al Tigrè di ras Mangascià. Non era poi da sopravvalutarsi la potenza dell'Etiopia, minata dai contrasti fra le varie popolazioni; era prevedibile una guerra per la successione a Menelich, privo di eredi. Lasciare l'altipiano avrebbe messo a rischio la sicurezza dei musulmani fedeli all'Italia (Bogos, Beni Amar, Habab , Mensa), esposti all'ostilità dei copti. Esisteva poi un nesso tra il problema eritreo a quello del Mediterraneo, di vitale importanza per l'Italia, che sarebbe stato pregiudicato da un abbandono della colonia, cui era da preferire una politica di raccoglimento, mantenendo comunque l'occupazione dell'Eritrea.300 Il generale Luchino Dal Verme mantenne una posizione di cauta attesa, intermedia fra il ritiro immediato ed il mantenimento dello status quo, presentando il 19 maggio questo o.d.g.: “La Camera, mentre rimanda ogni deliberazione sull'avvenire dell'Eritrea al giorno in cui sarà noto l'esito della missione in corso alla Scioa” (era un riferimento alla missione Nerazzini volta a definire i confini ed i rapporti con Menelich) "e delle operazioni anglo-egiziane e sul Nilo" (si trattava del contenimento delle iniziative dei madhisti sempre aggressivi) “invita il Governo a voler senza
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Ibidem, tornata 15 maggio 1897. Intervento Rudinì pp. 695-697; mozione De Marinis p. 698; intervento Franchetti pp. 703-706; mozione Ponzi ed altri p. 707. 300 Ibidem, tornata 18 maggio 1897; pp. 789-794 intervento San Giuliano.
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indugio apportare agli organici ed all'amministrazione militare della Colonia tutte quelle riduzioni di cui sono largamente suscettibili nell'interesse dei servizi e dell'Erario”. Il generale quindi non avrebbe votato né una mozione per l'abbandono della Colonia né quella del governo per mantenere lo status quo”.301 Franchetti fece ancora un intervento per sostenere che la semplice occupazione di Massaua non avrebbe giustificato le spese da sostenere. Il 20 maggio fu la giornata di Martini, presentatore di questo o.d.g. che invitava a rinviare ogni decisione fino a quando non fosse stato interamente applicato il trattato di pace del 26 ottobre 1896 con l'Etiopia: "La Camera, al fine di dare alla Colonia Eritrea l'assetto che meglio convenga e alla dignità e agli interessi del paese, sospende ogni deliberazione e si riserva di riprendere la discussione intorno all'ordinamento della Colonia quando, adempiute le condizioni del trattato del 26 ottobre 1896, essa abbia tutti gli elementi necessari ad un giudizio definitivo." Illustrando il suo o.d.g. Martini criticò le incertezze e l'incoerenza della politica italiana: se si voleva prendere il Tigrè, occorreva farlo subito dopo la morte del negus Giovanni, quando l'Etiopia restò paralizzata, tanto che Orero poté indisturbato marciare su Adua: "Ma noi che facciamo sempre le cose fuori di tempo, aspettamo a tentare la conquista dell'Etiopia, quanto per i nostri stessi aiuti l'impero scioano si era costituito, il più forte impero che l'Abissinia da quando esiste abbia veduto". Negava poi Martini che l'Eritrea si riducesse a tre esse: "sassi, sterpi sabbia". Piuttosto che ritirarsi dall'altipiano sarebbe convenuto lasciare l'intera colonia: ed in tal caso non avrebbero avuto senso le trattative per i confini con Menelich. Ribadiva poi il deputato di Monsummano che affidare il controllo dell'altipiano a capi locali non avrebbe eliminato gli impegni militari dell'Italia.302 Nella successiva tornata del 21 maggio intervenne Sonnino, rivolgendo anche lui l'invito a non prendere decisioni affrettate e riconoscendo l'interesse di Menelich a sapere se avrebbe avuto per vicini gli italiani o turbolenti capi indigeni; anche Sonnino come Pelloux era contrario a ridurre alla costa l'occupazione italiana: Cassala poteva essere ceduta agli inglesi, ma era da escludere che potessero averla i Dervisci. Polemizzava poi con Imbriani, asserendo di essersi opposto ad una politica espansionistica, ma di non aver mai negato a Baratieri e Mocenni i mezzi necessari per la difesa; aveva indicato a Baratieri Adigrat come limite massimo dell'espansione, rinunciando ad Adua ed all‟Agamè: ma Baratieri nutriva propositi più ambiziosi, senza tener conto delle limitate risorse a sua disposizione.
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Ibidem, tornata 19 maggio 1897, p. 814 intervento e o.d.g. Dal Verme; p. 831 intervento Franchetti. Ibidem, tornata 20 maggio 1897, pp.. 862-867 intervento Martini.
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Nel corso del viaggio in Italia di Baratieri gli erano stati dati i 3 milioni da lui richiesti, né il generale aveva avanzato altre domande. A conclusione del suo intervento Sonnino presentò una mozione contraria all' abbandono della colonia. Si pronunciò nello stesso senso Cambray Digny con l‟o.d.g. presentato subito dopo l'intervento di Sonnino; era contrario anche ad un ritiro graduale, che sarebbe stato un passo di più" sulla via della svalutazione del sentimento nazionale". Per gli onorevoli Colombo e Carmine anche le dichiarazioni di Rudinì portavano alla stessa conseguenza e quindi aderivano alla linea di Cambray Digny con una loro mozione.303 Il dibattito si avviava ormai alla sua conclusione, ma continuavano a fioccare le mozioni. Il 22 maggio difatti l'onorevole Casale ne presentò una per chiedere il rinvio delle decisioni a dopo la definizione degli accordi con il negus; Cavallotti ed altri chiedevano invece in tono perentorio il ritiro dalla colonia, nel rispetto della volontà nazionale, riconoscendo però la necessità di una preparazione adeguata; andava comunque data la precedenza alle spese necessarie per le bonifiche agricole in Italia. Si riconobbe alla fine l'opportunità di sfoltire l'eccessivo numero delle mozioni, procedendo al loro ritiro o all'accorpamento in una sola di quelle di analogo contenuto. Il presidente della Camera, Zanardelli, comunicò che le mozioni De Marinis, Imbriani e Ponzi si erano fuse formando questo conciso testo: "La Camera delibera l'abbandono della Colonia Eritrea". San Giuliano e Cambray Digny ritirarono le loro mozione, Martini mantenne la propria, cui Sonnino si disse disposto ad associarsi se fosse stata posta in votazione prima della sua; anche Casale si pronunciò per l'adesione alla mozione Martini, ritirando quella presentata. Fu ritirata pure la mozione Chineni favorevole ad una rivincita militare, del tutto velleitaria. Restava infine in discussione la mozione Rudinì-Gallo così concepita: "La Camera prende atto delle dichiarazioni del governo e ne approva la politica di raccoglimento ". E fu proprio questo documento, votato per ultimo, ad essere approvato dalla Camera: su 356 presenti e votanti (maggioranza con 179 voti) ci furono 242 voti a favore, 94 contrari e 20 astenuti. In precedenza erano state respinte la mozione Imbriani-De Marinis.Ponzi (presenti 378, maggioranza con 190 voti, favorevoli 140, 22 contrari e nove astenuti) e la mozione Martini (presenti 378, maggioranza con 190 voti, 58 favorevoli, 320 contrari, nessun astenuto).304 Gli antiafricanisti avevano perso la loro battaglia e restava confermato lo status quo, come proposto da Rudinì. 303
Ibidem, tornata 21 maggio 1897, intervento e o.d.g. Sonnino pp. 883-894; intervento e o.d.g. Cambray Digny p. 895 e p. 899, o.d.g. Colombo, Carmine e altri p. 899. 304 Ibidem, tornata 22 maggio 1897, pp. 925-935 ritiro e accorpamento delle mozioni; pp. 941-942-945 esito delle votazioni.
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“Il Secolo. Gazzetta di Milano", sempre in prima fila nell'opposizione al colonialismo, commentava il voto della Camera ricordando la promessa agli elettori di votare per il ritiro dall'Africa fatta da almeno quattrocento deputati: ma alla fine avevano rispettato la promessa in 140, compresi "45 guerrafondai ed africanisti di mestiere, che, in odio alla politica di raccoglimento proposta da Rudinì avevano alla fine deciso di votare la mozione antiafricanista.” Il giornale ricordava di aver iniziato la lotta contro il colonialismo trovandosi quasi isolato, in condizioni ben diverse dalle attuali: da 20 nella passata legislatura, gli antiafricanisti erano divenuti 140 votanti per il ritiro dell'Eritrea. La soddisfatta conclusione de “Il Secolo” era: "Eravamo quasi soli allora. Oggi abbiamo per alleati nella nostra campagna quanto l'Italia ha ancora di onesti, di seri e di vigorosi. Ancora un piccolo sforzo, e vinceremo" (24-25 maggio 1897, p. 1 “La nota del giorno"). Era certo esagerato l'ottimismo de “Il Secolo”, ci sarebbero state ancora altre campagne coloniali ed il giornale restava vigile e sospettoso. Nel successivo luglio riferiva allarmato le voci su di una prossima partenza per l'Africa di militari che l'anno precedente si erano offerti volontari. "Purtroppo" - osservava il giornale – “ fin quando vi saranno soldati italiani in Africa può nascere un conflitto"; considerava strana una simile iniziativa dopo che si era detto fra le altre cose di voler restringere a Massaua l'occupazione italiana (18-19 luglio 1897, p. 1, “ Soldati nell'Africa"). Ma l'allarme espresso dal giornale rientrò subito, a seguito di una nota del governo che precisava che non ci sarebbe stato un aumento delle truppe coloniali; sarebbero partiti solo i rincalzi destinati a sostituire i militari rimpatriati (19-20 luglio 1897, p. 1 “Gli allarmi per l'Africa"). Era ben diverso da quello de “Il Secolo” l'acido commento de “Il Mattino” al voto della Camera. Il solito Tartarin il 20-21 maggio, prima cioè del voto della Camera, osservava che Rudinì con la sua ambiguità aveva scontentato tutti, sia i colonialisti che gli anticolonialisti. Tartarin rimproverava a San Giuliano, Dal Verme, Franchetti, Martini di essersi in precedenza schierati contro il proseguimento della guerra che invece si sarebbe dovuto ad ogni costo proseguire; ed alla fine pagavano le “conseguenze stesse della politica che sostennero con tanta sciagurata efficacia". Per fortuna, era la conclusione dell'articolo, adesso nel Parlamento la ragione sembrava prevalere "sul panico pazzo e cieco e sulle passioni politiche" (“Il Mattino”, 20-21 maggio 1897, p. 1 “La discussione africana", fondo di Tartarin). Scarfoglio tornò a criticare la Camera, anche dopo la conclusione del dibattito, definendola nel suo primo commento un manicomio: era una follia infatti rinunciare ad una terra ricca come l'Eritrea per risparmiare 4 o 5 milioni l'anno. Ci si preparava all'abbandono della Colonia, mascherato sotto l'eufemismo di "raccoglimento" (“Il Mattino”, 23-24 maggio 1897, p. 1 “Il voto”, fondo di Tartarin).
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Ancora negativi erano i commenti espressi in un successivo articolo di Tartarin-Scarfoglio: la Camera era incapace di svolgere un'attività politica elevata; solo Crispi aveva le doti necessarie ad un uomo politico autentico, ma ormai gli avversari avevano demolito la sua figura e non c'erano personalità capaci di prendere il suo posto. I deputati erano capaci di votare tutto e il contrario di tutto, dimostrando di non capire niente. La Camera si era ridotta ad essere "un sistema di ambizioni, di vanità e di interessi” (“Il Mattino”, 2425 maggio 1897, p. 1 “Chiacchiere inutili", fondo di Tartarin). All‟estremo opposto si collocava l‟ “Avanti!” (25 luglio 1897, p.1 “La migliore frontiera. Via dall‟Africa”, fondo non firmato). Era considerato ozioso discutere i confini, occorreva una evacuazione totale dall‟Eritrea: anche gli africanisti si erano resi conto del fallimento della colonizzazione agricola e dei progetti commerciali. Era un peso morto di cui occorreva sbarazzarsi, l'Eritrea; con tutti i milioni sperperati nella colonia si sarebbero potuti bonificare l'agro romano e molte altre terre in Italia. Non si sarebbe potuto ostacolare all'infinito l'aspirazione degli abissini ad uno sbocco sul mar Rosso: era solo una questione di tempo ed alla fine l'avrebbero ottenuto. Sulla questione africana si mantenne prudentemente sul vago “L‟Italie”: si rallegrava per gli importanti lavori edilizi in corso a Massaua, sia per iniziativa privata che pubblica, osservando: "Donc on travaille. C‟est très bien!” (Dunque si lavora. Va benissimo! (7 luglio 1897, p. 3 “Dernières nouvelles. Concentraction ou expansion en Afrique”. “Ultime notizie. Raccoglimento o espansione in Africa”). Ma quel fervore di attività di cui“L‟Italie” si compiaceva era presto contraddetto dalla disposizione data ai prefetti dalla Direzione Generale P.S. perché dissuadessero gli operai dal recarsi in Eritrea. Si trattava comunque di una disposizione soltanto temporanea, in quanto i lavori in corso dovevano sospendersi per l'imminente arrivo della stagione delle piogge (“L‟Italie”, 14 luglio 1897, p. 1 “N‟allez pas en Érytrée”. “Non andate in Eritrea"). “L‟Opinione Liberale” si schierò decisamente con Rudinì, ritenendo che avrebbe garantito la pace finché fosse rimasto al governo, dato che anche Menelich era contrario alla guerra. Era comunque necessario che anche in futuro il governo si uniformasse "alla volontà solennemente manifestata dal Paese nei comizi, dalla Camera dei deputati nel solenne memorabile voto sulla politica africana". Ai colonialisti ed ai sostenitori della guerra il giornale rivolgeva questo ammonimento: "con questa Camera e con questo ministero la loro partita è irrimediabilmente perduta" (“L‟Opinione Liberale”, 20 luglio 1897, p.1 “Il governo e l'Africa", fondo non firmato). “La Perseveranza” considerava l'unica decisione ragionevole il ritiro a Massaua; mantenersi entro il triangolo Massaua-Asmara-Keren come nel 1891 non appariva più una soluzione ragionevole
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perché a quella data l‟Oculè Cusai ed il Seraè non erano stati ancora incorporati nell'impero etiopico e potevano quindi formare un cuscinetto tra di esso ed i territori italiani. Non avrebbe garantito la sicurezza restare sull'altipiano fortificandolo: era quindi preferibile abbandonarlo (“La Perseveranza” , 4 agosto 1891, p. 1 “In Africa", articolo non firmato). Durò ancora a lungo il dibattito sul futuro dell'Eritrea. Ci fu anche la proposta di affidare lo sfruttamento della colonia ad una compagnia privata (Chartered Company), ipotesi sostenuta anche da un veterano del colonialismo, l' ammiraglio Carlo de Amezaga, per qualche tempo comandante de "L'esploratore", di stanza nel mar Rosso.305 De Amezaga illustrò quel progetto alla stampa riscuotendo l'approvazione de “L‟Italie”, che non riteneva però che la Camera avrebbe dato un voto favorevole (21 agosto 1897, p. 1 “Une compagnie commerciale pour l‟Erythrée” , fondo senza firma). Non sarebbero mancati i finanziatori, attirati dall'interesse del 5% offerto per i capitali dei sottoscrittori con garanzie del governo. La Camera che aveva visto 140 deputati votare per il ritiro dalla colonia, non avrebbe autorizzato quell'iniziativa, considerandola una speculazione capitalista ed a nulla sarebbe valso un tentativo di De Amezaga perché il Parlamento sostenesse il progetto. I deputati che avessero dato il loro appoggio avrebbero visto tramontare la loro fortuna politica. Non si diceva contrario a questa soluzione "Il Secolo. Gazzetta di Milano" (22-23 agosto 1897, p. 1 “La nota del giorno") a condizione che fosse esclusa ogni responsabilità dello Stato nell'attività della compagnia, i cui soci avrebbero dovuto affrontare con i loro capitali ogni possibile rischio. Qualche mese dopo il giornale pubblicava una lettera inviata da un lettore per proporre una soluzione ancora più radicale: vendere la colonia. Non mancavano precedenti analoghi: la Francia nel 1803 aveva venduto agli Stati Uniti la Louisiana, la Spagna e la Russia avevano poi venduto rispettivamente la Florida e l'Alaska sempre agli Stati Uniti. Non era quindi fuori dalla realtà vendere l'Eritrea: ed il lettore proponeva di venderla agli ebrei, disposti probabilmente a quell'acquisto, non essendo riusciti a comprare la Palestina. “Il Secolo” commentava così quel suggerimento: “Noi non siamo ebrei, non sappiamo quali siano le loro intenzioni ma se gli israeliti volessero liberare l'Italia dall'Eritrea, non esiteremmo a proclamarli benemeriti della patria" (“Il Secolo. Gazzetta di Milano", 15- 16 ottobre 1897, p. 1 “Si può vendere l'Eritrea?").306
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Sull'attività di de Amezaga in Eritrea vedi "Il Sultanato di Raheita e la colonia Eritrea" di Piero Ardizzone, "Africana. Rivista di studi extraeuropei" 2014, numero unico. 306 Di un possibile insediamento degli Ebrei d'Europa in Etiopia si parlò nel 1936, al tempo della conquista italiana, anche in considerazione del fatto che da tempo immemorabile viveva in quella regione una popolazione di fede ebraica, i Falascia. L'Unione delle comunità ebraiche italiane, d'intesa con le autorità statali, affidò una missione esplorativa a Carlo Alberto Viterbo. Cfr. di C.A. Viterbo "Ebrei d'Etioipia. Due diari (1936 e 1976)". Giuntina, Firenze 1993.
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Circolò pure la voce di una cessione dell'Eritrea al Belgio, che già controllava il grande Stato del Congo, per iniziativa del re Leopoldo II. L'ipotesi sembra confermata da un viaggio a Bruxelles del generale Dal Verme, grande esperto di questioni coloniali, motivato ufficialmente come una missione presso l‟Union Africaine: ma non si ebbe alcuna attuazione di quel supposto progetto, vivacemente criticato dalla "Tribuna": “sarebbe stata una prova della debolezza politica italiana cedere l'Eritrea ad uno stato di secondo ordine come il Belgio, che avrebbe esteso con quella cessione il suo già vasto impero fino al mar Rosso. Oltre ai quotidiani si interessò del problema la "Nuova Antologia", dedicandovi più saggi; primo in ordine di tempo fu pubblicato quello del generale Domenico Primerano, intitolato "Che cosa fare dell'Eritrea" (16 ottobre 1897, pp. 636): che “Il Popolo Romano” riprodusse a puntate il 18,19, 20 ottobre 1897. Agli idealisti contrari al colonialismo per principi umanitari, ed ai materialisti contrari a spese destinate ad essere inutili perché era impossibile diffondere la civiltà tra i barbari, il generale faceva presente che tutti i popoli, compresi gli italiani, avevano attraversato un periodo di barbarie prima di civilizzarsi: e l'Etiopia non doveva essere paragonata allo sterile Sahara, avendo potenzialità economiche così come le aveva l'Eritrea; gli anticolonialisti sostenevano che sarebbe stato preferibile investire in Italia le risorse disponibili; ma l'Eritrea avrebbe dato frutti più copiosi di quelli ottenuti in Italia, se a tempo debito vi si fossero fatti oculati investimenti. Primerano condannava la politica rinunciataria dell'Italia, a causa della quale si erano persi l'Egitto e la Tunisia e ora si rischiava di perdere l'Eritrea. Gli emigranti italiani si erano in passato recati in terre più lontane, ma più accoglienti dell'Eritrea, il progresso tecnologico però rendeva possibili miglioramenti notevoli nelle condizioni della colonia, purchè si agisse in modo attento e coerente, evitando di largheggiare per spese superflue e lesinando invece su quelle necessarie, come era avvenuto in Eritrea, commettendo errori anche nel campo militare. L'incertezza regnava nei rapporti con il negus e pertanto non si erano ancora definiti gli accordi per i confini; non era da escludersi una nuova "grossa guerra" con l'Etiopia e ritirarsi a Massaua sarebbe stata una prova di debolezza tale da incoraggiare Menelich ad attaccare. L'Italia senza iattanza, ma con fermezza, doveva conservare la sua colonia, rafforzando il suo prestigio, che l'abbandono avrebbe invece compromesso; erano allettanti le prospettive economiche poiché Massaua era il porto migliore del mar Rosso per gli scambi commerciali con l'altipiano; era importante la posizione dell'Eritrea anche da un punto di vista strategico e politico, essendo essa posta tra il Nilo ed il mar Rosso.
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L'alternativa non andava posta fra africanismo ed antiafricanismo: si doveva scegliere tra l'espansione o la rinuncia a territori necessari al commercio ed alla emigrazione italiana. Conservare la colonia significava attirare capitali anche stranieri. In quanto al problema se convenisse mantenere in Eritrea un governatore militare o sostituirlo con un civile, Primerano affermava che era soprattutto necessario scegliere una persona prudente ma decisa, capace di imporsi e di agire con costanza, oltre ad essere fiducioso nel futuro della colonia. Dopo le sconfitte subite era preferibile un governatore militare, alieno però da pericolose avventure belliche, una volta consolidata la pace poteva aversi un governatore civile. Ancora sulla “Nuova Antologia” il 16 novembre 1897 appariva un articolo di Adolfo Rossi, giornalista del "Corriere della Sera” conoscitore dell'Eritrea dove si era più volte recato ("La incerta politica africana", pp. 344-356). A differenza di Primerano, Rossi credeva poco alle possibilità economiche della colonia: al confronto era molto più fertile l‟Harrar, l'Eritrea poteva interessare soltanto i cacciatori grazie alla sua numerosa fauna. Fino ad allora l'occupazione italiana era giovata solo a difendere la popolazione dalle razzie. Il giornalista criticava le iniziative militari culminate nel disastro di Adua; per giustificare la sua condotta imprudente Baratieri aveva descritto il Tigrè come un paese fertile e ricco di boschi: affermazione falsa, poiché nel Tigrè non esistevano boschi. Sarebbe stato diverso l'esito della guerra se ci fosse stato un comandante più avveduto, contrario ad una eccessiva espansione. A conferma di tale opinione Rossi citava le critiche fatte alla colonizzazione francese del Canada da Carlo Botta nella sua "Storia della guerra dell'indipendenza degli Stati Uniti d'America": i francesi avevano esteso eccessivamente i territori della colonia, a differenza degli inglesi preoccupati di consolidare il possesso dei territori già conquistati, piuttosto che mirare ad ulteriori conquiste. Rossi giudicava ragionevole il proposito del governo italiano di non abbandonare l'altipiano e, fatta la pace con Menelich, di istituire in Eritrea un governo civile interessato allo sviluppo economico nel rispetto dei diritti degli indigeni; il proposito meritava l'approvazione del Parlamento e del paese, ma il giornalista aveva scarsa fiducia nella sua possibile attuazione, poiché giudicava incerta e contraddittoria l'azione del governo, diviso tra le aspirazioni ad un progresso economico ed i sogni di rivincita, attestati dalla costruzione di nuove fortificazioni. Era stato fatale l'errore di ritenere possibile il controllo di un territorio vasto quanto l'Italia con pochi battaglioni. Erano molti i responsabili di quella dannosa illusione; scriveva Rossi: "l'infatuato, l'insipiente non fu il solo Baratieri. No, i colpevoli furono parecchi: la loro parte di responsabilità hanno anche il Parlamento ed il paese".
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Secondo Rossi bisognava rinunciare ai propositi di rivincita, poiché l'Etiopia non era più un paese diviso e debole come ai tempi di Teodoro e di Giovanni; Menelich poteva contare sull'unità politica del paese e disponeva di un forte esercito. Ed infine occorreva mirare all'autosufficienza economica della colonia, seguendo l'esempio degli inglesi che per mantenersi a Zeila e Berbera utilizzavano soltanto i proventi doganali. È da ricordare che lo stesso consiglio l'aveva dato Crispi a Baratieri, senza tener conto della povertà del paese dal quale non si potevano ricavare risorse adeguate alle necessità. Nel dibattito sul futuro dell'Eritrea apertosi sulla "Nuova Antologia" intervenne ancora un generale, Carlo Mezzocapo, occupandosi soprattutto dei confini e delle questioni militari ("Nuova Antologia", 1° dicembre 1897, pp. 430 “ L'Eritrea ed i suoi confini"). Mezzocapo ricordava gli insuccessi militari subìti ancora prima di Adua e riteneva poco sicuro il confine del Mareb Belesa: la valle proveniente da Asmara tagliava in due il paese e offriva un facile accesso agli eventuali invasori: non potevano trattenerli le fortificazioni, in grado di offrire un appoggio alle truppe, ma che da sole non potevano assicurare la difesa. Il generale manifestava pure poca fiducia negli accordi diplomatici con il negus, poiché questi non esercitava sui ras una sicura autorità. Per aver confini sicuri bisognava basarsi sulla situazione di fatto, senza pretendere riconoscimenti formali da Menelich, perché concedendoli avrebbe ancor più indebolito la sua posizione nei confronti dei ras; per rafforzare in Menelich le aspirazioni alla pace, occorreva dimostrargli gli amichevoli propositi dell'Italia, interessata solo a diffondere la civiltà. La permanenza italiana in Eritrea conveniva anche ad altre nazioni; soprattutto all'Inghilterra, poiché il taglio dell'istmo di Suez aveva aperto una via diretta verso l'India e tutta l'Asia orientale, di grande importanza commerciale e strategica; era interesse inglese che la costa occidentale del mar Rosso con Massaua restasse nelle mani di una potenza amica come l'Italia. I pilastri della politica estera italiana erano la Triplice Alleanza nel continente europeo e l'amicizia inglese sul mare; e tale amicizia non doveva essere compromessa dall'abbandono dell'Eritrea, contrario agli interessi inglesi. Secondo Mezzocapo era quindi necessario conservare la colonia, ma stabilendo confini sicuri ed evitando le imprudenze e gli errori del passato, di cui tutti erano responsabili. Nel corso di quel dibattito un tema ricorrente era l'opportunità di un governatore civile piuttosto che uno militare perpetuatosi fino ad allora: nel 1892 si era costituita un'amministrazione cosiddetta civile, ma di fatto era sempre rimasto in carica un governatore militare. Per evitare gli errori dovuti alle tendenze bellicose proprie dei militari, sempre più l'interesse della stampa e dei politici dopo Adua si concentrò sulla necessità di affidare ad un civile l'incarico di governatore dell'Eritrea.
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“L‟Italie” fu la prima ad occuparsi del problema, confermando il proposito del governo di dare alla colonia un governatore civile, da scegliere tra un politico di grande prestigio ovvero un diplomatico di carriera con esperienze africane: al momento non si andava oltre quella generica indicazione e non si facevano nomi (12 agosto 1897, p. 3 “Dernières Nouvelles. Le Gouverneur civile de l‟Érytrée”. “Ultime notizie. Il governatore civile dell‟Eritrea”). Ma ben presto circolarono i nomi dei probabili candidati, in un rapido susseguirsi di conferme e smentite. Il "Corriere della Sera" (22-23 agosto 1897, p. 1 “Il governatore civile per l'Eritrea e il residente italiano in Addis Abeba non furono ancora nominati") definiva infondata la notizia del londinese "Daily Mail” circa la nomina del maggiore Nerazzini a governatore civile e del capitano Ciccodicola a residente presso il negus: c'è da sottolineare che la nomina di un militare come Nerazzini avrebbe significato proseguire nella finzione di considerare civile un ufficiale.
Il
“Corriere” ricordava pure il rifiuto del prefetto Codronchi ad accettare la nomina a governatore, secondo "La Tribuna" offertagli dal governo. Trovava credito invece presso il "Corriere" la candidatura a governatore che sarebbe stata proposta al sindaco di Milano, Vigoni, che aveva soggiornato in Africa, partecipando nel 1878 alla spedizione organizzata dall'industriale Carlo Erba, riferendone in un suo volume, "Abissinia" (Hoepli, Milano 1881). Ma si arenò anche quella proposta, poiché Vigoni non si dimostrò propenso ad accettarla, forse anche per la scarsa considerazione che aveva degli abissini, descritti nella sua opera come refrattari alla civiltà ("Corriere della Sera", 24-25 agosto 1897, p. 3 “Note e profili "). Il nome che fu fatto con maggiore insistenza, riscuotendo un notevole credito, fu però quello di Romualdo Bonfadini,307 subito osteggiato dagli africanisti che lo consideravano il liquidatore della colonia.
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Romualdo Bonfadini, valtellinese (17 settembre 1831 - 14 ottobre 1899) giovanissimo partecipò alle 5 giornate di Milano nel 1848; si laureò in legge a Pavia. Dopo aver in gioventù manifestate tendenze democratiche-rivoluzionarie, subì il fascino di Cavour e si convertì ai principi della monarchia costituzionale; fu un giornalista della moderata "La Perseveranza", organo milanese fondato nel 1880; non partecipò alla seconda guerra d'indipendenza nel 1859, ma combattè invece nella terza, quella del 1866. Fu eletto deputato per la prima volta nel collegio di Adria per la decima legislatura (1867-1870) ed ebbe da Visconti-Venosta importanti incarichi diplomatici, come la missione esplorativa a Roma nel 1867 ed a Parigi nel 1870, in occasione della guerra franco-prussiana, sconsigliando la partecipazione italiana a fianco della Francia. Ancora eletto deputato ad Adria nel 1870 (XI legislatura) e nel 1874 (XII legislatura). Nel 1875 fu il relatore della Commissione parlamentare d'inchiesta in Sicilia (cfr. "L'inchiesta parlamentare in Sicilia" di Piero Ardizzone "Quaderni del Meridione", fascicoli 1 e 2 1958). La sua nuova elezione a deputato a Clusone nel 1876 fu annullata per irregolarità e rientrò alla Camera solo nel 1886, venendo eletto ancora a Clusone. Appoggiò Depretis e si mantenne ostile a Crispi; nel 1884 divenne presidente del Consiglio provinciale di Sondrio, nel 1891 fu nominato consigliere di Stato e nel 1896 senatore.
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A lui gli avversari contestavano l'inesperienza amministrativa, ritenendolo un letterato. A tale accusa replicava il "Corriere della Sera" ricordando la sua lunga esperienza di deputato, di presidente dell'amministrazione provinciale della Valtellina, oltre che di consigliere di stato esperto di questioni giuridiche. Il giornale riconosceva che gli difettavano specifiche esperienze africane; ma in realtà solo pochi ufficiali potevano vantarle e spesso erano considerati esperti conoscitori della realtà dell'Eritrea personaggi che in qualità di turisti avevano soggiornato nella colonia per qualche settimana; Bonfadini avrebbe presto acquistato le conoscenze necessarie e in capo a tre mesi avrebbe padroneggiato la situazione ("Corriere della Sera", 31 agosto - 1°settembre 1897, p. 1 “La gran collera degli africanisti”, fondo senza firma). Altri nomi erano comunque fatti: lo stesso "Corriere" presentò l'ex contrammiraglio Corsi come un possibile candidato (11-12 ottobre 1897, p. 1 “L‟ex contrammiraglio Corsi all'Eritrea"): candidatura effimera, presto svanita, e che continuava la finzione di un militare, seppure pensionato, spacciato per governatore civile. Contro la nomina di Bonfadini si accanì soprattutto “Il Mattino”, ricorrendo ad epiteti ingiuriosi ed a considerazioni che poco riguardavano la politica. Tartarin descriveva così Bonfadini: “… è un pezzo d'uomo tagliato con l'eleganza di un rinoceronte, con un naso bitorzoluto simile ad un peperone, e il quale in tutte le sue cose mette la grazia di un pachiderma e l'intelligenza di un mulo. Costui ha voluto far tutto e non ha mai fatto nulla". Era un fallito in ogni campo, nella politica come nella letteratura e nel giornalismo: "… quest'uomo dunque non val niente e non è buono a nulla". Per compensarlo delle sue costanti adulazioni Rudinì l'aveva nominato consigliere di Stato con uno stipendio annuo di 8 mila lire e fatto poi senatore con il diritto a viaggiare gratis in treno; ora voleva "farne il governatore, o meglio un curatore di fallimento della Colonia Eritrea (24 mila lire di stipendio annuo)". Era una nomina che tutti avrebbero criticato ("Il Mattino", 27-28 agosto 1897, p. 1 “La farsa", fondo di Tartarin). Si rallegrava poi “Il Mattino”quando si diffuse la smentita della nomina di Bonfadini ostacolata dalla sua eccessiva loquacità, secondo alcuni; per altri invece le difficoltà provenivano da un alto personaggio (il re probabilmente) contrario a quella nomina; bisognava inoltre fare i conti con
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Continuò a svolgere attività giornalistiche collaborando alla "Rivista Europea", alla "Illustrazione Italiana", al "Corriere della Sera", alla "Nuova Antologia" e fu direttore de "Il Politecnico". Fu un sostenitore delle autonomie regionali e, da conservatore illuminato, nel 1898 consigliò comprensione e clemenza per gli autori dei gravi disordini a Milano, opponendosi poi nel 1899 alle leggi eccezionali di Pelloux (articoli del 16 dicembre 1898 e 16 luglio 1899 sulla "Nuova Antologia").
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l'ostilità dimostrata da tutti i militari (31 agosto-1° settembre 1897, p. 1 “La curée africana. Povero Bonfadini. Egli sarebbe strappato alla greppia"). L'ostilità dei militari era comprensibile: Bonfadini, inebriato alla prospettiva della nomina, si era lasciato andare affermando di voler fare piazza pulita di essi; considerata l'ignoranza ed il cocciuto sentimento antiafricano di Bonfadini, gli unici suoi titoli per la nomina erano le sue servili adulazioni a Rudinì ("Il Mattino", 1-2 settembre 1897, p. 1 “Il bue scornato", fondo di Pantagruel). La situazione sembrava evolversi a danno di Bonfadini e sembrava decollare la candidatura di Nerazzini, che aveva trattato con Menelich i problemi della pace e dei confini, riscuotendone la fiducia; per cui sarebbe andato comunque in Eritrea, se non da governatore come vice, se non altro, per rassicurare il negus sul proposito italiano di lasciare la colonia ("Il Mattino", 2-3 settembre 1897, p. 1 “La curée africana. Nerazzini governatore?"). Tartarin si opponeva non solo a quella eventuale nomina, ma in generale ad un qualsiasi governatore civile, scrivendo:" Tutta quanta l'Etiopia è stata sempre governata manu militari. Al di fuori del soldato e del prete gli abissini non riconoscono altre autorità". Di fronte all'ostinazione di Rudinì a sostenere la candidatura di Bonfadini, Tartarin faceva sua la filosofia del tanto peggio, tanto meglio, rallegrandosi per la nomina di un uomo tanto ignorante ed inetto, per cui sarebbe stata screditata l'azione del governo civile; al giornalista napoletano sorrideva l'idea di un Bonfadini in partenza per Massaua "impavido tra i torsi di cavolo"("Il Mattino", 3-4 settembre 1897, p. 1 “La partenza ed il ritorno", fondo di Tartarin). Decisamente favorevole ad un governatore militare "Il Mattino" si rallegrava perché il colonnello Di Mayo aveva accettato la nomina a comandante militare in Eritrea; il giornale riteneva che l'ufficiale avrebbe avuto pieni poteri anche nel campo civile: “Il col. Di Mayo va in Africa come vero solo governatore dell'Eritrea" , scriveva compiaciuto il giornale, attribuendo a Di Mayo l'affermazione di non voler essere il liquidatore della colonia ed il proposito di conservare l'altipiano: Visconti-Venosta era dello stesso parere e Rudinì si era dovuto rassegnare ad accettare le dichiarazioni del colonnello ("Il Mattino", 7-8 ottobre 1897, p. 1 “Informazioni politiche. Il colonnello Di Mayo a Massaua”, nota siglata L.M.). Oltre a “Il Mattino” aveva preso posizione contro Bonfadini anche “La Tribuna”, senza usare però toni offensivi e sguaiati. Il giornale faceva il punto della situazione osservando che c'erano tre candidature: quella del senatore Bonfadini, presidente dell'Associazione della stampa; quella del sindaco di Milano, Filippo Vigoni, quella dell'ammiraglio in pensione Carlo de Amezaga. Bonfadini era un convinto antiafricanista e quindi , secondo “La Tribuna”, conveniva cedere l‟Eritrea piuttosto che affidarla a lui; avrebbe avuto maggior senso la nomina di Vigoni, ma questi si era detto contrario ad accettarla; de Amezaga, infine, aveva proposto di cedere la colonia ad una
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compagnia privata e quindi la sua nomina avrebbe rafforzata quella soluzione ("La Tribuna", 25 agosto 1897, p. 1 “La terna pel governatore civile dell‟Eritrea”). Non si poteva intravedere una soluzione: “La Tribuna” si limitava a smontare le varie ipotesi in circolazione, senza però fare una concreta proposta alternativa; il giornale insisteva a vedere in Bonfadini il liquidatore della colonia, rifiutando di definirlo "il governatore del negus”, poiché Menelich sceglieva i suoi governatore “con criteri più sani” (1° settembre 1897, p.1 “Il governatore del negus”). Il principale avversario alla nomina di Bonfadini, affermava “La Tribuna”, era il re, che aveva rifiutato di firmare il decreto propostogli (17 settembre 1897, p. 1 “Informazioni . La situazione"). Tutto sembrava tornare in alto mare: restava bloccata la nomina di Bonfadini e per motivi sconosciuti era stata rinviata la partenza del colonnello Di Mayo; sfumava così l'ipotesi di accentrare in lui tutti i poteri, civili e militari. L'incerta e contraddittoria politica africana dell'Italia era incapace di trovare una soluzione ("La Tribuna", 16 ottobre 1897, p. 1 “Nuove esitazioni?” Fondo non firmato). “L‟Italie!” si schierava a favore di Bonfadini, dando per già decisa la sua nomina: mancava solo la firma del re dal giornale ritenuta sicura (7 agosto 1897, p. 3 “Dernières Nouvelles. Érythrée et Ethiopie”). Si spingeva poi “L‟Italie!” ad affermare che Bonfadini aveva voluto documentarsi sull'Africa consultando i parlamentari informati al riguardo, in particolare Franchetti esperto dei problemi della colonizzazione, fissava pure la partenza di Bonfadini per l'Eritrea nella prima metà di ottobre (4 settembre 1897, p. 1 “Dernières Nouvelles. Érythrée”). “L‟Italie!” ribadiva il suo favore ad un governo civile, in polemica con "l'Italia militare", che considerava invece tale scelta prematura, prima che l'Eritrea fosse divenuta una pacifica colonia di agricoltori (“L‟Italie!”, 10 ottobre 1897, p. 1 “Le gouvernement civil en Érithrée”; “Il governo civile in Eritrea"). In un successivo articolo di fondo non firmato“L‟Italie!” (23 ottobre 1897, p. 1 “La colonie Érythréenne et l‟armée”. “La Colonia eritrea e l‟esercito”) ammoniva i militari a non avanzare eccessive richieste per il bilancio coloniale, spingendo il Parlamento a lasciare l'Eritrea; nello stesso numero il giornale scriveva che il colonnello Di Mayo aveva rinunciato al comando militare nella colonia perché in disaccordo con il governo sul programma da realizzare; probabilmente avrebbe ripreso le funzioni di addetto militare presso l'ambasciata d'Italia in Russia (p. 3 “Derniéres Nouvelles. Le colonel Di Mayo”). Divenne aspra in seguito la polemica de“L‟Italie!” con i militari, cui si rimproverava di chiedere un bilancio coloniale ricco perché nutrivano propositi bellicosi, volendo essi risolvere i problemi con la
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forza e non con la diplomazia, disposti anche ad andare contro la volontà del governo, come avevano fatto Orero con la marcia su Adua senza rispettare gli ordini di Crispi e Baratieri con l'occupazione di Cassala fatta di propria iniziativa (27 ottobre, p. 1 fondo privo di firma "La colonie Érythréenne et l‟armée”; 31 ottobre 1897, p. 1 “Les militaires et la colonie Érythréenne” articolo di fondo non firmato). A questo punto i contrasti divennero più accesi: non si trattava più di scegliere un determinato personaggio come governatore, ma di stabilire una linea politica generale: insisteva su questo punto “L'Opinione Liberale", difendendo la candidatura di Bonfadini perché avrebbe fatto capire a tutti che era finito il tempo delle avventure; gli oppositori affermavano che Bonfadini era un bravo giurista, ma del tutto privo di esperienze amministrative; in sintonia con il parere espresso da "Il Saraceno" sul Don Chisciotte, "L'Opinione" riteneva quella critica frutto di ingiusti pregiudizi contro i giornalisti ("L'Opinione Liberale" 28 agosto 1897, p. 1 fondo non firmato "Giornalista governatore!"). Fece ancora un intervento a favore di Bonfadini "L'Opinione" precisando di non voler fare una questione di persona, ma di volersi occupare del sistema politico e giuridico della colonia; il governatore doveva avere poteri decisionali ampi: ogni documento in partenza dalla colonia per Roma doveva essere preventivamente da lui approvato, in modo da assicurare unità e coerenza di indirizzo nell'azione amministrativa. ("L'Opinione Liberale" 26 agosto 1897, p. 3 "Bonfadini governatore dell'Eritrea"). Ribadito che, come avveniva in tutti i paesi civili, occorreva occuparsi dei problemi senza personalismi dannosi, "L'Opinione" riteneva che compito di Bonfadini doveva essere realizzare economie: il bilancio della colonia era troppo dispendioso, adatto a tempi di guerra; il neo-governatore avrebbe dovuto agire in tal senso, mettendo da parte ogni ambizione espansionistica ("L'Opinione liberale" 6 settembre 1897, p.1 "A Massaua", fondo non firmato). Anche "La Perseveranza" dava fiducia a Bonfadini: data la sua autorevolezza politica sarebbe stato un governatore gradito al negus e non era necessario affiancargli Nerazzini in qualità di consigliere ("La Perseveranza" 26 agosto 1897, p.1 "Bonfadini governatore dell'Eritrea"). “Il Popolo Romano” si chiamava fuori dalla contrapposizione fra un africanista o un antiafricanista da scegliere come governatore: tale distinzione aveva poca importanza, occorreva che si trattasse di persona disposta ad agire per il bene del paese e al corrente dei problemi della colonia (25 agosto 1897, p. 1 “La risoluzione per l'Eritrea", fondo non firmato). Fatto raro, non solo giornali moderati come "L'Opinione Liberale" e "La Perseveranza", erano favorevoli alla candidatura Bonfadini: anche il giornale democratico "Il Secolo. Gazzetta di Milano" si diceva favorevole per l'indipendenza di giudizio da lui sempre dimostrata e per la sua avversione ai falsi patrioti sostenitori del colonialismo: con quei precedenti sicuramente non
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avrebbe suscitato conflitti in Africa. "E questo è già qualcosa, aspettando la soluzione logica e definitiva: quella di venir via", era la conclusione (27-28 agosto 1897, "La nota del giorno"). Precorrendo i fatti a fine settembre 1897 "Il Secolo" dava già Bonfadini in partenza da Napoli per l'Africa (24-25 settembre 1897, p. 1 “Bonfadini a Massaua"), salvo però a rettificare subito la notizia (25-26 settembre 1897, p. 1 “La verità su Bonfadini"): l'aspirante governatore aveva telegrafato da Sondrio ad un amico che non c'era ancora una decisione definitiva per la sua nomina; in attesa del consenso del re, cui spettava l'ultima parola, si era messo a disposizione del governo. E la decisione del re, come già detto, fu negativa: "Il Secolo" se ne chiedeva le ragioni, asserendo: "Il divieto venne dall'alto. Il ministro è il responsabile, ma chi fa non è lui". Bonfadini era malvisto a Corte perché aveva difeso Bonghi autore dell'articolo "Dell'ufficio del principe", pubblicato sulla "Nuova Antologia" e sgradito al re. Bonghi si era poi scusato e aveva ottenuto il perdono reale; non era stato così per Bonfadini, considerato nemico della Corona pur essendo un moderato: "E per questo non andrà nel Eritrea. Vi sarà mandato un soldato, pericolo grave per la pace, perché i soldati mettono avanti tutti i pregiudizi della forza, oppure qualche livrea di Corte", profetizzava con amarezza il giornale ("Il Secolo. Gazzetta di Milano", 27-28 settembre 1897, p. 1 “Intrighi”). La prospettiva di un governatore militare riusciva naturalmente sgradita anche all' "Avanti!". I militari andavano sempre in cerca di pericolose imprese, come aveva fatto Orero con la sua marcia su Adua, attribuita ad una sua disobbediente iniziativa personale: ma secondo il giornale socialista Orero in realtà aveva agito con l'appoggio del re e contro il volere del governo. Era pericoloso restare in Africa dopo il fallimento del tentativo di Rudinì per la nomina di un governatore civile: a Rudinì si era fatto capire che “l'Africa deve essere un campo militare". L'unico rimedio per evitare nuove sconfitte, affermava l' "Avanti!", "era venir via dall'Africa, subito e per sempre" ("Avanti!", 1° novembre 1897, p. 1 “ L‟unico rimedio ", fondo non firmato). Ma le cose andarono diversamente ed alla fine si giunse ad una soluzione: dopo la girandola di candidature andate tutte a male, arrivò la volta buona quando si fece il nome di Ferdinando Martini, politico di provata esperienza, (sedeva alla Camera dal 1875), già segretario generale del Ministero della P.I. e poi titolare di quel dicastero nel governo Giolitti, monarchico liberale, poco amico di Crispi e vicino invece a Zanardelli, abile mediatore (aveva favorito l‟intesa tra Rudinì e Zanardelli), fine letterato e giornalista, iscritto alla loggia massonica di Roma dal 23 novembre 1893, fedele agli ideali laici del Risorgimento e, soprattutto, non ignaro dei problemi dell‟Eritrea, dove era stato nel 1891 come vice-presidente della regia commissione d‟inchiesta sulla condizione della Colonia dopo lo scandalo degli abusi polizieschi commessi dal tenente dei carabinieri Livraghi: esperienza fondamentale che ne aveva fatto un convinto africanista, autore dei volumi “Nell‟Affrica italiana”,
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che illustrava l‟attività della Commissione d‟inchiesta, e “Cose affricane”, raccolta di suoi scritti e discorsi sull‟Africa. Era sempre intervenuto nei dibattiti parlamentari sui problemi coloniali, condannando le azzardate iniziative militari: erano questi i precedenti politici e culturali di Martini, che portavano alla sua candidatura a governatore civile, accolta però con scetticismo da giornali autorevoli, malgrado i titoli che egli poteva vantare. “L'Opinione Liberale” non riteneva fondata la notizia della sua candidatura, opponendo questa pregiudiziale: non voleva esprimere sfiducia nell'uomo e nelle sue qualità, ma non si poteva nominare un governatore prima della cessione di Cassala e del nuovo assetto amministrativo della Colonia (10 novembre 1897, p. 3 “Ultime notizie. L'on. Ferdinando Martini"). Sulla stessa posizione si collocava "La Perseveranza", giudicando la notizia della candidatura Martini un "ballon d‟essai” per meglio chiarire la situazione (10 novembre 1897, p. 3 “Il governatore dell'Eritrea"). Lo stesso giornale ipotizzava la possibilità di un incarico provvisorio a Martini fino alla definizione del problema di Cassala e della sua cessione ("La Perseveranza", 12 novembre 1897, p. 3 “La questione dell'Eritrea"). Insisteva ancora “La Perseveranza” nel giudicare infondata la voce di una candidatura di Martini: il suo programma non coincideva con quello del governo; avrebbe forse potuto avere un altro incarico, importante anche se non specificato in Eritrea ma ancora nulla era certo e definitivo (14 novembre 1897, p. 3 “La missione dell'on. Martini"). Malgrado l'ammissione di un possibile incarico, diverso da quello di governatore, da assegnare all'onorevole Martini, ancora “La Perseveranza" opponeva che la sua nomina non avrebbe rispettato le decisioni parlamentari del 22 maggio 1897, cui il governo era obbligato ad attenersi (17 novembre 1897, p. 3 “Ancora le voci infondate sul programma africano"). “L‟Italie” dal canto suo manteneva un prudente riserbo, senza sbilanciarsi a confermare o smentire: a titolo di cronaca riportava le voci, ormai diffuse da più parti, sull'eventuale nomina di Martini (10 novembre 1897, p. 1 “En Érythrée. Le gouveneur civil”), ma si affrettava qualche giorno dopo a definire fantasiose le notizie sulla sua nomina e sul suo programma; non escludeva il conferimento di un qualche incarico importante: ma era ancora lontana una decisione (“L‟Italie”, 14 novembre 1897, p. 3 “Derniéres Nouvelles. Le gouveneur de l‟Érythrée”). Meno scettico il “Corriere della Sera”: in una prima nota dava notizia di una candidatura di Martini, senza confermarla nè smentirla (8-9 novembre 1897, p. 1 “La candidatura di Ferdinando Martini al governo dell'Eritrea"); riferiva poi la possibilità di una nomina temporanea, giudicava significativo preferire Martini a Bonfadini, poiché ciò dimostrava che non si pensava più al ritiro dall‟Eritrea, cui
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Martini si era sempre opposto (“Corriere della Sera”, 9-10 novembre 1897, p.1 “Si riparla di un governatore civile per l'Eritrea e si accredita la candidatura Martini", articolo siglato K.). Qualche giorno dopo il “Corriere” esponeva il programma di Martini: bilancio annuo di 7 milioni (di cui due frutto dei proventi doganali), un corpo di soldati volontari italiani con una lunga ferma, prosecuzione fino a Guza della ferrovia Massaua-Saati, da realizzare con risorse locali, larga assegnazione di terreni agricoli ai coloni italiani, elasticità nella gestione dei fondi del bilancio, da utilizzare secondo le necessità del momento (12-13 novembre 1897, p.1 “Su quali basi l'on. Martini accetterebbe la missione in Africa"). Si era ormai prossimi alla conclusione: il "Corriere della Sera" affermava che era ufficiale l'offerta della nomina a Martini da parte del governo; restavano ancora da risolvere alcuni problemi: il coordinamento dei poteri civili attribuiti a Martini con quelli militari affidati al generale Caneva, fino a quel momento governatore incaricato, si pensava al giornalista Mercatelli come capo di gabinetto del governatore (19-20 novembre 1897, p.1 “A che punto sarebbero le trattative con Martini, pel governo dell'Eritrea"). Il giornale dava ormai per certa la sua nomina, rettificava soltanto che Mercatelli avrebbe avuto un incarico diverso da quello di capo-gabinetto venendogliene assegnato un altro; era quanto deciso dal consiglio dei ministri ed il sovrano aveva già firmato il decreto di nomina. Si precisava infine che il prolungamento della ferrovia fino a Guza, chiesto da Martini, non era dovuto a propositi offensivi, ma doveva soltanto servire alla difesa della fonte di Morcullo da cui era assicurato il rifornimento idrico di Massaua (Corriere della Sera, 21-22 novembre 1897, p. 1" La nomina di Martini sarebbe definitiva. Diversa missione che verrebbe affidata a Mercatelli"; 22-23 novembre 1897, p. 3 "Consiglio dei Ministri. La ratifica della nomina di Martini". Il programma della politica coloniale. Un punto di dissenso fra il governo a Martini" -articolo siglato K.). Il dissenso residuo riguardava il prolungamento della ferrovia; il Corriere ridimensionava il problema asserendo che Martini aveva chiesto di farla arrivare a Ghiza e non oltre, fino a Guza. Era progettata una linea telegrafica per Addis Abeba, la situazione politica era complicata dall'ostilità manifestatasi dopo Adua in molte tribù. Una parte della Camera restava ostile alla nomina di Martini, che in ogni caso sarebbe stata approvata dalla maggioranza governativa (Corriere della Sera, 23-24 novembre 1897, p. 1 "Ciò che Martini farà nella colonia. Come sarà accettata la sua nomina alla Camera" articolo siglato K). Ma esisteva un'opposizione alla nomina di Martini anche al di fuori della Camera, in quanto la sua nomina era considerata un espediente per avallare ulteriori iniziative coloniali sfruttando il suo prestigio. “Il Secolo. Gazzetta di Milano" (15-16 novembre 1897, p. 3 "Il dissenso di un deputato antiafricanista”) dava notizia di un applaudito discorso dell'on. Ottavi alla Torre Burri nel comune
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di San Giorgio, alla presenza degli on. Alessio e Wollenburg e di un folto pubblico per chiedere il ritiro delle truppe dall'Africa ed attaccava la nomina di Martini, definito "sirena allettatrice che sarà causa di nuove espansioni e di nuove spese". Si era trattato comunque di un episodio di scarsa importanza; "Il Secolo" attaccava ancora la candidatura di Martini perché non basata su esperienze amministrative e militari; riconosceva comunque al candidato una buona conoscenza dell'Eritrea, avendo dedicata ad essa la sua attenzione anche dopo l'esperienza fatta con la regia Commissione d'inchiesta nel 1891. La nomina era il frutto di un accordo politico tra Rudinì e Zanardelli e rappresentava un risarcimento per la mancata assegnazione a Martini del dicastero della P.I. da lui già diretto nel governo Giolitti (“Il Secolo. Gazzetta di Milano”, 24 novembre 1897, p.1 “La nota del giorno. Perché l‟on. Martini è governatore dell‟Eritrea?”). Ma gli attacchi de “Il Secolo” a Martini erano semplici punture di spillo a paragone di quelli rivoltigli da altri giornali. “Il Mattino” si dissociava dai consensi ottenuti dalla candidatura di Martini, dovuta a manovre sotto banco eseguite da Rudinì e Zanardelli più che ad una seria convinzione del governo. Martini non sarebbe riuscito ad imporre il suo programma, ammesso che ne avesse uno, "alla fluttuante volontà ministeriale, poiché anch'egli ha dimostrato di avere la coscienza africana più debole, più oscura e più mutevole che sia stata mai". Aveva cambiato opinione più volte: nel 1891 grazie all'esperienza fatta con la commissione d'inchiesta si era convertito all‟africanismo, ma nel 1896, dopo Adua, era divenuto "… apostolo della fuga, il predicatore dell'abbandono, il sottile sofista di tutte le cose bestiali ed infami perpetrate dal governo". Non meritava fiducia dopo che aveva appoggiato il ritiro da Adigrat e la cessione di Cassala; non era credibile che, andando in Eritrea, volesse "cercare di salvare le ultime macerie". La conclusione del tutto negativa era una stroncatura della figura di Martini: "Non è un soldato, non è un agricoltore, non è un amministratore, ha dimostrato di essere un vero martin…pescatore, girevole al vento. Gli manca quindi ogni autorità ed ogni forza, e non ci attendiamo nulla di buono da lui". ("Il Mattino", 20-21 novembre 1897, p. 1 "Martini", articolo di fondo di Tartarin). Altrettanto pesante, se non di più, era l'attacco sferrato dall‟ “Avanti!”, che attribuiva il fallimento della candidatura Bonfadini alla sua avversione" all'anima gretta e barbarica del militarismo". Erano rivolti attacchi personali a Martini, accusato di atti di nepotismo quando era ministro della P.I. (il giornale non specificava quali fossero stati) e di essere una nullità; egli sfuggiva "ad ogni definizione d'ordine politico. Qual è il suo programma? Con chi sta? Che fa? Che vuole?".
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Amico di tutti i benpensanti aveva dimostrato un ambiguo antimilitarismo: "scrisse contro le follie guerresche ma non disse cosa che offenda il sentimento militaresco". Da letterato compiacente "... per far piacere agli amici ed ai patroni, saprebbe, scommettiamo, far carte false". Il giornale socialista concludeva con una velenosa allusione alle sue difficoltà finanziarie per cui "il lauto stipendio ed i ricchi fondi segreti di governatore sarebbero una manna. Centomila lire! Quale bazzecola!" (“Avanti!”, 9 novembre 1897, p. 1 "Un'opera di carità", fondo non firmato). Non si trattava di calunniose invenzioni giornalistiche: Farini nel suo “Diario di fine secolo" riportava più volte la notizia del grave indebitamento di Martini con le banche, in particolare con la tanto chiacchierata Banca Romana di Tanlongo da cui, secondo Brin ministro degli Esteri nel governo Giolitti, avrebbe ricevuto 60 mila lire; successivamente Farini riportava pure un'affermazione di Inghilleri circa la volontà di Giolitti e Zanardelli di far cadere il governo Rudinì, aggiungendo: "il Martini poi ne è impaziente per bisogni pecuniari urgentissimi".308 Resta comunque da chiarire quale vantaggio Martini avrebbe potuto trarre dalla crisi del governo Rudinì; ripugna l'idea che egli si fosse potuto abbassare fino a divenire un oppositore prezzolato non si sa bene da chi. Contro le affermazioni dell‟ “Avanti!” intervenne "La Perseveranza" per ridimensionare le laute prebende che secondo l'organo socialista sarebbero spettate a Martini in qualità di governatore: bisognava accogliere con prudenza-ammoniva il giornale-le notizie sull'Africa, soggette ad interessate falsificazioni e distorsioni (22 novembre 1897, p. 3" Le solite false notizie. La posizione finanziaria"). Altri giornali fecero sentire la loro voce a favore di Martini. "Il Popolo Romano” si schierò subito a sua difesa non appena cominciarono a circolare le voci sulla sua candidatura, ritenuta ben accetta al Parlamento ed all'opinione pubblica; Martini avrebbe avuto a tempo determinato un incarico analogo a quello di governatore ("Il Popolo Romano” 9 novembre 1897, p. 3 "Ultime notizie. Pel governo dell'Eritrea"). Anche"Il Popolo Romano” manifestava apprezzamento per la posizione equilibrata di Martini nel corso del dibattito parlamentare sull'Africa nel maggio 1897, quando aveva richiesto di rinviare le conclusioni del dibattito ad un tempo successivo alla definizione degli accordi con Menelich ed aveva sostenuto la necessità di una politica di raccoglimento, rifiutando però l'idea di affidare l'altipiano a capi locali, in quanto tale soluzione non avrebbe eliminato le responsabilità italiane per 308
Domenico Farini "Diario di fine secolo" Bardi editore Roma 1961; volume I, nota 25 marzo 1893, p. 234; nota 5 aprile 1893 p. 245; nota 21 maggio 1893 p. 274 sui debiti di Martini con le banche; nota 7 aprile 1893, p. 247 affermazione di Brin circa 60 mila lire date a Martini dalla Banca Romana; volume II nota 2 maggio 1897 p. 1181: riportata l'affermazione di Inghilleri sull'interesse di Martini a far cadere il governo Rudinì "per bisogni pecunari urgentissimi".
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assicurare l'ordine e la pace ("Il Popolo Romano” 21 novembre 1897, p. 1 "L‟on. Martini e l'Africa", articolo privo di firma; 22 novembre 1897, p. 1 “La nuova politica africana”, fondo non firmato). Lo stesso giornale escludeva la possibilità, ventilata da “L‟Italie”, di un ritorno immediato di Martini alla vita parlamentare, lasciando l'incarico di governatore: non aveva bisogno di nuovi successi alla Camera dopo quelli già ottenuti; tornando in Italia Martini avrebbe dato conferma dell'accusa di incostanza mossagli dagli avversari. Era necessario che sia il governatore che i comandanti militari restassero a lungo nella colonia per poterla conoscere ed agire per il meglio ("Il Popolo Romano”, 23 novembre 1897, p. 1 “Per l‟Eritrea”, articolo di fondo non firmato). Martini aveva comunque – ricordava "Il Popolo Romano” - una buona conoscenza dell'Eritrea, grazie alla sua partecipazione alla Commissione d'inchiesta del 1891 ed al suo successivo costante interessamento ai problemi della Colonia, compreso quello militare, pensando di istituire un esercito coloniale formato per due terzi da indigeni e per il restante terzo da volontari italiani che avessero già compiuto il servizio di leva: si sarebbero così evitate "le querimonie” sui poveri coscritti inviati d'ufficio in Africa (26 novembre 1897, p. 1 "L'esercito coloniale", fondo privo di firma). Anche "La Tribuna" (19 novembre 1897, p. 1" Il governatore dell'Eritrea", articolo di fondo non firmato) approvava la nomina di Martini. Non dovevano prolungarsi le discussioni sul governatore civile o militare adatto alle Eritrea; Martini era l'uomo giusto, in quanto dotato di autorevolezza politica e di conoscenze coloniali. E soprattutto quella scelta significava che non si pensava più all'abbandono dell'Eritrea nell'opinione corrente collegato invece alla nomina di Bonfadini, ormai sfumata. Martini governatore attestava "un programma coloniale, se non meritevole di lode senza riserve, certo accettabile per il peggio che risparmiava al paese ". Frenava invece sulla candidatura di Martini “L‟Opinione Liberale”, definendo ancora incerta la decisione finale; il giornale ricordava di avere sempre sostenuto che non si poteva prenderla prima di avere stabilito l'assetto militare ed amministrativo della colonia; polemizzava con"Il Popolo Romano” definendo "cervellotiche e premature" le sue informazioni circa un programma concordato da Martini con il governo, che non poteva prendere misure diverse da quelle esposte nel maggio 1897 alla Camera dal presidente Di Rudinì e dal ministro degli esteri Visconti-Venosta (“L‟Opinione Liberale” 10 novembre 1897, p. 3 "Ultime notizie. L'onorevole Ferdinando Martini”; 17 novembre 1897, p. 3" Ultime notizie. Per l'Africa"). Il rispetto delle posizioni assunte dal governo a conclusione di quel dibattito parlamentare restava sempre la principale preoccupazione de “L'Opinione Liberale"; smentiva che fosse mutata la linea politica del governo, ma d'altra parte il giornale riconosceva la necessità di adeguare i programmi
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alla nuova situazione creata in Eritrea con la cessione di Cassala, con i nuovi confini verso l'Etiopia, con la decisione di sostituire un governo civile a quello militare. Era quindi logico apportare qualche modifica alle precedenti decisioni, fermo restando il principio basilare così enunciato dal presidente Rudinì: "… creare una situazione… per restringere l'occupazione militare dell'altipiano e ridurla possibilmente alla sola Massaua ". A tale principio si sarebbe dovuto attenere Martini, verificando come attuare il programma del governo, verifica che non significava ignorare o stravolgere la linea politica già affermata da Rudinì. Pur giovandosi del necessario appoggio dei militari, Martini aveva la capacità di trasformare la colonia militare in una colonia civile, operando con intelligenza e costanza (“L‟Opinione Liberale”, 22 novembre 1897, p. 3 "Ultime notizie. Il governatore civile dell'Eritrea"). “L‟Italie” aveva accolto con prudenza le prime notizie sulla nomina di Martini, per evitare di essere poi smentita dai fatti: erano state affossate le candidature di Bonfadini e di altri ancora; ma una volta iniziati i colloqui fra Martini, Rudinì e Visconti-Venosta, cui in seguito avevano partecipato pure i ministri Brin e Pelloux, il giornale sostenne che erano state ormai superate le difficoltà, anche se era doveroso attendere decisioni del re (“L‟Italie”, 16 novembre 1897, p. 3 "Derniéres Nouvelles. Le gouvernement de l‟Érytrée”; 19 novembre 1897, p. 3 "Derniéres Nouvelles. L‟on. Martini”). Restavano da individuare i tagli da apportare al bilancio della colonia, ma“L‟Italie” aveva fiducia nella saggezza politica di Martini che dopo soli tre mesi avrebbe saputo dare indicazioni cui il governo si sarebbe uniformato (21 novembre 1897, p. 3 "Derniéres Nouvelles. L‟administration de l‟Érytrée). Una volta approvata dal Consiglio dei ministri la nomina di Martini, "L‟Italie” intonò un peana in suo onore: "Il était bien difficile de mieux choisir. En effet M. Martini est non seulemente un homme de beaucoup de talent, mais aussi un esprit équilibre et sensé, capable de bien juger une situation et de ne jamais la compromettre par des résolution precipitées". ("Era molto difficile scegliere meglio; in effetti il signor Martini non è soltanto un uomo di molto talento, ma anche uno spirito equilibrato ed assennato capace di giudicare bene una situazione e di non comprometterla mai con decisioni precipitose”). Martini avrebbe saputo superare ogni difficoltà, “L‟Italie” esprimeva un solo timore, che subisse la nostalgia dei successi ottenuti alla Camera e volesse quindi tornarvi; resistere a quella tentazione era il servizio più prezioso che egli potesse rendere al Paese (23 novembre 1897, p.1 “Le gouvernement de l‟Érythrée”, fondo non firmato). Tesseva le lodi di Martini anche il naturalista Schweinfurt in un'intervista al "Giornale di Sicilia", ripresa da “L‟Italie”. Il naturalista tedesco approvava la nomina di Martini, ammirandone lo studio attento a seguito del quale conosceva bene i problemi della colonia. Il neo governatore d'intesa con
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il governo avrebbe attuato una saggia politica di raccoglimento, sfruttando il ruolo di Massaua come porto naturale del vasto retroterra e valorizzando le risorse agricole del paese, ricco al suo interno di piantagioni di caffè, cotone, caucciù. L'Eritrea occupava inoltre una posizione strategica ed era interesse italiano conservare la colonia: era sicuro Schweinfurt che la stragrande maggioranza degli italiani in caso di un referendum si sarebbe pronunciata in tal senso. Era inevitabile - concludeva Schweinfurt - un'espansione verso l'Etiopia, dove gli italiani erano ben visti malgrado il recente sanguinoso conflitto (“L‟Italie” 28 novembre 1897, p. 1 “L‟Érythrée. Entrevue avec M. Schweinfurt”. “ L'Eritrea. Intervista con il signor Schweinfurt"). “L‟Africa italiana. Gazzetta di Massaua" era rimasto a lungo silenziosa riguardo all'ipotesi di un governatore civile; solo alla fine di ottobre 1897 aveva pubblicato un articolo sull'arrivo, ritenuto imminente, del colonnello Di Mayo, designato al comando militare, ma in grado anche di svolgere attività amministrative civili e politiche grazie alla sua conoscenza della situazione della colonia, dove godeva pure di una larga popolarità fra gli indigeni; pertanto - concludeva il giornale - "si accoglie come la soluzione più opportuna quella di lasciare completamente a lui la cura della sistemazione dei confini e della definizione di tutte le altre questioni…”: niente di immutato quindi e conferma di un governo militare.“Notizie e informazioni. Il colonnello Di Mayo”). Soltanto a distanza di un mese, alla fine del novembre 1897, "L‟Africa italiana” tornò ad occuparsi dell'argomento: ero ormai assodata la notizia della nomina di Martini, definita "fondatissima" dal giornale. Veniva pubblicato in prima pagina un articolo siglato C.B. dedicato all'esperienza maturata da Martini nel 1891 nella commissione d'inchiesta, cui era seguita la pubblicazione del volume "Nell'Affrica italiana", più utile "nella sua modesta mole all'Eritrea di tante imprese militari e dei tanti milioni spesi per la colonia". Martini era divenuto un convinto africanista e tale era rimasto anche dopo Adua, continuando a sostenere la presenza italiana in Africa. L'articolo si concludeva con una convinta apertura di credito alla futura attività del neogovernatore: "… siamo certi che Ferdinando Martini, uomo di genio e di ingegno, corrisponderà ampiamente alla aspettativa grande e impaziente del pubblico in Italia e in colonia". In un trafiletto a parte si dava conto della eccellente impressione suscitata a Massaua dalla nomina di Martini, che godeva nella città di molte amicizie e di viva simpatia. Il programma di governo di Martini poteva riassumersi nelle parole "né follie, ne abbandono" ("L'Africa italiana. Gazzetta di Massaua" 29 novembre 1897, p. 1 "Ferdinando Martini", articolo siglato C.B.; p. 3 "Notizie e informazioni. Il governo dell'Eritrea"). Ormai il ghiaccio era rotto e "L'Africa italiana” si occupava ancora del governo civile per l'Eritrea, dopo 12 anni di governo militare; era un'evoluzione naturale, avvenuta in tutte le colonie: nella
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prima fase della conquista era necessario per consolidarla un governo militare, nel periodo successivo, caratterizzato da una tranquilla attività, si richiedeva invece un governo civile. "L'Africa italiana” rendeva omaggio all'attività dei militari che avevano dotata la colonia "di palazzi, strade, condutture, norie, scuole, ospedali, giardini, orti…". Gli ufficiali con il titolo di regi commissari avevano svolte le attività proprie dei sindaci ed avevano amministrata la giustizia: si doveva ad essi eterna gratitudine; potevano essere stati imperfetti gli ordinamenti, "ma l'opera dei singoli esecutori fu retta, pronta, sagace, ispirata sempre e solo a rettitudine…" ("L'Africa italiana. Gazzetta di Massaua, 11 dicembre 1897, p. 1 " Cedant arma togae”, fondo non firmato). A Martini era poi riservato un ulteriore articolo di benvenuto: con una fin troppo ottimistica enfasi era celebrata l‟importanza dell‟Eritrea italiana, “mirabile base di operazione e influenza sulle sorti dell‟Etiopia, dell‟Egitto e indirettamente della Tripolitania”, con importanti riflessi nel Mediterraneo ed in Europa. Si prometteva a Martini una piena collaborazione per affermare l‟importante ruolo dell‟Eritrea: “Ed ora al nuovo reggitore della Colonia Eritrea, verso il quale la stima è generale, come generale è lo zelo nello spianargli la via della riuscita, all‟on. Martini, diciamo, l‟ardua sentenza”. Un‟eco delle polemiche sorte sui benefici economici derivanti a Martini dalla sua nomina poteva cogliersi nella nota pubblicata sullo stesso numero del giornale per smentire che lo stipendio di governatore sarebbe stato di 125 mila lire annue: Martini avrebbe percepito molto meno, anche se si trattava di una cifra notevole, 25 mila lire annue, come i ministri. Inoltre Martini doveva dar conto delle spese di rappresentanza e non poteva disporre dei bilanci e suo piacimento. (“L‟Africa italiana. Gazzetta di Massaua” 26 dicembre 1897, p. 1 “Il credo”, fondo firmato “L‟Africa italiana”, p. 3 “Notizie e informazioni. L‟ on. Martini”). La partenza di Martini per l‟Africa, a fine dicembre 1897, fu salutata con acri commenti da “Il Secolo. Gazzetta di Milano”. Il giornale si chiedeva ancora cosa Martini andasse a fare in Africa; dal momento che nel dibattito alla Camera del maggio 1897 la sua posizione era risultata diversa da quella di Rudinì: il presidente era favorevole ad una politica di raccoglimento chiaro preludio all'abbandono della colonia e Martini, non potendo per motivi di opportunità sostenere la permanenza in Eritrea, aveva cercato di guadagnare almeno tempo proponendo il rinvio delle decisioni da prendere. Rudinì aveva proposto la nomina di Bonfadini, ritenendo che avrebbe favorito il ritiro dall‟Eritrea, considerata la sua avversione al colonialismo. Quella candidatura era tramontata per l‟opposizione del re e la designazione di Martini, africanista convinto, lasciava supporre che il presidente del consiglio avesse cambiato idea: si chiedeva “Il Secolo” cosa avrebbe detto la Camera di quel voltafaccia.
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Il giornale ricordava pure di essersi opposto all‟occupazione di Massaua, voluta dal governo per distrarre l‟opinione pubblica dalle “inique convenzioni ferroviarie”: era rimasto inascoltato e seguirono le catastrofi di Dogali e di Adua. Destava preoccupazione la partenza di Martini, foriera di nuovi possibili disastri, la cui responsabilità sarebbe ricaduta sui politici continuatori di una politica errata. C‟era da augurarsi un pronto ritorno di Martini, “prima di aver avuto tempo di far male, di compromettere nuovamente l‟Italia”. Quel timore era largamente diffuso: “La nomina del Martini produsse – e per molti motivi – una pessima impressione ed egli partì senza l‟augurio di alcuno, accompagnato soltanto dal sospetto” (“Il Secolo. Gazzetta di Milano” 30-31 dicembre 1897, p. 1 “La partenza dell‟on. Martini”). Un beffardo viatico era riservato dall‟ “Avanti!” alla partenza del neo-governatore: con Martini erano partiti per l‟Africa 7 milioni; presto o tardi Martini sarebbe ritornato, ma nessuno di quei 7 milioni avrebbe fatto ritorno. "Fino all'ultimo minuto qualche ingenuo aveva creduto che la cuccagna del vice reame dovesse rimandarsi a tempi migliori", ma a quella speranza - asseriva il giornale socialista - aveva posto fine la partenza di Martini. (“L‟Avanti!” 29 dicembre 1897, p. 3" Informazioni. La partenza del governatore eritreo"). Quell'allarme sembrò trovare conferma nella intervista di Martini al quotidiano "Roma", a causa dell'affermazione di voler realizzare un suo programma "indipendente dal governo", rivolto a favorire il futuro del commercio dell'Eritrea ed a mantenere l'occupazione dell'altipiano. L'espressione "indipendente dal governo" faceva supporre preoccupanti iniziative personali e colpi di testa simili a quelli già in precedenza verificatisi a causa delle intemperanze dei militari: giovò a rassicurare gli animi l'affermazione che c'era stato un errore di trascrizione e che Martini non si era espresso in quel modo inquietante (“La Perseveranza” 30 dicembre 1897, p. 3 "Un'intervista col nuovo governatore dell'Eritrea"; 31 dicembre mila 897, p. 3 "Nota bene"). Ci fu pure un intervento de "La Tribuna": era censurato Martini, che, anziché rilasciare allarmanti interviste, peraltro subito smentite, avrebbe dovuto mirare invece "a tranquillizzare gli animi, a fugare i mostri che l'ignoranza disegna sulle sue bandiere, a preparare l'ingresso dell'Italia nelle nuove battaglie di civiltà, facendo del passato un monito e non un insuperabile ostacolo per quella missione". Franchetti - ricordava il giornale - considerava la nomina di Martini l'ultima spiaggia: "Il primo governatore civile porta seco le ultime nostre speranze. Perché mi pare certo che, dopo questo, altro esperimento non ci sarà concesso", era la preoccupata affermazione conclusiva (“La Tribuna” 30 dicembre 1897, p. 1" La partenza dell'on. Martini").
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Partito col pesante fardello di tanta responsabilità, Martini fu accolto a Massaua da un articolo de “L‟Africa italiana. Gazzetta di Massaua", che era il manifesto dell'attività da svolgere, desunto dai fascicoli XI e XII 1897 de "L‟Esplorazione commerciale”. Il primo punto del programma era dedicato all'agricoltura: con il suo decreto del 25 aprile 1895 Baratieri aveva regolato la concessione dei terreni; restava da assicurare l'irrigazione dei terreni assegnati ai coloni e riservarli alle coltivazioni necessarie all'Italia, come i cereali ed il tabacco; andava pure sviluppato l'allevamento del bestiame, di cui l'Italia difettava. Massaua era un'ottima base per i commerci da e verso l'Etiopia. Sul piano politico occorreva rassicurare le popolazioni locali sulle intenzioni pacifiche dell'Italia, che non aspirava ad alcuna rivincita (“L‟Africa italiana. Gazzetta di Massaua" 9 gennaio 1898, p. 1" "Che cosa fare della Eritrea"). Lo stesso giornale dedicava a Martini un saluto protocollare, non privo però di precise indicazioni politiche: liberato dai compiti militari, Martini poteva dedicarsi interamente a quelli civili (“L‟Africa italiana. Gazzetta di Massaua" 24 gennaio 1898, p. 1 "L‟arrivo a Massaua di S.E Ferdinando Martini, regio commissario civile straordinario della Colonia Eritrea. Il saluto", articolo firmato. “L‟Africa italiana”). All'articolo del 9 gennaio 1898, che proponeva a Martini il programma economico, “L‟Africa italiana” fece poi seguire le indicazioni politiche da seguire (24 gennaio 1898, p. 1" L'ora presente", fondo firmato“L‟Africa italiana”). Fatta la pace con il negus e ceduta Cassala agli inglesi, occorreva riflettere su quanto restava da fare: bisognava evitare la suggestione di ambiziosi progetti espansionistici ed al tempo stesso rifuggire da propositi rinunciatari, cedendo territori costati tanto sangue e tanto denaro; si proponeva una linea politica pacifica, tale da assicurare uno sviluppo razionale delle risorse, curando l'agricoltura ed il commercio. La nomina di Martini era una garanzia per il raggiungimento di quegli scopi, non avendo egli l'ambizione di nuovi successi e riconoscimenti di natura politica: "Egli non è qui certamente venuto per formarsi una posizione politica, che invece aveva eminente in Italia, sibbene per far apprezzare agl‟Italiani l'Eritrea nel suo giusto valore, senza esagerare". Quasi per una fatalità le interviste di Martini suscitavano contestazioni e polemiche, rendendo necessarie rettifiche successive: così era stato per l'intervista data al giornale napoletano" Roma" al momento della partenza, e così fu per quella concessa all'arrivo a Massaua al corrispondente locale de" La Nazione" di Firenze: ne dava notizia “La Perseveranza” (11 febbraio 1898, pp. 1-2 "Un'intervista col Governatore civile dell'Eritrea. Il mantenimento dell'altipiano", articolo privo di firma). Le ristrettezze finanziarie - affermava Martini - rendevano necessaria una limitazione delle
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spese in Eritrea e la richiesta di maggiori fondi avrebbe generato negli italiani un'aumentata ostilità al mantenimento della colonia. Martini comunque sosteneva di non intendere "retrocedere di un solo kilometro dalle posizioni" occupate: piuttosto che cedere l'altipiano sarebbe convenuto "venirsene addirittura via dall'Africa". Il governatore aggiungeva però, per tranquillizzare gli animi, che in futuro il bilancio non avrebbe superato i 10 milioni: si potevano fare notevoli economie reclutando un maggior numero di militari indigeni e diminuendo le truppe italiane, molto più costose per le spese di viaggio e per il loro mantenimento. Occorreva inoltre snellire la burocrazia rendendo più celeri e facili le concessioni agricole; importanti economie potevano realizzarsi assegnando lavori pubblici e servizi sanitari a privati mediante aste pubbliche, anziché affidarli al genio militare. Con una riforma del sistema fiscale e doganale si potevano aumentare le entrate locali e diminuire pertanto gli stanziamenti statali. Era musica per le orecchie degli africanisti il proposito di non lasciare l'altipiano espresso da Martini, urtando per contro gli avversari del colonialismo. Per evitare lo scoppio di nuove polemiche si vollero declassare le dichiarazioni del governatore ad una semplice e non impegnativa chiacchierata, facendo una rassegna dei problemi sul tappeto, piuttosto che voler formulare un vero e proprio programma: era quanto affermava “L‟Opinione liberale”, come riportava “La Perseveranza” il 16 febbraio 1898 (p. 3 "Una intervista coll‟ on. Martini"). Prudentemente l‟“L‟Italie” evitava di trattare il tema scabroso del mantenimento dell'altipiano, nervo scoperto da non stuzzicare; preferiva riportare dall'articolo del 18 dicembre 1897 pubblicato da" l'Africa italiana" i propositi di Martini nel campo economico e dei lavori pubblici: incrementare le colonizzazioni agricole coinvolgendovi capitalisti milanesi, prolungare la ferrovia da Saati a Gura, assicurare il servizio telegrafico fino ad Addis Abeba (L‟ “L‟Italie” 5 gennaio 1898, p. 3 "Derniére Nouvelles. Dans l‟Érythrée”). L‟“L‟Italie” fece poi la cronaca dell'accoglienza a Massaua riservata al neo governatore: il commerciante Tagliavino aveva rivolto a Martini un appello corredato da oltre 600 firme, in cui era ricordata la sua attività precedente a favore dell'Eritrea svolta in qualità di vice-presidente della Regia Commissione d'inchiesta nel 1891 e poi da parlamentare sempre attento ai problemi della colonia. Si davano pure indicazioni per un'efficace azione di governo: un'amministrazione snella ed economica, una politica di amicizia con il negus e con le popolazioni locali, una giustizia rapida nel prendere decisioni, il rispetto delle libertà e dei diritti dei cittadini italiani; applicando quei principi si sarebbe assicurata la prosperità dell'Eritrea. Nella risposta Martini non si limitò ai rituali ringraziamenti: assicurò pure che l'Eritrea, fatte le debite proporzioni, sarebbe divenuta una colonia ricca ed importante quanto l'India (L‟ “L‟Italie” 1°
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febbraio 1898, p. 1 "Le commissaire civil de l‟Érythrée. L‟arrivée à Massaouah. Réception et adresse” “Il commissario civile dell‟Eritrea, l‟arrivo a Massaua. Accoglienza e saluto"). L'Eritrea non divenne, né poteva divenire, una colonia ricca come l'India, più che una previsione Martini aveva voluto fare una battuta ad effetto, ricorrendo ad un artificio retorico per ottenere il consenso dei coloni italiani; ma la sua attività si dimostrò comunque benefica e la situazione migliorò indubbiamente nei lunghi anni della sua missione: Martini accettando l'incarico aveva pensato ad una sua breve durata; restò invece governatore per 10 anni, fino al 1907. Durante quegli anni i punti programmatici enunciati furono rispettati: non ci furono cessioni territoriali mantenendo l'occupazione dell'altipiano, si realizzarono economie, non si verificarono abusi nella amministrazione, le tribù locali si mantennero tranquille e fedeli, con Menelich i rapporti furono amichevoli, improntati ad una reciproca stima: nel suo diario Martini ha descritto il sincero rincrescimento del negus per la partenza nel 1907 dell'amico governatore. Di pari passo con il proposito di un'amministrazione civile dell'Eritrea era maturato il progetto di stabilire un più razionale ordinamento politico, unificando in un unico apposito ministero le competenze coloniali fino ad allora divise tra i vari uffici del Ministero Affari Esteri e della Guerra. "Il Secolo. Gazzetta di Milano" fu uno dei primi giornali in ordine di tempo ad occuparsi di quel progetto, esprimendo allarme ed ostilità. Era fallita la candidatura Bonfadini, che avrebbe rappresentato una garanzia anticoloniale e l'idea di un ministero delle colonie sembrava confermare la volontà del governo di non lasciare l'Africa. Si chiedeva preoccupato il giornale: "Vi è qualcuno, al di sopra del Ministero, che non vuole l'abbandono dell'Africa?". Era un‟evidente allusione al re: parlando chiaramente, si affermava poi la responsabilità della monarchia: era stato Umberto, lusingato all'idea di impero etiopico, a silurare la nomina di Bonfadini e gli oppositori al ritiro dalla colonia erano gli stessi guerrafondai che non accettavano una riduzione dell'esercito, per interessi personali che il giornale si augurava passassero in seconda linea rispetto a quelli della nazione con un nuovo governo (“Il Secolo. Gazzetta di Milano", 19-20 ottobre 1897, p. 1" La nota del giorno. Un dicastero africano "). L‟africanista “La Tribuna” non aveva le preoccupazioni de "Il Secolo”, ma non si nascondeva le difficoltà di natura costituzionale create dal progetto di un sottosegretario alle Colonie, alle dipendenze della presidenza del consiglio dei ministri, cui sembrava essere destinato il generale Sani. Ma a norma dell'articolo 2 della legge 12 febbraio 1888 un sottosegretario presupponeva l'esistenza di un ministro da cui dipendere; quindi l'operazione si sarebbe dovuta svolgere in due tempi: prima la nomina del ministro con un regio decreto (ricorrendo magari ad un interim affidato ad un ministro in carica, titolare di un altro dicastero) e poi nominare un sottosegretario posto alle sue
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dipendenze (“La Tribuna” 18 ottobre 1897, p. 3" Informazioni. Il sottosegretario alle Colonie"; 21 ottobre 1897, pp. 1-2 “Il sottosegretario alle Colonie”, articolo firmato "Salvador”). Ma il nodo più intricato da sciogliere era politico: più delle difficoltà costituzionali pesava il rischio di esacerbare gli antiafricanisti istituendo un ministero per l'Africa, che sarebbe apparso una provocazione: era fresco ancora il ricordo dei 140 voti ottenuti in maggio dalla mozione antiafricanista (“Il Popolo Romano”, 20 novembre 1897, p. 1 "Il dicastero delle Colonie"). Tardò ancora molti anni, quindi, l'istituzione di un ministero delle colonie, stabilito soltanto dopo l'acquisto della Libia, con il R.D. 1205 del 20 novembre 1913. Il primo ministro delle colonie fu Pietro Bertolini, con Giuseppe Colosimo sottosegretario, cui subentrò Enrico de Nicola dopo qualche mese. Nel governo Salandra (21 marzo-5 novembre 1914) Ferdinando Martini diventò ministro delle colonie e Gaetano Mosca fu sottosegretario; nel successivo governo Salandra (5 novembre 1914-19 giugno 1916) sia Martini che Mosca furono confermati nei rispettivi incarichi. Alle discussioni sul futuro dell'Eritrea e sulla opportunità di darle un governatore civile non partecipò Baratieri, alla ricerca della sua riabilitazione con le "Memorie d'Africa" e dedito a trattare argomenti come la lotta alla tratta degli schiavi, di cui si era interessato fin dal 1878 nella relazione compilata in qualità di segretario del comitato africano della Società Geografica Italiana.309 Successivamente Baratieri si interessò ancora delle condizioni di vita degli indigeni: nel diario relativo agli anni della spedizione San Marzano (1887-1888) esprimeva pietà per il duro trattamento loro riservato con queste parole : " Povera gente! Tollerano tutto – curbash, punizioni, strapazzi - la sola cosa che li urta profondamente è l'ingiustizia".310 Ciò nonostante, Baratieri riteneva necessario in alcuni casi l'uso del curbash: per arginare la diffusione della sifilide tra i militari, disponeva che fossero frustate le prostitute indigene che trasmettevano la malattia.311 Simili provvedimenti erano presi a malincuore da Baratieri, che si confidava così con l'amica Amalia Rossi in una lettera del maggio 1892: "… quanti grattacapi, quanti pensieri e quali dolorose decisioni per estirpare la mala pianta del brigantaggio e incutere ai tristi terrore. Ho dovuto ordinare molte fucilazioni, molte deportazioni, molte e gravissime pene vincendo la debolezza del cuore. Ma
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O. Baratieri - segretario del Comitato Africano. Discorso nell'adunanza del 20 gennaio 1878 - Bollettino della Società Geografica Italiana - fascicolo 2° febbraio 1878 - Notizie A, pp. 58-64. 310 Citato da "Pagine d'Africa 1875-1901", pubblicate a cura di Nicola Labanca, Museo del Risorgimento e della lotta per la libertà di Trento, 1994 p. 60. 311 "Pagine d'Africa" a cura di N. Labanca, p. 130.
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ciò era indispensabile per togliere di mezzo l'infame tratta degli schiavi e per ridare sicurezza ai poveri indigeni".312 Il generale cercò comunque di impedire o almeno limitare le punizioni fisiche: nella prefazione alla bozza del regolamento di disciplina per le truppe indigene, il 15 gennaio 1893 scriveva al Ministero della Guerra che le pene "in uso (o meglio in abuso) che possono arrecare danno fisico immediato al colpevole (legatura al palo, esposizione al sole ecc.)" andavano eliminate e che occorreva limitare le punizioni “su basi incerte".313 Restava però radicata in Baratieri la convinzione della superiorità dell'uomo bianco sugli indigeni: per essi poteva provare comprensione e pietà, senza arrivare però a ritenerli propri uguali. In un suo rapporto ai comandanti dei reparti Baratieri raccomandava di mantenere "rispetto alle donne, alla religione, alle tombe - contegno corretto ma sempre rammentarsi che l'ultimo dei soldati europei è superiore al primo dei capi ". Pur non condividendole, citava le ragioni degli schiavisti; ricordava le parole di un notabile, Abd-elKader fedele all'Italia fin dai primi tempi della colonia, un tempo dedito al commercio degli schiavi, non più praticato per il rigore antischiavista delle leggi italiane: se si aboliva la schiavitù - si chiedeva Abd-el-Kader, “… come possono i nobili occuparsi dei lavori servili?". In definitiva non era troppo fosco il quadro delle condizioni di vita degli schiavi in Eritrea tracciato da Baratieri: i Maria non avevano bisogno di praticare la tratta, poiché i parenti di un assassino, i ladri, i debitori morosi erano ridotti in schiavitù ed in alcuni casi erano addirittura i genitori a vendere i propri figli al miglior offerente, era difficile estirpare quel genere di schiavitù profondamente radicata nella tradizione del paese. Presso i Bogos gli schiavi godevano di una certa libertà: potevano infatti lavorare in proprio, cedendo parte dei guadagni ai loro padroni: pratica seguita anche dalle donne che esercitavano il più antico mestiere del mondo; pertanto, secondo Baratieri, non sarebbe stato difficile abolire gradualmente la schiavitù presso i Bogos.314 Ma occorreva ancora molto tempo per raggiungere quel risultato che Baratieri invece sembrava ritenere ormai prossimo.
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Archivio Museo Centrale Risorgimento Roma, busta 77, fascicolo 54 - lettera di Baratieri ad Amalia Rossi, Massaua 24 maggio 1892, 313 Archivio Ufficio Storico Esercito Stato Maggiore, rep. L 7 Baratieri al ministro della Guerra; citato da "Il braccio indigeno" di Mario Scandigli - Quaderni Piacentini n. 19 1996, p. 148. 314 Labanca, op. cit. diario Baratieri 1890-91, nota 6 agosto 1890 p. 81; nota 18 settembre 1890, p. 98; nota 17 dicembre 1890 p. 113; nota 1° gennaio 1891 p. 126.
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Lo stesso Baratieri fece un quadro realistico della situazione nel suo ultimo scritto dedicato alla schiavitù, "La tratta degli schiavi nell'Africa orientale" (Rivista politica letteraria, 15 febbraio 1901, pp. 74). La tratta era definita "la maggior vergogna dell'umanità", una pratica infame diffusa soprattutto nell'Africa orientale. Le autorità egiziane avevano ufficialmente proibito il commercio degli schiavi, ma in realtà non lo ostacolavano perché da esso traevano lauti guadagni. Le potenze coloniali europee avevano combattuto la schiavitù, anche reprimendo la rivolta del Madhi, che aveva contribuito all'espansione di quel triste fenomeno; al riguardo Baratieri ricordava con orgoglio le vittorie italiane sui Dervisci, culminate nella conquista di Cassala. In un primo tempo erano state poco efficaci le misure stabilite dall'articolo 145 del codice penale del 1889, che puniva i negrieri con la reclusione da 12 a 20 anni: ma questi in Eritrea erano disposti ad affrontare perfino il rischio della condanna a morte, pur di non rinunciare ai loro guadagni; alla fine, nel 1895, era cessata in Eritrea l'attività dei mercanti di schiavi. Le potenze europee con l'atto generale della conferenza di Bruxelles del 2 luglio 1890 avevano dichiarato guerra agli schiavisti ma non si erano poi impegnati a fondo contro di essi. In realtà, osservava Baratieri, esistevano anche in Europa diverse forme di schiavitù: la servitù della gleba, la prostituzione, la tratta dei fanciulli e delle donne, lo sfruttamento del duro lavoro nelle miniere; un commercio della carne bianca era esercitato con i mezzi più vergognosi; ad esempio si ricordava che i "carusi” delle zolfare siciliane vivevano in condizioni poco diverse da quelle degli schiavi negri. Malgrado quelle sconsolanti osservazioni, Baratieri non era totalmente pessimista: era questa infatti la conclusione cui perveniva: "Sono piaghe nefande,
che insieme alla schiavitù classica ci
farebbero disperare del progresso morale in tanto fulgore di progressi scientifici e tecnici, se il grande principio dell'amore e della fratellanza fra gli uomini non avesse, assai più dei secoli precedenti, illuminato il secolo XIX e non proiettasse fin da ora la sua vivida luce nel secolo XX, nel quale si andrà poco a poco preparando - malgrado le turpitudine, i travisamenti, i delitti e l'egoismo individuale e collettivo - la rigenerazione morale dell'umanità". Proprio a fine ottocento il fortunato balletto musicale del maestro Marenco “Excelsior” celebrava le "magnifiche sorti e progressive dell'umanità"; e questa fede laica nell'avvenire doveva consolare Baratieri, giunto ormai al termine della sua esistenza, non meno dell'assidua ricerca della fede religiosa; pur essendo afflitto da seri problemi di salute, oltre che da angustie morali, egli continuò a compiere frequenti viaggi da Venezia, ove aveva fissato la residenza, ed a dedicarsi ai suoi studi prediletti.
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Giovava al morale di Baratieri rievocare in quegli estremi anni della sua vita la gloriosa attività di garibaldino; fu come un tuffo rigeneratore nel passato l'articolo "Lo sbarco di Garibaldi a Marsala. Impressioni personali di Oreste Baratieri" ("La Settimana. Giornale politico letterario commerciale" Firenze 5 febbraio 1899, pp.1-3). Era anzitutto smentita la voce che il comandante della squadra borbonica, Guglielmo Acton, (divenuto Ministro della Marina dopo l'unità italiana, nel governo Lanza) aveva volutamente ritardato ad aprire il fuoco dei suoi cannoni contro i garibaldini, sbagliando pure la mira, perché di sentimenti liberali; né lo sbarco era stato facilitato dalle navi inglesi, troppo lontane per poter intervenire. Al momento di prendere terra - rivelava il generale - il suo pensiero si rivolse al natio Trentino, terra italiana da riscattare come la Sicilia: "…. il mio pensiero corse lontano ai miei monti del Trentino ed al mio lago di Garda, pur sentendo la fervida gioia di essere elemento di una schiera che va a conquistare un regno, sotto un tal duce, e con auspici sì belli del risorgimento d'Italia". Completava la gioia di quel momento l'elogio di Garibaldi per il suo comportamento, l'onore più importante ricevuto nell'intera sua vita, quasi un compenso anticipato per le future amarezze. Alla rievocazione garibaldina ed alla rinnovata condanna della tratta degli schiavi Baratieri fece seguire l'articolo "L'Africa nel secolo XX (“La Settimana. Giornale politico letterario commerciale". Firenze 24 marzo 1901, compreso nel volume “Pagine africane" a cura di Nicola Labanca, già citato), bilancio dell'attività coloniale europea, sguardo rivolto al futuro del continente africano e al contempo riesame delle proprie posizioni ideologiche: non era più affermata una innata superiorità dei bianchi sulle popolazioni di colore, con orgoglio razzista in precedenza sostenuta e il generale scriveva: "… non vi è selvaggio più barbaro dell'uomo civile di fronte al selvaggio". Erano ricordate la sfrenata avidità dei colonizzatori, una delle cause dello spopolamento dell'Africa, e la cinica spregiudicatezza degli esploratori, disposti a consentire la libera attività dei negrieri, venendone ripagati con l'aiuto prestato alle spedizioni. Dopo gli esploratori erano arrivati i commercianti, ancor più avidi e spregiudicati; la voce dei missionari era rimasta inascoltata anche dagli indigeni, disposti ad apprezzare la forza più della carità. Riconosceva però Baratieri gli effetti benefici conseguiti con il colonialismo: le vie del Signore sono infinite ed alla fine i colonizzatori avevano contribuito anch'essi a diffondere la civiltà. Scriveva Baratieri: "tuttavia è giustizia convenire come, dopo i primi eccessi, in generale i soldati europei abbiano portato tra le tribù selvagge un ordine relativo ad una relativa tutela; italiani ed inglesi con le loro campagne militari avevano eliminato la tratta nel Sudan, granaio dello schiavismo; andava "scomparendo la barbarie più truce, erano diminuite le lotte tra tribù e tribù; le
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ferrovie che dalla costa si spingevano verso l'interno avevano acceso qua e là nei paesi più selvaggi i fari della civiltà".315 Si poteva quindi sperare che nel secolo XX, appena iniziato, sarebbe del tutto scomparso lo schiavismo e che una fedele applicazione del trattato di Bruxelles316 avrebbe posto fine alle "guerre lillipuziane tra tribù e tribù”, e grazie alla prolificità degli africani si sarebbe ripopolato il continente. In queste ottimistiche previsioni affiorava comunque una nota di pessimismo: gli africani non sarebbero stati sterminati come gli indigeni del Nordamerica, ma sarebbero stati confinati in riserve; alcuni paesi come il Camerun, l'Africa orientale tedesca e l'Eritrea potevano attirare coloni europei grazie al clima e alla fertilità della terra: ma per la colonizzazione in Eritrea era necessaria la formazione in Etiopia di un governo" stabile ed ordinato".317 Lo sviluppo civile dei paesi africani era ostacolato dal commercio di bevande alcoliche e di armi moderne, che rendevano più letali le guerre locali: si rendeva quindi necessario abolire l'attività dei mercanti di morte. Le rivalità tra le potenze europee per accaparrarsi colonie avrebbe causato guerre; per evitarle occorreva istituire un Tribunale di Arbitrato Internazionale che potesse regolare pacificamente le questioni africane, assegnandogli il compito di fissare i confini dei vari possedimenti e delle zone di influenza, di stabilire i principi basilari di un diritto africano, di assicurare l'applicazione delle clausole del trattato di Bruxelles contro la tratta ed il commercio delle armi, di risolvere le controversie in atto ed impedire il sorgere di nuove “… insomma questo Tribunale d'arbitrato
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"Pagine di Africa", già citata, pp. 166 -168. La conferenza antischiavista si era tenuta Bruxelles dal 18 novembre 1889 al 2 luglio 1890 con la partecipazione di Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Danimarca, Spagna, Stato libero del Congo, Stati Uniti d'America, Grecia, Gran Bretagna, Francia, Italia, Olanda, Persia, Svezia Norvegia, Turchia, Zanzibar. Il barone Francesco de Renzis, ministro plenipotenziario a Bruxelles e delegato italiano alla Conferenza, affermò, in base all'articolo 17 del trattato di Uccialli, che l'Etiopia era rappresentata dall'Italia: Germania, Austria, Gran Bretagna, Olanda e Portogallo accettarono tale affermazione, cui invece si opposero Russia, Francia, Turchia (Documenti a diplomatici italiani, serie 2 , volume 23, p. 325, documento 526, telegramma coloniale riservato del barone de Renzis a Crispi, presidente del Consiglio dei ministri e ministro Esteri, Bruxelles 18 giugno 1890). A causa di tale opposizione nell'atto generale conclusivo della conferenza, in data 2 luglio 1890, non figura tra gli Stati partecipanti l'Etiopia; gli stati africani firmatari dell'Atto generale furono lo Stato libero del Congo e Zanzibar, dove fu istituito l'ufficio centrale per il controllo della tratta (articolo 77 dell’Atto generale). L'atto stabiliva il controllo delle vie terrestri e marittime seguite dai negrieri, l'ispezione delle navi sospette, la vigilanza nei paesi di reclutamento degli schiavi e nei paesi di destinazione. Oltre a queste misure contro la tratta, era previsto il divieto del commercio delle armi (articoli 8-12) e delle bevande alcoliche (articoli 90-95) dirette ai paesi africani. Per il testo dell'atto generale cfr. “Trattati e convenzioni del regno d'Italia", volume 12, pp. 308-347; ovvero "Nouveau recueil général de Traités et autres actes relatifs aux rapports de droit International. Continuation du grand recueil de G. Fr. Martens, par Felix Stoerk”. Deuxiéme série, tome XVI, pp. 3-29. Gottingue 1891; ristampa 1967 Kraus report limited, Liechtenstein – Johnson report Corporation, New York. 317 Labanca, op.cit. p. 170. 316
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africano potrebbe costituire un primo avviamento al Tribunale d'arbitrato per la pace generale, che è l'aspirazione e bisogno intenso dell'umanità all'aprirsi del secolo XX” .318 Affermazione, quest'ultima, chiaramente ispirata dal pensiero di E.T. Moneta, giornalista e pacifista italiano destinato a ricevere il 1907 il premio Nobel per la pace, deciso assertore della formazione del tribunale d'arbitrato internazionale sulla sua rivista "Vita internazionale" e nei congressi pacifisti italiani ed europei. I futuri contrasti coloniali fra le potenze d'Europa sembravano avere già avuto inizio con la rivalità anglo-francese per il controllo della zona del Nilo, sfiorandosi a Fashoda l'inizio di una guerra sanguinosa, tale da compromettere la pace in tutta l'Europa. Nella sua analisi della situazione coloniale in Africa Baratieri dedicava un'attenzione particolare all'Etiopia, considerata decisiva per ottenere il dominio dell'Africa; l'esaltazione della sua importanza nasceva dai molti ricordi di Baratieri, da quelli dolorosi non meno che da quelli lieti, che lo portavano a descrivere quel paese con toni a tratti quasi poetici: "... sorge tra le nubi l'immensa fortezza naturale d'Abissinia, la quale è chiave strategica dell'intera regione tropicale dell'Africa orientale, imperocché sarà veramente padrone dell'intera valle del Nilo, sarà padrone di tutte le acque del Mar Rosso soltanto colui che avrà in mano la Svizzera africana".319 Visione di sogno quel paese circondato dalle nubi, apparizione irreale, oggetto di un desiderio costante, tale da spingere a sfortunati tentativi di conquista: aspirazione cui Baratieri restava fedele, malgrado le sue nuove aperture mentali e le sue intuizioni del futuro: restava pur sempre un uomo del passato, come affermato da Nicola Labanca, fino al termine ormai prossimo della sua vita. Si spense difatti il 9 agosto 1901 nell'ospedale di Sterzing (Vipiteno); con lui spariva un personaggio complesso, ricco di vari interessi, troppo a lungo legato esclusivamente all'infelice ricordo di Adua, divenendo perciò vittima di uno sbrigativo giudizio di totale condanna, senza tener conto di tutti gli altri aspetti della sua attività.
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Ibidem, p. 171. Ibidem, p. 163.
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