La Israel Lobby e la politica estera americana - L'Iran nel Mirino

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L'Iran nel mirino

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Fin dal 1979, quando la rivoluzione ha instaurato la Repubblica isla mica, fra Iran e Stati Uniti il rapporto è stato burrascoso. Date le precedenti interferenze americane negli affari di Teheran - in particolare, il colpo di Stato che rimise al potere lo Scià Reza Pahlavi nel 1953 e l'appoggio che il nuovo regime manifestava esplicitamente nei con fronti di svariati gruppi radicali, è difficile sorprendersi del profondo sospetto che ha sempre caratterizzato le relazioni fra i due Stati, che solo occasionalmente si sono impegnati in gesti di reciproca, ancorché limitata, cooperazione. L'Iran rappresenta, dal punto di vista strategico, sia per gli Stali Uniti sia per Israele, un problema ben più grave della Siria. Tanto Da masco quanto Teheran appoggiano Hezbollah, Hamas e Jihad islami ca; ed entrambi sono nemici di al-Qaeda. Entrambi posseggono armi chimiche e potrebbero disporre di un arsenale di armi biologiche, anche se non se ne hanno prove certe. Ma ci sono tre differenze fonda mentali fra Iran e Siria. La prima è che l'Iran sta cercando di dotarsi della capacità di gestire l'intero ciclo della produzione di energia nucleare, e questo gli per metterebbe di dotarsi di armi atomiche, se desiderasse farlo. Inoltn | sta sviluppando vettori missilistici in grado di colpire con eventuali testate nucleari i paesi confinanti, fra i quali Israele.1 Per questa ragione, agli occhi degli israeliani l'Iran rappresenta una minaccia mortale. L'Iran non sarebbe in grado di colpire il territorio degli Stati Uni ti con missili a testata nucleare in un futuro tanto prossimo, m.i qualsiasi arma di questo tipo dovesse riuscire a sviluppare potrebb< | essere utilizzata contro le forze statunitensi di stanza in Medio Oriente o contro nazioni europee.

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La seconda differenza è che alcuni leader politici iraniani - soprattutto l'attuale presidente Mahamoud Ahmadinejad - hanno fatto commenti decisamente fuori luogo, mettendo in discussione tanto la realtà dell'Olocausto quanto il diritto di Israele di esistere. L'augurio di Ahmadinejad che Israele «scompaia dalle pagine del tempo» (o sia «cancellato dalle pagine della storia») è spesso tradotto erroneamente come un appello alla distruzione fisica di Israele (in altre parole, «cancellare Israele dalla carta geografica»), ma resta pur sempre un'affermazione oltraggiosa, destinata a preoccupare profondamente molti, israeliani e non.2 Il patrocinio offerto dall'Iran, nel dicembre 2006, a un convegno sull'Olocausto al quale hanno partecipato noti negazionisti e altri screditati estremisti non ha fatto che rafforzare le preoccupazioni del mondo sulle intenzioni iraniane. La terza differenza è che l'Iran è la più potente fra le nazioni islamiche del Golfo Persico e ha il potenziale per dominare l'intera area, così ricca di petrolio.3 Questo è particolarmente vero alla luce di ciò che è accaduto in Iraq dopo l'invasione americana del marzo 2003. L'Iraq era stato il principale rivale dell'Iran nella regione, ma ora è una società divisa e dilaniata dalla guerra, e non ha più alcuna capacità di contrastare il potente vicino. L'Iran ha legami con svariate fazioni della maggioranza sciita irachena, e può quindi esercitare un'influenza sull'evoluzione di quel paese ben superiore di quanta ne avesse ai tempi del regime di Saddam Hussein. Questo drastico spostamento degli equilibri regionali spiega perché, secondo alcuni, «il vero vincitore della guerra all'Iraq è l'Iran».4 Naturalmente, il vantaggio dell'Iran nei confronti delle altre nazioni della regione sarebbe ulteriormente amplificato se Teheran si dotasse di un arsenale nucleare. La crescita del potere dell'Iran non è un bene per gli Stati Uniti, che hanno sempre cercato di scongiurare un'egemonia di questa o quella nazione nel Golfo Persico. Tale principio di fondo spiega perché l'amministrazione Reagan abbia sostenuto Saddam Hussein negli anni Ottanta, quando sembrava che l'Iran potesse sconfiggerlo definitivamente nella loro sanguinosa guerra. Gli Stati Uniti hanno anche un forte incentivo a far sì che l'Iran non si doti di un arsenale nucleare. Israele è altrettanto avverso all'idea che l'Iran possa dominare lo scacchiere mediorientale, perché nel lungo periodo una potenza locale di quella portata potrebbe rappresentare una minaccia strategica. La prospettiva di un Iran dotato di armi nucleari è ancor più spaventosa per i leader israeliani, che tendono a classificare l'eventualità fra gli scenari da incubo.


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Ma Israele non è l'unico paese mediorientale preoccupato per l'Iran. Anche molti dei vicini arabi dell'Iran sono preoccupati per le sue ambizioni nucleari e per la sua crescente influenza nell'area, e temono che un Iran particolarmente potente possa, in futuro, esercitare su di loro una coercizione o addirittura invaderli, come fece Saddam con il Kuwait nell'agosto 1990. Inoltre, sono anche in una certa misura sospettosi dell'Iran perché è uno Stato persiano, non arabo, e perché hanno a cuore il mantenimento di un equilibrio fra sciiti e sunniti nel mondo islamico. L'Iran è governato da sciiti radicali, e questo allarma i leader di paesi dominati dai sunniti, come l'Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti, che temono l'estendersi dell'influenza sciita nel mondo arabo: per la prima volta, una nazione a governo sciita come l'Iran e una organizzazione sciita come Hezbollah hanno conquistato una forte influenza sul Libano, in conseguenza della guerra del 2006 con Israele. A peggiorare le cose, Teheran ha stretti legami con alcuni leader iracheni ed è da sempre sostenitrice di Hezbollah. Gli Stati Uniti, Israele e i vicini arabi dell'Iran, fra i quali sono molti gli alleati degli Stati Uniti, hanno un interesse autonomo a far sì che l'Iran rimanga privo di armi nucleari e a impedire che diventi la potenza egemone nella regione. Washington sarebbe impegnata a contenere l'Iran anche se Israele non esistesse, non fosse che per impeci i re che altri paesi del Golfo vengano assoggettati o conquistati da Teheran. Un appoggio incondizionato da parte del mondo arabo renderebbe più facile agli Stati Uniti conservare un equilibrio di pò tere nell'area del Golfo; ottenere quell'appoggio richiede una strategia efficace. Negli ultimi quindici anni, Israele e la lobby hanno spinto gli Stati Uniti a perseguire una politica strategicamente fallimentare nei confronti dell'Iran. In particolare, questi attori sono la forza princi pale che promuove tutti i discorsi che oggi si fanno alla Casa Bianc.i e in Campidoglio sul ricorso alla forza militare per distruggere gli impianti nucleari iraniani. Sfortunatamente, tale bellicosa retorica rende più difficile - e non più facile - fermare le ambizioni nucleari dell'Iran. Durante gli anni Novanta, Israele e i suoi sostenitori ama ricani hanno incoraggiato l'amministrazione Clinton a perseguire una politica di scontro nei confronti dell'Iran, nonostante quel paese fosse interessato a migliorare le relazioni con Washington. Queste stai se pressioni sono state esercitate anche nei primi anni dell'ammiri i strazione Bush, e poi di nuovo a partire dal dicembre 2006, quando Israele e la lobby hanno avviato un'attività concertata tesa a Boicol

L'Iran nel mirino 343 tare la raccomandazione formulata al presidente Bush dall'Iraq Study Group di negoziare con l'Iran. Se non fosse stato per la lobby, gli Stati Uniti avrebbero oggi una politica diversa e più efficace nei confronti dell'Iran. Ogni sforzo da parte statunitense di gestire il problema Iran è messo ulteriormente in difficoltà dalle politiche repressive israeliane nei Territori occupati, che rende più difficile per gli Stati Uniti convincere i paesi arabi alla cooperazione. Infatti, una delle principali ragioni per le quali il segretario di Stato Condoleezza Rice, alla fine del 2006, ha finalmente iniziato a promuovere un accordo di pace arabo-israeliano è stata l'insistenza dell'Arabia Saudita, che riteneva di non poter configurare insieme a Washington un'efficace politica di contenimento dell'Iran fino a quando nel mondo arabo ci fosse stato tanto risentimento nei confronti degli Stati Uniti a causa della questione palestinese. Come abbiamo descritto nel capitolo VII, gli sforzi della Rice in tal senso sono destinati con ogni probabilità al fallimento, perché gli attuali leader politici di Israele non sono disposti a veder nascere uno Stato palestinese indipendente e perché la lobby farà di tutto per impedire al presidente Bush - e al suo successore, chiunque egli sia - di imporre a Israele un cambiamento di approccio alla questione. Brevemente, in buona parte grazie a Israele e ai suoi sostenitori americani, gli Stati Uniti hanno perseguito una politica estera controproducente nei confronti dell'Iran fin dai primi anni Novanta e non riescono a trovare alleanze presso altre nazioni che pure avrebbero le proprie ottime ragioni per cooperare con Washington al contenimento dell'Iran, e in altre condizioni sarebbero ben disposte a farlo. Scontro o conciliazione? Gli Stati Uniti hanno avuto eccellenti relazioni con l'Iran fra il 1953 e il 1979, cioè fino al momento in cui lo Scià, sostenuto dagli americani, è stato rovesciato, e l'ayatollah Khomeini e la sua teocrazia islamica hanno preso il potere. Da allora, le relazioni fra i due paesi hanno assunto quasi invariabilmente un carattere conflittuale. Anche Israele ha avuto relazioni ostili con l'Iran dopo la caduta dello Scià. Ma durante gli anni Ottanta, né gli Stati Uniti né Israele si sentivano minacciati dall'Iran, soprattutto perché quel paese era impegnato in una lunga guerra con l'Iraq che lo paralizzava e ne prosciugava le forze. Per conservare l'equilibrio geopolitico nell'area, agli Stati Uniti era sufficiente che la guerra si risolvesse in una situazione di stallo. Questo obiettivo venne perseguito aiutando le forze di Saddam Hussein


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a contrastare l'Iran sul campo di battaglia. Alla fine del conflitto, nel 1988, l'Iran era esaurito dallo sforzo militare e non era nelle condizioni di fare guai nella regione, almeno per qualche anno. Inoltre, il programma nucleare iraniano era stato sospeso negli anni Ottanta, forse proprio a causa della guerra. Per Israele la percezione del pericolo rappresentato dall'Iran è cambiata radicalmente nei primi anni Novanta, quando divenne evidente che l'Iran nutriva serie ambizioni nucleari. Nel 1993 i lea der israeliani cominciarono ad avvertire Washington che Teheran rappresentava una grave minaccia non solo per Israele, ma anche per gli Stati Uniti: da allora, la loro retorica allarmista e aggressiva non ha conosciuto soste, anche perché l'Iran ha continuato a fare progressi - e a cercarne di ulteriori - in campo nucleare. Oggi, molti esperti ritengono che gli iraniani si doteranno sicuramente di armi nucleari, a meno che non intervenga qualcosa che rovesci il regime clericale, ne modifichi le ambizioni o ne limiti le capacità. La lobby ha seguito la linea di Israele, facendo eco ai moniti sui pericoli di consentire all'Iran di diventare una potenza nucleare. Israele e la lobby sono anche preoccupati per l'appoggio che l'Iran offre a Hezbollah e alla causa palestinese, oltre che per il rifiuto del diritto di Israele a esistere. È superfluo ribadire che dichiarazioni come quella del presidente Ahmadinejad non fanno che rafforzare queste preoccupazioni. Israele e i suoi sostenitori tendono a vedere le politiche iraniane come il riflesso di una profonda avversione ideologica nei confronti dello Stato ebraico; ma potrebbero essere piti correttamente considerate misure tattiche tese a consolidare la posizione dell'Iran nella regione. In particolare, il sostegno alla causa palestinese (e l'aiuto offerto a gruppi come Hezbollah) conquistano all'Iran la simpatia del mondo arabo, impedendo il formarsi di un'alleanza araba in funzione antipersiana. Come dimostra in maniera molto convincente l'esperto di questioni iraniane Trita Parsi, l'impegno dell'Iran a sostegno di Hezbollah e dei palestinesi è variato considerevolmente nel tempo, coincidendo di solito con l'aumento della percezione di una minaccia globale. Durante gli anni Ottanta, i rapporti fra il regime clericale iraniano e la laica OLP non erano calorosi; e l'Iran ha cominciato ad appoggiare apertamente gruppi palestinesi estremisti come Jihad islamica, solo dopo essere stato escluso dalla Conferenza di Madrid del 1991 e dall'avvio del processo di pace di Oslo. Questi eventi indussero Teheran a opporsi a quello che era correttamente interpretato come un tentativo degli Stati Uniti di isolare l'Iran e di negargli un ruolo significativo in ambito regionale; e

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lo fece appoggiando i gruppi estremisti che si opponevano a Oslo. Come ricordò più tardi Martin Indyk, che in quel periodo ha avuto un ruolo determinante nella formulazione della politica estera americana, l'Iran «aveva un incentivo a darci contro nel processo di pace, per contrastare la nostra politica tesa al suo isolamento e contenimento. Perciò, ha preso di mira il processo di pace».5 In linea generale, ci sono due alternative per gestire il problema del programma nucleare e delle ambizioni regionali dell'Iran. Un approccio, quello preferito da Israele e dai suoi sostenitori negli Stati Uniti, prende le mosse dalla convinzione che, nel momento in cui acquisisse armamenti nucleari, l'Iran non potrebbe più essere contenuto. Questa posizione parte dall'ipotesi che Teheran userà probabilmente le proprie armi nucleari contro Israele perché i leader di quella nazione, nella loro visione apocalittica della storia, non temono le ritorsioni israeliane.6 Potrebbero altresì fornire armi nucleari a terroristi o usarle contro gli Stati Uniti, anche nella consapevolezza che questo comporterebbe una ritorsione immediata e massiccia. Di conseguenza, non si può permettere che l'Iran acquisisca un arsenale nucleare. Israele vorrebbe che Washington risolvesse il problema, ma i capi politici israeliani non escludono che possano essere le stesse Forze di difesa israeliane ad assumersi tale compito, se gli Stati Uniti non si mostrassero a ciò disponibili. Questo approccio presume anche che diplomazia conciliatoria e incentivi positivi non potrebbero convincere l'Iran ad abbandonare le proprie ambizioni nucleari. In termini concreti, questo significa che gli Stati Uniti devono imporre sanzioni all'Iran - ed eventualmente condurre un'azione militare preventiva - nel caso quel paese insistesse nello sviluppare il proprio programma nucleare. Per rendere più efficaci le pressioni sull'Iran, gli israeliani e la lobby vorrebbero che gli Stati Uniti mantenessero una nutrita presenza militare americana in Medio Oriente, in netto contrasto con la strategia degli Stati Uniti precedente al 1990, di agire come equilibratore esterno, mantenendo le proprie forze armate al di là della linea dell'orizzonte. Negli ultimi quindici anni, questa formula dello scontro per gestire il problema del programma nucleare iraniano è stata affiancata da una seconda strategia, più coerente con l'interesse nazionale americano. L'approccio alternativo parte dalla considerazione che, sebbene per gli interessi degli Stati Uniti sia meglio che l'Iran non acquisisca una capacità nucleare, ci sono buone ragioni per pensare che un Iran nucleare possa essere efficacemente contenuto e dissuaso, esattamente come l'Unione Sovietica è stata contenuta e dissuasa duran-

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te la guerra fredda.7 Inoltre sostiene che il miglior modo per fermare il tentativo dell'Iran di procurarsi armi nucleari sia impegnarlo diplomaticamente, tentando di normalizzare le relazioni con gli Stati Uniti. Questa strategia richiede di non ricorrere alla minaccia della guerra preventiva, perché minacciare l'Iran di un cambio di regime offre semplicemente ai suoi leader ragioni ancora più solide per ambire a un proprio deterrente nucleare. Gli iraniani, come gli americani e gli israeliani, sanno che un arsenale nucleare è la migliore protezione di cui uno Stato si possa dotare contro le aggressioni di altri Stati. L'esperto di questioni iraniane Ray Takeyh, membro del Council on Foreign Relations, ha scritto: «I calcoli nucleari iraniani non sono tanto derivati da un'ideologia irrazionale, quanto da un intenzionale tentativo di procurarsi un deferente efficace contro minacce in evoluzione ... La classe dirigente iraniana si sente nel mirino di Washington, ed è esattamente questa sensazione ad aver suggerito l'accelerazione del suo programma nucleare».8 L'argomentazione a favore di un maggiore impegno sul fronte diplomatico è rafforzata dal fatto che una guerra preventiva rappre senta un'alternativa ben poco attraente. Anche se gli Stati Uniti riuscissero a distruggere tutte le infrastrutture nucleari dell'Iran, Teheran quasi certamente le ricostruirebbe e, in tal caso, gli iraniani farebbe ro di tutto per sparpagliarle sul territorio, nasconderle e renderle meno esposte a un altro attacco.9 Inoltre, se Washington lanciasse un attacco preventivo contro l'Iran, Teheran si vedrebbe costretta a rispondere, nei modi e nei tempi che le sono possibili, fra l'altro attaccando i trasporti di petrolio nel Golfo Persico e usando tutta la propria influenza per aggravare ulteriormente la posizione degli Stati Uniti in Iraq. Infine, l'Iran probabilmente cercherebbe di creare legami ancora più solidi con la Russia e la Cina; e questo non sarebbe nell'interesse degli Stati Uniti. Ma se, al contrario, gli Stati Uniti non facessero più ricorso alla minaccia di una guerra e tentassero di normalizzare le relazioni con Teheran, l'Iran potrebbe essere più dispo nibile ad aiutare Washington a sconfiggere al-Qaeda, a controllare la situazione irachena e a stabilizzare l'Afghanistan. E sarebbe anche meno desideroso di allearsi con la Russia e la Cina.10 Data la storia di pessime relazioni fra l'America e l'Iran, non c'è garanzia che un impegno diplomatico possa portare a un «grande compromesso» che fermi i piani nucleari di Teheran. Dopotutto, ci sono scarse probabilità che Israele accetti di smantellare il proprio arsenale nucleare e i leader iraniani potrebbero essere convinti che seIsraele dispone di un deterrente nucleare, anche l'Iran abbia necessi

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tà di dotarsene. Ciononostante, questo approccio ha maggiori probabilità di funzionare, rispetto a una guerra preventiva; e nel caso fallisse, gli Stati Uniti potrebbero comunque tornare a un approccio più aggressivo. Ci si poteva aspettare che questa volta gli Stati Uniti, dopo quindici anni di scontri che non hanno portato alcun frutto, mettessero in atto una qualche forma di strategia interlocutoria, tanto più che essa godrebbe di un certo favore presso la CIA, il dipartimento di Stato e le forze armate, che non hanno mai dimostrato particolare entusiasmo alla prospettiva di bombardare le infrastrutture nucleari iraniane. Alla fine di febbraio 2007, il «Sunday Times» di Londra ha riferito che «secondo fonti bene introdotte nella Difesa e nei servizi segreti, alcuni dei più alti ufficiali di Stato maggiore delle forze armate degli Stati Uniti sono pronti a rassegnare le dimissioni nell'eventualità che la Casa Bianca ordinasse un attacco militare contro l'Iran».11 Inoltre, l'Iran stesso ha più volte dato segnali di disponibilità al confronto diplomatico: in diverse occasioni, negli ultimi quindici anni, i suoi leader politici hanno compiuto passi concilianti nei riguardi degli Stati Uniti, nella speranza di migliorare le relazioni fra i due paesi. In particolare, l'Iran è giunto alla proposta di rendere il proprio programma nucleare oggetto di trattative e di trovare il modo di convivere con Israele. Eppure, malgrado queste promettenti aperture, Israele e la lobby hanno fatto di tutto per impedire che le amministrazioni Clinton e Bush avviassero colloqui con l'Iran e, almeno finora, ci sono riusciti. Sfortunatamente, ma prevedibilmente, questa linea dura non ha sortito gli effetti prospettati e ha messo gli Stati Uniti in una condizione peggiore di quella che si sarebbe creata adottando un approccio più disponibile al dialogo. Come reazione a questa strategia fallimentare, starmo crescendo in numero e visibilità le voci, a Washington e altrove, che reclamano una nuova apertura verso l'Iran. E non sorprende che Israele e la lobby stiano adoperandosi per impedire che gli Stati Uniti invertano la marcia e cerchino un riavvicinamento con Teheran: l'opzione da essi proposta è quella di una politica sempre più aggressiva e controproducente.

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L'amministrazione Clinton e il doppio contenimento

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All'inizio del 1993, proprio nel momento in cui l'amministrazione Clinton assumeva il potere, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il suo ministro degli Esteri Shimon Peres cominciarono a parla-

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re della minaccia che l'Iran rappresentava per Israele e per gli Si,ili Uniti. I leader israeliani descrivevano l'Iran come un pericoloso ,iv versario anche perché ritenevano che fosse un modo per promufl vere una relazione più stretta fra Gerusalemme e Washington ni | momento in cui la minaccia sovietica era scomparsa: la speranza ci.» che gli Stati Uniti considerassero Israele come un baluardo contro l'espansionismo iraniano, proprio come era stato considerato un bl luardo contro l'influenza sovietica in Medio Oriente. D'altra parli', Israele nutriva giustificabili preoccupazioni a causa del rinnovila interesse iraniano per lo sviluppo di un sofisticato programma mi cleare.12 Verso la metà di marzo 1993, il «Washington Post» riferiva che «presso i politici israeliani d'ogni tendenza, è viva la convin. li i ne che l'opinione pubblica e i leader politici americani debbano SI sere ulteriormente convinti dell'urgente necessità di tenere sul In controllo l'Iran, e che gli Stati Uniti siano l'unica potenza moni li, il. in grado di farlo».13 L'amministrazione Clinton rispose alle preoccupazioni israeliani adottando la politica di doppio contenimento alla quale abbiamo KM accennato. Tale politica non solo venne annunciata da Martin Indyk al Washington Institute for Near East Policy, ma Robert Pelletreau, .il l'epoca assistente per gli affari mediorientali del segretario di Stftly americano, rivelò a Trita Parsi che si trattava sostanzialmente della copia di una proposta israeliana.14 Kenneth Pollak, del Brookin,-, Saban Center, nota anche che «Gerusalemme è stato uno dei pachi posti al mondo dove la strategia del doppio contenimento non «li stata regolarmente fraintesa».15 La nuova politica imponeva agli Sin ti Uniti l'abbandono della tradizionale strategia di agire come equi libratore esterno nell'area del Golfo Persico, dislocando un comi derevole numero di uomini in Kuwait e in Arabia Saudita allo sci i| il i di contenere sia l'Iran sia l'Iraq. Anzi, questa politica non era stalli pensata esclusivamente per il contenimento dell'Iran, ma anche a Un scopo di provocare «un cambiamento drastico del suo compoi ti mento». Fra gli altri, c'era anche l'obiettivo di costringere l'Iran N smettere di aiutare i terroristi e ad abbandonare il proprio program ma nucleare.16 Nonostante le preoccupazioni israeliane, all'inizio degli anni No vanta gli Stati Uniti non avevano ragionevoli motivi per adottai' una linea dura nei rapporti con l'Iran. Anzi, era vero il contrarie > bar Hashemi Rafsanjani, diventato presidente dell'Iran nel 19K(» > era impegnato a migliorare le relazioni con Washington e l'Iran, rudu ce da una lunga e devastante guerra contro l'Iraq, non poteva rnp

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presentare una minaccia militare per gli Stati Uniti. E, nei primi anni Novanta, i leader americani erano molto più preoccupati dell'Iraq di Saddam Hussein, contro il quale avevano appena combattuto la prima guerra del Golfo.17 Inoltre, nel 1993 il programma nucleare iraniano era ancora quasi completamente sulla carta. Prima che Israele cominciasse a reclamare a gran voce una politica più aggressiva, erano in pochi a richiedere un inasprimento dell'atteggiamento nei confronti dell'Iran; e, appena fu annunciata, la strategia del doppio contenimento venne criticata da più parti. 18 Alla metà degli anni Novanta c'era un diffuso malcontento per la strategia del doppio contenimento, perché costringeva gli Stati Uniti a mantenere relazioni ostili con due paesi che si odiavano reciprocamente e lasciava Washington praticamente sola a gestire il difficile compito di tenerli sotto controllo. Di conseguenza, negli Stati Uniti cominciarono a crescere le pressioni per avviare una politica più aperta nei confronti dell'Iran.19 Al tempo stesso, però, in Israele Rabin era sottoposto a pressioni affinché si adoperasse per un inasprimento della strategia di Clinton. 20 1 critici di Rabin sostenevano che il doppio contenimento era privo di reale efficacia, perché aveva fatto molto poco per frenare i sempre più intensi rapporti economici fra Iran e Stati Uniti. Israele e la lobby - soprattutto l'AIPAC - si mobilitarono per salvare la strategia del doppio contenimento, chiudendo i varchi che permettevano alle imprese americane di commerciare e investire in Iran. Alla metà del 1994, riferisce Parsi, «dietro suggerimento del governo israeliano, l'AIPAC ha stilato e fatto circolare a Washington un documento di 74 pagine nel quale si affermava che l'Iran costituiva una minaccia non solo per Israele, ma anche per gli Stati Uniti e l'Occidente».21 Secondo Pollack, «la destra, l'AIPAC e gli israeliani reclamavano nuove sanzioni [contro l'Iran]».22 L'amministrazione Clinton era disposta a seguirli su questa strada, anche perché era concentrata sul processo di pace di Oslo e voleva assicurarsi che Israele si sentisse sicuro e che l'Iran, un potenziale ostacolo, non facesse deragliare il processo. L'AIPAC stilò il piano generale della strategia nell'aprile 1995, quando pubblicò un rapporto intitolato Comprehensive US Sanctions Against Iran: A Pian {or Action (Sanzioni complessive statunitensi contro l'Iran: un piano d'azione).23 A quel punto, però, si era già avviato il processo per stringere un cappio economico al collo dell'Iran. Il senatore Alfonse D'Amato - secondo Pollack con «qualche aiuto israeliano» - nel gennaio 1995 aveva presentato una proposta di legge per porre fine a tutti i legami economici fra Stati Uniti e Iran.24 L'ammini-


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strazione Clinton si oppose alla proposta di legge, che finì per bloccarsi al Congresso. Ma due mesi dopo, quando l'Iran scelse la società petrolifera statunitense Conoco per sviluppare i giacimenti di Sirri, i gruppi della lobby segnarono il loro primo successo. 25 Gli iraniani avevano deli beratamente scelto la Conoco, fra i molti candidati internazionali, per segnalare chiaramente il proprio interesse a migliorare le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Ma questa amichevole apertura finì in niente, perché il 14 marzo l'amministrazione Clinton boc ciò l'accordo; e il giorno seguente emise un decreto presidenziali' con cui impediva alle imprese statunitensi di aiutare l'Iran nello sviluppo di nuovi giacimenti petroliferi. Più tardi, Clinton avrebbe det to che «uno dei più feroci oppositori» del contratto Conoco era Ed gard Bronfman Sr, il potente ex capo del World Jewish Congress.21' Anche l'AIPAC ebbe un ruolo determinante nel bloccare l'accordo.27 Il 6 maggio, il presidente emise un secondo decreto, con il quale proibiva tutti gli investimenti commerciali e finanziari in Iran, che veniva definito «un'inusitata e straordinaria minaccia per la sicurezza nazionale, la politica estera e l'economia degli Stati Uniti».28 Già una settimana prima, in un discorso al World Jewish Congress, Clinton aveva annunciato che avrebbe preso tale decisione.29 La sua decisione di porre il veto all'accordo con la Conoco e l'emissione dei due decreti qui descritti era, secondo Pollack, «una forte dimostrazione di sostegno a Israele».30 Per colmo di ironia, sebbene dietro la decisione americana di tagliare tutti i legami economici con l'Iran ci fosse Israele, questi non prese alcun provvedimento per limitare gli scambi commerciali fra Stato ebraico e Iran, e gli israeliani hanno continuato ad acquistare beni di produzione iraniana attraverso intermediari.31 Ma alla lobby quei due provvedimenti non bastavano, perché potevano esssere facilmente revocati, se Clinton avesse cambiato idea. A. M. Rosenthal, grande difensore di Israele, sollevò la questione in un articolo sul «New York Times» nel quale criticava l'affare Conoco: «Il solo problema [dei decreti presidenziali] è che ciò che il presidente ha disposto, il presidente può cancellare».32 In risposta a questo potenziale problema, Trita Parsi riferisce che «di propria iniziativa, l'AIPAC ha riscritto» la proposta di legge che il senatore D'Amato aveva presentato nel gennaio 1995, «e ha convinto il sena tore dello Stato di New York a ripresentarla nel 1996, con gli emendamenti proposti dall'AIPAC».33 La nuova proposta di legge, che divenne poi l'Iran-Lybia Sanctions Act (Legge sulle sanzioni all'Iran e alla Libia) imponeva sanzioni a qualsiasi impresa straniera che inve-

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stisse più di 40 milioni di dollari nello sviluppo di giacimenti petroliferi in Iran o in Libia. Nonostante la proposta di legge avesse fatto infuriare gli alleati europei degli Stati Uniti, la Camera dei rappresentanti l'approvò il 19 giugno 1996, con 415 voti favorevoli e nessuno contrario; e il Senato fece altrettanto, all'unanimità, un mese dopo. Clinton ratificò la legge il 5 agosto, benché fosse avversata in vari settori dell'amministrazione. Infatti, Pollack scrive che «gran parte del governo detestava la legge D'Amato; e per molti membri dell'esecutivo, dire "detestava" è ancora poco». Comunque, «molti fra i consiglieri di politica interna del presidente Clinton pensavano che sarebbe stato assolutamente stupido per la Casa Bianca non ratificare la legge».34 Dato che, di lì a tre mesi, Clinton doveva affrontare l'elezione al secondo mandato, probabilmente avevano ragione. Come notava all'epoca il corrispondente militare di «Ha'aretz», Ze'ev Schiff, «Israele non è che un piccolo tassello in un grande mosaico, ma questo non significa che non sia in grado di influenzare i palazzi di Washington».35 Analogamente, James Schlesinger, che aveva ricoperto diversi incarichi di governo in svariate amministrazioni, dopo l'approvazione delle sanzioni, sottolineava: «È quasi impossibile sopravvalutare l'influenza dei sostenitori di Israele sulla nostra politica estera in Medio Oriente».36 L'episodio Conoco getta ulteriori dubbi sull'ipotesi, tanto spesso ripetuta, che dietro la politica estera americana in Medio Oriente ci sia la «lobby del petrolio»: in questo caso, una società petrolifera statunitense voleva fare un accordo commerciale con l'Iran, e l'Iran voleva conferirle un appalto. Il settore petrolifero era contrario alla bocciatura dell'affare Conoco e a qualsiasi legge che imponesse sanzioni all'Iran.37 Come abbiamo già notato nel capitolo IV, Dick Cheney, oggi uno dei maggiori sostenitori di una politica particolarmente aggressiva nei confronti dell'Iran, all'epoca, da presidente di una società che forniva servizi alle imprese petrolifere, la Halliburton, si oppose pubblicamente al programma delle sanzioni statunitensi. Ma gli interessi delle compagnie petrolifere vennero schiacciati dall'AIPAC in ogni ambito decisionale. Questa vicenda offre un'ulteriore dimostrazione di quanto scarsa sia l'influenza delle società petrolifere sulla politica estera americana in Medio Oriente, rispetto a quella di Israele e della lobby. La posizione degli Stati Uniti continuò a irrigidirsi, malgrado fossero evidenti nuove opportunità di apertura e di dialogo. Il 23 maggio 1997, Mohammad Khatami venne eletto presidente dell'Iran.


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del proprio paese impedire che il presidente Clinton perseguisse uni politica di riavvicinamento, benché l'atteggiamento contrario, .\y, gressivo, non fosse nel diretto interesse americano. Ephraim Sneh. uno dei massimi propugnatori israeliani della linea dura con Ini l'Iran, lo conferma sinteticamente: «Noi eravamo contrari [al dialo)/1 Iran-Stati Uniti] ... perché gli interessi americani non coincidevano con i nostri».47 E la lobby si conformò alla posizione di Israele. L'amministrazione Bush e il cambio di regime Come abbiamo già spiegato nel capitolo VIII, gli attentati terrori stici dell'll settembre 2001 hanno indotto il presidente Bush ad .il' bandonare la stategia del doppio contenimento e a perseguire mi ancor più ambizioso piano di trasformazione della regione, che pri vedeva il ricorso alle forze armate per il rovesciamento dei redimi ostili in tutto il Medio Oriente. Dal punto di vista israeliano, L'Iran era il candidato perfetto alla prima posizione nell'elenco dei cattivi dell'amministrazione Bush. Fin dall'inizio degli anni Novanta, i Iti der israeliani sono stati propensi a raffigurare l'Iran come il loro più mortale nemico, essendo quello che ha le maggiori probabilità di i li | scire a dotarsi di armi nucleari. Come ebbe a notare il ministro delll Difesa israeliano, Binyamin Ben-Eliezer, un anno prima della guei fi all'Iraq, «l'Iraq è un problema... Ma dovete capire che, secondo 11 mia opinione, l'Iran è ancora più pericoloso dell'Iraq».48 Ciononostante, all'inizio del 2002 Sharon e i suoi luogotenenh > erano resi conto che gli Stati Uniti erano determinati ad affrontali prima l'Iraq, per poi occuparsi dell'Iran, una volta che Saddam f< > • stato rimosso. A queste priorità dell'agenda non sollevarono obiezli i ni, anche se continuarono a rammentare all'amministrazione Buarì che, non appena fosse stata risolta la questione di Baghdad, er.i ni cessano affrontare il problema iraniano. Sharon cominciò a spingwi gli Stati Uniti verso un confronto con l'Iran nel novembre 2002, Ifl un'intervista al «Times» di Londra,49 nella quale descriveva l'Iran 111 me «la centrale del terrorismo mondiale» impegnata a procacciai I armamenti nucleari, concludendo che l'amministrazione Bush avri>h be dovuto usare il pugno di ferro con l'Iran «il giorno dopo» avai conquistato l'Iraq. Alla fine dell'aprile 2003, dopo la caduta di Baghdad, «Ha'ani riferiva che l'ambasciatore di Israele a Washington stava reclamnn do un cambio di regime anche in Iran. Il rovesciamento di Sadd.un, notava, «non è sufficiente». Nelle sue parole, l'America «deve insii I

L'Iran nel mirino 355 re. Siamo ancora esposti a minacce della stessa pericolosità, che vengono dalla Siria, che vengono dall'Iran».50 Dieci giorni dopo, il «New York Times» riferiva che Washington era sempre più preoccupata per le ambizioni nucleari iraniane e che c'era «un martellamento continuo da parte degli israeliani per convincerci a prendere sul serio questo problema».51 Poi, il 25 giugno, Shimon Peres scrisse un editoriale per il «Wall Street Journal» intitolato Dobbiamo unirci per impedire l'atomica degli ayatollah. La descrizione che faceva della minaccia iraniana suonava esattamente come le descrizioni da lui fatte in precedenza del pericolo rappresentato da Saddam, insieme al riferimento di prammatica alla lezione che avremmo dovuto trarre dall'acquiescenza di alcuni nei confronti dei nazisti negli anni Trenta. L'Iran, sottolineava, deve essere informato senza mezzi termini che gli Stati Uniti e Israele non sono disposti a tollerare un suo ingresso nel club nucleare.52 E non ci volle molto perché anche i neoconservatori cominciassero a ventilare un cambio di regime a Teheran. Alla fine di maggio 2003 l'Inter Press Service riferiva che «l'impegno dei neo-con, ora rivolto a concentrare l'attenzione degli Stati Uniti su un "cambio di regime" in Iran, dall'inizio di maggio è diventato molto più intenso e ha già portato a risultati interessanti».53 All'inizio di giugno, secondo «Forward», «i neoconservatori dentro e fuori l'amministrazione hanno sollecitato un impegno attivo per un cambio di regime a Teheran. Nelle ultime settimane si è parlato anche di possibili azioni sotto copertura».54 Come al solito, ci fu un'ondata di articoli di importanti neoconservatori - essenzialmente le stesse persone che avevano contribuito a promuovere la guerra all'Iraq - che argomentavano a favore di uno scontro diretto con l'Iran. Sulle pagine del «Weekly Standard», il 12 maggio William Kristol scriveva: «La liberazione dell'Iraq è stata la prima grande battaglia per il futuro del Medio Oriente ... La prossima grande battaglia - ma speriamo non debba essere combattuta con le armi - sarà quella per l'Iran».55 Michael Ledeen, uno dei «falchi» più aggressivi sulla questione iraniana, il 4 aprile scrisse sulla «National Review Online»: «Non c'è più tempo per "soluzioni" diplomatiche. Dobbiamo confrontarci con i signori del terrorismo, qui e adesso. L'Iran ci offre almeno l'opportunità di cogliere una vittoria memorabile, perché il popolo iraniano contesta apertamente il regime al potere e lo combatterebbe con entusiasmo, se solo gli Stati Uniti lo appoggiassero nella sua giusta lotta».56 Altri opinionisti, nello stesso periodo, offrivano punti di vista a-


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naloghi. Fra questi, Daniel Pipes del Middle East Forum e Patrick Clawson del WINEP, che il 2 maggio pubblicò un articolo intitolato Aumentare la pressione sull'Iran sul «Jerusalem Post». Entrambi chic' devano all'amministrazione Bush di appoggiare Mojahedin-e Khali|, un gruppo con basi in Iraq il cui obiettivo è il rovesciamento del re girne di Teheran, ma che, secondo il governo degli Stati Uniti, rien tra nella lista delle organizzazioni terroristiche. Su «New Republic», il 9 giugno, Lawrence Kaplan affermava che gli Stati Uniti dovevano assumere una posizione più dura nei confronti dell'Iran, riguardo .il suo programma nucleare, che temeva avesse una portata di gran lunga superiore a quella riconosciuta dai responsabili della politici estera americana.57 Il 6 maggio l'American Enterprise Institute aveva promosso, in sieme a due organizzazioni filoisraeliane, la Foundation for the De fense of Democracies e lo Hudson Institute, una giornata di lavori sul futuro dell'Iran. 58 Gli oratori erano tutti strenui sostenitori ti i Israele, come Bernard Lewis, il senatore Sam Brownback, Uri Lubra ni (consigliere di alto livello delle FDI, ed ex coordinatore del governo ebraico nel Sud del Libano), Morris Amitay del Jewish Institute for National Security Affairs (ed ex alto dirigente dell'AIPAC), Michael Ledeen, Reuel Marc Gerecht dell'AEI e Meyrav Wurmser dello Huil son Institute. La principale questione sul tavolo era ovvia: «Chi' provvedimenti possono prendere gli Stati Uniti per promuovere la democratizzazione e il cambio di regime in Iran?». La risposta era altrettanto prevedibile: ciascuno degli oratori sollecitava gli Stati Uniti a impegnarsi maggiormente per abbattere la Repubblica islamica e sostituirla con uno Stato democratico. A tal fine, la lobby aveva stretto rapporti con Reza Pahlavi, figlio dell'ultimo scià di Persia. Si ritiene che questi abbia avuto incontri personali sia con Sharon sia con Netanyahu, e contatti costanti con individui e gruppi filoisraeliani negli Stati Uniti L'evoluzione di questo rapporto è simile a quella che alcuni influenti gruppi della lobby avevano intrattenuto con l'esule iracheno Ahmed Chalabi: apparen temente inconsapevoli del fatto che Pahlavi (come Chalabi) godeva di scarsa legittimazione nel proprio paese, i gruppi filoisraeliani si erano dati a promuovere la sua causa; in cambio, egli si era affrettato a chiarire che, se fosse tornato al potere in Iran, avrebbe fatto in modo che il suo paese intrattenesse relazioni amichevoli con Israele.59 Il 19 maggio 2003 il senatore Sam Brownback annunciò di voler presentare una proposta di legge per finanziare i gruppi che si oppo nevano al regime iraniano e promuovevano la democratizzazioni'

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del paese. Il cosiddetto «Iran Democracy Act» (Legge per la democrazia in Iran) era sostenuto non soltanto dagli esuli iraniani, ma anche da AIPAC, JINSA e dalla Coalition for Democracy in Iran, fra i cui fondatori c'erano Morris Amitay del JINSA e Michael Ledeen dell'AEI. La proposta di legge venne presentata alla Camera dei rappresentanti da Brad Sherman (democratico, California), altro devoto sostenitore della causa israeliana, e già alla fine di luglio era stata approvata da entrambe le assemblee del Congresso, anche se in una versione che non prevedeva più alcun finanziamento.60 I gruppi sostenitori di questa legge avevano sottolineato che l'Iran rappresentava una grave minaccia a causa dell'appoggio che garantiva al terrorismo e del progetto di dotarsi di capacità nucleare. Ma avevano anche cercato di accusare l'Iran di essere alla radice dei problemi con i quali gli Stati Uniti si stavano scontrando dopo la caduta di Baghdad. I neoconservatori del Pentagono ipotizzavano che l'Iran offrisse ospitalità ad alcuni dei membri di al-Qaeda che avevano attaccato bersagli americani e non, a Riyadh, in Arabia Saudita, il 12 maggio 2003. Gli iraniani respinsero l'accusa, e tanto la CIA quanto il dipartimento di Stato consideravano le ipotesi formulate dai neoconservatori con un certo scetticismo.611 neoconservatori erano anche fra i più convinti sostenitori del fatto che ci fosse l'Iran dietro più di un attacco alle truppe americane che operavano in Iraq. Come scrisse Michael Ledeen nell'aprile 2004, «l'Iraq non potrà vivere nella pace e nella sicurezza fino a quando Teheran manderà le proprie formazioni terroristiche oltre frontiera».62 Anche se davvero l'Iran contribuisse alle milizie in Iraq, questo non dimostrerebbe che gli interessi degli Stati Uniti non siano conciliabili con quelli iraniani; e gli Stati Uniti non si troverebbero in una condizione migliore, in Iraq, anche se l'Iran non facesse nulla. Né ci si dovrebbe sorprendere del fatto che l'Iran agisca in tal modo: la più grande potenza politica e militare del mondo ha invaso due paesi confinanti e lo ha inserito nel cosiddetto «Asse del Male»; il Congresso ha approvato una legge che reclama un cambio di regime a Teheran; e l'amministrazione Bush ha finanziato gruppi di esuli iraniani e lasciato esplicitamente intendere di poter colpire militarmente l'Iran. Qualsiasi nazione, di fronte a una minaccia così grave, farebbe tutto quanto in suo potere per proteggersi, incluso usare la propria influenza su diverse fazioni irachene e inviare loro ogni possibile aiuto. Se una potenza ostile conquistasse il Canada e il Messico e cercasse di installare un governo a sé favorevole a Washington, gli Stati Uniti non cercherebbero forse di rendere complicata quanto

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più possibile la vita di questa potenza ostile, nel tentativo di assicurare un risultato favorevole agli interessi americani? Gli americani hanno ottime ragioni di irritarsi per l'influenza iraniana in Iraq, ma non dovrebbero stupirsene o considerarla dimostrazione di un'insuperabile ostilità da parte dell'Iran. Vale anche la pena di notare che una forte avversione non ha impedito ai governi degli Stati Uniti di intrattenere rapporti con i leader sovietici per tutta la durata della guerra fredda, anche quando Mosca inviava aiuti militari nell'ordine di milioni di dollari al Vietnam del Nord, che li utilizzava per uccidere migliaia di soldati americani. Ergersi a difesa di Israele

Israele e la lobby hanno avuto un grande successo nel convincere Bush e altri influenti politici americani del fatto che un Iran dotato di armi nucleari rappresenti una minaccia inaccettabile per Israele, e che sia nella responsabilità degli Stati Uniti impedire a tale minaccia di realizzarsi. Anzi, è possibile dimostrare che alcuni, nella lobby, sono convinti di aver avuto fin troppo successo nella propria azione per il bene di Israele. La retorica adottata dal presidente degli Stati Uniti riflette con chiarezza l'approccio all'Iran prediletto da Israele, come si evince dal discorso pronunciato da George W. Bush a Cleveland, il 20 marzo 2006. «La minaccia iraniana» affermava «è che, ovviamente, hanno dichiarato l'obiettivo di distruggere un nostro forte alleato: Israele. E questa minaccia è grave ... Ho detto chiaramente, più volte, che siamo pronti a usare la nostra potenza militare per proteggere il nostro alleato Israele.»63 Questa dichiarazione di Bush è in linea con sue precedenti affermazioni: un mese prima, in un'intervista all'agenzia Reuters, aveva dichiarato che «ci schiereremo in difesa di Israele, se necessario».64 Inoltre, la maggior parte degli aspiranti alla candidatura presidenziale per entrambi gli schieramenti sembrano condividere la posizione del presidente. Per esempio, nell'aprile 2007 il senatore John McCain ha esplicitamente detto di concordare con Bush sulla responsabilità degli Stati Uniti di proteggere Israele dalla minaccia iraniana e di assicurarsi che l'Iran non si possa dotare di armi nucleari con le quali minacciare Israele.65 Reiterò questa affermazione ancora nel maggio 2007, in un'intervista rilasciata al «Jerusalem Post». Altri aspiranti alla candidatura presidenziale, come Barack Obama, Mitt Romney, Bill Richardson e Sam Brownback hanno rilasciato commenti dello stesso tenore.66

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L'enfasi con la quale Bush ha definito l'Iran una minaccia mortale per Israele, ma non per gli Stati Uniti, associata al suo dichiarato impegno a scendere in guerra contro l'Iran a beneficio dì Israele, ha fatto suonare più di un campanello d'allarme in diversi ambienti della lobby. Nella primavera 2006, la rivista «Forward» riferiva: «I leader della comunità ebraica hanno invitato la Casa Bianca a evitare di dichiarare pubblicamente la volontà dì difendere Israele contro possibili atti ostili iraniani». Non è che questi leader ebraici siano contrari all'uso della potenza militare americana in difesa di Israele; piuttosto, hanno il timore che queste pubbliche dichiarazioni di Bush «creino l'impressione che gli Stati Uniti stiano valutando l'opzione militare contro l'Iran in nome e per conto di Israele; questo potrebbe far considerare gli ebrei americani responsabili di qualsiasi conseguenza negativa di un attacco americano all'Iran».67 Per usare le parole pronunciate da Malcolm Hoenlein, vice segretario esecutivo della Conference of Presidents, nell'aprile 2006 riguardo all'opzione militare: «Per quanto la possiamo apprezzare, ci domandiamo se sia un bene associarla a Israele».68 I leader dello Stato ebraico condividono questa preoccupazione, come si deduce da un commento rilasciato dal primo ministro israeUano Olmert, nella primavera di quell'anno: si augurava che i grappi filoisraeliani mantenessero un basso profilo sulla questione iraniana perché «non vogliamo che diventi una faccenda che riguarda solo Israele». Esattamente il contrario di quanto Bush andava ripetendo.69 Al di là della retorica, l'amministrazione ha lavorato assiduamente per bloccare il programma nucleare iraniano e, in generale, ha assunto un atteggiamento più aggressivo: ha imposto sanzioni economiche e minacciato azioni militari nel caso l'Iran continui a sviluppare il programma nucleare. Ai leader politici americani piace ripetere che «nessuna opzione è esclusa».70 James Bamford e Seymour Hersh, separatamente, hanno elencato le persone che, avendo già contribuito alla pianificazione della guerra all'Iraq, sono impegnate nella stesura del piano concreto del Pentagono per la campagna militare. Per esempio, Douglas Feith, fino all'aprile 2005 sottosegretario alla Difesa con delega per la politica, ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo dei piani per colpire la Repubblica islamica. All'inizio del 2005 Hersh notava che «c'è stata anche una stretta collaborazione - per quanto a livello ufficioso - con Israele. Dipendenti civili del dipartimento della Difesa, guidato da Douglas Feith, hanno lavorato con pianificatori e consulenti israeliani allo sviluppo e alla messa a punto di armi nucleari e chimiche, e all'individuazione di eventuali bersagli nel


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territorio iraniano». Il Pentagono ha anche condotto operazioni di in telligence in territorio iraniano e ha aggiornato «il piano per un'even tuale invasione dell'Iran su vasta scala».71 Nel gennaio 2007, l'amministrazione Bush ha accentuato le pres sioni di natura militare sull'Iran in molti modi. Nella città irachena di Erbil, ha arrestato cinque funzionari iraniani che si trovavano in un palazzo che l'amministrazione locale curda considerava sedi' consolare. Il presidente ha annunciato il dispiegamento nel Golfo Persico di un'altra squadra navale da combattimento e di un sistema di difesa missilistica Patriot per la copertura dei paesi membri del Gulf Cooperation Council. Allo stesso tempo, funzionari milita ri a Baghdad hanno dichiarato che le componenti essenziali per hi fabbricazione di ordigni particolarmente pericolosi usati negli attar chi alle truppe statunitensi di stanza in Iraq erano di provenienz.i iraniana. Sia Stephen Hadley, il consigliere del presidente per la Si curezza nazionale, sia il segretario di Stato, Condoleezza Rice, rum no reso esplicito che l'amministrazione non ha escluso la possibilil.ì che le truppe statunitensi possano sconfinare in Iran per inseguire contrabbandieri iraniani impegnati nel traffico di armi e ordigi 11 esplosivi.72 Nonostante queste mosse ostili, David Wurmser, consigliere del vicepresidente Cheney per gli affari mediorientali, sembrava essere convinto che Hedley e Rice fossero eccessivamente orientati a un ne goziato con l'Iran - sebbene si tratti di una diplomazia fatta di mi nacce - e non sufficientemente favorevoli all'opzione militare. Nella primavera 2007, Wurmser ha tenuto una serie di conferenze all'American Enterprise Institute e presso altri think-tank neoconsei vatori di Washington, nelle quali ha affermato che il vicepresidente non era soddisfatto del segretario di Stato - e, se per questo, neanche del presidente Bush - per la loro insistenza nel voler perseguire la via diplomatica, e che Cheney era interessato a lavorare insieme a Israe le per definire una strategia militare capace di eliminare il program ma nucleare iraniano, da sottoporre al presidente Bush. Quando le dichiarazioni di Wurmser sono state rese pubbliche, Rice si è affrel tata a dichiarare che all'interno dell'amministrazione non ci sono differenze di opinione sull'Iran e che il vicepresidente Cheney appo)-, già pienamente la politica del presidente.73 Mentre Washington si affidava più alle minacce che ai negoziali per gestire la questione iraniana, l'Unione europea si adoperava nel la direzione opposta, tentando di trovare una soluzione diplomatica alla crisi. All'inizio di agosto 2003, gli EU-3 (Francia, Germania e Gran

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Bretagna) hanno avviato un negoziato con Teheran, e il 21 ottobre il governo iraniano accettava di sospendere i programmi di arricchimento dell'uranio e di permettere all'Atomic Energy Agency di condurre un'ispezione particolarmente approfondita. Un anno dopo, il 15 novembre 2004, l'Iran accettò di «prolungare la sospensione di tutte le attività legate all'arricchimento dell'uranio» e di «avviare negoziati tesi a raggiungere un accordo reciprocamente conveniente per il lungo periodo».74 Ma gli sforzi per raggiungere un accordo soddisfacente fallirono e nell'agosto 2005 l'Iran dichiarò la ripresa dei processi di arricchimento dell'uranio. Gli EU-3 hanno continuato i colloqui con l'Iran, ma senza alcun risultato. Sebbene fossero disposti a consentire agli EU-3 di cercare di fermare il programma nucleare iraniano provando la via diplomatica, gli Stati Uniti non sono mai stati entusiasti delle trattative e non hanno mai fatto molto per facilitarle.75 Anzi, insistendo con le minacce nei confronti dell'Iran e invitando i negoziatori europei a mantenere un atteggiamento duro, l'amministrazione Bush ha praticamente fatto in modo che i negoziati non approdassero a nulla: se si voleva che la diplomazia ottenesse dei risultati, le minacce militari avrebbero dovuto essere evitate. Dopo che la combinazione di diplomazia e minacce si fu dimostrata inefficace a risolvere il problema, nell'autunno del 2005 l'amministrazione Bush ha cominciato a esercitare forti pressioni sulle Nazioni Unite affinché il Consiglio di sicurezza imponesse sanzioni all'Iran. Queste, alla fine, furono approvate solo nel dicembre 2006, quando la Cina e la Russia, dopo molto procrastinare, approvarono un pacchetto limitato di provvedimenti.76 Alla fine di marzo 2007, il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha approvato un secondo pacchetto di sanzioni all'Iran, in risposta al suo rifiuto di chiudere gli impianti di arricchimento dell'uranio. Le nuove sanzioni, anch'esse di portata limitata, comprendono il divieto di esportazione di armi, limitazioni ai viaggi delle persone coinvolte nel programma nucleare iraniano, e il congelamento dei patrimoni di individui e organizzazioni che non erano stati toccati dal primo pacchetto di sanzioni.77 Pochi, fra gli esperti, ritengono che queste misure possano indurre l'Iran ad abbandonare il proprio programma nucleare; e pochi credono che gli Stati Uniti possano convincere il Consiglio di sicurezza dell'ONU ad applicare sanzioni più severe, che sortiscano l'effetto desiderato. Ma se le sanzioni delle Nazioni Unite non sono la risposta, qual è la soluzione?


L'Iran nel mirino 363 Le alternative All'amministrazione Bush sono rimaste tre alternative per fermare il programma nucleare iraniano: può cercare di costringere Teheran ii farlo con misure militari (ma evitando la guerra), con sanzioni statunitensi più severe e con la costituzione di una coalizione anti-iraniana che comprenda anche Israele e gli Stati arabi; può cercare di eliminarlo con un'azione militare; o può fare un serio tentativo per trovare qualcosa di molto importante da scambiare con lo stop definitivo allo sviluppo di armi nucleari da parte dell'Iran. Israele e la maggior parte delle organizzazioni della lobby, soprattutto i neoconservatori, promuovono la seconda. Ma i leader israeliani e i loro sostenitori negli Stati Uniti sono ben consapevoli della diffusa opposizione a un attacco all'Iran, all'interno del governo americano come all'esterno, oltre che nella comunità internazionale, soprattutto vista la delicata situazione dell'Iraq. Inoltre, è chiaro che, nonostante la retorica, il presidente Bush non è particolarmente entusiasta dell'opzione militare, anche se questo non significa che non colpirà mai l'Iran. I piani di Bush per il 2007 lasciano intravedere un ulteriore inasprimento delle pressioni esercitate sull'Iran, nella speranza che ceda alle richieste statunitensi e fermi l'arricchimento dell'uranio.78 Come abbiamo notato, in gennaio l'amministrazione ha messo in atto svariati provvedimenti di natura militare e di contenuto minaccioso, mirati espressamente all'Iran. E tanto il presidente quanto il segretario di Stato Rice hanno avviato uno sforzo coordinato teso a far allineare i paesi arabi con Israele e gli Stati Uniti, contro l'Iran. I gruppi chiave della lobby, finora allineati con l'amministrazione Bush, hanno cominciato a mobilitarsi contro questa linea d'azione. Alla vigilia del congresso dell'AIPAC, nel marzo 2007, la rivista «Forward» ha riferito che «la lobby filoisraeliana sta ora sostenendo una legislazione congressuale che inasprisca le sanzioni contro l'Iran e colpisca le entità estere che intrattengono rapporti d'affari con la Repubblica islamica».79 Finora, tale strategia non ha dato alcun risultato. Gli Stati Uniti sono stati severamente criticati da molti iracheni e perfino dalla comunità curda per l'arresto dei cinque diplomatici iraniani; e nel marzo 2007 gli iraniani hanno dimostrato di poter giocare lo stesso gioco, arrestando quindici militari della Marina britannica di stanza nel Golfo Persico, con l'accusa di aver sconfinato nelle acque territoriali iraniane.80 Nel frattempo, l'Iran continua a sviluppare il proprio programma nucleare e a sostenere i gruppi sciiti iracheni. Non è di-

mostrato che inviare nuovi gruppi navali da combattimento nel Golfo Persico abbia avuto qualche effetto sui comportamenti di Teheran. Il Congresso può approvare sanzioni anche molto dure, ma il fatto è che l'amministrazione è riluttante a intraprendere questa via, perché una tale politica finisce per imporre sanzioni ad alleati degli Stati Uniti che hanno rapporti d'affari con l'Iran: l'unico effetto certo di tutta l'azione è compromettere i rapporti con questi alleati, con il rischio di perdere la loro disponibilità ad aiutare Washington a esercitare pressioni più efficaci su Teheran.81 Il tentativo dell'amministrazione Bush di lavorare insieme ai paesi arabi ha fatto pochi progressi, in buona parte a causa dell'appoggio incondizionato degli Stati Uniti alla causa israeliana contro i palestinesi. In marzo, il sovrano saudita Abdullah non solo ha invitato il presidente iraniano Ahmadinejad a visitare Riyadh, ma ha anche cancellato una visita programmata alla Casa Bianca, condannando l'occupazione dell'Iraq e definendola «illegale». Il direttore del Center for Strategie Studies dell'Università di Giordania ha affermato che Abdullah intendeva «dire agli Stati Uniti di ascoltare gli alleati, invece di imporre loro decisioni già prese e di parteggiare invariabilmente per Israele». Come abbiamo visto nel capitolo VII, l'Arabia Saudita in quel momento stava cercando di convincere la Lega araba a riproporre la propria iniziativa di pace del 2002 per la cessazione del conflitto israelo-palestinese; da parte loro gli Stati Uniti stavano cercando di convincere l'Arabia Saudita a modificare la proposta, non gradita agli israeliani. Con molta condiscendenza, il segretario di Stato Rice invitò i paesi arabi a «cominciare ad avvicinarsi a Israele»: questa ammonizione irritò i sauditi e, soprattutto, Abdullah, che reagì criticando la presenza statunitense in Iraq.82 È improbabile che la via coercitiva possa convincere Teheran a cambiare i propri piani. Questo punto è chiaro ai leader israeliani e ai loro alleati statunitensi, la maggior parte dei quali considera un Iran nucleare una minaccia mortale per lo Stato ebraico. Per questa ragione, molti hanno fatto quanto in loro potere affinché l'opzione militare restasse aperta, ma anche per rafforzare l'idea che l'Iran sia talmente pericoloso da imporre, nel caso non si piegasse alla volontà di Washington, il ricorso alla forza. Prendiamo, per esempio, quel che ha affermato il primo ministro israeliano Ehud Olmert a una sessione congiunta del Congresso degli Stati Uniti, il 24 maggio 2006: assimilando un Iran dotato di armi nucleari agli «orrori della schiavitù e della seconda guerra mondiale, ai gulag del blocco comunista» sottolineava come non rappresentasse solo una minaccia per Israele,


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ma «mettesse a repentaglio ... la sicurezza del mondo intero». Chi.i ri, inoltre, che si aspettava che gli Stati Uniti assumessero un ruoli | chiave per impedire che «queste nubi nere di tempesta che si stanno addensando ... gettino la loro ombra sul mondo».83 Pochi mesi do pò, nel novembre 2006, Olmert ha dichiarato a un intervistatore da] la rivista «Newsweek» di non credere che l'Iran avrebbe accettalo «un compromesso, a meno che non abbia buone ragioni per temere le conseguenze di non raggiungere un compromesso. In poche pan > le, l'Iran deve cominciare ad avere paura».84 Nella primavera del 2007 Olmert ha intensificato la sua campagna a favore dell'opzioni' militare. Alla fine di aprile ha dichiarato alla rivista tedesca «Focus» di stimare che «bastano 10 giorni e un migliaio di missili da crociera Tomahawk».85 Un generale israeliano, però, metteva in dubbio chiBush avesse sufficiente «potere politico per attaccare l'Iran» e sugge riva che Israele lo aiutasse «a preparare il terreno, facendo attività di lobbying presso il Partito democratico ... e presso i giornalisti ameri cani ... per trasformare quella iraniana in una questione condivisa da entrambi gli schieramenti politici».86 I funzionari israeliani avvertono. Potrebbero essere loro stessi a intraprendere un'azione preventiva, nel caso l'Iran proseguisse nel li | sviluppo del suo piano nucleare. Oltre a mandare segnali minacciosi all'Iran, queste dichiarazioni servono a tenere alta la pressione su Washington affinché risolva il problema, perché gli Stati Uniti non vogliono che Israele agisca autonomamente. Alla fine del 2005, l'ai lora primo ministro israeliano Ariel Sharon avvertiva che «Israele - e non solo Israele - non può accettare un Iran nucleare. Abbiamo la ca pacità di affrontare una situazione del genere e stiamo facendo tutti i preparativi necessari per essere pronti a farlo». Nel gennaio 2007 il «Sunday Times» di Londra riferiva che i piloti israeliani si stavano esercitando a un attacco nucleare tattico contro le infrastrutture atomiche iraniane: nonostante le smentite ufficiali israeliane, l'articolo servì a ricordare l'importanza che Israele attribuisce alla questione. Come ha dichiarato un esperto israeliano di problemi militari alla Associated Press «è possibile che si sia trattato di una fuga di notizie pilotata, per creare preoccupazione, per far sapere a qualcuno che e meglio tenerci buoni, prima che facciamo qualcosa di folle».87 E nel caso quel messaggio non fosse stato recepito, nel febbraio 2007 Avig dor Lieberman, il vice primo ministro israeliano, ha dichiarato a «Der Spiegel» che se la comunità internazionale non risolverà il pio blema «Israele potrebbe essere costretto ad agire da solo».88 Alcuni, nella lobby, sono andati oltre i vaghi appelli per un «cam-

L'Iran nel mirino 365 bio di regime» e hanno iniziato a dichiarare apertamente che un Iran dotato di armamenti nucleari è intollerabile e che gli Stati Uniti devono essere pronti a ricorrere alla forza per risolvere il problema.891 soloni neoconservatori sono stati particolarmente espliciti a proposito del pericolo costituito dall'Iran e della necessità dell'uso della forza - o perlomeno della sua minaccia - per rimetterlo in riga. La sostanza di questo punto di vista è stata sintetizzata dal titolo di un editoriale firmato da Michael Rubin dell'American Enterprise Institute, il 3 ottobre 2006, sulle pagine del «New York Daily News»: Per sbloccare lo stallo in Iran, bisogna pianificare la guerra. Joshua Muravchik, anch'egli dell'AEI, un mese dopo ha dichiarato che «il presidente Bush sarà costretto a bombardare gli impianti nucleari iraniani prima della scadenza del mandato. È inconcepibile che l'Iran possa accettare qualsiasi tentativo pacifico di negoziare l'abbandono del piano per fabbricare la bomba».90 Analogamente, nel gennaio 2007, Richard Perle ha detto: «Non ho dubbi che se, durante il suo mandato, il presidente Bush si accertasse che l'Iran è in grado di procurarsi armi atomiche, non esiterebbe a ordinare un attacco».91 E la cosa non pareva dispiacergli. Infine, il 30 maggio 2007, Norman Podhoretz ha pubblicato un controverso articolo sul sito internet del «Wall Street Journal», intitolato Perché bombardare l'Iran: svero e prego che Bush lo faccia. Anche l'AIPAC ha avuto un ruolo importante nel pubblicizzare la minaccia iraniana e nel promuovere l'opzione militare. Negli ultimi due anni, al suo congresso annuale, la questione dell'Iran - e soprattutto la necessità di bloccare il suo programma nucleare - è stata alla ribalta.92 Anzi, a inaugurare la conferenza del 2007 è stato invitato John Hagee, il capo della Christians United for Israel, il quale nel 2006 aveva dichiarato al «Jerusalem Post»: «Spero che gli Stati Uniti si uniscano a Israele in un attacco preventivo che annulli la capacità nucleare iraniana, per salvare la civiltà occidentale».93 Le attese del pubblico alla conferenza del marzo 2007 non furono deluse: Hagee disse che «è come nel 1938. E Ahmadinejad è come Hitler. Dobbiamo fermare la minaccia nucleare iraniana e stare al fianco di Israele». Il suo discorso ha ricevuto vere e proprie ovazioni.94 Al contrario, secondo il «New York Post», la senatrice Hillary Clinton «ha suscitato malcontento» il mese precedente, quando, davanti a un'assemblea dell'AIPAC, osò suggerire che avrebbe avuto senso tentare un avvicinamento diplomatico con l'Iran prima di adottare misure 95

più severe Forse la migliore dimostrazione dell'influenza dell'AlPAC sulla


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politica estera americana nei confronti dell'Iran si è avuta alla metà di marzo 2007, mentre il Congresso stava tentando di emendare un decreto di spesa del Pentagono, in modo da costringere il presidente Bush a chiedere l'autorizzazione del Congresso prima di un eventuale attacco all'Iran. Alla luce di quanto era accaduto con la guerra all'Iraq, questo emendamento godeva di una certa popolarità in Campidoglio, era in linea con le prerogative costituzionali del Congresso e sembrava potesse essere approvato. Ma l'AIPAC vi si opponeva fermamente, perché considerava che l'emendamento avrebbe eliminato l'opzione militare. Per questo, si diede a lavorare nei corridoi del Congresso e, con l'aiuto di alcuni parlamentari filoisraeliani come Gary Ackermann, Eliot Engel e Shelley Berkley (democratica, Nevada), riuscì a far ritirare l'emendamento al decreto di finanziamento.96 Un mese dopo, quando al parlamentare Michael Capuano (democratico, Maryland) fu chiesto perché l'emendamento sull'Iran fosse stato ritirato, la sua risposta fu sintetica: «AIPAC». Un altro parlamentare, Dennis Kucinich, democratico dell'Ohio, ha offerto la medesima spiegazione.97 Nonostante l'impegno che Israele e alcune componenti della lobby hanno profuso per promuovere l'opzione militare, è risaputo che la minaccia del ricorso alla forza contro l'Iran è controproducente e un attacco alle strutture nucleari iraniane avrebbe conseguenze disastrose.98 Oltre a destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente, spingerebbe l'Iran a vendicarsi contro gli Stati Uniti e i loro alleati. A questo punto, l'ultima cosa di cui Washington ha bisogno è un'altra guerra in un paese islamico. L'esercito americano è già impantanato a Baghdad, e l'Iran è più grande e più popoloso dell'Iraq. Inoltre, quasi certamente l'Iran non abbandonerebbe il proprio piano nucleare, ma probabilmente raddoppierebbe gli sforzi, come fece l'Iraq dopo che Israele, nel 1981, distrusse le sue neonate strutture nucleari. Non sorprende che un esperto di sicurezza europea come Charles Jupchan affermi: «Devo ancora trovare un politico europeo convinto che la guerra sia preferibile a un Iran nucleare».99 In effetti, Israele è l'unico paese al mondo nel quale un numero significativo di persone reclamano l'opzione militare contro l'Iran nel caso non rinunci al proprio programma nucleare: secondo un sondaggio del maggio 2007, circa il 71 per cento della popolazione israeliana.100 Analogamente, negli Stati Uniti, le principali organizzazioni della lobby sono gli unici gruppi di qualche rilievo che approverebbero una guerra contro la Repubblica islamica. All'inizio del 2007, quando all'ex generale Wesley Clark è stato chiesto perché l'ammini-

L'Iran nel mirino 367 strazione Bush sembrasse orientata a fare la guerra contro l'Iran, la risposta fu: «Leggete quello che scrivono i giornali israeliani. La comunità ebraica è divisa, ma i ricchi newyorkesi esercitano pressioni enormi sugli eletti». Clark fu immediatamente tacciato di antisemitismo per aver lasciato intendere che Israele e alcuni ebrei americani stessero spingendo gli Stati Uniti a muovere guerra contro l'Iran; ma come ha sottolineato il giornalista Matthew Yglesias «tutto quel che ha detto Clark è vero. E tutti sanno che è vero».101 Ancor più esplicitamente, nel 2006 l'ex ispettore degli armamenti delle Nazioni Unite, Scott Ritter, trasformatosi in saggista, ha scritto nel suo libro Target Iran; «Che non ci siano dubbi: se ci sarà una guerra fra Stati Uniti e Iran, si tratterà di una guerra fabbricata in Israele, non altrove».102 In breve, se Israele e la lobby non si dessero tanto da fare, non si parlerebbe di un attacco all'Iran, né nei palazzi del potere di Washington né altrove. Il minore dei mali Come abbiamo già ripetuto più volte, la migliore alternativa a disposizione dell'amministrazione Bush è accantonare la minaccia della forza e tentare di raggiungere un accordo globale con l'Iran.103 È difficile dire se questa strategia possa essere efficace, ma ci sono buone ragioni per ritenere che in passato avrebbe potuto funzionare e che ciò possa valere anche in futuro. Dall'll settembre, in almeno due occasioni l'Iran ha segnalato il proprio serio interesse a raggiungere un accordo negoziale con gli Stati Uniti.104 Nell'autunno del 2001 l'Iran ha aiutato gli Stati Uniti a rovesciare i Talebani, fornendo informazioni utili per l'individuazione dei bersagli dei bombardamenti in Afghanistan, agevolando la cooperazione fra Alleanza del Nord e Stati Uniti e assicurando il proprio appoggio alle missioni di ricerca e salvataggio. Dopo la guerra, Teheran ha aiutato Washington a mettere un governo amico al potere a Kabul. In quello stesso periodo, il presidente iraniano Khatami chiariva a tutte lettere il proprio desiderio di migliorare le relazioni con Washington, e affermava di considerare gli eventi afghani come un notevole passo avanti in quella direzione. Come negli anni Novanta, all'interno della CIA e del dipartimento di Stato erano in molti a sostenere la necessità di prendere Khatami in parola e normalizzare le relazioni con Teheran. Ma i neoconservatori all'interno e all'esterno del governo si opposero con forza all'idea: la condotta che privilegiavano era un duro confronto con


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l'Iran, e riuscirono a convincere Cheney e Bush ad attuarla. Nel Midiscorso sullo stato dell'Unione, alla fine di gennaio 2002, il presidi !] | te ripagò l'Iran per l'aiuto che aveva offerto in Afghanistan include] I dolo nel cosiddetto «Asse del Male». Inoltre, Bush rese esplicito i li. nei mesi seguenti, nonostante la priorità fosse data al cambio di regi me in Iraq, non era escluso che si occupasse anche dell'Iran, per favo rire un eventuale cambio della guida politica anche in quel paese. Nonostante l'ostilità dell'America, ancora nella primavera d|] 2003 l'Iran - come in precedenza, nel 1997, durante la seconda .un ministrazione Clinton - tentò un'apertura verso gli Stati Uniti. Kh.i tami dichiarò di essere disposto a negoziare sul programma nuclei re iraniano, in modo da rendere immediatamente chiaro che «non esiste da parte iraniana alcun desiderio di sviluppare o detenere anni di distruzione di massa». Riguardo al terrorismo, aggiunse, l'Iran avrebbe posto fine a «qualsiasi forma di sostegno materiale ai gru] I pi di opposizione palestinesi (Hamas, Jihad, ecc.)» e avrebbe esercì tato «pressioni su tali organizzazioni affinché cessassero ogni azioni' violenta contro civili» all'interno dei confini dello Stato di Israele del 1967. Riguardo a Hezbollah, l'obiettivo dell'Iran era trasformarla in «un'organizzazione meramente politica all'interno del LibanoKhatami, inoltre, dichiarava di «accettare» l'iniziativa di pace saudil.i del 2002, inclusa, specificò, la soluzione in essa proposta che preve deva la coesistenza di due Stati. Infine, l'Iran avrebbe collaborato al la stabilizzazione dell'Iraq. In cambio, Khatami chiedeva che gli Stai i Uniti espungessero l'Iran dalla lista dei paesi appartenenti all'«Assc del Male» e cessassero di minacciare il ricorso alla forza militare contro il suo paese. Le sanzioni dovevano essere abrogate e l'Iran reclamava «libero accesso alle tecnologie nucleari per usi civili». In sostanza, Khatami stava promuovendo una soluzione che aveva le caratteristiche di un grande compromesso. 105 L'offerta iraniana fu presentata nel maggio 2003, subito dopo che gli Stati Uniti sembravano aver segnato una seconda, straordinaria, vittoria in Iraq, dopo quella, apparsa anch'essa stupefacente, ripor tata in Afghanistan. A quel punto, erano in molti a ritenere che gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di rimettere ordine nell'intero Medio Oriente. Era, infatti, il momento ideale per costringere l'Iran a un accordo, visto che il prestigio e la forza di persuasione degli Stati Uniti erano all'apice e, corrispondentemente, il senso di vulnerabilità dell'Iran era particolarmente acuto. Sfortunatamente, la posizione favorevole degli Stati Uniti rese Bush più incline a comandare che a negoziare. Inoltre, non c'era solo Israele a premere sul-

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l'amministrazione, affinché prendesse di mira l'Iran, ma anche i neoconservatori e altre organizzazioni della lobby. Bush quasi non prestò attenzione all'offerta di Khatami di negoziare un accordo complessivo fra Iran e Stati Uniti, e ai funzionari americani fu ordinato di non darvi alcun seguito. Non è possibile sapere se si sarebbe raggiunto un grande compromesso, nel caso l'amministrazione Bush avesse sfruttato l'occasione. In Iran ci sono ancora molti radicali che avrebbero ostacolato ogni tipo di accordo con «il grande Satana». Ciononostante, la decisione di Bush di non tentare di raggiungere un accordo con Khatami è stata una follia: il solo fatto di tentarlo avrebbe impedito l'elezione alla presidenza della Repubblica islamica di un estremista come Ahmadinejad, le cui irresponsabili dichiarazioni e il cui atteggiamento bellicoso hanno peggiorato una situazione già difficile. E se il tentativo fosse fallito, e l'Iran si fosse dotato di armi nucleari, gli Stati Uniti potevano pur sempre ripiegare su una strategia di deterrenza. Potrebbe non essere troppo tardi per tentare un compromesso con l'Iran, anche se le probabilità di riuscirci oggi sono inferiori a quelle del 2001 e del 2003. Non solo il potere contrattuale degli Stati Uniti è stato eroso dall'evoluzione della situazione irachena, ma i leader iraniani non hanno più alcuna ragione di fidarsi di Bush. Inoltre, dopo aver sostituito Khatami alla presidenza dell'Iran, Mahmoud Ahmadinejad non ha manifestato alcuna volontà di voler aprire un dialogo con gli Stati Uniti. In ogni caso, le ragioni per tentare di raggiungere un compromesso complessivo sono pressanti: non solo si tratta ancora oggi della migliore strategia per bloccare i progetti nucleari militari dell'Iran, ma gli Stati Uniti hanno bisogno dell'aiuto iraniano per salvare la situazione tanto in Afghanistan quanto in Iraq. Ecco perché, nel dicembre 2006, l'Iraq Study Group ha espresso al presidente Bush la raccomandazione di negoziare con l'Iran, anziché cercare lo scontro. 106 I suoi membri hanno capito che un confronto duro con l'Iran - come quello perseguito dall'amministrazione Bush in passato - offre alla Repubblica islamica un potente incentivo a far precipitare la situazione in Iraq e in Afghanistan; e questo è contrario agli interessi americani.107 Negli Stati Uniti, l'idea di impegnare l'Iran in un serio negoziato gode di molti appoggi.108 Come abbiamo già affermato, sarebbero in molti, nella CIA, nel dipartimento di Stato e nelle forze armate, a sostenerli. Un sondaggio del novembre 2006, appena prima che l'Iraq Study Group pubblicasse il proprio rapporto, indicava che il 75 per cento degli americani riteneva che gli Stati Uniti «dovrebbero trattare


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con il governo iraniano, nel tentativo di costruire una relazione mi gliore». Solo il 22 per cento si dichiarava favorevole a «esercitare pressioni e ventilare la possibilità che gli Stati Uniti ricorrano alla forza».109 La raccomandazione di aprire un dialogo con l'Iran formulai.i dall'Iraq Study Group - un comitato costituito da importanti perso naggi di entrambi gli schieramenti politici - è un altro indice del diffuso appoggio a un'ipotesi di negoziato. Perfino Thomas L. Fried man del «New York Times», che di solito è allineato alle posizioni di Israele, all'inizio del 2007 ha sottolineato come l'Iran sia un «alleato naturale» degli Stati Uniti.110 Benché per gli Stati Uniti abbia indubbiamente senso, da un punto di vista strategico, perseguire un grande compromesso con l'Iran, a sebbene una tale politica goda di un considerevole appoggio dentro e fuori l'America, è improbabile che nel prossimo futuro venga realmente messa in atto: Israele e la sua lobby tenteranno certamente di boicottare qualsiasi tentativo in tal senso, come hanno sempre fatto, ;i partire dal 1993. Anzi, la lobby ha già cominciato a dar contro all'Iraq Study Group e alla sua raccomandazione di avviare un dialogo con l'Iran. Secondo la rivista «Forward», la pubblicazione del rapporto «ha provocato una valanga di proteste da parte delle organizzazioni ebraiche che si oppongono alla sua richiesta di avviare colloqui con Siria, palestinesi e Iran». Ma «personaggi bene introdotti affermano che la vera ragione delle preoccupazioni di Israele non siano né la Siria né i palestinesi, ma l'Iran e il suo programma nucleare».111 Inoltre, probabilmente la lobby si adopererà affinché gli Stati Uniti continuino a minacciare un attacco militare all'Iran, a meno che questi decida di abbandonare il proprio programma nucleare. Dato che questa minaccia non ha avuto alcuna efficacia in passato, e probabilmente continuerà a non averne in futuro, molti dei sostenitori di Israele negli Stati Uniti - soprattutto i neoconservatori - insisteranno nel reclamare che la minaccia si trasformi in azione. Per quanto vi sia ancora la possibilità che il presidente Bush decida di attaccare l'Iran prima della scadenza del proprio mandato, non è dato sapere se ciò accadrà. Non si può neppure escludere, data l'inderogabile retorica cui non si sottraggono i candidati alla presidenza, che sia il suo successore a farlo, soprattutto se l'Iran si avvicinerà ulteriormente allo sviluppo di armi nucleari e se vi continueranno a predominare gli estremisti. Se gli Stati Uniti lanciassero l'attacco, lo farebbero almeno in parte per conto di Israele, e la lobby avrebbe una pesante responsabilità per averli indotti a mettere in atto una politica così rischiosa e contraria al loro interesse nazionale.

Conclusione Come nel caso della politica degli Stati Uniti nei confronti dei palestinesi, della tragica decisione di invadere l'Iraq e dell'atteggiamento di scontro nei confronti della Siria, l'influenza della lobby sulla politica americana nei confronti dell'Iran ha rappresentato un danno per gli interessi degli Stati Uniti. Opponendosi a un disgelo fra Iran e Stati Uniti, e a ogni forma di cooperazione, la lobby ha anche rafforzato gli iraniani favorevoli alla linea dura, contribuendo ad acuire il problema della sicurezza di Israele. Ma il suo impatto negativo non si ferma qui: l'influenza della lobby sulla politica estera americana ha nuociuto gravemente agli Stati Uniti e a Israele durante la guerra del Libano del 2006, come vedremo nel prossimo capitolo.


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