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LA PITTURA RIVOLUZIONARIA NELL’800 RISORGIMENTALE

PALAZZO GONZAGA a cura di

Carlo Vighi - Debora Focarino



La Mostra è posta sotto il Patrocinio di Regione Lombardia Provincia di Mantova Comune di Volta Mantovana Confindustria Mantova Altri contributi BIG S.r.l. / CiaccioArte Bero - Industria materie plastiche Algor Elettronica - Sistemi di sicurezza Falegnameria dei Colli Architettura & Luce



I curatori si sentono in dovere di ringraziare per il sostegno e la collaborazione tutti i prestatori collezionisti privati e galleristi, senza i quali questa mostra non sarebbe stata realizzata. Gli enti e le società che, credendo nel progetto, hanno messo a disposizione la loro professionalità per portare l’esposizione a compimento, in particolare il Dottor Massimo Ciaccio di BIG Srl / CiaccioArte e Il Ponte Casa d’Aste, nella figura del Capo Dipartimento della pittura dell’800 il Dottor Matteo Gardonio. Il Dottor Giancarlo Moroni per la consulenza e l’apporto in qualità di Perito di documenti e manoscritti autografi, per aver selezionato e curato l’esposizione di tutti i documenti originali esposti in mostra, anch’essi di collezioni private. L’ente ospitante, nella figura del Sindaco e di tutta la Giunta Comunale di Volta Mantovana che hanno messo a disposizione dei curatori la magnifica cornice di Palazzo Gonzaga.


LA PITTURA RIVOLUZIONARIA NELL’800 RISORGIMENTALE A cura di Carlo Vighi, curatore della mostra Un modello inedito per lo sviluppo e la promozione della cultura in Italia La mostra in Volta Mantovana dedicata alla pittura rivoluzionaria nell’800 Risorgimentale, costituisce un modello culturale ambizioso e innovativo che si pone come principale obiettivo lo sviluppo dei territori dei cosiddetti centri minori dotati di un patrimonio culturale monumentale di alto profilo poco noto al grande pubblico. La strategia del modello adottato mira a valorizzare il centro storico ed il territorio del Comune collinare dell’alto mantovano distante pochi chilometri dal comprensorio del Lago di Garda. In Italia la diffusione della cultura è troppo concentrata in poche grandi città, dove l’abbondanza dell’offerta culturale è sproporzionata rispetto all’effettiva specifica fruibilità, con un pubblico spesso disorientato e frettoloso, costretto ad un approccio inevitabilmente superficiale, tecnicamente impossibilitato a godere appieno delle reali potenzialità dell’enorme offerta culturale. Un errore strategico tutto italiano con gravi ripercussioni economiche per l’intero Paese: il nostro patrimonio culturale è distribuito in tutta la penisola e offre grandi opportunità ovunque, concentrare le risorse sempre nei medesimi luoghi è dannoso per la diffusione della cultura e per lo sviluppo economico delle attività commerciali e produttive. Il valore del modello proposto deriva dal concerto di una serie di fattori e di considerazioni che esaltano l’efficacia della proposta, in particolare: la bellezza e l’ospitalità dei luoghi, le importanti origini storiche ed un complesso monumentale con la meravigliosa dimora dei Gonzaga arricchita dai suoi stupendi giardini. La scelta del tema risorgimentale per l’esposizione di opere d’arte, riflette le caratteristiche storiche del territorio che assunse un ruolo di primo piano durante le guerre d’indipendenza. Il risultato, ottenuto con ingenti sforzi tecnici e finanziari, è il frutto di una cooperazione tra l’Ente Locale, i collezionisti prestatori delle opere esposte, il team arteE’pensiero con i suoi professionisti, gli sponsor ed i partner tecnici per gli allestimenti. L’esposizione rappresenta una proposta culturale competitiva ed originale che ha incontrato il favore di un pubblico eterogeneo proveniente da più parti d’Italia, meravigliato dai luoghi, dai fasti rinascimentali dell’antica dimora ospitante e dalla bellezza delle inedite opere esposte provenienti da collezioni private, opere di illustri pittori che hanno arricchito la storia dell’arte italiana dell’800.


Ci proponiamo di sviluppare ulteriormente la nostra ricerca, crediamo che il modello proposto possa essere replicato, abbiamo la convinzione che il territorio italiano, ricco di tante altre opportunità nascoste o trascurate, costituisca culturalmente un enorme bacino di potenziale sviluppo, servono determinazione, coraggio e quel pizzico di spirito risorgimentale che caratterizza la nostra mostra. Il valore del pensiero artistico Ottocentesco La lettura di un’opera d’arte va oltre il concetto di mera osservazione passiva, essa è condizione essenziale per un arricchimento personale, per la conoscenza del pensiero creatore e per lo sviluppo di un corretto pensiero critico dell’osservatore. L’opera d’arte offre campi esplorativi che convergono nell’opera stessa e che riflettono le fasi fondamentali del processo creativo: il pensiero fonte dell’opera, l’atto esecutivo essenzialmente tecnico, lo status emozionale dell’artista durante l’atto, il contesto socio- politico- culturale e le inevitabili influenze e conseguenze. Disconoscere uno o più fattori del processo non solo limita la conoscenza dell’opera, ma contrasta con le aspirazioni, i propositi e gli obiettivi della mente creatrice dell’artista puro. Nel contesto creativo l’intelligenza ha un ruolo determinate e decisivo che influisce e condiziona le qualità dell’opera compiuta, una visione baudelairiana che al tempo ha contribuito a scuotere le fondamenta della storia dell’arte. Ancora oggi qualcuno sostiene l’inconsapevolezza del genio, una visione distorta e limitante dettata da una scarsa conoscenza del processo creativo e da una lettura superficiale dell’atto che lo rappresenta. L’opera è sempre la conclamazione di una scoperta che, dopo la meraviglia, supporta un pensiero complesso, non lasciamoci ingannare da un gesto che riflette una tecnica apparentemente istintuale, il linguaggio dell’opera è energia che si sprigiona in varie direzioni, le immagini sono leggibili come parole, per cogliere occorre abbandonarsi sinesteticamente alle emozioni. Nel Settecento l’impronta neoclassica del pensiero di Johann Joachim Winckelmann, attraverso l’assunzione dei modelli dell’arte greca, aveva posto nuove fondamenta nella produzione di opere d’arte, ovvero la rappresentazione classica del convenzionalmente bello come modello di perfezione. Nel secolo successivo l’emancipazione del pensiero svincolato dall’educazione del gusto, avverte che la percezione immediata del convenzionalmente bello e la sua rappresentazione impersonale, costituisce una barriera


che impedisce l’instaurazione di una relazione profonda tra il creatore e l’osservatore, oscurando e vanificando il valore dell’atto creativo. L’artista non può conformarsi a un modello, non imita neppure la natura, al contrario esprime della stessa una sua personale visione, egli è l’artefice di un pensiero indefinito che non conosce conclusioni: “libero pensiero, in libero spazio, con libera mano”. Il pensiero creativo deve svincolarsi da qualsiasi impedimento che compromette l’indipendenza della creazione fuori da qualsiasi giudizio e da qualsiasi ideale di bellezza. L’opera d’arte, prodotta da un pensiero indipendente, costituisce l’atto finale di un processo mentale: un insieme d’impulsi e turbamenti che aprono la strada all’esplorazione, alla scoperta e alla meraviglia. L’artista è un comunicatore, da sempre esplora con la mente l’infinito, giunge alla scoperta e la contempla con meraviglia, coglie le emozioni e le diffonde nel mondo, nella storia molti si sono cimentati nel difficile esercizio, pochi hanno raggiunto lo scopo, per scarsità di talenti o per ragioni di sopravvivenza; specie nel tardo romanticismo ottocentesco dove sovente le scene erano magistralmente rappresentate in maniera teatrale. Il pensiero rivoluzionario ottocentesco rompe gli atavici equilibri ed inizia un percorso esplorativo dal quale scaturiranno nuovi orizzonti, liberata e sprigionata, la creatività genera nuovi modelli, l’artista torna a confrontarsi col suo pubblico, l’opera non è più solo fine a se stessa, relegata a rassicuranti funzioni decorative, ma diviene mezzo espressivo e comunicativo dell’artista. Il cambiamento All’inizio del diciottesimo secolo in campo artistico dilagava l’immobilismo e il disimpegno creativo, una estesa tendenza al convenzionale formalismo con scarso impegno intellettuale in tutte le manifestazioni, gli artisti succubi della committenza erano costretti ad eseguire esercizi pittorici neoclassici, erano ancora lontani i tempi di Charles Baudelaire, sostenitore del romantico Delacroix, e di John Ruskin, sostenitore di Turner e dei Preraffaelliti. Il potere con i suoi tentacoli sovrastava tutte le arti, un’espressione monolitica del pensiero unico, strumentalizzato per la gestione degli obiettivi, una cappa soffocante nella quale tutto ciò che non era conforme veniva isolato ed emarginato. Gli artisti più conosciuti dell’epoca, per quanto molto dotati sotto il profilo tecnico e creativo, spesso per ragioni di sopravvivenza economica non ebbero il coraggio di


rompere gli schemi e i modelli imposti dal rigido modello formale borghese. Già il passaggio dall’arte razionale del Neoclassicismo a quella irrazionale del Romanticismo poteva considerarsi un atto innovativo e rivoluzionario, dal bello ideale con l’assoluto dominio delle passioni, all’esaltazione dei sentimenti, della fantasia e la libera creatività individuale. Da David e Canova a Delacroix, Turner, Gericault, Goya ed il nostro Francesco Hayez che, per quanto non insensibile ai fermenti, non ebbe mai il coraggio di manifestare palesemente la realtà oggettiva degli avvenimenti. Libera creatività individuale limitata dalle convenzioni, dai protocolli accademici e dai vincoli imposti dalla committenza, preziosa per il mantenimento dello status sociale dell’artista, indispensabile per il mantenimento della tranquillità economica. Per motivi essenzialmente politici, l’Italia ottocentesca molto frammentata, si presenta in ambito artistico in ritardo sul percorso dell’indipendenza concettuale rispetto ad altri paesi, un ritardo colmato solo in parte dai vari fermenti locali, ciascuno alla ricerca di una propria identità. In Germania la scintilla rivoluzionaria scocca con Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che rivendica la necessità di concentrarsi sull’espressione sensibile delle idee e non sull’espressione delle tecniche e afferma che le opere d’arte sono espressioni dell’animo dell’artista. In occasione delle sue lezioni di estetica a Heidelberg nel 1817, Hegel declassò il classicismo come punto di riferimento del giudizio estetico promuovendo l’apprezzamento delle arti di ogni epoca, un’affermazione epocale. Con Hegel, per la prima volta dal tempo della critica greca, lo svolgimento dell’arte non ha più luogo secondo l’imitazione della natura, ma secondo la rappresentazione dell’ideale: il simbolismo dei primi segni astratti, l’equilibrio tra il corpo e le idee nell’arte classica ed infine la prevalenza delle idee sul corpo nell’arte romantica (L. Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi 1970, pag. 211). I fermenti rivoluzionari e le fondamenta della modernità Quando la politica non svolge compiti etici, il rischio di rimanere schiacciati tra le leggi e la coscienza è inevitabile, allora meglio l’umiliante mortificazione se non si hanno alternative per la sicurezza della propria esistenza, oppure, meglio l’espressione rivoluzionaria del libero pensiero. Da sempre, in ogni epoca, l’artista “puro” avulso dai compromessi, in un contesto sociale conformista, perbenista e tradizionalista, intrappolato dalle rigide convezioni e, soprattutto, senza autonomia economica, rischia la sopravvivenza. Al tempo il manierismo accademico era soffocante ed invasivo, rigido ed


impegnativo, capace di reprimere qualsiasi atto creativo, l’uso smodato di claustrofobici protocolli didattici ha soffocato talenti e innalzato personalità mediocri sotto l’egida di modelli razionali conservatori. Il potere si logora quando non riesce a perseguire il proprio obiettivo, si logora quando le sue leggi non vengono intimamente accettate, quando il suo rappresentarsi non suscita fascino e non coinvolge lo spirito dell’uomo. Gli artisti innovatori dell’800 erano coraggiosi, audaci, intraprendenti ed anticonformisti, per loro l’arte era innanzitutto una manifestazione di libertà, l’espressione del libero pensiero, liberazione della mente e risorgimento dello spirito oppresso dalle inamovibili politiche conservatrici. Gli effetti del pensiero risorgimentale si videro nelle accademie: gli studenti disertarono le lezioni, non condividendone metodi ed obiettivi e proposero altro, fuori dagli schemi, si affidarono al proprio talento naturale liberando impulsi ed emozioni. Così esplose la nuova arte frutto di spontanea creatività, ricca di vibranti accostamenti cromatici, una pittura coinvolgente che continua a penetrare nel cuore dell’osservatore, finalmente un rapporto stretto tra il pubblico e l’artista. Tanta ritrovata libertà era suffragata dall’indipendenza economica, gli artisti più intraprendenti dell’ottocento provenivano da famiglie abbienti, il denaro garantiva libertà di pensiero e di movimento fuori dalle catene della committenza, una rivoluzione storica con profonde ripercussioni su tutta la storia dell’arte. Da un modello del “fare arte su commissione” vincolato da lacci e laccioli ideologici, estetici e decorativi e conseguentemente da logiche di mercato, ad un modello “del fare per se stessi” come espressione del proprio essere e come mezzo per relazionarsi col prossimo. Svicolato dalla committenza, nessuna regola può incatenare l’irrefrenabile creatività dell’artista, rompere le catene comunque impone un clamoroso atto di coraggio, tanto coraggio; un atto eroico che prelude a qualsiasi profondo cambiamento. Gli artisti innovatori come i Macchiaioli erano rivoluzionari che non hanno mai smesso di sognare, avventurieri dello spirito, esploratori dell’universo, esseri straordinari. I rivoluzionari sono prima di tutto esseri creativi, amanti della vita nel suo vero significato, una meravigliosa avventura che comunque merita un coinvolgimento completo del nostro essere, senza rimpianti. Le tecniche stesse delle loro pitture sovvertivano i rigidi protocolli accademici, dove lo stile puntuale Ingresiano irrigidiva il libero sfogo delle emozioni e condizionava sensibilmente la scioltezza della mano. Essi sostenevano l’impossibilità della pittura fondata sul disegno e sui contorni prediligendo l’astrazione grafica, accenni per non delimitare spazi e per allontanare confini, lasciando al pubblico sguardo la massima personale immaginazione. Pitture tonali, rese a macchie o a piccoli tocchi e soprattutto il rifiuto di chiudersi nello studio al buio, meglio nelle campagne, nei boschi, nelle città, in mezzo alla gente e immersi nella natura dove c’è vita reale.


Le opere esposte a Palazzo Gonzaga sono testimonianze di un vissuto straordinario in un’epoca grigia, dominata da un atavico ed insensato immobilismo che ha condizionato ogni libera espressione nel tentativo di soffocare ogni afflato e nella convinzione che tutto è governabile sotto le leggi strumentali di un rigoroso e soffocante quanto asettico razionalismo. Le pitture manifestano le tracce di un risorgimento personale, si allargano gli orizzonti e si ricomincia finalmente a sognare. Libertà è la parola che da sempre ha contraddistinto l’egida di ogni moto rivoluzionario, vivere liberi è il sogno di ogni essere umano, la vita è l’esperienza del vivere, trasformarsi per trasformare, il pensiero vola, fugge dal monotono e convenzionale quotidiano, esplora la natura e le sue spettacolari manifestazioni. L’artista risorge dal grigio e statico perpetuarsi dei soliti riti, rompe le catene della committenza e fugge col pensiero, librando con la mente, immerso nella natura per rinnovarsi e rinnovare il mondo. Nasce un nuovo tipo d’artista, non più servo colto del padrone, ma protagonista intellettuale e libero di esprimere, come nel caso dei pittori soldato, di partecipare attivamente ai fermenti della vita sociale. Il risorgimento dell’arte o meglio delle arti, è andato pari passo con quello della politica e del sociale, una dura battaglia che ha coinvolto tutte le fasce sociali. Liberi di scegliere, liberi di pensare, liberi di esprimere con qualsiasi mezzo espressivo, quindi liberi di dipingere qualsiasi cosa e con la tecnica più adatta alle proprie capacità. Il Risorgimento è una lezione di speranza, l’epopea dello spirito innovatore animato da un grande coraggio, nulla è inamovibile, solo la speranza ci consente di andare oltre, speranza e coraggio sono gli ingredienti dell’innovazione, un processo millenario che ha generato e mutato le civiltà di ogni tempo. I risorgimentali furono riformisti passionali, indomabili sognatori.


LE MOTIVAZIONI A cura di Monica Daccò, coordinatrice di arteE’pensiero Perché una mostra sul Risorgimento? Il panorama culturale-sociale-politico attuale vive un momento di profonda crisi che riflette da un lato il crollo di quei valori che costituivano il tessuto connettivo delle dinamiche comunitarie nello spazio pubblico, dall’altro l’urgente necessità di ripensare un paradigma etico capace di rintracciare e comprendere nuovi significanti e significati nella complessità della globalizzazione. Riflettere sulla storia e leggere il pensiero che ha orientato le azioni, attraverso le molte espressioni culturali di uomini e donne che hanno saputo guidare un popolo verso un profondo cambiamento, verso un prezioso quanto ambizioso traguardo, può diventare una risorsa, uno stimolo e un monito. Non si tratta semplicemente di ripercorrere avvenimenti, di rimpiangere epoche, di rimanere ancorati ad una retorica sul passato, ascoltare un testo, leggere un manufatto, significa saper cogliere e portare a noi una testimonianza arricchita di sempre nuove interpretazioni che aggiunge al presente, offrendo così gli strumenti per pensare nuovi scenari e nuovi percorsi di educazione e formazione sociale e culturale. Il progetto sotteso a questa mostra suggerisce la possibilità di cogliere la profonda espressività del linguaggio pittorico nella narrazione dell’esperienza storica mediata dal sentire creativo e calata pienamente nella vita vissuta degli artisti: le opere d’arte divengono così particolari testi di lettura ai quali la scrittura dei documenti presenti fa da impalpabile cornice, un dialogo che rivela la partecipazione dell’arte nella formazione di quello spirito assoluto che Hegel immaginò come sintesi tra il pensiero e la storia, manifestazione dell’idea e della verità: “Quando l’arte è presente nella sua massima perfezione, è essa a possedere proprio nelle sue immagini il genere di esposizione più essenziale e più corrispondente al contenuto della verità [..] della coscienza della verità.” (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, 1807). Lo Spirito nella storia, la realizzazione nella libertà Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta; dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. [..]


Noi siam da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò. [..] Goffredo Mameli, Fratelli d’Italia (1847) Così scriveva Mameli a Genova componendo il suo inno in occasione dei moti popolari ispiratori di tutti quegli episodi rivoluzionari che condussero all’unità d’Italia nel 1861. L’Ottocento fu per l’Italia un secolo di grandi cambiamenti favoriti e orientati da quegli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità che già alla fine del secolo XVIII avevano permeato lo spirito dei rivoluzionari francesi; ideali nati nell’alveo del pensiero illuminista, esasperati ed esauriti nella spregiudicata politica di potenza del dispotismo napoleonico. Fu proprio il desiderio di strappare l’Italia al dominio straniero che accese il forte senso patriottico e lo spirito rivoluzionario nelle popolazioni italiche: letterati ed intellettuali cominciarono ad inneggiare alle gesta eroiche di quel passato glorioso che richiamava i fasti dell’Impero Romano, esaltando l’idea di appartenenza ad un unico popolo, ad un’unica nazione. Gli ideali illuministi avevano aperto il varco verso la ribellione, ma rappresentavano anche, per l’Italia, le catene dell’oppressore napoleonico da cui ci si voleva liberare, così il nostro riscatto sorse dalle ceneri dei Lumi in un nuovo movimento di pensiero, il Romanticismo, che, fondendo insieme il culto delle tradizioni nazionali con gli ideali di libertà e democrazia ereditati dall’Illuminismo, investì il Risorgimento italiano. Dunque amor di patria e libertà, impegno civile e politico, critica all’astrattismo illuministico sono i rinnovati ideali che caratterizzano la cultura europea nella prima parte dell’Ottocento e che in Italia accompagneranno tutto il periodo risorgimentale. Letterati e artisti partecipano attivamente al progetto risorgimentale dando vita a veri e propri miti e narrazioni costruiti sull’idea di unità nazionale sulla quale fondare l’identità di un popolo e lo sforzo, l’enorme sacrificio speso per ottenerne il riconoscimento. Nel panorama culturale dell’epoca letteratura, arte, musica e la neonata fotografia, divennero fonte e veicolo di narrazione e di propaganda politica oltre che di denuncia sociale: tra Romanticismo e Verismo


autori celebri come il Manzoni e il Verga diedero alle loro opere maggiori una marcata impronta risorgimentale che rivendicava la libertà dall’oppressore, come nel romanzo manzoniano I promessi sposi e come nella lirica patriottica manzoniana Marzo 1821 o denunciava la misera condizione del sud Italia e della Sicilia in particolare, aree in cui l’eco della rivoluzione stentava ad arrivare, come descritto magistralmente nei romanzi del Verga. Nei salotti e nei luoghi di discussione intellettuali si leggevano articoli sulla difficile situazione socio-culturale, nelle grandi città si distribuivano giornali e riviste che esaltavano gli ideali del Romanticismo e promuovevano il risorgimento popolare: Il Conciliatore sarà la prima, fondata nel 1818 a Milano da Silvio Pellico e da altri intellettuali; nel fermento culturale dell’epoca la prosa si arricchisce di una nuova forma di letteratura: romanzi e novelle per ragazzi per incentivare l’istruzione tra i giovani ed anche la musica parla al popolo di ideali patriottici e sentimenti nobili con le opere liriche delle quali creeranno capolavori autori come Rossini, Bellini, Verdi, mentre le canzoni popolari saranno dedicate ai protagonisti delle lotte per l’indipendenza: Garibaldi fu il più cantato. Un momento fecondo anche per l’arte che ci racconta di un’epoca in cui gli artisti furono attivisti politici e promotori culturali che rivoluzionarono l’estetica pittorica svincolandola da accademie e formalità, che abbracciarono le idee e i fermenti di emancipazione nascente, che diventarono la voce di un popolo esaltando nelle loro opere il sentimento patriottico, che vollero credere e sperare in un’Italia finalmente riunita in una nazione libera.



Palazzo Gonzaga, una nobile residenza di campagna tra Rinascimento e Risorgimento a cura di Lisa Cervigni, responsabile culturale del Museo di Palazzo Gonzaga La mostra “La pittura rivoluzionaria dell’Ottocento risorgimentale” è ospitata all’interno di una delle residenze storiche più rilevanti della Lombardia, palazzo Gonzaga, detto anche Gonzaga Guerrieri, un contesto architettonico e storico-culturale di altissimo respiro. Le origini di questa antica ed affascinante dimora, oggi sede del Municipio e cuore pulsante della vita sociale e culturale di Volta, si devono ad una determinata e abile nobildonna tedesca, che nel 1433, all’età di undici anni, andò in sposa a Ludovico Gonzaga per divenire così, una decina di anni dopo, Marchesa e Signora di Mantova. Il suo nome era Barbara, dell’antica casata degli Hohenzollern, margravi del Brandeburgo . Non stiamo parlando dunque né di una donna né di una residenza qualunque, ma della prima donna del marchesato e della villa che lei stessa volle fortemente costruire come dimora di campagna per la sua famiglia, tanto che negli anni intorno al 1465, come sappiamo dalla documentazione rimasta, si occupò personalmente della sua edificazione, sovrintendendo ai lavori con abilità e senso pratico, tanto da meritarsi l’appellativo di “muratore”. È Ludovico stesso, costantemente informato via lettera da Barbara sull’avanzamento del cantiere, a lasciarci in un suo scritto questa inusuale e spiritosa immagine di lei: “Nui se meravigliamo grandemente che quello muratore lì dela illustrissima nostra consorte habia ardire de batere quelli nostri homini” . E così la immaginiamo Barbara tra queste mura non ancora terminate, impegnata a riprendere i muratori, a dispensare ordini e ad amministrare accuratamente il cantiere: più un’abile “resdòra” mantovana che un’algida primadonna di corte dedita al lusso e ai pettegolezzi. Del resto anche il bellissimo ritratto che ne dà il Mantegna nella Camera Picta del Castello di San Giorgio a Mantova si sposa con l’idea di una donna teutonica e robusta, forte, risoluta, ma anche bonaria e concreta, prima di tutto una brava donna di casa e un’amministratrice capace della famiglia e del regno. Ludovico e Barbara soggiornarono varie volte nel loro palazzo di Volta già dal 1466, quando probabilmente il cantiere era ancora aperto, e negli anni successivi, insieme ai loro figli e alla corte, fino alla morte di lui nel 1478 e di lei solo tre anni più tardi . Questa amena dimora diventò un punto di riferimento in occasione degli spostamenti all’interno dei loro territori e per il controllo dei confini settentrionali, ma anche un vero e proprio rifugio, un luogo di villeggiatura posto tra le colline, baciato dall’influsso del 1 MALACARNE 2004, pp. 69-70. 2 ASMn, AG, b, 2406: lettera del 30 settembre 1466. Mezzadrelli 2004, p. 74. 3 MEZZADRELLI 2004, p. 74


vicino Lago di Garda e dalle belle montagne veronesi, arioso, salubre e salutare certo più della nebbiosa Mantova. L’aspetto dell’originario palazzo quattrocentesco doveva essere alquanto differente da quello che oggi vediamo, più ampio nelle dimensioni e frutto di una serie di ampliamenti e restauri avvenuti già dal XVI secolo, ma il nucleo principale, il cuore nobile della casa, con le grandi sale e l’ingresso ampio e profondo, resta quello di Ludovico e Barbara. Non certo le decorazioni di soffitti e affreschi, frutto di stratificazioni successive, ma l’impianto e l’ossatura della casa sono ancora quelle. Anche alcune cantine e la bella Casa del Giardiniere, già parzialmente preesistenti, ne facevano parte. Non c’erano i giardini, almeno quelli che oggi conosciamo, poiché il palazzo si addossava proprio all’interno del muro di cinta orientale del castello di Volta, che al tempo di Barbara conservava ancora la sua funzione difensiva. Quelli che oggi possiamo ammirare, disposti su quattro diversi livelli, iniziarono ad essere realizzati a partire dalla prima metà del Cinquecento, quando il castello aveva ormai perso la sua funzione difensiva e si poteva aprire il palazzo verso quelli che in precedenza erano gli spazi dedicati al profondo fossato, che correva tutto intorno alle mura fortificate. A quell’epoca il complesso non era già più di proprietà Gonzaga: nel 1515 era stato donato a Ludovico Guerrieri, insigne collaboratore dei marchesi, soprattutto di Francesco, marito di Isabella d’Este, ed era stabilmente abitato già da anni da suo fratello Giovanni Battista, vicario di Volta . Da tale data i Guerrieri lo abiteranno per secoli, ad eccezione di brevi periodi, fino al 1929, quando per diritto di successione passerà alla famiglia Cavriani e infine, negli anni Ottanta, al Comune di Volta che ne farà la sede municipale . I numerosi padroni di casa che si susseguirono negli anni lo modificarono in base al loro gusto personale, alle mode e alle necessità del momento, adeguando spazi, creandone di nuovi, riaffrescando sale o progettando nuove aree verdi. Di certo un importante cantiere di riqualificazione si ebbe verso la fine del Cinquecento, quando fu aggiunta a nord la grande cucina con i suoi annessi, l’oratorio a sud, di cui ancor oggi possiamo ammirare parte degli affreschi, e le scuderie con la bella piazza antistante e una piccola palestra per il gioco della pallacorda, poi trasformata in teatro. Risalgono a quest’epoca le pareti e i soffitti decorati più antichi oggi visibili in alcune parti del palazzo, come nella Sala delle Forze di Ercole; è possibile che al di sotto di essi si conservino ancora tracce delle decorazioni gonzaghesche, a cui potrebbero appartenere alcuni lacerti di intonaco affiorante al primo piano. Ci troviamo dunque di fronte ad un palinsesto stratificato complesso, ad un nucleo originario a cui via via si aggiunsero nuovi spazi, fino ad arrivare alla configurazione attuale. Gli interni sono il risultato di una numerosa serie di trasformazioni lente e continue,perpetrate in più di cinque secoli e che tutt’oggi proseguono, dettate dalle esigenze contingenti di chi lo vive. 4 MEZZADRELLI 1993, p. 32. 5 Per i vari passaggi di proprietà si veda Mezzadrelli 1993.


Se in ogni epoca il palazzo fu senza dubbio un punto di riferimento primario nella vita sociale, politica, culturale e mondana del paese, nella prima metà dell’Ottocento fu abitato da Tullo Guerrieri, a cui dobbiamo l’annessione alla proprietà della chiesa di San Carlo, la costruzione del tunnel sotterraneo per raggiungerla e la realizzazione della bella limonaia, ricavata nella parte inferiore dell’ormai dismesso oratorio tardo cinquecentesco. Tullo morì in queste stanze nel 1845; pochi anni dopo il palazzo venne a trovarsi sulle linee di movimento delle truppe austriache e piemontesi nel corso della prima guerra di indipendenza, e da quel momento assunse un ruolo primario e strategico all’interno delle vicende belliche legate all’Unità d’Italia. L’11 aprile del 1848 Carlo Alberto firmò in questo palazzo il decreto con cui ordinava alle navi mercantili piemontesi di inalberare il vessillo tricolore con lo stemma sabaudo, mentre il 24 giugno del 1859 l’imperatore Francesco Giuseppe da qui seguì l’andamento della battaglia di Solferino e poi fuggì “aprendosi a stento un varco tra le truppe“ dopo la sconfitta . Tra il 1859 e il 1866 il palazzo ospitò Napoleone Bonaparte, Garibaldi, il principe Amedeo di Savoia e Vittorio Emanuele. Nel 1909 Vittorio Emanuele III vi soggiornò insieme alla consorte, ospite dell’allora proprietario, principe Ferrante Guerrieri, per assistere alle grandi manovre dell’esercito italiano. In questa occasione avvenne una delle trasformazioni che oggi più affascina i visitatori: una delle camere da letto fu completamente rifoderata con tappezzeria dorata e stucchi in perfetto stile sabaudo, mentre il bagno personale dei reali venne ricavato nella stanza attigua. Nulla di eclatante, se non si fosse trattato della parte superiore dell’abside dell’ex oratorio tardo cinquecentesco del palazzo, ormai da tempo caduto in disuso. Se il re vide soltanto una elegante e moderna sala da bagno con tanto di vasca e di linde pareti bianche appena tinteggiate, oggi l’effetto straniante causato dai restauri che hanno riportato in luce gli affreschi dell’originaria chiesa rende immediata anche al neofita la comprensione di quanto nel tempo le esigenze di chi abitò in queste sale trasformarono e talvolta trasfigurarono il palazzo, consegnandoci tuttavia un monumento di altissimo pregio, che ancora conserva e regala atmosfere cariche di suggestione e di storia e meravigliosi scorci di pura bellezza. Bibliografia Malacarne G. 2004, Il profilo della nobiltà, in D. MARTELLI (a cura di), Milleanni di Storia e Fede a Volta devota alla Beata Paola Montaldi, Brescia, pp. 69-72. Mezzadrelli C. 2004, La casa de la illustrissima nostra madonna, in D. MARTELLI (a cura di), Milleanni di Storia e Fede a Volta devota alla Beata Paola Montaldi, Brescia, pp. 73-77. Mezzadrelli C. 1993, Il palazzo Gonzaga Guerrieri in Volta Mantovana, Volta Mantovana. 6 MEZZADRELLI 1993, pp. 57-61. 7 Ibidem, pp. 65-66.




CATALOGO OPERE ESPOSTE IN PALAZZO GONZAGA

A cura di Debora Focarino, curatrice della mostra



INTRODUZIONE Il titolo scelto per la mostra La pittura Rivoluzionaria dell’800 Risorgimentale declina già in sé un aspetto fondamentale che ha fatto da cardine per tutto il percorso espositivo ed è racchiuso nel termine Rivoluzionario. Come ci insegna la storia, sono diverse le rivoluzioni che punteggiano il secolo: da quelle politiche, sociali e tecnologiche che naturalmente producono cambiamenti anche in ambito artistico spingendo l’artista, cassa di risonanza della sua contemporaneità, a rinnovarsi ed evolvere. L’esposizione racconta, attraverso immagini e documenti storici, un percorso sia temporale che stilistico che si snoda sotto gli occhi del fruitore. Il mutamento artistico condensato nella trasformazione della tecnica pittorica avviene in progressione attraverso le sale della mostra, mediante la scelta di opere rappresentative di autori e correnti, che meglio testimoniano i passaggi da una pittura accademica alle diverse interpretazioni personali e libere dei pittori. Oltre allo sviluppo del tratto, alla padronanza del colore ed allo studio sulla luce, le opere esposte enunciano rivoluzioni legate al soggetto iconografico che trova un nuovo e concreto fondamento nella realtà. I protagonisti non sono più eroi immaginari, figure iconiche imperturbabili o legate a storia e letteratura, ma l’artista ritiene degni di attenzione gli umili, la gente comune, descritta all’interno di contesti quotidiani che parlano del vissuto del pittore, dei suoi luoghi. La necessità di dipingere all’aperto, il contatto con la natura, il bisogno di comunicare ciò che si sente oltre a quello che si vede in maniera sempre più profonda; la volontà di appropriarsi di un proprio stile pittorico, la libertà di esprimerlo mediante l’uso di colore e pennello senza schemi, sovrastrutture o dogmi. Questo è quello che l’800 produce in pittura: per la prima volta il protagonista è l’artista e non più il suo soggetto pittorico. Questo porta all’affermarsi di diverse correnti, ognuna della quali risulta rivoluzionaria per innovazione e tecnica esecutiva. Questa mostra ha voluto descrivere al grande pubblico ciò che il XIX secolo è stato per il nostro Paese, dal punto di vista storico, sociale, politico e soprattutto artistico, perché non c’è cosa migliore che raccontare il vissuto di un popolo intero mediante la sensibilità dell’animo di un arista. Debora Focarino


SALA 2 Opere esposte di: - Lodovico Reymond - Emile Levy - Casimiro Ottone - Gaetano Chierici - Giuseppe De Nittis



Lodovico Reymond (1825 Torino, 1898 Torino)

Opera esposta: “Scena d’interno” Olio su tela cm 120x160 Frequenta l’Accademia Albertina di Torino dove ha come maestro Carlo Arienti. Appassionato di storia e letteratura medievale, ne trae soggetti che caratterizzano la sua intera produzione artistica. Decisamente legato ai dettami accademici, la sua è una pittura accurata e convenzionale che descrive meravigliosamente le caratteristiche del romanticismo storico dei primi del secolo. Nel caso dell’opera in mostra, il riferimento iconografico è sicuramente medievale e l’impostazione scenografica è strutturata secondo regole e dettami accademici. La vicenda si svolge tutta in primo piano dove i personaggi che animano l’interno di un’abitazione di alto rango, sono a disposizione del fruitore. Seppur rappresentati nell’intento di eseguire un’azione, tutta la composizione appare statica, rigida, come fosse il fermo immagine di una pièce treatrale. Non traspaiono emozioni o stati d’animo, aleggia un’imperturbabilità decisamente concorde con le regole di sapore neoclassico. La cura dei dettagli e la tecnica precisa, diventano un’esaltazione della bravura dell’artista che si concede un leggero divertissement nell’utilizzo di cromatismi che vanno ripetendosi nella scena animata mediante un ritmo ad onda sinusoidale. Tutta la composizione si svolge secondo un’alternanza di linee verticali che si intersecano con quelle orizzontali, creando un reticolo prospettico che scandisce profondità, punto di vista e prospettiva. Un esempio eccellente di dottrina classica, un esercizio di pittura fortemente legato al passato, che presto verrà ritenuto superato.


“Scena d’interno” olio su tela cm 120x160


Emile Levy

(1826 Parigi, 1890 Parigi) Opera esposta: “Coppia alla fonte” Olio su tela, 1869, cm130x77 Nato e morto a Parigi, viene segnato indelebilmente da un soggiorno italiano che esaspera, con lo studio dell’arte classica, il suo ferreo accademismo. Non si discosta mai dai dettami e dagli schemi accademici anche nei soggetti: predilige infatti temi storici, allegorici, religiosi e qualche soggetto di genere. Il dipinto esposto in mostra non fa eccezione trattandosi certamente di un soggetto allegorico. La staticità, la compostezza e l’imperturbabilità dei due giovani ritratti alla fonte è di chiaro stampo neoclassico, con qualche piccola concessione al romanticismo data dal lieve tocco delle due mani e dallo sguardo lievemente reticente di lei. La composizione è ben studiata nei volumi e nelle forme che seguono l’andamento verticale del supporto. La messa in posa dei personaggi ne esalta caratteristiche fisiche quasi iconiche, illusorie ed idealizzate. Attenta e precisa è anche la resa pittorica eseguita “a mestiere” mediante velature e sovrapposizioni di stesure ad olio. Gli incarnati e i dettagli anatomici risentono chiaramente di una retorica classica che sublima i personaggi rendendoli immagini emblematiche. In tutte le sue caratteristiche, questo dipinto può essere definito come l’unione esemplificativa di un retaggio artistico classico, ormai in via di declino.


“Coppia alla fonte” Olio su tela, 1869, cm130x77


Casimiro Ottone

(Vigevano 1856 - Vigevano 1942) Opera esposta: “Natura Morta di ortaggi” Olio su tela, cm 58x47 Di famiglia povera, i suoi esordi lo vedono apprendista dello zio imbianchino. Successivamente si trasferisce a Milano dove è impegnato come aiuto di pittori decoratori che lavorano nei “cantieri” cittadini. Grazie ad un sussidio concessogli dal Municipio di Vigevano, riesce ad iscriversi all’Accademia di Brera ed a partecipare ad alcune esposizioni. In quest’opera è chiaro il legame ancora presente con gli studi accademici. Lo stesso tema iconografico rappresentato risulta datato rispetto ai fermenti modernisti che già animano le tele dei sui contemporanei. Una natura morta con ortaggi poveri, contadini, che non solo ci fanno pensare alle sue origini meno abbienti, ma probabilmente fanno anche riferimento a un probabile esercizio di pittura dal vero che il pittore realizza con ciò di cui dispone. Lo stile pittorico e l’impianto compositivo suggeriscono una dipendenza dalle regole stereotipate legate ad accademismi che presto, anche in Ottone, verranno infrante.


“Natura Morta di ortaggi� Olio su tela, cm 58x47


Gaetano Chierici

(Reggio nell’Emilia, 1 luglio 1838 – Reggio nell’Emilia, 16 gennaio 1920) Opere esposte: Pendant “La culla /La pappa” Olio su tela, cm 57x69 Emiliano di origini e di formazione artistica, Gaetano Chierici ai suoi esordi risulta molto influenzato dalla pittura purista di Adeodato Malatesta e dello zio Alfonso Chierici, anch’egli pittore, per poi subire il fascino innovativo della “pittura di macchia”. Intorno agli anni ’70 dell’800 inizia il suo approccio alla pittura di genere caratterizzata da interni domestici di carattere aneddotico che saranno la sua cifra stilistica per tutta la produzione artistica successiva. Scene rappresentate da vivida prospettiva che raccontano un’indigenza quasi “mitizzata” con una tecnica minuziosa, quasi calligrafica della realtà di cui si fa testimone silenzioso. I soggetti e le ambientazioni rappresentati sono di facile lettura, gradevoli alla vista, ricchissimi di particolari realizzati con un realismo fotografico. La coppia di dipinti esposta in questa sede non fa eccezione, anzi, risulta il vero e proprio emblema del corpus dell’artista. L’interno povero, di una casa contadina, racchiude in sé una piacevole atmosfera di tranquillità ed idillio; sicuramente emerge un’attenzione alle classi meno abbienti per contesto e situazione ma i visi sorridenti, le guance rubiconde e l’atteggiamento gioioso dei piccoli protagonisti, rivelano ancora una sorta di idealizzazione poco incline al reale. Una sorta di riferimento simbolico alla maternità ed alla fanciullezza in senso universale che trascende, o in taluni casi eleva gli animi, rispetto la situazione economico-sociale di appartenenza. Una tecnica che per minuzia, risulta più vicina ai fiamminghi olandesi che non ai fermenti avanguardisti della metà del secolo, ma che proprio per questo funge da spartiacque tra il forte legame accademico e l’innovazione individuale della pittura dell’800.


Pendant “La culla /La pappa” Olio su tela, cm 57x69


Giuseppe De Nittis

(Barletta, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 21 agosto 1884) Opera esposta: “Ritratto della moglie Lèontine” Dono al Principe di Barletta Nasce in Puglia e da qui il legame con il finale destinatario dell’opera in oggetto: il principe di Barletta. Di indole insofferente e indipendente, si allontana presto dai dogmi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove studia, per cominciare un percorso alternativo fatto di viaggi e conoscenze. Dopo aver soggiornato a Napoli, Roma, Firenze, Venezia e Torino, si reca a Parigi dove incontra Jean Lèon Gèrome, pittore e scultore. Due anni più tardi ne sposa la figlia Lèontine Lucile Gruvelle che non solo vediamo ritratta nel dipinto in mostra, ma che avrà una notevole influenza sulle scelte sociali ed artistiche del pittore. Nonostante le frequentazioni parigine, entrambi coltivano un legame forte e duraturo con la città natale del pittore, tanto che nel suo testamento, Lèontine destina il loro denaro contante alla Municipalità di Barletta. Questo piccolo ritratto realizzato appositamente per il Principe, ha tutte le caratteristiche formali e rigorose di un dono ufficiale. Le stesse vesti con le quali la moglie del pittore è ritratta, si rifanno ad un gusto settecentesco come anche l’impianto compositivo che ha il sapore di una miniatura antica. La grande capacità artistica di De Nittis è qui raccontata nei dettagli precisi e nella resa in punta di pennello del viso, della sofficità della parrucca e nel velluto del cappello frangiato. La particolarità di questo piccolo dipinto che pare un cammeo, sta proprio nella profonda diversità con i lavori dell’artista noti ai più. Proprio per esacerbare questa profonda dicotomia stilistica, in mostra si è scelto di esporre questo dipinto nella prima sala e, in chiusura dell’esposizione, un’opera completamente antitetica, ma della medesima mano. Questo per sottolineare ulteriormente l’evoluzione di uno stile pittorico personale, legato a tutte le rivoluzioni avvenute durate il secolo.


“Ritratto della moglie Lèontine” Dono al Principe di Barletta


SALA 3 Opere esposte di: - Gerolamo Induno - Domenico Induno - Silvestro Lega - Antonio Mancini - Emilio Gola



Domenico Induno

(Milano, 14 maggio 1815 – Milano, 5 novembre 1878) Opera esposta: “Pittrice al cavalletto” Olio su tela, cm 65x51 Gli esordi giovanili di Domenico Induno lo vedono apprendista orafo, solo successivamente si iscriverà all’Accademia di Brera dove ebbe come maestro Francesco Hayez. Quest’ultimo influenzerà enormemente la pittura di Domenico per tutta la sua carriera artistica. Le tematiche iconografiche sono legate alla pittura di genere, che si concentra in interni domestici legati a soggetti di interesse sociale. Gli sconosciuti personaggi delle sue opere vengono elevati a rappresentanti iconici di una classe sociale, protagonisti della storia contemporanea e dei suoi cambiamenti. Il soggetto del dipinto in mostra è perfettamente coerente con quanto sopra descritto, seppur a prima vista banale. Non si tratta infatti della ragazza di buona famiglia borghese che dipinge per diletto, ma da alcuni dettagli fondamentali, si palesa un mestiere vero e proprio. La pittrice si trova all’interno di una casa privata importate, ha posizionato il suo cavalletto pieghevole, probabilmente di fronte al committente dell’opera, ed esamina da un punto di vista distaccato ciò che ha appena realizzato. La valigetta con i colori ed il necessario per dipingere, si trova appoggiata, aperta su un mobile accanto a lei, sotto il quale si trova un panno, posto con attenzione per evitare di danneggiare il prezioso appoggio improvvisato. Tutti questi dettagli vengono forniti al fruitore per sottolineare un mestiere vero e proprio, per trasmettere un messaggio di evoluzione sociale importante: non solo la donna ritrattata lavora, ma esegue un mestiere tradizionalmente maschile. La tecnica pittorica precisa e dettagliata, come poi rivedremo nel fratello minore, Gerolamo, non solo scandisce minuziosamente il contesto, ma fornisce allo spettatore anche informazioni fondamentali per leggere in maniera corretta il personaggio. La straordinaria capacità pittorica, la precisione della resa di ogni dettaglio e la destrezza nel restituire con i colori la consistenza tattile dei materiali, non può che ricondurci al celebre maestro di Domenico: Francesco Hayez.


“Pittrice al cavalletto” Olio su tela, cm 65x51


Antonio Mancini

(Roma, 14 novembre 1852 – Roma, 28 dicembre 1930) Opera esposta: “Ritratto della madre” Ovale, pastello su carta, cm 40x53 Artista dall’abilità pittorica talmente precoce, da essere ammesso all’Accademia di Belle Arti di Napoli appena dodicenne. In seguito a viaggi formativi a Venezia, Parigi e Londra, rientra a Napoli con uno stile pittorico fortemente influenzato dalle diverse esperienze e conoscenze (come ad esempio quella di Degas e Manet). In questo periodo è soggetto a diverse crisi depressive che lo porteranno ad un ricovero in una casa di cura che durerà un anno. Una volta dimesso, torna a Roma sua città natale, dove è circondato dalla famiglia e da colleghi pittori a lui cari. I suoi soggetti sono sempre caratterizzati da un velo di tristezza, eseguiti in maniera agitata, con guizzi di luce, proprio come l’opera esposta in mostra. Artista geniale e fuori da ogni schema, che contrappone ad una tecnica furiosa una sorta di ritrattistica solenne, mai retorica, a suo modo aulica, come testimonia questo ritratto della madre. Calzante è la definizione che Giovanni Testori, storico d’arte, fece della pittura manciniana nel 1986: ”Porta il ritratto al limite in cui il disfacimento della materia corporale, che è carne e insieme colore, paralizza se stesso in una sorta di mai visto “contro-mano” pittorico e psicologico”. Analizzando questo magnifico disegno è palese come la disgregazione della materia fisica in realtà fa assumere a quella pittorica un’aura impattante, sia dal punto di vista emotivo che tecnico. Utilizzando la tonalità stessa della carta, unita al carboncino ed al gesso bianco, crea in un turbinio di tocchi convulsi la tridimensionalità di un viso naturalistico e carico di espressione. La gestualità e la capacità pittorica di Mancini raggiungono in quest’opera i massimi livelli proprio perché si tratta di un disegno. Non è presente nessun artificio, niente pennellate materiche, niente inserimenti di pietre o vetri (cosa che spesso troviamo nei suoi oli su tela) nessun contrasto cromatico ardito, nulla che possa distogliere lo sguardo del fruitore da ciò che solo la mano dell’artista riesce a creare con carta, carboncino e gessetto. La testimonianza di un impeto irrefrenabile, di una gestualità disperata e necessaria, forse antidoto al male di vivere che affliggeva una personalità sensibile e ricettiva.


“Ritratto della madre� Ovale, pastello su carta, cm 40x53


Silvestro Lega

(Modigliana, 8 dicembre 18 Firenze, 21 novembre 1895) Opera esposta: “Viso di donna” Olio su tavola, cm 35x26 Interessato fin dalla tenera età all’arte, a 17 anni riesce, grazie all’intercessione del padre, ad entrare in Accademia a Firenze. Dopo qualche anno iniziò a considerare l’approccio accademico all’arte sterile e mortificante, tanto da abbandonarne la frequentazione. Coincide con questa riflessione personale dell’artista, l’inizio dei tumulti risorgimentali in Toscana decisamente sentiti anche dalla gente comune, tanto che il giovane pittore si fa coinvolgere attivamente nelle vicende belliche come volontario. Lasciate le campagne militari è spesso presente al Caffè Michelangiolo prendendo però le distanze dall’atteggiamento goliardico e dalle esigenze sulla libertà creativa che rivendicava il cenacolo degli artisti frequentatori del locale. Questa frizione con il “movimento della macchia” suscitò in lui un grande disagio creativo, tanto che si allontanò dalla grande Firenze per dipingere in solitudine a Modigliana, dove si dedicò molto ai ritratti. Nonostante i contrasti personali, la pittura di Lega si orienta poi naturalmente verso i dettami macchiaioli mediante la ricerca di uno stile di “impressione” che si basa su contrasti definiti tra luci ed ombre. Questo è proprio quello che l’opera esposta in questa sede riflette. L’alternanza di campiture chiare e scure e toni caldi e freddi, scandisce i volumi e definisce le forme arricchendo una composizione di magnifica lettura da lontano, che si sfalda in tratti longitudinali e frammentati da vicino. L’esecuzione è concitata, veemente e quasi drammatica; la pennellata si strappa diventando febbrile e veloce tanto da sembrare, in certi dettagli, incerta. L’espressione immediata e diretta dell’immagine che l’artista ci propone riflette chiaramente uno stato d’animo: pensieroso, sofferente che in qualche modo rispecchia i travagli che l’Italia post risorgimentale sta attraversando. Potremmo quasi paragonarla ad una figura allegorica: fiera del suo fazzoletto rosso intorno al collo, si trova a prendere consapevolezze nuove, nuove difficoltà di esistere e forse anche un po’ di rammarico e delusione per troppe aspettative infrante. Forse è solo il viso di una ragazza che Lega ha conosciuto durante i conflitti risorgimentali o forse è la rappresentazione di un Paese che, con tanta fatica e sofferenza, rimane deluso da ideali utopistici.


“Viso di donna� Olio su tavola, cm 35x26

Particolare: pennellate febbrili e veloci


Emilio Gola

(Milano, 22 febbraio 1851 – Milano, 21 dicembre 1923) Attribuzione Opera esposta: “La pazza” Olio su tavoletta, cm 20,5x15,5 Di nobili origini, affianca alla pittura una laurea in ingegneria industriale. Molto apprezzato come ritrattista, predilige figure femminili velate di carica emotiva che realizza con vivacità e grande propensione per il verismo. Per queste caratteristiche possiamo affermare che il dipinto in mostra comprende molte delle peculiarità del pittore legate a questo tema iconografico. La piccola tavoletta dal sapore macchiaiolo ci riporta infatti la figura di una donna, non meglio identificata, che osserva lo spettatore. Il suo sguardo è assorto, distaccato e malinconico. Non ci guarda negli occhi, come se la nostra presenza non disturbasse in alcun modo i suoi pensieri. In questo atteggiamento è riversato tutto il vigoroso naturalismo dell’artista, che ci restituisce l’istantanea emozionale di un momento personale. Il tutto è accentuato da uno spiccato cromatismo che gioca su un’alternanza di tonalità accese, contrastandole con nuance fredde che sottolineano leggerezza e spontaneità del tratto pittorico. Il focus è ovviamente il viso della donna, decisamente comunicativo nel suo completo distacco con la realtà. Il titolo stesso “La Pazza” fornisce già al fruitore la chiave di lettura per interpretare il personaggio così da trasfigurare all’immagine reale, un’interpretazione del tutto personale da parte degli spettatori.


“La pazza” Olio su tavoletta, cm 20,5x15,5


Gerolamo Induno

(Milano, 13 dicembre 1825 – Milano, 18 dicembre 1890) Opera esposta: “Il figurinaio” Olio su tela, cm 54,5x47 Fratello minore di Domenico, Gerolamo Induno si forma presso l’accademia di Brera a Milano e le sue opere sono da subito caratterizzate da una pittura basata su studi dal vero che risulta briosa, narrativa e di facile interpretazione. La lettura di quest’opera non può che palesare allo spettatore queste fondamentali caratteristiche mettendo in evidenza una tecnica virtuosistica invidiabile. La resa attenta e quasi calligrafica di ogni singolo dettaglio, dall’ambientazione, agli spaccati di natura morta, rivela un’attenzione minuziosa per ogni particolare dell’opera senza lasciare nulla al caso. La sottigliezza posta nella rappresentazione del personaggio principale è la stessa per gli oggetti di arredo e persino per le suppellettili poste sopra il camino. Tecnicamente sopraffino ed ancora legato ad una “tecnica tradizionale” utilizza magistralmente i contrasti cromatici, le velature ed un inquadramento prospettico perfetto all’interno del quale dipinge in punta di pennello tutto ciò che il suo occhio cattura, come fosse un obbiettivo fotografico. Il soggetto iconografico tuttavia si distacca nettamente dai dettami tradizionali e risulta ricorrente nel corpus di Induno dopo gli anni ’70. In quel periodo infatti, si concentra sulla pittura di genere, raccontando interni poveri e momenti di vita di personaggi ai margini della società come Il Viandante, Il Venditore ambulante o, come in questo caso, Il Figurinaio. Particolare bizzarro, ma tanto caro all’artista, è l’orecchino d’oro che l’artigiano porta all’orecchio destro, visibile solo da una distanza molto ravvicinata. La simbologia legata a questo dettaglio ha origini antiche e caratterizza la vita nomade del protagonista. Infatti l’abitudine di portare all’orecchio un cerchio d’oro garantiva, a chi non avesse fissa dimora, i mezzi economici per pagarsi il funerale ovunque si trovasse. Finezza che, ancora una volta, dimostra l’importanza che l’artista conferisce ai dettagli che diventano non solo un completamento scenografico, ma messaggi iconografici esplicativi di un contesto e una situazione realistica.


“Il figurinaio” Olio su tela, cm 54,5x47

Particolare: testa del figurinaio con l’orecchino d’oro


SALA 4 Opere esposte di: - Giovanni Fattori - Lorenzo Gignous - Oscar Ricciardi - Casimiro Ottone



Giovanni Fattori

(Livorno, 6 settembre 1825 – Firenze, 30 agosto 1908) Opera esposta: “Lanceri su strada” Olio su tela, cm 40,5x88 Dagli esordi incerti, Giovanni Fattori si iscrive solo in tarda età all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove studia svogliatamente. Una sua citazione celebre ci permette perfettamente di capire il suo stato d’animo: ”Firenze mi ubriacò: vidi molti artisti, ma nulla capivo: mi parevano tutti bravi e io mi avvilii tanto che mi spaventava il pensiero di dover cominciare a studiare”. Le sue umili origini pesarono non poco nel bel mondo fiorentino, tanto da innescare in lui un atteggiamento ribelle e sanguigno che lo portò a godere della fama di maggior sovversivo studente della scuola. Intanto i tumulti nazionalisti e rivoluzionari si fanno sentire e non tardano ad infiammare l’animo di Fattori che si arruola come fattorino del partito d’Azione. Dopo aver attraversato le vicende risorgimentali e raggiunta una più consapevole maturità, l’artista torna a dipingere con una nuova consapevolezza, diventando assiduo frequentatore del Caffè Michelangiolo. La conoscenza di artisti che come lui si mostravano ormai insofferenti alla pittura accademica, lo portò ad aderire alla formazione di una nuova corrente: I Macchiaioli. La “pittura di macchia” divenne una nuova tecnica espressiva e pittorica, legata alla poetica naturalista. Con questi presupposti, l’artista realizza una rappresentazione più di “impressione”, modulando volumi e piani prospettici non più col tradizionale chiaro/scuro, ma con la giustapposizione omogenea di campiture accordate tra loro in base alla tonalità ed al loro rapporto. Fattori sposa a pieno questo concetto, essendo convinto che l’occhio umano, percependo nettamente i colori, colga la presenza delle “macchie” come forme, contorni e oggetti. Proprio per questo in tutte le sue opere non vi sono linee di contorno e non esiste alcun reticolo disegnativo. Tutto questo si riscontra anche nell’opera esposta in questa sede, ove viene sottolineato uno dei temi iconografici più amati dall’artista: il soggetto militare. Una sua stessa frase ci fa perfettamente capire il suo stato d’animo nei confronti del tema: «Quando all’arte si leva il verismo che resta? Il verismo porta lo studio accurato della Società presente, il verismo mostra le piaghe da cui è afflitta, il verismo manderà alla posterità i nostri costumi e le nostre abitudini» Per questo il suo intento documentaristico nei confronti del conflitto risorgimentale è totale, si può definire un reportage che ci viene proposto a testimonianza di luoghi, persone ed avvenimenti che non possono essere dimenticati, ma che meritano di essere celebrati.


“Lanceri su strada” Olio su tela, cm 40,5x88


Lorenzo Gignous

(Modena, 1862 – Porto Ceresio, 1958) Opera esposta: “Lago Maggiore” Olio su cartone telato, cm 68x98 Nipote di Eugenio Gignous, segue le sue orme iscrivendosi all’Accademia di Brera. La sua produzione artistica risente molto di questa influenza famigliare, tanto da caratterizzarne l’impronta decisamente naturalistica. Si afferma come paesista e le sue tematiche preferite solo legate al Lago Maggiore, studiato dal vero a Stresa, ospite di Eugenio trasferitosi lì negli anni ’80 dell’800. La struttura compositiva di quest’opera in effetti ricalca molto quella di diverse vedute del Gignous già affermato, con un taglio panoramico orizzontale e con la scelta di inserire in primo piano la sponda da cui è ripresa la scena. Molto simile ai dipinti di Eugenio anche l’animazione, presente sulla lingua di riva, data da “macchiette” di pescatori e lavoranti affaccendati intorno alle barche. Questi personaggi, appena accennati con tocchi rapidi di pennello, rimangono volutamente in secondo piano rispetto alla veduta, questo per non indurre lo spettatore a confondere ciò che è il reale perno della composizione: il lago. L’atmosfera nebulosa è perfettamente resa grazie anche alle tonalità basse ed attenuate che restituiscono la fisionomia del paesaggio lacustre in maniera realistica. La veduta assume in maniera decisa una propria indipendenza iconografica.


“Lago Maggiore” Olio su cartone telato, cm 68x98


Oscar Ricciardi

(Napoli, 24 febbraio 1864 – Napoli, 1935) Opera esposta: “La bottega dell’antiquario” Olio su tavola, 64x74 Autodidatta negli studi artistici, inizia con tematiche legate al romanticismo storico, per poi trovare affinità con la pittura di Domenico Morelli e dedicarsi alla pittura di genere. Si interessa alla rappresentazione di scene di vita quotidiana che segue con un gusto semplice ed un equilibrato cromatismo. Viene considerato da alcuni “la testa” dell’impressionismo napoletano per la capacità di creare un connubio perfetto tra: lo studio dal vero, l’uso di una luce limpida e tersa e la ripresa dei costumi napoletani raccontati in interni domestici. Questa “bottega dell’antiquario” ne è un calzante esempio. La ridondanza napoletana viene esibita in una scenografia ricchissima di soggetti che riempiono lo spazio compositivo. l tratto già poco definito e rapido dell’artista non ci impedisce l’identificazione precisa di ogni oggetto presente nella stanza, contraddistinto da stacchi cromatici e bagliori di luce. L’antiquario, ripreso nel momento in cui restaura un dipinto, non si accorge di noi, continua operoso il suo mestiere, dandoci le spalle, fermato in un’istantanea decisa. Piccoli tocchi di decorativismo sono ancora presenti nell’opera: come la coppia di stoffe blu e rossa, poggiate su una sedia, che sono solo un divertissement, una licenza che il pittore si concede per inserire un tocco di colore nella composizione. Anche nella giustapposizione degli oggetti in primo piano si rileva una lieve forzatura: un accatastamento poco naturale e funzionale, un gioco di volumi alternati che Ricciardi introduce per muovere lo spazio. Contaminazioni che si uniscono, la tradizione artistica napoletana si fonde con le prime suggestioni impressioniste portate nella città partenopea da Giuseppe De Nittis. Una pittura di passaggio che, come un filo sottile, tiene unita tradizione e innovazione.


“La bottega dell’antiquario” Olio su tavola, 64x74


Casimiro Ottone

(Vigevano 1856 - Vigevano 1942) Opera esposta: “Ritratto virile con pipa” Olio su tavola, cm 40x36 La frequentazione ed il confronto con altri artisti inizia ad avere delle influenze su Ottone che, in qualche modo, evolve il suo stile pittorico. Questa piccola tavoletta realizzata di getto e senza preparazione, non può non supporre un’ influenza della “pittura di macchia” data dallo svolgimento rapido e dalla creazione di volumi e forme mediante contrasti cromatici. Potremmo definirla un’istantanea, il pittore ferma con uno scatto quasi fotografico, un uomo in un’osteria, intento a fumare e bere un bicchiere di vino. Uno specchio sulla normalità, un soggetto contemporaneo e comune, che va in contrapposizione netta con la natura morta esposta nella prima sala. Anche la tecnica subisce un cambiamento: la materia pittorica si alleggerisce (tanto da far intravedere il legno del supporto), il tocco si fa più rapido e le forme vengono scandite da contrasti di luci e colore. Splendida la resa della trasparenza del bicchiere di vino posto sul tavolo, piccolo dettaglio che aiuta a definire un luogo ed un contesto altrimenti indefinito.


“Ritratto virile con pipa” Olio su tavola, cm 40x36


Angelo Dall’Oca Bianca

(Verona, 31 marzo 1858 – Verona, 18 maggio 1942) Opera esposta: “Piazza delle Erbe” Olio su tela, cm 35x49 Di umili origini, riesce a farsi strada grazie ad un temperamento decisamente forte e ribelle. Il suo primo approccio con il mondo artistico lo vede impiegato come apprendista imbianchino e grazie a questa mansione, riesce poi a intraprendere gli studi accademici. Legatissimo alla sua città, Verona, la celebra in moltissime opere tra cui quella esposta che racconta uno spaccato di vita cittadina: il mercato in Piazza delle Erbe. Questo è uno degli esempi riferiti alla maturità dell’artista, in cui la tecnica pittorica inizia a sfaldarsi, la pennellata si fa frammentaria e la luce diventa elemento costruttivo di forme e piani prospettici. La figura in primo piano ci introduce a quello che potremmo definire un turbinio di forme e colori che accentuano il carattere operoso e convulso del momento. Tutto il secondo piano ha una resa che potremmo definire futurista ante litteram, per l’idea di movimento e velocità che trasmette la resa pittorica del mercato. Tutta la composizione risulta estremamente moderna, vivace e quasi “rumorosa” tanto è animata e viva la piazza. Questo viene reso dall’autore esclusivamente con qualche segno di colore, utilizzato puro e un tocco quasi divisionista che anima la piazza, rende cangianti le case e fa percepire l’aria del cielo.


“Piazza delle Erbe” Olio su tela, cm 35x49


SALA 5 Opere esposte di: - Antonio Fontanesi - Filippo Palizzi - Pompeo Mariani - Cesare Maggi - Luigi Morgari - Eugenio Gignous - Angiolo Tommasi - Lorenzo Delleani - Adolphe Guillon - Guglielmo Ciardi - Chierici



Adolphe Guillon

(29 marzo 1829, Parigi - 27 luglio 1896, Parigi) Opera esposta: “Sentiero nel bosco” Olio su tela, cm 100x130 Parigino di nascita, subisce fortemente le influenze artistiche legate al nostro Paese. Paesaggista attento al naturalismo, rimane però ancorato a costruzioni prospettiche artificiose, di forte matrice classica. Nell’opera qui esposta è facilmente individuabile un inquadramento scenografico volto a creare una studiata profondità. Il sentiero in primissimo piano guida l’occhio del fruitore verso l’interno della composizione, accompagnato da due quinte sceniche date dai grandi alberi che chiudono la visuale. Due figure puntellano il sentiero a distanze differenziate, sicuramente non sono fondamentali per la rappresentazione, ma vengono usate dall’artista per sottolineare la differenza tra i piani prospettici. La tecnica esecutiva è ancora legata a stilemi del secolo precedente, mentre il cromatismo trova una lieve modernità nell’alternanza netta tra luci ed ombre, ma gli esiti macchiaioli sono ancora lontani.


“Sentiero nel bosco” Olio su tela, cm 100x130


Filippo Palizzi

(Vasto, 16 giugno 1818 – Napoli, 11 settembre 1899) Opera esposta: “Sentiero nel bosco” Olio su tela, cm 65x81 La sua prima formazione artistica avviene all’Accademia di Belle Arti di Napoli, ma bastano solo pochi anni per fargli capire che non fa per lui. Abbandona l’Accademia per studi personali da realizzare dal vero dedicandosi agli animali ed al paesaggio. Nel ’55 si reca a Parigi a trovare il fratello e qui entra in contatto con i pittori della scuola di Barbizon con i quali condivide l’amore per la ripresa en plein air. Nel caso di Palizzi, però, l’esecuzione minuziosa prevale sull’impressione pittorica e questo conferisce ai suoi paesaggi un’intima intonazione poetica che li rende poco realistici e maggiormente artefatti. Il dipinto esposto in mostra ne è una chiara testimonianza: l’aspetto fabulistico, ricco di suggestioni atmosferiche, ci riporta quasi all’interno di un paesaggio irreale, costruito, ideato appositamente per suggestionare lo spettatore. Anche la realizzazione pittorica supporta questa tesi, proponendo un tratto indagato e preciso, con un punto di fuga inequivocabile, scandito da quinte arboree laterali che incorniciano il sentiero obbligando l’occhio dello spettatore, chiudendo totalmente la visuale, esattamente al centro della composizione. Artifici legati ad una maniera di dipingere poco innovativa, che risentono di cliché del passato con un’unica concessione alla modernità: la luce. L’alternanza di luci ed ombre, il contrasto tra il buio e i raggi del sole che filtrano attraverso le foglie, puntellando il sentiero di lame luminose, ci riportano ad un respiro barbizoniano facendoci capire il concreto realismo di ogni singolo bagliore.


“Sentiero nel bosco” Olio su tela, cm 65x81


Antonio Fontanesi

(23 febbraio 1818 – Torino, 17 aprile 1882) Opera esposta: “Armenti al pascolo” Olio su tela, 18,5x42,5 cm /opera con cornice coeva cm 44 x 68 Antonio Fontanesi crebbe in una situazione di disagio e povertà, di umilissime origini ebbe una fanciullezza per nulla caratterizzata dalle gioie dell’infanzia e questo velo di tristezza e malinconia lo accompagna indelebilmente non solo nella vita, ma soprattutto nella sua opera pittorica. A 29 anni si unisce ai volontari lombardi di Garibaldi e partecipa alla prima Guerra d’indipendenza. Gli orrori della guerra però lo spingono a abbandonare i campi di battaglia in favore della pace dei paesaggi svizzeri. Inizia proprio da qui il suo interesse per la natura, che lo spingerà a viaggiare per tutta l’Europa. In particolare in quest’opera si riscontrano nette le influenze del soggiorno dell’artista a Parigi (1855 e 1861), in cui conobbe Corot ed i pittori naturalisti della scuola di Barbizon. Da loro non trae solamente l’interesse per il paesaggio, ma la volontà di creare un connubio tra esso e lo stato d’animo dell’uomo, alla ricerca di un’ispirazione sincera e di un’autenticità di sentimenti. Proprio per questo le sue vedute sono animate da contadini, pastori, lavoratori e amanti della terra, nel rispetto e nell’amore per la stessa. Come resa pittorica invece, non è da sottovalutare il viaggio che fece subito dopo a Londra (1865), dove poté ammirare le opere di Turner, Constable e Gainsbourough. Da tali viaggi Fontanesi trovò quelle conferme al suo interesse quasi atavico per la pittura di paesaggio: se inizialmente ricercò un approccio diretto alla verità naturale, successivamente indagò vivaci effetti di luce e d’atmosfera ispirato da Daubigny e Corot, introducendoli in paesaggi tendenzialmente malinconici, sentiti come espressione dell’animo, secondo i principi del Romanticismo. Intorno a questo periodo è plausibile inserire l’opera in oggetto, caratterizzata da un’atmosfera che pare inizialmente bucolica, ma che esaminata più attentamente svela un intimismo romantico, ed assume un esplicito valore lirico, evocativo, tardo romantico ed al tempo stesso pre simbolista. La visione di quest’uomo di spalle, che segue i suoi armenti al pascolo, trasmette al fruitore un senso di solitudine e un silenzio quasi udibile. Il connubio tra esseri viventi e natura è scandito solo da un forte contrasto di luci ed ombre che separano nettamente la scena. Il sentiero che, in ombra, indirizza l’occhio dello spettatore a seguire i protagonisti verso la luce, non è altro che un invito, una speranza ed un messaggio positivo che l’artista infonde a chi osserva la scena.


“Armenti al pascolo� Olio su tela, 18,5x42,5 cm opera con cornice coeva cm 44x68


Angiolo Tommasi

(Livorno, 27 agosto 1858 – Torre del Lago Puccini, 15 ottobre 1923) Opera esposta: studio per il quadro “Gli emigranti al mare” Livorno Olio su tavoletta, cm 34x13 Si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze anche se gli insegnamenti che più lo influenzarono furono quelli di Silvestro Lega, più volte ospite in casa Tommasi. Si converte da subito alla filosofia “della macchia” dipingendo seguendo quasi pedissequamente i dettami Macchiaioli. Ritrae soggetti dal vero con pennellata rapida e forte, sciolta, con grande attenzione per la luce ed i suoi effetti atmosferici. I suoi temi preferiti sono la campagna ed i lavoratori che la abitano, ma più in generale gli umili, con risvolti anche sociali come nella famosa “Gli emigranti al mare” (1896, ora Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) di cui l’opera esposta è uno studio preparatorio. Il lampione qui rappresentato è lo stesso presente nel celebre dipinto, in questo studio però viene limitata la visuale e ridotta l’animazione ad un solo soggetto. Sicuramente lo studio esposto è stato realizzato dal vero, in maniera rapida ed abbozzata tanto da utilizzare lo stesso colore del supporto ligneo come un pigmento. Tipico della pittura Macchiaiola è, infatti, l’utilizzo di piccole tavolette non preparate che permettevano una stesura pittorica en plein air di getto, spesso il supporto diventa parte integrante della pellicola pittorica, lasciando scoperta parte della tavoletta facendo così interagire la sua naturale tonalità con i pigmenti utilizzati. Questo ne è proprio un esempio emblematico. Forme e soggetti vengono individuati tramite stacchi cromatici netti che si sovrappongono lungo piani prospettici orizzontali, interrotti da due linee verticali date dai protagonisti, il lampione e l’uomo che, in solitudine, ammira il mare pensieroso. Sublime esempio della poetica “della macchia”, preludio di un dipinto che diventerà simbolo di uno dei temi più scottanti dell’epoca: l’emigrazione oltre oceano delle classi meno abbienti, in cerca di fortuna e di una vita migliore.


Studio per il quadro “Gli emigranti al mare� Livorno Olio su tavoletta, cm 34x13


Guglielmo Ciardi

(Venezia, 13 settembre 1842 – Venezia, 5 ottobre 1917) Opera esposta: “Tramonto con barche sulla laguna veneta” Olio si tavola, cm 38x26 Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, manifesta sin dagli esordi una spiccata predilezione per l’iconografia di paesaggio. Per approfondire questa tematica compie diversi viaggi: prima a Firenze, dove entra in contatto con i Macchiaioli, poi a Napoli dove subisce l’influenza della Scuola di Posillipo e della Scuola di Resina. Appena dopo la metà del secolo ritorna nelle sua città, Venezia, che diventa la protagonista delle sue opere con predilezione per la laguna e la campagna trevigiana. Le vedute di questo periodo sono caratterizzate da ampi orizzonti, espressi mediante una tavolozza chiara e luminosa. L’opera esposta in questa sede è la somma delle diverse contaminazioni della pittura di paesaggio del periodo, insieme ed una personale interpretazione del pittore. Emerge in particolare l’ispirazione nei confronti della “macchia” con un tocco libero e veloce. L’artista volta le spalle alle classiche vedute Veneziane di Canalettiana memoria per rivolgersi alla quieta immensità dello specchio lagunare fornendo allo spettatore angoli inconsueti, barene sperdute, spazi dilatati di luce intensa e screziata delineati dalla piattezza delle acque. Questo dipinto è caratterizzato da un silenzio sacrale, in cui è quasi tangibile la vaporosità delle nuvole. Il grande potere evocativo è sottolineato da pennellate brevi e corpose, scandite da contrasti cromatici che definiscono le forme nello spazio compositivo. La sublime trattazione della luce definisce e caratterizza sagome, superfici e consistenze restituendo con rapidi tocchi una definita visione d’insieme.


“Tramonto con barche sulla laguna veneta� Olio si tavola, cm 38x26


Lorenzo Delleani

(Pollone, 17 gennaio 1840 – Torino, 13 novembre 1908) Opera esposta: “Sentiero di campagna ” Olio su tavoletta, cm 44x30 Reca a retro timbro di autentica con firma di pugno dell’artista e dedica manoscritta “Alla cara figlia Carolina Simondetti come ricordo dello zio Lorenzo aff. mamma Lucia Delleani vedova Simondetti 30 Marzo 1909” Formatosi all’Accademia Albertina di Torino i suoi esordi come pittore si riferiscono a temi storici tardo romantici. Non passa molto tempo dalla scoperta della pittura di paesaggio, da cui inizia a dedicarsi en plein air utilizzando un colore denso e smagliante, che cattura la luce. Adora la campagna piemontese e ci si dedica per diversi anni elaborando il connubio tra luce e colore a seconda delle diverse stagioni e ore del giorno. Talmente è radicato in lui l’amore per il paesaggio che compie un viaggio in Olanda per studiarne gli esordi in pittura, capendo e sperimentando le tecniche degli antichi maestri. Rientrato in Italia il colore si fa più brillante e contrastato, ne è un esempio questo bucolico Sentiero di campagna. I toni vivaci ed il pigmento utilizzato per lo più in purezza creano, con contrasti tonali, forme e piani prospettici in assoluta assenza di disegno preparatorio. La pennellata pastosa e materica definisce, tramite tocchi di colore, le diverse superfici mentre l’alternanza di toni chiari/scuri infonde un andamento verticale alla composizione che guida il fruitore lungo il sentiero centrale, vero protagonista dell’opera. La tecnica è sempre più frastagliata, il tocco del pennello sempre più distante, la visione d’insieme del soggetto ormai avviene direttamente nell’occhio dello spettatore che deve ritrarsi a debita distanza. Ciò che da vicino ci appare solo come una serie di sconnesse pennellate di colori differenti, da lontano ci appare come un sentiero definito e quasi riconoscibile nella sua consistenza e veridicità. Le straordinarie assonanze con la famosa avanguardia francese, gli Impressionisti, sono molteplici. Ciò che maggiormente stupisce e caratterizza la sensibilità di questo straordinario vedutista è che non si recò mai in Francia e non ebbe alcun contatto con la corrente sopracitata.


“Sentiero di campagna � Olio su tavoletta, cm 44x30

Particolare: le pennellate pastose e materiche


Chierici Opera esposta: “Bimba in cortile” Olio su masonite, cm 26x20 L’opera esposta firmata Chierici risulta emblematica e caratterizza un cambiamento deciso e radicale della tecnica pittorica di fine secolo. Non solo non è più presente il disegno, la preparazione e la prospettiva, ma c’è un vero e proprio sfaldamento delle forme attraverso la luce. Di scapigliata memoria, quest’opera suggerisce sagome e superfici senza alcuna definizione. Non esistono i contorni e la scansione dei piani è affidata ad una giustapposizione quasi bidimensionale. Modernissimo il tratto che si sviluppa attraverso tocchi rapidi di colore puro che si fonde in nuance differenti direttamente sul supporto. Probabilmente dipinto dal vero, all’aperto, il tema iconografico è famigliare, semplice e di immediata lettura. Ancora una volta il soggetto dell’opera d’arte diventa la vita quotidiana, momenti legati a consuetudini di persone comuni, una bambina che gioca sotto un pergolato, probabilmente nel suo cortile di casa. Nonostante il tratto convulso e veloce l’opera esprime in sé un senso di tranquillità, un soave respiro bucolico sottolineato da un’alternanza di tonalità calde e fredde che arricchiscono l’impianto compositivo.


“Bimba in cortile� Olio su masonite, cm 26x20

Particolare: le rapide pennellate


Pompeo Mariani

( 9 settembre 1857 – 25 gennaio 1927) Opera esposta: “Passeggiata lungo il mare” Olio su tela, cm 18x46 Inizialmente avviato alla carriera bancaria a Milano, scopre presto i circoli culturali milanesi entrando così in contatto con molti artisti e intellettuali. Inizia a disegnare e segue, di nascosto dalla famiglia, lezioni di pittura da Eleuterio Pagliano. Lo zio, Mosè Bianchi, rilevando in lui un talento, intercede con la famiglia per permettergli una carriera d’artista. Inizia così il suo impegno come pittore costellato da esposizioni e premi conferitigli in tutta Europa. Insieme ai ritratti ed ai luoghi preposti alla vita sociale, il paesaggio resta uno dei suoi soggetti prediletti. Si trova particolarmente legato al mare e per rappresentarlo, si reca spesso nella riviera ligure tra Genova e Bordighera. Questa tavoletta di chiara matrice macchiaiola, eseguita mediante una tecnica coloristica vivace e armoniosa, è un chiaro esempio di pittura “en plein air”. Tutto si svolge per piani orizzontali scanditi nettamente da contrasti cromatici, proprio come la “pittura di macchia” insegna. Piccole frammentazioni orizzontali, date dagli scogli, rompono la monotonia compositiva creando movimento. Quasi in secondo piano, nell’angolo a sinistra, viene rappresentata una persona, un uomo di spalle seduto su un masso, riparato sotto un ombrello scuro, intento ad osservare il mare. Spicca all’interno della gamma cromatica del dipinto, la sacca arancione che il personaggio porta sulla spalla, chiaramente l’artista vuole in qualche modo catturare in quel punto l’attenzione dello spettatore. Questo, unito al senso di malinconia e solitudine che viene chiaramente espresso in questa scena, ci porta a pensare che la figura misteriosa non sia altro che il pittore stesso. Lentamente Mariani comincia ad effettuare una trasposizione dei suoi sentimenti all’interno della rappresentazione di un paesaggio reale, per poi sfociare in esiti clamorosamente vicini ad impressionismo ed espressionismo.


“Passeggiata lungo il mare� Olio su tela, cm 18x46

Particolare: uomo di spalle seduto su un masso


Pompeo Mariani

(9 settembre 1857 – 25 gennaio 1927) Opera esposta: “Marina” Olio su tavola, cm 33x45 Da sempre legato ai paesaggi della riviera ligure, si ipotizza che questo mare in tempesta sia stato realizzato a Bordighera. Rispetto alla veduta di Mariani già analizzata, questa si presume essere più tarda. Infatti diversi elementi compositivi suggeriscono un’evoluzione di stile e di tecnica rispetto alla “Passeggiata lungo il mare”. Quasi tutta la superficie pittorica viene occupata dal cielo mentre solo una piccola porzione è dedicata ad un mare decisamente tempestoso, animato da una piccola imbarcazione di pescatori circondata da gabbiani in volo. Il forte dinamismo scenografico è esasperato da una pennellata materica e convulsa che rende quasi aggettanti e tridimensionali le creste delle onde del mare. Il cromatismo è quasi al limite della rappresentazione naturale, questo tramonto ha in sé sfumature e contrasti tonali che già fanno riferimento all’emozione umana. Come fece molto tempo dopo Vincent Van Gogh, Pompeo Mariani infonde e modifica un paesaggio reale sublimandolo attraverso il suo stato d’animo, traduce sulla tela le sue emozioni al momento della realizzazione del dipinto. Non è da sottovalutare il fatto che nel 1839 nasce la fotografia e che nella seconda metà del secolo diventa quasi di uso comune. Di conseguenza l’artista, fino a quel momento chiamato a testimoniare il reale, cambia direzione. Comincia a non accontentarsi di una riproduzione pedissequa di ciò che vede, anche perché non gli viene più richiesto, ma esige dalla composizione altro. Tutto, comprese le vedute, assume una valenza personale; la voglia che l’artista ha è quella di comunicare altro attraverso un paesaggio, uno stato d’animo, un’emozione o una condizione umana. Il tumultuoso scorcio esposto in mostra ne è una chiara testimonianza.


“Marina” Olio su tavola, cm 33x45


Cesare Maggi

(Roma, 13 gennaio 1881 – Torino, 1961) Opera esposta: “Veduta del Cervino” Olio su tela, cm 100x70 Proveniente da una famiglia di attori, mantiene l’estro artistico famigliare andando da giovanissimo in bottega da Vittorio Corcos. La svolta decisiva nella sua pittura sarà la conoscenza delle opere di Segantini che ne orienta definitivamente la produzione verso una pittura di paesaggio di decisa impronta divisionista. Diventa presto un importante rappresentante del secondo divisionismo italiano, con una predilezione iconografica per le montagne; le quali vengono indagate negli aspetti della percezione visiva, con uno strettissimo rapporto tra rifrazione della luce e colore. La sua è solo magistrale tecnica, della profonda spiritualità dell’opera segantiniana, non vi è traccia. L’opera presente in questa sede ne è un chiaro esempio. Seppur soggiornò brevemente in Engadina, la maestosità dei suoi paesaggi lo segnò a tal punto da diventare uno dei suoi unici soggetti e guadagnarsi il soprannome di “cantore delle montagne”. La realizzazione di quest’opera è caratterizzata da grandissimo virtuosismo tecnico, specialmente nel modo in cui il pittore realizza giochi mutevoli con accordi cromatici che lo portano a rendere con vibrante veridicità picchi rosati, zone d’ombra, consistenza di neve ed acqua. Tecnicamente uno degli agenti atmosferici più complesso per la sua realizzazione è la neve: infatti la sua tonalità è composta non solo da colori primari, ma da un’ integrazione e sovrapposizione di centinaia di tinte. Maggi qui la rende in maniera magistrale. Altra caratteristica straordinaria è la matericità della stesura pittorica realizzata a spatola, solo poche campiture del supporto sono interessate da un utilizzo del pennello. Tutta la composizione è formata da una successione infinita di creste di pigmento, da depositi sostanziali di colore in cui è perfettamente identificabile, effettuando l’ingrandimento di un dettaglio, il rito gestuale della spatola sulla tela. Un esempio emblematico di una rappresentazione del tutto reale, prodotta però mediante una tecnica che, da distanza ravvicinata, snatura del tutto tale percezione visiva.


“Veduta del Cervino” Olio su tela, cm 100x70

Particolare: l’uso della spatola


Eugenio Gignous (1850-1906) Luigi Morgari (1857-1935) “Paesaggio montano” (recto) firmato in bs a sx Eugenio Gignous “Madonna con bambino e angeli” (verso) firmato in bs a dx Luigi Morgari Olio su tela , 44,5x65 cm Opera emblematica che lega due artisti quasi coetanei. Gignous si forma all’Accademia di Brera e dagli anni ’70 si dedica esclusivamente alla pittura di paesaggio en plein air ritraendo la campagna lombarda e piemontese. È proprio nella cerchia legata al territorio tra Torino e Milano che si presume l’incontro tra i due. Morgari infatti, di sette anni più giovane di Gignous, si forma presso l’Accademia Albertina di Torino e subito dimostra inclinazione sia per i soggetti religiosi che per le vedute. Ottimo verista e buon colorista partecipa a diverse esposizioni sia a Torino che a Milano ed è plausibile che i due si siano conosciuti proprio in queste circostanze. I due artisti sfoderano su un unico supporto i reciproci cavalli di battaglia proponendo una veduta ed una rappresentazione a tema religioso. Il recto del supporto trattato da Eugenio è preparato, mentre Luigi dipinge al verso direttamente sulla tela creando una sorta di “finto arazzo”. Entrambi i lavori sono firmati ma questo è stato riscontrato solo dopo lo smontaggio del supporto da telaio. Avendo gli artisti dipinto in simultanea con la tela montata su telaio interinale, non si sono preoccupati né della piegatura, né dell’ingombro a retro del telaio stesso. La firma di Morgari si trova infatti nell’angolo in basso a destra, celata dalla struttura lignea che tende il supporto. Nel complesso l’opera unisce due stili pittorici diversi per tecnica, soggetto e realizzazione, raccontando però una comunione d’intenti e, forse, un’amicizia.


“Paesaggio montano” (recto) firmato in bs a sx Eugenio Gignous Olio su tela , 44,5x65 cm

Particolare: la firma di Luigi Morgari a tela smontata

“Madonna con bambino e angeli” (verso) fimato in bs a dx Luigi Morgari Olio su tela , 44,5x65 cm


SALA 6 Opere esposte di: - Attilio Pratella - Leonardo Bazzaro



Attilio Pratella

(Lugo, 19 aprile 1856 – Napoli, 28 aprile 1949) Opera esposta: “Lavandaie sulla spiaggia” Tempera su carta, cm 60x45 Di origine romagnola, inizia il suo percorso accademico a Bologna per poi vincere una borsa di studio che lo vede trasferirsi a Napoli. Si innamora della città e della sua luce, tanto da restarci fino alla morte. Ovviamente ha contatti con la scuola di Posillipo mantenendo il suo naturale tratto innovativo utilizzato con maggior modernità e freschezza rispetto ai colleghi partenopei. Le tematiche affrontate nei suoi dipinti, hanno sempre un carattere pittoresco e grandissime suggestioni poetiche che lo portano ad elevare qualsiasi momento quotidiano da lui rappresentato. Si concentra infatti su una Napoli in via di estinzione, ritraendo i mercati popolari, i vicoli, i bassi vissuti ed animati da lavoratori umili e dal proletariato. Ne è un esempio quest’opera che ha per protagoniste un gruppo di lavandaie. La composizione è caratterizzata da un’espressione rapida e concisa, ricca di effetti cangianti e trasparenze atmosferiche, ma fondata su un verismo che conferisce alla scena grande solidità. La scansione dei piani prospettici orizzontali ci permette una visione profonda e attenta alla resa dei fenomeni luminosi, caratterizzati dai diversi riflessi naturali riverberati dall’acqua che circonda le lavoratrici. Interessante e modernissimo il gesto di una delle lavandaie in primo piano che alza lo sguardo verso lo spettatore. Questo non solo crea una connessione diretta tra il dipinto e il fruitore, ma ferma un momento ben definito, diventa quasi un’ istantanea, cattura un attimo di distrazione della donna che, come disturbata dalla nostra presenza, si ferma, e ci guarda.


“Lavandaie sulla spiaggia� Tempera su carta, cm 60x45


Attilio Pratella

(Lugo, 19 aprile 1856 – Napoli, 28 aprile 1949) Opera esposta: “Il mercato” su tavola, cm 22x35 Anche in questo caso, come già affrontato precedentemente, il tema iconografico è legato a Napoli ed al vissuto delle persone comuni che ne popolano i vicoli. La ripresa di questo scorcio è però particolarmente importante perché, dietro improvvisate bancarelle di frutta e verdura, si intravede la così detta Fontana de li Serpi “et ha questo nome perché l’acqua esce dalla bocca d’una testa di Medusa che ha per crine molti serpi” (cit. C. Celano, Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli, IV Giornata, p. 146). Tutto il racconto si svolge in primo piano, caratterizzato dai colori e dalle forme della merce, intervallati dalle figure che animano la piazzetta. Sulla sinistra però il pittore fornisce all’occhio dello spettatore un approfondimento attraverso un punto di fuga profondissimo che, attraverso gli stessi panni e i personaggi che degradando in lontananza, aumenta il respiro della scena. Non c’è rumore, concitazione o movimento convulso, la scena emana la tipica suggestione poetica che contraddistingue il lavoro di Pratella esaltata dalla punteggiatura colorata che passa dagli ortaggi alle signore presenti, tutte contraddistinte da un fazzoletto vivace sulle spalle. Altissima capacità tecnica che, in questa piccola tavoletta, viene espressa alternando definizione e rapidità, indagine precisa dei prodotti esposti insieme ad una sommaria rappresentazione delle case e dello sfondo. È come se all’interno di un’ideale scala di valori, il pittore ritenesse opportuno descrivere più attentamente qualcosa rispetto ad altro. Nel complesso, lo spaccato di vita di una giornata comune vissuta attraverso le vie di Napoli, torna perfettamente al fruitore, permettendogli di respirarne aria ed odori, immergendolo in un contesto realistico mitigato dalla gradevolezza e dalla poetica della pittura.


“Il mercato� su tavola, cm 22x35

Particolare: ceste di ortaggi


Leonardo Bazzaro

(Milano, 13 dicembre 1853 – Milano, 2 novembre 1937) Opera esposta: “Donna che stende i panni sotto la pergola” Olio su tela, cm 60x90 Leonardo Bazzaro, nasce con una forte propensione al disegno e alla pittura, tanto da essere subito assecondato dai genitori (appassionati d’arte) allo studio delle arti figurative presso il titolare della prestigiosa cattedra di paesaggio all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano: Gaetano Fasanotti. Cresce continuando gli studi accademici e i suoi soggetti prediletti sono gli interni ed i palazzi del settecento con un picco di originalità inusuale nella trattazione della luce, nell’uso del colore e nella gestione della prospettiva. Dai compagni di accademia viene soprannominato “Il piccolo Velazquez”, questo perché le sue opere erano caratterizzate da una pennellata veloce, irrequieta ma, allo stesso tempo, dotata di particolare precisione e attenzione. Nei primi anni ’70 nasce in lui la passione per la montagna e la riviera di Chioggia, questo primo approccio così sentito verso la natura sarà ciò che poi gli permetterà di entrare a pieno titolo nel novero dei più importanti rappresentanti della scuola naturalistica lombarda. Inizia a dipingere all’aria aperta, abbandonando totalmente le riprese d’interni, tanto amate in gioventù. Più viene incrementata la rappresentazione “en plein air”, più si avvicina ad un’iconografia di vita popolare, con toni sempre più intimisti e privati. Ne è un perfetto esempio l’opera qui esposta che racchiude tutte le qualità della pittura di Bazzaro di questo decennio (anni ’80 dell’800). Pittura d’esterno che rappresenta un momento di vita quotidiana ma non in modo documentativo o cronicistico, bensì filtrato dall’emozione che il pittore prova mentre assiste alla scena. Tutto in questo quadro ci appare piacevole, leggero, fiabesco, quasi onirico, seppur decisamente reale e concreto. La maestria che qui Bazzaro sfodera senza alcun ritegno è la sua capacità di gestire e dipingere la luce. È come se il pittore avesse imbrigliato i raggi solari nel suo pennello e li avesse semplicemente traslati dal giardino alla tela. Con una pittura di tocco, immediata e senza preparazione, il gesto e la materia restituiscono al fruitore un’immagine completa, nitida e chiara tanto da capire quasi l’ora del giorno in cui il pittore ha fermato sulla tela l’immagine che vediamo. Un’incredibile testimonianza di maestria, tecnica esecutiva eccelsa ed abilità pittorica coniugata con una sensibilità tipica di quei pittori che non si limitano alla riproduzione pedissequa di un’immagine reale, ma ambiscono alla restituzione di un’emozione che arriva diretta al cuore dello spettatore.


“Donna che stende i panni sotto la pergola� Olio su tela, cm 60x90


SALA 7 Opere esposte di: - Vincenzo Irolli - Federico Zandomeneghi - Domenico Induno - Giuseppe De Nittis - Filippo Carcano - Carlo Brancaccio - Alda Tossani Spinelli - Rinaldo Agazzi



Federico Zandomeneghi

(Venezia, 2 giugno 1841 – Parigi, 31 dicembre 1917) Opera esposta: “Ritratto di giovane” Olio su tavola, 45x35 Pur provenendo da una stirpe di scultori, già in tenera età Federico decise che la sua vocazione era per l’arte pittorica. Affrontò così un percorso accademico finché non si unì alla causa risorgimentale e partì con Garibaldi nell’impresa dei mille. Due anni dopo a Firenze conobbe e incominciò a frequentare il gruppo dei macchiaioli. Gli incontri con loro al Caffè Michelangiolo segnarono profondamente il giovane veneziano, che comunque dimostrò da subito forte personalità e stile individuale. Partecipò alla terza guerra d’indipendenza al fianco di Garibaldi e poi al suo rietro partì per Parigi e non fece più ritorno. Carico dell’insegnamento macchiaiolo, non poté che unirsi agli impressionisti in particolare a Renoir e Degas. Le tematiche si riferiscono al lato più bohèmien della città. Il suo soggetto preferito sono le donne, tutte coerenti con l’idea di bellezza ed eleganza della Parigi dell’epoca. In questo ritratto sono racchiuse alcune delle peculiarità della pittura di Zandomeneghi, come il taglio compositivo a mezzo busto, la ricorrente pettinatura vaporosa e raccolta di capelli fulvi, le nuances delicate, retaggio del suo cromatismo veneto e dei suoi adorati pastelli. Altra caratteristica tipica dell’artista, la presenza dei fiori che spesso le sue donne tengono in mano o vicino a sé e lo sguardo distante, fuori dallo spazio pittorico, assorto in una sorta di pensiero malinconico inesplicabile. A differenza dei suoi colleghi impressionisti la tecnica esecutiva del pittore, che in quest’opera appare nettissima, risulta più minuziosa, delicata. Seppur anch’essa frastagliata nella pennellata, questa risulta all’occhio più piccola, sicuramente non materica, lieve e selezionata. Molto più vicina ad una sorta di divisionismo. Anche l’uso del colore risulta più simile a quest’ultima impostazione, questo perché la tonalità che l’occhio del fruitore percepisce da lontano cambia totalmente nel momento in cui si concentra su un dettaglio, rendendo macro una porzione di pellicola pittorica. La nuance percepita come colore uniforme, non è altro che la somma di tanti piccoli tratti di colori differenti, che l’occhio umano poi rifonde in un unico insieme sfumato e talvolta cangiante.


Opera esposta: “Ritratto di giovane� Olio su tavola, 45x35

Particolare: le pennellate del viso


Vincenzo Irolli

(Napoli, 30 settembre 1860 – Napoli, 27 novembre 1949)

Opera esposta: “Signora sul Golgo di Napoli” Olio su tavola, cm 30x77 L’Accademia di belle arti di Napoli sviluppa quella che per Vincenzo Irolli risulta essere una dote naturale. Per tecnica esecutiva e forza di tavolozza, viene notato da Domenico Morelli che inizia a interessarsi al suo percorso artistico. Inizialmente la sua pittura ha un’impronta dichiaratamente decorativa, probabilmente per risultare più accattivante nei confronti della committenza borghese. Il dipinto in mostra è sicuramente legato a questo periodo. L’impostazione scenica del paesaggio si svolge “accademicamente” lungo la bisettrice di un ideale triangolo isoscele che, utilizzando gli arbusti da un lato ed il mare dall’altro, conduce lo sguardo del fruitore verso il suo vertice: la protagonista femminile. All’interno di questa compostezza formale però si intravedono delle caratteristiche peculiari di Irolli, come la realizzazione a tocchi del bellissimo abito della protagonista, intenta a ricamare nel suo giardino. Non mancano riferimenti puramente decorativi e poco inclini al realismo, come ad esempio il tappeto su cui la protagonista siede e il pavone statico, praticamente in posa, posto accanto a lei. Realizzato totalmente su un asse orizzontale, diventa un segnale, un percorso obbligato che invita l’occhio dello spettatore a focalizzarsi sulla figura femminile.


“Signora sul Golfo di Napoli” Olio su tavola, cm 30x77

Tutta la composizione è studiata mediante un’alternanza di sezioni verticali che intersecano quelle orizzontali. La spontaneità del tocco e la velocità della tecnica sono peculiarità che Irolli acquisirà solamente in anni successivi; come avremo poi modo di descrivere in altre opere più tarde esposte in questa sede.


Vincenzo Irolli

(Napoli, 30 settembre 1860 – Napoli, 27 novembre 1949)

Opera esposta: “Maternità ” Olio su tela, cm 97x78 L’ambiente artistico napoletano influenza notevolmente la pittura di Irolli nella sua evoluzione stilistica. In particolare la vicinanza con Domenico Morelli conferisce un cambiamento notevole per quanto riguarda la tecnica esecutiva. La pittura diventa intensa e si accende di forti cromatismi. Nell’opera qui presentata è netta la differenza con l’impostazione artistica precedente, tanto da sembrare addirittura di altra mano. Il tocco si fa rapido ed indefinito, i contorni si sfumano e la gabbia prospettica fatta di alternanze verticali ed orizzontali, lascia il posto ad una modernissima bidimensionalità. Il tema iconografico trattato è universale, immerso in un’atmosfera atemporale e fuori da uno spazio riconoscibile. Reso in maniera delicata e soave tanto da rimanere sospeso, in bilico tra il ritratto di una giovane donna con il suo pargolo e l’immagine iconica della Madonna con Bambino. Dipinto realizzato velocemente, su un supporto con una sottile preparazione che addirittura viene lasciata a vista, in alcune parti dello sfondo, con una pennellata lunga, convulsa ed immediata. L’artista rimanda al fruitore un’immagine d’insieme nitida e totalmente definita dalla luce che rivela interessanti accorgimenti tonali individuabili solo ad un esame ravvicinato. Diverse zone dell’incarnato infatti, sono interessate da nette pennellate azzurre che, a debita distanza, infondono una tonalità realistica alla carnagione, ma che risultano totalmente incoerenti se visionate in prossimità. Opera che testimonia l’evoluzione della tecnica esecutiva di Irolli che risulta in continuo divenire. La sua crescita artistica ancora non è completa, questo esempio è sicuramente una transizione tra i primi periodi di decorativismo accademico e la totale dissoluzione delle forme nella luce.


“Maternità ” Olio su tela, cm 97x78


Vincenzo Irolli

(Napoli, 30 settembre 1860 – Napoli, 27 novembre 1949)

Opera esposta: “La lettrice” Olio su tela, cm 32x43 Questo dipinto di Vincenzo Irolli è il terzo proposto in questa esposizione e chiude un ideale trittico che scandisce le diverse fasi della pittura di questo artista. Avendo già esaminato un primo esito caratterizzato da impianto e decorativismo “di scuola” con Signora sul lago, per poi passare ad un netto cambiamento nella tecnica esecutiva sfaldata e compendiaria della Maternità, ci troviamo ora ad indagare un’ opera che idealmente si riferisce alla maturità dell’artista. In rapporto agli altri dipinti in mostra, il fruitore coglie immediatamente la profonda diversità iconografica legata alla figura della donna. Anche questa suscettibile di un’evoluzione: dalla Signora ben vestita che ricama sul lago, si passa alla mamma con in braccio il suo bambino, fino ad arrivare alla giovane che, con braccia e gambe scoperte, legge un libro ponderoso. In questo caso la rivoluzione della tecnica artistica viaggia di pari passo a quella sociale, raccontando con naturalezza l’affermarsi del genere femminile come autonomo e consapevole. Dal punto di vista artistico l’uso del pennello è totalmente libero, il tratto è decisamente approssimativo, la definizione è un concetto decisamente superato per lasciare spazio alla totale compenetrazione dei volumi nella luce ed al loro conseguente sfaldamento. Il cespuglio di fiori multicolori è ormai solo la summa di tocchi e segni di punte di pennello, lo stesso viso della protagonista intenta nella lettura risulta, a distanza ravvicinata, solo un giustapporsi di sezioni cromaticamente stese a campiture, in cui i tratti somatici vengono delineati esclusivamente dall’occhio del fruitore in lontananza. Il capitolo finale di questo trittico proposto dai curatori, racchiude i più spiccati tratti di modernità stilistica e iconografica di un grande artista che ha saputo evolversi riuscendo perfettamente a leggere il suo tempo.


“La lettrice� Olio su tela, cm 32x43

Particolare: le pennellate del viso


Rinaldo Agazzi

(Mapello, 30 ottobre 1857 – Bergamo, 24 maggio 1939) Opera esposta: “Ritratto di ragazza” Olio su tavola, cm 38x18 Iscritto all’Accademia Carrara di Bergamo, subì inizialmente una forte influenza dai pittori lombardi, che poi andrà ad unirsi con le conoscenze dei veristi napoletani legati all’Accademia Libera di Roma. Questo particolare connubio contribuì allo sviluppo della sua personalità artistica, non banale e molto personale. Si concentra sui ritratti, prediligendo figure femminili. Questa graziosa tavoletta è un esempio di come la scuola napoletana, in particolar modo la figura di Antonio Mancini, abbia creato, in connubio al substrato verista lombardo, un esito poetico ed evanescente. Dopo gli anni ’80 i problemi economici lo spingono ad una produzione proficua, portando al ribasso le sue quotazioni. Distrutto emotivamente da questa condizione, proprio come accadde al suo ispiratore Antonio Mancini, viene ricoverato in una struttura psichiatrica, continuando comunque a dipingere. La ragazzina che viene ritrattata nel quadro presente in mostra, caratterizza una fortissima sensibilità emotiva ed una ricerca di quiete. Il soggetto trattato, infatti, per iconografia ed accostamento di nuances delicate e vivaci, trasmette nel suo insieme serenità e dolcezza. Il tratto pittorico però risulta convulso, veloce, sconnesso e concitato tranne che nel viso. Una dualità che sicuramente si riferisce ad un cambiamento nello stile pittorico degli artisti dell’epoca, ma che allo stesso tempo riflette una dicotomia tra emotività e raziocinio.


“Ritratto di ragazza” Olio su tavola, cm 38x18


Alda Tossani Spinelli (Imola 1880 - Firenze 1959) Opera esposta: “La pittrice” Olio su cartone, cm 43x43 Al di là delle rappresentazioni iconografiche, questo è l’unico dipinto in mostra realizzato da una donna. Forse un autoritratto, una dichiarazione d’amore nei confronti della pittura sottolineata dall’inequivocabile presenza di Eros che, munito di tutti i suoi attributi, fa bella mostra di sé accanto alla pittrice. Per la piccola dimensione e per la scelta della forma tonda, abbiamo quasi l’impressione di vedere attraverso il buco di una serratura, come se il fruitore si fosse improvvisamente avvicinato e vedesse una piccola porzione di spazio, all’interno del quale la scena di svolge. La stesura pittorica è rapida, e nonostante questo tutti gli oggetti ed i componenti d’arredo sono riconoscibili, come anche le superfici e le consistenze. Tutto ci racconta dello studio di una professionista, tanto da metterlo in relazione con la “Pittrice al cavalletto” di Domenico Induno. Questa descrizione d’interno ci aiuta a mettere in relazione le due donne rappresentate: qui è ben visibile il cavalletto fisso, tipico negli studi d’artista, molto più stabile ed ingombrante rispetto al leggero cavalletto pieghevole dipinto da Domenico che ne sottolineava la temporaneità. L’artista qui raffigurata ha accanto a lei un intero piano di lavoro dove appoggia strumenti e pennelli, mentre nel dipinto di Induno, la protagonista improvvisa un piano su una cassapanca accanto alla sua postazione, preoccupandosi di occuparne una piccola porzione e proteggendo il mobile coprendolo accuratamente con uno straccio. Seppur differenti, le due opere all’interno di questo percorso espositivo, si parlano, rivelano dettagli e permettono di capire riferimenti legati al contesto iconografico.


“La pittrice” Olio su cartone, cm 43x43


Domenico Induno

(Milano, 14 maggio 1815 – Milano, 5 novembre 1878) Opera esposta: “La lettrice” Olio su tela, cm 53x40 con cornice Pittore di genere ormai affermato, Domenico Induno si concentra, intorno agli anni ’60 dell’800, sugli interni delle abitazioni comuni. In questo periodo il suo segno acquista maggior libertà di esecuzione, le pennellate si fanno più veloci e si intensifica la ricerca cromatica caratterizzata da contrasti luminosi. Nell’opera qui esposta è palese il cambio di rotta che la tecnica artistica di Domenico subisce, evolvendosi e trasformandosi rispetto agli esiti calligrafici precedenti. Le forme ed i volumi, perfettamente delineati osservati ad una certa distanza, assumono connotazioni completamente differenti una volta che l’occhio del fruitore prende le distanze dall’opera. Si evince, infatti, che non vi è alcuna definizione nel tratto, non esistono contorni e la resa iconografica viene suggerita da stesure rapide spesso appena accennate. Come si osserva in un ingrandimento la mano della ritrattata, perfettamente individuabile da lontano, assume da vicino una consistenza evanescente. Solamente con un istantaneo colpo di pennello, ci rende perfettamente visibile qualcosa che in realtà non è nemmeno dipinto, ma solo suggerito. La maestria che l’artista sfodera nella realizzazione di questo dipinto trova il suo culmine nell’accostamento cromatico. Questo coinvolge tonalità pacate e molto simili nella trattazione del contesto ed esplode poi con un contrasto nettissimo dato dal colpo di luce che esalta la parte principale del soggetto. Ciò che rende La Lettrice un’opera rivoluzionaria nel corpus di Induno, non è soltanto la tecnica esecutiva, ma anche la tematica stessa affrontata dall’artista. La donna ritrattata non solo legge, portandoci alla mente un concetto fortemente legato all’emancipazione femminile, ma lo fa con estrema confidenza e libertà, tanto da non preoccuparsi della scompostezza discinta della veste che indossa. Capolavoro che, per molteplici aspetti, non solo segna la vita artistica di un maestro dell’800 italiano, ma un’epoca costellata di rivoluzioni e cambiamenti.


“La lettrice� Olio su tela, cm 53x40

Particolare della mano


Giuseppe Gaetano De Nittis

(Barletta, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 21 agosto 1884) Opera esposta: “Parigi, Rue de Rivoli” Olio su tela, cm 70x50 I primi passi attraverso il percorso artistico di questo straordinario artista, già affrontati in questa sede, sono un naturale procedere che lo condurrà alla fama e alla consacrazione a Parigi. Nel ’69 espone per la prima volta al Salon ma il vero trionfo arriva con un’esposizione del 1874 presso lo studio del fotografo Nadar. A questo punto la sua indipendenza artistica è totale e inizia ad esprimersi mediante un linguaggio del tutto personale ed inedito. L’opera in mostra ne è una palese dimostrazione. Sbalorditivo il raffronto con il piccolo ritratto della moglie che chiude la prima sala, tanto da sembrare dipinti eseguiti da due mani differenti. L’istantanea su una della strade più trafficate di Parigi è quasi un monocromo, con l’utilizzo di un’unica tonalità declinata in tre nuances De Nittis non solo ci restituisce una chiara veduta cittadina, ma esprime magistralmente le condizioni climatiche del momento. L’atmosfera uggiosa e la strada bagnata sono praticamente una certezza per lo spettatore per quanto è concreta e tangibile la leggibilità delle superfici. Il tutto con una pennellata sciolta, rapita, approssimativa, se non fosse per un’ unica carrozza in primo piano lievemente più definita, l’immagine complessiva risulterebbe sfuocata, abbozzata, totalmente priva di contorni e definizione. Nonostante questo il fruitore percepisce perfettamente la composizione e le figure che la animano, identifica cocchieri e postiglioni, carrozze e cavalli, in un turbinio di piani prospettici dati solo dalla giustapposizione di macchie di colore contrapposte. Persino il contesto scenico di Rue de Rivoli , perso nella foschia della pioggia, è perfettamente leggibile e riconoscibile da pochi semplici tratti. La modernità che racchiude questo dipinto nel suo insieme è straordinaria, tanto da non poter imbrigliare l’artista in nessuno stile del momento. La sua personale unione delle diversi correnti presenti a Parigi ed apprese nel corso dei suoi numerosi viaggi, si svela con un esito cinematografico inedito, capace di restituire, con semplici e veloci gesti, una visione reale e plausibile di un particolare momento della vita cittadina.


“Parigi, Rue de Rivoli” Olio su tela, cm 70x50


Giuseppe Gaetano De Nittis

(Barletta, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 21 agosto 1884) Opera esposta: “Parigi, Champs Elysèes” Matita su carta, cm 42x25 L’esplosione e la fama di De Nittis a Parigi è folgorante e caratterizza, come abbiamo già trattato, il momento più alto della sua modernità pittorica. Dopo aver esaminato uno straordinario olio su tela, non potevamo non approfondire la sua tecnica con un disegno, altrettanto interessante ed emblematico. La nota via parigina, Champs Elysèes, è suggerita dalla presenza del celebre Arco di Trionfo che appare, appena accennato, in ultimo piano al centro della composizione. Chiarissimo, inoltre, il doppio senso di marcia delle due strade parallele delineate dagli alberi che ne incorniciano il perimetro, animato da carrozze e figure a cavallo. A debita distanza l’occhio umano non percepisce il tratto, ma legge la composizione come un unicum di forme e volumi decifrabili e riconoscibili. Appena ci si avvicina, però, ci si rende conto della moltitudine di linee incongruenti, di segni abbozzati, di sagome solo suggerite e mai definite. Tutto ciò sconcerta e stupisce lo spettatore incredulo che, contro ogni logica, vede due immagini completamente differenti a seconda del proprio punto di vista in relazione all’opera. Solo un grandissimo artista come De Nittis, sfoderando una tecnica così straordinaria, poteva suscitare con qualche rapido tratto a matita, tanta meraviglia. Il dinamismo presente nel movimento di ogni oggetto o soggetto rappresentato è vorticoso, travolgente, pare quasi che la mancata definizione sia una conseguenza della velocità e del moto. Pensando a questo la mente dei più potrebbe pensare al futurismo, il che sarebbe assolutamente appropriato e condivisibile.


“Parigi, Champs Elysèes” Matita su carta, cm 42x25

Particolare del primo piano


Carlo Brancaccio (Napoli 1861 - Napoli 1920)

Opera esposta: “Veduta cittadina, Napoli ” Olio su tela, cm 45x67 Il suo indirizzo agli studi fu inizialmente legato ai numeri ed alla matematica, solo all’età di ventidue anni abbandona il percorso prefissatogli, per dedicarsi alla pittura. Adora la sua città, Napoli, tanto da renderla il soggetto principale di quasi tutto il suo corpus di opere. Il dipinto esposto in questa sede risulta perfettamente coerente essendo uno scorcio cittadino di Napoli. L’inquadratura è ormai totalmente fotografica: l’artificio di tagliare parte dell’incrocio stradale, la figura di donna in primo piano che chiude l’ombrello e il balcone fiorito in alto a sinistra, rende reale e coinvolgente la veduta. L’animazione, data da passanti e carrozze immerge lo spettatore all’interno di un contesto concreto, senza decorativismi o artifici. Lo spaccato di una giornata comune viene descritto e documentato in modo attento e minuzioso: le signore che si fermano davanti alle vetrine dei negozi, chi entra ed esce dalle carrozze e chi apre e chiude l’ombrello. Tutto questo aumenta l’effetto cinematografico della visione prospettica che trasporta il fruitore a seguire un punto di fuga grandangolare profondissimo che permette di entrare quasi letteralmente nell’opera. Pur essendo una pittura dal vero e di “impressione” la resa pittorica è descrittiva anche nei particolari, la pennellata dell’artista non rinuncia a definire cose, persone e contesto. Riusciamo persino a leggere chiaramente tutte le insegne dei negozi e le diverse classi sociali di appartenenza delle figure presenti palesate dal loro abbigliamento. Un dipinto - reportage che coinvolge lo spettatore facendolo diventare parte integrante di questo spaccato cittadino.


“Veduta cittadina, Napoli � Olio su tela, cm 45x67


Filippo Carcano

(Milano, 25 settembre 1840 – 19 gennaio 1914) Opera esposta: “Il Caffè ” Olio su tavola, cm 28x20 Si iscrive molto giovane all’Accademia di Brera di Milano dove ha come maestro Francesco Hayez e come compagni Federico Faruffini, Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni. Nasce subito una bella intesa tanto che, per un certo periodo, condividono uno studio di pittura a Milano. Partecipa quindi attivamente alla nascita ed allo sviluppo della Scapigliatura. L’opera esposta in mostra, seppur eseguita dopo il suo soggiorno a Parigi, risente pienamente dell’influenza degli studi sulla luce legati agli esiti della Scapigliatura. Il tratto infatti è rapido ed approssimativo, le forme vengono realizzate per campiture e percepite attraverso contrasti cromatici. La composizione ha però una caratteristica cardine ovvero la luce. Come il dogma scapigliato insegna, tutto, contesto e personaggi che lo animano, viene compenetrato dalla luce che quasi assorbe i volumi disfacendoli. Oltre ad essere un manifesto della tecnica pittorica di Carcano, questo dipinto ha anche una valenza documentaria, riportando allo spettatore uno spaccato di vita contemporanea che ne descrive società e costumi. La scena si svolge infatti all’interno di un caffè, luogo che acquista importanza già dalla metà del secolo. Diventa luogo d’incontri, passatempo ludico ma anche coacervo di intellettuali, artisti e letterati che si ritrovano per discutere di politica, arte e letteratura, magari accompagnati da musica e vino. L’iconografia scelta dal pittore racchiude un altro dettaglio non trascurabile: vediamo chiaramente che in primo piano, comodamente sedute, si trovano due signore: una sulla destra insieme al suo accompagnatore, mentre quella al centro ha accanto a sé un bambino, presumibilmente il figlio. Testimonianza questa non solo della già incipiente emancipazione femminile, ma anche della riqualificazione del caffè come luogo vivibile da tutti. Lo straordinario connubio tra tecnica pittorica e spaccato sociale, rende questa piccola tavoletta appena abbozzata, testimonianza duplice di un periodo storico e di una corrente artistica.


“Il Caffè ” Olio su tavola, cm 28x20



CATALOGO DOCUMENTI AUTOGRAFI ESPOSTI

A cura di Giancarlo Moroni


PRIMO TAVOLO SALA D’INGRESSO - DOCUMENTI PREUNITARI 1. Documento dell’Amministrazione austriaca del Lombardo - Veneto (dal 1815 al 1866). 2. Decreto di Francesco I Imperatore relativo alla dominazione austriaca del Lombardo - Veneto (dal 1815 al 1866). 3. Documento dell’Amministrazione austriaca del Lombardo - Veneto (dal 1815 al 1866). 4. Lasciapassare (passaporto) rilasciato dall’autorità austriaca a un cittadino del Lombardo - Veneto (dal 1815 al 1866). 5. Lasciapassare (passaporto) del regno delle due Sicilie. 6. Lasciapassare (passaporto) del regno delle due Sicilie. 7. Decreto di Ferdinando II re delle due Sicilie, Duca di Parma e Piacenza, etc… 8. 1813 Documento del Regno d’Italia - fondato da Napoleone Bonaparte nel 1805. 9. Documento della Repubblica Italiana esistita tra il 1802 - 1805. 10. Documento del Regno d’Italia a firma Eugenio Napoleone Vice Re 1809. 11. Regno d’Italia - documento della Guardia Nazionale Sedentaria di Cremona.



TAVOLO CAMERA DA LETTO VITTORIO EMANUELE III 1. Documento relativo all’occupazione austriaca di Venezia. 2. Documento relativo all’occupazione austriaca di Milano (dal 1815 al 1866). 3. Documento relativo all’occupazione austriaca del Lombardo - Veneto (dal 1815 al 1866). 4. Illuminazione pubblica della città di Savona 1849. 5. Lettera autografa firmata di Elisabetta di Sassonia (Dresda 4 febbraio 1830 - Stresa, 14 agosto 1912) Definita da Cavour “la più superba bellezza del nord”, sposa a Dresda il 28 aprile 1850 Ferdinando di Savoia primo Duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto. Ebbe due figli: Margherita, la futura Regina d’Italia e Tommaso secondo duca di Genova. Restò vedova nel 1855. La lettera esposta si riferisce a quel triste momento. 6. Lettera personale firmata da Ferdinando di Savoia. 7. Patente in pergamena datata 1819 firmata di pugno da Vittorio Emanuele I (Torino, 24 luglio 1759 – Moncalieri, 1824). 8. Lettera privata interamente autografa con firma di pugno del futuro Re Carlo Alberto. 9. Lettera privata interamente autografa con firma di pugno del futuro Re Carlo Alberto. 10. Lettera privata interamente autografa con firma di pugno del futuro Re Carlo Alberto. 11. Curiosa ed emblematica lettera scritta da un certo signor Biffi il 20 marzo 1848 ( Cinque giornate di Milano) con la quale si scusa del mancato appuntamento con il destinatario della missiva a causa della paura provata per i tumulti diffusi in città ed in particolare dei colpi di cannone sparati dagli austriaci del feldmaresciallo Josef Radetzky. 12. Tabella delle corse postali da e per Venezia 1850. Da notare la straordinaria organizzazione postale dell’impero Austro - Ungarico, la capillarità del servizio che comprendeva, come si può leggere in alto a destra, anche Volta Mantovana. 13. Straordinaria edizione che racconta nei minimi dettagli gli avvenimenti di tutti i giorni del secolo XIX: dal 1 Gennaio 1801 al 31 Dicembre 1899.



TAVOLO STANZA “DA BAGNO” 1. Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807 - Caprera, 2 giugno 1882) Lettera interamente di pugno indirizzata a Ernesto Teodoro Moneta. Raro uno scritto autografo del Generale in questi anni, poiché già fortemente minato da problemi articolari e di vista. La stima nei confronti del futuro Premio Nobel per la Pace 1906 gli suggerì questa scelta faticosa. 2. Lettera interamente autografa con firma di pugno di Camillo Benso Conte di Cavour 1850 - 1856. 3. Lettera interamente autografa con firma di pugno di Camillo Benso Conte di Cavour 1850 - 1856. 4. Missiva con busta di Menotti Garibaldi, figlio del Generale. 5. Lettera autografa di Riciotti Garibaldi, figlio dell’Eroe dei due Mondi. 6. Giornale dell’epoca con francobollo per la spedizione. 7. Giornale dell’epoca. 8. Passaporto del regno d’Italia. 9. Papa Pio VI Barnaba Niccolò Maria Luigi Chiaramonti (Cesena, 14 agosto 1742 – Roma, 20 agosto 1823) Nell’agosto del 1809, Papa Pio VII giunse inaspettatamente in Provincia di Cuneo. Prigioniero del governo francese, il Pontefice fu costretto ad un viaggio estenuante fino a Grenoble e poi ad un rientro in Italia assai tortuoso che lo condusse in Valle Vermenagna, a Cuneo, a Rocca de’ Baldi, a Mondovì, a Vicoforte e di qui verso Savona dove fu tenuto in una sorta di reclusione. La lettera esposta narra dettagliatamente il tempo trascorso dal Santo Padre ospite della nobile famiglia Germagnano. 10. Lettera autografa con firma di pugno di Benedetto Cairoli. 11. 1859 la famosa petizione di Giuseppe Garibaldi a favore della raccolta di un milione di fucili. 12. Giuseppe Mazzini - (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872) Esponente di punta del patriottismo risorgimentale, le sue idee e la sua azione politica contribuirono in maniera decisiva alla


nascita dello Stato unitario italiano; le condanne subite in diversi tribunali d’Italia lo costrinsero però alla latitanza fino alla morte. Le teorie mazziniane furono di grande importanza nella definizione dei moderni movimenti europei per l’affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello Stato. Tutte le lettere esposte sono caratterizzate dalla particolarissima calligrafia del Mazzini e dalla carta sottilissima, elementi che spingono a pensare che tutti i messaggi del genovese dovessero essere consegnati con grande cautela e segretezza . Lettera intestata al Fratello si riferisce all’assedio di Venezia da parte degli austriaci del 1848. 13. Minutissima lettera indirizzata al dottor Carlo Foldi, relativa a fondi per il finanziamento delle attività mazziniane ed in particolare della Giovane Italia. 14. Lettera autografa scritta in perfetto inglese, è intestata ad un certo Vir. è emblematica dei rapporti internazionali del Mazzini, sempre indirizzati alla liberazione dell’Italia dalle potenze straniere. 15. Giuseppe Mazzini, lettera autografa firmata. 16. Foto di Giuseppe Mazzini formato cabinet. 17. Benedetto Cairoli - lettera autografa firmata e biglietto da visita. 18. Benedetto Cairoli - lettera autografa firmata con busta di spedizione. 19. Cesare Correnti (Milano, 3 gennaio 1815 – Lesa, 4 ottobre 1888) Figlio di Giuseppe Correnti, membro di un’antica famiglia del patriziato milanese e di Teresa Gerenzani, Cesare Correnti studiò inizialmente al collegio Longone di Milano, per poi essere ammesso nel 1833 nel Collegio Ghislieri, dove, grazie ad amicizie come Agostino Depretis e letture “clandestine”, coltivò le sue idee politiche e patriottiche. Si laureò in giurisprudenza all’Università di Pavia nel 1837, Correnti decise di Intraprese la carriera nell’amministrazione asburgica che allora controllava il Regno Lombardo-Veneto, dedicandosi anche a studi economici e politici. Ben presto diventò un fiero oppositore del Dominio austriaco in Lombardia. Pubblicò prima dei motti del ‘48 il suo un opuscolo anonimo, L’Austria e la Lombardia, che era una requisitoria contro il governo asburgico, accusato di soffocare la libertà nazionale italiana. Fu inoltre tra gli agitatori dei fatti che precedettero le Cinque giornate di Milano, alle quali partecipò, stendendo con altri patrioti l’ultimatum da presentare alle autorità austriache. Dopo la cacciata delle truppe austriache dalla città, Correnti ricoprì la carica di segretario del Governo provvisorio lombardo, allineandosi alle posizioni più moderate. Voleva infatti il plebiscito di annessione con il Regno di Sardegna di


Carlo Alberto di Savoia. Dopo la stipula dell’Armistizio Salasco tra piemontesi e austriaci, Correnti si rifugiò in Piemonte, dove venne eletto deputato per la II Legislatura del Regno di Sardegna per il collegio di Stradella. Dopo la disastrosa battaglia di Novara, che segnò l’abdicazione di Carlo Alberto a favore del figlio Vittorio Emanuele II, si diede all’attività di giornalista, Correnti rimase tra i banchi dell’opposizione fino alla fine del 1854, quando appoggiò il disegno di Cavour di far entrare il Piemonte nella Guerra di Crimea a fianco di Francia e Regno Unito. Più volte Ministro della Pubblica Istruzione, fu tra i fondatori della Reale Società Geografica Italiana, istituita ilo 12 maggio 1867, della quale divenne il secondo presidente dal 1873 al 1879. Fu membro di numerose commissioni parlamentari e si occupò dello sviluppo delle ferrovie italiane, anche come negoziatore di convenzioni internazionali, tra le quali quella che portò alla costruzione della linea del Traforo del San Gottardo. Cercò sempre di contrastare l’eccessivo centralismo tipico della mentalità sabauda. Nella lettera esposta del 31 agosto del 1859, si rivolge a Gabriele Rosa, scrittore e patriota, chiedendo un favore per la sua editrice signora Vallardi. 20. Nicolò Tommaseo - (Sebenico, 9 ottobre 1802 – Firenze, 1º maggio 1874) Nacque in Dalmazia, dove in pochi anni, a seguito delle campagne napoleoniche, si erano avvicendate le dominazioni veneziana, francese e asburgica. Laureato in legge a Padova nel 1822, visse alcuni anni fra Padova e Milano lavorando come giornalista e saggista, frequentando personaggi in vista del mondo intellettuale cattolico come Manzoni e Rosmini. Attivo nella vita politica, fu arrestato dagli austriaci nel 1847 e rilasciato l’anno successivo insieme a Manin. Nella lettera esposta si rivolge al suo editore, consigliando la pubblicazione di un’opera di un autore greco. Nella seconda, risulta curioso il post scriptum relativo a: un poco di quell’unguento pe’ i dolori reumatici, che testimonia l’umanizzazione di personaggi famosi. 21. Cesare Ambrogio Cantù (Brivio, 5 dicembre 1804 – Milano, 11 marzo 1895) Da posizioni politicamente moderate, a causa dei suoi crescenti sentimenti anti asburgici (moti del 1848) si spostò su posizioni più decise, tanto che fu costretto a lasciare Milano per Torino e successivamente per la Svizzera. Rientrò nuovamente a Milano in seguito all’amnistia nei confronti degli esuli politici, fatto che non gli venne perdonato da molti patrioti in futuro. Durante gli anni ‘50, infatti, Cantù giunse a collaborare col governo austriaco e a sognare un Lombardo-Veneto indipendente con Massimiliano d’Asburgo come re in contrapposizione ad un Piemonte che, guidato da Cavour, stava attuando una politica legislativa antiecclesiastica che il cattolico Cantù non poteva accettare. La prima lettera presentata si riferisce a questo secondo periodo, 1857 e la seconda al suo ruolo come sovrintendente degli Archivi Lombardi



ULTIMA SALA SOPRA IL CAMINETTO Due cornici del fornitore della Real Casa con l’emblema reale in alto, all’interno della quali vi sono i ritratti fotografici con dedica e firma autografa della Regina Elena e di Vittorio Emanuele III




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