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storie di dolci

La dolce storia della Polacca

di Antonio Puzzi

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Quest’anno per Natale voglio regalarmi un ricordo. Regalarmi, sì, perché per voi il regalo vero sarebbe scoprire il sapore di ciò di cui vi sto parlando.

Ero poco più che un bambino quando, in estate, andavo al mare in quella zona bella quanto bistrattata nota come litorale domizio, a ridosso tra le province di Caserta e Latina. Visto che a muoversi sulla stessa via erano quotidianamente decine di migliaia di auto, tra un semaforo e l’altro, c’era sempre qualcuno che aveva una buona scusa per perdersi. E qualche ritardatario per farsi perdonare aveva sempre una gustosa idea: portare la colazione. Un giorno, parlando tra “piccoli amici” in spiaggia, mi lasciai scappare che “uno dei nostri" sarebbe arrivato portando “le polacche”.

E lì capii che per scatenare le fantasie dei più piccoli bastava davvero poco: all’arrivo di Francesco infatti l’unico a gioire per le polacche fui io perché… erano i miei dolci preferiti.

Difficile, per chi viva fuori da Aversa - Comune cerniera tra le province di Napoli e Caserta - e (pochissimi) paesi limitrofi comprendere quella gioia. La quale diventa però molto più comprensibile se si incontra almeno una volta nella vita una polacca. La storia della “polacca aversana” (no, non è un ossimoro) è affascinante almeno quanto quella della Sacher. Si dice che ad aver inventato la celebre torta austriaca sia stato un giovane apprendista cuoco sedicenne, Franz Sacher, trovatosi improvvisamente alla guida della cucina in sostituzione del capocuoco, impossibilitato nel raggiungere i fornelli a causa di un malanno. Dovendo preparare un dolce per alcuni ospiti del Ministro degli Esteri del Paese presso il quale era al servizio, inventò la celebre torta al cioccolato con ripieno di marmellata di albicocche. Il resto è storia nota. Una simile leggenda riguarda la polacca aversana. In realtà qui le versioni sono più d’una… Quella più diffusa vuole che nel 1926 una suora polacca di stanza ad Aversa presso il Convento delle Cappuccinelle abbia stretto amicizia con i pasticcieri Nicola Mungiguerra e sua moglie, i quali ogni domenica regalavano al convento una “guantiera di paste”, ossia un vassoio di dolci.

La Sacher dell'hotel Wien Per ringraziarli di tanta bontà, la monaca (la cui identità non è nota e di cui non si è riusciti a recuperare traccia negli archivi) avrebbe dato ai due giovani la ricetta di una torta della sua terra che i pasticcieri poi declinarono anche in una squisita brioche da colazione.

Una variante della stessa leggenda vuole invece che il regalo dei dolci al convento avvenga solo dopo il dono della ricetta, in segno di gratitudine verso la suora. Un’altra versione della stessa storia ritiene invece che questo avvenimento sia accaduto in realtà nel Medioevo mentre un’ultima leggenda attribuisce la nascita del dolce direttamente alle suore, le quali, ospitando una nobile (qualcuno dice “la regina”) polacca, vollero omaggiarla con un dolce mitteleuropeo.

Ora, come potrete ben comprendere, capire come sia nato il dolce è un mistero fittissimo ma la ricetta non è da meno. Ciascun pasticciere di Aversa custodisce infatti gelosamente la propria polacca, sebbene per tutti l’origine pare sia da riferirsi ai Drożdżówki (panini dolci) realmente realizzati in Polonia, che sono dei lievitati fatti con farina, latte, zucchero, burro e succo di limone. Non è però da sottovalutare la vicinanza con il Rogale marcińskie (cornetto Martinica), in quanto lo stesso viene definito una torta “semi-francese” con molto più latte e burro nell’impasto e dunque molto più vicino alla polacca “nostrana”.

Drożdżówki Rogale marcińskie

E se invece così non fosse? Qualche malpensante ritiene infatti che la polacca altro non sia che una rivisitazione del pasticciotto leccese, realizzato dunque allo stesso modo ma con pasta brioche in luogo della pasta frolla. So già che vi starete chiedendo: Qualunque sia l’origine comunque, la somiglianza coi dolci polacchi persiste, al punto che alla visita pastorale dell’allora Papa (oggi Santo) Giovanni Paolo II in Campania, nel 1990, ad Aversa fu omaggiato proprio con la polacca ed ebbe modo di dire che gli ricordava i Drożdżówki della sua infanzia.

pasticciotto

e il nome in questo caso da dove deriverebbe? Da una somiglianza molto forte con un tipo di scarpa prodotto proprio ad Aversa (che è stato fino a qualche decennio fa un centro particolarmente importante per l’artigianato in ambito calzaturiero): i polacchini, detti così perché nati a Cracovia, allora capitale del Regno di Polonia, alla fine del XIV secolo, da cui il nome "scarpa di Cracovia”. Il Medioevo insomma in un modo o nell’altro c’entra sempre. E la Polonia pure.

polacchini Vi confesso che ero molto tentato dal darvi una ricetta e avevo addirittura provato a contattare l’erede di Nicola Mungiguerra ma ovviamente l’esito è stato totalmente negativo.

Sul web comunque ne trovate moltissime versioni e oggi questo dolce ha iniziato a conquistare non solo il litorale domizio dal quale ero partito coi miei ricordi ma anche altre città della Campania. ll resto del mondo pare debba ancora attendere sebbene tra gli estimatori della polacca, oltre a Giovanni Paolo II, figurano Umberto Agnelli (senatore e alto dirigente di Fiat e Juventus) e Giovanni Leone (Presidente della Repubblica). A provare a esportare la polacca, a dire il vero, qualcuno ci aveva già pensato: il celebre pizzaiolo Gianfranco Iervolino, che per un periodo ha lavorato proprio ad Aversa, ha creato nel 2014 la “Polaccapizza”, una variante del dolce con crema pasticciera e amarene che, sebbene con un impasto diverso, ne ricorda moltissimo consistenza e gusto. E, grazie a questa intuizione, ricevette il premio “Pizza dell’anno” dal Gambero Rosso. Qualche anno fa, inoltre, qualcuno ha registrato un marchio che include nel nome del dolce anche l’articolo (“la polacca”), un logo e un claim. E a farlo non sono stati i protagonisti delle leggende che vi ho finora citato. Sicuramente è stata un’impresa di successo, non c’è dubbio. Ad Aversa però tutti continuano a fare la polacca secondo la propria tradizione e probabilmente avrebbe più senso l’istituzione di un consorzio per la tutela di questo prezioso prodotto. Un problema tuttavia ci sarebbe: la codifica della ricetta!

Aversa Niente, non resta che andarla a mangiare ad Aversa. E il raggiungimento della meta varrà sicuramente il viaggio.

Le calorie… di Natale

Natale è finalmente arrivato: regali da aprire, tonnellate di auguri da fare e quintali di... cibo. Tutti sanno che durante questo giorno le abbuffate saranno all'ordine del giorno. Chi si prepara psicologicamente, chi decide di iscriversi in palestra e chi giura che "lunedì a dieta".

a cura della Dott.ssa Marisa Cammarano, biologa nutrizionista M a quante calorie si assumono il giorno di Natale? Secondo uno studioso inglese nella sola giornata di Natale si consuma circa tre volte l'apporto calorico giornaliero raccomandato. L'indagine ha esaminato i pasti di 2.000 persone che, secondo quanto riportato, avevano consumato un apporto medio di 5.000 calorie ed oltre 190 gr di grasso. Tra arrosti, leccornie varie, dolcetti, panettoni e spumante si accumulano in media 3,3 kg di peso tra Natale e Capodanno, e per tornare al peso di prima ci possono volere anche 4 mesi. Questo è il risultato di numerose ricerche condotte nei Paesi ricchi dove in media l’aumento di peso dovuto ai pranzi, cenoni e dolci a cavallo tra Natale e Capodanno è di 3,3 kg. Per smaltire tutte queste cibarie ci vogliono circa 20 ore di

boxe e/o un’intera giornata di maratona. Ad onor del vero, però, c’è da dire che non tutto l’aumento segnalato dalla bilancia è costituito da grasso. Il 18% del sovrappeso accumulato è, infatti, acqua che andrà via facilmente ritornando ad una alimentazione meno calorica adottando una dieta sana ed equilibrata insieme ad un regolare esercizio fisico. Ridurre i grassi: moderare la quantità di grassi e oli utilizzati per condire e preferire metodi di cottura leggeri e salutari, sono buone norme che è consigliabile osservare non solo per tornare in forma dopo le feste, ma anche durante tutto l’anno. Per non ritrovarsi già a capodanno con troppi chili in più impossibili da smaltire basta seguire pochi consigli: limitare gli eccessi ai veri giorni di festa.

LE AZIENDE INFORMANO

GIMETAL T. 0573 1943680 M. inform@gimetal.it

Be Unique il progetto limited edition di Gi.Metal

Gi.Metal lancia il progetto Limited Edition, presentando la prima pala della serie e rivoluzionando il concetto di “utensile per pizzeria”. Dal 3 Novembre è possibile acquistare dal sito gimetal.it la prima esclusiva pala in serie limitata di Gi.Metal.

Pochi i pezzi prodotti, da accaparrarsi subito!

“Be Unique” è il claim in accompagnamento all’intero progetto, che prevede l’uscita di più pale in serie limitata, con caratteristiche estetiche del tutto nuove e alta prestazione tecnica. La qualità Gi.Metal è resa ancora più unica dall’esclusiva personalizzazione laser del manico. Il logo si trasforma per identificare le Limited Edition, diventando il cuore che batte, imperituro, per i pizzaioli di tutto il mondo e la loro arte.

Il packaging è speciale. È stato studiato per concludere il viaggio del cliente, con la stessa cura con cui è stato pensato il progetto. La custodia della pala è un guanto che avvolge delicatamente il prodotto, proteggendolo dall’esterno.

La pala "Limited Edition #1 - Be Pink" è la prima della serie e incarna qualità, tradizione, performace, stile e originalità. Un colore di manico totalmente inaspettato: il rosa. Parte del ricavato derivato dalla vendita della pala "Limited Edition #1 - Be Pink", sarà devoluto ai progetti di Action Aid a favore dell’empowerment femminile e della tutela dei diritti delle donne.

È importante, infatti, entrare nell’idea che i giorni di festa non siano 15.

Le date importanti, dove sono concessi gli extra a tavola, sono cena della Vigilia, pranzo del 25 e del 26, il cenone di Capodanno e i giorni del 1 e 6 gennaio. In tutti gli altri giorni invece è importante rispettare il controllo calorico: è questo il vero trucco per contrastare l’impennarsi dell’ago della bilancia.

MANGIARE PORZIONI PICCOLE. L’asso nella manica per assaggiare tutto senza eccedere è fare piccole porzioni di ogni pietanza e non chiedere il bis.

BERE MOLTA ACQUA. Mangiando di più e generalmente anche più saporito, il consumo di sale aumenta e con questo anche la ritenzione di liquidi.

LIMITARE GLI ALCOLICI.

Non rinunciare certo al brindisi della Vigilia di Natale e di Capodanno, ma limitare il resto: lo spumante ed il vino in generale sono alimenti calorici che non fanno altro che aumentare il computo totale di calorie giornaliere. Difatti, contengono quelle che vengono chiamate “calorie vuote”, in quanto non apportano nutrienti ma, solo calorie Anche i liquori cosiddetti digestivi sono spesso ricchi di zuccheri: il rischio è quello di appesantirsi ancora di più alla fine del pasto.

EVITARE LE CALORIE DAVVERO INU-

TILI. Se proprio si ci vuole concedere degli eccessi, che siano i piatti della tradizione, per le quali vale la pena sgarrare. Rinunciare, quindi, agli extra di cui si può fare a meno come le bibite gassate e zuccherine oppure il pane nell’attesa del primo piatto. E poi, finite le feste (ma anche tra una festa e l’altra) evitare di avere in casa confezioni aperte di dolci: la tentazione di spizzicare a tutte le ore del giorno sarebbe troppo forte per rinunciarci.

FARE ATTENZIONE AL FINE PASTO.

A fine pasto, la tavola si ci riempie di frutta secca e dolciumi natalizi magari da assaggiare tra una partita a carte ed un gioco da tavola. Noci, anacardi, mandorle, pistacchi, ma anche frutta disidratata (datteri, prugne, uva sultanina, fichi, albicocche) che hanno delle indiscusse proprietà benefiche (fonte di antiossidanti, di vitamine e di grassi buoni), sono anche alimenti a densità calorica elevata.

ISCRIVERSI IN PALESTRA O NON

SMETTERE DI ALLENARSI. Fare palestra permetterà di bruciare tantissime calorie e di potersi concedere qualche sfizio ed eccesso senza sentirsi in colpa. Nei pasti festivi, dunque, basterà ridurre gli alcolici, prediligere il pesce alla carne ed evitare di fare il bis di dolcetti. Riducendo le porzioni di pasta o misurandosi agli antipasti si arriverà a un pasto da circa 2000 kcal. Se si facesse in questo modo per i tre giorni delle feste, riducendo di poco l’apporto calorico di dieta abituale tra Natale e Capodanno, e ripetendo la stessa cosa con i due giorni a cavallo della fine dell’anno, totalizzeremo un surplus calorico di 25003000 calorie massimo fino all’Epifania. L’equivalente di meno di mezzo chilo in più, che possiamo smaltire con 5-6 ore di tapis roulant spalmate in una settimana, per esempio. Questo, contro, le dodicimila e passa calorie di surplus calorico che ci farebbero guadagnare quasi due chili e che infatti sono in linea con le stime dei medici su quanto peso si prende tra Natale e Capodanno. È importante anche non rimanere a digiuno dopo il pranzo di Natale preferendo una dieta di compenso ipocalorica, che preveda solamente frutta e verdura per tutto il giorno così da pareggiare le calorie di troppo ingerite il giorno precedente. Per concludere, concediamoci pure qualche eccesso durante le Feste ma cerchiamo di mettere in pratica, nel resto dell’anno, le raccomandazioni delle migliori scuole di nutrizione umana. Una di queste si può riassumere con una massima, che recita: Colazione da re, pranzo da principe, cena da mendicante.

Le lenticchie, portafortuna per tutto l'anno

di Caterina Vianello

Nessun mese è associato alla lenticchia, o meglio alle lenticchie poiché è impossibile pensarle – ma soprattutto mangiarle! - al singolare, come dicembre. Se mangiare le lenticchie fa ormai parte dei riti portafortuna delle feste (rievocando un’associazione, quella tra i legumi e il denaro, che pare risalga all’antica Roma), sarebbe tuttavia ingiusto confinare le lenticchie solo a consumo limitato ad un mese all’anno. Grazie a ottime proprietà nutrizionali (hanno un alto contenuto di ferro e di sali minerali) e ad una versatilità eccezionale, meriterebbero di essere inserite a tavola con periodicità costante: in zuppe, risotti, ripieni, paste, ridotte in polpette o trasformate in hamburger, assieme a verdure e ad altri legumi in insalate gustose, le lenticchie sono una vera rivelazione, capaci di sorprendere e di soddisfare i palati più esigenti e curiosi. Il nome deriva dal latino lens, lente: la forma appiattita e convessa rimanda a quella delle prime “lenti” ottiche. La pianta cresce in zone a clima temperato, semiarido, sfruttando a proprio favore condizioni ambientali proibitive per altre colture. Grazie ad un ciclo biologico breve riesce infatti a garantire un buon livello produttivo. Nel nostro paese è coltivata in ristrette aree di altopiano dove le condizioni del clima e del suolo conferiscono al prodotto una qualità altissima ed un sapore distinto. Le cultivar sono diverse e i criteri per distinguerle sono il colore (verde, giallo, rosso, marrone, grigio e nero) e la taglia (piccole, medie, grandi). Se altrove si apprezzano di più quelle a seme grosso (fino a 80 mg), in Italia le lenticchie più pregiate sono quelle a seme molto piccolo. Vale la pena allora fare un giro tra le regioni italiane che ci regalano i legumi migliori, tra prodotti a marchio e Presidi Slow Food.

Lazio

La vera perla della regione si chiama lenticchia di Onano, nota anche come “lenticchia dei Papi” poiché pare fosse venduta alla corte papale, dov’era particolarmente apprezzata. Il sapore è molto delicato, dolce, mentre il colore va dal marrone chiaro con striature che vanno dal piombo scuro al cinereo rosato, al verdastro. Ha una forma lenticolare appiattita con una superficie liscia e sottile, per un diametro di 3-8 mm. Tenera, è ottima con la pasta fresca, mantenendo una consistenza vellutata fine e cremosa. Dal piccolo paese dell’alta Tuscia Laziale (Viterbo) che le ha dato il nome, la lenticchia ha conquistato il mondo: in occasione delle esposizioni universali di Buenos Aires, Londra e Parigi di inizio ‘900 venne particolarmente apprezzata. Ha marchio Igp. Sempre in Lazio, vale la pena spostarsi a Ventotene: qui si trovano delle piccole, chiare e resistenti lenticchie, coltivate sin da metà ‘800. Seminate d’inverno e raccolte a giugno, si coltivano ancora con metodi tradizionali sul fertile suolo vulcanico riconoscibile dai tufi gialli, trachiti e basalti che caratterizzano le coste dell’isola. La mano degli agricoltori del posto, la tecnica colturale, la scelta degli strumenti agricoli, preparati ancora artigianalmente, fino alle operazioni di raccolta e spulatura (il seme viene liberato dal baccello battendolo con una coppia di bastoni di legno e poi pulito all’aria aperta), ne fanno un prodotto di eccellenza. In provincia di Rieti, sull’Altopiano di Rascino, tra i 900 e i 1300 metri di altitudine, si producono le lenticchie omonime. I pastori transumanti, che spostavano il gregge dai pascoli montani a quelli della campagna romana e che attraversavano il territorio, durante il viaggio erano soliti portare con sé un po’ di lenticchie da coltivare in estate: oggi la coltivazione inizia ad aprile e termina in agosto. Il risultato è una lenticchia dal seme piccolo, di colore marrone, con poche maculature e sfumature rossastre. È Presidio Slow Food.

Abruzzo

Dobbiamo ai monaci della zona la coltivazione della lenticchia di Santo Stefano di Sessanio, che fin dall’anno 1000 iniziarono a produrre un legume che trovò ben presto il suo habitat ideale a circa 1000-1200 metri. È piccola e molto saporita: pochi millimetri di diametro, globosa e di colore scuro, marrone-violaceo. Ha sapore molto intenso, perfetto per le zuppe. La raccolta è faticosissima e viene fatta ancor a mano nel mese di agosto: i macchinari infatti non solo non si adattano alle zone impervie ma soprattutto potrebbero danneggiare il prodotto.

Umbria

Due le eccellenze dell’Umbria: la lenticchia di Castelluccio di Norcia Igp e la lenticchia di Colfiorito. La prima è prodotta in una zona molto ristretta nelle montagne che dividono l’Umbria dalle Marche nell’area del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, ad un’altitudine media di 1.400 metri. Ha semi molto piccoli, appiattiti e tondeggianti, dalla buccia molto fine e di colore variabile dal verde screziato al marroncino chiaro, dal giallognolo al bruno rossastro (alcuni semi possono essere tigrati). Raccolta tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, una volta veniva “carpita” (raccolta) a mano, coinvolgendo manodopera (soprattutto femminile) dai paesi limitrofi (Gualdo, Pescara Del Tronto, San Pellegrino). Ancora oggi le piante vengono lasciate essiccare nel campo, raccolte in mucchietti e disposte su file, quindi trebbiate per l’estrazione dei semi. Ha buccia particolarmente fina e tenera, mantiene la cottura ed è particolarmente adatta a primi e secondi piatti. È una delle protagoniste della “fioritura” dei piani di Castelluccio, evento naturale che regala ogni estate uno spettacolo suggestivo di colori e profumi. Ha marchio Igp dal 1997. Molto piccola, saporita e di colore giallo-rosso-verde, la lenticchia di Colfiorito prende il nome dall’omonimo Altopiano, che si erge nel territorio dell’Appennino centro-occidentale a cavallo tra Umbria e Marche. Delicata e dalla buccia che resiste alla cottura, è stata inserita nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della regione.

Puglia

Tradizionalmente considerata prodotto dell’economia agricola familiare, trova il suo periodo di splendore tra gli anni Trenta del secolo scorso, quando inizia un percorso di esportazione verso i mercati nazionali e internazionali (Inghilterra, Germania, Stati Uniti, Canada e Australia), fino agli anni Settanta, quando una serie di fattori tra i quali abbandono delle campagne, industrializzazione, carenza di manodopera agricola, monocoltura del grano e importazione di lenticchie a basso costo, ne hanno quasi determinato la scomparsa. Nei primi anni Duemila sta vivendo una rinascita, anche grazie al Centro Studi “Lino Lana e Lenticchia” e alla Facoltà di Agraria dell’Università di Bari. Il colore può assumere diverse gradazioni del verde e del marrone mentre il sapore è dolce ed erbaceo, delicato e rotondo, con note di bosco. È particolarmente indicata per minestre, minestroni e zuppe e la minestra con salsiccia e crostini di Pane di Altamura DOP è forse il modo migliore per renderle omaggio. Sotto l’aspetto nutrizionale è più ricca di ferro rispetto alle altre varietà. Ha marchio Igp.

Sicilia

Cresce ad Ustica la lenticchia più piccola d’Italia. Il terreno lavico e fertile dell’isola e il sole, le donano un colore marrone scuro con delicate sfumature verdi. Oggetto di commercio già nei secoli passati (documenti dell’800 testimoniano come il mercato di Napoli la apprezzasse molto), dagli anni ’60 è stata progressivamente abbandonata. Tuttavia oggi è protagonista di una riscoperta, grazie a Slow Food che ne ha fatto un Presidio. In passato la spagliatura si faceva ancora come nell’antichità e a mano: le piantine si calpestavano trascinando grosse pietre con i muli e, con un tridente, si lanciavano in aria in modo che il vento separasse la paglia dalle lenticchie. Oggi l’introduzione della trebbia ha reso l’operazione decisamente più comoda e funzionale. È l’ingrediente principe della tipica pasta con le lenticchie (la pasta viene spezzata) e della zuppa, arricchita con le verdure locali e profumata con basilico o finocchietto selvatico. Altro Presidio Slow Food in terra siciliana è la lenticchia di Villalba, che come quella di Altamura, appartiene alla famiglia delle lenticchie a seme grande, caratteristica che è stata inizialmente motivo di successo. Presente nel territorio da secoli, trova una prima testimonianza scritta per opera di Giovanni Mulè Bertòlo nel libro Memorie del Comune di Villalba edito nel 1900. Il periodo di massima produzione è stato tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso, quando addirittura quasi il 30% della produzione italiana arrivava da Villalba. Era apprezzata per le dimensioni e per le qualità organolettiche (elevato contenuto di ferro e proteine, un basso tenore in fosforo e potassio). In seguito, costo della manodopera, rese limitate e importazione di legumi esteri a prezzi notevolmente inferiori ne hanno determinato il progressivo abbandono. Oggi il recupero, puntando proprio sulla dimensione dei semi, circa un cm, peculiarità assoluta nel mercato internazionale.

Calabria

Presidio Slow Food, la lenticchia di Mormanno si credeva fosse perduta. Per lo meno fino alla metà degli anni ’90, quando i grazie ai tecnici dell’Agenzia Regionale per i Servizi di Sviluppo Agricolo della Calabria (ARSSA) ne sono state recuperate delle piccole quantità presso alcuni agricoltori locali: grazie a queste si è potuto promuoverne di nuovo la coltivazione. Prende il nome dal paese che si trova nel Parco nazionale del Pollino e ne esistono 5 varianti: beige, beige con screziature marroni, verde, verde con screziature verde-scuro e rosa. Ha tempi di cottura molto ridotti e nella tradizione di Mormanno viene impiegata per la preparazione di una ricetta semplice ma gustosissima: la zuppa con peperoncino.

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