Fuori dal mondo

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FUORI DAL MONDO. LA STORIA DEI MUSE MARK BEAUMONT Arcana Con 12 milioni di dischi venduti, i Muse sono senza dubbio il più importante gruppo inglese dell'ultima generazione, l'anello di congiunzione tra la spettacolarità rock dei Queen e il lirismo pop dei Radiohead. Dalla prima Battle of the Bands nel Devon, da dove sono partiti, al tutto esaurito dello Stadio di Wembley, dove sono approdati, Fuori dal mondo ricostruisce la stratosferica ascesa della band di Teignmouth con decine di aneddoti e interviste esclusive, prima inedite, raccolte tra il 1998 e il 2010, analizzandone scrupolosamente i cingue album di studio, dall'ormai mitico SHOWBIZ al più recente THE RESISTANCE, e ripercorrendo passo dopo passo i sedici anni impiegati dai tre ragazzini punk per salire sulla cima dell'Olimpo del Rock. «E, infine, un ringraziamento a tutti i musicisti talentuosi che mi ispirano, in particolare ai Muse» STEPHENIE MEYER ISBN: 978-88-6231-120-5 MARK BEAUMONT FUORI DAL MONDO LA STORIA DEI MUSE Mark Beaumont © 2008 Omnibus Press (A Division of Music Sales Limited) www.omnibuspress.com Fuori dal mondo La storia dei Muse Traduzione di Andrea Polenti Tutti i diritti riservati. La riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza autorizzazione scritta è severamente vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi. © 2010 Arcana Edizioni Sri Via Isonzo 34, Roma Tutti i diritti riservati Titolo originale: Out Of This World: The Story OfMuse Traduzione dall'inglese di Andrea Polenti Copertina: Sandokan Studio ISBN: 978-88-6231-120-5 www.arcanaedizioni.it arcana Indice INTRODUZIONE FUORI DAL MONDO Capitolo uno Capitolo due Capitolo tre Capitolo quattro Capitolo cinque Capitolo sei Capitolo sette Capitolo otto Capitolo nove Capitolo dieci Capitolo undici


Note Discografìa UK Ringraziamenti Introduzione Quando li incontrai per la prima volta, dimenticarsi di una band come i Muse era la cosa più semplice del mondo. Goffamente rannicchiati intorno al tavolino di un caffè fradicio d'umidità, sotto i portici a pochi metri dagli uffici della loro agenzia di Pr a West London, nel gelo del gennaio 1999, per loro era solo la seconda intervista con un giornalista musicale di professione (la prima con il mio collega di «NME» James Oldham, per la loro prima biografìa promozionale), e la prima in assoluto a finire sulla stampa nazionale (nella sezione "nuove band" di «NME», poi intitolata «On»). Tazzine da tè che tremavano e parole smozzicate per la scarsa confidenza con i media. Tre ragazzini ammodo del west Country, agitati e rossi in volto, dall'aria totalmente incompatibile con quella che sembrava essere la loro musica e specialmente con l'apripista del loro secondo Ep MUSCLE MUSEUM. Poche settimane prima quel pezzo era esploso come una bomba nello stereo di «NME» stregandoci tutti, con quella linea di basso come brontosauri in marcia, quelle chitarre incantatrici di serpenti e un coro maestoso, dal falsetto così compatto che sembrava deflagrare dalle casse. Un'eruzione vulcanica sotto una Notre Dame stipata di album dei Queen in fiamme. Quella era musica da giganti, poco ma sicuro. Creature di roccia ferrosa alte 25 metri, con la laringe di arpie urlanti, chitarre fumanti di zolfo e testicoli di puro granito. E tuttavia c'erano questi tre ragazzini ammodo del West Country, agitati e rossi in volto, che bofonchiavano rivolti alle loro lattine di Diet Coke. Il portavoce era chiaramente un individuo minuto, dai lineamenti affilati e ostinatamente spigolosi che aveva 20 anni e si chiamava Matt Bellamy. Balbettò e farfugliò a rotta di collo per la canonica mezz'ora, sebbene nervosismo e inesperienza con i media gli stessero per far venire un attacco di gastroenterite verbale acuta. Il bassista Chris Wolsthenholme (Wolsthenholme? Cioè, ma quant'era da scuola privata questa band?) sembrava un tipo abbastanza socievole e interessante; se ne stava seduto goffamente in disparte, pronto se necessario ad aggiungere dettagli e curiosità. Il batterista Dominic Howard, invece, era tutto timidezza infantile e sorrisi, e a giudicare dal suo contributo generale all'intervista1 avrebbe anche potuto essere muto dalla nascita. Com'era possibile che quell'eruzione di rock sinfonico, quei "Radiohead secondo Wagner", quel primo assaggio della Nuova Musica fosse opera di questi... be', studenti? L'intervista in sé fu dolorosamente inoffensiva. Si erano incontrati a scuola, avevano vinto una "battaglia delle band", avevano proseguito nel circuito dei pub intorno a Teignmouth per un paio d'anni fino alla firma del contratto con una piccola etichetta indie e bla-bla-bla. Erano cloni spudorati dei Radiohead? Le influenze c'erano, ma la loro era una band del tutto diversa. Cosa si provava a firmare per la Maverick di Madonna? L'avevano fatto anche i Deftones, e a Matt piacevano i Deftones. Cos'avevano da dire in merito alle indiscrezioni sul passato di Matt, ex-giovane teppista di Teignmouth? Be', insomma, si era comportato un po' da ragazzaccio, ma non volevano tornarci più sopra. Sorseggiavamo i nostri soft drink tenendo d'occhio i minuti e trascinandoci inerti lungo le tappe del pezzo per «On». Rivolte come da (monotono) copione tutte le domande, divulgati i punti cardine della storia e schivata con maestria ogni traccia di aneddoti interessanti, controversi o sensazionali, calai il pollice sul tasto off del registratore e resi partecipi i Muse del fatto che mi avevano regalato l'intervista forse più noiosa che avessi mai fatto. Ho come il sospetto che quelle parole gli siano rimaste parecchio impresse. Perché le cose stavano per cambiare. E non immaginavo quanto. * * * A Mosca ci siamo scolati vodka con vagonate di groupie. In Austria eravamo così sbronzi che ci siamo accorti solo quando ormai eravamo a Vienna di aver lasciato Matt in compagnia di una ragazza a Graz1. Abbiamo battuto i bar di Pigalle e respinto selve di braccia rapaci all'ingresso del palco del palasport di Bercy. Abbiamo dato vita a una session fotografica fuori programma nella Piazza Rossa solo per ritrovarci alle calcagna, nel giro di dieci minuti e alla velocità di


una monovolume ben lanciata, orde strepitanti di fan russe che ci avevano visti per caso2. Abbiamo parlato delle session di registrazione ai Richmond Studios, quando la band era nuda e imbottita di funghi dentro vasche idromassaggio. Abbiamo visto le principali attrazioni di Londra, da quella cavalcata virtuale in sella a una meteora al Museo delle Scienze fino all'anteprima di ABSOLUTION al Planetarium (con tanto di laser show), passando per lo spettacolare fondoschiena di una Kylie Minogue in cera da Madame Tussauds. Nei dieci anni successivi a quel disastro d'intervista in quell'umido gennaio ho tampinato costantemente l'astronave per il successo dei Muse. Li ho intervistati nelle fasi più cruciali della loro ascesa osservandone la rapida crescita in sede live, quando i locali hanno cominciato ad andargli stretti come dei vestitini da neonato ad un bambino, e allora hanno deformato i soffitti dei palasport di tutta Europa per sbocciare liberi in quegli stadi che gli spettano di diritto. Sin dagli esordi era evidente che si trattava di una band troppo grande per i locali in cui suonava. In quei primi tour da supporter al tempo di SHOWBIZ e nelle piccole date da headliner sembravano una gargantuesca belva rock intrappolata in una gabbia troppo stretta. Matt chiudeva ogni show con frenesia distruttiva, spaccando chitarre, lanciando piatti della batteria a mo' di frisbee (e per poco non decapitò Dom durante un memorabile show parigino) e rotolandosi a terra in un rigurgito di feedback, come a voler esprimere l'oltraggio di non avere il budget da stadio che la sua musica meritava. Quando il loro secondo album ORIGIN OF SYMMETRY li portò nei vari Academy, Apollo e Zenith, allora apparvero i corpi celesti: dozzine di pianeti bianchi gonfiabili riempiti di stelle filanti argentate e lanciati in un volo celestiale durante l'esecuzione di Bliss. Quando ABSOLUTION invase i palasport, i pianeti presero a cadere dal cielo mitragliati da salve di coriandoli e raggi laser olografici. Gli eccessi spettacolari da headliner di BLACK HOLES AND REVELATIONS videro cascate di fuochi d'artificio, enormi schermi futuristici, una chitarra che sembrava cambiasse colore a seconda dell'umore di Matt e organi del Terzo secolo che ad ogni nota si illuminavano come la navicella di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Che ai Muse le cose andassero ancora strette lo si capisce soprattutto dalla pedana per la batteria di Dom: era la riproduzione in neon di un satellite, così imponente che i palchi dei palasport erano troppo piccoli per potervi attaccare le ali, rendendolo simile a un frullatore gigante. Nel tour europeo di BLACK HOLES avevano anche progettato di installare un'enorme antenna trasmittente in mezzo all'auditorium per allargare fino al pubblico la scenografia del palco (ispirata a quella base HAARP in Alaska che i teorici delle cospirazioni ritengono parte di un piano governativo finalizzato al controllo mentale), ma il cartellino del prezzo con su scritto "un milione di sterline" bastò a dissuaderli. E poi, com'era inevitabile, fu la volta dello stadio di Wembley: la maturazione, l'abbandono del bozzolo dei palasport, lo spiegarsi completo del loro mantello di band da stadio. E qui che tutti e tre sono sorti, schiena contro schiena, in un pennacchio di fumo, da una piattaforma al centro del campo, prima di incamminarsi in una blitzkrieg sensoriale. Enormi antenne sparavano laser nella stratosfera. Nelle gradinate più in alto, i pianeti giganti si erano evoluti in spettri di luce pulsante, che sovrastavano il palco come un'assemblea di cervelloni alieni o fluttuavano in mezzo al campo con sotto attaccati degli acrobati appesi a testa in giù. Il palco in sé aggrediva lo sguardo: un unico, immane schermo da cui divampavano immagini fugaci, distorte e pixellate della band, scene di donne androidi che ballavano la lap-dance o avveniristiche e devastate città of delusion. E questo era sempre stato il modo giusto di vivere lo spettacolo della band, uno show monumentale quanto la loro musica. Avevi come la sensazione che i Muse fossero tornati a casa. Era come se stessero finalmente riprendendo fiato. Al Wembley Stadium, in quella mite serata del luglio 2007, dimenticarsi di una band come i Muse era la cosa più difficile al mondo. * * * E le interviste? Che roba! Il popolo occulto dei rettiliani al potere! L'undicesimo pianeta, il cui ultimo passaggio in prossimità della Terra aveva creato la vita, in rotta di collisione con noi! Le allucinazioni a base di paesaggi marziani! Zaini a propulsione, controllo mentale governativo, teorie


complottiste sul 9/11, cavalieri di Cydonia, spavaldi inviti alla rivoluzione! Di pari passo con una musica sempre più audace e magniloquente, e con delle performance live tramutate in un accecante monolite tecnologico da era spaziale, le interviste di Matt Bellamy si sono fatte sempre più fantasiose e intriganti, un'esposizione di teorie complottiste prese da Internet, corruzione politica e religiosa e idee sull’origine dell'universo, assemblate a partire dai più disparati fatti scientifici e interconnesse dalla sua logica genialmente obliqua. Ben lungi dall'adolescente tedioso e bofonchiante in quel caffè di West London nel 1999, Matt Bellamy è diventato un uomo che si interroga su tutto, uno che rimuove la scorza di menzogne e dicerie che ci bombardano quotidianamente per raccontare le sue personali verità sull'universo politico, religioso e scientifico in cui viviamo. È uno che prende allucinogeni, per tufFarvisi dentro con lo scopo di viverlo veramente. Portabandiera della verità, scienziato pazzo, nerd in fissa con la fantascienza, visionario psichedelico: Matt rappresenta un'autentica evoluzione del gene della rockstar. Dotato di acume feroce e visioni wagneriane, all'interlocutore risulta impossibile assimilare e comprendere il flusso di idee vertiginose e gli stimolanti teoremi sullo scenario globale che scaturiscono a getto continuo dalle sue labbra, e che finiscono puntualmente per travalicare il tempo a disposizione e la lunghezza massima consentita per l'intervista. L'impressione è spesso quella di intervistare la Rete intera con una chiave di ricerca casuale. Nel catturare fra queste pagine un'esperienza così travolgente ho riportato frammenti perlopiù inediti di interviste condotte con i Muse nell'arco di tutta la loro carriera, delineando la trasformazione di Matt da ragazzino refrattario ai media in una delle personalità musicali più strepitose e affascinanti. E forse ho svelato una storia mai sentita prima sul conto della band, lanciata a bordo di un razzo nella stratosfera dell'opera rock. È un racconto epico di tragedia, avventura, misticismo e gloria, quindi allacciate le cinture: un supermassive black bole è previsto fra dieci, nove, otto... Mark Beaumont, giugno 2008 Fuori dal mondo Capitolo uno In un pomeriggio d'autunno, fatevi una passeggiata lungo l'elegante molo vittoriano di Teignmouth, superate la vernice scrostata dei tiri al bersaglio in legno, le macchinette cambia monete e la pista dei go-kart dove un tempo sorgeva l'antico Padiglione e dirigetevi verso il vecchio cannocchiale arrugginito, incatenato all’estremità che affaccia sul mare. Inserite una moneta nella fessura e sbirciate a Nordest, lontano dalla foce del Teign e dal porto, seguendo i binari della ferrovia che attraversa il tunnel del Parson fino ai due speroni rocciosi, dalla forma vagamente umana, su cui si infrangono le onde al capo Est di Dawlish. La gente del posto li conosce come Parson e Clerk, e dice che ce li ha messi il diavolo in persona. Narra la leggenda che, qualche secolo fa, un vescovo di Exeter si ritirò a Dawlish nella speranza che l'aria di mare potesse rinvigorire la sua salute malferma, e un pastore del luogo la vide come un opportunità per entrare nelle grazie del vecchio e assicurarsi il vescovato al momento della sua morte. Con il suo chierico a fargli da guida, il pastore percorreva quotidianamente l'insidioso tragitto lungo la brughiera di Haldon per portare le sue suppliche al vescovo, finché una notte, sorpresi da un violento temporale, i due si ritrovarono smarriti, a miglia di distanza dal giusto sentiero. "Meglio il diavolo come guida, piuttosto che te!", sbraitò il pastore, e in quel preciso istante giunse un uomo a cavallo che si offrì di guidarli fuori dalla tempesta. Dopo qualche miglio raggiunsero un palazzo sfarzosamente illuminato dov'era in corso un baccanale, che si scoprì essere la dimora della guida. I due si abbandonarono per diverse ore ai bagordi in compagnia degli stravaganti ospiti, tracannando vino dagli otri, godendo dei piaceri terreni offerti da damigelle truccate e dimenandosi in danze sfrenate e scomposte al suono di musiche bislacche e distorte finché, all'approssimarsi dell'alba, non giunse loro la notizia della morte del vecchio vescovo. Nella smania di cogliere al balzo


l'opportunità della promozione, il pastore si precipitò al suo cavallo insieme al chierico e alla guida, ma gli animali non volevano saperne di muoversi. Per alcuni minuti il pastore, infuriato, fece assaggiare al suo destriero frusta e speroni, riducendo il povero animale in fin di vita e urlando: "Che il diavolo si porti via i bruti!". Al suono di quelle parole la guida si voltò e, con un improvviso bagliore rossastro negli occhi, sibilò: "La ringrazio, signore. Giddap!". E i cavalli partirono con il pastore e il chierico in groppa, spiccando un balzo dalle scogliere di Dawlish dritti in mare. Si dice che le due formazioni rocciose al di là della scogliera siano tutto ciò che è rimasto della coppia, tramutata in pietra da Belzebù a causa della loro avidità e ambizione e lentamente erosa dalle onde inquisitorie. Cavalieri misteriosi. Corruzione religiosa. Possessione demoniaca. Trasformazioni sovrannaturali. E un bizzarro, selvaggio edonismo musicale. È il genere di storia per cui un ragazzino impressionabile di dieci anni, al suo arrivo in questo inquinato ma sonnolento anfratto di costa del Devon, può perdere la testa. Quando, nel 1988, la famiglia Bellamy si trasferì da Cambridge nella ristretta comunità di Dawlish (circa 13mila abitanti) per stare più vicino ai genitori di papà George, è facile immaginare come siano diventati, nel giro di poco tempo, delle leggende locali. Si sparse voce che George Bellamy un tempo era una rockstar. Nel 1961, come cantante country & western, il ventenne chitarrista di Sunderland aveva risposto all'annuncio pubblicato su «Melody Maker» dallo storico impresario Joe Meek (osannato compositore, produttore eccentrico, celebre per il suo genio nel comporre brani di successo, per le tecniche di produzione innovative con suoni distorti e compressi strappati da oggetti di uso domestico e per un'attrazione morbosa verso l'occulto), che finì per assumerlo come chitarrista ritmico nel suo ultimo progetto, il combo strumentale The Tornados. Joe Meek si servì dei Tornados come musicisti di rinforzo per molte delle sue produzioni, facendoli suonare con gente come Billy Fury e Marty Wilde nei suoi studi di Holloway Road. Tuttavia la band pubblicò anche dei singoli originali. Anche se il loro esordio del 1962, LOVE AND FURY / POPEYE TWIST non era riuscito a piazzarsi in classifica e idem per il suo successore, THE BREEZE AND I, George fu lo stesso un portafortuna per la band: nel giro di quattro mesi dal suo provino, la terza fatica dei Tornados Telstar si tramutò in un successo enorme. Con quel motivetto di tastiera sulla falsariga di un Morricone in salsa spaziale (si apriva con il brusio e i bip di un satellite immaginario) scritto da Meek nel luglio del 1962 ispirandosi al satellite che trasmetteva le prime immagini televisive attraverso l'Atlantico, Telstar mantenne il primo posto nelle classifiche inglesi per cinque settimane, rese i Tornados il primo gruppo britannico al primo posto nella US Hot 100 e vendette cinque milioni di copie tutto il mondo nei sei mesi che seguirono. Tempo un mese, e 1962 vide i Tornados salire al rango di illustri sfidanti degli adows per il titolo di prima guitar band strumentale. Telstar scalò inoltre le vette della celebrità pop diventando la canzone preferita di sempre di Margareth Thatcher. E George diventò una pop star a livello mondiale. I suoi giorni nei Tornados furono burrascosi, non ultimo per i bizzarri e spesso violenti metodi lavorativi di Meek. Quando non iniziava George ai misteri della tavoletta ouija, faceva la parte dell'aguzzino schizofrenico; dopo una sessione di prove che non era andata secondo le sue aspettative, i membri della band lasciarono in fretta lo studio e Meek, lanciato in una delle sue proverbiali filippiche, si affacciò dalle scale per tirargli dietro un pesante registratore, con cui mandò al tappeto il bassista. I tour erano altrettanto sconcertanti, tra le date ai campi estivi Butlins e un memorabile show a Manchester con Rolf Harris e i Beatles all'apice della Beatlemania che degenerò in una rivolta di ragazzine urlanti con tanto di irruzione nel locale da parte della polizia. In mezzo al caos generale, George entrò nel camerino della band di Rolf Harris per imbattersi in una scena di totale depravazione, con band e donne in tenuta antisommossa che ci davano dentro. Da questo punto in poi, non esiste purtroppo documentazione su che fine abbia fatto la terza gamba di Jake the Peg3. Ma le volubili luci della ribalta non indugiarono troppo a lungo su George Bellamy. Nel 1963, il bassista Heinz Burt (proprietario del fucile con cui Meek,


depresso e in balia di una montagna di debiti, uccise la sua padrona di casa per poi togliersi la vita, quattro anni dopo) lasciò la band per inseguire la carriera solista. Per i Tornados, impossibilitati a sfruttare il successo statunitense di TELSTAR per via di un obbligo contrattuale che li confinava nel Regno Unito in quanto band d'accompagnamento di Bill Fury, iniziarono due anni di caduta libera dalle chart e vorticosi cambi di formazione, al termine dei quali un disilluso George abbandonò la band per "godersi" una breve parentesi solista, pubblicando un paio di Ep passati praticamente inosservati. La sua società di produzione Sound Venture e la sua etichetta SRT non decollarono, e quella fu la fine del sogno rock'n'roll di George Bellamy (se si escludono la nuova registrazione di Telstar con diversi membri originali dei Tornados nel 1978 e le esibizioni nel circuito dei pub del Devon con una band chiamata Rough Terrain sul finire degli anni Novanta). A indicare che un tempo era stato uno di quelli da classifica c'erano soltanto un mucchio di album classici (dei quali fu per anni appassionato collezionista) da riempirci una casa, pianoforti e chitarre. Ok, magari non sarà stato Bono, ma per una regione i cui unici abitanti famosi erano stati John Keats duecento anni prima, una pornostar di nome Layla-Jade, un uomo chiamato Donald Crowhurst che aveva mentito sul fatto di aver navigato intorno al mondo in solitaria e un pescatore di nome Wesley che era finito in una pubblicità della Norwich Union, lui era una specie di celebrità locale. E mamma Marilyn? La leggenda vuole che fosse una mistica in grado di parlare con i morti. Nata a Belfast, Marilyn Bingham si era trasferita nel Regno Unito negli anni Settanta, e qualche ora dopo che fu scesa dalla nave conobbe George, che al tempo lavorava come tassista a Londra e aveva avuto una figlia da un precedente matrimonio naufragato. Sulle prime, l'unica cosa particolarmente insolita in questa umile ragazzina irlandese dalla rossa chioma era la sua ossessione per la musica dei Queen, ma dopo che la coppia si trasferì a Cambridge per metter su famiglia (prima Paul e poi, il 9 giugno del 1978, il loro secondogenito Matthew), Marilyn cominciò a sviluppare un interesse per l'occulto. A causa di un legame innaturale che percepiva con il piano degli spiriti, una volta messo a letto il piccolo Matt (che aveva cinque anni), le serate in famiglia si trascorrevano intorno a una tavoletta ouija. Marilyn e George (che ora faceva l'idraulico) convogliavano gli spiriti nella tavoletta, mentre Paul trascriveva le lettere man mano che venivano scandite. Per quattro anni Matthew rimase all’oscuro dei passatempi segreti della sua famiglia, tranne del fatto che sua madre era superstiziosa. Uno dei suoi primi ricordi è quella volta in cui si era messo a girare su sé stesso con secchiello e paletta in mano e poi si era lasciato andare, sfasciando uno specchio di casa, e Marilyn l'aveva messo al corrente dei sette anni di maledizione che aveva scagliato sulla sua famiglia4. Poi, a nove anni, piombò senza preavviso durante una delle sedute famigliari con tavoletta ouija. Ne rimase scioccato e affascinato, e i suoi genitori, invece di terrorizzare il loro figlioletto con storie orripilanti e moniti di possessioni spaventose ed evocazioni demoniache, lo fecero sedere e gli spiegarono con calma metodo, teoria e teologia che stavano alla base del loro contatto con gli spiriti dei morti. Soprannominato "Bells", Matthew Bellamy era un ragazzino iperattivo, addirittura problematico: aveva una curiosità vivace, faceva mille domande ed era emotivamente aperto (il suo primo amore, dice lui, è stata la sua babysitter, della quale si era innamorato dopo che lei gli salvò la vita quando stava per soffocare). Alle elementari imparò a ripetere l'alfabeto al contrario senza alcuno sforzo e si ricorda di quando, ancora ragazzino, invitò degli insistenti Testimoni di Geova ad entrare in casa perché voleva "aiutarli" a comprendere le ragioni del loro tentativo di convertire la gente a un sistema di credenze che non ponevano minimamente in discussione. Persino a quattro anni, quando spararono a suo zio (che si diceva fosse un membro dello Special Air Service) a Belfast, fu abbastanza scaltro da non fidarsi di ciò che gli dicevano i media su quella tragedia famigliare. Secondo la stampa era morto in un'imboscata dell’IRA, ma Matt si prese la briga di notare che non avevano arrestato nessuno e il coinvolgimento dell'IRA non fu mai ufficialmente accertato. L'impatto di questa vicenda sul ragazzo crebbe col passare del tempo. A dieci anni faceva ancora domande in merito alla vicenda, senza che nessuno avesse la risposta. Per il resto della sua vita avrebbe diffidato della società e delle sue istituzioni,


interrogandosi sempre sulla validità di ciò che gli dicevano i giornali. La scoperta dello spiritismo in famiglia, poi, fu un nuovo polo d'attrazione, un altro piede di porco per scardinare la porta dell'ignoto. E negli anni a venire diventò qualcosa di simile a una pericolosa ossessione. Matt entrò nel circolo prendendo il ruolo di suo fratello come segna-lettere, e per quattro anni, prima che la sua famiglia si sbriciolasse, evocarono gli spiriti tutti insieme, sia a Cambridge che nei nuovi sobborghi costieri del Devon. Quella regione, con i suoi miti a base di diavoli a cavallo e sacerdoti maledetti, era ritenuta una potente cerniera con l'aldilà per gli individui più ricettivi. Dialogarono con vittime diciottenni della Seconda Guerra Mondiale, famigliari defunti e amici, che si soffermavano su dettagli intimi e personali "indicibilmente reali", e nel 1990, durante una di queste sedute, parlarono con uno spirito che predisse la prima guerra del Golfo un anno prima dell'apertura ufficiale delle ostilità. Il messaggio più indimenticabile che Matt si vide scritto sulla tavoletta fu: "Colui che brama il sapere, brama il dolore". Quando si iscrisse al Teignmouth Community College nel 1989, all'età di 11 anni5, Matt intratteneva i suoi compagni di classe con i resoconti delle sue esperienze con la ouija e trascorreva il tempo libero divorando libri sull'occulto e sulle pratiche spiritiche. Comprendendo che sua madre stava per diventare una medium conclamata (mimava le lettere con la bocca mentre il puntatore scivolava verso di esse, finiva le parole ancor prima degli spiriti stessi), nelle prime fasi della sua adolescenza Matt e suo fratello la esortarono a fare il passo successivo, che le avrebbe concesso un pieno contatto con l'aldilà e una comunicazione diretta con gli spiriti senza il bisogno della tavoletta. Notando che i suoi figli stavano sviluppando una fissazione malsana per le sue capacità, e forse impaurita all'idea che gli spiriti avessero già iniziato a parlare tramite lei raccontando le loro storie attraverso le sue labbra, Marilyn Bellamy insistette affinché mettessero immediatamente fine alle sedute. Aveva paura di perdere la sua famiglia per mano di forze caotiche e ingovernabili. Ma non prima di una profezia rivelatrice. Una sera, Marilyn Bellamy disse al suo figlioletto undicenne di sedersi, e dal modo in cui biascicava il ragazzo credette che fosse un pò brilla. Lei gli disse di aver visto il futuro, e il suo era di diventare una rockstar. Celebrità, paura, mistero, follia: quali che fossero le leggende e e dlcerie che accompagnarono i Bellamy al loro arrivo a Dawlish nel 1988, una cosa era certa. Quella famiglia aveva un non so che di magico. * * * Voltate il cannocchiale giù lungo la costa, percorrete la ferrovia fino al litorale, all'imboccatura stessa del molo di Teignmouth, e vi accorgerete di uno spartiacque ancora più ingannevole di quello che separa questa vita dalla prossima. Sul versante Sud dell'estuario del Teign, come una spiegazzatura costiera nelle sinuose falde dell'altopiano di Dartmoor, si trova il porto di Teignmouth. Se ne sta pigramente adagiato tra barche da pesca, yacht ormeggiati e traghetti, che solcano il fiume, carichi di turisti, fino al villaggio di Sheldon, simile a una bomboniera con gli alberghetti sul lungomare e i capanni dalla vernice screpolata. In estate, chioschi sulla spiaggia, venditori di gelati e negozietti di souvenir fanno di Teignmouth una località famosa per londinesi e gente delle Midlands che vogliono concedersi una breve pausa, ma quella facciata da luogo di villeggiatura a buon mercato nasconde un ventre oscuro. Nel Diciassettesimo secolo il porto di Teignmouth era un rifugio per contrabbandieri. E nei primi anni Novanta, a discapito del versante Nord dell'estuario del Teign, la situazione non era affatto cambiata. Al calar del sole, quando la folla dei turisti si riportava a casa il brusio da scampagnata estiva, sul lato Nord della città germogliava uno squallido sottobosco di droga e violenza. Come Torquay ma senza la vita notturna, durante l'inverno Teignmouth diventava una città fantasma in cui pensionati e teenager formavano due schieramenti contrapposti, entrambi terrorizzati dalle bande di spacciatori venticinquenni che bazzicavano intorno alle macchinette del gioco d'azzardo nelle sale giochi o fuori dai nightclub Hot Banana e Monty's per attaccare bottone con i loro clienti quattordicenni. Per non parlare degli avanzi di galera con le auto truccate, impegnati a rafforzare la propria autorità sul loro misero territorio. Le navi trasportavano droga che gli


alcolizzati vendevano alle adolescenti per farsi strada nelle loro mutandine e comprarsi la Ford Capri da schiantare sul lungomare mentre andavano a caccia di rockettari da prendere a calci. Non c'era modo di evitarli. A parte il fatto che ogni ragazzo che marinava la scuola non aveva nessun altro posto dove andare se non il lungomare, l'unico bancomat in città era proprio di fronte alla sala giochi che quelli usavano come base di spaccio. Va da sé che difficilmente un prelievo si svolgeva senza incidenti, come quel ragazzo che si prese una mattonata in faccia per il reato di avere dei piercing o la volta in cui un Dominic Howard (un ragazzino appassionato di guitar music che suonava la batteria e usciva con i capelloni del Teignmouth Community College) fu aggredito di punto in bianco. Una sera, mentre passava a ritirare dei soldi, aveva sentito dietro di sé qualcuno che urlava: "Segaiolo a chi?", e poi delle mani sulle spalle. Dominic imparò in fretta. Nato il 7 dicembre 1977 a Stockport, vicino Manchester, i suoi genitori si trasferirono a Teignmouth quando aveva otto anni, e per quando ne ebbe compiuti undici un gruppo jazz che si esibiva al TCC gli aveva dato l'ispirazione per suonare la batteria. Poi scoprì l'indie rock e fu immediatamente bollato come bersaglio. Prima ancora dei quattordici anni Dom si era reso conto che, per la gioventù di Teignmouth, quella città si riduceva solo a droga e risse. Al sopraggiungere dell'inverno non c'era semplicemente nient'altro da fare. Non c'è da stupirsi che al suo arrivo in città Matt Bellamy evitasse di frequentare il lungomare. In fin dei conti, a casa c'era il fascino della ouija e l'emergere di una nuova ossessione: le asperità della tastiera di un pianoforte. Da bambino Matt aveva dimostrato scarso interesse per il pianoforte, tranne quando pestava maldestramente le note della sigla di Dallas a tre anni. In questo era molto portato; suo fratello lo metteva seduto davanti alla Tv mentre mandavano in onda la sigla di un programma, poi lo portava al piano dove il piccolo Matt scovava le note della canzone, costringendolo ad esclamare con i suoi amici: "È una macchina!". Ma fu solo a dieci anni, quando ormai le lezioni di clarinetto dell'anno prima erano andate a monte perché Matt era un allievo difficile, che suo padre gli fece sentire i blues infestati di Robert Johnson. A quel punto nel ragazzo si accese un'altra lampadina. Forse ad attecchire nella sua mente ossessionata dall'occulto fu la storia soprannaturale di Johnson, che era diventato un virtuoso della chitarra vendendo l'anima a Satana in un crocevia, o forse fu rapito dal fraseggiare furioso del bluesman stesso. Resta il fatto che, come dichiarò in seguito, quella fu la prima volta in cui la musica lo prese sul serio. Andò ugualmente in estasi per il fervore pianistico negli album paterni di Ray Charles, e la musica divenne la seconda passione di Matthew Bellamy. Affascinato dalla sua matematica e dalle emozioni che riusciva a creare, senza neanche prendere una lezione cominciò a tirar fuori melodie dal pianoforte di casa, imparando a orecchio i pezzi di Ray Charles6. Anche se erano tecnicamente complessi e basati sull'improvvisazione, l'idea di riuscire a copiare questi classici del jazz lo intrigava, e trovò forte sostegno nella sua famiglia (il fratello, sentita la sua padronanza di un buon numero di pezzi blues e jazz, gli chiese di riprodurre le melodie di alcuni brani dei Wedding Present e degli Smiths). E così Matt si incamminò lungo un duplice sentiero di influenze musicali, destinate a creare una magica dicotomia nei suoi gusti in fatto di musica. Varcata la soglia dell'adolescenza, l'ingarbugliato pianoforte jazz lo spinse a sviluppare un interesse per la musica classica, un genere ancora più difficile e complesso che la sua mente inquisitoria aspettava solo di sezionare e assimilare. Durante la scuola il brano preferito di Matt divenne la Grande Messe Des Morts di Hector Berlioz, una messa scritta per commemorare i caduti della Rivoluzione Francese da cui trapelavano il dolore, il terrore e le conseguenze del Giorno del Giudizio. Quel pezzo di novanta minuti era così sfiancante e intenso che durante la prima a Parigi nel 1837 diversi coristi svennero e i membri della congregazione scoppiarono in un pianto irrefrenabile. Musicalmente parlando, con i suoi grandiosi movimenti, le emozioni frastornanti e le tematiche ultraterrene, per Matt la Grande Messe Des Morts fu "ground zero"7. Sul fronte indie era ugualmente orientato verso materiale cupo e penetrante. Era un ragazzino che dalla musica rock cercava di spremere rabbia ed emozione, ed era anche troppo giovane e distante dalle maggiori capitali inglesi della scena


clubbing per essere anche lontanamente sfiorato dalla cultura dell'ecstasy e dalle tendenze baggy di gruppi come Happy Mondays o Stone Roses. Così dalle angoscianti melodie chitarristiche di Morrissey e Gedge sul finire degli anni Ottanta, abbracciò (passando per un flirt con i Ned's Atomic Dustbin e il loro noise-pop in chiave fragile delle Midlands) la fiorente scena grunge statunitense e i movimenti rock-rap dei primi anni Novanta, ascoltando dosi massicce di Rage Against The Machine, un pizzico di hip-hop americano, Sonic Youth, Dinosaur Jr e consumando in maniera compulsiva SIAMESE DREAM degli Smashing Pumpkins e NEVERMIND dei Nirvana8. Pieno di chitarre opprimenti, gemiti d'angoscia e linee melodiche irresistibili, profondo e devastante ma al tempo stesso orecchiabile, immediato, vitale e denso di significato, NEVERMIND gli insegnò che la musica può essere una valvola di sfogo per le emozioni più disturbanti e travagliate, una via di fuga, tanto che negli anni a venire riconoscerà ai Nirvana il merito di averlo salvato dalla persona cattiva e violenta che sarebbe potuto diventare. Come album formativo era roba da sballo. Nel frattempo continuavano a eccitarlo le possibilità aperte da quel furore strumentale che aveva provato per la prima volta con Robert Johnson, ma a differenza di molti teenager che si perdevano per strada in mezzo ai superflui orpelli metal di troppi rockettari parrucconi acrobati della chitarra, Matt cercò ispirazione altrove, vittima dell'affascinante vivacità tecnica di Jimi Hendrix così come (dopo alcuni viaggi pre-adolescenziali in Grecia e Spagna) dei selvaggi arpeggi dei chitarristi di flamenco. E non aveva neanche mai preso una chitarra in mano: mimava con cura maniacale i vari stili - rock, flamenco, classica, grunge9 sul pianoforte di famiglia, fino alla sua prima apparizione su un palco all'età di 13 anni con un pezzo di pianoforte boogie-woogie , per la serata delle premiazioni in un concorso di talenti scolastici. Come risultato dell'esibizione Matt si guadagnò la sua prima groupie, baciando una ragazza che era rimasta veramente colpita dal suo modo di suonare. Per la prima volta, il teenager Bellamy si rese conto che la musica era una scorciatoia nel pantano della sessualità adolescenziale. Le ragazze amavano le rockstar. A questo punto i geologi del rock potrebbero far notare che le fondamenta per le future imprese musicali di Matt Bellamy c'erano già tutte: amore per le chitarre lancinanti, fissazione per i sublimi virtuosismi, la tetra sfarzosità del crescendo nella musica classica, la poesia riarsa dal fuoco nei testi di chi è emotivamente dannato. E la smania di esplorare l'ignoto che ci circonda, sia esso musicale, mentale o metafisico. Le componenti base di Matt Bellamy erano pronte e in bella mostra. Gli serviva solo un forte trauma personale per amalgamarle insieme. * * * George e Marilyn Bellamy si separarono nel 1991. La stampa non ha mai addotto spiegazioni di sorta, e nessuno ne ha mai cercate. C'è chi ha l'impressione che, se lo chiedeste a Marilyn, lei vi risponderebbe che era semplicemente scritto. Com'era prevedibile, la separazione fu un evento devastante per la famiglia. George si trasferì a Exeter per proseguire la sua carriera da idraulico mentre Marilyn, Paul e Matt si spostarono a Teignmouth per tirare avanti con le proprie vite nel modo più indolore possibile. Dopo un anno senza il minimo contatto con il padre furono presi degli accordi per permettere ai due figli di andare a trovare George ogni due settimane a Exeter10. La ragazza di Paul prese il ruolo paterno nelle sedute con la tavoletta ouija (che in questo periodo avevano raggiunto il loro apice di disagio e turbamento) e si tirava a campare meglio che si poteva. Matt, ormai tredicenne, credeva (come molti ragazzi alle prese con la separazione dei propri genitori) di essere emotivamente immune alla rottura fra i suoi, di non provare semplicemente nulla, solo vuoto. Arrivò anche a dire di essere più felice senza suo padre, perché poteva invitare gente in casa senza permesso e fare praticamente tutto ciò che gli pareva. Ma per chi gli stava intorno era palese che la duplice aggressione di pubertà e divorzio era stata una bella botta per Matthew Bellamy Da turbolento e iperattivo, Matt divenne all'improvviso tranquillo, introverso e incline a combinare casini. Dentro casa lottava per mantenere un rapporto profondo con Marilyn, per la quale la separazione era stata un durissimo colpo. Litigavano di continuo, e la distanza tra loro due non fece che crescere. La nonna di Matt, che viveva nelle vicinanze, aveva un'influenza pacificatrice e quando la tensione fra le mura domestiche raggiunse livelli insostenibili andarono a vivere tutti e tre da lei in pianta stabile, nonostante le condizioni


mentali della donna fossero leggermente appannate per via dell'età. Inoltre, la vita di Matt si fece repentinamente dura dal punto di vista finanziario. La sua era una famiglia benestante del ceto medio, ma a casa dei suoi nonni i soldi erano contati. Con la sua famiglia disgregata, Matt era in balia dell'ignoto. Fuori di casa il suo cambiamento era ancora più cristallino. Sebbene ritenga il suo periodo scolastico non più traumatico di quello di chiunque altro - lo sport, le ragazze, ecc. - nella sua vita fu una parentesi gelida e tormentata: si rasò a zero, marinò puntualmente la scuola e prese a mischiarsi con i soggetti meno raccomandabili. Cominciò a fare uso di droghe leggere (marijuana e funghetti allucinogeni) e a indossare tute della Umbro. I primi tentativi di mantenersi un lavoro si rivelarono frustranti: a dieci anni, lavorando al soldo dell'alta borghesia durante il tiro al fagiano, Matt racimolava 50 penny per ogni fagiano recuperato, ed era spesso costretto a spezzare il collo a quelli che non erano morti per il fucile. A tredici anni consegnava giornali in bicicletta, fu travolto da un'automobile durante la prima settimana, si riprese e, appena tornato, un cane lo morse a un braccio, motivo per cui gettò la spugna e si diede alla piccola criminalità. Giravano voci di un suo coinvolgimento in risse scatenate dall’alcol (anche se il più delle volte nel ruolo di semplice spettatore), come quella volta in cui con alcuni ragazzi di campagna (la cui sorella usciva con Matt) sparò a un toro nei testicoli con una carabina ad aria compressa (anche se nelle ultime interviste ha sostenuto di aver solo assistito alla scena, senza premere il grilletto). Cominciò a coltivare piante di marijuana nella soffitta di sua madre, e se prima evitava il lungomare adesso lo frequentava con i suoi nuovi e minacciosi compagni di scuola per scatenare risse, bere birra, giocare a calcio (Matt era un abile difensore) e piantare grane. Quando non sgattaiolava dentro il Single Parent's Club di Winterbourne ogni lunedì e martedì, restava a bighellonare fuori dalle sale giochi, a bere sidro e attaccare bottone con ragazze che alla fine uscivano sempre con quelli che guidavano una Capri. Andava nelle sale giochi con i mocassini da quando aveva scoperto che le slot machines ti sganciavano sempre il jackpot di una sterlina e cinquanta se gli mandavi una scarica di elettricità statica attraverso la serratura usando una moneta da 10 penny. Una notte da ricordare fu quella in cui Matt e alcuni suoi amici si introdussero di nascosto in una piscina all'aperto per fare un tuffo dopo l'orario di chiusura e si ritrovarono con il faro accecante di un elicottero della polizia puntato in faccia e delle diffide ufficiali sul groppone. A scuola, quando si presentava, Matt era polemico nei confronti degli insegnanti; ne metteva costantemente in discussione l'autorità, o a repentaglio il controllo, con un ghigno di sfida. E poi era sempre in ritardo. Quando lasciò il TCC, all'età di sedici anni, ricevette un premio come detentore del maggior numero di note per ingresso in ritardo rispetto a qualunque altro allievo. In totale erano 365. Come gli spacciatori da sala giochi che un tempo disprezzava, Matt Bellamy si stava trasformando in uno dei ragazzi difficili di Teignmouth. Per il momento erano solo le classiche bravate giovanili, ma se nessuno se ne fosse occupato, nel giro di qualche anno si sarebbe comprato la sua Ford Capri e sarebbe rimasto avviluppato per sempre nelle strette maglie della delinquenza costiera. Stava diventando, per dirla con i servizi sociali, un buono a nulla da manuale. In realtà Matt Bellamy era semplicemente in cerca di risposte nel fondo della ribellione. Doveva sapere chi era, perché la sua vita era cambiata così drasticamente e quali erano le cause, in questo mondo o nell'altro, alla base di un simile stravolgimento. Cominciò a fare teatro, unendosi a dei corsi scolastici di recitazione improvvisata - forse per incanalare ed espellere attraverso personaggi fittizi la frustrazione e le emozioni con cui trovava impossibile scendere a patti. Le suppliche rivolte a sua madre affinché realizzasse fino in fondo il suo potenziale di medium nascevano forse dalla convinzione che gli spiriti avrebbero potuto fornirgli le ragioni della sua confusione, oppure la saggezza per farsi strada nel futuro. Quando le sedute con la ouija cessarono, Matt provò una profonda disillusione nei confronti dell'occulto. Dentro di lui cominciò a farsi strada l'idea che la tavoletta, più che interpellare i morti, fosse un semplice strumento per mettere chi la utilizzava in contatto con un lato del proprio subconscio, e che a muovere la


lancetta inviando messaggi dagli angoli sepolti della psiche fosse quella parte nascosta con cui si ha troppa paura di comunicare. Tutto ciò schiudeva un regno di domande e possibilità, e l'adolescente Bellamy sviluppò ben presto l'ossessione del comprendere l'universo intorno a sé, le forze consce o inconsce che operano su di noi, le spiegazioni nascoste che sottendono i fenomeni soprannaturali, le superstizioni e un mondo che diamo per scontato. In netto contrasto con la sua precedente fede nel mondo spirituale, Matt chiese aiuto alla scienza per spiegare l'universo. Cominciò a divorare libri che spiegavano il sistema solare, le teorie sull' origine dell'universo, la possibile esistenza di forme di vita aliene e i primi rudimenti della teoria delle stringhe. Assorbiva ogni teoria da pazzoidi e ogni genuina scoperta scientifica, colmandone le lacune e relazionandole le une alle altre con la propria logica inventata. Era un approccio indagatore nei confronti del mondo, una necessità di scavare sotto l'apparente superficie delle cose che l'avrebbe accompagnato per tutta la vita. E poi c'era la musica, l'elemento forse più cruciale di tutti, che divenne una prerogativa innegabile per esprimere i suoi problemi nel modo più efficace possibile. Così, a quattordici anni, Matthew Bellamy prese in mano la chitarra. Imbracciò per prima quella di suo fratello, una riproduzione marca Marlin di una Fender Stratocaster che era troppo grande per lui, quindi prese un seghetto e ne asportò pezzi interi dal corpo e dal collo11. Abbandonò in fretta questo strumento martoriato per una chitarra acustica con le corde in nylon, che accordò in Mi per poi trascorrere le serate a suonare sopra i dischi di Robert Johnson. Ironia della sorte, per il suo debutto in veste di chitarrista si ritrovò a usare il suo strumento per evocare i morti. Matt scoprì che tre sue amiche trafficavano a tempo perso con la stregoneria, e dato che una delle ragazze gli piaceva acconsentì ad essere il loro mago della sei corde. Di notte accompagnava quel terzetto in case stregate, foreste e cimiteri, e le osservava tirar fuori pozioni e libri di magia, suonando degli arpeggi adeguatamente sinistri e spaventosi mentre quelle scagliavano i loro incantesimi ed evocavano i loro demoni. Matt non accenna ad alcun avvistamento macabro o visita spettrale durante queste spedizioni, di sicuro niente di così ultraterreno che non avesse già visto nelle sue esperienze con la ouija, ma se dal punto di vista teologico si trattò di un passo indietro, da quello musicale fu un grande balzo nella giusta direzione. Con un crescente interesse per le opere classiche di Chopin, Rachmaninoff e Berlioz, l'ambizione di Matt era quella di entrare un giorno a far parte di un gruppo jazz o di un'orchestra, obiettivo cui fu d'intralcio la scoperta che non era granché bravo a leggere la musica. Poi, all'età di quindici anni, si imbatté in un video di Jimi Hendrix che bruciava la chitarra a Monterey nel 1967 e decise che era il rock la strada da seguire. SIAMESE DREAM gli aveva dimostrato che il rock pesante può anche essere sinonimo di forme interessanti e arrangiamenti non convenzionali, ma questo era ancora più entusiasmante. Quella chitarra in fiamme disse a Matthew Bellamy che la sua musica avrebbe parlato del caos. E con tempismo perfetto. Ispirata ma allo stesso tempo slegata dalla ribollente scena musicale britannica (per via della posizione isolata sulla costa Sud), con opportunità di carriera talmente stratosferiche che si riducevano perlopiù a "proprietario di un negozio" e con abbastanza droghe leggere in circolazione da rimbambire un gruppo funk, fu naturale che Teignmouth sviluppasse una propria scena musicale allo scoccare degli anni Novanta. Va riconosciuto che si trattava in gran parte di gruppi funk semi-professionisti e formazioni prog in stile Pink Floyd, ma vi fu comunque un'esplosione di band a livello locale. I gruppi proliferavano, si scrivevano pezzi originali, c'era un'eccitazione crescente, la sensazione che a Teignmouth stesse per succedere qualcosa di speciale. Un giovane profeta sottolineò che era come se una musa fosse discesa sulla città. * * * La verità sulla formazione dei Rocket Baby Dolls è un enigma avvolto dal mistero racchiuso in un rompicapo e sepolto sotto un imponente cumulo di band fallite di Teignmouth. Stando al mito che nessun interessato può smentire o confermare, in principio c'era la band del Teignmouth College, chiamata The Magic Roundabout. Combriccola dal passato fumoso; siamo ragionevolmente sicuri che Dominic vi suonasse la batteria, ma non sappiamo se abbiano mai suonato dal vivo o se fossero addirittura una "band" vera e propria. L'unica cosa di cui siamo certi è che


Matt Bellamy era diventato sempre più abile con la chitarra da quando si era fatto crescere le unghie, prendeva lezioni di flamenco in cui superava i limiti di velocità stabiliti dall'insegnante e padroneggiava tecniche complesse ma saltava le lezioni più semplici, cosa che gli lasciò in eredità una tecnica impressionante ma delle forti lacune nei rudimenti basilari. Era anche in grado di imparare le canzoni ad orecchio, e nei primi anni dell'adolescenza saltò da un gruppo all'altro nel sempre maggior numero di band, spesso come tastierista, ma senza mai fermarsi in pianta stabile. Sembrava che la musica gli stesse risparmiando un futuro da tossico scoppiato. Invece di ubriacarsi in riva al mare andava a fare le prove a casa dei suoi amici. Si diede al promoting di basso profilo affittando spazi nel comprensorio industriale di Broadmeadow al prezzo di tre o quattro sterline all'ora, dove allestiva concerti per il gruppo con cui suonava quella settimana e per le altre band della zona. Queste serate, cui partecipava ogni musicista del posto degno di chiamarsi tale, divennero l'epicentro della scena musicale di Teignmouth. Una delle band che suonò insieme a quella di Matt si chiamava Carnage Mayhem, a quel tempo la più famosa ed affermata tra le band del TCC. Presero anche in affitto il centro ricreativo per organizzarvi delle serate in cui i ragazzi più fighi di Teignmouth fumavano canne e alimentavano la scena. I Carnage Mayhem diedero a Matt la spinta per migliorare con la chitarra, nella speranza che qualcuno, un giorno, gli avesse chiesto di unirsi a una buona band. E guarda caso, dietro le pelli, c'era Dominic Howard. Matthew Bellamy e Dominic Howard si conobbero al Den, un fazzoletto d'erba nel centro di Teignmouth dove le varie tribù urbane si radunavano per lanciarsi a vicenda occhiate diffidenti. Matt usciva con gli sportivi, Dom con quelli fighi, ma a Matt la sua cricca andava stretta. Fu così che un giorno, nella sua tuta da ginnastica in acetato, andò incontro a Dom, si presentò e gli chiese di insegnargli a suonare la chitarra. Invece di fulmini e saette è molto più probabile che stesse venendo dal cielo giù una pioggerellina sottile, ma di rado si è visto un incontro rock più fatidico di quello. Pur avendo in comune la stessa scuola elementare e gli stessi amici, Matt e Dom non si conoscevano. Ma adesso, alla soglia dei quindici anni, si erano scambiati le presentazioni, e sulle prime avevano l'aria di essere agli antipodi. Dom era il jazz rocker coi capelli lunghi e dei genitori per i quali la batteria era solo un passatempo che non lo avrebbe portato da nessuna parte. All'età di cinque anni il suo interesse per la musica non andava oltre l'armeggiare in modo disordinato con la tastiera di sua sorella e il percuotere ogni oggetto che gli capitava sottomano. Tra i suoi primi ricordi c'è la cattura di un pesce, cui aveva sbattuto la testa a terra finché non gli era schizzato fuori un occhio, aneddoto del quale non si vergogna minimamente. Matt era il teppistello in tuta con i capelli a spazzola, pronto a mostrare i denti che di nascosto era anche un pianista dieio. Ma entrambi venivano da fuori città (la famiglia di Dominic si era trasferita da Stockport nel Devon, dov'era cresciuta sua madre, nel 1985) e avevano in comune la passione per la musica dura e melodica. Quando Dominic, che impartiva a Matt lezioni di coolness, gli rimediò un provino con i Carnage Mayhem nel 1992, l'intesa fu istantanea. Suonando insieme riconobbero una reciproca vena creativa e sperimentale, e Dom convinse i Carnage Mayhem ad assumere Matt come chitarrista. Quando Matt disse a suo padre che era entrato in una band, durante una delle sue visite bimensili a Exeter, George Bellamy gli diede una perla di saggezza forgiata dalla sua preziosa esperienza. "Goditela finché sei giovane", gli disse, "e vedi di scopare". In questa fase Matt apprese da suo padre più che altro i consigli sull'industria della musica. Essendo ancora giovane non arrivò a "comprendere" TELSTAR, ma con l'evolversi della sua carriera musicale iniziò ad apprezzarlo, vedendolo come un album lungimirante e forse come la molla che l'aveva spinto verso stili più atmosferici nel songwriting. Fu proprio quel songwriting, epocale come si sarebbe infine rivelato il suo ingresso nella band, a scrivere la parola "fine" sui Carnage Mayhem. Matt e Dom insistevano per suonare set di mezz'ora a base di sghembi riffpunk in stile Primus e cover di band indie-thrash-pop come i Ned's Atomic Dustbins. Risale a quel periodo, infatti, il primo concerto in assoluto di Matt con Dom al seguito: i Ned's Atomic Dustbins a Exeter. Matt ricorda di essersi abbandonato al moshing per tutta la notte, mentre Dom svenne durante l'esibizione del gruppo spalla Kinky Machine. Un'altra band erano i Senseless Things, anch'essa gettata nel


calderone del genere fraggle insieme ai Mega City Four e ai Levellers per via dell'accozzaglia di chitarre punk e i dreadlock trasandati che ricordavano lo show televisivo inglese di pupazzi chiamato Fraggle Rock. Anche i suoni che producevano, come loro stessi ammettevano beati, non erano troppo piacevoli. Così, poco dopo l'arrivo di Matt, la band fu d'accordo sulla necessità di trovare un nuovo nome che riflettesse tutto ciò. Dato che Carnage Mayhem non era ritenuto abbastanza estremo si passò a Youngblood, anch'esso subito scartato. Verso la fine del 1992 la band optò per un nome che non correva il rischio di emanare troppe vibrazioni solari. Su suggerimento della sorella di Dom, i Carnage Mayhem divennero i Gothic Plague. La prima esibizione ufficiale dei Gothic Plague si tenne il 21 dicembre 1992 al Teignmouth Meadow Centre. "Ingresso: una sterlina", diceva il volantino scritto a mano, e subito dopo: "Fate i bravi!". Suonarono in fondo a un cartellone con gente come Bagpuss Shot Kennedy, Avqvod Zoo e Fixed Penalty, una band che alla batteria aveva un figuro villoso e allampanato di nome Christopher Wolstenholme. I Gothic Plague erano una band fuori dal tempo. Il nome li incasellava fra i gruppi gothic metal anni Settanta. I loro virtuosismi facevano venire in mente un giovane Rachmaninoff. E poi, con il brit pop che guadagnava terreno in tutto il Regno Unito dopo l'uscita dell'eponimo disco d'esordio dei Suede, l’ennui generazionale di MODERN LIFE IS RUBBISH dei Blur e l'ascesa a fuoco lento dei Pulp con il loro hit di successo Babies, rintanata nel suo cantuccio del Devon a fare concerti per gli amici su un ring per la boxe al posto del palco nella palestra del TCC, la band non faceva che cazzeggiare a tempo perso con tutto quello sperimentalismo punk da gruppo jazz hardcore anni Ottanta. Erano estasiati da Nirvana, Sonic Youth e dal fraggle, ma totalmente disinteressati alla frivola rivoluzione alternativa in corso a Londra. Matt sostiene che la band non ha mai ascoltato un solo album brit pop, tanto si sentivano distanti dalla scena london-centrica. Nei successivi diciotto mesi, Matt e Dom persero, o meglio spaventarono con i loro vagheggiamenti punk sperimentali, ogni musicista che si azzardasse a suonare con loro. Un gran numero di bassisti e chitarristi si diedero il cambio prima di mollare, e Matt e Dom, che ormai avevano compiuto quindici anni, si scoprirono non solo amici per la pelle, ma una formidabile accoppiata chitarra e batteria, la rovina di ogni bassista e cantante che aveva il fegato di raccogliere la loro sfida. Non c'è forse da stupirsi, quindi, se i Gothic Plague non furono i nobili pionieri del firmamento rock di Teignmouth. Agli albori del 1994, i diverbi all'interno della band si erano fatti talmente accesi che gli ultimi bassisti e cantanti di Teignmouth disposti ad avere ancora a che fare con Matt e Dom se ne andarono in circostanze dai toni estremamente aspri (vi furono, spiegheranno in seguito, "liti di ogni genere"). I Gothic Plague erano a pezzi, Matt e Dom ormai ridotti a un duo. Senza un bassista, e buoni sette anni prima che i White Stripes rendessero un simile affronto accettabile agli occhi degli Dèi delle Formazioni Rock, la band fu sciolta. Tanto, ormai, chi avrebbe avuto ancora voglia di suonare con loro? Doveva per forza trattarsi di un bassista pronto a sopportare qualunque dose di soprusi musicali, uno che non fosse interessato a copiare le autorevoli tendenze sonore e gli stili di quell'epoca, uno che non provasse imbarazzo a stare in una band dal nome vagamente ridicolo. Ma dove trovare un simile uomo? Ad ogni modo Matt e Dom perseverarono, sfruttando il tempo libero per suonare e registrare i loro primi abbozzi di materiale originale nella sala prove della scuola con un riluttante Matt dietro il microfono. Qualche settimana dopo giunse loro voce che il batterista della band rivale della scuola, e cioè i Fixed Penalty, gli stessi che provavano nella sala accanto (una band che si autodefiniva «post-rock», anche se erano ragazzini con la fissa dello skate che facevano più che altro cover dei Mega City Four e Wonder-stuff un bel pezzo dopo lo scioglimento delle suddette band) era stato sbattuto fuori perché aveva ammesso che gli piacevano gli Status Quo. E aveva intenzione di imparare a suonare il basso. Era l'uomo perfetto per la parte. Al pari di Matt e Dom, Christopher Wolsthenholme (soprannominato "Cheers" dalla madre e dalla sorella quand'era giovane, ma lui non aveva idea del perché) non era affatto originario di Teignmouth, ed entrò immediatamente a far parte della banda dei forestieri. Era nato il 2 dicembre 1978 a Rotherham, nel South Yorkshire, e si era trasferito a Teignmouth con i suoi genitori all'età di undici anni. Come molti ragazzi del posto, in quei giorni straripanti di band,


Chris intraprese il suo viaggio nella musica in veste di chitarrista dopo che gli avevano chiesto se voleva provare durante l'ora di musica a scuola. Rimase fedele alla sei corde finché non si rese conto che poteva scagliare una bacchetta nella sala mensa del TCC e colpire una dozzina di aspiranti Johnny Marr prima che quella toccasse terra. Imparò quindi a suonare la batteria, occupando per alcuni mesi, e a disagio, il seggiolino per i Fixed Penalty, fino a quando i suoi riprovevoli gusti musicali e il suo amore per i giubbotti di jeans non furono smascherati12. Quando Matt e Dom lo avvicinarono per chiedergli di mettere in piedi una band, fu con quello che descrive come "un grande spirito di sacrificio" che acconsentì a imparare a suonare il basso. La prima volta in cui prese in mano quello strumento fu due giorni prima che lui, Matt e Dom decidessero di formare una band. La proposta del terzetto era ancora molto grezza: se per dei ragazzini di quindici anni come Matt e Dom quei diciotto mesi nei Gothic Plague sembravano aver rafforzato in modo notevole la loro complicità a livello strumentale, Chris, che frequentava un anno indietro rispetto ai due, con il basso era ancora un novellino. Le prime prove si svolsero nelle aule di musica del TCC, di cui gli avevano concesso piena disponibilità perché, secondo loro, la signorina Bird (l'insegnante di musica) aveva preso a benvolere Chris e Dom ma detestava Matt. Fu inevitabilmente un debutto da imbranati, ma dopo essere andati avanti per mesi fra mille stenti con i Gothic Plague mentre tutti gli altri intorno a loro perdevano la fede e mollavano, quel nuovo gruppo gli sembrò una ventata d'aria fresca. E pur non avvertendo alcun legame di parentela musicale con la scena brit pop ne furono certamente influenzati sul piano creativo. Decisero che era giunto il momento di lasciar perdere le cover dei Senseless Things e di iniziare a scrivere pezzi propri. Nelle settimane a venire, Matt, Dom e Chris si dedicarono ad affinare i loro disordinati esperimenti punk in più digeribili (ma pur sempre feroci) spezzoni a base di rauchi riff rock, familiarizzando intanto come band. Saltò fuori che erano compatibili sia a livello musicale che personale. Chris aveva in comune con Dom il carattere umile e cordiale, e con Matt l'entusiasmo ardente e autentico per le melodie irresistibili. Quando non dormivano erano quasi sempre insieme, a tramare la conquista del mondo fra una lezione e l'altra in vista degli esami che avrebbero sancito la fine della scuola dell'obbligo, o a fare le prove ogni sera, con la vena compositiva di Matt che aveva assunto una straziante sfumatura rock. Il primo pezzo scritto insieme fu intitolato Small Minded, un attacco agli atteggiamenti sprezzanti del popolino di Teignmouth sferrato da tre figli senz'anima dell'era dei computer che tentavano di stabilire un contatto umano attraverso la musica. Le tematiche del futuro erano già in fase embrionale, crude e grezze come la loro musica. E tuttavia sembrava ancora uno stadio larvale, come una band in attesa di diventare qualcosa di più grande. Nati alle soglie dell'estate come trio punk, magari sgangherato, notarono che in giro per la città c'erano gli annunci di una Battaglia delle Band che avrebbe avuto luogo a febbraio (ingresso dieci sterline per suonare sei canzoni) e decisero che, come loro prima volta dal vivo, sarebbe stata l'occasione giusta per rilanciarsi come nuova realtà con cui fare i conti sulla scena di Teignmouth. Si resero conto che carenze tecniche e nervosismo si potevano controbilanciare con un oltraggioso sfoggio di attitudine, nonsense e incoscienza. Avrebbero preso la "Battaglia delle Band" di Teignmouth del 1994 per strizzarne fuori fino all'ultima goccia di furia punk rock. Ma prima avevano bisogno di una nuova identità. Gothic Plague suonava troppo medievale, troppo prog metal, troppo norvegese per adattarsi alla loro nuova, snella e cattiva macchina da riff. Serviva un nome più sexy, più glam, più Manic Street Preachers. La sera prima del concorso, Matt si imbatté casualmente in un soft-porno giapponese su Sky con un titolo che catturò la sua attenzione: era un pornoanime chiamato Rocket Baby Dolls, in cui un gruppo di ragazze con superpoteri combatte contro sciami di mostri che invadono Tokyo, ma invece di sparare ai mostri, li "amano" a morte. Fu così che i Gothic Plague furono immolati sull'altare del punk rock. Lunga vita ai Rocket Baby Dolls. * * * Saranno stati in non più di duecento al Broadmeadow Sports Centre per l'edizione 1994 della "Battaglia delle Band" di Teignmouth, ma potete star sicuri che ogni


musicista del Devon giura sulla propria vita che, quando i Rocket Baby Dolls salirono sul palco per la loro prima esibizione dal vivo, lui c'era. Fecero sicuramente la loro memorabile figura. Dopo quella che parve un'interminabile sfilata di gruppi funk semi-professionisti con laceri pantaloni a campana in stile Jamiroquai e progster che scimmiottavano i Pink Floyd in uno svolazzare di lunghe frangette verso il tavolo dei giudici, questi tre mocciosetti punk di appena sedici anni, accompagnati al concerto dal loro amico Tom Kirk, salirono sul palco a testa alta con appariscenti vestiti neri e trucco applicato alla rinfusa, in omaggio al gothic-glam di Marilyn Manson. Imbracciarono chitarra e basso, che erano a malapena accordati, ringhiarono uno sdegnoso "ciao" e dai loro strumenti, dagli amplificatori e in ciò che restava dei timpani del pubblico si scatenò l'inferno. Volavano riff punk come missili terra-aria. Il fracasso e lo schiocco delle pelli era come un rombo costante. Dal palco schizzavano gocce roventi e brillanti di sudore misto a rimmel. La melodia, se c'era, era sepolta sotto diverse tonnellate di frenetiche evoluzioni strumentali, pose spavalde e raffiche di feedback, con i Rocket Baby Dolls che spingevano alle estreme, assordanti conseguenze la loro filosofia dell'attitudine-prima-della-tecnica. Somigliavano ai Cure, suonavano come dei Rush psicopatici e dopo venti allucinanti minuti chiusero con una cover di Tourette's (dall'ultimo album dei Nirvana IN UTERO, e quindi non proprio uno dei loro brani più pacati e melodici), al termine della quale Dominic iniziò a distruggere la batteria, scatenando un'invasione di palco che vide Matt, Chris e altre cinquanta persone impegnate a sfasciare ogni pezzo della strumentazione (che non era neanche la loro: l'avevano affittata apposta per le varie band). Matt fu trascinato fisicamente via di scena mentre ancora suonava. Il resto dei Rocket Baby Dolls e la loro ciurma di vandali, invece, si riversarono giù dal palco fra i pittoreschi insulti delle altre band per dirigersi nel parcheggio e scrivere ROCKET BABY DOLLS con bombolette spray sui furgoni della strumentazione a noleggio. I giudici osservarono sbalorditi la devastazione sul palco, senza altra scelta che dichiarare i Rocket Baby Dolls vincitori indiscussi. Per aver "aizzato la folla". Sbigottiti (in quel concorso avevano scatenato il caos più che altro in segno di protesta e autoaffermazione, non pensavano minimamente che avrebbero vinto) e rinfrancati dal successo, i Rocket Baby Dolls si resero conto che dopotutto era possibile, un futuro nell'industria del rock'n'roll. Un mese dopo fissarono un concerto al Dawlish Sports Centre, dove si esibirono relegati in un angolo all'interno di una discoteca su pattini a rotelle, davanti a un pubblico di amici e compagni di scuola. Ma se per Matt, Chris e Dom la band era una faccenda seria, per tutto il resto del Devon doveva esserlo altrettanto. E il nome Rocket Baby Dolls suonava troppo frivolo, troppo ammiccante per una rock band seria. Volevano qualcosa di più corto e secco, qualcosa che riuscisse a entrare in un poster a lettere cubitali e in grassetto. Volevano qualcosa che desse l'idea di canzoni nuove che ogni giorno sarebbero piovute non si sa come giù dal cielo. Qualcosa che rispecchiasse la sensazione di Matt, convinto di essere stato lui a "evocare" in qualche modo questa band proprio come i medium traggono ispirazione evocando gli spiriti nei momenti di bisogno emotivo. Fu così, a distanza di una sola settimana dal loro battesimo nella “Battaglia delle Band", i Rocket Baby Dolls diventarono i Muse13. Per i Muse c'era ancora parecchio lavoro da fare. Se il concerto inaugurale come Rocket Baby Dolls fu uno sciamannato trionfo, i due anni che i Muse impiegarono per diventare dei professionisti seri furono, al contrario, una mazzata scoraggiante. Matt e Dom videro la fine delle scuole dell'obbligo nel 1994 con degli attestati di scuola media inferiore sbalorditivi: avevano entrambi una "A" nei corsi di Arte e Recitazione. Lo stupefacente voto di Matt in recitazione non si riferiva tanto all'albero di Natale che aveva interpretato in una recita all'asilo, quanto al suo ritratto di un bluesman del Sud in una rappresentazione scolastica, dove aveva recitato un monologo commovente accompagnandolo con un pezzo di Robert Jonhson. Sebbene a Chris mancasse ancora un anno non potevano più servirsi del ring della scuola come palco per i concerti, e furono dunque sbattuti fuori dall'accogliente scena delle band del TTC, dritti nel giro dei concerti del Devon che vantava all'inarca nessun locale utile (e di sicuro nessuno che ingaggiasse band al di


sotto dei diciotto anni). A partire da quel momento, e per gli anni a venire, furono costretti ad elemosinare le date ovunque ne avessero l'occasione. Spesso significava suonare nei pub e nei circoli degli operai a metà pomeriggio, con quel frenetico frastuono punk che scaturiva da un lato del bancone mentre gli anziani giocavano a domino davanti a una pinta e i loro nipotini scorrazzavano per il locale, colpendo i pedali della band nei momenti più inaspettati: insomma, uno sketch vivente e frignante di Alan Partridge condito di rutti. Dato che non facevano più cover, e i loro pezzi non erano quel che si dice rock commerciale per tutta la famiglia, spesso gli dicevano di staccare tutto e di non farsi più rivedere. Negli anni precedenti il contratto, il Working Mens' Club di St Austell's in Cornovaglia diventerà un punto di ritrovo fisso per i Muse, ma la scena del Devon non sembrava troppo bendisposta nei confronti di ambizione, passione o vitalità. Dovevano rivolgersi a un mondo fuori dal circuito del funk che tirava nei pub della costa Sud, e per un'impresa simile c'era da sputare sangue. Nell'estate dopo l'abbandono della scuola, i Muse suonarono un'unica data al Totnes Pavilion, prima che Matt, Dom e il loro compagno di scuola Tom Kirk (che diventerà l'onnipresente documentarista della band) si iscrivessero al Coombeshead College di Newton Abbot a settembre. L'influenza più grande sulla futura produzione dei Muse che si può dedurre dalla loro istruzione regolare fu l'effetto che il corso di Studi sui Media ebbe su Matt. La spiegazione dei processi e dei pregiudizi che regolano i media fece scattare l'associazione con la sua teoria di vecchia data per cui non puoi fidarti di tutto ciò che ti dicono i giornali, e ribadì nella sua mente che al pubblico vengono date in pasto informazioni unilaterali, come in un credo religioso. Varcata la soglia dell'età adulta, Matt comincerà a credere che il modo migliore per cambiare il mondo sarebbe insegnare ad ogni bambino i meccanismi dei media, costringendolo a mettere in discussione le "verità" che gli vengono imposte. Il tempo trascorso a Coombeshead fu produttivo anche in senso musicale. Il college si fregiava del suo studio di registrazione, e Matt frequentò il corso di Tecnologia Musicale che offrì ai Muse l'occasione di esibirsi in concerto sotto la supervisione professionale dell'insegnante Mike Prouse. Immersi nelle varie opportunità del college, per i Muse si aprirà un periodo che in seguito descriveranno come assai buio e introverso, in cui faranno musica solo per loro stessi senza curarsi dell'opinione altrui. Tuttavia, in quanto miglior band del college (ben lungi da quella manica di avventurieri dalla vicina Ashburton che rispondevano allo stomachevole nome di Dripping Womb), i Muse raccolsero un forte seguito fra la popolazione studentesca, diventando ospiti fissi del locale indie Cavern Club, ex-pub riconvertito che ospitava concerti di musica pesante, dove non era raro vedere Matt, Dom e Chris all'angolo del mixer sorseggiare con aria tesa una pinta da maggiorenni al riparo dei loro capelli lunghi fino al mento. Fu proprio lì che, in quell'ottobre, si ritagliarono la loro prima serata in un autentico locale con l'aiuto di uno sgangherato demo. Ronnie Kerswell, che organizzava gli eventi al Cavern, rimase colpito dalla loro prima performance e, dopo una data di riscaldamento nel pub Jolly Tailor di Teignmouth a novembre, incoraggiò i ragazzi ad affrontare un'altra Battaglia delle Band che si tenne al Cavern nel 1995. I Muse erano i grandi favoriti. Ad ogni eliminatoria, i giudici assegnarono alla band il secondo posto per essere sicuri che i tre arrivassero fino in fondo senza vincere i premi intermedi, poiché il primo premio, cioè una chitarra nuova di zecca con un set di corde, era praticamente assicurato. Di ritorno a casa dalle semifinali con il posto in finale garantito, Dom riuscì curiosamente a rompersi una mano tirando un pugno al sellino della bici di Tom. Con il batterista fuori combattimento per i successivi tre mesi si decretò l'ironico trionfo di Kerswell, che vinse la finale con una formazione a due all'insegna del DAT e della farsa chiamata Kindergarten Sluts. Con un pizzico di vergogna per aver vinto quasi di default, Kerswell diede comunque ai Muse il primo premio. Prima dell'incidente ciclistico di Dom, tuttavia, i Muse avevano già compiuto la loro prima incursione musicale fuori dal Devon. Una volta deciso che, se l'industria musicale non fosse andata dai Muse, loro avrebbero portato la montagna dei Muse dal metaforico Maometto, nel febbraio 1995 affittarono il Bull & Gate di Kentish Town, un pub di North London famoso per aver ospitato i debutti londinesi della stragrande maggioranza delle band che contano


quand'erano ancora senza contratto. Dopo aver pagato dozzine di amici e parenti per farsi duecento miglia insieme a loro, la band si esibì davanti a un pubblico in delirio fra cui c'erano i suddetti conoscenti e assolutamente nessun altro. Giurarono che non avrebbero mai più suonato a Londra, ma se questa data non aiutò i Muse a ottenere un contratto discografico di sicuro giovò alla loro autostima, facendoli sentire meno band locale di Teignmouth e più autentica formazione in tour. Dopo qualche mese fuori dal giro dei concerti in attesa che la mano di Dom guarisse, nel maggio 1995 i Muse incisero un demo di quattro pezzi a casa di Chris, in cui figuravano i primi pezzi da tempo in disarmo Backdoor, Sling, Feedejigsaw Memory. Questi acerbi brani pop-punk andarono a formare il demo THIS IS A MUSE, una cassetta sulla cui copertina già compariva l'attuale logo della band e dove le canzoni erano accreditate come "copyright Goebell Music"14, forse un indizio del fatto che George Bellamy aveva dato una mano durante le registrazioni. La cassetta, distribuita ai contatti di zona dal loro primo manager Phil Korthals (fan della band di Teignmouth da poco ventenne, che si era dato da fare per far pubblicare le loro recensioni sulla stampa locale ma dal quale la band prenderà ben presto le distanze, troncando con lui ogni rapporto), procurò alla band diversi concerti a Torquay e Plymouth in locali come il New Railway Inn (dove i Muse diventeranno ospiti fissi), il Piazza e l'Ark Royale, e li aiutò ad acciuffare la loro prima data internazionale al Charleston Bar di Cherbourg, in Francia, quel giugno stesso. Pur implicando una trasferta nel continente (ridotta a poco più di un balzo oltremanica), si trattò fondamentalmente di un altro demoralizzante concerto da pub davanti a bevitori disinteressati che, se mai prestavano attenzione, chiedevano loro di suonare le cover dei Queen o gli urlavano di abbassare il volume degli amplificatori. Il locale si scoprì essere un pub nella zona portuale, popolato quella sera da circa una ventina fra marinai gay e skinhead, e con una nota losca di sottofondo: l'organizzatore stava usando la band come copertura per un carico di sigarette da contrabbandare nel Regno Unito. I ragazzi lo vennero a sapere solo a fine concerto, quando radunarono i loro strumenti e si diressero al furgone solo per accorgersi che tutto lo spazio disponibile era occupato da 20mila sigarette, casse di birra e vino. Il viaggio di ritorno in traghetto fu particolarmente angusto. In quell'estate magnificamente calda del 1995, quando non erano impegnati a intrufolarsi nelle navi cisterna in arrivo nel porto di Teignmouth per spiccare un salto in mare dal pontile, i giovani Muse diventarono degli appassionati frequentatori di festival. Con alle spalle una prima sortita al Festival di Reading nell'agosto del 1994, dove Matt rimase specialmente colpito da Jeff Buckley (il primo artista che lo fece sentire a proprio agio con l'idea di cantare in falsetto), il giugno del 1995 li vide diretti, senza biglietto, a Pilton, per la loro prima esperienza al Glastonbury. Dom ricorda l'arrancare dalla stazione fino al luogo del concerto e le ore passate a girare in cerchio lungo il perimetro della recinzione, fino a quando non incrociarono un tizio con un trapano portatile e un po' di legna che si stava costruendo una scala. Si unirono alla folla che osservava il più intraprendente dei falegnami di Glastonbury in azione, seguirono l'uomo dall'altra parte della recinzione e festeggiarono l'ingresso a sbafo nel più deleterio dei modi possibili. In un'altra edizione alquanto più fangosa, Matt riuscì non si sa come a perdere le scarpe nel pogo dei Weezer15 e trascorse il resto del weekend rischiando il "piede da trincea" per guadare il fango che arrivava alle caviglie. Qualcuno aveva ribaltato le toilette chimiche il cui contenuto era defluito copioso nell'area dormitorio, non lasciando loro altra scelta che portarsi delle buste di plastica dentro la tenda per usarle come gabinetti usa e getta. Stranamente quell'esperienza non li scoraggiò dal partecipare ai festival, e quello di Reading del 1996 fu specialmente significativo per i Muse. Mentre guardavano i Rage Against The Machine sul palco principale, Dom si voltò verso Matt e gli disse: "Quando suoneremo da headliner su quel palco, avremo la conferma che ce l'abbiamo fatta". Negli undici anni a venire, con l'accumularsi dei successi e l'ingrandirsi dei locali, a Matt e Dom è capitato ogni tanto di chiedersi se ormai non ce l'avessero fatta. E la risposta era sempre: "Solo quando saremo gli headliner del Reading"16. Sembrava un sogno impossibile, allora. Ma si sarebbe rivelata una profezia assai


tangibile. * * * Nell'arco del 1996, il percorso per diventare dei musicisti migliori si dimostrò arduo. Spinto dal suo interesse per la classica e deciso a diventare un virtuoso tout court di pianoforte e chitarra, Matt passava più tempo a suonare lunghi brani musicali improvvisati che non a cantare insieme al resto della band. I concerti che prenotavano nei pub della zona (locali raccomandabili come il Beer Engine di Crediton e il Pirate di Falmouth, città costiera meta dei surfisti) per suonare davanti ai loro amici servivano anche a tastare il polso alla nuova e corposa vena rock che la band iniziava a plasmare. Sonorità granitiche e intense, che davano un taglio netto e rinfrescante alle frivolezze del brit pop e all'incedere lagnoso di molte band post-Oasis dell'epoca, abbinate a un crescente gusto per la melodia che riportava alla memoria i momenti migliori dei primi Radiohead. Pezzi come Cave e Overdue furono tra i primi ad evolversi dal proprio riottoso (ma informe) putiferio. Overdue era una melodia ruvida e spaccata, che da un sinistro cantato con arpeggio cresceva nel ritornello in uno stridente e selvaggio falsetto, con bordate di chitarra fitte e lancinanti non troppo lontane dai migliori episodi di THE BENDS dei Radiohead o da quel gioiellino dimenticato pre-BENDS che è Pop Is Dead. Cave, dal canto suo, era la spia ideale della direzione musicale dei Muse. Anche nella sua forma grezza del 1996, aveva un riffche comprimeva funk, pop e thrash, trasudando visioni epiche e sfarzose, specie quando la voce di Matt si alzava in un gorgheggio alla Thom Yorke nel verso "Come in my cave" ("Vieni nella mia caverna"), per culminare in un tremulo operistico che un giorno diventerà il suo marchio di fabbrica. Questi nuovi pezzi erano abbastanza forti perché gli organizzatori del Cavern offrissero ai Muse il posto di headliner nella data di Exeter durante il Big Top Trip tour, durante il quale il solare terzetto brit pop dei Dodgy si portò a spasso per il paese un tendone da circo in cui allestire i propri show. Il palco per le band senza contratto fu affidato agli organizzatori locali, che ad ogni show lo riempivano con i migliori gruppi presenti in zona, e i Muse erano ormai abbastanza famosi da chiudere la serata. Per loro sarebbe stato il primo festival da headliner. E cioè il ruolo in cui si sentivano più a loro agio. Se questi due brani lasciavano intravedere la promessa che ribolliva nella giovane band, quella manciata di mesi di libertà che si prese nell'estate del 1996 per un viaggio in Europa espose Matt ad un'ulteriore influenza. Nelle isole dell'Egeo e nel cuore della Spagna Matt spalancò gli occhi e lo spirito, si innamorò delle bellezze del posto e si sentì consumare dalla passione di quelle musiche tradizionali. Tornò a casa con la testa piena della laika greca, con le sue furtive melodie, e delle cupe atmosfere tedesche, una combinazione già sul punto di sfuggirgli dalle dita sotto forma dell'incipit da incantatore di serpenti e dal sapore mediterraneo di Muscle Museum. Concepita nelle isole greche, parlava della lotta interiore fra corpo e anima, ciascuno che vieta all'altro ciò che più brama. È ironico come i Muse, pur sentendosi assai distanti da ogni altra scena o movimento musicale alternativo, stessero di fatto portando alla luce per i musicisti di oggi un analogo filone musicale del quale non si sarebbero resi conto se non dopo alcuni anni. A Chester, similmente ispirati dall'eleganza rock di THE BENDS nonché band con uno spiccato senso della sperimentazione, i Mansun iniziavano a sfornare i loro primi Ep, mentre allo University College di Londra un gruppo di quattro studenti con il desiderio di fare Grande Musica all'insegna della melodia (senza, è il caso di ammetterlo, il vulcanico stridore delle chitarre dei Muse) cominciava a provare sotto il nome senza pretese di Coldplay. Soltanto dopo diversi anni queste band formarono la prima, credibile ondata di guitar music britannica post-brit pop. Per i Muse, intanto, le insidie da evitare non erano ancora finite. Come ad esempio il disgregarsi del loro zoccolo di fan. Con l'approssimarsi della fine dei due anni di studio al Coombeshead College, il seguito che si erano costruiti presso la popolazione studentesca sparì dal giorno alla notte quando tutti i loro fan lasciarono il Devon per andare all'università. Invece di seguire le orme dei loro amici o di trovarsi un lavoro a tempo pieno, ne trovarono uno part-time per poter andare avanti con la band. Chris fu assunto in un negozio di chitarre a 90 sterline la settimana, oltre a lavorare in un furgoncino dei gelati e come caddie in un campo da golf. Dom


lavorò saltuariamente in cantieri, mense scolastiche, come addetto al guardaroba per le cerimonie di laurea e rimediò un impiego in fabbrica dove imballava t-shirts delle Spice Girls. A Matt toccò la pagliuzza più corta: tirava a campare lavorando per una ditta che ripuliva roulotte e bagni chimici in un campeggio di zona e anche in una società che si occupava di pittura, decorazione e demolizioni, per la quale una volta demolì un intero centro commerciale. Di giorno sgobbavano. Di notte rockeggiavano. Giunse novembre, e la band si sentì abbastanza sicura da far ritorno a Coombeshead e servirsi dello studio per registrare il loro primo demo semiprofessionale, una raccolta delle undici tracce suonate dal vivo in quel periodo e oggi noto come il "demo di Newton Abbot"17. In mezzo a questi pezzi c'erano rozze versioni auto-registrate di Sober, che finirà in SHOWBIZ, e la Bside Twin, poi comicamente ribattezzata Balloonatic. L'unica copia del demo di cui si ha notizia era su cassetta, con una compilation di varie band opera del precedente proprietario su un lato e la tracklist originale scarabocchiata via sul lato sovraregistrato. Tali pezzi includono Breathe dei Prodigy e Tonight degli Smashing Pumpkins. Nessuno sa quante copie ne furono prodotte, a chi furono consegnate o a quali eventuali transazioni diedero vita, ma, filtrando tramite il passaparola nella scena hardcore del Devon nel luglio 1997, Balloonatic fu la prima canzone dei Muse ad essere ufficialmente pubblicata quando apparve nell'album della Lockjaw HELPING YOU BACK TO WORK VOLUME 1, una compilation di demo prodotta da un'etichetta fondata dal gruppo punk inglese inbute To Nothing. Se sia stata concessa o meno un'autorizzazione ufficiale per affiancarla a pezzi di gruppi dai nomi accattivanti come Choke Tv, Leech Woman e Hydra resta in dubbio, ma in seguito Matt sosterrà di non essere mai stato a conoscenza del fatto che Balloonatic fosse stata pubblicata sotto quel nome. E così, ignaro dei piccoli passi che i Muse stavano muovendo verso il successo, con l'incombenza di igienizzare toilette e la crescente tensione di combattere contro l'indifferente circuito dei concerti da pub, Matt scivolò di nuovo nelle sue vecchie abitudini da teppista. A diciotto anni, dopo due anni passati a trascinarsi da Exeter fino a casa di sua nonna a Teignmouth per il college, Matt si trasferì definitivamente a Exeter per vivere con un amico di nome Jake, che faceva l'imbianchino e il decoratore. La vita di Exeter diede a Matt più occasioni per vedere musica dal vivo, e lui ne approfittò per immergersi nell'elettronica dimenando starlight fluorescenti ai concerti di gente come Orb, Orbital e Aphex Twin. Ma quella musica non gli parlava, semplicemente. In coppia con Jake aprì la sua impresa di decorazioni, che all'inizio si rivelò un successo, e dato che il papà di Jake possedeva un sacco di immobili a basso costo permise loro di andare a vivere in affitto in un appartamento ad uso ufficio. Servendosi delle loro scarse capacità di decoratori, passarono tutto il tempo libero a trasformare quell'appartamento da squallido tugurio in una gradevole seppur pittoresca dimora. Situato sopra una libreria porno sulla Quarta Strada in un'area degradata della città, a Matt faceva venire in mente quello di Trainspotting. polvere, specchietti, aghi e carta stagnola sparsi ovunque, visitatori ad ogni ora del giorno e della notte, tossici che usavano l'appartamento per farsi una pera o bande di ragazzini che tiravano di coca fino all'alba. Ben presto fu evidente che l'amico di Matt non si guadagnava da vivere solo come decoratore: era uno spacciatore di droga con mire espansionistiche. Matt Bellamy rimase disgustato da quell'esperienza; lui era figlio dell'hashish e dei funghetti, e gli abissi di disperazione di quelli che venivano a casa sua per rimediare cocaina ed eroina lo dissuasero del tutto dalle droghe pesanti. Nonostante le notti brave trascorse insieme (come quella, memorabile, in cui furono sbattuti fuori dal club Timepiece di Exeter per il pogo violento durante Song 2 dei Blur), l'impresa di decorazioni annaspava per colpa dell'attività di spacciatore di Jake, che alla fine gli spalancò le porte del carcere. Matt rimase anche coinvolto in un piccolo giro di furti d'auto, per conto del quale rubava catorci e li rivendeva a basso costo. Dopo aver tirato su un po' di sterline, tuttavia, abbandonò di corsa questa carriera dopo aver rubato e rivenduto a qualche centinaio di sterline una Ford Escort, parcheggiata nello scalcinato cortile di proprietà di un tipaccio del posto. L'energumeno si presentò a casa sua, dicendo che le avrebbe dato fuoco con tutta la sua famiglia dentro a meno che Matt non gli avesse sganciato oltre cinquecento sterline. Matt


gli cedette il furgone con cui i Muse andavano in tour e giurò solennemente che avrebbe lasciato perdere i furti d'auto. In fin dei conti aveva troppo da perdere. A parte suonare in una delle nuove band più promettenti del Devon, aveva anche intrecciato una storia seria con una ragazza di Teignmouth, con cui si vedeva da quando aveva quindici anni18. Matt aveva stabilità, indipendenza, fiducia in se stesso e, cosa più importante, una vagonità di talento. L'unica cosa che gli mancava era un'occasione. * * * Se volete andare ai Sawmills Studios con l'alta marea dovete aspettare che il battello passi a prendervi. Il borbottio sommesso del motore vi accompagna lungo il corso d'acqua fino alla sponda Ovest del fiume Fowey, in Cornovaglia, sotto canne e rami sporgenti, e una volta calati gli ormeggi solo qualche gradino intagliato nel legno vi separa dal portico d'ingresso di un mulino ad acqua risalente al Diciassettesimo secolo, trasformato in uno degli studi di registrazione tecnologicamente più all'avanguardia e romanticamente più isolati del Regno Unito. È qui che hanno inciso gli Stone Roses, al pari di Supergrass, Oasis, Verve e Robert Plant. E agli occhi di giovani che lottavano per farsi strada come i Muse era la cosa più vicina a un Eldorado locale che potessero immaginare. Il proprietario e fondatore Dennis Smith era un rinomato impresario musicale della costa Sud, che oltre a gestire i Sawmills faceva da manager alle band che più lo colpivano, come la famosa volta in cui aveva strappato un contratto di produzione a dei Supergrass ancora in erba. Nel 1995, quando Matt Bellamy lo contattò per ottenere qualche dritta su quanto costa il tempo in studio, Dennis si scervellò per qualche giorno prima di ricordarsi dove aveva già sentito il nome di quel ragazzino: Matt Bellamy, il giovane pianista prodigio del Teignmouth Community College di cui gli aveva parlato il suo meccanico, reduce da quella stupefacente esibizione di boogie-woogie nel concorso scolastico del 1991. E ora aveva una rock band con tutti i crismi? Smith non potè fare a meno di verificare di persona. Dopo averli visti per la prima volta dal vivo al Berkeley Centre di Camborne nell'ottobre del 1995,19 Smith rimase colpito dalla vibrante performance dei Muse e dalla ruvidezza del materiale sbattuto in faccia al pubblico in quel periodo di formazione, ma ritenne le canzoni ancora bisognose di una sgrossatura. Affine alla band nel comune amore verso i Primus, nel 1996 Smith diventò una presenza fissa ai loro concerti nei pub e nei circoli operai, oltre che il loro primo contatto importante nell'ambiente nonché prezioso consigliere. Scavalcando l'allora manager Phil (alquanto inesperto nel gestire i contatti del settore), Smith si tenne in stretto contatto con Matt e le sue tutrici - sua madre e sua nonna - e in cambio, ogni due settimane, riceveva un messaggio da parte di Matt, lieto di stringere l'unica mano esperta protesa dalle tenebre verso i Muse. Per diciotto mesi durante i quali seguì progressi e miglioramenti della band a dozzine di concerti, Smith li esortò a lasciar perdere, per il momento, il sogno di esibirsi in America o addirittura a Londra e concentrarsi sul far parlare di sé a livello locale, promettendogli che avrebbero lavorato insieme quando l'avesse colpito la sensazione di trovarsi di fronte allo "show magico" che testimoniava la loro crescita. Il suo era un consiglio astuto. Nel giugno 1997, quando i Muse si avventurarono per la seconda volta nel Big Smoke londinese per il loro primo, vero concerto al Bull & Gate, suonarono per un solo cliente pagante, e anche il primo showcase con la Parlophone organizzato da Phil all'inizio di quello stesso anno si risolse in un nulla di fatto. Fu diciannove mesi dopo averli visti per la prima volta sul palco del Cavern a Exeter, nel 1997, che Smith ebbe la certezza di aver scoperto una delle più grandi e giovani rock band inglesi del decennio. E fu dunque disposto a lasciarsi coinvolgere. Smith offrì ai Muse lo stesso contratto offerto ai Supergrass qualche anno prima: avrebbe concesso loro l'utilizzo dello studio quando non era occupato da altre band per registrare qualche demo, a condizione che gli avessero rimborsato il tempo in studio se quel materiale fosse valso loro la firma di un contratto. E così, per cinque giorni nell'autunno del 1997, i Muse presero il battello diretti ai Sawmills Studios per assemblare il loro primo demo professionale con


l'ingegnere del suono Paul Reeve dietro il mixer. Dato che in quel periodo John Cornfield, produttore senior dei Sawmills, era impegnato con i Supergrass, Smith diede a Reeve (ingegnere del suono con dei trascorsi in gruppi locali come The Change e Blueskins) la sua prima chance per cimentarsi nel ruolo di produttore con dei Muse alle prime armi, perché, stando a quanto si dice, riteneva che Matt e Reeve avessero analoghi stili canori. Le dieci tracce registrate includono le versioni live di Overdue e Cave, entrambe diverse da quelle riregistrate per il disco d'esordio. La Overdue in versione demo dura quasi due minuti in più, con un lento bridge (mentre la controparte sull'album finiva) che apre un'ulteriore ritornello, mentre Cave (che prima di essere incisa era intitolata Nova Scotio) ha un profilo ben più grezzo rispetto alla versione finale. Ci infilarono anche Coma, un vecchio brano insolitamente poppeggiante (forse rivelatore della naiveté musicale delle origini) ed Escape, pezzo drasticamente dissimile dalla versione che apparirà poi sul loro primo disco. Entusiasta di quel materiale, Smith aveva ormai deciso: quelle canzoni dovevano vedere la luce del giorno, e lui aveva gli agganci giusti per far sì che ciò accadesse. Nel 1996, insieme a un discografico ex-membro della divisione Artisti e Repertorio di nome Safta Jaffery aveva già fondato la società di produzione e pubblicazione Taste Media, tramite la quale avrebbero potuto fare da manager (non ufficiali) ai Muse. In quanto ex-dirigente di case discografiche come Dick James Music/Decca Records e Magnet Records, Safta aveva tutti i contatti giusti e un'esperienza di lunga data sui dettagli e i retroscena di talent scouting, licenze territoriali e produzioni discografiche. Nella Taste Media, Safta era quello che si occupava degli affari, un duro negoziatore con conoscenze eccellenti sia nell'industria musicale del Regno Unito che in quella internazionale. Inoltre, tramite la sua società di management SJP, collaborava in veste di manager con molti produttori d'eccezione, fra cui Ron Saint-Germaine (Tool, Bad Brains), John Cornfield (Supergrass), Michael Brauer (Coldplay, Jeff Buckley) e John Leckie, che aveva lavorato con Stone Roses e Radiohead. Infine, e di vitale importanza, Safta era un fan sfegatato della band, e non c'era ombra di dubbio che avrebbe potuto trasformarla in qualcosa di enorme. Anche Dennis possedeva la propria etichetta indie Dangerous, per la quale si offrì di pubblicare le suddette quattro tracce. Fu così che, dopo qualche mese di rifiniture e spasmodica attesa, il MUSE EP, prima fatica della band, fu pubblicato il 1 maggio 1998 con una tiratura di sole 999 copie numerate a mano e l'artwork, opera di Dom, raffigurante tre sezioni fotocopiate della sua faccia che formavano il collage piuttosto traballante di un volto20. Se l'energia e la verve del MUSE EP bastavano a convincere l'ascoltatore casuale, col senno di poi il suono era quello di una band alla goffa scoperta dello studio di registrazione e delle sue tecniche, l'ombra di ciò che i Muse erano a un passo dal diventare, e sarebbe dunque onesto considerarlo un'avvisaglia della musica superiore alla quale la band stava lavorando già nel periodo del primo Ep. Sul versante dei testi, poi, non riesce a catturare la spumeggiante intelligenza e il piglio inquisitorio che Matt Bellamy stava incubando. Overdue, a quanto pare, è la crudele storia di una relazione andata in pezzi per la lussuria vagabonda di gioventù, con l'aggiunta di un bridge in cui Matt canta "you should've been there when I was aroused" ("non avresti dovuto trovarti lì quand'ero eccitato"), mentre Escape somiglia allo sproloquio di uno schizofrenico incapace di controllare la sua psiche violenta, o a un velato riferimento al divorzio dei suoi genitori ("Why cant' you just love her / Why be such a monster / You bully from a distance" - "Perché non puoi amarla e basta / Perché devi essere un simile mostro / Fai il prepotente a distanza"). Il soggetto di Cave era il risultato delle letture di Matt; il tema della caverna, infatti, era tratto dalle pagine del celebre tomo sulla guerra dei sessi Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere, per il quale gli uomini sarebbero soliti, nei periodi di stress, nascondersi in metaforiche caverne. Tutto ciò era comunque teologia da quattro soldi, se si tiene conto del fatto che Matt, all'età di 16 anni, leggeva libri sulla futura evoluzione del genere umano con teorie in stile Matrix secondo le quali, un giorno, saremo tutti connessi ad una specie di scenario paradisiaco creato su misura per le nostre personalità individuali. Qualche anno dopo Matt troverà il coraggio di sviscerare queste stravaganti idee sotto forma di canzoni. Le vendite iniziali furono lente e l'Ep strisciò fuori dai negozi sulla scia del


graduale passaparola di adrenaliniche eruzioni rock che giungevano dalla costa Sud. Ma con la band prenotata per un concerto mozzafiato alla conferenza musicale dell'In The City di Manchester, Dennis Smith aveva i suoi assi nella manica. Gli stessi che, nel giro di un anno, avrebbero visto i Muse sbattuti da un capo all'altro del globo in un vortice di lusinghe e libretti degli assegni. Il 1998 sarebbe stato l'anno della Grande Caccia alla Chimera dei Muse. DOMINIC HOWARD (Su licenza della IPC Media) Qual è il tuo primo ricordo? Non ricordo granché di quando stavo a Manchester, solo qualche frammento, come quando andavo al catechismo domenicale insieme a mia sorella per non so quale strano motivo. Il trasloco nel Devon, è da lì che iniziano i miei ricordi, anche se il primo in assoluto risale a quando avevo un anno. È buffo perché sembra una bugia, però è vero. Mi trovavo in Spagna, sulla spiaggia, quando il mio canottino gonfiabile è scoppiato con me seduto dentro. Ho un ricordo vivido di me che stavo seduto lì dentro mentre quello si sgonfiava. È successo sulla spiaggia, non in acqua. I tuoi genitori non erano troppo amanti della musica, vero? Non più di tanto, l'ascoltavano in giro per casa, ma non hanno mai suonato uno strumento né avuto mai la passione per la musica. Io ci sono stato dentro da sempre, ho pure trovato una foto di quando avevo tre o quattro anni dov'ero conciato come Adam & The Ants, tutto punkeggiante e con una chitarra che suonavo da mancino, tenendola sottosopra. Mi ha fatto una bella impressione! La musica mi è sempre piaciuta, sin dall'infanzia, se non altro mi era passato per la testa che avrei potuto prendere una chitarra e provare a strimpellarla. Quel pensiero ovviamente non mi ha più mollato per i successivi dieci anni. Il fatto di possedere quella chitarra... l'avrò suonata qualche volta, ma probabilmente pensavo a chitarra e batteria al tempo stesso, e alla fine ho lasciato perdere la chitarra. Ho cominciato a fare sul serio a tredici anni, quando ho iniziato a suonare la batteria dopo aver visto una specie di gruppo jazz esibirsi a scuola. Il batterista, le cose che suonava sul palco e la sensazione di quella musica mi hanno letteralmente spazzato via. Credo che mi abbiano lasciato il segno. GLEN ROWE (Tour manager dei Muse 2000-2003) Hai sentito di quando Dom si è rotto un braccio da bambino? In pratica, stando a quanto dice Emma [sorella di Dom], si trovavano tutti al parco per una cosa in famiglia e giocavano a palla, e Dom si è rotto un braccio soltanto per lanciare una pallina da tennis! Cosa puoi dirmi dell'infanzia di Chris? L'infanzia di Chris è stata piuttosto blindata. Avendo una sorella più piccola è cresciuto nel ruolo di fratello maggiore per lei e in quello di figura coniugale per sua madre. Chris è ancora arrabbiato per la morte di suo padre, perché credo che gli abbia voluto bene e non è mai riuscito a trascorrere dei momenti speciali insieme a lui. Piuttosto blindata, dicevo. A guardarla da fuori sarà sembrata un'infanzia modello da Devonshire, ma sono sicuro che c'era qualcosa di tormentato, anche se lui e sua madre sono molto legati. COLIN STIDWORTHY (Compagno di scuola al Teignmouth Community College) Frequentavo lo stesso anno di Matt e Dom, ma non ho mai avuto niente a che fare con Chris perché lui era dell'anno prima. Con il fatto che frequentavamo lo stesso corso di musica forse Matt era quello che conoscevo più di tutti. Era un ragazzo piuttosto intelligente, aveva una risposta per tutto. Se non ricordo male veniva sempre ai ferri corti con la signora Lancaster, una nostra insegnante. ISIon so perché, ma non sono mai andati d'accordo. Anche se a pensarci bene, forse era perché non faceva altro che chiacchierare o tenere il tempo, battendo di continuo con le mani sulle ginocchia. Matt non è mai stato un grande sportivo. Durante le partite giocava sempre in difesa e speravi che non toccasse mai palla. Se gli mettevi in mano uno strumento musicale era un fenomeno, se doveva tirare un calcio a un pallone era uno zero. Tornava in vita durante l'ora di musica, sembrava in grado di suonare ogni strumento, anche se ricordo che era davvero bravo al pianoforte. Non ho idea se prendesse lezioni al


di fuori della scuola, ma era davvero bravo, il migliore della classe, aveva semplicemente il dono di prendere uno strumento e suonarlo con naturalezza. Ci davano da imparare dei motivetti facili, ma noi passavamo gran parte del tempo ad ascoltare Matt che suonava. La signora Bird, l'insegnante di musica, sembrava essersene accorta, e credo che abbia avuto un gran peso nell'aiutare Matt e la band. Tranne che per le lezioni, l'aula di musica era di solito chiusa, ma spesso la signora Bird la apriva per permettere alla band di esercitarsi durante la pausa pranzo e dopo la scuola. Quando provavano ai tempi della scuola non avrei mai immaginato che sarebbero arrivati dove sono ora. Erano solo dei ragazzi accomunati dalla musica. C'erano altre band nel nostro anno, ma Matt, Dom e Chris avevano quella dose in più di determinazione e talento naturale che nessun altro aveva. SAFTA JAFFERY (Taste media) Quand'è stata la prima volta che ti sei imbattuto nei Muse? Me li ha fatti conoscere Dennis. Io e lui eravamo amici di vecchia data, e dato che lui aveva lo studio, io avevo i produttori e Dennis non aveva gli agganci ai piani alti né l'esperienza negli affari che avevo io perché era da un pezzo che frequentavo quel giro, nel '96 abbiamo messo in piedi la Taste Media, e già allora conoscevo i Muse perché me ne aveva parlato Dennis. La Taste Media era lanciata e operativa; avevamo un paio di altri artisti sotto contratto, ma non ne venne fuori niente e i Muse furono il nostro terzo ingaggio. Mentre Dennis lavorava all'Ep dietro le quinte c'ero io, sono stato io a suggerire che sarebbe stata una buona idea farlo tramite la Dangerous. Eravamo veramente coinvolti. La Taste Media è ovviamente diventata famosa come l'etichetta dei Muse, ma in seguito abbiamo messo sotto contratto anche Shed Seven e One Minute Silence. Abbiamo fatto uscire l'ultimo album degli Shed Seven dopo che li ha scaricati la Polydor, e anche altre band chiamate Serafin e Vega 4 (che negli Stati Uniti hanno firmato, rispettivamente, per Elektra e Capitol Records), tutte con i loro contratti territoriali da major, come nel caso dei Muse. Com'erano i rapporti fra te e la band? Ho legato bene con loro, specie con Matt, perché rispettavano la mia esperienza e quindi seguivano i miei consigli, anche se dovevo sempre fare la parte di quello che dice "no", non so se mi spiego. Ero io quello che diceva "no" alla band, e sapevo che questa cosa mi si sarebbe in seguito ritorta contro. Ma in quei primi giorni qualcuno doveva pur farlo, per far quadrare i conti. Dennis è una persona adorabile, del tipo gigante buono, quindi qualcuno doveva fare il cattivo, e allora ci siamo messi d'accordo sin dal principio che sarei stato io a fare la parte del cattivo. Ero io che gestivo i contratti, e quando la band voleva volare in business class e non potevamo permettercelo, ero io il tizio che diceva: "No, non si può". Erano una band facile da gestire! Certe volte Matt era un po' difficile, per il resto erano ok. Erano una band intelligente, sempre pronti alla mossa successiva, e questa era la cosa positiva. A volte ti capita la band cui devi dire cosa fare, mentre il bello dei Muse era il loro carattere cooperativo, quel voler essere costantemente un passo avanti. Mi piaceva, perché con altre band con cui avevo lavorato non era successo. Eri sempre tu che dovevi indicare loro la strada, e secondo me dovrebbe essere il contrario. I Muse, invece, erano una band in cui Matt voleva il meglio. Faceva sempre mille domande, magari a volte rendeva la vita difficile, ma alla fine è per questo che abbiamo ottenuto degli ottimi risultati. L'idea del palco è stata sua, tutta sua, e non ho intenzione di prendermi neanche un briciolo di merito. È uno spirito parecchio irrequieto, una di quelle persone con cui stavo al telefono per ore. Ti chiamava per i motivi più disparati e dovevi spiegargli il perché di ogni cazzo di decisione. Ad essere sinceri era abbastanza sfiancante. A casa avevo due bambini piccoli che in cinque anni ho visto sì e no. Mia moglie mi diceva: "Sei sposato con quella band, non sei sposato con me". Passavo ore intere al telefono e c'erano anche due valigie, con cui ero pronto a partire al minimo segnale per andare a sbrigare tutte le questioni necessarie in giro per il mondo. PAUL REEVE (Produttore)


Quando hai sentito parlare per la prima volta dei Muse? Lavoravo ai Sawmills. Conosco Dennis da quand'ero ragazzo, facevo il cantante e ci conosciamo da allora. Avevo uno studio a Londra, lavoravo con le band e anch'io ne avevo una. Appena tornato in Cornovaglia sono andato a vedere se c'era modo di entrare ai Sawmills. Sbrigavo un po' di quello e di quell'altro, lavoravo con le band del posto, tre o quattro progetti, e quella era probabilmente la prima volta che mi affidavano un album da produrre dall'inizio alla fine. I Muse saranno stati il terzo progetto in cui sono rimasto coinvolto. Dennis non ti ha affiancato ai Muse perché credeva che avessi una voce simile a quella di Matt? Sì, credo proprio che avesse percepito delle analogie nella nostra musica. Quando l'ho fatto sentire a mia madre credeva che fossi io! Magari, mamma, magari! Come vi siete incontrati la prima volta? Li ho conosciuti quand'erano ancora adolescenti, e credo che, a parte Chris, fossero disoccupati. Cazzeggiavano in giro, roba così, non saprei. Erano teenager all'incirca come gli altri. Ovvio, Matt è sempre stato un tipo piuttosto particolare, ma gli altri due erano ragazzi normalissimi. Mi sono sembrati piacevoli e interessanti, e col tempo non ho cambiato idea. Il MUSE EP è stata la nostra prima collaborazione, seguita a ruota dal MUSCLE MUSEUM EP, che ritengo tutt'ora un lavoro splendido e che è stato l'inizio di SHOWBIZ. Gran parte di quel materiale è finita su SHOWBIZ, e poi ci abbiamo lavorato su fino a trasformarlo in un album vero e proprio insieme al grande John Leckie. Com'erano in studio? Non erano mai stati in tour prima d'allora, e nel loro modo di suonare c'era ancora qualche pecca a livello tecnico. Erano entusiasmanti. Stavo tornando a casa in macchina dopo aver registrato Unintended, e sarà stato un sacco di tempo fa perché c'era ancora la cassetta. Stava sorgendo il sole, e ricordo d'aver pensato: "Se alla gente non piace questa roba, allora non so il fatto mio". Mi è sempre sembrato un pezzo davvero trascinante, persino ora, è genio allo stato puro. È incoraggiante vedere che, quando ti imbatti in qualcosa che spicca in mezzo alla folla, quel qualcosa ha le carte in regola per farcela. Un'esperienza strepitosa. Eravamo anche piuttosto sperimentali, abbiamo provato svariate soluzioni, musicalmente parlando eravamo abbastanza vicini. In certi punti ho prestato la mia voce e ho cercato di indirizzare Matt verso strumenti ai quali non era necessariamente interessato. C'è stato di sicuro un forte legame nei due anni passati in studio. Li trovavo rilassati perché tra noi c'era affinità, anche se non sono mancati i momenti forti. Come li hai visti crescere? Durante i primi giorni c'era parecchio lavoro da fare. Ho notato quel genere di progressi tipici delle band che non hanno mai registrato niente in vita loro quando le metti in un posto come ì Sawmills. Incidi qualcosa con un ingegnere del suono e un produttore autentici, in uno studio autentico, poi lo porti a casa e pensi: "Merda!". È una cosa che ti spalanca gli occhi. È proprio per questo che ho visto dei veri progressi, anche se non c'è niente come andare in tour. Di ritorno dal loro primo vero tour erano una band diversa, specie nella sezione ritmica. Non c'era proprio confronto. Capitolo due Nel 1998, il rock raffreddò i bollenti spiriti. Con la corsa al trono iperpubblicizzata tra Blur e Oasis che nel 1995 aveva coperto con il suo falso frastuono la creatività in caduta libera di entrambe le band (anche se per gli Oasis il declino arriverà due anni dopo, con lo sbanca-classifiche imbottito di cocaina BE HERE NOW), l'indie si sentì tradito e il brit pop crollò. I nervi della nazione ne avevano fin sopra i capelli dei cinguettìi di Sleeper, Echobelly e Space. Persino album acclamati dalla critica e meritevoli dello status di "classici post-brit pop" come C'MON KIDS dei Boo Radleys, DRAWN TO THE DEEP END dei Gene, COMING UP dei Suede o THIS IS HARDCORE dei Pulp l'anno seguente, non eguagliarono le previsioni di vendita e i fasti in classifica dell'apoteosi guitarpop di metà anni Novanta. Tutte queste band scivolarono verso l'inevitabile risoluzione del proprio contratto. Come toccasana, le scuderie delle etichette e le chart si riempirono di gruppi dad rock spalleggiati dagli Oasis, come Hurricane Noi, Stereophonics, The Seahorses e Kula Shaker, band con i capelli e i pantaloni da musicisti alternativi ma la cui


musica era l'alternativa a niente. Anche i Travis, che nel 1998 erano un grandioso, urlante gruppo rock con le palle, aggiusteranno il tiro per diventare gli esponenti di spicco del rock per adulti più melenso con THE MAN WHO, del 1999. L'industria della musica che si riunì a Manchester per la conferenza dell'In The City21 era prudente ma indecisa. La musica inglese stava diventando stantia e le prime ondate rivoluzionarie del download in Rete cominciavano a farsi sentire. Tutti quei talent scout, manager, responsabili d'etichetta, giornalisti e Pr sapevano che il Regno Unito aveva bisogno di un nuovo, esaltante corso rock, ma non avevano idea di che forma avesse. I ragazzi sembravano immersi nelle stravaganze semi-prog rock dei chesteriani Mansun e nelle ambigue perversioni a tinte fosche dei Placebo, ma per loro non esisteva una scena ben definibile. La stampa musicale, dal canto suo, parteggiava per squallide e irrilevanti formazioni dedite al casino come Campag Velocet, Tiger e The Lo-Fidelity Allstars, che avranno chiaramente venduto qualcosa come quindici dischi in tutto. In termini di musica alternativa, l'unico album ad aver riscosso un'accoglienza e un successo clamorosi a livello internazionale uno o due anni prima era stato OK COMPUTER dei Radiohead, opera sconnessa e dall'anima algida, affascinante nel suo venire ai ferri corti con vent'anni di musica rock e pulsante di insofferenza pre-millennio e alienazione tecnologica. L'equivalente musicale del nerd asociale e sgraziato che a scuola ascolta rock anni Ottanta ma poi scopre i computer e a diciassette anni intasca il suo primo milione nel boom di Internet. Idealmente, i discografici si sarebbero presentati all'ITC del 1998 per accorgersi che tutte e cinquecento le band presenti facevano dischi simili a quello, anche se ovviamente la tecnologia usata in studio per OK COMPUTER era decisamente fuori dalla portata del gruppo medio proveniente da Lincoln, con un garage e un registratore a quattro tracce. C'erano più probabilità di scoprire che ogni band era composta da furetti che suonavano pezzi skiffle su degli xilofoni. No, l'industria musicale che quell'anno faceva la fila per l'accreditamento della conferenza al Midland Hotel di Manchester era la gallina senza testa più fiduciosa che si fosse mai vista. Volevano una Novità che li accecasse, ma non avevano la minima idea su che aspetto potesse avere. La Novità giunse all'hotel Crown Plaza di Manchester quella mattina di metà settembre, inconsapevole e incurante delle condizioni in cui versava l'industria musicale del Regno Unito. Fedeli ai consigli di Safta e Dennis, i Muse avevano trascorso la primavera e l'estate del 1998 con i piedi ben piantati nel loro universo del Devon, suonando nei bar degli alberghi malfamati e nelle mense universitarie di Torquay, Ashburton, Exeter e Plymouth, e deviando dalla loro decisione solo per costruirsi uno zoccolo di fan a livello locale (spingendosi a suonare fino a Cambridge, a febbraio, vecchia meta abituale di Matt), e per esibirsi ad aprile in uno showcase davanti a una manciata di etichette interessate al Water Rats di Londra, nessuna delle quali si dimostrò particolarmente interessata al termine dello show. Il momento culminante di quell'anno, a parte l'uscita (largamente inosservata agli occhi della stampa) del MUSE EP, era stato il Soundwaves Festival di Plymouth, in agosto, dove si erano ritagliati uno spazio su un palco di fronte al mare. Erano dei Muse nervosi, alle prese con l'anteprima di un nuovo brano intitolato Hate This And I’ll Love You, e Matt era così irritato dal guasto tecnico del suo nuovo pedale (il Pro Co Rat) che passò cinque minuti buoni a prenderlo a calci sul palco. A dispetto del suo basso profilo, Safta aveva presentato il MUSE EP al comitato di selezione dell'In The City nella speranza che la band si facesse notare come partecipante al concorso "In The City: Live and Unsigned". A parte l'iTC stesso, principale vetrina del Regno Unito che offriva alle nuove band l'opportunità di farsi Vedere da tutti i pezzi grossi dell'industria radunati in un posto solo (è da qui che la maggior parte delle più famose rock band ha mosso i primi passi: Oasis, Idlewild, Catatonia e Stereophonics, ci sono passate tutte negli anni addietro), il concorso per band senza contratto si era coperto di gloria agli occhi dei talent scout quando una delle sue prime finali aveva visto i Kula Shaker contrapposti ai Placebo, gruppi destinati entrambi a un notevole successo commerciale. Gran parte dell'In The City si riduce all'inutile affaccendarsi di un formicaio popolato da talent-scout, agenti, manager e scribacchini musicali che scorrazzano a caso fra quei cinquanta locali in tutta Manchester teatro dei concerti promozionali, ciascuno secondo la sua agenda e tutti quanti a caccia


del minimo stralcio di clamore pubblicitario, che magari hanno sentito per caso durante il dibattito pubblico del giorno oppure la sera prima, dalla toilette accanto (stranamente sovraffollata) nel bar dell'hotel Midland. La finale "In The City: Live Unsigned", invece, era una tappa obbligatoria per tutti quelli che lavoravano nel giro. Avevano concesso ai Muse il ruolo di headliner per il 13 settembre in un locale chiamato Collier, una ex-chiesa riconvertita che, con il suo divieto di fumo e alcol, non avrebbe attratto un gran numero di discografici erranti. Quell'anno, se alle esibizioni di gruppi come Coldplay e Doves il pubblico arrivava fino al soffitto, i Muse attirarono comunque una rispettabile e incuriosita folla di addetti ai lavori sulla scia di un battage pubblicitario praticamente pari a zero, suonando una scaletta compatta nonostante la pressione dell'evento li abbia lasciati inevitabilmente insoddisfatti della performance. Quella sera l'industria della musica guardò i Muse e si sentì decisamente... indecisa. Spaccavano, come no. Sì, c'era una certa attualità nella loro proposta "Jeff Buckley incontra i Radiohead" (anche se erano più i Radiohead del periodo THE BENDS che quelli di OK COMPUTER, e questo era troppo 1994), ma in un'epoca in cui soltanto una band da futuro Disco di Platino avrebbe fatto al caso suo, loro tre sembravano troppo frastagliati, troppo tortuosi, troppo anticonvenzionali, troppo rischiosi. E i Muse guardarono l'industria della musica sentendosi fuori posto, persino un po' disgustati. Quella sera, nel bar del Crown Plaza, i Muse osservarono il porcile del music business all'apice della sua virulenza, tossicodipendenza e cialtroneria, e decisero che c'erano giochi a cui non volevano stare. Quando Nick Moore della Work Hard Pr, che quella sera era presente al concerto, li avvicinò offrendo loro i suoi servizi di press agent gratis a patto che si fossero ricordati di lui se avessero sfondato, la band accettò con gratitudine. Quando un rappresentante dell'etichetta discografica Zomba si dichiarò interessato a farli suonare per i suoi capi americani la trovarono un'offerta intrigante ed eccitante. Ma quando sentirono che erano stati selezionati come una delle tre migliori band della conferenza e che li avevano scelti per suonare alla finale di "In The City: Live Unsigned", allora decisero di non presentarsi. Come dichiareranno in seguito, non volevano "strafare, suonare per un pubblico di colletti bianchi"22. "E poi la storia del live aveva un po' troppo l'aria di un gioco al massacro". Ad aggiudicarsi la gara, quell'anno, fu il misero gruppo rivelazione indie Younger Younger 28s. I Muse lasciarono l'In The City così come l'avevano trovato: grande, vagamente spaventoso e privo di etichette intenzionate a scritturarli. Qua e là, però, vi furono barlumi di interesse; quanto ne bastava per spingere la band di nuovo a Londra, in ottobre, per altri concerti nei pub Monarch e Falcon di Camden. Indietreggiando dalla sfrontataggine e dallo sfarzo dell'industria, seppur con la rinnovata fiducia di essere davvero tra le migliori band emergenti del Regno Unito, i Muse tornarono ai lavori ingrati nel circuito del Devon, prossima fermata il Cooperage di Plymouth, forti di una prospettiva inedita su come registrare e distribuire la loro musica grazie all'esperienza dell'In The City. Volevano avere a che fare il meno possibile con la schiacciante routine delle grandi major, alle quali cercavano disperatamente di agganciarsi un mucchio di band viste all'ITC. E così, grazie alle idee e all'intuitiva pianificazione di Safta, Matt, Dom, Chris e la Taste Media decisero di prodursi i dischi da soli per poi concedere alle case discografiche l'autorizzazione a promuovere e distribuire la loro musica. Avevano accesso a produttori di spicco e a uno studio di registrazione a costo zero: cosa poteva mai fermarli? E meglio di tutti, non avrebbero avuto contatti con talent scout che cercavano di indirizzarli verso il trend del giorno, o con i boss delle etichette che gli dicevano il genere di canzoni da scrivere per smuovere più quattrini possibili. I Muse non erano degli arrendevoli burattini. Sarebbero stati i capi di loro stessi, si sarebbero scritti le regole da soli. E se ormai, in Gran Bretagna, la corsa per fargli firmare un contratto andava a passo di lumaca, l'America stava giusto per aprire le danze. * * * Il CMJ è come l'In The City sotto crack. I concerti promozionali del College Music Journal, l'annuale convegno sulla musica che si tiene a New York ad ottobre, contano il triplo dei locali, il quintuplo delle band e per cinque giorni all'anno occupano tutto il centro di Manhattan e intere zone di


Williamsburgh e Brooklyn. Le strade si riempiono delle migliaia di partecipanti sbronzi di margarita che schiamazzano e spintonano per aggiudicarsi l'ingresso ai concerti più bollenti con le guest-list più dolorosamente lunghe, e in tutta la città ci si contende i taxi per acciuffare le band dalla risonanza pubblicitaria più forte. In mezzo al caos dilagante del CMJ, ogni uomo ed ogni band sono lasciati a loro stessi. A differenza di quella britannica, l'industria musicale statunitense radunata nel Lower East Side nell'ottobre 1998 sapeva esattamente cosa stava cercando. Cercava rock per adolescenti dai quindici ai diciassette anni. Negli States il nu metal stava facendo sfracelli grazie a gente come Korn, Limp Bizkit e Slipknot, che vendevano svariati milioni di album a ragazzini disincantati e in piena tempesta ormonale. La gioventù americana era nella morsa di una rivoluzione rock "dalla vita in su", e all'industria musicale ne serviva solo una variante più matura e complessa, per far sì che i giovani fan del nu metal non smettessero di comprare dischi rock passata la pubertà. Per diverse etichette americane, dunque, il MUSE EP fu il suono della salvezza. Una martellante esplosione rock con strizzatine d'occhio alle tendenze progmetal dei System Of A Down e chitarre come un faccia a faccia tra Radiohead e Nirvana? Era rock cerebrale fatto con la testa e in forma smagliante. Quell'autunno, durante un viaggio d'affari, Safta fece sentire l'Ep a diversi membri del giro americano. Il 31 ottobre fu ritagliato in fretta e furia uno spazio per i Muse all'interno del CMJ. Si sarebbero esibiti al Mercury Lounge, sulla Houston, celebre ritrovo alt. rock del Lower East Side, insieme ai colleghi rocker statunitensi Feeder. Al loro arrivo, i Muse assaggiarono la prima fetta di torta delle major quando la Zomba li corteggiò con quella che era forse la loro prima cena gratis. Purtroppo per la Zomba, comunque, nel CMJ del 1998 si era sparsa in fretta la voce del potenziale dei Muse, ormai ufficialmente classificati come "band da tenere d'occhio", e il privée fintamente elegante del Mercury Lounge era stipato di pezzi grossi in attesa del loro show, fra cui spiccava una talent-scout di nome Nanci Walker della Columbia Records, anche lei entusiasta dell'Ep. Fu un set tempestoso, seppur costellato di difetti tecnici, e basato quasi interamente sui demo incisi con Reeve ai Sawmills l'anno prima. I virtuosismi chitarristici e le brucianti urla di Matt fecero voltare teste e staccare assegni, garantendo alla band due appigli di prim'ordine per il futuro successo. Il primo giunse dal produttore John Leckie, anch'egli presente quella sera tra la folla al Mercury Lounge. Qualcosa di simile ad una leggenda nel campo dei produttori, sul finire degli anni Novanta Leckie lavorava assai di rado con gruppi rock, dimostrandosi incredibilmente selettivo nei suoi progetti e seguendo una carriera il cui lustro ha ben pochi rivali. Dopo gli esordi come ingegnere del suono e addetto ai nastri ad Abbey Road nel 1970, quando la morsa dei Beatles sullo studio si allentò al loro sciogliente; John lavorò agli album di tutti i Beatles solisti (compresi ALL THINGS MUST PASS di George Harrison e PLASTIC ONO BAND di John Lennon), al leggendario THE DARK SIDE OF THE MOON dei Pink Floyd e con i Mott The Hoople. Nel 1977 intraprese la carriera da produttore freelance, diventando uno dei nomi di punta del periodo post-punk grazie alle collaborazioni con Adverts, The Fall, Magazine, Simple Minds, Human League e XTC che, nel corso degli anni Ottanta, culminarono con THE STONE ROSES, largamente acclamato come uno dei migliori dischi d'esordio mai incisi nel Regno Unito nonché detonatore della generazione Madchester negli anni Novanta. Quando inanellò un altro lavoro come il classico dello shoegaze A STORM IN HEAVEN dei Verve (senza il "The", come si chiamavano al tempo) fu chiaro che Leckie era un uomo al passo con le sonorità del suo tempo, e durante gli anni Novanta piovvero premi: uno da parte di «Music Week» come Miglior Produttore nel 1995, un premio «Q» come Miglior Produttore nel 1996 e un Brit Award per K dei Kula Shaker nel 1997. L'aver prodotto anche THE BENDS dei Radiohead, tuttavia, si dimostrerà al tempo stesso una benedizione e una maledizione per i Muse, negli anni a venire. Sotto l'ala di Safta Jaffery dal 1985, John Leckie sapeva dell'esistenza dei Muse su segnalazione dello stesso Jaffery. Aveva già assistito ad alcuni show londinesi verso la fine del 1998, entrando di sfuggita in contatto con la band, e dopo il concerto al Mercury Lounge il rinomato produttore fece loro una promessa: se mai fossero riusciti a permetterselo, avrebbe lavorato con loro. Rincuorati ma leggermente spiazzati dalla loro prima esperienza non solo in America, ma nell'occhio del maelstrom dell'industria musicale USA, al loro


ritorno nel Devon agli inizi di novembre Matt, Dom e Chris erano uomini diversi, fuori sincrono con le loro normali esistenze quotidiane. Se i talent-scout che gli offrivano cene e bevute al CMJ non avevano idea del mondo da cui venivano i Muse, gli amici e i colleghi di lavoro al negozio di chitarre di Torquay capivano ancora meno cosa gli stesse accadendo e le storie che raccontavano. A casa c'erano ragazze fisse (tranne che per Dom), squallidi appartamenti pieni di droga e capi che pretendevano gli straordinari per recuperare il tempo perso. A New York City e erano pasti gratis, bevute a comando e il mondo del rock ai loro piedi. Poi, dopo solo qualche settimana, arrivò l'appiglio numero due. La Columbia Records li voleva a Los Angeles, per farli suonare di fronte ai boss dell'etichetta. E l'universo dei Muse si trasformò in una supernova. Atterrarono al LAX durante le festività per il Giorno del Ringraziamento, nel 1998. Una limousine passò a prenderli all'aeroporto e li accompagnò al primo di una lunga serie di "pasti fasulli", con vini costosi e carni poco cotte a volontà. Nella pazza Los Angeles i Muse furono adescati con ogni lusinga e ogni mazzetta che l'opulento, eccessivo e scintillante music business americano avesse a disposizione. Era un'industria che non si tirava indietro quando c'era da lanciare casuali esche a base di ragazze, droga e soldi a giovani band impressionabili in cambio delle loro tremolanti firme. Solo qualche giorno prima, considerò Matt, puliva toilette in un gelido parcheggio per roulotte alle soglie dell'inverno inglese. Questo era decisamente un altro mondo. Alla Columbia va riconosciuto il merito di aver in qualche modo organizzato l'esibizione lontano dai seducenti fumi della corruzione di Hollywood. Un'ora lungo il Santa Monica Boulevard, a Santa Monica, un paradiso sterilizzato e imborghesito di motel e centri commerciali sulla West Coast, un parco giochi dell'industria cinematografica con un lungomare infestato da drogati della chirurgia plastica che stritolano cani di piccola taglia e condomini multimiliardari che si affacciano sulla spiaggia lungo la costa nel Big Sur. Quel giorno la storia dei Muse fu riscritta come un racconto diviso tra due moli: da quello torbido di Teignmouth, col suo spento glamour marittimo e testimone delle loro pene adolescenziali, il destino era di essere scelti per uno show sul molo di Santa Monica il 23 novembre, al riparo dal sole della California sotto tendaggi neri e con gli sguardi carichi d'aspettativa di una folla di mogol e magnati del rock statunitense. Il concerto fu un successo sfolgorante. Si dice che Tim Devine, uno dei dirigenti della Columbia, stesse piangendo, commosso, mentre Rick Rubin (avevano fissato il concerto alle 11 di mattina per permettergli di staccare dalla produzione di Tom Petty e venire a vedere la band) confessò a Safta che i Muse erano i Beatles del ventunesimo secolo. Rubin chiese alla band e alla Taste Media di trattenersi qualche altro giorno in città per uscire insieme, ma il contratto con la Columbia era tutto tranne che sul tavolo: Devine doveva parlarne col suo boss Donnie Einner, che doveva parlarne col suo boss, che doveva parlarne con l'amministratore delegato, che doveva vedere la band in azione per rendersi conto da sé... Più tardi, quello stesso giorno, i Muse cominciarono a fare i bagagli in albergo per il volo di ritorno nel pomeriggio, fiduciosi nel fatto che, dopo qualche mese di blindatura del contratto, avrebbero firmato con la Columbia all'inizio del 1999. E se fossero decollati con un volo prima, magari oggi le cose starebbero proprio così. Ma al suo ritorno in albergo, Safta trovò un messaggio di Guy Oseary, compagno di Madonna sia nella vita (in quel periodo) che nella gestione della Maverick Records. Inizialmente inquadrata come un progetto più simile a un capriccio, la Maverick cavalcava l'onda dei suoi primi successi dopo aver messo sotto contratto per gli States Alanis Morrissette e Prodigy (proprio mentre si piazzavano al numero uno nella classifica di «Billboard» con THE FAT OF THE LAND) e (di maggior interesse per i Muse) i Deftones, la band più cool del mazzo nu metal. Avendo tenuto d'occhio i Muse da quando Safta gli aveva inviato il MUSE EP e le orecchie ben aperte sul brusio che li circondava al CMJ, a Guy (propaggine creativa e talent scout della Maverick; per l'intera durata del loro rapporto con l'etichetta i Muse non incroceranno mai, neanche una volta, Madge in persona) era giunta voce che la band era a Los Angeles. E quando seppe che erano senza contratto sia nel Regno Unito che negli States rimase sbalordito.


Consapevole di doversi muovere in fretta perché le grinfie della Columbia si stavano serrando, insistette con Safta per far rimanere la band a LA qualche giorno in più per uno showcase davanti alla Maverick, offrendosi di spesare alloggio, spostamenti in limo per tutta la città, nuovi biglietti in prima classe per tornare a casa, insomma tutto il necessario. Che i Muse si trovassero in città a spese della Columbia non lo toccava minimamente. Se non avessero suonato a porte chiuse per lui il giorno seguente, disse a Safta, la settimana dopo avrebbe solo dovuto metterli sul primo volo in partenza dall'Inghilterra per LA. Il consiglio generale dei Muse soppesò l'offerta per un secondo: altre settantadue ore nell'assolata LA, la possibilità di lavorare con l'uomo che aveva scritturato i Deftones e forse rimediare l'autografo di Madonna per il fratello di Matt, che da giovane era un suo grande fan. Ancora più importante, invece di mangiucchiare piatti sovrapprezzo insieme ai galoppini dei dipartimenti A&R, ora parlavano direttamente con l'uomo che prendeva le decisioni, la persona che se voleva poteva scritturarli nel giro di un secondo, e avevano a che fare con un'etichetta che gestiva solo una quindicina di gruppi, cosa che avrebbe garantito loro la priorità. Inoltre, la Maverick non gli sembrava quel genere di etichetta che scaricava un gruppo perché il primo album aveva venduto poco. Erano ancora perplessi e frastornati dall'esperienza losangelina. Matt se la spassava alla grande, ma non credeva che la loro musica meritasse quel dispiego d'attenzioni. Secondo lui l’interesse degli americani era comicamente falso, esilarante nella sua forzatura. Tutto ciò li spiazzava, ma non avevano certo fretta che finisse; prenotarono dunque una sala prove in cui esibirsi per la Maverick il giorno seguente e disfecero i bagagli. Quella che il giorno dopo si diede appuntamento per assistere allo show dei Muse era una variopinta accozzaglia di affaristi. Dennis e Safta furono raggiunti da Steve Sessa, l'avvocato di LA assunto di recente per rappresentare le negoziazioni contrattuali della band. Arrivarono anche Oseary e Steve Jones dei Sex Pistols, invitato da Oseary più per la sua gloria punk che per il suo entusiasmo verso la band. Steve passò tutto il concerto masticando chewing gum con l'aria annoiata e non fu mai presentato ai ragazzi. Non che il suo fascino da star li avrebbe particolarmente abbagliati: quel giorno avevano gli occhi un po' gonfi perché la notte prima, quando s'erano resi conto di trovarsi ancora a LA, non avevano perso tempo a tuffarsi nel trogolo paradisiaco del music business. In veste di rappresentanti della Columbia a caccia delle loro firme, Rick Rubin e George Drakoulis (produttore di gruppi assai diversi fra loro come Wu-Tang Clan e Primal Scream) si erano fatti vivi nella classica Bendey di Rubin alle due di notte, dritti dallo studio dove stava producendo il nuovo album di Tom Petty, e li avevano trascinati sul Sunset Strip, a bere fino alle prime ore del mattino. E così, con la timidezza e la goffaggine che derivano dall'esibirsi in una stanzetta per un pubblico di cinque persone capaci di creare o distruggere la tua carriera, dei Muse vittime di jet-lag e doposbornia aprirono la loro scaletta. Suonarono Cave e Muscle Museum prima che Oseary li interrompesse. "Non serve che suoniate ancora", disse, ed offrì loro un contratto. In seguito descriverà l'esperienza come "estremamente potente e stupenda". Sebbene Oseary fosse chiaramente estasiato dalla band e pronto a mettersi in affari, senza alcuno scrupolo nei confronti del mercato britannico che non si era interessato a loro più di tanto, i Muse e il loro management lo pregarono di ascoltare un'ulteriore fetta dei sei pezzi in programma. Lui chiese di riascoltare Cave e Muscle Museum, confermando che "potevano mettersi in affari". L'affare andò in porto nel giro di un mese. Sbaragliata una mezza dozzina di offerenti meno determinati, alla vigilia di Natale del 1998 la Maverick riportò i Muse a LA per la firma di un contratto discografico di due album insieme alla Taste Media valido per Stati Uniti, Canada e Messico. Mentre parecchie etichette si sarebbero tirate indietro all'idea di spartire i diritti musicali di una band con più etichette in tutto il mondo, ciò non costituiva un problema per Oseary, poiché aveva già stipulato un simile accordo con i Prodigy che avevano fatto per lui un bel lavoro. In base a quanto stabilito, dunque, i Muse avevano ancora il controllo sulla registrazione e la produzione della loro musica per il mercato americano, il più grande del mondo. Non potevano sognare un regalo di Natale migliore. Superato l'ostacolo principale, i Muse tornarono nel Regno Unito per cominciare


a invadere il resto del globo. * * * Alla notizia del loro ingaggio praticamente istantaneo negli States, Safta, che lavorava come talent scout della band a livello mondiale per conto della Taste Media, ebbe pochi problemi ad aggiudicarsi i vari contratti di licenza tramite i suoi agganci nel resto del mondo. In cima alla lista c'era la necessità di assicurarsi un contratto per il Regno Unito, e con tutte le principali etichette già depennate (anche se la band fece uno showcase per la Parlophone Records al Princess Charlotte l’11 gennaio 1999, il loro primo concerto dell'anno), bisognava guardare oltre. Si rivolse alla Mushroom Records, un'etichetta con sede in Australia ma la cui divisione britannica era stata fondata nel 1983 da Korda Marshall (ex-Infection, e prima ancora RCA) con l'obiettivo principale di rappresentare le band australiane in Gran Bretagna. Nei primi anni Novanta Korda aveva portato sul piatto della Mushroom dei contratti redditizi grazie al combo proto-brit pop Ash e ai Garbage, band glam-rock del famoso produttore dei Nirvana Butch Vig, mossa che aveva allargato il campo d'azione del rampollo alla scoperta dei nuovi talenti e a farli firmare per l'etichetta. Anch'egli cresciuto nel Devon (e vecchia conoscenza di Dennis Smith dai giorni preattività discografica), Korda aveva seguito i progressi dei Muse per diversi anni ed era stato fra i boss dell’etichetta che li aveva respinti per ben due volte in passato perché, come Safta e Smith, desiderava che la band sviluppasse per prima cosa un seguito popolare. Tuttavia, l'improvviso interesse della Maverick e l'entusiasmo per la band espresso dal suo boss australiano Michael Parisi (fra i fortunati destinatari di uno dei pacchi contenenti il MUSE EP) gli forzarono la mano, e la Mushroom UK firmò un contratto di licenza co-etichetta con la Taste per tre album valido in Regno Unito, Irlanda e Australasia23. Gli altri principali territori caddero come tessere del domino: in Francia firmarono con la Na'ive, mentre in Germania, Svizzera, Austria ed Europa dell'Est si accasarono presso la Motor / Universal. In Germania Safta spedì un solo pacco, con sopra l'indirizzo del suo amico di vecchia dataTim Renner, della Universal, e di sua moglie Petra Husemann, della Motor. Secondo lei avevano quel genere di angoscia esistenziale teen dal retrogusto Radiohead che in Germania avrebbe funzionato alla grande, e volle vederli in azione dal vivo. Da qui la prima, timida scampagnata britannica dei Muse nel gennaio 1999, che li portò a sgranchirsi le gambe in leggendari ma minuscoli locali inglesi come il Roadhouse di Manchester, il Crypt di Hastings, un Duchess of York di Leeds stipato all'inverosimile e il Forum di Tunbridge Wells. Celebre perché un tempo era un bagno pubblico, la sera del 15 gennaio in cui vi suonarono i Muse fu la stessa in cui Nik Moore della Work Hard, che aveva gestito gratis il battage pubblicitario della band da quella volta all'In The City, fu invitato al concerto e messo al corrente che c'era un'altra società di Pr interessata a lavorare con loro. Nel giro di poco tempo, infatti, i Muse passarono alla rispettata Bad Moon Pr sotto la guida di Anton Brookes, già addetto stampa di Nirvana e Happy Mondays. Fu solo questione di pochi mesi prima che cambiassero ancora, a favore della nuova incognita Impressive Pr, il regno di Mei Brown, express agent della Arista e testimone entusiasta del loro show al CMJ. Altri concerti furono al Bedford's Esquires e al buon vecchio Cavern di Exeter, per i quali fecero da supporter a chiunque incontrassero. Il tour fu troncato a metà per volare ad Amburgo, dove li aspettava uno show al Logo Club, il 19 gennaio, per quelli della Universal/Motor. Sconvolti, Husemann e Renner li scritturarono quella sera stessa, maledicendo la sfortuna di ottenere i diritti solo per i territori di loro competenza. Jaffrey e Smith si fermarono per il momento a quattro contratti, felici di avere quattro team che si dedicavano anima e corpo alla band invece di uno solo (inizieranno a stipulare contratti per Giappone e Scandinavia non prima dell'autunno 1999). Il tour inglese per promuovere il successivo MUSCLE MUSEUM EP, uscito per la Dangerous, fu un momento storico per i Muse, nonché il primo come band sotto contratto. Di punto in bianco avevano un grande furgone bianco preso a nolo, un tour manager, un addetto alle prenotazioni e il beneplacito di Madonna. C'era pure una simil-squadra di roadie, anche se in realtà era un mucchio alquanto eterogeneo formato da amici e perditempo di Teignmouth, fra i quali uno zingaro sballato che dormiva per strada e diceva di essere andato avanti ad acqua e cornflakes per tre settimane. La band l'aveva assunto come tecnico dei monitor per pura compassione. I concerti in America li avevano aiutati a rendersi conto che, in fondo, come band


non erano poi tanto male, ma il salto dal suonare per i compagni di college e i sempre più numerosi fan nel Devon ai concerti di prova pieni di talent-scout, o come gruppo spalla di band più grandi i cui fan li ignoravano, li aveva resi più introversi, più dediti a suonare per se stessi piuttosto che per il pubblico. Era tutto vertiginosamente, spaventosamente reale, e stava accadendo vorticosamente in fretta. Sapevano che per sfruttare al massimo le future opportunità avrebbero fatto meglio a darsi da fare, e alla svelta. Le prove erano tirate e i concerti carichi d'intensità, con una scaletta media di dieci pezzi composta da Overdue, Cave, Uno, Instant Messenger, Sober, Fillip, Rain, Muscle Museum, Unintended e Showbiz. Quando il tour di undici date chiuse i battenti alla University Of London Union, con il terzetto in veste di supporter ai lunatici rocker svedesi Kent, i Muse avevano suonato quasi più concerti in un mese di quanti ne avessero suonati l’anno prima. Erano diventati una compatta e micidiale proposta rock. Quelli di Matt cominciavano ad essere dei furenti acuti in falsetto capaci di sbriciolare il vetro, il modo in cui suonava la chitarra era vulcanico e degno di un uomo con il doppio delle dita. Chris e Dom si erano trasformati in una sezione ritmica poderosa, al confronto della quale contemporanei come i Coldplay sembravano il goffo pastrocchio che erano (a quel tempo). I Muse erano diventati uno dei gruppi rock emergenti più affermati ed eccitanti sulla piazza. E giusto in tempo. Perché il riflettore, puntato bruscamente su di loro, si era appena acceso. * * * Nel mondo del rock, gennaio è la riserva di caccia per i bracconieri dell'indie. Quando le principali band hanno ormai sganciato il loro carico promozionale nella ressa natalizia e una bella fetta dei consumatori di tutto il Paese si ritrova senza più un centesimo per almeno un mese, i grandi gruppi commerciali volano basso e le etichette più astute colgono al volo le occasioni offerte da prezzi di vendita più stracciati del solito e vagonate di riviste con sondaggi tipo "Gruppi Da Tenere D'Occhio Di Quest'Anno" per spremere da una delle loro band di second'ordine un sospetto hit da Top 10 nel clima di vendite stagnanti. Fu circa in questo periodo che i rocker gallesi Feeder elevarono allo stato dell'arte la tattica dei singoli di gennaio. Lo stesso trucchetto che, divenuto standard per l'indie degli anni Novanta, ha dato vita alle "carriere" di meteore come Electric Six, White Town e Babylon Zoo. E poi, ma soltanto per grazia di Lamacq, arrivarono i Muse. Nelle intenzioni, il MUSCLE MUSEUM EP doveva essere un'uscita piuttosto tranquilla. Una raccolta tappabuchi delle restanti sei tracce incise durante le session del 1998 ai Sawmills insieme a Paul Reeve, prima di cominciare a registrare il disco d'esordio (e gli svariati accordi di distribuzione da fior di quattrini si fecero sentire, permettendogli di produrre molte più copie dei loro album). Come con il MUSE EP, la tiratura fu di 999 copie (più qualche Cd in cui non compariva Muscle Museum 2 e copie non numerate per la stampa e le radio), ciascuna numerata a mano e venduta nei negozi di dischi del Devon o ai concerti a partire, in linea di massima, dall'11 gennaio. Un'uscita in sordina che mirava a smuovere un po' di clamore e di interesse, per ricordare a quella nazione che li aveva snobbati all'In The City che i Muse erano ancora lì e facevano parecchio rumore nell'industria musicale. Il problema è che un pezzo come Muscle Museum proprio non ne vuol sapere di starsene tranquillo. Nasceva dalle due parole che circondano il termine "muse" nei dizionari inglesi, ed era impreziosito da un nuovo metodo per registrare un assolo di chitarra senza la chitarra: tutto preso dall'epica sfuriata di note che aveva in mente per la fine del ritornello, Matt saltò per sbaglio un accordo in fase di registrazione e fu dunque costretto a cantare l'assolo. Il suono che scaturì dall'amplificatore Marshall era simile a quello di una chitarra, solo più spettrale, invasato e umano; tale tecnica fu utilizzata in diverse tracce di SHOWBIZ e ancora oggi, quand'è sul palco, Matt ha bisogno di un microfono pesantemente distorto per ricreare quest'effetto dal vivo. Muscle Museum era il loro travolgente successo pop. E la band sapeva che avrebbe colpito nel segno. Quel riff sinuoso da razziatore di tombe egiziane, la saccente strizzatina d'occhio indie del verso "I have played in every toilet", il pulsare esotico del basso, il ritornello come un'eruzione del Vesuvio: anche nelle grezze spoglie del demo era qualcosa di monumentale. Torbido, misterioso, lineare, ma abbastanza potente da farti saltare le otturazioni a cinquanta metri di


distanza, la sua dissezione freudiana della battaglia fra coscienza e istinti basilari della natura umana sembrava l’antidoto perfetto ed ultraviolento al rock dimesso e commerciale che nel periodo post-Oasis la faceva da padrone. L’ultima traccia dell'Ep era una variante acustica tronca di un minuto e mezzo intitolata Muscle Museum 2, immersa nel rumore della pioggia e con la voce lamentosa di Matt che riecheggia in lontananza. E in mezzo a queste due, come antipasto dell'album a venire, c'era una scelta non troppo esaltante di B-side, prima fra tutte Sober. Ri-registrata con Reeve a partire dalla versione del "Newton Abbot demo”, era uno stralunato e irrequieto omaggio al whisky, il nobile superalcolico, e ai suoi salutari effetti in caso di trambusto emotivo ("Matured for years and imported / Into my glass you poured it / And you're the only reason that I remain unfrozen" - "Invecchiato e d'importazione / Me l'hai versato nel bicchiere / Sei l'unico motivo per cui il gelo non mi stringe"). Brano di notevole impatto, era uno dei primi esempi di un Matt all'apice del suo falsetto più istrionico e strumentalmente più libero nella forma, in certi momenti è come se stesse suonando la chitarra con un martello e poi con un pungolo da bestiame al posto del plettro. Segue a ruota Uno, che finirà per diventare il primo "vero" singolo dei Muse, in cui l'iniziale atmosfera da tango latino, ombroso e sinistro nel suo incedere tremolante, viene afferrata per la gola dal rock super-pompato del ritornello, che la fa roteare sulla pista da ballo con furioso risentimento: "You could have been number one... And we could have had so much fun / But you threw it away" ("Potevi essere la numero uno... E potevamo spassarcela / Ma hai mandato tutto all'aria"). Già vediamo profilarsi il motivo della rabbia e del rifiuto, che accomunava questo pezzo con Sober e spingeva i fan ad ipotizzare che Uno parlasse della stessa persona (forse una ex scaricata da Matt o una vecchia conoscenza della band che si era rifiutata di aiutarli) futuro bersaglio di Hate This And I’ll Love You e della seguente Hyper Music. La fragile condizione emotiva di Matt è più esplicitamente legata al gentil sesso in Unintended. Ancora coinvolto nella stessa relazione che aveva da quand'era sedicenne, Matt confessa che Unintended nacque ai Sawmills, scritta di getto e quasi per sbaglio dopo una telefonata con la sua ragazza: una canzone d'amore non voluta nei termini più semplici. Sopra un'elegante arpeggio di chitarra acustica quasi classico, e con la voce di Paul Reeve a fare da controcanto, Matt apre il suo cuore e racconta di come un'ipotetica nuova ragazza potrebbe essere l'unica persona capace di farlo riemergere da una precedente storia, se solo lui la lasciasse fare. Anche se non riuscirono a suonarla dal vivo per gran parte del 1998 a causa, secondo Matt, della mancanza di un tastierista (nel 1999 ne escogitarono una versione elettrica per i live), negli anni a venire sarà il grande momento della ballata strappalacrime, tanto che sembrava quasi perverso accostarla alla leggera Instant Messenger, dove si parla dell'amore in chat e il cui titolo, a quanto si dice, si rifa al vecchio furgone che portava la band in tour (Instant Messenger divenne Pink Ego Box per la successiva pubblicazione come B-side, dopo che l'Internet provider AOL contestò in termini legali la voce automatica campionata nel brano che dice "you've got post"). Quando il MUSCLE MUSEUM EP risuonò per la prima volta negli uffici di «NME», si drizzò una tale quantità di orecchie che il sottoscritto fu prontamente spedito a intervistare la band per lo sconfortante pezzo di "On" che, quel febbraio stesso, diede loro il primo assaggio di pubblicità nazionale posizionandoli saldamente sotto le luci del mondo alternative. Ma quel giorno, prima dello show alla University Of London Union, si verificò un evento forse ancor più cruciale. Matt percorse il quarto di miglio lungo la Tottenham Court Road, dalla ULU fino al palazzo di Radio One sulla Great Portland Street, e consegnò una copia del MUSCLE MUSEUM EP all'addetto della reception, dicendogli di passarlo al dj Steve Lamacq24. Timoniere di The evening session, Mecca radiofonica indie targata BBC, negli anni Novanta il patrocinio di Lamacq era il Sacro Graal per ogni aspirante rock band. Come un John Peel dell'indie, Lamacq è un avido, anzi patologico cacciatore di musica nuova, che divora ogni demo e batte a tappeto ogni posizione da supporter in cerca di una band rivelazione da pompare all'inverosimile in onda. Se molti conduttori radiofonici nazionali non sono altro che schiavi di una playlist, Lamacq prese il MUSCLE MUSEUM EP, lo ascoltò e ne andò ovviamente pazzo. Mentre a tutti gli altri era bastato annusare i


primi trenta secondi del pezzo apripista, sentire l’urlo di quel dentellato indie rock, le chitarre che sferragliavano feroci, i testi carichi d'angoscia e quel ritornello esplosivo ed emozionante per declassare i Muse al rango di copia pirata dei Radiohead di THE BENDS (paragone che avrebbe dapprima infastidito, poi scocciato e infine fatto semplicemente arrabbiare la band per qualche anno a venire. E del quale io non ho nessuna colpa: il mio pezzo del mese per «On» includeva la frase: "Se esistesse un 'Campionato Nazionale per Band dal Suono Identico ai Radiohead', loro farebbero parte della giuria di esperti, accanto agli stessi Radiohead e a un'altra band con lo stesso identico sound dei Radiohead"), Lamacq sentì invece grande musica, fragilità intensa e il tonfo inebriante di note dure e gelide. Con grande stupore della band, nel giro di poche settimane Lamacq cominciò a mandare in onda le tracce dell'Ep per poi invitarli in studio a registrare una prestigiosa session in vista dello show del 17 febbraio. Ancor prima che se ne accorgessero, stava offrendo loro l'apertura del Radio 1 Evening Session Tour di maggio, subito sotto i 3 Colours Red, promessa ribelle del punk, e il glam-rock al femminile delle americane Donnas. Delle centinaia di band che ogni settimana capitavano nel suo radar, Lamacq aveva attaccato la sua spilla sul bavero dei Muse. Con il sostegno sia della stampa nazionale che del più importante show radiofonico alternativo del Paese, il disco andò quasi subito esaurito piazzandosi al numero tre nella classifica dei singoli indie di «NME» (una storia seria, quando ancora la classifica dei singoli indie di «NME» esisteva). I Muse, nel loro piccolo, ce l'avevano fatta. Era ormai giunto il momento di mettersi in strada e farlo capire anche al resto del Regno Unito. Dio solo sa di quali folli sostanze concertifere si facesse l'agente dei Muse nel 1999. Fatto sta che il tour era organizzato come se il giorno dopo non avessero avuto in programma un semplice concerto, ma ce ne fosse stato un altro il giorno dopo, e uno il giorno dopo ancora, e così via fino alla fine dei tempi. Fu una fortuna che gli appuntamenti live venissero rivelati gradualmente alla band. Se al ritorno dal loro primo tour inglese qualcuno li avesse messi al corrente che da quel momento in poi sarebbero stati in tour per almeno diciotto mesi buoni, con solo qualche mese per scrivere e registrare il loro primo album, sarebbe stato lecito aspettarsi una qualche reazione difensiva da parte loro (specie da Chris, che aveva appena scoperto che la sua ragazza Kelly aspettava il loro primo figlio). I Muse, invece, andarono incontro al proprio futuro come una delle band inglesi più bendisposte a lanciarsi in tour massacranti con gli occhi sgranati dall'ingenuità. Gli dicevano dove avrebbero suonato e con chi. Loro andavano e suonavano. Primo. Nel febbraio 1999, i Muse fecero da supporter ai dandy del brit pop Gene (tour nel quale ho visto per la prima volta i Muse esibirsi alla Reading University, e primo concerto per cui esistono delle riprese video della band). Ancora a bordo del furgoncino bianco, questa trasferta nelle università e nei locali di media grandezza del Paese - Colchester Arts Centre, Brighton Centre e l'Anson Rooms di Bristol, dove furono vendute le ultimissime copie del MUSE EP e del MUSCLE MUSEUM EP - sembrava una prosecuzione del tour di gennaio, solo che stavolta suonavano in spazi più grandi davanti ai fan disinteressati di un'altra band. Il numero delle canzoni era ridotto, e loro erano alla stregua di semplici accessori dell'evento principale. I pochi consensi che il loro rock furioso riscosse tra i fan del pop elegantemente intorbidato dei Gene li portò a chiudersi di nuovo, a suonare per loro stessi. Matt metteva il palco a ferro e fuoco, scagliando selvaggiamente se stesso e la sua chitarra da una parte all'altra per compensare un'accoglienza a braccia conserte o per stupire i miscredenti. I Gene ne furono tuttavia sbalorditi, tanto da chiedere ai Muse da far loro da supporter al Forum di Londra un mese dopo la fine del tour e ancora, due settimane dopo, all'Astoria Theatre (un giorno in cui erano riusciti a infilare un secondo show al Sound Republic a Leicester Square). Erano senza dubbio i locali più grandi in cui avessero suonato (tranne Chris, che per qualche bizzarro motivo aveva suonato con gli Status Quo durante uno dei loro soundcheck a Plymouth nel 1997. Rick Parfitt stava troppo male per suonare, e tra i compagni di college che Chris andava a trovare in quel periodo c'era il figlio del tastierista degli Status Quo, che lo reclutò come rimpiazzo per Parfitt nel soundcheck durante il quale Chris suonò, con suo sommo gaudio, Don't Waste My Time). E i grandi locali, dove quelle sonorità titaniche avevano lo


spazio per infuriare e imperversare com'era scritto nella loro natura, ai Muse calzavano come un guanto. Saranno anche stati nervosi e insicuri ma stranamente, quando suonavano nei grandi spazi, era come se fossero a casa. Secondo. A maggio, dopo un paio di show di riscaldamento allo Square di Harlow e al Forum di Tunbridge Wells, il Radio 1 Evening Session Tour aprì i battenti all'Università di Cardiff e si incamminò verso Est in sei date, passando per Birmingham, Manchester, Sheffield e Portsmouth (dove la scaletta di sette brani dei Muse fu trasmessa in diretta nello show di Lamacq) fino a capitolare in maniera esplosiva al Barfly di Londra, dove la band varò in anteprima un nuovo pezzo strumentale, crogiuolo di riff blueseggianti timidamente intitolato Hyper Music. In linea con il nuovo loro status di musicisti da locali di taglia grande (anche se nel ruolo di gruppo spalla), per la prima volta la Taste Media concesse loro uno status symbol da rockstar: un vero e proprio tour bus. Se il mezzo di trasporto era roba da headliner, le performance lo furono altrettanto. Notte dopo notte, con la loro travolgente passione, i Muse rubarono la scena alle Donnas e ai 3 Colours Red. Terzo. Visto che la scarpinata si era mossa verso Est, il giorno dopo la fine dell'Evening Session Tour i Muse si voltarono, si agganciarono come supporter al tour dei Feeder e tornarono indietro, zigzagando per il Regno Unito in nove date e passando per il secondo concerto in una sola settimana al Pyramid Centre di Portsmouth. Il 30 maggio, quando si fermarono al Leadmill di Sheffield per quindici giorni di pausa dopo tre settimane di tour, erano uomini diversi sia dal punto di vista emotivo che da quello fisico. Le note alte nel falsetto di Cave avevano danneggiato la gola di Matt, provocandogli un restringimento della laringe come risultato degli sforzi notturni. I dottori chiamati in seguito ad esaminarla diranno di non aver mai visto un uomo con delle simili corde vocali. Somigliavano in tutto e per tutto a quelle di una donna. I Muse non si impigrirono durante i mesi fra questi due tour. A marzo volarono di nuovo a LA per un'altra esibizione davanti a quelli della Maverick, lieti di sfoggiare le nuove firme della band per il loro team statunitense. Non che il concerto sia stato un successo esaltante. Quella sera, nel leggendario locale (fuori dal quale River Phoenix andò incontro alla sua celebre morte per overdose) c'erano circa venti spettatori, e il giorno era quello dopo il circo degli Oscar, che aveva levato le tende lasciando sul suo cammino una città contusa e col cerchio alla testa. Anche i Muse, una volta scesi dall'aereo, si erano buttati nel giro delle feste. Appena il tour bus accostò davanti all'albergo, un turbine di fotografi si precipitò a scattare le foto, incerti sull'identità di quei tre ma dando per scontato che chiunque si presentasse in un albergo di Hollywood sul bus di una band durante la notte degli Oscar doveva essere discretamente famoso. Confusa e divertita dalla sua prima esperienza con i paparazzi, la band decise di vivere quell'equivoco fino in fondo e si fece scarrozzare per tutta la notte dalla Maverick ai vari party delle celebrità, mischiandosi con il jet-set e scolando cocktail come vincitori del premio per il Miglior Attore. Così il giorno dopo, al momento di salire sul palco, i Muse erano tre rottami devastati, spossati da un miscuglio di bella vita e jet-lag. Tornati in Inghilterra nel periodo fra i tour, però, la festa doveva finire. I Muse avevano un album da registrare, e un sacco di soldi in tasca per farlo. E ovviamente chiesero a qualcuno di rendergli un favore... * * * John Leckie regalò molte cose a SHOWBIZ, disco d'esordio dei Muse. Un dilatato senso di grandiosità e compattezza. Un gancio rock micidiale. Una profonda cultura della sperimentazione. L'insistenza di un purista nell'utilizzo del nastro analogico quando l'intero studio era disseminato di moderna strumentazione digitale. Ma se chiedete ai Muse qual è stato il maggior contributo di Leckie, vi faranno due nomi: l'erba buona e i microfoni di Hitler. Dei nazisti potete dire quello che vi pare, ma di sicuro producevano ottimi microfoni. Su ordine di far somigliare la voce di Hitler a quella di Dio durante i comunicati radio, i tecnici tedeschi idearono il microfono a condensatore, progettato per rendere la voce più potente. Nel 1970, Leckie andò in Germania e ne comprò centinaia di diversa fattura (la sua collezione vale oggi una ragguardevole cifra), e così, quando Matt volle che in Sunburn la sua voce imitasse il suono tagliente della tastiera su un pezzo di Dj Shadow che stava ascoltando in quel periodo, Leckie tirò fuori un antico microfono usato dall'esercito tedesco dentro i carri armati. Allacciato intorno


al collo, captava le vibrazioni della gola rendendo la voce di chi lo indossava qualcosa di simile a quella di Linda Blair ne L'esorcista. "Affilato" non è il termine giusto per descriverne l'effetto su Sunburn. "Semplicemente terrificante" rende meglio l'idea. Con le prime tre settimane di registrazione ai RAK Studios di Londra e le sessioni finali ai Sawmills in aprile, Leckie e i Muse assemblarono SHOWBIZ in modo efficiente ed economico lavorando come coproduttori. Dopo quell'improvviso salto da imbianchino & decoratore a pop star di serie B puntualmente alle prese con scelte decisive, Matt si dava da fare per assicurarsi che niente andasse storto e che ai Muse non sfuggisse di mano il controllo sulla loro musica. Se si fossero preoccupati soltanto della musica li avrebbero fregati, e ne era talmente sicuro da non perdersi neanche una riunione, soprattutto negli States, sia che si parlasse di un disegno di copertina, di foto promozionali o del più insignificante dettaglio sul lato creativo della band. Di conseguenza, quando si trattò di produrre l'album, i Muse non potevano affidarne l'intera responsabilità a un uomo solo, anche se era John Leckie. Dovevano partecipare attivamente all'incisione dei brani, perché avevano le idee molto chiare in fatto di registrazione e arrangiamento. Matt capiva giàla differenza fra suonare in studio e farlo dal vivo: quest'ultima era una performance, mentre la prima è qualcosa che va costruito e levigato, come una scultura. E lui voleva che ogni linea e ogni curva della sua prima scultura fluisse alla perfezione. Le cinquanta canzoni che la band aveva in repertorio al suo ingresso in studio furono sforbiciate a dodici. Scelsero di incidere le meno progressive e quelle con i testi meno incentrati sulla loro città natale e i suoi traumi, privilegiando i pezzi più recenti che parlavano di quel vasto spicchio di mondo cui erano stati esposti. Dato che registravano in tre, i Muse erano propensi a sperimentare, e Leckie, che in privato era una specie di mistico, era aperto alle proposte insolite. Suonarono qualsiasi strumento su cui riuscirono ad allungare le mani. Usarono i mellotron al posto delle chitarre, per produrre suoni simili a una miriade di voci in coro, e tutt'a un tratto Matt cominciò a smaniare per rimettersi al pianoforte. Negli anni in cui i Muse costruivano e affinavano la loro scaletta improntata al suono di chitarra Matt aveva a malapena sfiorato quello strumento. Ultimamente, però, stava ascoltando un sacco di musica pianistica degli inizi del Ventesimo secolo, compositori emozionanti ma complessi come Rachmaninoff, e la sua testa era piena di tasti bianco avorio. Quando Sunburn, scritta e incisa su demo mentre la band era in studio25, non sembrò convincerli suonata con la chitarra, Leckie propose di rielaborarla passando al pianoforte. Da qui nacquero i delicati arpeggi che aprono SHOWBIZ, e un canone stellare di supernove sonore aveva avuto inizio. Il ritrovato interesse di Matt per il pianoforte, infatti, andrà a influenzare fortemente la scrittura dei brani per ORIGIN OF SYMMETRY, secondo album dei Muse. * * * Sembra una sciocchezza, adesso che sappiamo di cosa sono capaci. Melodie rock friabili, come di stagno, facili e leggere, joniigiia ormai a un giro di prova, un rodaggio, una fase di riscaldamento. Ma a quel tempo SHOWBIZ ebbe l'effetto di una tempesta di meteoriti a ciel sereno. Il cadenzato giro di pianoforte di Sunburn è l'istantaneo biglietto da visita dei Muse. Non è un caso che il loro album d'esordio si apra con questi stilemi classici: questa canzone è praticamente il loro manifesto, la loro dichiarazione d'intenti. Con gentilezza e seducente disinvoltura, ci prende per mano e ci invita a sbirciare nel possente abisso che unisce l'antico e grandioso mondo della classica con il giovane e fragoroso mondo del rock. Entrambi ugualmente potenti e fastosi, ma in quanto a grazia, delicatezza e precisione Sunburn era un universo a parte, dove i due mondi scontravano le corna. Se la maggior parte dei gruppi rock usava arpeggi e influenze classiche per abbellire i momenti più sobri (gran parte dei dischi hard rock di quel periodo doveva avere una simbolica Nothing Else Matters), i Muse fecero qualcosa di nuovo e inconcepibile: scagliarono a tutta forza questi due stili sovraccarichi l'uno contro l'altro, crogiolandosi nell'esplosione provocata dall'impatto. Sin dalla prima canzone del primo album, sarà questa la filosofia distintiva della loro opera. Il testo di Sunburn insinua sensazioni di inutilità e colpevolezza, come se Matt l'avesse scritto ricordandosi di cosa provava in America, braccato dalle etichette discografiche per musica che riteneva non ancora meritevole


d'attenzione ("Come waste your millions here / Secretly she sneers / Another corporate show / A guilty coscience grows" - "Venite a buttar via i vostri milioni / Sogghigna lei di nascosto / Un altro show da multinazionale / Cresce una coscienza sporca"). Ma se nell'intimo i Muse si sentivano uno spreco di soldi della Maverick, musicalmente sfatarono all'istante questa opinione con la lenta avanzata preistorica del basso e gli inquieti arpeggi da mar Egeo della traccia numero due, cioè la registrazione di Muscle Museum opera di Paul Reeve, ora con l'aggiunta di una corposa linea di batteria. Che il testo, come Bellamy affermerà in seguito, parlasse di gente del futuro che non ha più bisogno di corpi fisici è cosa ardua da decifrare, così come i riferimenti a una battaglia fra mente e lombi (tranne che nel verso "Too long trying to resist it" - "Per troppo tempo ho provato a resistergli"). Ciò che invece emerge con più chiarezza, forse per via della relativa inesperienza di Matt con la stesura dei testi, è un sottile e velato accenno ai denigratori dalle parti di casa: "I have played in every toilet / But you still want to spoil it / To prove I've made a big mistake" ("Ho suonato in ogni toilet26 / E tu vuoi ancora rovinare tutto / Per dimostrare il mio grande errore"). Ma ogni tentennamento e incongruenza a livello dei testi è più che compensato dalla pura pesantezza della musica. Un ritornello come le piramidi di Giza impilate e rovesciate nel Gran Canyon, anch'esso futuro marchio di fabbrica dei Muse. Per "fillip" si intende un ornamento o uno stimolo che eccita o infiamma i sensi, e la traccia Fillip mantiene di sicuro la promessa. Frivola e sbarazzina, pur spaccando di brutto per un paio di minuti, ha un'andatura poppeggiante con uno stile da rock collegiale americano (i Muse stavano probabilmente cercando di emulare il post-grunge melodico dei Foo Fighters, anche se ironicamente ciò che ne esce è parecchio simile ai primi pezzi dei Radiohead come Anyone Can Play Guitar o Pop Is Dead). Poi la maschera da Mansun scivola via, e viene alla luce il sottostante pezzo prog, un minuto piuttosto inconcludente in cui si arranca fra il sognante e il tedioso con Matt che geme senza meta in falsetto. Ciò rende Fillip la traccia meno-che-squassante di SHOWBIZ, a dispetto dell'incalzante galoppata che recupera la parte iniziale verso la fine. Per la prima, tenera e toccante ballata di SHOWBIZ Matt rovista nella sua collezione di Robert Johnson a caccia di influenze e se ne esce con la blueseggiante Falling Down, apripista della loro cover di Nina Simone, la burrascosa Feeling Good presente nel secondo album, ed eccellente opportunità per assecondare ogni fantasia da crooner alla Jeff Buckley di Matt, la cui giovane età è camuffata dal trasporto emotivo. Dal canto loro, il tono solenne e il piacevole arrangiamento in stile Royal Albert Hall dissimulano il significato della canzone, parzialmente incentrata sulla propensione di Matt a far saltare in aria Teignmouth (popolazione: 15mila) per averlo fatto sentire alienato e indesiderato durante la sua gioventù: "I'm falling down / And fifteen thousand people scream / They were all begging for your dream / I'm falling down / Five thousand houses burning down / No-one is gonna save this town... you would never hear me sing / You wouldn't let me begin" ("Sto cadendo / E quindicimila persone urlano / Stavano tutte elemosinando il tuo sogno / Sto cadendo / Cinquemila case in fiamme / Nessuno salverà questa città... non mi avete mai sentito cantare / Non me l'avreste mai lasciato fare"). Raramente, nel rock, qualcosa di così selvaggio ha avuto un suono cosi celestiale. Seguiva il ruggito castra-laringe di Cave, ri-registrata con Leckie dalla versione del MUSE EP, di gran lunga più brutale nel suo feeling neandertaliano ed epica nell'ululato che si protrae nel ritornello. Il suo stringato impatto rock è contrastato dalla canzone che dà il titolo all'album, cinque minuti epici e sinistri di cui i primi due hanno il suono di un'adunanza di nubi temporalesche (sordi tamburi tribali in lontananza, lo scuotersi tremolante del basso), mentre Bellamy sibila e geme dei lati oscuri di quelle personalità che nascondiamo al mondo: "controlling my feelings for too long / Forcing our darkest souls to unfold... and pushing us into self-destruction" ("Ho tenuto a bada le emozioni per troppo tempo / ho portato alla luce le nostre anime più nere... spingendoci all'autodistruzione"). Poi scoppia la tempesta, con uno sferragliante rombo di basso e lancinanti acrobazie vocali, e Showbiz si innalza come se a suonarla fosse una divinità nordica della guerra, con tanto di assolo di chitarra che sembra opera di un Te Bundy in preda all'epilessia e un agghiacciante miagolio di Bellamy in chiusura27. Per riprendere fiato non puoi far altro che accostare un simile brano a una


ballata, e stavolta c'è Unintended. Leckie ha scelto di non fare aggiunte alla versione originale di Paul Reeve se non per un rapido compattamento e mixaggio (e forse non c'è da stupirsi, data la stretta somiglianza con le ballate che Leckie stesso ha prodotto per i Radiohead). A partire da qui, ha inizio una riesumazione inutilmente approfondita degli episodi minori dal MUSCLE MUSEUM EP e dal MUSE EP. Uno merita appieno il suo posto in SHOWBIZ per quel valzer dalla grazia di un Godzilla e il sentimentalismo disperato, e un pezzo di rock duro e senza fronzoli come la leggermente pompata Sober inietta ulteriore potenza melodica all'ultima metà del disco. Ma anche il drastico lavoro di restauro compiuto su Escape (aggiunta di effetti vocali e archi sintetici) non può impedire alle sue parti più lente di impallidire a confronto di Unintended e Falling Down, e la sezione centrale, più pesante, somiglia a un clone spudorato degli Smashing Pumpkins. Pur tagliuzzata nell'arrangiamento (segato via il bridge con il mid-tempo e aggiunta di un ritornello finale), Overdue è sempre un pezzo rock superfluo di troppo. Chris dichiarerà in seguito che le canzoni migliori dei Muse erano quelle che mantenevano un sound strepitoso con poche modifiche, mentre le peggiori erano quelle più rimaneggiate in studio. La chirurgia estrema eseguita su queste due tracce ha certamente contribuito al calo nella parte finale di SHOWBIZ. Il pezzo in chiusura Hate This And I’ll Love You, terza ballata dell'album (anche se di quelle che ti stritolano il cuore, sulla scia dei "lenti" più spettacolari dei Pink Floyd), sembra a posteriori una prova generale per le vette più apocalittiche e micidiali che la band raggiungerà negli album successivi. Sopra il frinire delle cicale, Matt canta di una relazione distruttiva in cui ha il ruolo del perdente ("You're making me feel / Like I was born to service you / But I am growing by the hour" - "Mi fai sentire / Come se fossi nato per servirti / Ma sto crescendo di ora in ora"), e la canzone monta su un luttuoso valzer per synth e chitarra fino a svariati crescendo di opprimente rock wagneriano, la cui fragranza ricorda i più magnifici eccessi del prog anni Settanta. Come pezzo di chiusura era la sintesi ideale di SHOWBIZ: potente, ambiziosa,dalle dimensioni impressionanti,ma leggermente fuori fuoco e imperfetta. Nient'altro che una semplice allusione al potenziale dei Muse. Mentre molti dischi d'esordio offrono quelle band all'apice delle proprie capacità (con i loro dodici pezzi tenuti alla catena per cinque o sei anni, un risultato che purtroppo non riusciranno a eguagliare quando avranno solo sei mesi di tempo per scrivere il secondo album), SHOWBIZ rivelava una band con la più grandiosa delle aspirazioni musicali e ancora un po' di strada da fare per esprimere il proprio potenziale. In un'industria in cui molti nuovi gruppi vivono o muoiono in base al loro disco d'esordio, i Muse avevano confezionato un antipasto, un'anteprima della band che sarebbero potuti diventare. A quel tempo sarà anche stato il miglior album che potevano realizzare, ma verso la fine degli anni Novanta (quando permettere a una band di crescere ed evolversi nel giro di tre o quattro album era un'idea di cui l'industria discografica rideva in faccia, bollandola come rigurgito degli anni Settanta e cattivo senso degli affari), non essere i migliori e non cambiare il mondo partendo da zero era un affare assai rischioso. Le registrazioni di SHOWBIZ furono ultimate entro metà di maggio 1999, e mentre la band si ritirava in disparte per un paio di settimane, a giugno, per lavorare a mixaggio, veste grafica e design dei promo, la Taste Media si preparò al lancio del loro primo "vero" sìngolo. E cioè, tiratura illimitata tramite un'etichetta con tutti i crismi. Ma quale pezzo scegliere? Una rapida scorsa alla tracklist rivelò un unico candidato in gara... * * * Uno uscì il 14 giugno nel polverone scatenato dalla stampa. Quella manciata di articoli per l'uscita del MUSCLE MUSEUM EP si era ora trasformata in qualcosa di simile a un torrente. Il radar della stampa musicale era bersagliato dal brusio che si era formato attorno al terzetto e ai Cd promozionali del singolo, con quel design semitrasparente alquanto sciccoso che diventerà il marchio di fabbrica dei loro promo per l'intera campagna. All'improvviso, insieme all'interesse già dimostrato da «NME», furono eletti Singolo della Settimana dalla rivista «Q», mentre «Kerrang!» e «Melody Maker» sollevarono voci positive a suon di recensioni e interviste. Durante un breve tour nei locali meno glamorous del Paese (il Varsity di Wolverhampton, il Joiners Arms di Southampton, l'Army & Navy di Chelmsford e via dicendo) per promuovere il


singolo e scaldarsi in vista della raffica di date festivaliere, Matt fu iniziato al concetto di "intervista telefonica" quando la rivista «Dazed & Confused» lo contattò mentre si trovava nella sua cuccetta del tour bus a Manchester. Trattandosi della sua prima tranche di interviste con la stampa, Matt era cauto e guardingo su quanto rivelare di sé, riducendosi quindi a dispensare dettagli innocui e basilari. Il suo stile di canto risente dell'influenza di Jeff Buckley e Deftones. Gli riesce più semplice scrivere canzoni cupe che pezzi allegri. Trova che Bach, Palestrina e la musica corale siano "divini". La sua bevanda preferita è lo champagne e adora il cibo da gourmet. Quando scrive le canzoni non prende mai appunti, se sono abbastanza belle se le ricorda e basta. I Muse sono praticamente la sua ragione di vita. Sì, gli piacciono i Radiohead; insieme ai Nirvana sono la band anni Novanta che ha significato di più per lui, anche se non vede i Muse come emuli dei Radiohead. No, non ha ancora incontrato Madonna, tant'è che secondo Dom lei non sa neanche di averli messi sotto contratto. Il pugno sferrato a mezzo stampa fu modesto, ma lasciò comunque il segno. Il 21 giugno i Muse erano a Wolverhampton quando seppero che Uno si era piazzata al numero 73 in classifica senza quasi alcun passaggio radio al di fuori di The evening session. Magari l'urlo del ritornello "You could've been number one" non avrà avuto ragione, ma ormai l'interesse della scena alternativa nazionale si era acceso. Quattro giorni dopo, quando all'una di un torrido pomeriggio misero piede sul palco delle nuove band al Festival di Glastonbury (che all'annuale festival hippy più leggendario del Regno Unito non era esattamente la più prestigiosa fra le posizioni) ai loro occhi apparvero moshpit pieni di fan della prima ora e, dietro di essi, circa 3mila amanti dell'indie che allungavano il collo, curiosi di vedere cosa fosse tutto quel trambusto Per i Radiohead del Devonshire. L'attenzione e il posto in classifica di Uno resero Matt, Dom e Chris più sicuri di sé, guidandoli per un pugno di date nei festival in Germania (al Southside Festival di Neubiberg e all'Hurricane Festival di Sheessel) fino a un tumultuoso concerto al 100 Club di Londra, che Matt definirà in seguito come il suo show preferito dei Muse. Tre giorni dopo, ancora carichi di adrenalina, ripeterono l'esperienza di Glastonbury al festival scozzese T In The Park, un evento stracolmo di gente e di aspettative che i Muse conquistarono con la ferocia e la lungimiranza della loro ambizione rock. Le folle erano sempre più vaste, la stampa martellante, le classifiche sul punto di cedere, i tour a getto continuo. E, poco a poco, le cose iniziarono a sfuggire leggermente di mano... * * * Il 15 luglio, l'enorme tour bus che i Muse chiamavano casa fece il suo ingresso a Portsmouth per aprire un tour di sette date da co-headliner insieme alla poppunk band anglo-olandese Cay, che i Muse, stando a quanto sostiene Matt, conoscevano ormai bene perché avevano già suonato con loro parecchie volte, anche se i dettagli di tali show si sono persi nelle nebbie del tempo. Quella che si trova bordo, a fumarsi canne e ad ascoltare Nirvana, Travis, Deftones e Tom Waits, è una band su di giri ma tesa (erano appena tornati dal loro secondo show in Francia, un evento radiofonico al club New Morning di Parigi, capienza 500 persone). Si prospettava un tour claustrofobico. Tutti quei corpi accalcati nei piccoli locali significavano che Matt non aveva mai suonato così vicino al suo pubblico prima d'ora, specie al Foundry di Birmingham, osannato corridoio dove i Muse si esibirono su un palco alto mezzo metro, incastrato in un'alcova accanto al bancone del bar. Quel tour sarebbe stato carico di tensioni schiaccianti, ciascun membro del terzetto con i propri tempi personali. Consapevole delle opportunità che si offrivano alla band, Matt teneva così tanto a non scazzare durante gli show che prima di ogni concerto si raccoglieva in sé stesso, incapace di gestire le grandi folle e nervoso fino alla nausea. Tutto svaniva nell'attimo in cui metteva piede sul palco, devastandolo con performance energetiche e violente: chitarre lanciate da una parte all'altra, batterie fatte a pezzi, ferite scampate per un soffio. Dopo gli show era molto più rilassato ed esuberante, ma poi c'era Chris, la cui ragazza era a un passo dal partorire, che spesso si defilava per tornare a Teignmouth, scusandosi e guidando come un pazzo per arrivare a casa in serata. Inoltre, per la prima volta era costantemente presente un giornalista della stampa musicale, pronto a riportare ogni malefatta o commento pungente. La loro ingenuità fu messa a nudo quel pomeriggio stesso, quando Chris confidò a un


giornalista del «Portsmouth News» che, per un adolescente, Teignmouth era un posto spaventoso in cui vivere: morto d'inverno, pieno di turisti in estate e adatto solo alle esigenze dei pensionati. Questione di qualche mese e quelle parole torneranno a dargli il tormento nel più comico dei modi. Con alcol e droga che scorrevano a volontà, alcuni incidenti resero il tour più vivace. A Birmingham, Matt si convinse che un giornalista di «Melody Maker» avesse teso un tranello ad Anet, cantante dei Cay, facendola ubriacare così tanto prima dello show che quella era caduta giù dal palco, e giurò che in futuro non avrebbe mai permesso ad alcun giornalista di viaggiare con i Muse. Per l'eventuale scribacchino addetto all'incarico fu un'occasione mancata, poiché, mentre erano diretti a Leicester per la serata successiva, il tour bus andò in panne e la band improvvisò un set acustico nello spiazzo antistante la stazione di servizio di Leicester Forest East, davanti a un pubblico scelto di camionisti delle Midlands. Per l’inevitabile data al Cavern di Exeter la band fu l'immagine della professionalità, e dopo il concerto28 rilasciarono un'intervista per il pubblico americano prima che Chris volasse a casa per stare con la sua nuova famiglia. La sera dopo, al Lomax di Liverpool, erano una formazione logora e indomabile, con Matt che percuoteva la chitarra così forte da spezzarle tutte le corde. L’odore di rivolta era nell'aria. Cinque giorni e cinquemila miglia dopo, accadde davvero. SAFTA JAFFERY Qual era l'accordo fra i Muse e la Taste Media? Nel 1998, i Muse hanno firmato con la Taste Media un contratto per sei album, a ridosso della loro apparizione all'In The City di Manchester. In base agli accordi, io e Dennis avremmo fatto da manager alla band, ma gratis, perché ci avevano concesso i diritti di registrazione e pubblicazione. Sia i Muse che la Taste Media avevano il controllo su ogni aspetto creativo e su ogni prodotto della band, dall'incisione del materiale alla realizzazione dei videoclip, dalle illustrazioni all'organizzazione dei numerosi tour. Avevo escogitato un sistema per cui, qualora i Muse avessero voluto registrare qualcosa o girare un video, ogni titolare di licenza territoriale aveva l'obbligo contrattuale di versare la propria percentuale sulla quota di mercato, prestabilita in termini finanziari, per permettere alla band di realizzare i propri obiettivi in ogni determinato progetto. Ogni territorio, inoltre, tramite la garanzia di un minimo supporto finanziario, avrebbe permesso alla band di andare in tour a piacimento nella propria area di competenza qualora se ne fosse presentata l'occasione. Secondo questo schema, nessuna etichetta in particolare doveva accollarsi il cento per cento di nessuna spesa, offrendo il proprio contributo solo quando necessario. Era particolarmente importante, perché ci eravamo subito accorti che sarebbe stato grazie agli show dal vivo e ai tour che i Muse avrebbero raccolto fan e seguaci. La loro produzione iniziale era troppo impegnativa e alternativa per le radio commerciali, e siccome in quel periodo erano, e sono tutt'ora, pochissimi gli sbocchi radiofonici che la band aveva a disposizione per far sentire la propria musica nel resto del continente europeo, fuori dai confini del Regno Unito, l'investimento andò tutto in tour, studi di registrazione, videoclip e progetti grafici. Quello della Maverick è interessante, perché è quello che non è mai decollato. L'accordo con la Maverick era buono. Quando li ho portati a vedere la Columbia Records c'era una ragazza di nome Nanci Walker, che adesso lavora alla Universal Music di LA, e se non fosse stato per lei non avremmo neanche iniziato. È grazie al suo entusiasmo che ci hanno convocati a Los Angeles. Abbiamo fatto quel concerto al molo di Santa Monica, ed è stato di mattina perché la Columbia voleva che Rick Rubin vedesse la band. Lui stava mixando Tom Petty, e quello era l'unico momento che aveva libero. Dove ha avuto esattamente luogo il concerto? Proprio sul molo. Era una cosa al chiuso, sul molo c'era una piccola struttura. C'era il tetto, ma non era un concerto tradizionale. Se ci trovavamo lì, era solo per il senso dell'umorismo della Columbia. In cosa l'esperienza americana si è rivelata diversa dall'Inghilterra, dove all'In The City di quell'anno non si era registrato particolare interesse?


Era l'apoteosi del brit pop e tutti avevano deciso che le guitar band erano finite. E sebbene tutti reputassero i Muse una delle migliori tre band dell'In The City, non c'era neanche un talent-scout su di giri per la loro musica. Li ho fatti vedere a tutti, anche dopo l'In The City, in occasione dello show al Barfly e di quell'altro al 100 Club. Ho portato tutti quelli della divisione A&R con cui ero in contatto ma nessuno ha raccolto l'idea, tutti mi guardavano e dicevano: "Non ci sono i presupposti". Ecco perché ho detto a Dennis: "Fammi andare in America, non ci faremo fermare qui. Andiamo in America e vediamo che succede". Poi sono andato in America con tutti questi pacchi, e lì ho trovato davvero un bel riscontro. La gente era ricettiva perché da quelle parti andavano band come Deftones e simili. Il sound [dei Muse] era più in linea con ciò che stava accadendo in America. Era troppo spigoloso e sofisticato per questo Paese. I talent-scout americani sembravano capirlo. Ho avuto delle reazioni veramente positive da quegli incontri. Eri praticamente pronto a firmare con la Columbia prima che saltasse fuori la Maverick, giusto? Esatto. Durante il concerto al molo di Santa Monica Rick Rubin li ha trovati grandiosi. Mi è venuto incontro sussurrandomi all'orecchio: "Sono assolutamente geniali, cazzo. Hai scovato i Beatles del ventunesimo secolo". Testuali parole. E poi aggiunge: "Ce la fate a trattenervi in città, ragazzi? Voglio fare un'uscita insieme". Avevamo il volo fissato più tardi, nel pomeriggio. L'altro tizio che si trovava lì era uno di nome Tim Devine, il capo della divisione A&R della Columbia, e appena vede la reazione di Rick dice: "Ok, cambieremo i voli. Voi ragazzi potrete restare un altro paio di giorni". Torno in albergo e c'è un messaggio da parte di Guy Oseary, uno dei talent-scout che avevo visto nel mio primo viaggio in America, in cui mi dice: "So che siete in città. Dovete esibirvi per me", e io gli rispondo: "Non possiamo. Stiamo spendendo i soldi e il tempo della Columbia", e lui: "Be', se non suonate per me vi faccio tornare qui con il volo della settimana prossima!“. Allora penso: "Oh cazzo, e chi ne ha voglia, dopo tutta questa strada?". Gli dico: "Aspetta che ti richiamo", e contatto Tim Devine dicendogli: "Guarda, dobbiamo esibirci per un'altra etichetta. Per te va bene?", e lui: "No, non ci sta bene, siete qui a spese nostre". Gli dico: "Mettiamo che riesca a convincere l'altra etichetta a pagare le camere d'albergo per i due giorni extra...", e lui non era ancora contento, ma tanto avevo appena deciso che l'avremmo fatto. Così richiamo Guy dicendogli: "Ok, ecco l'affare: tu paghi le camere d'albergo e i voli di ritorno in business class, noi suoniamo!”. Lui ha acconsentito e il giorno dopo c'è stato lo show per la Maverick. Guy si presenta con Steve Jones, e dopo la seconda-terza canzone li ferma e dice: "Ecco perché sono nel giro della musica: voi ragazzi fate paura. Siete grandi". Eravamo in una sala prove. Il giorno dopo mi chiama: "Ascolta, hai la migliore band del mondo. Voglio davvero metterli sotto contratto. So che anche la Columbia è interessata, ma ti garantisco che vi darò tutto ciò che volete. Ecco il numero del mio avvocato". Io mi segno il numero, passandolo al mio avvocato di laggiù, e quelli ci hanno letteralmente dato tutto ciò che volevamo. Era incredibile per una band che nessuno voleva. Quando gli ho spiegato che era solo per l'America non mi è sembrato felice, ma poi ha detto: "Se è l'unico modo per averli, allora ci sto". Dopo quest'episodio, dunque, tutti gli altri territori sono scivolati al loro posto? Sì, e il Regno Unito è stato l'ultimo, perché il contratto successivo l'ho stipulato con Tim e Petra della Universal, in Germania. Tim era il vecchio amico di un amico, aveva un trascorso alla divisione A&R della Polydor Records e in passato avevamo fatto dischi insieme, quindi ci si conosceva. Già sapeva che stavo lavorando con la band e già aveva dimostrato interesse, quindi è stato lui il contratto successivo. Dopodiché c'è stata una nuova etichetta francese chiamata Naive, un'etichetta totalmente indipendente fondata da Patrick Zelnik (a capo della Virgin France per diciotto anni), il cui capo della divisione A&R era Frederic Rebet, già alla Sony Music dove avevamo lavorato insieme a qualche progetto, e anche loro ci hanno concesso l'accordo che volevamo. Quindi la Naive e poi il Benelux, dove li ho fatti firmare con la Play It Again Sam, direttamente tramite Kenny Gates e Leo Van Schack. Poi dovevamo firmare per un'etichetta [inglese] chiamata Disco Vaiarne, ve li ricordate? Era gestita da Andy Ferguson, il manager degli Undertones, e Julian Palmer. Ma siccome erano legati alla Sony, ogni volta che mi spedivano un promemoria dell'accordo era


qualcosa come cinquantacinque pagine, ed era completamente diverso da ciò che avevamo stabilito. In quel periodo stavo anche negoziando un accordo con un tale di nome Michael Parisi, capo della divisione A&R della Mushroom australiana. Amava la band, secondo lui erano dei fottuti geni, e credeva che Korda fosse stato un segaiolo a rifiutarli. Così gli ho detto: "Ok, lascia perdere l'Inghilterra, farò l'accordo con te per l'Australia". In quel momento mi trovavo a LA, e dato che Korda stava atterrando proprio lì dall'Australia ci siamo incontrati allo Sky Bar del Mondrian. Si parlava dell'accordo per l'Australia. Lui si è voltato, dicendo: "E l'Inghilterra?", e io: "Ma non eri tu quello che non la voleva, l'Inghilterra?", e lui: "Be', adesso invece la voglio". Allora gli ho detto: "Korda, io ti conosco, tu cambi idea ogni tre cazzo di settimane!". Poi ho scritto i termini dell'accordo su un tovagliolo e gliel'ho fatto firmare. Quel tovagliolo ce l'ho ancora. E quello è il contratto. Era risentito nei miei confronti, perché l'accordo si è rivelato fantastico per noi ma ridicolo per loro. Gli avvocati hanno dovuto decifrare il tovagliolo, ed ecco com'è andata a finire nel Regno Unito. E se devo essere sincero, ringrazio anche Dio. Sapevo che la Mushroom era la nostra scommessa migliore e Korda il socio giusto con cui mettersi in affari, perché appena è salito a bordo ha capito al volo la situazione. Come avete finanziato SHOWBIZ? Tramite l'accordo con la Maverick. Era un accordo di ferro per due album. L'anticipo era piuttosto discreto, e già mi ero fatto l'idea che avrebbe spesato il primo album. E l’hai scelto tu, John Leckie? Diciamo che John era già a bordo. Aveva visto per la prima volta la band al Water Rats insieme a me, e gli avevo già fatto sentire tutti i demo. Dopo lo show al Water Rats era già entrato in buoni rapporti con Matt. È venuto al CMJ solo per darci una mano, sul serio. John era già a bordo, era solo questione di trovare la giusta etichetta con cui accasarsi in modo da poter fare le cose alla sua maniera. Eri soddisfatto del disco? Assolutamente. Credo che sia riuscito davvero bene. Il contributo da parte nostra è stato minimo. Ci fidavamo in pieno di John e la band si fidava di lui: sono entrati in studio e l'hanno fatto. PAUL REEVE Cosa ne pensavi di SHOWBIZ, a prodotto finito? Che era un bel disco d'esordio. Non riuscivo a credere di aver lavorato con John, perché lui era e rimane uno dei miei miti, quindi nel mio caso l'intera esperienza ruotava sia intorno a lui che intorno alla band. Quando finisci un disco per un po' di tempo non ce la fai proprio ad ascoltarlo, ma quando l'ho ripreso in mano mi è sembrato buono. Credo tutt'ora che sia un album ottimo e potente, e anche il loro disco più sincero. Ne ero orgoglioso, ero fiero del mio contributo. Il tuo contributo aveva più a che fare con le canzoni pop pure e semplici, mentre con John tendevano ad addentrarsi in territori più sperimentali, come hanno ribadito con ORIGIN. È il mio lavoro. Io scrivo canzoni, e adoro la struttura della canzone pop. Infatti hai ragione, a essere sinceri non ci avevo fatto caso. Il prog, che immagino sia ciò che sono ora, non è il mio mestiere. Cose come Uno e Unintended per me sono pezzi pop stupendi. Ricordo ancora una conversazione tra me e Matt in cui cercavo di convincerlo a registrare Unintended, e lui, nel classico stile alla Matt, ha risposto: "Oh, ma di pezzi così ne ho già un casino!”. Pensava che fosse troppo adulta. Era leggermente fuori contesto con ciò che facevano, ma adoro quel lato compositivo di Matt. Spero che un giorno, in futuro, torni a rispolverarlo, perché di autori di pezzi pop come lui ce ne sono pochi in giro. MATT BELLAMY Era il periodo in cui ci sballottavano da una parte all'altra con limousine e aerei privati, ed era tutto fin troppo prematuro perché avevamo prodotto un solo disco. Mi sembrava un po' strano, ma di sicuro c'erano i presupposti per fare strada. Il periodo in cui tutto è andato storto e sono tornato a imbiancare e decorare è stato una fonte d'ispirazione. Mi ha dato da pensare che, se eravamo riusciti ad ottenere quell'effetto, anche se era una grande bolla di sapone,


forse avremmo potuto riuscirci di nuovo. Potevamo permetterci di volare in aereo solo da qualche anno. Girare il mondo in limousine e in aereo a diciotto o diciannove anni ti lascia a bocca aperta, ma è stato solo dopo sei anni che ho pagato di tasca mia un viaggio! Un sacco di gente diceva: "Diventeranno enormi", e io pensavo: "Forse, ma non al primo album". Trovavo spaventosa l'idea di raggiungere l'apice a vent'anni, con il primo album, perché da lì in poi ci sarebbe stato solo il declino. Capitolo tre Ogni generazione ha la rivoluzione che si merita, dicono. Nella società repressiva degli anni Sessanta, ribellione significava permissività, esemplificata dal movimento dei figli dei fiori e incastonata in un piovoso e sfrenato weekend d'agosto del 1969 a Bethel, stato di New York, durante il Festival di Woodstock nella fattoria di Max Yasgur. Accorsero in mezzo milione per tre giorni, stufi di una società rigida e inamidata e dell'insensata brutalità del Vietnam, per togliersi i vestiti, il vuoto, le inibizioni di dosso. Ma nella società permissiva degli anni Novanta, ribellione fu sinonimo di violenza. La prima grande riedizione di Woodstock del 1994 si trasformò in un'ottusa e scalcinata battaglia di fango, e nel 1999 la gioventù post-punk americana, satura dell'insensata brutalità della Guerra del Golfo, politicamente lobotomizzata da un'informazione guerrafondaia a senso unico e ubriaca del nichilismo nu metal dei Limp Bizkit si diede appuntamento alla Menffiss Air Force Base per il Woodstock della loro generazione. Come i loro genitori, anch'essi volevano la loro ribellione. Ma la libertà che chiedevano era quella di sbronzarsi e spaccare tutto. La logistica dell'evento non fu di grande aiuto. Ambientato in una discarica per rifiuti pericolosi da organizzatori decisi a spremere quanti più soldi possibili da quel weekend (una filosofìa in netto contrasto con gli ideali di controcultura del festival originale), i prezzi dei biglietti erano alti e non era permesso introdurre acqua o cibo dall'esterno. Dopo un'accurata perquisizione ai cancelli, ai possessori dei biglietti venivano confiscate le bottiglie d'acqua prima di farli entrare in uno spiazzo di cemento senza alcun riparo dalla calura asfissiante, dove avrebbero scoperto che i venditori autorizzati ti facevano pagare quattro dollari una bottiglietta d'acqua, dodici una pizza e quindici un sacchetto con del ghiaccio. Quando i commercianti chiesero agli organizzatori il permesso di abbassare i prezzi questi si rifiutarono, sostenendo che ci sarebbero state perdite di profitto. I due palchi erano posti a grande distanza l'uno dall'altro e le toilette, in numero insufficiente rispetto ai presenti, iniziarono a tracimare e furono rovesciate dai fan infuriati, che sradicarono dal terreno anche le tubature dell'acqua. Le band in cartellone, intanto, non erano l'ideale per conciliare un'atmosfera romantica e rilassata: Limp Bizkit, Metallica, Rage Against The Machine, Megadeth e Korn presero il loro posto accanto a nomi della vecchia guardia come Willie Nelson, Dave Matthews Band, George Clinton e Bruce Hornsby. Quando i Muse salirono sul palco principale in quella domenica di primo pomeriggio (l'ultimo di tre dispendiosi e sofferenti giorni per la folla che si trovava lì), si resero conto che il festival era al punto di rottura. L'area era ricoperta di rifiuti ed escrementi umani, il pubblico cantava slogan e picchiava tamburi in segno di protesta e in lontananza scoppiavano risse. Erano già stati accesi dei fuochi, anche se fu solo qualche ora dopo che Woodstock 1999 si disintegrò nel caos, quando i Limp Bizkit suonarono l'inno degli imbecilli Break Stuff con il cantante Fred Durst che scorrazzava in mezzo al moshpit usando un pannello di compensato strappato dalla torre del mixer come tavola da surf improvvisata. Durante il concerto di chiusura dei Red Hot Chili Peppers una torre di ritardo prese fuoco con le note di Under The Bridge, e in risposta a questo scoppiarono molti altri fuochi, fomentati dalla band che suonava Fire di Jimi Hendrix su esplicita richiesta della sorellastra di Jimi. Porzioni di folla accaldata e frustrata si abbandonarono a una furia distruttiva, facendo a pezzi o dando alle fiamme blocchi interi di toilette chimiche e strutture di fortuna, ribaltando e saccheggiando le roulotte dei commercianti e i bancomat. La troupe di MTV fu evacuata per ragioni di incolumità: il bilancio fu di trentotto arresti, quattro stupri e un morto. La gioventù degli anni Novanta aveva avuto la rivoluzione che si meritava. I


Muse, che avevano lasciato l'area un bel pezzo prima che cominciassero i guai seri, dichiareranno in seguito di essersi molto divertiti al festival, scherzando sul fatto che erano state le linee di basso di John Entwistle a far scoppiare la rivolta. Ma ripensando ai fatti di Woodstock 1999, Matt Bellamy intravide in quella rabbia e in quel frastuono un'America cieca e prepotente, succube e zimbello dei propri leader e media, arrabbiata e frustrata all'idea di essere l'ultimo gradino di una società sulla quale non aveva alcun controllo e impegnata a sbraitare contro un vago concetto di "autorità" nell'unico modo che conosceva. Tutto ciò gli diede da pensare. Quell'anno, a New York, quando Stephen Dalton di «NME» intervistò Bellamy, masticando un grosso sigaro in un albergo snob di Manhattan per provare sulla propria pelle il sogno dalla superstar americana, Matt fu improvvisamente aggredito da pensieri pericolosi. Stava per venire a galla un nuovo lato di Matt Bellamy: quello di un giovane uomo che non ha paura a definirsi tormentato, irrequieto e perseguitato dalle molteplici disgrazie del mondo. Fortemente influenzato dagli eventi di Woodstock 1999, inizierà a vedere una spirale discendente e i segnali di un'apocalisse alle porte nella cultura americana che lo circonda. "In giro c'è un sacco di paura. La gente prova a negarlo, ma c'è. Una volta finita, speriamo che accada qualcosa di positivo. Oppure qualcosa di estremamente negativo, ahahah! E allora sarà davvero TUTTO finito...". A luglio, sebbene i Muse non provassero più alcuna paura o disgusto al nono giorno della loro campagna elettorale americana, di sicuro notarono diverse altre sediziose imperfezioni nel make-up culturale della nazione. Il più clamoroso: l'indifferenza. Se fai parte di un gruppo emergente che non ha suonato in ogni pollaio e cortile d'America per due anni buoni o non ha una canzone di successo in radio, una colonna sonora cinematografica o un videogame, allora non sei nessuno. I Muse se ne accorsero in una serie di piccoli show a Boston, Chicago, San Francisco e Chicago, che culminarono con l'esibizione alla WEA Records Convention di LA davanti a una trentina in tutto tra dj e discografici a caccia di vibrazioni, praticamente le uniche persone in ogni benedetta città che avrebbero avuto motivo di sentirne parlare. L'eccezione fu al Brownie's, punto di ritrovo indie nell'Est Village di New York, quando le orde dell'industria discografica di Manhattan intasarono la lista degli ospiti, solo per poi disertare in massa il concerto all'interno del minuscolo bar. MTV aveva prenotato un tavolo. Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers gironzolava dalle parti del bancone. Per il resto c'era un briciolo di supporto grazie alla presenza di alcuni discografici e due fan paganti con un cartello che diceva: "Teignmouth". Il secondo difetto era la più dolorosa fra le tradizioni dei tour statunitensi, cioè i meet and greet con i dj. Dal momento che in America, a livello nazionale, non esiste alcuna stazione radio centrale sulla falsariga di Radio 1, il potere di lanciare le band è in mano ai dj delle radio locali e collegiali. Ci si aspetta, dunque, che le band in tour, beandosi di quel poco potere cui possono fare appello, facciano visita alle principali stazioni radio alternative di ogni città in cui fanno tappa, a ringraziare di persona il dj di turno per aver mandato in onda, o anche solo per aver pensato di farlo, il loro pezzo. Il guaio è che nessuno aveva avvertito i Muse. Fedeli alla loro tabella di marcia, si presentarono nella prima stazione radio del loro tour con le chitarre, convinti di suonare una session acustica. Scoprirono che non c'era uno studio, ma una sala riunioni con una lunga tavola imbandita di cibo e circa una dozzina di dipendenti che mangiucchiavano, ignorandoli. Quando chiesero a qualcuno dove avrebbero dovuto sistemarsi per la session, la risposta furono dei ghignanti, "Non dovete mica suonare!", e dei ringraziamenti a mezza bocca per aver offerto le pizze. Saltò fuori che la Maverick aveva rimediato quell'incontro per far sembrare che i Muse avessero comprato il cibo da asporto per tutto lo staff dell'emittente radio. Un altro paio di momenti imbarazzanti come questo e la Maverick organizzò delle vere session acustiche per i Muse. Quando arrivarono a LA erano debitamente prenotati per esibirsi nella trasmissione Morning eclectic della KCRW, da cui è stato tratto un bootleg dal titolo MUSE LIVE ON 89.9 KCRW RADIO - THE SHOWBIZ ACOUSTICS, con le versioni acustiche di Sunburn, Falling Down, Overdue, Uno, Cave, Unintended e Muscle Museum. L'Europa chiamava: dalla WEA Convention i Muse volarono dritti in Germania. Era dall'istante in cui avevano firmato i contratti europei che le etichette


interessate chiedevano a gran voce un tour dalle loro parti, e i Muse avevano in serbo grandi progetti. Doveva essere una scelta destinata a guadagnarsi il rispetto e la devozione del pubblico europeo, che si sentiva spesso ignorato o tradito dai propri gruppi inglesi preferiti, e i benefìci furono evidenti quasi da subito. Dopo uno scalo al Rees Haldern Pop Festival in Germania, i Muse approdarono nel pandemonio de La Route Du Rock di St Malo, per una giornata che avrebbe segnato la storia della loro carriera iniziale. Solo un mese e mezzo prima avevano suonato in uno show radiofonico parigino davanti a cinquecento avventori stupefatti. Quel giorno, 9mila persone si ammassarono a St Malo per vederli in azione. Emozionati dal consenso quasi istantaneo in Francia (specie dopo la sconfortante esperienza statunitense), per il successivo anno e mezzo i Muse andranno ripetutamente in tour per l'Europa, stimati e adorati da un seguito di fan agli occhi dei quali era come se la band volesse tornare all'infinito a suonare per loro. Appurato che il vecchio continente era il loro parco giochi, la band piombò a Colonia per una tre giorni di stravaganti concerti, dalla festa per il quinto anniversario dell'etichetta Motor a un party dopo concerto della Visions a un altro party in strada con tanto di troupe televisiva fino a un festival chiamato Bizarre. Smaniavano per esplorare ancora più a fondo questi nuovi, elettrizzanti territori, ma prima c'era bisogno di loro a casa. In fin dei conti, c'erano degli affari urgenti da sbrigare. A settembre Chris diventò padre di Alfie Wolstenholme, suo primogenito. Prima della nascita, quando la sua ragazza Kelly aveva proposto quel nome, lui aveva fatto storie perché gli sembrava un nome da spacciatore, ma non appena posò gli occhi su suo figlio, quel faccino impertinente lo convinse che era un Alfie. Quell'evento combaciò senza troppi attriti con l'inflessibile mappa del loro tour. L'unico problema che causò fu l'arrivo in ritardo di Chris al primo concerto in assoluto della band al Reading Festival. Anche se per i Muse era ovviamente una pietra miliare (ma ancora a un passo dall'"avercela fatta" come headliner sul palco principale), i suoi compagni di band capivano quando un treno in ritardo dopo una corsa a perdifiato strappato dalle braccia della propria ragazza significava accorciare la scaletta pomeridiana sul palco della Carling Premier (quello delle piccole band, che quel giorno era sommerso da fan convertiti e urlanti da Glastonbury e oltre). Se Chris, che aveva solo vent'anni, stava cogliendo in anticipo un'occasione per aggrapparsi all'età adulta e sistemarsi prima che la carriera dei Muse diventasse troppo turbolenta (circa in questo periodo smise anche di bere più del dovuto prima degli show, per non incasinare i pezzi sul palco), i suoi colleghi sfruttavano il successo della band per assecondare gli estremi opposti dello spirito. Le groupie venivano di solito spartite tra Dom (l'unico membro single dei Muse) e i roadie (molti dei quali assaporavano anch'essi per la prima volta il gusto della vita in tour), e Dom e Matt erano sempre più bendisposti verso un edonismo a base di alcol, droghe e potenziali malefatte. Mentre Chris era impegnato a comprare giocattoli per bambini, Matt comprava l'ultima trovata in fatto di giocattoli per ragazzi. Con il suo primo, autentico assegno si comprò uno zaino a propulsione. O perlomeno questa è la definizione da bava alla bocca che ne ha dato la stampa. Si trattava infatti di un paramotore, ovvero un parapendio (simile a un paracadute) con un'elica azionata da un motore da 50cc: se indossato, ti consentiva di fluttuare verso l'alto fino a un'altezza di 3.570 metri, ossigeno permettendo. Da quando aveva letto di un tale aggeggio, nei suoi momenti più Rocket Man Matt aveva sempre sognato di possederne uno. E quando i soldi cominciarono ad arrivare fu il primo regalo che si fece, al prezzo di 6mila sterline. Il piano era sorvolare i festival con un enorme striscione che gli svolazzava alle spalle con su scritto "Venite a vedere i Muse", o di portarselo in tour negli Stati Uniti e volarci nel Grand Canyon. L'avrebbe spinto fino a 3mila metri, per poi spegnere il motore e fluttuare giù nell'abisso. Per qualche anno, nelle pause fra un tour e l'altro, portò il paramotore nel Kemble Airfield, nell'aeroporto di Cotswolds, dove raggiungeva i mille metri ruotando su sé stesso mentre decollava per poi volare a piacimento. Fu il più bel momento della sua vita, come trovarsi sul gradino successivo della scala evolutiva; un balzo in avanti rispetto a quella subumanità che sfasciava WC chimici a Woodstock. Ma superati i mille metri le cose cominciavano a farsi un pò sfocate, e Matt non trovò più il tempo di completare le sue lezioni. L'immersione subacquea si sarebbe gradualmente imposta come suo hobby estremo


preferito. Laltra faccenda da sbrigare nell'autunno 1999 fu qualcosa di più concreto. Durante un concerto al Borderline furono avvicinati da una band americana che si chiamava anch'essa Muse e deteneva i diritti per l'utilizzo del nome negli spettacoli dal vivo. La Taste Media ingaggiò dunque una corrispondenza transatlantica per assicurarsi che i Muse americani, in procinto di sciogliersi, cedessero loro i diritti sul nome (e così fu). Safta era inoltre in trattative avanzate per finalizzare gli accordi sulla distribuzione dei Muse in Giappone e Benelux, da aggiungere ai quattro già esistenti, allargando così ulteriormente la propria rete di conquiste globali. In più c'era da filmare la loro prima esibizione in uno studio televisivo per Canal + a Parigi (dove suonarono Uno) e le cinque date di un tour britannico minore per stimolare la più grande fetta di mercato a portata di mano. La Cave in versione album uscì come singolo diviso in due Cd il 6 settembre29. Nel primo c'era un remix del brano stesso e di Twin, come avevano ribattezzato, dopo averlo ri-registrato, il pezzo Balloonatic dalla compilation HELPING YOU BACK TO WORK: VOLUME 1; il secondo ospitava Coma, dal MUSE EP, e Host, un nuovo pezzo dalla tematica, piuttosto familiare, di chi supplica per essere liberato da una relazione (o un luogo) che risucchia l'anima. Mentre i Muse saltavano su un volo per l'America, dove sarebbero iniziate tre settimane di serrate interviste promozionali per reclamizzare il loro disco d'esordio (con tanto di concerto al SOB'S di New York City), il singolo conquistò senza troppo rumore il plauso della stampa rock, che lo elesse Singolo Della Settimana, e si piazzò al numero 53 in classifica, strisciando abbastanza vicino alla Top 40 da farle sentire il fiato sul collo. Dopo quasi un anno di preparativi era giunto il momento della grande spallata. Come dicono nei più affettati circoli dell'intrattenimento, era l'ora dello show. Il 4 ottobre 1999, il primo album dei Muse SHOWBIZ fece un atterraggio di fortuna in un paesaggio rock alquanto desolato30. Il disco, schivando ogni incasellamento diretto da parte della critica, rimase intrappolato tra due fuochi. Quei riff come colate di lava e quel pop accattivante ne facevano il figlio bastardo del nu metal? In tal caso, gruppi come Korn, Limp Bizkit e Slipknot (un branco di schizzati con tute numerate e infernali maschere di Halloween, che istigavano al casino e si portavano appresso dei barattoli con dentro corvi morti dai quali inspiravano a fondo quando volevano "spaccare dal vivo") avevano reso quel genere, agli occhi della stampa mainstream, un avvilente passatempo nel migliore dei casi, e una barzelletta di cattivo gusto con un cappellino da baseball nel peggiore. Nel retro di copertina si vedevano i Muse vestiti di nero, e poi suonavano rock chitarristico epico e lirico come in THE BENDS: che fossero i nuovi Radiohead? In tal caso erano in ritardo di quattro anni. Gli stessi Radiohead, due anni prima, avevano voltato le spalle a simili barocchismi con OK COMPUTER, e stando alle voci di corridoio erano nel bel mezzo di un album sperimentale e minimale, roba da computer portatile. L'alternative aveva perso il gusto per le chitarre rock pompose, e ora si consolava con dei bravi ragazzi in cardigan e cappelli lanosi appollaiati su uno sgabello. Le copie dell'album inviate ai giornalisti non passarono di sicuro inosservate: il Cd era racchiuso tra due riquadri di plexiglass fissati al centro da un dado e un bullone in plastica, e sul davanti31, attaccata con del nastro adesivo, c'era una minuscola chiave inglese. Ma com'era prevedibile, pur evitando l'affondo letale della critica, SHOWBIZ rimase spesso ferito dai suoi fendenti. La foto con la band vestita di nero e l'aria compassata, insieme All’enigmatico artwork di una dama spaziale senza volto con un vestitino bianco che posa il piede in una pozzanghera vulcanica su un pianeta lontano fatto di fuoco e ghiaccio fomentavano accuse di presunzione e insinuavano il sospetto che la band nascondesse un'anima cyber-gothic. Alcuni recensori trovarono irritante l'angoscia raffazzonata dei testi di Matt, altri notarono il loro appeal universale: erano abbastanza rock per i metallari, abbastanza orecchiabili per gli amanti del pop e abbastanza avviliti per i fan dell'indie. Suede, Nirvana, Mansun e (oh, come no) Radiohead erano i nomi che saltavano puntualmente fuori. Per le Parole "uber-anthem wagneriani" fu l'inizio di una residenza decennale nelle recensioni dei Muse, e raramente i giudizi si avventuravano troppo oltre il "6 su 10". SHOWBIZ ricevette uno svogliato pollice


semi-alzato, e i recensori, cauti ma incuriositi, vi si avvicinarono come uno si avvicinerebbe al corpo pulsante di un alieno travolto da un'automobile. Senza un pestaggio stronca-carriera da parte della critica e senza un generale ed entusiastico tripudio di fellatio recensorie, che li avrebbe visti crogiolarsi sotto le luci della celebrità per sei mesi come i cocchini della stampa prima di sparire nel nulla per sfuggire alla notorietà, SHOWBIZ scivolò al numero 69 nella prima settimana dalla sua uscita, acquistato da ogni membro del rabbioso seguito dei Muse e praticamente da nessun altro. La notizia li raggiunse mentre erano in tour come supporter degli Skunk Anansie in locali di media grandezza come l'Academy, e per Matt, Dom e Chris lentamente si profilò la verità sulla loro situazione e sul lavoro che li aspettava in futuro. Se grazie alle esplosive performance live stavano racimolando fan, e i fan erano gli unici che compravano il loro album, avrebbero dovuto macinare tour dopo tour dopo tour, come se le loro vite dipendessero da quello. E sembrava che le cose, giunti a quell'incerto snodo sulla strada per il successo, stessero proprio così. Ma c'erano notizie favolose in serbo per loro. Bastava solo sfogliare qualche altra pagina dei programmi per i tour che gli spedivano con sempre maggior regolarità, tour che sconfinavano ormai nel nuovo millennio e concedevano a malapena una sosta per riprendere fiato. I dati di vendita in Francia (dove SHOWBIZ era arrivato nei negozi già da un mese e termini come "cinismo e "caccia alla scena musicale" giocavano un ruolo marginale nel lessico dei recensori) mostrarono che l'album, a quota 35mila copie e in ascesa, stava vendendo cinque volte più veloce che in Gran Bretagna. Basta con la storia del "costruirsi un seguito di fan a livello locale". Era giunto il momento di dare alle etichette europee ciò che volevano. * * * Sostenere che i vari tour europei dei Muse fra lo scadere del 1999 e le soglie del 2000 furono tempestosi sarebbe minimizzare le circostanze. Erano di volta in volta elettrizzanti, saturi, travolgenti, ebbri, violenti, entusiasmanti e stramaledettamente divertenti. E i Muse andarono a un passo dal perdere la testa. La prima cosa che li lasciò di stucco furono le masse: sciami di persone, grandiosi e urlanti. Agganciatasi a un breve tour dei Pavement in Germania, e poi a uno francese sponsorizzato dalla rivista «Les Inrockuptibles», la band rimase sbalordita dall'accoglienza. Nelle date dei Pavement al club Logo di Amburgo, al Knaack di Berlino o all'Incognito di Monaco, una cospicua fetta di pubblico era venuta per vedere loro, piuttosto che la sghemba cricca alternative rock di Stephen Malkmus, mentre le cinque date del Les Inrockuptibles Tour ebbero inizio con il loro nome, scandito da interi locali stracolmi di gente, per finire nel caos totale. Partiti a razzo da una session acustica per la radio parigina Oui FM in data 11 ottobre, arrivarono all'MCM Café per un concerto trasmesso sul canale MC per accorgersi che dentro il locale erano ammassate 500 persone, e in strada ce n'erano altrettante che sbraitavano per entrare. Il concerto in sé sfiorò la sommossa, con i fan che cadevano sul palco dal centro della calca. Scene simili si ripeterono durante uno show all'interno di un Virgin Megastore, dove in centinaia non riuscirono a superare l'ingresso. In mezzo a tutta questa bolgia, forse la Francia si era persa un importante passo evolutivo nel songwriting di Matt. Durante il tour, infatti, avevano suonato diversi pezzi nuovi destinati a fare da B-side (Recess, Do We Need This?, canzoni che solo i fan più maniacali e sfegatati adoravano), ma la sera prima, a Toulouse, cera stata l'anteprima di un nuovo brano intitolato Nature_1, primo esempio di Matt alle prese con tematiche apocalittiche. Rivolgendosi a un'amante, a un Dio, a un personaggio politico o forse a se stesso (a seconda della vostra interpretazione), Bellamy paragona questo brano su una relazione incrinata a un terremoto, una diga che cede, un disastro naturale. Dopo aver visto un po' di mondo, era evidente che le sue ansie stessero assumendo proporzioni globali. La seconda cosa che scioccò i Muse fu la loro capacità di toccare il punto di rottura. L'ulteriore pressione di un pubblico più grande spingeva occasionalmente oltre il limite un Matt nervoso, antisociale e sempre più ossessionato dal controllo prima di ogni show. Abbinato con il turbine di alcol, droghe leggere e lo spaesamento da "giorno della marmotta"32 tipici della vita in tour (oltre alla confusione di capire quale fosse il suo posto in questo


nuovo e vertiginoso mondo del rock), Matt cominciò a sentirsi meno in sincronia con il mondo esterno. Gli si appannava la vista a intervalli regolari, spesso dopo i concerti faceva perdere le sue tracce (andava in città con i fan o tornava nella sua camera d'albergo portandosi dietro l'alcol) e quand'era esasperato dagli errori della sua squadra di roadie (gente perlopiù senza esperienza e a volte confusionaria: non dimenticatevi che erano soprattutto amici del Devon e senzatetto raccolti per pietà) veniva a galla la sua collera. Una sera a Vienna, accecato dalla rabbia, Matt spinse il carrello di un amplificatore attraverso il locale in direzione di Chris. Lo mancò, centrando al suo posto il banco di mixaggio, per un danno di migliaia di sterline (in seguito a quest'incidente, ai Muse fu proibito noleggiare di nuovo attrezzature musicali in Austria e Germania). Al termine di molti concerti la sua chitarra e il suo ampli erano da buttare, e lo stesso valeva per la batteria di Dom, dopo che ci era passato in mezzo come un derviscio distruttore. Matt non stabiliva mai a priori di demolire strumenti o attrezzature, ma se il concerto sprigionava una vibrazione negativa o distruttiva, allora cercava di far vomitare pura rabbia alle chitarre, che semplicemente non reggevano quel trattamento. Buona parte della loro strumentazione non fece più ritorno integra dall'Europa. E poi c'era l'enormità di tutto ciò. Il 16 novembre, su invito di Anthony Kiedis, i Muse fecero da supporter ai Red Hot Chili Peppers al palasport di Parigi-Bercy. Se si parla di locali al coperto, è difficile trovare qualcosa di più grande del Bercy. Con una capienza di 10mila persone e una parete di fondo distante anni luce dal palco, è l'equivalente di uno stadio con sopra un tetto, un baraccone capace di intimidire anche le band più navigate. Quella fu una giornata surreale, per i Muse. Nel tragitto da Colonia (dove avevano suonato altri concerti con i Pavement) a Parigi, il loro tour bus si era guastato, sputacchiando fumo nero e lasciandoli in mezzo a una foresta che li aveva catapultati in un incubo alla Blair witchproject. Finalmente arrivati, fecero un salto nel camerino di Flea (il bassista dei RHCP) per dirgli ciao, ma lo trovarono assorto in meditazione. Misero allora piede sul palco più grande su cui avessero mai suonato, decisi a spazzar via la parete di fondo con sfuriate selvagge durante il pezzo d'apertura Uno, ma furono costretti a restarsene impalati ai propri posti per via di problemi ai cavi. Tuttavia, questa e le altre date insieme ai RHCP all'Alsterdorfer Sportshalle di Amburgo e al Patinoire di Bordeaux tirarono fuori la grande band che c'era in loro. Se suonare per gran parte dell'anno come gruppo spalla davanti a un pubblico ristretto e disinteressato li aveva resi introversi, al cospetto di un pubblico così sterminato e partecipativo i Muse erano liberi di abbandonare ogni inibizione, di essere più estroversi e farsi due risate, come nella palestra del TCC. L'eco del palasport aveva un suono rassicurante, familiare. Si sentivano quasi a casa. Se aveste detto ai Muse che nel giro di due anni sarebbero stati loro gli headliner al Bercy sarebbero scoppiati a ridere. Ma in fondo avrebbero anche potuto credervi. In quel periodo, comunque, la cosa cui non riuscivano a credere era aver conosciuto Dave Grohl. In cartellone al Bercy c'erano anche i Foo Fighters, la band dell'ex batterista dei Nirvana, e i Muse, vittime del fascino della celebrità, non persero tempo a rinfacciarlo dopo lo show. Invasero il camerino dei Foo e si sedettero a bere qualcosa insieme all'adorabile dio del rock ("Dovrò nacarmi come uno stronzo per essere bravo quanto voi, stasera!” fu la memorabile esclamazione di Grohl), prima di volatilizzarsi in sua compagnia per quattro ore. Quando riapparvero, giusto in tempo per saltare sul bus in direzione Bordeaux, Matt era talmente ubriaco che non riusciva a parlare, Chris stava per addormentarsi in piedi e Dom tracannava una bottiglia di Jack Daniels con un sogghigno che gli andava da orecchio a orecchio. Sarebbe stato l'inizio di un'amicizia favolosamente fuori di testa. Se questa gita europea selvaggia e rivelatrice lanciò i Muse in orbita, fuori da questo mondo, qualcosa stava comunque per scaraventarli di nuovo giù, a Teignmouth. * * * Si aspettavano che il loro ingresso nel Devon, a novembre, sarebbe stato il ritorno degli eroi. I ragazzi di casa hanno sfondato, sono la prima band che fa il salto da Teignmouth fin nella pacchia del continente. In fin dei conti, era una settimana di festeggiamenti. Avevano appena suonato al


Bercy davanti a 10mila nuovi fan esterrefatti, e due giorni prima era uscito il singolo del loro miglior brano. Il 22 novembre, MUSCLE MUSEUM aveva ricevuto una ben meritata confezione con doppio Cd. Il primo conteneva una versione live acustica del suddetto brano più Do We Need This, tre sinistri accordi di pianoforte e percussioni33 per un brano strisciante, che si tuffava nella canonica esplosione di riff del ritornello parlandoci, a quanto pare, della natura effimera della celebrità ("She only exists when she's on screen" - "Lei esiste solo quand'è sullo schermo"). Nel secondo Cd figurava Pink Ego Box (precedentemente intitolata Instant Messenger) e un climax di distorsioni e strepiti chiamato Con-Science. MUSCLE MUSEUM segnò l'inizio di una maratona in cui la band firmò quasi tutte le copie in vinile, al punto che una copia rimasta senza firma è ritenuta dai collezionisti un pezzo ancor più raro. Un Matt scherzoso e in vena di dispetti scarabocchiò su diverse copie del singolo il numero di cellulare di Dom, casomai i fan avessero voluto dargli un colpo di telefono. Dopo una valanga di messaggi vocali pieni di risatine, Howard cambiò numero. Con le vendite di SHOWBIZ stabili e la sensazione che il grande momento dei Muse stesse per arrivare, la Taste Media/Mushroom assestò a MUSCLE MUSEUM una bella spinta promozionale realizzando due video34. Il primo è un montaggio di concerti europei per i canali di musica pop che si rivolgevano a un pubblico di ragazzini, mentre l'altro, destinato ad MTV America, era un filmato ben più cupo e disturbante, girato a settembre nella palestra dismessa di una scuola durante il loro viaggio promozionale a LA. Il regista, Joseph Kahn, era specializzato in rap e R'n'B, e si stava allargando nel ramo mainstream con dei promo per Bryan Adams e Backstreet Boys. Il progetto di mostrare gente comune che tira avanti con la propria vita per poi crollare tutti in un mare di lacrime era, secondo Matt, "estremamente costoso", un segnale dell'overdose pubblicitaria e spendacciona della Maverick che già cominciava a preoccupare la band. E nonostante le sue immagini fossero piuttosto surreali e suggestive (ragazze nude su letti o nei bagni erano solo alcune fra le scene che non andarono a far parte del montaggio finale), erano blande in confronto alle proposte cestinate di altri registi, idee che la band trovò perverse, come quella di un ragazzino di otto anni che se ne va in giro con una siringa piena di latte da schizzare in faccia alla gente, oppure interessanti ma ritenute inopportune, come quella in cui la band beveva dalle pistole di una pompa di benzina. I promo, insieme all'aggiunta di Muscle Museum alla C-list di Radio One (un passo essenziale per le band che volevano fare il botto nel Regno Unito) stavano spingendo la canzone a pochi centimetri dalle chart (si piazzò al numero 43), e anche se i boss delle etichette si aspettavano ormai un successo più grande, i Muse erano del tutto indifferenti a numeri e posizioni in classifica. Tornarono in Devon sentendosi degli eroi di serie B, con l'aspettativa, piuttosto ingenua, che la loro città natale si stesse crogiolando nella loro comune gloria. Ma il 24 novembre, una volta arrivati a Exeter per una performance acustica alla BBC Radio, la settimana dopo il concerto al Bercy, i Muse rimasero sorpresi dell’accoglienza meno che entusiastica della stampa locale. Quel giorno, il «South Devon Herald Express», che in passato aveva ignorato la band, mostrava la foto del sindaco di Teignmouth Vince Fusco che gettava una copia di SHOWBIZ nella pattumiera. Saltò fuori che l'intellighenzia di Teignmouth non aveva gradito il commento rilasciato da Chris qualche mese prima sulla loro cittadina. Come tutti i politici locali famelici di pretesti per farsi fotografare, avevano preso come un affronto l'idea che Teignmouth fosse un posto noioso dove crescere i bambini, così come l'allusione, in svariate interviste sulla stampa nazionale, al fatto che in città la droga scorresse a fiumi. "Per quanto riguarda la droga, Teignmouth non è peggio di qualsiasi altro posto", glissava il sindaco Fusco nell'articolo, "Mancare di rispetto alla propria città, dove un sacco di gente li ha aiutati nei loro concerti, è segno di profonda ingratitudine, ora che sono sul punto di fare il grande salto verso il successo". Speriamo almeno che l'intervistatore, come quelli durante le ridicole conferenze di Ali il Comico, si sia accorto delle navi cariche di droga che gettavano gli ormeggi alle spalle del sindaco Fusco. Ad ogni modo, i Muse non si sarebbero certo lasciati infangare da tale farfugliante ostruzionismo. Declinato l'invito a un incontro con il sindaco, che voleva l'opportunità di un


seguito fotografico in cui stringeva loro la mano, suonarono invece una session per la BBC dove lanciarono in anteprima un nuovo pezzo, già famoso presso il grande pubblico. Era una cover con pesanti iniezioni rock di una canzone scritta da Anthony Newley e Leslie Bricusse ma resa famosa dalla chanteuse jazz Nina Simone, intitolata Feeling Good ed eseguita stavolta con la chitarra, invece del pianoforte usato nelle versioni successive. Era da un po' di tempo che Matt provava a scrivere un pezzo simile, perché era uno dei dischi preferiti di sua madre, ma non essendo in grado di eguagliarlo decise semplicemente di prenderlo e suonarlo daccapo. La loro variante post-metal aggiungeva comunque tensione sessuale e potenza alla fumosa sensualità dell'originale, una specie di reinvenzione di un brano conosciuto dove una band dà vita ad un moderno classico scippando una melodia leggendaria e facendola propria (ciò che in pratica hanno fatto gli Oasis con I Am The Walrus e Jeff Buckley con Hallelujah). Il fatto che Bellamy cantasse la terza strofa della canzone attraverso un megafono deponeva solo a favore della loro sgraziata contaminazione di un classico. Non che per conquistare i vecchietti del posto bastasse dar loro di gomito con fare nostalgico. Quel pomeriggio, durante un promo radiofonico rivolto a pensionati e terza età, appena le linee telefoniche furono aperte al publico i Muse si ritrovarono bombardati di lamentele sul loro atteggiamento e la loro musica. Persino il dj cominciò a dargli addosso, dichiarando che odiava i loro album con le loro sedie in studio ancora calde. Stressato all'inverosimile e chiuso in sé stesso come non mai, a Matt venne un'emicrania martellante prima del concerto di quella sera, al Lemon Tree di Exeter. In mezzo al pubblico c'erano familiari, amici e un piccolo esercito di fan locali, e la pressione per dimostrarsi all'altezza di tutto quel trambusto era intensa. Quella gente, però, era l'esatto contrario degli autori delle rimostranze telefoniche: il locale era un putiferio, il pubblico tifava più per le B-side che per i singoli e il supporto cittadino era sonoramente incontrastato. Quella sera la vibrazione fu talmente gioiosa che la band suonò addirittura un pezzo strumentale nirvanesco in onore della grande serata con Dave Grohl. Fu un'esperienza che servì a calmarli. Dopo questo show, Chris si prese due settimane per tornare a casa e stare con la sua famiglia, mentre Matt iniziò a concentrarsi, per comprenderlo, sul suo neonato successo. Per lui era un periodo di estremo flusso e mutevolezza, non ultimo sul piano della residenza (dovrà presto rinunciare all'appartamento di Exeter perché, al ritorno da ogni tour, trovava ubriaconi o tossici accampati in camera sua, ed era costretto a sbatterli fuori con suo grande disagio). Nel frattempo, le sue ambizioni di registrare un secondo album (ne aveva già scritto metà sui pianoforti dei vari backstage, appena capitava in un locale che ne aveva uno) furono congelate nell'estate del 2000, perché non voleva creare un disco troppo simile al primo. Assistere a un concerto new-yorkese del bluesman sperimentale dalla voce di ghiaia Tom Waits, alla cui opera, come per quella di Jimi Hendrix e Captain Beefheart, furono iniziati da John Leckie durante le registrazioni di SHOWBIZ, fu per i Muse una grande fonte d'ispirazione, suggerendogli per il secondo album idee contorte come l'utilizzo di ossa nelle percussioni, strumenti voodoo e... be', scrivere testi migliori. Matt non era soddisfatto dei testi di SHOWBIZ. In seguito dichiarò che erano metà esperienze di vita vissuta e metà odio allo stato puro verso tutto, compreso sé stesso, scaturito dal lato oscuro che secondo lui alberga in ogni persona. "Puoi essere uno violento che se ne va in giro ad ammazzare la gente", disse durante un'intervista, "o puoi suonare in una rock band". Stavano prendendo forma disegni ambiziosi, e a simili teoremi serviva del tempo per fermentare. Inoltre, le letture che Matt si portava in tour erano sempre più scientifiche e variopinte. In linea con i suoi testi, che iniziavano a lasciarsi alle spalle i dolori dell'emarginato di città per abbracciare tematiche più universali, Matt iniziava ad assorbire concetti come la teoria delle stringhe, tuffandosi fra le pagine de L'universo elegante di Brian Greene e Iperspazio di Michio Kaku, e stirando le sue nozioni sulla fisica universale ben oltre i superstiziosi vincoli della tavoletta ouija. Durante il loro ultimo tour nel 1999 come supporter in Europa e Regno Unito dei seriosi pomp rocker Live, Matt riaggiustò il tiro: con l'adulazione si poteva scendere a patti, l'edonismo era concesso entro ragionevoli limiti. Le feste che i Red Hot Chili Peppers organizzavano per i loro roadie dopo ogni show gli avevano aperto un mondo di possibilità sui bagordi sfrenati post-concerto, e i Muse erano ben felici di dedicarsi a simili


svaghi invece di limitarsi a qualche birra in un motel prima di andarsene a letto. Cominciarono a portare i fan alle feste da backstage, dopo gli show uscivano nei bar per vedere un pò le città in cui capitavano e ogni tanto chiedevano droghe leggere. Durante la data di Monaco del tour con i Live chiesero all’etichetta di procurargli dell'erba, e gliene avanzò così tanta che dovettero mollarla ad un assai riconoscente Everlast (il rapper per famiglie exHouse of Pain) prima di partire. Sempre meno stressato e nervoso man mano che l'ultimo tour attraversava Copenaghen, Stoccolma, Oslo e Dusseldorf35, Matt recuperò vista e concentrazione con l'approssimarsi del Natale. Stava cominciando a capire quella carriera nuova, frenetica e da capogiro, e il suo status di nascente pop star. Stava per avere inizio il momento della sua vita. E guarda caso, stava proprio scrivendo la canzone della sua vita. * * * In Inghilterra, i festeggiamenti per il nuovo millennio furono come un esplosivo che fa cilecca. I fuochi d'artifìcio non erano belli come quelli di Sydney, la società non fu ricacciata nei secoli bui da un collasso globale dei computer e i primi visitatori paganti scoprirono in fretta che il Millennium Dome era uno spreco di soldi piuttosto inutile, un wok bianco capovolto di cui nessuno, per almeno cinque anni, riuscì a capire cosa farsene. No, i veri fuochi d'artificio partirono sei giorni dopo al Paradiso, un club di Amsterdam con capienza 1.200 persone. Durante una scaletta di diciassette canzoni (al tempo la più lunga dei Muse), aperta dalla bruciante tempesta di fuoco jazz di Feeling Good e con il lancio di una nuova, pacata e toccante canzone chiamata Screenager (che parla delle distanze interposte dalla tecnologia tra gli individui in una generazione ridotta in schiavitù da televisione e Internet), accadde qualcosa di simile a un miracolo. Qualcosa che avrebbe proiettato i Muse fuori dalla risaputa squadretta dell'indie, verso la stratosfera degli stadi. Dalla bufera di feedback si levò un sinuoso riff, uno dei più grandi a memoria d'uomo, che si avvinghiò attorno al collo della chitarra di Matt come se cercasse di divincolarsi dalla canzone stessa. A metà dalla sua traiettoria ascendente e fradicia di melodia si fiondò a testa bassa nel muro di mattoni eretto dalle increspature del basso e da una batteria simile a un maglio, per poi esitare un istante quando Matt si mosse verso il microfono e, più vicino che poteva a un baritono, cantò dolcemente le parole: "I've exposed your lies, baby..." ("Ho messo a nudo le tue menzogne, bimba"). Nessuno, neppure Matt (che aveva buttato giù il testo mettendo insieme frasi sparse che gli erano venute in mente) era certo di cosa parlasse Plug In Baby. Le sue chitarre, l'alienazione della generazione Internet, una specie di realtà futura alternativa in stile Matrix dove l'uomo si contrappone alla macchina, il concetto di infondere "un'anima" in un oggetto inanimato come un computer, un'analogia con lo stile di vita del tour: queste sono tutte ipotesi dei fan, dei critici o della band stessa. Quella sera, il pubblico del Paradiso, ed ogni altro pubblico per cui i Muse suoneranno per i prossimi due anni e mezzo di tour serrato, sapeva comunque una cosa: quella melodia aveva le dimensioni e la ferocia di un Krakatoa in eruzione, e lo jodel del ritornello "My plug in baby crucifìes my enemies / When I'm tired of giving" ("La mia plug-in baby crocifigge i miei nemici / Quando sono stanco di dare") era così travolgente e orecchiabile che li fece pogare di riflesso. Con Plug In Baby i Muse non solo avevano scritto la loro miglior canzone, ma avevano anche inaugurato la fase d'oro della loro carriera. D'ora in avanti i loro show non saranno più solamente divertenti. Saranno imperdibili. In origine, il concerto di Amsterdam, pieno per metà di fan sfegatati e per l'altra di ragazzini rockettari curiosi di vedere la ragione di tutto quel macello, era stato previsto per un locale con una capienza di cento persone, poi aggiornata all'ultimo minuto. La storia si ripeté una settimana dopo in Francia, dove SHOWBIZ stava diventando una specie di pilastro in classifica, quando il loro show all'Élysée Montmartre registrò il sold-out e fu prontamente aggiunto uno spettacolo extra nel ben più grande Bataclan (capienza: 3mila), per chiudere i sette giorni di concerti francesi a gennaio. La stessa cosa accadde a febbraio in Inghilterra, quando tutti i biglietti per uno show alla University Of London Union sparirono così in fretta che l'agente della band iniziò a pianificare il


prossimo passo sulla scala dei locali londinesi: una data come headliner al leggendario Astoria Theatre. SHOWBIZ vendeva in modo costante, magari sotto i radar delle chart, ma ormai si era sparsa voce di quant'erano geniali sul palco. Per la band fu come sfiorare in punta di piedi la grande svolta. Matt lo capiva dalle attenzioni dei fan. Le ragazze più fissate lo bloccavano in camerino per tutta la notte. All'inizio sembravano tipe normali, ma quando faceva per andarsene quelle scoppiavano a piangere e gli dicevano che erano innamorate di lui e che avevano scaricato i propri ragazzi per stare con lui (a quanto pare è successo per ben due volte). E anche le compagnie che frequentavano avevano addosso la patina della celebrità. Ingaggiati per un tour da supporter ai postgrunge rocker Bush in Germania per il resto di gennaio, i Muse si ritrovarono a osservare la band da un lato del palco accanto a Brian Molko e Courtney Love. E nei due giorni in cui sganciarono dal tour per volare all'Astoria di Londra come supporter degli Ash, gli dèi irlandesi del guitarpop, il 1 febbraio approfittarono dell'occasione per fare tappa agli NME Awards al Mermaid Theatre, dove intascarono il premio come Migliori Artisti Emergenti decretato dal voto dei lettori. Sbalorditi per aver battuto gente del calibro di Eminem e Macy Gray e abbagliati da un teatro pieno dei loro miti rock, i Muse afferrarono il premio e si precipitarono all'uscita: in una selvaggia dimostrazione di sperperi nel nome del rock'n'roll (ma loro dichiareranno che era l'unico modo possibile per arrivare puntuali al concerto in serata), la Taste Media/Mushroom aveva noleggiato un Learjet privato con tanto di champagne e buffet, che doveva alzarsi in volo il prima possibile per portarli in Germania e farli riagganciare al tour dei Bush. Erano praticamente ignari che accettare quel premio come Miglior Gruppo Emergente rischiava di diventare il loro ultimo gesto. * * * Nella loro carriera, l'inizio del 2000 fu uno dei periodi in cui le vite dei Muse furono più a repentaglio. In quel mese di gennaio quasi ogni membro della band scampò alla morte per un soffio. In Francia, da un impianto luci in fase di allestimento era caduto giù qualcosa di pesante che per poco non aveva spappolato Chris. Dom, invece, aveva rischiato di farsi ammazzare in più occasioni: la prima, quando non aveva capito che per frenare con una bici olandese devi pedalare all'indietro, ed era quasi finito sotto un tram ad Amsterdam; la seconda durante lo show all'Astoria come supporter degli Ash, quando Matt, a fine concerto, aveva dato in escandescenze in modo più violento del solito. Dopo aver sfasciato un'asta del microfono, facendone schizzare le schegge fino al banco del mixer, aveva quasi rischiato di decapitare il povero Dom tirando un fendente con la chitarra in mezzo alla batteria. In quel volo a razzo verso la gloria, la morte era il loro copilota. Seduti nel loro trincatoio volante da otto posti sulla pista dell'aeroporto londinese, diretti ad Hannover dopo gli NME Awards, Matt, Dom e Chris non avevano idea di quanto fossero vicini a diventare i nuovi John Denvers. Mentre l'aereo rullava dal terminal alla pista, la band notò qualcosa di strano fuori dal finestrino. Dal motore di tribordo uscivano scintille. Più aumentava il regime dei giri e più scintille schizzavano fuori, e qualche secondo prima che il pilota iniziasse ad accelerare per il decollo il motore prese fuoco. I Muse credevano che sarebbero morti, già gli balenava in testa la lugubre scena delle loro foto in bianco e nero sulle copertine dei settimanali musicali. Per fortuna il pilota si accorse delle fiamme (causate da un problema di compressione del carburante) giusto in tempo per annullare la manovra di decollo, e dei Muse tremanti ma illesi barcollarono fuori dall'aereo e fecero ciò che farebbe ogni band che si rispetti dopo aver evitato per il rotto della cuffia di diventare i nuovi Kurt Cobain. Salirono su un taxi e tornarono dritti all'afterparty degli NME Awards, per sbronzarsi in modo orribile e scherzare con il qui presente scrittore su come, dopo essersene andati in una palla di fuoco e carburante per jet, il giorno dopo avrebbero venduto un milione di copie. Jet privati? Champagne e stuzzichini? Schermaglie con una dipartita prematura? Bere alla faccia della malasorte più nera? Da veri eroi del rock'n'roll, i Muse avevano dimostrato il loro valore, e negli anni a venire avrebbero fatto altrettanto. Tornati in Europa per il tour con i Bush, quattro giorni dopo incontrai la band a Vienna in occasione di un'intervista per «Melody Maker». Scoprii però che Matt era scomparso dopo lo show della sera prima a Graz (dove


le sue folli burle rock'n'roll si spinsero fino a svitare la maniglia della sua camera d'albergo), e non si era presentato all'appuntamento con il tour bus che avrebbe percorso le duecento miglia fino a Vienna. La band aveva trovato la cuccetta di Matt vuota, con un messaggio in cui diceva che se la sarebbe fatta in treno fino al concerto. Dopo lo show della sera prima, spiegò infine il cantante quando saltò fuori, era andato in cerca del loro tour manager per farsi prestare il telefono, ma quand'era arrivato al bar irlandese quelli gli avevano detto che non si era visto nessuno della sua crew, e così aveva trascorso il resto della serata a bere in compagnia di sconosciuti con allarmanti simpatie per il partito della Libertà Neonazista, che in quel periodo stava guadagnando consensi in Austria, e con un pessimo gusto in fatto di nightclub. Dopo un salto in un locale in cui suonavano gli hit dei Supertramp, Matt capitò ad una festa in casa che andò avanti fino all'alba. Quel pomeriggio, quando lo accogliemmo a Vienna, era rimasto in piedi per quarantotto ore filate. La Forza del Rock'n'Roll era con lui. Quel giorno, la session fotografica viennese fu piutosto strana. Il fotografo di «NME» ci portò in un bizzarro parco pubblico pieno di statue surreali raffiguranti uomini d'affari guidati per mano da neonati enormi, uomini senza volto e con le pinne che offrono del tè a demoni e donne che nascondono un volto da drago sotto la testa scoperchiata. Intontito dalla stanchezza e alquanto turbato, quella sera Matt fece un concerto particolarmente esplosivo alla Libro Music Hall. Per poco non staccò la testa a Dom lanciando un piatto della batteria lungo il palco e, al termine di una scaletta di quaranta minuti, distrusse la chitarra e scagliò l'asta di un microfono contro il pubblico, colpendo per sbaglio alla nuca un addetto alla security che, ovviamente, andò su tutte le furie. Un istante dopo, nel backstage, il tour manager dei Muse restò intrappolato in un acceso dibattito con il capo della security, e di Matt neanche l'ombra. Per la sua incolumità, lo avevano avvertito di lasciare il locale e dirigersi in aeroporto. Bevute di due giorni, aggressioni alla security, distruzione gratuita di strumenti: tensione e frustrazione accumulate per tutto quel tempo in strada esigevano una valvola di sfogo, e quella primavera i Muse la trovarono, piantando un discreto casino ogni volta che qualcosa andava storto. A volte le sclerate di Matt giocavano a loro favore. A maggio, infilati tra i Soulwax e i Bush per un Five Night Stand di MTV allo Sheperd's Bush Empire, Matt percepì che il pubblico era piuttosto smorto durante il loro set, e così prese a sbattere la chitarra in ogni direzione, con una frenesia che conquistò appieno la folla. In altre occasioni demolirono praticamente tutto, come quando, poco dopo il suddetto show, un promoter tedesco di MTV cancellò all'ultimo minuto la loro apparizione all'equivalente germanico dei suddetti spettacoli, e in cambio la band distrusse i camerini, innalzando una piramide di sedie, cibo e frammenti di frigorifero in mezzo alla stanza. Matt, ancora infuriato, proseguì sfasciando la sua camera d'albergo per un danno totale di 3mila sterline. Quell'esperienza gli aveva trasmesso una tale rabbia e negatività che pensò seriamente di mettere fine alla band quella sera stessa. «NME» scrisse un articolo intitolato "Muse: band sull'orlo di una crisi di nervi". Forse erano un po' in anticipo sui tempi, ma non si sbagliavano più di tanto. Stessa storia il 21 febbraio, quando apparvero a TF1 Friday, il celebre talk show di Chris Evans su Channel Four per promuovere l'uscita del singolo Sunburn36. Il tizio reclutato al pianoforte sbagliò completamente la sua parte rovinando l'intro della canzone e, tanto per aggiungere la beffa al danno, Chris Evans li presentò come "I Sunburn che ci suonano il loro nuovo brano Muse". Appena sceso dal palco, con una maglia arancione e i denti serrati, Matt lanciò via la chitarra, che sfrecciò sopra la testa di Dom andando a schiantarsi contro la scenografia, e prese a calci i monitor, disgustato. Un brutto comportamento che sembrava più sotto controllo quando suonarono Screenager per l'emittente radio giapponese Air West e durante una session di otto pezzi a Melbourne per il programma della JJJ Live At the wireless, quella stessa settimana, ma non sappiamo se siano andati fino in Australia per la performance. E tuttavia, persino quegli scatti d'ira potrebbero aver fatto il loro gioco. Grazie alle loro gesta da scalmanati sul palco, i Muse si stavano facendo una reputazione di live band adrenalinica. Nella mia intervista con la band a Vienna, poi, Matt cominciò a mostrare un altro risvolto chiave del suo carattere, e cioè quella spinta indagatrice a carpire i retroscena segreti della


scienza, della natura e della fede umana. In quell'intervista svelò dei lati curiosi di se stesso: sostenne di avere due personalità, una che voleva stabilire un contatto con la gente e un'altra, più aggressiva, che voleva urlare la sua rabbia in faccia alle ragazze che aspettavano di svenire per Gavin Rossdale in prima fila. Disse che secondo lui c'era una guerra alle porte, che l'esplosione demografica aveva raggiunto il punto in cui il conflitto era inevitabile. Più nello specifico, mentre spiegava i pensieri alla base di Sunburn si addentrò nel mondo segreto delle falene che, disse lui, si orientano seguendo la luna, e così, quando sbattono contro una lampadina, credono di aver trovato la propria idea di appagamento, di paradiso, che invece è falsa e irreale. Lo paragonò all'uomo che si avventura nello spazio, un atto che secondo lui rappresentava l'affannarsi della razza umana per il conseguimento di qualcosa che si trova al di là di ciò cui eravamo destinati, a discapito della fede e della felicità. E la scienza che distrugge le verità fondamentali dell'uomo, dimostrando che il paradiso non esiste. Quando gli chiesi quale fosse la sua "lampadina" personale, lui rispose: "Le donne". Era uno degli ultimi pezzi scritti per SHOWBIZ ed era evidente che Matt si stava allontanando dal tema di Teignmouth e della sua noia. Ora, più a suo agio nel parlare di sé e delle sue canzoni durante le interviste, Matt schiudeva il suo singolare intelletto e la sua immaginazione a beneficio della stampa rock. Arrivò addirittura a un passo dal bollare l'album che stavano portando in tour come "un po' inconcludente e scemotto" (il primo indizio che, dopo averne ossessivamente sviscerato i difetti, la band non era del tutto soddisfatta della riuscita di SHOWBIZ e intendeva migliorarsi seriamente nel secondo album), e disse per scherzo che tenevano Madonna nella tasca posteriore dei jeans a mo' di portafogli, e che quindi i soldi "gli uscivano dal culo". Quel mocciosetto del Devon timido e buono a nulla si stava rivelando un personaggio rock'n'roll parecchio intrigante. Che fosse per l'exploit rabbioso al TF1 Friday, per l'impressionante video in cui la band cantava la coscienza sporca di una babysitter col vizio del furto, per la sua comparsa nella C-list di Radio One o per la biologia deragliata della teoria sul Paradiso delle Falene di Matt, Sunburn proiettò finalmente i Muse in classifica con uno stupefacente numero 22, sebbene Matt avesse stranamente dichiarato, al momento della sua uscita, che stare fuori dalle classifiche avrebbe giovato alla band. Il successo del singolo fu coronato da dieci date come headliner, tutte sold-out, in giro per l'Inghilterra (tra i locali che capitolarono sul loro cammino verso lo show alla ULU di Londra, il Fleece & Firkin di Bristol, il più spazioso Manchester Academy e il Princess Charlotte di Leicester), mentre la band scaldava i motori per il suo primo tentativo di conquistare l'America. E anche se l'America ne uscì ostinatamente integra, di sicuro l'esperienza aprirà loro gli occhi. * * * Qualunque cosa avessero combinato quella sera con Dave Grohl dopo lo show dei Red Hot Chili Peppers al Bercy l'anno prima, i Muse dovevano aver lasciato il segno. Furono perciò scelti dai RHCP, ormai fan di vecchia data e mentori, come ideale gruppo spalla per loro e i Foo in un mese di tour, da marzo ad aprile 2000, nel circuito dei palasport americani. Pur suonando soltanto un segmento lungo un mese di un tour che ne durava cinque (dopo quindici anni di tour massacranti i Red Hot Chili Peppers volevano prendersela più comoda possibile, così suonavano per tre settimane e poi staccavano per dieci giorni), il significato dell'offerta era monumentale. Non solo sarebbero andati in tour con due fra le rock band più grandi e rispettate d'America (e diamine se c'era di che andarne fieri), ma ogni sera avrebbero suonato in spazi enormi davanti a 20mila potenziali fan statunitensi. Le possibilità di sfondare erano gargantuesche. All'inizio, quelle date incutevano una soggezione spaventosa. Evitando tutte le principali città della East e West coast dove c'erano notevoli occasioni per spassarsela nel tempo libero, la porzione di tour dei Muse scavò un solco di post-grunge funky rock negli stati a maggioranza protestante della "Bible belt" passando per locali dai nomi glamour come il Dane County Expo Centre di Madison, l'Ervin J Nutter Centre di Dayton e la Thomspon-Boiling Arena di Knoxville. Come suggerivano i loro nomi, erano capannoni insulsi e senz'anima, con i posti a sedere e degli addetti alla security che pattugliavano i corridoi per far stare


la gente al proprio posto, sbattendo fuori chiunque azzardasse il minimo accenno di pogo. Ogni sera i Muse suonavano impalati per un pubblico non particolarmente curioso che aspettava il gruppo principale, lasciandosi andare di rado ai loro soliti sprazzi di follia sfascia-chitarre. E nonostante ciò, i rockettari dell'entroterra americano venivano ogni sera conquistati. Gli "wooo-ho" si fecero più forti, gli “yeah!" più convinti. Mantenendo le performance brevi e vigorose, nel giro di un mese la band si rese conto che poteva cucirle addosso, e con successo, alle grandi platee del rock. Trovarono la sicurezza di spingere la loro performance fino alla parete di fondo di un ambiente enorme, scoprirono la band da stadio che dormiva dentro di loro. Quando arrivarono a Roanoke, Virginia, scatenarono reazioni così rabbiose che, come in una rievocazione parecchio più cordiale di Woodstock, la folla devastò letteralmente da cima a fondo la pista da pattinaggio in cui suonavano, e Dave Grohl fece salire sul palco sua madre, insegnante di scuola, per placare il pubblico con i suoi migliori metodi di educazione all'antica. Ma una buona parte del loro tirocinio rock'n'roll i Muse lo svolsero fuori dal palco. Impararono che le loro icone rock erano anch'esse persone: pur avendo suonato un solo concerto insieme a loro, nel primo giorno di tour Dave Grohl si congratulò con Chris saltandogli sulla schiena come se si conoscessero da una vita, e i Muse diventarono amici intimi di bevute con l'ex- batterista dei Nirvana. Lui arrivava e si metteva a improvvisare insieme a loro, suonava la batteria durante i soundcheck sotto lo sguardo incredulo della sua band (succedeva di rado, ed era ancora più raro che i RHCP si unissero a loro per jammare su ciò che Matt definirà più avanti come "funk alieno", musica a metà strada tra Michael Jackson e Nirvana). Dopo i concerti calavano in massa, e con le peggiori intenzioni, sui bar della zona. Durante una storica serata a Dayton, tutte e tre le band uscirono insieme e si imbatterono in un karaoke-bar dove mandavano un pezzo dei Foo Fighters, al che Grohl si precipitò dentro, spintonò via il povero cristo che grugniva al microfono e gli regalò una dimostrazione a tutto rock su come andava eseguito il brano. La band rimase nel locale fino all'alba, a bere e a cantare classici del rock con gente del posto ubriaca e sbirri fuori servizio che non credevano alla loro fortuna. E in tutto ciò, Chris (che dei tre era il fan più sfegatato dei Nirvana) stranamente non riuscì a farsi coraggio e chiedere a Dave della sua vecchia band. Lasciò l'incarico a un alquanto più spudorato Matt. Per altri versi, il loro primo autentico tour degli States aprì loro gli occhi sugli estremi opposti dello spettro morale. Mentre giravano in tour lungo la "Bible belt", nel Midwest, trascorsero molti pomeriggi immersi in profonde discussioni teologiche o religiose fra di loro o con gente devota del posto, che permisero a Matt di esporre ed esplorare i suoi punti di vista anticonvenzionali sulla religione mentre i fanatici cercavano di convertirlo al Cristianesimo. Un fan gli scrisse addirittura una lettera di dieci pagine in cui gli spiegava che la sua musica era un mero tentativo di riempire quel vuoto della propria vita che sarebbe stato più giusto riempire con Gesù. Qualche ora dopo emersero i risvolti più oscuri della vita in tour. Ogni sera, finito lo show, i RHCP organizzavano delle feste per la band e la loro crew, cosa che spinse i Muse a lasciarsi coinvolgere di più sul fronte sociale facendo passare fan e roadie oltre il cordone di velluto. A queste feste i Muse cominciarono a notare trenta o quaranta donne che gironzolavano da quelle parti in attesa di incontrare Anthony Kiedis o Flea, disposte assolutamente a tutto pur di raggiungere i loro espliciti scopi carnali. Per i Muse era il primo barlume del fenomeno organizzato delle groupie: le ragazze che incontravano ai loro tour non erano mai così sfrontate o rapaci. E quando le ragazze che non venivano scelte per incontrare i RHCP rivolgevano la loro attenzione ai ragazzi carini del gruppo spalla inglese, i loro inviti a tornare al tour bus per "farsi un po' d'erba" sembravano falsi e imbarazzati (così come le occasionali offerte di droghe pesanti che saltavano fuori durante questi tour). I Muse, perlopiù impegnati in storie fisse, furono avvicinati da più ragazze in questo tour che in ogni altro prima d'allora, e per il momento il lato più sordido del circo rock ebbe la meglio su di loro. Quando il loro compito si esaurì all'UTC Arena di Chattanooga il 12 aprile, l'America si era dimostrata una belva spaventosa ma domabile. Se un gran numero di spauriti gruppi inglesi trovavano infattibile la chance offerta del più grande mercato al mondo e puntavano i piedi davanti agli anni di tour necessari


a sfondarlo, i Muse raccolsero invece la sfida. E anche dalla stampa statunitense giungevano riscontri positivi, voci che li paragonavano a Spacehog e Bush, entrambi gruppi inglesi che avevano fatto il botto negli States pur mantenendo un basso profilo in madrepatria. Con quella breve gita in loco avevano dimostrato a se stessi che erano il tipo di band seriamente capace di fare sfracelli. Furono quindi programmati dei tour americani più estesi. Erano praticamente ignari che, con il progredire degli eventi tra i Muse e la Maverick, sarebbero passati altri due anni e mezzo prima che avessero suonato di nuovo in America. In Inghilterra, intanto, crescevano i numeri. Dopo una partenza lenta, SHOWBIZ stava ora per raggiungere quota 250mila copie grazie alla sua popolarità fulminante in Europa e al suo appeal a fuoco lento nel Regno Unito (dove ci si avvicinava alle 115mila copie), e i concerti rispecchiavano una band in continua crescita. Inizialmente atterriti quando il loro agente li informò di aver prenotato una serata all'Astoria per i primi di giugno (tanto che Matt disse di annullarla perché non l'avrebbero mai riempito), i Muse rimasero letteralmente impietriti dallo stupore quando gli dissero che quella data aveva fatto sold-out ed era stata messa in programma una seconda serata. Anche questa sold-out. A quanto pareva, erano molto più grandi del previsto. Prima, però, li aspettava un'accozzaglia di show fra Europa e Regno Unito. Passarono da Dublino per un concerto al Tempie Bar con gli Elastica, astri appannati del brit pop, e per l'annuale ballo studentesco del Trinity College, prima di lanciarsi in una rapida sortita tra Francia e Germania con i colleghi indie-punk Idlewild a far loro da supporter in un bizzarro show da una canzone e via al festival del cinema di Cannes, dove suonarono Showbiz per le telecamere del programma Nulle part ailleurs, trasmesso su Canal +. Matt sfoggiò per l'occasione una chitarra insolita: una Gretsch Synchromatic Sparkle Jet con spirale ipnotica rotante attaccata davanti. A giudicare da come la fece volare dal palco l'istante stesso in cui smise di suonarla non doveva avere un gran valore affettivo per lui. La prima data autentica di quel tour, il 16 maggio al L'Aeronef di Lille, fu da ricordare perché si aprì con un pezzo nuovo sbalorditivo. Scritto durante i soundcheck del tour negli USA, era una mostruosità rock dalla stretta di ferro e dal passo pesante, con un riff capace di ribaltare una montagna, e un ulteriore esempio del nuovo approccio extra-corporeo di Matt ai testi. Una canzone sull'espandersi della mente umana al di fuori della forma fisica, come passo successivo dell'evoluzione in quel "neonato spaziale" fatto di puro spirito descritto da Arthur C. Clark in 2001: odissea nello spazio. Verrà in seguito aggiunto un intro pianistico in stile Sunburn, ma per il momento c'era solo la semplice e scarna ossatura di New Born37. Apriva gran parte degli show e spaccava di brutto, iniettando tanta di quella potenza all'esibizione che Dom, preso dal crescendo di feedback nella parte finale, distrusse due batterie complete che costavano 3mila sterline cadauna. Questo fu anche il concerto che vide la prima esecuzione live di Darkshines, da ORIGIN OF SYMMETRY. Un tour caratterizzato da una violenza estrema nei confronti di strumentazione e attrezzature varie. Incurante del parere della gente, e con i capelli ingellati in acuminati spunzoni punk rock, alla fine di ogni concerto Matt si prendeva cura degli strumenti come il dipendente di un mattatoio sotto anfetamine. Al Le Summum di Grenoble, in Francia, provò a distruggere per la seconda volta quella Gretch Synchromatic Sparkle Jet tirandola contro un amplificatore, per poi svellere il disco ipnotico e lanciarlo in mezzo alla folla, dove fu acciuffato dalle avide mani di un fan. E non era affatto finita lì. Tornati dall'Europa per dare il via ad un tour inglese con cui festeggiare l'uscita dell'ultimo singolo tratto da SHOWBIZ (Unintended, il 30 maggio38), i Muse scelsero come supporter i coetanei emergenti Coldplay. Tutte e due le band erano state pesantemente schiaffeggiate con l'etichetta di "cloni dei Radiohead", e più passava il tempo, più quel paragone infastidiva i Muse. Ad un certo punto Matt esclamò: "Ciò che facciamo noi è come minimo dieci anni avanti rispetto a ciò che facevano loro quando hanno cominciato" - un'uscita spavalda, ma che forse mirava a evidenziare le estreme differenze tra i due. E si trattava di differenze nette. Se i Coldplay puntavano ad accattivarsi le platee perfezionando i propri stilemi da furbetti, i Muse annientavano un palco dopo l'altro. Quando al Leadmill di Sheffield si verificò un problema tecnico, Matt scese dal palco, fece il diavolo a quattro e tornò in scena giusto in tempo


per gettarsi contro la batteria. Al Civic Hall di Wolverhampton il concerto finì con Matt che saltava la corda con il cavo della chitarra e versava acqua addosso a Dom, riverso a faccia in giù sulla cassa sfondata della batteria, prima che tutti e tre si trascinassero giù dal palco, avvinghiati. Durante uno di questi show, nel momento della sfuriata finale, Matt riuscì non si sa come a conficcarsi in uno dei grandi coni di plastica bianca che formavano la scenografia e, fisicamente impossibilitato ad andarsene al termine dell'ultimo pezzo, fu costretto a scivolare sotto la pedana della batteria e ad aspettare che il locale si svuotasse prima di essere soccorso. Al termine della seconda serata sold-out all'Astoria, Matt finì disteso a terra per diciassette minuti, piuttosto a suo agio fra i detriti di svariate casse degli amplificatori, finché il tour manager non venne a prenderlo. Pensandoci a posteriori, stava facendo il punto della situazione. Gli spettacoli in cui suonava facevano il tutto esaurito. Il suo singolo Unintended era appena entrato in Top 20. Era una rock-star purosangue. E stava seriamente uscendo di testa. MATT BELLAMY "Suonare all'Astoria per la prima volta è stato spettacolare. In quel periodo stavo ancora con la mia prima ragazza, e a fine concerto ci siamo intrufolati sotto la pedana della batteria. La baciavo di nascosto e intanto tenevo d'occhio la gente che se ne andava, ma siccome davanti al palco c'era una coppia di schizzati che s'era accorta della mia presenza, alla fine sono dovuto sgattaiolare fuori e togliere il disturbo. Avevamo raggiunto un certo livello, e lo show all'Astoria è stato il nostro modo di festeggiare". SAFTA JAFFERY Hai visto crescere la band durante quell'anno? Decisamente sì, e soprattutto grazie ai tour. Dopo sei mesi dall'uscita di SHOWBIZ erano già migliorati rispetto a prima. Al tempo delle registrazioni quel disco era praticamente il massimo del loro potenziale. Era il loro sound, e loro stessi erano così, ma dopo quei sei mesi costantemente sulla strada sono riusciti a superarsi. Ti eri accorto del potenziale di pezzi nuovi come Plug In Baby? Quando ho sentito Plug In Baby ero a Parigi. Ho detto a Korda, che era vicino a me: "Ecco la canzone della prossima svolta”. Lui mi ha guardato con l'aria di uno che non è troppo convinto, al che gli ho detto: "Ti dico che è lei, senti che cazzo di riff”. Una volta pronto e impacchettato SHOWBIZ, la band aveva in cantiere parecchie altre canzoni per ORIGIN OF SYMMETRY, anche se per me Plug In Baby è sempre stata la sola e l'unica. Appena l'ho sentita, ho capito subito che era quella che ci avrebbe spalancato le porte delle radio. Qual era il piano, dopo averli lanciati con SHOWBIZ? Con tutti quei contratti sub-territoriali, ci siamo seduti insieme ai licenziatari per pianificare l'attività della band in ciascun territorio. Il Regno Unito aveva sempre la precedenza, anche se le cose carburavano lente e l'interesse di Radio One nei confronti della band aveva tempi lunghi. Ma in Francia le cose si muovevano molto più in fretta. Abbiamo invitato i loro giornalisti più importanti a venire in Inghilterra in concomitanza con gli show inglesi della band, e quindi un sacco di giornalisti, di quelli influenti che dettano le mode, erano già dalla nostra parte, li avevamo in pugno. Quelli hanno iniziato a promuovere la band in Francia, motivo per cui l'attività live dei Muse si è infittita in pochissimo tempo. L'emittente parigina Oui FM ha particolarmente supportato la band. Cosa ne pensavi dell'accoglienza diffidente nei confronti di SHOWBIZ? Se vogliamo essere onesti, era tipica del periodo. Li avevano già bollati, tutti dicevano che erano cloni dei Radiohead. Non è stato semplice licenziare Anton Brookes [addetto stampa della Bad Moon Pr], potete immaginarvelo. Anton, che è un mio amico di vecchia data, continuava a ripetermi: "Succederà. Devi essere paziente". C'erano già due singoli all'attivo, e io gli dicevo: "Cazzo Anton, io non posso più aspettare! Devo avere fra le mani qualcosa". Ricordo la faccia mia e di Korda mentre mi diceva: "Devi dirglielo tu", e io che rispondo qualcosa tipo: "Grazie, Korda". E l'abbiamo rimpiazzato con Mei [Brown, della Impressive Pr], perché era sì sconosciuta, ma non si era persa un concerto dei Muse, stava sempre lì, sotto il palco, a ripetermi quant'erano geniali. E io pensavo che


magari non era sofisticata e non aveva la stessa credibilità di Anton, ma avrebbe sfondato con la potenza di un ariete. E così fece, non appena fu dei nostri. Le cose con la stampa hanno preso a girare per il verso giusto. È stato emozionante quando la band ha cominciato a decollare in Francia? A dire il vero è stata una faticaccia, perché facevamo da manager e al tempo stesso anche da etichetta, insomma ci occupavamo di tutto. Io cercavo di tenere in riga tutti i licenziatari. L'America mi stava col fiato sul collo, dicevano: "Gli stronzi che hanno sganciato i soldi per primi siamo noi". Guy era sempre attaccato al telefono, diceva: "Dovete tornare qui, dovete fare questo e quest'altro", ma per lui la cosa davvero frustrante era che quando in Inghilterra ha cominciato a muoversi qualcosa, la Maverick era parecchio in secondo piano. Ricordo d'essermi presentato nella sede della Maverick quando la band aveva ormai vinto il Disco d'oro qui da noi, e ai suoi occhi erano ancora la baby band che aveva messo sotto contratto. Non la smetteva di rifilarci la tiritera che dovevamo fare questo e quest'altro, e la cosa non era più in linea con i nostri piani generali. Hai mai assistito a uno dei fatidici tour con Red Hot Chili Peppers e Foo Figbters? Per la band è stato un percorso didattico grandioso. Matt e i ragazzi hanno avuto un'opportunità unica per capire come funzionano davvero le cose, come si vive e quali sono i retroscena dell’andare in tour in America. Una volta tornati da quell'esperienza erano quasi un'altra band, e a quel punto si è cominciato ad aggiustare il tiro riguardo la crew. Io e Dennis abbiamo stabilito il da farsi. All'inizio non ci si poteva permettere una squadra di roadie vera e propria perché mancavano i soldi - che erano solo miei e suoi - così abbiamo deciso di mandarli in giro con dei ragazzi di Teignmouth di loro conoscenza. Sembravano un po' una manica di disperati, se vogliamo dirla tutta, ma la faccenda è andata in porto. Per loro non è stato penalizzante, perché tanto quei primi tour facevano tappa nei locali più minuscoli, e il fatto di avere addirittura la propria crew era un lusso che molte band non potevano neanche permettersi. Non erano il massimo, ma credo di aver scelto il momento giusto per cambiarli, quando siamo diventati troppo grandi per loro. Le cose non smettevano di crescere, di pari passo con la band. Come gestivi le spese di Matt che sfasciava gli strumenti in preda alla rabbia? Be', io e Dennis eravamo sempre a caccia di nuovi sponsor! Questo aspetto non è mai stato semplice, ma per fortuna in quel periodo avevamo in ballo un sacco di contratti di sponsorizzazione. Non ci arrivavano troppe lamentele, ma quando ci presentavano il budget del tour, a volte pensavo: "E questo, come cazzo lo giustifico?". Il licenziatario di ogni territorio doveva mettere la propria parte, quindi i francesi dovevano pagare ogni volta che i Muse andavano in tour in Francia. Tutti si facevano domande, specie nei primi tempi, su come cazzo avessimo fatto a garantirci il supporto economico per tutti i tour chiave. Mi ricordo del tizio che aveva scritturato i Foo Fighters in America che diceva: "Non so come cazzo sei riuscito a procurare un simile sostegno alla tua band. Questa è la mia band, e mica ce l'ho fatta a garantirle un sostegno simile. Tu come cazzo hai fatto con la tua?". GLEN ROWE Quando hai cominciato a lavorare con i Muse? All'uscita di SHOWBIZ. Li ho seguiti in tour solo a partire dal secondo album, ma mi ero già occupato di alcune cosette qua e là. Ho fatto ogni genere di festival. In quel periodo lavoravo per la Zildjian, che produce piatti per la batteria, e mi pare d'averli sentiti su XFM. Non so com'è successo, fatto sta che erano strepitosi e li ho segnalati alla Zildjian dicendogli: "C'è il batterista che è un fenomeno". Ho incontrato Dom, gli ho dato una mano con i contratti di sponsorizzazione e, poco a poco, ho iniziato a fare qualche lavoretto saltuario per la band durante gli show dal vivo. Ormai mi ero già ritirato dal giro dei tour. Allora lavoravo con i Manic Street Preachers, sponsorizzavo la Zildjian tramite loro, e Dom voleva qualcuno che ne capisse di batterie per accompagnarli in tour. Credo che il mio debutto ufficiale con la band sia stato nel tour di Plug In Baby. Che tipo di persone erano? Normalissimi, ma davvero affiatati. Per la prima volta mi sono sorpreso a pensare che i Muse fossero una band nel senso classico del termine. Avevano


spirito di gruppo, erano molto legati tra loro. Non somigliavano a nessuna delle band che avevo visto in passato. Ancora oggi mi capita di lavorare con gruppi che sostengono di 'essere una famiglia', e invece non lo sono. Cioè, mi ricordo di Matt e Dom che ridevano e si stuzzicavano a vicenda come dei fottuti compagni di banco. Hanno molto bisogno del contatto, non è così? Decisamente, e ricordo che sulle prime mi è sembrato strano. Be', magari avrò solo pensato, "oh, ma che carini", fatto sta che passavano tutto il tempo insieme, e lo fanno anche adesso, per quanto gli resta possibile. Il fatto che Matt non viva più qui complica un po' le cose, ma è singolare come riescano ad intrecciare le loro reciproche esistenze. Hanno attraversato insieme la morte prematura del padre di Chris... un sacco di cose sembrano rispecchiare le loro vite private. E poi si danno sempre una mano a vicenda. Quando uno di loro è di cattivo umore se ne rendono conto e lo lasciano in pace per un po', mentre gli altri vanno avanti per la loro strada. Magari uno pensa che tre non sia il numero ideale per una band, che qualcuno sarà sempre lasciato a sé stesso, e invece non accadeva mai. Per quel tour non usavano una specie di crew amatoriale, di cui faceva parte gente come i loro amici di Teignmouth? Rick si occupava della platea, e s'è aggiudicato il posto perché faceva il tecnico del suono al Cavern, o in qualche altro locale della zona, e a quanto pare una volta se l'è presa con loro. Era andato dalla band, che già al tempo sfasciava gli strumenti, e gli aveva dato una sgridata coi fiocchi perché avevano appena spaccato dei microfoni che non erano roba loro. Ha detto loro qualcosa come: "Vedete di smetterla, cazzo, mica siamo in un parco giochi. Qui si fa sul serio, quindi rimboccatevi le maniche e fate in modo che funzioni, se volete essere una band di successo". C'era anche un loro amico di nome Alan, che faceva il "ragazzo delle t-shirt"; in pratica erano loro che se ne andavano a zonzo nel retro di un furgoncino. Avevano sempre la sensazione che li aspettasse qualcosa di pesante, ma non si tiravano indietro, era come se stessero sbrigando tutte le normali incombenze di una band come tante. Era parecchio strano, quasi inquietante, dico sul serio. Essendo entrambi del segno dei gemelli ed exbambini iperattivi, io e Matthew siamo sempre andati parecchio d'accordo. Riuscivo a capire cosa gli passava per la testa. La sua mente viaggia a quattro milioni di chilometri all'ora, è sempre stato così. Anche sua madre racconta delle storie di lui da bambino, ed è così da sempre. Non è cambiato di una virgola. È uno parecchio sveglio che fa cose sorprendenti. Com'era andare in tour insieme a loro? Erano turbolenti? All'inizio spaccavano la roba in preda alla rabbia. C'era uno dei ragazzi, Dan, che era un tecnico di merda capace di passare a Matt una chitarra completamente scordata, e allora lui prendeva e la spaccava, come a voler dire: "Ti sembra possibile suonarci anche solo una nota?". Oppure la pedaliera smetteva di funzionargli. Provava a fare qualcosa di veramente tecnico senza averne il budget, e ogni volta mancava il bersaglio. Le pedaliere erano troppo complicate e non funzionavano mai, così Matt si innervosiva e bisognava semplificare le cose. Più la situazione si faceva complessa più loro spaccavano tutto, quindi eravamo sempre al telefono con gli sponsor a procurarci roba nuova, dicendo: "Dom ha aperto un buco grosso così nella cassa e tutta la batteria è andata, [dunque] vi dispiacerebbe farcene avere un'altra per domani?". Tutto si è sistemato una volta rimediata una crew come si deve, gente costretta ad avere una visione militare delle cose, perché se ogni sera non fosse filato tutto liscio, la band avrebbe combinato un bordello sul palco. Da bravi tecnici delle chitarre quali erano, sapevano che se avessero scazzato il concerto del giorno dopo sarebbe stato il doppio più difficile. Quindi non scazzavano. Hai partecipato al tour in America con i Chili Peppers? No, ma li ho visti al ritorno, ed è stato allora che hanno cambiato registro per i loro show dal vivo. Prima Matt era parecchio impalato, concentratissimo sulla voce, ma al ritorno da quel tour in America con i Foo Fighters non faceva che saltare e sclerare per tutto il palco come un cazzo di indemoniato. È stata una ventata d’aria fresca, era successo qualcosa. Si erano accorti di cos'erano capaci di fare e di quanto potevano divertirsi sul palco. Ormai il gioco era fatto. Matt è diventato il Matt Bellamy che è ora. Ha preso il volo. Sei stato testimone di tutta quell'isteria, specialmente in Francia? Puoi dirlo forte. Oui FM teneva la band in palmo di mano.


Hanno difeso la loro causa, si sentivano come se fossero stati loro a scoprirli. Ci presentavamo nelle stazioni radio in quel cazzo di Benelux e di fuori c'erano seicento persone, perché in certe sacche europee i Muse erano una cult band e i ragazzi si riconoscevano in Matt. In Francia e Giappone le comparsate nei negozi ci sono sfuggite completamente di mano. Era una cosa strana, perché di solito una band fa il botto in un Paese, poi passa in un altro Paese e il botto è lo stesso di prima, se non addirittura più piccolo. Invece con i Muse l'isteria era altalenante. Andavi nel Paese accanto al tuo ed era tutto tranquillo, ma ripassavi nella stessa città quattro mesi dopo e il macello era generale. Capitolo quattro Le allucinazioni avevano cominciato a farsi sentire dalle parti di Albany, stato di New York, durante il tour con i RHCP Anche se nella testa di Matt Bellamy non c'era nessuna Albany. Matt Bellamy era su tutt'altro pianeta. Un pianeta deserto, con terre desolate a perdita d'occhio e molto più grande del nostro, a giudicare dall'orizzonte piatto e sconfinato che si allungava all'infinito. Matt era solo, riarso da un sole di ghiaccio, con il corpo in fiamme e una secchezza stomachevole nelle vene. Si guardò intorno in cerca di un rifugio ma non vide nulla, solo la luce del sole riflessa in lontananza da un oggetto luccicante. Ma quella superficie non poggiava a terra, era qualcosa che stava lassù, nell'abbacinante blu del cielo, ed eccone un altro, e un altro ancora, in uno sciame circolare di bagliori lontani. Poi gli oggetti si avvicinarono e lui riuscì a metterli a fuoco. Lame metalliche triangolari, lucenti e ultra-affilate. A centinaia. Matt iniziò a correre, schivando le lame che gli volavano attorno, lo trafiggevano, gli perforavano la nuca, riuscendo in qualche modo ad attraversarla senza lacerare la carne dello scalpo. Gli si conficcarono dritte nel cervello proprio nel momento in cui si svegliò, di nuovo nel mondo reale, la testa ridotta a un groviglio pulsante di emicrania. Un'emicrania che sarebbe durata fino al concerto di quella sera, quando avrebbe cominciato ad affogarla nell'alcol. Era un'allucinazione ricorrente che gli rimase alle calcagna per tutti gli States, insinuandogli la convinzione che quel pianeta arido fosse il mondo reale e la Terra fosse invece il sogno. Gli teneva compagnia per tutto il giorno, ci pensava di continuo quand'era a bordo di bus e aerei. A Knoxville, nel Tennessee, gli presentarono un ragazzo che, parole sue, era lui stesso una lama venuta a pugnalarlo. Su uno sperduto canale della Tv via cavo americana Matt captò una trasmissione sulla psico-guerra, una teoria cospirativa secondo cui il governo tenta di assumere il controllo delle nostre menti tramite radiazioni sprigionate da cellulari o altri dispositivi elettrici con le quali inviare frammenti d'informazioni nel nostro cervello. Iniziò a credere di esserne vittima, e che l'America fosse il fulcro di simili operazioni di copertura. Ormai a un passo dall'addormentarsi con un foglio di carta stagnola in testa, appena fu tornato in Inghilterra Matt decise di rivolgersi a un dottore, scoprendo l'origine del suo problema. Era una vita che andava avanti ogni giorno con una tazza di tè e abbondanti quantità di vino rosso, e negli States non aveva toccato una sola goccia d'acqua per otto giorni di fila. Il dottore gli disse di bere due litri d'acqua al giorno, e in men che non si dica Matt fu di nuovo sulla terraferma. Tuttavia, anche se le rotelle erano tornate al loro posto, facevano ancora strane scintille. Sulla scia del successo in Top 20 di Unintended, le interviste si fecero più approfondite e Matt sbrogliò in pubblico la matassa dei suoi pensieri, una caotica rassegna di bizzarre, spaventose e fantastiche panoramiche del suo vivace intelletto. La sua paura più grande era di essere fecondato da un alieno, dare alla luce un mostriciattolo ed essere costretto a nasconderlo (oppure essere sepolto vivo). Aveva incubi ricorrenti della sua famiglia in un campo di concentramento nazista. Non ascoltava altro che Berlioz, a suo parere il vertice assoluto della musica registrata, e se gli avessero dato una macchina del tempo avrebbe viaggiato fino al 1850 per testimoniare la stesura dei suoi brani. Il suo concetto di paradiso era "un ideale cristiano della mente senza il corpo". Faceva la spola tra le sue due personalità, una positiva e l'altra negativa, ma era anche convinto di poter "downloadare" le personalità altrui all'interno della propria, assorbendone esperienze e caratteristiche. Una volta aveva gettato un televisore fuori dalla finestra, ma solo per concretizzare un trito stereotipo musicale delle sue fantasie rock'n'roll. Quand'è in macchina


non riesce ad ascoltare la radio, perché non sopporta di avere intorno a sé musica che non gli piace; preferisce ascoltare quella che ha in testa. Mentalmente, infatti, aveva scritto intere canzoni, senza sapere se fossero per chitarra o pianoforte, e poi le aveva suonate di getto, senza alcuna prova. Aveva guardato del porno con gli animali su Internet, per vedere fino a che punto si spingeva la gente. Il suo sogno più recente era un enorme concerto dei Muse, con ospiti come Flea dei RHCP, Tom Waits e il chitarrista dei Limp Bizkit che si esibivano coperti di sangue. Le emozioni provate nell'ultimo anno erano state assai più interessanti ed intense rispetto a quelle dei precedenti ventuno. Sapeva cucinare il risotto e la sua idea di felicità era una lontana spiaggia tropicale piena di donne nude. Quand'era sul palco non parlava, perché le parole rischiavano di "sminuire" le canzoni. Non aveva paura di apparire ridicolo e non gli importava cosa pensavano gli altri di lui, non dopo aver trascorso un sacco di tempo, durante la sua adolescenza, con una persona affetta dalla sindrome di Down39. Ammirava il personaggio di Al Pacino ne Il padrino per la sua strategia di vendetta, ma nel suo caso avrebbero dovuto pagarlo un milione di sterline per ammazzare qualcuno. Se fosse stato invisibile per un giorno sarebbe entrato a Buckingham Palace per dare il tormento a chiunque. Ah, e avrebbe anche voluto una forza di gravità più leggera, per uccidere tutti i ragni. Già, perché forse i ragni vengono da Marte. In quel periodo, una delle teorie più folli di Matt (una delle prime fra le tante che salteranno fuori negli anni a venire) era che l'universo fosse dominato dai ragni, capaci di ibernarsi in eterno in modo da sopravvivere nello spazio. Credeva (o scherzava con l'aria di uno serio) che lo spazio fosse pieno di piccoli ragni galleggianti in attesa di atterrare su un pianeta con le condizioni ottimali per poter tornare in vita e colonizzare il nuovo territorio. Stando alla curiosa filosofia biologica di Matt, quella di Ziggy Stardust poteva anche essere una storia vera. Non sappiamo quanto di tutto ciò fosse disarmante sincerità e quanto dispettosa provocazione, frutto della sua spiazzante e repentina presenza fissa nelle interviste della stampa musicale, ma il cantante mostrava segni di comportamenti anomali anche dal di fuori. Si tingeva regolarmente gli spunzoni, che nel giro di una settimana andavano da una sgargiante sfumatura blu elettrico ad uno scioccante biondo ossigenato (nota a pie di pagina: in questo periodo anche Dom sfoggiava una tonalità rosso intenso de L'Oréal), e si tratteggiava le vene dell'avambraccio con l'inchiostro nero. Chiese infine a diversi tatuatori di disegnarle in modo permanente, anche se non c'era nessuno con un'esperienza tale da soddisfare la sua richiesta. Tutto ciò (l'immagine che scivolava verso il punk, i furiosi concetti metafìsici vomitati nelle interviste, il furto dei tratti caratteriali di altre persone) faceva parte di un agognato processo di trasformazione in qualcun altro o qualcos'altro. Matt non era più il ragazzino del Devon timido e socialmente inadeguato: sesso, soldi, viaggi internazionali, fama, opinione pubblica e la pressione costante del dover ogni volta difendere o spiegare se stesso e la sua musica lo stavano spingendo a forza nel mondo degli adulti. Una parte di lui voleva proteggere il Matt infantile creandogli un nuovo personaggio, assemblato dagli scarti delle personalità con cui era entrato in contatto. Un'altra parte voleva chiudere i conti con quel ragazzino pieno di noia e frustrazione e senza un carattere ben definito (a detta sua), dimenticarsi persino della sua esistenza e crescere per diventare qualcun altro. Qualche anno dopo, Matt dichiarerà di non ricordarsi niente della sua vita prima di quella lunga e faticosa estate del 2000. Come se il bambino che era stato prima dei suoi ventidue anni non fosse mai esistito. E i ritmi lavorativi dei Muse gli rendevano di sicuro più facile dimenticare d'aver vissuto una qualunque altra vita al di fuori di questa. * * * Fra giugno e novembre del 2000, i Muse suonarono circa quaranta date nei festival di tutto il mondo, a tappe ininterrotte e quotidiane. Sembrerà un'esagerazione, ma sul finire degli anni Novanta si era verificata un'esplosione nel circuito dei festival. Dove prima c'era solo una manciata di eventi rinomati (Glastonbury, Reading, il Rock Am Ring in Germania, il danese Roskilde e lo spagnolo Benicassim, che fino agli Novanta costituirono gran parte del circuito), ora, di botto, ogni città europea di dimensioni rispettabili doveva avere il suo festival. Nella sola Gran Bretagna, quando lo sventurato festival di Phoenix sprofondò nelle proprie ceneri nel 1998, appuntamenti come


il V Festival, un rinato festival dell'Isola di Wight e numerosi altri eventi minori occuparono il suo posto. Stava dunque diventando una procedura standard, per una band, sfondare in madrepatria e poi, foraggiata dai soldi delle etichette, aggregarsi al circuito dei festival per tutta l'estate, tanto che i promoters internazionali iniziarono a mettersi d'accordo sulla stesura dei cartelloni e spesso le stesse band suonavano nei medesimi eventi, come un gigantesco circo musicale a spasso per l'Europa. In un simile tran-tran arrivarono i Muse, devastati dai concerti, ormai al diciottesimo mese di tournee praticamente ininterrotta, e la tensione era palpabile. Non tanto fra i membri della band quanto in mezzo alla crew, impreparati alle difficili condizioni dei festival o al surplus di occasioni per cedere alle lusinghe del rock'n'roll. Matt disse che c’era "un sacco di gente nuda nel tour bus", memore del fondoschiena di Dom che sfrecciava per il corridoio centrale e di un roadie con un paio di donne sulla faccia. E se non c'era alcun problema quando Dom (a quanto si dice) scompariva una notte intera per strappare del nastro di tela dai capezzoli di una tipa che aveva la passione degli utensili elettrici a letto (storia lunga e poco approfondita, purtroppo), troppi bagordi da parte della crew si traducevano in errori sul lavoro, e gli errori sul lavoro si traducevano in Matt che spaccava le cose sul palco... I problemi tecnici crebbero di pari passo con lo scorrere dell'estate. La prima infornata di show andò a gonfie vele, dal Rock Am Ring all'olandese Pinkpop, dallo svedese Hultsfred Festival all'italiano Heineken Jammin Festival. Ma la settimana dopo, per la data al Riviera Centre di Torquay che faceva da riscaldamento al festival di Glastonbury, alcuni problemi tecnici spinsero Matt a sbattere ripetutamente la chitarra contro amplificatore e batteria mentre Chris, che ancora suonava l'outro di basso di Ashamed, surfava la folla per schivare i pezzi volanti. Un'altra sera, Matt lanciò la chitarra contro la batteria di Dom e centrò il suo miglior amico in un occhio, spaccandogli un sopracciglio e regalandogli un'antitetanica nel fondoschiena (tra le risate di Matt e Chris, decisamente insensibili). All'Highfield Festival di Hohenfelden, in Germania (capitanato quell'anno da Beck), la gioia di ritrovarsi con una fila di quarantacinque minuti per la session di autografi fu stemperata da un'esibizione che vide Matt spingere il suo ampli per tutto il palco in direzione di Chris, durante il pezzo finale Agitated, per poi tuffarsi ancora sulla batteria (uno sfoggio di pazzia rock'n'roll pesantuccio, per le 14.30 del pomeriggio). Al festival di Reading di quell'anno, dove chiusero la serata di venerdì sul palco dell'Evening session di Radio One, Matt fu tormentato da una miriade di problemi tecnici e riuscì a malapena a distinguere qualcosa dalle casse spia. Nelle pause fra una canzone e l'altra, con la folla che urlava in coro "Fanculo gli Oasis!" seguendo Dom che scandiva allegramente il tempo (mentre la band più arrogante di Manchester suonava sul palco principale), Matt guardò ai lati del palco in cerca d'aiuto e individuò lo zingaro sballato, il suo "tecnico dei monitor", che dormiva a bordo palco con una canna accesa in mano. Quel particolare concerto finì con due vecchi compagni di scuola di Matt che si aggiravano sul palco vestiti da poliziotti e la parola "MUSE" scritta col nastro adesivo sulle chiappe. La chiusura del concerto-tipo dei Muse rientrava sotto la definizione di "caotico", ma tutto ciò impallidiva in confronto al disastro del One Big Sunday, evento patrocinato da Radio One al Chantry Park di Ipswich. La band giunse sul posto aspettandosi di suonare un paio di pezzi davanti alle orde di teenager modaioli che frequentano simili eventi. Ecco perché fu uno shock quando seppero che avrebbero dovuto far finta di suonare con una traccia in sottofondo, dato che tutto il concerto era in playback. Risposero di no, ma poi dissero loro che Mansun e JJ72 (due delle band che si esibivano quel giorno) avevano acconsentito, e quindi non avevano scelta. Dopo aver convinto l'organizzatore, con una specie di compromesso, a lasciargli fare la parte vocale, Matt salì sul palco e si accorse che i loro strumenti non c'erano. Mentre Chris si dimenava buffamente sulla batteria dei rockettari AOR scozzesi Texas e Dom percuoteva le corde di un basso preso in prestito, Matt, senza l'ombra di una chitarra, iniziò a cantare Muscle Museum in sincrono con la traccia sullo sfondo, ma poi si rese conto che non c'era alcuna cassa spia per la voce. Peggio di tutti, quando tamburellò sul microfono per vedere se fosse acceso, l'ingegnere del suono lo prese come un segnale per stoppare la traccia e farla ripartire da capo. I Muse se ne andarono prima che l'addetto al nastro potesse lanciare il loro secondo


pezzo. Ma è il caso di precisare che la band stava pur sempre vivendo il suo momento storico. Giravano il mondo insieme agli amici, suonavano ogni giorno, ricevevano generose attenzioni femminili, bevevano con i Coldplay e altre band coetanee e vivevano il sogno, per quanto a volte potesse rivelarsi arduo, frustrante e sfiancante. E anche quell'estate ebbe i suoi momenti favolosi, come l'assegnazione del primo Disco d'oro per le diecimila copie di SHOWBIZ vendute nel Regno Unito, che seguì a ruota la caldissima performance al Glastonbury di quell'anno durante la quale Matt dichiarò di avvertire un legame con quel se stesso più giovane che qualche anno prima si accalcava davanti a quel palco; paragonò tale sensazione alle sequenze finali di 2001: odissea nello spazio. O anche l'articolo di una rivista per ragazzine che sbavava sul "bellissimo" Chris (con gran gioia, direte voi, della sua ragazza Kelly che ogni tanto li accompagnava in tour, almeno finché quel bus pieno di fumo non fu ritenuto un luogo inappropriato per tenervi più di tanto il piccolo Alfìe). O la sbronza a notte fonda con una coppia di groupie dalle parti di Camden, dopo una ripresa per Channel 4 al Barfly, con Matt che il giorno dopo vomitò per tutto il volo fino in Germania. E le canzoni nuove sbocciavano copiose, rapide e stupende. Al Bizarre Festival di Colonia, il 18 agosto, venne aggiunto in scaletta un terremotante pezzo nuovo, con un intro come la musichina di un vecchio Gameboy scassato e il basso di Chris che scatenava a intermittenza un marasma generale (finché non la registrarono per ORIGIN OF SYMMETRY non c'erano chitarre). Aveva già il suono di un futuro pezzo di chiusura per gli show, con Matt che gemeva come una banshee esanime l'immortale verso "Give me all the peace and joy in your mind" ("Dammi tutta la serenità e la gioia della tua mente). La chiamarono Bliss, e sulle sue note avrebbero lanciato migliaia di lune rimbalzanti. A Matt, poi, lo status di pop star stava sempre più a cuore. Dopo una prima serie di festival, si lamentò con la società di management perché non stava scrivendo abbastanza canzoni per il secondo album (non era vero, stavano tenendo un buon ritmo), e siccome la band sarebbe entrata in studio a novembre per dare il via alle registrazioni, avrebbe fatto meglio a prendersi una pausa per mettersi a scrivere. Riuscì persino a convincerli che per scrivere le canzoni che aveva in mente avrebbe dovuto nuotare con tartarughe e squali in qualche posto tropicale, per un paio di settimane. Fu così che a settembre gli prenotarono una quindicina di giorni alle Maldive, dai quali tornò abbronzato, innamorato delle immersioni subacquee e con in tasca un'unica canzone in più (un pezzo dal sapore stranamente non-tropicale intitolato Megalomania). E poi fu la volta del Giappone. Il loro primo soggiorno in Estremo Oriente ebbe inizio il 5 agosto, per due date al Summer Sonic Festival,nella Foresta delle Conifere del parco giochi Fujikyu Highland, e al WTC Open Air Stadium di Osaka, il giorno seguente40. Il luogo li colpì all'istante. Era un Paese molto in stile Muse: grande, veloce, rumoroso, tecnologicamente avanzato, sovraccarico di neon e fascino squilibrato. Gli abiti avevano un taglio affilato e futuristico, in linea con la mentalità e le dimensioni di Matt, che ne fece scorta per costruirsi una nuova immagine. Vittima del fascino dei gadget tecnologici, ora che cominciavano a scorrere i primi soldi il cantante li sperperò nell'acquisto di uno dei primi mini-lettori MP3 grande come un orologio da polso, in cui scaricare tutta la sua musica. Quest'occulto e minuto stratagemma di riproduzione musicale gli piaceva perché non gli avrebbero chiesto di spegnerlo a bordo degli aerei. Le esibizioni nei festival furono infernali. Ad Osaka salirono per primi sul palco principale alle 10.30 di mattina, per aprire a Reef e Jon Spencer Blues Explosion, mentre al Fujikyu fu anche peggio. Suonarono alle 8.30 di mattina, sotto il sole battente, davanti a una platea esausta che sveniva ai cancelli, oppressa dal caldo soffocante. Ciò significava, tuttavia, che la band aveva gran parte della giornata libera per fare baldoria dopo lo show, opportunità che sfruttarono al massimo sia durante questa tappa che due mesi dopo, per altre quattro date nei club di Nagoya, Osaka e Tokyo. Il Giappone aveva infatti un paio di cose che ne fecero la capitale del divertimento dei Muse. La prima: i fùnghetti allucinogeni. In Giappone i funghi della famiglia Psylocibe erano legali, e Matt li aveva già provati, essendo il Devon un vivaio naturale per la loro crescita spontanea. In materia di droghe era tutta una questione di purezza naturale. Matt era felice di sperimentare tutto ciò che cresceva in natura, come erba o funghi, e girava al largo da ogni robaccia chimica prodotta nella vasca da bagno di uno spacciatore. A lui interessava


esplorare la mente e l'universo, esporsi ad esperienze aliene ed imbastire nuove teorie sulle verità del nostro essere. Ma una leggera botta di cocaina per migliorare l'autostima nelle situazioni sociali non lo infastidiva più di tanto. Col progredire del tour di SHOWBIZ, Matt e Dom avevano escogitato un piano: circa una volta l'anno, quando la tabella di marcia gli permetteva di staccare per qualche giorno, volavano ad Amsterdam, prendevano un po' di funghetti e andavano a sballare al Vondel Park per un paio di giorni, in comunione con se stessi e pronti a fronteggiare i lati più bui del loro subconscio. E forse quello sballo non è andato avanti solo per qualche giorno, a giudicare dalla sola ed unica dichiarazione annuale degna di nota che non fosse un "grazie, il prossimo pezzo si chiama... " pronunciata da Matt fra una canzone e l'altra. Al Malmo KB, in Svezia, Matt introdusse Feeling Good con le enigmatiche parole: "Il sole è come un cucchiaio, uno come il mio può far diventare cattivo un brav'uomo" (probabile riferimento alla canzone degli Smiths Please Please Please LetMe Get What I Want41). I funghetti potenziavano la loro "surreale ed intensa" esperienza giapponese. Rendevano i neon più luminosi, il rumore del traffico più dolce, le ondate di folla che li travolgevano un mare di facce amiche. Si fecero prestare dei soldi dal loro Pr per visitare i mercatini della droga, dove facevano il pieno prima delle escursioni allucinogene ai templi vicino Nagoya e Osaka. Matt ricorda di aver trovato estremamente eccitanti quelle donne raccolte in preghiera con il volto dipinto di bianco. Il Giappone si rivelò un seducente vortice di forme, colori, carne. E proprio quest'ultima fu il secondo incentivo alla baldoria. Quello che voleva i gruppi indie inglesi sconosciuti in patria ma già strafamosi in Giappone era un cliché trito e ritrito. L'idoleggiamento della cultura occidentale da parte dei giapponesi, specie per il pericolo e il senso di libertà che percepivano nelle rock band, implicava che laggiù i fan erano più isterici, entusiasti e disposti a inseguire per strada il più mediocre dei gruppi indie, con scene di fanatismo urlante degne di A HARD DAYS NIGHT. Spesso, però, braccavano i musicisti in maniera più educata; lo stesso fan si presentava in tutti e otto i diversi posti che una band visita in un giorno, chiedendo ogni volta con calma una foto, oppure portava la sua ragazza con dei regali. E questo sarà il caso dei Muse, in quella prima trasferta. A un certo punto, durante la tappa al Summer Sonic, Matt si trovò in ascensore con due ragazze che, appena si resero conto di chi fosse, caddero in ginocchio ai suoi piedi in segno di adulazione (e non per elargire favori sessuali, insiste a dire lui). Trovarono ragazze che ammiccavano ad ogni angolo di strada, alcune più disponibili di altre, fino alla volta in cui Matt e Dom, strafatti di funghi, organizzarono un'orgia con nove ragazze nella loro camera d'albergo. Naturalmente certi exploit non erano immuni da conseguenze: la storia che andava avanti da sei anni fra Matt e la sua ragazza di Teignmouth perdeva sempre più pezzi mentre lui era via. Dom, il casanova della band, era perseguitato dalle groupie più ossessive che lo seguivano ad ogni concerto, incapaci di accettare la natura saltuaria del loro incontro. Ma la band non ci perdeva il sonno. Stava facendo decisamente dei passi avanti. Mentre la loro mastodontica tabella di marcia si faceva largo fra T In The Park, il greco Rockwaves, il Six Fours Open Air Festival di Marsiglia, l'edizione 2000 del Paleo Festival di Nyon, in Svizzera, quella italiana dell'Independent Days e innumerevoli altre date (spesso nel ruolo di mosca bianca in cartelloni semimetal, puntualmente quarta prima di, in ordine sparso, Blink 182, Limp Bizkit e Deftones), in madrepatria la Mushroom si apprestava a pubblicare l'ultimo singolo tratto da SHOWBIZ. Una vecchia conoscenza, stavolta: Muscle Museum fu pubblicata per la terza volta il 12 ottobre. Notando, con astuzia, che i quattro formati di Unintended avevano riscosso l'effetto desiderato in classifica, la spinta finale per garantire a Muscle Museum lo status di hit giunse in tre formati, corredati da una sfilza eterogenea e perlopiù superflua di pezzi dal vivo (Agitated dall'Astoria ed Escape dal Bercy), remix (Timo Maas sminuzzava Sunburn, mentre il protetto di Safta Ron Saint Germaine si prendeva cura di Sober), il videoclip girato a LA e l'interessante cover del singolo a opera della formazione dance belga Soulwax, sotto lo pseudonimo di 2 Many Djs42. Il singolo fece il suo lavoro e si piazzò al numero 25, aggiudicandosi il posto di autentico greatest hit che gli spettava di diritto nel fiorente pantheon dei Muse. E giusto in tempo. C'era una nuova squadra di mostri già pronta ad essere


sguinzagliata. * * * Dire che la lavorazione del secondo album dei Muse iniziò in maniera anticonvenzionale non è nemmeno metà della storia. Non sono molte le sedute di registrazione in cui una band si chiude in studio per cinque giorni a mangiare vermi, nuda, dentro una Jacuzzi. Era tutta colpa dei funghetti, ovvio. Novembre 2000: dopo che gli ultimi appuntamenti live di quell'anno si erano conclusi con un tour australiano di cinque date (dove gli fu chiesto di consegnare un premio in un'importante cerimonia, il loro equivalente dei Brits Awards, e Matt imprecò in diretta Tv) e una manciata finale di show in Scandinavia, i Muse si presero quindici giorni di pausa prima di tornare in servizio ai Ridge Farm Studios, una struttura del XVII secolo immersa in cinque ettari di terreno rurale nel profondo Surrey, per registrare Plug In Baby come primo singolo del secondo album. Pur avendo in programma di riprendere John Leckie dietro la console, la Taste Media intendeva cavalcare Fonda del loro successo facendo uscire alla svelta un nuovo singolo, e siccome in quel periodo Leckie era in Africa la scelta ricadde su Dave Bottrill, di cui la band apprezzava molto l'operato su AENIMA dei Tool (un lancinante album prog-rock in linea con le loro aspirazioni) e con la pop band sperimentale di nazionalità belga Deus, che in breve tempo entreranno a far parte delle loro influenze. Con credenziali da produttore di album rock, prog e indie, come nel caso di King Crimson, Mudvayne e PJ Harvey, Bottrill sembrava un uomo capace di bilanciare tocco leggero e spinta heavy. Quindi la persona ideale per registrare i brani più rock dei Muse. Perché si trattava senza dubbio di brani più rock. Dopo aver limato canzoni come Plug In Baby, New Born e Bliss in un anno di tour a getto continuo, i Muse non solo si erano costruiti un'impressionante seguito di fan su scala globale, ma avevano anche trovato il loro vero sound. Più duro, più pesante, più levigato, ed erano perfettamente consapevoli di come avrebbero funzionato quei pezzi in studio. Al tempo di SHOWBIZ erano indecisi, ma stavolta sapevano ciò che volevano. Installarono un impianto di amplificazione da concerto e suonarono a tutto volume per sradicare ogni senso di distanza in studio. Doveva essere ad ogni costo un disco realizzato in tre, perciò si assicurarono che ciascuno sentisse ogni prova in qualsiasi punto all'interno dell'edificio. Adottarono una tecnica di registrazione sulla falsariga dei Rage Against The Machine. Il tecnico delle chitarre, ex-RATM che ora lavorava con Matt, gli imparò a rendere il basso simile a una chitarra riducendone al minimo il pulito e alzandone al massimo il distorto. L'effetto era come quello di una seconda chitarra, e conferiva al terzetto un sound mostruoso. Plug In Baby nacque in modo semplice e rapido, e dopo aver deciso che Bottrill era l'uomo perfetto per incidere gli altri pezzi più pompati che avevano sottomano, i Muse videro quella che in origine doveva essere un'unica session trasformarsi nella registrazione di quasi metà album. Allora incisero anche Bliss, New Born e Darkshines. E poi, all'alba del quinto giorno, si accorsero che nel campo accanto allo studio erano spuntati durante la notte una miriade di funghetti allucinogeni, e si misero di buona lena a mangiarli tutti. Le sedute di registrazione si fecero alquanto imprevedibili. Dopo due o tre prove, la band, strippata, fece spallucce, si spogliò e si tuffò nella Jacuzzi, del tutto immemore dell'album, trascorrendo quattro giorni nella vasca idromassaggio a mangiare funghetti che nel loro stato confusionario somigliavano a vermi. Il terzo giorno Matt si addormentò, ritrovandosi sordo da un orecchio, e non c'era da stupirsi se il materiale registrato aveva un suono tremendo. Dovettero remixare l'intera session ai Sawmills, con John Cornfield dietro la console. Il remix, però, aveva un suono strepitoso. Per quando Cornfield ebbe terminato il suo lavoro, Plug In Baby era un pezzo colossale, una pietra miliare della musica rock del ventunesimo secolo. La Mushroom non perse tempo a passarla alle radio e quella si insinuò rapida nelle playlist, mentre gli addetti ai lavori iniziarono a dare in pasto alla stampa la notizia che quel gruppetto prog-rock del Devon stava cospirando un incredibile ritorno. Con il 2000 agli sgoccioli, i Muse non avevano solo infiammato i cuori di Regno Unito, Estremo Oriente ed Europa e venduto strada facendo 250mila copie in tutto il mondo (avevano surclassato le recenti fatiche heavy di sbanca-classifiche come Marylin Manson,


Korn e Slipknot, e gli specialisti prevedevano che il loro album sarebbe stato Disco di Platino entro Natale), ma avevano chiuso il cerchio. Erano di nuovo la rock band che faceva drizzare le orecchie a tutti. E stavolta avevano una mano vincente. Gennaio 2001: si scambiarono i ruoli da produttore. Adesso toccava a Bottrill rendersi non disponibile, di stanza negli States per alcuni mesi a produrre il disco dei Tool LATERALUS, e Leckie rientrò in scena, smanioso di mettersi al lavoro sulle rimanenti sette tracce dell'album. Nella session di SHOWBIZ aveva iniziato la band a Captain Beefheart e Tom Waits, ed era soddisfatto della moderna ferocia post-millennio con cui la band aveva assorbito tali influenze. La sua reputazione gli garantiva inoltre le chiavi di ogni studio in cui voleva lavorare, e la band ne visitò parecchi durante la realizzazione della sua seconda fatica. Fecero tappa ai Real World Studios di Peter Gabriel, dalle parti di Bath (che a Chris restavano comodi per fare un salto a casa a Teignmouth durante le pause), e all'Astoria, una casa galleggiante ancorata a Tagg's Island, sul Tamigi, vicino ad Hampton Court. La casa era inizialmente stata di proprietà dell'impresario teatrale Fred Karno, l'uomo famoso per aver scoperto Stanlio & Ollio e Charlie Chaplin (e si dice che Chaplin vi avesse organizzato molte feste). Nel 1986, David Gilmour dei Pink Floyd comprò l'Astoria convertendola in uno studio di registrazione galleggiante, e fu proprio li che Leckie portò i Muse per assemblare le restanti canzoni. A dispetto della frequenza più che soddisfacente con cui Plug In Baby risuonava dalla radio in studio, le session furono lunghe e stremanti. La band arrivava a mezzogiorno convinta che l'aspettassero dodici ore di lavoro, ma non combinava niente prima del dopocena. Lavorando fino alle quattro del mattino, vivevano in uno strano universo notturno che acuiva l'oscurità della loro musica43, e tra la band e il produttore nacquero idee piuttosto folli. A Matt piaceva usare i sintetizzatori per rievocare quei pezzi dance che ascoltava a sei anni (e forse non era l'età migliore cui far ritorno: in questo periodo, Matt confessò di aver tirato dei pulcini contro il muro per gioco, quando aveva sei anni), e il concerto di Tom Waits a New York, in cui il bluesman ruggente aveva suonato ossa animali, diede loro l'ispirazione ad utilizzare strumenti bizzarri e macabri, che conferirono all'album un mood sinistro e squilibrato. Matt chiese a Leckie se potevano usare pezzi di metallo come percussioni e costruire una batteria con crani umani, per rendere le session più "vibranti". In seguito, Leckie disse scherzando che nei pressi dello studio era già abbastanza difficile trovare ossa animali, figuriamoci ossa umane. Ma alla fine furono proprio ossa animali quelle che rimediarono, dopo una capatina in una vicina macelleria dove comprarono alcune costole che Leckie dovette equalizzare per usarle su Screenager. Presero anche delle unghie di lama che Leckie, mosso dalla cupa inventiva e dal senso di sperimentazione della band, gli fece mettere attorno al collo prima di registrare ogni canzone. Per creare un'atmosfera che facesse da sfondo alle registrazioni e operare la loro magia, dovevano vagare per cinque minuti in mezzo alla stanza, cantando, percuotendo le unghie, toccando delle campane a vento e scoppiando della plastica a bolle d'aria. Matt la definirà “psicoacustica", ma ogni suono su disco era il rumore originale, senza il minimo campionamento. Su un brano (Space Dementia, ispirata a Rachmaninoff), parte della traccia delle percussioni è il suono di Matt che fa su e giù con la zip dei pantaloni. L’umore dell'album prese una svolta sinistra anche sul versante dei testi. Sebbene ora Matt sostenga che il primo album aveva dei testi talmente squallidi che suonarne alcuni pezzi in pubblico lo metteva in imbarazzo e che il nuovo album "irradiava positività", l'umore e il tono degli argomenti in ballo non erano esattamente all'insegna di spensieratezza e solarità. Matt scriveva totalmente di getto, buttava giù qualsiasi cosa gli passasse per la testa senza pensare alle sue possibili implicazioni se non dopo parecchio tempo, quindi le idee che aveva circa le tematiche delle canzoni erano ancora un po' confuse. Sapeva che fondamentalmente erano tutte incentrate su di lui, ma sentiva così tante personalità dibattersi dentro di sé che non capiva mai a quale, di preciso, fossero dedicati i brani. Disse che una delle canzoni parlava del desiderio di divorare la pace e il senso di soddisfazione della gente, un'altra ancora raccontava di quando si è talmente invidiosi di ciò che hanno gli altri da voler rubare la loro essenza, ucciderli per assorbirne l'anima. Disse che una parte di lui voleva spazzare via il mondo e un'altra voleva innamorarsi di


chiunque. Dichiarò che la stagnazione era la morte, che soffermarsi troppo a lungo su un lavoro, una relazione o un luogo ti storpia come persona. Queste canzoni parlavano di riduzione e purezza, del rimuovere le distrazioni che ti impediscono di essere te stesso. Parlò anche di com'erano stati i momenti di trasformazione e fermento a fargli maggiormente desiderare di scrivere musica, cioè l'unica costante della sua vita. A giugno lasciò dunque il suo appartamento di Exeter per trasferirsi in un alloggio provvisorio ad Islington, North London, insieme a Dom e Tom Kirk. Era una sistemazione di fortuna perché, a parte quella standard garantita dal proprietario, l'unica forma di mobilio erano un pianoforte e un computer portatile. Nonostante Matt abbia successivamente ammesso di essersi sentito come il classico ragazzino di campagna dagli occhi sgranati, smarrito e alla deriva nella Grande Metropoli, il loro piano era cambiare città ogni sei mesi per tenere viva la creatività. Prossima fermata: San Diego. Omicidio, invidia, distruzione, lussuria, non-appartenenza. Erano queste le tematiche emotive su cui ruotava il disco, ma le influenze cerebrali che facevano da sfondo al concept dell'album davano a questi tratti una marcata sfumatura aliena e scientifica. L'anno prima, Matt si era immerso in tre libri che avevano infiammato la sua perenne curiosità. Il primo era Virtual organisms di Mark War, che paragonava la nascita della vita artificiale a quella di una nuova specie, un evento colossale come la vita umana stessa (in pratica sosteneva che anche i robot fossero umani). Concetti come evoluzioni future e la sfocata linea di confine tra l'uomo e la macchina erano già emersi in Plug In Baby e New Born, ma furono gli altri due libri, Iperspazio di Michio Kaku e l'universo elegante di Brian Greene, a donare coesione creativa alla nuova visione del cantante. E qui comincia la parte scientifica, quindi concentratevi. I suddetti libri, più svariati articoli su riviste scientifiche, introdussero Matt al concetto della teoria delle stringhe. In termini assai rudimentali, si tratta della teoria per la quale l'universo, nelle sue manifestazioni più grandi o più piccole, è fatto di minuscole o gigantesche stringhe vibranti, e potrebbe essere una semplice "bolla" creata da due di queste super-stringhe che si scontrano in un "multiverso" oltre i confini dello spazio. Tutto ciò gli offrì un dilemma matematico che catturò davvero la sua immaginazione. Quelle letture gli instillarono l'idea che, nell'undicesima dimensione, tutto in natura sia perfettamente, matematicamente simmetrico, insomma una sfera perfetta, e che dunque il nostro universo non potrebbe esistere senza avere una simmetria radicata nel profondo. Se tale simmetria esiste, sostiene una branca di questa teoria, allora l'universo dev'essere stato creato da un essere senziente44. Ne consegue che, se arrivi a scoprire l'origine della simmetria, allora avrai trovato Dio. Siamo tuttavia lontani da un fatto scientificamente dimostrabile. Negli anni a venire, Matt non mancherà di precisare che le sue teorie più strampalate sono frutto della lettura di capitoli sparsi di svariati saggi scientifici, e che lui stesso le ha create colmando i buchi logici fra di essi. Questo ne è un primo esempio. Secondo il libro di Green, mentre ogni dimensione che esula dalle canoniche quattro (tre spaziali, più il tempo) dovrà essere ripiegata su se stessa e microscopica per sottrarsi al nostro sguardo, la teoria delle stringhe necessita di dieci dimensioni per essere matematicamente praticabile (le sottili stringhe vibranti devono potersi muovere fra le nove dimensioni speciali più il tempo, se vogliamo che le equazioni abbiano ragionevoli probabilità di concludersi). Nel 1995, per unificare le cinque differenti e apparentemente incompatibili diramazioni della teoria delle stringhe in una M-Teoria generale, il fisico Edward Witten ipotizzò un undicesimo universo dimensionale, per spiegare i numerosi enigmi irrisolti circa la struttura e le dinamiche del nostro universo. Ma nel periodo in cui Matt entrava in contatto con simili nozioni, di sicuro nessun fisico conosceva la teoria dell'undicesima dimensione se non come miscuglio di equazioni vaghe e concetti altisonanti. La M-Teoria forniva la cornice in cui tutte le forze dell'universo potevano raggiungere la simmetria nella misura in cui tutte le somme avevano senso, ma nel 2001 la scienza era ancora distante dallo sfornare un'equazione del genere E=MC2xMTeoria=DIO. Matt era comunque felice di schierarsi con le idee che più lo affascinavano, e questi libri gli regalarono un paio di cose. La prima era una nuova e


sconvolgente visione dell'universo, la convinzione per cui l'uomo è ora un insetto nel vuoto galattico, ora la cosa più interessante negli sconfinati e deserti spazi. Come seconda cosa, regalarono a Matt Bellamy un titolo. ORIGIN OF SYMMETRY si riferisce all'affermazione presente nel libro di Michio Kaku per cui un libro sulla supersimmetria dovrebbe intitolarsi L'origine della simmetria in virtù del profondo impatto che avrebbe sulla fisica, equiparabile a quello de L'origine della specie di Darwin sulla biologia. Era anche il titolo di lavorazione di un brano che fu poi scartato, o forse inserito nell'album sotto un altro titolo. Lo sprint finale nella registrazione ebbe luogo a febbraio, con un giro delle cattedrali di Bath & Wells e di Exeter alla ricerca del grandioso, epico e desolato organo a canne di Megalomania, futuro climax finale dell'album. Trovarono finalmente il luogo ideale, la St Mary's Church di Bathwick, e chiesero al prete il permesso di suonare il pezzo. Per suonare l'organo ecclesiastico di solito serve una licenza, ma la chiesa era disposta a soprassedere se la band avesse mostrato loro un foglio con il testo della canzone, per avere la certezza di non mettere il loro sacro strumento nelle mani di quei perversi adoratori del diavolo che se ne andavano in giro a bruciare le chiese in Norvegia. Le parole ancora non c'erano, e quando vi furono descrivevano in dettaglio il pessimismo e la frustrazione di Matt per il crollo della sua lunga storia d'amore. Il titolo provvisorio era Go Forth And Multiply (Andate e moltiplicatevi), come quell'ordine impartito nella Bibbia che contrariava Matt, perché insinuava che fare sesso e riprodursi fosse l'unico fine dell'umanità, e secondo lui avevamo uno scopo più elevato. Guardandosi bene dal mettere la Chiesa al corrente di quella verità, Matt scarabocchiò in fretta delle parole carine e ottimiste da far leggere ai responsabili, e l'autorizzazione fu debitamente concessa al prezzo stracciato di 350 sterline. Forse fu l'aver mentito a degli uomini di Dio, l'oscuro eco latino insito nel brano o il fatto che quella canzone avrebbe assunto posizioni ancor più anticlericali, ma Matt descriverà in seguito la registrazione di Megalomania come uno dei momenti più bui della sua vita. Quando li incontrai all'Astoria verso la fine dei lavori, tuttavia, i Muse sembravano su di morale. Forse gasato dal mezzo milione di copie vendute da SHOWBIZ stando al «Telegraph», Matt era tutto preso dalle gioie dell'MP3 e del download musicale gratuito da Morpheus, ora che avevano chiuso Napster. Descrisse per la prima volta le allucinazioni con le lame metalliche e gli sballi da funghetti, e rivelò di aver scritto una nuova canzone intitolata Thoughts Of A Dying Atheist, parlava degli ultimi istanti di vita di un uomo che vorrebbe sicuramente tornare indietro per vivere nell'edonismo più sfrenato. Era un altro vecchio titolo di lavorazione per Megalomania, ma questo nuovo pezzo era forse più esplicativo della sua travagliata situazione sentimentale e della voglia di sguazzare nella vita da rockstar, e quindi non vedrà la luce per un altro paio d'anni. Matt dilatò anche i concetti rivoluzionari di Plug In Baby e New Born sostenendo che, se stavamo cercando di evolverci con la scienza, avremmo prodotto esseri umani geneticamente in grado di respirare in altre atmosfere, vivere nello spazio o volare. Prolisso, fantasioso e a volte un po' pazzo, stava diventando l'intervistato più affascinante e imprevedibile del rock, un visionario musicale a tutto tondo, un inimitabile pazzoide rock'n'roll. Insomma, una superstar. Quel febbraio, con il mixaggio e il mastering del disco in corso ai leggendari Abbey Road Studios di North London, i Muse si presero una pausa solo per un paio di session radiofoniche. La prima per Capital Radio, a Leicester Square, sulla XFM, che si tenne il 12 febbraio e fu compromessa dai soliti problemi tecnici, anche se Matt riuscì a mantenere la calma quando gli si ruppe la chitarra nell'intro di Plug In Baby e steccò vistosamente nella prima esecuzione live di una meta-opera a tutto falsetto intitolata Micro Cuts45. La seconda ai Maida Vale Studios della BBC Radio, dove si affidarono a materiale più vecchio e rodato. Erano passati solo tre o quattro mesi dalla loro ultima performance live, ma si resero conto che dopo aver suonato in maniera così serrata in studio non potevano rilassarsi così facilmente negli spettacoli dal vivo. Nel frattempo, nei tre mesi precedenti alla sua uscita del 5 marzo, Plug In Baby aveva raggiunto la B-list di Radio One, e il videoclip, finora il migliore dei Muse, stava mettendo a ferro e fuoco MTV. Con camicie fantascientifiche e acconciature verticali, la band suonava in una camera da letto modernista


deturpata da teste, arti e tronchi smembrati di fotomodelle robotiche, con degli squarci da cui si protendevano tentacoli meccanici al posto delle interiora (doveva trattarsi di avveniristiche pornostar robotizzate che cadevano a pezzi). Agli occhi dell'osservatore casuale, i Muse erano tornati con il singolo di lancio del nuovo album a distanza di soli cinque mesi dalla nuova riedizione di Muscle Museum che aveva posto fine alla campagna di SHOWBIZ, ed era come se nel giro di qualche settimana avessero tirato fuori dal nulla un mastodontico successo rock. Per tutti quelli, tra noi, che erano andati in delirio per Plug In Baby da quando l'avevano sentita lo scorso gennaio, sapere che i Muse avevano nella manica un simile asso spaccatutto con cui catapultarsi nel giro dei grandi nomi, zittire tutti i disfattisti che li bollavano come "cloni dei Radiohead" e calpestare sotto il tacco del proprio possente stivale tutto il materiale prodotto in passato, questo era il momento che aspettavamo da dodici mesi. Il momento di dimostrare che la nostra passione era ben riposta. I due Cd furono gonfiati con alcuni fra i pezzi più marginali e cestinabili della band. Al suggestivo videoclip si sommavano Nature_1, una ballata acustica pre-SHOWBIZ intitolata Spiral Static e i vecchi brani strumentali Bedroom Acoustics e Execution Commentary, rispettivamente un pezzo dalle influenze flamenco e una cacofonia di rumori e urla che faceva da outro a Showbiz negli spettacoli dal vivo. In origine le B-side dovevano essere Futurism, sotto il titolo di Tesseract, e Darkshines, ribattezzata Polishing The Jackson Punk, ma si decise di tenere questi pezzi per le uscite successive. Con uno sciame di cartoonistici alieni dagli occhi giganti in copertina, il brano si piazzò al numero 11. Un inevitabile e ineludibile singolo di successo. Era un pezzo la cui presa si allungava ben oltre lo zoccolo duro dei fan, fino alle masse del Breakfast show (l'uscita del singolo vide la band dirigersi di nuovo in Francia per suonarlo nel programma Nulle part ailleurs del 2 marzo). Rese i Muse ospiti fissi in classifica, oltre che una delle band alternative inglesi di maggior successo del momento, promettendo un secondo album pieno di flessuosa, asciutta e orecchiabile durezza pop. Niente di più fuorviante. * * * Quando ORIGIN OF SYMMETRY si riversò in pompa magna dal banco di mixaggio degli Abbey Road, era senza ombra di dubbio un album diviso a metà. Mentre lo registravano, i Muse avevano deciso di farne la vetrina del loro lato più stravagante e hard rock, e poco ma sicuro c'erano riusciti. Quasi nel solco degli album prog-rock, genere al quale venivano accostati in maniera mortificante, il disco si apriva con un "lato A" (per dirla alla maniera d'altri tempi) pieno di bombe rock quasi tutte devastanti, e un "lato B" con esperimenti in bilico fra musica latina, blues, metal e sinfonica, che erano di volta in volta sbalorditivi, opachi e di disarmante eccessività. Aggiungeteci gli argomenti dei testi (racconti fantascientifici sul prossimo passo dell'evoluzione umana, l'assenza di una figura di potere da venerare, sia essa un re o un Dio, riflessioni sulla consapevolezza e sull'esistenza di qualcosa come l'individualità, la futilità dell'esistenza, il carattere superfluo di moralità e bontà in una società che ha distrutto il concetto di "paradiso") e l'influenza di Toccata e fuga in Re minore di Bach e il risultato era un disco che scavalcava le proprie aspirazioni con un balzo così lungo da incespicare leggermente nell'atterraggio. Ricordo che uscì quasi in contemporanea con il primo, tesissimo e secco Ep dei newyorkesi Strokes, che avrebbe dato nuova linfa alla musica alternative per il resto del decennio. Accanto a un così agile levriero indie, ORIGIN sembrava quasi preistorico nella sua pachidermica sconfinatezza. Ma non l'avreste detto, a giudicare dalla bordata iniziale. Tirate, corpose, metalliche e imbevute della viscerale produzione ultramoderna di Bottrell e Leckie, le prime canzoni ruggivano dalle casse, come se la band di SHOWBIZ fosse schizzata direttamente nel venticinquesimo secolo. In sei sferzanti minuti, New Born somigliava a una Sunburn geneticamente mutata. Un altro pezzo d'apertura affidato al pianoforte, con la tenerezza di un carillon che deflagrava in un riff mille volte più pesante, distorto, ficcante e devastante46. Era solo la prima di tante canzoni che sembravano capaci di distruggere interi pianeti, se puntate nella direzione sbagliata, con Matt che cantava la sua fobia dell'evoluzione, i suoi timori sulla perdita dell'individualità mentre ci si avvia verso un futuro dove l'umanità è un mero agglomerato di corpi frutto


dell'ingegneria, connessi via cavo e in grado di vivere nello spazio (aveva chiaramente visto Matrix ormai parecchie volte). Dall'attacco del riff iniziale fino alla voce filtrata dal vocoder nell'outro, che dava l'idea di un brano suonato da tre androidi, era chiaro che si stava esplorando un nuovo territorio musicale: si aveva l'impressione di non essere più a Teignmouth... Bliss, dal canto suo, sgattaiolava fuori dal subconscio infantile di Matt. Quegli arpeggi di synth anni Ottanta sapeva di averli rubati da qualche parte, ma non si ricordava dove; forse da una trasmissione Tv per bambini (in realtà era da un videogame della serie Top gear per la console Nintendo Entertainment System). Quelle innocenti sfumature infantili l'hanno comunque resa il suo pezzo preferito di sempre, oltre che il più positivo di ORIGIN, anche se non era da escludere che si trattasse di quella canzone sul divorare la felicità altrui di cui aveva già parlato. Space Dementia è il termine con cui la NASA definisce il forte senso d'alienazione, isolamento e insignificanza che provano gli astronauti lasciati nello spazio per un lungo periodo di tempo quando ripensano alla Terra. Matt, però, riporta tutto sul nostro pianeta con uno strattone: in questo scenario è lui l'astronauta, e al posto della Terra lontana c'è qualcuno senza cui non riesce a vivere. Non bisogna sforzare troppo l'immaginazione per cogliere il probabile riferimento alla sua ragazza di Teignmouth, ma sui siti dedicati alla band (ne erano già spuntati diversi in tutto il mondo) i fan si scervellarono cercando di capire il significato del primo verso "H8 is the one for me / It gives me all I need / Helps me coexist with the chili" ("Per me non c'è niente come H8 / Mi dà tutto il necessario / Mi aiuta a convivere col senso di gelo"). Quell'"H8" si riferisce allo sballo, trasformando in tal modo il brano in un rimando ai funghetti? Significa "hate", come se Matt desiderasse l'odio della sua ragazza? O, come spiegò in seguito il cantante, era il componente di un microcomputer che poteva fungere da piccolo cervello robotico? Ad ogni modo, Space Dementia era di sicuro una delle prime incursioni di ORIGIN nel progressive rock. Abbracciava rilassanti giri di pianoforte, frenetiche schegge hard rock, cadenzati stacchi di synth presi di peso dal primo movimento del Concerto per pianoforte e orchestra n.2 di Rachmaninoff e un cataclisma finale di noise chitarristico con accenti sinfonici, feedback e il suono di Matt che fa su e giù con la zip, come uno che trancia a metà una motocicletta con una sega a motore. Iniziava con Liberace che ci adesca in un sontuoso boudoir e finiva con l'esplosione del maiale gonfiabile dei Pink Floyd. Monumentale. Hyper Music era nata durante il tour di SHOWBIZ, come intermezzo strumentale dal sapore blues. Ora aveva un testo (forse il titolo originale I Dont Love You, insieme al verso "I don't love you / And I never did!" - "Non ti amo / E non ti ho mai amato!", urlato nel ritornello ribadiva inutilmente il senso della canzone) e un'irruenza punk che grondava bile. Secondo Matt era "dolore e rabbia all'apice della loro negatività", l'esatto opposto di Bliss. I Muse sfoderavano gli artigli per scoprire fino a che profondità riuscivano a graffiare. La vitale presenza di Plug In Baby, che recupera in modo spettacolare i temi e il gancio pop di New Born, fa da essenziale centro di gravità ad un album che tende a spiccare il volo verso autocompiaciuti orizzonti prog metal. E considerato quanto segue, la sua geniale carenatura pop fa quel che può. Citizen Erased sono sette minuti di malvage distorsioni elettroniche costellate da eterei segmenti space noise in stile Electric Light Orchestra, con la dolce voce di Bellamy che canta dell'agonia di incessanti interviste durante le quali cerca di non aprirsi troppo e di non contraddirsi al tempo stesso ("Break me in / Teach us to cheat and to lie / And cover up what shouldn't be shared... Please stop asking me to describe" - "Mi spiegate come si fa / Ci insegnate a imbrogliare e mentire / E a nascondere ciò che non va detto in pubblico... Per piacere, non chiedetemi più di descrivere"). Detto da qualcuno interessato a promuovere i propri dischi a mezzo stampa era un po' forte, ovvio, ma come pioniere squisitamente melodico delle intricate epopee di cui la band sarà ben presto capace, Citizen Erased era una mosca bianca. Micro Cuts, il brano sull'allucinazione delle lame volanti nel deserto e sulla paranoia da psico-guerra, segnava però il punto in cui ORIGIN si sbilancia verso il ridicolo. Con la batteria sincopata di Dom su un cadenzato ritmo classico, un Matt dal falsetto costante e spavaldo come una Maria Callas sui carboni ardenti e quello che pare un coro wagneriano al completo da qualche parte sullo sfondo, Micro Cuts trascinava le pretese sinfoniche dei Muse nel reame dell'autoparodia.


Diventò l'unico motivo per cui negli uffici di «NME», dopo l'uscita del disco, i giornalisti non riuscirono più a chiamare la band semplicemente "Muse", ma dovevano salire in piedi sulle sedie e strillare "MEEEEYUUUUUSEEE!" fino a farsi male ai polmoni. Solo il rombo del basso di Chris, che in ORIGIN è sempre fedele a se stesso, impediva a Micro Cuts di salpare l'ancora e, ubriaca di visioni, andare alla deriva fra le travi della Royal Opera House. Da qui in poi l'album perde compattezza, diventando (a posteriori) un diagramma ultra-elaborato della band più levigata e tagliente in cui i Muse si trasformeranno nell'album successivo. Screenager aveva un approccio diretto al tema (adolescenti cresciuti più dalla televisione che dai genitori, che commettono gesti di autolesionismo per le immagini di perfezione corporea da cui sono bombardati), ma in termini di musica era il trionfo dell'invenzione sulla sostanza. Suonata con unghie di lama, ossa animali, fogli da imballaggio a bolle d'aria, campane a vento e buste della spesa (oltre ai soliti chitarra e synth) cresceva con grazia fino al ritornello, che però decollava senza meta alcuna e senza mai raggiungere le altezze vertiginose di Citizen Erased. Le movenze semifunky da Dire Straits in chiave metal di Darkshines sembravano a disagio in mezzo alle esplosioni all'ossiacetilene dei precedenti pezzi rock, come un peso piuma troppo esile e retro. Il riverberante assolo di chitarra latino, in particolar modo, pareva uscito da un album di Sade e il testo, sull'attrazione per una ragazza che cela un lato oscuro, era di un'ovvietà deludente in compagnia di pezzi così divini. La dice lunga che Feeling Good, con la sua imbronciata carica sessuale (l'unica cover dell'album, perché Matt voleva far sapere agli ascoltatori che la sua musica si stava aprendo alla positività: "A new dawn / A new day / A new life..." - "Una nuova alba / Un nuovo giorno / Una nuova vita...") fosse il pezzo di punta della seconda metà di ORIGIN. Asciutto nella forma e scaltro nella confezione in mezzo a un mare in tempesta di idee ed ambizioni, era l'esempio di quanto i Muse riuscissero a dimostrarsi potenti se alle prese con un pezzo di semplicità classica. All'estremo opposto c'era la conclusiva Megalomania, i cui fendenti d'organo in stile II fantasma dell'opera e le accuse rivolte a Dio mostravano tutto il potenziale di grandiosità e sfarzo sonoro della band. In questa doppietta finale erano racchiuse la gloria e la follia di ORIGIN: melodicamente compatta la prima, di portata mastodontica la seconda. Presto i Muse avrebbero unito questi due elementi per impadronirsi del mondo, anche se per il momento (specie sulla scia delle magnifiche melodie pop di Plug In Baby) sembrava solo voglia di strafare. Era come se gli avessero donato un enorme paio di calzari musicali alati e ora stessero provando a correrci, prima di imparare a volare. Audace, ambizioso, sfrontato e con le palle, in ORIGIN OF SYMMETRY i Muse si erano fatti grandi. E anche le cose stavano per farsi grandi. In tutti i sensi. GLEN ROWE Cosa ti ricordi di quell’enorme infornata di festival? Erano i giorni in cui band e roadie giravano ancora su un unico bus, e mi ricordo che in Francia c'erano un sacco di festival. Loro li chiamavano 'festival', ma erano più che altro delle fottute sagre. Arrivavi in qualche piccolo borgo nel Nord della Francia dove c'era un misero palchetto al centro della piazza, ma loro si sono fatti lo stesso ogni data. C'era sempre un pugno di fan, ovunque andassero. Tutti i concerti assurdi, per cui altre band avrebbero detto: "È una perdita di tempo", loro invece li facevano. Trattavano ogni show come se fosse veramente importante, anche se magari c'erano solo cinquanta persone. Sembrerà scontato, ma questi show, che avrebbero potuto renderli la band più grande del mondo, per loro erano motivo d'orgoglio. Cos'hai provato la prima volta che hai sentito ORIGIN? Ricordo d'aver pensato: "Che singolo tireranno fuori dopo Plug In Baby?". Me ne stavo seduto lì, quando mi arriva una copia dell'album e faccio: "A parte New Born, qui non c'è nessun altro singolo". Comprimerla in tre minuti, poi, l'avrebbe resa la versione radiofonica più merdosa di tutti i tempi. SAFTA JAFFERY A chi è venuta l’idea di tenerli in tour durante le registrazioni di ORIGIN OF SYMMETRY?


Credo sia stata una decisione presa di comune accordo. Il gioco era sempre quello di prendere e andarsi a cercare i fan. E poi erano giovani. Con certe band non puoi farlo, ma loro erano giovani. Magari un giorno li spedivamo in Grecia, il giorno dopo in Spagna e quello dopo ancora in Scandinavia, e loro tenevano botta, recuperavano in fretta. Erano adolescenti, avevano passato da poco i vent'anni, quindi era tutto come una grande festa. Non vedevano l'ora di partire. Ricordo che appena avevano qualche giorno libero Matt chiamava dicendo: "E adesso che si fa?", e la risposta era del tipo: "E che cazzo Matt, vedi di prendertela un po' con calma!". Lui però voleva sempre qualcosa da fare, e su questo aspetto non hanno mai avuto niente da ridire. Non trovi che il secondo album sia stato penalizzato da tempi di scrittura troppo ridotti? No. Per niente. Vedi, i pezzi inclusi in ORIGIN erano già stati scritti in tour, e per loro andavano bene così. La band ha registrato l'album in diversi tronconi, la prima session l'hanno fatta con Dave Bottrill ai Ridge Farm, registrando le canzoni in questo preciso ordine: New Born, Bliss, Darkshines e Plug In Baby. Questi sono i pezzi che hanno fatto con Dave, e secondo me sono venuti fuori alla grande. Li abbiamo lasciati in pace, hanno avuto il tempo e la libertà di sperimentare e tutto quanto. Tieni presente che Matthew non ha mai fatto demo. Lui i demo non li faceva, non voleva proprio saperne. Bastava un commento negativo e detto fatto: la canzone finiva nel cestino. Non potevi dire niente di negativo. Dovevo andarci cauto con le parole, è una cosa che ho imparato da subito. Sono andati perduti dei classici dei Muse? Certo, come no. Ripeto, niente commenti negativi. Bisognava starci attenti. È stata un idea tua quella di affiancargli John Leckie per la seconda volta? Esatto. La prima volta aveva funzionato alla grande. La Maverick era contentissima del disco, e anche tutti gli altri. Una volta fatto con John, però, Matt è venuto a dirmi: "Vogliamo qualcuno come John, solo più giovane". Qualcuno più vicino alla loro età, e con gusti musicali simili. Quello è stato un bel grattacapo. Ho pensato: "Cazzo, hanno lavorato con John, cosa si può volere di meglio?". Mi sono messo alla ricerca, sono andato in America, perché sapevo che in America c'era per forza qualcuno. Ed è stato il solito Rick Rubin a segnalarmi Rich [Costey]. Vado a LA e domando a Rick: "C'è qualche elemento nuovo che ti entusiasma?". Lui mi guarda e dice: "C'è Rich che mixa tutti i miei dischi". Poi prende e se ne va. Penso: "Ok, chi cazzo è Rich?". E il bello è che quando l'ho conosciuto Rich era già un grande fan dei Muse. Aveva appena fatto un disco con Cave-In e Fiona Apple, e poi lavorava con altre band di cui [i Muse] erano fan. Ma quando sono tornato a casa con la proposta di Rich Costey, il loro verdetto è stato: "No, fanculo, non ci lavoriamo con lui, vogliamo uno un po' più famoso". Ho dovuto lisciarli un po', ma alla fine hanno detto: "D'accordo, se proprio vuole lavorare con noi dovrà farlo qui, in Inghilterra". Gli ho risposto: "Sta bene. Non ha mai lavorato qui, ma vedrò di farlo venire". Dopodiché abbiamo prenotato gli Air Studios, per fortuna Rich e la band sono entrati in sintonia, tutto è filato liscio e... be', il resto è storia. Capitolo cinque "Avete sentito delle lune?", si bisbigliava in giro. Per tutta la primavera e l'estate del 2001, dalle piccole cittadine e dall'Europa si sparse voce che, al termine dei concerti più grandi, i Muse offrissero al loro pubblico gli spettacoli più stravaganti. A parte gli ormai familiari coni bianchi schierati a fondo palco, durante il bis con Bliss dozzine di enormi lune bianche gonfiabili venivano lanciate da dietro le quinte, dalle balconate dell'edificio o da qualsiasi altro punto in cui si riusciva a nasconderle, rimbalzando con effetto strepitoso in mezzo alla folla o sul palco ed eruttando in geyser di brandelli di carta quando venivano scoppiate. Si parlava di roadie occasionalmente vestiti da direttori di circo, mentre le trovate sceniche della band crescevano a ritmo ancor più sostenuto delle dimensioni dei locali in cui suonavano. Riempirono fino al soffitto i vari Academy di Manchester, il Corn Exchange di Cambridge, La Cigale di Parigi e il Paradiso di Amsterdam, locali del circuito medio europeo, ma che nei loro cuori e nelle loro tasche già trattavano alla stregua di palasport47. Avete sentito degli strumenti strani? Si diceva che per un paio di canzoni Dom lasciasse la batteria e si mettesse a suonare qualcosa di simile a un immenso


xilofono africano fatto di ossa animali. A quanto pare aveva provato a sbiancare con la candeggina le ossa usate durante le registrazioni, in modo che fossero abbastanza fresche da suonarle in tour, ma poi avevano iniziato a marcire e quindi aveva dovuto lasciarle a casa. E avete sentito delle feste? Per alcuni fan fortunati lo spettacolo non finiva coi palloni. Nel backstage si tenevano sfrenati balli in maschera, infiammati da funghi allucinogeni e tequila, giganteschi cocktail-party in riva al lago o nottate in cui ci si dimenava come selvaggi a bordo del tour bus. A un certo punto, dopo le registrazioni di ORIGIN, Matt e la ragazza con cui stava da sei anni si mollarono. Forse era stanca del fatto che lui fosse sempre in tour, o magari aveva capito al volo l'antifona dei suoi brani più dolorosamente pessimistici sul rapporto di coppia (Matt, sue testuali parole, disse che trovava impossibile avere una relazione stabile con dei tour così lunghi). Per la prima volta single da quando aveva sedici anni, Matt decise di seguire l'esempio di Dom approfittando del sesso e di tutte quelle occasioni per socializzare che prima lo facevano sentire a disagio. Ben presto il tour diventò un'esperienza meno spossante e più simile alla libertà. Non aveva sperimentato mai niente fuori dai confini del Devon, e questo nuovo senso di instabilità e avventura sembrava divertente. Ma nei suoi eccessi c'era sempre un lato oscuro; quando la sua storia naufragò, per lui fu come perdere la propria identità, da cui il desiderio di frantumarsi in quanti più pezzi possibili per sparpagliarsi tutt'intorno a sé. Forse fu questa la causa del suo improvviso entusiasmo nel condividere musica e fluidi corporei con così tanta gente. Si sentiva distante dai suoi vecchi amici del Devon perché in quei giorni non parlava d'altro che della band, e andare in tour era la sua unica chance per entrare in contatto con i suoi fan, le persone con cui riusciva davvero a relazionarsi attraverso la sua musica. E si relazionava con loro nel senso più letterale del termine. Fondamentalmente turbato dalla superficialità delle groupie, escogitò dei sistemi per superare quest'avversione. Dopo gli show, la band prese a organizzare delle feste in maschera per far sì che la gente si sbarazzasse delle proprie inibizioni, funghetti alla mano. Matt indossava una maschera bianca da manichino, un grande papillon dorato e una parrucca blu riccia da clown. Dom si mascherava da Transformer col casco rosso e Chris indossava uno strano miscuglio giallo in stile giapponese. Qualche anno dopo, Matt illustrerà una tecnica ben collaudata per istigare un'orgia: per prima cosa, fai indossare a tutti i partecipanti una maschera. Tu e i tuoi amici fate una specie di "mischia", cominciate a stuzzicare alcune ragazze facendogli il solletico e poi lasciate che la natura segua il suo corso. Spesso il piano era di radunare quante più ragazze possibili sotto la doccia, per filmare la scena e ritrasmetterla nell'impianto Tv del tour bus48. C'è solo da ammirare la resistenza alle tentazioni di Chris. Con una ragazza e un figlio che lo aspettavano a casa e un altro presto in arrivo, quando le ammucchiate dei suoi colleghi-in-modalità-tour prendevano una piega troppo vispa, lui restava spesso confinato in banali conversazioni nel salottino di sotto mentre al piano di sopra andava in scena ogni genere di depravazione. Il tour del 2001 fu il periodo più lungo che Chris trascorse lontano dalla sua famiglia, e anche se gli mancavano da morire non poteva permettersi di sguazzare nella nostalgia, ragion per cui diventò l'addetto ai beveraggi (vino per la band e la crew, birra per Dom). Nell'arco del 2001 si sparsero voci su queste feste, e alcuni fan cominciarono a seguire la band in tour soltanto per potervi partecipare. A volte quei party serbavano per Matt dei momenti inquietanti: un fan provò a rifilargli la sua ragazza "perché credo che lo stesse facendo fesso" mentre altri, preoccupati per il suo peso, gli regalavano farmaci per ingrassare. Iniziò a indossare i gioielli che gli regalavano i fan e fu costretto a cambiare l'indirizzo di posta elettronica quando ormai se n'era impadronita troppa gente, che gli scriveva lunghe e-mail su come la sua musica avesse impedito loro di uccidersi. Nei momenti in cui era più sconvolto dai funghi, quand'era nel backstage con la sensazione di essere braccato e il bisogno di fuggire, per la sua sicurezza e stabilità mentale si impose la regola non categorica di uscire, se possibile, solo con le fan meno schizzate al termine degli show. Ma le conquiste più grandi, in questo periodo di edonismo estremo, furono una conoscenza più salda della sua "altra" e più debosciata metà e un legame più intimo con i suoi compagni di band. Non ultima la volta in cui entrò in camerino dopo uno show e notò che era buio pesto; si sentivano dei tonfi liquidi che venivano da un


angolo, quindi corse fuori in cerca di una videocamera con la visione notturna e tornò giusto in tempo per riprendere Dom che veniva sulla schiena di una ragazza. La musica sarà anche stata di classe superiore, ma la condotta, com'è tipico di chi ha appena conseguito il titolo di "rockstar", lasciava parecchio a desiderare. * * * Il tour promozionale mondiale di ORIGIN OF SYMMETRY ebbe inizio il 4 aprile, con uno show segreto al Lemon Grove di Exeter per circa 300 tra fan, familiari e maniaci accorsi da ogni angolo del globo. Poi la band si imbarcò in un breve tour da cinque date nel Regno Unito e il 12 aprile si diresse una volta per tutte nel continente. Prima di fare tappa al Paradiso di Amsterdam, per lo show previsto in serata, c'era in programma una session acustica al Denk aan Henk di 3FM Radio, dove suonarono delle versioni ridotte di Space Dementia e Megalomania. A differenza degli altri tour, stavolta erano sottoposti al minuzioso e costante esame dell'obiettivo di Tom Kirk, il loro vecchio compagno di scuola che era passato a trovare la band al Paradiso e casualmente aveva con sé la videocamera. Era reduce da un corso universitario a Brighton, e con la classica usanza di reclutare roadie e compagni di tour dalla loro piccola cricca di amici di Teignmouth, la band gli propose il ruolo di responsabile multimediale, che li avrebbe filmati nei ritagli di tempo. Tre giorni dopo, quando perse il posto di lavoro perché non era ancora tornato a casa dal tour, cominciò a filmare i Muse a tempo pieno per un progetto che si sarebbe poi trasformato nel materiale extra del Dvd Hullabaloo49. Tom, metaforicamente parlando, da quella volta non è più tornato a casa. Con le nuove speranze dell'indie Cooper Tempie Clause e JJ72 a fargli da supporter, i Muse portarono in tour per Regno Unito ed Europa (passando per Francia, Germania, Svizzera, Olanda, Svezia, Danimarca, Spagna, Italia, Norvegia, Lussemburgo e Belgio) una scaletta di circa sedici canzoni, che coprivano i due album con furia e stile. Con un ordine più rigoroso rispetto ai pezzi scelti alla rinfusa dei tour precedenti, i concerti si aprivano di solito con il terzetto formato, a rotazione, da Micro Cuts, New Born e Uno prima di fiondarsi contro Showbiz, Screenager, Feeling Good, Sunburn, Hyper Music e Unintended (di solito non in quest'ordine), e chiudere poi il set accostando Cave, Fillip, Citizen Erased e Hate This And I’ll Love You. Plug In Baby precludeva quasi sempre il bis di Muscle Museum, Bliss e a volte una conclusiva Agitated. Questi set più strutturati, l'alternarsi negli show di momenti alti e bassi e l'introduzione dei primi elementi di uno spettacolo da palasport con la cascata di palloni gonfiabili durante Bliss testimoniavano la loro crescente maturità in sede live. Era anche uno sberleffo agli anti-show dei Radiohead, ai quali venivano ancora (erroneamente) paragonati. Con quel sound ormai unico, Matt poteva imputare la presenza costante di quella parola con la R nelle recensioni soltanto al fatto che entrambe le band erano inglesi e avevano spartito lo stesso produttore, salvo poi concludere che non c'era nessuna band inglese brava quanto i Muse. Il commento ironico di Colin Greenwood dei Radiohead, che si imbatté nella band in tour, fu che avevano bisogno di “prendersi meno sul serio". Questa nuova maturità non arrivò comunque a scalfire il loro comportamento sul palco. Avendo assunto una crew più professionale, stavolta vi furono meno problemi tecnici che mandarono Matt fuori dai gangheri, e con lo show dei palloni che ogni sera mieteva una bordata di "wow" durante il bis, il cantante non sentiva più la necessità di fare l'uomo-spettacolo da stadio. Affiancato dal suo nuovo tecnico della chitarra (l'ex-RATM), studiò a fondo il repertorio del suo idolo Tom Morello e si rese conto che meno fai uso di pedali ed effetti, più suoni il tuo strumento, cosa che regalò un fervore tutto nuovo alla qualità tecnica delle sue performance. La sua nuova libertà a livello relazionale, però, lo spingeva ad allentare i freni e spassarsela a un punto tale che, a fine concerto, dava lo stesso di matto, e i suoi colleghi erano felici di unirsi a lui. Matt confessò di aver sfiorato la pazzia quand'era sul palco; c'erano stati momenti in cui si sentiva smarrito e non sapeva cosa stesse accadendo. Lo paragonò ad essere la marionetta di un ventriloquo o John Malkovich nel film Essere John Malkovich, quando l'omonimo attore si arrampica nel suo cervello e vede che tutti intorno a lui hanno il suo stesso volto. Follia o esuberanza che fosse, ogni sera al suono degli ultimi accordi c'erano chitarre che si


schiantavano contro amplificatori, pezzi della batteria, palloni, tendaggi dei coni, fondali e certe volte in faccia a Dom. Una sera Matt cercò persino di demolire il pianoforte a colpi di chitarra. La batteria veniva fatta a pezzi praticamente ad ogni show e i ragazzi della band si trascinavano l'un l'altro giù dal palco portandosi a spalla o capovolti, lasciando il pubblico a scannarsi per aste dei piatti, bacchette e frammenti di chitarre distrutte (o a volte chitarre tutte intere). Furono i momenti migliori, i momenti più selvaggi; ma quelli veramente più selvaggi i Muse li tenevano in serbo per quando scendevano giù dal palco. Giravano voci di sesso a tre con fiumi di tequila sul tour bus e di camerini demoliti da cima a fondo, con gente che schizzava champagne in giro per la stanza o ne calava bottiglie dai finestrini in mezzo alla folla rumoreggiante dei fan dentro cestelli per il ghiaccio. I membri della band erano famosi perché svenivano nell'atrio degli alberghi dopo troppe notti passate a fare snorkelling da sbronzi nella Jacuzzi. Durante le riprese di sei pezzi per l'emittente radiofonica madrilena Radio 3, Matt, presumibilmente ubriaco alle quattro di pomeriggio, cambiò la terza strofa distorta di Feeling Good con le parole "cazzo stracazzo di cazzo di piccolo cazzo stracazzo di cazzo di piccolo cazzo stracazzo di piccolo stronzo, yeah!", più qualche incomprensibile borbottio, che provocò la messa al bando del gruppo da parte di Radio 3. Per un'apparizione televisiva a Parigi, con alle spalle le 150mila copie vendute da SHOWBIZ in Francia, la polizia dovette scortarli fino alle porte dello studio in mezzo a una folla urlante di duemila persone che bloccava interamente la strada. A Copenaghen, nell'enclave anarchica e indipendente di Christiania (un'isola al centro della città, simile a uno squat allargato dove gli irriducibili oppositori del sistema danese vivono secondo le proprie regole, principalmente incentrate sulla depenalizzazione e la vendita allo scoperto di droghe leggere), un corrispondente di «Kerrang!» fu testimone ufficiale di scene di depravazione da tour bus, tra cui copiose dosi di funghi, tequila, svariati membri della band e della crew e circa dieci ragazze scandinave semi nude. La parentesi italiana del tour di aprile-maggio fu ancora più fuori dagli schemi. Per la data a Milano si trovarono su un palco più grande del solito, e quando Matt provò a fare il giro completo della batteria tra una strofa e l'altra, non riuscì a tornare al microfono in tempo per l'attacco successivo50. A Roma, dove la band fece il tutto esaurito al Palladium, Dom, Chris e Matt passarono un pomeriggio davanti al Colosseo a mettersi in pose da guerriero, fare il gesto imperiale del pollice verso e recitare battute da Il gladiatore sotto gli occhi di alcuni turisti di Teignmouth che li avevano riconosciuti. Più tardi, Matt si vantò con un reporter di «Q» sul numero di ragazze che s'era portato a letto nella franche italiana del tour, infranse il limite massimo di decibel all'interno del locale con feroci schitarrate e suonò in anteprima un pezzo strumentale cui stava lavorando, provvisoriamente intitolato Butterflies And Hurricanes, brano che finirà per rappresentare l'alchimia perfetta tra versante classico, hard rock e melodico raggiunta a suo tempo della band. Il dopoconcerto del giorno seguente, 28 aprile, a Rimini, si rivelerà uno di quelli cruciali per Matt Bellamy. Rimini è una pittoresca cittadina della Riviera Adriatica, circondata da meravigliose colline verdeggianti che scivolano verso il mare, e il tour bus scaricò i Muse proprio qui, davanti al Velvet, un locale simile a una stalla per mucche dove avevano un concerto in serata. Matt era d'umore scherzoso, per tutto il giorno non aveva fatto altro che andarsene in giro con una banana in testa snocciolando qualche arpeggio di Please Please Please Let Me Get What I Want degli Smiths durante il soundcheck; affermò in seguito che era uno di quei classici testi alla Morrissey che aspirava a scrivere pur non essendone capace... per il momento. Il concerto fu impeccabile. Matt suonò divinamente, Dom si ritrovò in piedi sulla batteria a parlare con il pubblico e Chris scorrazzava per il backstage facendo la doccia di champagne a chiunque si trovasse a tiro (con le cinque bottiglie a serata che i Muse esigevano da contratto, oltre a un paio di calzini nuovi per i piedi di Matt che tendevano ad appestare i camerini), per festeggiare la promozione del suo amato Rodierham United in serie A. Gasati come non mai, i Muse invitarono numerosi fan a un improvvisato "after-party" sulle sponde del bellissimo lago con anatre nei dintorni del locale, un luogo normalmente riservato ai pescatori ma quella sera scenario del pedalò-party della band. Dicono sia stata quella, la serata in cui Matt conobbe una ragazza


speciale con la quale entrò parecchio in intimità, una con cui era davvero in grado di relazionarsi e che l'avrebbe trascinato in Italia una volta per tutte. Stando alle sue dichiarazioni di qualche mese dopo, quella ragazza sapeva accettare il fatto che lui si divertisse in tour, capiva la sua situazione e i guai in cui poteva cacciarlo e lui, dal punto di vista sentimentale, aveva finalmente trovato tutto ciò che voleva. Matt fu sicuramente smosso da qualcosa, quella notte. Il giorno dopo, mentre il tour bus era diretto a Vienna per un concerto da headliner alla Libro Music Hall, dove soltanto quindici mesi prima li avevo visti come supporter ai Bush, Matt si ritirò in privato, a meditare sulla tomba di Beethoven. * * * Il legame tra i fan e la band diventava sempre più forte. Matt postava regolarmente dei bollettini su siti come microcuts.net e, il 21 maggio, alcuni fan scelti furono persino invitati a fare le comparse nell'imminente video di New Born, secondo singolo in rampa di lancio da ORIGIN. Inviando tramite e-mail i loro dati alla Taste Media, i partecipanti più fortunati furono ripresi mentre pogavano al ritmo della canzone in un magazzino di West London, mentre la performance dei Muse fu filmata a Praga in un raro giorno di pausa dal tour europeo. La location fu scelta in risposta a un budget contenuto (Praga, come il Canada, costa poco per le riprese), ma lo stesso non poteva dirsi per il set, allestito su un lato, in modo che nel promo finale era come se la band stesse suonando su una parete dell'edificio davanti ai fan sbigottiti. Ovviamente no, era solo un effetto del regista che aveva ruotato la telecamera di novanta gradi, ma a prescindere da ogni intoppo tecnico immaginabile, dalla necessità di amalgamare le due riprese in una sola e da tempistiche così strette che il produttore, a quanto se ne dice, soffre ancora di flashback da incubo ogni volta che sente quella canzone, per i Muse si trattava del loro video finora più riuscito. Li avevano truccati di giallo in modo che sullo schermo la pelle sembrasse dorata, un sistema che il regista David Slade utilizzò con la band in diverse occasioni. Il tour, intanto, avanzava su Germania, Scandinavia, Belgio, Lussemburgo e Spagna, con la band che suonava dei saltuari set pomeridiani per spettacoli radiofonici o televisivi, come nel caso della radio di Madrid RTVE o dell'inglese Radio One, prima dell’accoglienza estatica nei concerti serali che già da un pezzo avevano segnato il tutto esaurito e dove si esibivano davanti a migliaia di Muse-maniaci in adorazione di ogni città. Il tour chiuse i battenti non prima di una seconda, trionfante incursione in una manciata dei più grandi locali del Regno Unito, per poi spegnersi del tutto con due serate sold-out alla Brixton Academy che, con una capienza di 5mila persone, è il più grande locale da concerti di Londra, banco di prova per tutte le band in ascesa nelle schiere del rock e porta aperta per il circuito dei palasport. Per i Muse la situazione non poteva dirsi più rosea. Il putiferio scatenato dai fan nel 2000 si stava ora trasformando in adorazione a lungo termine, e loro stavano diventando una band che contava davvero qualcosa per la gente. E stavano anche diventando habituèes ai piani alti delle classifiche dei singoli nel Regno Unito. Se Plug In Baby fosse andato bene, avevano in mente di lanciare come nuovo singolo un pezzo meno scontato e, come da copione, i sei destabilizzanti minuti di New Born uscirono nei negozi il 5 giugno in un totale di sei formati: i Cd 1 e 2 contenevano il videoclip, una ripresa live di Plug In Baby registrata al Paradiso di Amsterdam all'inizio del tour europeo e tre nuove canzoni. C'era un avanzo delle session con Leckie intitolato Shrinking Universe, che sarebbe stata utilizzata nel trailer della pellicola 28 settimane dopo, e la folkeggiante ed ottimistica Map Of Your Head, che (seppur fuori contesto in ORIGIN) era meno scartabile di quanto sembrasse. Questo brano è anche un'ammissione del feticismo di Matt per i calzini bianchi, e il verso "wearing just socks and a phone" ("indossa solo i calzini e un telefono") fu preso dai fan come allusione ai post che il cantante aveva lasciato sul sito ufficiale della band, in cui sosteneva che trovare delle ragazze con addosso solo t-shirt e calzini era una delle cose che lo eccitava di più. C'erano infine dei ghirigori improvvisati al pianoforte e intitolati, con opportuna modestia, Piano Thing, quel genere di attacchi di virtuosismo di cui Matt era vittima in questo periodo fra un'intervista e l'altra, se per caso c'era un pianoforte nella stanza. Non vi bastano i formati? Allora provate con l’Hyper Music Box, che contiene


tutti i pezzi nuovi, il live di Plug In Baby, quello di New Born e i videoclip di entrambi i singoli. Lo volete in 7”? Certo che c'è, con Shrinking Universe sul lato B. Come dite? Un maxi-Cd per alcuni Paesi? Tranquilli, si sono inventati una fusione fra Cd1 e Cd2. Ne volete ancora? Che ne dite di un bel 12” con remix di Timo Maas e Paul Oakenfold, nelle vostre mani in soli quindici giorni? Che non si dica che i Muse, una volta scoperto che i loro fan appartenevano alla categoria dei completisti, stessero strizzando fino all'ultima goccia la tattica dei formati multipli, ma quella strategia dava di sicuro i suoi frutti. New Born si piazzò al numero 12, spinta ulteriormente a forza nella coscienza del pubblico da un'intera settimana di caotiche apparizioni televisive che videro la band regredire alle proprie vecchie abitudini distruttive. Demolirono il set cosparso di rose a CD:UK come rappresaglia per essere stati presentati da Richie dei 5ive (la presentatrice Cat Deely li minacciò scherzosamente di spedirgli il conto dei danni), guidarono fino a Leeds per uno show alla University, baldoria tutta la notte, di nuovo a Londra per suonare New Born su canale T4 con un doposbornia faraonico (il pezzo fu tagliato a metà dai titoli di coda) e via a Bristol, per un altro concerto. Arrivati al Pepsi chart show, alla vigilia dell'uscita di New Born, erano talmente disgustati dal tran-tran dei programmi pop che si "esibirono" (leggi: mimarono per le telecamere) con Chris alla batteria, Dom al basso e Matt che a fine canzone non suonava nemmeno più la chitarra, ma dondolava appeso a una tenda sopra il suo amplificatore. Scene simili si verificarono a Live & kicking, dove il set fu invaso da alcuni amici della band che facevano body-popping e la canzone finì in una mischia generale che per fortuna non degenerò in un'orgia. Sia nelle questioni serie dei concerti internazionali che nelle inedite buffonate televisive in fascia pomeridiana, i Muse volavano alto. Ancora non sapevano che le cose, per migliorare seriamente, dovevano prima peggiorare un po'. * * * Quando il messaggio giunse a destinazione, con ogni probabilità Matt pensò che fosse un altro scherzo di Chris Martin. In quanto frontmen di due band entrambe esposte alle feroci critiche della stampa che li bollava come "post-Radiohead", tra Bellamy e Martin era nata una forte amicizia. Martin passava a trovare Matt, Dom e Chris nell'appartamento che ora dividevano a Londra (dove avevano radunato abbastanza gente da non aver più bisogno di tornare nel Devon per fare casino), per fargli ascoltare i demo dei brani tratti da A RUSH OF BLOOD TO THE HEAD, il secondo album dei Coldplay in uscita a breve, e per vedere come reagivano. Matt aveva sempre creduto che non ce l'avrebbe mai fatta; se qualcuno si fosse dimostrato critico nei confronti dei suoi demo gli sarebbe venuta voglia di farlo secco, ma poi Chris gli insegnò un sacco in materia di stile e, come nota ironica alla loro reciproca simpatia, i due passarono tutta l'estate a darsi battaglia a colpi di scherzosi sms in codice. Matt inviava un messaggio a Chris in cui definiva i Coldplay "quel gruppo di Yellow ', e Chris rispondeva per le rime al "Grande Tappo del Pomp Rock". Quelle battute "offensive" andarono avanti per un'eternità. Erano i Derek & Clive del rock. Così, quel pomeriggio d'estate ad Hyde Park, quando una delle interviste prealbum dei Muse fu interrotta da una chiamata proveniente dall'ufficio del loro manager, secondo cui una band famosa rivale li aveva definiti "un gruppo-tributo ai Radiohead", per un istante Matt avrà senza dubbio sghignazzato tra sé e sé. Almeno finché non si appartò tra le siepi per verificare i dettagli. Tutt'a un tratto, quell'estate, Matt scagliò nel fiume il suo cellulare con la suoneria di Revolver dei Rage Against The Machine, ed è molto probabile che il giorno in questione sia stato proprio quello, dopo che gli fu riferita la notizia. Non era affatto uno sputtanamento ironico da parte di Chris Martin. La dichiarazione era di Kelly Jones, cantante degli Stereophonics, uno stagnante gruppo rock post-Oasis di inspiegabile successo che si rivolgeva al mercato del rock da pantofole e sgabello. Le due band avevano già suonato insieme in alcuni show e festival americani, ma gli Stereophonics erano esattamente quella razza di musicisti che il rock futuristico e famelico dei Muse stava mettendo a rischio d'estinzione. Durante una conferenza stampa per inaugurare gli show della sua band al A Day At The Races (un evento multi-band in stile festival capitanato dalla cricca di Jones, che si sarebbe tenuto al Donington Park se solo un'epidemia di afta epizootica non avesse costretto gli organizzatori a spostarlo al Millennium Stadium di Cardiff), Jones dichiarò d'aver chiesto ai


Muse di esibirsi e il loro agente aveva più volte ribadito che il prezzo per farli suonare era di 25mila sterline. "Un gruppo-tributo ai Radiohead puoi rimediarlo per meno", ironizzò Jones, e ne seguì il classico bisticcio a suon di ripicche nella stampa musicale. "Vorrei essere fico quanto lui", fu la risposta di Bellamy, "e vorrei scrivere i testi come fa lui". "È solo un manichino, dovrebbe scopare di più", replicò fulmineo Jones. "Stona un po', detto da una band famosa per aver chiesto un milione e settecentomila sterline per suonare al Carling Weekend", disse Matt, e aggiunse che i Muse avrebbero anche suonato gratis, dato che i concerti negli States erano andati alla grande, solo che adesso gli Stereophonics avrebbero dovuto sganciargli due milioni di sterline e affittargli un cesso portatile per convincerlo a far loro da supporter. Matt era uno spocchioso bastardo, fu la sagace risposta di Jones, e via dicendo per alcune settimane, fino alla fatidica verità: tra gli agenti di prenotazione delle band c'era stato un equivoco, non erano stati offerti soldi e i Muse non avrebbero comunque potuto suonare, perché avevano firmato degli accordi in esclusiva con il T In The Park e il V2001 che per quell'estate precludevano loro ogni esibizione in qualsiasi altro evento del Regno Unito. Nondimeno, quel primo assaggio di ostilità a mezzo stampa aveva lasciato Matt spiazzato e ferito. Certo, era uno abituato ai buttafuori incazzati che lo afferravano per la collottola e lo sbattevano fuori dai nightclub, e anche agli insulti. Qualche mese dopo quest'episodio, mentre era diretto all'Astoria per assistere a un concerto, uno sconosciuto in vena di fare a botte con la rock-star più gracile a portata di mano lo chiamò "coglione". E conosceva bene anche la rabbia al volante: prendeva in prestito la macchina di sua madre per ritrovarsi puntualmente alle prese con motociclisti arrabbiati. Una volta parcheggiò sul marciapiede e un'altra auto strisciò di proposito contro la sua, per fargli notare l'errore. Matt iniziò a urlare insulti contro la vettura, da cui emerse un uomo di mezza età armato di spranga che gli sbriciolò i fanali, e tutto mentre lui sedeva divertito al posto di guida filmando l'intero attacco. Le minacce e la violenza della vita quotidiana Matt le sistemava con una risata. C'era abituato. E le frecciatine della stampa se le scrollava di dosso, come quando, quella stessa settimana, la band fu accusata di essersi venduta per aver ceduto Sunburn ad uno spot televisivo dei computer iMac della Apple in cambio di un assegno a cinque cifre. Ma l'odio premeditato da parte di un collega musicista non lo capiva. Detto ciò, avrebbe dovuto prenderlo come un complimento professionale: le sparate di Jones erano il segnale di quanto i Muse stessero diventando importanti e minacciosi per la confortevole egemonia musicale degli Stereophonics. Erano il sintomo della paura di Jones che i Muse fossero venuti a scoppiare la loro redditizia bolla di rock commerciale. Qualche settimana dopo, Stuart Cable, batterista degli Stereophonics, avvicinò Chris in un albergo in Germania per scusarsi a nome di Kelly, dicendo che il cantante era molto stressato per la promozione del nuovo album, ma ormai i Muse avevano cose ben più urgenti di cui preoccuparsi. Perché stavano per finire sotto il fuoco di pesanti critiche dalle parti di casa. * * * Fedele al ruolo di uomo dagli insoliti processi mentali, Matt Bellamy aveva delle difficoltà ad ascoltare musica. Non gli piaceva avere intorno a sé la musica indesiderata di altra gente, alla radio o alle feste. Preferiva infilare un paio di cuffie e "scomparire". E provava un'avversione simile quando sentiva la propria musica in pubblico. Per l'estate del 2001, aveva ascoltato ORIGIN OF SYMMETRY un paio di volte in tutto, e solo quando gli altri lo mettevano su in sua presenza, cosa che lo faceva sentire estremamente a disagio. Non era il solo a pensarla così. Se nel Regno Unito Plug In Baby si era rivelata un successo, le radio americane non avevano dato segno di notarla, e i mormorii che giungevano dal quartier generale della Maverick erano a dir poco preoccupanti. Secondo loro era un singolo troppo istrionico, c'era troppo falsetto. L'album, poi, era carente di singoli e non abbastanza radiofonico. L'etichetta arrivò quasi a dire ai Muse di registrare il brano ex novo senza il falsetto, e la risposta della band arrivò rapida e tagliente: "Prendetevela in culo, grandi teste di cazzo". Ulteriori pressioni da parte dell'etichetta a remixare e persino a ri-registrare l'intero album provocarono ancora più attriti, e Matt non contribuì a migliorare il clima quando riferì alla stampa che, dopo diciotto mesi accasato presso la sua etichetta non aveva ancora


incontrato Madonna, ma una volta venduti dieci milioni di album e con un fisico alla Ricky Martin allora forse gli avrebbe fatto un pompino. L'etichetta non accennava a mollare, la band vedeva come un semplice insulto le loro richieste di compromettere la propria musica per le trasmissioni radio51 e alla fine, quando la Maverick chiuse la discussione rifiutandosi di far uscire ORIGIN OF SYMMETRY negli Stati Uniti, dopo qualche manovra contrattuale i Muse lasciarono l'etichetta. Serj Tankian dei System Of A Down si fece avanti per aggiudicarsi l'album con la sua Serjical Strike, ma fallì. Per altri quattro anni ORIGIN non avrebbe avuto una distribuzione americana, e il fratello di Matt non ottenne mai l'autografo di Madonna. Pazza Maverick, verrebbe da dire, perché alla sua uscita nel Regno Unito il 17 luglio ORIGIN OF SYMMETRY fu accolto da critiche eccezionalmente positive su più fronti. «NME», per premiare l'ambizione, la capacità di reinventare e la violenza pura di quel disco rock neoclassico assegnò ad ORIGIN un insolito "9 su 10”. Altri recensori cominciarono finalmente a lasciar perdere i paragoni con i Radiohead quando si resero conto che la band aveva molto più in comune con Jeff Buckley, Jacques Brel e la sigla d'apertura del Dottor Who, piuttosto che con la cricca di Thom Yorke. Tranne che per qualche sparata a zero tra i recensori della Rete (convinti forse di essere loro, i bastioni di ogni cosa futuristica), la stampa musicale mainstream aveva invertito la sua tendenza a sbandierare entusiasta il primo disco di una band solo per riservare al secondo un'accoglienza tiepida. Avevano provato a buttarli giù solo per guardarli mentre si rialzavano, cocciuti. E Matt avrà provato una certa soddisfazione al commento del recensore di «Kerrang!» per il quale Hyper Music aveva un assolo "degno dello stesso Tom Morello". Per i recensori, ORIGIN era un album più omogeneo di SHOWBIZ, e l'artwork di copertina rispecchiava quest'affermazione. Nel tentativo di emulare la simmetria universale ispiratrice del titolo e la continuità fra le canzoni stesse, i Muse chiesero a dodici diversi artisti di disegnare una copertina basandosi solo sul titolo, con l'idea che ogni artwork sarebbe risultato radicalmente diverso ma interlacciato agli altri da una specie di pensiero teoretico da undicesima dimensione, come opere casuali accomunate dalla stessa origine. La copertina recava l'immagine di William Eager, il disegno di una brulla landa bianca (non troppo dissimile dal paesaggio allucinario di Matt) punteggiata di enormi antenne metalliche aliene a forma di porta da rugby. Tra le altre opere c'era l'illustrazione di Darren Gibbs con degli uomini identici (operai-automi) in coda per accedere a un cubo bianco/ambiente lavorativo. Il negativo di una dea orientale circondata dagli scarabocchi di orrori contemporanei come carri armati, incidenti aerei, terroristi armati e auto della polizia ribaltate, opera di Austin, una specie di accusa alle religioni del passato per le paure del presente. Il disegno cubista di Leo Marcantonio in rosso, bianco e nero, ironicamente simile alla copertina del successivo album dei Coldplay, X & Y. Tony Oladipo e il suo ritratto di una band robotica che suona per un gruppo di esseri umani intenti a picchiarsi. Un'invasione di alieni arancioni dalle facce sorridenti sullo sfondo di una Tokyo anni Settanta, opera di Butch Gordon. Il duplice lavoro di Tim Berry, con l'insegna deturpata di una discoteca e un barbecue suburbano industrializzato in un contesto di degrado tecnologico. La foto di Simo Earith di un cacciabombardiere come appare nel retrovisore di un altro aereo, con tanto di legenda in sovrimpressione e la scritta: "Gli oggetti sono più vicini di come appaiono". Poi le prove surrealiste di Marilyn Patridean e David Foldvari e il contributo di Adam Cruikshank, una pubblicità minimalista con un cadetto spaziale della Gioventù Sovietica che fu utilizzata come copertina del singolo di New Born. Seppur uniche nella visione, queste opere veicolavano l'effetto d'insieme di un mondo degradato dal progresso tecnologico e trincerato nella paura e nella routine lavorativa. A quanto pare, quel titolo di tre parole aveva suscitato negli artisti le stesse idee della band. I Muse si trovavano nel bel mezzo della loro seconda estate festivaliera quando seppero la notizia che il loro secondo album non solo era entrato in Top 40 (dove SHOWBIZ aveva clamorosamente fallito), ma dopo una settimana dall'uscita era ancora al numero 3 nelle classifiche inglesi (e nel giro di quattro mesi avrebbe eguagliato le vendite di SHOWBIZ). Stavolta era un raid molto più pacato rispetto a quello dell'anno prima (nel 2000, grazie alla loro incapacità di dire no a qualunque data gli offrissero, avevano partecipato a un totale di 57 festival). Tra giugno e settembre accumularono 19 show, con partenza due giorni


dopo la Brixton Academy per due date in Irlanda all'interno del festival Heineken Green Energy Show, seguite dal Sound Arena Rock Festival in Svizzera e dalla seconda apparizione al One Big Sunday della BBC Radio One il 24 giugno. Dopo l'esito rovinoso di quell'esibizione dell'anno prima, sfociata nel pandemonio, i due pezzi all'Heaton Park di Manchester, insieme ad artisti del calibro di Wycleaf Jean e Usher, furono per fortuna live. Il pubblico andò in estasi per Plug In Baby e per il lancio di palloni durante New Born, perfetto per un festival estivo. Concluso lo show, alle quattro di pomeriggio dello stesso giorno la band scappò a Londra per suonare Bliss negli studi di Abbey Road, nel programma Radio 4 choice della BBC. Poi entrarono a tutta forza nel circuito dei festival, modificando di volta in volta la scaletta per aprire con Citizen Erased e chiudere con i palloni in festa di Bliss in cinque festival sparsi per la Francia: Les Folies De Maubuege di Lille, Le festival des Insolents a Quimper, Le Rock Dans Tous Ses Etats di Evreux, Amie Aren di Nimes e La Route Du Rock a Saint-Malo, celebre per il leggendario macello dell'ultimo accordo, quando Matt scagliò la sua Iceman rossa in mezzo al moshpit e Chris scalzò Dom dai resti della batteria con un placcaggio da rugbista. Strada facendo coprirono il Rock Werchter e il Pukkelpop in Belgio, l'Haldern Pop Festival in Germania, l'olandese Lowlands, l'Independent Days a Bologna e lo scozzese T In The Park, dove, imbarazzati, divisero il cartellone con gli Stereophonics. Si aggiudicarono persino un'altra settimana nel loro amato Giappone, con due show a Osaka e Tokyo e ulteriori visite ai santuari scintoisti dove Matt, come al solito blasfemo maestro del disordine, si divertì a tirare acqua santa in faccia a Dom. Con ORIGIN in rampa di lancio e pronto a sfracellare le classifiche, il giro dei festival fu all'insegna del buonumore e dei festeggiamenti, coronato dalle prime performance da headliner della band in eventi all'aperto come il V2001 di Stafford e Chelmsford, dove chiusero il secondo palco, e lo svizzero Winterthur, dov'erano in cima al cartellone. Sentendo d'aver sfondato nel giro dei grandi, i Muse si fecero notare in quanto a scherzi e potenza distruttiva. Al V2001, Dom trascorse il pomeriggio a rubare le piccole vetture che portavano avanti e indietro le band dal palco fino ai prefabbricati che ospitavano i camerini, guidandole come un pazzo nell'area del backstage e schiantandosi contro tavoli stracarichi di bevande. Durante un festival, prima del concerto degli Slipknot (i Muse avevano notato un sacco di magliette degli Slipknot in prima fila, segno che stavano facendo breccia sia nelle "alienate" schiere di adolescenti metal che tra i giovani fan dell'indie rock), il cantante Corey Taylor si fermò di fronte a Dom, a lato del palco, e cacciò un primordiale ruggito pre-show. Il batterista lo trovò così esilarante che, finito lo show, rubò la maschera personalizzata di Taylor e fino al festival successivo non fece altro che indossarla ed esibirsi di continuo in inquietanti e spassose rievocazioni di quella scena. Ammesso che Dom l'abbia tenuta, è probabile che quella maschera non spopolasse più di tanto ai loro soliti party. Con la stagione dei festival agli sgoccioli, il 20 agosto la Taste Media/Mushroom consolidò i successi estivi della band facendo uscire Bliss, il singolo più ovvio di ORIGIN dopo Plug In Baby nonché uno dei pezzi preferiti dalle masse scoppia-palloni in sede live. L'ormai classica confezione da due Cd comprendeva il videoclip con relativo "making of", un'altra produzione firmata David Slade in cui un Matt dalla chioma scarlatta precipita al centro di un futuristico pianeta meccanico, sbuca dall'altra parte e continua a cadere fino al margine dell'universo, dove si dissolve in una nube di gas52. Nella confezione erano inoltre incluse le versioni live di Screenager e New Born (dalle session che si erano tenute, rispettivamente, al Paradiso e ai Maida Vale Studios della BBC) e due canzoni nuove: una strumentale con sintetizzatore e theremin intitolata The Gallery (probabile allusione alla dozzinale musica da synth del programma d'arte per bambini Take Hari) e una variante acustica di Hyper Music ribattezzata Hyper Chondriac Music. Il singolo si posizionò al numero 19 nel Regno Unito (risultato impressionante per un terzo singolo tratto dallo stesso album), e il suo ingresso in classifica fu segnato dal ritorno dei Muse a Londra, dove ricevettero il secondo award come Miglior Gruppo Inglese alle premiazioni di «Kerrang!» di quell'anno. Con piglio decisamente ironico, e tenendo opportunamente conto degli elementi istrionici e sinfonici del recente materiale, la rivista chiamò Brian May a consegnare il premio, e mentre la band andava a ritirarlo mandarono dagli altoparlanti We Will Rock You. Ma la band non


prese affatto come un'offesa l'accostamento con i Queen. Matt preferiva di gran lunga emulare l'esibizione di Freddy Mercury sul palco, piuttosto che le sbiadite e comunissime band che arrancavano svogliate intorno a lui nella serie A dell'indie. E la stampa iniziò furbescamente a nutrire molto più interesse per questi giovani-emarginati-qualunque del Devon che s'erano tramutati in fanatici della fantascienza con i capelli sconvolti. Con l'ascesa in Top 10 e le voci dei numerosi festini da tour, a settembre l'interesse della stampa per i Muse fu dieci volte superiore, e vennero a galla un sacco di ulteriori e succulente notizie sulla band. Con ORIGIN dicevano d'aver superato le proprie inibizioni ascoltando un'enorme quantità di generi musicali, e questo grazie a John Leckie, che al termine delle registrazioni spesso li iniziava a gruppi classici come Captain Beefheart. Scherzando, Dom disse che per aiutare Matt a raggiungere le note alte lo prendeva a calci nelle palle. Matt, invece, credeva che fosse più questione di avere polmoni e corde vocali di piccole dimensioni. Per Matt era spiazzante il piacere che la gente provava nello stringergli la mano durante i meet and greet. Chris era uno molto tranquillo, ma ogni tanto lo beccavano mentre recitava delle scenette tra sé e sé. A Matt sarebbe piaciuto andare ai concerti di musica classica, ma non trovava mai ibiglietti perché i lettori del «Guardian» li avevano già comprati tutti con dieci anni d'anticipo, e tanto non aveva i vestiti giusti (indossava camice di seta fatte sumisura perluiin Giappone). I vizi peggiori di Matt? Camminava spesso avanti e indietro e soffriva di una leggera sindrome di Tourette. Chris beveva forte, ma la mattina dopo, non si sa come, aveva sempre un'aria da orsacchiotto. Matt odiava la normalità, fare ciò che fanno tutti, ed era felice di staccarsene. Sul fronte musicale, a Chris piacevano il metal e i Beach Boys, Dom preferiva Buddy Miles e Aphex Twin e Matt stava ascoltando il nuovo album dei Weezer. A tutti e tre piacevano molto i Deus, perché mescolavano di tutto nella stessa canzone, dal blues alla disco. Matt faceva musica per lasciarsi qualcosa alle spalle una volta che se ne fosse andato. Quasi tutte le canzoni di ORIGIN parlavano di una fase di cambiamento o di transizione. Matt, infatti, aveva deliberatamente tagliato i ponti con tutti i suoi amici e la sua ragazza53: era un repulirsi necessario per progredire come persona. Chris veniva bersagliato da un sacco di scarpe quand'era sul palco. Se avessero voluto vendere milioni di copie avrebbero dovuto fare una versione acustica di ORIGIN. Contrariamente a quanto si credeva, Matt non era uno "tormentato": la musica gli dava un senso di piena soddisfazione. Chris non avrebbe mai seguito i suoi colleghi trasferendosi a Londra perché "voglio veder crescere il mio ragazzo". Matt stava pensando seriamente di fondare un culto per spingere i suoi adepti al suicidio (scherzava). A settembre, poi, saltarono fuori altre sue bizzarre teorie. In termini di dimensioni, paragonava l'umanità a un verme che striscia su un pezzo di carta (nel libro l’Universo elegante quelle creature vivevano in una realtà a due dimensioni). Disse che, tramite la meditazione, era in grado di stabilire un contatto con quelle versioni di se stesso che appartenevano al passato. Ribadì la sua convinzione per cui il cervello è in grado di assorbire le personalità altrui e tutti depositiamo una parte della nostra anima o forza vitale in ogni persona che incontriamo. Parlò di misteriose catacombe in Iraq dove credeva si trovassero delle tavolette antecedenti al linguaggio. Erano formate da una specie di antico idioma da computer e mappe stellari, e chiunque ne fosse entrato in possesso avrebbe avuto accesso alla verità sull'esistenza umana. Ce le avevano messe, sosteneva lui, degli alieni provenienti dal dodicesimo pianeta chiamato Nibiru, un gigantesco meteorite geotermico contenente forme di vita extraterrestri super-intelligenti, la cui rivoluzione intorno al sole si conclude ogni 3.600 anni. Quando sarà abbastanza vicino al nostro pianeta (ciò accade, a quanto pare, per circa 200 anni alla volta, e presto sarà di nuovo vicino), gli alieni voleranno fin qui per venirci a trovare. La stessa razza umana, infatti, fu creata da questi alieni 300mila anni fa, quando si clonarono in scimmie o uomini di Neanderthal con un quinto della loro intelligenza per ottenere una razza di esseri inferiori che scavasse il pianeta al posto loro. Del resto utilizziamo solo un quinto del nostro cervello, e ciò spiega di sicuro l'umana battaglia fra intelletto superiore e istinto animalesco. Era un'idea che aveva preso dalla lettura del Dodicesimo pianeta di Zecharia Sitchin, uno scrittore che era stato il primo consigliere di Colin Powell per vent'anni.


Matt, trovando il libro piuttosto noioso, ammise di averne letto soltanto due o tre capitoli e di essersi inventato il resto della storia. Fantasticherie sci-fi, sproloqui casuali e appetitosi retroscena: era il momento delle cose accessorie. Un periodo spensierato, in cui la gente si interessava a simili sciocchezze, prima che più grandi incertezze attanagliassero il mondo. Perché solo una settimana dopo queste interviste, la previsione di Matt che la paura del mondo fosse sul punto di deflagrare in maniera estremamente negativa stava per rivelarsi tragicamente vera. * * * Esiste di sicuro qualche sperduto anfratto della società occidentale e dell'arte che non è stato profondamente colpito dai fatti dell'11 settembre 2001. Ma questo non è il caso dei Muse. Loro ci andarono più vicino di molti altri. Il 10 settembre la band si trovava a Manhattan per una data al Mercury Lounge, che faceva parte di un breve tour americano su ordine della Maverick (era ancora in corso il braccio di ferro per l'uscita di ORIGIN OF SYMMETRY negli States, e la band era felice di saldare il debito con il Paese che per primo l'aveva messa sotto contratto). Subito dopo lo show, la band fece i bagagli e prese il volo per Boston in serata. Se avessero prenotato un volo per la mattina seguente sarebbero rimasti ovviamente incastrati nel Lower East Side, a poche miglia da Ground Zero, dove colpirono gli aerei. Con tutto il traffico aereo sopra gli States sospeso per tre giorni, finito lo show i Muse rimasero bloccati a Boston per un po', a testimoniare la paura a macchia d'olio, la paranoia dilagante e i discorsi su una Guerra al Terrore che quella settimana strinsero l'America in una morsa, e che continuano a farlo tutt'ora. Per Matt fu la conferma che la sua previsione era esatta. La paura accumulatasi nel subconscio della società aveva trovato la sua tragica valvola di sfogo e ora il mondo tremava sotto un'ombra minacciosa che usciva sia dalle grotte di Al Quaeda che dal palazzo del Senato americano. La sua diffidenza critica nei confronti dei media tradizionali lo spinse a perlustrare la Rete in cerca di dettagli nascosti, e rimase invischiato nelle teorie complottiste alla base degli attacchi terroristici. L'idea che il passaporto di uno dei dirottatori fosse uscito indenne da quell'inferno, mentre la scatola nera dell'aereo si era fusa, gli sembrava ridicola. Le voci secondo cui sei presunti membri del commando erano ancora vivi lo incuriosivano. L'assenza di un'indagine indipendente gli fece suonare dei campanelli d'allarme in testa. E la tesi che a dirigere un'operazione così complessa fosse stata un'organizzazione di così basso profilo come Al Quaeda (invece di, per dirne una, gruppi di persone muniti di un apparato efficiente che avrebbero ricavato enormi quantità di denaro dalla guerra che ne sarebbe scaturita) gli sembrava altamente improbabile. Chi c'era veramente dietro, quanto ne sapevano gli Stati Uniti prima che accadesse, com'era veramente successo e perché? Quell'evento, avvolto da mistero, propaganda politica, piani segreti, incongruenze e mezze verità, spinse il suo sospetto di lavaggio del cervello mediatico e la sua sfiducia nell'informazione verso nuove, inviolate vette. Rivolse la sua mente dalle galassie alla politica, influenzando profondamente la successiva produzione dei Muse. In quel momento, tuttavia, la loro reazione alla tragedia fu confusa come quella di chiunque altro, e siccome non potevano lasciare Boston per proseguire con il tour, non persero tempo a trovare uno studio in città dove registrare i demo per due nuove canzoni, la loro risposta istantanea a quell'enorme spostamento nel sentire globale. La breve, arrabbiata e poppeggiante In Your World si mostrava solidale con l'atmosfera luttuosa di quella settimana. "In your world / Nobody's dying alone" ("Nel tuo mondo / nessuno muore solo") cantava Bellamy, infilando dei riferimenti al 9/11 in un brano che poteva tranquillamente passare per il classico pezzo su una relazione traumatica (era anche fin troppo ottimistico rispetto a gran parte dei tributi post-11 settembre). Ben più accusatorio l'hardcore di Dead Star che, scimmiottando i RATM, puntava il dito sull'ondata di isteria che spazzava l'America e sull'ipocrisia di una nazione che incolpa gli altri Paesi quando la responsabile è proprio lei: "Shame on you for thinking you're an exception / We're all to blame / Crashing down to Earth / Wasting and burning out / Fading like a dead star / Harm is coming your way" ("Vergogna, ti credi l'eccezione / La colpa è di tutti / Ti schianti sulla Terra / Ti consumi, bruci / Svanisci come una stella morta / Sul tuo cammino c'è il dolore"). La canzone era quasi una condanna all'America, con Matt che scherniva il Paese per non aver intravisto le potenziali conseguenze di una condotta internazionale


specchio dell'idiozia e dell'arroganza, la stessa di cui era stato diretto testimone a Woodstock. Audace come il contenuto del testo (e non necessariamente interessata a ciò che l'America pensava di loro in quel momento, dato che con la Maverick le cose stavano precipitando), la band fu comunque abbastanza sensibile da non far uscire quel pezzo per altri nove mesi. Due settimane dopo, quando i Muse riuscirono finalmente a lasciare l'America, li raggiunsi in quella che era sempre stata la controparte teologica degli USA, Mosca, e li trovai su di morale, per niente oppressi dal giogo del lutto mondiale. Per tutto il volo da Londra, Matt non aveva fatto che ripetere al resto della band di aspettarsi il peggio. I Muse non avevano venduto quasi nessun album in Russia, e Matt era convinto che sarebbero arrivati nell'indifferenza generale, se non addirittura nell'ostilità, per suonare davanti a un massimo di 200 persone. Ma il mercato musicale russo è ingannevole: ruota prevalentemente attorno al mercato nero, ci sono band con uno sproposito di fan che vendono solo pochi dischi, e 100mila copie vendute significa che un numero circa tre volte superiore di persone possiede una copia pirata del tuo album. Inoltre, la cancellazione di parecchie band in trasferta internazionale sulla scia dell'11 settembre voleva dire che l'attesa per il loro arrivo era febbrile. Dove i Muse si aspettavano una nazione che scrollava le sue spalle da orso trovarono invece un pandemonio. Le prime avvisaglie giunsero quel pomeriggio, durante una session fotografica nella Piazza Rossa. Nessuno sapeva che Matt, Dom e Chris si sarebbero trovati lì, ma nel giro di dieci minuti dal primo flash ogni persona sotto i venticinque anni li aveva riconosciuti e li inseguiva con accanimento fuori dalla piazza, fino alle monovolumi. E lo show ribadì il concetto una volta per tutte. Invece di un club con la capienza di un centinaio di persone, il concerto si tenne al Luzhniki Sports Palace (capienza: 10mila), una vecchia struttura fatiscente di periferia che ospitava un enorme complesso sportivo. In preda a un epocale scoppio di Muse-mania, la folla era una marasma di urla e pogo nonostante la vistosa presenza di guardie armate che facevano rispettare delle bizzarre regole da concerto (come, ad esempio, poliziotti che impedirono ai fan di lasciare l'auditorium per quindici minuti dopo la fine dello show). E le scene del dopoconcerto furono pura follia. Farsi largo fino alle monovolumi in mezzo alla folla che spintonava all'ingresso degli artisti e raggiungere la sala VIP di un nightclub in centro di proprietà della mafia (con tanto di metal detector all'entrata) per scolarsi drink a notte fonda fu l'esperienza più simile alla Beatlemania cui questo scrittore abbia mai assistito. E il party in camera di Dom, quella notte, sembrò più un tentativo da Guinness dei Primati di infilare il maggior numero possibile di ragazze ubriache fradice di vodka in un'unica stanza d'albergo. Quel posto straripava a un punto tale che Matt decise di alleggerire la calca portandosi in giro le ragazze a coppie per i corridoi dell'albergo, con quale scopo possiamo solamente supporlo. A quanto pareva la Russia era il loro nuovo Giappone, e senza neanche averci provato i Muse erano la prima nuova band del decennio a sbancarla (Oltre curiosamente a Placebo e Rialto). * * * Tornati in Europa, quell'autunno, i Muse toccarono svariati zenith. Lo zenith di vendite: a quattro mesi dalla sua uscita, ORIGIN viaggiava a quota 200mila copie, superando già così le 180mila unità raggiunte nel frattempo da SHOWBIZ (sebbene certe fonti riferissero che SHOWBIZ ne aveva vendute diversi milioni in tutto il mondo), e puntava rapido al titolo di Disco di Platino nel Regno Unito (a quota 300mila). Lo zenith della forma: l'anno più ricco di festeggiamenti stava per chiudersi con una manciata di show fra Inghilterra, Belgio, Olanda, Francia, Spagna, Italia, Austria e Germania, senza che la baldoria accennasse a diminuire. Al Plymouth Pavilions il debutto di In Your World e Dead Star ricevette un'accoglienza entusiastica che ne decretò la presenza fissa in sede live per il resto dell'anno. Dead Star seguiva il nastro introduttivo con l'agghiacciante parlato di Tom Waits sulle note omicide di What's He Building?, la storia, piena di veleni, seghe elettriche, gemiti sommessi e formaldeide, di un vicino di casa e del suo inquietante progetto domestico segreto. In diversi show, Matt iniziò a spargere sul pubblico petali di rosa dalle maniche delle sue camicie di seta in stile geisha giapponese. Nella struttura da 6mila posti del Palavobis di Milano la band si divertì a innaffiare il pubblico di champagne a fine concerto, prima


di scomparire per un after-party che li vide nel ruolo di bizzarre installazioni umane, seminudi, fasciati di neon blu e con attaccate delle catene che gli ospiti della festa erano invitati a tirare. Era la trovata delle maschere spinta alle sue più esilaranti e ridicole conseguenze da una band consapevole di trovarsi sulla cuspide della grandezza. Ormai le maschere erano infatti scomparse, rimpiazzate dai cappelli buffi: la nuova acconciatura blu di Dom era schiacciata da un capello da cowboy, Chris sfoggiava un attraente sombrero e Matt s'era procurato un elmetto antisomossa della polizia francese completo di visiera. E poi ci furono gli Zenith francesi, ovvero la catena di locali in cui la band si esibì, a Lille e Montpellier, prima delle due serate in quello di Parigi (capienza: 7mila). Gli spettacoli allo Zenith parigino furono una pietra miliare nella loro carriera. Suonavano in locali sempre più grandi, c'erano stati concerti sporadici e spaventosi in luoghi inaspettati (Mosca, per esempio) e avevano chiuso dei festival da headliner, ma i due show del 28 e 29 ottobre (con un afflusso totale di 14mila persone nell'arco di due serate), oltre a quello che annunciarono per novembre alla Docklands Arena di Londra (capienza: 12.500) segnarono il loro primo, incerto passo nel circuito dei palasport, un antipasto delle strutture di prima categoria. Per chiunque li avesse tenuti d'occhio dall'esterno, quello dei palasport era da sempre stato il loro destino, ma per i Muse era un salto nel buio. E a giudicare da come gli show francesi avevano registrato in quattro e quattr'otto il tutto esaurito54, era un salto che volevano documentare. Pianificarono dunque le riprese video di uno dei loro primi concerti da palasport. Secondo loro la Docklands non era abbastanza glamourous, e poi volevano omaggiare la Francia perché era il primo Paese in cui avevano sfondato (e quello che aveva staccato più in fretta i biglietti degli show allo Zenith), quindi scelsero di filmare entrambe le serate parigine per inserirle nel loro primo Dvd. Che non sarebbe stato un Dvd qualunque. Convinti che il loro operato live fosse importante quanto il materiale in studio, non volevano un prodotto scadente. Avrebbero usato ventotto telecamere, per consentire alla società di produzione Mission Tv di sperimentare delle soluzioni visive all'avanguardia. E non sarebbe stato uno show qualunque: per il loro debutto in un palasport, i Muse ritennero opportuno sistemare dei maxischermi su cui proiettare l'accompagnamento visivo ai brani (seppur molto basilare in confronto agli show successivi: qui si trattava di turbini di stelle e forme geometriche inframmezzati con riprese dalla band in diretta dalle telecamere) e con cui mostrare ai fan che si trovavano in fondo al locale i volti della band. Nel backstage, prima dello show, mentre se ne usciva con idee illuminanti tipo proiettare delle ombre enormi sullo sfondo quando la band saliva sul palco, Matt propose di andare in scena squarciando i maxischermi, ma poi gli dissero che era una pensata tremenda per via dei costi del tessuto. La sua indole da casinista dispettoso avrà sicuramente sentito odore di sfida, perché nell'exploit di devastazione dell'ultima serata Matt perforò il tessuto dello schermo più vicino con la testa della chitarra, allargò lo strappo e ci si inerpicò dentro, ritrovandosi alla fine con l'intero schermo avvolto intorno al collo come un'enorme gorgiera. Le date allo Zenith furono esempi sbalorditivi di come i Muse si fossero evoluti in una delle più grandi promesse del rock inglese. La band aveva messo piede nel circuito dei palasport come se fosse veramente casa loro. Al suono della raggelante impassibilità di Tom Waits, le silhouette stroboscopiche alte sei metri di Matt, Dom e Chris balenavano sullo sfondo. Poi faceva irruzione il riff alla RATM di Dead Star e il palco era crivellato dai riflettori, che illuminavano Matt con quei capelli a punta da punk marziano e una videocamera assicurata alla chitarra, per filmare le sue dita che ne arroventavano la tastiera. A ogni spettacolo, i Muse si comportavano da consumati showmen del rock: Matt roteava, volteggiava, saltava a zig-zag dappertutto, assumeva pose da Fantasma dell'opera mentre dall'organo eruttava Megalomania, gettava le chitarre contro gli amplificatori o svaniva nel nulla durante Uno e Agitated, lanciava brandelli di carta dalle maniche durante il pezzo col megafono in Feeling Good e suonava in tapping l'intero assolo di In Your World, tutto in punta di dita e senza tirare una sola corda. Dom era uno tsunami con le bacchette, scatenato con lo xilofono d'ossa in Screenager, e quando non sfornava pesanti linee di basso, Chris si occupava degli arpeggi di chitarra in Unintended mentre teneva d'occhio


la base di synth grazie a una pedaliera. Il concerto allo Zenith vide anche il debutto, filmato a livelli professionali, di un nuovo membro dei Muse: l'ossidata Silver Manson di Matt. In quanto cliente regolare del Mansons Guitar Shop di Exeter, a Matt sarebbe piaciuto farsi costruire una chitarra apposta per lui dal titolare Hugh Manson, e così, quell'anno, avendo finalmente in tasca un po' di grana da spendere, Matt telefonò a Manson chiedendogli un design particolare, secondo le specifiche tecniche tracciate a matita da entrambi in modo che lo strumento fosse fatto su misura per la taglia di Matt. Qualche settimana dopo, Manson invitò Matt a passare in negozio per mostrargli il prodotto semi-finito: aveva un collo facilmente sostituibile casomai Matt l'avesse spezzato (accadde un paio di volte) ed era placcata in alluminio, per cui Manson preventivava due settimane di rifiniture per eliminare i segni di lima. Matt diede un'occhiata alla chitarra, esclamò "Le finiture sono stupende! È troppo industrial!", e se la portò a casa quel giorno stesso. Soprannominata "DeLorean", come l'automobile per i viaggi nel tempo di Ritorno al futuro, fu il primo dei numerosi lavori, uno più tecnicamente avanzato dell'altro, che la coppia svilupperà insieme. Allo Zenith, dopo che chiusero Bliss scoppiando palloni con il collo delle chitarre, dopo che Matt atterrò in mezzo al palco spiccando un salto degno di un atleta olimpionico dalla batteria, dopo altro champagne spruzzato e una mischia a centro palco fra i membri della band, per i Muse lo status di giovani pretendenti al trono del rock più stratosferico era ormai una certezza. L'unica cosa incerta era la forma che avrebbero assunto in futuro. Fu un'esibizione divisa in due parti: nei primi 45 minuti, con un dilagare di riff dal sapore prog-metal (presi in gran parte da ORIGIN), ostentarono quella pesantezza e quell'anticonformismo che erano l'obiettivo del secondo album, con tanti di quei bassi monolitici e ritmiche poderose da trasformarli nei Tool o RATM del futuro. La seconda parte dello show, invece, fu pura musicalità pop travestita da vulcanica eruzione hardcore, una previsione più accurata dei territori in cui avrebbero sconfinato. Ma per ora la band barcollava in vetta al successo, senza sapere se sarebbe caduta dalla parte del delirio metal o in quella delle melodie scolpite con punta di diamante. Dopo sette date inglesi (con circa 5mila persone a serata), due apparizioni in Tv {Spin rockstar per MTV Germania e il prestigioso Later... with Jools Holland della BBC2) e la partecipazione ai loro primi MTV Europe Awards (a Francoforte, senza vincere niente), i Muse si presentarono alla Docklands Arena (il loro più grande show da headliner, finora) nel modo più appariscente possibile. Il concerto non era sold-out e i bagarini stavano abbassando il prezzo dei biglietti, ma ormai avevano in tasca abbastanza soldi da permettere a Matt di concedersi un altro giocattolino. Approfittando del salone della Lotus che era nei paraggi, varcò le enormi porte da dove trasportavano l'attrezzatura per il sound-check a bordo di una Lotus Elise nuova fiammante. Anche se ebbe luogo in una struttura simile a un cavernoso cassone di metallo, che si prospettava piena a metà per via delle norme antincendio che riducevano al minimo la capienza a livello del parterre (più che per mancanza di biglietti venduti), fu un concerto strepitoso come allo Zenith, una rappresentazione spettacolare dove gli artifici e le trovate sceniche minacciavano di distogliere l'attenzione dagli strumenti fatti a pezzi. I palloni lunari furono rovesciati da alcune reti poste fra le travi, un segnale della loro nuova statura, delle proporzioni enormi che avevano finalmente, e giustamente, conquistato. Come il più palese dei gay non dichiarati che finalmente fa coming out, i Muse si erano rivelati una delle migliori band da palasport. Avevano tagliato il traguardo più veloci dei Coldplay o di qualsiasi altra band coetanea. Più veloci e con più trionfi di ogni altra band dal tempo degli Oasis. Erano chiaramente destinati a qualcosa di ancora più grande. * * * La loro annata più ricca di successi (per ora) finì con una raffica di momenti memorabili. Il 19 novembre, la settimana dopo lo show alla Docklands, i Muse pubblicarono il doppio singolo HYPER MUSIC/FEELING GOOD55. Nelle intenzioni della band, era una summa di luce e tenebra del loro album: un pezzo era l'apice della positività, l'altro uno dei brani più feroci che avessero mai partorito, in cui si parlava di distruggere completamente la persona amata. Entrambi i pezzi ricevettero pari attenzione, programmazione, pubblicità. Per entrambi furono girati dei videoclip (con il budget di un solo videoclip): Hyper Music fu


accompagnata da una viscerale e violenta performance live (con uno splendente Chris in felpa e cappuccio) dentro una stanza spoglia, rossa e nera, che alla fine si riempie del pogo dei fan arruolati tramite il sito Web. Il promo di Feeling Good fu filmato in contemporanea e con la stessa scenografia, solo che stavolta la band suonava in una tempesta di petali di rosa per un pubblico di mutanti arrampicamuri dai volti deformati, forse per creare un contrasto stridente con la positività della canzone. Entrambe furono mandate in onda al Later... with Jools Hollanded entrambe furono trasmesse con pari ferocia in radio. Tuttavia, a ricevere più attenzione fu (ironicamente?) il pezzo "più su di morale". Feeling Good andò in alta rotazione nelle radio, trascinando un'urlante e scalciante Hyper Music fino al numero 11 delle chart a pari merito con Plug In Baby, finora la loro posizione più alta. Tutt'a un tratto i Muse "possedevano" Feeling Good nello stesso modo in cui gli Oasis "possedevano" I Am The Walrus o i Boyzone "possedevano" Words. Quel crossover riscosse un tale successo che la Nescafé se ne servì come colonna sonora per il suo ultimo spot televisivo senza il consenso dei Muse, e gli avvocati della band si attivarono in fretta per far rispettare il copyright e farla rimuovere dalla pubblicità. Ma una scaltra Nescafé si limitò ad assumere dei semplici session men per registrare il brano daccapo, e non sulla falsariga dell'originale di Nina Simone ma in un surrogato leggermente più dozzinale dei Muse. Soltanto i più sprovveduti non avrebbero colto la differenza, ma era comunque un colpo basso. Praticamente indifferenti, i Muse arrivarono al termine della loro elettrizzante tabella di marcia in Giappone, tra sauna-party con i fan e una strategia tutta nuova per gli show dal vivo. Erano convinti di poter stupire solo quelle platee che non li avevano mai visti prima, e quindi gli show allo Zepp di Tokyo, al Bottom Line di Nagoya e alla Imperial Hall di Osaka furono organizzati in due parti, la prima suonata in acustico e la seconda con un intero set elettrico. Coprendo con un telo tutti gli strumenti nella prima parte dello show, il pubblico avrebbe detto "allora è così che suonano dal vivo", per poi rimanere a bocca aperta quando la band avrebbe tirato via i teli, acceso le luci accecanti, sguinzagliato i palloni e si fosse messa a distruggere il palco nella seconda parte. Il pubblico giapponese, tradizionalmente in soggezione, rimase di sicuro colpito a dovere: quegli show furono tra i più selvaggi della band. L'ultimo spettacolo dell'anno si chiuse con Bliss, protratta a quasi dieci minuti d'incontrollata improvvisazione e feedback, la batteria in pezzi, il palco invaso da una calca di roadie, cameraman e membri della band ammucchiati sulla pedana della batteria, Chris che spruzzava champagne su tutto e tutti, Matt che tentava di respingere un pallone che gli scoppiò in mano e Dom che si tuffava tra la folla per ritrovarsi con la t-shirt quasi strappata via dalla schiena. Quando riuscì a farsi di nuovo largo fino al palco si voltò, eseguì un umile inchino giapponese e se ne andò nel macello generale. C'era un solo modo per superare tutto ciò. Negli ultimi istanti del 2001, con l'avvicinarsi della mezzanotte di Capodanno, Chris diventò di nuovo padre, stavolta di una bimba di nome Ava. Era come se la festa, per i Muse, non dovesse finire mai. E tuttavia, in poco meno di un anno, le cose si sarebbero spinte a un passo dall'apocalisse. GLEN ROWE Come è nata l'idea dello show di ORIGIN? Per loro la faccenda della produzione era qualcosa di veramente prezioso, ormai non esisteva più che si limitassero ad arrivare e fare lo show. La volevano sul serio. C'era il tipo delle luci, Ollie Metcalfe, che è un cazzo di genio, e lo era anche allora, oltre che molto giovane. Lui e la band pensavano di continuo a idee grandiose da realizzare senza soldi, ed ecco com'è venuta fuori la storia dei palloni. Ho discusso insieme a Ollie delle strane forme che volevamo sul palco, come i grandi cappelli da strega con le luci sotto. Siccome erano in tre, sul palco c'era sempre un sacco di spazio e Matt voleva riempirlo. Ricordo la prima volta in cui ho visto i palloni: stavamo facendo le prove di produzione alla Great Hall di Exeter e quelli erano lì. Abbiamo deciso di usarli perché volevamo fare le proiezioni su qualcosa di sferico, e avevamo puntato dei semplicissimi gobos [delle mascherine per proiezioni luminose] sotto i palloni, così tutto sembrava in 3D. L'effetto era strepitoso. Stavamo allestendo le


attrezzature dietro le quinte, e quando uno di quei cosi è scoppiato sul palco è stato quasi comico. Dicevamo tutti: "Se succede in concerto ci facciamo la figura delle teste di cazzo", poi è arrivato Matt con la sua idea che forse avremmo potuto riempirli con dei pezzetti di carta o che altro, così se scoppiavano per sbaglio almeno sembrava che l'avevamo fatto apposta. Quand'è partito il tour è stato noioso, perché non scoppiavano mai! Sul palco non ne scoppiava neanche mezzo. C'erano solo questi palloni giganti che proiettavano le immagini dei gobos, e tutti questi disegni che si muovevano qua e là. Quando avete cominciato a farlo? Alla fine del tour di SHOWBIZ c'erano i cappelli da strega, e per ORIGIN ci furono le sfere, i palloni. Trovare chi vendeva i palloni sonda era quasi impossibile. All'inizio erano solo palloni giganti, in seguito abbiamo trovato un posto che aveva i palloni sonda. E poi durante un tour siamo rimasti incastrati e non siamo riusciti a procurarcene degli altri per un'infinità di tempo. Ti fa capire quant'è delicato l'ambiente. Non potevano più produrli perché negli alberi da cui li ricavavano c'era una carenza di gomma, e noialtri abbiamo girato tutto il mondo alla ricerca di questi palloni giganti. Ricordo le telefonate dove provavo a spiegare cosa ci serviva e finivo puntualmente per confondere le idee alla gente. È probabile che oggi, in Thailandia, ci sia qualche povero albero della gomma ridotto a pezzi. Dopo aver comprato un sacco di palloni è saltata fuori l'idea, mia o forse di Tom Kirk... Tom è senza dubbio il quarto membro della band; non è uno da prendere alla leggera, è una parte enorme di tutta la loro storia... fatto sta che l'idea era di buttarli in mezzo al pubblico e lasciare che la gente facesse il diavolo a quattro. Quando i palloni non scoppiavano era divertente, perché avevamo creato delle lunghe strisce di bambù dalle estremità appuntite con le quali, alla fine del tour, strisciavamo come aborigeni dietro le rastrelliere delle chitarre e facevamo scoppiare i coriandoli sopra la batteria. Cercavamo di allestire una produzione enorme senza alcun budget. La band voleva sempre reinvestire in soldi in tour e spettacoli dal vivo. Gli importava solo quello, anche nei piccoli locali in cui non ti avrebbero mai permesso di tirare i palloni; quindi ci facevamo venire in mente altri sistemi per dare un bel look allo spettacolo. È stato lì che Matt mi ha detto: "Dammi un altro po' di quei coriandoli", e da allora, per Feeling Good, se ne è sempre tenuto in tasca una dose extra da spargere in giro. Ogni volta era un sacco epico, solo lui, al pianoforte, che tirava quella singola manciata di coriandoli, e quelli che gli piovevano sopra molto lentamente. Erano degli autentici visionari. Sin dai primi show hanno sempre cercato di spingere le cose in quel senso. Ti portavi in giro per il mondo un'unica, gigantesca cassa di palloni o te li procuravi in ogni posto in cui andavi? Li compravamo in massa e facevamo il calcolo di quanti ne sarebbero serviti per ogni show. Poi i numeri si sono fatti assurdi, ne ordinavamo ottocento a botta. "Cosa? Volete ottocento palloni di due metri? ", "Sì", "E che ci fate con ottocento palloni di due metri?", "Be', è una storia lunga, ma in questo preciso istante, in Thailandia, c'è un albero che non si sente troppo bene". C'era un baule con nient'altro che palloni. Uno dei compiti di Tom era infilare i coriandoli in quei cazzo di palloni e poi gonfiarli tutti. Bisognava svuotare di tutta la nostra attrezzatura un tir della produzione lungo tredici metri per riempirlo di palloni, perché ci vogliono ore per gonfiarli tutti. Ricordo un sacco di aneddoti divertenti di quando me ne andavo a spasso con la band durante i festival e vedevo Tom senza camicia, che attaccava bottone con quelli del posto per convincerli a darci una mano e si comportava come il gentiluomo che è. Faceva un sacco tenerezza, perché era come il tizio che alle feste gonfia i palloncini e fa divertire tutti quanti. Ricordo che ho dovuto spiegare agli addetti alla security di tutto il mondo: "Ecco cosa succederà: quando sarà il momento ci metteremo tutti in fila, io andrò avanti e tutti insieme usciremo fuori, davanti alle prime file, e solo da lì tireremo i palloni, dal centro delle prime file, non dai lati", ed erano tutti emozionatissimi. Appena si trovavano in posizione davanti al pubblico facevano un gesto tipo (mima lanci casuali di palloni), e poi ero costretto a portarli in salvo! L'idea era che se sei in mezzo al pubblico e guardi la band, e da quello stesso punto saltano fuori all'improvviso questi palloni, ti sembrerà come se li avessero sparati con una specie di lanciarazzi quando in realtà non è così. Erano solo roadie grandi e grossi e uomini della security super-zelanti, eccitati all'idea di giocare un


po' con i palloni. E le feste leggendarie? Mi hanno portato nel salottino del tour bus e si sono messi a sedere, dicendomi: "Gli show dal vivo spaccano: è compito tuo far sì che i nostri party siano altrettanto memorabili". Così noleggiavo dei bar portatili e Matt sceglieva sempre di fare il barman. Telefonavo ai locali dicendo: "Ci serve una stanza spettacolare per il dopoconcerto, il che non significa un camerino con shaker e barilotti di birra". È stata una vergogna non aver iniziato un anno prima con quei party enormi, visto che saranno stati sei, massimo otto mesi di feste da sballo, deliranti e troppo divertenti. Sarò sincero con te: certe volte mi facevo dare dei pass e ne allungavo dieci ad ogni membro della crew scrivendo le loro iniziali in alto a destra, per vedere quale dei tanti avrebbe portato le sventole migliori. Un po' in stile Aerosmith. Era troppo spassoso. La gente avrà creduto che ero fuori di testa. Si presentavano alle feste e io gli dicevo: "Benvenuti alla festa e divertitevi, ma fermi un attimo: posso vedere il vostro pass?". Dicevamo che era il compleanno di chiunque, secondo noi, avesse la ragazza più figa, così la gente cantava "happy birthday" e le ragazze gli davano un bacio. Matt si impadroniva sempre del bar perché lo faceva sentire al sicuro, e poi si spaccava dalle risate perché aveva l'impressione di contribuire attivamente alla festa. Se la cavava proprio bene, teneva banco nella parte del tipo sicuro di sé, del barman pronto a dirti: "Come desidera!". Era molto naturale, si faceva le foto, magari parlava al telefono con il fratello di qualcuno. Era quella fase realmente eccitante in cui non erano ancora superstar, ma soltanto una grande band. A Matt piacevano quei momenti. Parlava al telefono col fratello di una qualche ragazza e per tutto il tempo teneva d'occhio le signore. Ovviamente Chris, l'uomo più monogamo del pianeta, se ne stava seduto a ubriacarsi insieme al resto della crew. Come gestiva la situazione Chris? Il mio pensiero andava spesso a lui. Gli altri due organizzavano party con ragazze e ragazzi che correvano schiamazzando per tutto il bus, e intanto Chris diceva: "E che cazzo, voglio solo guardarmi un Dvd e rilassarmi un po'", al che diventava una questione di: "E allora vattene nel bus della crew". A volte si sentiva un po' alienato da tutta quella storia dei party, anche se magari era il primo a fare casino e a ubriacarsi. Chris beve come tutti quanti. L'ha sempre fatto, e sempre lo farà. Sin dall'inizio Dom è stato il casanova, giusto? Un casanova fenomenale. È uno dei migliori amici che ho al mondo, e gli voglio bene. Il fatto è che ha fascino, è magnetico. Le donne possono soltanto cascargli ai piedi perché è dolcissimo, inoffensivo. Dom si dava alla pazza gioia, e in una delle date c'era Matt che aveva rotto con la sua ragazza. Aveva incontrato Gaia di sfuggita durante uno show a Roma, ma è stato a Rimini che è successo, in un locale chiamato Velvet. Matt era d'umore un po' strano, e io vedo questa ragazza incredibilmente bella vicino a quelli della security che cercano di tenerla a distanza, allora corro loro incontro, afferro uno degli addetti e gli dico: "Lei sta con noi". Non avevo sottomano un pass di quelli laminati, così la faccio sedere su uno sgabello di fianco al palco mentre vado a cercargliene uno. In seguito scopro che Matt l'aveva già incontrata la sera prima e secondo lui era stupenda, bellissima. Dopo il soundcheck sono spariti su uno di quei piccoli pedalò al lago, e credo sia stato a quel punto che si è innamorato di lei. Il concerto è stato spettacolare, uno dei preferiti di tutta la mia carriera. La festa di quella sera era roba da perderci la testa, c'erano ragazze che letteralmente toccavano altre ragazze, troppo sexy! Una serata davvero dissoluta, erano tutti impazziti. Hai presente quando sei ragazzino e senti parlare di un party estivo grandioso, vai a una festa in casa e tutto è uno sballo? Quella sera, a Rimini, è stata proprio così. Che mi dici delle maschere? Avevamo mandato Tom a fare il giro dei negozi in zona, facevamo feste in maschera a tema, ma secondo Matt avevano ancora un po' l'aria delle session d'autografi, quindi abbiamo finito col trasformare tutto quanto in mascherata. Se tutti indossano maschere nessuno sa chi è l'altro, ed è stata questione di un attimo. A fine tour avevamo degli enormi bauli per le casse del basso pieni di costumi per gli afterparty. In Giappone avevamo preso dei costumini da supereroe e ci avevamo strizzato dentro a forza dei roadie grandi e grossi. C'era una tizia della casa discografica che era troppo divertente, s'era calata in pieno


nello spirito della festa. Aveva comprato dei costumi extralarge e noi ce ne andavamo in giro per questi locali bizzarri con i costumi di velcro. Cinque roadie che se ne vanno a spasso in abiti di velcro. Alla fine la situazione si è fatta un po' tesa. In Germania siamo entrati in un locale ed era davvero strano. Come uniche luci c'erano delle luminarie sul pavimento. Matt c'era già passato e aveva incollato col nastro adesivo una sedia al muro. Una sedia appesa al soffitto col nastro adesivo. Era come andare in gita con i tuoi amici. Abbiamo finito per legare molto. È stata l'unica volta, in dodici anni, che ho avuto la nostalgia post-tour. Non volevi che finisse. E dire che erano tour belli lunghi, cazzo. In tre mesi non sono mai tornato a casa, nel mio appartamento. La band smaniava per non staccarsi mai dalla strada. È stato il periodo più bello. Eri tu il misterioso ballerino di breakdance dei Muse? Ricordo d'aver fatto Bliss durante uno show televisivo. Era il compleanno di Matt, e come regalo di compleanno... mi pare che fosse a Top Of The Pops... lui mi sfida a presentarmi e a fare la breakdance in mezzo allo studio. Così mi presento e faccio un windmill. Al tempo mi riusciva, anche se dubito che mi riesca ancora oggi. Fatto una volta, voleva che lo rifacessi in ogni cazzo di trasmissione. Lui e Chris mi si buttavano sempre addosso, ed è finita con un mucchio di show televisivi dove noi tre ci accapigliamo mentre dietro di noi c'è Dom che finisce la canzone. Con professionalità, come al solito. Qual è stato il più grande quantitativo di danni che hanno causato sul palco? Non annientavano il palco alla maniera dei Nirvana, ma ci sono andati vicino. Credo sia stato in occasione dell'ultima data in Giappone, nell'ultimo giorno dell'Origin of Chaos Tour. L'avevamo soprannominato Origin of Chaos tanto per ridere, ma da quella volta ho imparato che non bisogna mai dare un soprannome simile a un tour, perché tutto ciò che poteva andar storto è andato fottutamente storto. L'ultimo giorno del tour giapponese, che credo sia stata l'ultima data di quell'album, hanno sfasciato ogni cosa in mille pezzi. Che spettacolo. Quanto veniva a costare? Oh, migliaia di sterline, cazzo. Chissà quanti soldi hanno speso in strumentazione nuova. Ogni giorno compravamo chitarre nuove per Matt. L'idea alla base del tour di ORIGIN era fare un filmato tipo video a circuito chiuso, e quindi facevamo primi piani di ogni membro della band e avevamo attaccato una microcamera [alla chitarra di Matt], e ogni giorno lui la sfasciava allo stesso modo. Non ci avete rimesso un sacco di soldi? No, la roba che sfasciavano la pagavano di tasca loro. Se Dom distruggeva la sua batteria, toccava a lui sborsare. Se Matt distruggeva la batteria di Dom finiva sempre in discussione. Matt era uno stronzetto, era sempre il primo ad aprire un buco nella cassa di Dom. Suonavano insieme e se la spassavano, tutti felici e sorridenti, e poi Matt finiva sempre per [mima Matt che pianta la sua chitarra nella batteria di Dom], e ogni volta era la stessa storia. Dopo un po' hanno imparato a sfasciare la loro roba senza distruggerla del tutto; col passare del tempo non era più rabbia per l'attrezzatura difettosa, era più che altro un rito. Ho dei ricordi stupendi di Matt al Pinkpop che spacca tutto e resta in piedi sul ciglio del palco, con un'aria magnifica, proprio lì in mezzo. Invece della crew che pensa: "Porca puttana", era più come se avessero svoltato un angolo. Cazzo, stavano semplicemente sfornando dei brani immortali. Quali sono stati i concerti più folli? A partire dal secondo album abbiamo assunto degli addetti alla security. C'era Tony, uno della SAS, perché il pubblico era assolutamente fuori di testa. Volavi fino a Istanbul, guidavi per tre ore in mezzo al cazzo di niente, arrivavi lì e scoprivi che il palco era una cosa di fortuna, senza transenne, solo steccati. Poi arrivavano i Muse, ed era come un'onda in piena. Ho il ricordo assai vivido di quand'ero nel moshpit di questo posto in culo al mondo, e guardavo la luna... non sono uno religioso, ma ricordo d'aver pensato: "Qui stasera non può morire nessuno", e la cosa mi ha reso parecchio emotivo. Siccome conoscevo molto bene le canzoni, ero io che coordinavo la security, [dicendo loro] quando c'era un riff in arrivo e tutti si sarebbero riversati nelle prime file. Ci siamo trovati per qualche minuto con tremila persone che spingevano questa stupida transenna, e noi avevamo circa quaranta addetti alla security in ogni punto, che sono rimasti fermi lì per tutti e quarantacinque i minuti di concerto. Ad oggi, è stato uno dei momenti più terrificanti della mia vita. Ricordo quando mi sono voltato verso Matt e lui mi ha detto: "Bene!". Siamo andati in un nightclub


gestito dalla mafia [a Mosca] dove c'era vodka non-stop... ci hanno portati lì per due o tre serate consecutive, e ci chiedevamo perché non ci lasciassero andare da nessun'altra parte. Una cosa strana. È stata quella la notte in cui abbiamo spinto tutti i letti da una parte, devastando completamente la camera di Dom? Quella in cui saltavamo dagli armadi? I ragazzi correvano da una parte all'altra come scolaretti. Povero Dom, al tempo ero dispiaciuto per lui, perché era sempre camera sua a finire disastrata. Era una bella merda starsene in un albergo per due notti di fila: se restavi per una notte e basta potevi anche levarti dal cazzo. Ricordo Lisa, la nostra agente, che telefonava e diceva: "Che avete combinato la notte scorsa?", e io: "Cosa?". Si incazzava da morire perché le rispondevo sempre: "Mai successa una cosa simile". Ero costretto a mentirle, e lei: "Dicono che l'albergo è ridotto in pezzi", e io: "Mi dispiace Lisa, non eravamo noi". Allora lei piantava una sfuriata all'altro capo del telefono, dopodiché facevo passare un giorno e le dicevo: "Sì, insomma, quella sera c'è stata una festicciola”. Uno dei miei ricordi preferiti di Brixton è stato quando dovevo prendere la band e portarla a qualcosa di tremendo, tipo un cazzo di show da classifica o una cosa in mattinata, e loro erano parecchio incazzati perché non c'era stato alcun soundcheck, ma tanto pensavano: "Siamo stati in tour, è tutto ok, ce la caveremo". Matt aveva detto che voleva una pila di amplificatori, e Paul English [tecnico del suono] credeva che Matt volesse un grande muro di Marshall, un mucchio di ampli. Appena Matt poggia piede sul palco dell'Academy di Brixton, la prima cosa che vede è un muro di Marshall con un casino di ampli fasulli, tanto che ne funzionava soltanto uno e il resto erano dei cazzo di ampli fantoccio per farlo sembrare più grande. Secondo Paul era quello che voleva Matt, ma Matt, che intendeva un'unica pila di ampli per far sembrare tutto più sparuto, comincia a vederci rosso. Io intanto m'ero posizionato lì dietro, pensando: "Oh, da qui c'è una buona visuale, posso starmene al sicuro qui, dietro la pila di ampli". Un istante dopo arriva Matt, che tira un calcio e mi fa crollare tutto quel cazzo di muro in testa. Per fortuna mi ha centrato un ampli fasullo. Mi è arrivato dritto in testa, cazzo. Mentre veniva giù tutto, Matt vede me che mi rotolo sotto l'amplificatore esclamando: "Porca puttana", al che dice: "Scusa amico", e poi mi volta le spalle, continuando a suonare come se tanto sarebbe successo lo stesso. Geniale, non s'è nemmeno fermato per chiedermi "tutto ok", ha semplicemente tirato dritto col suo riff. E poi c'è stato il Pepsi chart show. La band odiava letteralmente il playback, motivo per cui supplicavo quelli del programma di farli suonare solo dal vivo. Gli dicevo: "Per piacere, dico sul serio, vi prego". Ecco perché alla fine mi sono ritrovato a fare la breakdance. La ballavo così spesso che la recensione di una rivista diceva: "Non perdetevi i Muse in Tv per vedere il breakdancer misterioso". Poi la gente si aspettava che la facessimo in ogni cazzo di trasmissione, e la band si rifiutava di esibirsi a meno che non fosse successo qualcosa di spassoso. Siamo dunque andati al Pepsi chart show che era tremendo, aveva l'aria di una stronzata a basso costo, insomma una cosa davvero pessima. Parlo con quelli dell'etichetta dicendo loro che l'avremmo fatto solo se prima potevo portare i ragazzi allo Spearmint Rhino. Prenotiamo qualche trattamento VIP ed eccoci lì, a pochi minuti dall'inizio dello show, a goderci le grazie di donne stupende. Una cosa coi fiocchi. Potevi quasi portarci la tua signora: era un posto bellissimo, con ballerine di lapdance da sballo e roba sensazionale. E uno di quei ricordi folli dove mangiavamo bistecche, pesce e cibo ottimo, mica roba da quattro soldi, con un sacco di ragazze nude che ti ronzavano intorno e ti chiedevano: "Vuoi una lapdance?". Io e Matt ne abbiamo chieste diverse tutte contemporaneamente, e nel mentre spazzolavamo il piatto prima di andare al Pepsi chart show. Una roba coi fiocchi. Quella è stata la miccia che ha fatto esplodere la nostra mania per i più grandi locali di lapdance del mondo. A Mosca c'era un club chiamato Golden Girls, dove io, Matt e Dom eravamo convinti che avremmo incontrato le nostre future mogli. Quelle ragazze erano la bellezza fatta persona. Da lì abbiamo sviluppato un vero debole per gli stripclub di qualunque città in cui capitavamo. Gli stripclub sono quel genere di posto in cui puoi andare senza essere infedele alla tua signora, no? Ti siedi sopra le mani, c'è chi ti struscia le gambe addosso e non si va oltre questo punto. Era una cosa simpatica e sicura. Veniva anche Chris, ma per lui niente lapdance. Diceva solo: "È tutto ok, posso entrare a guardare le tette". Com'è stato fare da headliner al V2001?


Come l'inizio di un passo avanti. Quel giorno i Coldplay avevano suonato prima ed erano in soggezione nei confronti dei Muse. Dicevano: "I Muse sono la miglior band del mondo". Avevano appena dato a ogni membro della loro crew un extra di ventimila dollari, in pratica il compenso per lavorare al V. Dicevano a ogni roadie: "Grazie per aver lavorato con noi, ecco i ventimila". I soldi, è questo il motivo per cui la gente fa il V. Insomma, i Coldplay staccano, usciamo insieme e ormai Chris Martin è una rockstar a tutti gli effetti, Yellow e Trouble erano diventati dei successi e lui voleva vedere lo show dei Muse, al che gli dico: "Certo, come no, salta su". Montiamo sul furgone, arriviamo dietro il palco, io salgo su e c'è un casino generale perché Chris è uno davvero spassoso, fa spaccare la band dalle risate, e dico quindi alla crew che Chris Martin avrebbe presentato la band. Appena sale sul palco scoppia una baraonda indescrivibile. Aveva il cappuccio tirato su e ricordo ancora le sue parole: "Ciao, sono Chris Martin dei Coldplay, e vogliate dare il benvenuto alla più grande live band del mondo, i Muse". Non ero sicuro se gli stessero facendo una standing ovation, ad ogni modo il livello stava salendo. Era stupefacente. La band è salita sul palco, ed è stato allora che riuscivi a sentirlo. Rock da stadio, ecco che ci siamo. È stato perfetto. Impeccabile. Il pubblico stava impazzendo. Matt è stato strepitoso, e lo show altrettanto. Un vero spasso, da qualche parte dev'esserci il filmato, c'era un canotto gonfiabile con dentro della gente che surfava tra le teste. Davi un'occhiata in mezzo al pubblico e vedevi sto cazzo di canotto con dentro due tizi aggrappati disperatamente ai maniglioni che venivano spinti in giro sopra la folla. Supplico gli organizzatori di darmi una di quelle golf buggy, corro nei camerini di tutte le band per far piazza pulita delle bottiglie vuote e poi andiamo a farci un giro insieme a Matt, travolgendo i tavoli. È stato come sommare caos al caos. A un certo punto, Matt mi lega sul davanti della vettura e mi ritrovo a sfondare tavoli con sopra impilate bottiglie di champagne, urlando: "Oh no!". Abbiamo spaccato ogni singola, fottuta cosa. Mettevamo uno sopra l'altro sedie e tavolini di plastica e poi ci lanciavamo contro la macchina. Ricordo le bottiglie di birra e champagne che mi centravano in testa, e io che facevo: "Cazzo, mi sento un bernoccolo"; Era soltanto una di quelle cose del tipo: "Quanta pazzia siamo in grado di scatenare?". Siamo rimasti fino a tardi, ormai tutte le altre band se n'erano andate, se n'erano andati tutti. Per finire abbiamo schiantato quei cazzo di arnesi nel camerino di qualcuno e poi abbiamo sfasciato le pareti. Che effetto faceva entrare nel circuito dei palasport? Erano emozionatissimi, volevano entrare in quel giro dai tempi del tour con Red Hot Chili Peppers e Foo Fighters. Volevano essere grandi come i Peppers. Volevano il rock da palasport. Ma un rock da palasport fatto con la testa. Non sono riusciti a fare sold-out alla Docklands Arena, ma tanto quel posto non sembrava mai sold-out, anche quando lo era. Geoff Meall si era messo d'accordo con loro perché non voleva posti a sedere sul parterre, li ha fatti togliere tutti. Era la prima volta che alla Docklands Arena succedeva qualcosa di simile, ma è stato comunque parecchio eccitante. Ero davvero orgoglioso della band, anche se per loro non era il primo show da headliner in un palasport. Quello era stato a Lille, giusto prima della Docklands. L'organizzatore ci aveva messi in un palasport facilmente riconvertibile. Ci sono posti come Wembley dove da una parte c'è il palco e tu puoi soltanto riempire tutti i posti a sedere. Stavolta invece il palco era mobile, quindi vendevi e vendevi fino al giorno in cui dicevi: "Quando arriviamo a quota 8mila è pieno". Sembrava veramente l'inizio del rock da palasport. Ricordo che quel giorno è arrivata la batteria nuova di Dom. Era di colore blu elettrico, e lui non stava più nella pelle. Erano dolci, amavano i loro strumenti. Dominic ha iniziato a costruirsi le batterie da solo, ha anche avviato la sua linea personale. Matt ha progettato una chitarra che è stata copiata milioni di volte in tutto il mondo. Negli ultimi tempi Chris suona la batteria con una band del posto, lo fa così, per svagarsi un po'. L'amore per la musica è una cosa che li sommerge, sempre. SAFTA JAFFERY Com'è andato a monte quell'accordo con la Maverick? Dopo l'impatto nullo di SHOWBIZ negli States, in quel periodo Guy era convinto che Muscle Museum sarebbe diventata una delle canzoni numero 1 del Rock Moderno, non c'era verso di levarglielo dalla testa. Mi ricordo quando passeggiavo per


gli uffici della Maverick mentre allestivano il lancio dell'album, e c'era Guy che mi diceva: "Se qualcuno in questo edificio viene a dirti che Muscle Museum non sarà un successo, io voglio saperlo perché stai sicuro che lo licenzio". L'ho guardato, e cazzo se faceva sul serio. Il problema era che in quegli uffici avevano tutti una paura fottuta di Guy, e così, quando parlavo con quelli della divisione radio o con l'ufficio stampa e chiedevo loro cosa ne pensavano, quelli rispondevano: "E Guy che ne pensa?". E allora io: "Non lo so, ma voi che ne pensate?", e quelli: "Ma cosa ne pensa Guy?". Se la facevano sotto all'idea di dire qualcosa di diverso rispetto a Guy Oseary. E quando Muscle Museum non fece il botto, anche dopo che la Maverick era riuscita ad accaparrarsi 55 emittenti rock moderne su 80 - ma nonostante la dedizione e i soldi buttati gli era sfuggita K-Rock (la più influente emittente rock con sede a Los Angeles e New York) - lui aveva ormai speso oltre un milione di dollari per lanciare quel pezzo. Di conseguenza, quando siamo tornati con ORIGIN il suo potere non era più quello dell'ultima volta. Il primo album di Alanis era ormai storia passata, e l'ultimo non era andato granché bene, dunque il suo potere non era più così grande e la Maverick non se la passava più benissimo. E poi Guy era molto più chiuso e conservatore. Gli ho detto: "Senti, ci sono grandi novità. Ho questo nuovo pezzo, Plug In Baby, che secondo me è un successo rock garantito". Lui lo ascolta, poi dice: “Non ne sono sicuro. Posso farla remixare?". Rispondo: "Ok, falla remixare". Così ha fatto, e il suo remix era come l'originale, ma senza palle. Aveva tagliato tutte le chitarre, il suono era orribile, così gli ho detto: "Guy, non esiste proprio che fai uscire questa roba. Tu distribuiscila e io mi chiamo fuori dall'etichetta". Era disperato, non voleva credere che Plug In Baby era la canzone che avrebbe sdoganato la band in radio. Quindi ha lasciato il disco in stand-by. Sotto molti aspetti c'è stato d'aiuto, perché in quel periodo i Muse stavano facendo il botto sia dalle nostre parti che in Europa, erano una band con una richiesta enorme. La Maverick con le mani in mano li ha aiutati a sfondare in tutti gli altri mercati. L'incubo sarebbe stato se la Maverick avesse creduto nell'album e ci si fosse gettata a capofitto, perché in tal caso i Muse avrebbero dovuto stabilirsi in America e non li avrei più avuti a disposizione per tutti i festival europei e i tour in cui hanno suonato quell'anno. Ma i Muse e la Taste sono comunque in debito con Guy per essere stato il primo dirigente discografico a riconoscere il talento della band e ad aver avuto il coraggio di investire così tanto in loro. Com’è andata a finire la storia del contratto con gli americani, dopo quest'episodio? Siamo usciti dalla Maverick grazie al mio avvocato in America, che ha impugnato una clausola già negoziata nel contratto. C'era una tempistica per la quale, se non avessero fatto uscire l'album entro una certa data, noi saremmo potuti uscire dall'accordo. Identificata quella clausola, si è trattato di restarsene calmi. Il mio avvocato diceva: "Non dite niente, restate calmi". E non essendo un avvocato, ovviamente Guy non ne era consapevole. Una volta usciti dall'accordo, con la band che si dedicava ad ABSOLUTION, ho deciso che non avrei cercato altri contratti in America prima dell'uscita del terzo album, perché volevo assicurarmi che alla nuova etichetta piacesse il nuovo disco. Non volevo ripetere l'esperienza di firmare un contratto con gli americani prima dell'uscita del disco, con quelli che poi si giravano e ti dicevano: "Non vediamo alcun potenziale hit per l'America". Quindi era già deciso: avremmo aspettato fino alla fine delle registrazioni. Com'è cambiata la band quando ORIGIN OF SYMMETRY ha fatto il botto? È stato ovviamente grandioso vedere che le cose stavano funzionando dopo tutta la fatica che avevamo fatto, da entrambe le parti. Una sensazione fantastica. È fantastico scoprire che avevi ragione. È fantastico avere la conferma che quella con cui stai lavorando è una grande band, e che la gente iniziava ad accorgersene. Ma l'industria della musica era ancora una spanna indietro rispetto ai fan. Ricordo l'esibizione della band ai Brit Awards di quell'anno. Tutti venivano da me a dirmi: "Diamine, sono fantastici!", e io rispondevo loro: "Sì, lo so". E non perché volessi fare l'arrogante, ma perché lo sapevo e basta. E mi stupiva che nessun altro ne sapesse un cazzo. Il ghigno enorme che avevo stampato in faccia diceva: "Sì, lo so. Lo so che sono grandiosi, sì, grazie, sì". Come te la sei cavata con le spese dell’Origin of Chaos Tour? Be', sai, l'avevamo preventivato nel budget del tour. Erano una band giovane,


volevamo farli divertire, e non che cominciassero a vederla come una specie d'incombenza quotidiana. Ci rendevamo conto che l'aspetto del tour era importante, per questo io e Dennis siamo deliberatamente rimasti in disparte, altrimenti ci avrebbero visti come dei "papà". Li abbiamo lasciati in balia degli eventi, ma sempre tenendoli d'occhio: parlavamo con il tour manager ogni giorno. Io andavo a vedere gli spettacoli importanti, Dennis gli altri. Capitolo sei All'arrivo del 2002, i sei mesi della band erano scaduti. Accantonati i primi tre per scrivere e registrare i demo dei nuovi pezzi per il terzo album (il diario non riporta alcuna traccia di attività live ufficiali: era la prima pausa prolungata da tour o studi di registrazione in circa quattro anni), Matt doveva mettere in pratica la sua idea per cui un trasloco ogni sei mesi avrebbe portato sangue fresco alla sua vena creativa. L'appartamento londinese di Matt, Dom e Tom si era dimostrato poco più che un magazzino dove dormire quelle rare volte che tornavano a casa da un tour. Stavolta avevano bisogno di un ambiente più definito e suggestivo per far scorrere la musica. Il piano iniziale era di trasferirsi a San Diego, poi optarono per un soggiorno di sei mesi più su, lungo la West Coast, a San Francisco. Si fecero progetti, si presero accordi, ci si informò per i visti e i Muse erano pronti per il salto quando Tom Kirk propose un cambio di scenario ugualmente radicale e di gran lunga più vicino a casa. Aveva scoperto che a Brighton affittavano una casa che Winston Churchill aveva un tempo adibito a sua personale residenza di campagna e dimora per i suoi numerosi cani. Per la band era un'idea appetibile su più fronti. Era vicina al mare, dove si sentivano a casa. Chris poteva prendersi una pausa per andare a Teignmouth, a trovare la sua famiglia che cresceva a vista d'occhio (anche se non al ritmo che credeva lui: ci fu un periodo in cui era convinto che quello di Ava, la sua secondogenita, sarebbe stato un parto gemellare). Era abbastanza vicina a Londra da permettergli di portar giù tutta la strumentazione per provare con un vero apparato da situazione live. E il suo profumo di storia era attraente, per una band che si ispirava alle stelle della classica del Diciottesimo secolo e registrava nel vecchio barcone da party di Charlie Chaplin. Quella casa era stupenda. Con i suoi prati all'inglese che digradavano dalla serra al campo da badminton nei giardini del parco, quel posto somigliava più a una villa che al vecchio canile di Churchill. La presero in affitto per sei mesi e vi si trasferirono: Matt, Dom e Tom in pianta stabile, Chris come ospite per parecchie notti. A Brighton, in quei sei mesi di relativa stasi, osservarono l'avvicendarsi di molti cambiamenti: ORIGIN aveva raggiunto il Platino e oltre; laTaste Media si era districata dall'accordo con la Maverick e iniziava a cercare un contratto di rimpiazzo negli States. E mentre i suoi colleghi sperperavano i loro nuovi incassi in macchine veloci e vacanze di lusso, Chris se ne servì per programmare il matrimonio con la sua ragazza Kelly. Trascorsero un sacco di mesi a fare il punto degli ultimi anni di tour, ipotizzando soluzioni diverse per il futuro. Le feste in maschera, ad esempio, erano inizialmente servite ad abbattere le inibizioni della band e dei fan, ma con l'ingrandirsi dei party si era abbassata l'età dei partecipanti, e questi si erano infine trasformati in session di autografi. Decisero quindi di non organizzarli più, anche perché "ogni tanto erano successe delle cose" che avevano aperto gli occhi alla band sui pericoli delle groupie e riportato a galla in Matt la convinzione che non c'era niente di meno attraente di una ragazza che voleva venire a letto con te solo per il personaggio che eri sul palco. Decisero che, se collaborare con due produttori per ORIGIN li aveva soddisfatti, in vista del terzo album preferivano tenersi un solo produttore per dare più coesione all’insieme dei brani. Ripensarono anche allo show della Docklands, stupiti per aver suonato in un evento così grande ma dispiaciuti per i fan delle ultime file che non erano riusciti a vedere nulla su quegli schermi di dimensioni insignificanti e con quel gioco di luci così minimale. Se si fossero esibiti ancora in concerti del genere sarebbero serviti grandi schermi, grandi effetti, un vero show da stadio. Bisognava mettere in piedi uno spettacolo. Nei primi mesi del 2002, fra partite di badminton sottozero, jam session e con un rapporto da semplici amici piuttosto che da compagni di tour, il materiale nuovo cominciò a prendere forma. Negli otto mesi da quando Matt aveva incontrato


quella ragazza "speciale" a Rimini (una studentessa di psicologia di nome Gaia Polloni), i due si erano tenuti in contatto e avevano cominciato a frequentarsi sul serio, e con Dom che s'era messo con una della Pennsylvania e un Chris fresco di nozze era comprensibile che il nuovo materiale avesse preso un tono più sognante e ottimistico. Nella prima metà del 2002 furono realizzati i demo di otto o nove pezzi nella casa di Brighton, alcuni con sfumature in stile ABBA, altri dalle tinte più cupe; la maggior parte, però, nacquero come canzoni d'amore pure e semplici, cioè un drastico cambio d'umore per la band. Se le session di ORIGIN si erano svolte sotto l'ombra incombente della storia appena naufragata di Matt, il terzo album si crogiolava (almeno all'inizio) sotto i raggi di un nuovo senso di benessere. Non che il loro concetto di "canzone felice" sfiorasse anche solo lontanamente quello dei, mettiamo, Supergrass. Liberi per la prima volta di realizzare dei demo del loro materiale, i Muse colsero al volo l'opportunità di sperimentare con ogni nuova traccia; provando a suonarle in modi diversi, molte canzoni subirono dei cambiamenti radicali nel corso dell'anno. Tra i pezzi cui lavorarono, Butterflies And Hurricanes, presentata in anteprima e in versione strumentale durante il tour del 2001, iniziò ad assumere una forma cangiante e assai personale. Matt l'aveva abbozzata su uno Steinway quand'era rimasto chiuso per diverse ore nella sala Pianoforte di un albergo durante il tour di ORIGIN, costruendola a partire da un basilare paraddidle di due note fino a ritrovarsi con pesanti accordi di cinque note che si ammassavano come nubi temporalesche. Ci sarebbero voluti alcuni mesi d'evoluzione e crude esecuzioni live in forma strumentale perché quel pezzo diventasse il behemot pomp rock che era comunque destinato ad essere. Nel frattempo, altre e più fresche canzoni stavano prendendo forma con più urgenza. Un riff che prendeva spunto dai System Of A Down, inizialmente battezzato New D o De-Tuned Riff, vide la luce su un pianoforte, a Brighton, e andò ad ingrossare le fila di quei pezzi strumentali che, come risultato di una graduale esposizione live, diventavano dei classici famosi in tutto il mondo. E così fu anche stavolta, quando crebbe lentamente in Stockholm Syndrome. Una sfuriata pop metal sulla scia di In Your World fece capolino con i titoli di lavorazione Action Faust e TSP56 (alla fine The Small Print), apparente rivisitazione del mito di Robert Johnson al crocevia dal punto di vista del Diavolo: "Sell, I’ll sell your memories / For £15 a year / But just the good days... And be my slave to the grave / I'm a priest God never paid" ("Venderò i tuoi ricordi / Per quindici sterline all'anno / ma solo i giorni belli... E sarai il mio schiavo fino alla tomba / Io sono il prete che Dio non ha mai pagato"). Un altro pezzo in cantiere era Emergency, iniziato prima dell'11 settembre ma che già sembrava predire il senso di catastrofe globale, con quegli accordi di pianoforte opprimenti e carichi di sciagura e il testo apocalittico. Infine ribattezzata Apocalypse Please, era un brano del cui impatto la band era consapevole (non ultimo per quel ritornello fosco e lamentoso, col suo "This is the end of the world!" - "È la fine del mondo!"), anche se a questo punto non era troppo sicura di come arrangiarla per farle ottenere il massimo dell'effetto. Ma ce n'era una su tutte che mirava a collezionare praticamente ogni genere: una fresca confezione pop dal groove quasi-disco che prendeva a braccetto un impettito funk metallico chiamata I Want You Now e senza dubbio dedicata alla nuova ragazza di Matt. Quel giro di chitarra che Matt suonava durante i soundcheck nel tour di ORIGIN fu trasferito sul basso e la melodia venne a galla. Ciò accadeva diversi mesi prima che il corso di studi della sua ragazza suggerisse a Matt il titolo Hysteria, un termine psicoanalitico ora defunto, originariamente associato a uno stato di frustrazione sessuale femminile alleviato tramite la manipolazione genitale fino al "parossismo isterico". Per il momento era una canzone pop geniale, un potenziale futuro singolo e il primo pezzo nuovo ad essere introdotto in sede live. Passeranno altri diciotto mesi prima che diventi il più timido accenno all'orgasmo femminile nel mondo del rock. * * * Tre mesi del nuovo anno a scrivere e fare demo, con solo un giorno di pausa per suonare Plug In Baby agli irlandesi Meteor Music Awards il 3 marzo a Dublino, e già i Muse smaniavano per rimettersi in strada. Non avendo in programma di registrare alcun pezzo nuovo fino a Natale, ne approfittarono per allestire un breve tour europeo con cui passare in rassegna quei posti che le date del tour


di ORIGIN non erano riuscite a toccare e per sfruttare la loro posizione ai piani alti dei cartelloni in svariati festival estivi. Si fermarono solo per una tappa ai Sawmills, dove registrarono In Your World & Dead Star assieme al produttore John Cornfield in previsione del doppio singolo in uscita a giugno, e per lasciare Matt libero di contrarre un'intossicazione alimentare con alcune ostriche avariate, che gli costò diversi giorni di vomito ininterrotto a pochi giorni dal tour. Ad aprile la band iniziò a battere città come Atene, Istanbul, Helsinki, Porto e Lisbona; fu l'occasione per testare su strada Hysteria (che esordì a Oslo il 10 aprile e da lì in poi fu un cavallo di battaglia) e concedersi all'adorazione dei fan in quelle zone che si erano sentite un po' tagliate fuori dalla tabella di marcia del tour di ORIGIN. Al termine del tour di aprile, il 3 maggio si fermarono ai Riverside Studios della BBC, ad Hammersmith, per coverizzare il classico di Frankie Valli Can't Take My Eyes Off You57 per la trasmissione ReCovered, prima di una cavalcata di ventiquattro festival che li avrebbe tenuti occupati fino alla fine di agosto. Nonostante i mesi "rilassati" a Brighton, sul palco la loro energia incendiaria non dava segni di calo. Il 5 maggio furono la prima band a fare il tutto esaurito al Castello di Dublino (un tempo prigione, poi residenza ufficiale del Viceré d'Inghilterra e ora un'area per concerti affittata dall'Heineken Green Energy Festival per una serie di spettacoli durante la bank holiday della prima settimana di maggio). Per festeggiare, Matt si esibì in alcune celebri scivolate di ginocchia sopra il palco viscido e improvvisò lunghe parti di pianoforte quando la rottura del basso di Chris si rivelò irreparabile. Passando per i due festival tedeschi (il Rock Am Ring di Niirburg e il Rock Im Park di Norimberga) e dell'olandese Pinkpop, il 26 maggio i Muse tornarono in Russia per suonare allo Stunt Festival nel complesso sportivo Krylatskoye di Mosca, una trasferta approfonditamente documentata nell'articolo che Matt scrisse poi per il «Guardian» quello stesso anno. Ai Muse era capitato di suonare in festival dai nomi strani (Insolent Festival, Bizzarre Festival, l'austriaco Two Days A Week), ma a nessuno avevano mai dato un nome così sorprendentemente appropriato. Lo Stunt Festival era la giornata in cui la crème degli squilibrati di Mosca si esibiva nelle acrobazie più assurde, tipo gettarsi nei fiumi, gareggiare con camion e trattori su strade sterrate e sfrecciare con le moto dentro gabbie sferiche di metallo. Unica band in programma quel giorno, per festeggiare la stranezza dell'evento i Muse svelarono tre nuove canzoni oltre a Hysteria, e cioè The Small Prìnt, Apocalypse Please e una versione strumentale di Stockholm Syndrome. L'effetto di questi pezzi leccati ed aggressivi fu di rendere il set più tirato, mentre Megalomania, Cave e Agitated, i corrispettivi di SHOWBIZ, venivano accantonati per fare spazio. Una certa dose di rabbia cieca e sbruffonate fini a se stesse fu rimpiazzata da precisione e potenza calibrata, e lo show dei Muse arrivò un passo più vicino a novanta minuti di indiscussi successi rock. A parte il concerto, la loro seconda esperienza russa si rivelò strana quanto il festival stesso. Ben lungi dallo svolgersi in uno studio moderno e tirato a lucido come nella maggior parte dei Paesi, l'intervista con MTV Russia si tenne in una specie di scatola da scarpe con lo stile di un servizio in digitale a budget ridotto, mentre la conferenza stampa in albergo non li vide (come si aspettava Matt) rispondere a domande su compositori russi quali Rachmaninoff o Tchaikovsky, o su come la musica dei Muse stesse a cavallo della voragine che si spalancava tra la classica russa e il rock. Gli rivolsero invece delle domandine sulle analogie con Yes, Rush e Queen, gruppi prog degli anni Settanta con cui Matt aveva scarsa dimestichezza, anche se prese il paragone come un segno della sua carica da showman del rock. In fin dei conti, in quel periodo, gran parte delle band inglesi venivano giudicate "noiose" nel circuito dei festival europei, dove si trovavano ben più in basso nei cartelloni rispetto ai Muse. Dopo lo Stunt Festival, la band bazzicò nightclub scalcinati dove la musica s'interrompeva puntualmente in mezzo a una canzone per consentire al presentatore di turno di lanciare gare con la vodka in palio tra gli avventori del locale. Il giorno seguente si diressero a Nord, a San Pietroburgo, dove le cose si fecero molto più serie. Quel pomeriggio stesso Matt fu minacciato con una pistola da un agente di polizia per aver fischiato in strada, mentre quella sera le richieste alla loro guida russa di portarli in un locale più "underground" di quelli in cui erano stati a Mosca, finirono con band e roadie che bussavano alla robusta porta metallica di un ex-bunker nucleare. Il


gigantesco buttafuori non voleva farli entrare, ma appena gli spiegarono che erano una famosa band inglese la porta si spalancò e si richiuse alle loro spalle, intrappolandoli in una cella schifosa in compagnia di eroinomani che si facevano in vena ai tavoli e siringhe sparse sul pavimento. Il tempo di mezzo drink e la combriccola dei Muse se la diede a gambe levate in uno strip bar del centro, frequentato di recente da Marilyn Manson. L'indomani, dei Muse confusi e storditi suonarono davanti a 3mila ragazzini fanatici dell'indie nel Palazzo della Gioventù di Leningrado, un locale tipo refettorio scolastico dove aggiunsero in scaletta la versione strumentale di Butterflies And Hurricanes insieme ad altre quattro tracce nuove più un quinto pezzo, anch'esso nuovo, intitolato Get A Grip ma che finirà per chiamarsi Fury. Cupa, atmosferica e involuta, una sua variante strumentale live risaliva al febbraio 2000, ma questa versione completa portava avanti le diatribe antireligiose di Bellamy: "And we'll pray that there's no God / To punish us and make a fuss" ("E pregheremo che non ci sia alcun Dio / A punirci e darci addosso"). Il dopoconcerto fu sconcertante e spaventoso quanto il club di eroinomani della sera prima: la band rimase letteralmente impantanata in mezzo a cinquanta ragazze, che facevano la fila per entrare nel loro camerino. Una ragazza regalò a Matt un contorto ritratto a olio che aveva impiegato cinque sofferti mesi per completare. Era l'immagine terrificante di un Matt nudo e scheletrico con degli uccelli appollaiati sulle spalle e un cuore pulsante e fibroso stretto all'inguine. Comprensibilmente turbato da quel dipinto, quando uscì sulla terrazza del camerino per cinque minuti d'aria fresca, Matt trasalì alle urla di una decina di ragazze che strillavano il suo nome diversi piani più in basso. Riuscì finalmente a evadere da quel posto convinto d'essersi sbarazzato di quel quadro, che magari era andato perso da qualche parte strada facendo, ma appena arrivò all'aeroporto per il volo di ritorno vide Dom che se lo portava in giro, mostrandolo a dei perfetti sconosciuti nell'area delle partenze. Nelle settimane di pausa fra le incombenze dei festival estivi, i Muse furono impegnati a supervisionare l'assemblaggio dei filmati per il Dvd degli show allo Zenith, che si sarebbe intitolato Hullabaloo. Dato che era un'idea nata insieme alla Taste Media, dissero all'etichetta che l'avrebbero portata avanti solo se avessero avuto voce in capitolo su cosa far finire nel Dvd. Come nelle riunioni d'affari, la band era decisa a mantenere il controllo creativo su ogni cosa con sopra il proprio logo; fu dunque pienamente coinvolta nella produzione del Dvd, supervisionando ogni aspetto del prodotto finale prima di farlo uscire dalla catena di montaggio. Matt insisteva perché il suono fosse in surround 5.1, convinto che il Dvd sarebbe diventato il supporto standard del futuro per distribuire la musica, e voleva anche una confezione a doppio disco. Il primo Dvd con i novanta minuti di show dal vivo ripresi dalle due serate allo Zenith, il secondo con un documentario montato con gli spezzoni filmati da Tom Kirk durante il tour del 2001 in giro per il mondo. Gli avrebbe fatto compagnia l'uscita di un album su 2 Cd, dove le B-side usate da Tom Kirk come colonna sonora del documentario sarebbero confluite nel primo disco e una scaletta live degli show parigini sarebbe finita sul secondo. Premendo il tasto "rewind" sulla prima canzone del Cd avreste scoperto la traccia nascosta What's He Building? di Tom Waits58. Man mano che il Dvd prendeva forma, la band partecipò a quasi ogni giorno di montaggio. Furono esclusivamente Matt, Dom e Chris a selezionare gli spezzoni video che sarebbero andati a far parte del documentario, e preoccupati che certe scene potessero essere un po' troppo spinte per un eventuale montatore esterno, decisero di custodire il girato "in famiglia". L'intento era di mostrare i lati belli e brutti della vita in tour, ma la band aveva paura che la videocamera di Tom avesse ripreso momenti belli/brutti di natura assai più intima e personale di quanto volessero mostrare al pubblico, quindi il making-of del Dvd rimase una faccenda privata. A ogni modo, il prodotto finito era tutto tranne che blando: immagini sfocate di corpi che si contorcevano, scene di devastazione gratuita sul palco, paura e delirio all'ingresso degli hotel, zuffe amichevoli da backstage e pesca in compagnia a latitudini lontane. Anche se non era caos e baldoria dall'inizio alla fine, di sicuro faceva vedere contusioni ed ematomi interessanti. Su pressante richiesta della band, il Dvd stesso nacque come un prodotto avanzato. Con tutte quelle videocamere che li inquadravano in ogni genere di


primo piano o campo lungo, le opzioni del Dvd consentivano allo spettatore di zoomare fino alla bocca o al microfono in sei diverse canzoni dello show, ognuna delle quali fu montata dal regista Matt Askem per avere il proprio impatto, più simile a quello di una performance live su video che al puro e semplice filmato di un concerto. Erano talmente presi dalla produzione del Dvd che Askem, su cui la band faceva enormi pressioni perché voleva un prodotto perfetto, offrì per scherzo a Matt 500 sterline per sorvolare con paramotore e videocamera un concerto di Jamiroquai all'Arena di Verona, così da avere una falsa ripresa aerea della folla con cui accrescere il senso di enormità. Hullabaloo era progettato per catapultare lo spettatore in mezzo a un concerto dei Muse, e funzionava alla grande. Persino secondo Matt, che al termine della visione dovette prendersi a pizzicotti perché aveva una memoria così scarsa da non ricordarsi semplicemente cosa fosse successo sul palco. Per lui, guardare il Dvd finito fu come un'esperienza dell'altro mondo, reale quasi quanto i concerti stessi. Lo scatto per l'artwork di copertina di Hullabaloo (una foto a luce soffusa di loro tre in uniforme circense e bastone davanti a un pallone blu che si staglia sullo sfondo; Matt non aveva mai avuto dei capelli così ferocemente acuminati) fu un'ulteriore pretesto per darsi alla pazza gioia. Dopo aver razziato un guardaroba pieno di costumi in uno studio di Londra, nella sua ricerca del look perfetto la band indossò ogni sorta di uniforme da direttore di circo, caschi da astronauta e stivaloni con zeppa e colori della bandiera inglese. Approfittarono del fatto che lo studio fotografico era pieno dei soliti palloni imbottiti di coriandoli per giocarci come si deve, tenendoli in equilibrio sui bastoni mentre giravano per il set camminando alla Charlie Chaplin e tirando tutt'intorno striscioline di carta, come tre amici che se la spassavano con un armadio di costumi buffi. Una giornata quasi all'insegna del cazzeggio, almeno finché Matt non prese la macchina e andò a casa. Fuori pioveva e il cantante, che aveva appena litigato al telefono con Gaia, andava un po' di fretta per arrivare prima. Lungo la strada una BMW Serie 7 inchiodò bruscamente ad un semaforo e Matt, che andava troppo veloce per frenare in tempo, la tamponò in pieno. Metà della sua Lotus Elise fresca di salone s'infilò dritta sotto la vettura davanti. La BMW ne uscì illesa e la Lotus di Matt distrutta, ma ogni scintilla d'aggressività si spense all'istante quando Matt saltò fuori dall'auto con cilindro, vestito a coda bianco e bastone da passeggio. Piegato in due dalle risate, il conducente della BMW passò a Matt gli estremi dell'assicurazione. Matt, dal canto suo, rise per tutto il tragitto fino in banca, dove prelevò per comprarsi un'auto nuova con gli incassi di Hullabaloo. Al momento della sua uscita a luglio, l'album con la colonna sonora si piazzò al numero 10,59 preceduto dal doppio singolo Dead Star / In Your World pubblicato sull'ormai doppio Cd standard dei Muse il 17 giugno. Il primo conteneva uno sgranato video in bianco e nero di Dead Star, realizzato da Tom Kirk con una videocamera da cinquanta sterline dove si vede la band che suona il pezzo negli scantinati della casa di Brighton, più Futurism, bonus-track della versione giapponese di ORIGIN OF SYMMETRY (non inclusa nella versione inglese perché era troppo difficile da suonare live) ed ennesima canzone su una società futura dove il libero pensiero non è ammesso dal potere costituito, "a future that won't let you disagree" ("un futuro che non ti permetterà di essere in disaccordo"). Nel secondo Cd c'era un video di In Your World tratto dalle serate allo Zenith e la cover di Can't Take My Eyes Off You dall'esibizione per il programma ReCovered della BBC. Quelli contenuti nel singolo sarebbero stati gli unici pezzi di successo finora pubblicati dei Muse a non figurare in nessun loro album. Una tattica infra-disco che negli anni Ottanta fu adottata da gente come gli Smiths, perché gettava un ponte tra album e album con dei singoli irripetibili che sarebbero poi finiti nelle raccolte. I Muse, tuttavia, hanno soltanto prodotto un singolo tappabuchi, che nel mese di giugno raggiunse una tredicesima posizione di tutto rispetto. Terminato il lavoro su Hullabaloo, la band continuò con i suoi appuntamenti nei festival del 2002 (Can't Take My Eyes OffYou rimpiazzò Feeling Good come cover scelta apposta per l'occasione) all'Heineken Jammin Festival di Imola, in un assai rovente 15 giugno. Freschi e riposati, erano andati a letto presto e si erano alzati di buon mattino, per buttare giù qualche nuova idea da intervallare con una partita a badminton (Matt avrebbe incontrato per la prima volta il padre della sua ragazza proprio lì, a Imola, e dato che l'uomo non era bendisposto nei


confronti delle rockstar lui aveva in mente di dirgli che era un compositore). Ma a dispetto della forma smagliante incasinarono leggermente i pezzi più nuovi60, forse a causa di un tavolinetto con due grandi bottiglie di vodka, altre di Jack Daniel's, svariati tipi di vino e frutta per i cocktail. Scene altrettanto sgangherate furono ripetute al torrenziale Eurockéennes Rock Festival di Belfort, in Francia, che la band sul palco definì "un giro di prova", mentre per la breve gita al giapponese Fuji Rock Festival, nel pittoresco resort sciistico di Naeba, da qualche parte su nel Monte Fuji, Matt incespicò così tanto sulle note di Apocalypse Please che si ritrovò a premere dei tasti a casaccio, fuori di sé dalla rabbia. Qualcosa di simile accadde al festival svizzero Rock Oz'Arènes, dove Matt sbagliò più volte durante l'anteprima di un nuovo pezzo epico e carico di synth, intitolato Eternally Missed, commentando con un "questa qui è un po' arrugginita" che valse alla canzone il nomignolo di Rusty One. Sebbene dicessero che appena avevano una settimana libera non vedevano l'ora di tornare a suonare, la band era palesemente esausta, stufa marcia di portare in concerto per così tanto tempo la scaletta di ORIGIN e bisognosa di prendersi una pausa per perfezionare il nuovo materiale e sincronizzare le idee. Mentre la stagione dei festival si spegneva in località assai fuori mano come Istanbul, Ostenda in Belgio, Montreux in Svizzera, Kristiansand in Norvegia, Joensuu in Finlandia e Ringe in Danimarca, i Muse diedero fondo all'ultima scorta di date live del 2002 al Carling Weekend, verso la fine di agosto. Secondi in cartellone sul palco principale dopo i loro vecchi colleghi di tour Foo Fighters, soltanto una posizione li separava da quell'avercela "fatta sul serio" al banco di prova del Reading Festival. Sotto la pioggia torrenziale, con la folla che li acclamava come idoli headliner, la band contraccambiò con un'esibizione funambolica degna della loro presenza. Una scaletta snella, con dodici hit tra passato, presente e futuro, plasmata col preciso scopo di mandare in delirio il pubblico di un festival piovoso; fu anche la prima volta che suonarono la versione strumentale di FallingAway With You, futura ospite del prossimo album e suonata per l'ultima volta il giorno dopo, durante un show altrettanto convulso nella parte di festival che si teneva a Leeds. Mentre osservava a bordo palco, al riparo dal diluvio, il tour manager Glen Rowe conciato come un direttore da circo zuppo fino al midollo trasportare quegli enormi palloni nel photo-pit e scaraventarli a calci in mezzo a una folla schiumante di 60mila persone, il qui presente scrittore ebbe la netta impressione che i Muse ce l'avessero fatta. Sfatti dal concerto e sfibrati dalle tensioni del successo, a Leeds la band scese dal palco stanca ma trionfante. Messo finalmente a nanna ORIGIN, dopo cinque anni di concerti praticamente ininterrotti, i Muse non avrebbero suonato una sola nota in più su un palco per dodici mesi buoni. * * * Nel settembre 2002, i Muse si sciolsero per un mese. Non in quel senso, ovvio, ma ciascuno imboccò la propria strada per il suo primo, prolungato periodo di svago dal 1998. Dom, che per la prima volta si sentiva "ricco", optò per una crociera sui laghi svizzeri. Anche Chris andò in vacanza, una faccenda più a misura di famiglia a Maiorca, dove lui e Kelly cominciarono a lavorare al terzo figlio. Matt, invece, scoprì che il suo umore perennemente instabile era combattuto tra la sfera personale e quella Politica. Ne approfittò per trascorrere un po' di tempo con la sua ragazza in Italia, ma poi cominciò a fissarsi con le notizie dal mondo tipo la guerra in Afghanistan, che infuriava ormai da quasi un anno senza che le forze alleate accennassero a stanare Osama Bin Laden. La mente del cantante stava di sicuro plasmando dei motivi completamente diversi alla base dell'invasione, ma la rotta trasognata e romantica della sua storia d'amore e la spirale mediatica discendente di un mondo che andava a puttane si sarebbero presto fuse insieme, dando origine a teorie e testi nuovi, potenti e controversi. Per il ventiquattrenne Bellamy era una soglia importante. L'esperienza del tour di ORIGIN gli aveva cambiato il carattere. Concedersi in quel modo a stampa, fan, groupie e media gli aveva lasciato un debolissimo senso d'identità. Era molto cambiato, e quella pausa non gli restituì la persona di prima, il Matt che era quando non era in tour. Ma del resto neppure si ricordava più chi fosse, quella persona. Il ragazzo di vent'anni che era stato prima che scoppiasse tutta quella storia ormai per lui era come un'ombra, un mistero. In quanto credente


nei deleteri effetti dell'inattività, appena i Muse avevano iniziato a decollare aveva preso la consapevole decisione di non voltarsi mai indietro, di diventare chi sarebbe dovuto diventare dimenticandosi della vita che faceva prima. Matt scese dall'ottovolante di ORIGIN come il guscio di una rockstar che si dibatteva contro l'inerzia. Aveva bisogno di riscoprire una dimensione privata, darsi una calmata, lasciarsi qualche ricordo di questo periodo a parte tour bus e studi di registrazione. Aveva visto tutto, aveva camminato lungo la strada dell'eccesso, aveva guadagnato un briciolo di saggezza: adesso gli serviva una casa, una vita privata. Diventò comprensibilmente geloso della sua nuova privacy (altrimenti a che serve averla?), anche se a volte saltavano fuori dettagli strani, parecchio strani. Come dichiarò in una delle sue ultime interviste, appena tornava a casa Matt passava tutto il tempo con indosso un costume strambo. Non si sbottonò mai circa il tema del costume, dicendo che non era necessariamente qualcosa di fico, ma assicurò all'intervistatore che se la spassava parecchio. Tirava aria di cambiamenti nel mondo dei Muse. Una volta riunitasi, la band lasciò la residenza di Churchill a Brigthon per trasferirsi in appartamenti separati in quel di Londra con le rispettive ragazze, tranne Chris che era sempre rimasto a Teignmouth. Andavano al supermercato, compravano mobili e uscivano a bere insieme come degli amici che tornano a conoscersi di nuovo, trovando così un approccio diverso alla band. Affittarono uno spazio a uso magazzino nel quartiere di Hackney, una mansarda a pianta aperta un tempo utilizzata da scultori del metallo, ne adibirono una parte ad appartamento per farvi alloggiare Chris quand'era a Londra e cominciarono a tenervi le prove quattro giorni alla settimana, scrivendo i pezzi nuovi, sviluppando quelli vecchi e realizzando nel mentre le demo. E recuperarono anche un po' della loro vecchia attitudine da piantagrane antiestablishment. Quando Celine Dion annunciò che il suo spettacolo in cartellone per tre anni a Las Vegas si sarebbe chiamato "Muse", la band (che possedeva in tutto il mondo i diritti legati all'utilizzo del nome in ambito musicale) negò il proprio consenso, poiché ritenevano la sua musica "offensiva"61. Scherzando, Matt disse che avrebbero potuto fare da gruppo di supporto a Celine, coverizzando nel peculiare stile dei Muse "la canzone di Titanic" e alloggiando in un hotel extralusso di Las Vegas. Per i Muse quel nuovo atteggiamento rilassato era come un ritorno alla band che erano un tempo, prima degli anni in tour e dei contratti discografici. Sentivano di potersela prendere comoda, di prendersi il tempo che gli serviva. Non c'era alcuna pressione a registrare niente, si trattava solo di provare finché non avessero avuto musica a sufficienza per un album. Per la prima volta, Matt si sentì meno maniaco del controllo durante la scrittura dei brani, sentì di poter affidare la propria musica nelle mani di altra gente, tanto da poterci lavorare insieme; fu così che i brani nacquero da una collaborazione fra tre elementi, più che in ogni altra fatica dei Muse. Prima insisteva per imporre le proprie idee, perché non aveva fiducia in chi gli stava intorno. Ora poteva rilassarsi e condividere il peso. Niente di strano che in un ambiente così informale e stimolante l'album venisse fuori con estrema facilità. Tre mesi di prove nella mansarda di Hackney e furono pronti per registrare alcune delle canzoni su cui stavano lavorando. Il piano iniziale di entrare in studio con un solo produttore cominciò a complicarsi quando si resero conto che si stavano delineando tre differenti tipologie di canzoni: quelle d'ispirazione classica con pianoforte e archi, da suonarsi prevalentemente con strumenti acustici, i pezzi rock più spinti e il materiale di derivazione elettronica. Presa quindi la decisione di lavorare con tre diversi produttori, ciascuno esperto in uno dei tre stili, nel dicembre 2002 i Muse sgattaiolarono agli AIR Studios, allestiti dentro una chiesa riconvertita ad Hampstead di proprietà dell'ex-produttore dei Beatles George Martin, con Paul Reeve (per la sua bravura nel registrare gruppi di strumenti acustici) e John Cornfield (già al mixaggio di ORIGIN), decisi a incidere cinque canzoni nel primo dei tre generi. Volevano produrre un album galvanizzante e ricco di enormi parti orchestrali. Con quell'atteggiamento scalpitante da "noi contro loro", volevano stroncare le frecciatine della critica sul fatto che ORIGIN fosse un album troppo eccessivo realizzando un disco ancora più oltraggioso e immane. Li avevano presi in giro perché erano ambiziosi, addirittura ridicoli, ma quei due album avevano venduto in totale un milione e mezzo di copie in tutto il mondo; allora perché non spingere all'estremo le loro assurde pretese? E così fecero.


Per dare a Butterflies And Hurricanes e Blackout tutta la magnificenza orchestrale possibile convocarono un'enorme orchestra di trentadue elementi e novantotto coristi. Scritta con il mandolino e influenzata dall'opera e dalla musica popolare, che Matt aveva assorbito durante i suoi regolari viaggi estivi per venire a trovare Gaia in Italia, Blackout era un valzer lussurioso e svenevole, l'ideale colonna sonora per un numero di pattinaggio sul ghiaccio che calzava a pennello con la nuova forma mentis del cantante. "Don't kid yourself / And don't fool yourself / This love's too good to last" ("Non prenderti in giro / E non farti illusioni / Quest'amore è troppo bello per durare"), cantava dolcemente Matt, un pessimista in amore su ondate di romanticismo orchestrale per una canzone che parlava dell'eccessiva brevità della vita dal punto di vista di un innamorato, che ripercorre la propria esistenza sul letto di morte. Butterflies And Hurricanes, al contrario, era un cataclisma di ottimismo. Durante le prove a Hackney aveva preso forma come brano diviso in due parti, intersecate nel mezzo da una romantica spazzata di pianoforte alla Busby Berkeley eseguita in maniera magistrale. Sarà proprio questa la parte che negli anni a venire lascerà il pubblico a bocca aperta, con quella prova quasi buttata lì dello straordinario virtuosismo di Matt sui tasti. Una collisione a testa bassa fra chitarre magmatiche e inquieti archi da film slasher, con Matt che urlava uno dei suoi ritornelli più lancinanti e positivi ("Best, you've got to be the best / You've got to change the world / And use this chance to be heard / Your time is now" - "Il migliore, devi essere il migliore / Devi cambiare il mondo / E sfruttare questa chance per farti sentire / Il tuo momento è ora"), faranno di questo brano uno degli episodi di punta del terzo album. Col suo invito a trovare la forza di superare ogni avversità, era anche la canzone dei Muse dal crescendo più dirompente: se mettevi il volume al massimo, l'intermezzo classico che esplodeva nel ritornello finale era sufficiente a farti schizzare via i denti dalla nuca. Per rendere l'idea di quanto si erano fatte ampollose le registrazioni, in Butterflies And Hurricanes la voce di Matt finì per avere quarantotto sovraincisioni (un'autentica sinfonia di tanti Bellamy), e tutto perché Dom, davanti all' aggiunta di strati orchestrali sempre più densi, chiedeva ripetutamente a Matt, "Dici che stavolta la passeremo liscia?", e la risposta era sempre, "Certo che sì!". E poi giù con altre linee orchestrali62. Quest'esperienza, per Matt, si trasformò nel punto saliente del processo di registrazione, ma non necessariamente in quello più riuscito. Non tutte e cinque le canzoni funzionavano a meraviglia con orchestra e cori. Apocalypse Please sembrava quasi più debole con gli archi, e per Eternally Missed il peso dell'orchestra era eccessivo. Per quando la band ebbe completato cinque pezzi, il fascino travolgente delle sovraincisioni li stava facendo uscire di testa. Dato che i pezzi efficaci erano solo due, decisero di cestinarli tutti tranne Blackout e Butterflies... e ri-registrare una versione più spoglia di Apocalypse Please nel nuovo anno. Quell'album ottimista e intriso d'amore che avevano in mente non stava venendo fuori esattamente come previsto (per questa terza prova, infatti, i Muse scoprirono che le canzoni più riuscite erano quelle in cui arrivavano alla fine dopo essersi scordati cosa avevano deciso di fare in partenza), quindi decisero di prendersi una pausa natalizia per riconsiderare l'approccio al disco. Tanto per cominciare dovevano andarsene da Londra, una città "frenetica", dove in strada dilagavano le proteste contro la guerra che l'America intendeva muovere all'Iraq e le ore in studio erano proibitive. Scelsero di iniziare l'anno nuovo andando a registrare ai Grouse Lodge Studios, nella contea del Westmeath, in Irlanda, per un drastico cambio nei ritmi e per la possibilità di dedicare maggior tempo ai brani più sperimentali. Decisero anche di rivolgersi a un produttore con cui non avevano mai lavorato prima, un tizio di nome Rich Costey. Scelsero lui per i pezzi più rock, perché li aveva molto colpiti il suo mixaggio sugli album di Audioslave, Mars Volta e i loro beneamati Rage Against The Machine. Per convincere la band ad assumerlo sull'album intero, Rich spedì loro alcune delle sue collaborazioni più delicate con artisti come Fiona Apple e Philip Glass. Era uno che aveva grinta, ambizione, una visione e, stando a quanto si diceva, dei metodi piuttosto strani. Era un produttore molto Muse. In questo periodo i cambiamenti in casa Muse non si limitarono all'approccio musicale, ma riguardarono anche la sala macchine. Tom Kirk entrò a far parte della squadra del management in virtù del suo rapporto d'amicizia e di fiducia


con la band. Il commercialista Anthony Addis fu nominato manager per l'area Nord, con sede a Stockport, mentre Alex Wall assunse il medesimo incarico a Londra. Dennis e Safta rinunciarono al loro ruolo quotidiano da manager, anche se la band restava ancora accasata presso la Taste Media fino al termine del contratto di sei album. Sul fronte dell'ufficio stampa, la rappresentanza della band passò dalla Impressive di Mei Brown alla prestigiosa Hall Or Nothing, punto cardine del successo di Manic Street Preachers, Radiohead e Stereophonics. Quel Natale, Matt si regalò qualche giocattolo nuovo. Fedele alla filosofia per cui se suoni una vecchia Fender sei in competizione con Jimi Hendrix, mentre se ti inventi la tua chitarra sei in competizione solo con te stesso, avanzò richieste tecnologiche sempre più oltraggiose a Hugh Manson, suo banco di prova in materia di design chitarristici, per vedere cos'avrebbe tirato fuori. Chiese a Manson chitarre munite di feedback extra, pitch-shifter e phaser, persino una chitarra-theremin con un pitch-shifter sensibile al tocco, tipo mouse pad, e un'unità di riproduzione sonora con sensore di prossimità piuttosto simile all'archetto elettronico e-botv. Quel Natale e negli anni a venire, Hugh assemblò a dovere quelle richieste servendosi di un design rivoluzionario. Quando Matt chiese a Hugh di costruirgli una chitarra con pedale whammy incorporato, per esempio, sembrava un progetto impossibile, perché i pedali whammy consumano molta energia e avrebbero costretto Matt a indossare uno zainetto con batteria supplementare. Hugh sostituì dunque il pedale con un controller MIDI, che richiedeva una batteria molto meno potente: era la prima volta che si tentava una combinazione simile. Quella chitarra prese il nome di Black Manson. Matt recuperò anche la sette-corde costruita da Manson per un musicista jazz che non la voleva più e disse a Hugh di aggiungergli il tremolo e la stessa finitura a specchio della Silver Manson. La realizzazione di questa Chrome Manson rischiò di andare orribilmente storta quando si formarono delle bolle nella placca frontale, perché Manson non aveva avuto il tempo di cromarla a dovere, e così, improvvisando sul posto, Hugh si precipitò in un vicino sfasciacarrozze, comprò alcuni rivetti di un aeroplano della Seconda Guerra Mondiale, li fissò col trapano sulla superficie della chitarra per farla sembrare una lastra metallica e spruzzò il tutto per dargli l'aria di un pezzo d ala di un bombardiere B52. Matt se ne innamorò. Col passare degli anni, Hugh si scoprì ispirato dalle idee del cantante in fatto di chitarre. Qualche anno dopo, nel 2006, la sera in cui passò dalle parti di Heathrow e vide le luci di posizione degli aerei che atterravano, gli venne in mente di mettere dei laser in una chitarra. Per il design della Laser Manson di Matt, Hugh saltò fino a incrinarlo su un foglio di plastica rifinita a specchio, lo incollò sul davanti della chitarra e versò del diluente che, filtrando attraverso il legno dello strumento, cancellò il riflesso posteriore della plastica conferendole un'aria più antiquata. Più Matt la suonava, più dalla Laser Manson fuoriuscivano raggi laser. Quella chitarra debuttò dal vivo al Reading Festival di quell'anno. Tornando all'inverno del 2002, non era solo l'approccio alla creazione del nuovo album che Matt stava riconsiderando, ma il suo stesso approccio al mondo. Cominciò a impegnarsi di più per vedere la sua famiglia, consapevole che in tutti quegli anni di tour che sfociavano in altri tour non era stato abbastanza presente. Quand'era entrato nell'età adulta in cima al carro armato dei Muse la sua indipendenza era stata importante, l'aveva fatto sentire più forte perché era come se fosse stato per conto suo, ma l'attaccamento delle famiglie italiane gli fece sentire la mancanza della figura paterna. Il senso di unità famigliare lo centrò come un pugno quel Natale. Al suo arrivo in Italia per trascorrere le vacanze con i genitori della sua ragazza, c'era una tragica notizia ad attenderlo: l'ex-ragazzo di Gaia era morto e avevano già organizzato il funerale. Nel migliore dei casi, i funerali italiani sono un'esperienza estremamente emotiva, e Matt si sentiva un estraneo, uno che non c'entrava niente, come se la gente lo stesse quasi incolpando per quella tragedia. Era troppo: congedatosi dopo le esequie, Matt guidò fino a raggiungere le montagne, parcheggiò nello spiazzo più deserto che riuscì a trovare e sedette lì, nel suo primo bianco Natale, a contemplare luci e ombre della sua vita, oltre il parabrezza una pace immacolata e nubi di guerra che si andavano addensando all'orizzonte. Sul piano personale era senza dubbio il suo momento migliore. Su quello globale, uno dei peggiori.


PAUL REEVE A cosa hai lavorato insieme ai Muse nel periodo in cui usciva Hullabaloo? Non ho praticamente mai smesso di lavorare con loro dai tempi del MUSE EP. Un sacco di gente si scorda di Hullabaloo, che è un Dvd del concerto, mentre l'altro Cd è una raccolta delle migliori B-side registrate in quel periodo. Registravamo sempre una cosa o due, mai fatto un album tutto intero, ma è probabile che le registrazioni di quel periodo siano in tutto qualcosa come venti o trenta. La mia opinione personale è che la raccolta di B-side per ABSOLUTION ha davvero qualcosa di speciale. Non ho avuto niente a che fare con ORIGIN OF SYMMETRY, mi occupavo solo delle B-side di quell'album, e intanto Matt stava sperimentando con diversi produttori. Eri un produttore facilmente gestibile? Sì, diciamo di sì. La band si sentiva molto a suo agio con me. Io non mi facevo problemi ad avanzare proposte, loro non se ne facevano a mandarmi affanculo e viceversa. Ogni volta che parlo con i ragazzi della band si crea la stessa situazione, il che è fantastico. Non li seguivo in tour, ma ogni qualche mese entravamo in studio per una nuova infornata di B-side. Sono cresciuti un sacco dal tour di ORIGIN OF SYMMETRY. Le volte in cui li rivedevi erano persone diverse? Sì. Non vedo come potrebbe essere altrimenti. Se vivi un'esperienza simile e rimani lo stesso di prima significa che qualcosa non va. Fondamentalmente, però, sono quelli di sempre. Specie Chris, è un ragazzo con i piedi per terra sotto più punti di vista; è uno molto pratico e forse è quello che è cambiato di meno. In generale sono cambiati in meglio. Dicono che la celebrità rovini le persone, ma la celebrità è un'esperienza, così come il successo, e se non ne trai alcun insegnamento allora a che cazzo serve? Matt ha senza dubbio una gamma di interessi enormemente variegata. Intrattiene una relazione secondo me molto salutare con paranoia e senso del complotto e ha sfruttato il suo benessere e le sue opportunità per esplorarla a fondo ed allargare la sua mente. Immagino che sarebbe il genere di cose che farei io, se avessi un tale successo. Sono cambiati, ma in modo interessante e positivo. Sono mai nate delle scintille di magia in studio? Abbiamo registrato roba come Nishe - se sai una cosa simile allora sei un nerd dove in pratica non c'è il cantato, è un pezzo pseudo-jazz come avrebbero fatto i Beatles di ABBEY ROAD. Personalmente, i miei dischi preferiti sono proprio quelli tipo ABBEY ROAD... sono come un viaggio in miniatura, un collage di creazioni giustapposte. Non sto certamente rivendicando alcuna paternità, ma ogni mio input creativo era di provare a muoverci verso qualcosa di più sperimentale. L'ultima volta che ho registrato delle parti vocali insieme a Matt c'è stata una conversazione tra me e lui, e gli ho chiesto: "Hai lavorato con altra gente. È tutto ok?". Lui mi ha risposto: "Fossi in te, Paul, non mi preoccuperei. Tutte le volte che sfondiamo nuovi confini, è con te". L'ho preso come un complimento enorme, e per me lo è tutt'ora. È per questo che hanno scelto te per iniziare a lavorare ad ABSOLUTION? Credo di sì. Siamo partiti con l'idea di farne quasi un concept. Al tempo facevo un sacco di psicoterapia e - ma era solo per parlare - volevamo procedere lungo il solco della follia e della pazzia, scavare in quel punto. Ovviamente qualche elemento è ancora rimasto, cose come Butterflies And Hurricanes. Mi piace davvero tanto la grandiosità in musica. Ricordo che Matt mi ha telefonato mentre stavano decidendo con chi avrebbero fatto il disco e mi ha detto: "Mi è venuto in mente stanotte, per poco non me lo incido a graffi su un braccio, cazzo! Cornfield per il sound e Reeve per il feeling!". Era uno dei suoi classici momenti spavaldi, ed è così che abbiamo iniziato il disco. Però c'erano in ballo anche altre cose, e siccome si teneva d'occhio il mercato americano, un produttore americano sarebbe stata una scelta oculata. Fecero dunque un paio di pezzi con noi, poi andarono negli States per lavorare con Costey e lì rimasero. Quelle enormi orchestre erano troppo per alcune canzoni? Hanno funzionato alla grande. Solo alcune piccole parti non sono finite su disco. Personalmente, credo che Blackout sia il loro pezzo più di classe, adoro le canzoni così. Da quella session ho imparato che se entri in studio e trovi dei suonatori d'archi, in linea di massima sarà gente con la puzza sotto al naso. Si credono davvero superiori, gli pare di trovarsi lì giusto perché non hanno niente di meglio da fare. Allora i Muse non erano particolarmente conosciuti, ma appena Matt si è seduto al pianoforte tirando fuori questo pezzo


pseudo-Rachmaninoff, quelli sono rimasti a bocca aperta! Tutta l'orchestra lo fissava nello stupore più totale. È stato un momento speciale; prima d'allora c'era sempre stato una specie di divario tra i "musicisti veri e propri" e la band, e questo metteva fine a tutto ciò. L'ho trovato un momento di vera creatività, molto eccitante. Per gli arrangiamenti degli archi, Matt ha lavorato con un'arrangiatrice di nome Audrey Riley, una con un talento realmente eccezionale. Parte della bellezza di qualcosa come Butterflies And Hurricanes stava nel fatto che in realtà non avevamo alcun confine. Doveva essere qualcosa di grande, e credo che ci siamo riusciti. Anche secondo te quelle canzoni sono i pezzi forti dell'album? Mi piace pensarla così, e sono felice che qualcun altro la pensi allo stesso modo! La cosa che non ho mai capito di Butterflies è perché non ne hanno mai fatto una canzone da James Bond. Cos'è successo con Apocalypse Please durante quella session? Mi ricordo di un passaggio che non andava. Avevamo registrato qualcosa che non aveva proprio il tempo giusto. Grazie alla tecnologia, io e John l'abbiamo sistemata con un tempo diverso, come prova per vedere se funzionava, e non funzionava. Allora avevano un budget piuttosto limitato, non come quelli di adesso. Ciò che avremmo dovuto fare era tornare sui nostri passi e tirarla fuori dal cestino, ma non avevamo né il budget né l'opportunità di farlo. Ecco cosa ricordo di quella canzone che s'è smarrita. Si chiamava Eternally Missed, e credo sia finita su qualcosa per il mercato giapponese. SAFTA JAFFERY Giunti a questo punto, com'è cambiata la struttura del management? Mi pare che all'uscita del terzo album Anthony Addis fosse sempre più coinvolto. Siamo stati noi a raccomandare uno come Anthony in veste di business manager, per gestire tutti gli aspetti legati al tour. Quando eravamo io e Dennis a far loro da manager non abbiamo mai commissionato l'incarico a nessuno, e lo facevamo gratis. Avendo i diritti di registrazione e pubblicazione, abbiamo deciso sin dall'inizio di non addebitargli le spese di management, così come poi abbiamo deciso che la band aveva bisogno di un business manager che si prendesse cura dei tour, perché era quella l'attività principale, e più i tour diventavano grandi, più quella parte della nostra vita si riempiva d'impegni. Puoi immaginarti tutte le ricevute e le spese che ti arrivano alla fine di un tour, specie quando lavori con le varie licenze territoriali. Per questo motivo Anthony Addis è stato confermato come business manager: era un commercialista esperto, non vedeva l'ora di essere coinvolto ed era entusiasta della band. Credo che per lui sia stata un'evoluzione graduale. GLEN ROWE Ho il vivido ricordo di te, Glen, che te ne vai a spasso per il Reading Festival 2002 vestito da direttore di circo trascinandoti appresso una sfilza di palloni enormi. Tutta quella storia delle uniformi da direttore... a Matt ha sempre fatto ridere il fatto che mio padre fosse un lottatore di wrestling. Tutta la faccenda del 'signore e signori!' li faceva sbellicare e così, finita la session fotografica per Hullabaloo, Matt mi sfida a salire là sopra ogni giorno conciato da direttore di circo per pronunciare la tiritera da incontro di boxe. Diceva: "Siamo di Teignmouth e ci chiamiamo Muse", e poi gli veniva sempre da ridere perché non puoi dire una cosa simile con l'enfasi da rock'n'-roll, ti pare? Tipo: "Signore e signori! Da Teignmouth, Devon... i Muse!". Mi ricordo anche del riscaldamento in vista del Reading, quando ci hanno detto che c'era una multa di mille sterline per ogni minuto di ritardo in scena, e i Muse erano degli stronzissimi re quando si trattava di essere in ritardo o di sforare con lo show perché avevano spaccato tutto e s'erano messi a fare i cretini. Prima di quel festival ho passato tre concerti, e mi pare che uno fosse in Germania, come una specie di professore matto col cronometro, ad annotarmi ogni minuto e secondo di quando cominciava e finiva ogni canzone. Ce l'ho ancora con me, da qualche parte. È stato affascinante. Il tempo passava tra una canzone e l'altra, fino all'ultimo secondo prima che attaccassero con il pezzo successivo, e non so per quale magia alla fine i tempi hanno combaciato alla perfezione. Era una di quelle cose strane, che non ti riescono nemmeno se hai provato apposta per ottenere quel risultato. È successo durante l'ultimo show


prima del Reading. I due festival prima erano a posto, ma poi la band voleva aggiungere un pezzo e allora mi è venuto da sbottare: "Porca puttana", hai presente, no? Roba da farmi venire un infarto. Negli altri due festival eravamo bassi in cartellone, quindi non c'avevano dato così tanto tempo; questo invece era l'ultimo festival prima del Reading ed era l'unica occasione per fare una scaletta con tempistiche e pause al posto giusto. E poi all'improvviso è successo. Una cosa magica: sono riusciti non so come a chiudere lo show circa trentacinque secondi prima di raggiungere il tempo limite. Non si poteva essere più perfetti di così. Ed eccoci lì [al Reading] che scaldiamo la band per lo show, e io ho da sempre una ferrea routine per cui porto i ragazzi in camerino, chiudo la porta a chiave e siamo solo io, la band e nessun altro, per far salire la vibrazione e parlare dello show. È stato allora che si sono spalancate le cataratte del cielo. Veniva giù a secchiate, cazzo. Invece di ritrovarci in camerino, all'ultimo istante Matt ha avuto un ripensamento e gli è venuta voglia di usare il tour bus. Ho fatto una corsa da quel cazzo di camerino fino al tour bus con asciugamani e quant'altro, e poi [Matt] ha perso la sua... aveva una cintura davvero carina, rossa e nera con un elefante bianco. Forse il regalo di una fan, neppure lo so da dove saltasse fuori, ma per qualche motivo ogni volta che indossava quella cintura facevano degli show strepitosi. Non riusciva a trovarla, tra qualche secondo ci avrebbero chiamati e noi eravamo sul bus a cercare 'sta cazzo di cintura. E poi c'era una cosa che facevo sempre: Matt si toglieva la maglietta e io gli infilavo gli auricolari attaccandoglieli sulla schiena con del cerotto di carta Micropore, e ogni volta lo prendevo in giro, così lui dava di matto e si spanciava dalle risate perché in mezzo a tutto quel caos mi ero comunque ricordato di prenderlo per il culo un'ultima volta. Insomma, lui aveva perso la cintura, fuori c'era un cazzo di diluvio, saremo entrati in ritardo e intanto cercavo anche di cambiarmi, perché indossavo uno stupido costume del cazzo con tanto di parrucca. Per quella avevano insistito, perché dicevano che mi dava un'aria più da tedesco. Metto la parrucca, il cappello, cerco di scaldare la band e mentre usciamo dal tour bus piove a catinelle, cazzo, e noi saliamo sul palco ridendo. Mi volto a guardarli, con la pioggia che viene giù, ma noi siamo al riparo, e tutt'a un tratto mi allungano il microfono per partire con la presentazione, e allora guardo il cronometro ed eravamo già troppo in ritardo, e il mio cuore... non potevo dirgli che eravamo in ritardo, era il loro grande momento, credo mancassero soltanto due minuti prima che salissero sul palco. Sapendo che avevamo sforato di diversi secondi il tempo limite sono piombato nel panico. Poi, all'improvviso, quando sono dovuto andare là fuori e presentarli sotto i riflettori, credo di aver provato per la prima volta nella mia vita ciò che provavano loro. Ricordo che avanzavo nel cono di luce e intanto vedevo gli stand della pizza, i noodle bar e quei fottuti ombrelli, uno spettacolo fantastico. Dai un'occhiata là fuori, vedi la pioggia scrosciante e quei cazzo di ombrelli dappertutto. Una cosa incredibile, era come se il tempo si fosse fermato. Poi, quando ho attaccato con l'introduzione mi sono guardato alle spalle e c'erano Matt e Dom che sghignazzavano, e appena ho intravisto quella scena con la coda dell'occhio ho capito che sarebbe stato un momento magico. È stato in quel momento che sono saliti al rango di cazzute superstar. Tutto sommato si saranno cagati sotto, anzi si stavano cagando sotto, ma provavano lo stesso un certo piacere perverso a vedermi conciato come un coglione, mentre salivo sul palco e li presentavo in stile match di pugilato anni Sessanta. Già prima che mettessero piede in scena, ho semplicemente capito che ce l'avevano fatta. In ciò avevo una fede cieca. Ricordo quando sono entrati in scena, Matt ha alzato le mani e ogni cosa è andata al suo posto. Erano la più grande band su questo cazzo di pianeta. Tutti gli altri tendoni erano deserti, la gente era tutta lì, cazzo. Mi sono strappato di dosso la parrucca e mi sono messo a correre sotto la pioggia vestito come una testa di cazzo. Volevo fare il giro per arrivare davanti alla torre del mixer, ma non ci sono riuscito. Anche se passavi di lato la folla ti soffocava, cazzo. Era come se in quel momento mezza Inghilterra avesse fatto un salto al Reading per vedere i Muse. Un'emozione grandissima. Quindi presentavi ogni volta la band vestito in quel modo? Ogni volta, proprio così. In tutto il mondo. Me ne sbattevo le palle. L'ho capito subito: tutto pur di far ridere la band. Se lo facevi ridere, Matt era inarrestabile. Una volta mi ha detto: "Finché sarà divertente ed eccitante non ho intenzione di mollare la strada, Glen. Se restiamo in tour potresti farci una


barca di soldi, ma devi fare in modo che sia uno spasso". Sono parole che ancora oggi mi risuonano in testa. Per ogni band con cui lavoro mi viene da dire: "Porca puttana, per essere un ragazzino ha detto qualcosa di veramente azzeccato". È giustissimo, no? Io ero il tour manager e il production manager, e già era abbastanza dura svolgere questi due incarichi per una band così lunatica, figuriamoci inventarsi pure che cazzo fare nel tempo libero. Tipo noleggiare barche da pesca nel Nord della Finlandia. Durante una vacanza in Giappone li abbiamo portati in un campo da golf davvero esclusivo e loro si sono comportati come dei veri e propri bambini. Tiravano su zolle di terriccio con la mazza, correvano dietro alla palla e facevano scenate. C'erano dei pezzi grossi in giacca e cravatta, uomini d'affari che consumavano il pranzo e facevano due chiacchiere, e poi c'erano i Muse: tre ragazzi del Devon che ridevano e se ne sbattevano le palle. Dom impugnava da mancino le mazze da golf per giocatori destri, quindi non capivi mai dove finiva la palla. Il loro spirito d'avventura ha qualcosa di epico; ancora oggi, quando li rivedo in tour, sono sempre alle prese con qualcosa di folle, come quella volta in cui sono andati in Sudafrica a fare immersioni con gli squali. Da ogni Paese in cui capitano spremono sempre il massimo, ogni volta fanno qualcosa di più pazzesco della volta prima. Pesca, immersioni subacquee. Ho cercato di spingerli verso le belle arti. Mi ricordo che eravamo da qualche parte in Europa, e stavo spiegando a dei promoters che volevo affittare un modello nudo e un sacco di cavalletti. Volevo godermi la scena della band seduta in cerchio attorno a un uomo nudo, possibilmente grasso e barbuto, il tutto nella solita ottica di rendergli le cose più eccitanti. Ma quella volta ho falito miseramente. Dopo aver iniziato a suonare con quelle di Manson, Matt ha smesso di spaccare le chitarre così spesso, vero? Sì. Che strano, eh? Parliamo di chitarre strane, al prezzo di circa 3.500 dollari cadauna. Abbiamo versato qualche lacrima quando ha sfasciato la sua chitarra preferita, in Russia o in qualche altro Paese del blocco orientale. Mi pare che l'avessimo soprannominata DeLorean, era tutta argentata e somigliava a un oggetto preso da Ritorno al futuro. La prima volta in cui ce l'ha mostrata non avevamo mai visto niente del genere. Credo sia ancora tra le sue preferite, ma in quel periodo spendevamo 150 sterline al giorno in chitarre, perché lui le sfasciava in mille pezzi. E ciò accadeva tutti i giorni, ad ogni show, per due anni. DIDASCALIE DEGLI INSERTI FOTOGRAFICI - Muse giovani e riflessivi in una delle loro prime session fotografiche, giugno 1999. (Jim Dyson / Getty Images) - The Tornados, settembre 1962. George Bellamy è il primo a sinistra. (LFI) - George Bellamy, a sinistra, prevede il dominio sul mondo nell'arco di una generazione. (LFI) - Joe Meek, alla moda. (Hulton Archi* / Getty Images) - I Rocket Baby Dolls sulla promenade di Teignmouth. Solo le felpe furono bocciate all'audizione. (Herald Express) - In casa con i Muse, 1998. (Herald Express) - Sawmills Studio, dove iniziò la magia. (Mark Stacey) - L'esterno dei Sawmills, durante una pausa delle registrazioni di SHOWBIZ. (Courtesy of Ruth Taylor) - I Muse di cattivo umore. Solo Matt è ancora nel suo "periodo felpa (Herald Express) - “Kajagoogoo look", 1999. (Ed Sirrs / Retna) - In scena all'English Riviera Centre, Torquay, 21 giugno 2000. (John Whitehead / Herald Express) - Pronti ad attaccare col napalm l'English Riviera Centre, 21 giugno 2000. (John Whitehead / Herald Express) - Si festeggia il primo di molti premi, Kerrang! Awards, Lancaster Hotel, 28 agosto 2001. (Craig Barritt / Retna) - Il debutto a Glastonbury, 25 giugno 2000. (Tina McClelland / Retna) - Matt in versione Sid Vicious, in scena al T In The Park, luglio 2000. (Andrew Carruth / Retna) - Matt si sveglia col pigiama e si ritrova a sorpresa ai Kerrang! Awards del 2002. (LFI) - Foto promozionale per ABSOLUTION, 2003. (Tina Korhonen / Retna)


- Matt dimostra di aver bisogno di un braccio mobile all'asta del microfono. Showcase "The Brits Are Coming", Clapham Grand, 26 novembre 2003. (LFI) - Matt il Giullare e la sua Silver Manson fanno la loro parte al Live 8, 2 luglio 2005. (Sipa Press / Rex Features) - In visita al Teignmouth Community College, luglio 2004. (Mid-Devon Advertiser Series) - Orgogliosi allievi del TCC, i Muse ritrovano la prima insegnante di musica, Jill Bird, luglio 2004. (Mid-Devon Advertiser Series) - Dom sbuffa per la partita di poker della notte prima, Curiosa Festival, Atlanta, 29 luglio 2004. (Chris McKay / Retna) - La malinconia dei Muse, 27 maggio 2006. (David Goldman / Retna) - Futurismo al collasso: Matt suona il Kaos pad della sua chitarra sul palco del Gaimpel Open Air Festival, Svizzera, 18 agosto 2006. (Olivier Maire / EPA / Corbis) - Più soddisfatti con un premio vero come "Best Alternative Band" agli MTV Europe Music Awards in Danimarca, 2006 (Alex Grimm / Reuters / Corbis) - Ilarità per lo striminzito premio di consolazione al Mercury Music Prize del 2006 (Jim Enternational / Redferns) - “Mi piacerebbe entare in scena facendo bungee jumping dall'arco sopraelevato dello stadio, ma forse quelli della sicurezza avrebbero qualcosa da ridire...”, conferenza stampa del Wembley Stadium, 4 dicembre 2006. (Anthony Harvey / Wireimage.com) - Matt, come Gandolf, mette alla prova la potenza distruttiva del Brit Award come "Best Live Ape", il giorno di San Valentino del 2007. (Dave Hogan / Getty Images) - Hugh Manson mostra la chitarra MIDI "M One D One" che ha costruito per Matt. (Tim Stark) - Madison Square Garden, New York, 2007. (Lucas Jackson / Reuters / Corbis) - La blitzkrieg sensoriale dei Muse al Wembley Stadium, 16 giugno 2007. La HAARP non ha mai tremato così tanto. (Brian Rasic / Rex Features) - Ci si prepara all'intervista più recente dell’autore, NME Awards, 28 febbraio (Dave Hogan / Getty Images) - Cowboy Chris suona per il Sultano al Dubai Desert Rock Festival, marzo 2008. (Awais Butt) - Subito dopo aver "eccitato la belva" dell'organo della Royal Albert Hall, 12 aprile 2008. (Jo Hale / Getty Images) Capitolo sette Crunch. Crunch. Crunch. Crunch. Iniziò con degli anfibi militari che marciavano a passo pesante su ghiaia e sabbia. Il sinistro e monotono rintocco dell'artiglieria sfreccia sopra la testa e poi arrivano le esplosioni, che si schiantano ovunque come accordi di pianoforte suonati a martellate, ammazzano i bambini, mutilano i civili, scaraventano a forza il mondo ancora più giù, nell'oscurità. Prima che gli ispettori degli armamenti dell'ONU portassero a termine le loro indagini contro l'opinione di molti esponenti di spicco della NATO (tra cui Francia, Germania, Canada, Russia), contro quella di milioni di manifestanti in tutto il mondo e illegalmente, secondo la Carta delle Nazioni Unite, il 20 marzo 2003 le forze della coalizione formata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e Australia marciarono in Iraq sotto lo stendardo dell'operazione Iraqi Freedom. Nell'arco dei successivi cinque anni persero la vita tra le 150mila e il milione di persone, a seconda dei bilanci cui credete. Dallo studio di registrazione, Matt Bellamy assisteva ogni giorno all'evolversi del conflitto sui media con un crescente senso di terrore, panico e impotenza. George Bush, senza alcuna prova e in contrasto con le informazioni comunicategli dagli ispettori degli armamenti e dalla CIA, riuscì a convincere una notevole percentuale di americani che l'Iraq possedeva armi di distruzione di massa e la capacità di usarle, costituendo così un'immediata minaccia per gli Stati Uniti. Il popolo americano credette così ciecamente a ciò che gli diceva il suo presidente che, secondo molti, Saddam Hussein era il diretto responsabile degli attacchi dell'11 settembre. Matt, però, guardò attraverso la cortina di fumo. Se molti manifestanti dichiaravano, in modo convincente, che quella guerra era scoppiata solo per depredare l'Iraq del suo petrolio, Matt vide una nazione


americana in mano a un guerrafondaio che mirava a costruire un impero, e le sue recenti letture lo aiutarono a sfoltire un ulteriore strato di menzogne. Lui non si limitava a vedere Bush come un grande cospiratore, che ignorava intenzionalmente i moniti degli attacchi dell'11/9 e manipolava con cinismo dicerie e false informazioni per dare forma alla sua guerra. Lo vedeva più che altro come una marionetta, servo obbediente di una ben più alta e sinistra autorità. Aveva letto della Commissione Trilaterale, un'organizzazione sospetta fondata nel 1973 e composta dagli individui più potenti di Europa, America ed Estremo Oriente; gente come banchieri, politici, intellettuali, leader sindacali, propagandisti, dirigenti di compagnie petrolifere, energetiche, società farmaceutiche e media. I membri che assumevano cariche governative nei rispettivi Paesi erano costretti a lasciare l'organizzazione, ma Matt credeva che continuassero ugualmente a tirare le fila e a prendere le decisioni più importanti a livello globale. Era questa gente, con le sue strette di mano massoniche e i suoi accordi segreti, che stava veramente a capo del mondo e decideva persino quali politici in gara per una carica pubblica avrebbero ottenuto maggior copertura mediatica. Anche se quell'invasione era un tradimento da parte di Tony Blair e il Regno Unito non aveva più un leader di cui potersi fidare, la sua nazione non gli sembrava sotto controllo quanto l'America, a giudicare dal fuoco di fila di domande cui era stato sottoposto il Primo Ministro durante il question tìme. Le conferenze stampa di Bush, invece, erano tutte programmate, e chiunque avesse fatto una domanda fuoriluogo non sarebbe stato nuovamente ammesso. Quando scoppiò la guerra, i Muse stavano lavorando a una canzone cui avrebbero infine associato un videoclip a tema sulla Commissione. Il pezzo si chiamava Time Is Running Out e nel video compariva uno stanzone in stile Dottor Stranamore, fiocamente illuminato e popolato da individui tipo "gabinetto di guerra" che rimestano fra i documenti, rispondono al telefono, premono all'unisono i pulsanti delle loro penne a sfera e governano il mondo dietro porte chiuse63. O coperti dal segreto, se preferite. Il bilancio dei morti che cresceva di giorno in giorno, quel mondo che percepiva come avvolto da un crescente senso di rovina e le letture scientifiche secondo cui la prossima era glaciale distava solo 400 anni fecero capire a Matt che quell'album all'insegna della positività e dell'intimismo stava per subire un cambiamento. Il mood globale andava rispecchiato, documentato. La condizione dell'umanità andava messa a nudo. E chi poteva farlo meglio di una band la cui musica non riusciva a non farsi influenzare dagli eventi mondiali e il cui nuovo album si apriva col verso "Declare this an emergency / Come on and spread a sense of urgency" e che culminava con le parole "This is the end of the world" ("Dichiaratela un'emergenza / Forza, spargete un senso d'urgenza... Questa è la fine del mondo")? In fin dei conti, se il suo voto non significava nulla, i dimostranti venivano ignorati e gli ingranaggi della guerra stavano per stritolare la volontà di chiunque, cos'altro poteva mai fare? In quella rigida mattina di marzo, alla luce degli eventi mondiali, il terzo album dei Muse avrebbe indossato colori molto più cupi. * * * A marzo, quando scoppiò la guerra, circa metà del nuovo album era stata completata col titolo di lavorazione THE SMALL PRINT; l'avevano registrata in gran parte ai Grouse Lodge Studios con Ridi Costey, che finì, come aveva chiesto lui, per produrre quasi tutto il disco e addirittura ri-registrare alcune parti orchestrali con toni più sfumati. Il Grouse Lodge era una vecchia casa colonica con attrezzi agricoli sparsi ovunque, e i Muse trasferirono come al solito il loro ambiente all'interno del disco. Nel secondo verso di Time Is Running Out, ad esempio, compare il suono della ruota di un carro che Matt e Dom avevano trovato durante una passeggiata, colpita a tempo col rullante mentre la band schiocca le dita e si batte le mani in grembo. Registrarono anche uno strumento usato per avvitare tappi di sughero, che quando lo torcevi produceva un suono metallico, mentre in Apocalypse Please Dom registrò la batteria nella piscina dello studio, riverso su un materassino e con indosso solo un costume da bagno. Per creare un effetto gong provarono anche a registrare i piatti sott'acqua, ma desistettero dopo svariate ore senza ricavarne un suono decente. L'acustica della piscina conferì a quella traccia maggior riverbero e profondità, così la band continuò ad aggiungere strati su strati di percussioni dentro l'enorme


fienile della fattoria per dare alla canzone un feeling aggressivo, una produzione debordante; quei sinistri rumori di marcia all'inizio del pezzo sono opera loro, mentre calpestano la ghiaia in giardino. Apocalypse Please aveva finalmente raggiunto il suo immane potenziale. Gioviale, occhialuto e a detta della band un genio ancor prima che l'album fosse finito, Costey (come Leckie prima di lui) si rivelò un produttore dalle formidabili idiosincrasie. Con un approccio intricato e minimalista che rasentava il perfezionismo, colmava grandi distanze tecniche per raggiungere i risultati che desiderava. Armato di metro a nastro e livella, disponeva con cura maniacale e precisione matematica fino a venti microfoni sulle casse degli amplificatori, per ottenere una "fase" perfetta. Tirò fuori anche un programma per il morphing in grado di miscelare due suoni per ricavarne un terzo all'esatto punto medio tra i due. Prendiamo, ad esempio, il suono del motore di un'auto e quello di una chitarra: grazie ai suoi sintetizzatori interni, il programma riusciva ad ottenere l'esatto suono intermedio. Per creare la chitarra-synth da cui proviene lo strano riff di Stockholm Syndrome, la band usò il programma inserendovi una chitarra e un sintetizzatore suonato con un pedale wah-wah. La cura di Costey per il dettaglio si trasmise anche a Matt, che ricorreva spesso alla sovraincisione delle chitarre per ottenere un sound più corposo. Suonandole dal vivo, però, aveva semplificato alcune parti in Citizen Erased e Micro Cuts e si era accorto che le canzoni ne uscivano più taglienti ed efficaci. Così, per mettere in risalto una parte di chitarra in ogni canzone, denudò l'impianto alle sue spalle (che aveva trasformato in un mostro da tre ampli inutilmente ingombrante e sempre più fastidioso da portarsi in giro per il mondo) e lavorò sulle varie parti di chitarra prima di registrarle. Usando soprattutto la Black Manson (perché in studio aveva un suono migliore), più una semi-acustica che gli aveva prestato Costey64 e una rara Aloha Stratocaster comprata per 200 sterline da un suo amico che faceva il tecnico delle chitarre e aveva uno scantinato pieno di esemplari "difettosi" (e questa, che non faceva eccezione, valeva dieci volte tanto), la pignoleria di Matt per i riff eguagliò quella del suo produttore per i microfoni. Per Time Is Running Out, ad esempio, scompose gli accordi in singole note che registrò individualmente, per poi ricomporli partendo da sei tracce diverse. In ABSOLUTION Matt riscoprì anche il tremolo, che non usava da anni, negli assoli di The Small Printt e Thoughts Of A Dying Atheist. Costey, anche lui fissato e sospettoso circa i moventi dell'invasione irachena, intratteneva la band con brandelli di notizie sull'America e la politica mondiale. Il nuovo disco cambiò umore a metà strada - tutt'a un tratto doveva essere più importante e significativo nell'attuale clima politico - e il tono delle registrazioni fece altrettanto. Consapevole che ora doveva produrre un disco di rilevanza culturale, l'album più cruciale di tutta la sua vita, Matt modificò il tono dei testi perché riflettessero la sua sfiducia nel governo, le proteste in corso a Londra, l'uomo qualunque che è indifeso in un simile frangente e la paura per la fine del mondo. Finora era stato troppo timido per essere così apertamente tetro, per ribadire con tale austerità che siamo tutti destinati ad invecchiare e morire. Ma collegando i fatti del mondo a tematiche più personali come la fine della sua precedente storia e la sua mortalità (cosa ci viene in mente sul letto di morte quando ripensiamo alla nostra vita, se ci riteniamo felici per ciò che abbiamo conquistato oppure avviliti e incazzati per tutto), ne uscì un disco sulla fine delle cose (le relazioni, la fiducia, la vita, il mondo) e sulle energie positive che devi scovare per sopravvivere a eventi così traumatici. Era un disco sui momenti bui che secondo Matt incontreremo nelle nostre vite, più qualche appunto su come superarli con un briciolo di gioia nel cuore e senza rassegnarsi alla tristezza. Anche l'atmosfera in studio cambiò. Matt iniziò ad avere forti sbalzi d'umore, oscillava dallo scetticismo più nero alla fiducia nelle proprie capacità di dimostrarsi all'altezza del compito e creare qualcosa di veramente importante. C'erano momenti in cui Costey e la band si guardavano l'un l'altro chiedendosi cosa diavolo stessero facendo, momenti di vuoto e assoluta incertezza cui di solito seguivano improvvisi scoppi di ottimismo e sicurezza. Matt cominciò persino ad avere incubi ricorrenti dove lo appendevano a testa in giù e lo picchiavano sui piedi. Una volta concluso il blocco di registrazioni principale al Grouse Lodge, la


mania raggiunse l'apice quando la band fece ritorno nella sala prove di Hackney per decidere quale canzone sarebbe diventata il primo singolo. All'inizio pensarono a The Small Print, perché era il classico singolo pop dei Muse, ma poi si parlò di farlo uscire solo su Internet, e quindi decisero che potevano rischiare puntando su tracce più pesanti e aggressive. Come primo estratto dell'album scelsero l'oscura e metallica Stockholm Syndrome, che con sei minuti di durata non avrebbe mai potuto candidarsi a singolo standard. L'espressione del titolo l'aveva coniata il criminologo Nils Bejerot nel 1973, mentre studiava il caso della rapina alla Kreditbank di Norrmalmstorg, una piazza in centro a Stoccolma, durante la quale i dipendenti della banca, tenuti in ostaggio per sei giorni, svilupparono un legame emotivo con i sequestratori, opposero resistenza ai soccorsi e presero addirittura le difese dei malviventi organizzando collette a sostegno della difesa. Una vittima si fidanzò con uno dei rapinatori che si trovava in carcere, un'altra ancora cambiò nome in quello di uno dei ladri e sparì nel nulla. Bejerot ipotizzò che questo fenomeno psicologico ha luogo quando una persona viene trattata con gentilezza e simultaneamente messa in pericolo di vita dalla stessa figura di controllo. Per i Muse era un'eccellente metafora del sottile piacere che si prova ad essere la parte più debole in una relazione a senso unico, o un prigioniero masochista in un mondo che gira senza più alcun controllo. La band realizzò i videoclip con la regia di Tom Kirk. Ispirandosi al film Predator, noleggiarono alcune videocamere per immagini a infrarossi da 30mila sterline cadauna e le utilizzarono per riprendere diverse pagliacciate. Dom si accendeva una scoreggia sopra un tavolo da biliardo mentre Matt si tirava addosso dell'acqua fredda per simulare che il suo corpo si stesse liquefacendo, e quando si scriveva "fuck" con dei cubetti di ghiaccio sul torace, attraverso l'obiettivo sembrava come se si stesse graffiando quelle parole nella nuda carne o incidendosele nel costato (questa sequenza non fu mai tagliata nella versione televisiva). Visioni da incubo, certo, ma se i Muse volevano davvero sintetizzare il loro tempo dovevano tuffarsi nel ventre della bestia. Quando Costey propose loro di registrare l'ultima tranche di backing vocals e mixare l'album sulla stessa consolle su cui i Beach Boys avevano realizzato PET SOUNDS, la band colse al volo l'opportunità di finire l'album in America, il cuore velenoso dell'oscurità trionfante. * * * Lo Standard Hotel sul Sunset Strip di Los Angeles è un monumento al glamour appassito. L'atrio, un tempo rigurgito ultramoderno in stile anni Sessanta a base di moquette a pelo lungo, sedie sferiche appese al soffitto con catene e lampade spioventi perfette per il covo di un nemico di James Bond ora ha l'aria un po' sporca e sfilacciata agli angoli, come le ex modelle che frequentano il bar a bordo piscina dove risuona musica bluegrass: sono entrambi facsimili chirurgicamente corretti di ciò che erano un tempo. Monotone melodie electrolounge pulsano dalla consolle del banco portineria senza che nessuno vi faccia caso, e la principale attrattiva dell'albergo (la scatola di plexiglas alle spalle della reception, che contiene ragazze in bikini pagate per poltrire in pose provocanti) è diventata un tedioso cliché, molto spesso popolata da studentesse senza un soldo che lavorano frettolosamente alla loro tesi o controllano la loro pagina Facebook. Di tutti i bar trendy degli hotel sullo Strip (lo Sky Bar al Mondrian, il Whiskey Bar al Sunset Marquis, il bar dello Chateau Marmont), lo Standard è quello che si è afflosciato più in fretta, un ritrovo per vittime della moda frequentato dalla gente un attimino meno bella che vuole sforzarsi di essere cool. Niente di strano che Matt, dopo essersi dato un'occhiata intorno, una sera, ed essersi reso conto che non voleva a nessun costo far parte di quella scena modaiola secondo lui indegna, abbia deciso di mollare il più in fretta possibile ogni atteggiamento cool. Si lasciò cadere a faccia avanti sul morbido tappeto grigio e andò a farsi una nuotata. Le sette settimane che i Muse trascorsero sul Sunset Strip (prima in appartamenti fuori città e dopo qualche settimana allo Standard, perché era più vicino allo studio) risentirono ben poco del deprimente giogo della guerra. No, finalmente rilassati e senza alcuna pressione se la spassarono un mondo, giocarono a ping pong sui tavoli a bordo piscina, presero a noleggio bolidi che spinsero al massimo della velocità sul tratto di costa tra Los Angeles e San Francisco65, da veri tamarri casinisti, e andarono con Serj


Tankian ai concerti di Mars Volta, Cave-In e The Coral, o in ritrovi abituali da musicisti come l'On The Rox, il Cat & Fiddle e il Rainbow. Dato che negli States ORIGIN non era ancora uscito, per una volta tanto il loro basso profilo gli risparmiò cacciatori d'autografi molesti e fan schizzati. L'unica volta in cui ebbero il sentore che forse, in America, qualcuno sapeva chi fossero, fu quando dalle casse del bar dello Standard si diffuse un brutto remix di Muscle Museum. Le registrazioni si svolsero ai Cello Studios, un edificio su un unico piano situato lungo lo Strip, a un chilometro e mezzo di distanza dall'albergo. Studio di grande fama, da quando aveva aperto i battenti nel 1961 i più celebri artisti degli anni Cinquanta e Sessanta ne avevano varcato la soglia: Frank Sinatra, Nat King Cole, Dean Martin, Ray Charles, Elton John, Rolling Stones, Eric Clapton e Beach Boys. I Red Hot Chili Peppers vi avevano allestito un impianto permanente, e mentre i Muse si trovavano lì c'era Tom Petty che registrava nella sala accanto. Anche se durante quel soggiorno mantennero al minimo il livello di socializzazione (degna di nota la scelta di Matt, che se ne restò a casa a guardare Kids di Larry Clarke mentre i suoi amici erano a LA per una delle sbronze più colossali), i Muse, spiritualmente parlando, si stavano mescolando con le leggende. La cosa che più disturbava Matt era semmai l'assenza di preoccupazioni dell'America per la guerra in Iraq. In Inghilterra aveva visto dimostrazioni e marce di protesta, e la guerra era sulla bocca di tutti. In America, un popolo che sapeva a malapena indicarti sulla cartina cosa si intende per "oltreoceano" continuava a mangiare hamburger e guidare SUV, troppo impaurito per sollevare una qualsiasi obiezione66. In un simile ambiente, alcune canzoni del nuovo album (Apocalypse Please, Time Is Running Out, Ruled By Secrecy) acquisirono nuova importanza e l'album si guadagnò il titolo di ABSOLUTION, come se la forza della musica potesse assolvere l'ascoltatore dai molteplici peccati del mondo. Secondo Matt, la musica stava prendendo il posto della fede nel cuore della gente, e ascoltarla era l'unica cosa che gli faceva percepire una spinta sotterranea al bene nell'umanità. C'era dell'altro: lo scopo di ABSOLUTION non era più soltanto documentare lo stato del mondo, ma sbattere in faccia all'America il casino che aveva combinato. A tal fine, iniziò a parlare con i giornalisti del periodo in cui Bush era stato governatore del Texas e di come questo "presunto" cristiano non sarebbe mai finito in paradiso per via delle trecento condanne a morte che aveva approvato, più di ogni altro governatore prima di lui. Se ne uscì anche con un classico espediente alla Bellamy per ritirarsi dalla società, nel suo inimitabile stile da scienziato pazzo: stava pensando di comprarsi un'isola e un macchinario per l'ossigeno, per vivere sott'acqua e calzare ai piedi - idea bizzarra - delle scatole di Kleenex. In alternativa, proponeva di sfruttare al massimo tutte le risorse naturali del pianeta, così da procurarci i mezzi per fuggire prima che si schianti contro il sole e diventi una supernova. Le sue soluzioni ai problemi del mondo erano in apparenza estreme quanto i problemi stessi. Spiegò anche le ragioni alla base di Apocalypse Please, per aprire la mente delle persone alle eventualità che si nascondono dietro i titoli dei giornali. Dopo l'11/9, e con il conflitto in Iraq che aveva intensificato il rischio di attacco terroristico in tutte le nazioni coinvolte nell'invasione, la più grande paura che attanagliava il mondo occidentale e ci spingeva sull'orlo del baratro era il fondamentalismo. E Apocalypse Please prendeva le mosse da una prospettiva inedita, cioè quella di un fanatico religioso che invocava un intervento divino per risolvere i problemi del mondo ("It's time we saw a miracle / Come on it's time for something Biblical / To pull us through" - "È ora di vedere un miracolo / È ora di qualcosa di biblico / Che ci aiuti a tirare avanti"). Quel pezzo sosteneva che credere in concetti religiosi tradizionali come l'apocalisse portava inevitabilmente il credente al desiderio di confermare la propria fede facendoli avverare. Esplorava anche l'idea che inesattezze nella traduzione o nell'interpretazione di antiche profezie o di testi religiosi portasse a una loro erronea ri-attuazione. Sia l'America che l'Islam, ad esempio, stavano prendendo decisioni e compiendo azioni basandosi su racconti poco più che improvvisati da alcuni cantastorie, migliaia di anni fa, e destinati a causare la morte di migliaia di persone. Per fare un esempio, Matt dichiarò che Gesù non era ebreo (tesi che secondo lui l'Inquisizione spagnola aveva cercato di reprimere per secoli ma che negli ultimi tempi era tornata a galla), e non era morto sulla croce, ma era stato deposto e rianimato, termine che deriva dalla


stessa parola ebraica per "resuscitato". Se secondo l'Ebraismo, inoltre, il Messia era stato inviato dal Cielo per risolvere i problemi del mondo, Gesù non avrebbe potuto essere il Messia perché non li aveva risolti. Affascinato dall'idea che la più grande religione del mondo occidentale fosse fortemente debitrice dal pensiero orientale, Matt tendeva alle teorie religiose apparentemente più disparate, per cui a) i buddhisti inviarono tre "saggi" in giro per il mondo alla ricerca del prescelto, b) i tre "saggi" assistettero con ogni probabilità alla nascita di Gesù e c) Gesù scomparve per diversi anni della sua vita e poi tornò all'improvviso, predicando filosofìe parecchio buddhiste. Matt arrivava così a quella che per lui era la conclusione più logica: Gesù era buddhista. Apocalypse Please giocherà un ruolo fondamentale nell'album. In quanto canzone d'apertura, spettava a lei allestire il tetro e magniloquente scenario per il resto del disco e stabilire un legame, in un modo o nell'altro, con tutte le canzoni a seguire. ABSOLUTION avrebbe parlato di relazioni: quella fra te e il tuo Dio, te e la tua ragazza, te e il tuo carceriere, te e la musica. Come con la copertina di ORIGIN, ogni canzone sarebbe stata legata alle altre, in una specie di moderno e progressivo concept album, e Apocalypse Please ne sarebbe stata la nave ammiraglia. E così, mentre il picco dell'estate incombeva su di loro e la conta dei morti saliva alle stelle, i Muse finirono di registrare ABSOLUTION a LA e, a luglio, fecero ritorno in Inghilterra per gli ultimi ritocchi, per assistere alla nascita del terzo figlio di Chris (che diceva per scherzo "ne faccio uscire uno a disco"), comprarsi i loro primi vestiti per il matrimonio previsto a dicembre, scialacquare quattrini in macchine veloci (Dom acquistò una Audi TT, Chris una Jaguar XJS e Matt, che aveva già la sua Lexus, optò invece per un computer palmare con codice di sicurezza ad impronta digitale) e prepararsi all'imminente baraonda promozionale. A differenza del nervosismo che aveva segnato l'uscita di ORIGIN, dettato dalla paura di come avrebbero potuto accoglierlo pubblico e stampa, stavolta tornarono dalla loro gente con la consapevolezza di avere in tasca un capolavoro. Erano pronti a diventare delle superstar. Il 7 luglio, Stockholm Syndrome fu il primo pezzo di ABSOLUTION ad essere dato in pasto al pubblico. Con una mossa rivoluzionaria senza precedenti per una rock band di fama mondiale, e forse in anticipo sul declino nelle vendite dei Cd e sul crollo del tradizionale schema di lancio delle case discografiche, il brano era disponibile solo come traccia singola da scaricare sul sito ufficiale della band al costo di una sterlina. Volevano distribuirla gratis (tattica che artisti come Prince adotteranno con grande successo diversi anni dopo), ma la Taste/MediaMushroom non acconsentì. Per coincidenza, la Mushroom era in fase d'acquisizione da parte della Warner Bros per la cifra ufficiale di quindici milioni di sterline, e il boss dell'etichetta Korda Marshall passò alla EastWest, succursale della Warner, in qualità di direttore generale. I Muse fecero altrettanto, portandosi dietro il contratto con la Taste Media. Per ironia della sorte, i Muse che passavano a una sussidiaria della Warner nello stesso anno in cui la Warner acquisiva la Maverick significava che la band e il loro album erano di nuovo in America e potevano contare su una distribuzione decente. La prima band che Korda scritturò per la EastWest furono i The Darkness, un pastiche dei Queen ben più comico di quanto non sembrasse alla firma del contratto. Anche se nel luglio 2003 non esisteva niente di simile ad una classifica dei download, sarebbe bastato trasferire nelle classifiche ufficiali le vendite on line di Stockholm Syndrome per far schizzare il singolo al numero 3. Perché quel festino rabbioso e annichilente come una pioggia di pietre, con chitarre-synth simili a motoseghe e un basso psicotico che ti lasciava addosso i lividi era infatti l'indiscusso singolo dell'anno, e sarebbe diventato, a oggi, il più scaricato e venduto della band. L'8 settembre fu messo in vendita il primo singolo/antipasto vero e proprio di ABSOLUTION, la ben più radiofonica (e, a quanto si dice, ispirata a Michael Jackson) Time Is Running Out67. Mentre il video raffigurava le movenze sincronizzate dell'elite militare e affaristica in un bunker da Dottor Stranamore, la canzone in sé era più personale: parlava di quando si è soggiogati da un partner, dalla religione o dalla società stessa. Senza che l'ulteriore spinta in classifica con il formato in 2 Cd fosse più necessaria grazie al successo di Stockholm Syndrome, Time uscì su Cd singolo (anche se per


gli afìcionados del formato multiplo c'era il Dvd del singolo, contenente canzone, videoclip e relativo "making of"), insieme al video e alla politicamente impegnata The Groove. Se Stockholm Syndrome erano i Muse che sfondavano a calci la porta del rientro sulle scene, sforacchiandola con chitarre come martelli pneumatici e urlando attraverso gli squarci (una magistrale rilettura in chiave melodica dei riff metal da headbanging di RATM o Metallica), Time Is Running Out, al numero 8 nelle chart inglesi, era il successo pop che strizzava l'occhio al moshpit, e che garantì ai Muse un'accoglienza calorosa fra i ragazzini amanti dal pogo così come tra gli adepti del rock pesante. Con ogni probabilità, era la doppietta ibrida di singoli da k.o. tecnico più credibile a memoria recente. I Muse erano tornati con il più fragoroso dei botti. E le cose potevano solo migliorare. Per mostrare ABSOLUTION alla stampa, niente custodia di plastica speciale (anche le copie di ORIGIN inviate ai giornalisti erano schiacciate tra due riquadri di plexiglas, stavolta però fissati con due viti e corredati dall'indispensabile cacciavite di plastica), ma un'autentica anteprima al Planetarium di Londra un mese prima della sua uscita. Dopo vino e stuzzichini, alcune centinaia di giornalisti, Pr, colleghi della band e aventi causa furono accolti nell'auditorium, dove ascoltarono l'album su un impianto mozzafiato mentre sul soffitto andava in scena lo spettacolo siderale del Planetarium. Forse prendeva spunto dall'anteprima di DARK SIDE OF THE MOON nel 1973, sempre al Planetarium, in occasione della quale i Pink Floyd mandarono al proprio posto delle sagome di cartone a grandezza naturale, ma forse non c'era modo migliore di sperimentare per la prima volta brani come Sing For Absolution, Blackout o Butterflies And Hurricanes che con un tour dei pianeti a velocità supersonica in una galassia simile a una matrice di punti. Ancor più azzeccato, quando la durata dell'album superò quella dello spettacolo, il proiezionista fu costretto a rispolverare le uniche altre immagini del Planetarium, e cioè spettri, demoni e cimiteri, catapultando lo spettatore in tombe senza fondo e fiamme infernali mentre la voce di Bellamy urlava demoniaca, "and be my slave to the grave", o "It scares the hell out of me / The end is all I can see" ("Mi terrorizza a morte / Non vedo altro che la fine"). Dopo l'anteprima e le bevute con la band nell'adiacente Madame Tussaud's, la festa ebbe termine con gli ospiti obbligati a lasciare il locale passando per la Camera degli Orrori, un'esposizione di cere fiocamente illuminata nei sotterranei dell'edificio, dove il loro ritorno a casa fu reso ancor più terrificante dagli attori ingaggiati dalla band, travestiti da zombie e incatenati al muro, che si appostavano ad ogni angolo e ti saltavano incontro appena gli passavi vicino. Come scoprimmo quel giorno, ABSOLUTION era un traguardo formidabile. Iniziava con anfibi militari che marciavano a passo pesante sulla ghiaia, esplosivi accordi di pianoforte e l'incedere da Panzer della batteria. Apocalypse Please, come il furioso sermone di un predicatore che vomita fuoco e fiamme, dava all'intero album un mood oscuro e possente, con eccessi e strepiti orchestrali degni del Libro delle Rivelazioni. Un album molto più duro di quanto i Muse stessi avessero previsto. A farle da contrappeso, l'affondo funky-pop della snella Time Is Running Out era la prova che i Muse non erano andati alla deriva in una dimensione musicale sconvolta dove regnavano saghe dei Nibelunghi e Brunildi in fiamme, ma avevano ancora le radici saldamente piantate nel rock melodico. Seguiva con passo cadenzato la dolce ballata da carillon Sing For Absolution, che secondo Dom spiegava il concetto alla base del titolo mentre ci parlava di come l'atto di scrivere e cantare musica abbia il potere di assolvere i peccati dell'umanità. Ma il testo, col suo "Lips are turning blue / A kiss that can't renew / I only dream of you / My beautiful" ("Labbra che diventano blu / Un bacio che non si rinnova / Sogno solo te / Mia adorata") sembrava una poesia d'amore all'amata defunta. Per Matt era uno dei pezzi con le sonorità più gotiche e opprimenti, ma da quel crescendo finale si intravedeva una delle canzoni più dirette e toccanti finora mai composte dalla band. E poi era il modo migliore per cullare l'ascoltatore in un falso senso di sicurezza, prima di risvegliarlo a schiaffoni con l'assalto sonoro su ogni fronte di Stockholm Syndrome. Fedele allo schema "tempesta/quiete" sinonimo di grande musica rock alternativa, Falling Away With You s'affacciava dai cingoli di Stockholm Syndrome per


parlarci di una storia in frantumi, con una ballad di disarmante nudità e perfetto equilibrio inevitabilmente destinata a deflagrare nella perturbazione elettronica del ritornello, come se i demoni di una storia passata si fossero dati appuntamento nella testa di Matt per ossessionarlo con schegge di synth in stile Genesis. C'era spazio per i trentasette, frementi secondi di un roboante pezzo di stampo cinematografico intitolato Interlude, che faceva da pausa tra i due "atti" dell'album riproducendo la sequenza di accordi dell'Adagio per archi di Samuel Barber, prima che Hysteria ci catapultasse di nuovo in uno spumeggiante universo di space-pop metatronico con un attacco da infarto. La canzone parlava del tendere verso qualcosa di tanto invitante quanto fuori dalla nostra portata, e ciò spiega forse perché i Washington Capitals, eterni quasimembri della National Hockey League, quell'anno la adottarono come anthem della loro squadra. Moderno capolavoro classico per coro, orchestra e mandolino, Blackout era in lizza per il titolo di canzone più bella dei Muse nonché primo pezzo di ABSOLUTION a narrare le reminiscenze di un protagonista in punto di morte al cospetto del blackout finale. Tali idee erano frutto della convinzione di Matt che l'Occidente fosse un brutto posto per morire. Aveva paura di finire in una casa di riposo, dimenticato da tutti e in progressivo decadimento, più vecchio e più lento ma con la mente ancora vigile. Il pessimismo e il languore di Blackout avevano bisogno di un contrappunto, che giungeva con le sbalorditive fattezze di Butterflies And Hurricanes, l'altro mostro orchestrale dell'album, a portare un messaggio di fede, speranza, coraggio e fiducia in se stessi davanti alle avversità personali e del mondo. Forse il miglior pezzo della band, svettava al centro di ABSOLUTION come l'equivalente musicale finemente cesellato del Colosso di Rodi, a testimoniarne il genio solo per mezzo della sua stessa magnificenza. Dom la scelse come prossimo singolo a dispetto di lunghezza e ampollosità. Voleva semplicemente passarla a quelli dell'etichetta dicendo loro: "Vedetevela voi". A riprova della potenza melodica e dell'abbondanza di potenziali singoli di ABSOLUTION c'era The Small Print, prima scelta della band come singolo da classifica che non fu mai pubblicato e venne infine relegato tra gli episodi conclusivi dell'album. Era un altro sensazionale momento di hardcore pop in mezzo a una cornucopia di brividi, una canzone in debito tanto con Rage Against The Machine e Audioslave quanto con Goethe. Quel contundente attacco di basso e quel motivetto stratosferico erano i Muse al top, e non mancò di suscitare dibattiti tra i fan sparsi in Rete circa il suo significato. Erano in ballo il già discusso aggiornamento del mito di Robert Johnson, il cinismo dell'industria discografica o il governo che distoglie il pubblico da ciò che sta realmente accadendo grazie a dei "trabocchetti" mediatici ("It'll make you insane / And I'm bending the truth" - "Ti farà impazzire / Sto distorcendo la verità"). E inoltre indice d'impeccabile qualità nel songwriting che una canzone d'amore con elettronica e fascinosi accenti disco come Endlessly sembrasse un tappabuchi di riserva, in compagnia di simile materiale. Thoughts Of A Dying Atheist, seconda canzone del disco sulla vita che ti passa davanti in punto di morte, spiazzò i fan più fissati per via di un titolo che in origine era quello di lavorazione per Megalomania in ORIGIN. Era una delle canzoni più accattivanti di ABSOLUTION, che sfrecciava con energia e vitalità (considerato l'argomento in questione), e scatenò un bel dibattito sulla posizione religiosa del cantante. Matt non era mai stato battezzato (e neanche i suoi genitori) e aveva spesso abbracciato teorie religiose prossime all'ateismo; quello, però, era anche lo stesso periodo in cui dichiarò che avrebbe voluto essere credente, ma il volume d'informazioni disponibili su tutte le religioni del mondo gli rendeva impossibile sposare un'unica fede, perché ciò avrebbe implicato chiudersi a tutte le altre. L'affermazione che il testo di Thoughts Of A Dying Atheist sfociava nella storia di un automa da ufficio che impazzisce, fa a pezzi i suoi colleghi a mani nude, poi torna a casa dalla moglie e affronta la fine della propria sanità mentale sembrava adattarsi meglio all'ultimo pezzo dell'album, quella Ruled By Secrecy in cui la probabile causa della follia del protagonista è il non sapere chi controlla la sua vita ("Repress and restrain / Steal the pressure and the pain / Wash the blood off your hands / This time she won't understand" - "Reprimi, tieni a freno / Fa sparire la pressione e il dolore / Lavati il sangue dalle mani / Stavolta lei non capirà"). Con un titolo preso in prestito dal libro Rule


by secrecy del teorico della cospirazione Jim Marrs, che documenta nascita e potere della Commissione Trilaterale e traccia il percorso delle società segrete nel corso della storia instaurando una connessione tra Illuminati, cavalieri Templari, antiche piramidi e le tavolette aliene dell'Iraq (avrà un'influenza enorme su alcune teorie che Matt prese per buone, in quel periodo), era il classico pezzo di chiusura di un disco dei Muse sulla falsariga di Megalomania. Sinistra, umorale, come una brace fumante, con l'inevitabile scoppio di melodrammatiche e vampiresche bordate di pianoforte e quel "no one knows who's in control" urlato nel finale, era la smarrita e disperata conclusione per un album che poneva molti interrogativi ma offriva solo la fiducia in se stessi come risposta. Tuttavia, i giornalisti presenti all'evento tornarono di corsa negli uffici delle loro riviste e dissero che c'era un classico del rock moderno che si stagliava all'orizzonte. ABSOLUTION non era soltanto il miglior disco dei Muse, ma un punto di svolta per la band. Per chi aveva smesso di paragonarli a cloni dei Radiohead stavolta non c'era alcun plagio da sfottere, e anche i più ferventi scettici dovettero riconoscere che le canzoni erano forti come in qualsiasi altro album a memoria d'uomo. I volubili impostori del prog avevano sfornato un album che, a differenza dello sfilacciato ORIGIN OF SYMMETRY, fondeva senza soluzione di continuità velleità classiche, forza d'urto hard rock e sensibilità elettronico-futuristica. Dei Muse così al massimo del loro potenziale non si erano mai visti. La variopinta farfalla del rock di domani era finalmente emersa dalla sua crisalide prog metal. Nel 2003, la musica alternativa era una questione di sgangheratezza. Strokes e White Stripes avevano ringiovanito la nobile arte della "canzone pop tirata", ispirando una generazione di band dalla smunta magrezza melodica, e nel Regno Unito quel mantello l'avevano indossato i Libertines. Le ambizioni delle band che andavano a rimorchio non si spingevano oltre il farsi di crack con Pete Doherty a Whitechapel, incidere ai Toe Rag Studios di Hackney su vecchi registratori a nastro degli anni Sessanta o imitare i blues straccioni di Jack White. Sul fronte della musica pesante, band come Tool, System Of A Down, Mars Volta e Cave-In producevano musica in dosi altrettanto massicce, ma in modo ben più scriteriato, con influenze progressive-jazz e senza il morso melodico dei Muse, mentre nell'indie rock tutto era tirato, affilato, affamato, punk e finito nel giro di due minuti e mezzo. ABSOLUTION era il polo opposto di un tale approccio: un'esplosione di sfarzo e melodramma in un paesaggio musicale pieno di garage band sudaticce con pantaloni da ragazzine. E la sua accoglienza da parte del pubblico ne fece un disco veramente importante, una forza significativa in tempi incerti. I Muse sapevano di aver prodotto il loro disco migliore, il più onesto e coerente, e il loro giudizio era l'unico che contasse qualcosa. Emarginati sin dall'inizio, non avevano mai aderito a nessuna scena, e se la stampa avesse bollato il disco come "privo d'emozioni" o "ridicolo", allora sarebbero stati felici di tornarsene a suonare nel circuito Barfly68. Forse era per questo che Matt non credeva a quant'erano positive quelle recensioni. ABSOLUTION fece scalpore tra la critica e raccolse lodi sperticate un po' ovunque, da «NME» a «The Fly» fino ai quotidiani, che di solito drizzavano le antenne solo quando una band era già passata tra gli ingranaggi della stampa musicale ed era pronta a un enorme successo trasversale. Non li avrebbero più etichettati come band per adolescenti goth o nerd fissati con lo spazio. I Muse erano ormai una band capace di rivolgersi agli appassionati di metal, indie, pop, classica e anche un pizzico di funk commerciale. L'artwork di ABSOLUTION era come al solito azzeccato, misterioso e stimolante, pieno di indizi sul significato dell'album. Nel grigiore di una cava, un uomo alza gli occhi al cielo, circondato dalle ombre di figure umanoidi, calve e androgine, che galleggiano sopra di lui in un rigido squadrone. Se tali figure rappresentassero i giusti che ascendono in cielo allo scoppiare dell'Apocalisse come predetto nel Libro delle Rivelazioni, alieni che sorvolano la Terra, angeli, demoni o forme di vita completamente nuove è un dato che resta ancora di libera interpretazione, ma il forte impatto dell'immagine nasce dalla prima collaborazione con Storm Thorgerson, designer famoso per aver apposto la sua firma agli storici artwork di quasi ogni album dei Pink Floyd e a copertine di Mars Volta, Peter Gabriel e Led Zeppelin, sia con il collettivo Hypgnosis o solo dopo lo scioglimento dello studio fotografico nel 1983. Le sue opere sono


notoriamente di grande respiro, dettagliate e quasi surreali (per la copertina dell'album dei Pink Floyd A MOMENTARY LAPSE OF REASON seminò letti d'ospedale per mezzo chilometro di spiaggia, ognuno con le lenzuola di un colore diverso, disponendoli secondo uno schema tortuoso), e lo scatto per ABSOLUTION non fece eccezione. L'idea venne ai Muse quando notarono lo sfondo del sito Web di Storm e gli chiesero se poteva riprodurre quell'immagine dal vivo. Il fotografo Robert Truman realizzò lo scatto in una cava di ghiaia dell'Essex, con diversi modelli e bambini nel ruolo dell'umano ancorato a terra69. Le ombre sono di fatto reali: Storm si rifiuta di dire com'è riuscito a ottenerle, ma riconosce che è stato uno scatto difficile, perché l'illuminazione era scarsa e per far funzionare un'immagine del genere è necessaria la luce piena del sole a mezzogiorno. Il prodotto finito, sostenne Thorgerson, aveva un che di magico, delle connotazioni fiabesche che gli ricordavano un'illustrazione per bambini di Maurice Sendak. Quella combinazione di artwork irresistibile e musica devastante spedì ABSOLUTION dritto al numero 1 delle classifiche inglesi alla sua uscita, il 22 settembre, per la Taste Media/East West. Nelle settimane seguenti, man mano che usciva negli altri Paesi, raggiunse il primo posto in Francia e Islanda, il secondo in Olanda e Belgio, il terzo in Svizzera, il quarto in Italia, il quinto in Austria e Norvegia ed entrò nella Top 20 in Spagna, Danimarca, Germania, Australia e Finlandia. Con 71 mila copie vendute in Inghilterra nella prima settimana dalla sua uscita, era il disco dei Muse che aveva venduto più in fretta in assoluto. La band, però, non era del tutto soddisfatta. Avranno pure venduto 71 mila copie in una settimana, puntualizzarono loro, ma l'album di Dido ne aveva vendute 71 mila il primo giorno. Se volevano i grandi numeri non dovevano far altro che dare un'occhiata alle vendite dei biglietti. Arrivarono le cifre per l'imminente tour di ABSOLUTION, ed erano cifre da capogiro. I Muse stavano facendo sold-out nei palasport da 20mila persone di tutta Europa. La strada chiamava, e non era mai stata così spaziosa prima d'allora... * * * Forse furono i nervi. Forse fu l'accoglienza. Forse fu la vista di così tante facce ammassate. O forse s'era semplicemente scordato di come fare la pop star dopo tutti quei mesi seduto in studio o nel suo appartamento in affitto a guardare il canale BBC News 24. Ma con Hysteria agli sgoccioli al Melkweg di Amsterdam, davanti a 800 membri del fan club, Matt si sgretolò in un attacco isterico. Era piegato in due dalle risate, sia per come la folla scandiva, parola per parola, una canzone che neppure era uscita come singolo (e fecero altrettanto con cinque pezzi nuovi su sette che non erano ancora usciti come singoli70), sia perché si stava chiedendo come mai tutta quella gente lo stesse fissando. Era la prima delle cinque serate promozionali nelle città-chiave del loro fandom europeo (Amsterdam, Bruxelles, Colonia, Parigi e Milano), e sebbene tutti gli show fossero esclusivo appannaggio dei fan club, con circa 500-800 avidi fanatici che avevano comprato i biglietti sul sito della band, i Muse avevano paura di sbagliare i nuovi pezzi, specie a ridosso di qualche settimana dall'uscita di ABSOLUTION, e volevano fare davvero colpo sui fan. C'erano canzoni che non avevano mai provato dal vivo ( Thoughts Of A Dying Atheist, Sing For Absolution, Time Is Running Out), e scaricarono la tensione con episodi di violenza ai danni delle chitarre. Prima di quello show del 3 settembre, Matt si era procurato una contusione al costato e una lesione al torace dopo averci sbattuto contro la chitarra al termine di una performance da undici pezzi, traballante ma energica. Non era proprio la mossa più saggia da fare in previsione di un tour, quello di ABSOLUTION, che si sarebbe protratto in giro per il mondo per i successivi sedici mesi. Stavolta, però, i Muse avevano optato per un diverso modus operandi. Si erano un po' stufati di quella mentalità da "ora d'aria”, ovvero capitare ogni giorno in una città diversa senza lasciare mai il backstage per vedere qualcosa del mondo. Volevano ricordarsi qualcosa di più che i concerti e le interviste in camerino, e stavolta avevano un piano. Avevano stretto un accordo con la casa discografica per cui avrebbero fatto un tour promozionale europeo per levarsi di mezzo tutte le interviste prima che cominciassero le danze vere e proprie. Quindi, nei giorni prima dei concerti, erano liberi di fare i turisti in città che avevano già visitato quattro o cinque volte senza mai vederle veramente, o di andare a


trovare le rispettive dolci metà. In cambio di ciò, l'etichetta acconsentì a organizzare le cinque date gratis per i fan club in modo da rendergli più vivibile il tour promozionale e lasciargli testare su strada il materiale nuovo (nota: i fan potevano vincere i biglietti gratis sul sito ufficiale della band rispondendo alle seguenti domande: a) A quale film di Stanley Kubrick si ispira la scenografìa dell'ultimo video Time Is Running Out?, e b) Qual è la data di uscita del nuovo album dei Muse ABSOLUTION?). Matt era particolarmente entusiasta della nuova, e meno serrata, tabella di marcia. Era come essere cresciuti un po' ed essersi dati una calmata. Non sentiva più quel bisogno edonistico di feste in maschera o tour da scavezzacollo, perché quelle sono cose che succedono, disse lui, solo quando perdi tutti i tuoi amici, esci di testa e cominci a parlare troppo con gli sconosciuti. Stavolta dissero che sarebbe stato un tour più all'insegna di golf, musei e fidanzate. Così, mentre Dom si vedeva con una nuova ragazza di New York71 e Chris aveva studiato una routine quasi perfetta che gli permetteva di andare a trovare il più spesso possibile la sua famiglia a Teignmouth, Matt (ora più a suo agio con una storia a lungo termine; la vita da single non faceva per lui, per essere se stesso aveva bisogno di qualcuno con cui trascorrere tutto il suo tempo) voleva vedere il più possibile la ragazza italiana con cui stava da diciotto mesi, al punto che si faceva in macchina mezza Europa alla fine di ogni concerto pur di raggiungerla dovunque si trovasse. Pur dimostrandosi evasivo quando gli chiedevano della possibilità di un matrimonio, non c'era niente che gli piacesse di più che mettere il naso fuori dall'Inghilterra, visitare l'Italia, mangiare un sacco di pasta e fare immersioni con Gaia, un interesse che gli costò quasi la vita durante un'escursione in cui l'istruttore si era invaghito della sua ragazza. Matt nuotava sei metri sott'acqua, quando l'improvviso esaurimento dell'aria gli diede l'impressione di respirare attraverso una cannuccia. In preda al panico, afferrò la pinna di un istruttore accanto a lui che gli prestò la sua aria, e quando tornò in superficie scoprì che l'istruttore casanova aveva riempito la sua bombola d'ossigeno solo al cinquanta percento. Il giorno dopo lo show al Melkweg di Amsterdam, alle dieci del mattino, i Muse erano pronti per la giornata più fitta d'interviste mai avuta. Risposero alle domande dei cronisti dalle dieci alle sei del pomeriggio, dentro una chiesa del Dodicesimo secolo nel cuore del quartiere a luci rosse, circondati da tombe secondo loro un po' morbose. A un certo punto, Matt si ritrovò a suonare uno degli enormi organi per le telecamere di MTV. La sera dopo, nel futuristico ed elegante salone da concerti Ancienne Belgique di Bruxelles, dopo il canonico show da undici pezzi, furono costretti a salire sul palco a grande richiesta per un bis con Muscle Museum, Micro Cuts e The Small Print. E lo stesso accadde a Colonia. Il più memorabile, e non per le giuste ragioni, fu tuttavia lo show davanti a 700 fan al Trabendo, un locale all'interno di un complesso artistico nei sobborghi di Parigi. L'impianto luci della band si rivelò troppo grande per il locale, ed era da poco iniziata la scaletta quando saltò un fusibile, facendo calare l'oscurità sull'intero concerto. In un paio di minuti fu riparato ma poi saltò di nuovo, lasciando tutti al buio per venti minuti mentre i tecnici scorrazzavano da una parte all'altra e i Muse (i pantaloni di Matt erano così lunghi che avevano un risvolto di quindici centimetri) portavano bicchierini con bottiglie di vino e superalcolici per offrirli al pubblico, scusandosi del fatto che non potevano nemmeno suonare un set acustico perché anche i microfoni erano andati. Quando ripristinarono la corrente, la band aveva ormai i nervi così logori e inzuppati d'alcol che Matt chiuse lo show sfasciando la batteria e scagliando la chitarra dritta in faccia a Dom. Lui ricorda solo la rovinosa caduta dallo sgabello, mezzo cieco, e una volta aperti gli occhi sangue ovunque sulla pedana: aveva un taglio enorme su una palpebra. La band lo portò direttamente in ospedale per l'ormai abituale esperienza della puntura di tetano nel didietro, al cospetto dei suoi colleghi sghignazzanti. L'ultimo show da fan club europeo, il 15 settembre a Milano, fu filmato da MTV come apice del primo "Muse Day" mai realizzato dall'emittente televisiva, una trasmissione non-stop di ventiquattr'ore dedicata alla band in cui furono mandati in onda i filmati inediti del Dvd Hullabaloo, un "Making of ABSOLUTION" e una performance live alla Leeds University. Era segno della statura e dell'importanza che stavano conquistando nella comunità rock. Il giorno dopo


tornarono a Londra per un paio di show radiofonici (uno per Radio One, nel programma di Zane Lowe agli studi di Maida Vale, dove The Groove debuttò dal vivo, e uno show all'Academy di Islington per XFM) e parteciparono al loro primo "QAwards", dove ricevettero il premio inaugurale all'Innovazione In Musica e combinarono come al solito sfracelli. All'afterparty, Dom riuscì a rovesciare il suo bicchiere di vino addosso ai Dexy's Midnight Runners e Matt a farsi invitare da Lemmy dei Motorhead al suo concerto all'Apollo di Hammersmith. Quando si dice farsela con i giganti. E versargli l'alcol addosso. Le interviste promozionali72 lanciarono dei Muse molto più rilassati e sicuri di sé sulle pagine di quotidiani e riviste. Matt parlò a ruota libera del dodicesimo pianeta di Sitchin che si avvicinava alla Terra, dell'imminente era glaciale e del fatto che stiamo assorbendo le risorse terrestri così in fretta che l'evoluzione non riesce a tenere il passo e a operare quei cambiamenti che ci permetterebbero di sopravvivere una volta esaurite le suddette risorse, e perciò si augurava la scoperta di un altro pianeta abitabile, con risorse illimitate e vicino al nostro. Teorie galattiche a parte, si parlò anche di argomenti ben più sensati e cristallini. Matt aveva ascoltato dosi massicce di Berlioz e Debussy con l'ambizioso obiettivo di incorporare nella musica rock le sensazioni che gli smuovevano dentro, e con ABSOLUTION credeva d'esserci riuscito. Quand'erano in "modalità viaggio" avevano le loro peculiari personalità da tour. Dom era stupito che i Muse ce l'avessero fatta a durare un altro anno, ma tanto lui se ne stupiva ogni anno. Se non avevano mollato la band era per paura di trovarsi un lavoro vero e proprio. Dopo due anni che non prendeva droghe ed era molto più in pace con se stesso, a Matt sarebbe piaciuto comprarsi una piccola fattoria, coltivare l'orto e avere un sacco di bambini. Pensavano di affittare una super-nave cisterna e spostarsi per l'Inghilterra di porto in porto, fare un concerto e poi salpare verso la prossima città. La somma versata dalla Nestlé per l'utilizzo non autorizzato di Feeling Good era stata devoluta alla Oxfam e ad altri istituti di beneficienza del Devon. A Dom piaceva Pink, Matt preferiva Norah Jones. Credevano che la loro faccia tosta fosse offensiva per tutti coloro cui non piacevano i Muse. Per Dom il momento più indimenticabile dell'anno era stato nuotare con gli squali alle Bahamas. Mentre si trovava a LA ed era diretto a Big Sur insieme alla sua ragazza, Matt aveva conosciuto una guardia forestale che li aveva invitati in spiaggia, dove c'erano migliaia di elefanti marini in piena stagione degli accoppiamenti, che lottavano e facevano sesso. Non accadeva troppo spesso che lo riconoscessero per strada, ma per Matt era ancora uno stile di vita snervante. Dom rievocò l'episodio dell'etichetta discografica di Porto che gli aveva regalato una bottiglia dell'omonimo vino, e lui se l'era scolata come fosse stato un vino qualunque. L'aveva vomitata tutta nel letto, in uno scintillante getto nero. Al pari dei suoi compagni di band, anche Chris credeva che la religione e la Bibbia fossero irrilevanti: quest'ultima era un'opera di pura fantasia e la religione veniva usata a scopi sia benefici che malefìci. Erano tutti molto lusingati che Michael Stipe li avesse descritti come il futuro del rock. Matt credeva che i suoi testi si fossero evoluti, perché ora voleva condividere le sue emozioni con i pubblico per non sentirsi solo. La sua ultima lettura era un libro sull'Alaska, che prendeva in esame i sempre più esigui giacimenti di petrolio che George Bush cercava di accaparrarsi e sosteneva che al mondo fossero rimasti circa cinquant'anni di petrolio, quindi era solo questione di tempo prima che le guerre non avessero più giustificazioni e che tutto diventasse una semplice lotta generale per la sopravvivenza. Quel libro portò alla sua attenzione un altro aspetto rilevante dell'Alaska: l'installazione HAARP, un misterioso complesso governativo ornato di tralicci il cui scopo era all'origine di svariati dibattiti nei circoli dei teorici complottisti. Un tentativo di controllo meteorologico? Una base di spionaggio segreta? Un trasmettitore per i raggi del controllo mentale? Per la mente analitica di Matt, era un argomento sempre più affascinante... * * * I tre mesi di trasferta europea alla fine del 2003 furono come un tour a macchia d'olio, i locali sembravano gonfiarsi di giorno in giorno. Dopo quelli piccoli del mini-tour circoscritto ai fan club, nella prima settimana in Europa, a partire dall'11 ottobre, fecero tappa in locali da mille-duemila persone in Scandinavia e Germania, con degli show di media grandezza volti a perfezionare la nuova scaletta. I Muse avevano ormai in tasca i loro bei novanta minuti di


rock da urlo. Nelle prime date, pezzi come Bliss, Endlessly, The Small Print e Sing For Absolution fluttuarono qua e là fino a trovare il loro posto naturale all'interno dello show, che si apriva con la marcia di Apocalypse Please e faceva spazio alle prime apparizioni di Hysteria seguita da New Born, Micro Cuts e Thoughts Of A Dying Atheist, prima di infilare a metà scaletta le varie Citizen Erased, Space Dementia, Feeling Good e Butterflies And Hurricanes e passare in rassegna i grandi hit pre-bis Sunburn, Muscle Museum, Time Is Running Out e Plug In Baby. Il lancio dei palloni durante il bis con le elegiache Blackout e Stockholm Syndrome preparava il palco alla poltiglia di strumenti finale. Questa parte del tour comprendeva anche la stuzzicante anteprima di un nuovo pezzo provvisoriamente intitolato Take A Bow, goth metal strumentale forgiato tra le fiamme dell'inferno. La band suonò anche un paio di date in un localino sulla Grosse Freiheit di Amburgo, la strada stracolma di bar, club e locali di strip dove s'erano fatti le ossa i Beatles prima di diventare famosi; entrambi gli show finirono in libera improvvisazione, con un classico esempio dei Muse che demolivano gli strumenti e si rotolavano sul palco in preda all'isteria. A un certo punto, durante il tragitto da Amburgo a Berlino per lo show del 21 ottobre alla Columbiahalle (capienza: 3mila persone), i Muse diventarono una band da palasport. Arrivati a destinazione scoprirono che avrebbero alloggiato nel lussuoso Adlon Hotel (dove Michael Jackson aveva fatto penzolare suo figlio dalla finestra e dov'erano al momento ospiti Boris Becker e Rutger Hauer), e trovarono il locale invaso da uno sciame di tir, tour bus, troupe televisive e due tour manager, per un totale di ventotto membri dello staff più addetti alla ristorazione, tecnici e roadie del posto. Agli stand del merchandising vendevano addirittura il telo da spiaggia dei Muse. Era la prima volta che veniva dispiegata la produzione al completo del tour di ABSOLUTION, quello show che aveva richiesto un'intera settimana di pianificazione insieme a Tom Kirk dopo la data alla Docklands Arena, per far sì che valesse i soldi del biglietto di tutti i presenti. La scenografia comprendeva tre giganteschi schermi disposti lungo il fondo del palco, un'ampia piattaforma dove Chris poteva sfoggiare le sue pose ombrose e da cui poteva saltar giù in caso di necessità e un pianoforte illuminato e rialzato color argento, soprannominato "il Dalek", per Matt. Quando Matt gli spiegò che tipo di tastiera voleva, pare che il programmatore di computer mezzo hippie sia andato a farsi una bella ronfata seguita da tre ore di yoga, prima di tornare con il progetto di una tastiera in cui, grazie ad un computer incorporato, ogni tasto era collegato a un LED sul davanti del pianoforte, come nella navicella spaziale di Incontri ravvicinati del terzo tipo. In più occasioni, durante il tour, a Matt verrà in mente di suonare il motivetto di cinque note della pellicola per vedere se qualcuno avrebbe colto la citazione. Pensò anche di andare in scena con un mantello da vampiro e i canini finti, per sottolineare i momenti più draculeschi dello show, ma alla fine non ne ebbe il coraggio. Durante l'esibizione, sugli schermi sarebbero apparse immagini grandiose adatte all'occasione: la Via Lattea, un tramonto, la band in modalità termografica, catene montuose, la luna che sfrecciava rapida di passaggio, nuvole in corsa, un'orchestra per Butterflies And Hurricanes, le anime in volo della copertina di ABSOLUTION. Sul pubblico sarebbero scesi dei palloncini neri per Time Is Running Out e grandi palloni bianchi per Blackout. Gli show più grandi avrebbero visto dei cannoni a bordo palco sparare salve di coriandoli tra la folla al termine di Stockholm Syndrome. Avevano preso in considerazione l'eventualità di introdurre giochi pirotecnici e bombe di lustrini, ma erano troppo costosi e avevano già investito un sacco sullo spettacolo da palcoscenico per giustificare i concerti nei locali più grandi. Curare il sito Web e mantenere l'ufficio a Londra costava un occhio della testa, e gli unici soldi che guadagnavano erano quelli dei tour, dove il numero dei biglietti venduti superò di gran lunga le previsioni della band o di chiunque altro, e tutti i guadagni venivano messi da parte per finanziare ulteriori tour. Ecco perché decisero semplicemente di suonare Take A Bow. In fin dei conti era abbastanza pirotecnica. Come dichiarò in seguito Matt, lo show di Berlino fu un disordinato pastrocchio di errori e problemi tecnici, talmente zeppo d'inconvenienti che non fecero nemmeno il bis. Inoltre, Dom era un po' stralunato perché aveva lasciato tutti i suoi vestiti in un sacco dell'immondizia ad Amburgo dov'erano scomparsi, probabilmente gettati nella spazzatura, e adesso i vestiti che aveva addosso


dovevano durargli per tutto il tour. Per fortuna, all'after-party sulla balconata superiore della Columbiahalle, un fedelissimo della band si presentò con il sacco dei vestiti intatto. Il tour si faceva largo per l'Europa, con una media di 8mila persone a serata, e i Muse tenevano fede al loro piano di fare i turisti di giorno e lasciare a bocca aperta il pubblico al calar della sera. Nei giorni liberi in Germania visitarono il museo di guerra a Norimberga e andarono a correre con i go-kart nelle belle piste di cui avevano sentito parlare. A Firenze, prima della tempestosa performance del 28 ottobre al teatro Saschall, furono invitati a casa del sindaco (su insistente richiesta di sua figlia) e finirono in un tour guidato lungo i tunnel sotterranei del palazzo. Una domenica, all'Arena di Ginevra, 10miila rocker svizzeri andarono in delirio alla vista di Matt che scivolava di ginocchia tra le cannonate di coriandoli e una fan regalò al cantante un altro ritratto a olio a grandezza naturale, mentre il 10 novembre in Francia, alla Halle Tony Garnier di Lione, suonarono il loro show (per il momento) più grande davanti a 17mila fan urlanti, un numero che trovarono schiacciante e spaventoso al pensiero che solo un anno prima avevano suonato nella stessa città per 6mila persone. Per festeggiare si presero un giorno libero ad Angers, dove furono iniziati al sopraffino rituale della degustazione enologica campestre: si gettarono su tutte e trentasei le varietà di vini a una sagra di campagna, deglutirono invece di sputare e assegnarono un bel dieci ad ogni campione. Dopo una tappa alla Dome di Marsiglia (capienza: 8.500 persone), dove suonarono Uno per l'ultima volta, si spostarono a Barcellona e prima dello show al club Razzmatazz visitarono la Sagrada Familia, l'enorme cattedrale incompiuta ideata dal geniale architetto surrealista Anton Gaudi. Matt era affascinato da quel progetto visionario e dai ghirigori cartooneschi che avrebbero adornato i 178 metri di guglia centrale ancora da costruire, tanto da avvertire un legame artistico con le proporzioni e la sfrenata grandeur della cattedrale, col modo in cui l'individualismo di Gaudi l'aveva fatta franca su una tela così imponente. Comprò un libro sulla cattedrale e passò tutto il giorno a sfogliarlo. Per lui era l'aspetto che avrebbe avuto ABSOLUTION se fosse stato una chiesa. Il giorno seguente volarono a Madrid per suonare Time Is Running Out in una trasmissione pop televisiva senza sapere che avrebbero sfoderato quel pezzo rock cupo e deviato davanti a uno studio di pre-adolescenti. Per renderla più gradevole a quel pubblico di ragazzini, Matt la suonò nel modo più sorridente e raggiante possibile, e finì la canzone andando a schiantarsi con una scivolata in mezzo alla giovane folla, senza per fortuna essere arrestato per schiacciamento di minore. Il giorno dopo lo presero libero, per andare a Figueres a vedere la casa di Salvador Dalì che avrebbero descritto come "surreale". Quando il loro tour europeo più-simile-a-una-vacanza tra Belgio Olanda, Germania, Francia, Italia, Austria e Spagna toccò il suo concerto più grande, al Palais Omnisports di Parigi-Bercy (uno show da headliner in quell'enorme struttura da 20mila posti dove un tempo avevano aperto per i Red Hot Chili Peppers), ABSOLUTION viaggiava ormai a quota un milione di copie vendute. Presente in qualità di recensore per «NME», dopo uno show spettacolare inondato di nastro da telescrivente e colate incandescenti di musica rock, raggiunsi la band nel backstage e insieme a loro feci la seconda "Muse-fuga per la libertà" dall'ingresso per gli artisti in mezzo alla folla sbracciante. Ormai la loro tattica d'uscita era quasi perfetta. L'isteria aveva definitivamente preso il sopravvento. E quando la band tornò in Inghilterra per una giornata a Northolt, North London, dove corsero con dei fuoristrada Range Rover (pare che il pilota più spericolato fosse Dom) in preparazione al loro primo tour nei palasport della madrepatria, Hysterìa prese il sopravvento anche in classifica. Uscì come singolo il primo dicembre, insieme all'omonima versione dal vivo e a quell'Eternally Missed tanto sporadica quanto amata in sede live, più un Dvd con diverse versioni del videoclip, riprese live dagli archivi di MTV e un "making of " del video ufficiale, che si faceva notare in quanto era la prima volta in cui la band non compariva davanti alle telecamere perché, secondo Matt, le sue abilità recitative non erano all'altezza del ruolo principale. Compare invece l'attore Justin Theroux, nella parte di un uomo che si risveglia in una camera d'albergo


devastata senza ricordarsi cos'è accaduto e scopre, dal filmato di una videocamera, d'aver preso una prostituta e distrutto la stanza dopo averla aggredita73. Diretto da Matt Kirby, il video si intitolava semplicemente Rage. Un'edizione in vinile 7" del singolo affiancato da Eternally Missed aveva in copertina l'artwork di Adam Fulkus, vincitore del concorso per la miglior illustrazione. Ironia della sorte, la canzone uscì lo stesso giorno in cui i Muse suonarono lo show dall'accoglienza più violenta dai tempi di Woodstock, e cioè alla Cardiff International Arena, dove videro aprirsi delle enormi sacche di pogo davanti al palco e nel moshpit esplose una rissa generale. Guardarono in basso e videro al tempo stesso estasi e agonia, il pubblico più folle per cui avessero mai suonato. Forse approfittando di questo carnaio assetato di sangue, e grazie al suo controverso videoclip, Hysterìa si piazzò al numero 17. Il tour di dicembre si fece largo tra le strutture più imponenti della nazione, con la band che suonava non solo per i patiti del rock o dell'indie, ma anche per le masse da un concerto all'anno che ascoltavano Radio One e per intere famiglie in libera uscita. Le cifre erano enormi: 10mila persone all'Ice Centre Arena di Nottingham, 12.300 alla Wembley Arena, idem al NEC di Birmingham, un'esorbitante folla di 19mila persone alla Manchester Evening News Arena. E ogni show fu un trionfo elettrizzante. Come passare al circuito dei palasport con sicurezza e stile. L'ultimo concerto del 2003, a parte una registrazione televisiva per il programma Live Lounge di Jo Whiley a Londra tre giorni prima di Natale, li portò per la prima volta in Islanda il 10 dicembre, dove suonarono nel palasport da 6mila posti Laugardalsholl di Reykjavik. Non sarà stato lo show più grande del tour, ma considerato che la città ha una popolazione di 120mila abitanti e tutti i biglietti furono staccati nel giro di un'ora da fan che avevano passato tutta la notte a fare la fila, fu sicuramente uno show speciale. Con la frase "fine del tour... finalmente" scarabocchiata quella sera in fondo alla scaletta e il più grande guardaroba del mondo (a quanto si dice) stipato di piumini assai voluminosi, i Muse spazzarono via un abitante di Reykjavik su venticinque con un'ora e mezza di vulcanico pomp rock. Matt faceva triple piroette con pantaloni della tuta a palloncino e babbucce da Aladino, in una pantomima natalizia delle mascherate di Capodanno. Il giorno dopo, liberi da ogni appuntamento live per un mese intero, noleggiarono delle motoslitte con cui andarono a zonzo per i ghiacciai prima di tuffarsi nelle terme della Blu Lagoon. Poi tornarono a casa per far sposare Chris. Bisognava dargli la possibilità di scaricarsi a dovere. Perché nel 2004 la strada sarebbe stata lunga e piena di curve. Curve tragiche, violente e dolorose. GLEN ROWE Che ruolo hai avuto in ABSOLUTION? Ricordo quando sono andato al Grouse Lodge. Matt ormai era proprio ossessionato dalle teorie sul Giorno del Giudizio. Anche se quel posto dista solo un'ora da Dublino, non si sono mai presi la briga di farci un salto. All'interno dello studio c'è un bar, dove puoi riempirti da solo una pinta, e loro si divertivano con cose così. Prima ancora, per scrivere tutte le canzoni, abbiamo affittato un appartamento ad Hackney. Una ragazza di nome Kate Lauren, che anni prima lavorava per la band, aveva prestato a Matt un pianoforte a mezza coda bianco, con cui lui ha scritto un pezzo intitolato Milky Piano. C'era tutta la loro strumentazione montata in pianta stabile, più un piccolo soggiorno e un tavolo da biliardo. Ancora mi ricordo di quando parlavo con quelli dell'Ikea! Erano seriamente intenzionati a trovare un posto da trasformare nel nucleo di tutta questa storia, un posto dove potevano comporre e mettersi a registrare pure alle quattro del mattino, se ne avevano voglia. Matt stava su a North London, e pure Dom; Chris invece s'era sistemato qui e poi è venuto anche Paul Reeve. Era un cazzo di sogno, il massimo della sicurezza e della hghetteria. C'era una camera da letto gonfiabile, l'avevamo comprata per Chris perché voleva un po' di privacy! Poi gliel'abbiamo gonfiata, così aveva il suo letto, le sue pareti e un minimo di respiro dagli altri. Hanno veramente dato tutto, là dentro. Passavano un casino di tempo a entusiasmarsi per i vari grooVe- Me ne stavo seduto lì, e Time Is Running Out è venuta fuori dal nulla. Cose come Stockholm Syndrome ricordo Matt seduto suUa pedana della batteria, da qualche parte in Spagna, mentre suonava il giro di basso sulla sua chitarra. Credevi che stesse solo


cazzeggiando, ma nel giro di tre minuti aveva tirato fuori il riff, ed ecco che dal nulla era sbucata fuori la canzone. Non ho mai assistito al divampare di un incendio, ma immagino sia qualcosa di simile. Roba da matti. La telepatia che c'è fra Dom e Chris è pazzesca. Time Is Running Out è stata questione di secondi. Non ho mai, dico mai, sentito Matt cantare una sola nota di quell'album finché non ho sentito l'album stesso. Matt odiava cantare, faceva tutto nella sua testa. Infatti neppure Dom e Chris l'hanno mai sentito cantare in studio. Lasciavano tutti la stanza. Ricordo quando mi hanno sbattuto fuori durante le session per Radio One. Me l'ero presa parecchio con loro perché ero sfinito. Era stata una giornata lunga: portarli a Radio One, sistemare tutta la loro roba, e quelli che ti dicono: "Glen, adesso ti dispiace andartene?", e io: "Non posso restarmene seduto qui per un'oretta, cazzo? Sono sfinito!". Quand'è una cosa dal vivo è diverso, ma quando prova i pezzi e deve cantare, allora a Matt non piace avere gente intorno. C'era venuta in mente l'idea davvero geniale di registrare il pezzo su podcast e procurarci un mixer, così i ragazzi potevano andare in qualsiasi stazione radio e lasciargli una versione registrata dal vivo invece di fare un pezzo acustico, cosa che odiavano. E poi, il giorno in cui stavo per spendere una barca di soldi per comprare tutta questa roba, Dom mi telefona e dice, "Niente da fare, Glen. Matt ci ha appena fatto notare che se registriamo ciascuno con i propri auricolari qualcuno lo sentirà cantare. Non si può fare". Si faceva un gran parlare di tematiche apocalittiche? Matt mi ha spiegato come il genere umano rovini la natura, che se c'è un estuario gli uomini si dirigono in quell'area come formiche, rovinano tutto ciò che c'è intorno e poi si spingono nell'entroterra in cerca di ciò che gli serve per insediarsi. Una volta mi ha fatto venire gli incubi a forza di parlarmi del morbo della razza umana. È stato il primo a parlarmi di Utopia. Mi ha detto: "Che ne diresti di dare inizio alla tua personale Utopia in un altro Paese, soltanto noi su una cazzo di isola dove bisogna pescarsi la cena?". La sua mente sondava a ritmo continuo il declino dell'umanità moderna. Un po' mi dava i brividi, perché tutte quelle cose che leggeva erano parecchio vere, il fatto che l'uomo stesse stuprando tutte le cose belle del pianeta e avremmo presto dato fondo ad ogni scorta. Non saliva mai in cattedra, te ne parlava sempre in termini molto pratici. Era questo che mi spaventava. È un ragazzo molto, molto sveglio. Quella per il tour di ABSOLUTION era una produzione molto più grande. C'era il Dalek, quella specie di piano. Poi c'era il primo pezzo di palco dove Chris poteva camminare sopra agli amplificatori, la pedana della batteria e gli schermi al plasma mobili. Quello è stato il tour in cui tutto ha cominciato a crescere, e anche per la band ha avuto inizio una vita molto diversa. Arriva il triste momento in cui non puoi più tornare com'eri prima. La band era sulla propria traiettoria e tutti gli altri dovevano stare al passo. Per i roadie c'erano alberghi diversi, in parti diverse della città. Niente più feste dopo il concerto, soltanto meet and greet molto formali, ridotti e sporadici. Tutto era più concentrato sullo show, perché ormai l'isteria era dappertutto, ad ogni concerto, non dovevano neppure più sforzarsi... Ricordo un paio di spettacoli in cui, uscendo dall'ingresso del palco insieme a te e alla band, ho dovuto districarmi in mezzo a una foresta di braccia per arrivare alla macchina. Cose di questo genere succedevano spesso? Eccome. I fan si presentavano al concerto, anche se non riuscivano a entrare se ne stavano fuori e certe volte, quando uscivamo, loro ci aspettavano lì. È allora che siamo passati da uno a due o tre addetti alla security. Appena la band ha fatto il salto nel giro dei palasport ce n'è stato bisogno, e pure tanto. E poi il trasporto dell'attrezzatura da Paese a Paese non era questione di bruscolini, era un gran cazzo di trasloco al completo. Tonnellate e tonnellate di roba. È stato allora che s'è fatta un po' stantia. Intendi come esperienza? Sì, era sempre tutto uguale, ogni volta tornavi in albergo a rilassarti. Dom aveva la ragazza, ormai erano tutti sistemati. Chris era diventato padre per la terza volta tra ORIGIN OF SYMMETRY e ABSOLUTION. Trascorrevamo un sacco di giorni in viaggio, perché spesso la band era costretta a spostarsi il giorno stesso del concerto, arrivare sul posto, lasciar perdere il soundcheck e puntare dritto allo show. Ha cominciato a diventare tutto uguale. Ho preso la tremenda decisione di smettere di lavorare con loro quando mi sono reso conto che altrimenti sarei rimasto accanto ai Muse fino al giorno della mia morte. Ricordo


quell'orribile riunione con Matt e Dom. Ormai avevo già avviato la mia casa di produzione, per questo ho detto loro: "Mi serve del tempo per stargli dietro". Avevo conosciuto la mia ragazza, che ora ho sposato e con la quale ho avuto un figlio, e sentivo che la band ci avrebbe trascinato tutti quanti al gradino successivo, che da qui in poi non potevano far altro che diventare enormi, fottutamente enormi. È quella cosa terribile del: "Voglio continuare a farlo per il resto della mia vita? No". Be', non posso dire che ha mai smesso di essere divertente, perché lo è sempre stato, ma sentivo che il mio tempo era scaduto. E dopo i Muse non ho praticamente più fatto da tour manager a nessuna band per lunghi periodi di tempo. Non potrei tornare a farlo. Ti avevano distrutto? Mi avevano lasciato a pezzi! Era come se non avessi mai più dovuto rivivere quei momenti magici. Da allora mi è capitato di lavorare con delle grandi band, e anche con delle band stupende, ma niente potrà mai rimpiazzare il mio periodo con i Muse. Ancora oggi mi chiedono di tornare, e io sono fiero da morire che siano diventati ciò che sono ora. Erano destinati a diventarlo da sempre, e non hanno mai distolto lo sguardo dalla meta. Se non me ne fossi andato, oggi sarei diretto in Portogallo per il concerto di domani! Io e i ragazzi ci vediamo di continuo e siamo ancora ottimi amici ma all’inizio era una situazione davvero scomoda, perché credevano che li avessi abbandonati. Ma io non avevo abbandonato loro, avevo solo voltato le spalle a quell’endità. Non c’era verso di fermarli! La firma che avevo messo all’inizio era per tre settimane di concerti. Quattro anni dopo ti viene da dire, “Gesù Cristo, ma che è successo?”. SAFTA JAFFERY Finito di registrare ABSOLUTION sono tornato negli States per cominciare a venderlo, e di nuovo la competizione si è ridotta a Columbia contro Warner Bros. La Columbia moriva così tanto dalla voglia di scritturare i Muse che mi ha mandato un contratto in prova assolutamente ridicolo. Cioè, l'anticipo che si dichiaravano disposti a pagare era qualcosa di assurdo. Ma in quel periodo la band era in contatto e aveva stretto rapporti con Cliff Bernstein e Peter Mench della Q-Prime Management, e parte della questione, mentre provavo a smerciare il terzo album, era che tutte le etichette americane volevano che prendessi un manager americano. E dato che la Q-Prime era in rapporti con la Warner Bros, ecco dove è andato a parare l'accordo. Anche se a confronto quello con la Columbia era migliore. Ma credo che alla fine si siano accasati nel posto giusto. Come mai il tuo rapporto lavorativo con i Muse si è concluso? Perché dopo il terzo album la Mushroom aveva venduto la compagnia alla Warner e per noi c'era un'aria strana, dato che la Warner era gelosissima che fossimo noi a possedere tutti i diritti. Concluso l'affare ci sono stati un sacco di disaccordi, perché quei tizi non erano abituati a lavorare con il regime di libertà che ci concedeva la Mushroom quando stavamo con loro. Korda si fidava ciecamente di noi e ci lasciava in pace. La Taste prendeva tutte le decisioni creative insieme alla band, ci occupavamo di tutto, dalle registrazioni, ai video, all'artwork, ecc. Invece la Warner non era abituata a lavorare in quel modo. Avevano tutti questi dipartimenti interni all'azienda con cui volevano che lavorassimo, e noi non volevamo perché avevamo già dei team indipendenti che in passato avevano fatto un bel lavoro. Quindi credo che alla fine sia stata una sorta di evoluzione graduale e inevitabile, svanire al tramonto con una band ormai da Disco di Platino e tutte le basi preliminari già solide. Tutti i contratti di licenza che avevo stipulato erano validi per tre album, e una volta realizzato ABSOLUTION erano ormai tutti quanti risolti. Nessuna di quelle etichette aveva opzionato la band, quindi eravamo liberi di firmare con chiunque per i(l) prossimo(i) album. E così abbiamo firmato con la Warner in tutto il mondo, perché così voleva la band. Un giorno abbiamo fatto una chiacchierata, e i ragazzi erano del parere che gli andavamo stretti. Io e Dennis avevamo fatto la nostra parte, loro erano diventati una band di successo, ABSOLUTION era al primo posto in tutti i Paesi, era un album strepitoso e avevamo raggiunto i nostri obiettivi. Si sono verificati attriti o rancori? Non ho intenzione di approfondire la questione, ma quando sei seduto su una band che scotta come i Muse e sei una piccola casa di produzione come nel nostro caso, l'etichetta più grande ricorrerà ad altri sistemi e ad altri mezzi per


strapparti di mano quei diritti prima di sedersi al tavolo e negoziare. Non ti pare? Ma non intendo esaminare la questione in dettaglio, non credo sia importante o rilevante. E che mi dici della band? Hai perso i contatti con loro? Sì, ho l'impressione di sì. Il problema sta nel fatto che quando una band assume le dimensioni dei Muse, purtroppo c'è un sacco di gente che salta fuori dal nulla convinta di saperla più lunga di te, e ci sono di mezzo troppi avvocati. C'è stata un po' di confusione sul loro contratto per via di alcuni cattivi consigli da parte dei nostri avvocati, ma alla fine tutto s'è risolto probabilmente nel modo giusto. Parlo ancora con Anthony, sono ancora il publisher, tutti andiamo avanti con le nostre vite. Le solite cose. Ma spero che la band sia la prima a riconoscere che, se non fosse stato per la fiducia, il sostegno e la guida mia e di Dennis, non avrebbero mai sviluppato e raggiunto un tale livello di successo così come hanno fatto. Oggi come ripensi a tutta questa storia? La vedo come un grande traguardo. Sono molto orgoglioso di ciò che abbiamo conquistato. Mentre stipulavo tutti quei contratti territoriali gli altri dicevano: "Stai facendo uno sbaglio, non funzionerà, ne verrà fuori un casino". Noi eravamo i poveri sfigati. Sotto molti aspetti ha giocato a nostro favore, il ruolo da sfigati, perché tutti si aspettavano una mossa falsa che ci avrebbe mandati a gambe all'aria. Ci sottovalutavano sempre, ad ogni fase della partita. Pensavano: "Chi sono questi tizi, chi diavolo è sta gente? Cos'hanno combinato finora? Niente. E allora per quale motivo dovrebbero prendersi la gloria?". Come dicevo a quei tempi, frecciatine e pugnalate di questo tipo erano all'ordine del giorno. Stringi stringi, la Warner voleva soltanto i diritti sulla band. Troppo cinico, dite? No, la scorsa settimana io e il tizio della Warner che alla fine ha negoziato l'accordo con me siamo andati a pranzo insieme. Siamo ancora buonissimi amici. Sono solo affari, è così che funziona il music business. Capitolo otto Dopo essersi fatti un nome grazie a un album che sondava l'alto, il basso e le umane passioni intrappolate nel mezzo, l'anno che avrebbe visto i Muse oscillare, spesso a intervalli di un'ora, tra l'Inferno e il Paradiso ebbe inizio con qualcosa di molto simile agli inferi. Il Big Day Out festival è un carrozzone itinerante sulla falsariga dell'americano Lollapalooza che ogni gennaio tocca i principali stadi e palasport australiani. Una vacanza al mare più che un festival vero e proprio, tanto che i Muse (entrati nella line-up "a rotazione" dell'edizione 2004 insieme a Metallica, Mars Volta, Dandy Warhols, Strokes e Hoodoo Gurus) si ritrovarono a pochi minuti di macchina dalla spiaggia e con scorte giornaliere di birra. E ne approfittarono. Di giorno si facevano strada lungo le coste dell'Australia tra surf e bevute. Di notte, al termine della scaletta tardo-pomeridiana sforbiciata a undici pezzi, che ogni sera variavano da un posto all'altro, strappavano la linguetta alle lattine di lager e uscivano con gli Strokes. A Matt bastò una semplice canzone dalla melodia accattivante per scoprire che lo stile degli Strokes lo prendeva: iniziò a pensare di scrivere anche lui una simile bomba nuda e cruda, quel genere di canzone che senti una volta e ti pare di conoscerla da una vita. Diventarono anche amici di Lars Ulrich dei Metallica, che si rivelò un grande ammiratore delle stridenti e selvagge performance della band. Convinse persino i suoi colleghi a diventare loro fan, col risultato che, giunti a metà del Big Day Out, i Muse scesero dal palco e trovarono i Metallica che si riscaldavano suonando New Born in uno spazio per le prove dentro un tendone accanto al palco. L'unica band che incontrarono in tour e con la quale non strinsero alcun legame furono proprio i loro compagni d'etichetta alla East/West, ovvero i The Darkness. Oggi per fortuna defunti, questo branco di stagionati avventurieri del kitsch, che vendevano porta a porta un'abusata e autoironica marca di hair rock e indossavano tutine come dei cloni spudorati di Freddie Mercury, stavano diventano rapidamente famosi tra i rockettari più nostalgici con un milione e 200mila copie vendute del loro disco d'esordio PERMISSION TO LAND, e scalavano i cartelloni dei festival con allarmante velocità. Avevano anche l'aria di essere, e forse non c'era di che stupirsene, il nuovo gruppo inglese con le carte in regola per sfondare negli States (insieme ai gallesi Lostprophets, che in America vendevano bene), dato che il rock ridicolo da parrucconi non era mai


passato di moda per il decerebrato americano medio e a LA fu accolto con un consapevole gusto per il kitsch. Ritenuti quel genere di band capacissima di prendere e strappare su due piedi la corona del pomp rock ai Muse, durante un'intervista per una radio regionale spagnola il conduttore chiese a Matt cosa ne pensasse di loro, e lui rispose che li considerava una farsa. Prendendosi molto più sul serio di quanto non lo prendesse chiunque altro, il cantante Justin Hawkins avvicinò Matt a uno degli show del festival per provocarlo riguardo quella dichiarazione (dopo una piacevole chiacchierata), al che Matt riuscì a proferire solo un perplesso: "Perché, non siete una band farsa?". Inframmezzato da due concerti in piena regola al Metro Theatre di Sydney e all'Hi-Fi Bar And Ballroom di Melbourne, entrambi sold-out nel giro di poco, il Big Day Out li portò dall'Ericsson Stadium di Aukland, in Nuova Zelanda (dove per la prima volta Matt salì sul palco con un camice da laboratorio bianco) e a Parklands, nel Queensland, fino alle due giornate di Sydney, una allo Showground e l'altra all'Olympic Park, con 40mila persone al giorno. Sarebbe finita una settimana dopo, passando per gli showground di Melbourne, Adelaide e Perth e dopo un'apparizione nel programma di Channel V What you want, dove suonarono i tre singoli di ABSOLUTION. Com'era già successo con quello Nord, anche l'Emisfero Sud era crollato ai piedi della band. Con uno scalo in Giappone di ritorno dall'Australia per esibirsi in sette locali di tutto rispetto (due show a Tokyo, due a Osaka e uno rispettivamente a Nagoya, Hiroshima e Fukuoka), i Muse fecero ritorno in Inghilterra giusto in tempo per le prove in vista della performance ai Brit Awards del 17 febbraio. Alla loro prima nomination come Miglior Gruppo Rock nella cornice di un evento rinomato per le performance extralusso (quell'anno Beyoncé Knowles si esibì con addosso 250mila sterline di diamanti e la presentatrice Cat Deely arrivò sul palco cavalcando una gigantesca bottiglia di champagne), i Muse suonarono Hysteria su un palco spoglio e vestiti di nero, perché l'etichetta aveva deciso di investire tutti i suoi soldi in una sfavillante scenografìa futuristica che si intonasse con i pantaloni argentati ricoperti di paillette dei The Darkness. I Muse non vinsero quell'award mentre i The Darkness raccolsero tre Brits, ma a dispetto di tutti i lustrini e i soldi della performance di Hawkins, fu la rarefatta genialità dei Muse a rubare la scena. Imperterrita, e con un ritocco in scaletta che vide il ritorno di Dead Star e Fury e lo slittamento di Apocalypse Please in apertura del bis, la band si lanciò in uno sporadico mese di tour in giro per Irlanda, Francia, Spagna e Italia, davanti a un pubblico di circa 8mila persone a serata in posti come gli Zenith di Orleans, Toulouse e Rouen, e I4mila al Palacio de Vistalegre di Madrid, otto giorni dopo gli attentati terroristici sulle ferrovie della capitale spagnola (la rivista «Q» recensì lo show con il titolo Come i Muse salvarono Madrid). Questi concerti erano l'anticamera di un progetto che la band accarezzava da tempo: l'invasione dell'America. Dopo che l'attività in suolo statunitense era rimasta perlopiù in stand-by durante le controversie e il finale distacco dalla Maverick, la Taste Media aveva ora negoziato un nuovo accordo con un'altra etichetta americana, la Warner, felice di distribuire ABSOLUTION negli USA a febbraio. E ciò significava che potevano finalmente dedicarsi a girare in tour quel vasto territorio per tutti i numerosi mesi che servono a sfondarlo (a meno che non siate i The Darkness). Era un'impresa colossale: sia la band che la Taste Media sapevano che, nonostante il mezzo milione di copie vendute da SHOWBIZ garantissero per la loro serietà, a causa della mancata uscita di ORIGIN OF SYMMETRY il loro profilo in America era sceso ben al di sotto di quello europeo e avrebbero dovuto ripartire da zero, cioè battere i piccoli locali di tutto il Paese per costruirsi un seguito di fan. Mossero i loro primi, incerti passi, trattando gli USA con un riguardo totalmente diverso rispetto al resto del mondo. L'America fu un'amante da corteggiare con discrezione ma costanza per l'arco di quasi tutto il 2004. E come nella miglior tradizione cavalleresca, sarebbe stato un corteggiamento non privo di ferite. Matt Bellamy non si era proprio reso conto di cosa l'avesse colpito. Se è per questo, non sapeva neppure dove si trovava. Lo spaesamento da palcoscenico aveva iniziato a farsi sentire dopo qualche mese trascorso in strada, quella vertigine che lo assaliva quando le luci dei bar erano fioche e la musica assordante, la sensazione di non ricordarsi il proprio nome e di essere circondato da estranei.


E ora, che si ritrovava alle prese con piccoli bar da 300 persone ma con un ego e un senso del palco ritagliati su misura per i concerti da palasport, le sue follie finivano per risultare troppo grandi. Scivolava per schiantarsi addosso agli amplificatori, o lanciava chitarre contro soffitti troppo bassi e batterie troppo vicine: perdeva il filo come una tigre adulta chiusa in gabbia e scambiata per un cucciolo. E durante la seconda data del loro tour americano, al Cotton Club di Atlanta il 9 aprile, accadde l'inevitabile. A metà di Citizen Erased, il quinto pezzo in scaletta, Matt andò su di giri e inciampò su se stesso sopra quel palco angusto. La caduta non fu dolorosa, ma quando si rialzò e provò a cantare nel microfono scoprì che aveva la bocca piena di liquido. Sputò e vide un getto di sangue che imbrattava il microfono. Senza accorgersene, durante la caduta si era schiantato la paletta della chitarra dritta nella mascella, infilzandosi da solo. Si sporse verso un roadie indicandosi la faccia: sotto la luce, commentò in seguito il roadie, era come se gli stesse uscendo dell'acqua della bocca. Quando il cantante si precipitò a vomitare nel bakstage, prima che lo portassero in ospedale per mettergli i punti (dove rimase per cinque ore), Dom ricorda d'essersi dato un'occhiata intorno e aver visto il palco ridotto a uno "scannatoio". Lo show del giorno dopo al Kyber di Philadelphia fu annullato, ma con l'aiuto di massicce prescrizioni di antidolorifici e un po' di riposo, Matt tornò in forma quel tanto che bastava per riprendere il tour quattro giorni dopo al Bowery Ballroom di Manhattan (capienza: 550 posti). Per tutta la settimana seguente, fino a quando non glieli tolsero il 18 aprile a Montreal, ogni volta che cantava sentiva i punti che gli tiravano sulla ferita, finché non iniziarono ad adattarsi al taglio. Chiaramente pronti a mettere a repentaglio le proprie vite nel nome del rock, in America i Muse decollarono più in fretta di qualunque altra band, forse a pari merito con i Coldplay, scatenando un putiferio in primavera. Per via del loro stile futuristico che flirtava con la tecnologia, il popolo americano di Internet aveva cominciato a seguirli nonostante la loro assenza nei negozi di dischi e ORIGIN era diventato un classico della Rete, al punto che durante gli show il pubblico cantava parola per parola canzoni che in America non erano neppure uscite. Come c'era da aspettarsi, quando passarono al Cabaret Club di Montreal (capienza: mille posti) i fan si erano già messi in viaggio dagli stati più disparati per non farseli sfuggire; iniziarono a vedersi puntualmente le bandiere del Regno Unito e ancora una volta, ovunque andassero, i Muse si ritrovarono con uno zoccolo di fan che rasentava l'ossessione. Era come se non esistesse un luogo immune al loro fascino oscuro e a quel senso di non appartenenza, e forse la loro posizione sulla guerra in Iraq vergata con fierezza su tutto ABSOLUTION, e le relative rassegne stampa li stavano rendendo famosi tra la minoranza degli americani più intelligenti e pacifisti. La loro musica era abbastanza densa di significati da far risuonare certe corde anche negli stati d'animo più cupi, e abbastanza elaborata e ultraterrena da darti il brivido dell'evasione dalla realtà. Un'impressione che di sicuro Matt non contribuì a fugare nelle interviste del tour. Parlò del suo bisogno di sopprimere le emozioni estreme, come il desiderio di prendere una pistola e sparare a chiunque lo infastidisse. Parlò di come lo assaliva la paura della morte ogni volta che l'aeroplano decollava, e alla teoria della razza umana clonata dalla stirpe aliena di Sitchin per fare i minatori aggiunse l'esistenza dei minotauri, un tempo parte dello stesso programma di clonazione (da cui le leggende che li volevano abitanti di labirintiche miniere74). Il tour americano dei Muse, a parte uno sproposito di esibizioni più improvvisate e spontanee di quanto avesse loro permesso l'impostazione da palasport, vide la band scivolare in una nuova, pericolosa dipendenza: il gioco d'azzardo. Nelle poche settimane di libertà a Londra, Matt aveva iniziato a frequentare un circolo di poker semi-legale a Clerkenwell Road. Faceva delle piccole puntate, tanto per divertirsi, ma poi il gioco s'era trasformato in qualcosa di simile a un'ossessione. Da quando si svegliava finché non andava a letto non faceva altro che mischiare le carte, perfezionando anche la tecnica sotto-gamba. Il poker diventò un regolare passatempo post-concerto. Dopo lo show a Montreal la band restò in piedi fino alle sei del mattino, e approfittarono della manciata di giorni liberi a metà tour per volare a Las Vegas e sguazzare


nella loro nuova droga. Tutto ciò portò a un ulteriore hobby quando la band, la mattina in cui uscì da un casinò, andò a farsi la sua prima escursione in elicottero sul Grand Canyon. Dom, che s'era accorto dell'orribile doposbornia dei suoi colleghi, chiese al pilota di fare quante più evoluzioni possibile, finché Matt non vomitò su tutta la cabina. Per Dom e Matt fu amore a prima vista: scesero barcollando dall'elicottero, decisi a prendere lezioni di volo per imparare a pilotarne uno. Appena tornati a casa prenotarono delle lezioni in coppia, ma purtroppo, come scoprì Matt col suo parapendio a motore, non c'era abbastanza tempo per far pratica. Rinfrancati dall'esito positivo dell'esperienza in America, con un'apparizione all'ormai-non-più-hot Coachella Festival in California e un concerto al Brick By Brick di San Diego dove Matt gettò la sua Black Manson in un cassonetto (rubata al volo da un fan di passaggio), i Muse fecero ritorno in Inghilterra l'11 maggio, in previsione della sfida più grande e gratificante di tutte. Se prima l'estate si snodava lungo una sequenza infinita di show pomeridiani nei festival di tutta Europa, nel 2004 li aspettavano ventisei date, in parecchie delle quali avrebbero calcato per la prima volta il palco principale in veste di headliner. E una su tutte sarebbe stata la più gloriosa e tragica della loro carriera. * * * Il 27 giugno 2004, i Muse ottennero l'apocalisse che avevano chiesto. Negli anni in cui piove, è facile che il festival di Glastonbury diventi la più grande palude del Somerset. Nel 2004 era più simile a un lago. Dopo che un giovedì rovente accolse i festaioli nella Valle di Avalon, si sparse voce di un temporale previsto in serata. Quelli fra noi che restarono in piedi tutta la notte, com'è tradizione a Glastonbury, accolsero con un sospiro di sollievo il rombo di qualche tuono che subito svaniva in lontananza all'approssimarsi dell'alba. Per fortuna il maltempo aveva proseguito oltre. Poi, alle 8 di venerdì 25 giugno, si spalancarono le cateratte dei cieli. Nel giro di qualche ora Worthy Farm fu testimone del più violento nubifragio della sua storia, e la Grande Inondazione di Glastonbury dilagò ovunque. Intere aree dell'accampamento furono totalmente sommerse, l'ultimo paio di galosce di gomma si vendevano a peso d'oro e c'era chi letteralmente andava in giro in canoa. Con ogni probabilità erano le condizioni peggiori mai viste al festival: molti campeggiatori che non riuscirono a far fronte a fango, toilette che tracimavano e all'impossibilità di sedersi in alcun posto per tre giorni di fila, gettarono la spugna e tornarono a casa, mentre i coraggiosi che sfidarono la furia degli elementi videro, attraverso la cortina di pioggia, la pregevole esibizione di venerdì sera degli Oasis e quella, il sabato, di Paul McCartney, che sbalordì un pubblico più numeroso accorso per il weekend con una pirotecnica esecuzione di classici immortali dei Beatles e pezzi di repertorio dei Wings. Per i Muse quel festival era un evento enorme, e suonarvi un onore senza pari. Era il loro primo main stage da headliner nel Regno Unito, ed erano in molti ad aver contestato la scelta degli organizzatori di far chiudere a loro la giornata finale del festival, sostenendo che Michael ed Emily Eavis s'erano accollati un bel rischio a piazzare una band non collaudata in una posizione così prestigiosa. Chi di noi li aveva visti spazzar via i soffitti dei palasport nei dieci mesi prima aveva la certezza che sarebbero stati il gruppo del weekend, ma c'erano ancora molti infedeli, tra i seguaci di Glastonbury, secondo cui i Muse non erano semplicemente pronti per un ruolo così importante e si sarebbero sicuramente coperti di ridicolo, domenica sera. Arrivarono a Glastonbury con ancora addosso l'adrenalina degli headliner, o comunque della band ai piani alti del cartellone, nella recente raffica di festival europei. Erano stati terzi al Rock Am Ring di Nurburgring e al Rock Im Park di Norimberga, e in cima al cartellone al Flippaut di Bologna e all'olandese Pinkpop. Il 9 giugno, giorno del compleanno di Matt, entrarono nelle grazie degli amanti di Korn e Linkin Park al festival metal portoghese Super Bock Super Rock, a Lisbona, dove colsero l'occasione per suonare di fila cinque pezzi dai riff "potenti" per il pubblico metal. Due settimane prima di Glastonbury avevano anche tentato delle visite fallimentari al Colosseo (c'era troppa fila) e al Vaticano (a Dom fu vietato l'ingresso perché indossava pantaloncini da corsa anni Ottanta), prima di un concerto allo Stadio Centrale del Tennis di Roma, monumento a Mussolini fatto costruire sulle rive del Tevere dal dittatore stesso, come testimonia l'obelisco con su inciso il suo nome


all'ingresso del Foro Italico. Quel giorno, a cena, Matt ordinò un piatto di pasta col pomodoro, talmente semplice e delizioso da farlo quasi commuovere. E tutto ciò sull'onda di ulteriori successi in classifica: il 17 maggio era uscito il singolo di Sing For Absolution con un'unica bonus track (Fury, molto richiesta dal vivo e scartata da ABSOLUTION), che s'era piazzato al numero 16 in Inghilterra. Il punto forte di vendita era un video strepitoso, incluso nel Dvd del singolo75, senza dubbio il loro filmato più complesso e costoso di sempre. Una storia fantascientifica che si ispirava all'idea di Matt di evacuare il pianeta, ormai alle soglie di un'era glaciale, per trovarne un altro con nuove risorse da sfruttare (o forse al nostro viaggio sul simulatore spaziale al Museo delle Scienze, lo scorso agosto). Nel videoclip denso di effetti in computer grafica, Matt, Dom e Chris sono degli astronauti lanciati nella galassia da un pianeta futuristico che cerca di bombardare l'avanzata dei ghiacciai per trasportare esseri umani criogenizzati verso una nuova dimora planetaria. Attraversata una curva spazio temporale, si ritrovano in una tempesta di asteroidi ed entrano in collisione con una roccia, che li manda a schiantarsi su un pianeta rosso privo di vita. Lo spettatore penserà che sono partiti da una Terra del futuro e precipitati su Marte, ma l'ultima scena, omaggio al finale de Il pianeta delle scimmie, ce li mostra arenati tra le fatiscenti rovine del Palazzo di Westminster. Come commentarono all'epoca, per tutte le numerose volte in cui avevano declinato l'invito a show televisivi e interviste su giornali da teenager, appena gli offrirono l'opportunità di infilare una tuta da astronauta e andarsene in giro per lo spazio su una navicella non se lo fecero ripetere due volte. Arrivarono quindi a Glastonbury con il morale bello alto. Erano vicini alla contea del Devon, motivo per cui molti famigliari e amici sarebbero stati presenti, e aspettavano quello show da mesi nella speranza di acciuffare Morrissey a fine giornata, e con la tristezza di perdersi l'ultimo concerto in assoluto degli Orbital che si sarebbe svolto nel palco numero due in contemporanea con il loro. Le interviste preliminari mostravano una band dall'umore raggiante, che snocciolava curiosità e aneddoti da festival: la cosa peggiore che Dom avesse mai mangiato era uno schnitzel sporco in Germania. Una volta a Matt avevano fatto un massaggio shiatsu doloroso. In caso di pioggia, dicevano, sarebbero arrivati in elicottero mezz'ora prima dello show, ma intanto consigliarono al pubblico di lasciarsi andare, spogliarsi, mettersi un cappello stupido, nuotare nel fango e far rotolare i loro amici giù dalle colline dentro i WC chimici prima di abbracciarli forte. Il kit essenziale da festival? Secondo Matt sacchi neri della spazzatura da usare come scarpe o come rudimentali gabinetti. Per Dom, un kit da batteria. Ma eccitazione e buonumore a parte, sapevano che la questione in ballo era seria. Quell'anno i biglietti del Glastonbury erano andati esauriti ancor prima che venisse comunicata una sola band, quindi non avrebbero suonato davanti a un pubblico di affezionati dei Muse. Infatti, con il tempo che versava in quelle condizioni, si aspettavano che circa 4mila fan muniti di stivali sarebbero rimasti in zona, mentre il resto se ne sarebbe tornato a casa prima che fossero saliti sul palco. E non si sbagliavano più di tanto. A dispetto di una generosa fetta di fan che assistettero al loro show, il pubblico era palesemente decimato rispetto alla notte prima, e quelli rimasti avevano bisogno di qualcosa che li colpisse talmente forte da impedirgli di saltare in macchina e partire a razzo verso un letto asciutto. I Muse dovevano andare là fuori, avere la meglio sugli scettici e spazzare via il fango dalle orecchie di quella folla stravolta dalle intemperie. E riuscirono su ogni fronte, senza riserve. Per dirla in breve, i Muse regalarono la performance della loro vita. Col camice bianco del Big Day Out e l'aria di uno stregone del rock spaziale, Bellamy prese la Silver Manson facendola mulinare, roteare e tenendola in bilico sulla testa nel mezzo di un assolo, come un derviscio rotante in perfetto equilibrio. Chris sfoderò il rombo più corposo mai spremuto dal suo basso e Dom picchiò i tamburi talmente forte da sovrastare la tempesta del venerdì. La torreggiante resa live di Apocalypse Please fu ritenuta così sovraccarica da venir distribuita il mese dopo per il download in Rete. I proventi furono devoluti all'Oxfam, e il pezzo raggiunse il numero10 nella prima classifica mai stilata dei download. L'organizzatrice Emily Eavis lo descriverà come il miglior show del weekend e i Muse, che erano saliti sul palco da perdenti, si rivelarono gli eroi conquistatori di Glastonbury.


Già alla prima nota di Hysteria si resero conto che era un concerto mozzafiato, e alla fine di Blackout, con i palloni che rimbalzavano gioiosi e i cannoni spara-coriandoli carichi in attesa del bis con una Stockholm Syndrome da solidificarti il fango addosso, Matt fece un raro annuncio in pubblico mettendo più di cinque o sei parole in fila. "Grazie di cuore per essere rimasti là fuori, sotto il fango e tutto il resto", disse alla folla: "È stato il miglior concerto della nostra vita". Un'ora dopo che furono scesi dal palco, tuttavia, si trasformò nella serata più devastante della loro carriera. Mentre al termine del concerto la band festeggiava insieme alle famiglie nel prefabbricato che fungeva da camerino, Bill, 62 anni e padre di Dom, si accasciò in preda a un attacco cardiaco. Fu trasportato d'urgenza all'unità medica presente sul posto e lì morì. Una fine orrenda e tragica per quella che era stata la più radiosa delle serate, e un duplice dolore per Dom, dato che il programma del tour l'aveva tenuto per un po' di tempo lontano dalla sua famiglia. Per sua stessa ammissione, fu sia il migliore che il peggior giorno della sua vita. Il seguente appuntamento live al Lazzaretto di Bergamo fu annullato e fu emesso un comunicato in cui si dichiarava che la band avrebbe apprezzato il rispetto della propria privacy da parte della stampa. Per quasi una settimana si rintanarono nel Devon, Dom a piangere suo padre e Matt e Chris a dare sostegno al loro amico e alla sua famiglia. Per loro tre fu una settimana di profonda intesa e rispetto. Parlarono di interrompere il tour, e Dom prese in considerazione l'ipotesi di lasciare la band per stare accanto ai suoi. Ma i suoi amici più intimi lo convinsero a rimettersi in gioco, a trovare il lato positivo di quella tragedia nelle cose che più amava fare. In fin dei conti era ciò che suo padre avrebbe voluto. Nel giro di una settimana, Dom aveva deciso di volersi rimettere in strada e la band proseguì con i festival. Furono gli headliner al St Gallen in Svizzera e comparvero anche al belga Rock Werchter e al danese Roskilde, prima che a Dom fosse concessa un'altra settimana per riordinare le idee e sfogare il lutto. Quelle tre settimane di festival subito a ridosso della morte di Bill Howard76 furono strane e difficili per la band. La tragedia li avvicinò come amici, rendendoli più partecipi e sensibili l'uno verso l'altro. Fece capire loro quanto sia vero quel luogo comune che dice: non sei pienamente consapevole di cosa possiedi finché non lo perdi, e questo valeva per genitori, amici e anche per loro stessi. Trovarsi a un passo dal perdere Dom come collega, e forse dal disgregarsi della band stessa, gli aveva ricordato il semplice piacere di suonare la loro musica e quanto fosse bello suonare sopra un palco per così tanta gente. Da quest'evento terribilmente triste i Muse ricavarono una maggior forza interiore, consolidarono nuovi legami, manifestarono una nuova apertura e positività reciproche, diventarono un'unità per sempre più solida. Quando, di nuovo insieme, suonarono con una furia mai vista prima al T In The Park, che quell'anno si teneva al Balado Pars di Kinross, i Muse erano diventati invincibili. Ma c'erano altre sofferenze in serbo per loro, prima della fine del tour. * * * Chris Wolsthenholme non s'era proprio reso conto di cosa l'avesse colpito. Mentre si rialzava da terra e tornava in posizione, zoppicante, saltò fuori che era stato un intervento in scivolata di uno dei Cooper Tempie Clause, la band che i Muse avevano sfidato a calcetto tra un soundcheck e l'altro. I due gruppi erano in giro per l'America come membri del Curiosa Tour, un festival di tredici date tra luglio e agosto attraverso il cuore della nazione, organizzato e curato dagli headliner Cure, che riempivano i due palchi di cui era composto con le band a loro affini o simpatiche. Dopo essersi aggregati al tour passando per un'infarinatura di otto date nei festival europei di luglio (tra cui l'Oxygen in Irlanda, dove Apocalypse Please fu tagliata dalla scaletta a causa degli Ash, gli eroi locali che sforarono con i tempi, e il putiferio a Santiago de Compostela dove Dom salutò la folla con l'immortale quanto imbarazzante gaffe in stile Spinal Top: "Ciao San Diego!"), i Muse suonarono sul secondo palco accanto a Cooper Tempie Clause, l'ex-Hole e bassista degli Smashing Pumpkins Melissa Auf Der Maur e i grunge rocker Thursday, mentre il palco principale pulsava del miserabilismo post-rock di Interpol e Mogwai e degli inconsistenti ritmi danzerecci a suon di campanaccio dei The Rapture. I Muse avevano fatto amicizia


con i Cure grazie al Texas Hold'em la sera in cui Matt spillò 400 dollari al cantante Robert Smith (anche perché Smith era troppo ubriaco per bluffare decentemente e non s'era accorto che Matt aveva in mano quattro assi) e avevano fatto amicizia con i Cooper Tempie Clause grazie al calcio. Così, quando Chris si rialzò in piedi levandosi la polvere di dosso su quel brullo fazzoletto di terra fuori dal luogo del concerto a Detroit, dieci date dopo l'inizio del Curiosa, non fece troppo caso a quel dolore al polso. Era solo l'ennesima ferita on the road dei Muse, come gli ematomi che Matt aveva provocato a Dom la sera prima, a Toronto, tirandogli addosso la chitarra. Suonò senza intoppi lo show di quel giorno (sei pezzi, per una mezz'ora di granitici successi rock), passò la notte a ubriacarsi all'afterparty che la band aveva riesumato per il Curiosa tour e andò a dormire ripensando solo di striscio a quella pulsazione al braccio. Fu solo quando Matt fu svegliato nel cuore della notte da un Chris nudo, che faceva su e giù per il corridoio del tour bus e malediceva se stesso reggendosi un polso gonfio il doppio del normale che i Muse si misero a tavolino, guardarono il diario che gli diceva che tra undici giorni sarebbero stati gli headliner del V Festival in Inghilterra e pensarono: "Gesù, questo ce lo siamo giocato". Furono prese misure drastiche. Con il braccio di Chris ingessato, la band si sganciò dalle ultime tre date del Curiosa tour e tornò di corsa a casa per allestire un piano d'emergenza. Contattarono un loro amico di nome Morgan Nicholls, ex-Senseless Things ai tempi in cui i Muse erano adolescenti fan del fraggle e successivamente bassista nei The Streets, e nel giro di dieci giorni gli insegnarono le parti di basso dell'intera scaletta da headliner. Per Chris, l'edizione 2004 del V Festival fu un'esperienza strana, vissuta in sordina. Era sempre lì sul palco, pronto a lanciare le occasionali parti di tastiera davanti a 50mila fan urlanti per entrambe le serate del festival (la prima delle quali a Chelmsford, il 21 agosto), ma non riuscì a godersi i concerti per la frustrazione di sentire Nichols che suonava il basso al posto suo, una smorfia che gli si disegnava sul volto ad ogni minimo errore o stecca. Nonostante avessero un quarto membro per queste e le altre date in un paio di festival prima di fine agosto, i Muse dichiararono di sentirsi in qualche modo incompleti. Per gli altri due show al Two Days A Week in Austria e al Rock En Seine in Francia, Chris lottò al massimo delle forze col suo strumento per gran parte dell'esibizione, con Nichols sempre pronto a dargli il cambio casomai si fosse stancato troppo. La prima volta che riuscì a reggere un set intero fu qualche giorno dopo, allo show d'apertura del loro primo tour sold-out in Australia. Il concerto si tenne al Metropolis di Perth, un locale più grande di quanto previsto in partenza, dato che il concerto iniziale aveva registrato il tutto esaurito in un giorno. In occasione della loro prima visita all'osannata community hall del Metropolis, nel 2000, si erano aggiudicati un pubblico di dieci persone. Stavolta la fila faceva il giro dell'isolato e aspettava sotto la pioggia dalle 8.30 del mattino. Lo show fu un uragano, e nei seguenti tre giorni di libera uscita a Perth festeggiarono a tal punto che, per una combinazione tra jet-lag e bevute fino a notte fonda, non chiusero quasi occhio per circa settantadue ore. Durante un attacco d'insonnia particolarmente arduo, Chris ricorda d'essersi visto la versione cinematografica di Starsky & Hutch nella sua camera d'albergo alle cinque del mattino. Va da sé che una volta scesi ad Adelaide (la quinta città più grande dell'Australia, nota come la "Città delle Chiese" perché... be', perché è pieno di chiese) per il secondo show del tour australiano, i Muse optarono per una botta di salute. Tony, la guardia del corpo assunta dalla Taste Media perché ormai erano una band da palasport e in quanto tali pop star "di serie A", era anche il loro personal trainer. La prima volta che li portò in palestra, tuttavia, l'esperienza si rivelò troppo sfiancante per quelle giovani anime provate dal jet-lag. Il loro tour manager vomitò dopo venti minuti di cyclette, con quindici secondi di pedalata al massimo della velocità per ogni minuto, e Chris per poco non lo seguì a ruota. La rovina di Matt, invece, era l'apparato digerente. Dopo quell'intero cosciotto di capra che si era sbafato in un ristorante argentino durante l'ultima sera a Perth, lo show al Barton Theatre di Adelaide davanti a 200 fan s'interruppe di botto quando il cantante si precipitò giù dal palco col disperato bisogno di un gabinetto, lasciando i suoi colleghi a


jammare per diversi lunghi minuti finché non riapparve, sollevato. Più tardi, scherzando, Dom disse che un simile comportamento era accettabile nei locali piccoli, ma in uno show da palasport lo avrebbero mandato in scena col pannolino. Raccolto strada facendo un Disco di Platino per le vendite di ABSOLUTION in Australia, e aggiornata la situazione dei locali quando le richieste lo consentivano (aggiunsero una serata extra all'Arena di Brisbane, nel centro della città, quando la prima data registrò il tutto esaurito nel giro di un'ora, e per quando arrivarono i Muse avevano spostato entrambe le date nella struttura da 5mila posti del River Stage), la band chiuse un tour di sfolgorante successo al St James Theatre di Aukland il 14 settembre e volò a casa per riposarsi qualche giorno prima della terza trasferta americana di quell'anno. Sarebbe stata una tappa mastodontica della loro invasione: i tre mesi di lavoro negli States includevano trentotto show in quasi altrettante città in lungo e in largo tra USA e Canada, da Nashville a Milwaukee, da Portland a Albuquerque, da Palm Beach a Tucson. Nonostante il successo riscosso negli altri Paesi, il fatto che i Muse fossero pronti a investire una simile quantità di tempo per far sentire la loro musica nelle baracche e nei pollai di mezza America è indicativo della loro dedizione alla conquista del mondo (e gli spostamenti da una città all'altra erano assai difficoltosi: la media era la tratta di quindici ore da Pittsburgh a Detroit era piuttosto). Arrivati in California il 18 settembre per uno show da cinque pezzi all'Inland Invasion di radio KROQ, le radio dei college avevano appena messo le mani su Butterflies And Hurricanes, mandandola a rotazione più di qualsiasi altro pezzo della band in passato. Il singolo, uscito in Inghilterra77 il 20 settembre, si rivelò un successo garantito in madrepatria, piazzandosi al numero 14 grazie a un ulteriore dispiego di tecnologia: il Cd includeva lo U-Myx, un software che consentiva all'ascoltatore di remixare il brano o di eliminare determinati strumenti rimescolando a piacimento la traccia (c'era un concorso a premi per il miglior remix). Ma anche l'America stava lentamente aprendo gli occhi davanti al loro genio, e per i Muse era una sfida intrigante. Ormai in Europa erano come dei vecchi che suonavano nei maxi-palasport, mentre esibirsi in locali da duecento posti in un Paese dove ABSOLUTION aveva venduto 200mila misere copie (quasi una goccia nell'oceano per una nazione così vasta; in quel momento aveva venduto un milione e mezzo di copie in tutto il mondo) li fece sentire di nuovo una giovane band emergente. Tre giorni dopo, a San Francisco, quando si accorse che per strada c'era uno dei miti della sua infanzia, Matt scoprì d'essere tornato un fanboy smanioso. Certo, lui e Dave Grohl erano diventati compagni di sbronze, ma la prima volta in cui vide Krist Novoselic, unico altro superstite dei Nirvana che si faceva lucidare le scarpe per le strade di San Francisco, non potè far altro che sedersi allo stesso banchetto da lustrascarpe e farsi tirare a lucido gli stivali, troppo intimorito per rivolgere anche solo una parola al dinoccolato bassista grunge. Il tour fu un'altra caotica esplosione di grandi ego in piccoli locali. Dopo quattro giorni di riscaldamento a scolarsi mojito a bordo piscina nell'esclusivo Sky Bar, il ritrovo del jet-set di LA all'interno dell'ultrachic Mondrian Hotel, e due date festivaliere insieme a Morrissey, Yeah Yeah Yeahs e Franz Ferdinand, i Muse suonarono nel Warfield Theatre di San Francisco (2.200 posti a sedere, un bel passo avanti rispetto al club da duecento posti in cui avevano suonato a maggio). Dopo lo show se la svignarono a un loft party in centro organizzato dal gruppo spalla, dove Dom passò la notte a jammare con i bonghi e Matt si ritrovò incastrato in un angolo da un miliardario di Scarborough che aveva fatto i soldi grazie a Internet. La sera seguente, alla Freedom Hall della University of California di Davis, vicino Sacramento, suonarono per duemila universitari in festa, con Matt che si esibiva nelle sue migliori scivolate di ginocchia in stile Marty McFly finché non riuscì a tirare una testata alla chitarra e scese dal palco con un taglio luccicante sulla fronte. Un'altra cicatrice di guerra per la Conquista dell'America. Mentre il tour proseguiva la sua marcia dall'entroterra americano verso il Canada, si radunarono le tribù dei fan più devoti. Il nucleo centrale erano i teenager amanti del rock, con tatuaggi, capelli neri e quintali di mascara, accanto ai seguaci più integralisti. Una ragazza irachena di vent'anni scrisse a Matt per raccontargli com'era crescere fra torture e incarcerazioni ad ogni angolo di strada, e di come la sua musica l'avesse aiutata. Lui le aveva


risposto in segno di riconoscenza, anche se non si aspettava di vederla a una qualsiasi data del tour canadese. Il 22 ottobre, a Salt Lake City (a un mese dal'inizio del tour e il giorno prima che Chris, che finora si era esibito sempre con il gesso, si facesse male a un dito durante il primo pezzo alla McEwan's Hall di Calgary, riducendosi a suonare col plettro per la prima volta in dieci anni), tutte quelle ore stipati su un tour bus cominciarono a dare i loro frutti. Il primo barlume di materiale nuovo fu introdotto in concerto sotto forma di New One (DES), come dichiarava la scaletta78. Ben lungi dall'essere un potenziale singolo di ritorno, era un pezzo rock fedele alle tematiche della band, pieno di satelliti e della necessità di sondare l'universo a bordo di un razzo. In ottobre, sul forum del loro sito ufficiale, Matt ne parlò come The Church Of The Sub Genius, sostenendo che "le trentatré sovraincisioni casuali di chitarra su The Church Of The Sub Genius... hanno grandi probabilità di farcela" (a entrare nel quarto album). Il nome del brano derivava da ciò che Matt definì "un bizzarro culto da scansafatiche", ovvero una sottocultura religiosa fondata a Dallas nel 1979 che aveva spopolato in Rete negli anni Novanta con la pubblicazione di articoli umoristici e satirici. Quando uscì su disco fu ad ogni modo ribattezzata Glorious. Al concerto di Halloween del 31 ottobre a London, Ontario, suonarono in costume con Dom vestito da Gandalf. Al primo dei due show nel Wiltern Theatre di LA (2.300 posti a sedere) permisero a una coppia di fidanzarsi sul palco. Attaccarono spille in fondo agli strumenti per scoppiare meglio le incessanti ondate di palloni che si riversavano sul palco alla chiusura di dozzine di show. A un certo punto, durante il tour, li informarono che avevano vinto il premio come Miglior Gruppo Alternative agli MTV European Awards. E trentasei concerti dopo il loro arrivo in America, con il pubblico che cresceva di città in città, accadde qualcosa di veramente magico. Una mattina, Dom si svegliò e sentì Matt che suonava un nuovo riff nel salottino in fondo al tour bus. Non l'aveva mai sentito suonare roba simile: pesante, spavalda, incalzante. Per Dom fu come una mandria di cavalli selvaggi del deserto che si fiondava al galoppo fuori dalla chitarra di Matt. Quando si alzò a sedere e aprì le tapparelle del tour bus si accorse che erano in pieno deserto dell'Arizona, con intorno nient'altro che cactus, rocce e sabbia a perdita d'occhio. Quel riff si adattava perfettamente al contesto, come se il deserto stesso si fosse insinuato in quella canzone. Una canzone che avrebbe preso il nome di Knights Of Cydonia. Il 14 dicembre, dopo l'ultima data del tour americano a Tucson, Arizona, i Muse volarono in Inghilterra con ben più di qualche poncho e cappello da cowboy come souvenir della loro visita ai selvaggi stati del West. Erano rimasti folgorati dalle atmosfere del country, dai duelli alla Morricone e dal sigaro incastrato nel ghigno di Clint Eastwood. Parlarono a perdifiato con i giornalisti delle sonorità a la The Strokes e Calexico e del materiale nuovo, come un'epica musica country & western che gli faceva venire in mente un uomo a cavallo per il Messico, mentre suona una tromba e cade sotto il fuoco dei banditi. Era, dissero, un po' flamenco, un po' Kill Bill, un po' Tex Mex, un po' Tom Waits. Parlarono di una nuova canzone dal respiro così epico e cinematografico che non avevano idea di come registrarla, ma erano convinti che, una volta fatto, la gente avrebbe pensato a cavalieri medievali col sombrero che sfrecciano lungo i deserti di pianeti alieni. L'immensità di tutto ciò che era americano era rimasta addosso anche ai Muse. Nelle interviste di dicembre, Matt disse che la band sarebbe diventata il prossimo gruppo da stadio alla Bon Jovi, con tanto di maxischermi e accendini alzati in certi momenti dello show. Forse addirittura con i capelli lunghi e gli stivali da cowboy. Parlò di procurarsi un intero corpo di ballo, un'orchestra al completo, scenografie elaborate e organizzare lo spettacolo in scene, come un musical del West End. Aveva già delineato il copione di Muse: The Musical: un ranger solitario del futuro in missione nell'universo per scongiurare la fine del mondo. Il passo successivo sulla strada per l'enormità globale era imminente. Il 19 e 20 dicembre, i Muse si esibirono in quello che secondo molti fu per loro un concerto di proporzioni stratosferiche: due serate all'Earls Court Exhibition Centre di Londra, per un totale di 36mila fan. L'importanza di queste due date non può essere sottovalutata, dal momento che nel Regno Unito non esiste struttura al coperto più grande, e una seconda serata sold-out in un posto del genere a causa di "un'incredibile" richiesta significa che sei pronto per


dilagare negli stadi. È una struttura di solito riservata ad artisti indiscussi come Radiohead, Oasis e ai dinosauri superstiti del rock anni Sessanta e Settanta, non a un terzetto pop-metal del Devon che è solo al suo terzo album. I Muse erano da un pezzo il miglior gruppo alternative rock della Gran Bretagna, e adesso era ufficiale: erano anche il più grande. Dopo aver visto l'effetto smorzante di una cavernosa struttura metallica sull'impatto del loro show alla Docklands Arena, i Muse fecero tutto ciò che era in loro potere per allestire un concerto enorme come il locale stesso. Progettarono di usare un impianto audio di nuova generazione, un passo oltre il surround, e si misero a esaminarne il design, salvo poi essere informati che quell'impianto specifico non l'avevano ancora messo a punto. C'erano dei difetti di progettazione, e la società che aveva inizialmente acconsentito a fornire l'impianto alla fine si tirò indietro, perché non voleva rischiare di giocarsi in partenza il suo primo concerto. I Muse dovevano quindi alzare la posta in termini di performance, introducendo l'armamentario pirotecnico che non si erano potuti permettere negli altri show. Durante Butterflies And Hurricanes attivarono dei geyser di CO2 allineati sul margine del palco e portarono altri cannoni spara-coriandoli per coprire ogni centimetro del locale. Con uno scintillante cappotto rosso per la prima serata e un altro nero come la pece per la seconda, Bellamy apriva ogni show correndo per il backstage con una telecamera collegata agli schermi del palco. Molestava gli addetti alla security, faceva il gesto delle corna davanti all'obiettivo e scorrazzava tra le prime file filmando i fan più scatenati, mentre Dom e Chris suonavano un pezzo strumentale intitolato Dracula Mountain. Per la seconda serata ripeté il tutto calzando un guanto a forma di scimmietta, che fece ballare davanti alle telecamere prima di salire sul palco e partire a razzo con Hysteria. In entrambe le serate, con The Small Print che slittava verso il suo violento epilogo, Matt calò la chitarra sul palco fino a ridurla a poco più di un rottame di legno e metallo, per poi gettarla in mezzo al pubblico. Il primo show vide l'anteprima di una nuova canzone chiamata Crying Shame, un allegro pezzo pop vittima del bootleg più selvaggio da parte di fan che ipotizzavano potesse trattarsi del primo singolo del nuovo disco. Ad ogni modo, il giorno seguente Matt disse a XFM che, secondo lui, la prima esibizione di quel brano era filata liscia "come una tonnellata di mattoni", e per la serata successiva decisero dunque di accantonarlo finché non l'avessero imbroccato nel modo giusto. Ma nonostante ciò, quando il bagliore di 17mila telefoni cellulari illuminò i palloni e le bombe di coriandoli regalarono al pubblico qualcosa di molto simile a una nevicata natalizia, la band si congedò dal 2004 con un botto clamoroso. Nei precedenti quattordici mesi avevano venduto 900mila dischi soltanto nel Regno Unito e suonato per 1.4milioni di persone in tutto il mondo. Erano sopravvissuti in egual misura alla tragedia e al trionfo, uscendone più uniti e saldi che mai. Era innegabile: ormai i Muse erano "supermassivi". * * * Per i primi tre mesi del 2005, la band inseguì quel Ranger Solitario mentre cercava di catturargli al lazo qualche nuova canzone. Rintanati in una sala prove di Londra a lavorare sulle nuove tracce mariachi metal, Matt sviluppò un'ossessione crescente per le chitarre surf di Dick Dale e per le bombe pop da due minuti e mezzo (oltre al sedicente desiderio di comprarsi una casa immersa nella natura e viaggiare lungo terre desolate per osservare l'attività delle balene). Entro i primi di aprile avevano messo in cantiere cinque o sei pezzi nuovi, e quando gli offrirono l'opportunità di imbarcarsi in un tour di un mese nel Midwest americano insieme al pop degli urch rocker Razorlight saltarono subito a bordo. Era l'occasione giusta per prendere due piccioni con una fava: portare avanti l'ottimo lavoro di consolidamento in America, specie in quelle cittadine nel cuore della provincia che molti tour si scordano di raggiungere, e collaudare qualche pezzo nuovo nel Paese che aveva ispirato quelle atmosfere epiche. Sebbene i Muse avessero i loro bravi sette o otto anni di esperienza live rispetto ai Razorlight, in America le band giocavano pressoché ad armi pari. I Razorlight cominciavano ad accaparrarsi attenzioni fameliche, grazie al loro immediato e accessibile guitar pop dalle influenze new wave sulla falsariga dei Television e alla presunzione del loro cantante Johnny Borrell, che nelle interviste con la stampa si autoproclamava un genio.


Nel giro di due anni, i Razorlight avrebbero lasciato a bocca aperta l'America durante lo strafamoso David Letterman Show, con la loro deliberatamente antipatriottica America, ma in quel momento, agli occhi dei ragazzini che staccavano biglietti per le ventidue date nelle università e nei college del Midwest con l'MTVU Campus Invasion Tour, erano due band emergenti che spaccavano di brutto su un cartellone niente male. Partiti dall'Auditorium Field di Boca Raton, Florida, i Muse introdussero due stupefacenti nuove canzoni. La prima, dopo molti rimaneggiamenti, partita col titolo di Demonocracy, si sarebbe infine assestata su quello di Assassin. Costruita su fondamenta "mexican flamenco metal" (che traevano forse spunto dal metal armeno di Daron Malakian, chitarrista dei System Of A Down), era la canzone finora più politica e piena di vetriolo composta dalla band, un aperto invito alla rivoluzione violenta su una strofa stretta in mezzo ai denti che s'innalzava nella melodia del ritornello, ammiccando al Preludio in Sol minore di Rachmaninoff. Sotto quel riff da capogiro si sentiva Chris che mormorava: "Aim, shoot, kill your leaders" ("Prendi la mira, spara, ammazza i tuoi leader"). La seconda, invece, era una spavalderia simil-Suede con batteria sinuosa e voce seducente che finirà per chiamarsi Exo-Politics, anche se nei mesi del tour assumerà i nomi più strambi. Ai primi show del Campus Invasion Tour la scaletta contrassegnava Assassin e Exo-Politics come, rispettivamente, New D (Easy Tiger) e The Other New One. Ma col passare del tour si chiameranno in modi sempre più strampalati: Assassin fu di volta in volta Debase Mason Grog, Cold Aqua Tornato, Moniker Probes, Majestic Blu, Arty Seige, Starship Crowds e Evaluating Mortals, mentre Exo-Politics prenderà il nome di Codebreak Shy Outsider, Timescale Keeper, Unpacked Residents, Auditory Masks, ABA, Preservable Heat, Harem Meeting e Obtain Drowsy Powders. Al ladro di scalette che passava di lì per caso poteva sembrare il frutto di menti annoiate e in vena di scherzi, ma i fan più minuziosi e illuminati della band, habituée dei quei siti Web dove l'entourage dei Muse snocciolava indizi sui significati nascosti dei nomi, scavarono più a fondo. La presenza del termine Codebreak, "decripta il codice", era un segnale importante: si trattava di anagrammi, indizi e messaggi cifrati. C'era chi accennava a precedenti chiacchiere on line sui significati nascosti di altrimenti innocue abbreviazioni da scaletta. Codebreak Shy Outsider era l'anagramma di "Des is our key-board tech" ("Des è il nostro tecnico delle tastiere"), ma sapendo che i loro fan passavano avidamente al setaccio ogni brandello d'informazione alla ricerca di segreti e riferimenti velati, i Muse decisero di regalargli un intero tour pieno di significati nascosti con cui giocare79. Anche se la rete labirintica di indizi e codici intessuta dalla band è troppo intricata per sbrogliarla in questa sede (e mi scuso se non ho azzecato il giusto schema crittografico, dato che al tempo non li ho risolti tutti io), il disegno principale funzionava all'incirca così: sulla scaletta del concerto al Liacouras Centre A' Philadelphia, Debase Mason Grog era "Messageboard Song", in connessione ai messaggi segreti che la band postava sulla bacheca elettronica dei fansite, il primo dei quali era proprio Codebreak Shy Outsider, sempre nella stessa scaletta. Poi a Buffalo, New York Cold Aqua Tornato era l'anagramma del vecchio indirizzo e-mail di Matt "qua@aol.com", mentre Timescale Keeper diceva ai giocatori di tenere segreta la e-mail ("keep e-mail secret"). Naturalmente c'è stato chi non l'ha fatto, perché risalgono alla serata dopo a East Lansing, Missouri, l'amareggiato "promesse non mantenute" ("broken promises" = Moniker Probes) e l'impertinente "mandateci foto nude" ("send nacked pictures" = Unpacked Residents). A quel punto il gioco decollò sul serio: Swiss Rapsody (titolo usato al posto di CryingShame) si traduceva con "Password is shy", mentre Majestic Blue era "l'oggetto della e-mail" ("e-mail subject"). Chiunque inviasse a quell'indirizzo una e-mail con la parola "shy" in oggetto riceveva una risposta apparentemente incomprensibile, a patto di non aver intuito che la Preservable Heat dello show di Cleveland era l'anagramma di "reverse alphabet" ("alfabeto invertito"), cioè il codice necessario a decifrare la e-mail che indicava dove si trovava il premio: una bicicletta che la band aveva usato per tenersi in forma durante il tour e che Matt aveva appeso a un cavalcavia ferroviario abbandonato quand'erano passati dalle parti di Amhurst, Missouri. Erano quattro bici in tutto, lasciate in punti ben precisi lungo il percorso del


tour, spesso vicino ai quartieri generali di società segrete come gli Illuminati, e ciascuna con indizi di sempre più diabolicamente diffìcile reperibilità. Capire che Obtain Drowsy Powders era "scriviti la password sul corpo" ("write password on body") e Starship Crowds corrispondeva a "password Christ implicava che chiunque avesse scritto la parola "Christ" sul proprio corpo e avesse inviato una e-mail con la relativa foto in allegato, sarebbe stato indirizzato da un'altra e-mail criptata alla seconda bicicletta. La terza chiedeva al giocatore di fondere Harem Meeting con Evaluating Mortal per ottenere in qualche modo "Get M-Three Naval Enigma Simulator", un programma scaricabile che, una volta inserito il codice "ABA", avrebbe fornito lo schema per decriptare le indicazioni della e-mail successiva. Abbastanza da far esplodere la testa ai protagonisti de Il codice Da Vinci, ma ad aggiudicarsi il gran premio fu il Muse-maniaco che decifrò il quasi impossibile anagramma di Auditory Masks: "RAK Studios May". Bastava solo fare un salto ai RAK Studios per vincere una delle chitarre autografate dei Muse. Era un gioco ingegnoso (in gran parte opera di Tom Kirk). Non si trattava solo di ammazzare il tempo nei lunghi tragitti a spasso per l'America inventandosi delle cacce al tesoro impossibili, ma di forgiare un legame con i fan più devoti, ricompensarli per il vivo interesse e insegnar loro a ragionare sempre al di là delle apparenze. Molti di loro, infatti, per poco non impazzirono cercando di decifrare l'anagramma della canzone che chiudeva quasi tutte le scalette del tour: Dealer's Choice. Questo perché non era affatto un anagramma, bensì un riferimento al gioco del poker, in cui ad ogni mano il mazziere di turno sceglie la variante di poker da adottare, nel senso che la band avrebbe scelto, ad ogni giro, la canzone d'apertura del bis. Passando per Louisville in Kentucky, Columbus in Ohio, Kansas City e innumerevoli altre cittadine in mezzo al nulla, il tour chiuse i battenti il 7 maggio nella turbolenta città studentesca di Austin, Texas. Dopodiché i Muse tornarono a casa per riprendere le prove e definire il corso del quarto album, cui lavoreranno per un anno e una settimana, strappati alla sala prove o allo studio solo per esibirsi dal vivo. E a ragione, anche: il 2 luglio 2005, Sir Bob Geldof organizzò l'evento del Live 8 per promuovere la consapevolezza sul debito del Terzo Mondo alla vigilia del G8 a Gleneagles, in Scozia, dove i leader delle otto principali potenze economiche si sarebbero riuniti per discutere di tali problemi. I Muse non potevano certamente rifiutare l'opportunità di schierarsi a favore degli oppressi contro sinistri gruppi di infidi politicanti (una causa vicina al cuore di Bellamy, per la quale aveva scritto un intero album), ma siccome si erano ormai abituati alla modalità "off-tour" furono lieti di evitare il circo pubblicitario del concerto londinese, fulcro dell'intero evento, scappando dal cartellone di Hyde Park una settimana prima dello show per suonare invece al corrispettivo parigino nel Castello di Versailles (residenza di Re Luigi XIV, lo spendaccione Re Sole quindi un luogo abbastanza ironico per tenervi lo spettacolo del "Malte Poverty History"), davanti a un pubblico di 150mila persone. Con quattro pezzi da suonare rispetto ai due o tre concessi a compagni di palco quali Placebo, Shakira, Dido e Craig David, i Muse sferrarono un feroce anche se alquanto caotico assalto di diciassette minuti con Hysteria, Bliss, Time Is Running Out e Plug In Baby. Matt indossò un cappello a cilindro con uno strano "effetto bavaglino" e Dom svelò un gusto tutto nuovo per i pantaloni fucsia. Fu un giorno rilassato, con poco trambusto televisivo o giornalistico tra i piedi e pochi attivisti politici, e i Muse colsero l'occasione per farsi due risate dopo diciotto mesi di tour praticamente ininterrotto. E poi, dopo aver finalmente donato il giusto e regale riposo al tour di ABSOLUTION, la band si mise alla scoperta di ulteriori e più nuove rivelazioni. CHRIS WOLSTHENHOLME Ci avevano offerto la posizione da headliner [a Glastonbury] e ci stavamo cagando sotto perché non pensavamo di essere abbastanza grandi per quello. Ad essere onesti, come giornata era un po' una merda, fango e desolazione ovunque. Si capiva che era la fine del festival, il pubblico era stremato. Quando ce ne siamo accorti, il giorno dello show, abbiamo pensato: "Cazzo, sarà una tragedia", e invece è stato completamente l'opposto. È un onore suonare in quel posto, con la storia di tutte le band che vi hanno suonato prima di te. Ricordo le bandiere che sventolavano ovunque. Fai una cosa simile e pensi: "Ce l'abbiamo


fatta, cazzo". Ma tutti gli alti hanno i loro bassi. L'importante è superarli. DOMINIC HOWARD Certo, Glastonbury è stata una cosa grossa. Era la prima volta che dicevo: "Stavolta ce l'abbiamo fatta". La band era arrivata a un punto che non avrei creduto possibile. E se vieni dal Sudovest dell'Inghilterra, suonare lì significa un sacco. Chiudere il Glastonbury è stato spettacolare e tragico al tempo stesso. Ricordo ancora il concerto, uno sballo definitivo, quello sì che è stato un traguardo. Poi è successa una delle cose peggiori che possiate immaginarvi, ma ripenso ancora al concerto come a qualcosa di totalmente positivo e bisogna tirare fuori un po' di positività da situazioni estremamente negative. MATT BELLAMY È stata davvero dura. L'intensità di quella serata, in generale è stata schiacciante. È difficile descriverne gli alti e i bassi, come siano stati entrambi surreali e in che breve lasso di tempo siano accaduti. Per Dom è stata ovviamente più dura, ma se ne è uscito qualcosa di buono era che suo padre si trovava lì per ciò che è stato probabilmente il nostro momento migliore, il più importante. Questa cosa ci ha riportato con i piedi per terra come band, ci ha resi più vicini e ha influenzato il nostro modo di vedere il futuro. Ci ha fatto capire che non bisognava ammazzarsi di tour, ci ha fatto capire che avevamo trascorso troppi anni lontano dalla famiglia e dagli amici; anni in cui eravamo soltanto noi, qualche ragazzo della crew e chiunque incontrassimo per strada. Arriva un momento in cui o dai veramente di matto, o torni a casa per un po' e ricominci a fare ciò che facevi prima che succedesse tutto quanto. Sono convinto che abbiamo attraversato dei cicli, del tipo prima spassarsela alla grande, poi sbattersi fino alla morte e poi un divertirsi più ovattato, con tutte quelle feste annoiate piene di vibrazioni un po' cupe. A quanto pare le cose vanno sempre secondo questo ciclo, quindi nel tour d'aprile [di ABSOLUTION] tutto s'è fatto più cupo. Ti ritrovi a sbatterti in diverse situazioni dove bevi un goccio, non badi a te stesso, ridi a quella battuta e via dicendo. Pensi: "Sono fottuto, ma chi se ne frega, è tutto abbastanza cool”. Ma quando il ciclo si è rimesso in moto per la seconda volta abbiamo esclamato: "Oddio, stiamo per rotolare giù di nuovo, bisogna tornare a casa e non prenotare più nessun tour per un bel pezzo". Non ha niente a che fare con la musica o con i rapporti tra di noi, è solo la strada in generale. Tre album quasi sempre fianco a fianco. GLEN ROWE Bill, il papà di Dom, era uno che rideva sempre. È questo il ricordo che ho di lui: uno che rideva sempre per ogni cosa buffa, uno che era facile far ridere. Ti faceva sentire bene con te stesso. Rideva sempre alle tue battute, o per qualcosa che trovavi divertente. Si parlava della possibilità che la band non andasse avanti? [Dom] non si è preso una pausa troppo lunga perché sentiva che la band era il modo di sfuggire alla tristezza per la morte di suo padre. Ma c'è stato un momento, anche se breve, solo un istante, in cui Dom non era convinto di volerlo più fare. Non sapeva cosa l'avrebbe aspettato, nessuno di loro lo sapeva. Il padre di Chris è morto quando lui era ancora molto giovane, quindi era cresciuto con la sua mancanza. I genitori di Matt avevano divorziato quando lui era ancora molto giovane, ma la famiglia di Dom era un nucleo saldo, e quando quest'unione è venuta a mancare credo che ci siano stati un paio di giorni di... non incertezza sulla band, ma incertezza su chi volevano essere e su cosa volevano fare. C'è dunque mai stata una concreta possibilità che la band non andasse avanti? Credo di no. Credo si trattasse di dolore, di puro e semplice shock. Erano in fissa col Reading perché era il primo festival dove avevano campeggiato e se l'erano spassata insieme, ma Glastonbury era il loro festival locale, quello cui erano legati da sempre, e quando sono scesi dal palco erano raggianti. Tutta la crew ha poi detto che è stato qualcosa di assolutamente lugubre, alcuni l'hanno saputo solo dopo un paio di giorni. La morte aveva spazzato via Glastonbury. La ragazza che Dom aveva in quel periodo era magnifica, è venuta apposta dall'America per vederlo; però la sorella di Dominic si trovava in Australia, a bordo di un aereo il cui rientro era previsto due giorni dopo Glastonbury, e


quindi, comunque fosse andata, suo padre sarebbe morto mentre lei era già di ritorno in Inghilterra. Averla lì era impossibile. Dom fu costretto ad andare a prenderla in macchina fino a Heathrow per dirle che il papà era morto. Difficile immaginarsi di peggio, no? E poi, quel Natale, la sorella di Tom ha perso la vita in un incidente d'auto. La band era schiacciata sotto il peso delle tragedie. Dom mi aveva convinto ad andare a fare snowboard insieme a loro, la partenza era prevista per la vigilia di Capodanno, ma siccome era un sacco di tempo che mancavo da casa ho deciso di non andare. Ricordo il messaggio di Tom nel pomeriggio, che diceva: "C'è stato un incidente, Helen non ce l'ha fatta". D'istinto ho creduto che Helen non ce l'avesse fatta a venire in Francia, dove sarebbero andati a sciare, ma poi ho pensato: "Oh mio Dio, non è così, c'è stato un cazzo di incidente stradale e sua sorella è morta". Helen c'era sempre stata da quando la band aveva mosso i primi passi. Era venuta a tutti i concerti in zona e aveva visto la band diventare ciò che sono ora. Hanno istituito la Helen Foundation, sostenendola come potevano, per avvicinare i bambini alle arti. MATT BELLAMY Siamo passati dagli enormi palasport europei di nuovo ai concerti da 200 persone in qualche buco anonimo. All'inizio era una gran figata, ma quando salivamo sul palco e provavamo a fare le nostre solite mosse cadeva tutto a pezzi. Mi sono spaccato la faccia e ho dovuto mettermi i punti al labbro. È il prezzo dello stare troppo comodi sui grandi palchi. Ma era bello essere trattati come un gruppo nuovo, ti dava quella sensazione di essere scoperti daccapo. Siamo partiti dai piccoli locali per finire con quelli da 3mila posti. Non capita a molte band di provare due volte quell'emozione. DOMINIC HOWARD Alcuni dei concerti più piccoli [del 2004] li abbiamo fatti in America. Siamo passati da headliner al Glastonbury ai concerti da 400 persone negli States, ed era come sentirsi di nuovo un gruppo emergente. Una sensazione bella, davvero rinfrescante. Sentivi l'energia dentro il locale. Per noi è stato uno sballo perché eravamo in tour da otto o nove mesi, e tutt'a un tratto era come se fossimo una band nuova di zecca. Credo che siamo in grado di adattarci a qualunque situazione. Non seguivamo la classica scaletta da headliner che andava bene per i palasport, era tutto molto più rock, però ha funzionato lo stesso. È bello quando una band è troppo grande per il locale in cui ti trovi. Gli show, però, erano robaccia. Ho visto qualche filmato di noi alla Wembley Arena e ho pensato: "Cazzo, non siamo niente male", ma poi ho guardato quell'altra roba e si capiva che eravamo a pezzi, stanchi morti. CHRIS WOLSTHENHOLME Per me il peggior concerto è stato quello del V. È stata dura. Avrei voluto non esserci, perché in qualche modo era come se non ci fossi veramente. Era una cosa irritante. Davi per scontato che avresti potuto esibirti ogni sera ed ecco che all'improvviso non puoi, ed ero molto più frastornato di quanto credessi. In quei due concerti ho suonato le tastiere, e all'inizio credevo che sarebbe stata una passeggiata, del tipo: “Ah, questa è roba semplice, si tratta solo di cazzeggiare sul palco e suonare un po' le tastiere". Ma poi ho iniziato a suonare, e allora ho pensato: "Non è semplice per niente". Avevamo quattro miseri giorni per fare le prove, e non c'era verso di saltarlo: il V era un concerto troppo grande. È stato tremendo. Il giorno prima eravamo a un passo dal gettare la spugna. Capitolo nove Matt Bellamy aveva appreso molte dritte leggendo il manuale di sopravvivenza Dare To Prepare, e una di queste era la depurazione dell'acqua. Poiché nell'eventualità di una catastrofe nucleare le scorte di acqua non contaminata saranno ridotte all'osso, il superstite istruito dovrà allestire un impianto di depurazione, ovvero bidoni di plastica in quantità riempiti di pietre, terriccio e pastiglie purificanti con dei fori sul fondo, per filtrare le impurità e ottenere acqua pulita. Sarà anche necessario vivere in una casa con un grande scantinato pieno di armi da fuoco, legumi in scatola e pasta. Se mettete il cibo dentro sacchetti di plastica trasparenti, tenete in cantina una bombola d'azoto da pompare all' interno dei sacchetti e poi sigillateli, così vi dureranno per


una decina d'anni. E poi la cosa più importante: posizione, posizione e ancora posizione. Dato che l'America era il bersaglio più probabile per un attacco terroristico, e anche Spagna e Regno Unito non scherzavano, bisognava andarsene da un'altra parte, in un luogo sperduto e isolato del continente europeo. Matt si era già mosso per la sua futura salvezza nel giugno 2005 trasferendosi da Londra in Italia, dove aveva comprato una villa per lui e Gaia nei pressi di Moltrasio80, a qualche chilometro da Milano. Adorava quella zona. Negli ultimi due anni, da quando Gaia era tornata in Italia per il dottorato in un ospedale dopo aver terminato il suo corso di psicologia a Londra, aveva trascorso un sacco di tempo in quel luogo estremamente suggestivo, con le ville incastonate fra i monti che dominano il lago di Como e George Clooney regolarmente avvistato a bordo del suo enorme e ben difeso yacht. La villa di Matt era stata un tempo di proprietà del compositore Vincenzo Bellini, Frank Sinatra vi trascorreva le vacanze e, come a svelare l'origine di una qualche simmetria per i Muse, Winston Churchill la usava come ritiro quando voleva dare un taglio allo stress e alle tensioni della Seconda Guerra Mondiale e dipingere qualche paesaggio. Matt entrò nella vita italiana superando per prima cosa la sua immane aracnofobia: la zona brulicava di ragni e ogni sera, quando andava a dormire, Matt trovava nel letto millepiedi lunghi quanto una mano. Imparò la lingua e lasciò che Gaia lo aiutasse a sviluppare uno stile più chic, un nuovo look a base di camicie nere e bretelle bianche. Poi venne il momento di pensare alla musica. La villa aveva un ampio scantinato simile a una grotta che Matt iniziò a convertire in studio di registrazione per la band; ma nonostante i muratori gli avessero promesso che sarebbe stato pronto entro settembre, per cominciare a incidere il quarto album in autunno, non fu purtroppo ultimato in tempo. La band fu dunque costretta a cercarsi un altro scenario ugualmente isolato. Un luogo distante dall'influenza di amici o colleghi, lontano quel tanto che bastava per allargare i propri orizzonti musicali verso qualunque direzione si sentissero attratti, dove re-inventare il loro modo di suonare in tre e, argomento decisivo, non finire bombardati allo scoppio della Terza Guerra Mondiale. Chàteau Miraval, in Provenza, era un castello del Diciassettesimo secolo tagliato fuori dal mondo, tra pendii erbosi ed ettari di rigoglioso vigneto. In origine un ritiro per monaci, sembra che nel Dodicesimo secolo fosse un nascondiglio di Cavalieri Templari (e si dice che sia tutt'ora infestato dai loro spettri) e, scavando ancor più in profondità nel mitico passato di questa terra, dicono che Maria Maddalena vi avesse trovato rifugio dopo la morte di Gesù. Posseduto per secoli dalla famiglia Orsini, finì col diventare uno dei vigneti più rinomati della regione, producendo vino di qualità dal 1850 ad oggi. Il pianista jazz Jacques Loussier vi aveva allestito uno studio di registrazione da cui, durante gli anni Settanta e Ottanta, erano passati artisti come Sting, Cranberries e Sade. Era anche il luogo in cui i Pink Floyd registrarono quel debordante capolavoro di desolazione e isolamento che risponde al nome di THE WALL, e forse l'oscurità che avvolge quel disco (e il successivo e immediato scioglimento della band) si propagarono allo studio stesso, visto che nel 2005 era ormai in disuso da qualche anno. In quel periodo lo chàteau era soprattutto un'impresa vinicola di grande successo. Ma per i Muse era il posto ideale. Matt andò a controllare di persona, e una volta convinti Dom e Chris che era il luogo perfetto per comporre e incidere, la band dovette convincere a sua volta i proprietari del casolare a riaprire lo studio. Quelli acconsentirono, seppur malvolentieri (il padrone, dai modi alquanto petulanti, interrompeva di continuo la band durante le registrazioni, facendola sentire costantemente un'ospite sgradita), e a settembre i Muse vi si trasferirono per un paio di mesi, carichi di idee ed entusiasmo sulle nuove potenziali direzioni da imboccare. La regola da rispettare era questa: se l'inizio di una canzone ricordava qualcosa già fatto in passato, quel pezzo andava scartato per provare nuove soluzioni. Gli straordinari versi che Matt stava scrivendo per Take A Bow (titolo di lavorazione: Hex) li spingevano verso vette musicali altrettanto straordinarie, e accantonati i limiti di tempo e i dubbi sulla loro capacità di riprodurre il nuovo materiale dal vivo, i Muse si sentivano totalmente privi di vincoli e liberi di riplasmare la band a loro piacimento, suonando per se stessi come nel periodo prima di SHOWBIZ. Non c'era soluzione troppo sciocca o pacchiana, non avevano paura di percorrere ogni sentiero disponibile. Mentre realizzavano i


demo delle loro prove nella live room in vista di registrazioni più formali non appena le canzoni avessero preso forma (per passare in modo omogeneo da una fase all'altra, o almeno questo era il piano), era tutto un fibrillare di idee per un album provvisoriamente intitolato EQUILIBRIUM. Registrarono un quantitativo enorme di materiale senza portare mai niente a termine. Per una canzone ricrearono un'intera "banda militare che marcia ubriaca". I pezzi da otto minuti erano la norma, perché le nuove direzioni erano tante ma loro non avevano la minima idea di quali fossero quelle giuste, o di quale strada imboccare per uscirsene con un album coeso. Influenzati dai baldanzosi arpeggi della musica popolare meridionale, specie quella siciliana e napoletana, che riconobbero come fonti originali delle melodie mariachi messicane, coinvolsero un fumatore incallito nonché trombettista di nome Franco che avevano conosciuto in un bar per fargli suonare lo squillo di tromba introduttivo in Knights Of Cydonia, un pezzo che si stava trasformando in una bestia megalitica da quando Matt aveva voluto iniettarvi le chitarre space-surf alla Joe Meek presenti nell'hit di suo padre Telstar. Come tributo al più grande successo musicale paterno, Matt cercò di fare in modo che la parte iniziale di chitarra suonasse esattamente come la clavioline di Telstar, una tastiera portatile monofonica a batteria ampiamente démodé. Il cantante inseguì le atmosfere da selvaggio West delle colonne sonore dei film con Clint Eastwood, che erano tra gli ascolti fissi della band in studio. Stavano caricando quel brano con tanta di quella roba (trombe, esplosioni, cavalli al galoppo, parti al vocoder, enormi outro metal) che rischiavano di raggiungere i venti minuti di durata. Erano in corso grandi esperimenti come le "giornate di laboratorio": prima delle session, la band tirava fuori la strumentazione vintage comprata su eBay e passava giorni a studiarsi i manuali per farla funzionare in modi alternativi e interessanti. Uno di questi strumenti era il Buchla 200e, un sintetizzatore insidiosamente difficile da suonare, progettato dal pioniere dei synth Don Buchla negli anni Settanta. Per far funzionare le sue creazioni (ribattezzate con nomi come "La Scienza Dell'Incertezza") Buchla indirizzava la tensione elettrica seguendo tracciati insoliti. Matt impiegò una settimana per capirne lo schema ma perseverò, e il Buchla 200e sarà il primo rumore di BLACK HOLES AND REVELATIONS a raggiungere le orecchie dell'ascoltatore. Dopo qualche settimana di pazzia musicale, vini pregiati ed esplorazione dei loro parametri di band, i Muse diedero un'occhiata al materiale registrato e semplicemente non lo capirono. Era sconnesso e bizzarro: frammenti di jazz classico fusi con motivetti alla James Bond, interludi di pianoforte da dieci minuti come nel punto saliente di Butterflies And Hurricanes protratti all'infinito o dissonanti impasti rock ai margini estremi dell'elettronica contemporanea. Era più il risultato di una band che cercava di espandere i propri orizzonti che non di registrare canzoni complete. Non aveva il benché minimo senso o coesione, niente aderiva a niente. Per un attimo pensarono di farne un doppio o addirittura triplo album, il primo disco con un decentramento della musica rock nei territori del progressive jazz, il terzo con dentro tutti gli strani esperimenti di synth e, infilato in mezzo, un disco rock vero e proprio. E poi certe canzoni erano rimaste troppo impantanate nelle loro stesse influenze, come un brano dal titolo provvisorio di Supermassive Black Hole che si stava rivelando la canzone più difficile da azzeccare della loro carriera. Avevano inserito le sonorità più disparate, dai riff dei RATM al rock belga di Deus, Millionaire e Soulwax fino a schegge di Kanye West, funk alla Prince e brandelli di elettronica: il risultato finale non aveva la minima coesione. Era il loro tentativo di fondere il rock belga con James Brown o Solomon Burke, ma avevano bisogno di staccarsene, awicinarglisi da una direzione più vibrante e urban. I Muse erano intrappolati tra il lato più leggero della loro natura pop, che stava sfornando alcune tra le melodie più irresistibili che avessero mai composto, e quella tendenza a crogiolarsi nei momenti più cerebrali e di ampio respiro capaci di trasformare l'album in un'opera prog jazz di quattro lunghe canzoni stirate oltre i novanta minuti. Un po' come l'ultimo lavoro dei Mars Volta, insomma. Erano nella morsa del travagliato quarto album, quello "meno che leggendario". Inoltre, l'isolamento di Chàteau Miraval li stava facendo uscire di testa. Senza campo per il cellulare, Internet, Tv e neppure un sms, rimasero completamente tagliati fuori dalla società per due mesi. La parabola satellitare che avevano preso per ordinare altri strumenti su eBay e controllare la posta elettronica


era di una lentezza ridicola, praticamente inservibile, e fino all'arrivo di Rick Costey, qualche settimana dopo l'inizio delle prove per supervisionare le registrazioni81, il terzetto fu letteralmente abbandonato a se stesso. All'inizio trattarono quel luogo come un parco giochi: andarono a caccia di fantasmi nelle catacombe del castello, confrontarono i pipistrelli morti che trovavano sparsi in giro con i volti di Satana e torturarono la fauna locale. Giocarono a badminton con calabroni vivi al posto del volano, e quando trovarono una mantide religiosa nel sottobosco vicino allo studio la legarono a un razzo con fotocamera per scattare foto dall'alto, di quelli che si costruiscono con il kit, e la lanciarono in aria filmando l'intera procedura82. Nuotarono nella piscina del castello, diedero una mano a fare il vino e inaugurarono un nuovo progetto parallelo in cui suonavano i loro successi in chiave jazz per divertimento personale. Ma col passare delle settimane le vibrazioni si fecero più cupe e nel loro piccolo mondo isolato cominciò a insinuarsi la paura. Chris andava a correre lungo il sentiero d'accesso che tagliava il vigneto, ma dopo un'ora avrebbe già dovuto trovarsi di fronte al cancello, dato che il sentiero era lungo otto chilometri, e questa cosa lo faceva sentire in trappola, alienato, come un Forrest Gump precipitato sul set di Shining. E le tematiche nei testi di Matt rispecchiavano una forma mentis molto più chiusa, frutto dell'introspezione e della lettura di Crossing The Rubicon di Michael C. Ruppert, ex detective della narcotici dell'LAPD che si era messo a sviscerare cospirazioni governative. Il libro, il cui titolo significa "oltrepassare il punto di non ritorno", espressione idiomatica che risale al 49 a.C. (anno in cui Giulio Cesare oltrepassò il fiume Rubicone come esplicita dichiarazione di guerra contro Roma), analizza in dettaglio il crescente bisogno dell'America di scatenare una guerra per far fronte a una crisi economica senza precedenti, provocata dall'impoverimento delle riserve petrolifere globali. L'era del petrolio sta arrivando alla fine per l'esaurimento dei pozzi petroliferi, e l'economia statunitense, che dipende enormemente dalla sua prosecuzione, messa in ginocchio dalla crisi sarà costretta a strategie di guerra, controllo demografico e repressione sempre più inconcepibili e spietate, mentre gli ingranaggi della civiltà industriale si arrestano stridendo. Ma Ruppert non si ferma qui. Il libro sostiene che, a seguito del crollo della produzione industriale, l'economia americana si rivolgerà ai traffici sottobanco di armi e droga provenienti dalle piantagioni di oppio e coca gestite dai signori della droga finanziati a loro volta dalla CIA, con Wall Street ridotta a un grande impianto di riciclaggio per i proventi dei traffici illeciti. Si parla di uno scontro su larga scala, disperato e fuori controllo, per le ultime scorte di petrolio rimaste, di rappresaglie nucleari, fame, malattie e morte. Insomma, la fine dell'umanità. Erano questi gli argomenti che Matt tirava fuori ogni sera a cena allo Chàteau Miraval. La guerra in Iraq, chi c'era veramente dietro l'11/9, l'inevitabilità di una Terza Guerra Mondiale alle porte, l'insinuarsi strisciante della legge marziale, un unico governo globale manovrato dalla CIA, lavaggi del cervello, la sua visione di un futuro alla Mad Max dove il mondo è ridotto a tribù in lotta per le risorse più basilari. Si lasciarono crescere la barba, fecero scorte di legna da ardere, si abbandonarono a paura e paranoia, pensarono di comprarsi del bestiame per poter vivere dei frutti della terra quando fosse giunta la fine del mondo, per poi chiedersi se non fosse già successo e magari le notizie non li avevano ancora raggiunti, isolati com'erano. Matt cominciò a preoccuparsi per la sua salute mentale, perché la paranoia di cui era vittima combaciava con i sintomi degli schizofrenici con cui lavorava la sua ragazza in ospedale. Le tematiche dei suoi testi si chiusero sempre più in se stesse, cariche della rabbia di chi è impotente di fronte a tali manipolazioni. Immaginò un album su un'umanità che si risveglia e strappa il suo destino dalle mani dei suoi burattinai nascosti nell'ombra. Quelle canzoni sarebbero state rivelazioni personali e politiche, trascinate fuori dai buchi più neri della sua fantasia. Ma se si fossero trattenuti ancora al Miraval avrebbero dato il via a un disco progressive rock estremamente buio, lungo e sfiancante. No, per terminare BLACK HOLES AND REVELATIONS i Muse dovevano ricongiungersi con la razza umana. * * * A New York City la band tornò in vita. Rinvigoriti dalla vicinanza dei corpi e


dal trambusto di una civiltà per il momento ancora non estinta, di giorno lavoravano a ritmo serrato insieme a Costey (residente a NYC) sotto gli ampi soffitti in legno degli Avatar Studios, nel centro di Manhattan (dov'erano passati tutti, da David Bowie agli U2, da Iggy Pop a Celine Dion, da Britney Spears ai The Last Shadow Puppets) oppure agli Electric Lady Studios nel Greenwich Village, aperti da Jimi Hendrix nel 1970 e decorati come un'astronave psichedelica, che alla band calzavano come un guanto. E la notte ballavano. Matt conosceva una dj che suonava nei bar del Lower East Side due sere alla settimana e che li guidò nella scena dei club in centro, vicino a dove alloggiavano. Insegnò a Matt i rudimenti della sua arte, e anche se concetti come "crossfading" e "scratch" gli risultavano troppo difficili, lui ci si buttò con una passione che aveva del torbido, suonando pezzi di Depeche Mode, Beck ed Eurythmics mentre fumava con nonchalance. Le ragazze venivano a dirgli quanto gli era piaciuto il suo set, e di fronte al pubblico che andava in delirio per musica di altra gente rispondeva con una beffarda alzata di spalle. Quella che i Muse trovarono a Manhattan era una società viva e danzante, lontana anni luce da una civiltà in crisi, e quella positività contagiò anche loro. Con una colonna sonora da studio che saltellava dall'R'n'B all'elettropop, e personaggi come David Bowie che sbucavano fuori mentre loro registravano Take A Bow per fare un saluto a Costey ("L'ultima volta che sono passato da queste parti stavo registrando qualcosa insieme a John Lennon", disse l'esile Duca Bianco a degli stupefatti Muse), alla band pareva impossibile rabbuiarsi in quella città frenetica con migliaia di persone. Il groove sulle piste da ballo rischiarò all'istante le vibrazioni della loro musica e gli ottusi elettroesperimenti iniziati al Miraval acquistarono all'improvviso un senso. Aggiungere il groove del Lower East Side a Supermassive Black Hole sembrò galvanizzarla di botto. Al posto di un'accozzaglia sconnessa di idee e stili era apparso uno dei pezzi elettro-rock più grandiosi e "meno Muse" che i Muse avessero mai creato. Nei club di New York notarono la fusione dell'elettronica con la guitar music nei lavori di gruppi americani che strizzavano l'occhio alla pista da ballo come The Rapture e !!!, e furono ben felici di lasciarsi influenzare, di (come si suol dire) prendere la scia. La band si tuffò avidamente nelle acque mosse tra la dance e il rock, e lì trovò delle perle. Tra ottobre e fine dicembre 2005,83 l'album acquistò una notevole compattezza grazie a un approccio più fresco, mirato e risolutivo. Se ne erano andati dal Miraval con i take di prova di tutte le diciotto o venti canzoni che avevano scritto, ma soltanto con due tracce complete, Take A Bow e Invincible. Molti take furono ri-registrati tra i vapori e l'essenza di New York, e per quando tornarono a casa, a Natale, il grosso del disco era terminato. Erano così soddisfatti di come procedevano i lavori che si assegnarono la più spavalda delle scadenze prenotandosi come headliner sul main stage del Carling Weekend 2006, la posizione che sognavano da così tanti anni. Un anno ricco di successi e all'insegna dell'ottimismo come il 2005 non poteva tuttavia finire senza che la tragedia sfiorasse ancora le loro vite. Nel giorno di Santo Stefano, mentre tornava a casa in macchina dalle festività insieme al suo ragazzo e al fratello Tom, Helen Kirk (attrice e amica di vecchia data della band) fu colta di sorpresa da un'auto che la sorpassava e sbandò nell'altra corsia, dove sopraggiungeva una Volkswagen. Tom e il ragazzo di Helen ne uscirono vivi. Helen, invece, rimase uccisa all'età di ventiquattro anni. I festeggiamenti che di solito accompagnavano il Capodanno e il compleanno di Ava, la figlia di Chris, furono adombrati dal funerale di Helen, a cui partecipò tutta la band. Per onorarla, diventarono patroni della Helen Foundation, un'associazione di beneficienza per aspiranti attori e artisti che la band sostenne organizzando concorsi. Le dedicarono l'album di prossima uscita nella nota di copertina: "In memoria di Helen Kirk 1981-2005". * * * Nelle prime quattro o cinque settimane del 2006, i Muse terminarono il loro quarto album presso gli studi Officine Meccaniche di Milano, alloggiando nella villa di Matt. Lo studio negli scantinati non era ancora pronto e non lo sarebbe stato fino a settembre, secondo i muratori che se la prendevano visibilmente comoda e che Matt aveva spesso sorpreso a poltire in piscina le volte in cui era passato di lì per verificare i loro progressi. Finito di incidere alcune parti vocali in Italia, terminarono il disco con un senso di conquista mai provato prima. Per gli album precedenti erano usciti dallo studio con una sensazione di


compromesso, ma stavolta, dopo un tour de force di registrazioni mai così intenso e un'esame di coscienza musicale mai così vasto e approfondito, sentivano di aver fatto centro. Non furono tuttavia sicuri che le varie parti del disco fossero ben amalgamate finché non ultimarono il mixaggio ai Townhouse Studios di Londra: solo ascoltando il tutto nel contesto di un album completo rimasero sbalorditi di come avessero allargato i propri confini e dell'enorme varietà di stili musicali che padroneggiavano. Persino i critici più severi loro stessi - erano ammutoliti: avevano realizzato un album grandioso. Un album come BLACK HOLES AND REVELATIONS non era soltanto grande, ma realmente universale. Se i sottotesti sociopolitici di ABSOLUTION erano per certi versi sepolti dalle bordate declamatorie semi-religiose di Matt e dalle sue incertezze personali riguardo il futuro, qui, avvolta da spumeggianti melodie di rock elettronico, andava in scena una dissezione più consistente e diretta dei mali del mondo e delle paure dell'uomo comune. Matt, nella parte di colui che sta in fondo alla piramide del controllo globale, guardava in alto verso quella minoranza di folli ed egoisti che decidono la sorte di una maggioranza arrabbiata e indifesa, e ruggiva fino a prosciugarsi quei polmoni così simili a quelli di una donna. Scoppiò un dibattito su quale doveva essere il pezzo d'apertura di BLACK HOLES AND REVELATIONS. C'era chi credeva che iniziare con Knigbts Of Cydonia sarebbe stata la dichiarazione d'intenti più audace, oltre che il modo più stupefacente per introdurre l'ascoltatore al sound tutto nuovo e gigantesco dei Muse. Altri lo vedevano come un suicidio professionale. La band optò alla fine per Take A Bow, pezzo di dimensioni altrettanto gargantuesche (un'unica grande corsa al crescendo senza una strofa o un ritornello quantificabili, ispirata alla musica corale di Palestrina) ma più breve di due minuti buoni e che gettava più di un ponte verso il suo predecessore. Era stata scritta in coda alle session di ABSOLUTION e ne condivideva il feeling apocalittico, con quei riff di chitarra martellanti come un esercito di Godzilla in marcia e Matt che urlava "You will burn in Hell for your sins" ("Brucerete all'inferno per i vostri peccati"). Più che un lamento verso una qualche divinità inesistente e inconcludente come in Apocalypse Please, stavolta era una dannazione politica. Il dito era puntato contro politici corrotti e leader mondiali che mentivano ai loro popoli, abusavano del loro potere e prendevano decisioni per le quali non avrebbero mai pagato le conseguenze: il castigo sarebbe giunto, in questa vita o nella prossima. Con quelle tematiche rivoluzionarie e il crescendo elettronico nell'intro, prima della poderosa irruzione delle chitarre, era il ponte perfetto tra lo sfarzo e l'austerità di ABSOLUTION e i fronzoli elettronici a sfondo politico dei nuovi Muse. Occasionalmente paragonata a Philip Glass per la sua densa atmosfera cinematografica, TakeA Bow era l'exploit più clamoroso finora realizzato dalla band. Un pezzo classico per pianoforte che, tra successive sezioni techno e valzer metal, finiva per simboleggiare l'evoluzione stessa della musica. I seguaci della band avranno pensato a un altro attacco, più cristallino rispetto a Ruled By Secrecy, ai danni della Commissione Trilaterale, e infatti Matt aveva scoperto una congrega di burattinai ancora più antica su cui prendere la mira: il gruppo Bilderberg, che sin dal 1954 radunava 130 tra gli individui più potenti del mondo, compresi banchieri, esperti della Difesa, baroni della stampa, primi Ministri, reali e finanzieri internazionali. Lentamente, durante la canzone, Matt metteva a nudo gli uomini che hanno veramente il controllo sulle nostre vite, strappando il velo di quella demonocrazia nascosta che, secondo lui, confinava col fascismo. Per fortuna il brano finiva in chiave di Si, la stessa di Starlight, e per qualche canzone Matt era libero dagli eccessi politici, libero di abbandonarsi a quell'altra sua passione musicale, cioè le canzoni d'amore con una spalmata di vago immaginario fantascientifico. Starlight parla di quando sei lontano da casa e ti manca la persona che ami, solo che era narrata dalla prospettiva di un astronauta sparato in missione nell'ignoto, forse per il resto della sua vita, con l'obiettivo di scoprire qualcosa di rivelatorio sulla natura dei buchi neri (il ritornello includeva il titolo dell'album). Il sottotesto era ovvio: se perdi di vista la tua casa allora perdi di vista chi sei veramente. Ma per l'ascoltatore casuale (e ce n'erano a milioni) era un concetto che rimpiccioliva all'ombra di una melodia raggiante. Sin dal ronzio iniziale del basso, da quella batteria fatta su misura per far battere a tempo le mani di un intero palasport


e quello scintillante pianoforte siderale84, era in parte gli Strokes di 12:51, in parte i synth spaziali degli Abba, in parte i rumori di un'astronave in panne e un successo pop da manuale al cento per cento. Una canzone che ad ogni "I just wanted to hold you in my arms" ("Volevo solo stringerti tra le mie braccia") ti faceva sentire come sparato nell'etere alla velocità della luce. Originariamente scritta in una sala prove verso la fine del 2004, fu dapprima registrata come pezzo lento e smielato al Miraval, ma per fortuna le piste da ballo di New York convinsero la band a darle una verve glam più spinta, e da allora si è ritagliata un angolo nel cuore del popolo indie. E questo valeva anche per Supermassive Black Hole, un pezzo tra le belve più subdole da mettere a punto ma il pezzo che, una volta azzeccato, poteva scalare le classifiche. Quella specie di amalgama R'n'B-rock di Deus, Beck, Justin Timberlake e Franz Ferdinand, che avevano tentato già parecchie volte ma non erano mai riusciti a far funzionare, stavolta aveva fatto magicamente click. Con la metafora dell'enorme buco nero lasciato dal Big Bang al centro dell'universo dentro al quale tutto sarà un giorno risucchiato (che qui rappresenta una relazione distruttiva dalla quale non puoi scappare), questa canzone aveva l'incedere di un esercito di androidi, il geniale e raggelante falsetto pop di un Prince non-morto e il tiro funk metallizzato di una statua di Michael Jackson alta dieci metri che prende vita. Nella forma che aveva al Miraval sembrava un esperimento che non erano sicuri di voler inserire nell'album. Nella sua forma compiuta era uno dei grandi favoriti per diventare il primo singolo. Map Of The Problematique era alquanto problematica, uno di quei pezzi elettronici nati giocando con sintetizzatori e pattern ritmici di tastiera che al Miraval non funzionavano ma nell'esplosione dance di Manhattan si rivelarono la carta vincente. I Muse la consideravano la loro ode alla scena rave, perché la parte di piano è pura acid house nonostante il pezzo assomigli al gothic elettronico fine anni Ottanta dei Depeche Mode o alla pionieristica opera indietechno dei New Order, più che a un disco dance in senso stretto. Il motore dell'album era nel titolo: questo è un disco ottimista, che ci esorta ad affrontare i problemi del mondo e a lottare per non farci mettere i piedi in testa, proprio come Butterflies And Hurricanes prima di lui. Si riferisce a uno studio intitolato I limiti della crescita commissionato dal gruppo del MIT/Club di Roma nel 1972, che traccia una "mappa dei problemi" per mettere in rilievo quelli che hanno maggior probabilità di verificarsi in futuro come risultato di una popolazione in continua crescita e di risorse naturali in progressivo calo (si prevede che tutto sarà stato sfruttato entro il 2070,85), e suggerisce alcuni metodi per modificare tale risultato. Detto ciò, il titolo sembra un totem teoretico che ha ben poco in comune con il testo, dove troviamo un Bellamy smarrito in una tempesta di desolazione e sconforto scatenata dalla solitudine, a meno che non si tratti di un esponente della razza umana che lotta per sopravvivere in balia del panico e della paura ("fear and panic"). I fan in Rete hanno anche ipotizzato che "fear and panic in the air" può riferirsi alle lune di Marte, Phobos e Deimos, gli dèi greci della paura e del panico, per l'appunto. Non a caso la canzone verrà inserita nel trailer della pellicola del 2006 I figli degli uomini, che narra di una società sprofondata nella violenza e nella disperazione dall'improvvisa incapacità delle donne di concepire bambini. Era solo una delle possibili e inattese catastrofi che forse Matt aveva previsto per tutti noi. Per ammissione del cantante, l'accoppiata centrale Soldiers Poem e Invincible rappresentava il lato negativo e positivo della stessa canzone, il cuore dell'album. L'una era sul perdere la speranza, l'altra sul ritrovarla in se stessi. Alla sua nascita, Soldiers Poem era destinata a comparire su ABSOLUTION in veste molto più epica e pesante, ma poi trasse beneficio dall'isolamento e dalla paranoia dello Chàteau Miraval. Ispirandosi alla (I Can’t Help) Falling In Love With You di Elvis Presley, Matt imbracciava una vecchia chitarra acustica, Chris un contrabbasso e Dom accarezzava le pelli di una batteria vecchia e malconcia per un pezzo che, con un dolce stile arpeggiato, riportava alla memoria sia le atmosfere della musica swing anni Quaranta-Cinquanta che le melodie brevi e lussureggianti dei primi Beach Boys. Con un occhio su Blackout, il nuovo approccio stilistico dei Muse, insieme agli elementi elettronici di Starlight, Supermassive e Map Of The Problematique, indirizzava l'ascoltatore verso una band del tutto nuova e sperimentale. Ma il titolo era ingannevole: non parlava specificamente della guerra in Iraq, come molti pensarono all'inizio, ma


esprimeva solidarietà a tutti quegli uomini convinti di combattere per una buona causa quando in realtà non sono altro che inconsapevoli pedine di una guerra ingiusta, dovunque essa sia. Scritta dal punto di vista di un soldato chiuso in carcere e abbandonato da una nazione in disfacimento, è un messaggio di condanna per tutti quelli che ce l'hanno mandato. Invincible, il suo contraltare mozzafiato, era nata paradossalmente nella più banale delle situazioni. Confinata in uno squallido motel senza Tv, in una qualche cittadina americana soffocata dalla neve nella zona dei Grandi Laghi durante il Campus Invasion tour nel 2005, la band decise di concedersi un giorno di pesca e noleggiò una barca, solo per ritrovarsi sotto il diluvio mentre stavano ancora tirando su i pesci. Debilitato dall'esposizione prolungata al freddo e dalla nausea, Matt scrisse le felici note dell'intro per tirarsi un po' su di morale durante la noiosa convalescenza nel motel. Il brano fu poi registrato in uno scatto d'orgoglio al Miraval il giorno in cui la band era frustrata a morte perché non erano riusciti a incidere Take A Bow con successo. Invincible venne fuori quasi del tutto in presa diretta, già compiuta e sfrigolante di energia. Per la band era pur sempre uno dei pezzi più deboli della session, almeno finché Matt non partì con l'assolo, uno dei virtuosismi più incredibili e intricati mai registrati fuori dagli esibizionismi dell'hair metal, come se a suonarlo fosse stato un dio della chitarra alieno con cinque braccia. Con l'aggiunta di un esercito di tamburini in avvicinamento (prodotto marciando con un rullante verso una finestra aperta dov'era posizionato un microfono) e delle sontuose atmosfere chitarristiche di Matt86, il pezzo divenne uno dei punti salienti dell'album, una canzone d'amore simile a un brusco risveglio, che prendeva il tema militare del pezzo precedente trasformandolo in un brano d'immenso conforto e speranza. I testi attraversarono varie fasi. Invincible era nata come canzone molto più politica, un'aizza-rivolte su larga scala che invitava a bruciare il Parlamento, ma poi Bellamy aveva cestinato il testo rendendola un'ingenua canzone d'amore. Finì per essere una via di mezzo: un pezzo consapevole delle future battaglie e dei cambiamenti fondamentali che bisognava operare nella società, ma anche del fatto che ad attuarli doveva essere un gruppo piuttosto che i singoli individui. IL piromane di Parlamenti che era in Matt doveva però sbucare fuori da qualche parte, e infatti eccolo lì, in Assassin, che ruggisce con una molotov in mano gridando: "The time has come for you / To shoot your leader's down / And join forces underground" ("È giunta l'ora / di abbattere i vostri leader / e di unire le forze sottoterra"). Matt disse che si trattava di uno studio sulla figura di un "terrorista" spinto al limite e pronto a sparare al Presidente (anche se non gli piaceva usare questo termine in relazione al brano, secondo lui il protagonista non rientrava nella "classica" accezione del terrorista), ma la rabbia e la passione del brano lasciano intuire una salda convinzione personale nella rivolta. Quando Matt parlava di trovare la forza d'affrontare gli imminenti problemi del mondo, l'invito che ci rivolgeva Assassin a "distruggere la demonocrazia" sembrava l'istruzione più concisa sul modo migliore di salvare il mondo. E poi era anche il pezzo metal più diretto di BLACK HOLES AND REVELATIONS: un rigurgito alla Deftones con influenze del duo noise underground statunitense Lightning Bolt, che teneva la band inchiodata alle sue allucinate radici hard rock mentre tutt'intorno era un dilagare di pazzia elettro-flamenco-funk. Il funk newyorkese farà di nuovo capolino in Exo-Politics. Composta quasi del tutto durante il Campus Invasion tour, quando i Muse entrarono in studio il pezzo era in gran parte finito e bisognava solo inserire le strane parti sperimentali (tipo registrare le percussioni nella tromba dell'ascensore e far scivolare sulla traccia d'accompagnamento degli strambi rumori da navicella spaziale). Il significato della canzone, del resto, era cambiato parecchio dalla versione praticamente innocua eseguita nel 2005 in America. In parte a causa delle letture sull'installazione HAARP, Matt s'era imbattuto nella teoria secondo cui era in cantiere un'enorme cospirazione mediatica e governativa. Nell'arco di una decina d'anni, diceva la teoria, film e mezzi d'informazione avrebbero reso il pubblico progressivamente più consapevole della possibile esistenza di vita aliena nella nostra galassia, al punto che coloro che si occupavano di esopolitica (nuova branca di studi che esamina le connotazioni sociopolitiche di ogni contatto passato, presente o futuro con gli extraterrestri87) avrebbero presto chiesto l'introduzione nello spazio di


armamentario ad alto potenziale casomai la Terra dovesse trovarsi sotto l'attacco di invasori alieni (che nel brano vengono chiamati "Zetas"). Secondo i teorici cospirazionisti, questi programmi militari a budget stratosferico sull'onda delle Guerre Stellari di Ronald Reagan sarebbero una semplice copertura per puntare altre armi praticamente non rilevabili contro nemici ben più terrestri, poiché le guerre del futuro si combatteranno molto probabilmente nello spazio. Oppure si potevano usare i satelliti per irradiare verso la Terra frequenze per il controllo mentale. Roba da far girare la testa, ma BLACK HOLES aveva degli assi ancora più devastanti nella sua manica. Le ultime tre canzoni del disco possono essere viste come un epico trittico in chiave spaghetti western. City OfDelusion rivisitava il tema della rivoluzione violenta di Assassin ma stavolta con una raffica di chitarre flamenco, archi dal sapore arabo e intermezzi con trombe mariachi, dove Matt era una specie di Che Guevara del Selvaggio West. Scritta durante un soundcheck in Giappone tre anni prima, era la canzone più vecchia di BLACK HOLES e per poco rischiò di non finire nell'album, ma poi, in Italia, Matt conobbe un arrangiatore d'archi che era un aficionado di musica araba e gli chiese di inventarsi un arrangiamento. Quell'impronta dal retrogusto turco valeva da sola tutta la canzone. Come fumoso intermezzo tra City Of Delusion e la zampata prog finale c'era Hoodoo, un'intangibile zaffata di chitarra spanish e torridi archi che montava in un tumulto di violini, pianoforte e grandeur sinfonica, prima di sprofondare nuovamente nella quiete oziosa del jazz. Un ricamo superfluo, praticamente insignificante, ma con un ruolo essenziale all'interno dell'album: dopo tutte quelle sinistre teorie e quei furenti sermoni politici era un diversivo, un attimo di respiro. Di cui avremmo avuto maledettamente bisogno. Il ronzio di un raggio levitante alieno. Lo sbuffare dei cavalli dell'Apocalisse al galoppo. Il suono di una sirena che cresce. Poi un rullo di tamburi finale e un coro in falsetto di angeli, cowboy, marziani o banshee. Ancor prima che la roboante cavalcata in stile "Telstar incontra il Dottor Who" di Knights Of Cydonia decolli veramente, già quella canzone era il loro momento più assurdo, epico, progressive e cinematografico finora raggiunto, non ultimo per il titolo. Mentre cercava di spiegarla Matt illustrò svariati concetti sulle origini del nostro sistema solare, ma in pratica tutto si riduceva all'ipotesi di Sitchin di un legame tra la posizione delle grandi piramidi a Giza e in Nord Africa, che viste dall'alto somigliano a una gigantesca cartina astronomica della Nebulosa di Orione88, con quelle che somigliano molto a delle formazioni piramidali su un'area di Marte nota come Cydonia. A quanto pare, in quella zona, c'era qualcosa che aveva le sembianze di un volto umano e i segni di quelle che potevano essere antiche sacche d'acqua, a riprova del fatto che c'era stata vita su Marte. Nonostante delle sonde spaziali inviate in tempi più recenti avessero dimostrato che quel volto era solo un effetto della luce riflessa sulle rocce, secondo Matt questa storia era un semplice tentativo della NASA di insabbiare la scoperta di antiche civiltà che avevano un tempo costruito degli edifici sulla superficie del pianeta rosso. Strutture che rispecchiavano le piramidi e gli obelischi terrestri rivolti verso il cielo, ai nostri creatori. Aveva sentito dire che un tempo, quando il nostro pianeta era un globo più piccolo destinato a espandersi facendo si che gli oceani riempissero gli spazi tra i continenti89, la Terra e Marte erano equidistanti dal Sole. E Marte, a differenza della Terra, era in grado di sostenere la vita. La canzone s'immaginava dunque un paesaggio fantastico in cui gente armata di pistole laser combatteva una grande guerra finché Venere non era entrata nel sistema solare sotto forma di cometa, risucchiando via tutta l'acqua dal pianeta che, ormai inabitabile, aveva costretto le sue armate a stanziarsi nella vicina Terra. Ovviamente, dopo aver ricamato per diverse ore su questi argomenti con aria impassibile davanti a un giornalista, Matt confidava a un altro che quel titolo era solo uno scherzo e che i Muse facevano musica nello stesso modo in cui i Monty Python facevano i comici. Ma che crediate o meno alla componente nerd fantascientifica e agli elementi fantasy in stile Yes, resta comunque una spettacolare dimostrazione di frivolezza rock. Se la musica riflette il concept da western spaziale, il testo che parla di pazzi al potere è molto più in linea con l'attitudine antigovernativa delle tracce precedenti. Ma quando cala l'ultimo riff, calibrato su misura per causare la massima devastazione nei


moshpit di ogni festival, tutte le scorribande prog vengono sbriciolate dall'outro rock più potente della band, una versione della Bohemian Rapsody in salsa Coverfield. Stando alle parole di Chris, erano quarant'anni di storia del rock ammassati in sei minuti. Il fatto che l'etichetta americana lo ritenne adatto come primo singolo di lancio pareva al tempo stesso folle e ridicolo, ma che avrebbe portato i Muse a sfondare negli States piazzandosi al numero 10 nella classifica del Rock Moderno di «Billboard» rasentava l'incredibile. E quella fu l'inevitabile fine di BLACK HOLES AND REVELATIONS. Senza ulteriori e magniloquenti dichiarazioni da fare. Senza altre politiche sovversive da esplorare. Senza essere più pesante di così. Una rivelazione di per sé, con cui i Muse, maneggiando nuovi generi, arricchirono il proprio sound e partirono a razzo verso nuovi ed eccitanti territori musicali: R'n'B, funk, flamenco, mariachi. Li rese non solo una delle rock band più grandi del Regno Unito, ma anche la più sperimentale e avventurosa, segno inequivocabile di un futuro lungo e prosperoso che non li avrebbe mai visti affondare nel solco di una formula ben collaudata, come molte grandi band che pubblicano sempre lo stesso album fino ad annoiare i fan. Serviva naturalmente una copertina di portata altrettanto epica, motivo per cui richiamarono Storm Thorgerson che stavolta se ne uscì con un concept sui Quattro Cavalieri dell'Apocalisse, seduti intorno a un tavolo tra le lande rosse e desolate di Marte. Scattata in Spagna, a mezzo chilometro dal principale sito in cui la Forza Aerea Spagnola testa le bombe, Storm raffigurò i quattro cavalieri con dei cavalli di colore diverso posti sul tavolo di fronte a loro. Gli animali erano troppo piccoli per essere cavalcati, come a voler sottolineare che i peccati dei cavalieri avevano surclassato le dimensioni dei loro destrieri. Il cavallo pallido simboleggiava la Morte, quello rosso la guerra, quello nero la carestia, il cavallo bianco era quello dell'Anticristo e il vestito di ciascun Cavaliere rappresentava uno dei mali dell'umanità. Per l'occasione Storm immaginò un'Apocalisse molto moderna, in cui i Quattro Cavalieri erano l'incarnazione di Avidità, Paranoia, Intolleranza Religiosa e Narcisismo. Come potete notare, quello che rappresenta l'Avidità ha più cavalli degli altri. Anche le immagini del booklet erano ugualmente significative e cariche di allusioni: una foto dell'installazione HAARP in Alaska, la galassia ellittica M87 nella costellazione della Vergine, che colpì la fantasia di Matt con il suo pennacchio di materia che fuoriesce probabilmente da un buco nero supermassivo, e una scia di condensazione senza alcuna traccia dell'aereo cui appartiene (riferimento al velivolo ipersonico top secret Aurora). Con quella mole di indizi, allusioni e rimandi nascosti, BLACK HOLES AND REVELATIONS era un invito a nozze per le menti più ossessive e indagatrici. E ora, cosa ironica per un album così fitto di segreti, non dovevano far altro che custodirlo gelosamente per qualche mese. In materia di sicurezza, l'uscita di BLACK HOLES AND REVELATIONS fu più blindata di un Fort Knox in chiave rock. Considerato il fatto che i dischi più famosi filtrano puntualmente in Rete, e le case discografiche erano convinte che ciò si ripercuotesse in modo drammatico sulle vendite, furono adottati manovre e trucchetti di ogni genere per limitare soltanto ai recensori l'accesso alla musica delle grandi band prima dell'uscita del disco. I Cd furono infine segnati con degli speciali "watermark" per rintracciarne la comparsa on line e inseriti in custodie di cartone invariabilmente gialle e nere a strisce diagonali (a dare l'idea di un limite invalicabile, come i nastri di sicurezza della polizia) e con avvisi di terribili conseguenze in caso di "soffiate" musicali. Altri sistemi permettevano ai recensori di ascoltare l'album solamente sotto sorveglianza, negli uffici dell'etichetta, o su invito ad ascolti di gruppo (come nel caso di KID A dei Radiohead, durante il quale tornò in auge il gioco dell'impiccato e un giornalista si addormentò). Chiamato a compilare la biografia per la stampa relativa alla campagna di BLACK HOLES AND REVELATIONS, fui uno dei primi ad ascoltare l'album (a eccezione di collaboratori stretti e manager della band), e alla copia che ricevetti nel marzo 2006 (in cui Take A Bow era ancora Hex e Assassin era ancora Demonocracy) era allegato un contratto che ero tenuto a firmare e che sanciva, in pratica, il diritto dei Muse ad asportarmi gli organi interni e darli in pasto alle iene qualora fosse trapelato qualcosa on line. Facendo appello ai più moderni sistemi di sicurezza possibili, il disco fu finalmente distribuito alla stampa


all'interno di una serie di cuffie con lettore MP3 integrato che, premendo un pulsantino, riproducevano soltanto BLACK HOLES e dalle quali non era possibile (secondo loro) scaricare le varie traccie. Ma ormai c'era un esercito di fan smaniosi (e tecnologicamente scafati) quanto i Muse che si sarebbe spinto ovunque pur di ascoltare quelle canzoni il prima possibile. Dieci mesi prima, in occasione della loro prima apparizione pubblica dai tempi del Live 8 nel programma di Radio One One big weekend al Camperdown Park di Dundee, il 13 maggio, i Muse presentarono in anteprima tre pezzi da BLACK HOLES (Starlight, Supermassive Black Hole e Knights Of Cydonia) insieme a una spolverata di vecchi classici, per un totale di sette canzoni. Vedere il pubblico che impazziva per Knights Of Cydonia fu per la band un'esperienza travolgente. Erano soddisfatti che un pezzo così apparentemente indigesto avesse fatto centro al primo ascolto e che il riff finale fosse andato liscio. Fu uno shock quando, qualche settimana dopo, scoprirono che la canzone era saltata fuori in Internet, ma si trattava per forza di cose di una versione non suonata dai Muse. Durante quella performance un fan doveva essersela imparata con raggelante precisione per poi inciderne una sua versione destinata al pubblico ascolto. Anche se, dopo così tanto tempo lontana dalla strada, la band aveva addosso un po' di ruggine, quello al Camperdown Park in compagnia di Razorlight, Bloc Party, Primal Scream e Dirty PrettyThings fu uno show da ricordare per diversi motivi. Primo, perché suonando i nuovi pezzi dal vivo i Muse si resero conto che un terzetto non bastava e introdussero quindi un quarto membro, Morgan Nicholls (aveva già suonato il basso per loro nel 2004, in attesa che il polso di Chris guarisse), a occuparsi delle aggiunte di tastiera e di tutta quella roba da smanettoni in stile Kraftwerk. Quello show vide anche l'arrivo di una batteria in acrilico trasparente nuova di zecca per Dom: dopo Matt che commissionava a Hugh Manson delle chitarre simili a navicelle spaziali (sfoggiò per la prima volta in questo concerto la Kaoss Manson, con il suo touchpad X-Y luminoso), anche Dom voleva la sua strumentazione futuristica, mettendo così fine ai giorni in cui Matt sfasciava allegramente il kit del suo batterista sapendo che tanto ne avrebbe rimediato uno identico strada facendo verso il prossimo concerto. La performance in playback di Supermassive Black Hole a Milano, durante la trasmissione televisiva Quelli che... il calcio, fu con ogni probabilità la rovina di tutte le loro misure di sicurezza. Già dopo qualche giorno circolava in Rete una versione di buona qualità del brano [difficile stabilire se provenisse o meno dal programma Tv], e quindi i responsabili della band non ebbero altra scelta che rendere disponibile al download una versione di qualità perfetta per spiazzare i pirati. Erano consapevoli che quella mossa gli sarebbe costata qualche posizione in classifica, ma i fan della band avevano montato un tale brusio attorno a quel pezzo che l'avrebbero probabilmente scaricato lo stesso per vie illegali. La traccia fu resa dunque accessibile al download (insieme a una suoneria) nello stesso istante del suo primo passaggio radio, e bazzicò i piani bassi delle classifiche (che ora comprendevano anche i download) per sei settimane prima dell'uscita ufficiale il 19 giugno insieme a Crying Shame, uno dei pezzi più richiesti in sede live. Se le schiere di fan l'avevano scaricata già da un pezzo, il bombardamento a tappeto di Supermassive dalle radio nazionali colpì trasversalmente il grande pubblico, ascoltatori diurni forse del tutto ignari che quel groove funk e quei falsetti alla Beck appartenevano a una band che suonava rock pesante. C'era anche un videoclip vagamente disturbante, diretto in aprile a LA da Floria Sigismondi. La band, rimasta colpita da quanto aveva fatto per Marilyn Manson e in Blue Orchid dei White Stripes, le commissionò un video con ballerini fasciati in calzamaglie di lycra integrali che coprivano anche il volto mentre loro, tutti in nero, avrebbero indossato delle maschere con sopra proiettate le loro facce. Spiazzante e macabro, ma a dispetto del passaparola in Rete la canzone schizzò al quarto posto in Inghilterra. Per avvicinarsi alla Top 10, i Muse non si appoggiavano più solo sul feticismo di uno zoccolo di fan pronti ad accaparrarsi i vari formati di ogni singolo. Stavolta avevano seriamente sfondato nel circuito mainstream. Com'era inevitabile, il 7 giugno si affacciò in Rete una versione integrale dell'album che sembrava provenire dagli MP3 degli auricolari, ma i Muse avevano in ballo troppi progetti pre-uscita per lasciar perdere tutto e sparare il disco sugli scaffali dei negozi. Per tutto il mese di giugno li aspettava una serie di sette show tra televisione, radio e Internet,


come nel caso di TRL a Padova, Canal+ a Parigi, la data londinese per il provider AOL all'Hospital Club di Covent Garden e quelle per le trasmissioni televisive T4, Top Of The Pops e il Jonathan Ross show. Il giorno in cui l'album filtrò on line avevano un concerto di riscaldamento al Rolling Stone di Milano, dove avrebbero suonato per la prima volta dal vivo Invincible e Map Of The Problematique, mentre il 28 giugno era in programma uno show solo per fan club allo Shepherd's Bush Empire, con i biglietti distribuiti gratis sul sito ufficiale della band per ringraziare i fan più fedeli. Visto e considerato il loro legame con la comunità on line, fu uno show di enorme importanza. E se vogliamo dirla tutta, soltanto un gesto divino avrebbe impedito loro di salire sul palco... * * * Lo Hurricane Festival 2006, in Germania, si dimostrò all'altezza del proprio nome. Dopo che la loro prima apparizione dell'anno in ambito festivaliero, come headliner al Southside Festival di Neuhausen ob Eck la sera prima, era filata via con pochissimi intoppi (Matt aveva sbagliato l'intro di New Born e l'outro di Stockholm Syndrome, e su Feeling Good'A megafono l'aveva piantato in asso), i Muse arrivarono allo Hurricane pronti a sfidare il mondo. Purtroppo per loro, il mondo aveva altri programmi. Quando misero piede sul palco come headliner, il cielo fu oscurato da nubi temporalesche, raffiche di vento strapparono via la parte posteriore del palco e duecento millimetri di pioggia si riversarono su Scheessel, vicino Amburgo, per trenta minuti di nubifragio di proporzioni bibliche. Loro erano disposti a tirare dritto sprezzanti di tutto, ma l'esibizione fu comunque interrotta dagli organizzatori per motivi di sicurezza e la band evacuata, mentre la crew lottava con teloni impermeabili e tiranti nel tentativo di salvare la strumentazione dalla furia degli elementi. Anche stavolta sembrava che il cielo fosse ben lieto di dare ai Muse la loro Apocalisse. Con alcuni strumenti danneggiati in modo irreparabile dal temporale, i Muse non erano sicuri di quanto avrebbe funzionato la data allo Shepherd's Bush Empire, il 28 giugno, per lo show in stile L'impero colpisce ancora dedicato ai soli fan club. Per la band si trattava di una data cruciale. Non solo avrebbero suonato gran parte del nuovo album per i loro fan più smaniosi (otto pezzi li avevano già sdoganati in pubblico) e con le telecamere di MTV a riprendere l'intero evento, ma avrebbero anche svelato la scenografia che si sarebbero portati dietro come una rete a strascico per i festival di tutto il mondo fino al Carling Weekend. Per la prima volta avevano avuto tempo a sufficienza tra la fine delle registrazioni e l'inizio del tour per pianificare a dovere il loro show. Tre grandi schermi costeggiavano il palco, mostrando immagini di raffinata eleganza in linea con le canzoni: spettacolari fuochi d'artificio all'apice di Invincible, robot che marciano e fanno la lap-dance in Supermassive Black Hole e galassie che sfrecciano a velocità supersonica in Starlight. C'erano scatole nere che proiettavano sprazzi di luce e una fila di tubi trasparenti venati da luminescenti spirali al neon simili agli alambicchi di uno scienziato pazzo disposti a fondo palco, che Matt, quella sera in camicia nera, bretelle bianche e con una spruzzata di rosso tra i capelli, aveva inizialmente previsto di riempire con dei manichini per farlo sembrare una specie di utero cibernetico (soluzione che alla band era poi sembrata un po' banale). In generale, il palco dava l'impressione del ponte di controllo di un'astronave in salsa kitsch anni Sessanta. Danni del maltempo a parte, lo show fu un trionfo. La band aprì con Take A Bow e inanellò classici come Bliss, Hysteria, New Born e Plug In Baby in mezzo ai pezzi estratti da BLACK HOLES, senza meravigliarsi che il pubblico conoscesse già tutte le parole. Fu spinto in scena un pianoforte per Feeling Good e per l'assolo di Soldier's Poem, mentre Knights Of Cydonia, un anthem che già spopolava come mattatore nei festival, ricevette un'accoglienza scalmanata sia al chiuso che all'aperto. Il concerto finì con Matt che baciava il palco rannicchiato in posizione fetale. Mentre per BLACK HOLES AND REVELATIONS si avvicinava sempre più il momento dell'uscita, i Muse decisero di sgranchirsi le gambe e affinare la loro nuova scaletta con una sventagliata di festival europei in qualità di headliner (tra cui il tedesco Rock Werchter, il francese Eurockéennes e il festival di Quart in Norvegia), e tra maggio e giugno cominciarono a spuntare le prime interviste sull'album. E con esse, tra grandi chiacchierate su piramidi marziane e


complotti governativi, vennero a galla tutte le idee politiche di Matt, sguinzagliate dalla trasparenza e dall'onestà politica di quel disco. Secondo lui eravamo solo a qualche mese di distanza dalla Terza Guerra Mondiale. La Democrazia è una menzogna e le notizie vengono orchestrate in modo tale da creare una falsa realtà in cui viviamo come prigionieri. La differenza tra la vita di ogni giorno e la vera realtà del mondo è netta come nel film Matrix. Essere "normali" significa far parte del sistema, che ti tiene in schiavitù sin da quando ricevi un'istruzione: ti portano via dai tuoi genitori in un'età tra le più suggestionabili e ti raccontano bugie per spingerti a pensare che la civiltà occidentale sia giusta, morale e stabile, quand'è evidente che non è così, anzi, è schiava delle banche. Lui, infatti, per svincolarsi da questo legame, teneva la maggior parte dei suoi soldi in contanti, usandoli per acquistare oggetti fisici o per le donazioni. Aveva letto Synthetic Terror di Webster Tarpley (uno che non scriveva roba da signorine: era convinto di essere nelle liste dell'FBI solo per i libri che ordinava su Amazon), dove si parlava di un insabbiamento generale di ciò che stava realmente accadendo, operazioni in corso sotto "falsa bandiera" al riparo delle quali i governi patrocinavano, allestivano o addirittura eseguivano in prima persona azioni terroristiche per convincere le popolazioni a sostenere le loro manovre militari. L’11 settembre, che secondo lui rientrava in questa casistica, era ovviamente un'operazione nata con la complicità delle alte sfere, che l'avevano lasciata accadere o direttamente attuata in quanto parte di una cospirazione chiamata Progetto per il Nuovo Secolo Americano. Si trattava di un disegno destrorso elaborato da un gruppo di autori neocon negli anni Novanta, secondo cui l'America aveva bisogno di un evento pari a una nuova Pearl Harbour per giustificare l'invasione del Medio Oriente. Un disegno che la linea politica di George Bush sembrava seguire alla lettera. Credeva che presto avremmo avuto tutti un microchip e che le carte d'identità fossero solo il primo passo verso un'autentica società da Grande Fratello. Sosteneva che le soluzioni ai problemi energetici mondiali erano semplici, ma le grandi compagnie le avevano comprate per impedirne la diffusione. Ogni tanto il suo comportamento sconfinava nella paranoia in senso stretto. Dichiarò che i Beatles erano l'avanguardia di un gruppo d'esperti usato per il lavaggio del cervello alla gioventù americana. Durante le interviste indossava amuleti, dicendo che glieli aveva fatti uno scienziato per proteggerlo dalle onde elettromagnetiche: non sapeva come funzionassero, ma quando scattavi una lastra a chi ne indossava uno, intorno al portatore appariva una specie di scudo invisibile. E poi, con la faccia di uno serio, consigliava di leggere Cronache dalla spirale del tempo, il libro del "cronista di biliardo ormai mistico visionario" David Icke. Secondo il cantante la prima metà del libro consta di teorie del complotto più che sensate, ma anche lui si chiama fuori quando Icke sostiene che George Bush è legato alla Regina Elisabetta II da una linea di sangue rettiliano che si allunga a ritroso per migliaia di anni, quando il popolo lucertola regnava sulla Terra. Matt sapeva perfettamente ciò che faceva nel coltivare la sua immagine da sciroccato numero uno del rock. Qualche settimana dopo, durante una lunga franche di interviste con la stampa a New York, un Matt esausto e bisognoso di un po' di riposo convinse i responsabili dell'etichetta che si prendevano cura di lui che un meteorite avrebbe spazzato via Manhattan con un gigantesco tsunami, e che quindi non avrebbe lasciato la sua camera d'albergo per quarantotto ore. E quando finalmente uscì, insistette per fare un'intera giornata di interviste a bordo di un elicottero che sorvolava la città, in caso l'onda avesse colpito. L'interesse della stampa intorno a BLACK HOLES era febbrile come non mai, e una grande mole di aneddoti inondò le pagine dei giornali. Le teorie del complotto avevano spinto centinaia di soggetti in fìssa con new age, cristalli e tarocchi ad avvicinarsi ai concerti dei Muse. A Matt piaceva l'idea di un viaggio su Marte per registrare un album a gravità zero, e si era pure messo in contatto con un suo amico che finanziava l'X Prize (una fondazione che ricompensa con milioni di dollari le innovazioni che vanno a beneficio dell'umanità) per vedere se riusciva a procurargli uno dei primi biglietti della Virgin Galactic. Dom era appena tornato da una vacanza sulle Isole Vergini e non aveva passato a Teignmouth più di tre giorni in circa dieci anni. Il pezzo di pianoforte della sua suoneria era simile a uno di quelli che suonava Matt. Nella segreteria


telefonica di Matt c'erano rumori di scoregge, e aveva dovuto cambiare numero da quando i fan italiani avevano scoperto dove viveva. Di recente Chris era stato infastidito da fan di sette anni mentre passava a prendere i suoi ragazzi a scuola. Nonostante una relazione volubile che li vedeva separarsi quasi ogni giorno, Matt era follemente innamorato della ragazza con cui stava da tre anni, e stava valutando l'ipotesi di sposarsi sott'acqua. La serie Tv Lost era frustrante, ma in compenso il suo primo concerto da stadio era stato fenomenale: aveva visto gli U2 a Milano. Non giocavano più a poker da una partita colossale, dopo la quale non si erano più parlati per tre giorni. Avevano un tic nervoso collettivo per cui sbadigliavano un sacco prima dei concerti, e spesso si mettevano a ridere come scolaretti per l'assurdità di un simile comportamento. Matt aveva solo nove punti sulla patente per inversioni a destra illegali, possedeva due classiche auto americane perché l'assicurazione costava poco (anche se quando era in Italia guidava il Maggiolino della sua ragazza) e non viveva senza il tè al limone. Negli ultimi tempi avevano smesso di registrarsi negli alberghi sotto falsi nomi: Matt era Hector Berlioz, mentre il nome preferito di Dom era Sergio Georgini, il nome inventato da David Brent in The Office quando il suo capo gli chiede chi è lo stilista che gli ha disegnato la giacca di pelle. A Matt piacevano gli Strokes, perché secondo lui avevano lo stesso sound dei Muse. Dom voleva cominciare a fare immersioni. Matt voleva uno scooter per muoversi meglio negli enormi locali in cui suonavano. Credevano di essere una band unica nel Regno Unito, senza pari nell'attuale scena rock e forse anche il miglior gruppo live su questo braccio della Via Lattea, ma non si azzardavano a chiamare in causa l'intero universo, perché poteva esserci roba veramente strana là fuori. Il 3 luglio 2006, quando BLACK HOLES uscì nel Regno Unito per la Atlantic Records90, il suo predecessore ABSOLUTION aveva venduto in tutto il mondo un volume di copie pari a 2.8 milioni. Ma anche questa cifra, al confronto, sarebbe apparsa minuscola. Soltanto nella prima settimana BLACK HOLES vendette in Inghilterra 10mila copie e trascorse due settimane al primo posto in classifica. Durante la sua uscita sfalsata, raggiunse il primo posto in sette Paesi compresi Australia e Irlanda, ed entrò nella Top 10 in ogni nazione tranne che in Belgio, dove si assestò al numero 11. Un successo sbalorditivo, ma c'era un Paese che ai Muse stava particolarmente a cuore. * * * Il giorno in cui salirono sul palco al Design Centre di San Francisco, per dare il via al loro primo tour sold-out di USA e Canada, che copriva cinquanta date nelle principali città del continente dal 18 luglio ai primi di agosto, per il Regno Unito fu una specie di piccola vittoria. L'album solista del singer dei Radiohead Thom Yorke, THE ERASER, aveva creato grandi aspettative senza tradirle, piazzandosi al numero 2 nella classifica di «Billboard», ma ora un altro gruppo inglese s'era insinuato nella Top 10, trasformando quella settimana nella prima, da più di un anno, in cui c'era più di una formazione britannica a esordire nella Top 10 statunitense. Perché proprio lì, al numero 9 nella classifica del più grande territorio musicale sulla faccia della Terra, sedeva BLACK HOLES AND REVELATIONS dei Muse, che nella prima settimana aveva venduto 48mila copie. Memori di come ABSOLUTION si fosse piazzato al numero 107 in America nel 2004 e di come il disco dell'anno prima, ORIGIN OF SYMMETRY, non avesse fatto granché meglio, i sette anni di sporadiche battaglie per sfondare in America li avevano resi un gruppo rivelazione dal giorno alla notte. I concerti rispecchiavano il loro nuovo status di Grande Speranza d'Inghilterra. Il 19 luglio si esibirono nel loro più grande show da headliner al GreekTheatre (5.700 posti a sedere) di LA, e le stelle erano presenti. Justin Timberlake, Haley Joel Osment de Il sesto senso e Paris Hilton entrarono di straforo per vedere la performance della band, come al solito strepitosa, in cui Matt suonò tutto l'assolo di Plug In Baby con la chitarra dietro la testa. Non che i Muse si lasciassero impressionare dalla presenza delle celebrità: quando Paris Hilton chiese di incontrarli nel backstage, loro declinarono l'invito dicendo che c'era un jet privato che li aspettava per uno show a Toulouse quella sera stessa91. Haley Joel Osment, nel frattempo, era così stravolto dallo show che riuscì a cappottare la sua Saturn del 1999 dopo aver centrato una cassetta delle lettere mentre rincasava. Con Take A Bow, Knights Of Cydonia o Map Of The Problematique in cima alla scaletta, per tutto il mese di tour negli States i Muse affinarono un set


devastante. Il classico ordine d'apparizione era: Take A Bow, Hysteria, Map Of The Problematique, New Born, Assassin, Butterflies And Hurricanes, Supermassive Black Hole, Sunburn, Soldier's Poem, Starlight, Invincible, Plug In Baby, City Of Delusion, Stockholm Syndrome, Time Is Running Out e Knights Of Cydonia, con qualche sporadica apparizione di Apocalypse Please, Hoodo, Forced In e Bliss. Tra il Fillmore Auditorium di Denver, l'Aragon Ballroom di Chicago, lo State Theatre di Detroit, il Docks Concert Theatre di Toronto (vicino al quale Dom, Chris e Tom Kirk si misero a correre in una pista da go-kart tra le urla d'incoraggiamento dei fan in fila per il concerto) e l'Hammerstein Ballroom di New York (dove si dice che Matt abbia passato la notte a parlare con la madre di Andy Nicholson, ex-bassista degli Arctic Monkeys), ogni sera lasciarono di sasso circa 4mila fan americani. Poi volarono in Giappone per le due date da stadio del Summer Sonic Festival, come supporter di, e supportati da, rispettivamente, Linkin Park e My Chemical Romance. In Giappone BLACK HOLES aveva già venduto nel giro di un mese il doppio di quanto aveva venduto ABSOLUTION in due anni, e ora, più a suo agio con i ritmi nipponici turbolenti e frenetici, la band si portò dietro fidanzate e famigliari per festeggiare (Dom, che si era perso il sessantesimo compleanno di sua madre quando si erano esibiti a Montreal, fu felice di regalarle quel viaggio), visitare gli antichi sepolcri di Kyoto e depredare in compagnia dei Lostprophets le pregiate scorte alcoliche del Bar Rock di Osaka. Per tutto il viaggio Dom indossò degli sgargianti pantaloni giallo canarino. Un vero peccato che i concerti non siano stati altrettanto divertenti. Il 12 agosto, durante la prima serata al WTC Stadium di Osaka (in pratica un parcheggio per auto circondato da una recinzione in cartongesso), Matt ebbe diversi problemi alla chitarra e finì per farla scivolare lungo il palco verso un tecnico, tagliando Map Of The Problematique dalla scaletta e andandosene prima del tempo. Più tardi, durante una corsa in albergo piuttosto sottotono a bordo della sua monovolume, sommerso dai fan che scattavano foto con il cellulare dai finestrini, commentò lo show dicendo che, a memoria sua, era quello che più si avvicinava a un brutto concerto dei Muse. Andò meglio la sera dopo, al Marine Stadium di Tokyo, ma anche allora una calamità sfiorò la band: qualche ora dopo che furono scesi dal palco un terremoto colpì l'arena. Un altro tentativo degli dèi del rock di abbattere quei pagani terrestri. Altre quattro date nei festival europei (l'austriaco Frequency Festival, lo svizzero Open Air Festival, l'olandese Lowlands e l'Eden Project in Cornovaglia, vicino ai Sawmills Studios quel tanto che bastava da far sì che quelli del posto riuscissero a sentire Supermassive Black Hole), e i Muse furono pronti per l'ennesima pietra miliare della loro carriera, con ogni probabilità la più eclatante, finora. Dopo uno show compromesso da un mucchio di errori davanti a 16.500 scozzesi al Meadowbank Stadium di Edimburgo il 24 agosto (durante il quale Matt, sul palco, si prese nota di assumere un nuovo tecnico delle chitarre), si diressero a Sud per preparare la loro leggendaria performance da headliner al Carling Weekend. Gli altri headliner del 2006 avrebbero sfoderato i loro trucchi (i Franz Ferdinand riempirono il palco di tamburini e i Pearl Jam indossarono delle camicie "interessanti"), ma i Muse avevano speso molto più tempo ad allestire il loro show. In fin dei conti era lì che era nato il sogno, al Reading Festival, mentre guardavano i Rage Against The Machine. Dovevano renderlo un momento speciale. Avevano chiesto un robot gigante sul palco (il management rifiutò). Avevano chiesto il permesso di far piovere un milione di palloni giganti o far penzolare sopra la folla un'astronave con un riflettore appesa a un elicottero (gli organizzatori non acconsentirono per motivi di sicurezza). In mancanza di questo, compensarono con ogni gioco pirotecnico da stadio su cui riuscirono a mettere le mani: geyser di fiamme a bordo palco che, una volta accesi, bruciarono la faccia di Chris, fontane sullo sfondo e un enorme schermo di larghezza pari a quella del palco. Quando scoppiò un violento temporale durante il loro show della sera dopo a Leeds, molti credettero che facesse parte degli effetti speciali92. A Reading si faceva un gran parlare del cartellone previsto per il sabato sera, come se fosse una specie di battaglia per la corona di "band del festival" tra i Muse e gli Arctic Monkeys, che avrebbero suonato prima. Una semplice occhiata allo scontrino dei fuochi d'artificio dei Muse bastava a far capire che gli Arctic Monkeys sarebbero stati spazzati via dal palco, così lontano che non avrebbero avuto bisogno del tour bus per tornare a Leeds.


Matt trascorse il giorno prima del Reading a Londra, ad Hyde Park, a leggere il giornale e calmarsi i nervi sulle sponde del Serpentine Lake, per dimenticarsi che quella sera lo aspettava il concerto della sua vita davanti a 50mila ragazzi. Poi, al calar della sera, sradicò il Reading dalle fondamenta. Aprirono con Knights Of Cydonia per il massimo impatto sul moshpit, chiusero con Take A Bow come climax sinfonico definitivo e con la t-shirt di Matt che diceva "Google Video: Terror storm" in riferimento al controverso documentario del filmaker statunitense Alex Jones (che contempla la possibilità di atti terroristici pianificati con il beneplacito del governo), i Muse sferrarono il gancio rock da knock-out del weekend. «NME» lo definirà il concerto del millennio, e Matt poteva capire il loro stato d'animo: era talmente carico per lo show che non riuscì a lasciare il palco prima di un secondo bis con Time Is Running Out, Stockholm Syndrome e Take A Bow, e poi rimase lì a prendersi gli applausi. Quando alla fine scesero dal palco, esaudito il sogno di essere gli headliner sul main stage del Reading, potete pure scommettere che Dom, in onore della loro vecchia tradizione, chiese a Matt se ormai ce l'avessero fatta. E Matt avrà risposto di sì. I Muse ce l'avevano fatta, erano diventati grandi. Ora non dovevano far altro che diventare più grandi. MATT BELLAMY Londra, primavera del 2006. Com'era il Miraval? Piuttosto isolato, tagliato fuori. E poi era la stagione del vino, e questa era una bella cosa. E un insediamento di Templari, abbiamo anche visto alcuni dei tunnel segreti che usavano all'epoca. Ci vivevano un casino di pipistrelli strani che di notte entravano in casa, ma tu non te ne accorgevi, li sentivi solo svolazzare in giro. Uno s'è schiantato sul tavolino da ping pong e ho dovuto guardarlo in faccia. Hai mai visto un pipistrello da vicino? È raccapricciante. Somiglia al diavolo. In quel periodo Dom stava leggendo Il codice Da Vinci, e allora ci è venuto in mente di andare alla ricerca del Graal con le torce in mano, un po' in stile Indiana Jones. L'unico problema era che nei passaggi segreti l'acqua ti arrivava alla cintola, quindi non ci siamo spinti troppo in profondità. Se proprio quel posto doveva ricordarmi qualcosa, mi ha fatto pensare al Devon. Gran parte del processo di scrittura ha avuto inizio lì, perché era un luogo più tranquillo ed estraneo al nostro stile di vita, e cioè starsene di continuo in tour. Era il ritorno a un modo di vivere più semplice, come effetto di quanto accaduto a Glastonbury. In quello studio non c'era la Tv, soltanto Internet, che usavamo per ascoltare la radio. Era una cosa interessante, perché ascoltavi le radio di India, Iran o di posti che non avevi mai sentito nominare. Per un po' ci siamo dedicati all'ascolto di altra musica, per fare esperienza. Vivendo nel Nord Italia ho incontrato un ragazzo, un violinista di nome Mauro, che mi ha fatto conoscere certe musiche del Sud risalenti al Diciannovesimo e Ventesimo secolo, un misto tra Medio Oriente e West che mi sono sembrate in linea di massima interessanti. Quando la gente ascolta Ennio Morricone lo associa a Clint Eastwood con una pistola in mano, e anch'io non faccio eccezione, ma poi mi sono reso conto che la musica del Sud Italia rievoca certe cose del deserto. L'ho trovata interessante, al di là della mia semplice curiosità per ciò che accade nel mondo. Avevo scoperto qualcosa di nuovo. Le sfumature da Europa meridionale sono decisamente frutto dei viaggi che ho fatto avanti e indietro, perché dalla Francia fino a dove vivo, in Italia, sono solo poche ore di macchina. Se non fosse stato per questo, le ultime tre canzoni dell'album non sarebbero mai nate. Anche il caldo è stata un'esperienza diversa, abbiamo lavorato per la prima volta in piena luce solare. Andare a New York, invece, ha avuto l'influenza contraria. Se fossimo rimasti in Francia per tutto l'album ne saremmo usciti troppo prog. Pezzi come Knights Of Cydonia sarebbero durati venti minuti. Per qualche motivo, la trasferta a New York ha reso il tutto più compatto, più orientato al groove. Canzoni come Starlight, Supermassive Black Hole e Synthetic Dreams [ribattezzata infine Map Of The Problematique] avevano un groove che è cambiato radicalmente durante il soggiorno a New York, non so se per la vibrazione della città o cosa. Era un bel contrasto, perché verso la fine quell'isolamento cominciava ad essere un po' come arrampicarsi sugli specchi. La Francia è stata importante perché ci ha aiutati ad assorbire determinate influenze, a sbarazzarci del passato e di ogni


aspettativa, e poi è lì che sono nate tutte le soluzioni più insolite, ma la registrazione vera e propria ha avuto luogo a New York. Da quelle parti aleggiava il fantasma di Hendrix, e un giorno è persino passato Bowie a fare un saluto. Aveva a che fare con il cinquantesimo anniversario della scomparsa di John Lennon, ad ogni modo è stato bello avere un cenno d'approvazione da parte del gran capo. Avevamo in programma di suonare una parte più movimentata e un'altra acustica, ma poi abbiamo pensato che, se fosse entrato a sentirci, convincerlo a suonare qualcosa sarebbe stato un po' di cattivo gusto. Iniziare il disco con Take A Bow era un tentativo di riprendere il discorso da dove l'aveva interrotto ABSOLUTION? Inizialmente quella canzone avrebbe dovuto chiudere l'album, ma poi ci è sembrato bello attaccare con il pezzo più eccessivo che avessimo mai scritto, sia dal punto di vista del testo che da quello musicale. Non è altro che un gran crescendo dall'inizio alla fine, e il climax finale secondo me è assurdo. È come se all'inizio ci fosse la conclusione dell'album, e da lì in poi è facile spingersi in un sacco di altri posti. Ci sono cose che si ispirano a quella storia delle carte d'identità, e c'è anche un netto legame con il Libro delle Rivelazioni. Parla di un futuro in cui la gente non sarà più in grado di acquistare niente senza un numero o di esistere senza un numero. Invece di farti un colloquio di lavoro gli basterà una strisciata della carta e sapranno la tua anamnesi, la tua storia finanziaria, insomma il pacchetto completo. Uno dei motivi per cui salta fuori l'Inferno è per legare il brano al Libro delle Rivelazioni, anche se in realtà è destinato ai potenti, quelli che fanno il bello e il cattivo tempo con gli affari sugli armamenti, l'energia e l'industria farmaceutica. A quanto pare vengono a galla tematiche come guerra, morte, ribellione, menzogne, scontro, rovina... L'atmosfera di sempre, no? C'è un pizzico di Nuovo Ordine Mondiale, anti o quel che è. C'è la sensazione di impotenza dell'uomo medio e anche un po' di: "Porca puttana, c'è ancora qualcuno che ha un qualche potere su qualcosa? E i nostri governi si stanno veramente dando da fare?". Non lo so. Non so più neppure per cosa voto quando vado alle urne. Il fatto è che le cose si stanno muovendo in una direzione di... non direi proporzioni apocalittiche, ma di grandi cambiamenti. Un mucchio di cose che, se sommate l'una all'altra, rinfocolano la sensazione che qualcosa stia per accadere nei prossimi dieci anni. I timori e le relative speranze che stanno venendo a galla... questo è il primo album in cui ho iniziato a credere che ci stiamo muovendo verso quella direzione. Cambiamenti climatici, crisi petrolifera, guerre che scoppiano ovunque, e nessuno che sappia veramente il perché di tutto ciò, anche se molte cose accadono ovviamente per il petrolio. Però ha l'aria di un caos premeditato, creato per uno scopo ben preciso. Non sono quel genere di persona che dice: "Qui bisogna cambiare". È già troppo tardi. Assassin è un pezzo sulla ribellione? Direi di sì. Penso che ci stiamo avvicinando a quel momento. Se dai un'occhiata alle proteste in Francia, alle dimensioni e al livello di quelle proteste, ti accorgerai che non sono realmente proporzionate al loro motivo. Penso che la gente percepisca qualcosa sottopelle, soprattutto le generazioni più giovani. Sentiamo di essere nati in una qualche situazione preconfezionata sulla quale non abbiamo alcun controllo. Anche se da questo album traspaiono il mio pessimismo e la mia frustrazione, non sono contrario alle azioni rivoluzionarie. E non mi vergognerei all'idea di aver fomentato una piccola sommossa, purché sia per una buona causa. Cos'ha innescato idee così anarchiche? Dipende da quanto a fondo ti vuoi spingere, se vuoi entrare in tutta quella roba extraterrestre... Leggere libri sulla crisi energetica ha fatto la sua parte. Ho letto anche un paio di manuali di sopravvivenza, tipo Dare To Prepare, che ti mostra come conservare il cibo per dodici anni e depurare l'acqua dall'uranio, almeno impari come si fa a mettere in pratica roba del genere. Questo mi ha spinto lungo un sentiero pericoloso. Va da sé che il cambiamento climatico è una faccenda importante, mi sono informato sulle varie teorie meteorologiche e c'è gente secondo cui il tempo è già sotto controllo; come quando c'era questo grosso temporale e si vedevano due cose enormi simili ai rebbi di un forcone infilarsi tra le nubi, da cui hanno fatto scaturire un uragano spingendolo verso il mare. Accadono cose decisamente strane: controllo meteo, pandemie, cose così.


Puoi guardarle e farti travolgere dalla paura, o puoi guardarle e dire: "È tutto pilotato in modo da tenerci a bada". Oppure pensi: "Fanculo, andiamo a sbronzarci". In quanto band, noi mischiamo tutti e tre gli approcci. Prima ti viene il desiderio di combattere e cambiare le cose, poi senti il bisogno impellente di far notare agli altri che siamo tutti fottuti e per ultimo ti viene voglia di ubriacarti, farti due risate, scordarti di tutto e sfasciare la chitarra. In questo album puoi sentire tutti e tre i tipi di reazione. Quanto tempo ancora prima che i Muse smettano di essere una band e diventino un movimento militare? Potresti mai diventare il Presidente Matt? Mi auguro di no, non ho proprio voglia di fare il classico portavoce ufficiale. Trovo che sia vergognoso e imbarazzante vedere i soliti sospetti - e tutti sanno chi sono - che ti fanno la predica e si spacciano per gente che vuole cambiare il mondo. Per me, il grande problema della Terra è il fatto che questi individui si intaschino quattrocento milioni di sterline. Credo che assistere a gente simile che parla di problemi sia una cosa scomoda, imbarazzante e ipocrita ai massimi livelli, motivo per cui spero proprio di non rientrare in questa categoria. In Starlight sembra che lo spazio sia la metafora di un vuoto emozionale. La questione dello spazio è presente perché uno, è ovvio che veniamo da lì, e due, è ovvio che ci torneremo. A scuola ci insegnano un sacco di nozioni erronee riguardo lo spazio. Prendi la Terra, per esempio. La gente crede che un tempo si chiamasse Pangea, un unico ammasso di terra. Stronzate. La Terra sta crescendo. È una sfera che si espande. Se guardi i continenti ti accorgerai che combaciano da tutte le parti, e se comprimi il pianeta alle dimensioni di una pallina vedrai che i continenti combaciano e non c'è acqua. Il motivo per cui esiste l'acqua è perché, mentre la Terra cresceva, i continenti si sono staccati accumulando gas e roba simile ai margini. Ci sono un mucchio di questioni basilari che crediamo di sapere riguardo lo spazio e invece non sappiamo, e questo accade con un sacco di cose nella vita. Crediamo che la risposta sia una sola, ma può anche essercene un'altra, molto più strana o drastica. Tutte le religioni della Terra sono fondamentalmente delle interpretazioni di svariate interazioni con gli alieni avvenute nel corso delle ultime centinaia di migliaia di anni. Secondo me veniamo dallo spazio, casa nostra non è soltanto questo mucchietto di terra. La religione è soltanto frutto della paura della morte, questo è poco ma sicuro. Nessuno può dirlo con esattezza al cento per cento. La paura gioca di sicuro un ruolo chiave, ma anche il non sapere le teorie sull'impollinazione incrociata ha il suo peso. Io voglio credere a questo. E più interessante. Sempre meglio che credere alla teoria per cui tutto è sbucato fuori dal nulla, dalla paura. In tal caso, sai che palle! Credo che l'ipotesi dell'impollinazione incrociata sussista eccome. Cos'è il "buco nero supermassivo"? È quella cosa al centro della galassia che risucchia stelle e pianeti. Come pezzo è parecchio facile, sul serio, è abbastanza schematico. Io e la mia ragazza stiamo passando un periodaccio, litighiamo di continuo, e allora ti viene da pensare: "Per quanto ancora può andare avanti così, una discussione dopo l'altra?". Per tre o quattro anni ci può anche stare. Forse quella canzone parla del perché sono spinto a scontrarmi con una donna. Perché cazzo mi ostino a sbattere la testa contro il muro? Ci dev'essere sotto qualcosa. Map Of The Problematique somiglia ai Depeche Mode che coverizzano i Queen per la colonna sonora di un film di James Bond. È quella specie di sensazione che ti prende verso la fine di un tour, quando non importa quanta gente hai intorno, comincia sempre a montarti dentro quel senso di solitudine, ogni cosa intorno a te è un'unica chiazza sfocata di stronzate e tu vuoi solo scappare via da tutto. La colonna portante dell'album è affidata a due canzoni di guerra, Soldier's Poem e Invincibile, che però trattano la guerra alla stregua di una relazione. All'inizio erano quasi una canzone sola. È il cuore dell'album, si parla di chi perde la speranza all'estremo. Diciamo che il punto di vista è quello di un soldato che ha la sensazione di combattere per nessun motivo valido: alla gente per cui combatte non frega un cazzo e al Paese per cui combatte non frega un cazzo. Dev'essere una posizione parecchio difficile in cui trovarsi. La maggior parte delle guerre è per le risorse naturali, e alle nazioni non frega niente dei soldati che mandano a combattere, ai popoli da liberare non importa


veramente di loro, o magari li odiano, e ai governi non importa veramente se vivono o muoiono. Mi sembrava un bell'argomento da trattare: la perdita della speranza e la rinuncia. L'altro è un pezzo dall'ottimismo quasi stratosferico, un ottimismo strano e quasi onirico, che è l'opposto del brano precedente. Quei due pezzi sono legati in questo senso: uno scende la china, l'altro la risale. Cos'è Exo-politics? Parla dell'eventualità di un'invasione aliena orchestrata dal Nuovo Ordine Mondiale. C'è gente secondo la quale, nei prossimi dieci anni, avrà luogo un'invasione aliena studiata a tavolino. Più che un'invasione, appariranno degli alieni. O meglio, ci saranno dibattiti in proposito. In Canada si è già parlato di politiche extraterrestri. C'è stato un tale, l'ex Ministro della Difesa canadese, che ha già preso in considerazione l'eventualità di piazzare armi nello spazio per proteggerci da intrusioni aliene. Puoi vederla in due modi. Il primo, forse gli alieni esistono e forse stanno arrivando, quindi bisogna armarsi. Il secondo: è tutto programmato perché al governo serve una scusa per potenziare il budget militare. In America sono a corto di scuse per stanziare più fondi all'esercito: tutte le operazioni top-secret e la loro roba segreta sono finanziate dai militari, che vogliono più soldi possibile perché, in materia di controllo, quello è il Paese che trama più di tutti nell'ombra. Quindi, se nelle notizie vedi qualche riferimento all'esistenza degli alieni o all'ipotesi di mettere armi nello spazio, devi chiederti se magari non si stanno inventando tutto per potenziare gli armamenti o se è davvero la realtà. In ogni caso fa venire i brividi, cazzo. Che mi dici di City Of Delusion? Parla del multiculturalismo, dei suoi lati positivi e negativi. E Hoodoo? È la mente che ritorna alle vecchie storie del passato. È la prima volta in cui sono veramente riuscito a ripensare alla mia prima relazione guardandola come se fosse un oggetto dimenticato. Fa un effetto davvero strano quando cominci a scordarti roba del genere. Credo che questo pezzo parli di come qualcuno possa entrare e uscire dalla tua vita in un modo simile, avere un impatto così forte e poi sparire all'improvviso. O se preferisci è una canzone che parla di occasioni mancate. Knights Of Cydonia? Cerca di essere obiettiva sull'ascesa e il declino delle civiltà, su come vanno e vengono, vanno e vengono, vanno e vengono. Fa parte di un ciclo. Se ripensi al passato è sempre stato così, ma alla fine della canzone si parla di fermare questo processo, di non farlo succedere, stavolta. Per me si tratta di un pezzo un po' personale, ci sono alcune influenze della band di papà... Nel mio caso va a smuovere qualcosa che sta un po' più in profondità. È una canzone un po' più... specie con le chitarre all'inizio... che strizza più l'occhio alla produzione di Joe Meek. Mentre crescevo, specie nei primi anni con la band, non mi sono mai veramente reso conto di cosa avesse fatto mio padre per il semplice fatto che non l'avevo mai preso in considerazione. Mentre lavoravamo all'album eravamo tutti molto presi da questa canzone. Era strampalata, assurda, e abbiamo pensato che non sarebbe stato male proseguire su tali coordinate. Altri pezzi come Supermassive o Starlight sono più lineari, un po' più verticali. È bello avere in un album canzoni diverse come TakeA Bow e Knights, roba più stralunata. DOMINIC HOWARD Londra, primavera del 2006 Quando scrivi un pezzo mostri chi sei veramente. È fantastico accorgersi, mentre giri il mondo fianco a fianco coi tuoi colleghi nel retro di un tour bus, che la gente può cambiare senza che tu te ne renda conto. È stato davvero bello tornare tutti insieme ad aprirsi in quel modo, ci ha avvicinati molto e ci ha resi delle persone più aperte, musicalmente parlando. Molti nostri album si sono avventurati in territori diversi, ma questo qui è di gran lunga il più estremo. Abbiamo provato un sacco di differenti soluzioni, con dei continui e radicali cambi di rotta per vedere quale ci dava il feeling giusto. Se le cose non filavano lisce ci sentivamo un po' a disagio, e quando abbiamo iniziato a lavorarci era molto più rock da cima a fondo. E poi è un album strano, perché non mostra una band a senso unico ma un mix di ciò che siamo capaci di fare. Con quest'album siamo arrivati al punto di avvicinarci a una nostra identità tipica come band. Alcuni elementi ribadiscono con forza quest'identità, ma ci sono


anche un sacco di altre cose. Ci siamo spinti ancora oltre. Avevate molto più materiale con cui lavorare? Pensavamo di farne un doppio album. Avevamo circa diciotto o venti canzoni, e abbiamo pensato che forse avremmo dovuto fare due dischi. Ma più lavori alle canzoni, più senti la spinta a realizzarne altre. All'inizio avevamo in mente di fare un album estremamente variegato, ma poi ci siamo accorti che se avessimo fatto un doppio album il risultato non sarebbe stato così vario. Ci siamo procurati un sacco di strumenti jazz vintage e abbiamo applicato quel modo di suonare a un casino di canzoni... e già che c'eravamo anche alle vecchie canzoni, così tanto per ridere. Alla fine ci siamo detti: "Ok, diventiamo un gruppo jazz!". Avremmo potuto fare un intero disco jazz come terzetto più pianoforte: a me sarebbe piaciuto eccome fare un paio di serate al Ronnie Scott's. Quanto si sono fatte claustrofobiche le registrazioni? Trovarti così lontano da tutto accresce un po' la paura. Parli di come farai a sopravvivere allo scoppio della Terza Guerra Mondiale. Al Miraval saremmo stati al sicuro, ma come fare per sopravvivere? E poi, tutt'a un tratto, eravamo a ballare in un club di New York. CHRIS WOLSTHENHOLME Londra, primavera del 2006 L'ultima volta era abbastanza ovvio dove sarebbe andato a parare il disco, ma non stavolta, e per il semplice fatto che c'era troppa roba. Per noi era importante dedicare ad ogni pezzo la giusta dose d'attenzione, dato che in passato c'erano state canzoni che non erano proprio fondamentali all'album, e riascoltandole pensavi: "Se avessi avuto il tempo di finirla sarebbe stata spettacolare". Di solito siamo sempre di fretta perché c'è il tour in calendario, ma stavolta volevamo assicurarci di avere il tempo per lavorare su tutte le canzoni. Dà l'impressione di un album senza la minima traccia di cazzate. GLEN ROWE La lavorazione dell'ultimo album è stata strana, perché li ho sistemati in uno studio/sala prove sotto il mio ufficio, a Putney, e quelli non ci andavano mai! Scendevo le scale e li trovavo seduti lì, che mi dicevano: "Siamo in fase di stallo, stiamo parlando". Facevano prove che non portavano a niente di concreto, se ne stavano seduti a chiacchierare di questo e quell'altro e mi chiedevano: "Come dovremmo chiamare la nostra etichetta discografica?", perché in quel periodo stavano passando quella storia con la Warner, e quando hanno messo piede a Miraval non avevano ancora idee, era tutto nel regno delle ipotesi. Ricordo che Matt mi ha detto: "Che te ne pare di un pezzo western, però con la disco anni Ottanta?", e io: "Detta così, spacca!". Io non sono un visionario, non riesco a immaginarmi o figurarmi in anticipo cosa puoi farci con una cosa simile, ma lui diceva: "Ennio Morricone e dei cazzo di beat da disco dance!". Era quella la sua visione, diceva: "Vogliamo fare un album in cui ogni canzone è un'emozione diversa, una cosa diversa", e io: “Ma non esistono soltanto tre emozioni?" - perché in fin dei conti, quante emozioni esistono in tutto? Hanno passato un sacco di tempo a fomentarsi a vicenda, e poi Dom s'è fatto male a un dito. Abbiamo fatto insieme la corsa in bici da Londra a Brighton, perché era la prima Festa del Papà dalla morte di suo padre e quindi è stato per beneficenza. Io non andavo in bici da anni, invece quello stronzetto di Dom si faceva trenta chilometri al giorno per tenersi in forma, quand'era in studio. Ricordo d'essermi sentito come il tipo anziano col fratello minore e borioso che corre avanti e deve fermarsi ad aspettarlo! Da Londra a Brighton, nella giornata più rovente dal 1964. Siamo arrivati a destinazione, un paio di pinte, un taxi per tornare a casa, il concerto dei Motley Crue e poi via a farsi un curry. Una giornata fantastica. E poi combinare qualcosa da matti suonati era il modo ideale, il più appropriato, di omaggiare la memoria di suo padre. È stato davvero emozionante. In certi momenti, quand'eravamo in bici, guardavo Dominic e mi si stringeva il cuore. Stava facendo qualcosa per se stesso. Com'era l'atmosfera al Miraval? Era tetra, anche se sono rimasto da quelle parti solo per l'inizio delle registrazioni. Io e Dom, da veri nerd amanti delle percussioni, stavamo cercando di portare fuori la batteria per vedere come suonasse all'aperto. Per la


cronaca, ha un suono tremendo. Lasciate perdere, il suono è una merda, non è così che si registrano le percussioni. Poi, quand'erano pronti e attrezzati, ho augurato loro buon divertimento, gli ho detto di sfornare il loro disco più grandioso e me ne sono andato, ma non è che sia successo granché. Era tutto un po' cupo, un po' strano, non facevano altro che parlare. Parlavano di mettere fine alla band, o di come sarebbe stata la vita dopo i Muse. Erano discorsi seri? Secondo me la band non finirà mai. Sono ragazzi intelligenti, magari sapranno che non può durare per sempre, ma da come li vedo, è una storia che non ha intenzione di fermarsi. Si saranno posti le classiche domande tipo: "Dove ci troviamo? Cosa stiamo facendo? Stiamo facendo la cosa giusta? È così che va fatta? Cosa ti ricordi del Reading? Ricordo che gli Arctic Monkeys, al confronto, sembravano una doccia di merda! I Muse erano nati per quel giorno. È stato allora che ho avuto modo di vedere i capricci delle celebrità. Matt aveva il suo bus personale. Gli ho telefonato per sapere dove fosse e lui era ad Hyde Park! Proprio strano, non s'è presentato fino all'ultimo minuto. Anche Chris aveva il suo bus personale, con la sua famiglia e la tata, e io ero a bordo insieme a loro, a fare la lotta con i suoi ragazzi e vedere che effetto fa arrivare in un festival con il tuo albergo personale! Dom era nel bus della band, con Morgan, Tom e qualche pezzo sparso. Chris si è presentato da vero signore, con tutta la famiglia al seguito, come se fosse una giornata come tante. La vibrazione era davvero strana: ridevano e basta, niente nervi. Poi è arrivato Matt, un po' teso, al che ho tolto il disturbo ma lui mi ha detto: "No, no, è tutto ok, torna qui, è soltanto un concerto". Era troppo eccitante. Provavano a capacitarsi del fatto che sarebbero stati gli headliner del Reading Festival. Una performance da dieci su dieci. Assolutamente incredibile. La scaletta spingeva, spingeva e spingeva, fino al delirio. È stato uno dei miei spettacoli preferiti dei Muse. MATT BELLAMY Madrid, ottobre 2006 (Su licenza della IPC Media) Com'è stato il Reading? È stato bello. Per noi era un momento importante, perché essendo nel Sud-Ovest dell’Inghilterra, non capitavamo a Londra molto spesso, e quindi i festival erano l’occasione per vedere in una volta sola tutte le band che ci piacevano. Sono stato al Reading quattro o cinque volte come membro del pubblico, e lo stesso a Glastonbury, ma al Reading, mentre guardavo gruppi come i Rage Against The Machine pensavo: "Voglio salire lassù. Voglio farlo anch'io". Quel concerto è stato fantastico perché mi ha fatto capire cosa si prova a stare tra il pubblico e sul palco al tempo stesso. Sapevo benissimo come ci si sente a guardare una band in concerto, e durante lo show mi tornava in mente quella sensazione. Dopo il ruolo da headliner al Carling Weekend non siete più gli outsider del rock? Direi che siamo ancora una specie di outsider. Quando si parlava di diventare una grande band o di farci un nome, era sempre alle nostre condizioni. Non credo che saremo mai disposti ad accodarci alla moda del momento o a fingere di far parte di una certa categoria di band. Se sfondi con la tua band è bello farlo a modo tuo, crearti da solo il tuo mondo. La scena live è di nuovo sulla breccia e per la musica inglese è proprio un bel momento. Sono fiero del fatto che là fuori non esista nessun altra band simile alla nostra. A quanto pare quest'anno avete sfondato le barriere e unificato le belligeranti tribù dell'indie. Nei primi anni Novanta ero nella scena rave, andavo ai concerti degli Orb con i bastoncini starlight in mano, e ora sta accadendo di nuovo. E una vibrazione che mi piace. Sta accadendo di nuovo con live band come i Klaxons, ma mi piace anche il rock più crudo e pesante di gruppi come i Rage Against The Machine. Ascolto anche roba tipo i Franz, con quei suoni di chitarra spigolosi e arty. Non so con certezza cosa ci ha resi di così ampie vedute quando si tratta di musica. Con la generazione MySpace sono apparse un sacco di band che per farsi notare sentono di doversi creare un'immagine e un sound prettamente di nicchia. Pensano: "Noi siamo così: ora lo ripetiamo all'infinito, esageriamo il più possibile e ci


appiccichiamo sopra un'immagine per ribadire con più forza il concetto". Le band si modellano da sole, fanno il lavoro delle case discografiche meglio delle case discografiche stesse, ed ecco che ti ritrovi con questi gruppi emergenti che ancor prima di aver scritto una sola canzone sono già esperti di marketing grazie a tutto il tempo trascorso su Internet, a cercare di capire come ritagliarsi il loro angolino. Che ne pensi dell'attuale stato della musica? Puoi fartene un'idea da come la gente è disposta ad andare ai concerti. La musica stessa è diventata più grande rispetto a prima. Tutti i festival registrano il sold-out ancor prima che si sappia chi suona, molte band si esibiscono in concerti sempre più grandi e forse l'anno prossimo, per la prima volta dopo un sacco di tempo, riusciremo a vedere gente che non siano gli U2 che suona in uno stadio. Ci sono un paio di band per cui è giunta l'ora di muovere i primi passi nel regno degli stadi. Negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta era come se le vibrazioni degli stadi e della grande musica dal vivo stessero scemando un po', ma ora, a quanto pare, sono tornate. È un segnale positivo, perché è questo che mi sta a cuore: i concerti, la musica dal vivo. Per me è davvero tutto... Ho sempre avuto la fissa per i grandi concerti del passato, ho sempre nutrito grandi aspettative in tal senso e, a parte vecchi classici come U2 e Bon Jovi, credo che per un pugno di band sia giunta l'ora di farsi avanti. Sarebbe bello assistere a una nuova generazione di grandi gruppi live. Mi sono accorto che la gente ha voglia di prendere e andarsi a vedere le band, uscire da quella cazzo di casa e smetterla di guardare la Tv e starsene seduti a non far niente. Capitolo dieci "Vedi questo?". Matt Bellamy indica con un cenno il parterre del Palacio de Deportes di Madrid, il palasport dove la sua crew si affanna nel frenetico tentativo di allestire la scenografia a sole due ore di distanza dall'apertura dei cancelli e senza il benché minimo barlume di possibilità di iniziare il soundcheck in tempi brevi. “È come questo posto sarebbe dovuto essere alle nove di stamattina...". Sono le cinque di pomeriggio del 27 ottobre 2006, e insieme a Matt Bellamy ci appartiamo nella platea del Palacio de Deportes per condurre l'intervistaanteprima di «NME» in vista dell'imminente tour nei palasport del Regno Unito, una chiacchierata a cuor leggero sulle sue variegate teorie del complotto. Si parla del dodicesimo pianeta di Sitchin e di come possa spiegare l'enorme gap nei reperti fossili tra l'uomo di Neanderthal e quello moderno, delle possibilità di un 9/11 studiato a tavolino, del popolo lucertola da un'altra dimensione e della sua capacità di impadronirsi più facilmente di chi appartiene a una stirpe reale, delle cartine astronomiche di Cydonia e di corruzioni politiche assortite. Matt, l'eccentrica rockstar di sempre con pantaloni arancioni in stile pigiama e spigolosi occhiali da sole giapponesi, dà libero sfogo alla sua frustrazione verso quella barzelletta che secondo lui era la "democrazia", si mostra diffidente alla notizia che la Corea del Nord ha davvero testato delle armi nucleari ed esprime lo schietto punto di vista per cui la guerra civile, quella dove si lanciano le molotov ai politici e si appicca il fuoco al Palazzo di Westminster, è l'unica ragionevole forma di progresso. In base alla sua teoria, prima di ogni azione fisica deve avere luogo una rivoluzione della mente. La gente deve vedere i quotidiani come pura e semplice propaganda, e i loro leader come dei burattini in mano a forze ben più oscure. Non si sarebbe messo a capo di una rivoluzione, disse, ma ne avrebbe certamente seguita una. Si chiacchierò anche delle cinque settimane e diciassette date di tour nordamericano che i Muse avevano appena terminato93. Diretti negli States dopo il Carling Weekend (passando per una manciata di festival ad Istanbul e Verona) per quello che finora era stato il loro tour americano più grande, avevano suonato in locali da 5mila persone per tutto il tragitto da Columbus, Ohio, fino a Grand Prairie, Texas, e anche oltre. Si parlò di Chris, che per poco non si prese una bottigliata in faccia a un festival nel cuore del deserto, dalle parti di Tucson, Arizona. Sin dall'inizio del loro set, al KFMA Fall Ball nello stadio del Tucson Electric Park, in direzione del palco erano volate scarpe e bottiglie e la band aveva interrotto lo show a metà di Forced In quando s'era accorta che la security stava picchiando i membri di quella che sembrava una schiera di


biker in prima fila, lasciandone uno col volto tumefatto e insanguinato. Su una nota più leggera, invece, c'era stato il party nel deserto fuori da Las Vegas dopo uno show all'Hard Rock Hotel, quando avevano incontrato un tale che aveva un sacco di funghetti. La band, che non toccava droghe dai tempi di ORIGIN OF SYMMETRY e aveva scelto l'America per festeggiare come si deve (dato che gli show europei erano troppo grandi per lasciare spazio a serate turbolente), sentiva che era ora di lasciarsi andare. Noleggiato un castello gonfiabile, se la svignarono nel deserto insieme alle Like, il gruppo spalla tutto al femminile, e le convinsero (loro e un mucchio di altre ragazze) a vestirsi da aliene e Cappuccetti Rossi per una festa surreale che a Matt fece venire in mente Twin Peaks, perché non avrebbe saputo dire con esattezza quanto di tutto ciò fosse accaduto realmente. C'era davvero un membro del Blue Man Group di Las Vegas? O era proprio un uomo blu in carne e ossa? Fatto sta che il party aveva sforato fino all'ultimo show del tour, al Paramount Theatre di Seattle, dove le Like si vestirono ancora da aliene e invasero il palco durante Forced In: mentre due delle ragazze erano impegnate in una bizzarra coreografia con tanto di numero della carriola, breakdance ed effusioni varie, la terza lanciò in mezzo al pubblico un canotto gonfiabile, ci saltò dentro e remò in direzione del moshpit. Saltarono fuori altri argomenti, come l'abisso di depressione in cui s'erano trovati il giorno dopo le monumentali vette del Reading, quando, ancora in fibrillazione per aver spazzato via dal palco il resto del festival, erano dovuti andare agli Abbey Road per una performance da tre pezzi davanti a nessun pubblico per le telecamere di Live From Abbey Road, un programma di Channel 4. Si parlò di come ai Muse piacessero i Klaxons. Dell'accoglienza del mainstream, cui si sommava la nomination di BLACK HOLES AND REVELATIONS al Mercury Prize. Della rossa delle Girls Aloud che aveva fatto l'occhiolino a Matt durante i Q Awards. Del singolo di Starlight che a settembre era apparso al numero 13 in classifica94. Dei dubbi che Matt nutriva nei confronti dei My Chemical Romance, secondo lui eccessivamente calcolati (affermazione che la band chiederà in seguito di rimuovere dall'intervista, perché nel 2007 si profilò l'eventualità di un tour insieme alla suddetta band). E poi c'era ovviamente il nuovo spettacolo da palcoscenico che i roadie, quando non erano troppo occupati a far balenare l'immagine dei propri culi sui maxischermi, stavano cercando in quel preciso istante, e senza riuscirvi, di infilare a forza in quel palasport. L'America aveva visto il set con quattro schermi e le molle Slinky giganti, ma non avevano quasi fatto in tempo a scendere dal palco del Carling Weekend che già stavano lavorando a un nuovo e ancor più impressionante design scenografico. Con quelle quattordici date in programma a novembre in Inghilterra, tra cui una spettacolare maratona di tre serate alla Wembley Arena, la band voleva allestire uno spettacolo totalmente diverso da quanto fatto nei festival, e con una scaletta da venti pezzi a sera doveva trattarsi di uno show tanto mozzafiato quanto lungo. Con sei frenetiche settimane d'anticipo sul primo show europeo di quell'autunno, si misero ad assemblare il concept. Tentarono di ricostruire sul palco l'installazione HAARP, quella misteriosa base da 30 milioni di dollari in Alaska per cui avevano sviluppato una leggera ossessione e che secondo il governo americano era un sistema per comunicare con sottomarini o navi spaziali, mentre, stando ai sospetti di alcuni esperti, poteva trattarsi di una nuova arma, il tentativo dell'America di attingere alla ionosfera per controllare il clima o le nostre menti. Giganteschi tralicci su entrambi i lati del palco uniti da "raggi" neon discendenti, uno schermo che copriva in lunghezza tutto il palco e il nuovo impianto d'amplificazione per la chitarra di Matt, più potente di un temporale (quando l'aveva provato per la prima volta nella sua villa in Italia aveva mandato in blackout un'area pari a un intero paesino). E in mezzo, come colonna portante, c'era una nuova pedana rialzata per la batteria progettata per assomigliare al satellite in ipotetica comunicazione con l'installazione. Sfortunatamente, l'uomo non aveva ancora costruito un palco abbastanza grande per attaccarci le ali, e così ne uscì fuori un aggeggio che fu descritto, di volta in volta, come un enorme frullatore di neon o un imbuto futuristico. Ma l'effetto era comunque sbalorditivo: ogni sera, nel buio prima dello show, Dom si intrufolava nel satellite e iniziava a suonare mentre la pedana si sollevava, rivelandolo al pubblico. A Madrid, Matt disse per scherzo che moriva dalla voglia che quell'affare si incastrasse, così Dom sarebbe rimasto lì dentro finché il locale non si fosse svuotato prima di arrampicarsi


per poter uscire. Investivano in scenografie la maggior parte dei soldi che guadagnavano in tour, ma neppure questo bastava per Matt. All'inizio avrebbe voluto piantare un traliccio extra nel bel mezzo dell'auditorium, collegato al palco con dei cavi, ma quando gli dissero che sarebbe costato un milione di sterline in più lasciò perdere l'idea. Propose anche l'eventualità di inscenare un'invasione aliena durante lo show, facendo volare un UFO gonfiabile sopra la folla che sarebbe poi atterrato sulla band per "abdurli" via dal palco, ma anche quest'idea fu ritenuta infattibile. Nonostante ciò, dalla sua prima apparizione alla Bizkaia Arena di Bilbao, il 24 ottobre, e successivamente in Europa e Regno Unito, il palco occupò cinque tir e dozzine di macchinisti addetti al trasporto, e c'erano quindi da aspettarsi problemi di rodaggio nei primi tempi. Quel giorno erano arrivati sul posto per scoprire che l'impianto luci semplicemente non funzionava. Sembrava proprio che ai Muse il circuito dei palasport andasse ormai stretto. Era rimasto solo un posto in cui andare, osservai io. Gli stadi. Matt fece scorrere lo sguardo sulle tonnellate di costose diavolerie tecniche costruite a suo beneficio, a suo capriccio. Ripensò per un istante a quanta strada aveva già fatto. Dai privée dei pub di Teignmouth a giocattoli elaborati come piattaforme idrauliche per la batteria, fuochi d'artificio, getti di vapore e sfere di plastica rimbalzanti. Scrollò le spalle con aria saggia. "Questo non lo so", disse, fingendo di rimuginarci sopra per la prima volta. "Ma credo sia ora che una nuova generazione di band inizi a suonare negli stadi". Lo sa il cielo come riuscì a trattenere un sogghigno. * * * Il 4 dicembre 2006, durante una conferenza stampa tenutasi sul campo del Wembley, il nuovo stadio nazionale da 575 milioni di sterline i cui lavori avrebbero finalmente visto la fine quasi tre anni dopo, i Muse annunciarono che sarebbero stati i primi headliner di quella struttura nuova di zecca alla sua apertura, la prossima estate. Con una capienza di 90mila persone, era lo stadio più grande d'Europa e senza la minima ombra di dubbio il più grande show della band. Avevano iniziato ad accarezzare l'idea di suonare negli stadi durante il Summer Sonic festival di Osaka, quell'estate; ad attrarli era la forma ad anfiteatro dello stadio, cioè una variante rispetto al solito pubblico dei festival disposto in orizzontale. E il potenziale di spettacolo aveva l'aria di essere infinitamente maggiore, piuttosto che presentarsi a un festival con uno scatolone pieno di luci e basta. Quell'anno avevano offerto ai Muse diverse opzioni per dare vita a un loro festival personale, ad Hyde Park o Milton Keynes, ma poi all'orecchio del manager Anthony Addis era giunta la notizia che lo stadio doveva essere finito in tempo per la finale della Coppa d'Inghilterra 2007 e la decisione fu presa. Dopo lo spostamento dei colossali show di Bon Jovi, Rolling Stones, Take That e Robbie Williams per il ritardo nei lavori di costruzione, il popolo di Wembley voleva che a inaugurare lo stadio fosse una band inglese invece dei soliti dinosauri, e i Muse erano la band giusta con l'album rivelazione giusto al momento giusto. George Michael sarebbe stato il primo artista solista a suonare nel nuovo stadio di Wembley, ma i Muse sarebbero stati la prima band a mettere alla prova quelle fondamenta che non si erano ancora asciugate. Entrare in un posto simile per la prima volta fu per loro un miscuglio di emozioni: paura, la preoccupazione di non riuscire a riempirlo o di fare uno show degno di una struttura così vasta, eccitazione all'idea di ciò che si poteva fare con tutto quello spazio e puro stupore per le sue dimensioni. Soltanto Chris era stato nel vecchio stadio di Wembley, per assistere al pareggio 1-1 tra Inghilterra e Brasile nel 1992, ma questo era molto più grande di quanto avessero mai potuto aspettarsi. Dom, per dirne una, non riuscì a dormire decentemente dal giorno in cui decisero di tenervi il concerto. Era una mossa pigliatutto che Matt, nel suo gergo da poker, avrebbe descritto come "allin". Ciononostante, durante la conferenza non smisero di dimostrarsi ottimisti e spensierati. Loro pregustavano un sacco l'idea, fece notare Matt, ma in fondo suonare in quel posto non era chissà che grande evento: se avessero sbagliato potevano sempre tornarsene a casa a fare di nuovo gli imbianchini e i decoratori. Disse che gli sarebbe piaciuto entare in scena facendo bungee jumping dal gigantesco arco sopraelevato dello stadio, ma forse quelli della sicurezza glielo avrebbero impedito. Nelle interviste più recenti, Matt disse


che si sarebbero probabilmente bruciati tutti i soldi dei concerti per allestire il miglior show possibile, in linea con lo spirito dell'evento, e Dom confidò che la band aveva guardato il Dvd del concerto dei Queen nel 1986 per racimolare qualche dritta pratica e lui, durante un evento mondano, aveva persino messo con le spalle al muro Roger Taylor per farsi dare un consiglio. Il batterista gli aveva detto di non preoccuparsi, che era una stronzata e che era tutto così lontano che non si riusciva a vedere niente. I Muse programmarono comunque lo show. Alle 9 della mattina del 9 dicembre furono messi in vendita 90mila biglietti per il concerto dei Muse al Wembley Stadium previsto per il 16 giugno 2007. Entro le 9.45 ogni biglietto era stato venduto. I fan che sfoggiavano il loro acquisto nei fansite scoprirono che i possessori del biglietto, più che tra i molti rincuorati, erano tra i pochi fortunati. Le richieste superarono di gran lunga la singola data, e il sito d'aste eBay fu inondato da centinaia di doppi biglietti per l'evento. Su un tour bus appena fuori Monaco, Dom fu scosso dal suo quasi-sonno inquieto e messo al corrente che il primo concerto a Wembley era sold-out, che avevano già messo in vendita i biglietti per un secondo show il 17 giugno e che pure questi si vendevano veloci quanto il primo. Il sonno in cui Dom tornò a sprofondare era ben più tranquillo e sereno di quello da cui s'era svegliato. Per i Muse era la fine di un'annata incredibile. Solo una settimana prima avevano visto l'uscita di Knights Of Cydonia (un pezzo impensabile in veste di singolo, almeno finché non fece sfracelli negli States) che s'era piazzato al numero 10 nell'affollata classifica pre-natalizia inglese, accompagnato da una versione live di Supermassive Black Hole in formato Cd e da una extended di Assassin in vinile, ribattezzata con quel "Grand Omega Bosses edit" che strizzava l'occhio alla gara di crittologia del 2005 (era l'anagramma di Messageboard Song, il nome sotto cui girava Assassin nel tour dell'anno prima). Il video, elaborato, sgangherato ed esilarante quanto la canzone, seguiva le gesta di un "uomo senza nome" che, a voler prendere estremamente alla lettera l'idea di Matt riguardo il brano, solcava un paesaggio da spaghetti western in sella a cavalli, motociclette e unicorni, sparava con pistole laser e sfoderava mosse di karaté in stile Matrix. I riferimenti alle pellicole sci-fi abbondavano (ologrammi della band come in Guerre Stellari, enormi robot argentati, il busto della Statua della Libertà che spunta dalla sabbia), motivo per cui fu indetto un concorso sul sito ufficiale della band dove i concorrenti avrebbero dovuto nominare tutti e quindici i film di fantascienza omaggiati nel videoclip. In linea con un periodo dell'anno così festoso, forse quel promo andò a smuovere i sentimenti di ilarità e stravaganza che albergavano nello spirito della nazione. E poi cominciarono ad arrivare i sondaggi e le premiazioni di fine anno. A novembre la band si era aggiudicata il Miglior Gruppo Alternative agli MTV Europe Awards senza nemmeno sapere di essere in nomination fino al giorno prima (suonarono Starlight alla cerimonia del 2 novembre, con il laser più grande mai usato in quello show). Nella classifica dei 100 Più Grandi Album Inglesi indetta da «NME», ABSOLUTION era rotolato al numero 21 mentre BLACK HOLES AND REVELATIONS sedeva al terzo posto nella classifica Album del 2006 e in posizioni ugualmente alte su gran parte delle altre riviste musicali. Insieme a Radiohead e Clash, erano nella rosa dei candidati alla Hall Of Fame di XFM, Siobhan Grogan del «Daily Mirror» inserì il loro show allo Shepherd's Bush Empire nella sua Top Five dei concerti dell'anno e persino i padroncini che leggono il «Daily Star» li votarono come Miglior Gruppo Live nel riepilogo di fine anno. La rivista «Record Collector», intanto, rivalutò l'altro estremo del songwriting della band, fissando il valore di una copia di SHOWBIZ a 80 sterline, mentre quello dell'edizione limitata e numerata del vinile in 1.500 copie del MUSE EP arrivò fino a 200 sterline. La rivista sosteneva inoltre che i Muse stavano esercitando sul mercato dei collezionisti una presa che non si vedeva dagli anni Ottanta con i Queen. Ovviamente l'accoglienza della stampa non è mai stata il metro di misura del successo: loro si davano un voto dal livello di rapimento estatico nelle facce del pubblico. E il tour nei palasport di quell'inverno aveva steso più fan che mai. Dal Patinoire Mériadeck di Bordeaux, ad Halloween, quando Dom passò tutto lo show con un costume da Spiderman e Chris indossò per un po' una testa da orsacchiotto, alle tre serate sold-out alla Wembley Arena e poi oltre, nei palasport europei fino al 19 dicembre, i Muse mandarono in scena la loro HAARP


con effetti vertiginosi. Uno show paragonabile a una blitzkrieg sensoriale, svelata agli occhi del pubblico da dietro un grande drappo nero, con Matt spesso avvolto in un fluente abito da mago o nella sua attillata tuta rossa, la chitarra stretta all'inguine come il sex-toy di un androide, che scivolava di ginocchia su palchi appositamente lucidati a specchio. Tra il deflagrare delle stelle e lo sfrecciare delle galassie, eserciti di robot marciavano dritti contro la telecamera, oscure città dell'illusione sorgevano dal pulviscolo celeste perso nello spazio, palloni come pianeti piovevano dal cielo, vapori paradisiaci e bordate di fuoco infernale si sprigionavano dal palco e fino a 19mila persone, ogni sera, ruggivano in coro con il più grande spettacolo rock dell'era moderna. E pur con una tale pressione tecnologica, mai due show uguali. La Odyssey Arena di Belfast ricevette a sorpresa un bis con Muscle Museum. La Manchester Evening News Arena vide un trombettista di nome Dan unirsi alla band per l'inizio di Knights Of Cydonia, oltre alla prima esecuzione nel Regno Unito di City OfDelusion, l'ultima (ad oggi) di Showbiz e una chitarra scagliata in mezzo al pubblico a fine concerto. Alla National Ice Arena di Nottingham regalarono un bis con sei brani compresa Sunburn, mentre la seconda serata alla Wembley Arena vide l'esecuzione di tutte e undici le tracce di BLACK HOLES AND REVELATIONS più due bis a base di vecchi classici, il primo con pezzi tratti da SHOWBIZ e ORIGIN e il secondo con i successi di ABSOLUTION. Lo show finale a Wembley, come a voler rimediare per chiunque si fosse perso la serata prima, vide Chris prendere a calci uno dei palloni gonfiabili che gli rimase attaccato in cima alla testa per diversi minuti come il più enorme dei cappelli a pon pon. Fioccavano ovunque i riff, appiccicati all'inizio o alla fine delle canzoni, che ammiccavano ai miti della band: Maggie's Farm di Bob Dylan, Killing In The Name o Township Rebellion dei RATM, I Want To Break Free dei Queen e Heartbreaker dei Led Zeppelin. Tra Berlino e Amburgo, Roma e Milano, Ginevra, Vienna, Monaco, Dusseldorf, due serate sold-out nel gigantesco palasport parigino di Bercy e altro ancora, l'inarrestabile marcia di sensuale devastazione dei Muse si lasciò alle spalle una scia di cervelli in subbuglio, occhi stropicciati e cuori in fiamme in tutta Europa. Il climax fu un'esibizione da venti brani il 19 dicembre allo Sportpaleis Merksem di Anversa (capienza: 21 mila persone), con Dom ancora una volta nei panni di Spiderman, la pioggia di palloni a metà di Bliss e un party natalizio alla fine dell'universo che infuriò ben oltre il coprifuoco. Nel 2006, una volta tanto nessuna tragedia rovinò il Natale della band. Dom e Chris tornarono a Teignmouth per trascorrere le feste con le rispettive famiglie e Matt si precipitò a sciare nelle Alpi, ciascuno con la testa ingombra dei match preliminari del sabato pomeriggio che portavano alle finali di Coppa d'Inghilterra. E la strada verso Wembley si sarebbe rivelata altrettanto tortuosa. * * * Come tutti i viaggiatori più consumati, i Muse subivano il fascino dell'esotico e dell'ignoto. E ora, come segno di genuina apprensione da stadio, decisero che il 2007 sarebbe stato l'anno in cui avrebbero lasciato la pista ben battuta dei soliti tour per avventurarsi nei territori più inesplorati. E prima di riagganciarsi ancora una volta al Big Day Out in giro per Australia e Nuova Zelanda, partirono così come intendevano proseguire con il loro primo show a Singapore, al Fort Canning Park il 16 gennaio, davanti a 6.500 fan che di rado vedono band occidentali di passaggio dalle loro parti. La richiesta era così pressante che il promoter si vide costretto ad aumentare di mille unità la capienza della struttura per ospitare la band, e mentre i giovani rockettari di Singapore ebbero modo di apprezzare i loro (tardivi) brividi metal-pop, i Muse ebbero modo di apprezzare la pregiata seta nazionale, comprandone diversi rotoli con cui decorare i loro camerini per il resto dell'anno. Le tre settimane del Big Day Out Tour 2007 videro i Muse come secondi headliner dopo i Tool e con band da urlo come My Chemical Romance, The Killers, The Streets e Trivium nel ruolo di supporter. In mezzo alle date del festival, la band si dedicò ai suoi show da headliner all'Hordern Pavillion di Sydney (5mila posti a sedere) e all'ancor più grande Festival Hall di Melbourne. Nella prima settimana dalla sua uscita, BLACK HOLES si era piazzato al primo posto nelle classifiche australiane e ormai la band era diventata un pezzo grosso, giù da quelle parti. Matt veniva puntualmente svegliato nel cuore della notte da


legioni di fan che bussavano alla porta della sua camera d'albergo, e durante le date del Big Day Out si respirava a pieni polmoni il clima festaiolo dell'estate. Morgan Nicholls - che faceva la spola tra Muse e The Streets, la sua vecchia band - si guadagnò il titolo di re dei party post-concerto mentre Matt si godeva gli assolati giorni di riposo. Dopo aver scoperto che non riusciva a dormire per via del fuso orario, dopo lo show al Gold Coast nel Queensland il cantante si lanciò in un party che andò avanti per tutta la notte, al termine del quale si ritrovò a nuotare in mare all'alba. La band strinse anche amicizia con i The Killers, gli showmen dell'indie giunti da Las Vegas, con cui fecero più volte le ore piccole a parlare del calendario maya che prevedeva la fine del genere umano entro la metà del 2007. Matt era così convincente quando argomentava che la fine del mondo poteva essere alle porte che Brandon Flowers, il cantante dei Killers, consigliò ai Muse di lasciar perdere il concerto di Wembley e di imbarcarsi in una vacanza nonstop in ogni continente, dove contrarre debiti che tanto non avrebbero mai dovuto ripagare. Stranamente, i Muse scelsero di attenersi al loro piano di partenza. Dopo una "Mano di Dio" che sputava fiamme sopra il palco principale dello Showground di Sydney e chitarre difettose cambiate senza soluzione di continuità, i Muse terminarono il Big Day Out il 4 febbraio con un caloroso "Ciao, Adelaide!" da parte di Dom (un finale glorioso per un tour, se solo non si fossero trovati a Perth, in quel momento). Tornarono in Inghilterra per i Brit Awards di San Valentino ad Earls Court, dove furono candidati per Miglior Album, Miglior Gruppo e Miglior Gruppo Live. I tabloid li strombazzavano come la band con più nomination di quell'anno, ma anche mentre salivano sul podio per ritirare il premio come Miglior Gruppo Live, con clamore e discorsi ridotti al minimo e l'umiltà di chi ha preso coscienza di quant'è arrivato lontano, le loro menti erano già sull'architrave del Wembley. Il giorno seguente, dopo che Matt festeggiò la serata di San Valentino in compagnia di Gaia, la band si trovò d'accordo sul fatto che bisognava pensare a un nuovo design, ma stavolta per l'enorme palco del Wembley Stadium. Per ricostruire da zero l'intero show da palasport per la seconda volta in un anno (ci tenevano così tanto a dare ai loro fan qualcosa che valesse il prezzo del biglietto che il solo pensiero di ripetersi era un anatema: volevano suonare ogni show come se fosse l'ultimo) fu dispiegato un intero arsenale di trucchi e marchingegni. Il 16 febbraio la band incontrò gli architetti della compagnia di allestimento scenico Stageco per discutere il design del palco (si parlò di un secondo palcoscenico illuminato dagli elicotteri, da qualche parte nello stadio) e sottoposero le loro proposte all'ufficio Sicurezza & Salute del Consiglio Comunale di Brent. Molte non passarono l'esame: non avevano il permesso di far volare un dirigibile sopra lo stadio per proiettarvi il concerto, così da farlo seguire a tutta Londra; non potevano puntare riflettori o raggi laser dagli elicotteri in mezzo alla folla, perché si rischiava di accecare qualcuno; l'invasione di alieni gonfiabili era un'idea morta in partenza, così come le proposte di Matt di arrivare sul palco con dei jet pack o di calarsi da zeppelin giganti. Per quanto i piani che avevano in serbo per Wembley fossero stati bruscamente ridimensionati, i Muse avevano ogni intenzione di renderla una cosa stratosferica. Si parlava del palco più rivoluzionario mai concepito, forse con l'intera superficie trasformata in un raggio gigante per proiettare il loro show fino al cielo, oppure con un messaggio segreto inserito nel design stesso. Quando tutta quella gente avesse rivolto lo sguardo in basso, verso il concerto, questo sarebbe schizzato su per inghiottire lo stadio intero. Volevano nientemeno che il più grande show sulla faccia della Terra. La band stessa si dimostrò estremamente partecipe nell'organizzazione e nella pianificazione concettuale degli show di Wembley. A Matt fu dato il compito di raccogliere le idee riguardo soluzioni visive e trovate sceniche, mentre Dom fu incaricato di trovare le band di supporto. I Muse volevano che quei due concerti funzionassero come dei mini-festival, con una lista di gruppi spalla sensazionale al pari di quell'evento storico. Per compilare la rosa delle band con cui avrebbero suonato, i parametri di scelta si concentrarono più sul fatto che fossero persone simpatiche con cui uscire insieme piuttosto che musicisti in linea con il loro genere. Dom bussò alla porta di Lily Allen, Wolfmother e Bloc Party, e quel gennaio stesso i Klaxons, gli eroi del mese in fatto di elettrorave, rivelarono che quando Dom li aveva avvicinati per proporre loro un posto in cartellone, loro avevano rifiutato perché erano un po' brilli e gli ronzavano


ancora in testa le parole del loro manager, che gli aveva detto di non fare da supporter a nessuno. Si rimangiarono alla svelta quel rifiuto, ma ormai era troppo tardi: altri gruppi s'erano già aggiudicati la parte, tra cui i Dirty Pretty Things, il nuovo combo di Cari Barat dei Libertines, i rocker scozzesi Biffy Clyro e i loro compagni del Big Day Out 2007, cioè My Chemical Romance e The Streets. Con in testa un turbine di possibilità e preoccupati su quanto fossero riusciti a protrarre il loro set (lo show finora più lungo era stato quello di un'ora e tre quarti ad Anversa nel 2006, al termine del tour nei palasport, ma contavano di allungarlo a due ore con delle parti più lente e rilassate), il 22 febbraio la band saltò su un volo per Giacarta, Indonesia, per inaugurare la tappa successiva del loro avventuroso tour "fuori strada". Per la prima volta si spinsero in località ancora più esotiche, con show in Malesia, Taiwan, Cina e Corea del Sud, mentre erano diretti a un tour di otto date, a marzo, in Giappone. Senza aver mai messo piede in questi Paesi, scoprirono che nel palasport Istora Senayan di Giacarta avrebbero suonato davanti a 7mila persone, 10mila allo Stadium Negara di Kuala Lumpur e molte di più ad Hong Kong, Seoul o Taipei City. Tra un pezzo e l'altro, Dom scandiva alcune frasi leggendole da alcuni cartoncini per la pronuncia fonetica, iniziativa spesso sabotata dalla band come quando disse: "Ho un bel sedere" a 10mila malesiani urlanti. Oppure ritirava premi: quello di «NME» come Miglior Gruppo gli fu consegnato sul palco durante l'intro di Stockholm Syndrome al Chung Shan Soccer Field di Taipei City, il 28 febbraio, quando registrò simultaneamente il discorso di ringraziamento dicendo: "Merda, sono a pezzi. Troppo gentile da parte vostra. Per noi significa veramente tanto, dico sul serio. Ora devo andare a suonare un bel riff"95. Sebbene i costi per portare la band e il loro show (quello con i tubi fluorescenti, non l'intero spettacolo col satellite) in Estremo Oriente implicassero che i conti tornavano in pari soltanto grazie a queste date, la band fece comunque un sacrificio pur di esplorare territori sconosciuti e spassarsela un po'. In Indonesia, però, questa caccia allo sballo rischiò di ritorcerglisi fatalmente contro. Come se già non buttasse abbastanza male con il loro tour manager, derubato da tre travestiti in un ascensore a Giacarta, la smania di Dom per una pasticca di ecstasy lo spinse a prendere un taxi che, una volta raggiunto il ghetto della città, si fermò davanti a una baracca inghirlandata di rifiuti e fu circondato all'istante da mendicanti che battevano con foga rabbiosa sui finestrini e sul cofano. L'auto sgommò via, e giusto in tempo. Il tassista spiegò a Dom che se la folla fosse riuscita a scardinare gli sportelli l'avrebbe rapinato per poi sparargli in mezzo alla strada. Al termine dello show di Hong Kong, invece, la band fu adottata da un giornalista che si comportava come se fosse il proprietario della città. Quella sera, mentre li trascinava nei suoi bar e locali preferiti, si fece sempre più ipereccitato, ubriaco e molesto; giunti nell'ultimo bar prosciugò il suo drink, scoccò un'occhiata compiaciuta e scagliò il bicchiere vuoto lungo la stanza. Una grandiosa dimostrazione degli eccessi del rock'n'roll, avrà pensato quel tale, se non fosse che il vetro andò a spaccarsi sulla schiena di una delle mastodontiche guardie del corpo che ormai seguivano la band dappertutto e che nel migliore dei casi non è gente troppo incline al perdono. Infatti rifilarono a quel giornalista una sonora pestata per la sua arroganza. Il tour di BLACK HOLES sbarcò in Giappone (dove suonarono il loro set più lungo all'International Forum di Tokyo: 23 canzoni per quasi più di due ore, compresa la prima apparizione di Sing For Absolution dopo due anni), e c'erano ancora nove mesi prima che la band potesse staccare la spina come si deve per un po' di tempo. Tornati dal Giappone, trascorsero un mese in Inghilterra per mettere a punto i dettagli di Wembley e girare un video per il nuovo singolo Invincible, in uscita il 9 aprile96. Sempre fedeli al tema della fine del mondo, il videoclip mostra la band in un tour carnevalesco stile Tunnel dell'Amore che li porta a spasso nella storia del pianeta. Mentre suonano in un carrello galleggiante, oltrepassano le riproduzioni da cartone animato dell'era preistorica, l'antica Grecia, le invasioni vichinghe, la rivoluzione industriale, la Seconda Guerra Mondiale, un paesaggio urbano futuristico e per ultimo, dopo un cartoonesco attacco al World Trade Center, scene bambinesche di caos globale, in cui mega-topi robotici sventrano palazzi a morsi e una navicella aliena annienta un'umanità giocattolo. Era l'apocalisse secondo Sesame Sreet, gentilmente offerta dalle lettere "W", "W" e dal numero "3".


Ma non tutti condivisero il loro approccio scanzonato alla conflagrazione internazionale. Il 7 aprile, Matt raggiunse il cancello d'imbarco del suo volo per San Francisco, con in programma tre date di riscaldamento tra USA e Messico prima di un tour di sei settimane nei palasport insieme ai My Chemical Romance. Seguendo la procedura standard dell'aeroporto, l'ufficiale dietro il bancone gli chiese il motivo del suo viaggio in America, e Matt gli rispose di non preoccuparsi: non avrebbe lavorato illegalmente o fabbricato bombe. Il personale addetto alla sicurezza di un aeroporto, così come vigili urbani e rinoceronti infuriati, non è rinomato per il suo senso dell'umorismo, ma dopo averlo debitamente ripreso per la battuta di cattivo gusto, a Matt fu tuttavia concesso di salire a bordo. Qualche minuto dopo, però, fu trascinato fuori da ufficiali ancor più zelanti e condotto in una stanza degli interrogatori dove, prima di prendere il volo, gli fu chiesto cosa ne pensasse del popolo americano e quale fosse il suo atteggiamento nei riguardi della nazione. Matt poté solo dirsi fortunato a non avere una copia di BLACK HOLES nel bagaglio, altrimenti l'avrebbero bandito dall'America per influenze insurrezionaliste. C'è da immaginarsi che abbia tenuto per sé anche le sue letture di volo: in quel periodo stava infatti studiando i sistemi di controllo mentale descritti nel libro di Kathleen Taylor Brain-washing: la scienza del controllo del pensiero, che desiderava aver letto da ragazzo per poterne discutere con i Testimoni di Geova che gli bussavano alla porta. Ormai in America la band era gestita dalla Q Prime, la stessa compagnia di management che aveva trasformato i Red Hot Chili Peppers da beniamini funk rock delle confraternite studentesche a superstar mondiali, e quella primavera la sua influenza non tardò a farsi sentire. Se quello al Bill Graham Civic Auditorium di San Francisco (7mila posti a sedere) era stato finora il loro concerto più grande negli States, quello del giorno dopo lo eclissò di quasi il triplo. All'Inglewood Forum di LA, dritto nel cuore malfamato di South Central scelto da Quentin Tarantino per il suo Pulp Fiction, i Muse fecero sold-out davanti a un pubblico di 18mila persone, cioè la somma di gran parte dei loro show europei oltre che un risultato "eccezionale" stando al caporedattore della guida ai concerti «Pollstar», che paragonò il loro livello a quello raggiunto dai Depeche Mode in America negli anni Ottanta. E la band si dimostrò all'altezza di quel successo sferrando un feroce attacco in venti canzoni, nonostante la sera prima Chris avesse vomitato tra un bis e l'altro a causa di una bronchite. Los Angeles era l'undicesima data del tour di BLACK HOLES e a questo punto sia la band che la crew erano un congegno ben oliato. Di giorno c'erano i meet andgreet nelle stazioni radio regionali, con il dj locale che ogni tanto li coinvolgeva in una corsa coi go-kart, una partita a paintball o una sessione di tiro al bersaglio. I giorni liberi erano per lo sci o le battute di pesca organizzati dal loro tour manager. Nei giorni dei concerti, verso l'ora del soundcheck, si rilassavano nei camerini drappeggiati con seta di Singapore, i massaggiatori pronti a scattare al minimo cenno e il tour manager intento a risolvere la questione del bucato (in ogni clausola contrattuale chiedevano mutande e calzini usa e getta per ridurre al minimo la questione lavanderia, e spesso si vedeva Matt indossare la stessa t-shirt con scollo a V per tre giorni di fila). Di solito Chris chiamava a casa un paio di volte al giorno, accumulando bollette che andavano dritte al commercialista della band e che venivano definite "dolorose", e dopo lo show bevevano fino all'alba. Le sedute alcoliche di Matt al bar dell'albergo si concludevano alle cinque del mattino con le minacce del personale o una telefonata allo sceriffo, mentre il 12 aprile, in Messico, Dom restò in piedi fino alle otto del mattino, a sbronzarsi così di brutto da non accorgersi del sisma di magnitudo 6.3 gradi scala Richter che quella notte colpì Città del Messico. Il terzo, fallimentare atto divino per schiacciare il BLACK HOLES tour. Il Messico in sé fu un'esperienza strana per la band. In tutto il Paese c'era una corruzione dilagante, e siccome la polizia aveva preteso una ragguardevole fetta sugli incassi del concerto al Palacio de los Deportes (capienza: 22mila persone), i Muse chiesero anch'essi qualcosa in cambio: una scorta in qualunque parte della città si spostassero. Il momento in cui ebbero più bisogno di protezione fu però all'interno del palasport stesso: le transenne che li separavano dal pubblico, troppo esili e leggere, erano famose perché crollavano a serate alterne durante i concerti più tranquilli. Con lo show dei Muse cedettero per ben due volte.


Strano a dirsi per una formazione composta da tre camion lunghi diciotto metri, centinaia di luci e un tecnico delle chitarre parecchio stressato che doveva vedersela con otto esemplari di chitarra assolutamente unici, ma il resto del tour americano dei Muse fu nel ruolo di supporter dei My Chemical Romance. Solo sette, otto canzoni per 45 minuti di performance in un circuito di palasport che erano a un passo dal capitanare come headliner. Nonostante Matt avesse mancato leggermente di rispetto ai MCR accusandoli di essere troppo artefatti in un numero di «NME» dell'anno scorso (pur non menzionandoli mai direttamente), entrambe le band avevano in comune un seguito di fan giovani, disillusi e appassionati, e nel corso del tour nacque tra loro un sano e reciproco rispetto. Ogni sera gli MCR seguivano lo show dei Muse da un lato del palco e Matt ebbe modo di apprezzare il potenziale d'intrattenimento del circo degli MCR, una specie di musical itinerante gotico-adolescenziale basato sulla storia del loro terzo album, THE BLACK PARADE. Lo show seguiva grossomodo la vicenda e le riflessioni sulla vita di un personaggio chiamato "Il Paziente", che muore di cancro in un reparto d'ospedale. Matt, che non era nuovo al tema avendolo già esplorato di persona in Thoughts Of A Dying Atheist e in altri pezzi di ABSOLUTION, non mancò di ammirare la qualità strepitosa di quel concept da opera rock. Ecco qualcosa, pensò lui, che i Muse potevano piegare ai loro scopi. Ma quel tour avrebbe avuto vita breve. Dopo undici date sulle venti in programma, sia i Muse che i membri degli MCR, band e roadie in blocco, furono colpiti da una massiccia epidemia di salmonellosi provocata, a quanto si dice, da "pollo andato a male" che tutti avevano mangiato a Williamsburg, Vancouver. Le ultime nove date furono posticipate di alcuni giorni e poi cancellate quando l'intero tour fu sopraffatto dalla malattia. Tutti tranne Matt, uno dei pochi componenti a non essersi ammalato, che prese un volo per l'Italia per dare un'occhiata a come procedevano i lavori nel suo complesso abitativo "studio più band" (dove trovò i muratori che facevano il bagno nel lago o prendevano il sole: pareva che ci volesse più tempo a finire il suo studio che il Wembley Stadium). Ne approfittò anche per dare gli ultimi ritocchi ai concerti della sua vita: il diario del tour contava altre sei date prima del 16 giugno (due festival in Germania e Olanda più due show da headliner in Lussemburgo e in Italia, l'occasione giusta per scrollarsi di dosso due classici del pessimismo come Unintended e Blackout in attesa di rispolverarli per il grande evento), seguite dal ruolo di headliner nella prima serata del festival dell'Isola di Wight, il 9 giugno, lo show di riscaldamento di più alto profilo in cui avessero mai suonato. Dopo solo una settimana, infatti, Matt si sarebbe ritrovato in piedi su una piattaforma idraulica, al buio, in mezzo a un campo da calcio nuovo di zecca, fianco a fianco con i suoi due migliori amici, nelle orecchie i geyser che eruttavano fumo, lo show che scaldava i motori e il pubblico che iniziava a ruggire... * * * Il 16 giugno 2007, nell'aria del Wembley Stadium si respirava un autentico odore di vittoria. Dalla decima fila dell'area giornalisti, alla sinistra del palco, lo sentivi sprigionarsi dal pubblico come fosse vapore, ne avvertivi il sapore come polvere di rame fra i denti. C'erano senso di conquista, unione, festa. Era un trionfo di cultura outsider che il rock non vedeva da decenni. C'erano passati anche gli Oasis, che avevano suonato ubriachi e fatto la figura del gruppo indie alle prese con un concerto più grande di loro. I Muse erano venuti per fare piazza pulita di quel posto. Che aveste seguito la band sin dal primo giorno, dedicato loro un sito, decodificato i messaggi criptati, comprato tutti i formati, imparato tutte le parole, lanciato uno dei cori a Trafalgar Square la sera prima97, trasportato i loro amplificatori, accordato le loro chitarre, organizzato i loro tour, amministrato i loro contratti o, come me, scritto in loro onore dozzine di interviste e recensioni entusiastiche, quel giorno ci sentivamo tutti come se avessimo fatto la nostra parte nel creare la prima di una nuova generazione di band da stadio. Insieme eravamo davvero invincibili. Bastava la scenografia a distogliere l'attenzione dallo stadio. Una cascata di schermi giganti, talmente ultramoderni che il vento ci passava attraverso, allineati a coprire l'intera lunghezza di un palco incorniciato in un motivo da segnaletica industriale e tramutato in un unico, enorme schermo. Ai suoi lati due gigantesche antenne paraboliche, pronte a sparare voluminosi raggi laser nella stratosfera. Il migliaio o giù di 11 di fortunati possessori del biglietto


d'oro furono confinati in un comparto triangolare di fronte al palco, costeggiato da quelli che sembravano binari del tram e tagliato a metà da un corridoio che dal palco si protendeva fino al centro dello stadio. E al di sopra di tutto ciò, in alto fra le gradinate, le tradizionali sfere bianche avevano ormai raggiunto i sette metri di diametro, adagiate su delle piattaforme come un'assemblea di cervelli alieni intenti a giudicare il mostro da loro creato. Per trasportare quel palco furono necessari sette camion e dovettero usare sedici chilometri di cavi ma, che ci crediate o meno, fu montato in non più di tre ore. Alle 20.30, dopo che Rodrigo y Gabriela, Dirty Pretty Things e The Streets ebbero spinto un pubblico già di per sé eccitabile in uno stato di tesa anticipazione, si sprigionò il fumo, volarono brandelli di carta e, sulle note austere e meditabonde della Danza dei cavalieri tratta dal Romeo e Giulietta di Prokofiev, Matthew Bellamy, Dominic Howard e Christopher Wolsthenholme sorsero, spalla a spalla, da una piattaforma al centro dello stadio. Matt indossava un abito rosso, Dom pantaloni verde acido e Chris un classico vestito nero. Tre ragazzi come tanti che venivano da Teignmouth, entrati nel mito per la forza pura, impossibile da ignorare, della loro passione, della loro potenza, del loro virtuosismo. Mentre sfilavano lungo la passerella fino al palco fiancheggiati da una truppa di macchinisti con tute gialle per la radioattività e maschere protettive, salutarono, sorrisero, assorbirono quel momento fino all'ultima goccia. Prima del concerto la tensione si era fatta insopportabile, ma la vista di 90mila volti che ricambiavano il loro sguardo dissolse ogni nervosismo all'istante. Raggiunsero il palco, presero posizione. Matt raccolse la Manson DeLorean da un robot radiocontrollato che aveva l'incarico di portargli tutte le sue chitarre durante la serata. Osservò le sue dita sulle corde, tirò fuori il motivo di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Sembravano le dita di qualcun altro, sulla chitarra di qualcun altro. Sentiva la testa leggera, distante, come se stesse galleggiando fuori dal suo corpo. Quando tornò a posare lo sguardo sul pubblico si chiese cosa diavolo stesse facendo in quel posto. Poi le dita sulla chitarra toccarono la prima nota di Knights Of Cydonia, e i cavalieri della Nuova Apocalisse Rock calarono dal cielo. Il concerto al Wembley Stadium non fu una semplice pietra miliare per la band, un passo evolutivo per le nuove formazioni alternative rock ai vertici dell'aristocrazia musicale o anche solo il miglior concerto di sempre, secondo il voto dei lettori di «Kerrang!» di quell'anno. Fu un evento che caratterizzò una generazione. Hysteria detonò come una bomba atomica. Armate di androidi alti diciotto metri marciarono per tutta la durata di Supermassive Black Hole. Gli schermi si riempirono di fuochi d'artificio per il climax di Invincibile. Feeling Goodvide Matt suonare un pianoforte trasparente con le corde che si illuminavano. Butterflies And Hurricanes minacciò di scuotere l'arco del Wembley dai supporti. Il riff d'apertura di Plug In Baby trovò finalmente una struttura degna delle sue dimensioni. Gli schermi erano un marasma visivo da friggere le pupille, con la band in azione sul palco, visioni spettacolari e slogan poetici come "Che la solitudine abbia fine" e "Nessuno mi prenderà vivo". E il piatto forte, sia per la band che per il pubblico, furono le mongolfiere: durante una tenera e straziante Blackout furono fatte scivolare lungo i binari del tram due enormi lune bianche fluttuanti, e a ciascuna di esse fu appesa con una corda elastica una ballerina in calzamaglia bianca, che eseguiva falcate, piroette e spirali dieci metri sopra la folla. Per Matt fu la performance perfetta: il pubblico guardava le ballerine invece che la band, tutti assorti dalla magia e dallo stupore di quella scena. Come lo definirà lui stesso in seguito, fu un momento alla Mary Poppins. I palloni rimbalzarono in libertà per Plug In Baby, Stockholm Syndrome sputò riff di lava fusa, Matt sguinzagliò il suo urlo da banshee in Micro Cuts, Take A Bow vide un'eruzione di fuoco e fumo, e un'ora e cinquanta minuti dopo la loro ascesa dalle viscere del Wembley i Muse erano spariti, volati via a festeggiare con amici e parenti e a prepararsi per rifare tutto quanto daccapo la sera dopo (con l'aggiunta di Bliss). I governi continuavano a tradire la democrazia, i mass media a smerciare propaganda, le bombe a cadere e i signori del petrolio a trascinarci tutti quanti nel baratro. Ma i Muse, con le loro abbacinanti ondate di sgomento e stupore, avevano messo a segno un colpo, conquistando altri 90mila cuori e


cervelli. Diamine, se urli così forte qualcuno in cima alla piramide finirà per sentirti. * * * E quello, per molte altre band minori, sarebbe stato il capolinea. L'apice, l'orgoglio, la motivazione di tutto il duro lavoro. Dopodiché sarebbe stato solo declino. Ma i Muse non ragionano in termini di "il più grande" o “il migliore", ma di "più grande" e "migliore". Per i Muse non esistono apici, ma solo altre vette da scalare. I Muse non sono una "band minore". Ridotto al satellite di Dom e a una parata di maxischermi, il tour di BLACK HOLES proseguì per altri cinque mesi nel 2007. Qualcosa come 60mila persone li videro in azione al Pare des Princes di Parigi una settimana dopo Wembley, proprio mentre Map Of The Problematique98, l'ultimo singolo dell'album uscito per il download digitale, si piazzava al numero 18 nelle classifiche del Regno Unito. Festival europei in quantità industriale per tutto il resto dell'estate li videro nel ruolo di headliner sopra artisti come Bjòrk, Marilyn Manson, Beastie Boys, Snow Patrol, Kaiser Chiefs, Razorlight e Kings Of Leon in posti come Belgio, Polonia, Danimarca, Francia, Svizzera e Benicasim, in Spagna. Fecero sold-out nei più grandi palasport d'Europa, con 10mila persone a Latvia, 16mila a Nimes, 18mila a Monaco e 22mila a Verona. In occasione del Fuji Rock, in Giappone, andarono in scena con venti minuti di ritardo e Matt, dopo aver passato tutto il set a litigare con il tecnico delle chitarre, pose fine allo show con un'ormai raro attacco di follia spacca-strumenti, rovesciando la pila di amplificatori e la tastiera mentre Dom demoliva a calci la batteria. Anche la sua preziosa MIDI Manson andò incontro a una brutta fine, impalata dalla parte del Kaoss pad su una luce stroboscopica99. A luglio furono invitati nuovamente al Wembley Stadium per il Live Earth, l'evento organizzato da Al Gore per contrastare il cambiamento climatico controbilanciando in termini finanziari le emissioni di anidride carbonica. La band tuttavia rifiutò, dato che quel giorno era già prenotata come headliner all'Oxygen Festival e l'unico modo per arrivare in tempo al concerto era noleggiare un jet privato dall'Irlanda, una soluzione totalmente ipocritanell'ottica dell'evento stesso. Conle altre band dell'Oxygen si parlò di dividere un volo normale, ma poi non se ne fece più niente e i Muse furono costretti a declinare l'invito dichiarando che, secondo loro, compensare in denaro l'anidride carbonica non era comunque il modo migliore per contrastare i gas serra. Matt propose di imporre alle grandi imprese una tassa anibientale da calcolarsi retroattivamente; in tal modo, coloro

404 405 che negli anni Ottanta erano stati la causa del problema, ora ne avrebbero pagato la soluzione. Ad agosto la band si esibì nel tour delle arene d'America cui erano da sempre destinati. Sedici spettacoli lungo lo stesso itinerario nel quale un mese prima avevano fatto da supporter ai My Chemical Romance. Un tour con spettacoli di dimensioni inconcepibili, come quello al Madison Square Garden di Manhattan (20mila posti a sedere) e al Red Rocks Amphitheatre in Colorado, scavato nel fianco di un canyon rosso ruggine e reso celebre dall'album degli U2 UNDER A BLOOD RED SKY. Alla Arrow Hall di Mississauga, Toronto, uno dei fumogeni a bordo palco si staccò indirizzando il getto in mezzo al pubblico, ma nessuno rimase ferito. Inconvenienti tecnici a Chicago, durante lo show da headliner al Lollapalooza, videro Matt assentarsi dal palco per dieci secondi in ogni pausa tra una canzone e l'altra. Al Mesa Ampitheater, in Arizona, Matt suonò l'assolo di New Born usando come plettro una scarpa che gli avevano tirato dal pubblico, e come mossa mai così apertamente politica la band inserì come introduzione allo spettacolo o al bis la registrazione di un discorso sulle società segrete tenuto da John F. Kennedy all'Associazione Nazionale degli Editori Americani nel 1961.


In quel discorso, JFK denunciava il comunismo come una "cospirazione monolitica e spietata" e dichiarava che: "La parola 'segretezza' è in sé ripugnante in una società libera e aperta, e noi come popolo ci opponiamo storicamente alle società segrete, ai giuramenti segreti, alle procedure segrete". Per i Muse era un modo di dire: "Sveglia, America, ti hanno mentito". Per il resto dell'anno, il tour inseguì prima la neve e poi il sole. A ottobre rabbrividirono durante il loro primo tour nell'Europa dell'Est, tra Bucarest in Romania, Zagabria in Croazia, Kiev in Ucraina (dove Matt conciò l'amplificatore così male da regalarlo ai fan in prima fila), San Pietroburgo in Russia e Belgrado in Serbia. Sarà proprio in quest'ultima città che Matt, la sera prima di una visita lampo a scopo promozionale in Inghilterra per ritirare il terzo «Q» Award come Miglior Gruppo Live, avrà modo di sperimentare quella che definì la sua notte "più memorabile e depravata di sempre". C'è povertà di dettagli a riguardo, ma ci ha assicurato che c'erano di mezzo un transessuale di nome Pete seduto sulle gambe di Dom e un dildo. Tanto basta a far galoppare la fantasia. Di nuovo a Mosca per il secondo concerto al Luzhniki Sports Palace, incontrarono nel backstage un gruppo di fan russi preoccupati che la ragazza con quel disturbante ritratto a olio di Matt nudo avesse dato loro una brutta impressione dell'ospitalità nazionale. Per rimediare gli regalarono un telescopio del tutto funzionante ed estremamente costoso. Matt se ne servì per studiare i crateri lunari, sbalordito dalla potenza di quell'oggetto con cui riusciva a scorgere persino le dune sollevate dagli impatti dei meteoriti. Una ripassata alla Scandinavia per permettere a Matt di piantare la Silver Manson nell'ampli a Stoccolma (dopo la rapida sostituzione della chitarra MIDI, sembrava che per Bellamy le Manson fossero tutt'a un tratto sacrificabili) e i Muse conclusero l'anno andando a scongelarsi sul versante soleggiato del pianeta. Festeggiarono il ruolo da supporter ai loro idoli Rage Against The Machine al Sam Boyd Stadium di Las Vegas con Dom vestito da Spiderman e donne poliziotto discinte che durante Supermassive Black Holes salirono sul palco per sculacciare Morgan Nicholls, dopodiché tornarono in Australia dove Starlight era ormai un enorme hit radiofonico per chiudere l'anno e il loro tour finora più lungo con un altro gigantesco tour che, ancora una volta, non fu immune da incidenti. Il crollo di una barriera ai Supreme Court Gardens di Perth provocò due ore di ritardo. A causa di un problema alle tastiere alla Rod Laver Arena di Melbourne Matt rinunciò a sfoderare Ruled By Secrecy a favore di Apocalypse Please e, sempre nello stesso concerto, durante il lancio dei palloni per Plug In Baby la band notò con stupore che la metà di essi era molto più piccola del solito, e uno in particolare era grande quanto un pallone da spiaggia. Lo shock fece sì che a Bellamy sfuggisse un: "E questo che cazzo è?" al posto del ritornello. Il tour di BLACK HOLES & REVELATIONS tirò una brusca frenata il 9 dicembre con uno show da headliner all'Almost acoustic Christmas di KROQ nel Gibson Ampitheatre di LA, con tanto di ammiccante riff di The Star Spangled Banner come cenno d'intesa da parte della band a un Paese che li aveva finalmente accettati, frecciatine presidenziali e tutto. E con questo, dopo diciannove mesi sulla strada, il tour finì. I Muse tornarono a casa per supervisionare il completamento degli studi di registrazione (Matt), dedicarsi alle immersioni nei Carabi (Dom) e fare un quarto figlio (Chris). E per riflettere sulla più delicata delle questioni. MATT BELLAMY Madrid, ottobre 2006 (Su licenza della IPC Media) Come procede il tour? Bene. Con questo qui siamo appena agli inizi. C'è un po' di caos dal punto di vista della produzione, totalmente diversa da quella dei festival. È stato bello andare in America, abbiamo fatto un tour di quelli da cinque settimane che è stato un vero sballo. Quando si parla di festival la storia si fa pesante per tutto il carico di aspettative che c'è in ballo, quindi è bello andarsene ogni tanto in America a cazzeggiare un po'. Quando suoni in ambienti più piccoli aumenta il casino, il che è una figata, ma dopo qualche mese la cosa inizia a stralunarti. Lanciarsi in questo tour è stato dunque un bel cambiamento. Ti sei sentito in dovere di alzare la posta per quanto riguarda il valore dell’apparato produttivo? Dopo un po' ci si abitua. Ogni passo avanti mette un po' di soggezione, ma poi


ci fai l'abitudine. Con l'allestimento di questo tour siamo partiti da dove avevamo interrotto il discorso, solo che stavolta ci siamo spinti un po' oltre. Credo proprio che ci abbiamo investito tutti i nostri soldi, quindi puoi star sicuro che in quanto a scenografie eccessive si tratta di un ottimo lavoro. Abbiamo dovuto fare dei tagli abbastanza pesanti. Il palco è basato sulla seconda pagina del booklet, quella dove c'è l'immagine dell'installazione HAARP, che sta per High-Frequency Active Aural Research Programme ed è una specie di strano aggeggio per il lavaggio del cervello che il governo ha installato in Alaska e che in pratica spara nell'atmosfera delle microonde per tenerci tutti buoni buoni, per confinare la nostra realtà in un unico raggio striminzito. E così abbiamo basato la scenografia su questo. Stai prendendo confidenza con arene e palasport? Sì, comincio a sentirmi a mio agio. Abbiamo ancora la possibilità di alternare: fuori dall'America, infatti, è soprattutto in questo genere di strutture che suoniamo. Abbiamo raggiunto questo livello in Australia e in Giappone, anche se in America i nostri concerti sono ancora sulla falsariga della Brixton Academy. È un contrasto che mi piace, perché se ti soffermi troppo a lungo su uno, ti perdi quell'altro. Non vedo l'ora di cominciare: questo tour ha l'aria di essere molto più pulito e professionale rispetto alle tournee americane, più incasinate. Come ripeto, dopo qualche mese la cosa inizia a stralunarti. In tour avete la tendenza a lasciarvi andare a saltuari periodi di edonismo sfrenato. È stato anche il caso degli USA? Già, credo proprio che funzioni così. Prima, di solito, erano tour di un mese, ma stavolta si parla dell'America e del resto del mondo, ecco com'è diviso il tour. Credo che l'apice sia stato a Las Vegas. Non so come abbiamo fatto, so solo che abbiamo incontrato un tale con un casino di funghetti. Erano anni e anni e anni che non ci facevamo di funghi, quindi ci sembrava l'occasione giusta per fare una capatina dall'altra parte. Non sono sicuro di cosa fosse reale o meno, fatto sta che siamo riusciti a trasportare o noleggiare un grande castello gonfiabile nel deserto e abbiamo convinto queste ragazze, tra cui le Like che erano le nostre supporter, a vestirsi da aliene o con degli strani costumi da Cappuccetto Rosso, e così è nato questo bizzarro party psichedelico. Ho degli strani flash di certe immagini, a un certo punto e diventato tutto un po' Twin Peaks. C'erano cespugli di salvia che rotolavano e ragazze vestite da aliene. È stato l'apice del tour americano. C'era anche qualcuno del Blue Man Group, là in mezzo. Magari era soltanto un uomo blu. Un uomo blu c'era di sicuro. Tutta quella storia non ha alcun senso. Ecco cosa facevamo in America: cercavamo solamente lo sballo. Quel Paese è lì solo per essere saccheggiato. Noi ci andiamo per spassarcela e fare i cretini. Proprio non ce la faccio a prenderlo sul serio, per noi è un posto in cui divertirsi e riscaldarsi prima di tornare da queste parti e suonare della musica come si deve. Quindi l’America è una farsa? No, è solo che trovo difficile prenderla sul serio. Avete la palestra, in tour? Laggiù ovviamente non ce l'abbiamo. Non è che vogliamo metterci in forma, ci sforziamo solamente di pensarci ogni tanto. Penso alla palestra e tanto basta per sentire che sarà un concerto migliore. Prima del concerto salgo sul tapis roulant, premo il pulsante start, ne premo un altro per fermarlo e già sono dell'umore giusto per salire sul palco. Trovi che la scenografia del nuovo palco sia piena di potenziali inconvenienti? Ci sono notevoli probabilità che Dom resti intrappolato nel congegno della batteria. All'inizio del concerto si spengono tutte le luci e le torcie, Dom si arrampica lì dentro di nascosto, poi quell'affare si chiude e viene sollevato un sipario per non far vedere Dom. E io prego Dio che un giorno quel coso non si apra e lo blocchi lì dentro per tutto il concerto! Mi pare che a dicembre sia il suo compleanno, non so con certezza dove ci troveremo - e tu non aprire bocca altrimenti mandi tutto all'aria - ma forse lo lasceremo lì dentro per un paio di canzoni. BLACK HOLES AND REVELATIONS è senza dubbio il vostro album più politico. Come siete schierati, a riguardo? Secondo me dobbiamo riprenderci il potere, non credo che si possa avere un unico leader. È questo il problema: la direzione in cui punta la storia, chiunque


sieda al vertice, Rockerfeller o cos'altro. Tutti i banchieri. Il problema è che c'è un leader dell'universo, ogni cosa tende in quella direzione. E noi dobbiamo riportare il tutto dalle parti della pura democrazia. Ma se la gente non prende sul serio le tue osservazioni politiche, che mi dici di tutti quei discorsi su David Icke e il popolo lucertola? Il problema è che le conclusioni che si traggono dagli strani eventi che accadono là fuori vengono spesso viste come pazzia, come nel caso di David Icke e soci. Non sono sulla sua stessa lunghezza d'onda al cento per cento, non concordo su tutto, ma credo che ci siano un sacco di cose che vanno un passo oltre le classiche teorie del complotto, cioè i media sotto controllo e roba simile. Secondo me dietro le quinte esistono molti altri fattori che è difficile spiegare a parole... Viviamo in una generazione che ritiene accettabile farsi spogliare e perquisire ogni volta che sale su un aereo da qualcuno che ha il potere di infilarti in un macchinario a raggi x o di maneggiare il tuo corpo. Siamo spinti a credere che vada bene. Nel giro di quattro, cinque, sei o dieci anni avrai l'opportunità di inserire un microchip nel corpo di tuo figlio e ti sembrerà accettabile fare una cosa simile e seguire i suoi spostamenti su Internet. Già siamo quasi in grado di farlo con i telefoni cellulari, ma ci stiamo gradualmente spingendo verso un sistema di controllo dove saremo trattati come bestiame, e secondo me non è la strada giusta da seguire... I tempi in cui viviamo sono equiparabili ai peggiori momenti degli anni Sessanta e Settanta, quando c'era gente come John Lennon che diceva roba parecchio estrema. Secondo me il periodo in cui viviamo non è di gran lunga migliore, ora come allora scoppiavano le stesse guerre. Almeno a quei tempi le band avevano un istinto naturale, pensavano se non altro che fosse loro dovere dire o fare qualcosa in proposito. Viene sempre visto come qualcosa di ingenuo o pedante, ecco perché cerco sempre di farlo in modo sottile, mai apertamente. Farlo nei confini della musica è discrezione, ma quando inizi a scostarti dalla musica per tuffarti su tutte queste storie, allora diventa indiscreto... Ci vuole una vibrazione più da "combatti il sistema", e cioè la classica, vecchia definizione di ciò che è alla base della musica. Dovresti essere là fuori a raccontare, spiegare o far pensare alla gente cose che speriamo li cambino o che creino una rivoluzione di qualche tipo, anche se circoscritta a una ristretta nicchia di fan. Credo che a volte la forza motrice dietro il fare musica sia opinabile. Se è qualcosa in cui credi, perché non ti alzi in piedi e dici: "Facciamo una rivoluzione?" Se devo essere sincero con te, sono ancora alla ricerca di un momento, un tempo, un luogo o un gruppo che possa combinare qualcosa in grado, secondo me, di fare la differenza. Assassin non è forse un chiaro invito alla guerra civile? La soluzione è che hai due scelte. Puoi tenere duro o godertela, e in tal caso il problema è che la struttura, il Matrix o come vuoi chiamarlo, diventa un bel posto in cui vivere. I bei programmi Tv non mancano, Pop Idol non è niente male, idem per i fast-food e tutto è una gran figata... A quanto pare siamo felici di restarcene seduti e lasciare che tutto ci scorra davanti. Perché l'estrema destra e l'estrema sinistra sono molto vicine l'una all'altra. È come con l'ambientalista o l'umanista che dice: "Impegniamoci a rendere il mondo un posto in cui tutti possano sopravvivere". Tagliare le emissioni di CO2 è fantastico, ma non è forse troppo tardi? Certe volte non riesco a capacitarmene. Forse la differenza tra i Sessanta e i Settanta e dove ci troviamo noi ora è che allora non era troppo tardi. Supermassive vi ha procurato una notevole credibilità tra persone che altrimenti non avrebbero ascoltato il disco. Per la gente è stata una sorpresa. Far uscire un singolo come Knights è forse un tentativo di ribadire la vostra natura sostanzialmente nerd? Per noi è solo un promemoria di questa natura, non lo vedo come un tentativo di far tornare la gente sui propri passi. Sono due elementi che fanno parte di noi. L'altra sera, mentre suonavo Supermassive, pensavo a quant'è cool. Per me ha davvero un fascino moderno, all'avanguardia, mentre Knights è più un divertissement anni Settanta. Mi piacciono entrambe. E fanno entrambe parte di ciò che siamo. Di recente si è visto il filmato di un UFO, ripreso da uno shuttle, che alcuni esperti hanno dichiarato "impossibile da simulare". Si tratta di Exo-politics in


azione? Se si parla di alieni e cose simili e si tratta di una presenza riconosciuta dal governo, allora ci sono buone probabilità che sia falsa e che venga usata come pretesto per rafforzare il loro potere. Nel giro di un paio d'anni, quando si troveranno a secco di scuse per incrementare i fondi destinati all'esercito, secondo me chiameranno in causa lo spazio per convincere l'opinione pubblica che è ok spendere miliardi su miliardi di sterline per gli armamenti avanzati, perché ci serviranno per proteggerci dagli alieni. Cosa che ritengo una potenziale stronzata. Non so se hai visto La guerra dei mondi, ma se vogliono spendere miliardi per piazzare là fuori dei missili che mi risparmieranno di essere falcidiato, allora buon per loro. Quando verranno a mietere il raccolto, Matt Bellamy, rìngrazierai quegli stramaledetti missili! Se vuoi farti un'idea di un sistema offensivo preposto a quello scopo dai un'occhiata all'HAARP, che secondo alcuni manderebbe in tilt la tecnologia antigravitazionale degli alieni. È soltanto una delle ipotesi più temerarie. Tutta la roba che vedi, se vedi fantasmi o alieni... diciamo che la nostra interpretazione della realtà è molto condizionata. La tua educazione, l'istruzione, i libri che hai letto, tutto questo forma il tuo subconscio che a sua volta plasma la tua realtà, motivo per cui quando si trova alle prese con qualcosa che non ha mai visto prima, il tuo subconscio si inventerà un sistema per definire l'identità di quella cosa. Uno vede qualcosa che esula dalla nostra percezione quotidiana e magari la percepisce sotto forma di alieno: per un altro invece può essere una strana astronave militare segreta, un altro ancora vede un fantasma. E invece è solo qualcosa che non rientra nella nostra limitata capacità cognitiva. In termini di ciò che vediamo o sentiamo, la nostra capacità d'assorbimento è molto ridotta. Abbiamo dei sensi piuttosto limitati, inibiti dall'educazione che ci hanno impartito e dal sistema in cui viviamo. Credo che là fuori esistano cose che sono semplicemente estranee alla realtà quotidiana, per le quali il nostro subconscio s'inventa altre cose tipo astronavi, spettri o un parente che torna dal regno dei morti. È solo il suo tentativo di dare un senso a ciò che non comprende. Come sopravvivere all’Armageddon, quando arriverà? Ahahah! Non saprei. Ho cominciato a credere che sarebbe successa tutta questa roba solo quando ho aperto gli occhi e ho preso coscienza di cosa stava accadendo. Dritte per la sopravvivenza? Procuratevi delle pastiglie per depurare l'acqua, pietre, terriccio, un sacco di grandi bidoni per metterci tutto dentro e potrete depurare tutta l'acqua che vi pare. È la chiave per la sopravvivenza. Praticate dei fori in fondo al bidone, riempitelo di pietre e terriccio a volontà, purificate l'acqua usando le pastiglie e poi versatela nel bidone. Uscendo dal fondo l'acqua si depurerà in maniera naturale, tanto da perdere anche i residui di fallout radioattivo. Poi dovete pensare al Paese in cui volete vivere. Se è un Paese freddo dovrete pensare a tenervi caldi, quindi restate in prossimità dei boschi, se possibile, e procuratevi un'ascia. State alla larga dagli Stati Uniti, perché quando la situazione andrà in merda, lì hanno tutti una pistola. Se non avete uno scantinato pieno di armi non avete la minima chance. E poi cibo: tutti dovrebbero avere una cantina con un mucchio di fagioli stufati Heinz e pasta. Riempiteci dei comunissimi sacchi trasparenti per l'immondizia, procuratevi una bombola di azoto, pompatelo nei sacchi, sigillate il tutto e vi durerà per una decina d'anni. Te ne esci con questa roba perché vuoi far riflettere le persone? Ormai nelle interviste cerco di parlare in termini molto più pratici. Tutta la storia della manipolazione mentale, la faccenda del controllo, sono molto più complesse di quanto la gente non creda. I meccanismi del subconscio, come crea la nostra realtà... il subconscio proietta, e la coscienza è una semplice spettatrice. Tutta questa storia mi ha sempre interessato molto, ma ogni volta che ne parlo le mie convinzioni personali si rivelano talmente oltre l'opinione comune da apparire ridicole, quindi mi risparmio la fatica. Ci sono un mucchio di fasi che bisogna attraversare. La fase uno è rendersi conto da dove provengono e dove sono dirette le manipolazioni. Forse hai ragione tu quando dici che ho una predisposizione naturale a pensare secondo schemi alternativi, o forse sono fatto così e basta. Non credo di aver mai assorbito ciò che mi insegnavano a scuola. Sapevo che era sbagliato. Me lo sentivo a livello d'istinto. Sentivo che agli insegnanti non importava veramente di noi, che


facevano solo ciò che gli avevano detto di fare. È una sensazione che ho dentro da quand'ero ancora molto giovane, ai tempi della scuola. Dopo averla mollata ho riflettuto sul mio futuro e ho pensato: "Devo trovarmi un lavoro, poi questo e poi quest'altro". Per me non era necessariamente una cosa intellettuale. Era la semplice sensazione, espressa nei modi più disparati e selvaggi nel corso degli anni, che il tradizionale sistema scolastico, il trovarsi un lavoro e il farsi una vita fossero nient'altro che merda. C'era qualcosa che non andava. Ogni giorno che andavo a scuola sentivo il mio spirito comprimersi, appiattirsi. Poi, a quattordici anni, la musica è diventata tutto per me e allora ho capito che dovevo farlo, anche a costo di suonare da ubriaco in qualche bettola jazz. Mi avrebbe reso più felice rispetto all'altro sentiero. Se l’ultima volta vi siete rivelati la miglior live band del pianeta, per l’occasione avrete alzato il tiro. Adesso cosa siete, la miglior live band dell’universo? È una dichiarazione azzardata. Ho come l'impressione che là fuori, nell'universo, esistano delle band seriamente, fottutamente strane, con cui dubito che potremmo competere. Meglio se diciamo "su questo specifico braccio della Via Lattea", in questo spicchio di galassia. Allora forse potremmo farcela. Ma se chiami in causa tutte le altre galassie, rischiamo di finire leggermente in fondo alla lista. DOMINIC HOWARD Madrid, ottobre 2006 (Su licenza della IPC Media) Come vi è venuta in mente l’idea per il nuovo palco? Avevamo tutta questa roba pronta per il Reading Festival, dopodiché ci è venuto un leggero attacco di sifilide... è un modo di dire preso in prestito da uno sketch del The Fast Show, quello in cui il presentatore jazzista dice che un suo ospite ha dato forfait perché era roso dal dubbio e dalla sifilide... ad ogni modo ci siamo un po' innervositi, ci è venuto un piccolo attacco di sifilide e abbiamo cambiato la produzione all'ultimo minuto, ribaltando tutto nel giro di sei settimane. La gente si strappava i capelli. Cosa si prova ad arrivare su un satellite? È fantastico. Una sensazione strana, però si sta comodi là dentro. Quando si apre è quasi come una sorpresa, è una scoperta esilarante. Ogni volta mi viene da ridere. E se si incastra? Allora diventa tutto molto Spinal Tap. A un certo punto del tour quell'affare si incastrerà, non esiste che fili tutto liscio e indolore. Com’è stato il Reading? Fenomenale. Era il ruolo da headliner per eccellenza, ma pare che alla fine ce l'abbiamo fatta. Siamo arrivati, abbiamo scatenato il putiferio e ci siamo portati a casa il risultato. Mi sentivo a mio agio, e sentivo che era il momento giusto per farlo. Se l'avessimo fatto prima non sarebbe stato lo stesso... La cosa strana è che facciamo concerti enormi e poi non vendiamo così tanti album. Ok, l'industria sta cambiando e così anche il modo in cui la gente si procura la musica, ma è comunque una bella sproporzione. In Portogallo abbiamo venduto duemila copie e suonato davanti a 7mila persone. Immagino che tutta quella gente non compri più i dischi, ma li scarichi gratis, come faccio io. Perché avete fatto uscire Knights Of Cydonia come singolo? Perché ha un sound unico. Non avevamo mai fatto niente di simile prima d'allora, ha una forte carica immaginifica e fa talmente ridere che ci siamo detti: "Perché no?". È fin troppo facile scegliere qualcosa di scontato come Starlight. Qualcosa di radicale come Knights, invece, equivale a dire: "Facciamola uscire e vediamo che succede". Di sicuro non vuol essere un tentativo di scalare le chart o di piazzarsi al numero uno. L'abbiamo scelta perché è talmente assurda che può funzionare. In che rapporti siete? Ci sentiamo più vicini che mai. Lavorare all'album ci ha portati ad affrontare un sacco di demoni. Abbiamo cercato di essere più creativi e di vederci l'un l'altro per ciò che realmente siamo, scorgere quelle personalità di cui puoi dimenticarti quando sei in tour da parecchi anni. Ci siamo guardati nel profondo a vicenda. Ci sono anche stati un paio di momenti di disaccordo, ma poi li abbiamo superati. Una volta terminato l'album ne siamo usciti più vicini.


CHRIS WOLSTHENHOLME Madrid, ottobre 2006 (Su licenza della IPC Media) Non ci siamo mai spinti così oltre come stavolta per quanto riguarda delirio e pazzia onstage. Quando sul palco ci sono solo tre persone è difficile mantenere alto l'interesse visivo, motivo per cui non guasta compensare con tutte quelle stronzate. È sempre tutto spinto al massimo, dall'inizio alla fine. Il vostro ego di band cresce di pari passo con i palasport? Certe volte ti senti più a tuo agio nei palasport. Suonare nei piccoli club in America ci metteva parecchio a disagio, perché ti ritrovi faccia a faccia con ogni membro del pubblico. È come se stessi suonando per una persona sola, e se senti che tutti ti fissano è perché li vedi mentre ti fissano. Nelle arene e nei palasport non c'è questa consapevolezza, e poi tutto quell'apparato produttivo distoglie gli sguardi del pubblico. A volte è bello creare una certa distanza. Che fate nel tempo libero? Ieri abbiamo giocato a tennis. In questo tour è dilagata la mania del fitness, si sono dati tutti una ripulita, nessuno beve più. Prima sono salito sul tapis roulant, e nell'ultimo giorno di libertà ci siamo concessi un paio di set a tennis. Di solito nei giorni liberi ti stravacchi nella tua camera d'albergo, ti scoli una bottiglia di vino, guardi un film e perdi i sensi. Per un po' è divertente, poi ti rendi conto che pesi un quintale e ti senti di merda. Si sono create fratture di sorta all’interno della band, ora che siete così grandi? No, direi di no, andiamo sempre in giro sullo stesso bus e dividiamo lo stesso camerino. Non riuscirei a immaginarmela diversamente. È importante che ci sia ancora quest'elemento d'amicizia, perché è così che è nata la band, dall'amicizia tra noi tre. Se non ci fosse più quella, sarebbe come se non ci fosse più la band. GLEN ROWE Wembley Stadium: quel giorno eri insieme alla band? Quel giorno era la band che non era in sé! Appena arrivato, Matt si è chiuso a chiave nel camerino senza far entrare nessuno. Da quanto se la faceva sotto s'era messo a suonare il pianoforte, rendo l'idea? L'ho abbracciato e per farlo sciogliere un po' e gli ho chiesto: "Stai bene?". Ma per quanto gli parlassi, era oltre la soglia del nervosismo. In molte occasioni, quando ancora lavoravo con loro, prima di salire sul palco Matt mi diceva: "Non ce la faccio, non posso salire lassù", e a me è sempre sembrata una scemenza. Gli dicevo: "Avanti, farai cagare come al solito", e poi li trascinavo sul palco. Ma credo che per Wembley fosse più una cosa del genere: "Ommioddio!". Il giorno del concerto alla Wembley Arena sono andati a farsi un giro al Wembley Stadium, tanto per dare un'occhiata. Se ne stavano seduti in fondo a guardare l'enormità del tutto, a rendersi conto che era un passo davvero colossale. È stato incredibile stargli accanto dall'inizio e vederli arrivare fino a questo punto. Ormai sono nei libri di storia, no? Quante band suonano a Wembley? Cos'altro ricordi di quel giorno? Sono arrivato con un giorno d'anticipo perché la preoccupazione principale era il meteo. Hai presente il soffitto del Wembley Stadium? Non si chiude. Ci va vicino, ma non si chiude. E questa è stata la prima cosa che tutti hanno notato. Per quale motivo costruire uno stadio in quella cazzo di Londra dove piove a dirotto (soltanto ai fottuti tropici piove più che a Londra) e metterci una cupola che non si chiude del tutto, così almeno può piovere sul campo? Perché non costruire un soffitto senza interruzioni? Le idee di partenza riguardavano un palco in plexiglass con dei grandi LED disposti sotto e in fondo, così chi guardava in basso avrebbe visto tutto, ma era troppo costoso, una vera follia. Cioè, tanto di cappello a loro tre, cazzo: hanno speso veramente tanti soldi per quella produzione, che si è rivelata il modo migliore per dire addio a qualcosa. Erano in fissa con l'ingresso trionfale: quando si è cominciato a parlare di quello, hanno detto che sarebbe stato perfetto avanzare in mezzo al campo con gesti lenti e misurati, in un bagno di folla. Io mi sono vestito da uno degli uomini in giallo che li scortavano, e mentre mi passavano accanto si pisciavano sotto dalle risate a vedere me, con quello stupido costume giallo, dopo tutti quegli anni. Non so con cosa se ne usciranno la prossima volta, ma c'è da


aspettarsi che sarà più grande. Già riesco a vedere le sezioni d'archi. Una volta che una cosa è fatta, la band non vuole più ripetersi. Quindi sono alla costante ricerca di altri modi per farla, e a me non viene in mente nessun altro sistema. Le loro vite, ora, sono stupende: Matt vive a Como e Chris è il classico padre di famiglia. Gli telefono alle otto di sera e lo trovo al pub, coi suoi amici. È solo il Chris Wolsthenholme di Teignmouth, non Chris dei Muse. È un ragazzo come tanti. Dominic, invece, passa il tempo da sua madre o a incazzarsi quando i muratori che devono sistemargli l'appartamento combinano casini! Ma anche lui è uno normalissimo. E poi c'è Matt, sempre alle prese con i lavori allo studio e assorto nella realizzazione del prossimo album. Ecco ciò che fanno: sono i Muse per ventiquattr'ore al giorno e hanno una vita parallela in cui sono dei ragazzi qualunque. Da quando la conosci, come cambiata la band nel corso degli anni? Senza voler essere banali, non sono cambiati. Sono soltanto cresciuti. Quando ci ritroviamo tutti e quattro insieme è come ai vecchi tempi, con le stesse risate e lo stesso buonumore. Sono invecchiati veramente bene. Sono come Sean Connery, non come quel cazzo di Sylvester Stallone! Sempre in fissa con il prossimo parto della band, sempre alla scoperta di nuovi gruppi. Ascoltano cose nuove e si lanciano nei generi più disparati. Non vedo proprio come possano fermarsi ora. È strano, penso ai Muse in un modo quasi perverso, del genere "secondo me non finiranno mai". Però è così. Non riesco proprio a scorgere la fine, per loro. Il momento migliore e il peggiore? Il peggiore è stato all'aeroporto di Helsinki. Sono lì che bevo una tazza di tè insieme a Dom, Chris e alla crew, quando sento: "Gleeeeeeen, Gleeeeeeen!". Mi assale subito il panico al pensiero che [Matt] sia stato aggredito o assediato da qualcuno o chissà che altro, così corro a destra e a manca e lo vedo in un negozio di dischi. Mi fiondo dentro pensando: "Va bene, con chi devo fare a cazzotti adesso? Qui finisce a botte con qualcuno", e appena lo vedo accanto a una pila di Dvd lui mi chiede: "Ti dispiace prendermi questi?". E si leva dalle palle, il testina di cazzo. Quello è stato con ogni probabilità il momento peggiore: credevo che lo stessero ammazzando e invece era una sciocchezza. Ma non per Matt. Lui era fuori di sé. Non aveva modo di telefonarmi, non ero lì a portata di mano e così è stato costretto a urlare. Fine della storia. Era un lato del suo carattere abbastanza comune. Matt smarriva sempre i cellulari, oppure i cellulari non funzionavano mai, ed eccolo lì, un uomo magari non ricchissimo ma pur sempre facoltoso che non era in grado di tirar fuori dei soldi da un buco nel muro. Gli annullavano puntualmente la carta di credito perché la usava in posti strani, e quindi la banca credeva che fosse clonata, al che la risposta era: "Sono in tour! Per forza che la uso all'estero! Devo dire al mio tour manager di spedirvi l'elenco delle date così mi lascerete usare la mia cazzo di carta di credito?!". E il momento migliore? Spero che quello non sia ancora arrivato. Mi auguro che ne passino ancora tante, anche se camminare accanto a loro conciato come un cazzo di idiota in giallo al Wembley Stadium è difficile da battere. Ma di momenti strepitosi ce ne sono stati a bizzeffe, come quando Chris ci ha detto che aspettava il suo secondo figlio e siamo tutti usciti a comprarci dei sigari in una cittadina losca da qualche parte in Germania. È sempre stata un'avventura, e ne sono uscito prima che potesse finire. Ho soltanto bei ricordi. Il peggiore cui riesca a pensare è Matt che si sgola in aeroporto, e già così è divertente di per sé. Stando a Como, Matt ha dovuto mettere a frutto il tempo con la band. Per lavorare al prossimo album hanno preso in affitto un grosso magazzino nel Devon, un quartier generale dove trasferire tutta la strumentazione, fare le prove, le prove di produzione e scrivere i brani. Per registrare si sposteranno nello studio di Matt. Stavolta faranno da soli, senza produttore, a meno che le cose non gli sfuggano di mano. Magari resteranno in contatto con Rich Costey, ma l'idea era di realizzare l'album per conto proprio. Parecchi anni fa ho imparato che non puoi anticipare le mosse dei Muse, e così ho rinunciato a chiedermi: "Chissà cosa farà Matt domani? Chissà cosa si dimenticherà Chris?". Una volta, in America, il tour bus molla Chris con la valigia davanti all'albergo, lui si distrae, entra nell'albergo, sale in camera, si accorge che ha smarrito la valigia, scende e va a chiedere al concierge se per caso ce l'hanno loro, e quelli gli dicono che non hanno mai ricevuto alcuna valigia da lui. Allora si affaccia di fuori: niente valigia. Un mese di tour in America e niente vestiti!


L'hanno lasciato fuori dall'albergo con una cazzo di valigia enorme e lui è riuscito non si sa come a non portarsela dentro. Roba da commedia. Non si è neanche scomposto. Ha detto solo: "Oh be', fanculo". Come li descriveresti, in due parole? Matthew è un pensatore, uno che scava nel profondo. Ha una visione del futuro cupa e romantica, ma secondo me sarà un papà fantastico. Non vedo l'ora che lui e Gaia abbiano dei bambini. Non so neppure se ci abbiano pensato o meno, ma sarà una di quelle cose che gli strapperanno un: "Ecco cosa si prova". Per lui, che è una persona dolce e premurosa, sarà davvero bello. Uno dei momenti più spassosi con la band è stato quando Matt mi ha chiamato per dirmi: "Ti va di portare in giro mia nonna? Mi serve un'auto di lusso e uno chauffeur, e non mi fido di nessuno. Me lo faresti questo favore?". Allora mi sono vestito da chauffeur, ho messo un cappello e ho scarrozzato sua nonna, che ha novantanni, in giro per Kew Gardens e Buckingham Palace. Matt vuole un sacco bene a sua nonna e voleva regalarle qualcosa di speciale. Ha una testa che viaggia a un milione di chilometri all'ora, e un cuore che fa altrettanto. Dominic è estremamente rilassato, prende la vita come viene e si gode un'avventura dopo l'altra. Se i Muse finissero domani lo trovereste di sicuro a casa alle prese con qualcos'altro. Penso che Matt suonerà per tutto il resto della sua vita, mentre Dominic si imbarcherà nell'ennesima avventura e se la spasserà in ogni situazione. Dom è l'unica rockstar che conosco che sarebbe felice di ripiastrellare il bagno. È un ragazzo solare, sempre sorridente. Quand'è passato a trovare mio figlio si è creata una situazione strana, perché pur essendo un amico non bisogna scordarsi che Dom è una rockstar, e fa una vita da rockstar, e quindi è un po' diverso dal resto di noi. E invece eccolo lì, senza alcuna paura, mentre prende in braccio mio figlio di tre mesi e ci gioca come se fosse suo. È uno felice, sempre a suo agio, e se ci passi un po' di tempo insieme ti accorgerai che non c'è nessuna facciata, niente di che. È lo stesso buffo ragazzino che nel 1999 è capitombolato nella mia vita. Non è cambiato di una virgola. Ora si è fatto degli amici, esce con Andy Burrows dei Razorlight. Si è trovato qualcuno con cui condividere tutto. Ha sempre voglia di andare a fare snowboard o immersioni, è uno di quelli che non stanno mai fermi. Christopher, invece, è il gentiluomo di campagna. È un papà strepitoso, quand'è al pub in compagnia di gente che conosce da venticinque anni si comporta come quand'è sul palco del Wembley. Ha la testa sulle spalle, ride sempre, è romantico. E poi c'è un quarto bimbo in arrivo, per lui. PAUL REEVE Hanno fatto qualcosa di straordinario per me, non me l'aspettavo proprio. Sono venuti all'Eden Project e hanno suonato un set da paura. Io sono fermamente convinto di una cosa, e cioè che i Muse non abbiano ancora realizzato il loro disco; quando li vedi dal vivo ti lasciano senza fiato, cazzo, e secondo me non hanno ancora pubblicato un disco che riesca a trasmettere una cosa simile. Certo, l'aspetto visivo è ingombrante, ma c'è un sacco di passione che nessuno è mai riuscito a catturare come si deve. Quando li ho visti all’Eden Project hanno suonato una B-side parecchio strana, una di quelle più oscure, mi pare fosse Nishe, dicendo: "Questa è per Paul Reeve". È stato un momento fantastico, davvero stupendo. Da una parte c'era la mia compagna, dall'altra mio figlio, e quel momento è stato veramente magico. Secondo te cosa starà bollendo nella loro pentola, adesso? Trovo difficile immaginare che una simile creatività possa avere fine. Ho il sospetto che proseguirà sotto altre forme per molti anni a venire. Il loro sembra un nucleo bello saldo, al riparo dai problemi. Stanno parlando di cominciare il nuovo album per conto proprio, e credo che lavorare in tre per qualche mese e poi magari chiamare qualcuno per riordinare il tutto e mixarlo a dovere potrebbe rivelarsi il cammino giusto verso un grande album. Se fossi il loro manager li spingerei in quella direzione. MATT BELLAMY & DOMINIC HOWARD Londra, febbraio 2008 (Su licenza della IPC Media) Vi sentite a vostro agio nel ruolo di band da stadio? Matt: La cosa che mi attrae non è la capienza, ma la forma. Non so perché, ma l'anfiteatro ovale, quello in stile Il gladiatore, ti dà una sensazione


fantastica. Se c'è un pubblico attivo che salta su e giù, tutti quelli col posto a sedere avranno due cose da guardare: o te che sei sul palco o il pubblico stesso. E allora penseranno: "Guarda tutta quella gente fuori di testa". Il gioco è tutto lì. Ci sono spazi più grandi, come a Knebworth o quello antistante allo Slane Castle, ma preferisco ritrovarmi con un muro di persone. Dom: Non abbiamo perso un briciolo d'umiltà, e forse siamo ancora nervosi come prima di salire sul palco a Wembley. Quello show aveva un non so che di positivo. Trovarsi a proprio agio su quel palco era una sensazione sorprendente. Dubitavamo seriamente di farcela, come avrebbe fatto ogni band, ma appena è iniziato lo show la risposta del pubblico ci ha dato una tale energia che non abbiamo potuto fare a meno di ricambiare. Alla fine eravamo tutti lì a dire: "Bisogna farlo di nuovo". Avete intenzione di reinventare la vostra dimensione live dopo Wembley? Tipo concerti olografici nei salotti della gente? O suonare nello spazio? Matt: Penso che per ogni nostro album ci sia un concerto-tipo. Secondo me [quello al Wembley Stadium] è stato importante tanto quanto quello di Glastonbury per il terzo album e quanto quello alla Docklands Arena, che è stato il nostro primo concerto in un palasport. Ora, quello che vogliamo, è ripetere un simile concerto dappertutto. Capitolo undici "Il futuro?". Matt Bellamy arricciò le labbra, soppesando l'arco di tempo che restava da vivere alla razza umana. "Be', ci sono la crisi petrolifera, la Terza Guerra Mondiale...". Lo fermai lì. "No", spiegai, "intendo cos'ha in serbo il futuro per i Muse". "Oh", Bellamy s'interruppe, ridacchiando per la sua innata capacità di scivolare nel catastrofismo universale. "C'è il concerto al V". * * * NME Awards, 28 febbraio 2008. Matt, Dom e il sottoscritto (quella sera Chris non avrebbe preso parte alle interviste perché aveva mal di gola) ci sediamo a un affollato press bar dentro l'IndigO2, il locale accanto alla O2 Arena (l'ex Millennum Dome rimodernato) per l'intervista-anteprima sull'uscita del Dvd / Cd HAARP, prevista per il 17 marzo, che sarebbe finita sulla copertina del prossimo numero di «NME». Si trattava di un Dvd con venti brani registrati dal vivo il 17 giugno al Wembley Stadium e un Cd con quattordici pezzi dallo show del 16 giugno. Un prodotto che la band aveva confezionato con la stessa cura ed attenzione di Hullabaloo. Siccome l'ultimo tour si era svolto in ambienti perlopiù grandi dove non riuscivano a vedere bene in faccia i loro fan, disse Matt, avevano insistito affinché l'addetto al montaggio vi inserisse molte riprese del pubblico. Altre inquadrature delle quali il cantante andava fiero erano quelle circolari, riprese da un elicottero che sorvolava la folla mostrando la portata dell'evento. Scelse una sequenza in cui la cinepresa dell'elicottero zoomma da più di un chilometro d'altezza sulla sua faccia rivolta verso l'alto. I vincitori di un concorso nella catena di cinema Vue di tutto il Paese avrebbero partecipato alla prima del Dvd in formato Hd, forse l'unico modo decente per guardare una tale meraviglia mozzafiato del moderno universo rock. I tre uomini di mondo sulla trentina che incontrai quel giorno erano irriconoscibili dai ragazzini nervosi che avevo intervistato quasi un decennio prima. Vivevano in tre città completamente diverse (Dom a Londra, nella zona di Belsize Park, Matt in Italia e Chris nell'area fighetta di Teignmouth), ma avevano un tenore di vita abbastanza alto da considerare l'ipotesi di un volo a Milano non più problematica del salire in macchina diretti a Londra per questioni di band. Erano ancora persone umili, non intaccate dal successo e sistemate con delle presumibilmente "noiose" vite domestiche cui far ritorno alla fine di un tour: "Il contrario di Pete Doherty", osserverà Matt (sebbene sia Matt che Dom avessero descritto in questo periodo le loro vite private come "incasinate"). Dom, all'inizio il punching-ball della band e poi il suo dongiovanni, era diventato un fanatico delle immersioni subacquee e un autentico "uomo da stadio", con un'esclusiva residenza a Londra e abbastanza chilometri di volo da raggiungere i climi più esotici del mondo qualche volta l'anno. Chris, innamorato della sua sempre più numerosa famiglia in Devon, sarebbe presto diventato padre per la quarta volta, il papà rock nel cuore della band. E Matt


ne aveva visti di cambiamenti da quel 1999 in cui farfugliava nervoso nel mio dittafono. Si era scrollato di dosso la sua personalità legata all'infanzia, aveva appreso ogni sorta di oscure verità sul mondo, aveva imparato a trasferirne la paura in una canzone, aveva scoperto l'importanza degli altri intorno a sé ed era finalmente sbucato dall'altra parte. Il Matt Bellamy in versione 2008 era una rockstar ricca e di successo, divisa tra la sua villa in Italia e un appartamento londinese all'ombra dell'ambasciata statunitense a Grovesnor Square. Stava pensando di comprarsi un elicottero, ma avrebbe avuto bisogno di un giardino abbastanza grande per atterrarci sopra. Aveva smesso di rastrellare tutte le ultime diavolerie tecnologiche, aveva venduto il jet-pack e non possedeva più un telefono cellulare da quando aveva deciso di spegnerlo per qualche giorno e s'era accorto che la pace e la quiete erano un'autentica benedizione. Aveva anche imparato un paio di cose sulla celebrità, e cioè che i soldi servono unicamente ad alienarti amici e famigliari, e più è grande la casa in cui vivi e più auto ci sono nel tuo vialetto d'ingresso, più ti senti un coglione isolato. La vita domestica, poi, è tutto: preferiva di gran lunga starsene a casa con Gaia piuttosto che uscire e magari imbattersi in qualche fanatico appiccicoso (i paparazzi non gli davano noie perché non si sentiva semplicemente parte del set di «Hello!»). Stava scrivendo musica più astratta che un giorno sperava di usare come colonna sonora per un film e si era messo a riesumare il suo interesse per il piano degli spiriti. Aveva iniziato a credere che i medium potrebbero essere in grado di connettersi ai ricordi dei defunti che albergano nei vivi, e che forse le tavolette Ouija funzionano perché ci consentono di accedere a tali ricordi attraverso una forma di autoipnosi. Ecco perché aveva cercato di contattare il fantasma di Vincenzo Bellini (il compositore ex-proprietario della sua villa) per farsi aiutare a scrivere le canzoni: alle tre del mattino, Matt abbassava le luci e suonava stralci di pezzi nuovi sul pianoforte di casa nella speranza di stabilire un contatto. Finora, niente. Ma di tutti i cambiamenti, il più piacevole era la sicurezza di chi ha raggiunto un traguardo, di chi è consapevole della propria capacità di far fronte a qualunque sfida il mondo possa offrirgli. Non era solo la soddisfazione immensa nei loro occhi quando sentivano nominare Wembley, ma anche le piccole cose. Sapevano che da qualche parte, là fuori, c'era un luogo ben protetto pieno di vecchi strumenti sfasciati dei Muse che un giorno avrebbero autografato e venduto su eBay per beneficenza. Gli era giunta voce che nella loro città natale, quella con il sindaco che si era fatto fotografare mentre gettava i loro Cd nella spazzatura, era ora in corso una petizione per modificare l'insegna che diceva "Teignmouth: gioiello del Devon" in "Teignmouth: casa dei Muse". Il progetto andò a monte solo quando qualcuno fece notare che "muse" era l'acronimo di "Medical Urethral Suppository for Erection" (Supposta Medicamentosa Uretrale per l'Erezione, N.d.T.), il che forse dimostrava quanto fossero veramente anziani nel corpo e nell'anima gli abitanti di quella città. Quel giorno io e i Muse parlammo di cosa avevano fatto dalla fine del tour di BLACK HOLES (dormito, più che altro), dei loro progetti per il futuro (pensavano ancora a quel tour sul transatlantico per suonare nei porti delle varie città, o magari a bordo di un dirigibile) e della prossima infornata di concerti. Lavorare a BLACK HOLES li aveva fatti sentire morti come live band e così, quell'anno, mentre scrivevano e registravano il prossimo album avevano deciso di inserire una sporadica manciata di date nei posti in cui gli sarebbe piaciuto trascorrere le vacanze. La prima fu una settimana dopo, a Dubai, dove si esibirono al Dubai Festival City dopo i Velvet Revolver, l'ex-ciurma dei Guns N'Roses. Poi a fine marzo volarono in Sud Africa, per un paio di date al My Coke Fest di Città del Capo e Johannesburg. A luglio si parlò delle prime date sudamericane della band in Brasile, Colombia, Argentina e Cile, e Matt accennò a un concerto in Cina previsto in ottobre. Ad agosto furono gli headliner nel weekend del V Festival, che Matt vide come uno show meno sotto pressione rispetto al Reading e al Glastonbury. E poi, grazie al cachet spropositato che i promoter pagavano agli headliner, finalmente poteva essere l'occasione buona per realizzare il suo sogno di far atterrare delle astronavi sulle teste del pubblico. A parte ciò, raggiunta la vetta della performance da stadio, nei tour futuri i Muse promisero numerose serate in locali più piccoli e con più artisti sul palco (si era discusso a lungo di introdurre un'orchestra dal vivo), per aggiungere


energia. La prima conferma del loro desiderio di fissare i fan dritti negli occhi giunse appena sei settimane dopo, quando la band si esibì in concerto per il Teenage Cancer Trust alla Royal Albert Hall di Londra, organizzato da Roger Daltrey degli Who che aveva chiesto ai Muse di partecipare all'evento per ben due volte. Matt era entusiasta dell'invito, perché suo padre vi si era già esibito tre volte con i Tornados e gli aveva sempre detto che era il suo posto preferito per suonare. Dopo una richiesta senza precedenti, che vide il botteghino on line See Tickets collassare per la tensione e biglietti venduti su eBay a 300 sterline cadauno, l'attesa per l'evento tra coloro che furono abbastanza fortunati da parteciparvi era forse più spasmodica di quella a Wembley. Fu uno show ridotto all'osso, con i soliti schermi giganti ora una semplice striscia di un metro e mezzo che correva in fondo al palco mostrando esili frammenti del loro consueto apparato visivo, ma sferrò il pugno di uno show da palasport. Dove molte grandi rock band avrebbero colto al volo l'opportunità di provare i loro successi in chiave acustica con alle spalle un quartetto d'archi, il rock dei Muse fu più duro che mai. Per la prima esecuzione di Megalomania dopo sei anni, Matt diede la parola al mastodontico organo che copriva in altezza l'intera Royal Albert Hall dichiarando: "Sarebbe scortese non suonare questo mostro!". Sfarzosi, sinfonici, tremendamente moderni: era come un corpo a corpo tra la band e la sala stessa per stabilire chi fosse il più grande. Fu una gara senza vincitori. Girarono poche notizie sul conto del quinto album durante la nostra intervista nel febbraio 2008. Lo studio nella villa era finalmente ultimato e la band aveva sottomano "pezzi e bocconi" su cui avrebbero cominciato a lavorare non appena il posto fosse stato definitivamente pronto. C'erano un sacco di canzoni, dissero, ma ancora niente coesione. Dom accennò a un possibile retrogusto elettronico e si parlò di ulteriori esperimenti in cui avevano smontato vecchi strumenti per vedere che rumori facevano. Matt, intanto, credeva che forse era giunta l'ora della "strampalata opera prog" dei Muse e di almeno "un assolo space rock da quindici minuti". Voleva spingere i confini ancora più in là per tenere alto l'interesse, e si augurava che i fan fossero aperti verso questi sperimentalismi musicali perché lui era dell'avviso che i Muse potevano tirare avanti su quella linea all'infinito. Supermassive aveva spalancato per la band un intero mondo di soluzioni dance improntate al groove che lui era ansioso di esplorare. Aggiunse inoltre che stavolta poteva anche non trattarsi di un altro album convenzionale dei Muse. "Non penso che ci avvicineremo al prossimo album come se stessimo facendo un album", disse. "Credo che faremo soltanto un casino di musica. Il formato album ci sarà di sicuro, ma siamo più propensi a far uscire le cose in maniera meno convenzionale, casomai al momento ne avessimo voglia. Mi piacerebbe far uscire un tot di canzoni ogni mese, o magari ogni due. Quasi come con il singolo, cui si dà un formato più importante, e poi ogni tanto pubblicare un 'best of. E quello sarebbe l'album. Quindi, in altre parole, far uscire le canzoni ogni due mesi e vedere se piacciono alla gente, quali piacciono alla gente e poi infilarle in un album da undici tracce". Tuttavia, nell'immediato futuro, le cose avrebbero funzionato in modo abbastanza diverso. * * * Esattamente un anno dopo, agli NME Awards 2009 nella Brixton Academy, il volto sorridente di Matt Bellamy emerse dalla folla. Strappò il suo drink dal tavolo dei Muse, oltrepassò i tavoli di Cure, Grace Jones e Last Shadow Puppets e avanzò a grandi falcate verso di me, trascinandosi appresso un'aria di trionfo. "Ce l'abbiamo fatta". All'inizio non ero proprio sicuro di cosa avesse fatto. Nei dodici mesi dall'ultima volta che avevamo parlato non c'erano state crociere-tour nel Mediterraneo e nessun Muse-zeppelin che passava a volo radente sparando Sunburn. E non c'erano neanche state sfilze di singoli pubblicati come antipasto del loro imminente quinto album. Non c'era stato alcun concerto in Cina, anche se dopo uno show zeppo di contrattempi davanti a 90mila portoghesi in delirio al Rock In Rio di Lisbona nel giugno 2008 (sia il pedale che la tracolla della Kaoss di Matt si ruppero), a luglio il tour sudamericano si era messo in moto come previsto. Negli auditorium di capienza superiore alle 3mila persone di Monterrey, Guadalajara, Bogotà, Buenos Aires, Santiago, Rio de Janeiro, San Paolo e Brasilia, i Muse lasciarono a bocca aperta il popolo latino con le


bandiere delle varie nazioni che ricoprivano la cassa della batteria di Dom. A Santiago, durante Feeling Good, Matt indossò il ckupalla, tradizionale copricapo cileno, e rarità come Nishe, Dead Star, Space Dementia, Fury e Apocalypse Please furono gettate in pasto al pubblico con smodato trasporto, come delle compiaciute passeggiate negli anfratti più oscuri del loro vecchio repertorio. Erano quelle latitudini così esotiche a solleticare la loro propensione all'avventura. Non c'erano state neppure le navicelle spaziali sospese sopra il pubblico del V100, anche se gli show furono già abbastanza spaziali per conto proprio. I riflettori-antenna di Wembley, ammassati su un palco che riusciva a stento a contenerli, scandagliarono la folla come gigantesche videocamere di sorveglianza aliene, sia le orde bruciate dal sole per la tranche di Chelmsford che i mostri fangosi fradici di pioggia a Stafford. E su poderosi rintocchi di devastazione orchestrale, i Muse salirono sul palco e rubarono il weekend con pirotecnici riffrock capaci di terremotare un festival di solito sinonimo di Snow Patrolo Stereophonics e relativo piattume radiofonico. Nonostante le obiezioni degli Dèi del Meteo (la settimana prima, al Marlay Park di Dublino, la band aveva tolto Blackout dalla scaletta perché le mongolfiere erano rimaste a terra a causa di forti venti), i Muse terminarono le ultime date festivaliere del Black Holes and Revelations tour come dei colossi in sella al mondo. I fan delle Girls Aloud non seppero nemmeno cosa li aveva colpiti. Però Matt non stava esultando per niente di tutto ciò. Cos'aveva fatto, di preciso? "Il pezzo epico da un quarto d'ora", sorrise divertito dall'assurdità di quell'affermazione. "L'abbiamo fatto. Devi fare un salto in Italia per sentirlo in studio". Se avessi saputo fino a dove si sarebbero spinti i fan di tutto il mondo pur di ascoltare un brandello di THE RESISTANCE avrei prenotato all'istante un biglietto per il Lago di Como. * * * Venerdì 10 luglio 2009: dopo circa undici mesi dalla ricezione del loro ultimo comunicato101, il sito dei Muse fu rimpiazzato da un orologio che scandiva un conto alla rovescia di quarantott'ore. Il lunedì seguente, nel secondo stesso in cui il timer segnò zero, il sito cessò di esistere. Fu sostituito da un nuovo sito ufficiale e da un microsito satellite: The United States Of Eurasia. La front page ospitava una cartina vuota dei continenti europeo, africano e asiatico insieme al seguente messaggio: PROGETTO EURASIA DECLASSIFICATO SU FLASH BRIEFING. DIVULGAZIONE GENERALE APPROVATA. PRECEDENTE CLASSIFICAZIONE: INDIGO ALPHA SHARD. EVENTI GEOPOLITICI RICHIEDONO L'ATTIVAZIONE DEL PIANO DI RISERVA BRAVO NINER, PRECEDENTEMENTE NOTO COME GRAN AJEDREZ. GLI INDICATORI INCLUDONO STIME IN TEMPO REALE DELL'OPINIONE PUBBLICA E POLITICA A -2.57 (INDICE KNIGHT), INDICATORI SOCIO-ECONOMICI A [CANCELLATO], INDICATORI DI STABILITÀ ENERGETICA A [CANCELLATO], INDICATORI DI VOLATILITÀ DEL MERCATO GLOBALE A [CANCELLATO] ED EFFICACIA MILITARE DELLO STATO SOVRANO A [CANCELLATO]. PER L'ATTIVAZIONE COMPLETA DI GRAN AJEDREZ È STATA CONCESSA L'AUTORIZZAZIONE A MOBILITARE SU LARGA SCALA RISORSE HUMINT102 INIZIATE NON CONVENZIONALI. L'ATTIVAZIONE DI GRAN AJEDREZ AVRÀ LUOGO IN DIVERSE FASI. LA RIUSCITA ATTIVAZIONE DI OGNI FASE COMPORTERÀ LO SBLOCCAGGIO E LA DECODIFICA DI UN BRIEFING AUDIO. SARÀ POSSIBILE ACCEDERE AL DOWNLOAD DELL'INTERO BRIEFING AUDIO DEL PROGETTO EURASIA / GRAN AJEDREZ SU ATTIVAZIONE RIUSCITA DI TUTTE LE FASI. SI PREGA DI ATTENDERE E COMPILARE QUANTO SEGUE PER IL CONSENSO PRELIMINARE ALLA MOBILITAZIONE DELLE RISORSE HUMINT. Ai fan che compilavano il modulo di registrazione allegato veniva detto che erano stati reclutati con successo in veste di "HUMINT ATTIVI" e di restare in attesa di istruzioni. I fansites fremevano di ipotesi e congetture. Che stava a significare? Cos'era il Progetto Eurasia? In che modo li avrebbero convocati a prendere parte all'attivazione delle varie fasi? In che specie di sinistra missione di intelligence si erano arruolati in qualità di agenti? Il mattino seguente, martedì 14 luglio, sulla mappa dell'Eurasia l'Europa Occidentale si accese di rosso. IL PROGETTO EURASIA / GRAN AJEDREZ (BRAVO NINER) È ORA ATTIVO. MOBILITAZIONE SU LARGA SCALA DI RISORSE HUMINT INIZIATE NON CONVENZIONALI APPROVATA.


ATTENDERE ATTIVAZIONE IN FASI DELLE STAZIONI DI GRAN AJEDREZ. LA STAZIONE//FUSE È ORA OPERATIVA. Chi aveva tenuto d'occhio i messaggi Twitter in cui Matt faceva riferimento a un nuovo gioco in codice aveva il sentore di cosa stesse bollendo in pentola. Era una caccia al tesoro musicale talmente intricata, sperimentale e pancontinentale che il rompicapo con la scaletta anagrammata del 2005 sembrava in confronto il sudoku di un giornale d'enigmistica per ragazzini. La Stazione Fuse fu la prima ad attivarsi. C'era una pagina Web che si descriveva come "DOCUMENTAZIONE INTERNA DEL PROGETTO EURASIA, ATTIVAZIONE SCENARIO 1/6 - QUESTO DOCUMENTO È CLASSIFICATO COME INDIGO AMAZON ZENITH". Stando al documento, per attivare la Stazione Fuse era necessaria l'acquisizione di un "CODICE D'INNESCO USB" e i giocatori avrebbero dovuto "SEGUIRE PROCEDURA SATELLITARE, IL CHI CARTESIANO INDICA IL LUOGO DI CONSEGNA GRANDCREW. RAGGIUNTO IL LUOGO DI CONSEGNA GRANDCREW FORNIRE IL CODICE D'AUTENTICAZIONE VERBALE GRUPPO BILDERBERG ALL'AGENTE DESIGNATO 978-0465027262. LA STAZIONE//FUSE SARÀ ATTIVA FINO A 2009.07.15:10.00-12.00 ORA LOCALE DELLA STAZIONE". I giocatori venivano poi indirizzati a un canale YouTube e a un progetto Flickr in cui "depositare" la testimonianza fotografica o filmata del loro incontro col suddetto agente per accedere a un file audio in cui una voce di donna leggeva le coordinate di una mappa. Foneticamente tradotte, tali coordinate portavano i giocatori a un edificio in Rue du Perche, a Parigi. Se si fossero presentati tra le 10 e le 12 e avessero incontrato l'agente 978-0465027262,103 preso in consegna il codice USB, scattato una foto o girato un video insieme a lui per poi caricarli sui siti YouTube o Flickr, avrebbero vinto due biglietti per un concerto dei Muse a loro scelta e un incontro in privato con la band (o, come li definiva il sito, "AL RIUSCITO SBLOCCO DELLA STAZIONE E RELATIVA PHOTINT104 SEGUIRÀ UNA CHIAMATA A RAPPORTO INDIVIDUALE CON GLI ARCHITETTI DEL PROGETTO EURASIA E ACCESSO 2X A RADUNO DEL PROGETTO EURASIA (MIKE UNIFORM SIERRA ECHO) A DISCREZIONE DELL'AGENTE"). Digitare il codice USB nel sito equivaleva solo a "lanciare" la Stazione Fuse. Adesso tutti gli agenti dovevano cooperare per sbloccarla. Fu postato un elenco di cinquanta frasi apparentemente casuali con le istruzioni di decodifica per il giocatore: "BECKONS FROZEN FISH", "I SLUNK INTO FAUNA", "TEAR UP SEXY OPERA", "TWO SHY CHICKS" e via dicendo. Queste, secondo le istruzioni, erano "ENTITÀ CLASSE INCUBO OPERATIVE ALLE ALTE SFERE", con tanto di esempio: "L'ENTITÀ CLASSE INCUBO 'CORRUPT AUGURS' È STATA IDENTIFICATA COME ARC-TURUS GROUP". Le frasi casuali erano naturalmente anagrammi di "ACCREDITED LOBBYING ORGANISATIONS" ("ORGANIZZAZIONI LOBBISTICHE ACCREDITATE") presso l'Unione Europea a Bruxelles. Tra le soluzioni figuravano Ericsson, Danish Dairy Board, Taxpayers Europe e Olympic Airlines. Una volta risolti e inseriti tutti i cinquanta anagrammi, sulla "Music page" del sito si sbloccava la prima clip di una nuova canzone dei Muse intitolata United States OfEurasia. Una volta lanciata e sbloccata, sulla cartina dell'Europa Occidentale la "Stazione Fuse" diventò verde. L'Europa Orientale si era accesa di rosso: la "Stazione Charlie" era diventata operativa. C'erano sei stazioni in tutto (Fuse, Charlie, October, Umayyad, Doolittle e Buahinia), alle quali i partecipanti dovevano dirigersi seguendo le coordinate fonetiche di un file audio per incontrare a una data ora un agente dal codice numerico, ricevere una password, scattare una foto per il sito come prova dell'incontro, radunare i loro codici USB e inserirli nel sito. La Stazione Charlie era un edificio in Niederbarnim Strasse a Berlino, October era un bar della catena Coffee Bean a Mosca, Umayyad era un Virgin store in un centro commerciale di Dubai negli Emirati Arabi Uniti, Doolittle la Hibiya Kokaido Public Hall di Tokyo e Buahinia il Fringe Club di Hong Kong. Ogni Stazione, una volta lanciata, costringeva i giocatori a decifrare un secondo, criptico puzzle per sbloccare la successiva clip musicale. Sbloccate tutte e sei le Stazioni, fu attivata un'ultima Stazione Colossus corrispondente a un luogo di consegna a New York: non sarebbe stato possibile scaricare il brano, diceva il messaggio, a meno che gli USA non avessero riconosciuto gli Stati Uniti d'Eurasia. Quando un americano comunicò il codice newyorkese, United States OfEurasia fu scaricata da tutti gli agenti che avevano preso parte alla missione105. Per tutto quello scervellarsi, quel linguaggio da spie e quelle scarpinate internazionali, ricevettero in cambio un brano di portata epica e transcontinentale, la testimonianza più lampante del debito che la band aveva


contratto con i Queen. Un malinconico intro di pianoforte cedeva il passo a un istrionico e patinato crescendo di stridenti accordi rock all'apice della potenza, memori della Bohemian Rapsody in quanto a stile e struttura, sebbene i fansite si affrettassero a paragonarlo alle fonti più disparate come Live And Let Die di Paul McCartney, You're Beautiful di Christina Aguilera e la colonna sonora di Lawrence d'Arabia. Il suo asse portante orchestrale aveva senza dubbio un retrogusto arabeggiante, come un Bolero di Ravel alle prese con la danza dei sette veli. Il titolo prendeva spunto dall'analisi politica globale condotta da Zbigniew Brzeziski nel suo La grande scacchiera, saggio in cui il polacco exconsigliere di Jimmy Carter (e, si mormora, attuale collaboratore di Barack Obama) sostiene che l'America è decisa a prendere il controllo dell'Eurasia per tenere saldamente in pugno le sue scorte petrolifere. Un libro che, come affermerà Matt in seguito, ricorda il consiglio di guerra strategico della commedia di Stanley Kubrik Il Dottor Stranamore, in cui si discute delle sorti dell'Eurasia come se fosse il tabellone di una partita a Risiko in carne e ossa. Legato ai riferimenti all'Eurasia presenti in 1984 (la visione di George Orwell sulla società autoritaria definitiva), il testo narrava la storia di quest'enorme massa di terra unita, di un faccia a faccia Eurasia vs. USA, di megalomania impazzita. Si alludeva alla convinzione che l'umanità sarà sempre in guerra finché, una volta distrutto ogni concetto di "Paese", non ci renderemo conto che siamo tutti sulla stessa barca che affonda. Come a voler rafforzare l'immagine di un conflitto che fa avvizzire la bellezza insita nel pianeta, United States OfEurasia era in coppia con un outro intitolato Collateral Damage, in cui Matt suonava il Notturno in Mi bemolle maggiore dall'Op.9 N.2 di Chopin con sottofondo d'archi, cinguettii e risate di bambini, almeno finché il quadretto idilliaco non viene dilaniato dal ruggito dei cacciabombardieri in picchiata. Nel frattempo, dietro tutti questi intrighi da spy-story, dietro tutto il rumore e la furia, si annidava una band smarrita in uno scenario stupendo, tra influenze letterarie che guizzavano dal romantico al terrificante e la propria esilarante, incontenibile libertà musicale. Dietro le quinte e con le redini in pugno, per i Muse era il momento di tutta una vita. * * * Nell'estate del 2008, Matt Bellamy aveva ormai accumulato tre case. La residenza principale era la villa accoccolata tra le colline del Lago di Como, in Lombardia, dove la tranquillità e la vista mozzafiato delle foreste che calavano sulle sponde del grande lago avevano attratto nelle ville circostanti George Clooney, David Beckham e i cast di Casino Royale e Star wars episodio 11: l'attacco dei cloni (una per il Bond convalescente di Daniel Craig, un'altra per le nozze di Anakin Skywalker). Qui, nello studio domestico ribattezzato Studio Bellini, registrava i suoi demo e suonava il piano a notte fonda, nello spasmodico tentativo di evocare lo spirito del defunto maestro. Dato che in Italia aveva l'impressione di perdere il contatto con l'Inghilterra, Matt si immergeva nel canale BBC World News e si faceva recapitare ogni giorno quotidiani britannici. La distanza conferì oggettività agli scandali del 2008 e 2009: la crisi bancaria, il polverone per le spese dei parlamentari inglesi, la prosecuzione della guerra in Iraq. Il senso d'impotenza che aveva sempre provato in Gran Bretagna e che aveva alimentato le tematiche di ABSOLUTION e BLACK HOLES AND REVELATIONS non valeva per l'Italia. Ai suoi occhi fu sempre più chiaro che nel Regno Unito le cose dovevano cambiare, che la sua democrazia era ridicola, l'informazione distorta, il suo sistema parlamentare sorpassato. Non riusciva a capacitarsi del fatto che non solo la Camera dei Lord, ma indirettamente neppure il Primo Ministro Gordon Brown erano eletti dal popolo. Nel suo rifugio segreto Matt si fece l'auto-lavaggio del cervello a colpi di BBC e con il libro Confessioni di un sicario dell'economia, in cui l'autore John Perkins descrive in dettaglio i tentativi americani di risucchiare le ricchezze minerali degli altri Paesi destabilizzandone i governi. Tornò a leggere 1984 di Orwell, ispirandosi stavolta non alle distopie politiche ma alla speranza e al romanticismo della storia d'amore tra Winston Smith e Julia. Anche se la relazione clandestina descritta nel racconto porta infine all'arresto, alla tortura e al tradimento reciproco dei due amanti, Matt vi trovò un'emozionante vena di ribellione contro il regime totalitario che gli sembrò applicabile alla società moderna. Tutto ciò gli diede da pensare: in seno all'elettronica,


all'R'n'B e ai lunghi pezzi prog sinfonici da pianoforte che aveva in mente, nel loro quinto album poteva albergare il concetto dell'amore come metodo per resistere o sfuggire all'oppressione e alla corruzione nell'Occidente del Ventunesimo secolo. Amore, concluse, uguale libertà. L'unico posto in cui il Grande Fratello non riusciva a vederti. Poi, mentre si trovava nel suo appartamento in centro a Londra, fu testimone di un diverso stile di resistenza. La vicina ambasciata statunitense e le altre, lì nei dintorni, erano costantemente prese di mira dai manifestanti, alcuni arrabbiati e turbolenti, altri più scanzonati e con dei costumi buffi. Sì sentiva preso tra due fuochi: sostenere la protesta rabbiosa e distruttiva ma non violenta (verso le persone, almeno) contro il G20, che per l'Inghilterra era la cosa più vicina a quella rivoluzione di cui aveva un disperato bisogno, o guardare i dimostranti con i loro costumi ironici esigere un cambiamento autentico tramite mezzi ben più pacifici? In Devon, nella casa che aveva comprato per sua madre e sua nonna dove c'era una stanza libera per quando passava a trovarle, Matt tornò ai suoi preparativi per l'apocalisse. Conscio del fatto che il Sud-Ovest del Paese era tradizionalmente il luogo in cui la gente si era trasferita, in passato, per tenersi alla larga dalle grandi città in caso di conflitto nucleare, trasformò quella casa in un autentico bunker eco-compatibile. Per la verdura era autosufficiente al 40 per cento grazie al piccolo appezzamento di terreno lì accanto e nella dispensa c'erano cinquanta scatole di fagioli stufati. Appena gli dissero che, in caso di blocco militare, il Regno Unito sarebbe rimasto a secco di petrolio in una settimana e di cibo nel giro di due (e resosi conto che il cibo in scatola può durare per un paio d'anni), Matt comprò l'intera scorta di fagioli di un emporio locale oltre a un'ascia per la legna da ardere. La sua ragazza lo trattenne dall'acquistare una balestra, ma non riuscì a impedirgli di comprare dei polli da batteria per i suoi scopi d'allevatore. Dopo averli trattati bene per i restanti mesi del 2008, a Natale li uccise con le proprie mani per il cenone in famiglia. Fu un gesto che lo fece sentire in colpa, ma lo riportò più vicino alla vita reale. Un giorno avrebbe potuto rivelarsi importante sapere com'è quando si uccide un animale per mangiare. Tutto ciò - la luce salvifica dell'amore che è come una punta di spillo nelle tenebre color inchiostro del disordine sociopolitico globale, la sottile linea tra protesta e rivoluzione, l'ascesa delle superpotenze, la sopravvivenza dell'umanità - iniziò a plasmare la sua visione del prossimo album. Non voleva (e credeva di parlare anche a nome dei fan) soltanto un disco più grande, migliore, persino più teatrale degli altri, la summa di tutto ciò che i Muse avevano appreso in fatto di musica (ogni stile adottato, ogni idea forgiata), ma voleva creare qualcosa di ribelle, un contrattacco. Se ABSOLUTION e BLACK HOLES erano impantanati nella mitologia aliena, nella cospirazione e nella rabbia, questo qui sarebbe stato un vero album di resistenza a ciò che definiva "la corporatocrazia". E soprattutto, volevano che la realizzazione di THE RESISTANCE fosse uno stramaledetto spasso. I lavori preliminari ebbero inizio nel giugno 2008, quando la band si riunì nello Studio Bellini per delle session di scrittura libera insieme all'ingegnere del suono Mike "Spike" Stent. Per quanto si fossero divertiti a lavorare con Rich Costey e avessero apprezzato il suo contributo in BLACK HOLES, volevano che il nuovo disco fosse il più possibile sincero, intraprendente, divertente e libero da ogni vincolo, il che significava mettere il naso fuori dalla loro comoda nicchia, non dover rispondere a nessuno, non fare compromessi con forze esterne. Significava prodursi il disco da soli. Con uno studio personale sul Lago di Como non avevano limiti di tempo e potevano registrare in tutto relax. Stabilirono una procedura decisionale democratica: ogni disputa musicale tra due membri della band sarebbe stata risolta dal terzo. L'approccio gli ricordava quello di ORIGIN OF SYMMETRY, cioè l'ultima volta in cui avevano gettato la prudenza alle ortiche e si erano fatti trascinare dalle canzoni stesse, senza paura, verso gli zenith selvaggi che volevano esplorare. Era un progetto all'insegna dell'Estremo. Entro fine luglio la band aveva in cantiere cinque o sei pezzi senza testo, e dai post di Dom sul sito o dalle interviste cominciarono a trapelare indiscrezioni. C'era un brano dalle sfumature glam rock che secondo Matt somigliava a New Year's Day degli U2, e altri che etichettava come funk o R'n'B.


Su Twitter, Dom parlò di un "disco dell'altro mondo", di "mostri orchestrali da quindici minuti" e di "tutto ciò che c'era in mezzo". Anche Matt parlò di quest'opus orchestrale, definendolo una "versione operistica e viscosa" dei precedenti brani della band. Chris, intanto, disse che la prima volta in cui aveva sentito Matt suonare alcune delle nuove composizioni, spesso simili a dei recital di Chopin, era rimasto spiazzato: più che pezzi rock erano brani orchestrali, e ce n'erano ben pochi con un beat familiare. Gli ricordavano SMILE, lo storico album perduto di Brian Wilson. Verso la fine dell'estate, i Muse se la svignarono in un'enorme eco-dimora vicino a un ruscello nella campagna del Devonshire, per provare le canzoni prima di passare alla registrazione. Quel gigantesco rifugio in legno pallido con finestroni in vetro laminato alti un piano intero, farcito di strumentazione e con solo un poster del Metropolis di Fritz Lang a tradire il carattere stralunato dei suoi inquilini, era vicino a Teignmouth quel tanto che bastava da radicarli nel territorio in cui si erano conosciuti e fargli catturare di nuovo il brivido di chi riparte da zero, ma abbastanza sperduto da non spaventare gli abitanti del luogo. Avevano intenzione di finire le prove e dare il via alle registrazioni a settembre, ma le difficoltà nel portare a termine le ipertrofiche parti orchestrali fecero slittare il calendario a ottobre. Qui le canzoni furono lanciate. L'attivazione sarebbe avvenuta in Italia. Le Officine Meccaniche di Milano si trovano all'interno di un anonimo e dimesso edificio industriale che irradia una grande bellezza. Qui, e allo Studio Bellini, tra l'ottobre del 2008 e la primavera del 2009, i Muse si diedero appuntamento per incidere THE RESISTANCE. Le frivolezze si sprecavano: ogni volta che attaccavano con United States Of Eurasia e i suoi vocalizzi alla Freddie Mercury, la band crollava a terra dalle risate - a Matt ricordava una scena del classico sci-fi spadaccinesco Highlander. Una canzone fatta apposta per vibrare una botta emotiva così poderosa doveva per forza avere quei ridicoli funambolismi alla Brian May e quelle piazzate alla Freddie schiaffati in mezzo? Dopo un intenso dibattito, decisero che non si potevano togliere. L'oltraggioso e debordante elemento comico della loro musica era il contraltare perfetto alla pesantezza dei testi. Era il loro lato Monty Python: ricami spassosi e fiammeggianti eseguiti con impassibile ironia. Questo, e l'aura glam rock che scaturiva da un brano come Uprising, li aiutarono a bilanciare gli elementi più cupi, in modo da emozionare l'ascoltatore invece di stremarlo. Le sciocchezze e gli eccessi facevano parte della natura umana; se li avessero tolti, quella canzone avrebbe smesso di farli ridere e ciò l'avrebbe intrinsecamente svalutata. Avevano deciso di non tirarsi indietro davanti all'insolito o all'esilarante, e quello era un caso limite. Il paragone con i Queen non era un problema. Del resto, l'opinione di nessun altro lo era. A loro quel pezzo piaceva, e quindi rimase. Non mancò naturalmente la sperimentazione: suonarono unghie di lama per simulare gli zoccoli di cammello e trafficarono con beat e ritmi sincopati a là Timbaland. Dom programmò tutte le parti di batteria elettronica, Matt arrangiò e scrisse gli spartiti di tutti gli archi per paura che altri compositori potessero incasinargli la musica. La prima reazione di Dom e Chris al falsetto operistico di Matt su un brano epico di dodici minuti che lui chiamava Exogenesis fu di sbigottito shock. Matt, con democrazia, ne parlò assieme a loro e li convinse a lasciarglielo mettere nell'album. Per quanto sembrasse folle, dovevano fidarsi di lui. I litigi e le discussioni erano frequenti, ma si risolsero più alla svelta rispetto alle session di BLACK HOLES. Le registrazioni si protrassero per tutto il Natale 2008 fino all'anno successivo. Tom Kirk rendeva partecipi i fan postando on line degli spezzoni video senza il sonoro della band in studio: Matt che suonava la tastiera con un cappello da Babbo Natale, Dom che suonava il rullante in un campo, la band al completo che schioccava le dita in un microfono dentro una toilette. In aprile si parlò di una collaborazione in studio con i rave-maniaci Does It Offend You, Yeah?, che avevano accennato a una probabile visita allo Studio Bellini, ma l'affare non si concretizzò mai106. L'ultima tranche di registrazioni ebbe luogo alle Officine Meccaniche, dove un gruppo di ventitré musicisti classici cui diedero solo cinque minuti di tempo per suonare a vista lo spartito regalarono a United States OfEurasia i suoi archi arabeggianti; la direttrice d'orchestra Audrey Riley, intanto, correva dallo studio al banco di mixaggio nel tentativo di catturare un'aria di Mahler o della Casta Diva di Bellini e Matt sedeva chino


sul mixer a più di cento tracce, corregendo gli spartiti di pari passo con la registrazione. Il lavori finirono nel maggio 2009. Il 23 giugno il disco fu mixato da Mike Stent nello Studio Bellini e spedito a New York per la masterizzazione. I Muse guardarono il loro primo disco fatto (quasi del tutto) in casa ed esultarono. Se l'obiettivo era spingere oltre ogni limite stili, sonorità e idee, allora l'avevano raggiunto. Se lo scopo era un album che virasse a piacimento tra il sublime e il ridicolo, allora ce l'avevano in tasca. Se avevano voluto creare un album d'amore, ribellione e senso di giustizia, be', quelli erano gli assi nella manica di THE RESISTANCE. E se i due album prima si aprivano con degli anthem maestosi che crescevano senza arrivare da nessuna parte, stavolta avevano un incipit col botto. Strizzando l'occhio alle dimostrazioni degli attivisti, THE RESISTANCE apriva le danze con quella cadenza glam rock che la band trovava così divertente: Uprising incapsulava lo spirito appassionato e lo humour delle session. La stampa la paragonò a tutto, dagli Sweet di Blockbuster alla Glitter Band e Marilyn Manson (per le percussioni anni Settanta) fino a Oxygene 2 di Jean-Michelle Jarr, Doctorin The Tardis dei Timelords e la sigla del Dottor Who (per i synth retrofuturistici). Ma per Matt rappresentava quei manifestanti in costume fuori dal suo appartamento di Londra: un approccio scanzonato a una tematica molto seria. Nelle bande di hooligan che intonavano slogan di protesta contro il disastro bancario Matt sentiva la rabbia di chi è stato tradito da politici, banchieri e dalle principali istituzioni, la determinazione di chi è rimasto scottato una volta a non fidarsi più di quelli che stanno al potere, un urlo per incitare alla pubblica resistenza. Sarebbe uscito a settembre, come primo singolo ufficiale dell'album, e la confezione avrebbe rispecchiato la sua duplice natura. In copertina sarebbero apparse schiere di orsacchiotti in formazione militare, gli stessi che aveva in mente di inserire nel videoclip dove avrebbero inscenato una sinistra insurrezione, scatenando il caos durante una marcia sul Parlamento. Uprising era il volto pacioccone della rivolta. Faceva il paio con la successiva Resistance, insieme alla quale settava l'umore sovversivo dell'intero album. Muovendo da un etereo ronzio elettronico, uno spettrale brusio sinfonico e una ritmica memore di Map Of The Problematique, la canzone torna a narrarci la storia di Winston e Julia, gli amanti di 1984, e della loro relazione segreta, scoperta dalla Psicopolizia in quella che credevano essere una stanza sicura nel distretto dei Prolet. Se il bordo tagliente del ritornello (simile a Electric Light Orchestra, Queen o all'album THE WAR OF THE WORLDS di Jeff Wayne) affonda nella sontuosa strofa come gli anfibi della polizia attraverso una porta, il testo supplica l'amore che abbiamo dentro di schierarsi sempre contro l'oppressione. A quanto pare era questo, il pezzo che Matt aveva paragonato a New Year's Day. Va a sapere su quale pianeta si trovava, quel giorno. Undisclosed Desires era la prima traccia R'n'B dell'album che si ispirava a Timbaland, una canzone che secondo Chris era l'ideale per sbronzarsi e provarci con qualcuna. Matt la definì anche "il primo pezzo anti-Muse", dato che qui nessuno svolge il suo solito ruolo: Chris suona un basso slappato che ricorda i Depeche Mode, Dom ha programmato una batteria elettronica invece del solito kit acustico e il resto della canzone è ricavato da diversi strati di campionature. Matt non deve far altro che cantare questa sua ode personale a Gaia, facilmente vendibile anche a Beyoncé. Era il pezzo più pop che avessero mai scritto, capace di spingere le radici funky di Supermassive Black Holes ad arruffianarsi ancora di più le chart. A qualcosa di così intimo e groovy, una band priva di compromessi come la loro poteva solo far seguire qualcosa di solenne e globale: lo splendore a fuoco lento di United States OfEurasia / Collateral Damage. Con quel ruolo da colonna portante che in ABSOLUTION era di Butterflies And Hurricanes, tratteggia con mano ferma i dettagli di una relazione e poi alza il tiro, stampando sul disco lo stivale militare della superpotenza imperialista. Per chi magari si fosse chiesto contro quale misterioso oppressore ci dicevano di resistere nelle canzoni precedenti, ormai era chiaro: esortavano il blocco dell'Eurasia a unirsi contro i guerrafondai USA. E questo era il suo inno nazionale. Era come se i cacciabombardieri in chiusura si fossero schiantati da qualche parte tra Vienna e Barcellona. Dalla fusione tra il periodo d'oro degli Ultravox e l'istrionico duetto del 1987 tra Freddie Mercury e Montserrat Caballé


nascevano il serrato back-beat, i nebulosi synth e il cantato in crescendo di Guiding Light, suonata talmente forte durante le registrazioni che, verso la fine, si sente il rumore dei vicini che tirano pugni alla porta107. Il brano rappresenta la fine della storia tra Winston e Julia, separati e ridotti a gusci vuoti di pura obbedienza dai torturatori del Ministero dell'Amore. Con le sue sonorità strappalacrime, Guiding Light è forse il momento più angosciante dell'album. Ma è tempo di tornare a combattere. Unnatural Selection vede un Matt che si strappa di dosso il costume da animaletto peloso per spingersi "oltre la protesta pacifica": correndo sui binari di un riff alla Queens Of The Stone Age (che ne fa l'episodio più rock dell'album), questo brano promuove violenza e distruzione, disturbo e malcontento, esige verità e riflette il barcamenarsi di Matt tra protesta pacifica, rivoluzione violenta e semplice fuga. Una famelica scheggia punk rock che cede il passo a un groove più rilassato stile Led Zeppelin, prima che la sommossa rock trionfi nel finale. Se l'album evita di proposito teorie complottiste a favore di una panoramica più realistica sulla situazione sociopolitica mondiale (Matt era stufo di essere dipinto come uno scoppiato), MK Ultra è qui l'unica fetta di paranoia politica. Con lo stesso nome del "Progetto MK Ultra", un programma di ricerca segreto non ufficiale condotto dalla CIA sul controllo mentale e le droghe da interrogatorio, il protagonista scopre che qualcuno ha rubato i suoi pensieri dall'esterno e perde il controllo del suo cervello mentre "la lunghezza d'onda cresce dolcemente". Molto probabilmente la dichiarazione di Chris, secondo il quale l'elettro-rock martellante di questo brano (sulla scia di un'Assassin per tastiera) poteva avere a che fare con i rettiliani sangue blu di David Icke, non giovò molto ai tentativi di Matt di farsi prendere più sul serio. Un briciolo di sollievo prima dell'impervio finale arriva con I Belong To You, uno svagato pezzo per pianoforte pieno di "wooo", dita che schioccano a tempo e un ottimismo spavaldo che strizza l'occhio a Blur (quelli all'apice del britpop), Billy Joel, Supertramp e Beatles. Un brano dai rimandi classici che parla di devozione, pilastri abbattuti e corone, e che i Muse non potevano lasciare così com'era. No, perché giunti a metà della prima volta in cui il loro nome viene menzionato in un brano, I Belong To You si spezza in un segmento di Mon Coeur S'Ouvre A Ta Voix, un'aria dell'opera Samson et Dalila di Camille Saint-Saèns eseguita da band, coro e orchestra. E se questo vi sembra stravagante, non avete ancora visto niente. Erano diversi anni che Exogenesis, quella sinfonia di dodici minuti divisa in tre parti (Overture, Cross-Pollination e Redemption) la cui scrittura e il cui arrangiamento avevano monopolizzato per alcuni mesi la stesura di THE RESISTANCE, ronzava nella testa di Matt. Parecchie volte s'era immaginato le canzoni dei Muse eseguite da un'orchestra sinfonica e da un coro numeroso, e questa era stata l'occasione giusta per abbandonarsi alle sue fantasie berlioziane più sfrenate. In base alla teoria dell'esogenesi108, l'origine della vita sulla Terra risiede in uno dei "semi" di cui è pieno l'universo: la nostra è stata un'impollinazione incrociata, e forse il vettore è stato una cometa. Il brano dipinge uno scenario da fine del mondo, in cui l'umanità è costretta a lasciare la Terra o inviare stralci di DNA verso altri pianeti per rifondare da zero la razza umana. Più che una canzone vera e propria era un brano di musica classica, che faceva appello a un immaginario spaziale per rispecchiare la grandiosità della musica laddove un'epoca più devota avrebbe intonato un coro di Osanna celesti. La band era ridotta a mero sfondo per gli archi, tanto che secondo Chris avrebbe funzionato benissimo anche senza i Muse. Un crescendo d'archi, una vampata di fiati, un rombo di timpani: Overture si faceva largo con la grazia e la scioltezza delle filarmoniche più rinomate. Il penetrante timbro operistico di Matt, che raggiunge picchi mai sentiti dai tempi di Micro Cuts, fa il pieno di domande nell'ondivago ritornello: chi siamo, dove siamo, perché siamo? Un languido assolo di chitarra floydiano fa spazio a CrossPollination, tutta accordi di pianoforte come pugnalate al cuore e virtuosismi da maestro. Le ultime speranze dell’umanità squarciano le nubi tossiche che avvolgono il pianeta e schizzano fuori dall'atmosfera per "spargere i nostri codici" all'esterno, e la colonna sonora, giustamente evocativa e ricercata, prende un'orbita orchestrale. Poi arriva la band: il tuono della batteria di Dom e il basso di Chris che viaggia a razzo verso un quadrante sperduto della


galassia, prima della ripetizione del refrain iniziale. Destinazione raggiunta. Poteva chiudersi qui, ma Redemption, con quella fragilità che ricorda Bach, è il sontuoso capitolo finale ricco di speranza di quest'avventura cinematografica in cui si piantano i nuovi semi. Matt farà poi notare come l'ultima traccia di ogni loro album si riallacci alle sonorità dell'album successivo. Se Exogenesis è la strada da seguire, allora il sesto album dei Muse non può essere altro che la versione in carne e ossa della scena ambientata all'Opera ne Il quinto elemento. Il fatto che THE RESISTANCE fosse il loro disco più intransigente, impegnativo ed estremo non gli impedì di essere anche quello dal più grande successo in classifica. Alla sua uscita, nel settembre 2009, raggiunse il primo posto in quindici Paesi tra cui Regno Unito, Francia, Germania, Messico e Canada, e il terzo nella più insidiosa delle superpotenze, gli USA. Sembrava che la nazione politicamente più malleabile sulla faccia della Terra, il Grande Nemico guerrafondaio, avesse infine recepito il messaggio sovversivo dei Muse. Ma prima di passare da quelle parti per spiegarglielo di persona c'erano ancora delle questioni in sospeso da risolvere. A casa loro. * * * Da quand'erano ragazzini a Teignmouth, Matt e Dom avevano sempre sognato di suonare al Den, il lembo di terra con piscina nel grembo della città, il panno verde del lungomare. Per Matt, quale posto migliore per ricongiungersi con la sua terra, per infondere coraggio alle giovani anime alienate della sua città natale e per presentare THE RESISTANCE in anteprima nel suo pianeta natio? Così, il 4 settembre 2009, 10mila agenti attivi dei Muse calarono sul Den per il primo convegno del Progetto Eurasia, nome in codice "A Seaside Rendezvous". Nonostante il consiglio comunale avesse autorizzato quell'esibizione (e quella della sera dopo) solo a condizione che il volume non superasse gli 84.1 decibel109, il morale era alto e dietro gli sbarramenti stradali e le transenne le facciate dei negozi erano decorate con poster della band e cartelli che dicevano: "I ragazzi sono tornati in città". Il palco era agghindato come un gigantesco teatrino delle marionette, sotto lo sguardo dei due enormi Pulcinella sul tessuto degli amplificatori. Un direttore di circo risvegliò la folla per l'ingresso della band. "Ciao, Teignmouth!", urlò Matt, gesticolando con aria nostalgica in direzione del molo. "È stupendo essere di nuovo qui". E sotto una luna piena crivellata di laser, i Muse sguinzagliarono THE RESISTANCE (gran parte dell'album, a esclusione di Exogenesis, MK-Ultra, I Belong To You e Guiding Light), inframmezzato dai soliti beniamini del pubblico110 e da un paio di chicche (Cave e i synth anni Settanta di Popcorn, l'hit degli Hot Butter), dedicandole al sindaco che dieci anni prima aveva cestinato il loro disco d'esordio. Verso la fine, Dom salì sullo sgabello della batteria per annunciare quanto i Muse avessero sempre sognato di suonare al Den. E con ciò, THE RESISTANCE iniziò a muoversi. Dopo due show di riscaldamento dal profilo relativamente basso in altrettanti teatri di Parigi e Berlino (con scalette pressocché identiche a quella del Den), alcune comparsate promozionali nelle Tv e nelle radio francesi, londinesi e italiane (durante Quelli che... il calcio suonarono Uprising in playback invertendo le parti, con Dom alla "voce" e Matt alla batteria) e un'apparizione agli MTV Video Music Award di New York, la band si aggregò in veste di supporter al mastodontico e planetario 360° Tour degli U2 sulla East Coast nei mesi di settembre e ottobre. Con la più grande nazione del mondo crollata ai loro piedi, era l'occasione perfetta per massacrare dai 60mila agli 80mila fan a sera con un set da otto pezzi super-pompato. Dal Giants Stadium di New York passando per Landover, Charlottesville, Raleigh, Atlanta, Tampa, Arlington e Houston, i Muse scivolarono lungo la curva Est degli States, esibendosi su un palco che gli U2 avevano progettato su misura per il centro degli stadi, un artiglio metallico alto 58 metri che sovrastava il centrocampo come un ragno gigante. Quel palco diede ai Muse uno spunto per la scenografia del loro prossimo tour europeo, qualcosa che rappresentasse le tematiche totalitarie dell'album ma col ritorno in scena delle acrobate sospese dello show di Wembley, che forse si sarebbero inseguite a mezz'aria cercando di afferrarsi a vicenda senza riuscirci, come un "Winston & Julia incontrano Peter & Wendy". Matt cominciò a informarsi sulle scenografie operistiche e sul Cirque Du Soleil, strategie di performance all'avanguardia imbevute di melodramma. L'O2 chiamava, con quei 20mila posti da riempire. THE RESISTANCE non avrebbe


avuto altra scelta che farlo saltare in aria. * * * Si abbassano le luci. Si accendono le luci. Quelle alle finestre dei tre blocchi a forma di torre da quattro piani che si allungano dal palco al soffitto, disposti a un'estremità della O2 Arena il 12 novembre 2009, e circondati di facce che si sporgono, curiose111. Dissolvenza in apertura su colonne di figure in bianco che sfilano lungo i corridoi delle torri, marciano sulle scale, svaniscono fra le travi. Una sfuriata di synth in crescendo, una voce di donna proclama "siamo l'universo che distrugge se stesso", calano i teloni che coprono le torri e fanno il loro ingresso i Muse. Sospesi otto metri sopra il palco nell'esigua intercapedine tra le due enormi e squadrate colonne fatte di pixel e schermi, aprono le danze con il tiro glam da Venticinquesimo secolo di Uprising, mentre dalle torri lampeggiano neon di un autoritario rosso e nero e Matt spara raggi laser dallo specchio che tiene in mano. Senza le ballerine volanti non è uno show totalmente all'altezza della sua visione ambiziosa, ma la scenografia trasmette benissimo il mood inquieto, da manette ai polsi e sorveglianza speciale, di THE RESISTANCE: ciclopici occhi monocromi scandagliano il pubblico dagli schermi durante New Born, Map Of The Problematique è accompagnata dalle immagini di impronte digitali e scanner facciali, mentre United States OfEurasia si apre con un collage di fototessere, scattate ai membri del pubblico all'ingresso nel palasport. Il messaggio è che siamo fotografati a nostra insaputa, scannerizzati e passati ai raggi x ad ogni angolo di strada, per un unico, evidente scopo. La cartina dell'Eurasia brilla di verde sotto il testo: "STATO: DIVISI. POTENZIALE DI MINACCIA: MINIMO". Tra getti di fumo, sciami di minuscoli insetti laser e il saliscendi delle loro personali torri-piattaforme che li fanno uscire e li racchiudono a comando, i Muse suonano con quella magnifica energia che è il loro marchio di fabbrica. Chris e Dom improvvisano una mega-jam funk rock su una pedana rotante, il pianoforte di Matt viene sollevato a mezz'aria durante Feeling Good e le feroci scariche di Plug In Baby, Hysteria, Stockholm Syndrome e Knights Of Cydonia dimostrano per l'ennesima volta che le superpotenze avranno pure dei file contenenti le nostre stringhe di DNA e l'immagine distorta delle nostre iridi, ma sono i Muse ad avere l'accesso ai codici delle nostre anime. Il giorno seguente, la band annunciò un'altra data al Wembley Stadium per l'estate del 2010. A quanto pare, quella liaison sospesa a mezz'aria dovrà aspettare fino ad allora. * * * E il futuro? Siamo ancora agli NME Awards 2008, con Matt che esita dubbioso per un istante. "Sono sicuro che prima o poi ci arriverà un calcio nei denti, ma ce la siamo talmente spassata che quasi quasi ce lo aspettiamo; un calcio in culo e uno schiaffo in faccia, del tipo: 'Tornatevene nel Devon!'". Il resto di noi, tuttavia, si immagina un futuro alquanto diverso. Quando la crisi petrolifera internazionale raggiungerà il punto di rottura globale i Muse saranno li, a urlare un fragoroso: "Ve l'avevamo detto". Quando i leader segreti del mondo saranno smascherati e fatti sfilare nelle piazze delle città dai capi della rivoluzione i Muse saranno lì, a sputargli in faccia più forte di tutti. E quando gli alieni del pianeta geotermico Nibiru faranno ritorno dalla loro orbita di 3.200 anni per raccogliere tutto l'oro che ci hanno ordinato di estrarre dopo averci clonati, potremo consegnar loro l'opera omnia dei Muse, con la certezza e l'orgoglio che ci lasceranno in pace per altri 3.200 anni, rassicurati dal fatto che ce la stiamo cavando maledettamente bene. Note 1. La capacità che aveva Dominic di passare inosservato durante i primi tempi sarà ribadita non a caso qualche settimana dopo. Dopo una corsa a perdifiato lungo i prati della Reading University alle note del riff d'apertura di Muscle Museum, quando i Muse facevano da supporter ai Gene nel tour delle università nel 1999, al termine dello show mi ritrovai nel loro camerino, e il batterista Matt mi chiese se mi fosse piaciuto il gruppo spalla. "Diventeranno qualcosa di enorme", risposi. E per fortuna, perché non mi ero accorto che a un metro di distanza da me c'era Dominic, con un cappello di lana e le orecchie ben aperte sulla mia risposta.


2. Quest'evento è stato ripreso da Tom Kirk, documentarista e amico di vecchia data dei Muse, e inserito nel secondo disco del live Dvd Hullabaloo, uscito nel 2002. Si riesce a cogliere un breve stralcio della mia intervista con la band mentre sfrecciamo nel gelido pomeriggio moscovita. 3. Munito di tre gambe, "Jake The Peg" è il protagonista fittizio del famoso brano omonimo suonato da Rolf Harris negli anni Sessanta [N.d.T.]. 4. Il più vivido ricordo d'infanzia di Matt è quando gli abbassarono i calzoni in un supermarket all'età di sei anni, costringendolo a correre a casa mezzo nudo. 5. L'istituto era allora noto come Teignmouth High, ma cambiò nome in Teignmouth Community College durante la permanenza di Matt. 6. Il fratello di Matt aveva preso lezioni di chitarra, canto e pianoforte ma senza far progressi, quindi i genitori di Matt scelsero di non soffocarlo con un'educazione musicale convenzionale. 7. Negli anni a venire i gusti musicali di Matt si estesero a Chopin, Rachmaninoff, il virtuoso della chitarra spagnola Andrés Segovia e il compositore orchestrale sudamericano Villa-Lobos. 8. In privato, Matt era anche un fan dei Rush, i funamboli del prog anni Settanta. 9. Anche allora la performance di Matt fu così strabiliante che la voce che c'era un nuovo pianista prodigio raggiunse le orecchie del proprietario di uno studio locale di nome Dennis Smith, tramite il suo meccanico. Dennis ritenne che Matt fosse troppo giovane per fargli da agente e rinunciò a qualsiasi approccio, ma quando Matt lo contattò qualche anno dopo lui si ricordò del suo nome, da cui il resto. 10. Anche se col passare degli anni Matt avrebbe visto suo padre soltanto una o due volte l'anno. 11. Quando i suoi genitori gli comprarono il suo primo amplificatore per Natale, si dice che Matt sia riuscito a romperlo nel giro di cinque minuti, come a voler predire il destino di numerosi altri strumenti. 12. Gli Status Quo non erano pienamente rappresentativi della vergogna musicale di Chris: il primo album che acquistò in assoluto fu THE BIRDIE SONG dei Tweets. 13. Altre ipotesi circa l'origine del nome "Muse" includono le tre "streghe" con cui Matt suonava la chitarra e un insegnante d'arte che aveva spiegato a Matt e Dom il significato del termine durante l'ora di lezione. 14. Quando fu messa all'asta su eBay, nel 2005, una rara copia del demo THIS IS A MUSE raggiunse le cinquecento sterline. Anche Howard fece la sua offerta. 15. Forse Matt ha confuso gli eventi: i Weezer suonarono a Glastonbury nel 1995, quando il festival si crogiolava sotto i raggi del sole. 16. La prima esperienza festivaliera di Chris risale al Reading del 1995, il giorno dopo l'uscita dei voti scolastici. Aveva stretto un accordo con i suoi genitori: i soldi da spendere al festival sarebbero stati direttamente proporzionali all'altezza dei suoi voti (una A valeva 15 sterline, una B 10 sterline e così via). Anche se l'idea di dover sopravvivere per tutto il weekend con 20 sterline lo impensieriva, Chris passò gli esami abbastanza bene da poter tirare avanti decentemente per tutto il fine settimana. 17. Gran parte di questi pezzi, fra cui rarità come Jimmy Kane, Agitated e Ashamed (il cui riff è stato utilizzato come outro per i live di New Born e Showbiz) diventeranno le B-side dei singoli estratti dal debut album SHOWBIZ e saranno occasionalmente eseguite in sede live come chicca regalo per i fan. 18. Vi fu un periodo particolarmente dispettoso dei suoi giorni a Exeter in cui Matt convinse tutti i suoi amici più intimi che andare a letto con delle prostitute avrebbe seriamente giovato alle loro rispettive relazioni. Tutti seguirono il consiglio tranne Matt, che si astenne solo per osservare le storie di alcuni suoi amici andare in pezzi come risultato. 19. C'è un po' di confusione circa la possibilità che Smith abbia assistito al concerto prima di essere contattato da Matt, poiché lui sostiene che la soffiata sulla band gli arrivò da un giornalista del posto durante un'intervista ai Sawmills pochi mesi prima. 20. Un demo uscito in tandem e intitolato SAWMILLS PROMO fu pubblicato in contemporanea con una tracklist identica, ad eccezione di Escape che mantenne il titolo originale Escape Your Meaningless. Un falsario produsse addirittura un 7" contraffatto, utilizzando lo stesso codice a barre del Cd ufficiale. 21. Evento annuale ideato nel 1992 da Tony Wilson, defunto e compianto boss


supremo della Factory Records. 22. Nella mia prima intervista con la band per «NME», l'anno seguente. 23. Alcuni servizi sulla stampa locale dichiararono in seguito, e probabilmente in modo errato, che la Mushroom scritturò i Muse prima del CMJ. 24. Tenendo conto che la reclame radiofonica dei Muse era allora responsabilità del defunto Scott Piering, lo stesso che aveva per primo presentato il dj alla band, quasi certamente non sarà stata la prima copia dell'Ep a capitare tra le mani di Lamacq. 25. La versione demo di Sunburn aveva un testo drasticamente diverso, basato sull'accoppiata di versi vagamente soprannaturale "When you're dead and gone / I still feel your glow" ("Sei morta e sepolta / ma sento ancora il tuo bagliore"). 26. Per "toilet circuit" s'intende quella rete di locali inglesi di piccole dimensioni che fanno da trampolino di lancio per le giovani band emergenti. Prendono il nome dal Forum di Tunbridge Wells, ex-bagno pubblico riconvertito [N.d.T]. 27. Si tratta di un sol diesis, la nota più alta mai cantata da Bellamy su disco. Anche la canzone, con le sue tre ottave e mezzo, è quella con la tonalità più alta. 28. Che fu filmata dalla Maverick. La scaletta era: Uno, Cave, Sunburn, Falling Down, Agitated, Overdue, Muscle Museum, Escape, Unintended, Showbiz, Fillip e Do We Need This?. 29. Questo fu il secondo singolo pubblicato in Francia e nel Regno Unito ma il primo negli Stati Uniti, dove furono prodotte tre differenti versioni del Cd. 30. Fu stranamente pubblicato prima in Europa e America: il 6 settembre in Francia, il 20 settembre in Germania e il 28 negli Stati Uniti. 31. Quest'oggetto, con annessa chiave inglese, è stimato attorno alle 50 sterline fra i collezionisti. 32. Festa popolare celebrata negli Stati Uniti e in Canada il 2 febbraio, con la quale si pronostica l'arrivo della primavera tenendo d'occhio il rifugio di una marmotta, che può decidere di interrompere o meno il suo letargo. Da qui il senso di spaesamento della band che emerge dalla "tana" del tour bus [N.d.T]. 33. Alcune delle quali suonate da Tom Kirk. 34. Non era la prima volta che i Muse giravano video multipli. Per Uno c'era un totale di tre promo, il primo tratto da filmati live, il secondo che raffigura un labirinto di porte in cui una ragazza smarrita cerca di trovare la stanza nella quale suona la band, e il terzo con i Muse sul Tower Bridge durante l'ora di punta, mentre orde di pendolari li superano spintonandoli, un video che in seguito definiranno "imbarazzante". 35. La band si sganciò dal tour per una serata soltanto, quando tornarono in Inghilterra per suonare all'Xfest, all'Astoria di Londra. 36. Il primo Cd conteneva la vecchia Ashamed e una versione live di Sunburn; nel secondo comparivano Yes Please, originariamente intitolata Crazy Days nei primi demo, e Uno registrata dal vivo. Fu pubblicato anche un 12" con tre remix di Timo Maas e Stephen McReery. 37. Ribattezzata nelle scalette New 1, mentre Screenager veniva ormai chiamata Razorblades And Glossy Magazines. 38. Nei due Cd figurano Nishe, Recess e le versioni radiofoniche di Falling Down ed Hate This And I’ll Love You, estrapolate dalle session per Oui FM. 39. Matt non ha mai parlato di questa persona nelle interviste. 40. Per promuovere il tour, la loro etichetta giapponese Avex pubblicò un Ep intitolato RANDOM 1-8 che conteneva otto B-side più tre remix nascosti di Sunburn, destinato esclusivamente al mercato giapponese. 41. Nel brano originale degli Smiths: "Good times for a change / See, the luck I've had / Can make a good man / Turn bad", [N.d.T]. 42. I Muse svilupparono una graduale ossessione per la musica belga, tanto che in seguito citeranno Souwax e soci fra le loro influenze principali. 43. Per alcune settimane dopo la fine delle registrazioni, Dom e Matt continuarono a tenere questi ritmi, incapaci di addormentarsi prima delle cinque del mattino. 44. Una teoria contrastante ma ugualmente avvincente è quella per cui l'universo ha origine dall'inevitabilità; scientificamente non avrebbe potuto essere diverso da com'è ora. 45. Fu anche la prima esecuzione live di Citizen Erased. 46. Durante le session con Bottrill, per l'intro usarono la voce di Matt invece


del pianoforte, salvo poi eliminarla perché sembrava troppo strana sotto l'effetto dei funghetti. 47. Verso metà del tour mondiale di ORIGIN, quando chiesero ai ragazzi in che locali si sarebbero ritrovati a suonare in futuro, Matt dichiarò che avrebbe finito la sua carriera esibendosi in bettole fumose come Tom Waits, mentre Dom vedeva la band esibirsi negli stadi. 48. Altrimenti utilizzato per guardare esclusivamente un live degli Who durante tutto il tour mondiale; volevano esercitarsi a suonare la chitarra col braccio a "mulinello" e studiare le movenze del batterista Keith Moon. 49. Il Dvd contiene l'intervista con i Muse condotta dall'autore a Mosca, quel settembre stesso. 50. Forse questa dichiarazione fu rilasciata successivamente, durante la data di settembre di un festival a Bologna. 51. Anche se va detto che, all'uscita del brano, i sei minuti di New Born furono accorciati di novanta secondi per la versione radiofonica. 52. Il videoclip fu interamente realizzato con modellini in miniatura. Per simulare la caduta dotarono Matt di un'imbracatura, senza ricorrere agli effetti di computer grafica che molti sospettavano. 53. Dopo che i due si lasciarono, Matt non rivolse mai più la parola alla sua ex-ragazza. 54. Lo show alla Docklands Arena non fece il tutto esaurito, sgonfiando lo scalpitante ego della band. 55. I due Cd si aprivano con il singolo principale integrato dal relativo video più una versione live del singolo contenuto nell'altro Cd, e ognuno aveva un brano inedito: in FEELING GOOD i Muse coverizzavano gli Smiths di Please Please Please Let Me Get What I Want, successivamente utilizzata nella colonna sonora di Non è un'altra stupida commedia americana, mentre in HYPER MUSIC figuravano i brani extra Shine, una bastardizzazione degli arpeggi di Bliss e Falling Away With You. 56. Il brano stesso era una riformulazione del Faust di Goethe o del Dottor Faust di Marlowe, dove l'omonimo protagonista stringe un patto col diavolo che ha le fattezze di Mefìstofele. Sulla leggenda di Faust anche Berlioz, il compositore amato da Matt, incentrerà la sua opera La dannazione di Faust. 57. Questa versione comparirà come B-side del doppio singolo Dead Star / In Your World. 58. C'erano altri incentivi per spingere i collezionisti ad acquistare entrambe le uscite: nel Dvd erano inclusi pezzi live non presenti fra le dodici canzoni del Cd, che ospitava a sua volta un'inedita versione acustica della B-side Shine. La versione giapponese del Dvd, con l'aggiunta delle riprese live di Darkshines, era un ulteriore must per i fan. 59. I dati di classifica del Dvd non sono disponibili. 60. Nelle vecchie scalette Fury era segnata come New (Slow And Fat) ma presentata come Getting A Grip, Apocalypse Please s'intitolava New Piano, The Small Print figurava come TSP e Stockholm Syndrome era New Riff. 61. La Dion decise infine di chiamare il suo maxispettacolo dal biglietto astronomico insieme al Cirque Du Soleil A new day: le stesse parole che, ironia della sorte, compaiono nel testo di Feeling Good. 62. Butterflies And Hurricanes subì ulteriori modifiche di pari passo con le session di registrazione che si spostavano in giro per il mondo. Prima comparvero dei bonghi, e certe volte non sembrava troppo dissimile dallo spettacolo degli Stomp, in scena nel West End londinese. 63. E non fanno altro che ballare e spogliarsi fino a rimanere in biancheria intima per gran parte del tempo. La band dichiarò che il video di Time Is Running Out, diretto da John Hillcoat, fu uno dei più divertenti da girare, perché sul set non erano gli unici performer e dovevano suonare il brano al doppio della velocità per aiutare le ballerine a tenere il tempo. 64. Era lo stesso tipo di chitarra che Kurt Cobain suonava nel video di Come As You Are. 65. Le suddette auto furono messe fuori gioco dai posteggiatori dell'albergo, che le schiantarono mentre si divertivano a correrci nel parcheggio dello Standard Hotel. 66. Circa in quello stesso periodo, il qui presente scrittore fece l'errore di esprimere ad alta voce il suo sostegno alla posizione anti-bellica francese in un bar americano. Se mi fossi apertamente pulito il didietro con la bandiera a


stelle e strisce forse avrei ottenuto una reazione migliore. 67. Influenza di Jacko o no, fornirà l'impronta per il basso funky del successivo hit Supermassive Black Hole. 68. Nelle grandi città o nelle cittadine universitarie della Gran Bretagna è quel circuito di localini cool analogo al toilet circuit dove si esibiscono i gruppi emergenti [N.d.T.]. 69. Le variazioni su quest'immagine furono impiegate nei vari vinili, Dvd, poster e manifesti pubblicitari. 70. Come per quasi tutte e cinque le serate di quel tour, la scaletta comprendeva Hysteria, Butterflies And Hurricanes, Sing For Absolution, Blackout, Time Is Running Out, Thoughts Of A Dying Atheist e Stockholm Syndrome accanto alle più vecchie New Born, Plug In Baby, Bliss e Citizen Erased. 71. Quel settembre facevano quattro mesi insieme e Dom credeva d'esserne innamorato, anche se il commento che aveva rilasciato a una rivista musicale su un passionale téte-à-tète avuto con un'altra, quand'era ancora single, sembrava non dargli tregua. 72. La prima delle quali fui io a condurla, quello stesso anno, quando raggiunsi la band al Museo delle Scienze di Londra in agosto. Salimmo a bordo di un simulatore spaziale 3D, dove sei un astronauta che cerca di salvare la Terra da un asteroide. Nella simulazione il pianeta è salvo, ma secondo Matt e il suo classico humour apocalittico, commettere un errore e dover osservare la Terra che esplode dalla navetta sarebbe stata un'esperienza migliore. 73. Sui loro siti specializzati, i fan hanno sottolineato che il videoclip è simile, al punto di ricalcarla fotogramma-per-fotogramma, ad una scena del film Pink Floyd: The Wall, in cui Bob Geldof fa a pezzi una stanza d'albergo. 74. Matt ammise candidamente che parlare di argomenti così strampalati gli piaceva, perché rendeva più interessanti le interviste noiose, e lui si sentiva in dovere di essere se stesso anche se ciò voleva dire rovesciare addosso ai giornalisti un sacco di scemenze. 75. Insieme a canzone, "making of" e un filmato da backstage intitolato The Big Day Off che mostrava un'escursione della band a Piha Beach, vicino Aukland, Nuova Zelanda. 76. La morte del padre di Dom fu la prima notizia riguardo i Muse mai apparsa sulle copertine dei tabloid. 77. Il Cd conteneva una versione acustica di Sing For Absolution da una session per la BBC2 e il vinile quella live di Butterflies And Hurricanes a Glastonbury. Il singolo fu inoltre accompagnato dall'uscita del Dvd. 78. Questa canzone finirà col diventare la bonus track dell'edizione giapponese di BLACK HOLES AND REVELATIONS, scatenando un appassionato dibattito on line circa il significato di (DES). Alcuni credono che stia per "Data Encryption Standard", un codice cifrato utilizzato dal governo americano per proteggere le informazioni riservate. Secondo altri si riferiva a Des, il loro tecnico delle tastiere. 79. Prima di passare alle soluzioni, forse i nuovi giocatori hanno voglia di coprire le seguenti pagine, tornare ai titoli e provare a risolverli per conto proprio. 80. Era anche la location del pianeta Naboo nel film Star wars: l'attacco dei cloni. 81. Come messaggero di buone notizie dal mondo non era la persona più indicata. 82. Nell'istante stesso in cui la spararono nello spazio si sentirono in colpa per aver seviziato quella povera creatura, ma quando il razzo tornò a terra l'insetto spiccò un salto e schizzò via. Si consolarono dicendo a se stessi che forse avevano allargato i suoi orizzonti, o magari le avevano regalato una breve vacanza. 83. Il 12 dicembre uscì il Dvd, intitolato Absolution tour, contenente dodici pezzi della loro storica esibizione a Glastonbury più sei video live da Wembley Arena, Earls Court e dai tour americani 2004/2005. 84. Per la resa finale del suono di pianoforte ne pizzicarono le corde con dei plettri da chitarra, vi lasciarono cadere sopra delle forchette e le imbrattarono di mastice. 85. Lo studio sosteneva inoltre che le riserve di petrolio si sarebbero esaurite entro il 1992, riconoscendo però che le sue previsioni erano basate su trend di consumo suscettibili di futuri cambiamenti. 86. Create con il Kaoss Pad che Hugh Manson aveva incorporato nella chitarra, e


l'effetto era come se stesse suonando un theremin. Se ne servì anche per l'intro di Exo-Politics. 87. È probabile che Matt avesse sentito parlare di esopolitica da un altro libro dell'autore di Rule by secrecy Jim Marrs, e cioè Alien agenda. 88. Matt dichiarò che anche Washington, USA, è disposta secondo la stessa formazione. 89. Matt rifiuta categoricamente l'idea che un tempo vi fosse un'unica massa di terra compatta nota come Pangea che si è poi spezzata dando vita ai vari continenti. 90. Era la prima volta che la Warner Bros acquistava i diritti a livello mondiale sull'uscita di un album dei Muse, dal momento che, nell'agosto 2005, Safta e Dennis avevano venduto alla Warner i diritti sui restanti tre album in studio (nel loro contratto da sei album) per una cifra segreta ma sostanziosa. La Warner pubblicò dunque il disco tramite le sue varie etichette sussidiarie sparse nel mondo, dando alla band una spinta senza precedenti. 91. Stranamente non c'è alcuna traccia di un concerto a Toulouse previsto per quella data, e di sicuro la band si trovava ancora in America per esibirsi al Soma di San Diego, il 21 luglio, dove riapparve lo stesso tizio che aveva fatto la proposta di matrimonio sul palco nel precedente show in città. 92. In quell'occasione i Muse non fecero alcun bis, perché non sopportavano l'idea di costringere la gente a restare sotto la pioggia torrenziale. Se non altro il pubblico fu rallegrato dalla comica slapstick delle bretelle di Matt, che si impigliarono nel seggiolino del pianoforte al termine di Feeling Good. 93. Morgan Nicholls non riuscì a prendervi parte perché non aveva un visto di lavoro per gli USA, e per la prima volta dopo diversi anni la band tornò a suonare Muscle Museum. 94. Con un video della band che suona su una petroliera al largo della costa di Los Angeles e il basso pastoso di Easily, già reperibile su diversi fansite sotto forma di spezzoni codificati da venti secondi a opera di un tale "Mr X" che, come Matt scoprì in seguito, era un impiegato dell'etichetta. 95. Agli NME Awards 2007 Matt vinse anche il premio come "Uomo Più Sexy". 96. Con un remix di Knights Of Cydonia dei Simian Mobile Disco sul formato Cd e di Glorious sul vinile. Si piazzò al numero 21 nel Regno Unito. 97. Il 15 giugno centinaia di fan si erano dati appuntamento alle 18 a Trafalgar Square per cantare le canzoni dei Muse e raccogliere fondi destinati ad Helen Foundation, Multiple Sclerosis Society e all'istituto nazionale per la ricerca sul cancro. 98. L'unico singolo dei Muse senza un videoclip oltre a Cave. La traccia in download fu accoppiata al suo remix firmato dai Does It Offend You, Yeah?. 99. Fu rimpiazzata in fretta da una nuova Seattle Manson, che debuttò un mese dopo alla Key Arena di Seattle, ora munita di un sistema d'accordatura automatico. 100. Il progetto di far sorvolare l'area da un UFO fu respinto dal comitato locale per la Salute e la Sicurezza. 101. Tranne che per i numerosi aggiornamenti da parte della band in studio e i regolari messaggi Twitter di Matt. 102. "Humint": abbreviazione di "Human Intelligence" [N.d.T.]. 103. Era anche il codice ISBN del libro La grande scacchiera di Zbigniew Brzeziski. 104. "Photint": abbreviazione di "Photographic Intelligence", documentazione fotografica [N.d.T.] 105. Inoltre, durante la caccia, i fan fecero arrivare rispettivamente al sesto e nono posto le chiavi "#USOA" e "#muse" nella lista dei trend più gettonati di Twitter. 106. Anche se i Does It Offend You, Yeah? remixarono Uprising come B-side del singolo. 107. Se prestate attenzione si sente addirittura il ruscello accanto al quale Dom registrò la batteria. 108. Un termine più comune per quella che tecnicamente andrebbe chiamata "panspermia". 109. Stando alla delibera di un'assemblea comunale tra i fan e gli abitanti del luogo per decidere se autorizzare o meno lo show. Chris si appellò personalmente ai fan, invitandoli a partecipare a sostegno della band. 110. Supermassive Black Hole, Starlight, Knights Of Cydonia, Hysteria, New Born,


Plug In Baby, Time Is Running Out, Map Of The Problematique, Stockholm Syndrome e, nella seconda serata, Feeling Good. 111. Dal momento che il palco non aveva alcun fondale furono venduti anche i posti a sedere laterali e sul retro. L'O2 fu riempito al massimo della capienza. Discografia UK Tutto il materiale è registrato su Cd, salvo indicazione contraria. SINGOLI UNO Mushroom Records (14 giugno 1999) Cd: Uno / Jimmy Kane / Forced In Vinile 7": Uno (versione alternativa) / Agitated CAVE Mushroom Records (6 settembre 1999) Cd1: Cave / Twin / Cave (remix) Cd2: Cave / Host / Coma Vinile 7": Cave / Cave (remix strumentale) MUSCLE MUSEUM Mushroom Records (22 novembre 1999) Cd1: Muscle Musem / Do We Need This? / Muscle Museum (live acustica) Cd2: Muscle Museum (versione integrale) / Pink Ego Box / Con-Science Vinile 7": Muscle Museum / Minimum SUNBURN Mushroom Records (21 febbraio 2000) Cd1: Sunburn (radio edit) / Ashamed / Sunburn (live) CD2: Sunburn / Yes Please / Uno (live) Vinile 7": Sunburn / Sunburn (live acustica) UNINTENDED Mushroom Records (30 maggio 2000) Cd1: Unintended / Recess / Falling Down (live acustica) Cd2: Unintended / Nishe / Hate This And I’ll Love You (live acustica) Vinile 7": Unintended / Sober (live) PLUG IN BABY Mushroom Records (5 marzo 2001) Cd1: Plug In Baby / Nature_1 / Execution Commentary / Plug In Baby (video) Cd2: Plug In Baby / Spiral Static / Bedroom Acoustics Vinile 7": Plug In Baby / Nature_1 NEW BORN Mushroom Records (5 giugno 2001) Cd1: New Born / Shrinking Universe / Piano thing / New Born (video) Cd2: New Born / Map Of Your Head / Plug In Baby (live) Vinile 7": New Born / Shrinking Universe Vinile 12": New Born (Oakenfold Perfecto remix) / Sunburn (Timo Maas' Sunstroke remix) / Sunburn (Timo Mass' Breakz Again remix) BLISS Mushroom Records (20 agosto 2001) Cd1: Bliss / The Gallery / Screenager (live) / Bliss (video) Cd2: Bliss / Hyper Chondriac Music / New Born (live) / Bliss (making of del video) Vinile 7": Bliss / Hyper Chondriac Music HYPER MUSIC / FEELING GOOD Mushroom Records (19 novembre 2001) Cd1: Hyper Music / Feeling Good (live) / Shine / Hyper Music (video) Cd2: Feeling Good / Hyper Music (live) / Please Please Please Let Me Get What I Want / Feeling Good (video) Vinile 7": Hyper Music / Feeling Good DEAD STAR / IN YOUR WORLD Mushroom Records (17 luglio 2002) Cd1: Dead Star / In Your World (live) / Futurism / Dead Star (video) Cd2: In Your World / Dead Star (live) / Can't Take My Eyes Off You / In Your World (video) Vinile 7": Dead Star / In Your World STOCKHOLM SYNDROME Distribuita esclusivamente sul sito muse.mu (14 luglio 2003)


Stockholm Syndrome TIME IS RUNNING OUT EastWest Records (8 settembre 2003) Cd: Time Is Running Out / The Groove / Stockholm Syndrome (video) Vinile 7": Time Is Running Out / The Groove Dvd: Time Is Running Out (video) / Making of / Galleria fotografica HYSTERIA EastWest Records (1 dicembre 2003) Cd: Hysteria / Eternally Missed Vinile 7": Hysteria / Eternally Missed Dvd: Hysteria (Director's cut video) / Hysteria (audio) / Hysteria: live MTV2 (video) / Making of / Galleria fotografica SING FOR ABSOLUTION EastWest Records (17 maggio 2004) Cd: Sing For Absolution (Remix US della versione integrale) / Fury Vinile 7": Sing For Absolution (Remix US della versione integrale) / Fury Dvd: Sing For Absolution (video) / Sing For Absolution (audio) / Making of / Big Day Off [dietro le quinte del Big Day Out tour] / Galleria fotografica BUTTERFLIES AND HURRICANES EastWest Records (20 settembre 2004) Cd: Butterflies And Hurricanes (Remix della versione integrale) / Sing For Absolution (live acustica) / Tecnologia U-myx Vinile 7": Butterflies And Hurricanes (Versione integrale) / Butterflies And Hurricanes (live) Dvd: Butterflies And Hurricanes (audio) / Butterflies And Hurricanes (video) / The Groove In The States / Raw Video Footage (video) SUPERMASSIVE BLACK HOLE Helium-3 (19 giugno 2006) Cd: Supermassive Black Hole / Crying Shame Vinile 7": Supermassive Black Hole / Crying Shame Dvd: Supermassive Black Hole (video) / Making Of / Bonus video / Galleria fotografica STARLIGHT Helium-3 (4 Settembre 2006) Cd: Starlight / Easily Vinile 7": Starlight / Supermassive Black Hole (Phones Control Voltage Mix) Dvd: Starlight (audio) / Starlight (video) / Making Of / Galleria fotografica / Traccia nascosta (audio) KNIGHTS OF CYDONIA Helium-3 (27 novembre 2006) Cd: Knights Of Cydonia / Supermassive Black Hole (live) Vinile 7": Knights Of Cydonia / Assassin (Grand Omega Bosses Edit) Dvd: Knights Of Cydonia (audio) / Knights Of Cydonia (video) / Making Of / Galleria fotografica INVINCIBLE Helium-3 (9 aprile 2007) Cd: Invincible / Knights Of Cydonia (Simian Mobile Disco Remix) Vinile 7": Invincible / Glorious Dvd: Invincible (audio) / Invincible (video) / Invincible (video - live a Milano) MAP OF THE PROBLEMATIQUE Solo per il download digitale (18 giugno 2007) In esclusiva sul sito muse.mu: Map Of The Problematique (Rich Costey Edit) / Map Of The Problematique (live a Wembley) / Wembley Digital Souvenir Pack In esclusiva per iTunes: Map Of The Problematique (AOL session) In esclusiva per il download digitale: Map Of The Problematique / Map Of The Problematique (Does It Offend You, Yeah? Remix) UPRISING Warner Brothers WEA458CD (7 settembre 2009) Cd: Uprising / Uprising (Does It Offend You, Yeah? Remix) Vinile 7": Uprising / Who Knows Who UNDISCLOSED DESIRES Solo per il download digitale (16 novembre 2009): Undisclosed Desires / Undisclosed Desires (Thin White Duke Remix Edit) / Undisclosed Desires (The Big


Pink Remix) PromoCd: Undisclosed Desires (Radio edit) / Undisclosed Desires (Album version) EP MUSE Dangerous Records (1 marzo 1998) Overdue / Cave / Coma / Escape Nota: edizione limitata e copie numerate a mano (999) MUSCLE MUSEUM Dangerous Records (11 gennaio 1999) Muscle Museum / Sober / Uno / Unintended / Instant Messenger / Muscle Museum #2 Nota: edizione limitata e copie numerate a mano (999) RANDOM 1-8 Avex (4 ottobre 2000) Host / Coma / Pink Ego Box / Forced In / Agitated / Yes Please / Fillip (live) / Do We Need This? (live) / Sunburn (Timo Maas Sunstroke Mix) Nota: uscita riservata al mercato giapponese. ALBUM SHOWBIZ Mushroom Records (4 ottobre 1999) Sunburn / Muscle Museum / Fillip / Falling Down / Cave / Showbiz / Unintended / Uno / Sober / Escape / Overdue / Hate This And I’ll Love You / Spiral Static* * bonus track presente solo nella versione giapponese. ORIGIN OF SYMMETRY Mushroom Records (17 luglio 2001) New Born / Bliss / Space Dementia / Hyper Music / Plug In Baby / Citizen Erased / Microcuts / Screenager / Darkshines / Feeling Good / Megalomania / Futurism* * bonus track presente solo nella versione giapponese. HULLABALOO SOUNDTRACK Mushroom Records (1 luglio 2002) Cd1: Forced In / Shrinking Universe / Recess / Yes Please / Map Of Your Head / Nature_1 / Shine (acustica) / Ashamed / The Gallery / Hyper Chondriac Music Cd2: Dead Star / Microcuts / Citizen Erased / Showbiz / Megalomania / Darkshines / Screenager / Space Dementia / In Your World / Muscle Museum / Agitated Nota: il Cd1 contiene una scelta di B-side, nel Cd2 compaiono pezzi live registrati a Le Zénith di Parigi il 28 e 29 ottobre 2001. ABSOLUTION EastWest Records (29 settembre 2003) Intro / Apocalypse Please / Time Is Running Out / Sing For Absolution / Stockholm Syndrome / Falling Away With You / Interludi / Hysteria / Blackout / Butterflies And Hurricanes / The Small Print / Endlessly / Thoughts Of A Dying Atheist / Ruled By Secrecy / Fury* * bonus track presente solo nella versione giapponese. BLACK HOLES AND REVELATIONS Helium-3 (3 luglio 2006) Take A Bow / Starlight / Supermassive Black Hole / Map Of The Problematique / Soldier's Poem / Invincible / Assassin / Exo-Politics / City Of Delusion / Hoodoo / Knights Of Cydonia / Glorious* * bonus track presente solo nella versione giapponese. H.A.A.R.P. Helium-3 (17 maggio 2008) Cd: Intro / Knights Of Cydonia / Hysteria / Supermassive Black Hole / Map Of The Problematique / Butterflies And Hurricanes / Invincible / Starlight / Time Is Running Out / New Born / Unintended / Micro Cuts / Stockholm Syndrome / Take A Bow Dvd: Intro / Knights Of Cydonia / Hysteria / Supermassive Black Hole / Map Of The Problematique / Butterflies And Hurricanes / Hoodoo / Apocalypse Please / Feeling Good / Invincible / Starlight / Improv. / Time Is Running Out / New Born / Soldier's Poem / Unintended / Blackout / Plug In Baby / Stockholm Syndrome / Take A Bow Nota: si tratta di un album live e di un Dvd con le riprese degli show del 16 e 17 giugno 2007 al Wembley Stadium più un documentario e immagini tratte dai concerti. THE RESISTANCE


Warner Brothers 825646874347 (14 settembre 2009) Uprising / Resistance / Undisclosed Desires / United States of Eurasia (+ Collateral Damage) / Guiding Light / Unnatural Selection / MK Ultra / I Belong To You (+ Mon Cceur S'Ouvre à ta Voix) / Exogenesis Symphony Part 1: Overture / Exogenesis Symphony Part 2: Cross-Pollination / Exogenesis Symphony Part 3: Redemption Ringraziamenti Nella stesura di Out ofthis world. La storia dei Muse, la mia missione principale era di convogliare in un unico posto tutti i ritagli, le schegge e i brandelli d'informazione presenti a memoria d'uomo sul gruppo rock Muse, integrandoli con degli estratti dalle numerose interviste inedite con la band a partire dal 1999 e mettendo al bando ogni forma di copia/incolla dalla miriade di super-abusate rassegne stampa a loro dedicate. Un piano ingegnoso, grazie al quale avrei scritto la biografia esaustiva e definitiva della band facendo ricorso a fonti esterne minime, se non addirittura nulle. Un piano fondamentalmente da ingenui. Man mano che mi addentravo nella loro storia ho chiamato in mio soccorso un sempre maggior numero di persone, come i manici di scopa che si moltiplicano in L'apprendista stregone. Senza uno qualsiasi dei seguenti nomi, questo libro si sarebbe rivelato strapieno di inesattezze nel migliore dei casi, e semplicemente impossibile da realizzare nel peggiore. Ogni dichiarazione presente in queste pagine, tranne che per le rare occasioni in cui il testo indica altrimenti, proviene dalle interviste che ho personalmente condotto con la band tra il 1999 e il 2008 e che sono rimaste finora inedite. Desidero ringraziare Matt Bellamy, Dominic Howard, Chris Wolstenholme, Glen Rowe, Safta Jaffery, Paul Reeve, Colin Stidworthy, Jack Burkill, Rebecca Dicks, Hannah Ellis-Peterson, Hall Or Nothing Pr, Anthony Addis, Conor McNicholas e IPC Media per avermi permesso di acquisire, trascrivere e pubblicare le suddette interviste. Nell'arco della loro carriera sono state scritte milioni di parole sui Muse, e durante le mie ricerche sono entrato in contatto con gran parte di esse grazie in particolar modo ad Amy Vickery, Mei Brown (Impressive Pr), Gillian Porter e Terri Hall (Hall Or Nothing Pr), che mi hanno gentilmente messo a disposizione archivi stampa e fotocopiatrici. L'ottima biografìa della band Inside the muscle museum di Ben Myers è stata un buon punto di riferimento per accertarmi di non omettere nulla, ma la sorgente d'informazioni più curata e minuziosa è senza dubbio quella che si trova in Rete. Siti come www.microcuts.net e www.musewiki.org hanno dimostrato il loro inestimabile valore con scalette concerto-per-concerto, analisi canzone-per-canzone e testimonianze oculari. Devo dunque ringraziare le centinaia di fan per avermi involontariamente aiutato grazie ai loro aggiornamenti on line quotidiani e alla loro febbrile ed encomiabile devozione nei confronti della band. Un grazie a Chris, Dom e Matt per aver chiarito le discrepanze in caso di fonti contraddittorie e un altro grazie a Safta Jaffery, alla Taste Media e a tutto l'ufficio di Anthony Addis per le correzioni al testo. Un grazie speciale a Romain Lefebvre e ai suoi colleghi su www.microcuts.net per avermi fornito la discografìa. Mille grazie a Chris Charlesworth della Omnibus Press per avermi sostenuto e incoraggiato ben più di quanto avrebbe dovuto e, per finire, un grazie a Debbie King per aver sopportato la sua Muse-vedovanza nei primi sei mesi della nostra storia. A Rio mi farò perdonare, piccola. Ultime uscite Arcana Musica 44. Joel McIver, Justice For All. La verità sui Metallica 45. Jay S. Jacobs, Wild Years. La vita e il mito di Tom Waits (2° ed.) 46. Mark Pytlik, Absolute Bjork. La biografia 47. John Vignola (a cura di), Su la testa! 1994-2004, dieci anni di rock italiano 48. Jacky Gunn - Jim Jenkins, Queen. La biografia ufficiale (4° ed.) 49. Jon Savage, Il sogno inglese. I Sex Pistols e il punk rock (3a ed.) 50. Charles R. Cross, Cobain. Più pesante del cielo (3a ed.) 51. Nicholas Pegg, The Complete Bowie (2a ed.) 52. Jay S. Jacobs, Tori Amos. La biografia


53. Dick Porter, Nu metal. Le origini 54. Benjamin Nugent, Elliott Smith e il grande nulla 55. Bill Brewster - Frank Broughton, Last Night a Dj Saved my Life 56. Robert Gordon, Hoochie Coochie Man. La vita e i tempi di Muddy Waters 57. Alberto Castelli - Maria Carla Gullotta, Africa Unite. Il sogno di Bob Marley 58. Jeff Apter, Fornication. La storia dei Red Hot Chili Peppers 59. Alice Echols, Graffi in paradiso. La vita e i tempi di Janis Joplin (2° ed.) 60. Mac Randall, Exit music. La storia dei Radiohead 61. Stephen Davis, Il martello degli dèi. La saga dei Led Zeppelin (5° ed.) 63. Pat Gilbert, The Clash. Death or glory. La vera storia 64. Nicholas Schaffner, Pink Floyd. Lo scrigno dei segreti 65. Ben Myers, Green Day. New punk explosion 66. Federico Guglielmi, Voci d'autore. La canzone italiana si racconta 67. JeffApter, The Cure. Disintegration. Una favola dark 68. Mike Watkinson - Pete Anderson, Crazy Diamond. Il viaggio psichedelico di Syd Barrett (3° ed. agg.) 69. Victor Bockris, Transformer. La vita di Lou Reed (2° ed. agg.) 70. Jim Bessman, Ramones. La biografia ufficiale 71. John Lydon, Rotten. L'autobiografia 72. Dave Thompson, Deep Purple. Smoke on the water. La biografia 73. Paul Trynka, Iggy Pop. Lust for life 74. Sean Smith, Justin Timberlake 75. Rob Jovanovic, George Michael 76. Murray Engleheart con Arnaud Durieux, AC/DC 77. Cesare G. Romana, Amico fragile 78. Peter Freestone, Freddie Mercury. Una biografia intima 79. Thomas Jerome Seabrook, Bowie. La trilogia berlinese 80. Peter Guralnick, Sweet Soul Music 81. Mark Simpson, Saint Morrissey. Psicobiografia dell'ultima popstar 82. Ezio Guaitamacchi, Figli dei fiori, figli di Satana 83. Stevie Chick, Psychic Conjusion. La storia dei Sonic Youth 84. Tiziano Tarli - Pierpaolo De Iulis, Vesuvio Pop. La nuova canzone melodica napoletana 85. Michael Lang, Woodstock 86. Helen Chase, Franz Ferdinand dalla A alla Z 87. Luca Castelli, La musica liberata 88. Chris Roberts, Michael Jackson. Il re del pop 89. M. K. Asante Jr., Post-Hip-Hop 90. Brain Southall, Il Pop alla sbarra 91. Angus Cargill, Sparate sul dj! Il libro delle playlist 92. Ian Christe, Sound Of The Beast. La storia definitiva dell'Heavy Metal 93. AAVV, Loops. Scritti sulla musica 94. Graheme Thomson, I Shot A Man In Reno. Storia della morte nella popular song 95. Fabio Bernabei, Velvet. Crollasse pure il mondo 96. Paola De Angelis - Andrea Tantucci, Rockitchen. 30 menu per 30 dischi 97. AAVV, Bob Dylan Revisited. 13 canzoni disegnate 98. Tiziano Tarli, La felicità costa un gettone. Storia illustrata del primo rock and roll italiano 99. AAVV, Enciclopedia del Rock 100. Alain Antonietto - Francois Billard, Django Reinhardt. Il gigante del jazz tzigano Testi 1. Bob Dylan, Mr. Tambourine. Testi e poesie 1962-1985 2. Queen, We Will Rock You. I testi (1971-1991) 3. Billy Corgan, Pugni e battiti di ciglia. Poesie 4. Carlo Bordone - Gianluca Testani, Oggi ho salvato il mondo. Canzoni di protesta, 1990-2005 5. Damir Ivic (a cura di), Fuck It, Let's All Stand Up! I testi di Eminem 6. Claudio Mapelli, Dazed and Confused. I testi dei Led Zeppelin 7. Luca Moccafighe - Giulio Casale, Dark Angel. I testi di Jeff Buckley 8. Massimo Cotto, Cry Baby. I testi di Janis Joplin 9. Paola De Angelis, Journey to the Stars. I testi di Nick Drake


10. Gianluca Polverari - Andrea Prevignano, Nirvana. Kill Your Friends. Testi commentati 11. Marco Di Marco, Joy Division. Broken Heart Romance. Testi commentati 12. Ermanno Labianca, Springsteen. Talk About a Dream. Testi commentati 13. Luigi Monge, Robert Johnson. I Got the Blues. Testi commentati 14. Aurelio Pasini, The Doors. Until the End. Testi commentati 15. Daniela Cascella, The Cure. The Edge of the World. Testi commentati 16. Alessandro Besselva Averame, Pink Flqyd. The Lunatic. Testi commentati 17. Giovanni De Liso, Genesis. Once Upon a Time. Testi commentati 18. Luca Frazzi, The Clash. I Wanna Riot. Testi commentati 19. Gianfranco Franchi, Radiohead. A Kid. Testi commentati 20. Claudia Bonadonna, Madonna. Heaven. Testi commentati 21. Ermanno Labianca, Springsteen. Long Walk Home. Testi commentati 22. Aldo Fresia, The Rocky Horror Picture Show. Erotic Nightmares. Testi commentati 23. Andrea Morandi, U2. The Name of Love. Testi commentati 24. Tony Aramini, Guns N'Roses. Fuckin’ Crazy. Testi commentati Songbook 1. Cesare G. Romana, Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con Fabrizio De André 2. Di acqua e di respiro, Ivano Fossati si racconta a Massimo Cotto 3. Ballate di male e miele, Gli Afterhours si raccontano a Simona Orlando 4. Giulio Casale, Se ci fosse un uomo. Gli anni affollati del Signor Gaber 5. Pioggia che cade, vita che scorre, Tommaso "Piotta" Zanello racconta Lorenzo "Jovanotti" Cherubini 6. Cesare G. Romana, Quanta strada nei miei sandali. In viaggio con Paolo Conte 7. Renato Tortarolo, Luigi Tenco. Ed ora che avrei mille cose da fare 8. Silvia D'Ortenzi, Rare Tracce. Ironie e canzoni di Rino Gaetano 9. Renzo Stefanel, Ma c'è qualcosa che non scordo. Lucio Battisti. Gli anni con Mogol 10. Ivano Rebustini, Specchi opposti. Lucio Battisti. Gli anni con Panella 11. Corrado Minervini, Volere è volare. Domenico Modugno: cantante, poeta, rivoluzionario 12. Fernando Fratarcangeli, Mina. Parole... parole... parole... 13. Tommaso Labranca, Da Zero a Zero 14. Daniele Cianfriglia, Bluvertigo & Morgan. Il suono è mille brividi 15. Carlo Mandelli. Mia Martini. Come un diamante in mezzo al cuore 16. Massimo Padalino, Capossela. Il ballo di San Vinicio 17. Luca Trambusti, Consapevolezza. Gli Area, Demetrio Stratos e gli anni Settanta 18. Luca Moccafighe, Dario Fo. Il nostro piangere fa male al Re 19. Elena Raugei, Carmen Consoli. Fedele a se stessa 20. Giancarlo Susanna, Nientepopodimeno che... Fred Buscaglione! 21. Roberto Tardito, Angelo Branduardi. Cercando l'oro


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