(ibidem) le letture di Planum no. 7, vol.I/2017

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le letture di Planum The Journal of Urbanism

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Scritti di Luigi Bobbio, Massimo Bricocoli e Stefania Sabatinelli, Gian Piero Calza, Alberto Clementi, Andrea Di Giovanni, Silvia Gugu, Giulia Marra, Francesca Mattei, Giancarlo Paba, Daniela Poli, Francesco Ventura | Libri di Donatella Calabi / Lucina Caravaggi e Cristina Imbroglini / Arnaldo Cecchini e Ivan Blecić č / Alberto Clementi / Davide Cutolo e Sergio Pace / Lidia Decandia e Leonardo Lutzoni / Giuseppe Gisotti / Joel Kotkin / Tommaso Vitale e Roberto Biorcio 1

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Planum Publisher

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The Journal of Urbanism Supplemento al n. 34, vol. I/2017

© Copyright 2017 by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723-0993 Registered by the Court of Rome on 04/12/2001 Under the number 514-2001 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, anche ad uso interno e didattico, non autorizzata. Diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. (ibidem) è curato da: Luca Gaeta (Coordinamento) Laura Pierantoni (Relazioni editoriali) Silvia Gugu (Comunicazione) Francesco Curci, Marco Milini (Redazione) Giulia Fini e Cecilia Saibene (Planum. The Journal of Urbanism), con la collaborazione di: Carlotta Fioretti e Claudia Meschiari. (ibidem) è un progetto ideato da Marco Cremaschi. Impaginazione: Francesco Curci Progetto grafico: Nicola Vazzoler Immagine di copertina: Ghetto di Venezia Foto di Cosmo Laera 2014 © Segnalazioni e proposte di collaborazione si ricevono all’indirizzo email: planum.books@gmail.com La stampa di questo numero è stata possibile grazie al supporto della SIU - Società Italiana degli Urbanisti

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le letture di Planum

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Editoriale

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Bookishness: sulla passione per i libri di architettura e città Giancarlo Paba

Reportage

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How do researchers generate and defend ideas in the planning field? Giulia Marra

Letture

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Tra improbabile e antifragile. Nuovi orientamenti di pianificazione Alberto Clementi

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I partiti si sfaldano ma le associazioni reggono e tengono in vita vecchie fratture Luigi Bobbio

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Il culto del patrimonio e l’aporia del passato Francesco Ventura

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Città, sito, situazione: una prospettiva ‘geoarcheologica’ Gian Piero Calza

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Il Ghetto di Venezia: storia, contraddizioni, mito e attualità Francesca Mattei

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Radical densities Silvia Gugu

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Prima Colonna

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Attraverso le città, oltre l’urbanistica Andrea Di Giovanni

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Comprendere la dimensione spaziale per innovare il welfare Stefania Sabatinelli e Massimo Bricocoli

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La rinascita dei territori interni fra memoria e innovazione Daniela Poli

Storia di copertina

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Trame di spazi e di storie Fotografie di Cosmo Laera

Ibidem è un avverbio della lingua latina che sta a significare ‘in quello stesso luogo’, ma qual è il luogo di (ibidem)? Scelto da Marco Cremaschi, il titolo di questa rivista rimanda a un luogo insieme libresco e urbano, allude a una relazione profonda tra i libri e le città. Ci sono libri capaci di catturare lo spirito inquieto della vita urbana così come ci sono città in cui soltanto è possibile scrivere certi libri. Ovviamente i libri possono parlare di qualsiasi cosa, ma quando parlano di città non c’è forse tra il libro e il suo argomento una risonanza speciale? I recensori di (ibidem) sono sensibili a questa risonanza in quanto lettori assidui e studiosi della città. Alcuni anni fa, Mario Carpo ha messo bene in risalto i nessi tra la stampa a caratteri mobili e la teoria architettonica rinascimentale. Altrettanto si potrebbe fare con la teoria urbanistica domandandosi per esempio cosa ci sia di ‘tipografico’ nella città dopo Gutenberg e cosa ci sia nel libro stampato di profondamente urbano. La ricerca seminale di Marshall McLuhan sulla nascita dell’umanità tipografica ha tratto diretta ispirazione dagli scritti sulla città di Lewis Mumford, uno degli autori che Giancarlo Paba ricorda nel suo editoriale dedicato in questo numero alla passione per i libri e le città. Schopenhauer scrisse una volta che «la vita e i sogni sono pagine dello stesso libro». La nostra lettura sequenziale e diurna degli eventi lascia il posto di notte a una lettura erratica e onirica, che oscilla tra la memoria del passato e la premonizione del futuro. Le città e i libri che parlano di città potrebbero a loro volta essere parte di uno stesso luogo vissuto e immaginato, percorso e narrato in una sorta di corpo a corpo necessario. A questo luogo (ibidem) rimanda i suoi lettori. L.G.

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Editoriale

Giancarlo Paba

Bookishness: sulla passione per i libri di architettura e città La dimestichezza con i libri e con le arti della rappresentazione è forse un aspetto costitutivo del nostro mestiere: l’interesse per le città reali si è sempre accompagnato alla passione per le città pensate, narrate o raffigurate. Talvolta questa consuetudine appare come un vezzo intellettuale e possono non piacere i testi di pianificazione affollati di riferimenti storici, filosofici, artistici, letterari. Mi sento anch’io colpevole di qualche eccesso nei miei scritti, però credo che ci siano almeno tre possibili giustificazioni: la prima è che la necessità di comprendere un fenomeno complesso come la città richiede la mobilitazione di una pluralità di strumenti conoscitivi e rappresentativi; la seconda è che i progetti hanno essi stessi un carattere in qualche modo narrativo, come mondi possibili (direbbe Doležel) o fictional (direbbe Pavel); la terza ragione è espressa in questo modo da Paul Ricoeur (2008, p. 84) in un libro di scritti sulla città: «La rappresentazione collettiva che l’uomo elabora è parte integrante del fenomeno città tanto quanto la sua realtà». Forse quest’ultima è la ragione più importante: la città è certamente una struttura materiale e bio-chimica (un frammento di geosfera e di biosfera), ma è anche un nodo della semiosfera e i racconti che ci facciamo delle città del mondo incidono alla fine sul metabolismo delle città reali e viceversa. Bookishness dunque, come punto di partenza, anzi extreme bookishness: di una sindrome di librosità estrema era affetto Lewis Mumford, secondo la definizione di Casey N. Blake, in un libro a lui dedicato. Forse si trattava della reazione a un’infanzia solitaria – Mumford viveva solo con la madre – solitudine che aveva prodotto i due registri esistenziali della sua giovinezza: il primo di lettura fisica del testo urbano, nelle camminate con il nonno nei meandri di New York; il secondo di frequentazione delle biblioteche, immerso in una vita secondaria di letture e scritture, di extreme bookishness appunto, di amore per i libri e poi di produzione di libri a mezzo di libri. Mumford era un lettore onnivoro e un

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instancabile poligrafo, e i suoi libri sono affollati di citazioni di ogni tipo, senza preclusioni disciplinari o tematiche, da Hitler a Zoroastro, da Mazzini a Lao-Tse, ma sono soprattutto i riferimenti letterari e artistici ad essere significativi: il mondo fictional delle poesie, dei racconti, dei romanzi (e di ogni forma di narrazione artistica). Scriverà una magnifica biografia critica di Herman Melville e, nella sua ricostruzione delle radici della cultura americana (in The Brown Decades e The Golden Day, per esempio), avranno un posto fondamentale Walt Whitman e Ralph W. Emerson, Henry James e Emily Dickinson, Mark Twain e Theodore Dreiser, Sherwood Anderson e Eugene O’Neill, tra molti altri letterati. Mumford ha anche scritto un’opera teatrale, The Builders of the Bridge, dedicata a John e Washington Roebling, padre e figlio, ingegneri del ponte di Brooklyn, uno dei suoi monumenti preferiti a New York. Anche Le Corbusier è un grande scrittore, moderno e straordinariamente efficace, a suo modo letterato e poeta (il Poème de l’angle droit, per esempio, ma intrisi di narratività sono molti altri libri, come Poésie sur Alger o Quand les cathédrales étaient blanches) ed è noto come negli anni trenta nella sua carta di identità abbia fatto scrivere homme de lettres e non architetto. Le argomentazioni contenute nei suoi libri hanno la secchezza e l’incisività delle headlines di un copywriter professionale e soprattutto Le Corbusier è stato uno straordinario costruttore di libri in senso materiale, concepiti come un prodotto architettonico, un oggetto di design, un’autonoma opera d’arte, curati nel rapporto tra testo e immagini, nell’impaginazione meticolosa, nella scelta strepitosa delle copertine (è possibile sfogliare il bel libro di Catherine de Smet, Le Corbusier Architecte of Books, per apprezzare la qualità della costruzione materiale dei suoi 35 libri). La creazione di prodotti letterari o quasi letterari ha tentato molti altri architetti e urbanisti, con esiti discutibili, da Carlo Mollino (Vita di Oberon, L’amante del Duca) a Giancarlo De Carlo (Progetto Kalhesa,

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Editoriale con lo pseudonimo di Ismé Gimdalcha), da Fernand Pouillon (Les pierres sauvages) a Gilles Clément (Thomas et le Voyageur e altri testi semi-letterari). Per fare qualche esempio più ravvicinato è possibile ricordare le memorie dal carcere di Alberto Magnaghi, le opere letterarie di Giancarlo Consonni, i romanzi più o meno autobiografici di Enzo Scandurra (Fuori squadra) e Attilio Belli (Fuoco ai quartieri spagnoli), e il fenomeno è certamente più diffuso. Può capitare anche l’incontrario: scrittori e letterati che si occupano scrupolosamente di progettazione e di tecniche costruttive, dall’Essay upon Projects di Daniel Defoe (1692) al vero e proprio manuale di architettura degli interni, The Decoration of Houses, di Edith Wharton, scritto insieme all’architetto Ogden Codman (1914); e concreti architetti del paesaggio sono stati Wolfgang Goethe a Weimar e Thomas Jefferson a Monticello (le Affinità elettive e il Faust affrontano esplicitamente alcuni problemi di pianificazione del territorio). Mi piace infine ricordare due esempi meno conosciuti: una commedia di Václav Havel, intitolata nella versione inglese Redevelopment - or Slum Clearance (1990), nella quale un gruppo di architetti discute e litiga sull’opportunità di demolire e ricostruire un brano degradato di insediamento antico e lo straordinario The Honeywood File: An Adventure in Building (1929) di Harry B. Creswell, che riporta il dettagliatissimo scambio di lettere che cadenza la costruzione di una casa, in una complicata rete di relazioni tra committenti, progettisti, amministratori pubblici, ordini professionali, maestranze. Sono un grande amante del poeta inglese Wystan H. Auden e penso che gli studiosi e i lettori delle città materiali e delle città scritte dovrebbero amarlo nella stessa misura. Se scorro alcuni titoli vengono i brividi per la loro attualità: una raccolta si intitola City without Walls, un’altra About the House, e tra le poesie ci sono Refugee Blues e Thanksgiving for a Habitat. La poesia più impressionante è The Birth of Architecture: io l’ho tradotta così, citandola in un mio libro: «A trenta pollici dal naso corre la frontiera della mia persona / e l’aria sgombra che sta nel mezzo / è villaggio o privata dimora. / Straniero, a meno che non ti riconosca compagno con occhi di letto, / non attraversarla bruscamente: / non ho armi, ma posso sputare». Lo sputo delimita la frontiera tra l’architettura del corpo e il corpo

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dell’architettura, tra intimité e extimité direbbe oggi Cristina Bianchetti. Poteva essere espressa meglio la centralità del corpo nella costruzione dello spazio? In una raccolta di saggi intitolata Secondary Worlds, riprendendo uno scritto di Tolkien sulle fiabe, Auden (1968, p. 41) ha stabilito la distinzione, ma anche il gioco, tra il mondo primario dei fatti e il mondo secondario delle narrazioni nel modo seguente: «Present in every human being are two desires, a desire to know the truth about the primary world, the given world outside ourselves in which we are born, live, love, hate and die, and the desire to make new secondary worlds of our own or, if we cannot make them ourselves, to share in the secondary worlds of those who can». I due mondi sono presidiati rispettivamente dallo Storico e dal Poeta e obbediscono a due impulsi differenti, ugualmente necessari all’umanità: «the will-totruth», la tensione verso la verità, guida lo Storico, «the will-to-recreation» guida il Poeta. Questa distinzione appare tuttavia problematica e forse è proprio la dialettica tra will-to-truth e will-to-recreation (la ri-creazione intesa in senso letterale) ad essere importante. Lo stesso Auden si muove in questa direzione quando più avanti interpreta «the man’s historical past […] as reified in a humanly fabricated world of languages, mythologies, legends, creeds, tools, works of art» (ivi, p. 42). Le città si possono leggere anche negli atlanti, ormai da secoli, riassunte in una figura, una planimetria, un insieme di piante, confrontate le une con le altre, per cogliere le analogie e le differenze. Gli atlanti recenti sono ormai digitali e consentono di giocare con la scala e con i layers. Agendo sulle distanze, illudono sulla possibilità di vedere ogni cosa, grande o piccola; agendo sui tematismi, illudono sulla possibilità di vedere tutti gli aspetti di ogni cosa. Bruno Latour (2012, p. 92), in un articolo su Parigi, riconosce la potenza degli strumenti digitali di rappresentazione: «we now have satellite maps enabling us to zoom in on every level, so conveniently that in a few clicks we can switch from the entire Ile-de-France to the roof of our building. We do therefore have the right [...] to talk of a panopticon, since we ‘embrace the entire city’ and are able, at the same time, to keep delving down into

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Editoriale its minutest detail». Parigi diventa quindi infinitamente leggibile, poiché crescono le cose della città che è possibile inquadrare (viene in mente ciò che Flaubert ha scritto nella lettera a un’amica: «più i telescopi saranno potenti, più stelle ci saranno nel cielo»). Latour è tuttavia scettico sulla capacità di comprensione della città consentita dal dispositivo digitale: «The most complete panopticon, the most integrate software, is never more than a peep show». Resta una Parigi invisibile che sfugge alla presa digitale e sono forse i programmi di visione e di lettura parziali ad essere alla fine più efficaci (oligopticons li chiama Latour). Latour definisce plasma questa sostanza invisibile della città, il suo background, che tiene unite tutte le cose, «the Paris that has to be composed», la città che deve essere ri-composta dallo sguardo sensibile, dall’intelligenza critica. Forse un altro tipo di atlante ci può aiutare a cogliere il plasma della città. Io consulto spesso The Atlas of Literature, curato da Malcom Bradbury, un atlante storico-geografico che descrive un gran numero di paesaggi letterari, dai mondi di Dante al Lake District, dall’immaginario Wessex di Thomas Hardy alla Praga di Kafka, dalla Francia di Montaigne alla Parigi di Balzac, dalla Londra di Bloomsbury al Greenwich Village della Beat Generation. L’atlante di Bradbury è tuttavia ancora uno strumento elementare, anche se ricco di carte, immagini e informazioni. La geografia letteraria ha compiuto molti passi in avanti negli ultimi anni – e vi ha contribuito tra gli altri Franco Moretti, fratello di Nanni e professore alla Stanford University (nei libri Opere mondo, Atlante del romanzo europeo, La letteratura vista da lontano). Oggi esiste un campo di studi e una rivista, chiamati appunto Literary Geography, situati all’incrocio tra lo spatial turn che si è verificato nel campo delle arti e delle scienze umane, e il cultural turn nel campo della geografia umana e delle scienze del territorio. È interessante ricordare che il riferimento esplicito e consapevole a una geografia letteraria nasce a Edimburgo nel circolo intellettuale dominato dalla figura di Patrick Geddes, e non poteva che essere così. William Sharp ha pubblicato infatti nel 1904 un volume intitolato Literary Geography, formato da 12 capitoli che affrontano alcuni dei più significativi paesaggi letterari della Gran Bretagna: The Coun-

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try of Stevenson, Dickens-Land, The Brontë Country, The Literary Geography of the Thames, per citare alcuni capitoli del libro. Sharp era uno dei più stretti collaboratori di Geddes e con lo pseudonimo di Fiona MacLeod ha partecipato a molte comuni imprese culturali, in particolare nella rivista Evergreen, che integrava scienza, cultura e arte, in un modo tipicamente geddesiano. Naturalmente ognuno di noi possiede una personale literary geography legata ai propri luoghi e alla propria visione della città (e del mondo). La mia comprende Salvatore Satta e Sergio Atzeni, Robert Walser e Thomas Bernhard, Alain Robbe-Grillet e Michel Butor, Carlo Emilio Gadda e Alberto Savinio. Comprende tutti gli scrittori giapponesi che ho potuto leggere (non solo il solito Murakami), per la loro caratteristica topicité (nella definizione di Augustin Berque), da Bashō a Nagai Kafū, da Natsume Sōseki a Jun’ichirō Tanizaki (Libro d’ombra è un piccolo e ormai famoso trattato sull’architettura giapponese). Soprattutto mi piacciono non tanto i libri che descrivono una città o un paesaggio, ma i libri che sono come gli spazi che li abitano: città e libri, libri e città stretti in un rapporto di omologia strutturale e di reciproca determinazione, per così dire. A proposito dell’Ulisse di Joyce ha scritto Franco Moretti (1994, p. 145): «Un po’ di materialismo volgare. Nell’edizione Gabler, il quarto capitolo dell’Ulisse (il primo di Bloom) conta circa 550 righe. Il quinto, 570 righe. Il sesto, 1030 righe. In tutto, una cinquantina di pagine, e poco più di duemila righe. Ora, in questo spazio Bloom riceve più di tremila stimoli diversi, di cui all’incirca due terzi interni (ricordi, riflessioni, emozioni), e un terzo esterni (stimoli visivi, verbali, olfattivi, tattili). Volgarità per volgarità: più di sessanta elementi eterogenei ogni pagina: uno e mezzo per riga. Diciamola tutta: uno stimolo ogni dieci parole. Eccola la metropoli di Simmel: finalmente, ha preso forma linguistica». Ciò che accade nell’Ulisse per la metropoli ‘classica’, accade in molti altri autori per la metropoli o la post-metropoli contemporanea, e penso a Manhattan Transfer di Dos Passos, a Mobile di Butor, a I detective selvaggi di Bolaño, a Infinity Jest di David Foster Wallace, che raccontano le loro città mutuandone nei romanzi il metabolismo e la struttura. La città può essere quindi letta come un libro e può

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Editoriale funzionare come un libro, così come un libro può descrivere una città e funzionare come una città, in un intreccio inestricabile tra geosfera e sociosfera, tra il mondo primario studiato dagli scienziati e il mondo secondario raccontato dai poeti (e forse dagli urbanisti).

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Riferimenti bibliografici Auden W.H. (1968), Secondary Worlds, Faber and Faber, London. Blake C.N. (1990), Beloved Community: The Cultural Criticism of Randolph Bourne, Van Wyck Brooks, Waldo Frank & Lewis Mumford, The University of North Carolina Press, Chapel Hill. Bradbury M. (ed., 1998), The Atlas of Literature, Tiger Books International, Twickenham. Creswell H.B. (1929), The Honeywood File: An Adventure in Building, Architectural Press, London. Defoe D. (1983), Sul progetto, Electa, Milano (ed. or. 1692). De Smet C. (2005), Le Corbusier Architect of Books, Lars Müller Publishers, Baden. Doležel L. (1998), Heterocosmica: Fiction and Possible Worlds, Johns Hopkins University Press, Baltimore. Havel V. (1990), Redevelopment - or Slum Clearance, Faber and Faber, London. Latour B. (2012), “Paris invisibile city: The plasma”, City, Culture and Society, no. 3, pp. 91-3. Moretti F. (1994), Opere mondo, Einaudi, Torino. Pavel T.G. (1986), Fictional Worlds, Harvard University Press, Cambridge MA. Ricoeur P. (2008), Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di F. Riva, Città Aperta, Troina. Sharp W. (1904), Literary Geography, Pall Mall Publications, London. Wharton E., Codman O. (1914), The Decoration of Houses, Charles Scribner’s Sons, New York.

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Reportage

Giulia Marra

How do researchers generate and defend ideas in the planning field? An Italian interdoctoral network How do researchers generate and defend ideas in the planning field? Starting from this question, a number of PhD candidates and young researchers and academics have recently spent two days in Florence, in order to explore issues and problems, hypotheses and theories, complexities and controversies while doing planning research. The 4th Joint meeting on research methodology in the field of planning and urban studies has taken place on the 26-27th January 2017, organised by the University of Florence (PhD programme on Urban and Regional Planning) with the support of Gran Sasso Science Institute (PhD programme in Urban Studies and Regional Science) and a network of Italian universities. Almost seventy PhD students coming from the main Schools of Architecture and Planning in Italy and from abroad (University of Cambridge, TU Delft, Södertörn University, Eötvös Loránd University of Budapest and POLIS University, Tirana) have replied to the call and have gathered in Florence to individually reflect and collectively discuss methodological questions. The development of this initiative was made possible by years of work conducted by the Italian interdoctoral network, a group of scholars from a number of Italian universities, engaged with doctoral courses. Cultivating a specific interest in field research and scientific knowledge, they have voluntarily set up a PhD learning project in the field of planning and urban studies. The initiative was inaugurated in 2011. The opening was the First research methodology day, offered to PhD candidates and young Italian researchers. Every year, different topics, issues, and research challenges were covered, selected based on the requests and needs of the Italian doctoral programmes in relationship with the wider international research context. Originally intended as an annual national meeting, the initiative slowly converted into a project

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structured as a methodology programme that offers young researchers in the field of planning (not only PhD candidates) the opportunity to interact and study research methodology. Day 1 | Three workshops This year this initiative has successfully reached its fourth edition and has been organized on a two-day basis. The first day has been devoted to workshops on major areas of commitment in research methodology. The workshops were intended to address questions related to methodological issues and theoretical frameworks: methods of qualitative and quantitative research and the action research approach; the challenge of working with comparative approaches; the effort to tackle the big question of the subject/object relationship and interference in research work, as well as the difference between heuristic and epistemological research work at different stages of building a research project and conducting the research itself. The first workshop, Research/Investigating, focused on qualitative methodologies for research, with a particular attention to policy analysis, the construction and use of case studies and ethnographical approaches. It aimed at exploring how a research path can be sustained, by relating theoretical premises and different methodologies to the specific topic covered. Attendees were asked to describe their research processes focusing on the research question addressed, the analytical methodologies chosen for answering the questions, and the theories that constitute the framework for the research questions as core points to build up a ‘methodologically structured’ research. The workshop tried to unpack different issues related to qualitative methodologies of research such as: - What are the potentialities and limits of qualitative research approaches in the urban planning field? - What are the convergences and divergences

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Reportage of qualitative and quantitative research, and how do they combine? - Can qualitative methodologies of research be reproduced in different territorial and policy contexts? The second workshop, Alternative cultures in planning research, was devoted to different research cultures in the planning field. The current global challenges in cities and regions require different forms of knowledge and diverse ways of doing research in different cultural contexts. To provide a useful contribution, and to avoid discriminating against each other, planning researchers, beginning with doctoral students, must recognize the complementarities of those cultures, so that a socially responsive planning research ‘meta-culture’ can emerge. The aim of the third workshop, Academic writing, was to help PhD candidates to develop as writers within the academic community by reflecting upon the conventions of written texts, particularly for international scientific journals. The workshop focused on how to disseminate research work, how to choose the most appropriate journals and how to frame and revise papers following specific journal requirements. It also introduced the specificities of the Italian scientific journals, the submission and review process and the international and national ranking systems. In addition, the workshop offered insights on how to structure a paper (the macro and the microstructure), how to deal with style and referencing issues and how to handle attention points (data, charts and graphics). The first day ended with a plenary interactive session in the form of a World Café to collect inputs from students and researchers on how to build a handbook in research methodology. Starting from already known limits and potentialities in methodologies, proposals were made regarding the main issues that need to be further debated: what is really missing when moving from planning theory to practice, how to build a general methodology of planning research considering the specificities of local contexts. Day 2 | Four keynote speakers The second day the discussion was enriched by the contribution of the main international guest, Ann Forsyth, professor of urban planning at Har-

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vard University, Graduate School of Design. Her presentation shed light on crucial aspects of researchers’ scientific and ethical contribution in the exchange between urban planning researchers and practitioners. Who are the researchers in the planning field? How is their role different from others in planning? Starting from this basic question, Forsyth defined research as something different from other valuable activities performed by academics or practitioners. Research is not about demonstrating great learning (Scholarships), expressing ideas (Design speculation), answering a specific practice question (Investigation) or solving a specific problem (Professional practice). Research is an activity responding to a question of general interest related to gaps in knowledge or key intellectual problems, contributing to generate new knowledge, using methods conforming to research protocols and data that has been systematically collected and analysed. Its methods and findings must be documented, made public and evaluated, so others can replicate them (Forsyth and Crewe 2006; Forsyth 2007, 2012, 2016). Of course, research activities are not all the same. In her extensive work, Forsyth studied and explored a variety of planning research approaches, cultures and designs. If ‘how to generate ideas in planning’ is a question that many planning students ask, she strongly believes that generating ideas is a process that can be learned and improved. She has actually done a great job in helping students to unpack this apparently mysterious and difficult issue of idea generation in research, whose main points are: identifying research questions, developing conceptual frameworks, designing methods—data collection and analysis, interpreting findings and results, developing planning implications (Crewe and Forsyth 2003; Forsyth 2007). Finally, Forsyth addressed the truthfulness and validity of evidence in a post-truth world. How to propose and defend ideas, among fake news and even dirty or overwhelming big data? What about the reliability of research? Can it be checked, compared, replicated by others and repeated over time? How are we ensuring the validity of our research? Three speakers, who over time made key contri-

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Reportage butions in the field of research methodology, were invited to discuss this issue with Ann Forsyth. Francesco Lo Piccolo (University of Palermo) presented some specificities of planning research related to value questions and ethical issues. Although codes of ethics do normally reflect the assumption that research is neutral and value-free, this is inappropriate for planning research, which involves an engagement with the value-saturated world of public policy (Lo Piccolo and Thomas 2009). Lo Piccolo stressed out the necessary distinction between research undertaken as a scholarly practice and research undertaken as consultancy. Policy or governance-related research in planning is different, as the policy process heavily influences the research scope, analysis and dissemination. Truth and rigour are not less important, but what constitutes an appropriate object of research, and what is done with the findings of research and how they are presented is influenced by a different set of factors than in scholarly research. Researchers may engage in both at different times, in any case they should think carefully about the wisdom of getting involved, via research, in certain political processes. Planning research is something inherently political, Lo Piccolo argued, partly defined by sensitivity to politico-ethical implications of the research (Flyvbjerg 2001) and the awareness of possible positions for the researcher. Researchers are political agents, relating to their own research in the light of their political commitments (Harvey 1999). Most of the debate on research ethics and the principal concern of codes of ethics focus on individual behaviour or on ethical behaviour as an individual accomplishment. Defining planning research as a social practice, Lo Piccolo suggested that researchers should develop ethical sensitivity as part of a social practice, through communal activity (Lo Piccolo and Thomas 2008). Elisabete Silva (University of Cambridge) offered an overview of today’s planning research methods that deal with live big data and dynamic urban models. She believes that rational models of the 50-70s (systems theory, participative theory), based on pure causation and the ‘presumption of certainty’, are the wrong tools to confront (urban)

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social problems that evolve in time and space and that «do not have an enumerable (or an exhaustively describable) set of potential solutions» (Rittel and Webber 1973, p. 164). Starting from Rittel and Webber’s conception of ‘wicked problems’, Silva explained why conventional scientific approaches failed to solve problems of pluralistic urban societies and why complexity theory is needed to confront complex physical and social interactions in contemporary cities (Silva and De Roo 2010; Silva et al. 2015). She also presented her studies on complex systems in spatial analysis, and underlined the urgency for multidisciplinary, interdisciplinary, holistic approaches and mixed methods in planning research. Stefano Moroni (Polytechnic of Milan) explained the difference between descriptive statements (theoretical statements, from simple observations to very sophisticated general hypotheses) and prescriptive statements (practical statements, both norms/rules and value judgments). Descriptive statements give information about the world as it is, and can be falsifiable, while prescriptive statements try to influence (modify, guide, orient, channel...) our behaviours and attitudes. Similarly, he explained the dichotomy between ‘descriptive drawings’ and ‘normative drawings’. Descriptive drawings must ‘correspond’ to the world. A geographical map that does not correctly reproduce the geographical area it represents must be corrected. In the case of normative drawings, instead, it is the world that must ‘correspond’ to the drawings, as in the case of a zoning map. In the second part of his presentation, Moroni clarified the difference between deductive logic, the process of reasoning from one or more premises to reach a certain conclusion, and inductive and abductive reasoning. He concluded that between a world of facts and a world of values there is not an ontological distinction. Science cannot be value-neutral or value-free, because personal interests and values always and inevitably guide the researcher in his research. Conclusions Planning is not an exact science as well as methodology is not a recipe. Learning a specific methodology of research ‘in the field’ implies developing

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Reportage skills to face different problems through a multiplicity of approaches (Friedmann 1987), and develop the capacity to adjust ourselves in the face of unexpected situations. Moreover, research cannot be value-neutral or value-free, as personal interests and values inevitably guide the researcher in his/ her activity (Basta and Moroni 2013). Learning a methodology of research in the urban studies field implies dealing with all these issues. The main achievement of this research meeting consisted in offering young researchers in the field of planning the opportunities for debate, also in relationship to the international research context, sharing resources (in terms of people, lectures, expertise, knowledge etc.) and enabling an open and dialectic dialogue between both PhD candidates and scholars as well as between young and senior academics. The Italian interdoctoral network will be strengthened with the aim of becoming a way to meet other organizations working to educate young researchers and PhD candidates in planning methodologies; and in the long run, to build an education system that brings Italy at the forefront of the challenging, innovative international academic environment.

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References Basta C., Moroni S. (eds., 2013), Ethics, Design and Planning of the Built Environment. Urban and Landscape Perspectives, Springer, Dordrecht. Crewe K., Forsyth A. (2003), “LandSCAPES: A typology of approaches to landscape architecture”, Landscape Journal, vol. 22, no. 1, pp. 37-53. Flyvbjerg B. (2001), Making social science matter, Cambridge University Press, Cambridge. Forsyth A., Crewe K. (2006), “Research in environmental design: Definitions and limits”, Journal of Architectural and Planning Research, vol. 23, no. 2, pp. 160-75. Forsyth A. (2007), “Innovation in urban design: Does research help?”, Journal of Urban Design, vol. 12, no. 3, pp. 461-73. Forsyth A. (2012), “Alternative cultures in planning”, Research Journal of Planning Education and Research, vol. 32, no. 2, pp. 160-8. Forsyth A. (2016), “Investigating research”, Planning Theory and Practice, vol. 17, no. 3, pp. 467-71. Friedmann J. (1987), Planning in the public domain. From knowledge to action, Princeton University Press, Princeton. Harvey D. (1999), “Frontiers of insurgent planning”, Plurimondi, no. 2, pp. 269-86. Lo Piccolo F., Thomas H. (2008), “Research ethics in planning: A framework for discussion”, Planning Theory, vol. 7, no. 1, pp. 7-23. Lo Piccolo F., Thomas H. (eds., 2009), Ethics and planning research, Ashgate, Farnham. Rittel H., Webber M. (1973), “Dilemmas in a general theory of planning”, Policy Sciences, no. 4, pp. 155–69. Silva E., De Roo G. (eds., 2010), A planner’s encounter with complexity, Ashgate, Aldershot. Silva E., Healey P., Harris N., Van Den Broeck P. (eds., 2015), The Routledge handbook of planning research methods, Routledge, New York.

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Letture

Alberto Clementi

Tra improbabile e antifragile. Nuovi orientamenti di pianificazione

Arnaldo Cecchini e Ivan Blečić Verso una pianificazione antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo Franco Angeli, Milano 2016 pp. 198, € 25,00 È un atto di fede nei confronti della pianificazione ciò che sorregge l’interessante volume di Blečić e Cecchini. Preoccupati dell’evidente perdita di efficacia dei metodi e dei valori della pianificazione corrente, veicolati da una cultura modernista troppo condizionata dalla rigidità delle previsioni al futuro, da un approccio marcatamente top down e autoriale, dalla proliferazione di azioni di breve respiro e, soprattutto, messa fuori gioco dalla complessità della città attuale che la sottrae al determinismo razionalista ereditato dalla modernità, gli autori propongono audacemente una nuova via, la pianificazione antifragile, che dovrebbe consentire di affrontare meglio le sfide della contemporaneità, restituendo utilità e legittimità alle pratiche del planning. Per far fronte alle inedite criticità indotte dai mutamenti epocali in atto, si dovrà così ‘pensare al futuro senza prevederlo’, cioè accettare l’imprevedibilità e l’improbabilità dei processi di trasformazione. E provare piuttosto a forgiare nuovi paradigmi e strumenti operativi con cui aiutare la città a mantenere nel tempo la sua naturale propensione all’an-

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tifragilità: cioè la sua tendenziale capacità non solo di resistere, ma anche di guadagnare di fronte alle molteplici perturbazioni ed eventi traumatici cui è continuamente sottoposta. È evidente – e del resto dichiarata esplicitamente dagli stessi autori – l’eco delle teorie di Taleb e anche di Diamond, che hanno messo in guardia circa i rischi d’imbattersi nei cigni neri (eventi inattesi a bassa probabilità, ma con conseguenze catastrofiche) ovvero di andare incontro ai rischi di collasso totale di un sistema quando ci si fida troppo delle conoscenze sul suo funzionamento acquisite in precedenza e riproposte acriticamente (Taleb 2010). La nozione di antifragilità è sostanzialmente derivata da quella proposta da Taleb, cioè la proprietà di un sistema non solo di resistere bene a pressioni esterne quali perturbazioni, stress, volatilità, disordine, ma addirittura di avvantaggiarsene per migliorare la propria funzionalità. La prospettiva di fondo tuttavia tende in questo caso a essere ribaltata. Il problema diventa infatti «non già come progettare nella complessità, ma come progettare per la complessità». Non solo dunque come agire all’interno della complessità per diventare antifragili, ma «che cosa fare (e soprattutto che cosa non fare!) ai sistemi complessi per renderli antifragili o per promuovere la loro antifragilità». Si delineano così i lineamenti essenziali del modello di pianificazione antifragile prefigurato da Blečić e Cecchini. Innanzi tutto, c’è da imporre vincoli inderogabili al fine di impedire che la città diventi fragile o accentui la sua fragilità. Poi si deve tendere alla costruzione di una visione comune condivisa, che la società locale intenda perseguire nel tempo lungo. Infine occorre affidarsi a una progettualità di stampo individuale quanto collegiale, sia top down che bottom up, mantenendosi all’interno delle condizioni di operatività concesse dai vincoli e congruenti con le visioni adottate. Con le parole degli autori, questa pianificazione dovrà essere orientata a «mettere in atto le azioni necessarie per evitare

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Letture futuri non voluti, costruire una volontà comune, collettiva, pubblica, per realizzare i sentieri verso i futuri possibili, lasciare spazio all’azione degli individui, da soli e associati tra loro, per perseguire il proprio progetto di vita». La soluzione proposta da Blečić e Cecchini è alimentata dalla fiducia che sia ancora possibile far valere la razionalità delle scienze del planning per guidare virtuosamente la trasformazione della città, evitando rischi catastrofici e rafforzando le capacità prestazionali delle città di far fronte all’improbabilità e all’indeterminatezza dei processi in atto e futuri. A ben vedere, si tratta della riproposizione aggiornata di un approccio ben radicato nel solco della modernità, comunque assai più evoluto rispetto alle ingenue formulazioni del passato, responsabili della deriva di una disciplina diventata ormai manifestamente incapace di intercettare le nuove domande e di misurarsi positivamente con le sfide emergenti del nostro tempo. Le ragioni della crisi possono tuttavia trovare altre spiegazioni, anche più convincenti di quelle proposte da Blečić e Cecchini. Ad esempio, possono essere imputate non soltanto all’impraticabilità di una razionalità positiva ormai non più in sintonia con le forme del tempo, quanto piuttosto al fatto che i poteri in gioco sembrano essere diventati troppo forti per farsi domare dalla razionalità applicata incarnata dalla pianificazione (Donolo 2012). Al di là delle loro differenze anche profonde, i nuovi poteri sembrano essere accomunati sostanzialmente dal disconoscimento della cosa pubblica, sopraffatta dall’affermazione vincente di diritti corporativi o eccessivamente individualistici. Così il ‘governare l’improbabile’ è costretto a misurarsi con la forza dirompente di una pluralità eterogenea di razionalità all’opera, dovendo alla fine riconoscere che «quella del governo è una tra tante, e la ratio del planning è ancora una razionalità più specializzata» (Donolo 2012, p. 15); e che in assenza di idee egemoni non si è proprio in grado di governare i conflitti. Paradossalmente, per avere maggiore efficacia, «l’improbabilità del planning deve trasformarsi in planning dell’improbabile» (ibidem), cioè anticipazione di stati futuri del mondo, adattamento ai processi in atto, mitigazione dei loro impatti negativi, tenendo comunque conto adeguato della scala

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planetaria dei fenomeni di mutamento climatico, d’inquinamento ambientale e di produzione e consumo dell’energia. La città in questa prospettiva andrebbe considerata non soltanto un’arena dove ha luogo preferibilmente l’improbabile, ma anche una matrice aggiuntiva di rischi in quanto moltiplicatrice di effetti imprevedibili. E se la complessità dei processi in gioco induce a restringere i contenuti del governo alla fornitura dei livelli minimi di prestazione rispetto ai beni pubblici di base, e per il resto alla mediazione tra ‘interessi corporativizzati’ troppo forti per essere domati, allora la città «da sistema che difende da rischi diventa organismo produttore di rischi in proprio e con accresciuta e crescente probabilità» (Donolo 2012, p. 17), diventando così matrice di nuovi problemi che sfuggono ai modi di trattamento tradizionale. In queste condizioni diventa quanto mai problematico garantire la razionalità dei valori incarnati dalla pianificazione antifragile, nelle sue fondamentali articolazioni metodologiche di prescrizione cogente di invarianti per la salvaguardia, di costruzione condivisa di visioni al futuro, di attivazione di progettualità endogene e auto-determinate, compatibili con i vincoli di sistema. Ancora più arduo diventa traguardare questo nuovo stile di pianificazione rispetto alla condizione di arretramento generalizzato, in particolare della consapevolezza politica e sociale, che purtroppo caratterizza l’attuale situazione del nostro Paese. Qui non solo scontiamo una lunga deriva di sopraffazione della cosa pubblica da parte di una varietà incontenibile di interessi corporativi troppo forti per essere domati ma – ancora peggio – sembriamo aver smarrito perfino la cognizione del primato degli interessi pubblici da tutelare, e lo stesso dibattito sul futuro delle città è regredito a livelli sconosciuti nel passato. Si rincorrono continuamente emergenze urbane, anche banali e del tutto prevedibili, senza esperire alcuna capacità d’azione. E senza disporre degli strumenti concettuali e operativi con cui governare il cambiamento verso sbocchi di utilità collettiva. Le stesse istituzioni di governo della città appaiono come mai nel passato fiaccate amministrativamente, svuotate di capacità e spesso anche di volontà, insidiate tra l’altro da pratiche d’intermediazione oscure e manifeste, con

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Letture il risultato di sfiduciare l’urbanistica nel sentire comune, avendola allontanata irrimediabilmente dalle speranze di miglioramento della qualità di vita da parte della cittadinanza. C’è davvero bisogno di idee forti e convincenti, se si vuole rilanciare la necessità del planning in Italia. La pianificazione antifragile può fungere in questo senso come un utile attivatore di contesto se contribuisce a indurre un’adeguata consapevolezza sulla drammaticità della situazione attuale. Una situazione che rende impossibile affrontare non soltanto le eventuali conseguenze catastrofiche dei cigni neri (su cui è facile evadere dall’assunzione di responsabilità), ma anche i più banali problemi quotidiani di gestione dei rifiuti urbani o di manutenzione delle strade, dell’ambiente e del patrimonio culturale; oltre che i problemi – certo più impegnativi ma non nuovi nel nostro Paese – d’inclusione degli immigrati, di sostegno alle nuove povertà urbane e di contrasto ai crescenti fenomeni di ineguaglianza sociale nell’uso dello spazio. Insomma la pianificazione antifragile può costituire davvero una nuova risorsa se non si perde dietro le proprie razionalità di scopo o la potenza dei propri costrutti scientifici, per mettersi invece coraggiosamente alla prova delle contingenze e dei dilemmi sul tappeto nella trasformazione delle nostre città, entrando in sintonia con le attese della cittadinanza. Poi, se contribuisce a migliorare la capacità d’azione effettiva, rinunciando al reiterato richiamo alle intenzioni virtuose come modo per liberarsi da ogni responsabilità circa i fallimenti delle pratiche, esorcizzando le proprie debolezze nei confronti dell’azione, come è avvenuto troppo spesso in passato per mettere la disciplina urbanistica al riparo dei propri insuccessi (Palermo 2016). E se, infine, consente di rafforzare la capacità di mettere in forma le potenzialità di sviluppo iscritte nel contesto, orientandole positivamente verso i valori di emancipazione individuale, di progresso civile e di sostenibilità ambientale delle trasformazioni. A queste condizioni la pianificazione antifragile potrà sottrarsi al rischio di incarnare un’ennesima evoluzione delle concezioni razionaliste, positivistiche e tecnocratiche che hanno informato il progetto della modernità.

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Riferimenti bibliografici Donolo C. (2012), “Il planning dell’improbabile”, CRIOS, n. 3, pp. 9-23. Palermo P.C. (2016), “L’urbanistica può essere moderna solo se si mette in discussione”, in Clementi A., Forme imminenti, LIStLab, Trento. Taleb N.R. (2010), Robustezza e fragilità. Che fare? Il cigno nero tre anni dopo, il Saggiatore, Milano (ed. or. 2007).

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Letture

Luigi Bobbio

I partiti si sfaldano ma le associazioni reggono e tengono in vita vecchie fratture

Tommaso Vitale e Roberto Biorcio (a cura di) Italia civile. Associazionismo, partecipazione e politica Donzelli, Roma 2016 pp. VII-213, € 28,00 Il libro curato da Roberto Biorcio e Tommaso Vitale, e scritto insieme a un nutrito numero di collaboratori, presenta – possiamo dirlo? con un po’ di ritardo – i risultati di una ricerca condotta nel 2007 su un insieme di 161 associazioni lombarde, mediante la somministrazione di un questionario a poco più di mille attivisti individuati nel corso delle riunioni delle loro associazioni. La medesima metodologia era stata usata nel 1993 in un’indagine diretta dallo stesso Biorcio, insieme a Mario Diani e a Bepi Tomai, alla cui memoria questo lavoro è giustamente dedicato. Il titolo Italia civile potrebbe, per metà, apparire poco appropriato, dal momento che la ricerca riguarda esclusivamente la Lombardia (anche se con qualche puntata sul resto del paese mediante l’analisi di dati Istat), ma è invece del tutto azzeccato per l’altra metà, ossia per l’aggettivo ‘civile’ che accompagna il sostantivo ‘Italia’. La ricerca conferma in modo inequivocabile la vecchia idea di Tocqueville secondo cui il tessuto associativo è il terreno su cui si regge la democrazia, o la più recente idea di Putnam secondo cui la democrazia deperisce quando

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la gente si mette a giocare a bowling da sola. Gli attivisti intervistati nel 2007 presentano infatti un profilo ‘civile’, che è nettamente diverso da quello dell’insieme della popolazione lombarda: sono molto meno familisti ed etnocentrici, nutrono una maggiore fiducia interpersonale, parlano molto di più di politica. Presso di loro «la sfera politica non gode di quel discredito che sembra invece riservare ad essa la popolazione italiana in genere» (p. 79). Non è detto che questi atteggiamenti siano il frutto dell’esperienza associativa, ossia che le associazioni siano una ‘scuola di democrazia’. Potrebbe accadere, all’inverso, che le associazioni tendano ad attrarre persone che posseggono già un profilo di quel tipo. È il dilemma che affronta Sebastiano Citroni nel terzo capitolo concludendo che entrambi i fattori sono compresenti e importanti, e che comunque «nel tempo è cresciuta la rilevanza della partecipazione associativa come esperienza significativa per gli attivisti» (p. 62). Questo ruolo vitale dell’associazionismo è tanto più importante in quanto si manifesta in un periodo di drastica crisi dei partiti politici. La tesi fondamentale del libro è che le associazioni svolgono un ‘ruolo di supplenza’ rispetto ai partiti, in quanto affrontano «in modo diverso […] alcuni dei compiti storicamente svolti dai partiti e dalle istituzioni pubbliche, in particolare per la raccolta e la trasmissione delle domande sociali, così come per la socializzazione e la formazione politica delle nuove generazioni» (p. 14); del resto «l’agire associativo pare, per certi versi, assimilabile a un più ampio agire politico» (p. 78). Attraverso i suoi capitoli, il libro affronta via via aspetti specifici: le motivazioni degli attivisti (cap. 2 di Roberto Biorcio), le differenze tra i simpatizzanti e i militanti più impegnati (cap. 4 di Simone Tosi), la tendenza alla professionalizzazione e alla marketizzazione delle associazioni più grandi e più stabili (cap. 5 di Emanuele Polizzi e Francesca Forno), il ruolo delle differenze di genere tra gli attivisti (cap. 6 di Sveva Magaraggia e Leonardo di

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Letture Nello) da cui risulta che l’impegno associativo delle donne (a differenza di quello degli uomini) dipende più dal desiderio di attivismo civico che dal bisogno di socializzazione. L’aspetto per me più sorprendente è quello che risulta dal confronto tra due capitoli speculari che riguardano rispettivamente il ruolo dei cattolici (cap. 7 di Alberta Giorgi) e della sinistra (cap. 8 di Loris Caruso, Monia Anzivino e Tommaso Vitale). I due mondi sembrano procedere infatti su binari separati. Le associazioni religiose sono ampiamente diffuse (siamo in Lombardia!), rappresentando il 29% del campione. Esse hanno obiettivi tendenzialmente diversi dalle associazioni non cattoliche: «non sono coinvolte in attività politiche (di opposizione o di promozione di disegni di legge, campagne di protesta…) ma si impegnano molto in attività di sensibilizzazione e di informazione e di promozione di stili di vita alternativi, anche se l’attività principale è generalmente descritta come prestazione di servizi» (p. 136, corsivo nel testo). Il cattolicesimo continua a essere un forte motore di partecipazione associativa, ma costituisce sempre di più «un’area ‘a sé’, peculiare in termini di valori e atteggiamenti all’interno del vasto mondo dell’associazionismo» (p. 138). Dal canto loro, gli attivisti che si autodefiniscono di sinistra sono più di metà del campione. Essi «sottolineano meno l’aspetto del volontariato e del servizio, valorizzando maggiormente il significato politico e civico del proprio impegno associativo» (p. 159). La religione rappresenta per loro «un forte elemento di contrapposizione» (p. 151), soprattutto in relazione a problemi di bioetica. Sono più presenti nelle associazioni civiche che in quelle assistenziali. Tendono ad attribuire un carattere politico al loro impegno associativo. Nel mondo associativo lombardo ci troviamo perciò di fronte a «una precisa contrapposizione tra orientamenti libertari-universalistici e attitudini tradizionaliste-comunitariste» (p. 151) o, se vogliamo, a una separazione tra la sfera dell’impegno civile (presidiata soprattutto dalla sinistra) e quella dell’aiuto (presidiata soprattutto dai cattolici). Perché stupirsi? Le cose non sono sempre andate più o meno così in Italia? In realtà è proprio questa straordinaria continuità che appare sorprendente. Gli autori sottolineano come sia finito da tempo il

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collateralismo tra partiti e associazioni che aveva caratterizzato la prima repubblica, ma osservano che «si mantiene una forte relazione tra le motivazioni degli attivisti e le più importanti tradizioni politiche e religiose» (p. 182). La Dc e il Pci non ci sono più, ma le Acli e l’Arci sono ancora qui e tengono in vita, in qualche modo, le vecchie fratture, anche se non sono più alimentate nella sfera politica. Poiché i due capitoli non si parlano tra di loro, non sappiamo qual è il margine di sovrapposizione tra le due sfere: quanti attivisti cattolici si considerano di sinistra e viceversa quanti attivisti di sinistra sono presenti nelle associazioni religiose, né conosciamo quale commistione si verifica tra sfera dell’aiuto e sfera dell’impegno civile. È possibile però che la separazione sia più netta di quello che appariva un tempo, quando le Acli di Bepi Tomai non avevano alcuna difficoltà a cooperare con le associazioni della sinistra. Sembra quindi che le linee di divisione che si sono attenuate o disperse nella società politica, ossia nel mondo dei partiti, siano state gelosamente conservate e riprodotte nella società civile, in contrasto con tutte le teorie della post-politica e della post-democrazia. È significativo, per esempio, che tra gli attivisti lombardi il riferimento alla sinistra non sia affatto scomparso e che l’asse destra-sinistra (malgrado l’avvento del populismo e dei 5 stelle) continui a essere significativo (anche se è diventata molto rilevante la differenza tra coloro che si considerano di sinistra e coloro che si qualificano di centro-sinistra). Gli autori osservano che si è verificato un «processo di ‘spostamento’ dell’attivismo politico di sinistra dalla sfera partitica e sindacale a quella associativa e di movimento» (p. 159) e, aggiungo io, probabilmente anche un consolidamento dell’impegno associativo e assistenziale degli attivisti cattolici. In altre parole, la società civile organizzata, quella delle associazioni, non si sarebbe lasciata incantare dalle sirene della depoliticizzazione e del ‘né di sinistra né di destra’. Una minoranza (ma consistente) della popolazione, quella impegnata nelle reti associative, non sarebbe così post-ideologica come spesso siamo indotti a credere. Si tratta indubbiamente di un quadro diverso da quello che tendiamo a dare per scontato e dobbiamo essere grati agli autori della ricerca di avercelo fatto intravvedere. Molte domande ovviamente si

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Letture affollano: le cose stanno ancora così o i dieci anni che ci separano dalla ricerca hanno indebolito quei riferimenti ai valori? Succede solo in Lombardia o anche altrove? La ‘politicizzazione’ dell’associazionismo si riverbera in qualche modo nell’arena politica o è destinata a rimanere marginalizzata in una società che sembra muoversi su tutt’altra lunghezza d’onda? Cercare di rispondere a questi interrogativi potrebbe essere molto importante.

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Letture

Francesco Ventura

Il culto del patrimonio e l’aporia del passato

Davide Cutolo, Sergio Pace (a cura di) La scoperta della città antica. Esperienza e conoscenza del centro storico nell’Europa del Novecento Quodlibet, Macerata 2016 pp. 288, € 18,70 È un libro di storia. Non pretende di ricostruire l’intera vicenda dell’idea di ‘centro storico’. Quanto, piuttosto, raccoglie una variegata casistica europea di interventi significativi e dibattuti su parti antiche di dodici città, studiati e interpretati da altrettanti autori. A questi si aggiungono due saggi, di altri due autori, con intento di riflessione metodologica, rispettivamente su Italia Nostra e sull’UNESCO. Il primo capitolo, invece, scritto dai curatori, verte sul ‘centro storico’ come questione aperta. E che la questione sia aperta sta a dimostrarlo la molteplicità di esperienze, che paiono irriducibili a unità, esposte negli altri capitoli del volume. Da un lato dunque, e questo è uno dei pregi della pubblicazione, riporta l’attenzione su di un tema che pareva calato in ombra negli ultimi tempi. Dall’altro offre un panorama di esperienze europee rilevanti dell’ultimo secolo e mezzo, esposte come in una mostra: ne offre un’inconsueta lettura, sia perché riguardate sotto un unico tema, ‘centro storico’ in tutte le sue varie sfaccettature e problemi tuttora aperti, sia perché ne rende immediatamente

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confrontabili le variegate differenze. Se a ciò si aggiunge la qualità dei saggi storici, sufficientemente brevi e insieme ricchi di notizie, il volume è anche un eccellente testo di consultazione per arricchire la conoscenza e per chi fosse interessato ad approfondire la ricerca. Ma un libro ha tanto più senso quanto più suscita pensiero e dibattito, confronto con altri approcci possibili. Il saggio dei curatori offre una tale possibilità se ci si spinge oltre il pregio, che inevitabilmente è anche un limite, costituito dal recinto storiografico. Il saggio, che introduce e lega la casistica storica, muove da una constatazione: «Il passato delle città non è stato quasi mai un problema per le città del passato» (p. 13); «Tutto passa, tutto muore, quindi tutto quel che è transeunte può essere sostituito, laddove soltanto quel che val la pena di ricordare è destinato a essere conservato. Poi, almeno in occidente, in una stagione incerta tra età moderna e contemporanea, tale scenario, rimasto stabile per secoli, pare incrinarsi» (p. 14). Per quanto esposta come constatazione di un puro evento, un accadimento, l’abbrivio del saggio è rilevante, non solo per la natura profonda del cambiamento storico, ma soprattutto concettualmente. Tuttavia essendo esclusa una vera e propria indagine concettuale, dunque speculativa, il perché del mutamento resta senza risposta in balia di quel flusso di eventi dove l’uno sostituisce l’altro, senza che ciò possa far emergere senso e nessi, se non contingenti. Ciò incide inevitabilmente sulla stessa interpretazione dei fatti storici. Non emerge la tendenza di fondo da cui dipendono, e i fatti restano solo fatti, l’uno più o meno slegato dagli altri, se non forse per il loro succedersi l’uno dopo l’altro. Le stesse differenze e gli stessi problemi che lo studio dei casi fa emergere non trovano ragioni se non nelle specificità locali e temporali. Constatare che prima del nostro tempo il loro stesso passato non era un problema per le città, implica chiedersi quale diverso senso avesse il passato. Ad esempio, Alois Riegl, pur non facendolo oggetto

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Letture di una speculazione, nel suo Il culto moderno dei monumenti, inizia proprio rilevando questa differenza concettuale. «Tutto ciò che è stato e che oggi non esiste più» si chiama, rileva Riegl (1981, p. 28), «storico». E prosegue: «secondo i più moderni concetti noi colleghiamo ciò con questo ulteriore modo di vedere: quello che è stato una volta non può più essere di nuovo e tutto ciò che è stato rappresenta l’anello insostituibile e inamovibile di una catena di sviluppo […] in altre parole, tutto quello che ha avuto luogo dopo è condizionato da ciò che è stato prima e non avrebbe potuto verificarsi – così come è avvenuto in realtà – senza l’anello precedente». Il che è già una potente chiave di lettura per comprendere il fenomeno del culto del patrimonio e il suo estendersi, incluso il patrimonio urbano o ‘centro storico’. Perché, fa notare Riegl, «qualunque attività e ciascun destino umano, del quale ci sia pervenuta una testimonianza o notizia, senza eccezione può rivendicare un valore storico: in fondo ogni avvenimento storico vale per noi come insostituibile» (ibidem). Ma è indispensabile tenere unito tutto ciò al pensiero filosofico, che dai Greci al nostro tempo è andato costituendosi e insieme coerentizzandosi come spazio concettuale dell’agire individuale e sociale, ormai in tutto il mondo. Il senso radicale del divenire e dunque della storia, è portato in luce dal pensiero greco come uscire e ritornare nel nulla delle cose. Quello stesso pensiero pone però il divenire sotto il dominio di una dimensione immutabile della realtà: è l’origine che lo produce secondo la sua propria eterna legge. Perciò, in ultimo, il passato autentico, eternamente dato, non è il niente relativo in cui le cose sensibili cadono dopo esserne uscite, ma la dimensione intellegibile e immutabile della realtà. Nel processo di coerentizzazione del pensiero greco, il pensiero degli ultimi due secoli va portando al tramonto ogni dimensione immutabile: il divenire è la totalità della realtà. La storia diviene il tutto: tutto è storico. E dal momento che il passato è ciò che non è più, in senso assoluto, la sua conoscenza la si può avere solo attraverso l’interpretazione delle cose di adesso intese quali sue tracce. La cancellazione della traccia è perdita di conoscenza del passato, di quel determinato e individuale passato. Se la successione storica è poi intesa come conca-

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tenazione, allora la conservazione delle tracce per la conoscenza diviene fondamentale. Senonché, il fatto che il culto del patrimonio, incluso quello urbano, sia ricco di tensioni, come anche questo libro mette a suo modo in luce, è indizio che quanto sopra detto è tutt’altro che pacifico. Il pensiero filosofico non è fermo, la coerentizzazione non è del tutto compiuta, e il suo compimento non è una conclusione ma una ripartenza. La questione del passato è tra le più spinose nel processo di demolizione necessaria degli immutabili. Proprio quei due sensi del passato, semplicemente rilevati da Riegl (ciò che non è più non può più ritornare e ciò che è adesso è condizionato da ciò che è stato prima), conferiscono al passato un duplice e contrastante senso di immutabile: il più irriducibile degli immutabili in quanto prodotto del divenire stesso. Per l’approfondimento si rimanda a Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile (Bompiani, 2005).

Riferimenti bibliografici Riegl A. (1981), Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, edizione italiana a cura di S. Scarrocchia, Nuova Alfa, Bologna (ediz. orig. tedesca 1903).

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Letture

Gian Piero Calza

Città, sito, situazione: una prospettiva ‘geoarcheologica’

Giuseppe Gisotti La fondazione delle città. Le scelte insediative da Uruk a New York Carocci, Roma 2016 pp. 560, € 30,00 Non bisogna certo aspettarsi di trovare semplici relazioni di causa ed effetto tra i fatti fisici e umani. Pierre George

«Perché un libro che tratti del ruolo della geologia sulla nascita, intesa come fondazione, della città?» È la domanda d’esordio di Giuseppe Gisotti, affidata a una risposta lunga più di cinquecento pagine e che forse non esaurisce tutti gli interrogativi che un problema come quello della fondazione delle città ha posto, e tutt’ora pone, agli studiosi dei fenomeni urbani. Basti pensare al problema dell’origine della città, che l’autore definisce «così complesso da richiedere ogni possibile sorta di ricerche. Infatti ciascun modello o metodologia di studio lascia fuori troppi aspetti indispensabili alla comprensione: un singolo approccio quale esso sia – archeologico, storico, geografico, urbanistico – ha un’utilità limitata; per comprendere l’organizzazione sociale, gli aspetti tecnologici e scientifici, lo stile di vita, la lotta per la sopravvivenza della vita urbana, alle discipline sopra citate è necessario aggiungere quella delle

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scienze della terra nelle sue varie declinazioni come geomorfologia (fluviale, costiera etc.), idrogeologia, litologia, sedimentologia, tettonica, petrografia, sismica, vulcanologia, geologia ambientale. Possiamo quindi dire, usando un termine solo, “geoarcheologia”» (p. 16). Quest’ultimo termine sembra aprire una prospettiva multidisciplinare allo studio dell’origine del fenomeno urbano, in quanto «specifiche informazioni geologiche fanno sì che la storia umana e l’archeologia di ciascun sito siano più esatte e plausibili, fornendoci nuove informazioni sui processi e i limiti della urbanizzazione» (p. 16). Nei capitoli iniziali del libro vengono precisate tali indicazioni metodologiche che si applicano in modo originale a un oggetto di studio tradizionale, la forma urbana, che qui viene ad assumere contorni ben definiti: «Certamente i caratteri geologici (in senso lato) del sito e la forma da dare al nuovo insediamento sono funzioni più o meno correlate perché la forma urbana impressa ai luoghi non può prescindere dal substrato e quindi i due concetti andranno di pari passo» (p. 17). L’ulteriore precisazione indica dove questo rapporto morfologico tra substrato fisico e struttura urbana può essere colto: non nelle città di origine spontanea, nate per un graduale processo di aggregazione di villaggi, ma nelle città di fondazione «originatesi non spontaneamente ma sulla base di una precisa volontà politica e di un progetto urbanistico» (p. 16). Fondazioni, cioè, pianificate. Ciò che concorre, in modo determinante, a definire pianificata la fondazione di un nuovo insediamento, in quanto parte integrante di un progetto urbanistico, è la scelta localizzativa, cioè la scelta di un sito fisicamente (in senso lato) idoneo e il suo inserimento in una posizione territoriale favorevole. Sito e posizione: sembrano essere queste le parole chiave per comprendere il significato di una fondazione urbana pianificata, parole ricorrenti non solo nel testo in esame ma in tutta la trattatistica concernente la città, a partire da Aristotele e da Vitruvio.

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Letture L’autore greco dà consigli ben precisi sulla scelta del sito cui affidare una nuova fondazione urbana: «bisognerebbe che avesse un’ubicazione alta (…) rivolta a levante (…) e in posizione temperata (…) al riparo dai venti di tramontana e dai geli invernali (…) lontano dai luoghi nebbiosi e paludosi e infine una posizione che favorisce l’esercizio dell’attività politica e guerresca» (Politica, VII, 10, 1-2, cit. in Rykwert 1981, p. 32). Dove si vede, e così anche in Vitruvio (De architectura, I, 4-1 e 4-5), che i requisiti fisici del sito di fondazione, perché siano convenienti, occorre che siano funzionali al benessere e alla salute degli abitanti: solo così nella città fondata si favoriranno le attività di vita associata. Non c’è traccia di una considerazione prioritaria dei requisiti fisici (in senso lato) del sito se non in subordine agli obiettivi di benessere fisico-corporeo degli abitanti. E siccome quest’ultimo valore necessitava di una garanzia superiore, «la scelta del sito era un fatto molto importante da cui dipendeva il destino del popolo ed era sempre rimesso in ultima istanza alla decisione degli dei» (Fustel de Coulanges 1957, p. 153). Decisione interpretata attraverso le procedure rituali di ‘inaugurazione’ dei siti, non meno importanti, esse, dei segni rivelatori di idoneità fisica. Nella cultura moderna è il sapere geografico cui si deve la definizione dei caratteri del sito secondo la messa a punto dei principi teorici della geografia umana agli inizi del secolo scorso (M.R. Blanchard, A. Demangeon). Ne abbiamo un’applicazione esemplare negli studi di geografia urbana di Pierre George (1963, p. 43-4): «I rapporti tra le città e il loro ambiente naturale sono definiti geograficamente su due scale: la scala regionale e la scala locale (…). I rapporti su scala regionale concernono la posizione o situazione della città; alla scala locale si discute del sito». Quanto alla posizione: «riguarda la collocazione della città in rapporto a condizioni naturali favorevoli alla circolazione e agli scambi di uomini e di merci (…) condizioni che continuano a pesare sullo sviluppo urbano attuale» (ivi, p. 44-5). A differenza della posizione «il sito si definisce come il quadro topografico nel quale si è radicata la città almeno alle sue origini (…) le due nozioni, sito e posizione, sono legate nella misura in cui i vantaggi del sito hanno permesso di valorizzare le posizioni, (…) ma la sua importanza nella configurazione del-

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la città è conseguenza del ruolo che esso ha giocato nella storia del suo assetto morfologico» (ivi, p. 423). È lo stesso ruolo che il sito gioca nel determinare la morfologia degli insediamenti considerati dal nostro autore; la differenza è che qui la città non ha il suo radicamento nel quadro topografico del sito ma nel suo substrato geologico. Questa è la novità che fa del libro in esame un notevole contributo agli studi sulla genesi della forma urbana. Occorre dunque vedere come si riesce a cogliere questo ruolo della geologia del sito nel determinare la forma dell’insediamento. Scrive Gisotti: «Se si vuole mettere in relazione l’insediamento urbano con il contesto geologico (in senso lato) osserveremo che quattro possono essere gli approcci alla scelta del sito destinato ad ospitare l’atto di fondazione della città e che ne determineranno la forma iniziale: 1) l’aspetto geomorfologico determinato dalla presenze di un fiume o dall’andamento costiero, dalla sommità di un rilievo o da un baluardo roccioso; 2) l’aspetto relativo alle risorse geologiche locali, quali i materiali da costruzione, le risorse idriche, i giacimenti minerari, il suolo fertile; 3) aspetti negativi relativamente alla presenza di rischi geologici, (sismici, vulcanici, idrogeologici) che inducono a scartare un sito o ad abbandonarlo in seguito ad eventi catastrofici; 4) aspetti relativi all’esaurimento delle risorse geologiche che avevano inizialmente determinato la fondazione della città, ad esempio l’esaurimento del minerale coltivato che ha determinato la decadenza o la morte della città stessa» (pp. 42-3). Sorprendentemente nel testo si fa cenno a un altro fattore positivo di localizzazione, cioè la bellezza del paesaggio naturale nel quale prende forma la fondazione urbana. In tal caso «le decisioni circa l’ubicazione di un insediamento seguono il comportamento umano di associare il “materiale” (tangibile) con l’“immateriale” (intangibile) ossia le risorse materiali con la bellezza del luogo» (p. 43). Ma anche in questo caso, secondo il nostro autore «sono gli elementi geologici (in senso lato) che hanno contribuito a formare sia i paesaggi naturali che i materiali da costruzione della città, e quindi la bellezza che ne deriva dal loro equilibrato rapporto» (p. 43). Tutta la prima parte del libro è dedicata a definire il ruolo del substrato geologico nella fondazione delle città, con excursus di carattere storico relativamente all’accezione che tale ruolo ha assunto

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Letture nelle diverse fasi insediative: Mesopotamia, Grecia antica, Etruria, Roma, Medioevo, Rinascimento, Età Moderna, Nuovo Mondo, e zoom di carattere geografico al bacino del Mediterraneo, con particolare riferimento agli insediamenti di Sicilia, Basilicata e Toscana. La prima parte del libro si conclude con una proposta di classificazione di alcune tipologie insediative che presentano influenze di natura geologica sulle scelte dei siti di fondazione. Vengono considerati: 1) centri abitati sommitali (o insediamenti di altura) con tre varianti; 2) città fluviali; 3) città costiere portuali, con nove varianti; 4) città termali, minerarie, su detriti di frana e 5) città rupestri. L’esame comparato di tutti questi casi consente all’autore di formulare una sorta di conclusione alla prima parte del libro: «Poiché le città sono “incassate” nella matrice geologica, sono state cercate informazioni circa l’influenza dell’ambiente geologico sugli insediamenti umani: anzitutto si è voluto dimostrare il perché della scelta di un determinato sito basata in sintesi sui processi geomorfici favorevoli e sulle risorse geologiche abbondanti o almeno necessarie per l’insediamento. Si è visto che la scelta del sito ebbe ripercussioni sul successivo sviluppo della città in positivo o in negativo, poi che lo stesso substrato geologico spesso opponeva limitazioni, vincoli all’insediamento, sia durante la stessa fase di costruzione che successivamente. (…) Specifiche informazioni geologiche hanno fatto sì che la storia umana e l’archeologia di ciascun sito siano risultate più esatte e plausibili fornendoci nuove informazioni sui processi e i limiti dell’urbanizzazione» (p. 113). L’intera seconda parte del libro è appunto dedicata a verificare quel perché attraverso l’esame di settantacinque casi-studio (riguardanti altrettante città grandi e piccole, antiche e moderne) tutti riferibili a qualcuna delle tipologie insediative sopra individuate. Purtroppo si succedono in ordine alfabetico anziché raggruppati per tipologie omogenee, il che non facilita la comparazione tra casi analoghi. Ogni caso-studio è illustrato da una breve introduzione che riferisce sul sito e sulla posizione della fondazione iniziale, cui segue l’esame dei caratteri geologici e geomorfologici del contesto e infine una sintesi dei caratteri storico archeologici con un corredo di planimetrie e grafici applicativi molto utili. Man-

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cano nel lungo elenco dei casi presi in esame città come Milano, Torino, Bologna, Napoli, Palermo (per limitarsi alle città italiane) mentre sono presenti come casi quasi estremi New York (città costiera portuale su estuario) e Cortina d’Ampezzo (città su cumuli di frana). Quanto alla metropoli americana, la scelta del sito di fondazione – l’isola di Manhattan – fu dovuta alla sua facile difendibilità, alla prossimità dell’estuario fluviale, luogo ideale per l’attracco, alla presenza di terreni coltivabili e alla possibilità di penetrare verso l’interno lungo la via d’acqua o quella di terra per le valli fluviali. Erano presenti inoltre risorse quali l’acqua dolce e i materiali da costruzione. Quanto alla posizione geografica l’ubicazione si presentava favorevole all’accesso dall’Atlantico e quindi alla rotta per l’Europa. Ma se ci chiediamo in particolare come i caratteri geologici del sito di fondazione abbiano condizionato la forma fisica della città, ecco la risposta (in breve): «A Manhattan la costruzione degli edifici – e possiamo dire lo skyline – è controllata dal substrato geologico. I grattacieli sorgono all’estremità meridionale dell’isola – downtown – e dalla parte opposta – midtown – perché possono essere ancorati al tenace e resistente bedrock, che è prossimo alla superficie topografica. Invece nella parte centrale dell’isola i palazzi sono più bassi perché il bedrock sprofonda lungo una faglia creando un avvallamento colmato nel tempo da sedimenti glaciali incoerenti non idonei a sopportare il carico di elevati grattacieli» (p. 328). Questo tipo di riscontri sui fattori di localizzazione degli insediamenti e sui caratteri che ne derivano alle loro morfologie fisiche può applicarsi a casi tra loro molto diversi per condizioni ambientali, come sono quelli considerati nell’articolata classificazione di Gisotti. Se consideriamo, ad esempio, il caso-studio di Cortina d’Ampezzo, anche qui il ruolo del sito nella scelta insediativa fa conto sulla presenza di corsi d’acqua, suoli fertili, facile reperibilità di materiali da costruzione. E per quanto riguarda la posizione geografica, determinante risulta la centralità del luogo di fondazione nel contesto vallivo delle grandi direttrici alpine del Piave e della Pusteria. Ma sulla forma fisica dell’insediamento ha agito un altro fattore di carattere geologico: la natura franosa del substrato ha modellato il paesaggio e condizionato l’abitato. Su una parte infatti del corpo della paleofrana stac-

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Letture catasi dal Monte Cristallo nel V-VI secolo (frana di Staulin) si è costruito poco alla volta l’abitato di Cortina fino alla forma e dimensioni attuali. «Una parte del corpo dell’antica frana è quello dove oggi è insediato l’abitato del centro di Cortina: ha una forma a ripiani con contropendenze tipiche degli accumuli di frana e una serie di scarpate che si trovano in corrispondenza della parte terminale del torrente Bigontina alla sua confluenza nel torrente Boite (…) quest’ultima porzione del corpo di frana mostra una fronte ripida e soggetta a riattivazioni croniche di movimenti plastici di deformazione» (p. 213). Certamente lo charme di Cortina d’Ampezzo come la grandiosità di New York non dipendono direttamente dalla geologia dei rispettivi sottosuoli, nemmeno se è considerata in ‘senso lato’, altrimenti il rischio di incorrere nel determinismo geografico e anzi geologico, come l’autore avverte in una nota, sarebbe immediato. Si tratterebbe infatti dell’applicazione del principio ‘l’ambiente impone, l’uomo si adatta’ che rimanda al determinismo proprio della scuola geografica tedesca ottocentesca (K. Ritter, F. Ratzel). A esso si è opposta nel secolo scorso la scuola francese di geografia umana (P. Vidal de La Blanche, A. Demangeon) secondo la quale ‘l’uomo agisce in rapporto all’ambiente’ non ‘a causa dell’ambiente’, concezione cui sembra aderire il nostro autore: «Nella ricerca espressa nel presente volume si vuole solo mettere in evidenza come, quando, dove i fattori naturali abbiano contribuito alla fondazione di insediamenti alcuni dei quali sono diventati città che hanno avuto o hanno tuttora un ruolo fondamentale nell’avanzamento-evoluzione della civiltà» (p. 124).

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Riferimenti bibliografici Fustel de Coulanges N.D. (1957), La cité antique, Hachette, Paris. George P. (1963), Geografia delle città, Edizioni scientifiche italiane, Napoli. Rykwert J., L’idea di città, Einaudi, Torino 1981.

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Letture

Francesca Mattei

Il Ghetto di Venezia: storia, contraddizioni, mito e attualità

Donatella Calabi Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del «recinto degli ebrei» Bollati Boringhieri, Torino 2016 pp. 186, € 15,00 L’immagine del Ghetto di Venezia riverbera nelle pagine dei libri di storia, nelle parole di poeti e letterati, nelle guide turistiche. La sua vicenda è stata oggetto di studi diversi, che hanno privilegiato molteplici aspetti, rivolti sia all’indagine di problemi di impatto macroscopico sia a questioni di dettaglio: la costruzione del Ghetto, i protagonisti della sua storia, le sue implicazioni sociali e religiose, le biografie di alcuni tra i suoi più rinomati abitanti sono solo alcuni dei temi rintracciabili nella storiografia. In occasione dei cinquecento anni della fondazione del ‘recinto degli ebrei’, avvenuta nel 1516, Donatella Calabi – voce autorevole in questo ambito di studi – torna su uno dei temi più significativi all’interno della storia della città di Venezia (Concina, Camerino, Calabi 1991). Il libro, edito nella collana Nuova Cultura – Introduzioni, ripercorre la storia del Ghetto di Venezia dall’origine all’epoca contemporanea. L’opera si inserisce nel gruppo di testi e di attività che, nel corso del 2016, sono stati dedicati a questo anniversario, per il quale Calabi ha curato anche la mostra ‘Venezia, gli ebrei e l’Europa 1516-

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2016’ allestita nel palazzo Ducale (Calabi 2016). Il volume è organizzato secondo una presentazione cronologica degli avvenimenti: dagli anni che precedono la fondazione del Ghetto, all’indagine della prima isola dedicata a tale funzione, all’analisi dell’espansione del quartiere. L’esame della topografia veneziana si accompagna alla ricostruzione delle consuetudini che contraddistinguono il ‘recinto degli ebrei’: i mestieri, la vita religiosa e comunitaria. L’epilogo coincide con il periodo napoleonico, quando si scardinano i cancelli del Ghetto e si dà avvio alla dispersione delle famiglie ebree anche in altre aree urbane. Il testo offre uno sguardo trasversale sulla vicenda ed è corredato da un aggiornato apparato di note. Accanto a un lavoro sistematico, fondato sullo studio di fonti d’archivio, documenti catastali, carteggi e disegni, si colloca un’appendice dedicata a un repertorio di descrizioni del Ghetto, disseminate nelle pagine di poeti e letterati che hanno visitato questa parte della città, da Wolfgang Goethe a George Sand a Théophile Gautier, per citarne alcuni. Pur non trattandosi di un’indagine rigorosa – come specifica l’autrice – questa sezione permette di cogliere gli aspetti suggestivi del quartiere ebraico, e integra le descrizioni storiche e i repertori documentari. La postfazione, invece, ospita una riflessione sull’accezione di ‘ghetto’ come termine associato a «situazioni diverse dal punto di vista sociale e geopolitico», connesse a fenomeni di segregazione e isolamento (p. 176). Il testo, dunque, si rivolge a un pubblico diversificato: la prima parte risulta di carattere prettamente scientifico, mentre la seconda è adatta anche a un pubblico di non specialisti. Il tutto è arricchito da un glossario di termini veneziani, ricorrenti nel volume, e da un inserto che raccoglie un variegato apparato di illustrazioni a colori: piante storiche, disegni di progetti dedicati al Ghetto, fotografie di scorci urbani e di interni. Il libro ripercorre diversi aspetti della presenza ebraica a Venezia, da quelli legati al cosmopolitismo della città – la «prima città globale del mon-

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Letture do moderno» (Settis 2014, pp. 144-5) – a quelli connessi all’utilizzo del suolo e alle trasformazioni topografiche urbane. L’area scelta per il quartiere ebraico si trova a Cannaregio, zona periferica ma non confinata su un’isola, caratterizzata da un’attività di urbanizzazione crescente: l’aspetto del quartiere evoca il linguaggio dell’architettura militare (un castello con mura e ponti levatoi), che, all’interno della Serenissima, trova un pendant nell’Arsenale. Tra i primati del Ghetto veneziano, va riconosciuto quello dell’origine etimologica: nell’isola del Ghetto Nuovo, infatti, esisteva una fonderia di rame chiamata Geto de rame del nostro Comun (pp. 323). Il termine ‘ghetto’ – successivamente legato ai concetti di clausura e di minoranza giudaica – non ha inizialmente nulla a che fare con tali categorie semantiche: richiamava infatti la fila di carriole che scaricavano (‘gettavano’, appunto) le scorie della raffinazione del rame provenienti dall’officina adiacente all’isoletta in questione. Oltre all’origine del nome, il Ghetto di Venezia costituisce il modello per altri quartieri di successiva realizzazione, come il Ghetto di Padova (1603) e quello di Modena (1633). Se da un lato Venezia rappresenta un modello, per contro si distingue da quanto avviene in altri centri italiani: nella città, infatti, il monte di pietà non prevale sui banchi ebraici (p. 72), che offrono prestiti utili in un centro commerciale legato alle oscillazioni economiche e politiche della realtà europea. Non è un caso se, negli anni venti del Cinquecento, Andrea Gritti ricorda che gli ebrei sono divenuti assolutamente ‘necessari’ ai poveri della città (pp. 72-3). Tale affermazione lascia intendere l’esistenza di due sistemi distinti di attività bancaria – quello realtino del Banco Giro e quello del Ghetto – ed evidenzia il legame tra i cittadini veneziani e la comunità ebraica. Accanto all’attività del prestito (e alle altre professioni appannaggio della comunità ebraica, come i medici o i ‘senseri’, ovvero procacciatori di affari), si delineano le attività connesse alla vita religiosa e culturale, entrambe raccolte intorno alla sinagoga, denominata anche Scuola. Ciascuna di queste associazioni – a Venezia se ne contano cinque – era dotata di una sede, mantenuta grazie ai contributi dei confratelli, ed era regolata da uno statuto o ‘mariegola’ (cioè ‘madre regola’). Prima del recinto, i luoghi di culto si trovavano all’interno di case private:

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successivamente, le sinagoghe vengono ospitate in edifici che si distinguono per la loro imponenza (anche a fronte di un linguaggio architettonico non particolarmente elaborato) e per la ricchezza dei materiali (come dimostrano le facciate marmoree): «le due scuole del Ghetto Vecchio, diversamente da quelle del Nuovo, definiscono la loro funzione sacra con caratteri monumentali, mostrandosi come edifici autonomi. Per di più esse appaiono decisamente come il risultato di una contaminazione fra cultura artistica seicentesca veneziana e cultura ebraica, rivelando così in modo evidente un rapporto nuovo fra committenza e architetto anche all’interno del recinto» (p. 100). Proprio intorno alla costruzione delle scuole si concentrano alcuni episodi significativi e si possono tracciare alcuni percorsi singolari: ad esempio, Juda Camis, intendente di architettura, è implicato nella costruzione di una delle due scuole sefardite veneziane; successivamente è tra coloro che si occupano della sistemazione del Ghetto Nuovissimo e risulta in contatto con personaggi del calibro di Giuseppe Sardi o con gli esponenti della bottega di Baldassarre Longhena. Un fatto che, peraltro, implica il coinvolgimento di alcuni tra i più importanti architetti del Seicento veneziano nella trasformazione architettonica del Ghetto. Con la caduta della Repubblica e l’avvento di Napoleone, si aprono le porte del recinto e si conclude l’obbligo di residenza degli ebrei all’interno del quartiere. Un episodio emblematico, cui nondimeno seguirà il processo tutt’altro che rapido di integrazione delle famiglie ebree: qualcuna abiterà le fabbriche più rappresentative della tradizione veneziana – come la Ca’ d’Oro acquistata da Mosè Conegliano nel 1824 o il più recente Palazzo Fontana Rezzonico, oggetto di diversi passaggi di proprietà tra esponenti di famiglie ebraiche. Tramite la disamina di alcuni episodi raccolti nel volume, appare evidente come l’autrice abbia intrecciato diversi filoni di ricerca: lo studio della storia della città si interseca con quello della storia sociale e culturale, con l’obiettivo di restituire le diverse sfaccettature di una vicenda articolata. Dal volume emerge, ancora una volta, come la storia degli ebrei sia attraversata da episodi di segregazione e isolamento, ma anche da fenomeni di integrazione e da trasformazioni culturali. Una storia

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Letture complessa il cui insegnamento non ha ancora perso la sua attualità e che l’autrice invita a leggere – secondo le riflessioni consegnate nella postfazione – anche come paradigma e monito per la società contemporanea, sempre più orientata a diventare un ‘arcipelago di ghetti’ (Caracciolo 2015).

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Riferimenti bibliografici Calabi D. (a cura di, 2016), Venezia, gli Ebrei e l’Europa. 1516-2016, Marsilio, Venezia. Caracciolo L. (2015), “L’arcipelago dei ghetti”, La Repubblica, 1 settembre, pag. 30. Concina E., Camerino U., Calabi D. (1991), La città degli Ebrei: il ghetto di Venezia, architettura e urbanistica, Albrizzi, Venezia. Settis S. (2014), Se Venezia muore, Torino, Einaudi.

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Letture

Silvia Gugu

Radical densities

Joel Kotkin The Human City: Urbanism for the Rest of Us Agate B2, Chicago 2016 pp. 312, $ 24.95 The debate over compact development versus sprawl is arguably the most heated one in today’s urbanism, and for good reason. Urban form impacts the social, economic and psychological dimensions of cities: land rent, transportation, public health, climate change, and particularly social cohesion depend on it. Recently, increasing emphasis has also been placed on its political correlations, especially in the United States: studies on the last two presidential elections show that higher density areas vote Democratic and low-density areas tend to vote Republican. This is why the title of Joel Kotkin’s book – The human city: urbanism for the rest of us – is so provocative, announcing a thesis based on social schism, rather than a litany of technical arguments. A geographer, presidential fellow of Chapman University and executive director of the Center for Opportunity Urbanism in Houston, Joel Kotkin is known as America’s leading defender of suburbia. Simultaneously forecasting sprawl’s expansion and contending that it is threatened by urban planning ideology, his books and editorials strive to con-

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vince urbanists that cities are not sustainable without suburbs. The book develops this thesis at large. Kotkin maintains that sprawl is a dominant trend legitimized by the preferences of the middle class, families especially, for suburban lifestyle. As cities get more crowded and expensive, they become unfit for families with children, who turn to suburbs for bigger houses, a plot of land, and a family culture. By nesting families with children, suburbs are vital to the future and sustainability of cities; they should be accepted as a ‘natural, organic’ pattern, and not altered by densification policies. Setting the tone with the Aristotelian premise that «a city comes into being for the sake of life but exists for the sake of living well» (p. 5), the author suggests that the majority’s preference should be more important than environmental and cultural considerations. He then sets to trace the history, and refute the rationale of the ‘cult of density’, claiming that it fails to make economic sense and meet environmental expectations. After all, suburbs started out as the panacea for the crammed industrial cities. Nowadays, density skyrockets again, fueled by development models such as the transactional city of the post-industrial recovery, characterized by «high-rise offices and residential towers, the arts district, and other high-end amenities» (p. 31); the socialist city that «favored multistory apartment blocks over leafy suburbs» (p. 34); and finally the consumer city, «a kind of adult Disneyland with plenty of chic restaurants, shops, and festivals» (p. 38) dominated by an elite of «the global wealthy, financial engineers, media moguls, and other top business executives and service providers» (p. 39). These dense urban cores, argues Kotkin, are increasingly divided by economic status, provide limited opportunities for social mobility, and fail to satisfy families of the middle class with their small, yet expensive apartments. Privileging «the educated young, the childless affluent, and, most particularly,

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Letture the very wealthy» (p. 43), they do not offer rapid access to employment, good schools, and the ‘human-scaled neighborhoods’ that the middle class wants. Moreover, by restricting suburban growth, they continue to raise rents and home prices. This thesis is reiterated in the following chapters, which take on in a similar fashion the pitfalls of megacities in the Global South, or of global cities such as Singapore, Shanghai, London, New York, etc. Subsequently Kotkin delves into a history of the relationship of families with cities, pointing out a shift from traditional urban life centered on religious and ethnic institutions, to secularism, technology enabled social networks, rejection of marriage, and rising individualism. This new urban ethos, summarized as «the ultimate contraceptive» (p. 194), prioritizes density and recreation, arts, culture, and restaurants, rather than children rearing, churches and family oriented shopping. Pointing out that low birthrates lead to an aging population, which in turn may threaten productivity, Kotkin suggests that cities will need to import people from elsewhere, i.e. either from rural and suburban environments or, most prominently in his argument, from abroad. Immigrants, however, do not grant the population renewal that cities need, without «threatening to inject many of their homelands maladies, ranging from jihadism to street crime» (p. 137). Thus, either urbanism allows families to flourish by embracing sprawl, or a dystopic, individualist ‘brave new world’ infested by crime and extremism will prevail. And families, reminds Kotkin yet again, will choose suburbs because they offer a higher quality of life, «freedom of movement, safety for their children, and generally less expensive housing» (p. 165) as well as better childhood education. In Kotkin’s view, «the city needs to embrace both geographies, playing not only to the wealthy, young, or very poor but also to families who seek out less density and a better environment» (p. 168). Thus, suburbs and exurbs should not be seen as «unfortunate manifestations but as natural products of urban growth and affluence» (p. 170). In his devotion to the status quo, Kotkin does not suggest any improvements to sprawl, except maybe more recreational opportunities. The rest, the

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author predicts, will be taken care of by trends already underway: telecommuting, job decentralization, the return of the multigenerational family. He assures us that peripheries are already less racially segregated than urban cores, poverty rates grow at a slower pace, and there is more ‘cohesion’, judging by measures such as voting in local elections, knowing the name of the school board representative, and church attendance. As for environmental concerns, the author claims that density does little to reduce US greenhouse gas emissions and policy efforts are better placed in requiring better mileage on cars (p. 190). Single family housing is also more suited to host solar panels and suburbs can be made greener by planting more trees; massive farmland losses are compensated for by more intensive agriculture. After searching everywhere, Kotkin finds no serious reason to curb sprawl. Indeed, Kotkin’s forecast that suburbia is here to stay is confirmed by urbanization studies. His critique of urban inequality and lack of affordable housing options is echoed even by density enthusiasts such as Richard Florida (2017). Klotkin makes an excellent point about cities having to make room again for families with children; this stance is reflected by policy efforts in many countries – United States withstanding (D’Addio and d’Ercole 2005). His observation that sustainability is often instrumentalized by the very elite that plays a negative role in climate change would also be hard to contradict. But there are several aspects that place the main thesis of this book on a shaky foundation: a faux density-sprawl dichotomy, the lack of key concepts definition, as well as curious logical twists and data interpretations. To begin with, throughout the book, Kotkin relies constantly on an unjustified dichotomy between density and sprawl. Presenting the two as polar opposites or mutually exclusive is even more surprising as Kotkin lives in Los Angeles, a paradigmatic example of ‘dense sprawl’. Far from oxymoronic, this quality is simply explained by a low-density urban core and a relatively high-density periphery. Leading to the ubiquitous traffic hell that Los Angeles epitomizes, and poor air quality even in the suburbs, it is at the same time not dense or clustered enough to support fast and effective public

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Letture transit, commercial amenities, and a lively downtown (Eidlin 2010). Dense sprawl is possible because sprawl is not defined only by low density. Its essence and pitfalls, which Kotkin ignores, derive also from segregated land uses; lack of significant centers; and poor street accessibility (Ewing et al. 2002) or lack of continuity, concentration, clustering, centrality, ‘nuclearity’, mixed uses and proximity (Galster et al. 2010). Hence, separating the urban core and the periphery just by density does nothing to establish clear differences in urban form, and consequently in quality of life, environmental impact and cost of housing for families. One can easily find the same density in a neighborhood in Washington DC as in Cerritos, in suburban Los Angeles. This confusion, and others, are caused by the absence of any concept specifications in the book. What is defined as suburbia? What measurements make suburbia ‘human’? What threshold separates low from high density? What income brackets define the middle class – and what percentage of the middle class consists of families? Another irking inconsistency comes from the uninvestigated causes and effects for suburban housing. Throughout the book, Kotkin reiterates that the middle class is forced out of the city limits by housing prices that inhibit the choice of having children, while also reminding us that failing to accept their option for suburbia as a whole-hearted choice, rather than a compromise or a policy outcome, is oblivious and inconsiderate. We are in other words discouraged to believe that people are forced to trade inadequate housing space for inadequate commuting times, inadequate services, and poor social and cultural life, but we have to take the author’s word for it. Similarly, while Kotkin acknowledges that an increasing number of men and women no longer see children as a necessary condition for life satisfaction, and others are forced to give up on procreating because of tough job competition or the high cost of living, he insists that only the cost of housing is ultimately what makes a difference in encouraging child bearing. Other policy efforts such as provisions that allow mothers to better reconcile their family and career responsibilities are dismissed as having «marginal impact on fertility

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rates» (p. 136) all while citing a Rand Corporation study that states the opposite (Grant 2005). Overall, the book is a useful reminder that, unless urban inequalities are comprehensively addressed, sprawl is not likely to be easily curbed. Concept clarification and a more systematic analysis would enable us to follow through other interesting arguments, and could greatly reinforce its credibility.

References D’Addio A.C., d’Ercole M.M. (2005), Institutions and fertility rates: a panel data analysis for OECD Countries, OECD Economic Studies, vol. 41, no. 2. Dieleman F., Wegener M. (2004), “Compact city and urban sprawl”, Built Environment, vol. 30, no. 4, pp. 308-23. Eidlin E. (2010), “What density doesn’t tell us about sprawl”, Access, vol. 37, pp. 2-9, www.accessmagazine.org/wp-content/uploads/sites/7/2016/01/ access37sprawl.pdf Ewing R., Pendall R., Chen D. (2002), Measuring sprawl and its impact: Volume I, Institute for Transportation & Development Policy, Washington DC. Florida R. (2017), The new urban crisis. How our cities are increasing inequality, deepening segregation, and failing the middle class - and what we can do about it, Basic Books, New York. Galster G., Hanson R., Ratcliffe M., Wolman H., Coleman S., Freihage J. (2010), “Wrestling sprawl to the ground: defining and measuring an exclusive concept”, Housing Policy Debate, vol. 12, no. 4, pp. 681-717. Grant J. (2005), Population implosion? Low fertility rates and policy responses in the European Union, Rand Corporation, www.rand.org/pubs/research_briefs/ RB9126/index1.html.

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Letture

Andrea Di Giovanni

Attraverso le città, oltre l’urbanistica presentata nel volume e che, sin dal titolo – allusivo –, mette in evidenza le implicazioni spaziali e l’orizzonte temporale dell’innovazione urbana che investe le città del mondo.

Alberto Clementi Forme imminenti. Città e innovazione urbana ListLab Rovereto 2016 pp. 232, € 19,00

Cosa c’è di più vitale e mutevole della città, del modo in cui gli individui e le società urbane ridefiniscono di continuo il proprio modo di stare insieme e abitare il mondo? Forse per questa irrecusabile condizione l’urbanistica è incessantemente impegnata nella ridefinizione progressiva dei propri compiti rispetto all’evolvere delle domande sociali, nella ricerca di un’adeguatezza e di una pertinenza contestuale e contingente delle risposte, ma soprattutto nella capacità di attivare quella visione al futuro che è propria di ogni disciplina progettuale. Per queste ragioni il libro di Alberto Clementi, scritto «con la mente rivolta ai mutamenti radicali che stanno investendo la città contemporanea e al tempo stesso con lo sguardo puntato alle innovazioni che trapelano dalla scena fisica, evocando futuri ancora largamente imprevedibili» (p. 5), propone una riflessione centrale e inquieta sul presente e sul futuro delle città del mondo. Una tensione, quella tra presente immanente e futuro trascendente delle città, che pervade tutta la riflessione

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Apprendere dalle città, occuparsi del mondo Nel libro, organizzato in sette capitoli, trovano spazio i contributi di altri autorevoli studiosi e progettisti (Pepe Barbieri, Carlo Donolo, Attilio Belli e Pier Carlo Palermo, Franco Purini e Paolo Desideri, Mosè Ricci) da cui l’autore sceglie di farsi accompagnare nell’esplorazione dei diversi fenomeni e delle forme d’innovazione urbana messe a tema. Il volume si apre con un’introduzione dedicata a discutere i più significativi aspetti di crisi attuale dei paradigmi della modernità. I capitoli seguenti propongono una riflessione ampia e articolata, non contenibile entro i ristretti confini disciplinari dell’urbanistica e dell’architettura. I due campi di studio e di pratica appaiono indissolubilmente legati nella riflessione dell’autore e costituiscono il fulcro, mai abbandonato, di una ricerca che esplora campi di letteratura e famiglie di autori assai vasti in relazione ai quali leggere fenomeni in corso e condizioni del mutamento in atto nell’urbano contemporaneo. Tale è il contesto che indaga: non più città e nemmeno territorio, le riflessioni di Clementi ridefiniscono l’urbanità contemporanea come paesaggio che, in relazione alle diverse situazioni considerate, assume caratteri e connotazioni diverse: dalle eterotopie di Foucault al terzo spazio di Soja, dai drosscapes di Berger ai netscapes su cui si fondano le proposte di un nuovo assetto urbano formulate in chiusura del volume. Nell’ambito di questa centratura sulle diverse spazialità dell’urbano contemporaneo – assai ricca e problematizzante – i capitoli dedicano spazio alla lettura dei mutamenti che stanno investendo le città e alle loro implicazioni di carattere economico, sociale e politico; alle più importanti sfide di carattere ambientale, sociale e di governance con cui si dovrà confrontare la città nei prossimi anni; alla nuova,

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Letture mutante natura delle città in relazione alla disgiunzione in atto tra spazi e funzioni e alla diffusione pervasiva delle nuove tecnologie a rete che ridefiniscono la natura degli spazi e le dimensioni di questi nell’assolvimento delle diverse funzioni urbane. In questa sequenza assume un ruolo cardinale il capitolo dedicato alla ricerca dei più significativi indizi di innovazione nei modi di fare e abitare la città: l’autore attraversa e rilegge avvenimenti e trasformazioni in corso in alcune città del mondo (Chandigarh, Singapore, Tokyo, Amburgo, Copenaghen) e nelle piazze della protesta da cui, nello spazio fisico e in quello della rete, hanno anche avuto origine alcune delle primavere arabe (Boulevard Bourguiba a Tunisi, Piazza Tahrir al Cairo, Piazza Taksim a Istanbul e Puerta del Sol a Madrid, da cui ha invece preso avvio la manifestazione degli Indignados). I diversi attraversamenti rispondono all’esigenza di «comprendere meglio ciò che produce innovazione negli spazi dell’abitare e del fare città, per confrontarlo criticamente con le categorie ereditate dalla modernità» (p. 125). Ciò che qui interessa sono gli ‘spazi innogenetici’, ovvero tutti quegli spazi «che possono catalizzare la transizione verso altri modelli di funzionamento delle nostre città, spazi enzimatici che fungono da matrici di evoluzioni possibili degli assetti urbani verso nuove configurazioni più in sintonia con il nostro tempo» (p. 126). La diffusione di nuove sensibilità per gli aspetti ambientali e le tecnologie legate alla rete sono ampiamente presenti nelle esperienze e nei contesti indagati e costituiscono i capisaldi attorno a cui si organizza una compiuta proposta di città better (più solidale accogliente e sicura), greener (ecologica, accessibile, energeticamente sostenibile e resiliente, basata sull’implementazione di infrastrutture verdi e blu) e smarter (basata sul controllo efficiente delle funzionalità urbane attraverso il disegno capillare di un articolato netscape, capace di integrare poderosi insiemi di Big Data) che si deposita nell’ipotesi di una ‘EcoWebTown’. L’ultimo capitolo è il luogo in cui le acque impetuose di questo volume tornano a distendersi ricomponendo i termini di una questione che attraversa e alimenta con grande energia la riflessione che si sviluppa nel libro nella ricerca di un riposizionamento degli avvenimenti narrati ‘Tra moderno e contemporaneo’.

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Crocevia e crinale Forme imminenti è un libro che si legge con impegno e con piacere. In esso il suo autore ci conduce al crocevia tra fenomeni urbani, riflessione critica sulle trasformazioni in atto (che divengono occasione di ulteriore apprendimento e verifica di un sistema di riferimenti culturali) e indagine sulle matrici in relazione alle quali teorie ed esperienze possano essere opportunamente interpretate come ‘derive’ della modernità o autentici processi ‘innogenetici’ contemporanei. Da questo punto si dispiega «una riflessione critica sulla duplicità dei modi d’apprendere le trasformazioni in atto, per domandarsi quanto c’è di moderno e quanto di contemporaneo in ciò che sta accadendo nelle città del mondo, [ovvero] quanto le innovazioni riscontrate sul campo evocano tangibilmente la possibilità di oltrepassare il moderno e quanto piuttosto appaiono dare compimento o enfatizzare potenzialità ereditate ma ancora inespresse» (p. 193). Si tratta, evidentemente, di una riflessione che sceglie un punto di avvio ambizioso e che si svolge su un crinale ancor più impegnativo. Un versante del crinale espone ai temi di frontiera e alle questioni più complesse che interessano la città contemporanea. Una prospettiva, questa, che l’autore esplora con notevole capacità e profondità, mettendo in evidenza i nessi fra le diverse questioni richiamate e tracciando un quadro che non scioglie semplicemente le questioni e che, piuttosto, le annoda e le offre nella reale complessità con cui si danno attraverso inferenze reciproche e molteplici. In questa prospettiva, la sapienza dell’autore può forse essere colta più che nelle singole questioni annoverate (che configurano quasi un compendio di temi per il progetto urbanistico contemporaneo), negli annodamenti operati, ovvero nell’esplorazione di nessi e inferenze tra fenomeni spesso presentati e discussi isolatamente entro filoni di ricerca e letteratura viepiù specializzati e tuttavia sempre meno capaci di trattenere la reale complessità che intercorre tra fenomeni apparentemente non connessi. Il secondo versante offre al lettore una prospettiva di riflessione per certi versi ancor più complessa, che si propone di riconoscere elementi genealogici (di derivazione moderna, piuttosto che di radicale

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Letture innovazione contemporanea) tra i temi esposti nei diversi capitoli. Su questa seconda pista Clementi è guida esperta e autorevole, capace di rinvenire le tracce del moderno nelle esperienze apparentemente più nuove e i reali scostamenti da quelle tradizioni. Crisi, interregno e rizoma È questo il vero fil rouge da cui origina e lungo cui si dipana la riflessione del libro, in una tensione costante volta a «distinguere ciò che attiene a un’evoluzione polimorfica del moderno, e ciò che attiene invece all’emergere del contemporaneo, se mai questo possa davvero definirsi come superamento o distacco dalla tradizione da cui proviene» (p. 11). Nel campo compreso tra i due termini (moderno e contemporaneo) tra i quali si muove la sua riflessione, l’autore individua nel carattere pervasivo e poliedrico della crisi (considerata nelle sue dimensioni ambientali, sociali, economiche e politiche) le responsabilità del cambiamento che attraversa in primis le città. Il senso della ‘crisi’ è per Clementi riconducibile al pensiero gramsciano: «la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» (Gramsci 1975, p. 311). La crisi diviene cifra di un’epoca d’interregno – la nostra – in cui forme di organizzazione sociale e spaziale appartenenti a diversi tempi e a diversi mondi coesistono, configgono e si con-fondono: un’epoca in cui, direbbe Bauman (2014, cit. in Bordoni 2017, p. 16), «i vecchi modi e i vecchi strumenti per fare le cose hanno già smesso di funzionare correttamente, mentre i nuovi modi e i nuovi strumenti, più efficaci, sono ancora in fase di progettazione o al massimo in fase di sperimentazione. (…) Un arco di tempo di lunghezza ancora sconosciuta, che si estende tra un contesto sociale che ha fatto il suo corso e l’altro, non ancora definito e certamente indeterminato, che ci aspettiamo o sospettiamo lo sostituirà». In questa condizione transitoria, ritiene Clementi, «proprio le contraddizioni tra ciò che crediamo di sapere che sta avvenendo, e ciò che percepiamo visivamente nell’esperire materialmente i mutamenti all’opera, appaiono un fertile campo di ricerca per cogliere le forme imminenti della città a venire, e

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gli esiti potenziali delle prove di innovazione in corso» (p. 6). Una condizione di fertilità che rivela forse qualche analogia con la metafora del ‘rizoma’ in Deleuze e Guattari (2003) e consente di leggere il presente delle città come campo di gemmazione – non del tutto prevedibile – di esperienze che si collocano tra gli apparati radicali in prossimità dei quali si annidano teorie ed esperienze del moderno, e gli apparati fogliari più maturi e visibili della città di domani. Il rizoma si rivela struttura amorfa e incoerente, fatta di addensamenti e torsioni, ma capace di accumulare riserve per lo sviluppo futuro. Con questa consapevolezza, circa il carattere d’incompiutezza formale e le grandi risorse di cui in realtà dispone, è forse possibile leggere e interpretare i caratteri della città contemporanea nella transitorietà dell’interregno in cui ci è dato di riflettere su di essa. Moderno e contemporaneo Se l’universalismo e l’orientamento formale (due aspetti su tutti) rappresentano elementi distintivi del moderno, essi sembrano costituire con una certa evidenza matrici di pensiero e termini di riscontro culturale rispetto ai quali l’autore avanza criticamente un corpus consistente di riflessioni sul presente delle città. Sono questi aspetti ai quali forse l’autore si riferisce implicitamente formulando l’ipotesi di EcoWebTown. Tuttavia, nulla si rivela più contemporaneo della intonazione critica delle letture del presente restituite nei primi capitoli del volume. Qui Clementi descrive con particolare lucidità i mutamenti in corso, le sfide future e la natura presente delle città di cui osserva alcuni selezionati ‘spazi innogenetici’. Si potrebbe dire che la straordinaria contemporaneità dell’autore è quella descritta da Agamben (2008, p. 9) nei termini di «una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo». Forse, dunque, modernità e contemporaneità sono concetti meno antinomici di quanto siamo soliti pensare. Forse essi possono trovare qualche sintesi pertinente e non scontata nell’incrocio di culture e visioni del mondo pure in origine assai distinte.

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Letture Di ciò dà testimonianza la riflessione di Alberto Clementi che, nelle diverse parti che scandiscono il volume, rivela i tratti di un pensiero capace di conciliare in modo originale e fertile modernità e contemporaneità.

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Riferimenti bibliografici Agamben G. (2008), Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Milano. Bauman Z. (2014), “The changing nature of work and agency in times of Interregnum”, Social Europe Journal, www.socialeurope.eu/2014/01/interregnum. Bordoni C. (2017), Fine del mondo liquido. Superare la modernità e vivere nell’interregno, il Saggiatore, Milano. Deleuze G., Guattari F. (2003), Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Cooper & Castelvecchi, Roma (ed. or. 1980). Gramsci A. (1975), Quaderni dal Carcere, a cura di V. Gerratana, vol. III, Einaudi, Torino. Harvey D. (1997), La crisi della modernità. Alle origini dei mutamenti culturali, il Saggiatore, Milano (ed. or. 1990).

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Letture

Massimo Bricocoli e Stefania Sabatinelli

Comprendere la dimensione spaziale per innovare il welfare

Lucina Caravaggi e Cristina Imbroglini Paesaggi socialmente utili. Accoglienza e assistenza come dispositivi di progetto e trasformazione urbana Quodlibet, Macerata 2016 pp. 293, € 34,00 Indagare tracce e prospettive di innovazione del welfare a partire dalla dimensione spaziale delle strutture nelle quali i servizi sociali sono localizzati, implementati e agiscono significa adottare uno sguardo non consueto. Uno sguardo spesso negletto, ad eccezione di chi degli spazi di welfare si occupa da un punto di vista strettamente tecnico, architetti e urbanisti. Il volume Paesaggi socialmente utili si propone di farlo relativamente ai servizi di supporto alla fragilità e contrasto alla marginalità sociale, a partire dagli esiti di un ampio programma di ricerche empiriche sviluppate dal Dipartimento di Architettura e Progetto dell’Università La Sapienza di Roma, in collaborazione con l’amministrazione pubblica (Direzione Regionale Salute e Politiche Sociali della Regione Lazio) e nel quadro di un progetto europeo (INSPIRE). Il volume è costruito in modo articolato a partire da diverse fonti e operazioni di ricerca. In primo luogo, i temi relativi all’inadeguatezza dei programmi e servizi di welfare e alla necessità di innovarli sono contestualizzati nel quadro dei mu-

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tamenti di lungo periodo che hanno interessato bisogni sociali e risposte delle politiche pubbliche da almeno quattro decadi, e quindi nel quadro di una divaricazione sempre più profonda, ulteriormente aggravata dal prolungato periodo di recessione e austerità che pesa sul nostro paese. Ampio spazio è dato alla disamina dei principali fronti di cambiamento sociali, economici e demografici e, in particolare, all’invecchiamento della popolazione, al modificarsi dei flussi migratori e all’emergere di forme di povertà diverse rispetto a quelle tipiche della società salariale (Castel 1995) e dell’età dell’oro del welfare state. Mutamenti che si riflettono nella trasformazione tanto della domanda sociale quanto dell’offerta, indagata attraverso dati quantitativi disponibili presso le banche dati ISTAT da un lato e il Sistema Informativo Sociale della Regione Lazio, anche attraverso le elaborazioni del Censis, dall’altro. Tali mutamenti mettono in tensione soprattutto le città, nelle quali la contraddizione tra bisogni, che aumentano, si trasformano e si fanno più complessi, e risposte, in sofferenza per la carenza di risorse economiche ma anche di appropriatezza ed efficacia, viene alla luce in tutta la sua durezza e con tutte le sue implicazioni. Entro la cornice analitica delineata, il volume restituisce gli esiti di un’accurata ricerca empirica svolta attraverso sopralluoghi in oltre venti strutture identificate dal gruppo di ricerca insieme ai referenti dell’amministrazione regionale quali casi rappresentativi del panorama laziale dell’intervento sociale. Le visite, le contestuali interviste con i responsabili dei programmi, la partecipazione alle attività che nelle strutture si svolgono, hanno consentito al gruppo di ricerca di cogliere una ricchezza di informazioni che forse il volume può restituire solo in parte, pur nella varietà degli strumenti messi in campo: schede, estratti delle interviste, piante e mappe concettuali e, non ultimo, un ricco materiale fotografico. Il materiale informativo così raccolto è messo infine all’opera in elaborazioni progettuali finalizzate all’innovazione delle strutture, in corri-

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Letture spondenza dei desiderata di responsabili, operatori, utenti e residenti, con il contributo di studenti e giovani progettisti e attraverso il confronto con professionisti ed esperti. L’analisi mette in rilievo alcuni tratti fondamentali per la sfida rappresentata dall’affrontare contemporaneamente appropriatezza e sostenibilità dei servizi sociali oggi. Tratti che non riguardano solo l’Italia ma che certo nel nostro paese assumono particolare rilievo. Richiamiamo qui in particolare quattro punti, a nostro avviso nodali. Il primo punto riguarda la necessità di superare la settorialità, anzi la ‘iper-settorialità’ nelle parole delle autrici, dei servizi di welfare. Nata per facilitare la specializzazione delle risposte di welfare in relazione agli specifici bisogni dei diversi target di riferimento, l’organizzazione specialistico-categoriale ha cristallizzato la suddivisione di budget, staff, approcci, strutture e punti di accesso fino a compromettere efficacia e appropriatezza dei programmi di intervento sociale, pregiudicandone i margini di riformabilità e adattabilità e persino la stessa fattibilità. Si pensi solo all’estrema rigidità dei requisiti tecnico-architettonici che la normativa stabilisce per ciascuna fattispecie di servizio, determinanti ai fini di autorizzazioni e accreditamento. L’aggregazione definitoria di servizi e strutture per grandi classi di bisogni e di utenze proposta dalle autrici muove nella direzione di una riduzione della settorialità. Tale sfida interroga, tuttavia, le amministrazioni pubbliche su un terreno ancor più radicale, ovvero la ri-articolazione in punti di accesso capillari e de-specializzati, che siano in diretta relazione con livelli di intervento specialistici, da attivare in caso di necessità. Il superamento della settorialità opera anche a favore dell’integrazione, da lungo tempo un obiettivo più teorico che realizzato nel nostro paese, e della ricostruzione delle filiere di risorse e interventi attivabili passo passo lungo il percorso dei destinatari. Il secondo punto concerne la realizzazione di quelli che le autrici chiamano ‘condensatori di socialità’, ovvero l’idea che le strutture che si occupano di accoglienza e di reinserimento sociale e lavorativo di persone e famiglie in situazioni di difficoltà operino al meglio laddove riescono a coagulare diverse attività e a far incontrare diversi profili di cittadini – non solo i propri utenti/residenti e i loro fami-

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gliari – attivando diverse energie, incrociando al tempo stesso bisogni e risorse diversificati, spesso fino ad allora inespressi. In tal senso, il richiamo del gruppo di ricerca all’accessibilità e alla permeabilità delle strutture nei confronti del contesto è di fondamentale importanza. Il terzo punto chiama in causa il ripensare la localizzazione di risorse e strutture, spesso esito quasi casuale della localizzazione di risorse storicamente deputate ad altre funzioni, ed acquisite agli interventi di welfare per vie diverse, come la dismissione e riconversione di grandi strutture militari, le donazioni di patrimoni individuali, per definizione dispersi sul territorio, a enti benefici o pubblici, la confisca di beni alle mafie, ecc. Nella pluralità di attori che operano nel campo dell’accoglienza e del reinserimento sociale e occupazionale, una delle funzioni fondamentali in capo all’attore pubblico consiste nel saper ricomporre la mappa dell’esistente, a supporto della programmazione e anche della ricostruzione di filiere e percorsi dotati di senso. L’ultimo punto su cui ci soffermiamo, non in ordine di importanza, è l’attenzione alle qualità spaziali, materiali ed estetiche delle strutture del welfare e per il welfare. Come scrivono le autrici, gli spazi del welfare sono spesso spazi «brutti, non funzionali» (p. 10), spazi «considerati “i più tristi” della città» (p. 198), rispetto ai quali appare urgente un maggiore intreccio tra le riflessioni nell’ambito delle discipline (e pratiche) di progetto e quelle impegnate nella pianificazione e organizzazione dei servizi socio assistenziali. Ancora più in là andrebbe portata l’idea che gli spazi del welfare necessitano e meritano di essere invece belli e che la qualità estetica sia un fattore fondamentale per l’efficienza e l’efficacia del modo in cui i servizi operano. Le autrici suggeriscono, a più riprese, che a questo possano contribuire le qualità del paesaggio non urbano nel quale in alcuni casi i servizi possono essere inseriti. Ma è proprio nelle situazioni nelle quali il tessuto urbano si fa più aspro e duro, contesti che per molti cittadini rappresentano il perimetro stretto in cui si articola una vita quotidiana a mobilità ridotta, che la funzionalità, l’appropriatezza, la bellezza degli spazi nei quali agiscono e si sviluppano i servizi sociali divengono necessarie e persino urgenti. Spazi del welfare progettati ex novo o ripensati e

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Letture riadattati per essere belli, laddove la bellezza non sia una qualità estetica a sé stante, ma scaturisca e sia espressione dell’interazione e della coerenza tra gli obiettivi e gli approcci degli interventi, le attività progettate e sviluppate, le persone che le realizzano e animano. Una bellezza che operi dunque a contrasto o, ancor meglio, in prevenzione dello stigma che troppo spesso accompagna i luoghi del welfare, identificandoli agli occhi dei più come luoghi dell’assistenza e, in quanto tali, luoghi per assistiti e assistenti. In questo senso, un diverso sguardo sui luoghi del welfare ci dovrebbe interrogare anche in merito al lessico con cui li si racconta. La crisi ha reso indifferibile innovare i servizi di welfare, a diversi livelli. L’innovazione, tuttavia, rischia paradossalmente di divenire un ulteriore fattore di esclusione e disuguaglianza, se rimane confinata a casi circoscritti nel tempo e nello spazio (Bricocoli, Sabatinelli 2016). Per questo, come sottolineano le autrici, è importante che strutture e interventi innovativi siano radicati in reti estese, che assicurino percorsi sicuri lungo le filiere del sostegno e in particolare con le amministrazioni pubbliche, l’unico attore a poter assicurare impatti significativi. In più, verrebbe da dire, sono le situazioni nelle quali le amministrazioni pubbliche, pur senza dirigerle né imporle dall’alto, orientano le innovazioni, realizzate in partnership con attori privati e in particolare non profit, quelle in cui le ricadute in termini di apprendimenti, trasferibilità e upscaling sono più importanti. Il carattere territoriale della ricerca qui presentata è funzionale alla sua natura fortemente applicata e alla possibilità di realizzare affondi su casi specifici che consentono di indagare l’insieme di caratteri strutturali, approcci, modalità organizzative ed esiti. Al tempo stesso, è auspicabile che altri contesti regionali e territoriali siano messi sotto osservazione con analoghi obiettivi, e che i risultati siano messi a sistema, al fine di poter comporre il puzzle delle modalità – anche spaziali – di intervento sociale nel nostro paese, compararle e trarne apprendimenti di ordine più generale, utili per tutti gli attori in campo.

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Riferimenti bibliografici Bricocoli M. Sabatinelli S. (2016), “Lo spazio dell’innovazione sociale”, in Sordelli G., Il processo progettuale, La Spezia, Fondazione Carispezia, pp. 58-67. Castel R. (1995), Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Fayard, Paris.

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Letture

Daniela Poli

La rinascita dei territori interni fra memoria e innovazione

Lidia Decandia e Leonardo Lutzoni La strada che parla. Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana Franco Angeli, Milano 2016 pp. 246, € 32,00 Lidia Decandia e Leonardo Lutzoni descrivono minuziosamente il contesto e le dinamiche socio-economiche dell’area del monte Limbara nel nord della Gallura che usano come campo di sperimentazione per affinare riflessioni, metodologie e azioni attorno alla rinascita delle aree interne. Il testo, riccamente illustrato e piacevole alla lettura, condensa un lavoro di ricerca-azione che ha coinvolto gli studenti del corso di ‘Progetto nel contesto sociale’ e il Laboratorio Màtrica dell’Università di Sassari, la comunità locale di Calangianus assieme a numerosi intellettuali e artisti provenienti dal resto dell’Italia. Il tema affrontato dagli autori è uno dei più rilevanti nel panorama della pianificazione e progettazione del territorio di questo inizio di millennio e riguarda le strategie di riconoscimento e valorizzazione delle aree interne, per le quali il Ministero per la Coesione Territoriale e Mezzogiorno sta attivando strategie e piani. Le aree interne ammontano a circa tre quinti del territorio italiano con poco meno di un quarto della popolazione, hanno caratteri diversi, presentano traiettorie di sviluppo spesso fragili, ma possono vantare risorse specifiche, endo-

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gene (ambiente, paesaggio, qualità della vita, ecc.) di gran lunga superiori rispetto ai contesti metropolitani attrattivi per funzioni e servizi polarizzanti. Si tratta di aree che sono rimaste ai margini del processo di industrializzazione e che l’economista Alberto Bertolino definiva nel dopoguerra, con un termine inconsueto e gentile, aree depresse (Becattini 2010) e non arretrate come erano normalmente e con più leggerezza nominate perché incapaci di stare al passo con i tempi veloci e rutilanti dell’industrializzazione nascente. Erano periodi in cui si parlava di industria pesante, di aree da trasformare integralmente con poli chimici (come il porto Marghera), in cui si mortificava l’artigianato locale e l’agricoltura per concentrare popolazione nelle aree industriali L’unico indicatore di benessere economico, il Pil, ignorava il tema oggi molto in voga della felicità pubblica, contrapponendo all’uscita dalla segregazione domestica delle donne o all’accesso a spettacoli cinematografici, l’acquisto di automobili e di suppellettili senza curarsi della distruzione dell’ambiente e del paesaggio o dell’instaurarsi di rapporti umani improntati sempre più sulla logica dello scambio. Oggi gli effetti di quel modello di sviluppo sono sotto gli occhi di tutti e proprio quei contesti che hanno avuto la fortuna di arrivare tardi allo sviluppo (Hirschman 1963) o di non arrivarci per niente hanno davanti a sé la possibilità di individuate sentieri di sviluppo alternativi in grado di fondare la ricchezza e la pienezza delle società locali sulla riscoperta e la risignificazione dei tanti patrimoni territoriali, materiali e immateriali, di cui le aree interne sono dense. Il volume smonta e rimonta con la cura e la precisione di un orologiaio i passaggi salienti che hanno portato alla grande trasformazione nella Gallura: l’invenzione della Costa Smeralda che in pochi anni ha cambiato l’identità del territorio. Un fenomeno tipico di molti altri contesti italiani, che in Sardegna ha trovato una sua amplificazione. L’Italia è caratterizzata da un sistema morfologico geograficamente ravvicinato e direttamente interconnesso fra montagna, collina e pianura che rappresenta

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Letture la struttura dominante del territorio nazionale, comprese le isole, dove la componente montana e collinare arriva al 76,2% (montagna 35,2% e collina 41%). Vuoi per la presenza di aree malariche o dell’inaccessibilità, molti dei contesti italiani erano radicati nell’interno: le Cinque Terre sono appunto terre e non coste, che hanno sviluppato un’agricoltura eroica sulle erte pendici che affacciano sul mare, Massa Marittima guarda dalla collina il mare interno delle paludi e quello esterno del Tirreno, la penisola amalfitana era abbarbicata sui monti Lattari prima di venire attraversata dalla strada marittima e diventare famosa come Costiera Amalfitana. Fino agli anni ’50 in Gallura la vita si svolgeva nella rete dei centri rivolti verso la montagna di Limbara, un ‘luogo sacro’ utilizzato per la caccia e l’allevamento, il cuore, il riferimento identitario di un’area chiamata allora ‘Monti di Mola’. Nello stesso momento in cui l’Italia scommetteva sull’industrializzazione di città e di pianure, abbandonando allo spopolamento ampie aree collinari e montane, la bellezza del mare gallurese giocava un ruolo determinante nell’invenzione della Costa Smeralda, una meta di svago globale, una Las Vegas della vacanza immersa nel verde e nella pace. Si passa in breve a un sistema «fortemente ‘striato: una sorta di ‘territorio infeltrito’ in cui la città costiera, come una sorta di magnete, ha attratto le ‘polveri sparse’ sul territorio, lasciando nelle aree interne un arcipelago di piccoli centri separati da spazi di ‘enorme solitudine’» (p. 12). La popolazione si concentra soprattutto nella nuova città del turismo marittimo, che genera nuovi orizzonti e nuovi mondi d’impresa. La sola Olbia in cinquanta anni è passata da circa 18.000 a circa 54.000 abitanti. La tesi degli autori, che si iscrive nel solco degli studi che indagano sulla post-metropoli (Brenner 2014; Sennet 2008; Soja 2010, 2011) e degli studi sulla diffusione dell’urbanità in ambito montano (Dematteis 2010; Diamantini 2015), è volta a rafforzare la nuova forma di urbanità dilatata che mostra necessità urgente di natura e «sembra spingere questo uomo urbano, quell’uomo ‘laborans’ come lo definisce il sociologo Byung-Chul, sempre più demotivato, apatico e depresso, ammalato di velocità e di incapacità di fermarsi e scoprire spazi silenti di questa terra» (p. 36). Gli autori mettono in luce un sistema insediativo fondato sulle nuove forme di interrelazione fra la costa urbanizzata e trainante e l’interno spopolato, in cui emergono

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nuove urbanità dilatate che ruotano attorno ad alcuni capisaldi: la città costiera, il tessuto dell’interno, il vuoto ricco di senso, l’itineranza fra la costa e l’interno. L’urbanità ampia e itinerante della Gallura proveniente anche da contesti globali trova conforto nella riscoperta di nuove forme di ritualità e d’incontro che si appoggiano ai luoghi di natura e di storia come il monte Limbara, dove è possibile apprezzare il silenzio, godere della natura, di spettacoli musicali, di passeggiate in contesti paesaggisticamente eccellenti come sottolinea anche il sociologo post-moderno francese Michel Maffessoli più volte citato nel testo. La lettura dei patrimoni territoriali posti all’interno di un frame concettuale che li vede prioritariamente riscoperti per la rigenerazione dei cittadini in cerca di un nuovo senso di sé, un tassello prezioso dell’urbanità diffusa, ha reso talvolta poco evidente il ruolo e la potenzialità di rinascita endogena del territorio. Numerosi esempi che fanno riferimento ad associazioni come la Rete del ritorno ai paesi abbandonati o desumibili in letteratura di vari movimenti di ritorno alla terra e alla montagna (Agostini 2015; Corti, De La Pierre, Agostini 2015) mostrano come intorno alle comunità del cibo, ai sistemi agroalimentari locali, al recupero delle acque, del bosco o dell’energia, stia maturando una nuova società locale agro-terziaria tipica dei territori interni, vivace, colta e complessa in cui si ritrovano saperi di coloro che rientrano con quelli che sono rimasti e con coloro che arrivano per la prima volta. Questo incontro si concretizza in produzioni socio-economiche che attivano varie filiere integrate agricoltura-artigianato-cultura-turismo, che finalizzano lo sviluppo economico alla crescita e al benessere della società locale avvalendosi anche di interazioni importanti con le città vicine, come quelle dell’arco alpino o dell’osso appenninico (Dematteis 2011; Corrado, Di Bella, Porcellana 2013). L’antropologo Pietro Clemente impegnato da tempo in questa rinascita dei paesi nei territori interni sottolinea in una bella intervista alla Nuova Sardegna del 2016 come sia necessario combattere la rassegnazione e come la tutela dei paesi e del territorio «dev’essere vissuta come impegno civile» e ricorda come ad Armungia un’iniziativa locale con metodo e determinazione ha saputo calamitare iniziative produttive che hanno riportato la tessitura, la bottega del fabbro e di prodotti alimentari in un paese in via di estinzione (Mameli 2016). Appaiono così due ipotesi di lavoro

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Letture che trovano interessanti terreni di confronto nella riscoperta dei patrimoni territoriali locali da cui emerge un diverso gradiente di internità e esternità nella strategia di rivitalizzazione dei territori. Se in un caso i patrimoni territoriali vedono la loro valorizzazione prioritaria come complemento di un’urbanità estesa da cui possono scaturire opportunità di sviluppo locale, nell’altro caso i patrimoni territoriali sono intesi quale ancoraggio per la riscoperta e la messa in valore integrata di economie endogene complesse come alimento per le società locali aperte all’interazione con contesti urbani. Nella parte del testo dedicata ai nuovi dispositivi di progetto sociale, gli autori puntano sull’avvio di nuove forme di abitare e sulla possibile invenzione di nuove economie locali tramite la definizione di ‘contesti coevolutivi’ in cui l’intelligenza collettiva e connettiva viene messa al lavoro anche in maniera informale per evitare il rischio di ulteriori possibilità di etero-direzione come più volte è accaduto nella storia della Sardegna. Per ottenere questo risultato il gruppo di lavoro ha agito costruendo ‘veri e propri cantieri coevolutivi’ di apprendimento relazionale che sono stati messi in atto per avviare l’interazione sociale e per immaginare collettivamente il rilancio del territorio. Un vecchio tracciato ferroviario è usato come pretesto per attivare un ‘processo collettivo e conviviale’ che ha coinvolto una comunità varia e articolata formata da studenti universitari, docenti, ricercatori, soggetti locali, esperti di varie materie, musicisti e artisti nello scoprire e nel riannodare i saperi latenti del territorio. Quella strada è diventata il contesto privilegiato della ricerca-azione che ha portato l’università a trasferirsi «momentaneamente in un brano di campagna» (p. 40) per aprirsi alla possibilità di costruire collettivamente un’immagine di futuro in cui poter riannodare le memorie del passato con i segni del territorio. Citando una bella frase di Walter Benjamin (1997), gli autori auspicano di poter riconoscere un significato importante al presente e «incendiare il materiale esplosivo riposto in ciò che è stato» (p. 64). Il libro con i suoi contenuti innovativi contamina il lettore e ottiene il risultato voluto di essere un «sasso gettato nello stagno» (p. 13) che si allarga in circoli virtuosi a contaminare ciò che sta nel suo raggio d’azione. Come una màtrica, quella parte di yogurt sardo (gioddu) che viene messa da parte per riattivare il latte e formare nuovo yogurt, il libro

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è un ‘dispositivo fermentante’ che restituisce un’esperienza collettiva densa di formazione, didattica, azione e progetto che è da augurarsi si diffonda in molti contesti universitari e si espanda collocando in uno spazio più contenuto valutazioni, referaggi e procedure burocratiche che stanno con molta pervasività invadendo tutti i campi della formazione e del sapere. Riferimenti bibliografici Agostini I. (2015), Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana, Ediesse, Roma. Becattini G. (2010), “La lunga marcia degli studi economici verso il territorio”, Contesti, n. 2, pp. 31-6. Benjamin W. (1997), Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino. Brenner N. (a cura di, 2014), Implosions/Explosions: Towards planetary urbanization, Jovis, Berlin. Corrado F., Di Bella E., Porcellana V. (a cura di, 2013), Nuove frontiere della ricerca per i territori alpini, Franco Angeli, Milano. Corti M., De La Pierre S., Agostini S. (2015), Cibo e identità locale. Sistemi agroalimentari e rigenerazione di comunità. Sei esperienze lombarde a confronto, Centro Studi Valle Imagna, Bergamo. Dematteis G. (2010), “Città delle Alpi distinte e connesse”, Economia Trentina Dossier, n. 2/3. Dematteis G. (a cura di, 2011), Montanari per scelta. Indizi di rinascita nella montagna piemontese, Franco Angeli, Milano. Diamantini C. (2015), “About mountains becoming cities”, in De Marco R. Mattiucci C. (a cura di), Territoires en débat, Professional Dreamers, Trento. Hirschman A.O. (1963), The strategy of economic development, Yale University Press, New Haven. Mameli G. (2016), “Sos spopolamento. L’isola non vuol essere un museo all’aperto”, La Nuova Sardegna, 19 giugno. Sennett R. (2008), “The open city”, in R. Burdett, D. Sudjic (a cura di), The endless city: The urban age project, Phaidon, London. Soja E.W. (2000), Postmetropolis: Critical studies of cities and regions. Blackwell, Oxford. Soja E.W. (2011), “Regional urbanization and the end of the metropolis era”, in Bridge G., Watson S. (a cura di), The new Blackwell companion to the city, Wiley-Blackwell, Cambridge (MA). (ibidem) le letture di Planum. The Journal of Urbanism n.7 2017/1| www.planum.net


Storia di copertina

Trame di spazi e di storie «Nel quartiere di Venezia di cui parlo, non si odono che i poveri rumori quotidiani, i giorni trascorrono monotoni quasi fossero un unico giorno, e le canzoni che si odono sono lamenti crescenti che non si alzano ma gravano come fumo ondeggiante sulle vie. Appena sceso il crepuscolo un popolo timido e cencioso erra per quelle strade, innumerevoli bambini si ritrovano sulle piazze e sugli stretti, freddi usci; giocano con frammenti di vetro e detriti di smalto variopinti, lo stesso con cui i maestri composero i solenni mosaici di San Marco» R. M. Rilke, 1904, Geschichten vom lieben Gott

Con il progetto del fotografo Cosmo Laera questo numero di (ibidem) entra nel Ghetto di Venezia, un luogo che, per la sua natura di recinto, riconosciamo immediatamente come estraneo al tessuto urbano della città lagunare. Una cesura segnata anche dal linguaggio utilizzato nelle architetture e nell’edilizia minore e che lo stile sobrio e scorrevole del progetto fotografico La trama del ghetto riesce a restituire. Il concetto di trama utilizzato dall’autore si riscontra nella scansione ritmica dello spazio, prodotta dall’alternanza tra i pieni verticali dell’edilizia e la giustapposizione orizzontale dei vuoti. Non è però una trama lineare, dipende dal fattore tempo, ciò che noi vediamo oggi è infatti esito di un processo di trasformazione durato anni: le innumerevoli storie del passato, fatte di esigenze personali e collettive, o di scelte altrui, si sono sedimentate fisicamente negli spazi dove oggi convivono in equilibrio con quelle dei nuovi abitanti. Trame di spazi e trame di storie si sovrappongono. Il passato è quindi presente, non è solo sopravvissuto ma è attuale, tangibile e coerente con la sua storia e vive attraverso nuovi stili di vita. La presa d’atto di questa ‘convivenza’ anche entro il ghetto, sinonimo di emarginazione e di controllo assoluto, sta alla base di questo progetto fotografico in cui l’Io narrante si sposta in un abitante o in un passante, in base a chi o dove si guarda la foto diventa un rabbino, una bambina che indossa uno zaino, una madre che guarda i suoi figli, uno studente o un turista. Viene così demandato ai soggetti che popolano gli spazi il compito di informare su come abitarli, sugli usi e sulle contraddizioni che inevitabilmente si creano nella vita attiva di una città consolidata. La loro presenza diventa occasione per

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proiettare il passato nel presente. In questo modo di procedere il silenzio diventa elemento fondamentale. Tipico di questi luoghi ma anche di una città come Venezia, che non produce la varietà di rumori e suoni che normalmente caratterizzano le città contemporanee, il silenzio induce al rispetto e conduce alla contemplazione. La trama è un elemento ricorrente nella ricerca di Cosmo Laera. Da tempo i suoi progetti si concentrano su una lettura del territorio che passa attraverso la presenza dell’uomo e del suo operato. La fotografia non vuole essere semplice esercizio di stile ma piuttosto portare lo spettatore alla riflessione. Anche il prossimo lavoro su Gibellina, in Sicilia, documenterà un territorio fatto di storie, luci e di coinvolgimenti umani, diversi naturalmente da quelli del ghetto o dei territori delle altre campagne fotografiche. Nei lavori per Matera, Benevento, Milano, L’Aquila oppure nei percorsi lungo la costa emerge la necessità di evidenziare la sovrapposizione e giustapposizione di trame, perché il mondo stesso non è altro che un tessuto di storie da raccontare attraverso le fotografie. N.V. Cosmo Laera (Alberobello, 1962), da trent’anni fotografo, curatore di mostre, festival e rassegne internazionali, ha creato e diretto quattro edizioni di Montedoro Fotografia e nove edizioni di Alberobello Fotografia / Fotografia in Puglia. È stato direttore artistico di Corigliano Calabro Fotografia e del settore fotografico della Vedetta sul Mediterraneo a Giovinazzo (Ba). Dal 2006 insegna fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Vive e lavora tra Milano e Alberobello.

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Gli autori

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Luigi Bobbio Dipartimento di Culture, Politica e Società Università di Torino lubobbio@libero.it

Francesca Mattei Politecnico di Milano Polo territoriale di Mantova francesca.mattei@polimi.it

Massimo Bricocoli Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano massimo.bricocoli@polimi.it

Giancarlo Paba Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze giancarlo.paba@unifi.it

Gian Piero Calza Storico della città e del territorio giampiero.calza@polimi.it

Daniela Poli Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze daniela.poli@unifi.it

Alberto Clementi Dipartimento di Architettura Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara a.clementi07@gmail.com Andrea Di Giovanni Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano andrea.digiovanni@polimi.it Silvia Gugu Ricercatrice indipendente gugusil@yahoo.com

Stefania Sabatinelli Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano stefania.sabatinelli@polimi.it Francesco Ventura già ordinario di Urbanistica Università degli Studi di Firenze fraventosalve@gmail.com

Cosmo Laera Fotografo Accademia di Belle Arti di Brera www.cosmolaera.com | cosmo.laera@gmail.com Giulia Marra Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano giulia.marra@polimi.it

Segnalazioni e proposte di collaborazione si ricevono all’indirizzo email: planum.books@gmail.com. Il prossimo numero di (ibidem) n.8 2017/2 sarà disponibile a novembre.

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Arnaldo Cecchini e Ivan Blecić, Verso una pianificazione antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo, Franco Angeli, Milano 2016. Tommaso Vitale e Roberto Biorcio, a cura di, Italia civile. Associazionismo, partecipazione e politica, Donzelli, Roma 2016. Davide Cutolo e Sergio Pace, a cura di, La scoperta della città antica. Esperienza e conoscenza del centro storico nell’Europa del Novecento, Quodlibet, Macerata 2016. Giuseppe Gisotti, La fondazione delle città. Le scelte insediative da Uruk a New York, Carocci, Roma 2016. Donatella Calabi, Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del «recinto degli ebrei», Bollati Boringhieri, Torino 2016. Joel Kotkin, The Human City: Urbanism for the Rest of Us, Agate B2, Chicago 2016. Alberto Clementi, Forme imminenti. Città e innovazione urbana, ListLab, Rovereto 2016. Lucina Caravaggi e Cristina Imbroglini, Paesaggi socialmente utili. Accoglienza e assistenza come dispositivi di progetto e trasformazione urbana, Quodlibet, Macerata 2016. Lidia Decandia e Leonardo Lutzoni, La strada che parla. Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana, Franco Angeli, Milano 2016.

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