Plot storie per lo schermo/annoIII/numerocinque/settembre2005
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ISSN 1723-5057
storie per lo schermo
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storie per lo schermo Rivista quadrimestrale - anno III / numerocinque / settembre 2005 Registrazione Tribunale di Torino N°5716 del 21 luglio 2003 Direttore responsabile Alberto Barbera Redazione Andrea Bisoli Stefano Boccardo Biagio Cappiello Roberta Di Maggio Anna Gasco Helen Jardine Silvia Teresa Olivo Tiziana Ripani con la collaborazione dei Masterandi in Editing e scrittura di prodotti audiovisivi del Virtual Reality & Multi Media Park di Torino: Dario Basile Giulia Marcucci Andrea Pegolo Mario Pistacchio Armando Vertorano
S OMMARIO Editoriale a cura di Gianfranco Pannone
DOCUMENTARI
Segreteria di redazione Tiziana Ripani Coordinatore Affabula Readings Stefano Boccardo Progetto grafico Antonino Varsallona Copertina Antonino Varsallona Ufficio stampa e promozione Marta Franceschetti Redazione e amministrazione Associazione F.E.R.T. - programma Affabula Readings Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino Tel. +39 011 532 463 - Fax +39 011 531 490 E-mail: info@affabula.it www.affabula.it www.fert.org Editore Fert Rights srl Corso Peschiera 148 - 10138 Torino Stampa Arti Grafiche Giacone sas Viale Fasano 14 - 10023 Chieri (TO) Distribuzione in libreria DIEST distribuzione Via Cavalcanti 11 - 10132 Torino Tel./Fax 011 898 11 64
©Associazione F.E.R.T., 2005
Tutti i diritti di riproduzione dei materiali contenuti nella rivista sono riservati.
B-Mex di Jesùs Garcès Lambert
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La voce Stratos di Luciano D’Onofrio e Monica Affatato
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Mandylion di Adolfo Conti
pag. 19
Eppur si fonde di Anna Maria Dal Pane
pag. 27
Sulle tracce di Giovanni Piras di Chiara Bellini e Faustina Hanglin
pag. 35
Santa Muerte di Lucio Apolito
pag. 51
Prigionieri dell’apartheid I reclusi di Robben Island di Massimo Sani
pag. 61
Ulisse, un eroe del nord di Fabio Toncelli
pag. 71
Come inviare i vostri progetti Opzioni cercasi Dove trovare Plot
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B-MEX Il cinema messicano di serie B di Jesùs Garcès Lambert DURATA: SERIE DI DOCUMENTARI 3 X 26 MINUTI, OPPURE SINGOLO DOCUMENTARIO DA 52 MINUTI
L’interesse e talvolta la necessità dell’analisi del cinema di serie B deriva dal fatto che esso, molto più del cinema d’autore, che il più delle volte resta legato ad una poetica singolare, non solo rispecchia i processi culturali, le sensazioni e spesso le emozioni di una determinata società in un determinato tempo ma, basta guardare Mario Bava in Italia o Roger Corman negli Stati Uniti, influisce e contamina il cinema “mainstream”. La realtà messicana evidenziata da Garcès Lambert si snoda attraverso filoni niente affatto distanti da quelli a noi ben noti quali l’horror, i giustizieri mascherati o le icone sexy, eppure l’autore ci presenta i tratti ben marcati di un Messico dalle radici solide e dall’immaginario straordinariamente ricco, quasi eccessivo nel suo sovrapporre e mescolare gli elementi, i simboli, gli stereotipi cinematografici più disparati.
Parlare di cinema messicano di serie B è parlare dell’immaginario popolare latino-americano e di un Paese del Terzo Mondo che per alcuni anni ha creduto di essere quasi al livello degli Stati Uniti, suo amato-odiato vicino; è scoprire dei supereroi alla messicana devoti alla Madonna di Guadalupe; è essere spettatori delle fantasie e delle paure ataviche di un popolo trasformate in uno spettacolo collettivo, ancora vivo e molto presente nella vita quotidiana delle persone. Chi tra i latino-americani non ha mai sentito parlare nella sua vita di El Santo? Oppure di Tongolele? O della Regina Vampiro? Tutti questi miti hanno delle storie legate all’evoluzione di un popolo e alla sua industria cinematografica. B-Mex vuole far conoscere questi film come documento storico di un Paese in cambiamento ed individuare le influenze che essi hanno avuto su registi famosi in tutto il mondo e i loro contributi al panorama cinematografico. Jesùs Garcès Lambert
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Vampiri, gangster, prostitute, mummie, lottatori mascherati, rumberas (donne da cabaret) sono solo alcuni dei temi e dei personaggi trattati dal cinema messicano di serie B, un tipo di cinema praticamente sconosciuto in Europa, con un suo universo tutto da scoprire. B-Mex affronterà per la prima volta i tre filoni più importanti del cinema di serie B e la loro evoluzione dall’epoca d’oro del cinema messicano fino ai giorni nostri, scoprendone il fascino che ha influenzato registi del calibro di Robert Rodriguez e González Iñárritu. Per meglio capire questo fenomeno storico, molto vivo tra la popolazione messicana, la serie si strutturerà in 3 puntate di 26 minuti ciascuna: Tra ring e malvagi: lottatori mascherati contro il male, Si vende piacere: dalle rumberas alle ficheras, Film da urlo: horror made in Mexico. B-Mex sarà un viaggio all’interno dell’universo fantastico messicano, un viaggio tra le icone che hanno trasformato e conformato generazioni di messicani, un viaggio in un Messico che vive profondamente il suo cinema e i suoi miti. Il tono della serie sarà dato dal genere, l’atmosfera sarà rarefatta, alcune volte evocativa, altre volte estrema, altre ancora sensuale ed eccitante.
TRA RING E MALVAGI: LOTTATORI MASCHERATI CONTRO IL MALE Il 1952 segna l’inizio di una corrente cinematografica che si sarebbe rivelata tra le più importanti del cinema messicano: il cinema d’azione combinato con l’horror e la lotta libera. In quell’anno nasce Il mascherato d’argento, il comic settimanale creato da Josè G. Cruz; in quello stesso anno iniziano le riprese de La bestia magnifica, El luchador fenòmeno (Il lottatore fenomeno), El enmascarado de plata (Il mascherato d’argento). In questo primo stadio i film erano ispirati alla vita dei lottatori più che alle loro lotte e prodezze. I protagonisti di turno (i più famosi e importanti erano El Santo e Blue Demon), vulnerabili come qualsiasi mortale, affrontano tentacolari organizzazioni criminali, esseri dell’oltretomba e creature fantastiche sorte dalle leggende, dal ricco immaginario e dalle paure ataviche dell’uomo. El Santo, il più famoso lottatore mascherato, interpretava sempre lo stesso ruolo, quello di un agente segreto in missione speciale che agiva laddove la forza convenzionale della legge non riusciva a farcela: il mondo del soprannaturale e la malignità assoluta dell’essere umano. Come Batman e Superman, egli vive un doppio ruolo: il lottatore professionale di notte e il difensore del bene di giorno. Per combattere il male El Santo affronta mostri, streghe, zombie, lupi mannari, vampiri, robot, extraterrestri, neo-nazi ed esseri di qualsiasi tipo, uscendone sempre incolume. Non solo azione, ma anche amore: donne che si innamorano del nostro eroe; location esotiche quali Haiti, Hawaii, il deserto, la città; ovunque ci siano cattivi, il James Bond mascherato messicano è lì. Con gli anni questi film si sono evoluti: dapprima la trama era molto semplice poi, con l’arrivo del colore negli anni ’60, l’estetica e la trama si fecero via via più complesse e l’iconografia più barocca. Già negli anni ’70 i produttori, per conquistare più facilmente altri mercati e per non rovinare quello nazionale, cominciarono a produrre film con doppia versione: una pornosoft per i mercati esteri e una senza nudi per il mercato messicano, composto soprattutto da famiglie cattoliche. Tra le figure più importanti di questa corrente cinematografica possiamo parlare di Renè Cardona, il primo regista a realizzare un film di lotta, El murcièlago Velázquez, il primo lottatore a portare la maschera, sceneggiatore e sciamano, ovviamente El Santo e Blue Demon, Josè G. Cruz, il creatore del comic di lottatori, importante precedente per i film.
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NOTE DI REGIA Le interviste si svolgeranno su un quadrato di lotta, sotto la Madonna di Guadalupe, nei santuari della lotta libera. Alcune sequenze degli incontri di lotta e dei film di riferimento serviranno per arricchire e far capire il meccanismo della creazione del mito e della passione dei messicani per i suoi protagonisti. Si prevede di intervistare Robert Rodriguez (regista), Alejandro González Iñárritu (regista), El Santo (lottatore, attore e mito), Renè Cardona III (regista e figlio del primo regista che realizzò un film di lottatori), Blue Demon (lottatore, attore e mito), Mil Mascaras (lottatore, attore e mito), Josè Buil (regista di La leyenda de una mascara), García Blanco (critico cinematografico), Armando Barta (studioso di culture popolari), Josè Rodriguez (creatore di maschere di lottatore), Lorena Velázquez (attrice), Sangre Azteca (lottatore), Black Warrior (lottatore), Nelson Carro (critico cinematografico), Killer Film (critico mascherato), Lourdes Grobet (fotografa di scena).
SI VENDE PIACERE: DALLE RUMBERAS ALLE FICHERAS Nel cinema messicano la donna è stata amata, disprezzata, venerata, desiderata e alcune volte inventata: dalle prostitute alle madri più devote, dalle dee irraggiungibili alle invincibili maschiacce. Una prostituta, Santa, ha inaugurato il cinema sonoro messicano diventando un mito. Con Santa, nel 1931, inizia la ruota dei personaggi femminili, di donne buone e allo stesso tempo cattive. Lei è l’oggetto del desiderio degli uomini, vittima della sua ingenuità, e paga l’immoralità con la malattia e la morte. Questi personaggi femminili rappresentano “l’altra”, la desiderata ma mai posseduta, l’effimera bellezza che induce al peccato attentando al solido focolare cristiano, la cui fragilità morale è alla fine castigata dal destino. Queste donne incarnano una complessa serie di archetipi radicati nella tradizione e nel tessuto sociale messicano e questa è l’unica forma lecita per i messicani “per bene” di compiangere la caduta nel peccato. Dopo questa serie di film, il cinema messicano inizia a vivere la cosiddetta “epoca d’oro” dove la donna assume i ruoli della madre devota, della bella dalle brave abitudini, della donna di campagna nazionalista. Proprio allora però nasce un altro personaggio femminile, questa volta asessuato: quello della nonna del cinema messicano, Sara García, che con dolcezza e bontà diventa più macho degli uomini della comunità. Durante la presidenza di Miguel Alemàn (1946-1952), il cinema riflette lo sviluppo del Paese inviando al mondo un messaggio di liberazione e di clima cosmopolita. Il cinema si lascia alle spalle tutte le ripetitive formule dell’epoca d’oro e torna in auge il tema della donna che dà piacere. Le protagoniste di quest’epoca sono le rumberas, ovvero le donne da cabaret che cantano e ballano. Si apre così la strada a un vero e proprio star system messicano, al glamour allo stato puro. In questo periodo la prostituzione è vista come una liberazione dall’ordine prestabilito, liberazione che prima si gode e poi si paga. Il film più rappresentativo di questo cinema di rumberas è l’Avventurera, per la regia di Alberto Gout, con Ninon Sevilla che interpreta una ragazza di campagna ingannata che finisce in un bordello dove affascina i clienti a suon di mambo e balli esotici. A differenza delle ragazze di campagna che cadono vittime del loro peccato, lei assume le vesti dell’esecutrice e si vendica di tutti quelli “di buona coscienza”. Il regista, coreografo, sposo e talent scout delle più importanti rumberas è stato Juan Orol, mitico realizzatore spagnolo, trapiantato in Messico, che crea uno stile di regia particolare, quello dello “sbaglio non comandato”. Con i suoi film ingenui, potrebbe essere visto come l’Ed Wood messicano.
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Questo genere cinematografico mostrava la vita nei quartieri poveri della città e rifletteva la crescente urbanizzazione del Paese: bisogna tener presente che, tra il 1940 e il 1950, la popolazione di Città del Messico aumentò come mai prima nella storia. Nel 1976 il presidente Josè Lopez Portillo nominò come direttrice della Radio Television y Cinematografia Mexicana la propria sorella la quale divenne in tal modo il massimo referente dei mass media messicani, ma creò una situazione disastrosa per il cinema. Il cinema statale affondò nel mare dei debiti governativi mentre l’industria privata approfittò del buco creato dalla nuova politica di distribuzione cinematografica, producendo film a basso budget, a base di sesso e linguaggio osé. Nel 1974, con la produzione di Bellas de noche (Belle di notte) e Las Ficheras (Le fichere), inizia un nuovo ciclo chiamato il cinema di ficheras, cabaret e doppi sensi. A differenza delle rumberas, queste nuove dame della notte sono prostitute da pochi soldi, pagate con delle fiches, da cui il nome. Lo star system subì in tal modo una notevole modifica, volgarizzandosi fino a quasi scomparire, ma lasciò una traccia indelebile nell’immaginario narrativo messicano.ù NOTE DI REGIA Il tono sarà più sensuale, carnale e ricco di glamour. Le interviste saranno realizzate in un cabaret, in un cinema, in una casa del Pedregal. Per capire il rapporto tra i messicani e i cabaret, saranno usate le riprese all’interno di questi cabaret affiancate alle scene dei film di riferimento. Interviste previste: Salma Hayeek (attrice), Robert Rodriguez (regista), Rosa Carmina (rumbera), Tongolele (rumbera), Lin May (fichera), Lorena Velázquez (attrice), Chema Flores (musicista), Armando Barta (studioso di culture popolari), Josè Dias (amico di Juan Orol), El Santo (lottatore, attore e mito), Blue Demon (lottatore, attore e mito), Killer Film (critico mascherato), Luís Ortigosa (studioso di Juan Orol).
FILM DA URLO: HORROR MADE IN MEXICO Il Paese che ha avuto la filmografia horror piu prolifica del continente americano, dopo gli Stati Uniti, è stato il Messico. Tra i vari generi di horror che sono stati realizzati, il gotico è quello che ha avuto maggior rilievo, lasciandoci alcuni gioielli quali Dos monjes (I due monaci), El Fantasma del convento (Il fantasma del monastero) oppure El vampiro di Fernando Mendez, film precursore poiché per la prima volta un vampiro mostra i canini aguzzi. Christopher Lee li userà alcuni anni più tardi. Germán Robles, uno dei suoi protagonisti principali, crea una serie di personaggi fondamentali nel cinema di questo genere, con film quali La leyenda de Nosferatu (La leggenda di Nosferatu), La maldiciòn de la momia azteca (La maledizione della mummia azteca) e il già citato El Vampiro. La produzione di film horror assunse un’importanza tale che alcuni attori di fama internazionale come Boris Karloff e John Carradine lavorarono per questa industria. Di molti film sono state realizzate doppie versioni, una per il mercato messicano e un’altra per quello nordamericano. Tra i personaggi principali troviamo ovviamente il vampiro, il lupo mannaro, il ciclope, Frankenstein, la mummia, gruppi di morti viventi, nani maledetti, extraterrestri, squali e tanti altri. La fantasia e la magia messicana vengono profuse in questi film a basso costo per trasformarli, in alcuni momenti, in vere e proprie opere surreali.
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Tra i registi più importanti di questo genere possiamo citare Fernando Mendez, El Chano Urueta e il più interessante di loro, Carlos Enrique Taboada. Il cinema horror messicano continua con vivacità a produrre decine di film l’anno quali Il figlio di Hitler, Assassinato nel Fiume Tule. NOTE DI REGIA Il linguaggio sarà simile a quello del gotico messicano, con una fotografia molto contrastata e una colonna sonora densa di appoggi e sequenze dei film di riferimento. Interviste previste: Guillermo del Toro (regista), Germán Robles (attore), Ramón Obón (sceneggiatore), Renè Cardona III (regista), Lorena Velázquez (attrice), Chema Flores (musicista), García Blanco (critico cinematografico), la vedova di Enrique Taboada, El Santo (lottatore, attore e mito), Killer Film (critico mascherato), Armando Barta.
Jesùs Garcès Lambert nasce nel 1970 nella città più popolata del mondo: Città del Messico. Lavora come regista e autore di documentari, pubblicità, videoarte, teatro e cinema in America Latina, USA, Europa, Medio Oriente e Asia, vincendo importanti premi internazionali. Ha lavorato inoltre come creativo pubblicitario, come montatore e come fotografo. Dal 1996 vive a Roma. Appetitofilm è un’officina creativa che realizza prodotti audiovisivi e multimediali di alta qualità. Coniugando l’innovazione stilistica all’aggiornamento tecnologico, Appetitofilm è in grado di coprire tutte le fasi di un lavoro: ideazione, produzione e postproduzione. In Appetitofilm, nuovi talenti e professionisti affermati di diverse nazionalità collaborano fianco a fianco, ideando e realizzando format e trasmissioni televisive ad alto impatto, documentari, videoclip e spot pubblicitari.
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LA VOCE STRATOS Demetrio Stratos: VITAareaVOCE di Luciano D’Onofrio e Monica Affatato DURATA: 90 MINUTI CIRCA Senza dubbio mancava un documentario che raccontasse il percorso straordinario di Demetrio Stratos, la voce che ha rappresentato una specie di mito per una generazione che i miti li aveva quasi tutti abbattuti. Il racconto - lineare e cronologico - della vita di Demetrio Stratos ci è piaciuto anche perché incrocia una molteplicità di temi che permettono vari livelli di lettura, se vogliamo una lettura “multistrato”: è un discorso sulla voce che contiene anche un pezzo della storia e del costume italiani degli anni ’60 e ’70, è un incontro con le avanguardie artistiche internazionali di quegli anni e al tempo stesso una riscoperta della tradizione culturale e musicale mediterranea, aggiornata e contaminata. Ed è anche un’immersione nella politica e nella creatività dei movimenti degli anni ’70, visti attraverso gli Area che ne furono i portavoce più riconosciuti. A più di 25 anni dalla sua morte, la voce di Demetrio Stratos continua a suscitare entusiasmi ed emozioni. Il corpus del suo lavoro mostra un’eterogeneità unica, estendendosi dai territori della musica commerciale a quelli del rock, del jazz, della musica contemporanea e dell’avanguardia più radicale, sempre a livelli insuperati. Per estensione ed intensità, il carattere del suo lavoro assume l’inafferrabilità del mito, mito che egli realmente è stato per quegli anni, dei quali la sua voce rappresentava al massimo grado la volontà di cambiamento, di creazione del nuovo e di distruzione del dogma. Luciano D’Onofrio e Monica Affatato
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DI INTENTI
Il documentario vuole ripercorrere la storia della voce di Demetrio Stratos usandola come strumento per raccontare le vicissitudini di un artista e dell’ambito culturale, politico e storico in cui è potuto maturare ed “esplodere”. La struttura del documentario manterrà la divisione in capitoli biografici, così come appare nella stesura del soggetto. Sarà composto interamente da interviste girate ex novo e dal materiale di repertorio sia di tipo storico, riferito ai luoghi e alle situazioni citate, che di tipo musicale, filmati televisivi dei Ribelli, degli Area dal vivo, delle performance soliste di Stratos. È previsto un uso limitato di speaker per la sola lettura fuori campo di testi dell’epoca, di Stratos stesso o di altri. Il montaggio, come le riprese da effettuare ex novo, rimanderà alle tecniche cinematografiche dei periodi e degli ambienti trattati, appropriandosene in maniera attuale: per tutti gli anni sessanta dominerà il bianco e nero, poi inizierà a spuntare fuori il colore. Il ritmo non dovrà quasi mai essere volutamente ipnotico. Soprattutto negli anni ’70 e con gli Area la parola chiave dovrà essere consapevolezza. Al di là di ogni retorica, uno degli obbiettivi del progetto è quello di raccontare il personaggio Stratos, rispettando quella trasversalità che lo ha caratterizzato e che ne ha impedito un’appropriazione geografica e culturale unica. Trasversalità alla quale vorremmo essere fedeli nella realizzazione del documentario.
SOGGETTO Cos’è la voce? Da dove proviene? A queste domande fonologi, linguisti e antropologi danno risposte diverse e sovente discordanti. Dal punto di vista musicale la voce è l’unico strumento che non si può riporre in un astuccio. La voce la portiamo sempre con noi. La storia di ogni singola voce è quindi la storia della persona che la produce. Si può raccontare la storia di una voce? Demetrio Stratos nasce in Egitto da genitori greci e arriva in Italia negli anni ’60, per iscriversi all’università. Inizia a cantare - per caso, si dirà - e diventa la voce dei Ribelli, gruppo di punta del “beat italiano”: un cantante greco! Negli anni ’70 è tra i fondatori degli Area, uno dei più provocatori ed innovativi gruppi di pop sperimentale. Gli Area portano la ricerca musicale direttamente nelle strade e nelle manifestazioni, oltre che su disco e nei concerti. Le loro influenze spaziano dal rock al jazz alla musica contemporanea, dalla musica etnica all’elettronica. Un salto quantico, per un cantante-per-caso di soul e rhythm’n’blues. A partire dal lavoro sperimentale con gli Area, e parallelamente ad esso, Stratos inizia a studiare la voce come puro strumento musicale e sonoro, realizza dischi per sola voce e lavora con artisti del calibro di John Cage. Le registrazioni e le misurazioni effettuate nei centri di fonologia testimoniano che, oltre ad avere una gamma di emissione amplissima, ha la capacità di emettere due e anche tre suoni di frequenza diversa in contemporanea. Le sue ricerche rimangono feconde per chi si occupa della voce come strumento musicale, le sue sperimentazioni restano insuperate. La ricerca di Stratos ha segnato un punto di non ritorno nell’esplorazione della voce umana come strumento musicale, nell’abbandono del linguaggio verbale come forma unica e privilegiata di espressione musicale legata alla voce. MIGRAZIONI E NOMADISMI MEDITERRANEI - LE ORIGINI DI DEMETRIO STRATOS. Nella prima metà del secolo scorso l’Egitto era un protettorato inglese. Alessandria era un importante centro di irradiazione culturale ed una città cosmopolita che ospitava varie comunità ed etnie; tra queste
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una delle più radicate era quella greca. Il 22 aprile del 1945, in seno a questa comunità nasce Efstratios Demetriou, figlio di Janis Demetriou e Athanassia Archondoyorghi, proprietari di un negozio in cui producono e vendono cappelli. Efstratios vive qui fino a tredici anni, frequentando il Conservatoire National d’Athènes, dove studia fisarmonica e pianoforte, e la British Boys’ School, scuola di lingua inglese. A dodici anni suona già in giovani formazioni musicali. Musicalmente e culturalmente il piccolo Efstratios si forgia quindi in un ambiente mediterraneo nel quale le grandi influenze sono la tradizione greco-bizantina della famiglia e della comunità greca, la musica tradizionale araba e la produzione musicale radiofonica e discografica di origine anglosassone che in quegli anni vede nascere il primo rock’n’roll. Negli anni ’50 l’Egitto si autoproclama Repubblica e gli inglesi vengono cacciati. In seguito a tali turbolenze politiche, nel 1957 il giovane Efstratios viene mandato a studiare nel collegio cattolico di Terrasanta a Nicosia, sull’isola di Cipro, dove impara l’italiano. Dopo un paio d’anni Efstratios viene raggiunto a Nicosia dalla famiglia che, in seguito alla nazionalizzazione delle imprese attuata in Egitto dal Presidente Nasser, ha perso ogni avere. A diciassette anni Efstratios termina il suo corso di studi e nel ’62 decide di trasferirsi a Milano dove può iscriversi all’università. MILANO “BEAT” E RIBELLE A Milano si iscrive alla Facoltà di Architettura del Politecnico dove conosce Daniela Ronconi che sarà la compagna della sua vita. Perfeziona l’italiano anche attraverso un’assidua frequentazione dei cinema. Nel ’63, insieme ad alcuni coetanei, forma un gruppo musicale studentesco in cui suona le tastiere. Il gruppo inizia presto ad esibirsi nelle sale da ballo. Una sera, in seguito ad un incidente automobilistico senza ulteriori conseguenze, il cantante del gruppo rimane bloccato e non può raggiungere il resto della band. Per salvare la situazione Stratos s’improvvisa cantante e al pubblico piace: si inaugura così casualmente la sua carriera vocale. Nel frattempo suona l’organo come turnista negli studi di registrazione milanesi. Conosce in breve tempo tutti gli esponenti del milieu musicale che in quegli anni hanno dato vita al beat italiano e in questo ambiente il suo nome viene italianizzato in Demetrio Stratos, con l’inversione di nome e cognome. Vive di musica e manda indietro i soldi che il padre gli invia per proseguire gli studi. L’università non rientra praticamente più nei suoi interessi. Nel 1966 entra a far parte dei Ribelli come organista e voce del gruppo. Nati nel ’59 come gruppo d’accompagnamento di Adriano Celentano, i Ribelli hanno partecipato alcuni mesi prima al Festival di Sanremo, hanno all’attivo alcuni singoli e tra le loro fila sono passati personaggi quali Enzo Jannacci e Ricky Gianco. I Ribelli sono uno dei gruppi di punta di quel genere in voga in quegli anni che è un misto di rhythm’n’blues e soul, basato principalmente su pezzi inglesi o americani, tradotti e cantati in italiano, che i critici musicali dell’epoca hanno chiamato beat italiano, prendendo a prestito il titolo dalla beat generation americana, dal beat/battito della terminologia musicale anglofona e da un ammiccamento ai Beatles, di cui la parola beat è una contrazione. Pur essendo un gruppo già lanciato, è con Stratos che i Ribelli maturano una certa solidità. Passano alla casa discografica Ricordi per la quale incidono diversi 45 giri e alcuni LP che raccolgono le varie registrazioni. Con Stratos la formazione raggiunge l’apice del successo: il singolo Pugni Chiusi vince il Cantagiro del 1967 ed entra nelle classifiche, diventando una hit per quella generazione di giovani italiani che da lì a pochi mesi farà il ’68. Nel 1969 si sposa con Daniela Ronconi e l’anno successivo nasce la figlia Anastassia. I Ribelli suonano molto dal vivo, prodigandosi in un repertorio essenzialmente rock e rhythm’n’blues, molto più corposo delle melodie commerciali che solitamente incidono su vinile. Ma gli anni del beat
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italiano stanno terminando e nel ’70 Stratos abbandona il gruppo definitivamente. Nel frattempo suona con un gruppo di inglesi che alloggiano saltuariamente nel suo appartamento milanese. Oltre alle esibizioni live, anche qui incentrate prevalentemente sul rhythm’n’blues, Stratos incide un 45 giri per la neonata Formula Uno di Battisti-Mogol, Daddy’s Dream, sulla cui copertina sono ritratti in foto Demetrio e la figlia neonata. Il disco passa praticamente inosservato e sarà l’ultimo tentativo commerciale di Stratos. Demetrio telefona al batterista Giulio Capiozzo e i due decidono di iniziare a suonare insieme. Il ’68 è passato da poco e anche la musica sta cambiando radicalmente. AREA - INTERNATIONAL POPULAR GROUP L’unione musicale di Stratos con Capiozzo dà vita al nucleo iniziale degli Area. Le origini mediterranee dei componenti del gruppo risultano determinanti nella miscela di jazz-rock e musica sperimentale a cui danno vita. Stratos deve intraprendere una ricerca severa e a tratti tormentata per adattare la sua voce a quelle sonorità per lui totalmente nuove. Nel 1972 il gruppo prende il nome di Area-International POPular Group, ed è formato da Victor Edouard Busnello (sax), Giulio Capiozzo (batteria), Yan Patrick Erard Djivas (basso), Patrizio Fariselli (tastiere), Demetrio Stratos (organo e voce), Paolo Tofani (chitarra e sintetizzatore). Nel ’73 è pronto il primo disco per la neonata etichetta Cramps di Gianni Sassi, che sarà un personaggio chiave per l’intera storia degli Area e di Demerio Stratos. Il disco si intitola Arbeit Macht Frei (Il lavoro rende liberi), dall’insegna del campo di concentramento di Auschwitz. Il titolo come la musica, i testi, la grafica, i gadget (una calibro 38 in formato 1:1 di cartone), tutto nel disco è all’insegna della provocazione sperimentale. Con queste credenziali la vita del gruppo non è certo delle più facili, soprattutto nell’angusto panorama musicale italiano dell’epoca. Busnello lascerà il gruppo e Djivas entrerà a far parte della Premiata Forneria Marconi. Dopo varie audizioni, al basso entrerà il giovane Ares Tavolazzi. Demetrio, Fariselli, Capiozzo, Tavolazzi e Tofani formeranno così il quintetto che negli anni successivi diventerà punto di riferimento non solo musicale per un’intera area generazionale. Uno degli eventi che li fa conoscere è il concerto di spalla a Joan Baez al Vigorelli contro la guerra in Vietnam. Il pubblico, molto numeroso, è altamente politicizzato e molti forse non li trovano consoni come gruppo d’apertura per la cantautrice pacifista americana. La tensione prima e durante il loro concerto è altissima. Gli Area, quasi indecisi se suonare, riescono ad usare questa tensione come catalizzatore del loro muro di note e di suoni che culmina nel pezzo finale, Lobotomia. Puri, fastidiosi sibili elettronici sparati a tutto volume dalle casse, onde cacofoniche e robotiche da cui faticosamente emerge a tratti una versione dissacrata della sigla musicale di Carosello mentre sul palco si spengono le luci e i musicisti imbracciano delle torce con le quali abbagliano il pubblico. E nell’altra mano impugnano l’asta del microfono, pronti eventualmente a difendersi. Alla fine non ci sono incidenti. La provocazione ha funzionato e il giorno dopo tutti sanno esattamente chi sono gli Area e da che parte stanno. Da quel giorno gli Area sono presenti con la loro musica a numerose iniziative organizzate dal movimento milanese, italiano ed internazionale, da cui vengono in qualche modo “adottati”. Musicalmente, anche sulla loro scia, nascono in tutta Italia una serie di gruppi che seguono un percorso musicale analogo, fatto di contaminazioni tra jazz-rock e musica mediterranea: Baricentro, Napoli Centrale, Perigeo, Arti e Mestieri. Con la nuova formazione il gruppo incide Caution Radiation Area in cui il lato sperimentale della musica viene ancora più accentuato. Sono anni di forte politicizzazione; in tutta Europa, ma soprattutto in Italia, la società preme per
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forti cambiamenti per i quali il potere politico ufficiale è per lo meno impreparato. “In due anni abbiamo fatto tante situazioni... anche in manicomio da Basaglia a Trieste... Loro mettono i matti... cioè! In mezzo agli studenti e ai compagni e vedono le reazioni. Abbiamo occupato Piazza Navona con Pannella... tutto gratuitamente.” (da un’intervista a Demetrio Stratos a Saluzzo nell’estate del ’74). Sovente i loro concerti sono pensati in funzione dell’evento che vogliono creare. La provocazione e il coinvolgimento nei confronti del pubblico sono la regola ferrea per non stare rinchiusi sul palco come in gabbia ma per abbattere i ruoli che separano spettatori e artisti. Il disco successivo del ’75, Crac!, sarà uno dei più conosciuti del gruppo, anche perché contiene Gioia e Rivoluzione, pezzo emblematico dello spirito di quegli anni. Con gli Area Demetrio prende parte a tournée e festival in Francia, Portogallo, Svizzera e Cuba. Da questi prenderà forma il live Area(zione). La creatività e la musica portata nelle situazioni reali sono una delle loro bandiere. Gli Area si inseriscono a pieno titolo in quel percorso di movimenti artistici che dai dadaisti ai surrealisti fino ai lettristi, al gruppo Fluxus, ai situazionisti ha percorso tutto il ’900, vivendo l’arte come una ricerca che vede nell’abbattimento delle strutture formali precostituite il principio creatore rivoluzionario. Sperimentazione, gioco, casualità, caos diventano gli elementi chiave di una ricerca formale in cui i confini tra vita, arte e rivoluzione vengono continuamente sovvertiti e ridefiniti. LE RICERCHE VOCALI Osservando la fase di lallazione della neonata figlia Anastassia, Stratos si rende conto delle possibilità vocali inespresse dell’uomo, capacità che possediamo spontaneamente ma che l’apprendimento del linguaggio incanala verso sonorità selezionate. È l’inizio della consapevolezza vocale di Stratos, il punto di partenza della sua ricerca. Ad una delle prime presentazioni degli Area è presente Gianni Sassi, che rimane impressionato dalla potenza e dall’originalità dell’ensemble e di lì a poco decide di fondare l’etichetta Cramps per produrre il loro primo disco. Con lo pseudonimo di Frankenstein, Gianni Sassi diventa il sesto membro “nascosto” del gruppo, ispiratore e ricercatore di molti progetti di Demetrio e degli Area, disegnatore delle copertine e scrittore della maggior parte dei testi oltre che loro produttore. Gianni Sassi e lo scrittore-musicista-editore Gianni Emilio Simonetti hanno legami con il movimento Fluxus che dai primi anni ’60 rappresenta una delle espressioni più evolute e coerenti di avanguardia artistica concettuale, nonché il primo movimento d’avanguardia ad essere coinvolto nella musica in maniera strutturale. Juan Hidalgo e Walter Marchetti hanno già lavorato con John Cage dal ’59 e insieme ad Esther Ferrer sono i fondatori del gruppo Zaj, gruppo di avanguardia musicale nato in Spagna nel 1964. È un intero ambito culturale d’avanguardia della Milano anni ’70 con cui i giovani musicisti vengono a contatto scambiandosi idee e collaborazioni. Per gli Area Hidalgo e Marchetti comporranno Area 5 e, grazie a loro, Demetrio si accosterà all’esperienza musicale di John Cage di cui registra, nel 1974, i Mesostics in una versione per sola voce, riproposta in seguito in diversi festival, di fronte a migliaia di giovani. Stratos inizia a portare avanti una ricerca sulla pura vocalità. Effettua ricerche e misurazioni a Parigi e al CNR di Padova. Soprattutto a Padova, sotto la supervisione del fonologo professor Franco Ferrero, le misurazioni evidenziano diverse particolarità fonologiche della sua voce. Innanzitutto una gamma impressionante che supera i 7000 Hz di escursione, poi la capacità di emettere più suoni in contemporanea e di modularli separatamente. Stratos sostiene che la voce vada liberata dai condizionamenti del linguaggio e del bel canto e che debba riappropriarsi della sua natura sonora, creatrice di un’infinità di suoni che vengono esclusi dal linguaggio e negati da una concezione musicale ristretta, dogmatica e funzionale alla musica-merce e al capitale.
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Inoltrandosi in questa sua ricerca, scopre le possibilità vocali primordiali delle popolazioni tribali, come i pastori mongoli che emettono diplofonie e triplofonie, ed inizia ad interessarsi a questo tipo di sonorità e alla loro emissione, diventandone in brevissimo tempo maestro e sperimentatore indiscusso. Il risultato è verificabile nei due dischi Metrodora e Cantare la voce, in cui ciò che appare strumento è in realtà la forma voce. “I vocalizzi diventano microorchestrazioni (voce/strumento) senza amplificazioni tecnologiche,” scriverà Daniel Charles. A Cuba riceve l’invito dal Ministero della Cultura ad incontrarsi con la delegazione di musicisti della Mongolia, per partecipare ad un dibattito sulla vocalità dell’Estremo Oriente, riprendendo ed ampliando un vasto discorso sul significato della voce nelle civiltà orientali e mediorientali. Si dedica anche all’insegnamento delle sue teorie in seminari sulla psicologia della voce che tiene in varie università. Con le sue ricerche e con il lavoro sulla voce che svolge con gli Area, Stratos arriverà, nell’arco di 6-7 anni, ai vertici della ricerca vocale mondiale, diventando collaboratore “vocale” stabile di John Cage. ESISTE UN’EREDITÀ VOCALE PER UNA VOCE UNICA? Nel 1979, con il chitarrista degli Area Paolo Tofani e con Mauro Pagani della Premiata Forneria Marconi, esegue delle prove che vengono registrate per la realizzazione di un album Rock and roll exhibition, che doveva essere una sorta di divertissement e di rivisitazione di classici del rock’n’roll, distanti anni luce dalle ricerche d’avanguardia. Questa fu l’ultima registrazione di Stratos prima di ammalarsi. Nel marzo ’79 Demetrio viene ricoverato dapprima a Milano poi al Memorial Hospital di New York per una grave forma di aplasia midollare. Demetrio Stratos muore a New York il 13 giugno del 1979, proprio alla vigilia di un concerto organizzato per raccogliere fondi per le costose cure. Il concerto all’Arena Civica di Milano si tramutò in un colossale tributo all’artista e all’uomo. Sul palco si alternarono un centinaio di musicisti di fronte ad un pubblico di oltre 60.000 spettatori. Un pubblico di massa per un artista che non era mai stato “di massa”. La sua importanza per quel periodo storico, come emblema di una sperimentazione possibile e praticabile fino ed oltre la provocazione, per la musica pop italiana, per la ricerca vocale a livello internazionale, per la musica senza distinzioni, continua a manifestarsi in mille modi dando vita ancora oggi a stimoli sempre nuovi: siti internet, citazioni, manifestazioni e tributi in suo onore, sempre lontani dall’ufficialità, quindi più veri e sentiti, fanno percepire ancor oggi la sua presenza come una specie di spirito guida, un esempio la cui energia, a distanza di più di 25 anni, non cessa di irradiarsi. Il percorso di liberazione della voce intrapreso da Stratos ha segnato un punto di non ritorno nella storia della vocalità, diventando un riferimento per tutti quei musicisti, nello specifico cantanti, che decidono di intraprendere una ricerca e una sperimentazione sulla propria voce al di là di tecniche specifiche. Cathy Berberian, una delle cantanti di formazione lirica più versatili ed importanti del secolo appena trascorso, quando Stratos si presentò da lei a chiedere lezioni di canto, si rifiutò sostenendo che in quanto unicum egli avrebbe dovuto continuare da sé la sua formazione vocale, al di là di una specifica impostazione vocale. Ed è ciò che lui fece. Nonostante l’apparente contraddizione, questo unicum diventa punto di riferimento: l’eredità lasciata da Stratos è proprio questa, la ricerca sulla propria voce è un percorso trasversale che non può rifarsi esclusivamente ad una tecnica, ma è un mettersi in gioco completamente, a partire dalla propria natura. Si ringraziano Daniela Ronconi-Demetriou e Patrizio Fariselli per la loro gentile collaborazione e l’indispensabile aiuto.
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Luciano D’Onofrio vive a Torino da quando è nato nel ‘64. La musica è stata l’inizio di tutte le cose importanti della sua adolescenza: i gruppi musicali in cui ha suonato, le amicizie con cui si scambiavano i dischi e si andava ai concerti. Da lì sono arrivate le sue altre passioni: l’arte, la politica, il cinema, la vita. Ha scritto pubblicità ed ha svolto la maggior parte dei ruoli tecnici nella realizzazione di documentari, dalle riprese al montaggio e alla regia. Oltre a suonare, si è occupato di editoria alternativa, di performance teatrali, di installazioni multimediali, di cinema underground e di attività culturali, prevalentemente in centri sociali e in situazioni non istituzionali. Monica Affatato nasce a Torino nel 1975 dove vive e lavora. Frequenta il corso di canto lirico presso il Conservatorio G. Verdi di Torino. Dal ‘96 lavora nel settore audiovisivo e diventa socia della Index, società di produzione indipendente che ha realizzato in particolare documentari storici e sociali. Realizza come autrice alcuni documentari e partecipa alla realizzazione di altri in qualità di montatrice e autrice di colonne sonore. Il documentario su Demetrio Stratos rappresenta, all’interno del suo percorso, un momento importante in quanto anello di congiunzione tra il lavoro di scrittura e realizzazione di documentari e la ricerca musicale, nello specifico sull’uso della voce: due passioni che intende coniugare nei suoi progetti futuri. La cooperativa Route 1 nasce a Torino nel 2004 dall’unione di professionisti operanti da anni nel settore della produzione cinetelevisiva, con l’obiettivo di elaborare linee progettuali indipendenti e di qualità nel documentario e nella fiction, prestando particolare attenzione alla ricerca di nuovi linguaggi.
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MANDYLION di Adolfo Conti DURATA: 52 MINUTI
La ricerca dei segni lasciati, nel tempo e nello spazio, da una reliquia, il volto di Gesù impresso su un panno, diviene lo spunto per una riflessione sulla società dell’immagine e sul mondo dell’informazione. Il progetto di questo documentario, di per sé originale dal momento che quella del Mandylion non è una vicenda nota ai più, ci è parso stimolante proprio perché, attraverso una storia antica, ci spinge ad interrogarci su un concetto universale ed attuale, quello della possibilità di rappresentare la realtà in modo oggettivo. Un sicuro atout di questa proposta è il carisma di colui che ci conduce sulle tracce del Mandylion, il professor Wolf, l’accademico con i capelli lunghi sulle spalle, il volto scavato, gli occhi inquieti e attenti...
L’idea di questo documentario nasce dall’incontro con Gerhard Wolf, direttore del Max Planck Institut di Firenze. Wolf è uno storico dell’arte che studia da tempo il rapporto uomo-immagine e il Mandylion, questa reliquia misteriosa, è una summa eccezionale delle mille valenze di questo rapporto. Con questo racconto non ci interessa arrivare a determinare se il Mandylion sia veramente esistito o no, se sia un’immagine vera o una pittura di fantasia, se sia una favola o una verità trasfigurata dalle sue vicissitudini storiche. Mandylion vuole essere una riflessione poetica ed evocativa sul ruolo dell’immagine nella vita e nella storia di noi uomini, dalle ragioni per cui la si crea a quelle per cui la si distrugge, prendendo ad esempio il caso estremo: l’immagine divina. “Del suo volto non potevano delineare i tratti, poiché cambiavano in continuazione.” Così si narra abbia avuto origine il Mandylion: l’uomo è incapace di ritrarre il visibile perché in continua trasformazione, allora la pietà di Dio fissa sul velo i suoi tratti fisici. Dall’impotenza umana a fissare il visibile nasce l’Immagine. È l’impotenza di noi uomini che ci rendiamo conto che la cosiddetta realtà, il dato (apparentemente) oggettivo si rivela essere una percezione soggettiva, mutevole e illusoria. Allora, in una sorte di ossessiva bulimia visiva, continuiamo a creare immagini e a cibarcene. Saremo anche in grado di liberarcene? Chiudere gli occhi e riaprirli su un deserto vuoto? Dal nostro mondo stipato di ogni cosa al vuoto del deserto, dal frastuono al silenzio, dall’ossessione dell’immagine all’assenza della forma... Attraverso il velo del Mandylion, anche noi tentiamo di gettare oltre il nostro sguardo, verso una realtà più profonda: la coscienza di un destino e di una condizione che ci accomuna tutti. Adolfo Conti
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PROLOGO DESERTO IN PALESTINA, OGGI. Un labirinto di calanchi e valloni che circondano il Mar Morto. A volo d’uccello si sfiorano le cime delle montagne: solo dall’alto risaltano le tinte dal viola all’ocra, dal rosa al cinabro, che striano queste rocce rendendole un paesaggio unico al mondo. In basso un uomo cammina nel deserto; per ora non ci interessa sapere chi sia e dove stia andando. Alto e basso, leggerezza e velocità, lentezza e calore. La voce fuori campo dell’uomo narra: “C’era un volta un re. Ammalatosi di lebbra sentì parlare di un uomo chiamato Gesù che compiva miracolose guarigioni. La sua ombra, già solo la sua ombra, portava salvezza e benessere...” Immagini mute, e per questo ancora più violente, di corpi straziati, uomini mascherati che brandiscono fucili, funerali e altri cadaveri portati in processione, fotografie bruciate da manifestanti, innocenti vittime di una faida assurda... le immagini di una guerra senza fine che siamo abituati a vedere da anni... “Allora il re mandò un suo fidato cortigiano con l’incarico di fare il ritratto a Gesù...” L’uomo continua ad avanzare nel deserto. “Ma ogni volta che il pittore ne tracciava uno, si accorgeva che il volto dell’uomo non corrispondeva più al ritratto. Il volto di Gesù cambiava di continuo... Cambiava di continuo.” Altre sanguinose immagini di guerra. “Di fronte alla disperazione dell’uomo, Gesù si impietosì, prese un panno e lo premette sul suo viso. Sul panno rimase impresso per sempre il suo ritratto. L’uomo lo portò al re. E il re guarì all’istante...” L’uomo si ferma per guardare la distesa di sassi e calura e silenzio. “Il volto di Gesù cambiava di continuo...” ROMA. IL VELO SUL VOLTO. Il racconto inizia a Roma, in una sala di montaggio dove Gerhard Wolf incontra la troupe (regista e operatore) che lo accompagnerà nel suo viaggio. Wolf è giovane, il suo aspetto non rivela certo gli studi ponderosi e le importanti cariche accademiche che ricopre. Capelli lunghi sulle spalle, volto scavato, occhi inquieti e attenti; veste in modo semplice, giacca e cravatta solo per le occasioni inevitabili. Si potrebbe incontrarlo ad un concerto rock o in qualche landa desolata della Turchia orientale, magari a fare l’autostop. Wolf e la troupe sono in partenza per i sopralluoghi di un nuovo documentario che racconterà la storia della più misteriosa reliquia cristiana: il Mandylion. Ma l’attenzione dello studioso è subito catturata dalle immagini che scorrono sui monitor: si sta ultimando il montaggio di un reportage sui funerali di Giovanni Paolo II. È passato del tempo dalla morte di Karol Wojtyla, ma le immagini della folla oceanica di pellegrini, che si accalcano attorno al corpo del papa portato in giro per la piazza, continuano ad emanare un senso di fascinazione arcaica, primitiva, feticistica per il culto di una personalità semidivina... Forse potrebbero servire per spiegare qualcosa del culto antico per le immagini divine... C’è una strana analogia tra il rito funebre del papa e il Mandylion: il velo di seta bianca che copre il volto del pontefice morto, deposto nella bara, richiama per contrasto il velo che rivela il volto di Gesù, dell’uomo-Dio vivente. GENOVA (2005-1507). IL SETTIMO SIGILLO. Cimitero di Staglieno. Questo cimitero raccoglie decine e decine di tombe dell’800 in cui i defunti sono rappresentati al vero e viventi, secondo il realismo scultoreo dell’epoca. Un caso eclatante in cui la forza dell’immagine viene usata per combattere la dolorosa realtà di annientamento della condizione umana. Qui ci diamo appuntamento con Gerhard Wolf per iniziare il nostro viaggio nel tempo alla scoperta della storia del Mandylion. Qui, tra questi ritratti più veri del vero, Wolf ci racconta l’origine del Mandylion e perché il nostro viaggio parta da Genova: perché qui, in questo crocevia dei mari, è venerata da secoli una sua copia.
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Chiesa di San Bartolomeo, nel centro storico di Genova. Il suo sacello più segreto. Una cassaforte medievale inespugnabile. Sette serrature con sette chiavi differenti, custodite da sette persone distinte: queste erano le misure di tutela del Mandylion di Genova. Almeno lo sono state per settecento anni. Oggi non è più così, e lo dimostra il disincanto del parroco, che apre da solo le sette serrature per mostrarci la sacra reliquia. Siamo delusi di trovarci di fronte ad un’icona, bellissima, ma pur sempre un dipinto e non lo stampo miracoloso di un volto, qualcosa di simile alla Sindone di Torino o al Sudario di Oviedo. Una copia dipinta, venerata al pari della vera reliquia. Sulla cornice, un capolavoro di oreficeria bizantina, è scolpita la prima storia del Mandylion: il re malato, il suo messo incapace di ritrarre Gesù, l’atto pietoso di Cristo... Per secoli questo dipinto è stato la reliquia. Ma non per un atto di primitiva credulità, o per cieco fanatismo. Semplicemente perché la copia, l’immagine, equivaleva all’originale, era legittimo che si sostituisse ad essa nella venerazione dei fedeli. L’immagine era la reliquia. A tal punto che nel 1507 i francesi, che avevano occupato la città, trafugarono l’icona e la portarono a Parigi, come se fosse la vera reliquia. Il potere dell’immagine supera il potere della realtà. Cimitero di Staglieno. I portici deserti. I volti delle statue. Il silenzio assoluto è sottolineato dal rombo lontano di un aereo che taglia il cielo con la sua scia bianca. È il nostro aereo per Parigi. PARIGI (1789-1204). LA
MORTE DEL
RE-DIO.
Il panorama della città dalla collina di Montmartre o altrove; in cielo passa un aereo. Parigi, o della modernità. Poche città come la capitale francese sono il simbolo dell’avanguardia creativa e artistica: Parigi e la pittura, Parigi e la moda, Parigi e l’arte in genere. Parigi esprime nella sua forma più alta i paradossi contraddittori del nostro tempo: l’uomo ha sempre ricercato nuove forme, nuove immagini per comunicare, emozionare, esorcizzare, l’uomo ha saturato la sua vita di queste forme e immagini. Riuscirà ancora a leggerle, apprezzarle, sceglierle, o la nostra testa, i nostri occhi sono destinati ad una sorta di implosione, di collasso per eccesso di offerta? Il Mandylion genovese restò a Parigi pochi anni, poi tornò a Genova. Allora perché siamo venuti a Parigi? Perché in realtà, accanto alla copia di Genova, già da secoli era conservato qui un altro Mandylion, quello originale. Dal 1204 al 1790 i re di Francia custodirono gelosamente le reliquie più importanti della Passione di Cristo e su di esse fondarono l’autorità del regno. E per sei secoli Parigi diventò la nuova Gerusalemme. Percorriamo i lunghi e labirintici corridoi dell’Archivio Storico di Stato di Parigi. Finalmente Wolf si ferma, prende una cartella e l’apre sotto i nostri occhi. La sua attenzione è tutta per un’incisione del 1790: l’immagine di un tabernacolo stipato di coppe, croci e ampolle. È il Sancta Sanctorum dei reali di Francia: le reliquie della Passione di Cristo che da Costantinopoli arrivarono a Parigi tra il 1204 e il 1250. “... Due pezzi della vera Croce, la lancia che trafisse il costato di Gesù, due chiodi, una fiala con il suo sangue, la tunica, la corona di spine e, in quella cassettina lì a destra, lì era conservato il vero Mandylion...” Anche il Mandylion, quello originale, era arrivato a Parigi poco dopo il 1204. 1204. Una delle pagine più nere della storia della cristianità. I crociati cristiani misero a ferro e fuoco la cristiana Costantinopoli, compiendo stragi di innocenti, depredando la città di tutti i suoi tesori. Crollò un impero, i suoi tesori saccheggiati si sparsero per tutta l’Europa, il solco tra la Chiesa Romana e quella Ortodossa divenne incolmabile... La stampa dell’Archivio di Stato di Parigi è l’ultima traccia rimasta del vero Mandylion, perché dopo il 1790 la reliquia scomparve per sempre, ingoiata dalla fornace della Rivoluzione. Simboliche fiamme “bruciano” la stampa del 1790... La ghigliottina, la lama precipita violentemente. La testa del Re cade nella cesta foderata di un cencio. Subito una mano afferra testa e cencio, li mostra agli occhi di tutti: il cencio insanguinato è l’ultima bandiera della monarchia. Mentre la Sainte Chapelle viene saccheggiata, la furia dei rivoluzionari si accanisce sulle reliquie. La mano di qualcuno che sventola un panno, gli dà fuoco con una torcia e
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lo mostra trionfante, come mostrasse la testa del Re ghigliottinato... Sainte Chapelle, oggi. La cappella del Palais Royal è deserta. Tutti i suoi arredi sontuosi andarono dispersi con la Rivoluzione. Rimane, a testimoniarne la grandiosità e la magnificenza, la vertiginosa struttura architettonica. Anche le teche delle reliquie sono scomparse, polvere nel vento della storia. Le reliquie: indispensabili davvero per sostenere l’esistenza di Dio in cielo e del Re suo emissario in terra? Come un’infilata di porte che si aprono l’una dopo l’altra, davanti ai nostri occhi si spalancano le ante di una sequenza infinita di reliquiari: sacelli, armadi a muro, nicchie, vetrine, teche, scaffali. L’ultima anta si apre sulle strade di Istanbul... COSTANTINOPOLI (1204-944). IO SONO COLUI CHE VEDE. Come a Parigi, anche ad Istanbul brucia da secoli la fornace della Storia, che trasforma cose e persone incessantemente. Wolf e la troupe si muovono in una città che, a parte alcuni monumenti, nulla conserva dell’epoca bizantina. Strati di storia, uomini, vita e polvere si sono accumulati l’uno sull’altro, obliterando, nascondendo, distruggendo. Dove rintracciare i segni della presenza del Mandylion, la testimonianza della sua realtà, ora che restano solo pochi ruderi di quell’epoca? Scomparso il Sancta Sanctorum che custodiva la reliquia, in abbandono il palazzo imperiale... I turchi hanno cancellato l’immagine di una città per negare una storia. Sarà sufficiente per cancellarla? Il nostro viaggio nel tempo ci porta indietro, dal 1204 al 944, quando, in una soffocante mattina d’agosto, una processione sfarzosa e solenne celebra l’arrivo del Mandylion in città. La concatenazione dei fatti avvenuti in quella giornata sembra inventata, tanto accumula in modo esemplare tutte le valenze e i significati del Mandylion. La reliquia arriva preceduta dalla sua fama: durante il viaggio in mare, la sua visione ha liberato un marinaio posseduto dal demonio. Ora la barca attracca al porto e in testa al corteo, tra parasoli dorati e baldacchini, ci sono non uno ma addirittura tre imperatori ad attenderla: ognuno di loro aspira al primato sugli altri due, ma come ottenerlo? Sarà la santa reliquia, il Mandylion, a decidere per loro: l’icona non-icona, l’immagine non-immagine. L’impero è reduce da una delle lotte più eccentriche che l’umanità abbia conosciuto: quella contro la rappresentazione di Dio. Per due secoli, fazioni violente hanno scatenato una caccia accanita contro ogni raffigurazione divina. Gerhard Wolf si aggira tra le rovine del Palazzo Imperiale della Blacherne, che non ha l’aspetto di un rudere, è ancora più fatiscente e trascurato. Mentre i suoi occhi perlustrano le alte pareti pericolanti, le finestre ormai aperte sul cielo, alla sua mente si riaffacciano recenti episodi di follia iconoclasta: la Pietà di Michelangelo a San Pietro presa a martellate. Il volto della Madonna con il naso e le palpebre scheggiate, un braccio spezzato... E in Afghanistan le grandi nicchie che accoglievano le monumentali statue di Buddha oggi ridotte a monconi informi... La mattina del 15 agosto 944 si sancì la fine dell’iconoclastia grazie a questa reliquia che è anche immagine, ma di origine divina, “acheropita”, non dipinta da mano umana. La reliquia viene innalzata al di sopra delle teste degli imperatori, il corteo si piega a terra in atto di venerazione. Un pezzo di stoffa bianco, teso dentro una cornice dipinta. Di fatto, sul velo forse si intravede un’ombra o poco più... Solo Costantino VII vede nelle trame del velo le fattezze di un volto, agli altri due imperatori esso rimane invisibile. E Costantino ottiene il primato. Sul Monte Sinai Dio aveva detto a Mosè: “Io sono colui che sono.” E Mosè non avrà pensato: “Io sono colui che vede”? Ora è Costantino “colui che vede” e perciò ha diritto ad essere il primo, il princeps, e la sua autorità viene ratificata ancora una volta da un’altra reliquia: come un novello Gesù nel Giordano, Costantino VII
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riceve la benedizione direttamente dal braccio destro mummificato di Giovanni Battista. Questo mondo così legato al rito, all’aura magica dell’oggetto sacro, è davvero tanto lontano dal nostro? Era poi davvero ingenuo nella sua liturgia, o non palesava meccanismi che oggi consideriamo ridicoli, ma di cui il nostro quotidiano ancora si alimenta in modo latente? URFA (994-30). DIALOGHI
NELLE TENEBRE.
Il nostro viaggio è stato finora un viaggio nella morte: la morte del Papa, quella del Re, quella (simbolica e rivoluzionaria) di Dio, e la morte dell’Immagine stessa. Ma ora la Storia ci attira come un magnete verso la vita, la creazione, verso le origini del Mandylion, là dove essa si fa più oscura e complessa, dove maggiori sono le trasformazioni di senso. Edessa, oggi Urfa, nella Turchia orientale, è una città sacra. Qui abitarono per anni Abramo e Mosè, coloro cioè che ebbero più di ogni altro il privilegio di “vedere” la Divinità. Il Mandylion nasce per necessità del re di Edessa, Abgar il Nero. È lui il re lebbroso che invoca l’aiuto di Gesù e ne commissiona il ritratto. È lui il primo monarca a convertirsi al cristianesimo, mentre Gesù era ancora vivente. Per dieci secoli la reliquia venne custodita in città, nascosta, esposta, rinascosta, impugnata come una spada contro i pagani e i loro idoli. In una cavità delle vertiginose mura che ancora circondano la cittadella, il sacro velo rimase celato per secoli. Fino a quando per miracolo non venne ritrovato e traslato in chiesa. Sotto le stesse mura, i morti e le guerre si accavallarono senza fine. Poi la conquista finale, quella musulmana. La storia del passaggio della reliquia dai musulmani ai cristiani nel 944 è ancora una volta emblematica. Emblematica di un passato lontano, dolorosamente lontano dal nostro presente. Il Mandylion era tenuto in grande rispetto dai musulmani, a tal punto da far restaurare la chiesa che lo custodiva. In un certo senso i musulmani non volevano che il velo lasciasse la città. Ma alla fine furono costretti a cedere e i due schieramenti religiosi raggiunsero un accordo: Mandylion in cambio di prigionieri di guerra, e la sacra immagine lasciò la musulmana Edessa alla volta della cristiana Bisanzio. GERUSALEMME. IL
TRADIMENTO DI
GESÙ.
Ancora una volta è la Palestina l’epicentro delle contraddizioni della nostra storia. Vero o falso, leggenda o realtà che sia, fu qui che un uomo, inviato da Abgar, re di Edessa, cercò di ritrarre il volto di Gesù e non ci riuscì. Definire l’indefinibile era stato proibito da Dio sul Monte Sinai: “Non ti fare nessuna scultura, né immagini delle cose che sono sul cielo o sulla terra o nelle acque sottoterra.” Circoscrivere con un segno la realtà che ci circonda vuol dire arrogarsi il diritto di ricrearla: di fatto significa assurgere al ruolo del Creatore. Soltanto il figlio di Dio poteva sovvertire la legge del Padre e cambiare direzione alla storia dell’Uomo. Per amore dell’Uomo, Gesù tradisce il Padre. Di fronte all’impotenza del messo di Abgar, Gesù prova pietà e consegna all’Uomo la prima immagine della Divinità imprimendo le proprie fattezze su un panno. D’ora in poi l’uomo inonderà il mondo di immagini. Da millenni la storia del Medio Oriente, dei popoli e delle religioni che vi si sono insediati nel corso del tempo coincide con la storia dell’immagine o della sua assenza. Il Mandylion, in quanto ritratto del Diouomo, è sicuramente una metafora perfetta di questo destino. Destino che si perpetua oggi nella tragedia del conflitto che lacera la terra delle tre grandi religioni monoteiste. Qui, dove da sempre si proclama il divieto all’immagine, ogni giorno le televisioni di tutto il mondo ci rimandano un diluvio di immagini: probabilmente Gerusalemme e la Palestina sono i luoghi più “rappresentati”, più “visti” dell’intero pianeta. Qui iniziò l’avventura del Mandylion, e qui oggi l’immagine continua ad avere un ruolo fondamentale di testimonianza e affermazione di verità. L’immagine della sofferenza, del travaglio di popoli e religioni. E allora il nostro viaggio qui deve concludersi, ma al tempo stesso deve andare oltre, là dove l’immagine coincide con il suo contrario, la parola con il silenzio: il deserto. 23
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EPILOGO MONASTERO DI SANTA CATERINA DEL SINAI. LA PORTA DEL SILENZIO. Il deserto che circonda il monastero di Santa Caterina. L’uomo che camminava nel deserto all’inizio del racconto, Gerhard Wolf, arriva alla destinazione finale. Santa Caterina è una roccaforte cinta da mura ai piedi del Sinai, il luogo della teofania più importante. Il luogo in cui Dio si presentò a Mosè dicendo: “Io sono colui che sono.” Il luogo in cui Dio consegnò le leggi a Mosè, negandogli la possibilità di raffigurarlo. Eppure proprio qui nel monastero è conservata la più ricca collezione di icone, di ritratti del divino. I monaci ci aprono teche e armadi, rivelandoci una galleria di dipinti unica al mondo. Tra queste, un’icona in particolare interessa il nostro studioso. È venuto fin qui per esaminarla da vicino, per misurarla, studiarla, tenerla anche solo un momento fra le mani. E finalmente la vediamo: due pannelli di legno dipinti con figure di santi come tanti. A guardarla bene, ci rendiamo conto che una figura rappresenta il re Abgar col velo del Mandylion. Wolf è convinto che queste due tavole, ora unite, un tempo fossero disgiunte e tra di esse fosse collocata la sacra reliquia. Ora che la reliquia è scomparsa, distrutta dalla fornace della Storia, rimane solo la cornice. Simbolo perfetto di un’assenza incolmabile, l’icona-cornice assurge alla valenza di porta, di punto di contatto tra Uomo e Dio. E attorno il deserto, il silenzio. Un silenzio assoluto, ostinato, ormai eterno, in bilico tra il fragore della tempesta di immagini che ogni giorno flagella noi moderni e il sussurro della memoria di un volto, principio di ogni immagine.
APPROCCIO VISIVO Il racconto si articola su due piani: la descrizione del viaggio e la visualizzazione delle parole e dei pensieri dei protagonisti del viaggio. La macchina da presa documenta i sopralluoghi che lo studioso e il regista fanno da Genova al Sinai: i luoghi che visitano, le persone che incontrano, le situazioni e gli imprevisti che si trovano ad affrontare giorno per giorno vengono ripresi oggettivamente, in una sorta di diario-video. Il viaggio è perciò un viaggio reale, ma è anche e soprattutto un viaggio visto attraverso gli occhi e i pensieri dei viaggiatori. Perciò il linguaggio visivo oggettivo può trasformarsi nella soggettiva della macchina da presa (gli occhi del viaggiatore) o in sequenze di immagini che possono allontanarsi nello spazio e nel tempo dal luogo in cui ci troviamo. Saranno utilizzati materiali di repertorio cinegiornalistico per gli avvenimenti storici recenti, come la distruzione dei Buddha di Bamiyan o gli eventi di guerra in Medio Oriente, mentre la rievocazione di fatti storici del passato (come i flash sulla Rivoluzione francese) verrà girata appositamente. Non si tratterà in questo caso di riprese di “finzione in grande stile”, sia per ragioni di budget sia per ragioni di linguaggio. Preferiamo infatti, alla ricostruzione rifinita e invadente, un racconto più impressionistico, rapido e soggettivo, che sottolinei dettagli (fondamentali) delle storie raccontate, più che costosi (e a volte inutili) totali d’ambiente. Adolfo Conti, regista e sceneggiatore di documentari, è laureato in Storia della critica d’arte. Dopo un lungo apprendistato come assistente alla regia in cinema e tv, realizza da diversi anni documentari di storia, arte e archeologia, di cui scrive testi e sceneggiatura. Molti i titoli premiati in festival nazionali e internazionali: Il Destino di Roma (Bordeaux 2000), Amore Morte (Kiel 2000, Bordeaux 2002), Alburnus Maior (Kiel 2004), Il Sogno di Scipione (Houston 2002, Atene 2004).
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Dittico del Sinai, il re Abgar con il Mandylion, dettaglio, Monastero di Santa Caterina del Sinai, X sec.
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EPPUR SI FONDE di Anna Maria Dal Pane con la collaborazione scientifica di Claudio Ciavaroli e Roberto Germano DURATA: 52 MINUTI
“Solo lo scienziato è vero poeta, ci dà la luna, ci promette le stelle, ci farà un nuovo universo se sarà il caso”, così si espresse lo scrittore americano Allen Ginsberg. Lo scienziato è spesso un uomo che sa andare oltre, che si lancia alla conquista dell’impensabile: la sua ragione è follia per la maggior parte degli esseri umani, finché non viene assorbita dalla convenzione. Talvolta non è sufficiente la validità indubbia e la dimostrabilità empirica di una teoria; occorre, piuttosto, che quest’ultima sia munita di una significativa capacità di penetrazione nelle brecce del sistema, in grado in alcuni casi di farlo crollare e di rigenerarlo ex novo. Il sistema scientifico non si regge soltanto sul concetto illuminato di progresso, predilige, di contro, paradossali logiche conservatrici che frenano e direzionano la conoscenza secondo interessi particolari di diversa natura: economici, politici, socio-culturali. La linea di ricerca che si discosta dal pensiero dominante, analizzata sotto questa luce, può causare pericolosi disturbi e vacillamenti indesiderati all’establishment. È il caso degli studi sulla fusione fredda, una nuova metodica per la produzione di energia, trascurata e addirittura bistrattata dalla scienza ufficiale. Il documentario ci introduce in un mondo ambiguo e contraddittorio, pieno di sagaci innovatori e di geni incompresi, i “fusionisti”, il cui sogno “eppur si fonde” con una giusta concezione del rapporto fra l’ambiente e l’uomo.
Credo che progettare e realizzare documentari sia una scelta di campo: decidere di rendere evidente ciò che l’occhio di chi guarda normalmente non vede. Una specie di straniamento brechtiano applicato alla tecnologia audiovisiva. Progettare e realizzare documentari a tema scientifico è poi in parte un fatto casuale, e cioè legato alla propria biografia, e in altra parte una scelta di poetica. È il tentativo di dare una risposta unitaria alla doppia domanda di informazione tecnica e di godimento estetico che il pubblico più evoluto oggi pone. Ho deciso di occuparmi della fusione fredda per tutte queste ragioni: conservare memorie personali, diffondere un’informazione scientifica corretta e dispiegare dal tema tutto il suo implicito potenziale estetico. Una specie di sfida. Anna Maria Dal Pane
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NOTA
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DI INTENTI
C’è un tema scottante per la scienza contemporanea ed in particolare per la fisica della materia: la fusione nucleare a freddo, un procedimento relativamente semplice e poco costoso, attraverso il quale è possibile produrre energia pulita e facilmente rinnovabile. Al contrario, la fissione e la fusione calda implicano costi onerosi e gravi rischi, soprattutto in merito alla sicurezza delle strutture e allo smaltimento delle scorie. La fusione a freddo, invece, non implica alcun residuo radioattivo o scorie pericolose, sviluppandosi in una cella in cui alcuni atomi di deuterio, grazie ad una reazione termodinamico-chimica, fondono in presenza di palladio e platino liberando una quantità enorme di calore/energia. Sono stati due elettrochimici anglo-americani (Martin Fleischmann e Stanley Pons) ad effettuare per primi questo esperimento nel 1989. Negli ultimi 15 anni, però, illustri riviste inglesi ed americane, quali Nature e Science, che dettano legge nell’ambiente scientifico internazionale, si sono adoperate incessantemente per denegare veridicità e togliere credibilità a quell’esperimento, supportate in questa azione da un nutrito gruppo di scienziati, cosiddetti antifusionisti. Un calcolo della crescita esponenziale del fabbisogno energetico mondiale - causata dai tre grandi motori dello sviluppo demografico, dell’innalzamento della qualità della vita e dell’industrializzazione massiva - induce a stimare l’ammontare della riserva energetica assicurata dalle fonti non rinnovabili (combustibili fossili noti) pari ad un massimo di 200 anni di utilizzo, peraltro aggravando ulteriormente i danni ambientali già inferti al pianeta e difficilmente riparabili, come inquinamento, effetto serra, piogge acide. Inoltre si stima che la produzione di energia da fonti rinnovabili (sole, geotermia, vento, maree, biomassa, idroelettricità), ora attestata intorno ad un 10% del fabbisogno complessivo, difficilmente coprirà l’intero ammontare della domanda futura. La ricerca sull’energia nucleare si impone, dunque, sempre più come compito ineludibile e pressante della comunità scientifica internazionale, come un suo obiettivo da traguardare nel minor tempo possibile e con la massima efficacia. Le domande che ci poniamo sono quindi le seguenti: perché la scienza ufficiale ha opposto ed oppone ancora tali e tante resistenze alla ricerca sulla fusione fredda? Quali sono gli interessi scientifici e soprattutto economici che la contrastano? Qual è il gioco di forze e di poteri che sta dietro a questa vicenda? Il progetto intende dimostrare che l’affermazione della verità in ambito scientifico, come e più che in ambito culturale, è condizionata proprio dai rapporti di forza e dagli interessi che vi ruotano intorno. E nello stesso tempo vuole raccontare che l’azione coraggiosa ed isolata del singolo, anche se spesso non coronata dal successo, può tentare di invertire il corso degli eventi. Nella nostra narrazione questo singolo è Renzo Boscoli, elettrochimico ferrarese vissuto a Bologna, che già nel 1974 effettua con relativo successo i primi esperimenti sulla fusione fredda, anticipando quella che sarà più avanti la rivoluzionaria “scoperta” di Pons e Fleischmann. Intorno al suo lavoro oscuro e misconosciuto si muovono i personaggi e le vicende della storia ufficiale, riconducibili a tre schematici gruppi: gli scienziati innovatori o non allineati, la comunità scientifica internazionale, le lobby economiche sovranazionali che basano le loro economie sullo sfruttamento dei carburanti fossili. Oggi, a 30 anni dall’inizio ufficioso della ricerca, si sono tenute in tutto il mondo undici conferenze sul tema, sono stati pubblicati centinaia di articoli sull’argomento, sono state depositate centinaia di brevetti basati sui risultati già acquisiti dalla sperimentazione. Nel 2004 è stata fondata l’International Society for Condensed Matter Nuclear Science (ISCMNS), un’organizzazione mondiale che riunisce gli scienziati - circa 136 provenienti da 19 Paesi - impegnati in una nuova visione della fisica della materia, scaturita proprio dalle ricerche sulla fusione fredda.
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Questa nuova visione induce addirittura a riesaminare alcuni dei postulati fondamentali del sapere scientifico ormai consolidato: la struttura del sole e la genesi dell’universo, la formazione della terra e la deriva dei continenti, il secondo principio della termodinamica (e cioè il fenomeno dell’entropia, oscillante tra caos ed ordine), la relatività einsteiniana e il modello energetico tradizionale. Con tutte le loro possibili ricadute sul concetto di evoluzionismo e sugli studi di genetica. Argomenti che abbiamo individuato come temi tutti ugualmente prioritari per una produzione documentaristico-scientifica seriale, oggi necessaria ed importante.
SOGGETTO “Eppur si fonde” è stata l’esclamazione di Martin Fleischmann alla Seconda Conferenza Internazionale sulla fusione fredda, tenutasi a Como nel 1991. La stessa frase ha ripetuto alcuni anni dopo Giuliano Preparata, al termine della sua relazione al Congresso annuale sullo stesso tema tenutosi a Perugia. I due studiosi parafrasavano il celebre motto di Galileo Galilei “Eppur si muove”, pronunciato nel 1633 davanti al Tribunale del Sant’Uffizio, mettendo così provocatoriamente in parallelo due supposte eresie scientifiche, lontane nel tempo ma ugualmente combattute dalle accademie ufficiali: il moto di rotazione e rivoluzione della terra intorno al sole e la fusione nucleare a freddo. 23 marzo 1989. Dopo sei anni di lavoro in piena segretezza Martin Fleischmann, professore di Elettrochimica all’Università di Southampton in Gran Bretagna, oggi in pensione, e Stanley Pons, suo ex allievo diventato in seguito direttore del Dipartimento di Chimica dell’Università dello Utah in USA, annunciarono di aver scoperto una strada alternativa per ottenere la fusione nucleare in modo semplice ed economico. Si trattava di un esperimento quasi “a tavolino”, in contrasto con numerose leggi fisiche fino ad allora conosciute e basato sui principi della termodinamica chimica invece che su quelli termonucleari. I due scienziati avevano immerso in una soluzione liquida a base di deuterio (isotopo dell’idrogeno con numero di massa 2 e numero atomico 1) due elettrodi costituiti da palladio e platino. Il processo di elettrolisi susseguente, ottenuto fornendo energia elettrica dall’esterno, aveva prodotto una reazione di fusione degli atomi di deuterio catalizzati dal palladio. Questa fusione, che aveva liberato una quantità di calore/energia (elio-4) molto maggiore di quella immessa tramite la batteria esterna e dato luogo ad altri prodotti nucleari, era avvenuta in condizioni assolutamente normali, ovvero a temperatura ambiente e a normale pressione atmosferica. La clamorosa notizia fu subito ribattuta dalla stampa americana ed europea e generò a cascata una serie di prevedibili conseguenze. Innanzitutto fece salire vertiginosamente il prezzo del palladio alla Borsa di Zurigo; poi mise in corsa Fleischmann e Pons per una sequenza di brevettazioni particolari e successivamente di applicazioni industriali e strategiche della loro scoperta, nel quadro di ricche prospettive economiche future. Ma la conseguenza più rilevante che provocò fu un’altra. La notizia infatti riuscì a spaccare la comunità scientifica internazionale letteralmente in due. Al gruppo formato dai detrattori scettici quali i fisici Premi Nobel Phil Anderson e Leon Lederman, e molti altri si contrappose un secondo gruppo formato invece dai sostenitori entusiasti come, in ambito italiano, Giuliano Preparata, allora ordinario di Teoria delle Interazioni Subnucleari all’Università di Milano e poi responsabile del Laboratorio per la Fusione Fredda voluto da Carlo Rubbia all’Ente Nazionale Energie Alternative (ENEA) di Frascati. E ancora Emilio Del Giudice, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Milano, Tullio Bressani, professore di Fisica Superiore all’Università di Torino e Francesco Scaramuzzi, ricercatore presso lo stesso ENEA. Studiosi attivi ancora oggi e protagonisti della vicenda, eccezion fatta per Giuliano Preparata, morto nell’aprile del 2000. Fu proprio in ambito italiano che, il 29 marzo 1995, venne bissato il risultato di Fleischmann e Pons, esattamente sei anni dopo il loro esperimento. Sergio Focardi, Roberto Habel e Francesco Piantelli, docenti di Fisica presso le Università di Bologna, Cagliari e Siena, annunciarono di aver messo a punto
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la macchina in grado di produrre la fusione a freddo. Prova dell’avvenuta reazione si diceva essere la comparsa di raggi gamma (cioè fotoni ad alta energia) e di neutroni il cui flusso però non poteva ancora essere quantificato. Questa seconda e più argomentata uscita allo scoperto dei “fusionisti freddi” scatenò definitivamente la reazione aggressiva degli ambienti ufficiali, in particolare la prestigiosa rivista britannica Nature e il suo direttore John Maddox che riuscirono ad orchestrare una vera e propria campagna denigratoria a loro danno. Tale impasse polemica, dai fastidiosi effetti mediatici e dagli spiacevoli risvolti legali, sembrava essere in parte generata da una contraddizione interna a questo stesso tipo di ricerca. Infatti il carattere di relativa semplicità dei suoi strumenti operativi e di immediata applicabilità dei suoi risultati ha spesso indotto negli operatori della fusione fredda un doppio atteggiamento di informalità e particolare baldanza, da una parte, e di scarsa trasparenza e quasi reticenza, dall’altra: una sorta di trionfalismo misto a riservatezza. La comunità scientifica ha risposto nel tempo con letture diverse di tali comportamenti, scambiandoli o per facili anticipazioni di finalizzazioni straordinarie della scoperta, oppure per vere e proprie frodi ed eresie. Questo, come ovvio, anche a causa degli enormi interessi in gioco nel settore della produzione di energia. E in particolare all’interno della corporazione scientifica, impegnata sul fronte della fusione nucleare tradizionale che utilizza costosissime macchine sperimentali: gli enormi reattori Tokamak, la cui costruzione richiederà a breve un investimento di circa 30 miliardi di dollari l’anno, pari ad un quarto dell’attuale bilancio mondiale per la ricerca scientifica. La scienza, a detta dei filosofi, procede per modelli che rappresentano il mondo conosciuto come un sistema i cui confini risultano periodicamente modificabili o rimuovibili. Dunque ogni nuova scoperta o atto immaginativo stabilisce nuove connessioni e quindi un nuovo modello di rappresentazione del reale. Il passaggio da un modello all’altro avviene con una vera e propria rivoluzione. O, come afferma Thomas Kuhn, “con un cambiamento di paradigma”. Tale processo era ed è necessario per poter iscrivere il principio della fusione fredda tra le acquisizioni della scienza ufficiale. Non solo. All’interno di questo processo hanno pesato e pesano tuttora anche i rapporti di ruolo, i rapporti personali e quelli psicologici intercorrenti tra le varie tipologie di scienziato e di ricercatore. In altre parole, l’assetto gerarchico umano ed istituzionale di questo settore ha potuto e può influenzare l’andamento di un’attività così specifica, così come può determinare il piano di sviluppo della ricerca nel suo insieme. I personaggi che introdurremo richiamano indicativamente alcune identità psicologico-professionali. Lo scienziato alchimista, artigiano estroso, misconosciuto e isolato dalla scienza ufficiale il cui talento, usato spesso provocatoriamente, viene di norma squalificato come condizione patologica/borderline. Questo personaggio sarà rappresentato dal nostro protagonista Renzo Boscoli. Boscoli è mancato nell’autunno del 2001. La sua vita e la storia del suo lavoro ci saranno riferite da familiari ed amici. Ma soprattutto da Roberto Monti, all’epoca fisico del CNR di Bologna e attualmente a capo di una propria società operante in Canada, dedicata allo sviluppo di un progetto pilota per l’abbattimento delle scorie nucleari. Monti e Boscoli condivisero i tempi eroici delle prime dimostrazioni ufficiose e diedero un grande contributo alla lunga battaglia per rendere pubblica ed accettata la fusione fredda. E continuando. Lo scienziato ufficiale, accreditato ma indipendente, totalmente avulso dall’establishment riconosciuto e in perenne contrasto con il medesimo, sarà Giuliano Preparata che ci verrà restituito dalle parole del collega amico e sodale Emilio Del Giudice. Il ricercatore istituzionalizzato, vale a dire inserito all’interno del grande apparato pubblico, ma che opera,
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per scelta o per necessità, in autonomia rispetto alla sua stessa istituzione. Questa figura sarà rappresentata da Francesco Scaramuzzi, erede all’interno dell’ENEA del lascito teorico e morale di Giuliano Preparata. Lo scienziato guru, tanto autorevole sullo scenario italiano ed internazionale quanto inserito nella comunità scientifica, in modo da poter figurare nel doppio ruolo di allineato e di indipendente, sarà Tullio Regge, senior opinion leader apparentemente neutrale. E infine la figura classica del ricercatore puro, alieno da commistioni con attività commerciali e di consulenza, come Sergio Focardi, e quella del ricercatore applicazionista, facilmente attratto ed implicato in quelle stesse attività, come Francesco Piantelli. Il tema centrale del progetto emergerà dalle interviste a questi ricercatori, a cui si aggiungeranno alcuni colloqui eccellenti sotto il profilo professionale ed umano. In particolare intervisteremo Martin Fleischmann nel suo ritiro in Scozia, sulla vicenda personale e scientifica che lo ha portato prima a notorietà internazionale e poi ad una specie di oscuramento ed oblio. Raggiungeremo inoltre Franco Preparata presso il Dipartimento di Computer Science della Brown University di Providence nello Stato del Rhode Island (USA), per tratteggiare con lui la figura privata del fratello Giuliano. Sullo sfondo, intercalati a questi più corposi incontri, inseriremo i rapidi commenti scientifici e personali di Carlo Rubbia, ex Presidente dell’ENEA, di Roberto Vacca, saggista e scrittore, esperto di ingegneria dei sistemi e di teoria dei limiti dello sviluppo, di John Barrow, scienziato inglese e noto divulgatore scientifico. L’aggiornamento sullo stato dell’arte della fusione fredda ce lo forniranno invece tre scienziati implicati nelle ultime fasi della ricerca: Peter Gluck dell’Institute of Isotopic and Molecular Technology in Romania, e i due fisici giapponesi Tadashi Ohmori e Tadahiko Mizuno dell’Università di Kitaku, le cui provenienze testimoniano l’articolata ramificazione delle metodiche attualmente in studio. Il progetto si avvarrà della consulenza scientifica di tre studiosi: Giuliano Pancaldi, ordinario di Storia della Scienza presso l’Università di Bologna, i cui studi si muovono intorno al tema delle fonti energetiche fredde1; Roberto Germano, fisico formatosi all’Istituto Nazionale di Fisica della Materia, attualmente alla guida di Promete, società attiva nell’ambito dell’innovazione e del trasferimento tecnologico; Claudio Ciavaroli, presidente dell’Osservatorio Nazionale Nuove Energie (ONNE). Due riferimenti bibliografici ci saranno utili: Too hot to handle dell’americano Frank Close, edito da Penguin Books nel 1992, drasticamente contrario ai fusionisti freddi. E Fusione fredda. Moderna storia d’inquisizione e d’alchimia dello stesso Roberto Germano, edito da Bibliopolis nel 2000, schierato a favore e corredato di un’ampia lettura dietrologica delle vicende fin qui trattate.
APPROCCIO VISIVO La narrazione si dispiegherà come un work in progress in cui l’autrice, ora sola ora accompagnata dai collaboratori del progetto, ricostruirà passo dopo passo gli spazi, i tempi, i personaggi e le modalità di sviluppo della storia. Il filo del racconto passerà da una voce all’altra e alla fine sarà sempre riannodato e ritessuto dalle parole dell’autrice e dei suoi consulenti. Nel farsi dei sopralluoghi, delle interviste, degli spostamenti e degli incontri si disegnerà la trama del film, quasi nella forma di un “documentario nel documentario”, in consonanza con l’atmosfera di mistero, di difficoltà e di polemiche che questo tema ha costantemente prodotto. 1
L’inizio della ricerca sulle fonti energetiche fredde si può far risalire alle intuizioni del grande filosofo e matematico Gottfried Wilhelm Leibniz e del suo altrettanto geniale contemporaneo Isaac Newton, matematico e fisico. In seguito l’italiano Alessandro Volta darà il suo contributo, introducendo l’uso della pila al posto del vapore. E infine saranno i cosiddetti “ragazzi di via Panisperna”, e tra questi Ettore Majorana ed Edoardo Amaldi, ad anticipare la sperimentazione attuale prefigurando alcune possibili applicazioni dei risultati del loro lavoro.
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Utilizzeremo il sonoro in presa diretta, in esterni e in studio, per assecondare il normale battito o respiro della narrazione. Il commento musicale interverrà nei passaggi modulari, con composizioni minimaliste e sonorità spaziale. I luoghi visitati (la campagna bolognese sede della casa-laboratorio di Renzo Boscoli, Frascati e gli impianti dell’ENEA; le Università di Milano e Torino; Vancouver in Canada, sede di lavoro attuale di Roberto Monti, Providence nel Rhode Island per incontrare Preparata, la Gran Bretagna “buen retiro” di Martin Fleischmann e sede di John Barrow; forse la Romania ed il Giappone per gli aggiornamenti sulle ultime sperimentazioni) formano gran parte del tessuto visivo del film, raccordati ed armonizzati da immagini ricorrenti di viaggio, di paesaggi, di mezzi di trasporto e accompagnati da dialoghi tematici. Con una particolare dominante simbolica, riferibile ai concetti di irradiazione/calore/ velocità, come un’implicita dimensione subliminale che richiami il tema trattato. Gli ambienti di lavoro, i macchinari sperimentali, il materiale di repertorio che documenta le origini e i primi passi della ricerca saranno integrati da grafica e animazioni che spieghino in maniera chiara ciò che potrebbe risultare di complessa comprensione per l’ascoltatore medio. Ricordiamo che, direttamente o indirettamente, ci stiamo occupando di una sostanza assolutamente astratta ma per ciò stesso indubitabilmente concreta. Ci stiamo occupando del nucleo, il cuore vivo della materia, dove si compie senza sosta la trasmutazione termodinamica che dà origine alla vita. Dunque in un ambiente sub-atomico, molto vicini all’essenza del tutto e ancora una volta immersi nelle cicliche guerre umane.
Martin Fleischmann e Emilio Del Giudice
Il racconto sarà scandito dal progressivo svolgersi di due eventi speculari ed opposti, ricreati quasi teatralmente. Da una parte la lenta e metodica ricostruzione della macchina sperimentale ideata da Renzo Boscoli, per effettuare in economia i costosi esperimenti della ricerca. Dall’altra la preparazione e realizzazione di un esperimento di fusione fredda di recente generazione all’interno di un ambiente scientifico tradizionale. Apparirà così in metafora il doppio volto della scienza: il sogno e l’antivisione (il mare di ampolle, curve metalliche, provette di cristallo della macchina sperimentale) alternato al severo lavoro di definizione e controllo dei dati (le attrezzature tecnologiche più o meno pesanti e scabre).
Anna Maria Dal Pane è nata a Buenos Aires, ma è cittadina italiana. Laureata al DAMS/Università di Bologna, ha collaborato per molti anni come autrice/ regista con la sede Rai di questa città e poi con RaiTre a Roma. Prima ideatrice e conduttrice radiofonica, poi documentarista, con speciale attenzione per i temi artistici e culturali, dopo una lunga pausa di ritiro nella campagna romagnola, ritorna ora con rinnovato interesse al documentarismo, segnatamente in ambito scientifico.
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SULLE TRACCE DI GIOVANNI PIRAS di Chiara Bellini e Faustina Hanglin DURATA: 90 MINUTI CIRCA
All’origine di Sulle tracce di Giovanni Piras c’è il viaggio senza ritorno del protagonista. Da lì comincia anche il difficile viaggio delle autrici nella memoria, alla ricerca dell’identità di una persona “che ha avuto due nomi”, di cui uno molto importante. Un’indagine su due figure perfettamente sovrapponibili, di cui rimangono indizi tangibili oppure solo coincidenze, scherzi del tempo, psicosi collettiva? Il racconto, che si costruisce vertiginosamente su date e nomi, su piccoli e grandi fatti del passato, diventa il diario di bordo di un nuovo viaggio, in Argentina, dove la ricerca delle autrici è tuttora in corso.
Giovanni Piras e Juan Domingo Perón. L’Italia e l’Argentina. Due realtà lontane che nel tempo si sono avvicinate e fuse l’una nell’altra. La leggenda mamoiadina che andremo a raccontare è viva ormai dagli anni ’50 e in più di cinquant’anni, nonostante gli sforzi di tanti, familiari e ricercatori, nessuno è mai riuscito a dimostrarne la veridicità. Noi non vogliamo risolvere questo enigma, il nostro scopo preminente è quello di raccontare una bella storia, la storia di due personaggi controversi, dalla vita misteriosa “Piras, un uomo senza futuro e Perón, un uomo senza passato” (per riprendere le parole di Graziano Deiana, sindaco di Mamoiada); una storia che tocca le nostre radici, che parla di emigrazione in un tempo in cui i nostri bisnonni erano costretti ad andare a cercar fortuna oltre l’oceano e in quella terra sconosciuta hanno dato vita ad uno dei paesi più rigogliosi del mondo. Se l’intreccio è costituito dalle linee parallele della vita di Piras e di Perón, ad unirle sarà l’intervento di Piero Salerno e Faustina Hanglin, il primo uno degli ultimi discendenti di Piras, e la seconda una ricercatrice che ha fatto di questa storia l’ennesima sfida da vincere. Saranno proprio loro, con i loro caratteri completamente diversi, a condurci attraverso le tante coincidenze che animano questa storia. Saranno loro a stemperare i toni alti che si addicono ad un Generale, ex Presidente di una delle nazioni più grandi del globo, e i toni malinconici che descriveranno la storia di questo giovane emigrante scomparso nel nulla nelle terre del dipartimento di Santa Fe. Insieme ci porteranno a conoscere i personaggi chiave di questa leggenda e ci condurranno nei meandri di un’ardua ricerca con determinazione, perché entrambi vorrebbero scoprire la verità ma in fondo al cuore hanno paura che la verità, qualunque sia, possa rovinare la magia di questo miracolo: un giovanissimo contadino dell’entroterra sardo che diventa Presidente di un grande paese straniero. Questo film-documentario, infine, non sarà affatto una panoramica lineare della vita di Piras e di Perón, ma un puzzle di coincidenze e ipotesi che Piero Salerno e Faustina Hanglin, tra archivi e uffici, tra Italia, Argentina e Spagna, andranno a comporre; e lo spettatore, coinvolto in questo giallo pittoresco, arricchito di elementi ironici e surreali, parteciperà con suspense all’unione di tutti i tasselli che andranno a dipingere forse la verità ma soprattutto il panorama di due paesi, un’Italia dalla quale si partiva, e che adesso si preoccupa dei propri figli d’oltreoceano, e un’Argentina che non dimentica le proprie radici, ricca di comunità italiane dove si parlano ancora dialetti, qui ormai dimenticati. Su questo sfondo si muovono Piras e Perón, ora avvicinandosi, ora respingendosi, in un gioco continuo che sembra essere stato costruito dallo stesso Perón mentre affermava: “Il passato non merita altro che il tradimento.” Chiara Bellini
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Immagini di repertorio mostrano la Sardegna dei primi del ’900: terre brulle e disabitate, i pascoli con le pecore arrampicate su rocce dall’aspetto ostile, piccoli centri poco popolati, la chiesa gremita di fedeli in abiti tipici e il parroco che officia la messa di commiato dagli emigranti; infine il porto, con la grande nave dell’avvenire che porta nel nuovo mondo; man mano il gigante si riempie, gli emigranti si sistemano sul ponte per salutare chi li ha accompagnati, gli uni con la nostalgia nel cuore, gli altri con la malinconia negli occhi; la nave si allontana sempre più, ma chi è rimasto continua a sventolare il fazzoletto bianco, finché non la vede perdersi all’orizzonte. Una piccola strada di un piccolissimo paese della Barbagia, Mamoiada; la strada è stretta e non se ne vede la fine; sul fianco di una casa due cartelli: uno tipico comunale con il nome della strada “via Fratelli Cairoli”, sopra l’altro, un po’ più grosso e visibilmente decorato a mano, che riporta la scritta “carrera Juan Perón”. Un ragazzo fissa le iscrizioni con i suoi occhi scuri e perplessi, poi si allontana scuotendo la testa. Stiamo attraversando in macchina un paesaggio deserto, colline e monti rocciosi ci circondano, sulla superstrada ci siamo soltanto noi, a tratti si scorgono in lontananza delle greggi di pecore abbarbicate su cocuzzoli scoscesi. Alla guida il ragazzo di via Cairoli, Piero Salerno, aria tipicamente sarda, capelli nerissimi, il naso leggermente adunco, ci osserva con sguardo indagatorio, di chi deve capire chi ha di fronte e deve circoscrivere il proprio territorio, stabilendo il ruolo di ciascuno all’interno di esso. Un uomo sui cinquant’anni, capelli brizzolati, occhi vispi, sguardo disinvolto e passo sicuro, cammina per la strada di poco prima. All’improvviso si ferma di fronte ad una cancellata davanti ad una casa dall’aria abbandonata: niente intonaco, le finestre sbarrate con assi di legno. L’uomo la osserva sorridendo, poi con un gesto del capo ce la indica dicendo: “Questa è la casa di Perón.” Accanto a Piero, in macchina, una giovane giornalista, Faustina Hanglin, inizia a fargli delle domande sulla sparizione di un suo lontano parente, un certo Giovanni Piras; Piero racconta che questi, fratello di sua nonna, sarebbe partito da Mamoiada nell’estate del 1909 per raggiungere l’Argentina, all’epoca aveva appena diciotto anni. Arrivato là, si stabilì per poco tempo nel Chubut per poi trasferirsi definitivamente nella provincia di Santa Fe, prima come bracciante e in seguito come macchinista di treni. Le uniche lettere che si hanno di Giovanni risalgono al 1911 e al 1912, tutte provenienti da San Cristóbal e da Tostado. Poi, all’improvviso, il silenzio. Lettere non ne arrivano più, Giovanni non dà più notizie di sé, le uniche voci su di lui sono quelle di chi ritorna al paese, di chi era partito con lui o che comunque lo aveva frequentato nel nuovo mondo; e le voci sono tante: “Giovanneddu sta bene, si è messo a studiare e si è fatto ben volere dal capo per cui lavora, la figlia del capo si è innamorata di lui e lo ha aiutato ad entrare in una scuola, sta bene... sta bene... non si fa sentire perché è diventato uno importante, sembra che abbia un treno tutto suo, ma se si viene a sapere che è italiano potrebbe avere dei problemi con il lavoro.” Piero si interrompe, ci guarda serio e afferma che ci sono troppe coincidenze: “Secondo me è lui...” dice “... anche se non si può affermare così... però ci sono così tante storie, e comunque la cosa più importante è trovare Giovanni, da lì, poi... vediamo...” Un ufficio in penombra abbastanza spoglio, mobili vecchi e trascurati, negli scaffali tomi polverosi e dall’aria vetusta, ad una parete un crocefisso e la foto di Carlo Azeglio Ciampi. Ad una scrivania è seduta una giovane donna dal volto aperto, gioviale, sta compilando dei moduli e sembra non essersi accorta che nella stanza è entrato qualcuno. Piero e Faustina si avvicinano alla scrivania, sulla porta a vetri è scritto “Ufficio Anagrafe”. Quando la donna, Antonietta Sedilesu, si accorge del nostro ingresso, ci sorride affabilmente, ma con l’aria di chi pensa: “Ancora qui?” Poi, passati dieci secondi, cede all’entusiasmo e ci chiede se abbiamo novità sul “caso”. Le rispondiamo di no, che abbiamo appena iniziato le ricerche su Giovanni Piras e vogliamo partire proprio da lì, dal suo ufficio, con il certificato di nascita e quello della visita militare. Mentre ci tira fuori dei grossi libroni ingialliti, racconta di essere una grande fan del “caso”, di essersi dedicata talvolta alla ricerca di notizie e di
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materiale sullo scomparso Piras, ma poi, inevitabilmente tutto si arena. “Una volta abbiamo mandato una lettera a due consolati in Argentina. Abbiamo... perché è la mia collega quella che è veramente appassionata! Ma uno aveva risposto che non aveva notizie di alcuno con le caratteristiche del Piras e l’altro non aveva proprio risposto. Quindi, alla fine, arriva sempre un momento in cui bisogna abbandonare, perché da là nessuno fa sapere niente...” Poi, con un sorriso, ci confessa che immancabilmente, qualche mese dopo, ricomincia a cercare da qualche altra parte. Ci fa vedere il certificato di nascita di Piras, 26 marzo 1891, e il rinvio per la visita militare del 1911 “perché già all’estero”. Ci dice che vengono comunque in tanti a fare domande, a cercare, hanno fatto dei servizi per la tivù che non sono mai usciti: “Forse perché in fondo avevano paura di diffondere una notizia pericolosa... anche quelli di Verissimo sono venuti, ma poi a noi non hanno fatto sapere più niente... chissà, anche questa potrebbe essere una prova che è vero.” Mentre guardiamo i vari documenti, le chiediamo di raccontarci di una lettera che ha ricevuto. Antonietta inizia a guardarci quasi con aria di sfida, dice che in pochi la conoscono perché non sa se è il caso che diventi una notizia pubblica, poi si fa coraggio e ci racconta che tempo fa è arrivata questa lettera al Comune di Mamoiada, scritta da una signora argentina che stava ricercando le sue origini: diceva di essere figlia di Giovanni Piras di Mamoiada e di Maria Marengo. Voleva avere notizie della sua famiglia d’origine. Quando arrivò la lettera rimasero tutti sconcertati e visibilmente delusi, poi decisero di non parlarne con nessuno e di fare delle indagini più approfondite. Risposero alla donna che con quei dati non potevano ricercare niente, avevano bisogno di date di nascita, date di emigrazione, nomi dei genitori... Attesero la risposta con ansia e quando arrivò trovarono i dati che cercavano e una foto del presunto Piras in una riunione di emigrati sardi. “Fortunatamente le date e i nomi dei genitori non corrispondevano!” ride soddisfatta. “Il nostro è figlio di Antonio Piras, come quello là, ma di Marianna Massidda e non di Maddalena Meloni, come ci scrive la signora, e poi quello è nato nel 1894, mentre il nostro Piras nel 1891... quando abbiamo letto tutte queste cose abbiamo tirato un sospiro di sollievo! Strano però che a Mamoiada questo signore non risulti mai nato...” Prima di salutarla ci promette che avrebbe nuovamente cercato di contattare i consolati italiani in Argentina per richiedere notizie di Giovanni Piras. La salutiamo e ci incamminiamo per le scale. Al piano superiore ci aspetta il Sindaco di Mamoiada, Graziano Deiana, l’uomo che passeggiava per i vicoli. Anche lui ha l’immancabile espressione canzonatoria dell’“eccone altri”. Ci fa sedere. Dopo attimi di silenzio ci rassicura, dicendo che ci metterà a disposizione ogni mezzo in suo potere e che da parte sua e del Comune c’è il massimo appoggio. Poi ci chiede se abbiamo novità. Faustina interviene dicendo che le nostre ricerche sono appena iniziate e che inoltre non abbiamo intenzione di seguire le orme di chi ha già lavorato sul caso, vogliamo ricominciare da capo, perché secondo noi mancano dei passi fondamentali all’inizio della ricerca e, aspetto primario, a noi interessa trovare Giovanni Piras. Di fronte a tale affermazione il Sindaco rimane colpito, ci guarda con aria di maggior rispetto e ci racconta che, in fondo, anche lui, nonostante sia ovviamente stregato da questa leggenda, è maggiormente affascinato dall’aspetto del giovane emigrante, di quel diciottenne che ha lasciato la famiglia, gli amici, la propria terra per un mondo sconosciuto e poi è scomparso. Perché è scomparso? Perché la sua famiglia non ha mai riscattato il terreno ipotecato per il quale lui ogni settimana mandava dei soldi, frutto del duro lavoro? Perché i fratelli gli hanno taciuto la notizia della morte della madre, appresa casualmente da un compagno appena arrivato dal paese? Perché sarebbe stato pericoloso mantenere la vera identità una volta ottenuto un lavoro di prestigio, precluso a cittadini stranieri? Tutte illazioni, nessuna certezza, solo dicerie riportate di bocca in bocca, e poi, è così difficile che un sardo riesca a cancellare le proprie origini... “Ma non è vero che ha cancellato le proprie origini! Anzi, le ha sempre sbandierate ai quattro venti, anche dopo essere diventato un personaggio pubblico!” puntualizza Faustina. A questo punto il Sindaco ci guarda di sottecchi e ci chiede: “Ma allora, secondo voi è lui?”
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Siamo per le strade di Mamoiada, passiamo di fronte alla chiesa sempre in compagnia di Graziano Deiana che ci rassicura: sono già venuti in tanti, ma nessuno ha avuto veramente l’intenzione di cercare quel giovane ragazzo partito nell’estate del 1909, facciamo bene a cercarlo. Lui ha assistito a tante conferenze, anche il Comune ne ha organizzate, ma tutti sembrano cercare solo notorietà, ormai si sono formate anche due fazioni che si fanno i dispetti l’un l’altra, una non si sa nemmeno da chi sia composta, quasi che voglia appropriarsi della leggenda, ma la leggenda è di tutti, tutti la conoscono nel nuorese e, chi più e chi meno, ci crede... “Sono ancora vive tante persone che possono raccontare quello che si diceva all’epoca in cui scoppiò il caso, alla fine degli anni ’40, e poi ci sono i figli e i nipoti di chi lo conobbe.” Di fronte alla casa delle sorelle Crisponi c’è un piccolo negozio di alimentari, le donne ferme lì davanti ci guardano tra il curioso e l’ostile. “Che cercano a casa delle vecchiette con una telecamera?” Mariangela e Clorinda, ormai ultraottantenni, vivono da sole a Mamoiada. Sono figlie di Mario Crisponi, un emigrato del paese che partì, ci tengono a sottolinearlo, per puro spirito di avventura, lui aveva studiato e non andò là in cerca di fortuna come bracciante, come facevano gli altri, fatto sta che comunque il “babbo” frequentò Piras a San Cristóbal poi, per amor di patria, rientrò nel ’15 per la guerra, come in pochi fecero. La più loquace delle due, quella che ci riceve, è Clorinda, che ci intontisce subito iniziando a parlare del “babbo”, di quanto fosse intelligente, colto, una brava persona e di quanto invece, là dove lui lavorava, si parlasse poco bene di questo Perón. “Perón?” chiediamo. “Eh... quello lì doveva essere un traffichino... non si mescolava con i compaesani, con i mamoiadini... quello lì, com’è che si chiamava prima? Pira... Piras... stava sempre da solo, a studiare, per darsi alla scalata sociale... e poi lui aveva dimenticato l’Italia e la Sardegna e incitava tutti a fare lo stesso.” Allora le facciamo la domanda fatidica, se è vero, come lei ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Raffaele Ballore, un ricercatore che si sta dedicando al caso, che una sera suo babbo, tornato a casa dopo una bevuta con gli amici, abbia confessato che in realtà il giovane Piras Giovanni era diventato in Argentina il grande Juan Domingo Perón. Lei ci guarda sgranando gli occhi e si vede che sta meditando la risposta, quasi come per non tradire la memoria del babbo, che aveva chiesto loro di non dirlo a nessuno perché, come è riportato nella relazione di Ballore, “avrebbero potuto metterlo nei guai.” Ci risponde che questa è una cosa che non si può dire: “No... proprio così, non si può dire, anche perché allora, ai tempi del babbo, c’era un segreto...” Dopo averci lasciati a bocca asciutta, continua a parlarci del babbo, che si era anche innamorato in Argentina di una certa Clorinda, figlia del padrone, lo stesso dei tanti mamoiadini emigrati e di Giovanni, un don Tizón o don Tinzón d’origine italiana, che gli aveva voluto subito bene e gli aveva dato un incarico importante, di responsabilità, perché il “babbo” non era come gli altri, aveva studiato, sapeva far di conto e poi era tanto onesto, se non fosse dovuto partire l’avrebbe sposata quella Clorinda. Poi continua a fare riferimento al nostro Giovanni, chiamandolo indifferentemente una volta Piras, l’altra Perón. Prima di andare via chiediamo se possiamo vedere una foto del Crisponi, non si sa mai, magari lo si può riconoscere in qualche foto con Piras o Perón da giovane. Clorinda inizia a cercare e chiede alla sorella di prendere il santino della morte del padre, e qui scatta il dramma. Come una furia scatenata, un cerbero di guardia alla memoria del padre defunto da ormai quasi cinquant’anni, l’anziana Mariangela ci porta il santino, ma ci urla in faccia che non possiamo pubblicarla da nessuna parte, che dobbiamo avere rispetto del “babbo” che era una persona onesta, molto fine e molto intelligente. Usciti da casa Crisponi, Faustina e Piero discutono perplessi dell’accaduto: il “babbo” era innamorato di una certa Clorinda, la figlia del padrone, un certo Tizón o Tinzón... forse la sorella di Aurelia? L’Aurelia Tizón, prima moglie di Perón? Camminando arriviamo alle vigne alle porte di Mamoiada (le vigne, si dice, che producono il vino migliore della Sardegna). Intento a lavorare fra i tralci un personaggio meraviglioso: Ziu Franziscu Piras,
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lontano parente di Giovanni e di Piero e amico del fu Giovanni Agostino Mele, emigrato nel 1909 con il Piras che ha continuato a frequentare per un lungo periodo. Appena ci vede sfodera il suo meraviglioso sorriso di novantatreenne, strizzando i vispissimi occhi celesti. Gli chiediamo di raccontarci, di nuovo, cosa diceva il suo amico Mele quando tornò a Mamoiada: “Giovanni, all’epoca, e si parla del 1939 o del ’40, stava bene, stava studiando grazie alla fidanzata, la figlia del padrone, un certo Tizón o Tinzón, che gli fece falsificare i documenti per farlo entrare all’accademia militare.” Poi, d’un tratto, confessa: “Per me è lui, ci sono i testimoni oculari, allora era segreto perché poteva essere pericoloso dirlo, ma è evidente a tutti, anche perché lì li cambiavano i nomi, qua era Giovanni Piras, là lo chiamavano Juan Perón... e lo sapevano tutti, quelli che erano partiti con lui, quelli del paese...” Poi dà uno sguardo al suo vigneto e la mente gli corre al vecchio terreno che la famiglia Piras aveva impegnato e poi venduto a Renato Meloni, un nobile della zona, per far partire Giovanni. “Un terreno importante,” continua, “con quei soldi avrebbero potuto anche comprare due grossi buoi da soma, ma la famiglia si sacrificò per Giovanni e lui, appena arrivato in Argentina, iniziò a spedire la sua paga per far riscattare il terreno, ma questo non avvenne, forse per questo lui ci è rimasto male e ha tagliato i ponti con la famiglia...” Alla sera, davanti ad un’ottima cena locale, Faustina e Piero tirano le prime somme: è lui... non è lui... i Tizón che ritornano sia nella vita di Piras sia in quella di Peròn; certo che, ripensando alle Crisponi, Aurelia non ha mai avuto una sorella di nome Clorinda, e poi la falsificazione dei documenti per entrare alla scuola militare, è così strano... È incredibile come questa storia abbia preso chiunque. Il giorno dopo andremo a trovare Giannetto Deiana, nipote di quel Pietro Deiana che partì con Piras nell’estate del 1909. Piero racconta a Faustina la sua storia: anche lui, come Piras, fece carriera nelle ferrovie come macchinista, poi come capostazione, e contribuì allo sviluppo delle forze sindacali. Piero ha un suo documento, un attestato di fedeltà a “La Fraternidad”, forza sindacale dei macchinisti, su cui compaiono le molte firme dei suoi compagni. Bisognerebbe avere l’elenco dei firmatari e capire a che periodo si riferisce; la firma di Piras, comunque, manca... Secondo la relazione di Raffaele Ballore, quando Pietro all’incirca negli anni ’50 tornò a Mamoiada per visitare amici e parenti, si vantava del fatto di essere diventato grande amico di Perón e di Evita. Alle domande che gli venivano poste su Giovanni Piras, Pietro rispondeva solamente che stava bene, che non ci si doveva preoccupare per lui, ma che doveva essere lasciato in pace perché ricopriva una carica importante. Quando Caterina, sorella di Giovanni, venne a sapere del rientro di Deiana, fece di tutto per incontrarlo, ma lui di fronte ai suoi inviti fu sempre molto reticente finché, uno degli ultimi giorni della sua permanenza a Mamoiada, cedette e l’andò a trovare. Il colloquio si concentrò ovviamente su Giovanni: Pietro, come gli altri in precedenza, rassicurò Caterina sulle sorti del fratello e le disse che stava bene, che aveva fatto fortuna, ma di lasciarlo stare, di non cercarlo. Ma Caterina insisteva, voleva sapere che cosa facesse il fratello in Argentina, perché non si facesse più vivo con la sua famiglia. Alla fine, esausto, Pietro mostrò alla donna l’orologio da taschino di cui andava tanto fiero perché, diceva, gli fu regalato da Perón e le disse: “Lo vedi questo? Me lo ha regalato Giovanni!” Ma anche dopo questa dichiarazione la sorella non si dette per vinta e insistette per avere un indirizzo dove scrivere per avere sue notizie. Di fronte ad una tale tenacia, Pietro cedette e le lasciò un indirizzo “importante”, ma si raccomandò sull’utilizzo che avrebbe dovuto farne, perché un uso sfacciato avrebbe potuto mettere in serie difficoltà il fratello. E a quell’indirizzo appartenente ad un consolato fu scritto, ma non è chiaro come; Piero non riesce a ricordare, o forse è proprio la leggenda che a questo punto si ingarbuglia: sua zia Mariangela, figlia di Caterina, sostiene di averla scritta lei di suo pugno e che, a stretto giro di posta, sarebbe tornata indietro una cartolina (la ricevuta di ritorno?) firmata dallo stesso Perón. Ma questa cartolina sarebbe stata rubata in un furto “particolare”. Anche Faustina si ricorda di questa storia, secondo la quale, negli anni ’50, avvenne un furto nella casa di Piras, allora abitata dalle sorelle, e furono portati via tutti gli oggetti riguardanti Giovanni tra cui una foto che lui aveva mandato dall’Argentina, in cui appariva in uniforme, le lettere e la cartolina.
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Faustina chiede se il padre di Piero, Giovanni Salerno, si ricorda di questo furto; il giorno seguente, dopo aver visto Giannetto, andranno a trovare anche il padre di Piero. Ma di lettere mandate all’indirizzo “importante” ne risulta anche un’altra che Caterina fece scrivere dalla maestra del paese, la signorina Vitzizai. Anche a lei tornò indietro una cartolina, firmata solamente “Piras”. Adesso è nelle mani del figlio della maestra che sa di averla, ma da quando è morta sua madre non ricorda dove l’ha messa... sarà bene che la ritrovi! Al mattino troviamo Giannetto Deiana, anche lui splendido ottantenne, intento a lavorare nell’orto. Appena ci vede ci viene incontro sorridente, poi si ferma a guardare Piero, lo osserva, sempre sorridendo e facendo un impercettibile sì con la testa: “Tu sei il... nipote, eh...” Ci accomodiamo sotto il portico e gli spieghiamo che abbiamo appena iniziato il lavoro e stiamo cercando più testimonianze possibili. Anche lui ci dice di aver già incontrato molte persone che gli hanno chiesto di questa storia, ma non c’è problema, a lui piace ricordare i tempi in cui lo zio tornava a casa e raccontava loro, ai bambini, quelle avventure meravigliose di treni che percorrono paesaggi misteriosi, lontani e selvaggi. Come tutti inizia a raccontare la storia dello zio Pietro, stimato rappresentante del sindacato ferroviario e, dai suoi racconti, grande amico di Perón e di Evita. Quando gli chiediamo che cosa dicesse suo zio di Piras alza le spalle. “E cosa diceva... non voleva dire niente... diceva che stava bene, che aveva fatto fortuna e che non andava disturbato perché era pericoloso. Il suo indirizzo non volle darlo a nessuno... lui lo conosceva, ma non volle darlo a nessuno...” Allora gli ricordiamo la relazione di Ballore, dove abbiamo letto cose diverse... Giannetto si ricorda improvvisamente della storia dell’orologio, l’orologio da taschino che lo zio portava sempre con sé, non se ne separava mai perché era “come se” glielo avesse regalato Perón. “In che senso, come se?” chiede Faustina, e lui chiarisce che quello era un orologio, mica tanto prezioso, forse neanche d’argento, che davano però ai macchinisti della Forestal, era un oggetto di riconoscimento importante e aveva inciso sopra un treno. Quanto al fatto che Pietro fosse stato a casa di Caterina Piras non ne sa niente, anzi, sostiene che lo zio rifiutò sempre il suo invito e per l’indirizzo insiste che lui non lo dette mai a nessuno. Salutiamo cortesemente, ma usciamo infuriati: insomma, forse è il caso di incontrare i ricercatori che hanno iniziato a studiare il caso molto prima di noi, è impossibile che ci siano incongruenze tali tra due testimonianze. Mentre organizziamo gli incontri con gli “scrittori”, ci avviamo a casa dei genitori di Piero per il pranzo; speriamo che il padre possa raccontarci qualcosa di più concreto. La casa dei Salerno è grande e accogliente, con le numerose stanze che hanno visto crescere i tredici figli. Subito ci vengono incontro i genitori. Entrambi sono convinti che il Piras sia diventato il Generale. Da giovane, Giovanni Salerno non si era mai interessato a tutta questa storia, un po’ perché si era sentito offeso: “Ma come, è diventato così ricco e non si ricorda dei familiari?” E un po’ perché, da buon sardo, pensava: “Se non vuole farsi trovare, comunque, avrà i suoi motivi... perché devo dargli fastidio?” Ricorda la foto che Giovanni Piras aveva mandato dall’Argentina e che una sua zia aveva appeso nella sala della casa ma, a differenza delle altre testimonianze, lui ricorda un uomo in abito scuro e farfallino, non in divisa militare. Ricorda anche il furto avvenuto nella casa delle zie, ma anche qui c’è un’incongruenza enorme con le versioni già ascoltate: non si tratterebbe di un furto avvenuto negli anni ’50, ma negli anni ’70, quando ormai la casa era abbandonata e diroccata e, oltre tutto, non sarebbero stati rubati solamente oggetti riguardanti Piras, ma quei pochi oggetti “preziosi” che vi erano rimasti, tra cui anche la famosa foto. Il resto delle lettere e degli oggetti che venivano custoditi in quella casa, ci dice, sono stati persi negli anni o addirittura bruciati quando la casa fu venduta. La mamma di Piero, Giuseppina, ha paura della telecamera, non le piacciono “queste diavolerie moderne”. Ricorda che una volta, nel 1950, quando era dal parrucchiere lesse un articolo su una rivista, Epoca o Gente, non ricorda, in cui si parlava di Perón, dei problemi che stavano nascendo con gli oppositori e di come lui non si desse per vinto perché: “Anche se gli fossero andate male le cose, i suoi parenti, al suo paesello, un piatto di minestra glielo avrebbero dato.” E di quali parenti stava parlando, se al suo paesello non è mai vissuto alcun parente? La famiglia Perón risiede, infatti, tutta
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a Buenos Aires. In verità, non si sa neppure quale sia il vero “paesello” di Perón! È tuttora in corso una diatriba tra i comuni di Lobos e Roque Perez che vogliono entrambi appropriarsi dei natali del Presidente e, curiosamente, le biografie ufficiali hanno sempre evitato l’argomento relativo alle sue “origini”. Giovanni Salerno ci consiglia di andare a parlare con la nipote Luciana. A Piero scappa un sorriso: sembra che la cugina Luciana abbia fatto di questa storia la sua ragione di vita. Da quando aveva quattro anni ha sempre seguito gli sviluppi del caso, ha sempre raccolto materiali, giornali, foto, interviste ed è la fornitrice “ufficiale” di ogni ricercatore. Ha addirittura litigato con uno di loro perché si era permesso di trattare l’argomento in un modo che lei non approvava. Usciamo ancora più affranti. Di tutte le notizie che avevamo nessuna è certa: il furto, la foto in divisa, l’orologio del Deiana, la cartolina della maestra che non si trova. In tutto questo mancano i dati concreti; rimangono soltanto le coincidenze: il 26 marzo, data di nascita di Piras, è la data della festa dei sardi in Argentina voluta da Perón; la data ufficiale di nascita di Perón è l’8 ottobre 1895, data in cui Piras fu cresimato; infine il riconoscimento di Perón da parte della sorella Caterina attraverso una foto. Marianna Salerno, zia di Piero, ricorda chiaramente quando la mamma riconobbe il fratello Giovanni. Don Meloni, che si faceva mandare dalla città delle riviste, la fece chiamare per farle vedere una foto del Generale con Evita. Come la vide, Caterina scoppiò in lacrime perché aveva riconosciuto il fratello Giovanni. Ma a riconoscere Piras in una foto di Perón non fu solo sua sorella; c’è anche la testimonianza registrata di Francesco Gregu, vecchio amico di Piras e compagno di lavoro in Argentina, che lo riconobbe in una foto su Famiglia Cristiana in cui appariva con la terza moglie Isabelita durante l’esilio a Madrid. Arrivare da Luciana è un’odissea: vive in campagna verso Cagliari e per arrivare alla sua tenuta bisogna prendere dalla strada principale una stradina sterrata che porta nell’interno, ma queste stradine sono tutte uguali. Finalmente imbocchiamo quella giusta: la tenuta è meravigliosa. Luciana e il marito ci aspettano sulla porta. Ci raccontano del loro primo incontro: lui si pavoneggiava con le ragazze dicendo di essere il nipote del famoso Gramsci (e qui non c’è dubbio alcuno!), tutte lo guardavano a bocca aperta, affascinate, tutte tranne Luciana che lo ghiacciò con “E vabbè... io sono la nipote di Perón, e allora?” Luciana è davvero la più convinta che abbiamo incontrato, dimostra una passione e un entusiasmo travolgenti. Poco prima di pranzo, quando entra in casa il figlio ha inizio la prima verifica: con aria autoritaria lo fa sedere sul divano, chiedendogli di far finta di leggere: “Guardategli la stempiatura... è quella di Perón, è uguale a quella di zio Giovanni.” Poi passa a Piero: presa una foto di Perón, con la lente d’ingrandimento ci fa notare la forma delle vene delle sue mani; prende in mano il braccio del nipote e inizia a scuoterlo facendo scorrere il sangue verso la mano: “Guardate, guardate le vene di Piero, sono uguali a quelle dello zio!” Ci racconta di aver capito che “suo zio Giovanni” lasciò volutamente delle tracce alle persone più affezionate e più attente, per risalire non solo alle prove della parentela ma anche ai codici dei presunti conti svizzeri che Isabelita, terza moglie di Peròn, non è riuscita a trovare. Luciana, infatti, facendo combaciare alcune date, dice di essere riuscita a trovare alcune informazioni sui codici, ma sta ancora cercando una strategia per arrivare in incognito in Svizzera. A questo proposito racconta: “Qualche anno fa raccontavo al telefono la storia dell’anello di Perón ad una mia conoscente...” e si riferisce all’anello con incise le iniziali MM che Marianna Massidda, madre di Piras, avrebbe regalato al figlio il giorno della sua partenza. “E due giorni dopo hanno tagliato le mani a zio Giovanni...” Pertanto ci convince che, quando dobbiamo aggiornarci al telefono su nuovi avvenimenti, dobbiamo stare attente e trovare un codice per parlare. Purtroppo, neppure lei ci racconta niente di rivelatorio, ma consiglia che l’unico modo per verificare l’identità dello zio è quello di andare in Argentina e di ricercare in loco, perché da qui non è possibile consultare nessun ufficio e quelli del Comune ormai li conosce come le sue tasche. Forse l’unica cosa
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che non l’ha convinta qui in Sardegna è stato il certificato di battesimo di Piras che sembra essere stato falsificato perché scritto diversamente da altri certificati. Ma in Argentina qualcuno è andato a condurre una ricerca: Peppino Canneddu, lo stesso che registrò la dichiarazione di Francesco Gregu, primo a studiare questa ingarbugliatissima storia e a scriverne un libro, Juan Perón - Giovanni Piras: due nomi una persona. Amministratore di un’agenzia turistica del nuorese, appassionato di giornalismo, conobbe la storia di Piras quando era ancora bambino e fin da allora rimase affascinato dall’idea che un piccolo emigrante fosse riuscito a diventare Presidente di un paese straniero. Intervistato, confessa di essere stato un po’ ingenuo a pensare di risolvere la questione con il tipo di ricerca condotta, da solo, in Argentina. Arrivato a Buenos Aires alla fine degli anni ’70, decise di fare chiarezza sulla figura di Perón, cercando di accedere agli archivi militari, ai documenti ufficiali, senza aver nessun tipo di aiuto o appoggio sul luogo. Ovviamente non ebbe alcun successo. Erano i giorni delle prime manifestazioni delle Madri di Plaza de Mayo, tempi molto caldi e pericolosi. Ci fa vedere le foto scattate alle manifestazioni di piazza e il suo libro scritto sui desaparecidos. Nel suo viaggio, racconta, riuscì comunque a contattare le nipoti di Aurelia Tizón, che gli hanno permesso di fotocopiare le lettere di Perón, che sono poi servite ad un’analisi calligrafica condotta da un perito del tribunale di Nuoro. L’analisi confermerebbe che i testi, uno del Generale e uno del giovane Piras, sono stati scritti dalla stessa mano. Purtroppo, per avere attendibilità legale, esami di questo genere devono essere condotti su testi originali. Canneddu ci rassicura, ci darà l’indirizzo delle nipoti di Aurelia e potremo convincerle a farci dare una delle lettere originali per rifare il test. A proposito delle sorelle Tizón, ricordiamo le parole di Luciana che ci ha consigliato di andare a scavare proprio nel primo matrimonio di Perón, tralasciato dalle prime biografie ufficiali e trascurato da tutti. Non si hanno neppure delle foto di quell’evento, nonostante il padre di Aurelia fosse un fotografo. Secondo Luciana, Aurelia si sposò con “Piras” (tesi convalidata dal Gregu che racconta del fidanzamento di Piras con Lia Tizón) e non con “Perón”, per questo il matrimonio non viene riportato nelle biografie ufficiali. Canneddu era anche riuscito a sapere che alla Casa Rosada era stata allestita una sala con molti effetti personali del Generale e che questi avesse dato disposizioni affinché fosse aperta dieci anni dopo la sua morte. Purtroppo, nel 1984 il governo ne rimandò l’apertura di dieci anni e la stessa cosa è accaduta nel 1994 e nel 2004. Racconta Peppino che ogni giorno si è recato alla Casa Rosada, sperando di convincere le guardie a farlo entrare nella sala, ma l’unica cosa che ha ottenuto, e non è cosa da poco, è stata di farsi raccontare che cosa vi fosse custodito: tra gli altri oggetti, un anello con incise le iniziali MM e una vecchia Bibbia (nella lettera di Piras, datata San Cristóbal 1912, si trova la richiesta di invio di una Bibbia che, come testimoniano le parole del Gregu, Giovanni portava sempre con sé perché molto religioso). L’ultima cosa che ci racconta Peppino è di stare attenti in Argentina, perché è molto pericoloso fare ricerche su un mito come Perón. Dopo qualche settimana che si trovava a Buenos Aires, infatti, lui fu contattato da un editore che si dichiarava interessato a pubblicare il suo libro in Argentina e quindi chiedeva di incontrarlo. Nell’ufficio dell’uomo Peppino capì ben presto che non si trovava di fronte ad un editore bensì, probabilmente, ad un funzionario del Governo o della polizia, un tale Juan Carlos che non ci mise poi tanto a dirgli di lasciar perdere tutta quella storia: “In Argentina ci sono 30.000 desaparecidos, 30.000 o 30.001 non fanno differenza in questo momento...” Poi fu molto cordiale, lo prese sotto la sua custodia e tre giorni dopo lo imbarcò su un aereo per l’Italia. Canneddu si presenta come un collaboratore “onesto”, ci mette a disposizione tutti i contatti che ha, tra cui Mario Melis, ex Presidente della Regione Sardegna, e ci racconta che questi una volta incontrò
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il Presidente argentino Alfonsín e che ci furono degli scambi di battute sull’argomento. L’intervista è stata filmata proprio pochi mesi prima della sua scomparsa. Uomo colto, pacato e sorridente, Mario Melis ci riceve nello studio di casa sua mentre studia lo sfruttamento delle risorse minerarie sarde. Quando gli spieghiamo il perché della nostra visita, visto il personaggio, cerchiamo di essere diplomatiche, senza pendere troppo né dalla parte della leggenda né da quella della verità. Ma è lui che ci stupisce: ci assicura che ormai è provato che Perón fosse sardo; racconta infatti che durante un incontro avuto con Alfonsín per instaurare rapporti economici tra la Sardegna e l’Argentina, il Presidente sudamericano gli avrebbe fatto una battuta a proposito dei danni disastrosi provocati da Perón ai quali la Sardegna avrebbe dovuto rimediare. Melis, che allora non era a conoscenza della storia Piras-Perón, e che pensava che il Generale avesse origini trentine, altrettanto ironicamente rispose che semmai avrebbero dovuto rivolgersi al Trentino Alto Adige. Alfonsín lo gelò rispondendo: “No, no... Perón era sardo, lo sanno tutti!” Faustina e Piero sono seduti di fronte alla Tomba del Gigante, ognuno perso nei propri pensieri. Stanno cercando di capire come continuare questa ricerca e avere possibilmente qualche oggetto o qualche cosa di tangibile che dimostri la “leggenda”. Secondo Piero è inutile andare a cercare gli altri due scrittori, mentre Faustina vuole incontrare almeno Ballore: non si capisce come mai lui abbia avuto delle testimonianze così forti che poi non abbiamo avuto noi dalle stesse fonti. Forse non si fidano di noi? O magari lui ha calcato la mano, sono sembrati tutti così disponibili... e poi la maggior parte delle dichiarazioni “chiave” gli sono state date dalla zia Marianna Salerno, che è un’altra appassionata, lei vuole assolutamente che si creda a questa storia. Dice Piero: “Mia zia racconta che Rino, suo figlio, negli anni ’80, in occasione di un viaggio in Argentina, contattò un avvocato di Buenos Aires perché seguisse tutta la questione Piras-Perón ai fini dell’eredità. Una volta arrivato in Argentina, Rino incontrò questo avvocato e gli consegnò un plico da analizzare. Da quel momento, nonostante i numerosi tentativi, non riuscì più a mettersi in contatto con l’avvocato, fino al giorno della sua partenza in cui questi gli diede appuntamento in aeroporto. Lì gli riconsegnò il plico dicendogli di non poter fare niente per loro e consigliandogli di lasciar perdere, perché questo fatto poteva essere troppo rischioso.” Siamo in un ristorante, nel bel mezzo della cena si presenta un uomo sui quarantacinque anni, capelli corti brizzolati e sguardo molto attento. Piero lo saluta e ce lo presenta come Rino Crisponi, il figlio di zia Marianna (zi’ Minnanna). “No... non è andata proprio così...” racconta sorridendo. “In effetti, avrei fatto comunque un viaggio in Argentina per vacanza e nell’occasione, parlando con mamma, decidemmo di contattare un avvocato di Buenos Aires per chiedere un consiglio su come muoverci. Io lo trovai e quando lo incontrai gli detti il libro di Peppino Canneddu per metterlo al corrente della storia. Poi lui non si fece più vivo e io prima di partire lo chiamai. Mi disse che mi avrebbe raggiunto all’aeroporto prima della mia partenza. Là mi restituì il libro e mi disse che non avrebbe potuto accettare l’incarico perché, per l’eredità, stava già seguendo il caso di una presunta figlia, Marta Holgado.” Da una serie di articoli di giornale sul caso Marta Holgado scopriamo che è nata nel 1935 da Maria Cecilia de Marchi e, a detta sua, da Juan Domingo Perón. Si racconta che la madre, appena conosciuto il Presidente, subito si innamorò di lui e lui di lei. Ma entrambi erano già sposati. Si amarono e un anno dopo nacque Marta. All’epoca Perón era stato trasferito in un’altra zona e Maria Cecilia stava ancora insieme al marito che non ebbe problemi a riconoscere la bambina. Quando Perón seppe che era nata “sua figlia”, anch’egli volle riconoscerla. Marta parla di un certificato di nascita dove compariva la firma del Presidente, certificato che è poi scomparso. Ormai grande, Marta, contattata dal vero papà, aveva iniziato a frequentarlo, diventando sua amica e confidente. Sia Isabelita che Lopez Rega, ultimo segretario personale di Perón, non vedevano di buon occhio questo rapporto e iniziarono a metterle i bastoni tra le ruote fino a farle scomparire il certificato di nascita. L’ultima arma che adesso rimane
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alla Holgado per dimostrare la paternità di Perón è la prova del DNA che ha già richiesto dieci anni fa e non è mai stata fatta nonostante il permesso concessole dal tribunale. Uscendo dal comune di Mamoiada con un plico di fotocopie dateci da Antonietta Sedilesu, incontriamo il Sindaco che ci chiede novità; lo mettiamo al corrente del nostro sconforto. Ci consiglia di andare a trovare Giovanna Porcu, psicanalista affezionata all’argomento, che qualche anno fa si è recata in Argentina per lavoro e ne ha approfittato per fare un’indagine. “Ma tu cosa senti?” chiede insistentemente Giovanna Porcu a Piero mentre ci accomodiamo nel suo studio; con aria concentrata continua a fissarlo come a cercare delle somiglianze con Perón. La dottoressa sostiene infatti che ognuno di noi mantiene in sé una sorta di codice genealogico dei sentimenti per cui, in Piero, dovrebbero convivere un po’ del Perón e un po’ dei suoi bisnonni, nonni, parenti e, di conseguenza, dovrebbe anche sentire in lui quella rabbia atavica per un parente diventato famoso che si è dimenticato dei suoi cari. La dottoressa ci racconta del suo viaggio in Argentina per una conferenza sull’emigrazione. All’epoca non conosceva la storia di Giovanni; qualche giorno prima della partenza una persona con cui lavorava le chiese di indagare sul caso. In generale, negli ambienti sardi, si rese conto che era di dominio pubblico la notizia che Perón fosse di origine sarda. Di origine, non di natali. Un giorno Giovanna riuscì ad incontrare la sorella di Beppe Zidda, emigrato sardo che divenne molto amico di Perón, prima cuoco e poi sindacalista. La donna, per tutta la durata dell’incontro, negò fermamente di sapere qualcosa in proposito, anzi, sosteneva che fossero solo chiacchiere ma, quando la Porcu varcò la soglia della casa per andarsene, la Zidda, nel salutarla, le disse: “E comunque Perón era un uomo intelligentissimo... come del resto tutti i mamoiadini sono intelligentissimi!” Niente di eclatante nemmeno qui, ma comunque Giovanna ci ha dato l’indirizzo della Zidda che ci servirà in Argentina. A questo punto siamo ad un bivio: testimoni diretti, almeno in Sardegna, non ce ne sono più, dobbiamo incontrare Raffaele Ballore, giusto per chiarire perché nella sua relazione compaiono testimonianze che noi non siamo riusciti a raccogliere, e Salvatore Dui, forse il sardo che è stato più vicino a Perón. Si parla di Salvatore Dui sempre nel libro di Canneddu che lo ha intervistato circa venti anni fa. Purtroppo adesso non sta bene. Al telefono la nipote ci dice che non possiamo incontrarlo perché è costretto a letto e la sua malattia lo ha privato della memoria, tanto che non riconosce più nemmeno i familiari. Fortunatamente ha tre fratelli che sembra abbiano conservato anche degli effetti personali di Salvatore. Questa notizia ci abbatte, avevamo sperato fortemente di incontrarlo: è l’unico testimone vivo che abbia conosciuto di persona Perón. I fratelli Dui vivono uno a San Teodoro, uno a Jesi, uno a Tuscania. Speriamo che abbiano una copia dell’intervista che il fratello fece a Perón. Iniziando a parlargli in sardo, sembra che Perón avesse capito perfettamente ciò che Salvatore gli stava dicendo, tanto che gli rispose. Ma alla domanda: “Ma lei è sardo?” lui si alzò e, sorridendo, lo lasciò senza risposta. Salvatore arrivò in Argentina come uno dei tanti braccianti ma, dimostrando di essere un uomo onesto, un buon lavoratore e soprattutto di avere una preparazione scientifica, riuscì col tempo a diventare addirittura direttore del Banco de Italia y Rio de la Plata. Peronista sfegatato, scrisse un testo, Astros de justicia social bajo la cruz del sur, apologia del peronismo, che fu molto apprezzato dal Generale. Gavino Dui, il fratello di Salvatore, ci racconta che all’epoca, in Argentina, non appena arrivava un sardo, veniva direttamente sistemato in un posto di lavoro di tutto rispetto, sempre grazie alle direttive di Perón che, era risaputo, aveva tra i suoi collaboratori, domestici ed entourage, una schiera di sardi. Quando Gavino arrivò in Argentina, grazie all’amicizia che legava suo fratello al Generale, gli trovarono subito un posto nelle fondazioni di beneficenza di Evita, posti che difficilmente venivano assegnati a uomini, soprattutto non raccomandati. Per non parlare poi del lasciapassare che procurò loro Perón,
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alla caduta del suo governo, per scappare in Brasile. Gavino però rimase troppo poco in Argentina OGGETTI per conoscere il rapporto che Salvatore aveva con il Generale. Si susseguono in un montaggio serratissimo una serie di volti di giovani e anziani sardi, già conosciuti e no, che ripetono coincidenze e dati che attesterebbero l’identità Piras-Perón: il cane di Perón si chiamava Canela che era il soprannome di un amico sardo di Piras! Il piatto preferito di Perón era il pane e pomodoro che è una ricetta tipica sarda! La scala della sua residenza a Madrid era uguale a quella di Mamoiada! La data di nascita di Perón corrisponde a quella della cresima di Piras! Perón parlava troppo bene l’italiano! Poi un piano a due delle facce attonite di Faustina e Piero. Dunque in Italia non rimane altro, dobbiamo partire per l’Argentina. Dai consolati non rispondono, c’era da aspettarselo, vista la drammatica situazione in cui versa l’Argentina. I Piras che vivono tuttora là (e una sessantina li abbiamo interpellati) non hanno nessuna relazione con il nostro Giovanni: non ci resta che andare a cercare di persona sul posto. A Buenos Aires cercheremo l’appoggio, in primo luogo, delle associazioni di sardi emigrati in Argentina, quelli che Perón stesso frequentava. Solo loro possono anche farci chiarezza sulla storia della festa dei sardi che Perón istituì il 26 marzo, giorno del compleanno di Piras. Attraverso queste strutture sarà anche più facile risalire a documenti e materiali riguardanti il nostro Giovanni. Oltre alle associazioni sarde, i luoghi più frequentati dai lavoratori emigrati erano, all’epoca, i sindacati che nascono proprio per volontà di Perón. La prima a nascere fu quella dei ferrovieri, la Fraternidad, di cui sicuramente Giovanni faceva parte; nei nostri programmi è quindi da inserire una ricerca all’interno degli archivi del sindacato ferroviario dell’epoca, nonché su tutto il materiale riguardante la Forestal, azienda addetta alla costruzione delle ferrovie e al loro funzionamento dove lavorava, appunto, Piras. In Argentina possiamo anche cercare notizie di quel “padrone” di origine italiana, don Tizón o don Tinzón, che tanto volle bene al Crisponi, che aiutò Giovanni, dopo essersi fidanzato con la figlia, e che comunque aveva alle dipendenze tutto il gruppo partito con Piras. Il padre di Faustina è un noto giornalista che vive e lavora a Buenos Aires; grazie a lui, avremo la possibilità di diffondere un comunicato via radio, dove comunicheremo che stiamo cercando i discendenti di un Giovanni Piras emigrato da Mamoiada nel 1909. Vista la situazione che l’Argentina sta attraversando, i discendenti degli emigrati sentono la necessità e il piacere di rintracciare le proprie origini. È possibile, se il Piras non è mai diventato Perón, rintracciare in questo modo eventuali figli o nipoti. Sappiamo che, grazie all’appoggio di questa giovane Lia Tizón o Tinzón, Giovanni frequentò una scuola, a detta di molti un’accademia militare. È ovvio che Lia e Aurelia possono non essere la stessa persona ma, in entrambi i casi, un ruolo fondamentale in tutta questa storia lo stanno giocando le due nipoti di Aurelia, rimaste sempre in contatto con Perón, che nutriva per loro un amore quasi filiale. È importante cercare di capire il tipo di atteggiamento che hanno di fronte a questa leggenda, visto che hanno già permesso a Peppino Canneddu di analizzare gli scritti originali del Presidente per la prova calligrafica. Che sappiano qualcosa e abbiano voglia di far scoprire finalmente una verità tenuta finora nascosta? Com’è possibile che non si menzioni, praticamente mai, questa giovane che fu la prima moglie di Perón? Che non si sappia niente della loro vita privata, mentre di Evita e di Isabelita si conoscono ormai vita, morte e miracoli? Particolarmente per Evita! Paradossalmente qualche mese fa sono saltate fuori da casa Tizón delle foto di Aurelia in gondola a Venezia, risalenti agli anni ’30. Non si è mai saputo che Perón abbia fatto un viaggio in Italia in quel periodo, ma con chi poteva essere Aurelia se non con il marito? E quali regioni d’Italia hanno visitato? Perché nei numerosi viaggi di Perón in Italia non si è mai recato in Sardegna? E soprattutto, perché non si conosce niente della vita di Perón negli anni del matrimonio con Aurelia?
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Si dà il caso che le uniche persone a conservare tutto il materiale della coppia Perón-Tizón siano proprio le due nipoti di Aurelia. Un altro personaggio chiave sarà la signora Zidda, nella speranza che con noi si apra di più; è possibile che tutti coloro che sono stati vicini a Perón, se affascinati da questa storia, si commuovano o comunque si lascino un po’ andare di fronte a Piero, il “presunto” nipote. Altri luoghi fondamentali da visitare sono gli archivi militari, o comunque le accademie, che sicuramente hanno conservato i registri dell’epoca e se un italiano ha frequentato le loro aule non può essere rimasto inosservato. Non è chiaro nemmeno se fosse possibile, nei primi anni del secolo, che un italiano si iscrivesse all’accademia militare. Questo può farci capire se, eventualmente, Piras abbia veramente avuto bisogno di cambiare nome per la scuola, o per qualche altro motivo. È vero che, ammettendo che Piras sia diventato Perón, certamente i documenti saranno stati perlomeno modificati, se non fatti letteralmente sparire. Naturalmente, considerando lo stato in cui versa l’Argentina, non sarà facile arrivare direttamente a dati, certificati e documenti di una persona emigrata ormai quasi un secolo fa. È necessaria quindi una “silenziosa e modesta” ricerca parallela sul personaggio Perón, che risulta già contraddittorio di per sé. Molte sono le biografie “ufficiali” del Generale, ma tra queste tanti sono gli elementi che non concordano. Qualche anno fa, come ha dichiarato il segretario di Perón, per risolvere il problema dei natali del Presidente, fu messa in piedi dal partito peronista la cosiddetta “Operazione Lobos”: non ricordandosi dove fosse realmente nato (e, paradosso, nemmeno quando!), Perón fece comprare una casetta a Lobos e fece fare una serie di foto, successivamente modificate, per dare credibilità alla sua appartenenza al paesello. Tante sono le dichiarazioni in cui Perón si prende gioco del suo passato, delle sue origini e della sua reale provenienza; sotto questa luce, appare meno folle l’idea che il Presidente fosse in realtà un emigrato molto determinato e molto intelligente. Lo stesso Joseph Page, uno dei suoi biografi, dichiara di sentire spesso di trovarsi di fronte ad una doppia persona, che riusciva addirittura a stare contemporaneamente in due luoghi diversi. Tomás Eloy Martínez, biografo ufficiale, dichiara la propria perplessità nei confronti di un personaggio tanto potente e tanto carismatico che sosteneva: “Il passato non merita altro che il tradimento.” E ancora: “La storia è come una puttana, sta dalla parte di chi paga di più.” Vorremmo incontrare Martínez, che attualmente insegna alla Rutgers University del New Jersey, e raccontargli questa “folle” storia per vedere quale sarà la sua reazione; chissà che, dopo aver scritto per anni le sue memorie, non sappia qualcosa che non è mai stata resa pubblica o, quantomeno, non riesca a dare un’interpretazione diversa delle stramberie del Presidente. Dopo aver intervistato Mario Melis a Nuoro, è necessario incontrare l’ex Presidente Alfonsín che dichiarò con tanta tranquillità che Perón era sardo. Nel caso in cui in Argentina non venga negata la possibilità che il nostro giovane emigrato sia diventato il potente Juan Domingo, sarà importante fare l’ultima tappa del nostro percorso in Spagna, anche solo per smuovere un po’ le acque e fare un po’ di luce sulla figura ambigua e misteriosa di Perón. Si dà il caso che a Madrid vivano dei personaggi chiave nella vita del Generale che potrebbero metterci a conoscenza di alcuni importanti elementi. Senza svelare questa “folle” ipotesi dei natali di Perón, è importante incontrare la sua terza ed ultima moglie, Maria Estela Martínez, per il mondo Isabelita. Non che risulti che avesse un particolare rapporto di confidenza con il marito ma, ammesso che possa non conoscere questo aspetto veramente delicato della sua vita, ci potrebbe spiegare da dove nasceva quel forte cordone ombelicale che legava Perón alla Sardegna, perché parlava così bene l’italiano e soprattutto se possedeva un anello con incise due M e una vecchia Bibbia in italiano. La nostra intenzione è quella di presentarci come una troupe che sta
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realizzando un documentario sulla figura di Perón. Chi meglio di lei può parlarci del Perón “uomo”, del Perón “marito”? Abbiamo bisogno di dissolvere i dubbi su tutto ciò che riguarda la sua sfera privata, il suo passato così incerto e da lui stesso continuamente ingarbugliato. Perché si beffava tanto del passato e della storia? Alla fine la metteremo a conoscenza della tesi dei natali sardi. A questo punto le ipotesi sono tante: può rimanere stupita ed ammirata nel verificare la somiglianza tra il suo vecchio defunto marito e il giovane Piero Salerno, presentatole precedentemente come un tecnico della troupe, può cacciarci di casa in preda ad una furia e minacciare di denunciarci per diffamazione, o addirittura potremmo anche sentirci dire da uno dei suoi avvocati che l’ex Presidentessa non ha alcuna intenzione di perdere tempo per un documentario sul suo vecchio marito, vista anche la vita ritirata che sta conducendo negli ultimi anni e l’“affabile” carattere che ha sempre avuto. Ma supponendo che la più probabile delle ipotesi sia quest’ultima, a Madrid esistono tanti altri testimoni importanti che probabilmente non vedono l’ora di parlare di Perón e di sparare a zero sulla terza moglie. Ci recheremo alla Funpaz, opera di beneficenza diretta da Mario Rotundo. Immaginiamo che quest’ultimo non veda l’ora di fare chiarezza sulla confusione che sta vivendo proprio a causa di Isabelita. Mario Rotundo è un personaggio che non ha problemi a fare dichiarazioni pubbliche, anche poco simpatiche, sulla gestione patrimoniale operata dalla signora in questione. Ci faremo raccontare perché è in piedi una causa tra lui e Isabelita: quando il Generale era ancora in vita, era solito fare donazioni alla Funpaz, creata dal suo amico Mario, suo confidente, nonché uno dei suoi ultimi segretari. Poco prima di morire aveva dato disposizione che l’intero ammontare della sua pensione arretrata dei diciassette anni di esilio a Madrid venisse totalmente devoluto all’opera di carità. Ciò avvenne, alla morte di Perón, anche con il benestare di Isabelita che, però, adesso reclama per sé l’intera somma. Ma la cosa più importante che ha in mano Rotundo, che verrà contattato con il pretesto di un documentario su Perón, sono alcuni effetti personali del Presidente che sembra provengano dalla famosa stanza della Casa Rosada. Perché adesso siano in mano sua non si sa, ma è possibile che tra questi effetti si trovino l’anello e la Bibbia di cui parlavano le due guardie incontrate da Canneddu. A Madrid, al momento, vive anche Marta Holgado, la presunta figlia di Perón. Grazie a Rino Crisponi, riusciremo sicuramente a contattare il suo avvocato e anche in questo caso dovremo usare lo stratagemma del documentario sul suo presunto padre. Le racconteremo poi la leggenda sarda e, raccontandole tutti gli aneddoti e le coincidenze anche in modo scherzoso, è possibile che ne rimanga divertita e affascinata. Non abbiamo idea di che tipo di persona sia, ma ormai anche lei ha i suoi bei settantacinque anni e dichiara di non aver nessuna mira economica, ma di voler solamente che sia fatta giustizia, che le sia riconosciuta la paternità che le spetta. Faustina le proporrà di fare il confronto del DNA tra lei e un parente del Piras. Non immaginiamo la sua reazione, ma il nostro scopo sarà, comunque, quello di coinvolgerla; è ovvio che se risultasse un DNA incompatibile non proverebbe nulla, né da una parte, né dall’altra, ma se risultasse compatibile non ci sarebbero più dubbi, né sulla paternità di Peròn, né sull’identità di Piras. Unico inconveniente sarebbe se, ammettendo che i DNA siano compatibili e dichiarata quindi la nazionalità italiana di Perón, quest’ultimo risultasse un traditore della patria. In questo caso, infatti, tutta l’eredità potrebbe essere requisita dallo Stato argentino. I testimoni sono finiti e le ipotesi sono ormai infinite; non è facile fare chiarezza nella storia di Piras, né tanto meno in quella Perón. Abbiamo parlato di una vera e propria psicosi collettiva che ha colpito tutti i sardi che ne sono venuti a conoscenza. Abbiamo parlato di un giovane che, per riscattarsi, forse non solo economicamente, ha dovuto lasciare tutto, famiglia, amici, radici, per trapiantarsi nel nuovo mondo e la leggenda ci dice che questo
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ragazzo ce l’ha fatta, forse prendendo in giro il mondo e la storia. Abbiamo parlato di un grande personaggio storico, Juan Domingo Perón, che ancora oggi non è chiaro a nessuno, sia dal punto di vista politico, che da quello umano. Abbiamo raccontato una storia ai limiti dell’incredibile, ma una storia avvincente e appassionante che non può che finire con il faccione sorridente e burlone di Perón che dichiara al mondo: “Io ho giocato con il mio destino una magica scommessa, sono riuscito fino ad oggi a conservare le mie origini come un profondo segreto.”
Chiara Bellini, nata a Pisa nel 1973, si trasferisce a Roma nel ’92, iniziando una lunga serie di esperienze in campo cinematografico e televisivo: dalla collaborazione alla scrittura (con la DueA, società di produzione dei fratelli Avati), alle mansioni più tecniche, quali la segretaria di edizione e l’aiuto regista. Dopo altri due anni maturati nello sviluppo di nuovi progetti cinematografici per conto terzi, è attualmente impegnata nell’attività di sceneggiatrice e regista con la propria società di produzione. Ha diversi progetti in fase di sviluppo, scritti a quattro mani con Massimo De Pascale. Sulle tracce di Giovanni Piras è la sua opera prima. Faustina Hanglin, nata in Spagna nel 1973 da genitori argentini, si è laureata a Barcellona in Scienze umanistiche all’Università Pompeu Fabra. In Spagna ha svolto principalmente lavori di promozione ed organizzazione culturale. Dal 1997 al 2002 ha lavorato a Roma nell’ambiente del documentario, collaborando, tra le altre società, per la Paneikon. Attualmente vive a Buenos Aires dove si dedica alla scrittura, al giornalismo e alla recitazione. Morgana production, pur costituita di recente, si è resa dinamica e operativa in meno di un anno attraverso due produzioni: il documentario Un azard habanero Voci da un’isola, che racconta un lungo viaggio di esplorazione e ricerca all’interno dei nuovi fermenti culturali che animano la controversa isola di Cuba, e il cortometraggio cinematografico Viola fondente, già riconosciuto di “interesse culturale nazionale” dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Entrambi i lavori sono stati selezionati da più di trenta festival internazionali. Sulle tracce di Giovanni Piras è attualmente in pre-produzione.
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Foglio matricolare di Giovanni Piras
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SANTA MUERTE di Lucio Apolito DURATA: 52 MINUTI
Si dice che il 21esimo secolo sarà un secolo di rinnovata spiritualità: di fronte ad instabilità politiche, culturali, economiche e sociologiche, le popolazioni cercano riparo nell’ordinata struttura delle sette, nella superstizione, negli integralismi religiosi. Il culto della Santa Muerte in Messico è uno degli esempi estremi di come la fede popolare prenda le difese da ciò che più teme, attribuendogli doti divine. Il tema della morte assume in qualche modo un carattere centrale in ogni tipo di culto, ma in genere le religioni si pongono come dottrine che hanno come obiettivo quello di dare senso a ciò che non sembra averne affatto, cercando di rendere il pensiero della morte più sopportabile e difendendo l’esistenza di un aldilà, di un oltre la morte, di un infinito. Nel culto della Santa Muerte la centralità della morte assume un valore del tutto nuovo: la morte non è più da combattere ed esorcizzare attraverso l’aspirazione ad una santità ultraterrena, ma diventa essa stessa santa, divinità positiva, la consolatrice alla quale si possono chiedere le cose che non si chiedono alla Madonna.
Il progetto di documentario sulla Santa Muerte potrebbe essere appena un episodio di una o più serie articolate sui culti nel mondo. La prima serie, la più ovvia benché appassionante, potrebbe essere basata sui culti sudamericani, un infinito numero di episodi a raccontare di legioni di santi, di divinità africane trasferitesi in un nuovo continente e di residui di culti precolombiani. Un’altra serie potrebbe intitolarsi Crimine e Preghiera: i narcos e la Santa, la yakuza e lo shinto, fino al perverso cattolicesimo della mafia. Un’altra serie potrebbe essere Volti della Morte, a continuare la tradizione di Jacopetti e Prosperi, del “Mondo movie” sovreccitato. Infine una serie, dalla sfumatura più tenue, potrebbe raccontare impalpabili migrazioni culturali a smentire, con l’esempio del Messico che esporta religione, che in un mondo che si vuole globalizzato ed omogeneo le superstizioni popolari e la devozione da strada sono destinate a soccombere. Lucio Apolito
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M U E R T E
Benché la venerazione della morte in Messico abbia origini pre-colombiane, è solo dal 2003 che il culto della Santísima Muerte si è organizzato in modo ufficiale, manifestandosi sotto forma di una nuova religione in ascesa incontrollata. A farlo è stata una costola della Iglesia Católica tradicional Mex-USA, guidata dall’arcivescovo David Romo Guillén, che ha posto a Città del Messico la capitale del nuovo culto. Attriti crescenti con il governo messicano riguardano la possibilità che questa religione venga riconosciuta ufficialmente. Uno dei motivi di maggior imbarazzo al riguardo è il favore con cui questo culto viene acclamato nell’ambiente del narcotraffico e in quello carcerario. Dal 2004 anche la stampa statunitense ha iniziato ad occuparsi in maniera crescente del fenomeno, mentre il libro La Santa Muerte: Sexteto del Amor, las Mujeres, los Perros y la Muerte di Homero Aridjis, un romanzo che intreccia le vite di sei fedeli della Santa, accreditandone l’immagine di protettrice dei narcos, è diventato un best seller.
LA
MORTE NEI CULTI MESSICANI
La parola sincretismo rischia di essere insufficiente per alludere alle ascendenze delle manifestazioni religiose messicane. Brutalmente, e senza alcun rispetto filologico per i tortuosi percorsi di queste influenze, si può affermare che all’origine vi sono tre grandi sistemi di credenze: il cristianesimo (o meglio il cattolicesimo spagnolo del XVI secolo), le vestigia delle culture precolombiane sopravvissute attraverso le culture popolari e la cultura yoruba, la quale arrivò e si diffuse (prima a Cuba e in Brasile) nel continente americano attraverso gli schiavi africani. Nessuna di queste culture è impermeabilmente aliena alle altre. In ognuna delle molteplici combinazioni di questi elementi la morte ha un ruolo rituale e codificato, eppure in nessuno di questi sistemi religiosi si manifesta con la centralità e l’immaginario che stanno emergendo nel nascente culto della Santa Muerte. LE SIGNORE DEI MORTI AZTECHE I pedanti possono venirvi a dire che in Messico la morte è sempre stata adorata come una divinità, una signora ambiguamente benevola dagli impronunciabili nomi aztechi quali Hoatziqui o Mictecacihuatl. Oppure che anche in molte delle radici della cultura occidentale, come l’angelo della morte Azrael, la dea Ecate, la divinità ctonia Demetra, la morte ha sempre avuto altari e preghiere. Certo, nell’osservare l’iconografia del culto della Santa Muerte è difficile dimenticare le fila di teschi che adornano i templi aztechi e non pensare che si tratti di un genius loci messicano. EL DÍA DE LOS MUERTOS Esistono versioni discordanti sull’origine del Día de los muertos. A fronte di una consolidata tradizione che vuole appunto che si tratti di reminiscenze dell’impero azteco imbrigliate nelle festività cristiane, altri (ad esempio Elsa Malvido, Estudios sobre la Muerte en la Dirección de Estudios Históricos, Instituto Nacional de Antropología e Historia) sostengono che l’origine sia viceversa completamente spagnola e, addirittura, che si tratti di una romantica riscoperta sotto il governo di Lázaro Cárdenas “ad uso di quegli intellettuali, massoni e anticlericali, che volevano sottolineare l’identità pre-ispanica dei messicani”. Quanto alle origini legate alla religiosità degli spagnoli viene citata la “Adoración del Hueso”, l’adorazione delle ossa, una cerimonia in cui, in occasione del primo novembre, le ossa dei santi e dei martiri venivano esposte per la venerazione popolare. Di questa vengono citate le testimonianze pittoriche delle città di Taxco, Zacatecas e Toluca. Analogamente si ricorda che una statua della Buena Muerte o della Santa Muerte apriva le processioni del Venerdì Santo. CHAMANERÍA E BRUJERÍA La chamanería è una forma di pensiero magico il cui fondamento è l’evocazione delle anime defunte così come di principi sovrannaturali. Forse è la più indigena delle religioni messicane al punto che ad
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oggi si divide ancora secondo i legami originari con i popoli precolombiani. Esistono quindi tradizioni nahuas, mayas, zapotecas, mixtecas, otomíes o mazatecas. Per intenderci, si tratta di quell’insieme di credenze di cui parla Carlos Castaneda nel suo Don Juan. Gli sciamani messicani si definiscono popolarmente brujos. Lo spettro del loro intervento va dalla guarigione alla richiesta di protezione ultraterrena, all’interpretazione dei sogni, alla creazione di amuleti. La capitale messicana di questa spiritualità è il mercato di Sonora, con i suoi amuleti, preparati ed immagini sacre. Secondo alcuni è qui che la Santa Muerte è apparsa per la prima volta come un prodotto da bancarella per una clientela avida di potenti immagini evocatrici. L’HECHICERÍA Hechicería si può tradurre con buona approssimazione nell’italiano “stregoneria”, avendo come riferimento gli studi sull’affàscino fatti da Ernesto De Martino, autore di Sud e Magia. Un sapere matriarcale di riti, filtri e malocchi che può spingersi fino alla fattura di morte. Analogamente all’affàscino italiano, anche in Messico questa magia si divide nei medesimi colori: bianca, rossa e nera. È probabilmente da questa cultura che la Santa Muerte ha ripreso il codice dei colori del suo mantello, ad indicare differenti poteri nei riti domestici che la riguardano. YORUBA E SANTERÍA In estrema sintesi la cultura africana yoruba è la stessa all’origine della religione voodoo e delle santeríe che, a partire da Cuba e dal Brasile, si innervano nel territorio sudamericano. La santería è parte di quello che l’antropologia definisce “Catholic folk”. In Messico il meccanismo di sovrapposizione tra animismo africano e oleografia cattolica ha cannibalizzato il pantheon dei santi cristiani, piegandolo alle sue esigenze o arricchendolo, ove necessario, di santi immaginari. Così Elewa si è reincarnato come il Santo Niño de Atocha, Obbatalá nella Virgen de las Mercedes, Oshun nella Virgen de la Caridad del Cobre e via di questo passo. In questo senso anche un’altra orisha (ovvero, una divinità yoruba), Oya, chiamata anche “la Signora dei Cimiteri”, potrebbe aver trovato in Messico la via della santità. CURANDEROS E BOTÁNISTAS Per usare un termine etnografico, i curanderos sono la declinazione latino-americana dei saperi demoiatrici, di quell’insieme di ritualità, ricette e prescrizioni che costituiscono la versione pre-scientifica della medicina. Ai curanderos ci si rivolge tuttora in una serie di occasioni che spaziano dal morbillo all’aborto. Benché il mondo dei curanderos non si possa definire religioso, esistono entità personificate in questo pensiero magico paragonabili alle santeríe. Persone leggendariamente esistite, come Niño Fidencio o Don Pedro Jaramillo (curanderi ottocenteschi che hanno lasciato un’ottima fama di sé), cosí come la personificazione di potenze primigenie, quali la morte e le immagini di Gesù Cristo, convivono sullo stesso scaffale e hanno il medesimo diritto a ricevere orazioni. Le origini della curandería includono le superstizioni della Spagna del XVI secolo, i saperi botanicofarmaceutici dei popoli mesoamericani e, nell’inevitabile contatto con il nord, quelli delle culture native del territorio statunitense così come l’indelineabile mondo delle credenze pagane celte. L’equivalente delle farmacie per il sistema dei curanderos sono le botánicas, negozi in cui si vendono erbe, preparati d’origine vegetale o animale e immagini da venerare. Attualmente le botánicas delle grandi metropoli statunitensi sono il maggior centro di diffusione dell’iconografia della Santa Muerte negli Stati Uniti.
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CRIMINE E SENTIMENTO RELIGIOSO In questo accatastarsi di immaginario religioso e devozione, ogni aspetto dell’esistenza e delle relazioni umane pare venga presieduto da un santo. Così avviene anche per le attività criminali. Come la maggior parte dei messicani, anche i narcos rivolgono le loro preghiere alla Virgen de Guadalupe, la più venerata Madonna messicana, ma riservano una devozione specifica per i santi che, tradizionalmente, sono loro benevoli nel momento del crimine e del pericolo. San Judas Tadeo, San Martín Caballero (solo apparentemente San Martino di Tours) o San Martín Porres sono alcuni dei santi che vengono condivisi con il canone cattolico. Di altri, invece, non c’è traccia sul calendario ecclesiastico.
I
SANTI DEI NARCOS: JESÚS
MALVERDE
E EL ANIMA DE LEYVA
A Culiacàn ogni tre maggio migliaia di fedeli vengono a portare omaggio a Jesús Malverde, la statua di un giovanotto con i baffi. La chiesa cattolica nega l’esistenza di un santo con questo nome e le fonti storiche fanno credere che le radici del mito del santo dei ladri, dei trafficanti e dei narcos, questa specie di bandito che, analogamente a Robin Hood, distribuiva ai poveri il suo bottino, siano un innesto fantastico sulla figura del bandito Heraclio Bernal o su quella di Jesús Juárez Mazo. In entrambi i casi si tratta di banditi che vennero condannati a morte, crudelmente e ingiustamente secondo la tradizione, e i ventagli e le candele votive dedicate a Malverde portano l’immagine di un uomo impiccato. Malverde è il più tradizionale dei santi pregati da chi chiede d’esser vegliato nella sua condizione di illegalità. Una variante ben più locale, della città di Ojinaga, è la leggenda dell’Anima di Leyva. Un bandito condannato (ingiustamente, è chiaro) al rogo mantenne il suo dito indice puntato verso il cielo durante l’esecuzione. L’ipotetica sepoltura della reliquia della sua mano destra viene venerata per invocare protezione e scampo dalla legge. Eppure, dopo quasi un secolo di ininterrotta venerazione, anche la tradizionale figura di Jesús Malverde è in declino, travolto dall’inarrestabile popolarità della Santa Muerte. L’associazione Santa Muerte-narcos è stata più volte rafforzata da fatti di cronaca: nel 2004 il resoconto di un omicidio di massa nello stato settentrionale di Sinaloa ha rivelato che più di 50 vittime avevano tatuaggi o gioielli rappresentanti la Santa Muerte; sempre nel 2004, nel corso di un raid della polizia in casa di Gilberto García, un luogotenete del cartello del Golfo, vennero trovate diverse statue della Santa Muerte.
IL RECLUSORIO NORTE Anche se non si può determinare con certezza dove il culto della Santa Muerte sia iniziato, sicuramente si può datare l’anno zero di questa religione verso la fine degli anni novanta. Quanto al luogo, una delle versioni vuole che si tratti del Reclusorio Norte, un penitenziario con una popolazione carceraria di 8.300 persone, la maggior parte condannate a lunga detenzione, con un’età media di 30 anni. Probabilmente è qui che il tatuaggio della Santa Muerte ha avuto origine, soppiantando gli altari alla Virgen di Guadalupe nel fornire un’analoga consolazione materna. Ben oltre l’italico “mamma perdono,” il tatuaggio della Santa Muerte, a volte accompagnato dalla frase “muerte a mi nemigos,” assume la funzione di voto religioso oltre che di fatto identitario. Ora, a dieci anni di distanza, è talmente diffuso da essere inutile per distinguere l’ex galeotto dal narcos o dal semplice fedele di Tepito.
IL
QUARTIERE DI
TEPITO
Uno dei barrios di Città del Messico, 120.000 abitanti, 72 isolati. Un ghetto in cui le fasce più povere della popolazione della capitale sono state costrette a riversarsi, in seguito alla distruzione e alla riqualificazione dei quartieri periferici, per lasciar spazio all’onnivora città in espansione. Per due volte, nel 1920 e nel 1945, Tepito si è trovata improvvisamente affollata, ingestibile, incontrollabile
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e tale è rimasta fino ai giorni nostri. Luogo malfamato per antonomasia, al culmine del folclore, non è mistero per nessuno che siano le mafie a comandare qui, tanto che al mito della Tepito mafiosa è stato dedicato più di un film: Que viva Tepito (1981), El Torito de Tepito (1981), Tepito sì (1982), Fayuqueros de Tepito (1982), Los Caifanes de Tepito (2000), El Cártel de Tepito (2000), Mi barrio es Tepito (2001), Barrio Bravo de Tepito (2001), El Gatillero de Tepito (2004), titoli che raccontano un immaginario tra epica, melodramma e chanson de geste. Tradizionalmente Tepito è stato un quartiere di calzolai e di piccole aziende di calzature; oggi è per tutti il pericoloso quartiere della droga e della prostituzione, oltre ad essere il quartier generale dei fedeli della Santa Muerte.
LA
SIGNORA
ROMERO
Già alla fine degli anni novanta, a Tepito esisteva una prima cappella della Santa Muerte. Era stata ricavata da una stanza dell’abitazione privata della signora Enriqueta Romero Romero. Nel suo essere una delle prime fedeli ad organizzare la devozione, la signora Romero rispecchia in sé le origini culturali del culto. Si definisce convintamente cristiana e afferma la non estraneità della Santa alla religione delle sacre scritture. Nega ogni integrazione di influenze dovute al satanismo, alla brujería o alla hechicería. Dice di aver ereditato questa devozione dalla zia, Leonor Paredes, a partire dal 1962 e afferma che il sentimento religioso per la morte è di certo almeno secolare. Racconta ad esempio d’aver visto da giovane al mercato di Sonora una statua della Santa Muerte la cui fattura doveva risalire al 19esimo secolo e alla quale gli sciamani di Catemaco tributavano un grande rispetto. La signora Romero si occupa personalmente di vestire la statua della Santa nella chiesa di Tepito.
LA IGLESIA CATÓLICA TRADICIONAL MEX-USA Nel 2003 la venerazione per la Santa trova un importante riconoscimento formale grazie agli sforzi di David Romo Guillén. La sua parte nell’affermazione del culto consiste nell’aver costruito una cappella, prima, e nell’aver concesso i locali di una chiesa, poi, perché il culto della Santa Muerte trovasse finalmente uno spazio pubblico. David Romo Guillén è l’arcivescovo della Iglesia Católica tradicional Mex-USA, una confessione diffusasi dal 1999 tra Messico e gli Stati Uniti, principalmente in California. Formalmente la Iglesia Católica tradicional Mex-USA ha un orientamento fortemente pre-conciliare. Si definisce tridentina, facendo riferimento al messale codificato da Pio V al Concilio di Trento nel 1570. È difficile capire come trovi spazio in tanta ortodossia la morte in persona, una presenza ben al di là di qualsiasi canone cristiano. Lo stesso capitolo losangelino della chiesa tradizionalista ha un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’arcivescovo di Città del Messico, prendendone ora le distanze, ora rifiutandosi di commentare. Di certo i locali della chiesa da lui guidata, definiti formalmente “Santuario nazionale della Santa Muerte”, sono il luogo di culto per eccellenza per i fedeli della Santa ed è l’arcivescovo Guillén a rilasciare dichiarazioni ai media riguardo alle manifestazioni e alle proteste, così come per denunciare quella che secondo lui è una persecuzione della Chiesa di Roma nei confronti della libertà di culto. La segreteria di stato, nell’ufficio della Migracion y Asuntos Religiosos, gli nega una prima volta lo status di associazione religiosa, richiesta per sette immobili a Città del Messico nell’ottobre del 2002. Ugualmente farà per tutte le richieste successive fino ad arrivare alle proteste di piazza dell’aprile 2005.
SANTA MUERTE
VS GOVERNO MESSICANO
Armando Salinas Torre e Alvaro Castro, rispettivamente direttore e sottosegretario per Población, Migración y Asuntos Religiosos, sono i funzionari governativi della Segob (Secretaría de Gobernación, che fa le veci del Ministero dell’Interno) che fronteggiano le rivendicazioni dei fedeli della Santa Muerte. La motivazione ufficiale del loro rifiuto a riconoscere la chiesa di Tepito appare ineccepibile: non si può richiedere che una confessione ottenga dei locali per celebrare messe tridentine per poi utilizzarli per
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venerare la Santa Muerte. Di fatto, il più grande imbarazzo del governo messicano nel riconoscere il culto riguarda la sua grande popolarità tra prostitute, carcerati e narcos o, come ha scritto un giornalista messicano, pretendere che uno stile di vita illegale diventi addirittura glamour attraverso la maschera di una falsa religione. In termini di popolarità, un grande aiuto all’espandersi del culto è arrivato proprio da un’icona glamour, una star delle telenovelas, Niurka Marcos, un’ex ballerina di origine cubana che ha dichiarato in un’intervista la sua amicizia con l’arcivescovo Guillén e la sua fede nei confronti della Santa Muerte, il che ha garantito all’arcivescovo una serie di apparizioni nei più importanti talk show della televisione messicana. Si arriva così al 5 aprile 2005 quando, in occasione dell’ennesimo rifiuto del Segob a riconoscere la chiesa di Tepito, viene organizzata una manifestazione sotto forma di processione in cui 30.000 persone vestite di bianco e recanti immagini della Santa Muerte hanno sfilato per le vie del centro di Città del Messico al grido di “Se ve, se siente, la Santa está presente.” Da allora ad oggi le processioni da e per la chiesa di Tepito sono un fenomeno crescente.
MIRA IL TUO POPOLO,
BELLA SIGNORA!
La Santa Muerte si presenta come uno scheletro abbigliato da Madonna velata, in una mano un globo o una falce, nell’altra una bilancia, talvolta alle sue spalle una scala. Ad essere precisi, fatta eccezione per la festa di Ognissanti in cui viene vestita da sposa, non è vestita come una Madonna, ma esattamente come la Virgen de Guadalupe. Di fronte alla cattedrale dedicata a quest’ultima è già possibile acquistare oggetti che si riferiscono al culto della Santa Muerte. Sul suo altare vengono deposti fiori, candele ma anche ventagli, sigari, alcolici. Alla Muerte si chiede protezione nel crimine, così come nel pericolo (tanto che anche alcuni militari e poliziotti messicani la venerano), le prostitute ne chiedono la protezione, i narcos le si votano nel contrabbandare “la fina”, così come, prima di eliminare un nemico, alla Santa Muerte viene chiesta la benedizione del denaro, del taxi, dei coltelli, delle pistole. Ugualmente è venerata come una Madonna da persone d’ogni ceto, non necessariamente malavitose. Nella chiesa di Tepito le rivolgono novene e rosari, intervallati da brevi formule (ad esempio: “Muerte querida de mi corazón, no me desampares de tu protección”) e nella notte della prima domenica del mese ha luogo un’affollatissima benedizione collettiva. Anche a Tijuana la Muerte viene pregata pubblicamente in un’apposita chiesa. David Romo Guillén si spinge a dire che i luoghi di preghiera sono 40 solo a Città del Messico e 400 nell’intera nazione. Analogamente alle novene mariane, anche alla Santa Muerte è riservata una lunga serie di epiteti: la Niña Blanca, la Flaca, la Flaquita, la Novia, Divina y Poderosa Santísima Muerte, la Mujer de la Guadaña, Soberana Señora, Poderosa Señora, Nuestra Señora. Nella devozione privata, la Santa Muerte viene pregata secondo i canoni della hechicería, attraverso una ritualità magica che distingue poteri della Santa Muerte a seconda del colore del suo mantello. Le più venerate sono la Morte verde, pregata per proteggere le persone in carcere “per giusto o ingiusto motivo” e per uscire dalla tossicodipendenza, la Morte rossa, cui si chiede vigore sessuale e soddisfazione in amore, la Morte gialla, preposta al denaro e al commercio. La Santa Muerte vestita di bianco è la più ecumenica, quella che allude al rinnovamento e alla rinascita spirituale, mentre quella nera viene invocata per commettere fatti di sangue o esserne protetti: alla Morte si possono chiedere cose che non si possono chiedere alla Madonna. Si dice che i primi fedeli fossero carcerati e che, come primo patto con la Santa Muerte, chiedessero in una forma ambigua di voto la possibilità di una morte violenta per se stessi. Questa era la prima richiesta a cui era possibile farne in seguito altre. “Per chiedere un favore alla Morte ci vogliono nervi saldi. Non si può tornare indietro.”
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L’accusa più grave che viene rivolta ai fedeli della Morte è che i favori della Santa verrebbero pagati con il decesso di un caro. In tutti i siti e nelle interviste lette, questa è di gran lunga la leggenda da cui i fedeli della Morte vogliono prendere le distanze. Al contrario, viene detto, la Morte è solo una consolatrice benevola, benché estremamente potente, e la brava gente d’ogni ceto che la prega e ne riceve benefici è lì a testimoniarlo.
SANTA MUERTE
VS
CHIESA CATTOLICA
Ad un certo punto, all’inizio degli anni novanta, grazie all’allentamento di leggi restrittive sul culto che risalivano agli anni venti, gruppi di praticanti di magia nera hanno iniziato a coagularsi intorno alla figura della Santa Muerte. Questa, in breve, la storia del culto secondo l’accusa cattolica. La linea dura della curia messicana dei primi anni, decisamente inefficace nell’urlare al satanismo, ha lasciato con il tempo spazio ad un atteggiamento comprensivo, dove la parola “eresia” è stata sostituita con “errore”. L’attuale sentimento pastorale nei confronti dei fedeli della Santa Muerte vuole essere improntato ad una “grande pazienza e ad una prudente tolleranza”. Nel tentativo di riconvertire i fedeli della Santa Muerte, la Conferenza Episcopale Messicana non può che citare con insistenza il documento vaticano del 2002 Direttorio su Pietà Popolare e Liturgia e citare a piene mani dal catechismo cattolico passaggi come questo: Che cos’è la morte? La morte è una conseguenza del nostro peccato originale. Non è un castigo di Dio, ma una privazione dei beni che Adamo ed Eva possedevano prima di disobbedire a Dio Padre. Cristo si volle fare uomo, patire, morire e poi resuscitare per offrirci la salvezza eterna. Per il cristiano la morte non deve essere dolorosa o misteriosa, ha un senso positivo ed è un passaggio da questo mondo al Cielo dove saremo in presenza di Dio. Così va intesa la frase biblica “Cristo ha vinto la morte.” Probabilmente, infatti, una delle cose che maggiormente offende la sensibilità cattolica è la frase “La Santa Muerte ha vinto anche Cristo, anche se solo per tre giorni.” Nei giorni che precedettero l’elezione di Benedetto XVI, la stampa messicana si chiedeva come avrebbe potuto il nuovo pontefice arginare l’erosione del cattolicesimo. Invariabilmente venivano citate due confessioni in espansione: la Chiesa Metodista e il culto della Santa Muerte.
LA SANTA MUERTE: SEXTETO
DEL
AMOR,
LAS
MUJERES,
LOS
PERROS
Y LA
MUERTE
Nel febbraio del 2004 viene pubblicato il romanzo di Homero Aridjis, intitolato La Santa Muerte, un’opera di narrativa in cui le esistenze di sei differenti fedeli della Santa Muerte si incrociano. Arrivato oggi alla sesta edizione, si può tranquillamente parlare di best seller. Aridjis è un romanziere e poeta molto letto in Sud America e distribuito in Spagna. Dice che all’epoca non si era reso conto della reale diffusione del culto finché non incontrò la Santa Muerte ad una festa in cui venne invitato nella cappella di un ranch di un narcotrafficante e, in seguito, mentre accompagnava sua figlia che stava realizzando un documentario sulle bande di ragazzini. Infine comprò un santino in un banchetto perchè colpito dalla straordinaria forza della sua immagine. Aridjis è convinto che “così come la Virgen de Guadalupe proviene da un sincretismo tra la dea Tonantzin e la Vergine Maria, la stessa cosa accade con l’immaginario messicano dei sacrifici e le danze della morte medievali europee.”
ESPANSIONE
DEL CULTO
Si parla di due milioni di fedeli in meno di tre anni, dall’Argentina agli Stati Uniti. Chiaramente ogni comunità messicana nelle metropoli statunitensi è una cassa di risonanza per l’immaginario della Santa Muerte. Ogni yerbería o botánicas è letteralmente una vetrina di questo culto, da Los Angeles a New York. Esistono tre gruppi di preghiera a Los Angeles, uno in Oregon e uno a Washington DC, filiazioni formali della chiesa dell’arcivescovo Romo Guillén. Lo stesso arcivescovo parla dell’istituzione di un corso quadriennale per formare una ventina di officianti e della prossima apertura di altre
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quattro chiese negli Stati Uniti. A Berkeley esiste un gruppo di preghiera autoformatosi in cui i messicani sono una minoranza e, come è facile intravedere, la noia bianca può trasformarsi in un potente catalizzatore. Alcuni anni fa un gruppo heavy metal chiamato Brujería fece conoscere agli adolescenti statunitensi ed europei l’immaginario della magia nera latino-americana. Anche in questo caso la musica potrebbe essere un veicolo virale per far conoscere il culto della Santa Muerte. Nemmeno a dirlo, esiste già un gruppo hip hop chiamato El Cártel de la Santa, i cui testi sono esclusivamente concentrati sulla figura della Santa Muerte. Infine anche nelle carceri americane, così come fu in quelle messicane, il culto si fa strada tanto che una delle più importanti fratellanze di prigionieri si chiama “La Eme”, che sta per Muerte. Nel frattempo il culto prospera, vengono organizzati pellegrinaggi e proteste di piazza. I media tornano sempre più frequentemente e con crescente competenza sull’argomento, la rete si affolla di siti e discussioni al riguardo. I 600 siti del gennaio 2005 sono diventati, in poco più di sei mesi, 120.000. Forse uno dei dati più impressionanti. Sulla stampa messicana la Santa Muerte è un argomento ricorrente dal 2003, una metafora d’uso quotidiano da editorialista. Il vero salto di qualità arriva lo scorso autunno quando, nell’ottobre 2004, la stampa americana inizia ad interessarsene, prima a livello locale, sulle gazzette degli stati meridionali, per arrivare ad un numero crescente di articoli e servizi da parte di testate quali CNN e Washington Post. Il potere della morte è ben presente ad ognuno di noi, ognuno l’ha conosciuto. Personificare questo principio come un’entità con cui sia possibile venire a patti, a condizione di una fede ferrea, è una visione la cui intensità è di sicura presa. La Santa Muerte è insieme una Madonna consolatrice, l’irriducibile Dio di Isacco e una divinità millenaria.
Lucio Apolito è nato a Como e ha 35 anni. Da 17 vive a Bologna e da alcuni anni collabora con Opificio Ciclope. Opificio Ciclope. La scelta di usare un nome collettivo per firmare i propri lavori non è un vezzo da avanguardie di altri tempi. Si riferisce piuttosto ad un metodo, quello di non voler delegare all’esterno nessuna sezione della produzione, sopperendo ai mezzi dell’industria con la cura dell’artigianato. Nelle nostre produzioni è evidente che, se narrativamente crediamo ai generi e alla loro segmentazione, visivamente crediamo alla ricerca fotografica, alla tecnica mista e all’animazione. Principali realizzazioni degli ultimi tre anni: 2002, Spectrum Diamond (Tele+/Yle Finland), 54’, The Best 50 Videogames Ever (Tele+), 65’. 2003, Grande Anarca, 18’; La settimana spirituale, 50’. 2004, U.S.O.Unidentified Submerged Objects, 12 x 6’.
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PRIGIONIERI DELL’APARTHEID I reclusi di Robben Island (Sudafrica 1961-1994) di Massimo Sani con la consulenza storica di Angelo Del Boca DURATA: VERSIONE CINEMATOGRAFICA 90 MINUTI MINISERIE TV 3X30 MINUTI
Massimo Sani percorre un angusto luogo della memoria. Il suo progetto porta sapientemente alla luce uno dei capitoli più cruenti del ventesimo secolo: l’apartheid. All’interno dell’Alcatraz del Sudafrica, Robben Island, il silenzio della desolazione e dell’ingiustizia lascia il posto alle voci dei sopravvissuti violentati e privati della dignità di esseri umani. La storia si anima di racconti personali e intimi di semplici uomini colpiti da un nemico onnipresente che ha avuto per divisa la pelle bianca.
Il film-inchiesta Prigionieri dell’apartheid intende trattare un argomento pressoché inedito per il grande pubblico del cinema e della televisione: la cattura e detenzione, per anni e anni dietro il filo spinato, di migliaia di esseri umani durante i terribili decenni di segregazione razziale e di vera e propria guerra intestina nel nome di un regime fondato sulle leggi dell’odio e della persecuzione, allora in vigore nella Repubblica del Sudafrica. Il luogo nel quale sono stati reclusi il maggior numero di prigionieri è una piccola isola situata nella baia di Città del Capo: Robben Island. La lunga e dolorosa vicenda di migliaia di esseri umani costretti a subire le vessazioni, le torture, le atrocità di decenni di reclusione, gestiti con terrificante crudeltà dai despoti dell’apartheid, è una delle pagine più drammatiche e più tristi della storia dell’umanità. L’ideatore di questo film-inchiesta ha avuto occasione di rendersi conto personalmente a quali aberrazioni possono arrivare le leggi improntate all’odio e alla segregazione razziali, sia nei territori dell’ex Rhodesia che nei territori del Sudafrica. Ed è proprio in forza di tali esperienze che, nel corso di un viaggio a Città del Capo nel 2003, quale membro della delegazione del cinema italiano al Festival Sithengi, ha voluto effettuare un sopralluogo nell’ex campo di prigionia di Robben Island, oggi monumento nazionale della Repubblica del Sudafrica. Da tale sopralluogo ha preso corpo il progetto del film i cui episodi avranno i seguenti titoli provvisori: Arresto, condanna, internamento, Dietro il filo spinato, Il giorno della libertà. Massimo Sani
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NOTA DI INTENTI Il 27 aprile 1994, circa undici anni fa, nell’intero territorio della Repubblica del Sudafrica hanno avuto luogo le prime elezioni politiche democratiche dopo gli anni del regime di apartheid. Questo importante avvenimento sanciva la caduta del regime segregazionista nella vecchia Repubblica del Sudafrica e segnava l’inizio della vita democratica nella nuova Repubblica del Sudafrica. Contro la dittatura dell’apartheid, instaurata dai conquistatori bianchi e mantenuta per oltre mezzo secolo, il popolo sudafricano aveva lottato con l’appoggio e la solidarietà della comunità internazionale. I risultati delle prime elezioni democratiche introdussero, nell’intero territorio della Repubblica del Sudafrica, l’uguaglianza tra bianchi e neri che soltanto pochi mesi prima sembrava impossibile da ottenersi senza il ricorso alle armi. Una rivoluzione pacifica fu resa possibile attraverso la conquista del più fondamentale principio della libertà: l’esercizio del diritto di voto per l’intera popolazione. Tale importante conquista fu il risultato di un difficile percorso storico caratterizzato dall’incessante lotta di resistenza contro il regime razzista e segregazionista, da parte di numerosi cittadini che non si erano mai arresi, anche dopo le più scoraggianti persecuzioni, torture, vessazioni, anni e anni di dura prigione. Le lotte di personaggi divenuti famosi, come Nelson Mandela, e di migliaia di personaggi semplici e del tutto sconosciuti, come i profughi dei villaggi incendiati, sono state seguite da milioni di cittadini nel mondo ed hanno provocato numerose azioni di solidarietà, quali l’accoglienza degli esuli, ma anche dure denunce, boicottaggi e applicazione di sanzioni. Uno dei luoghi più noti del dolore, delle terribili sofferenze e della più dura prigionia che migliaia di cittadini sudafricani hanno dovuto subire durante gli anni della lotta all’apartheid si trova nella Baia di Città del Capo a poche miglia di mare dal Capo di Buona Speranza, l’estrema punta a sud del continente africano. Il suo nome è Robben Island che significa “l’isola delle foche”. Per oltre quattro secoli Robben Island è stato un luogo di pena per esiliati e prigionieri ed anche un grande lazzaretto per lebbrosi e malati di mente, come pure l’ultima stazione di malati indigenti. Poi, improvvisamente, per decisione del Ministero della Difesa del regime segregazionista, dal 1960 l’isola è divenuta un esteso campo di concentramento, di prigionia e di tortura per prigionieri politici, condannati per azioni contro le leggi del regime razzista. Per il mondo intero i reclusi di Robben Island sono del tutto sconosciuti, ad eccezione del più universalmente famoso di essi: Nelson Mandela, arrestato nel 1962 e condannato all’ergastolo, e poi eletto primo Presidente della nuova Repubblica. Trasferito a Robben Island, Mandela visse almeno 18 dei suoi 27 anni di prigionia dietro il filo spinato del terribile campo di concentramento. Come lui centinaia e centinaia di combattenti della resistenza contro il regime segregazionista vennero reclusi nell’isola per anni e anni di dura prigionia, torture, violenze e lavori forzati. Oggi, a poco più di un decennio dalle prime elezioni a suffragio universale nella Repubblica del Sudafrica (26/28 aprile 1994) che portarono al potere la maggioranza nera del Paese, annullando definitivamente il regime segregazionista, questo film-inchiesta vuole rappresentare le vicende più drammatiche e significative che hanno caratterizzato la vita dei prigionieri del campo di concentramento di Robben Island, attraverso i racconti di alcuni significativi testimoni tuttora viventi. Scopo principale del film è quello di far capire al vasto pubblico del cinema e della televisione che cosa
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ha significato il regime segregazionista dell’apartheid, che una minoranza bianca è riuscita ad imporre con la violenza e la sopraffazione nell’intero Stato del Sudafrica per decenni. Il film-inchiesta vuole rispondere al bisogno di verità di milioni di cittadini del mondo intero che chiedono di sapere che cosa è accaduto e perché. Si tratta di un bisogno collettivo di verità su uno dei crimini più terribili dell’umanità: il razzismo e l’apartheid. Oggi è necessario capire perché un paese è arrivato a queste atrocità. Il lungo capitolo che ha caratterizzato le drammatiche e dolorose vicende del regime segregazionista nella Repubblica del Sudafrica è ancora largamente inedito. La maggior parte di coloro che sono stati per anni e anni dietro il filo spinato, dopo il ritorno a casa, ha preferito tacere, dimenticare. Poi è venuto il momento dei processi basati sulla possibilità di “dire la verità per ottenere il perdono e la riconciliazione”. Tale possibilità fu un notevole passo, iniziato nel 1995, voluto da Nelson Mandela e dall’arcivescovo Desmond Tutu allo scopo di evitare un vero, terrificante e totale bagno di sangue. Undici anni dopo l’avvento della libertà per l’intera popolazione, le dolorose ferite reali e psicologiche sono quasi totalmente rimarginate sicché la tanto vessata questione di un perdono in grado di dimenticare le piaghe del passato può considerarsi superata. Molti testimoni sono convinti che sia arrivato il momento di raccontare, di parlare affinché sia fatta luce sulla verità di quanto accaduto. Nel fare ciò tali testimoni non intendono prendersi una qualsiasi rivincita, ma desiderano semplicemente raccontare i fatti affinché l’opinione pubblica ne sia informata. L’intera isola di Robben Island è divenuta monumento nazionale della Repubblica del Sudafrica. Questa qualifica assicura che la sua storia, e il suo significato simbolico, vengano rispettati e, come tali, consegnati al futuro.
AMBIENTAZIONE Il set centrale delle riprese è l’ex campo di concentramento, tuttora conservato quale monumento nazionale della Repubblica del Sudafrica, situato sull’intera superficie dell’isolotto di Robben Island nella Baia di Città del Capo. L’isolotto di Robben Island è raggiungibile dal porto di Città del Capo con pochi minuti di motoscafo. Qui, a partire dal 1961 e fino al maggio 1991, sono stati rinchiusi centinaia di prigionieri che i governi segregazionisti del Sudafrica hanno catturato nel corso delle terrificanti repressioni attuate nei decenni di lotta per l’affermazione dei diritti umani e della libertà per le popolazioni di colore, native e immigrate. Nelson Mandela, che ha vissuto oltre 18 anni di prigionia in questa dura prigione politica, dopo avere riacquistato la libertà ha dichiarato che Robben Island “resterà per sempre un’icona della grande lotta per la libertà” combattuta dai cittadini della vecchia Repubblica del Sudafrica contro il regime dell’apartheid. In questo luogo della memoria verranno effettuate le riprese filmate ai testimoni che ricorderanno gli episodi salienti della loro partecipazione a questa grande lotta per la libertà, combattuta dalla popolazione del Sudafrica con particolare riferimento agli anni in cui il campo di concentramento di Robben Island è stato il luogo del dolore e della persecuzione fino alla conquista della libertà nel 1994. Nel campo verranno localizzate alcune posizioni principali di ripresa quali: il luogo dell’arrivo dei prigionieri, il piazzale dell’appello, le baracche collettive di prigionia, le celle di segregazione,
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i luoghi delle torture, i viali e vialetti di deambulazione, gli edifici della direzione e dei sorveglianti, i reticolati, i luoghi dei tentativi di evasione. Verrà scelto anche un luogo idoneo per proiettare su schermo agli ex prigionieri alcuni filmati di repertorio appositamente scelti e premontati. Altri contributi di repertorio potranno essere proiettati sulle pareti, nelle immediate vicinanze delle riprese delle singole testimonianze rilasciate dai vari protagonisti dei fatti storici. Oltre al set centrale dell’isola di Robben Island potrà rendersi necessario effettuare altre riprese in località sedi di importanti avvenimenti della lotta contro l’apartheid (Johannesburg, Pretoria e altre che emergeranno dalle ricerche), ma le testimonianze degli ex prigionieri verranno tutte filmate e registrate esclusivamente nell’area dell’ex campo di concentramento di Robben Island.
SOGGETTO Le storie e gli avvenimenti narrati nel film coincidono con le storie e gli avvenimenti dei decenni di apartheid vissuti dagli ex prigionieri di Robben Island, a partire dall’imposizione dei principi dell’apartheid ad opera della destra razzista nel 1948. Nel campo di concentramento, quale “prigione politica di alta sicurezza”, vennero rinchiusi i protagonisti più attivi e pericolosi della grande lotta del popolo sudafricano contro il regime razzista e segregazionista al potere da decenni dopo i precedenti coloniali. Per ragioni di opportunità narrativa la complessa materia storica potrebbe essere divisa in tre fasi, corrispondenti all’incirca a tre decenni successivi: 1961-1971 1971-1981 1981 fino alla libertà. Di tali fasi verranno messe in evidenza le vicende più salienti vissute dai testimoni, con riferimenti ad anni precedenti (dal 1948 al 1961) e nel contesto delle drammatiche giornate trascorse dietro i reticolati del campo di concentramento di Robben Island. Le testimonianze e i fatti narrati verranno alternati a sequenze di repertorio e ad eventuali riprese realizzate in luoghi diversi da Robben Island. Il documentario terminerà con le fatidiche giornate dal 26 al 28 aprile 1994, quando si svolsero le prime elezioni politiche a suffragio universale che segnarono la nascita della nuova Repubblica Sudafricana. Il Paese, esteso quattro volte l’Italia, ha attualmente una popolazione di circa 41 milioni di abitanti. Le prime tribù di nomadi khoison, dediti alla raccolta, alla caccia e alla pastorizia, erano presenti nei territori del Sudafrica 40.000 anni fa. Nel XV secolo quasi tutta la terra coltivabile era occupata da tribù di bantu dedite alla pastorizia. I primi europei che arrivarono in Sudafrica furono i portoghesi. Nel 1652 gruppi di dipendenti della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (coloni olandesi, francesi e tedeschi) occuparono il territorio del Capo: si chiamavano boeri, dall’olandese “boer”, contadino. Nel 1795, l’occupazione della Colonia del Capo da parte degli inglesi fece sorgere duri contrasti tra inglesi e boeri. Questi ultimi si trasferirono nei territori interni fondando le repubbliche del Natal (1840), Orange (1852), Transvaal (1856). Una vera e propria guerra anglo-boera scoppiò tra il 1899 e il 1902.
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Il 31 maggio 1910 entrò in vigore, per accordi raggiunti tra le parti, il South African Act con il quale i territori della Colonia del Capo, Natal, Orange e Transvaal venivano riuniti in una confederazione: l’Unione Sudafricana. La schiavitù era stata abolita nel 1833, tuttavia le popolazioni nere continuarono a rimanere fortemente subordinate alle popolazioni bianche. La minoranza bianca si attribuì ogni prerogativa politica e proibì ai neri l’acquisto di terre. L’apartheid, quale sistema politico e sociale basato sulla discriminazione e separazione razziale, si realizzò in Sudafrica a partire dal 1948 come programma elettorale del Fronte del Partito Nazionale, che resterà al governo senza interruzione dal 1948 al 1994 in coalizione con il Partito Afrikaner. Il fondamento di tutto l’edificio dell’apartheid fu il Population Registration Act (1951) che rendeva obbligatoria la registrazione di ogni abitante del Sudafrica secondo l’appartenenza razziale. I cittadini venivano classificati in quattro gruppi etnici: bianchi, indiani, meticci, bantu. Per ogni gruppo etnico le leggi prevedevano diversi diritti e privilegi. Bantu era la definizione generale che comprendeva le etnie nere del Sudafrica: zulu, xhosa, sotho, venda, tsonga. Tutti i meticci nati da bianchi e bantu venivano definiti “coloured”. Per realizzare un sistema efficiente di segregazione razziale occorreva un gran numero di leggi, in grado di diversificare i diritti e i doveri dei vari gruppi etnici e in modo da garantire chi poteva dominare e chi doveva restare subalterno. Inoltre il rispetto dell’ordine pubblico veniva imposto ricorrendo a decreti di emergenza per assicurare i pieni poteri repressivi alle forze di polizia. Alcune leggi parlano chiaro: il Group Areas Act sanciva la separazione delle diverse aree residenziali tra bianchi e neri; ai neri bantu, che erano il 70% della popolazione, venne assegnato il 13% delle terre; il Bantu Homeland Citizenship Act del 1970 stabiliva che tutti i neri sudafricani diventavano cittadini delle loro riserve perdendo la cittadinanza sudafricana; il Separate Amenities Act ordinava che le spiagge, gli autobus, i bagni, i locali pubblici, le scuole acquistavano lo status di istituzioni separate; venivano anche vietati i matrimoni misti e inoltre i neri erano obbligati ad uscire di casa forniti di un passaporto speciale; il Bantu Education Act istituiva un programma speciale scolastico per i gruppi razziali al fine di perpetuare l’inferiorità dei non-bianchi; l’Internal Security Act e il Public Safety Amendment Act autorizzavano le forze dell’ordine a dichiarare lo stato di emergenza, con la conseguente sospensione di ogni diritto umano, e creavano forti barriere alla libertà di stampa. La lotta del popolo sudafricano è stata condotta da numerosissime organizzazioni nate in risposta alle discriminazioni e alle repressioni del regime. Le coalizioni più rilevanti erano le seguenti: ANC (African National Congress) fondato nel 1912 con il nome “Congresso Nazionale Indigeno Sudafricano”. L’ANC è stata la più grande e organizzata forza d’opposizione al regime di apartheid ed ha operato sia in Sudafrica che in esilio. Nel 1994 vinse le prime elezioni libere con il 63,67% dei voti; successivamente i consensi aumentarono. SACC (South African Council of Churches), formato dalle Chiese luterane, anglicane, metodiste, presbiteriane e dalla Chiesa Riformata Nera. COSATU (Congress of South African Trade Unions) fondato nel dicembre 1895 dalla fusione di 33 organizzazioni sindacali per il ripristino dei più elementari diritti umani. UDF (United Democratic Front) fondato nel 1983 dalla fusione di oltre 600 gruppi di base,
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locali e nazionali, non razziali e anti-apartheid. Fra i suoi leader riconosciuti, il reverendo Boesak e l’arcivescovo Desmond Tutu. La lotta dei neri è esplosa più volte in forme violente, ma non terroristiche. Ciononostante le reazioni delle autorità governative a tali forme di lotta hanno portato a durissime repressioni, con massacri, arresti, torture. Quando l’esercito sudafricano uccise oltre 600 uomini, donne, bambini, combattenti e non combattenti, a Kassinga in Angola (nel 1978), fu addirittura l’esercito ad agire nel solco di una consolidata tradizione che usava la forza in modo eccessivo e ingiustificato contro gli oppositori del governo. Alcune rivolte hanno portato a far crescere il movimento anti-apartheid, come accadde dopo la rivolta di Guguleto (1977), che costrinse Vorster ad attenuare il segregazionismo. E il governo Botha poco dopo (nel 1978) concesse la costituzione di sindacati neri. Nel 1961, quando l’isola di Robben Island passò sotto l’amministrazione del Ministero della Difesa - Servizi Penitenziari del Sudafrica, il movimento di liberazione entrava in una nuova fase di lotte armate clandestine. Il 16 dicembre 1961 Nelson Mandela, riconosciuto quale capo carismatico dei movimenti di liberazione, lanciò una campagna di sabotaggi contro le strutture governative. Tutti i movimenti di liberazione aderirono a questa campagna di sabotaggi. Già numerosi appartenenti ai movimenti anti-apartheid, all’ANC e al SACP (South African Communist Party) fin dagli inizi del 1960 erano stati incarcerati nell’isola. Numerosi erano anche gli appartenenti allo Unity Movement e al Liberal Party. Robert Sobukwe, Presidente del Pan African Congress, è stato l’unico prigioniero che venne tenuto in carcere anche dopo l’espiazione della condanna. La legge generale Amendment Act permetteva di prolungare senza limiti la detenzione di qualsiasi prigioniero. Dopo gli assalti della polizia alle centrali clandestine di Rivonia, nel 1964, Nelson Mandela e altri sette comandanti dell’ANC e del SACP vennero condannati al carcere a vita e trasferiti a Robben Island. Il numero dei prigionieri, in quel periodo, crebbe a dismisura tanto che si rese necessario costruire i nuovi edifici A, B, C e D. Alcune delle vecchie carceri di ferro zincato mostravano forti segni di invecchiamento e vennero messe fuori uso. Le descrizioni fatte dai prigionieri sulle condizioni di vita a Robben Island parlano di cibo scarsissimo, vestimenti completamente inadeguati, lavori forzati in terreno melmoso, punizioni severissime. Naturalmente tutti i guardiani erano bianchi e tutti i prigionieri erano neri. Fino al 1971 i prigionieri politici non erano separati dai prigionieri per crimini comuni. Fin dai primi giorni di prigionia i reclusi organizzavano azioni per combattere il loro isolamento. Si diede inizio anche a corsi scolastici. Nel 1966 venne attuata una grande protesta generale di tutti i reclusi politici contro le condizioni di vita miserevoli e terribili. La protesta fu un totale sciopero della fame. Contemporaneamente si fece uscire clandestinamente qualche rapporto scritto sulle condizioni di vita nell’isola, per far pervenire le informazioni alle Nazioni Unite e alla Croce Rossa Internazionale. Il 28 maggio del 1971 è ricordato ancora oggi da ex prigionieri per il raid contro i reclusi di Robben Island in seguito ad uno sciopero della fame attuato in simpatia e solidarietà con i prigionieri della Namibia. Piovvero botte a non finire, manganellate e perquisizioni selvagge. Nonostante le terribili condizioni di vita i reclusi non rinunciavano ad organizzare corsi di studio, programmi ricreativi e allenamenti sportivi. Nel 1973 venne concesso ai reclusi, per la prima volta, l’uso dell’acqua calda. Nel 1976 vi furono nuove cospicue immissioni di prigionieri per i fatti di Soweto, una delle azioni più
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dure di repressione, attuate dalla polizia governativa. Il 16 giugno 1976 centinaia di giovani manifestarono, nella città di Soweto, contro l’introduzione nelle scuole della lingua afrikaans, contro il sovraffollamento delle aule, il degrado dei locali, l’uso illecito di punizioni corporali e soprattutto contro le frequenti incursioni della polizia fin dentro le aule scolastiche. Le ribellioni si estesero in altre città-ghetto e furono represse con una crudeltà feroce. Nessuno verrà mai a sapere il vero numero dei giovani massacrati, sia dai fucili che dai veicoli della polizia letteralmente impazzita e nelle celle di tortura delle caserme. Negli anni ’80, con l’inasprimento della legislazione segregazionista, si intensificò la lotta antiapartheid. Nel Paese continuava a dominare lo stato di emergenza, mentre cresceva spaventosamente il numero delle vittime della repressione. In particolare nel 1985, con l’esplosione di azioni insurrezionali in varie ed estese località del Sudafrica, la repressione governativa si inasprì ad un punto tale che le carceri di Robben Island dovettero aprirsi ad altre centinaia di detenuti. Nel 1986 Nelson Mandela tentò di aprire un nuovo capitolo per la storia del Sudafrica: una fase di negoziati. In occasione del suo settantesimo compleanno, nel 1988, forti pressioni internazionali vennero esercitate per chiedere la scarcerazione di Mandela e di altri prigionieri politici. Nel 1989 arrivarono a Robben Island numerosi giovani prigionieri politici, condannati dai tribunali di Città del Capo. Nel 1990, in seguito alle pressanti proteste internazionali, Nelson Mandela venne liberato. Contemporaneamente venne ottenuta la non perseguibilità dei movimenti di liberazione. Gli ultimi anni della terribile vita carceraria di Robben Island furono caratterizzati da continui scioperi della fame. Nel maggio del 1991 gli ultimi prigionieri politici lasciarono l’isola. Ma non tutti ritornarono in libertà. Nel film-inchiesta Prigionieri dell’apartheid - I reclusi di Robben Island le testimonianze degli ex prigionieri del campo di concentramento, attraverso i racconti personali dei sopravvissuti, daranno verità storica alle numerose vicende che hanno caratterizzato i terribili anni di lotte delle popolazioni sudafricane contro i regimi razzisti e le conseguenti incredibili repressioni e incarcerazioni. Tra i personaggi da intervistare dovranno figurare, se ancora viventi al momento della realizzazione del film, i tre Premi Nobel per la Pace: Nelson Mandela, Albert John Luthuli, Desmond Tutu. Altri nomi emergeranno dalle ricerche in loco e dalla lettura di documenti e memoriali. Tra i nominativi, già annotati da una prima ricerca citiamo: Joe Mathews, capo della lega giovani; Ahmed Katrada che, imprigionato insieme a Mandela, dopo la liberazione divenne presidente del Museo di Robben Island; Walter Sisulu, primo segretario dell’ANC; Wilton Mkwaji, combattente dal 1950; Raymond Mhlaba, uno dei principali protagonisti della rivolta “Leader defiance”; Dana Ray Alexander, esponente della lega delle donne, che può testimoniare sulla drammatica lotta contro la legge dei passaporti per i cittadini neri (1955-1956). Altri numerosi e importanti testimoni emergeranno dalle approfondite ricerche che dovranno essere effettuate in loco. Le guide che oggi accompagnano i visitatori dell’ex campo di concentramento sono il più delle volte ex prigionieri dell’apartheid. Con accenti di dolore e di tristezza essi raccontano alcune esperienze personalmente vissute: “... non era possibile leggere e studiare. Anche a Nelson Mandela venne dato tardi il permesso. Soltanto dal 1977 iniziarono a dare qualche concessione...”; “... non si poteva ricevere visite... il vitto era differenziato tra asiatici e meticci e neri, la carne per i neri era di soli 350 grammi al mese... i neri non avevano diritto al pane... in questo cortile i prigionieri subivano la tortura di lavori mortali... queste erano le lunghe camerate con i lettini a castello...” Ovviamente nel film tutte le testimonianze dovranno essere accompagnate da sequenze di filmati d’archivio originali.
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L’ONU è stata la prima organizzazione internazionale che, raccogliendo l’appello dell’African National Congress, nel 1962 chiese l’interruzione di tutti i rapporti commerciali con il Sud Africa e definì l’apartheid un “crimine contro l’umanità”. Il sostegno della comunità internazionale alla sofferenza e alla lotta del popolo nero sudafricano si è manifestato anche con l’attribuzione del Premio Nobel per la pace a tre dei suoi più significativi esponenti: Albert Luthuli, Desmond Tutu, Nelson Mandela. Per chiudere i conti con il passato e condurre il Sudafrica dall’epoca dell’apartheid verso un’epoca del tutto nuova, Nelson Mandela e l’arcivescovo Desmond Tutu hanno costituito nel 1995 la Commissione per la Verità e la Riconciliazione (TRC), che concedeva l’amnistia a tutti coloro che avessero accettato di confessare i crimini, gli abusi e le violazioni dei diritti dell’uomo commessi durante il regime segregazionista. Le udienze della Commissione si celebrarono come veri e propri “riti di purificazione” di un popolo intero. In mancanza di tali riti la fine dell’apartheid avrebbe rischiato di portare ad un’inesauribile serie di vendette e di regolamenti di conti. Le udienze della Commissione hanno dato vita ad un processo di pacificazione che ha reso possibile l’avvento di una nuova coesione nazionale. La Commissione, presieduta dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, dal momento della sua costituzione (1995) alla sua chiusura (1998), ha tenuto dodicimila audizioni in tutto il paese, ascoltando ogni volta centinaia di persone. Nel corso dei lavori della Commissione lo stesso vescovo Tutu ha più volte ribadito che “perdonare e riconciliarsi non significa far finta che le cose siano diverse da quelle che sono. Non significa battersi reciprocamente la mano sulla spalla e chiudere gli occhi di fronte a quello che non va. Una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i propri sentimenti: la meschinità, la violenza, il dolore, la degradazione... la verità.”
Massimo Sani, nato a Ferrara nel 1929, è autore e regista cinematografico e televisivo, oltre che giornalista e autore di teatro. Dal 1956, come collaboratore della RAI, ha realizzato numerosi filminchiesta, documentari cinematografici, sceneggiati televisivi di argomento storico, ottenendo importanti premi nazionali ed internazionali. Vanno citati i film: Nelle terre del Delta: uomini e Po, La guerra al tavolo della pace (Le Conferenze dei Tre Grandi), Italia in guerra, Quell’Italia del ‘43, Testimoni del terrore. Corrispondente in Germania del gruppo Mondadori dal 1958 al 1965 e dipendente RAI dal 1966, è attualmente Vice Presidente della Federazione Europea degli Autori Cinematografici (FERA) e membro del Consiglio Esecutivo dell’ANAC, l’Associazione Nazionale Autori Cinematografici.
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Torre principale di controllo dell’ex campo di concentramento di Robben Island
Il cortile dove i prigionieri “giocavano” a tennis
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ULISSE, UN EROE DEL NORD di Fabio Toncelli con la collaborazione di Felice Vinci DURATA: 1X52 MINUTI O 2X45 MINUTI
Neppure lo studente più pigro e disinteressato ha mai saputo resistere al fascino delle avventure di Ulisse né è riuscito ad evitare di rimanere soggiogato dall’ira funesta di Achille, l’invulnerabile guerriero dal piede veloce. E chi di noi non si è almeno una volta interrogato sul mistero che avvolge il leggendario cantore delle loro imprese? L’ipotesi che l’epica studiata a scuola sia in realtà una saga che proviene da tutt’altri lidi, da una parte ci intriga e dall’altra un po’ ci sgomenta. Gli dèi si sono forse presi gioco di noi? Dunque la culla di quella mitologia che rappresenta il patrimonio archetipico fondativo della nostra cultura non sarebbe più l’antica Grecia? Un’ipotesi da vagliare e alla quale, crediamo, non mancherà un pubblico appassionato e attento.
Non la luminosità delle acque del Mediterraneo, ma il grigiore dei mari del Nord; non il gorgo di Cariddi ma le maree delle isole Lofoten; non lo stretto dei Dardanelli ma il golfo di Finlandia: questo in realtà lo scenario che fa da sfondo ai mitici racconti dell’Iliade e dell’Odissea. Lo afferma un ingegnere nucleare romano che, dopo molti anni di studi e ricerche, è arrivato alla conclusione che non il Mediterraneo, ma il Baltico, fu il mare di Ulisse. Come egli stesso scrive nella presentazione del suo libro Omero nel Baltico, “... il reale scenario dell’Iliade e dell’Odissea è identificabile non nel mar Mediterraneo, dove dà adito ad innumerevoli incongruenze (un clima sistematicamente freddo e perturbato, battaglie che proseguono durante la notte, eroi biondi intabarrati in pesanti mantelli di lana, fiumi che invertono il loro corso, il Peloponneso pianeggiante, isole e popoli introvabili...), ma nell’Europa settentrionale. Le saghe che hanno dato origine ai due poemi provengono dal Baltico e dalla Scandinavia, dove nel II millennio a.C. fioriva una splendida età del bronzo e dove sono tuttora identificabili molti luoghi omerici, fra cui Troia e Itaca; le portarono in Grecia, in seguito al tracollo dell’optimum climatico, i grandi navigatori che nel XVI secolo a.C. fondarono la civiltà micenea: essi ricostruirono nel Mediterraneo il loro mondo originario, in cui si erano svolte la guerra di Troia e le altre vicende della mitologia greca, e perpetuarono di generazione in generazione, trasmettendolo poi alle epoche successive, il ricordo dei tempi eroici e delle gesta compiute dai loro antenati nella patria perduta.” Un film documentario avvincente, in scenari di straordinaria bellezza, che sarà anche un affascinante viaggio alle radici della nostra cultura, in cui i protagonisti si muovono spinti dall’eterna domanda: da dove veniamo? Qual è la nostra antica patria? Fabio Toncelli
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I poemi dell’Iliade e dell’Odissea sono sicuramente alla base di alcuni dei miti fondanti della cultura occidentale. Ulisse, il protagonista dell’Odissea, è divenuto il simbolo dell’uomo occidentale, dello spirito d’intraprendenza, della voglia di conoscere, del dubbio, del viaggio: da Omero a Dante, a James Joyce. Sono passati quasi tremila anni da quando Omero, il poeta cieco della cui esistenza non si è nemmeno sicuri, ha narrato le gesta di due popoli impegnati in una guerra brutale durata dieci anni e delle avventure di uno dei capi guerrieri durante il ritorno verso l’isola natale. I due poemi eroici sono considerati le prime grandi opere epiche della letteratura mondiale. Secondo la tradizione, achei e troiani si combatterono sulla costa sud-orientale del Mediterraneo, nell’attuale Turchia, e Ulisse viaggiò per anni fra le coste e le isole del Mediterraneo prima del suo ritorno ad Itaca. Oggi una serie di testimonianze scientifiche, senza nulla togliere al mito, sta dimostrando che con molta probabilità Omero non fece altro che raccogliere una o più saghe orali nordiche e trasferirle nel mondo greco; il Mediterraneo le ha poi tramandate e messe per iscritto...
L’IDEA Il progetto parte da uno studio dell’ingegnere Felice Vinci che avanza l’ipotesi che luoghi, popolazioni e miti dei poemi omerici abbiano un’origine baltico-scandinava e che tutti gli avvenimenti dell’Iliade e dell’Odissea abbiano in realtà avuto luogo nel mondo nordico. Sulla base di una serie di esperimenti e ricerche scientifiche (datazione al radiocarbonio, rilevamenti geologici, fotografia all’infrarosso, carotaggio di ghiacci antartici, studi sul DNA, foto satellitari e mappe di navigazione) metteremo a confronto le storie e i luoghi narrati da Omero con la realtà orografica e climatica della Grecia e della Turchia attuali e con quella dei paesi baltici. Compareremo miti e simbologie scandinave con i poemi omerici. La tesi di un’origine nordica dei racconti omerici, per quanto possa apparire stravagante, trova invece una serie di stupefacenti conferme nei dati scientifici e non è affatto in contraddizione con tutte le più recenti teorie storiche e i confronti archeologici che parlano di migrazioni provenienti dal nord intorno al secondo millennio avanti Cristo, che avrebbero dato origine alla civiltà micenea. Il documentario è un vero e proprio viaggio nel mito, nell’archeologia, nella materialità: dai megaliti ai graffiti sulle rocce, dai vasi di bronzo ai modelli delle navi, da armi e monili alle rotte di navigazione. Un racconto filologico che metterà a confronto i versi e le cose del racconto di Omero.
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DATI SCIENTIFICI CLIMA
Il clima omerico è freddo e perturbato, con vento, pioggia, neve e nebbia; il mare è perennemente “livido” e “brumoso”. L’abbigliamento dei personaggi omerici è costituito da tunica e “folto mantello” che non lasciano mai, neppure durante i banchetti: c’è un preciso riscontro nei resti di abiti ritrovati nelle antiche tombe danesi. Le regioni nordiche, durante la cosiddetta “fase atlantica dell’Olocene” (5500-2000 a.C.), hanno goduto di un “optimum climatico”, ossia di un clima molto più temperato di quello attuale. La fine di questo periodo coincide con l’inizio della diaspora dei popoli indoeuropei. Tutta una serie di studi compiuti sui ghiacci antartici, fino a tre chilometri di profondità, permette di fornire di una mappa dettagliata dei cambiamenti climatici degli ultimi millenni. Questi stessi dati, messi a confronto con rilevamenti su scala regionale e con carotaggi di sedimenti accumulati sul fondo del mare, permettono di tracciare un calendario abbastanza preciso del clima dell’epoca. Per questi aspetti pensiamo di intervistare il professor Roberto Udisti dell’Università di Firenze e un’esperta danese di tessuti.
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MAREE
Il gorgo di Cariddi, che tre volte al giorno risucchia l’acqua e tre volte la risputa, è chiaramente un fenomeno di marea. La descrizione omerica non combacia affatto con lo stretto di Messina, mentre è identica a quella che fa Edgar Allan Poe nel racconto La discesa nel Maelstrom, il famoso gorgo che la grande marea dell’Atlantico produce periodicamente tra le isole Lofoten, davanti alle coste della Norvegia settentrionale. L’inversione della corrente alla foce del fiume dei feaci è un fenomeno assai raro nel Mediterraneo, mentre è ricorrente negli estuari nordici a causa dell’alta marea. Il Professor Giacomo Tripodi, ordinario di Botanica all’Università di Messina, attesterà che il fico a cui Ulisse si sarebbe aggrappato per salvarsi dal gorgo è in realtà l’Ascophyllum nodosum, un’alga tipica dei mari nordici e, in particolare, degli scogli che si trovano nell’area del Maelstrom. GEOGRAFIA
E OROGRAFIA
Mentre il Peloponneso greco è montuoso e non è nemmeno un’isola, il Peloponneso omerico è pianeggiante: esso corrisponde alla grande isola danese di Sjaelland (la stessa parola “Peloponneso” significa “isola di Pelope”). La collocazione e la topografia dell’Itaca omerica, dove i feaci accompagnarono Ulisse, sono completamente diverse dall’Itaca greca; coincidono invece con l’isola danese di Lyø, nell’arcipelago del sud Fionia. Quest’ultimo è l’unico al mondo ad avere una configurazione che corrisponde esattamente alle isole che, secondo Omero, stavano attorno ad Itaca. L’isola chiamata Dulichio, “la Lunga”, nei pressi di Itaca, è introvabile nel Mediterraneo, mentre coincide con la danese Langeland, sia per la posizione rispetto ad Itaca, sia per il nome. La posizione di Pilo sin dall’antichità ha dato adito ad infinite discussioni, mentre nel mondo baltico si colloca agevolmente sul versante occidentale di Sjaelland; così come il confine tra Pilo e Argolide, attestato nell’Iliade ma impossibile sul suolo greco, nel contesto baltico si spiega immediatamente. L’isola di Cranae (la “Rocciosa”), dove Elena e Paride fecero l’amore per la prima volta dopo la fuga da Sparta, non è stata mai identificata nel Mediterraneo mentre coincide, sia per la posizione che per la morfologia, con l’isola danese di Møn, a sud-est della costa di Sjaelland. Al ritorno da Troia Agamennone, diretto a Micene, passò per il Capo Malea, il che nell’Egeo è assurdo, perché il Malea si trova molto più a sud. In realtà il Malea omerico corrisponde all’estremità meridionale della Svezia. L’isola omerica di Faro, abitata da foche, sta ad una giornata di navigazione dal “fiume Egitto”; invece la Faro mediterranea si trova proprio davanti al porto di Alessandria. La Faro omerica, dove sostò
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Menelao tornando da Troia, è l’isola Fårö, al centro del Baltico, ad un giorno di navigazione dalla foce della Vistola, corrispondente nordico del Nilo: l’Egitto attuale in realtà si chiamava “Kem”, mentre Egitto (“Aigyptos”) è un termine greco, trasposto dagli achei nel Mediterraneo (non a caso, esso è simile a “Gepidos”, un’isola situata alla foce della Vistola). La “vasta terra” di Creta, con “cento città”, solcata da fiumi, non viene mai chiamata isola da Omero. Inoltre nella ricca produzione pittorica della civiltà minoica, fiorita nella Creta egea, non si riscontra alcuna traccia della mitologia greca e le raffigurazioni di navi sono scarsissime. La Creta omerica potrebbe corrispondere all’attuale Pomerania, nel Baltico meridionale, estesa lungo la costa polacca. NAVIGAZIONE Secondo lo scrittore greco Plutarco (55-120 d.C.), l’isola Ogigia, dove la dea Calipso trattenne Ulisse prima di consentirgli il ritorno ad Itaca, è situata nell’Atlantico del nord, “a cinque giorni di navigazione dalla Britannia” (Plutarco, De facie quae in orbe lunae apparet, cap. XXVI). Corrisponde ad un’isola delle Faroer dove si trova il monte Høgoyggj. Da qui Ulisse salpò con una zattera verso est, diretto alla Scheria, la terra dei feaci, “attraversando l’abisso” con un viaggio di diciotto giorni, troppo lungo per l’angusto mondo mediterraneo ma congruente con una traversata nell’Atlantico, dalle Faroer alle coste norvegesi. L’Ellesponto omerico, il mare di Troia, è “largo” o addirittura “sconfinato”; non può pertanto essere lo stretto dei Dardanelli. Lo storico danese Saxo Grammaticus menziona spesso un popolo di “ellespontini”, nemici dei danesi, nell’area baltica, collegati ad un “Ellesponto” che potrebbe identificarsi con il golfo di Finlandia, il corrispondente geografico dei Dardanelli (per inciso, la forma dell’Egeo ricorda quella del Baltico, il che può aver favorito la trasposizione dei nomi nei luoghi corrispondenti). Il “fiume Oceano” che circonda la terra e scorre nel mare “senza rumore” è la corrente del Golfo che scorre al largo delle coste norvegesi. Per mostrare tutte le incongruenze geografiche si farà ricorso ad immagini satellitari, fotoaereogrammetria, mappe e calcoli di navigazione. LATITUDINE Le lunghissime giornate estive del paese dei Lestrigoni suggeriscono un’alta latitudine, al punto da aver indotto alcuni studiosi a collocarli nella Norvegia settentrionale (Robert Graves, I miti greci, 170.4). Nell’avventura successiva a quella dei Lestrigoni, ambientata nell’isola di Circe, vi sono “le danze dell’aurora”, fenomeno tipico delle terre artiche, e Ulisse non sa più “dove il sole sorga e dove tramonti” (il sole di mezzanotte). È chiaramente un luogo al di sopra del Circolo Polare. D’altronde la Lapponia è caratterizzata da fenomeni di sciamanismo, soprattutto femminile, del tutto congruenti con la figura di Circe, che Omero chiama “polypharmakos”, “quella dalle molte pozioni”. Così si spiega la macroscopica anomalia della grande battaglia che occupa i libri centrali dell’Iliade, con due mezzogiorni e una notte interposta, durante la quale i combattimenti non s’interrompono per il buio, il che nel mondo mediterraneo è incomprensibile: invece è il chiarore notturno, tipico delle alte latitudini nel mese di giugno, che consente il contrattacco serale di Patroclo dopo una giornata di combattimenti sotto le mura achee. Inoltre, il giorno successivo a quella battaglia ha luogo la tracimazione dello Scamandro, coerentemente col fatto che le piene primaverili dei fiumi nordici avvengono tra maggio e giugno. Uno studioso d’antichità classica può testimoniare che le battaglie venivano sempre interrotte al calar del sole, sia per motivi pratici che di superstizione religiosa.
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STORIA E ARCHEOLOGIA Il mondo omerico, secondo gli studiosi, è molto più arcaico di quello miceneo: pertanto è ragionevole collocarlo non dopo l’età micenea, bensì prima della discesa dei micenei nel Mediterraneo. Ce lo conferma, come ha scritto Moses Finley, “la completa mancanza di contatto tra la geografia micenea - come ora la conosciamo dalle tavolette e dall’archeologia - da una parte, ed i racconti omerici dall’altra” (Moses Finley, Il mondo di Odisseo, pag. 147). Grandi studiosi come Bertrand Russell ritengono che la civiltà micenea, apparsa in Grecia nel 1600 a.C., abbia tratto origine dai “biondi invasori nordici che portavano con loro la lingua greca” (Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, pag. 29). Lo attestano la presenza, nelle tombe più antiche, di grandi quantità di ambra di origine baltica (Colin Renfrew, L’Europa della preistoria, pag. 219), che invece manca sia nelle sepolture più recenti, sia in quelle minoiche a Creta, l’impronta prettamente nordica della loro architettura (secondo Martin Nilsson, nel suo Homer and Mycenae, il “megaron” miceneo è identico alla sala degli antichi re scandinavi), l’“impressionante somiglianza” (rilevata sempre dal Professor Nilsson) di alcune lastre di pietra provenienti da una tomba di Dendra “con i menhir conosciuti dall’età del bronzo dell’Europa centrale”, i crani di tipo nordico trovati nella necropoli di Kalkani e così via. La presenza degli achei nel nord dell’Europa, verso l’inizio del II millennio a.C., è attestata dal graffito di un pugnale miceneo ritrovato su un monolite di Stonehenge, insieme con altre tracce, riscontrate sempre nella stessa area (cultura del Wessex, 2000 a.C.) che precedono di secoli l’inizio della civiltà micenea in Grecia. Tutto ciò s’inquadra nella nuova situazione introdotta nella cronologia tradizionale dalla datazione col radiocarbonio corretta con la dendrocronologia. “Le tombe megalitiche dell’Europa occidentale diventano ora più antiche delle piramidi o delle tombe circolari di Creta, ritenute loro antecedenti; (...) in Inghilterra, la struttura definitiva di Stonehenge, che si riteneva fosse stata ispirata da maestranze micenee, fu completata molto prima dell’inizio della civiltà micenea” (Colin Renfrew, L’Europa della preistoria, pag. 63). In sostanza non appare più così scontato che la civiltà sia venuta dall’Oriente. Ad ulteriore conferma, nel sito di Nebra (50 km ad ovest di Lipsia, nella Germania orientale) sono state recentemente ritrovate delle spade di tipo miceneo, nonché un disco in bronzo circolare, datato intorno al 1600 a.C., del diametro di 32 cm, con sole, luna e stelle tra cui si distinguono le sette Pleiadi. Esso è il perfetto pendant dei versi dell’Iliade in cui Omero illustra le decorazioni astronomiche fatte dal dio fabbro Efesto sullo strato in bronzo posto al centro dello scudo di Achille: “Vi fece la terra, il cielo e il mare, / l’infaticabile sole e la luna piena, / e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, / le Pleiadi, le Iadi, la forza d’Orione” (Iliade, XVIII, 483-486). Questo conferma lo strettissimo rapporto “triangolare” tra mondo nordico, mondo omerico e mondo miceneo, già prefigurato dal grande archeologo ed accademico inglese Stuart Piggott: “La nobiltà degli esametri non dovrebbe trarci in inganno inducendoci a pensare che l’Iliade e l’Odissea siano qualcosa di diverso dai poemi di un’Europa in gran parte barbarica dell’età del bronzo o della prima età del ferro: non c’è sangue minoico o asiatico nelle vene delle muse greche (...) esse si collocano lontano dal mondo cretese-miceneo e a contatto con gli elementi europei di cultura e di lingua greche (...). Alle spalle della Grecia micenea si stende l’Europa” (Stuart Piggott, Europa Antica, pag. 131). Testimonianze del Professor Colin Renfrew, Jesus College, Cambridge University, sui nuovi metodi di ricerca e datazioni. Studio sulle pietre e sui fossili. Metodi di datazione al radiocarbonio (Università di Cambridge). Testimonianza di un antropologo per i crani (Museo di Francoforte). Eventuali riprese a Kivik, Stonehenge...
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GENETICA Omero menziona i “biondi capelli” di Ulisse, e Pindaro nella IX ode Nemea ricorda i “biondi Danai”, il cui nome richiama la Danimarca. Ma anche gli altri eroi omerici sono biondi e gli stessi dèi hanno tratti nordici (Hera “dalle bianche braccia”, Atena “dagli occhi azzurri”...) Testimonianza del Professor Luigi Luca Cavalli Sforza, Università di Stanford, USA, che ha dimostrato con i suoi studi sul DNA mitocondriale le migrazioni delle popolazioni in Europa e in Asia. GEOLOGIA I resti archeologici trovati da Schliemann sulla collina di Hissarlik, sulla costa turca, non possono essere quelli della Troia omerica, perché in tempi antichi il mare arrivava ai piedi della collina, come è stato confermato da una serie di carotaggi effettuati nel terreno circostante, il che è inconciliabile con le descrizioni omeriche. D’altronde già Strabone (storico e geografo greco, 63 a.C.-23 d.C.) sosteneva che quel sito non poteva coincidere con Troia proprio perché, secondo un’antica tradizione locale, al tempo della guerra di Troia la pianura era un’insenatura marina, in seguito riempita dal limo portato dal fiume. AFFINITÀ CULTURALI La cultura degli achei omerici presenta significative affinità con quella vichinga, come la tecnologia per costruire le navi con chiglia piatta, doppia prua e, soprattutto, l’albero smontabile. Inoltre nel mondo di Omero vasellame e stoviglie sono di metallo, come nel mondo nordico. Le stesse mura di Troia, così come quelle della città dei feaci, sono costruite con una palizzata di tronchi e pietre; più che alle fortificazioni mediterranee, assomigliano ai recinti in legno degli insediamenti nordici (come, ad esempio, furono le mura del Cremlino fino al XV secolo). I ciclopi monocoli che lanciano massi si ritrovano nel folklore norvegese. Addirittura, in una mappa dello storico medievale Adamo di Brema, appare una “insula ciclopum” collocata nel nord della Norvegia. Gli studiosi segnalano il fatto che alcuni reperti dell’archeologia scandinava, quali le figure incise sulle lastre del grande tumulo di Kivik, nella Svezia meridionale, presentano singolari affinità con i modelli dell’arte egea. NOMI DI LUOGHI E PERSONE Il mitico eroe nordico Ull, figlio di Sif, guerriero e arciere, ricorda il nome di Ulisse che Euripide chiama “figlio di Sisifo” e che Omero considera un grande arciere. Così pure il gigante marino Egeone (“Aigaion”, che contiene la radice del mar Egeo), etimologicamente è molto vicino ad “Aegir”, il signore del mare nordico. Varie città omeriche, come Calidone e Micene sono assai differenti da quelle greche; così si spiega anche perché la descrizione che Platone fa dell’Atene preistorica sia molto diversa dall’Atene che conosciamo. Il nome della città omerica di Scandia (“Skandeia”) ricorda la Scandinavia. La Trinachia omerica, accanto a Cariddi, non è la Sicilia ma un’isola tricuspide, ora chiamata Mosken, situata davanti al Maelstrom. Vi sono singolari rassomiglianze tra la lingua della Lituania e quella greca; inoltre gli studiosi hanno notato rimarchevoli analogie tra il dio lituano Dievas e lo Zeus greco.
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Tra Helsinki e Turku, davanti al Golfo di Finlandia, vi sono molti toponimi che ricordano gli alleati dei troiani: Askainen (Ascanio), Mietoinen (Midone), Reso (Reso), Karjaa (Carii), Nästi (Naste, capo dei Carii), Lyökki (Lici), Tenala (Tenedo), Kiila (Cilla), Kiikoinen (Ciconi) e tanti altri. Il nome dell’Halikonjoki, il “fiume Haliko”, è identico all’antico nome greco “Halikos” del fiume Platani, in Sicilia. Nella stessa zona vi è anche una Padva, che richiama Padova la quale, secondo la tradizione, fu fondata dal troiano Antenore: secondo l’Iliade, i veneti (“Enetoi”) erano alleati dei troiani. Lo storico romano Tacito colloca i veneti nell’estremo nord, accanto ai finni (Tacito, Germania, 46, 1-2). Al centro di questa zona, il villaggio di Toija è situato esattamente nella posizione della Troia omerica. A 7 km da Toija, in direzione del mare, il nome della località di Aijala ricorda la “spiaggia” (“aigialòs”) dove, secondo Omero, gli achei trassero in secca le loro navi e costruirono l’accampamento. Nell’area di Toija si trovano molti tumuli dell’età del bronzo, simili a quello descritto nel VII libro dell’Iliade: essi attestano la presenza di un grosso centro abitato proprio in quella zona. Il nome con cui i romani chiamavano la Finlandia, “Aeningia”, ricorda Enea che subentrò a Priamo dopo la guerra di Troia, iniziando una dinastia che ebbe molti discendenti (Iliade, XX, 307-308). I toponimi finlandesi Tanttala e Sipilä, non lontano da Toija - sul monte Sipilo fu sepolto il mitico re Tantalo, signore di una regione confinante con la Troade - indicano che il discorso non è circoscritto alla sola geografia omerica, ma si estende all’intero mondo della mitologia greca che a questo punto si può interpretare come l’estremo ricordo della perduta patria nordica degli achei. D’altronde, gli antichi storici greci fanno continui richiami all’amicizia e ai fraterni rapporti con gli iperborei, i popoli del nord, il cui sovrano era Apollo, forse il più “tipico” degli dèi greci. Le milleduecento navi achee che parteciparono alla spedizione contro Troia si radunarono nella baia di Aulide; ora, mentre la piccola Aulide greca non avrebbe mai potuto contenere una flotta così imponente, sulla costa della Svezia antistante la Finlandia si apre la grande baia di Norrtälje, lunga quasi 20 km, da cui tuttora partono i traghetti per Helsinki e Turku, passando davanti all’isola Lemland, ossia la Lemno dove sostò la flotta achea. Al ritorno dalla guerra gli achei, diversamente dal viaggio di andata, passarono al largo di Chio, corrispondente all’attuale isola estone di Hiiumaa; inoltre Menelao sostò a Faro, ossia la Fårö baltica, che è situata proprio lungo quella rotta.
APPROCCIO VISIVO La sceneggiatura sarà strutturata in modo da coinvolgere, come in un thriller, gli spettatori ai quali verrà proposto di intraprendere un viaggio attraverso miti, archeologia e dati di fatto: dai megaliti ai graffiti su roccia, dai vasi in bronzo ai modelli di imbarcazioni, dalle armi e monete alle rotte nautiche. La narrazione si farà forte di tre elementi principali: la messa in scena dei più spettacolari, interessanti e controversi episodi tratti dall’Odissea e dall’Iliade, l’uso di grafici in 3D al fine di visualizzare gli elementi cruciali, la documentazione di una spedizione archeologica, mirata a confermare la teoria di Felice Vinci, durante la quale saranno documentati i successi e i fallimenti delle ricerche sul campo e in laboratorio. Il Professor Cavalli Sforza dell’Università di Stanford si soffermerà sull’esistenza di un legame genetico tra i greci e i finlandesi di oggi. Tecniche di ricerca non invasive forniranno immagini spettacolari, come ad esempio fotografie satellitari
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in grado di verificare la presenza di costruzioni non in superficie. Saranno mostrate le prime immagini di una tomba finlandese dell’età del bronzo, trasmesse attraverso una fibra ottica, allo scopo di verificare se reperti e scheletri confermano la teoria. E infine, se la tomba sarà aperta, saranno girate immagini esclusive dell’intervento degli scienziati.
Fabio Toncelli, che ha iniziato la sua carriera come sceneggiatore lavorando con Sergio Leone, ha una vasta esperienza come autore di programmi televisivi: talkshow, programmi satirici, docu-drama e documentari. Ha lavorato per tutti e tre i canali RAI e per La7. Ha scritto e diretto numerosi documentari di successo come The mystery of the wolf e Hunting for Ngoto per National Geographic e il pluripremiato Flying over Everest. Felice Vinci, laureato in Ingegneria Nucleare, ha iniziato nel 1992 la sua ricerca sulla geografia omerica. Nel 1993 ha pubblicato Homericus Nuncius e nel 1995 Omero nel Baltico, con tre successive edizioni, aggiornate e ampliate, uscite nel 1998, 2002 e 2003. Nel 2002 la rete televisiva La7 ha dedicato a Omero nel Baltico una puntata della trasmissione Stargate, replicata nel 2003. Il libro, che ha suscitato notevole interesse in campo accademico, è stato tradotto in russo e sta per essere pubblicato da una casa editrice americana. I diritti di sfruttamento cinematografico sono stati acquistati dalla SD Cinematografica. Il producer di Ulisse, un eroe del Nord è Roberto Dall’Angelo della SD Cinematografica, società di produzione fondata nel 1961, che ha lavorato con RAI e numerose televisioni estere. La società ha coprodotto film, programmi di varietà e soprattutto documentari, molti dei quali sulla natura, che hanno vinto importanti premi a festival internazionali. La serie PAN - Animali nel Mediterraneo è stata venduta in più di 40 paesi. Recentemente la SD Cinematografica ha prodotto due documentari e una cinquantina di inserti per National Geographic. Il documentario ad alto budget Flying over Everest è attualmente sulle principali televisioni del mondo. Ad oggi ha prodotto e trasmesso più di 500 ore di programmi. SD Cinematografica, Lungotevere delle Navi 19, Roma info@sdcinematografica.it - www.sdcinematografica.it
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CARI PRODUTTORI... Plot - storie per lo schermo pubblica soggetti, trattamenti e sceneggiature inedite. I produttori e le agenzie di sviluppo interessate a sviluppare e a produrre uno dei progetti pubblicati su questo o sui precedenti numeri, possono scrivere alla redazione di Affabula Readings, all’indirizzo info@affabula.it, specificando il titolo del progetto. Provvederemo a mettervi in contatto con l’autore.
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