Plot magazine 8

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annoIV/numerootto/dicembre2006/euro5,oo

ISSN 1723-5057

storie per lo schermo IL PROVINO Maria Daniela Raineri MAMMALITURCHI! Gianfranco Martana TUTTO INTORNO A TE Anna Gasco IL MIO POSTO NEL MONDO Giulia Marcucci BOILER Mauro Calvone LA RAGNATELA DI BAKU Andrea Ruffini VISSARION Andrea Ruffini

Plot storie per lo schermo/annoIV/numerootto/dicembre2006

CARBONE Guido Cerasuolo


storie per lo schermo Rivista quadrimestrale anno IV/numerootto/dicembre 2006 Registrazione Tribunale di Torino N°5716 del 21 luglio 2003 Direttore responsabile Alberto Barbera Redazione Andrea Bisoli Stefano Boccardo Elena Bona Biagio Cappiello Roberta Di Maggio Anna Gasco Helen Jardine Giulia Marcucci Tiziana Ripani Laura Toffanello Armando Vertorano

SOMMARIO Editoriale a cura della Redazione

Con la collaborazione degli ex studenti del Corso per Story Editor dello IAL di Torino: Claudia Beggiato, Silvia Chicoli, Alberto Dessimone, Chiara Gilardo, Giuseppe Grifi, Adil Tanani, dei Masterandi in Editing e Scrittura di prodotti audiovisivi del Virtual Reality & Multi Media Park di Torino: Alessandra Marozza, Simone Zambelli, e di Alessandro Messedaglia, Masterando in Scritture per il Cinema, Critica e Sceneggiatura al DAMS, Università di Udine e Gorizia. Segreteria di redazione Tiziana Ripani Coordinatore Affabula Readings Stefano Boccardo

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AFFABULAB Il provino di Maria Daniela Raineri Discussione editoriale Scheda di lettura Replica dell’autrice

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FICTION

Progetto grafico Antonino Varsallona Illustrazioni e storyboard Claudia Amerio (pagg. ???) Giulia Marcucci (pagg. ???) Andrea Riccadonna (pagg. ???) Marianna Zanetta (pagg. ???) Copertina Antonino Varsallona Foto di Nina Leen - Getty Images Ufficio stampa e promozione Marta Franceschetti Redazione e amministrazione Associazione F.E.R.T. - programma Affabula Readings Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino Tel. +39 011 532 463 - Fax +39 011 531 490 E-mail: info@affabula.it www.affabula.it www.fert.org

Mammaliturchi! di Gianfranco Martana

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Tutto intorno a te di Anna Gasco

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Il mio posto nel mondo di Giulia Marcucci

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Boiler di Mauro Calvone

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DOCUMENTARI

Editore Fert Rights srl Corso Peschiera 148 - 10138 Torino Stampa Arti Grafiche Roccia Via Perugia, 20 - 10152 Torino Distribuzione in libreria DIEST distribuzione Via Cavalcanti 11 - 10132 Torino Tel./Fax 011 898 11 64 © Associazione F.E.R.T., 2006 Tutti i diritti di riproduzione dei materiali contenuti nella rivista sono riservati.

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La Ragnatela di Baku di Andrea Ruffini

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Vissarion di Andrea Ruffini

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Carbone di Guido Cerasuolo

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Come inviare i vostri progetti Opzioni cercasi Dove trovare Plot

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Carissimi lettori di Plot, con questo numero, terza e ultima pubblicazione dell’anno 2006, Plot compie ormai il suo quarto anno di attività. Dalla nascita di Affabula Readings (di cui Plot è l’elemento di congiunzione con lettori, autori e produttori) ad oggi, abbiamo ricevuto oltre 470 progetti, soprattutto di fiction, ma anche di documentario e animazione. Alcuni avete avuto modo di leggerli sulle pagine della rivista, perché considerati dalla nostra redazione ormai maturi per essere messi in mostra in questa sorta di vetrina, altri invece, ben lungi dall’essere stati dimenticati, sono ancora al centro di quella fase di elaborazione, definizione e raffinamento della quale ci facciamo costantemente promotori. Il nostro lavoro, infatti, consiste nel leggere i materiali inviati dagli autori, compilare una scheda articolata in cui vengono analizzati i punti deboli e i punti forti del progetto in esame e, se l’autore ritiene di aver trovato in tale modalità di lavoro un processo consono allo sviluppo della sua storia, attendere che la gestazione del progetto si compia attraverso una serie di riscritture successive, tutte monitorate attraverso la redazione di schede di lettura. Ciò che non sapete, invece, è come avvenga nel concreto questo lavoro - ahinoi faticoso - ma anche magico e stravagante. Pertanto, a partire da questo numero, abbiamo deciso di uscire allo scoperto e di inaugurare una nuova sezione all’interno di Plot - AffabuLAB - per portarvi idealmente dentro la redazione e farvi assistere a ciò che accade quando un progetto ci viene consegnato. Da questo numero, quindi, potrete seguire, su una storia in particolare, le fasi preliminari di lettura e confronto collettivo che precedono la redazione della scheda vera e propria, leggere la scheda, così come viene elaborata da un solo editor dopo la discussione preliminare e infine prendere visione della reazione dell’autore. Ci auguriamo che questa “apertura” possa essere interessante per voi, anzi, ci auguriamo di meglio: che esserci per voi, anche solo attraverso le pagine della rivista, significhi compartecipare a quel processo maieutico, alchemico e miracoloso attraverso il quale le storie prendono vita. Il progetto scelto per inaugurare la sezione AffabuLAB è Il provino di Maria Daniela Raineri, giunto alla redazione in occasione della terza edizione de “Le Giornate Europee del Cinema e dell’Audiovisivo”, tenutesi a Torino il 18-19 novembre 2005. Tra le ragioni che ci spingono a discuterlo e a proporne all’autrice una rielaborazione, oltre alla ricchezza della scrittura e alle potenzialità del progetto di una scrittrice solida e reattiva, spicca la nota di intenti che l’autrice stessa ci ha inviato e di cui, unitamente alla storia (in versione leggermente ridotta), pubblichiamo un estratto. A tutti voi, buona lettura. La Redazione

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IL PROVINO di Maria Daniela Raineri Menzione Speciale Premio Massimo Troisi 2005 Sezione Migliore Scrittura Comica [...] Non esiste ancora una sceneggiatura, e mi piacerebbe affrontare la stesura di quest’ultima a quattro o più mani, cercando altre idee originali per rafforzare il plot, approfondire le piccole sottotrame e creare dialoghi brillanti che possano mantenere il ritmo vivace e veloce della storia.

Anche questo agente non ne vuol sapere di rappresentarmi. E pensare che, per poterlo avvicinare, ho subito imperturbabile le angherie telefoniche di almeno tre feroci segretarie. (...) Mi chiedo perché faccia tutte queste storie solo con me. In fondo ho un ottimo curriculum, ormai. Certo, poca televisione e pochissimo cinema, ma in teatro sono un professionista. (...) Mi sono specializzato in ruoli minori, di solito faccio il domestico, che per fortuna a teatro non manca mai. Certo, mi va bene solo con i classici, perché oggi dove lo trovi qualcuno col maggiordomo? (...) Sono sicuro che se perdessi dieci chili le parti da protagonista fioccherebbero. Ma non ci posso fare niente, quando sono stressato mangio. E se non lavoro, come in questo momento, sono stressato, oltre a non avere i soldi per la palestra. “Fame compulsiva,” dice la mia fidanzata Elena. In questo momento, per esempio, mi accorgo che tengo il cellulare in una mano e una barretta dietetica nell’altra. Le barrette sono di Elena e ne ho mangiate già due mentre parlavo. Visto che la scritta sulla confezione dice “sostitutivo di pasto”, significa che alle dieci e un quarto di mattina ho già fatto pranzo e cena. La quarta segretaria parla come Robocop. Non ne vuole sapere di passarmi nessuno. Ripete che hanno il mio curriculum in archivio

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e se sono interessati mi chiameranno. Risponde così ad ogni mia domanda. Quando chiudo la conversazione me ne frego e mangio anche la terza barretta. E così arriviamo alla colazione di domani. Elena esce dal bagno, finalmente. “È negativo.” “Certo che è negativo,” rispondo, “quello non ne vuole sapere. E se non ne vuole sapere lui che, diciamocelo, è uno sfigato, cosa posso fare ancora?” “Il test, Bruno. Il test di gravidanza è negativo.” L’avevo scordato! “Negativo? Yuhuuu!!!” Butto per aria la carta della barretta, prendo Elena per le mani e la faccio girare per la stanza. L’abbiamo scampata bella! Propongo di festeggiare con pranzo al McDonald’s (non dimentichiamo che sono disoccupato). Elena si allontana. Ha la faccia triste. Penso che, a questo punto, sia perché le devono venire le sue cose. “Cosa vorresti festeggiare? Il fatto che ho trentatre anni, e tra poco non potrò più fare bambini?” “Esagerata.” “Però non lo avresti voluto.” “Certo che lo avrei voluto! Magari in un momento migliore, però. E mica uno solo, ne vorrei tre, due maschi e una femmina...” Elena mi interrompe, scura in volto. Mi rimprovera, come accade sempre più spesso, quello che lei chiama il mio cattivo esame di realtà. Mi ricorda che tra poco al provveditorato escono gli elenchi delle supplenze e chiede se almeno quest’anno intendo presentarmi per fare domanda. Alla fine si parla sempre di soldi. Mi chiedo a che serva allora essere diventati intellettuali.

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Io e Elena ci siamo conosciuti il giorno della nostra laurea in lettere. Lei con lode e dignità di stampa, io con cinque anni fuori corso. La stessa sera l’ho invitata ad uno spettacolo all’aperto in cui facevo l’araldo e non ci siamo più lasciati. Ma, a giudicare da come mi guarda in questo momento, ho paura che Elena non se la ricordi più, quella sera. Mangiamo a casa, pomodoro e mozzarella, e quasi non scambiamo parola.

Ho un provino per la pubblicità. Una parte di avventore in una birreria tedesca dalle pareti di polistirolo. (...) Dopo un paio d’ore chiamano quelli che sono stati presi. Io non ci sono. Il mio amico Gianni mi invita per un aperitivo. Lui naturalmente è dentro. È sempre così con Gianni. In realtà lui non è un vero attore; niente scuole, niente corsi, niente gavetta. Il suo vero mestiere, che assicura vita agiata e centoquaranta metri quadri nel centro storico a sé e alla giovane moglie, è quello di promotore finanziario. (...) Non è nemmeno tanto bello, insomma, è un tipo comune. Castano, non troppo alto e anche piuttosto miope. Ma a quanto pare lui è uno di quelli con lo “stardomship”. Cioè, è un protagonista nato. Si muove e si atteggia come tale. Oltre tutto è anche simpatico. Però oggi continuo a chiedermi perché lui sì e io no. In questo caso, poi, io ho anche il

physique du rôle da cliente abituale di birreria tedesca. “Cercavano qualcuno con gli occhiali.” Mi accontento di questa spiegazione, sono troppo stanco. (...) “A proposito, la Rocchini Giacomelli sta preparando una performance teatrale sull’omosessualità nella Legione Straniera,” butta lì Gianni. Mi strozzo con una tartina. Valeria Rocchini Giacomelli è una leggenda nel mondo dello spettacolo romano. Quarantenne intellettuale e bella, è una regista teatrale famosa

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per il talento, il carattere impossibile e la capacità di ammaliare uomini e pubblico. Circolano leggende da brivido sul suo conto. Lavorare con lei è il terrore e il sogno proibito di ogni attore maschio. Le attrici la temono, le intellettuali la idolatrano, le fidanzate la detestano. Le servono soldati. Devo arrivare prima di tutti gli altri. Gianni non fa teatro, troppo faticoso. E poi questo è un momento di superlavoro: è uscita una nuova polizza pensionistica per feti. La cosa mi impressiona un po’ e, cosa peggiore, mi fa ripensare alla discussione con Elena di questa mattina, così, prima di sprofondare di nuovo nella depressione di questa giornata che mi ha visto padre e attore mancato, annoto il numero dell’ufficio stampa di Valeria Rocchini Giacomelli. (...) Più tardi, davanti alla tv, Elena sta correggendo i compiti dell’Istituto Magistrale (cattedra definitiva: mentre lei vinceva il concorso, la sit-com in cui facevo il postino chiudeva alla sesta puntata, in seguito all’arresto per cocaina del noto conduttore protagonista). Vorrei dirle milioni di cose, chiederle se le piaccio ancora come la sera della laurea, se è proprio da me che vuole un figlio, se è davvero orgogliosa quando viene a vedermi recitare o se sta solo aspettando, con sempre meno pazienza, che finalmente io la finisca con questo capriccio. Ma non riesco a parlare, allora la abbraccio e comincio a baciarle l’orecchio. Lei mi dice: “Smettila,” ma sento che ha la pelle d’oca sulle braccia e capisco che le piace. Alla fine mi bacia. Tiro in dentro la pancia e mi tolgo la maglietta. Poi infilo la testa dentro la maglia della sua tuta. Elena ride. Mentre sono lì sotto, tutto intento a mordicchiare, c’è una parte di me che non riesce ad allontanare completamente l’idea di un vecchio copione ripetuto identico mille volte. Un’altra parte di

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me, indubbiamente quella preposta alla conservazione della specie, non tollera sofismi in momenti come questo e mi suggerisce di impiegare le facoltà mentali esclusivamente per far saltare i gancetti del reggiseno con maschia abilità, o per lo meno senza ferire la schiena della mia partner. Poi sento quella voce. Mi fermo, Elena chiede cosa c’è. Non riesco a resistere, sbuco fuori dalla sua felpa e mi rimetto seduto, impadronendomi del telecomando. Elena sospira e raccoglie i fogli protocollo che nel frattempo erano caduti dal divano. Eccola lì. Valeria Rocchini Giacomelli. Vestita di chiaro, come sempre. Ha evitato il bianco, perché sappiamo tutti che in televisione spara, e ha sapientemente scelto un vestito color panna, straordinariamente trasparente sul petto. È magra, Valeria, e i lunghi capelli rossi sono lisci e raccolti in una coda di cavallo. Il conduttore del talk show è il solito becero raccomandato. (...) Se ne frega dello stile di conduzione. Le sue domande sono volgari e faziose. Cerca di estorcere a Valeria commenti personali sulle attrici con cui ha lavorato e sulla sua presunta relazione con il marito di una di queste, poi fa apprezzamenti pesanti sulle rosse naturali, ma lei accoglie tutto con un sorriso distante, saggio e un po’ sarcastico, accavalla le gambe e beve un bicchiere d’acqua. Alla fine, al conduttore cafone non resta che chiedere: “Il suo prossimo lavoro affronterà il tema dell’omosessualità: lei ha mai avuto rapporti lesbici?” Lei lo guarda dritto negli occhi e risponde con quella voce bassa, che ora è quasi un sussurro: “Lei cosa immagina?” “Bella donna, no?” mi chiede Elena. Come se non la conoscessi. Siamo insieme da quasi dieci anni e so che quella domanda, detta con quel tono leggero e casuale, quasi

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salottiero, è nove volte su dieci preludio a scenate da tragedia greca. (...) Quindi, saggio, rispondo: “Carina, ma è troppo magra. E poi si vede che è anziana, anche se si tiene bene.” “Secondo me invece ti piace. Guarda come stai.” In effetti sono seduto in avanti, tutto proteso verso lo schermo. E Valeria mi piace molto. L’idea di avere una parte e trovarmi a prendere ordini da una come lei mi dà una sensazione strana. Domattina chiamo il suo ufficio. “Ma che dici. Guardavo così perché forse il clarinettista della band è uno che conosco. Comunque Gianni mi ha detto che cerca degli attori per il lavoro sulla Legione Straniera.” “Gianni farà il provino?” “No, ma Gianni non è un attore. È solo uno che fa la pubblicità ogni tanto. Io sono un attore...” Elena ride. “Non vorrai fare il provino con la Rocchini Giacomelli!” “Non ho capito, scusa. Se lo faceva Gianni mica ridevi.” “Cosa c’entra. Gianni è un tipo diverso.” “Certo che è diverso. È un po’ più giovane e ha gli occhiali.” “Certo, più giovane. E poi un po’ più carino. O meglio... più sexy, direi.” Mi bacia sulla fronte. Soffro come un cane. Ci sono delle regole che dovrebbero essere studiate a memoria dalle donne fin dalla pubertà. Una di queste è: non si fanno mai confronti. (...) Così la serata finisce male, divento intrattabile e, mentre Valeria sullo schermo racconta la sua teoria su erotismo e suicidio nel teatro contemporaneo, e il conduttore ha una faccia come se cercasse di ricordare a chi ha prestato l’ultimo libro sulla dieta Zona, decido di tornare a dormire a casa mia.

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In realtà non è proprio casa mia. Certo, ho la mia indipendenza, vado e vengo quando voglio, posso stare fuori anche una settimana intera senza dover fornire spiegazioni, ma il fatto è che vivo ancora con i miei genitori. Quando entro li trovo davanti alla televisione (stesso talk show), e per un attimo penso a quanto somiglino a me ed Elena fino a qualche minuto prima. Mia madre ha una rivista sulle ginocchia e sta chiedendo a mio padre se gli piace Valeria. Mio padre risponde: “Troppo magra e troppo vecchia. Sei più bella tu.” Quarant’anni di matrimonio gli avranno pur insegnato qualcosa. Infatti mamma, tutta sorridente, si alza e gli va a preparare la borsa d’acqua calda. (...) Vado a salutare nonna, nella sua stanza. Accendo il suo vecchio giradischi e metto su l’album

Bollicine di Vasco Rossi. Chiedo a nonna se se lo ricorda Vasco a Sanremo nell’ottantatre. Nonna fa sì con la testa e sorride. (...) Bacio nonna sulla guancia e le dico: “Sei una roccia. Ma a te chi t’ammazza?” Lei sorride ancora. Mentre Vasco canta Vita

spericolata, racconto del provino che voglio fare e chiedo se sarei credibile come legionario gay. Nonna dice di sì. (...) La nonna è sorda da tanti anni, ma a me piace parlarle e raccontare tutte le cose mie. Stasera mi serve davvero il suo incoraggiamento: solo così posso conquistare l’autorevolezza necessaria per riuscire a parlare con Valeria. (...)

E poi è tutto facile. Valeria è incredibilmente affabile e cordiale, ride persino quando tento di fare una battuta che mi riesce a metà. Ha ricevuto il mio curriculum, li sta esaminando tutti personalmente. Mi chiede se ho un agente e io mento dicendo che preferisco sentirmi completamente libero e scegliere di fare

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poche cose ma di qualità. Alla fine mi fissa un appuntamento. All’agenzia? No, a casa sua. Quando metto giù, per la gioia faccio un giro di valzer con la carrozzella di nonna, e lei pare divertirsi un mondo. Mi chiedo che dirà Elena. Certo, Elena. Decido di farle una sorpresa e vado ad aspettarla fuori da scuola.

L’estate è alle porte. Le ragazze delle magistrali fanno a meno del reggiseno e alcune di loro mi lanciano sguardi inequivocabili. Parlano tra loro e ridacchiano, in cuor mio spero che abbiano riconosciuto in me il mozzo della pubblicità del tonno al naturale, ma sono passati quattro anni e penso di no. Poi Elena esce, finalmente. Non posso fare a meno di notare che è l’ultima. E non è sola. C’è un ragazzetto accanto a lei, potrà avere al massimo venticinque anni. In giacca e cravatta, con questo caldo. A giudicare da quanto la sta facendo ridere, presumo le stia raccontando l’ultima puntata di Zelig. (...) Si salutano e lui sale su una Smart. (...) Elena è stupita nel vedermi. Quello era il supplente di Diritto e stavano parlando dei risultati degli scrutini. “Alcuni colleghi cabarettisti hanno fatto il tutto esaurito con il loro repertorio di Diritto commerciale,” dico e mi accorgo che la battuta mi è uscita in un tono acido non previsto. Comunque la invito a pranzo, in una trattoria vera. A tavola, mentre il caldo e il vino rosso mi danno un po’ alla testa, vedo che i suoi occhi brillano ancora mentre mi parla e capisco che sono stato stupido a farmi infastidire dal piccolo proprietario di Smart. Elena mi vuole bene così, artista spiantato come mi ha conosciuto e come forse resterò ancora per un bel pezzo. Certo, a meno che il provino con Valeria non vada bene. Ma decido di non dire nulla. Non ancora. (...)

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Mi tremano le gambe. Vent’anni di provini, set e palcoscenici e ancora quel tremolio alle ginocchia. Però sul palco sono un vero leone, eh. Spero che Valeria lo capisca. Valeria. Capelli rossi e profumo francese. Sono emozionato. Suono il citofono e la sua voce calda mi invita a salire. Ho scordato di chiederle a quale piano. E non c’è il portiere. Così, porta dopo porta, mi fermo a guardare i nomi su tutti i campanelli. L’appartamento di Valeria è esattamente l’ultimo, al sesto piano. Mi devo fermare per qualche secondo di fronte alla porta, per riprendere fiato e non far la brutta figura di mettermi ad ansimare appena la saluto. Così, mentre aspetto con una mano sul petto che il respiro torni regolare, dimenticandomi tutto ciò che il mio tutor americano ha insegnato sulla visualizzazione interiore e sull’addomesticamento del diaframma, sento la voce della donna che desidero incontrare più di ogni altra al mondo. Non è sola, sta parlando con qualcuno. Mi pare di sentire anche qualcosa come un singhiozzo, poi una voce maschile che la chiama per nome. E poi quel rumore, spaventoso ed enorme, di vetri infranti. Il cuore mi riparte a mille e penso solo ad una cosa: sparire in fretta. Mi butto per le scale e faccio sei piani a folle velocità. Intanto mi accorgo che qualcuno ha preso l’ascensore. Riesco ad essere più veloce ed esco per strada prima che l’ascensore giunga a pian terreno. Fuori, alcuni passanti si sono appena radunati attorno a qualcosa per terra. Mi avvicino e vedo Valeria tra i vetri. Ha gli occhi aperti e sembra che mi guardi, mentre la chiazza di sangue sotto di lei si allarga con una velocità che mi appare straordinaria. Nessuno bada a me. C’è chi piange con le mani sulla faccia, chi si china e la chiama, come se potesse farla resuscitare,

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chi mantiene la calma e chiama l’ambulanza. Mi metto una mano sulla bocca e scappo via.

Trafelato, raggiungo il primo bar. Mi siedo nella saletta poco illuminata e scelgo il tavolino meno in vista. (...) È mentre cerco di calmarmi che Gianni mi vede. Se ne sta là al bancone con la sua borsa da lavoro e qualcosa di molto interessante da raccontare alla cameriera. (...) Mi fa un cenno con la mano come per dire “ti raggiungo subito!” Ordina un aperitivo e viene a sedersi al mio tavolino. Sono o non sono un attore? Questa sarà la prova cruciale, una delle più ardue della mia carriera (...): immaginate di essere stati quasi testimoni dell’omicidio di una donna famosa e spaventosamente eccitante e fate finta di niente di fronte al vostro migliore amico. (...) Gianni deve andare da un cliente qui vicino, per chiudere un contratto. Pensione integrativa. Allora mi mostro interessato e, mentre mi rendo conto che ho appena inzuppato il tramezzino al tonno nel cappuccino, faccio domande sull’opportunità di sottoscrivere una di queste polizze. E Gianni, che è un venditore nato, non esita ad illustrarmi cifre e numeri che fingo di capire ed approvare. Alla fine, con la mano che ancora trema, firmo senza obiezioni quattro moduli che mi impegnano a ingenti versamenti mensili per i prossimi quindici anni.

Quando arrivo a casa vado subito da nonna. Non ce la faccio a tenermi tutto dentro, così le prendo la mano, come quando ero piccolo e, sottovoce, comincio a raccontare. Sono scappato. Del resto volevo un ingaggio, non guai. Ma chissà perché ora mi sento colpevole, quasi ci fossi stato io dentro

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quella stanza. Penso che se non fossi stato emozionato come un chierichetto alla prima messa avrei avuto la lucidità di prendere l’ascensore. E se avessi preso l’ascensore nulla sarebbe successo, sarei arrivato in tempo per sgominare il ladro o chiunque fosse il mostro che l’ha buttata giù e poi... E poi se ci penso tutto si complica ancora, perché so che il batticuore che provavo suonando il campanello non era solo per la possibilità di avere la parte più importante della mia carriera. Io non vedevo l’ora di entrare in quella casa e di starle vicino. Ho immaginato tante cose in questi giorni. La nonna mi guarda e il solito sorriso si affievolisce un po’. Forse è una mia impressione, ma sta stringendo la mia mano più forte.

Fumo bianco dentro, fumo nero fuori. Respiro profondamente e dal petto mi esce uno strano singhiozzo. Non ero proprio dell’umore adatto a partecipare a questo stage, ma avevo anticipato 350 euro (che devo restituire a Gianni). L’insegnante ha studiato recitazione in America e una volta tornato in Italia è diventato l’eroe buono

di

una

soap

opera

che

purtroppo

ha

chiuso

alla

centocinquantesima puntata. Ora tiene costosi corsi di aggiornamento, fa teatro e qualche apparizione da Gerry Scotti. (...) Niente da fare, non riesco a concentrarmi. Nemmeno gli altri, mi pare. I miei compagni fanno fatica a stare fermi, mormorano, aprono gli occhi quando devono tenerli chiusi e cose del genere. Tutti parlano sottovoce e tutti della stessa cosa. Parlano di un attore infuriato per un rifiuto, di un’attrice a cui Valeria aveva stregato il marito. Di gioielli scomparsi. Di cocaina e feste private. Ho bisogno di prendere aria. Invento un mal di pancia, chiedo se posso avere indietro una parte della quota. No. Per un attimo mi chiedo se le probabilità di rimborso sarebbero maggiori con una

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simulazione di peritonite, ma poi penso che i soldi vanno e vengono ed esco per telefonare a Elena.

Cucino io, il mio rinomato pollo al curry. Elena è davvero carina stasera, noto che ha un filo di trucco anche se abbiamo deciso di restare a casa. Vorrei solo che la smettesse di parlare di Valeria. Mi chiede se l’avevo mai incontrata, se è vero che era bisessuale, se non si era mai fatta interventi di liposuzione per essere così in forma alla sua età. Nemmeno fossi il suo agente. Non riesco a capire cosa trovi di così eccitante nella morte di qualcuno. Continua a fare zapping tra un telegiornale e una rubrica rosa, avida di notizie aggiornate sul caso di cronaca del momento. Sono costretto a requisirle il telecomando e a fingere di voler vedere i risultati del derby, così per mezz’ora resto con lo sguardo fisso sullo schermo, in silenzio, fatta eccezione per un paio di battute banali sull’italiano stentato dei giocatori, mentre non riesco a togliermi da davanti agli occhi l’immagine di Valeria sull’asfalto. A fine cena, le porgo un cucchiaio per il gelato, lei risponde: “No, sono a dieta” e mi domanda se si vede che ha perso tre chili. A me sembra sempre uguale, bionda, carina e rotonda, ma lei è davvero orgogliosa e si è messa una maglia stretta. Si siede sulle mie ginocchia, prende il cucchiaio e comincia ad imboccarmi. Ride un po’ maliziosa, e io non posso certo dirle che, a causa del mio Edipo irrisolto, non fa altro che ricordarmi di quando avevo due anni e stavo sul seggiolone. Mi prende per mano e andiamo in camera sua, con la tavola ancora da sparecchiare.

“Mi dispiace,” dico io (ed è la verità). “Non fa niente,” risponde Elena (ed è una bugia). (...) Sento di non avere giustificazioni da addurre e sprofondo

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in un pressoché immediato sonno consolatorio. Sogno Valeria. E non, come avrei immaginato, gli occhi fissi e il sangue. Nel sogno Valeria mi sta ancora aspettando. Apro la porta e la trovo lì, seduta sul divano di pelle chiara. Ha messo su un disco di Belle & Sebastian e sorride, vestita di veli bianchi e con le lunghe gambe accavallate. Poi prende un bicchiere dal tavolino, si alza e me lo porge. Mi avvicino, la sfioro e sento profumo di cipria e di spezie orientali, e il nostro abbraccio ha un sapore nuovo, così strano e diverso dalla consistenza morbida, nota e rassicurante di Elena. Poi squilla il mio cellulare. “Valeria...” mormoro, poi apro gli occhi e trovo Elena che mi guarda con gli occhi pieni di lacrime e uno scontrino tra le mani. È quello del bar vicino a casa di Valeria. Deve avere cercato nelle mie tasche mentre dormivo, non immaginavo che fosse quel tipo di donna. Rispondo al telefono e mio padre dice che nonna è morta.

Fin dal primo mattino a casa inizia ad arrivare gente. Mamma sta in cucina e prepara caffè a getto continuo, papà è uscito per sbrigare tutte le pratiche e, credo io, per starsene un po’ per conto suo. Così sono io che faccio gli onori di casa e mi passa davanti una folla grigia di parenti, amici e sconosciuti e io lì a baciare tutti e a dire a tutti le stesse cose, mentre quello che vorrei è poter piangere da solo e disperarmi perché nonna se ne è andata e, peggio di tutto, mentre mi dicevano che era morta ero nel pieno di una inopportuna ed inquietante erezione. Arriva una signora in gonna patchwork anni Settanta, mi saluta e solo dopo un bel po’ riesco a ricordarla: ero innamorato di lei alle elementari, ora è buddista e fa la docente globetrotter di meditazione. Non sta molto bene, secondo me. Ha una specie di

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reticolo di rughe sulla faccia, eppure dovrebbe avere la mia età. “Ti sei sposato?” mi chiede. “No,” rispondo. Sorride con aria complice: “Nemmeno io.” Sento un brivido freddo lungo la schiena. Le visite non accennano a cessare. Non pensavo che nonna avesse tutti questi amici. Se ne stava sempre lì da sola, ultimamente. Per esempio, che c’entra la mia compagna di scuola? Non mi risulta che nonna avesse simpatie per il buddismo, ma del resto non mi raccontava mai niente, ultimamente parlavo sempre io. Quei due, per fare un altro esempio. Cosa c’entrano con nonna i carabinieri? Impallidisco e mi manca il fiato. Quelli non sono qui per la nonna. Per fortuna nessun altro ascolta quando mi invitano a seguirli in caserma. Invento con mia madre una cosa da fare per la denuncia di morte e li seguo senza parlare.

In caserma mi metto nei guai. Stanno rintracciando tutti i nomi sull’agenda di Valeria. Mi chiedono se la conoscevo e dico di no (vero), se quel giorno avevamo un appuntamento e dico di sì (vero), se mi ero presentato puntuale e dico di no (falso), se per me era normale un appuntamento per un provino a casa di una regista e dico di sì (falso), se la ritenevo una donna attraente e dico di no (falso). Dico che ho mangiato un tramezzino in un bar lì vicino e ho scordato l’appuntamento. Suona il cellulare. Avevo scordato di spegnerlo. Così devo spegnerlo adesso, anche se vedo il nome “Elena” che lampeggia. Il maresciallo fa una faccia strana e dice al collega giovane di mettere tutto a verbale. (...) Lo guardo meglio e lo riconosco. Si è tagliato i capelli, ma cinque anni fa era stato mio allievo al corso “Attori per il cinema” degli instancabili gemelli Fratti. Era il più bravo di tutti, chioma fluente e sguardo selvaggio. Una vera promessa, l’avevo anche invidiato un po’. Aspetto che il

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maresciallo venga chiamato nell’altra stanza per salutarlo. Lui mi stringe la mano, un po’ imbarazzato. Gli chiedo se continua a recitare, scuote la testa e sorride. “Uno mica può passare la vita ad inseguire un sogno, no? Bisogna pur mangiare. E poi c’ho quasi trent’anni.” Sono troppo preoccupato per metabolizzare davvero quella frase lapidaria. Resto lì dentro per quasi due ore. Quando il maresciallo mi saluta dice: “Arrivederci,” e questo mi preoccupa. Il carabiniere giovane mi accompagna alla porta e, quando è sicuro che nessuno senta, sussurra: “Anche io andavo a casa di Valeria, tanto tempo fa.” E mi strizza l’occhio. Appena esco dalla caserma richiamo Elena, ma lei taglia corto perché è già per le scale, sta andando alla cena di fine anno con gli allievi di quarta. Si capisce benissimo che è offesa.

Il giorno dopo vado ad aspettarla a scuola. Aspetto mezz’ora dopo che tutti se ne sono andati. (...) Poi la vedo, di nuovo col ragazzetto. Questa volta non sembrano divertirsi tanto, anzi, lui mi sta fissando e ho la precisa impressione che nel suo sguardo ci sia qualcosa di molto simile all’ostilità. O forse è solo miopia. (...) Elena mi viene incontro e mi prende per mano. “Facciamo due passi?” Decido che le voglio raccontare tutto. Ma cosa, esattamente? Ci provo ma mi impappino fin dall’inizio: “Ti capita di sentirti in colpa? Magari per qualcosa che non hai nemmeno fatto? Magari per qualcosa che non hai fatto ma avresti potuto, o voluto fare?” Elena risponde: “Sì,” e mi bacia, lì in mezzo alla strada. Così non dico più niente, ringrazio Iddio perché mi ha concesso l’amore di questa donna, andiamo a casa e mi impegno al massimo per farle dimenticare quello che mi è successo l’altra sera.

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Per tutta la settimana successiva mi sento mancare il respiro ad ogni squillo di telefono. (...) Una sera chiama Gianni e ci invita a cena. “Così vedete la casa,” dice. Elena detesta cordialmente Candida, la moglie di Gianni. Ama definirla “Ragazza-col-nome-di-fungo”. Non è che Candida le abbia fatto qualcosa, ma penso che sia una specie di meccanismo genetico che riguarda la difesa del matriarcato e fa sì che ogni donna desideri eliminare tutte le femmine più belle e giovani che si trovino a transitare nel suo raggio d’azione. In realtà Candida ha ventisei anni, fa la giornalista ed è bellissima nonostante un poco noto passato da anoressica ed assidua sniffatrice di eroina. Ci accoglie con cortese eleganza e ci presenta i piatti orientali che, sottolinea Gianni non senza una punta di orgoglio, ha fatto tutti da sola. Elena dà un’occhiata alla tavola e annuncia a denti stretti di essere allergica ai gamberi. Per l’intera serata ho l’impressione che da qualche parte, in questo salotto di esclusivo design, si nasconda una letale bomba ad orologeria. Il fantasma di Valeria aleggia durante tutta la cena. Il gossip da sussurrato diventa presto selvaggio. Gianni sostiene di conoscere molti dei suoi amanti, Candida molti dei suoi spacciatori. Elena sostiene che non scopriranno mai chi l’ha uccisa perché, a quanto pare, era così odiosa che chiunque avrebbe avuto un buon motivo per voler farla fuori. Io mi sento un vero cretino, ma non riesco a non prendere le sue difese e ricordo ai miei commensali che questa donna, di cui oggi giornali scadenti fanno a gara per infangare la memoria, da viva riscuoteva il plauso di pubblico e critica e, a detta di molti, aveva rivoluzionato il concetto stesso di teatro. Cito a memoria, in rigoroso ordine cronologico, i titoli delle sue prime performance, da Feticismo operaio a Ore tre. Tempo di agonia. Mi accorgo

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troppo tardi che mi sono lasciato trasportare e ho alzato la voce. In casa d’altri. Elena mi guarda, paonazza. Chiedo scusa e torno a sedermi. Ma la bomba è ancora lì. Quando Candida e Gianni annunciano di aspettare un figlio, temo che la mia fidanzata si metta a piangere. Non ho il tempo di impallidire che subito Candida, con il suo sorriso immacolato, pone l’immancabile, devastante domanda: “E voi?” Perché? Perché ogni coppia che decide di procreare ritiene di dover dare il via ad una specie di contagio? Dove finiscono la riservatezza, il senso del pudore? In fondo si dovrebbe trattare di scelte talmente private. “Facciamo un figlio, e voi? Ci sposiamo, e voi?” Mai che capiti di sentire: “Non facciamo sesso da mesi, e voi?” Oppure: “Abbiamo deciso di arricchirci con il traffico di uranio, e voi?” A peggiorare la situazione ci pensa Candida, che cerca di incoraggiare la mia ragazza: “Dopo i trentacinque anni l’amniocentesi è gratuita, no?” “Chissà se l’ha fatta anche Valeria Rocchini, prima dei suoi due aborti,” risponde secca Elena.

A casa perdo la pazienza. Chiedo ad Elena se si ricorda di quando ha letto l’ultimo libro degno di questo nome, nonostante tutte le sue arie da intellettuale. Corro in camera e le sventolo sotto il naso tutte le riviste scandalistiche che trovo sul suo comodino. Tiro fuori dalla libreria titoli quali Donne che sussurrano agli

abeti e Gli uomini vengono da Marte. Ma quando ci tornano? e li butto furioso sul pavimento. Dico che conosco attricette minorenni semianalfabete che in società riescono a sostenere conversazioni di qualità migliore rispetto alla sua di stasera e poi le

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chiedo perché sia così ossessionata dalla povera Valeria. “Perché te la portavi a letto.” Mi siedo e mi prendo la testa tra le mani, senza dire niente. Elena mi parla dello scontrino del bar, di come mi ha visto cambiare negli ultimi tempi, dei miei gemiti nel sonno. Di quando l’altro giorno mi ha chiamato e le ho spento il telefono. E di tutto quello che si dice di Valeria e dei provini a casa sua. Mi chiede seria dov’ero quel giorno e, senza darmi il tempo di ribattere comincia a piangere e dice che si sente vecchia, che le sue tette si stanno sgonfiando (me le fa vedere, a me non sembra) e non ha nemmeno ancora fatto un bambino (ecco che si ritorna sempre là), che io ho smesso da tempo di parlare del nostro futuro, tutto preso come sono con la storia che voglio fare l’attore. “Voglio fare l’attore da quando ho diciotto anni,” dico calmo. Lei fa cenno di sì con la testa, poi mi guarda, con il volto rigato di rimmel e uno sguardo dolente: “Non ci sei riuscito. E ora?” Tutto ad un tratto sono annichilito. Annaspo, mi sembra persino di vedere tutto un po’ sfocato. Vorrei chiederle qual è stato il momento preciso in cui ha smesso di credere in me, ma non mi esce una sola parola. Così Elena continua a parlare, dice che non riesce a sopportare l’idea di me e Valeria, e quando ha baciato il supplente di Diritto ha capito che non serviva a niente, non sarebbe riuscita comunque a perdonarmi. Non posso avere capito bene. “Solo un bacio. Alla cena di fine anno.” Non il proprietario di Smart! Mi metto ad urlare. Non ci posso credere: per tutto il liceo ho avuto fidanzate che mi lasciavano dopo che avevano baciato qualcun altro alla cena di fine anno!

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Alla mia età pensavo di poter essere immune da certe sorprese. Me ne vado sbattendo la porta.

Passo una notte agitata. Sogno di essere in un vecchio teatro e di camminare sulle assi marce del palcoscenico che scricchiolano e io so che stanno per rompersi. Poi mamma mi sveglia. È ora di colazione. Lei e papà mi stanno aspettando a tavola. Hanno una faccia seria e noto che mamma ha apparecchiato con il servizio buono, che usa solo per gli ospiti o quando pensa di avere qualcosa da farsi perdonare. “Dobbiamo parlarti di una cosa importante, Bruno,” annuncia papà. Sono imbarazzati e non riescono a guardarmi negli occhi. “Ora mi dicono che sono stato adottato,” penso. Li rassicuro e dico che per me loro resteranno i miei genitori, qualsiasi cosa accada. “È proprio questo il punto,” dice mamma, che trova coraggio per prima. Spiega che loro due sono anziani ormai e, ora che nonna non c’è più, quella casa sembra davvero troppo grande. (...) Potranno finalmente tornare in Abruzzo e ristrutturare la vecchia casetta dei nonni. (...) “E io?” “Tu hai quasi quarant’anni. È il momento che ti sposi o che inizi a cercarti un lavoro vero.” Quando i carabinieri mi chiamano sto ancora finendo il caffellatte. Cerco di sorridere ai miei per non farli preoccupare e faccio finta che al telefono sia un agente. Sono convocato in caserma per le cinque del pomeriggio.

Visto che questo potrebbe essere il mio ultimo giorno di libertà,

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decido di fare due passi. Ben presto mi ritrovo sotto casa di Valeria. Sta piovendo a dirotto, il traffico è impazzito e un via vai di automobili, taxi e gente con l’ombrello passa su quell’asfalto proprio nel punto in cui ho visto Valeria per l’ultima volta. Non c’è più traccia di quello che è successo. Resto lì per un bel po’ a guardare le finestre al sesto piano e mi sfugge un urlo quando Gianni mi sfiora il braccio. “Andiamo a bere qualcosa?” mi chiede. Senza che nessuno dei due lo proponga, torniamo nel bar dove eravamo stati quel giorno e ci sediamo al tavolino poco illuminato. Tanto Gianni è un amico e so che non mi prenderà in giro. Gli racconto di Elena, di come le cose sembrino mettersi peggio ogni giorno, del collega giovane e di quella sua assurda ossessione per Valeria, dell’interrogatorio dei carabinieri, del fatto che tra poco non avrò più una casa. Allora Gianni mi interrompe e mi guarda fisso. “È venuto il momento di raccontare la verità su Valeria.” In un solo sorso do fondo al mio bicchiere di Coca Cola (...) “Ti ho visto, mentre uscivi dal portone.” Trattengo un urlo di terrore. Poi Gianni comincia a parlare, veloce e a voce bassa, guardando in fondo al suo bicchiere di Martini. C’era lui a casa di Valeria, quel giorno. Si vedevano da quasi dieci anni, ormai. (...) Ma ora che Gianni e Candida stavano per avere un figlio, era arrivato il momento di smettere. Quando glielo aveva detto, Valeria si era ferita il palmo della mano con le unghie. Aveva pianto in silenzio e, soffocando l’ultimo singhiozzo, gli aveva preparato un drink e dato un bacio lieve. Poi,

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con un sorriso e la consueta calma, lo aveva guardato come quando facevano l’amore e si era lasciata cadere indietro, contro la vetrata. Non avevo mai visto Gianni piangere. L’aveva davvero amata, mi confessa. Lei non ne voleva sapere di vivere con un uomo. Però continuava a cercarlo e lo aiutava con i provini, quando poteva. Insomma, se Gianni passava le selezioni era quasi sempre perché la fascinosa ed influente Valeria faceva un paio di telefonate. Ogni volta Gianni si sentiva allo stesso tempo umiliato e grato e per anni aveva esplorato con Valeria ogni sfumatura dei confini indefiniti tra sesso, riconoscenza e amore. (...) E io che credevo che per lui recitare fosse una specie di hobby. Del resto lui ce l’aveva un lavoro vero. “E quello lo chiami lavoro? Porte sbattute in faccia, amici che smettono di telefonarti perché pensano che ciò che vuoi da loro sia solo la sottoscrizione dell’ultima novità in materia di fondi di investimento. E il peggio è che spesso hanno ragione. (...)” Macché. Gianni desiderava fare l’attore da quando aveva sei anni. Il rumore secco del ciak gli regalava ogni volta un brivido di piacere. Solo con il calore dei riflettori sulla faccia, a recitare slogan pubblicitari, si sentiva vivo. Gli metto una mano sulla spalla. Ora dovrà affrontare Candida. E la polizia. Ci saranno gli interrogatori, i fotografi, i giornali. “Per fortuna sono fotogenico,” sospira mentre mi stringe la mano e va a pagare il suo aperitivo, la mia Coca e le tre ciambelle alla crema. Pensare che per un attimo mi ero sentito quasi protagonista di questa storia. Invece no, non c’entravo nulla. Probabilmente Valeria non ricordava nemmeno il mio nome. Mi avrebbe liquidato con un paio di frasi eleganti e distratte mentre il suo amante

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l’aspettava in camera da letto. E il mio migliore amico mi aveva rubato la scena, anche questa volta.

Mi sento frastornato, amareggiato e stanco quando esco dal bar, ma so bene dove andare. Al provveditorato c’è una fila lunghissima. Ci sono certe facce. Molti, a vederli, c’è da scommettere che si siano messi in coda la sera prima. (...) Prendo in fretta il mio posto in fila e chiamo Elena. Le dico dove mi trovo, e poi che la amo, che voglio fare subito un bambino con lei e che, più importante di tutto, io e Valeria non ci siamo mai incontrati. Le basterà tenere d’occhio il telegiornale per capire. Elena piange, io le dico che ci vediamo a casa e le mando un bacio. Metto giù e sorrido alla ragazza che è in fila davanti a me. Le spiego che io e la mia fidanzata abbiamo avuto momenti difficili ultimamente, ma ora tutto si è sistemato. Quando suona il cellulare penso sia Elena che richiama (in effetti non guasterebbe qualche chiarimento in più circa il ragazzo della Smart), così rispondo senza neanche guardare chi è. È per la pubblicità della fonduta in scatola. Sono convocato tra un’ora e mezzo. Domattina si parte con le riprese. Dico di sì per una specie di automatismo. Riattacco e resto in silenzio, immobile. La ragazza mi guarda interrogativa, così le spiego che tanto non mi interessa più, ho deciso di chiudere con quel mestiere. E poi sarebbe un peccato rinunciare proprio ora a questa buona posizione nella fila. Tra l’altro, il provino l’ho fatto due anni fa e in questo periodo ho messo su quasi sette chili. Passa qualche minuto.

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Qui dentro fa sempre più caldo ed ho una specie di fastidio alla schiena. Guardo in giù, verso la mia pancia, provo a tirarla in dentro e chiedo alla ragazza: “Quanti chili mi dai così?” Lei dice non più di ottantacinque. Le do un bacio sulla guancia e le auguro buona fortuna per la supplenza. Ripercorro in fretta tutta la fila all’incontrario e solo quando esco fuori mi sembra di respirare davvero. Ha appena smesso di piovere e so che da qualche parte dietro ai palazzi deve essere uscito l’arcobaleno. Guardo l’ora: sono ancora in tempo. Comincio a correre.

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DISCUSSIONE EDITORIALE Dall’esame di questo materiale, dunque, e tenendo ben presente la nota di intenti di Maria Daniela Raineri, prende il via quello che per noi della redazione è il primo step di un processo editoriale codificato e che in questa fase si presenta come una discussione piuttosto libera sul testo. Prima di mettere al bando le ciance, tuttavia, permettetemi, senza presentare nessuno, almeno di elencare i partecipanti alla riunione di discussione: Alberto, Andrea, Anna, Armando, Biagio, Giulia, Helen, Laura, Silvia. E per la prima volta in redazione di Plot - storie per lo schermo... Alessandro. Per ultimo io, Stefano, coordinatore editoriale della rivista, in procinto di passare la parola ai miei baldi editor... Stefano: Allora - finalmente si comincia - qualcuno ha scritto una breve sinossi della storia? Armando: Bruno, 38 anni, aspirante attore, si barcamena tra provini di spot pubblicitari finché non viene a sapere che l’affascinante e controversa regista Valeria Rocchini Giacomelli è in cerca di attori per uno spettacolo. Arrivato a casa di Valeria per il provino, vede la donna precipitare misteriosamente dalla finestra. Bruno tiene l’accaduto nascosto a tutti, sia alla fidanzata Elena che al brillante amico Gianni, ma la morte della donna e uno strano senso di colpa lo tormentano, fino a quando la verità non viene inaspettatamente a galla. Silvia: Però così non dici come finisce la storia! E poi lui non la vede precipitare dalla finestra... Io la riassumerei in un modo un po’ diverso. Bruno, 38 anni, aspirante attore, cronicamente disoccupato, semiconvivente con la decennale fidanzata Elena, laureata con lode, insegnante di ruolo e aspirante moglie-mamma, viene a sapere che la celeberrima Valeria Rocchini Giacomelli sta cercando attori e ottiene clamorosamente un provino a casa della regista. La regista precipita misteriosamente dalla finestra giusto un attimo prima dell’incontro con Bruno. Braccato dagli erronei sospetti della fidanzata (tradimento con la Rocchini Giacomelli) e dei carabinieri (omicidio della stessa), Bruno riceve invece l’ammissione di concorso di colpa da parte di Gianni, suo collega storico di provini, amante della regista ed eterno protagonista. Dipanati così tutti gli equivoci, Bruno può tornare a gettarsi nella mischia dei pretendenti all’ennesimo, tanto agognato, ma nemmeno troppo edificante, ruolo pubblicitario. Stefano: Sì, in effetti la sinossi così è più completa e tenere ben presente il finale, oltretutto, ci aiuta a non dimenticare dove “tende” la storia. Helen: Tenendo buona la sintesi di Silvia, emergono in modo chiaro alcuni degli elementi costituzionalmente necessari: set-up (Bruno attore disoccupato, sempre a caccia di una parte), catalyst (Bruno viene a sapere del provino), primo turning point (Bruno ottiene un appuntamento con la Rocchini Giacomelli), punto centrale (la regista precipita misteriosamente dalla finestra), e climax (che decreta l’estraneità di Bruno ai fatti). Sembrano ben definiti, perciò, a questo punto, direi che dovrebbe essere ben chiara anche la domanda centrale... Laura: ... ovvero, riuscirà Bruno, attore spiantato e ormai attempato, a ottenere una parte? È questa la domanda centrale: ce la poniamo a partire dal catalyst e dovrebbe riproporsi durante tutto il corso della storia, via via che nuovi ostacoli si aggiungono, e avvicinano o allontanano il protagonista dal suo obiettivo, ossia diventare un attore. Biagio: Formulata così, la domanda centrale mi fa pensare a Tootsie. Non sarà la stessa storia? Andrea: È vero! Ci sono delle analogie, in particolare nella premessa. In Tootsie, Michael è un attore che non riesce a trovare un lavoro e viene rifiutato a ogni audizione. Bruno è messo ancora peggio, non riesce nemmeno a superare la barriera delle segretarie e a prendere contatto direttamente con l’agente che, peraltro, pure lui è uno sfigato. Alessandro: Premessa o set-up a parte, è lo story concept delle due storie a essere completamente diverso.

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È sufficiente interrogarsi a partire dal what if principale de Il provino, per rendersene conto. L’interrogativo da cui prende avvio la storia di Maria Daniela infatti è: “Cos’accadrebbe se un aspirante attore quarantenne, spiantato nel lavoro e traballante in amore, ottenesse un provino a casa di una famosissima e sensuale regista dalla torbida fama e lei morisse misteriosamente prima di averlo ricevuto?” Giulia: Ma non solo... Questo what if di partenza innesca, come in una reazione a catena, tutta una serie di domande tipo: “E se lui la udisse cadere dalla finestra di casa? E se lui in segreto la desiderasse? E se la fidanzata di lui ne fosse consapevole e gelosa? E se lei avesse una piccola storia con un altro? Lui verrebbe a saperlo? Come? Glielo direbbe lei? E lui come reagirebbe?” È evidente come, attraverso la risposta a queste domande, si sviluppi un testo assolutamente originale e particolare. Biagio: È vero che si tratta di una storia originale. Paragonarla a Tootsie, chiedendomi se sia, in fondo, la stessa storia, conteneva una provocazione non in negativo, ma bensì in positivo. Perché Il provino è sì una storia particolare, ma contiene anche un’esperienza universale. È il racconto di una ricerca esteriore (trovare un lavoro) e interiore (trovare una dimensione esistenziale) che tutti, prima o poi, si trovano a compiere. Pertanto ne Il provino è sotteso, a livello di struttura profonda, un modello universale, un mito che la fa assomigliare ad altre storie, ovviamente in positivo, perché è proprio questo a essere coinvolgente per lo spettatore. Alberto: A proposito del modo in cui Maria Daniela costruisce il rapporto con il pubblico, per ora di lettori, e poi - mi auguro - di spettatori, devo dire che trovo particolarmente azzeccato, rispetto al tema, il fatto che l’autrice abbia scelto un approccio descrittivo e non prescrittivo. Insomma “non le cose come vorremmo che fossero”, ma “proprio come sono”. Il modo in cui si comporta Bruno, che non è un eroe, con le sue incertezze, i suoi sensi di colpa, è molto realistico e trova eco nella mia esperienza, come credo in quella di molti altri. Alessandro: Infatti, personalmente sono molto grato all’autrice non solo di aver scandagliato un tema che - scusatemi la definizione - potrebbe essere: “la fenomenologia dell’essere umano ultratrentenne contemporaneo”, classe a cui sono ascritto, ma anche per il modo in cui l’ha fatto. Accurato, mai banale, e soprattutto creativo. Nei ritratti dei personaggi, a partire da Bruno, credo che buona parte degli attuali trenta-quarantenni non faticherà a riconoscere le proprie ossessioni, problematiche e lacerazioni più intime, riflettendo, ma anche ridendoci sopra. Stefano: Indubbiamente i personaggi sono credibili, interessanti perché coerenti con le loro back stories. Bruno, poi, è molto ricco di sfumature... Helen: È il tipico “born loser”, cosa che mi fa pensare che il suo antagonista Gianni potrebbe essere il suo esatto contrario. Un “dead winner”? Stefano: Il fatto è che Gianni è sì l’antagonista di Bruno, ma anche una delle sue possibili varianti. Prima dicevo che il personaggio di Bruno è molto ricco. E a mio avviso, nel testo, questo accade proprio grazie al rapporto viscerale che Maria Daniela crea tra i due. È vero che ogni buon sistema di personaggi è sempre costruito in base a quella che si chiama “teoria degli spot”, ovvero ogni personaggio getta una luce sull’altro per illuminarne qualche aspetto. Ma qui c’è qualcosa di più. Tra Bruno e Gianni esiste addirittura un rispecchiamento. E se avete la pazienza di ascoltare l’idea che mi sono fatto di Bruno, cerco di chiarire meglio. Biagio: Vai Stefano! Che tipo di eroe è Bruno? Stefano: Bruno è un personaggio all’Amleto e ha il carattere dell’“irrisolto”, colui che si sentirà sempre in colpa per la sua incapacità di agire: non ha lavoro, non ha figli, è afflitto da un fatal flaw quasi generazionale. Questa figura archetipica vive sempre nella condizione di essere un protagonista mancato. Il personaggio che gli fa solitamente da contraltare è quello dell’“usurpatore” (nel nostro caso, Gianni), colui che con l’azione ha preso il posto spettante ad “Amleto”. Ne Il provino, che è una commedia e non una tragedia, l’“usurpazione” definitiva del ruolo si manifesta nella confessione di Gianni ed è una trovata che salva il

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protagonista, forse anche perché l’“usurpatore” (Gianni) vive il destino a cui sarebbe andato incontro l’“irrisolto” (Bruno), se solo questi avesse avuto un po’ più di lena. In questo senso ritengo che Gianni sia una variante di Bruno. Ed è solo l’irrisolutezza il tratto che lo mette al riparo da un pericolo, in una sorta di destino “scampato”. Pertanto Bruno sembra essere l’“irrisolto” più innocuo e innocente della terra, e questa è la sua conquista, il suo premio. In altri termini, per uno scherzo del destino, è come se un fulmine gli fosse passato accanto e avesse colpito un altro (si noti il tema della sostituzione della persona, e a questo proposito si vedano nel testo i termini “rappresentare” e “sostitutivo del pasto”), e “l’altro” è come se fosse morto in quella condizione che si pensava gravasse sul protagonista, per quell’ansia di essere un protagonista anche se per sbaglio. Quindi direi che un “dead winner” c’è, ma si incarna in Gianni in virtù di quel complesso meccanismo che fa di Gianni più un antagonista interiore che esterno. Armando: Non è che sia riuscito a seguire del tutto questa tua teoria di antagonismi, protagonismi e inversioni attraverso il rispecchiamento, però quello che dici si avvicina di più al modo in cui io, restringendolo, individuerei il tema. E cioè: “il dramma comico di chi insegue un sogno e si ritrova sempre ad arrivare secondo”. In fondo è questo ciò che accade. Bruno è il protagonista della storia di Maria Daniela ma, nella storia, l’unico protagonista resta Gianni. Laura: L’epilogo che segue la risoluzione mi piace molto. Sottolinea, riallacciandomi al discorso di Stefano, quanto per grazia o innocenza ricevuta dal suo destino di scampato, Bruno possa ritornare, con una consapevole leggerezza, a fare e rifare (forse in eterno) la coda per diventare non insegnante, ma attore. Ovvero mi piace che il protagonista della storia confermi, alla fine di tutto, di credere nei sogni e nella sua passione piuttosto che nella “cosa giusta da fare”. Però mi sembra che - come ha appena detto Armando - poiché l’unico protagonista nella storia resta Gianni (è lui che ha la “stardomship” ed è fotogenico), manchi una chiusa su di lui che potrebbe rendere tutto ancora un po’ più amaro: apparso su tutti i telegiornali a causa del suo personale coinvolgimento nel suicidio della nota regista, a Gianni finiscono col fioccare proposte di ruoli da ovunque, perfino dal cinema... Stefano: Bene! Facciamo il punto. Abbiamo un soggetto ben delineato, anzi qualcosa di più. È anche raccontato in modo coinvolgente. Lo story concept è ricco, il sistema dei personaggi articolato, il tema è interessante, il finale si presta a rispecchiarlo. Abbiamo anche un genere che potenzialmente vende. Che cosa non ci convince, o potrebbe avere un corso diverso? Credo che la Raineri sia un’autrice “robusta” e che la si possa provocare, senza il rischio di distoglierla dal discorso che porta avanti. Perciò avanti con dubbi, critiche, suggerimenti, impressioni... Alberto: Il trattamento, così com’è scritto, ovvero in forma letteraria, è poco cinematografico. Io ho contato solo 26 scene; al contrario tutta la storia è caratterizzata dalla presenza abbondante di riflessioni interiori da parte del protagonista che o prevedono l’uso di una voce narrante esorbitante, o vanno drammatizzate in azione. Giulia: Sono totalmente d’accordo. Poiché ne Il provino molte delle battute migliori (ad esempio: “... visto che la scritta sulla confezione dice sostitutivo di pasto, significa che alle dieci e un quarto di mattina ho già fatto pranzo e cena...”; “... Io e Elena ci siamo conosciuti il giorno della nostra laurea in lettere. Lei con lode e dignità di stampa, io con cinque anni fuori corso...”; e ancora: “... Elena detesta cordialmente Candida. Ama definirla Ragazza-col-nome-di-fungo...”) si trovano all’interno dei pensieri di Bruno, non posso fare a meno di domandarmi come l’autrice abbia intenzione di metterle in scena. Forse pensa di farlo attraverso la voce over di Bruno, a commento del film, ma in questo caso, per com’è ora il trattamento, si tratterebbe di un film letto. Invece io penso che una buona commedia, oltre che di battute spassose e brillanti, abbia bisogno di azione. Alessandro: L’inizio del trattamento, ad esempio, è tutto ambientato tra la mente del protagonista e una telefonata. Cosa che presuppone un racconto, pura diégesis. Io invece sento la necessità che si traduca in mímesis. Perciò mi immagino un incipit come questo: Bruno, imbolsito quarantenne testardamente acconciato da supergiovane, viene scartato dalla segretaria

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della segretaria dell’assistente del responsabile del casting al provino per uno spot su giovani universitari che mangiano merendine super cioccolatose e ripartono con slancio... Bruno sta in piedi di fronte a una scrivania di formica; dietro di lui una marmaglia di veri giovani e davanti, seduta e munita di chewing gum, una tiratissima diciottenne che lo squadra e legge con sdegno i suoi scandalosi dati anagrafici, scandendo bene: “Trentotto anni... Disoccupato...” Alcune risate dalla fila dei belloni e la ragazzina che gli appioppa un eloquente: “Le faremo sapere, avanti il prossimo...” Ovviamente, non faccio quest’esempio nella convinzione che si tratti di chissà quale grande inizio, ma piuttosto per suggerire una forma più drammatica, che consenta di manifestare l’informazione narrativa, anziché attraverso il racconto, mediante l’azione. Helen: Il principio è giusto. Però non dimentichiamo che la direzione del lavoro che dobbiamo indicare a Maria Daniela deve farla innanzitutto riflettere su come dosare gli ingredienti, in questo caso mímesis e diégesis, senza escluderne nessuno. Laura: Il cinema, infatti, è considerato un tipo misto di narrazione. Ciò significa che può contenere degli elementi diegetici, come avviene quando si fa uso della voce narrante, senza cessare di essere fondamentalmente mimetico. Come dice Helen, il problema sono le dosi, da calibrare a seconda della natura della storia. Helen: Dicevo questo perché che Il provino sia una commedia si evince proprio grazie al modo in cui Maria Daniela ci ha presentato il materiale: meno trattamento più racconto. Trovo che la narrazione in prima persona ci dia già una prima indicazione del tono, del ritmo che lei vuole installare: un tono ironico prima di tutto. Però c’è anche un’altra considerazione che mi viene da fare a proposito della voce narrante. Ci sono generi in cui la voce narrante è più dominante che in altri. Per esempio nel noir, quando c’è una confessione e la storia viene raccontata in flashback. Magari l’autrice aveva intenzione di suggerire questa direzione. In fondo ne Il provino c’è una forte componente noir, con una femme fatale che, come nei casi più classici, viene presentata con una tecnica di esposizione ritardata; poi muore e sulla sua morte c’è mistero. Questo fa virare la storia quantomeno verso la parodia del noir: invece di “cherchez la femme”, “cherchez la fama”! Anna: Sul fatto che Il provino sia soprattutto una commedia non si discute, in quanto è chiaro che mette in scena i limiti umani prendendosene gioco. Bruno è “peggiore di noi”, cioè è uno simile a noi, come diceva prima Alberto, ma raccontato nei suoi lati peggiori, perciò, secondo la più classica delle bipartizioni, quella della poetica aristotelica, Il provino è una commedia. Inoltre - e questo secondo Forlai e Bruni - la commedia non nasce come gli altri generi da uno degli Eroi Archetipali, ma dalla relazione tra questi. Il Trickster come ombra del Re, l’Innocente come ombra del Mago. L’Arlecchino della commedia dell’arte (di cui Bruno ha perfino l’atavica fame) è per definizione una parodia del comportamento dei suoi padroni. Perciò che Il provino contenga anche una parodia, addirittura la parodia di un altro genere, è cosa in sintonia con le prerogative della commedia. Fatte queste considerazioni, quello che suggerirei all’autrice è di servirsi di più dell’ironia drammatica. E questo perché, proprio nella commedia, l’ironia drammatica è fondamentale in quanto crea nello spettatore quel distacco che lo spinge a pensare piuttosto che a sentire, come invece accade nella tragedia. Al momento, invece, Il provino, a parte l’attrazione per Valeria che Bruno cerca di tenere nascosta a Elena, ne contiene davvero poca. Andrea: Non so se sono l’unico a discordare, ma questa attraente parodia di noir, anziché “cherchez la femme”, “cherchez la fama”, io non riesco a vederla così chiaramente dentro il testo. La femme fatale muore subito e non spinge il protagonista sul fondo... Stefano: Sì che lo fa. Attiva nel protagonista una grande angoscia e gli fa credere di essere vittima dei sospetti dei carabinieri, addirittura gli fa pensare che quello che sta vivendo possa essere il suo ultimo giorno di libertà. Se non è questo essere sul fondo! Silvia: Ma si tratta pur sempre di una sua paranoia. Nella realtà, Bruno viene solo convocato dai carabinieri. Che il maresciallo gli dica “arrivederci” e che dopo circa una settimana venga riconvocato, non mi

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sembrano grossi guai. Senza contare che a quel punto interviene la confessione di Gianni che, cadendo repentinamente dal cielo, lo salva. Non vi sembra una soluzione troppo sbrigativa? Non avete la sensazione che manchino delle cose? Helen: Cerchiamo di analizzare la struttura, vediamo ciò che abbiamo e quello che ci manca davvero... Armando: Ci provo applicando Vogler. Ci sono tre nodi drammatici fondamentali: Bruno viene a conoscenza che Valeria sta cercando attori. - Questo momento rappresenta la “chiamata” a cui il protagonista (l’“eroe”) non può, e in questo caso non vuole, fare a meno di rispondere, dando così avvio alla vicenda. Morte di Valeria. - È il punto cruciale da cui il dramma di Bruno ha inizio. Volendo proseguire nella lettura vogleriana e vedere Bruno come un “eroe” anomalo, la morte di Valeria rappresenta la “prova suprema”, cioè l’ingresso dell’eroe nel mondo a lui sconosciuto dove avrà luogo la sua avventura. È chiaro che il mondo sconosciuto di Bruno sarà tutto psicologico, costituito da quei sensi di colpa che da questo momento in poi cominceranno a tormentarlo nonostante la sua innocenza. La rivelazione finale di Gianni. - Lo svelamento del mistero e la risoluzione dei sensi di colpa di Bruno. Biagio: E tra la morte di Valeria e la rivelazione di Gianni, che cosa accade? Armando: Direi che, purtroppo, tra l’avvio del mistero e il suo svelamento non ci sono eventi cruciali, non ci sono svolte. Insomma, la morte di Valeria innesca potenzialmente un grandissimo mistero... Ma lo scioglimento di questo mistero è vago. Dal momento in cui Valeria muore, il lettore-spettatore non può fare a meno di chiedersi che cosa sia accaduto, chi abbia ucciso Valeria e perché, senza però trovare nel testo un iter di domande-risposte che lo conducano, secondo uno stretto principio logico-causale, alla soluzione finale. Ossia alla confessione di Gianni che, come dice Silvia, peraltro è piuttosto peregrina. Andrea: Scusatemi, di nuovo non sono d’accordo. Se riprendiamo nel testo l’istante immediatamente precedente la morte di Valeria, vediamo che l’autrice scrive: “Non è sola, sta parlando con qualcuno. Mi pare di sentire anche qualcosa come un singhiozzo, poi una voce maschile che la chiama per nome. E poi quel rumore, spaventoso ed enorme, di vetri infranti.” Dalla meccanica dell’azione, anche se avviene fuori campo, si capisce subito che è un suicidio. Dunque, dov’è il mistero? Alberto: Fin qui hai ragione, Andrea. Osservando bene il testo in questo punto preciso, si intuisce che si tratta di un suicidio - e dunque, forse bisognerebbe rimetterci mano - ma più avanti la morte di Valeria è sempre trattata come un omicidio. Infatti, riferendosi all’episodio, Bruno dice: “essere stati quasi testimoni di un omicidio”, ed Elena sostiene che “non scopriranno mai chi l’ha uccisa”. Anche la presenza dei carabinieri che indagano introduce un mistero che colora di giallo la commedia. E se in una storia c’è un mistero, prima o poi dovrà essere svelato! Diciamo solo che ne Il provino apprendere dalla confessione di Gianni che Valeria si è uccisa, senza che per tutto il film ci sia una vera e propria detection organizzata, nonostante tutti ritengano si tratti di un omicidio, appare un’occasione persa. Laura: Credo che Alberto, parlando di detection, abbia toccato un punto nodale. Quando Armando invece dice che, tra la morte di Valeria e la rivelazione finale di Gianni, non ci sono svolte non ha del tutto ragione. Se proviamo ad analizzare il racconto di Maria Daniela applicando, pedissequamente il paradigma di Field vediamo che su 22 pagine, circa 7 (anziché 5) sono dedicate al primo atto, circa 7 (anziché 10) al secondo e 8 (anziché 5) al terzo. Senza prendere, almeno per il momento, in considerazione questa discrepanza, dato che intendevo soprattutto contestualizzare gli elementi della meccanica narrativa e posizionarli in una struttura, possiamo dire che alla terza pagina del racconto, troviamo il catalyst (Bruno che viene a sapere del provino), alla settima pagina il primo turning point (Bruno che ottiene il provino), alla nona pagina il punto centrale (la morte di Valeria), alla ventesima il climax (la confessione di Gianni). Alla quattordicesima pagina, però, c’è il secondo turning point (Bruno convocato dai carabinieri) e alla diciannovesima un’altra svolta (Bruno, riconvocato per il pomeriggio, teme per la sua libertà). Perciò direi che non è strettamente vero che tra il mistero e la sua soluzione non ci sono svolte. Solo che queste svolte, piuttosto che essere l’esito naturale di ciò che accade in termini di azione, sono legate, come prima diceva del tutto giustamente Armando, al mondo tutto interiore dei suoi pensieri e dei suoi sensi di

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colpa. Così, l’avventura di Bruno nel “paese dei misteri” (continuando a rifarmi a Vogler) resta tutta psicologica, tutta determinata dalla sua ingiustificata paranoia. E noi come lettori-spettatori che, grazie alla prima persona, assumiamo il suo punto di vista, non riusciamo a temere veramente per lui, sapendolo completamente innocente. E non riusciamo a considerare le ultime due svolte individuate, sebbene imprimano alla storia una direzione diversa, come momenti forti. Mi sembra che uno dei problemi più grandi de Il provino stia qui. E la soluzione potrebbe essere proprio nella detection. I carabinieri indagano, interrogano Bruno, Bruno mente su qualche elemento importante e riscontrabile, sa che i carabinieri (che gli dicono “arrivederci”) prima o poi lo scopriranno, è solo questione di tempo: allora lui per primo deve farsi detective, deve capire cos’è accaduto, prima che una prova schiacciante, sebbene indiziaria, gravi su di lui e smetta di farlo essere un uomo libero. Ecco così che il “paese dei misteri” si trasforma da mondo psicologico in luogo materiale dove il protagonista deve superare grossi ostacoli, agire e reagire, entrare in conflitto con un antagonista reale. Anna: Ma come conciliamo la natura di passivo di Bruno, individuata bene prima da Stefano, con l’ipotesi che si faccia detective? Stefano: È vero che Bruno è un personaggio all’Amleto, dunque tendenzialmente incapace di agire, ma è anche vero che proprio Amleto è considerato l’archetipo della detection story perché, come tutti sapete, nella tragedia si finge pazzo per spingere il vero colpevole a smascherarsi... Andrea: Allora, non che prima mi aveste convinto, ma come la mettiamo con l’anima noir de Il provino? Anna: Questo non è un problema. La detection è un macrogenere in cui, con le sue specificità e variazioni, è inscritto anche il noir. Perché ci sia detection è sufficiente che il protagonista “ricerchi” e qui l’oggetto della ricerca è pur sempre la morte di una donna che era una femme fatale. Poi non dimentichiamoci che dovremmo restare dentro la parodia di un noir... Armando: ... quindi con un protagonista come Bruno che, pur improvvisandosi detective, certamente non si comporterà come un detective aristotelico. Perciò la sua indagine potrebbe anche essere molto mentale, e le conclusioni tratte perfino false, salvo che poi producano una prova, diano un esito che veramente motivi la confessione di Gianni, rendendola finalmente necessaria. Silvia: Bene! L’eventuale presenza di un antagonista, di guai, e una confessione resa plausibile dagli accadimenti, mi pare siano già delle buone indicazioni perché la trama si sviluppi da sola anche nella seconda parte della storia, quella che va dalla morte di Valeria fino all’epilogo. Stefano: Che ne dite, possiamo chiudere qui? Giulia: E dei personaggi secondari, tipo la nonnina che si fa custode delle confessioni del nipote, ma chissà poi se queste confessioni le sente davvero, non ne parliamo? Alessandro: Ah la nonnina mentore! Ci sarebbero parecchie cose da dire... Anna: Io, invece, volevo proporre una riflessione sul meccanismo dello scarto nella commedia! Sebbene, anche fare un’analisi della linea dell’intreccio amoroso sarebbe molto interessante... Stefano: Calma, calma. Avete ragione, ci sarebbero ancora parecchie cose da dire, ma ho la sensazione che siamo già riusciti a raccogliere una quantità consistente di riflessioni e di spunti da proporre a Maria Daniela. Credo che gli elementi nodali, i più importanti per orientare una prima riscrittura siano stati isolati. Anzi, provo a riassumere quelli su cui - mi pare - siamo tutti d’accordo e che dunque proponiamo a Maria Daniela come guida: > sensazione che l’ironia drammatica possa essere intensificata; > necessità di riequilibrare il rapporto tra narrazione e azione, tenendo però presente che in una commedia a forte componente noir, il flashback è modalità di racconto gradita; > urgenza di definire meglio la sequenza di eventi che vanno dalla morte di Valeria fino alla rivelazione di

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Gianni, creando un’escalation di veri ostacoli per il protagonista che lo conduca, attraverso un meccanismo di action-reaction, verso la risoluzione. Ho dimenticato qualcosa? Helen: Sì. Riprendendo il desiderio espresso da Daniela nella sua nota d’intenti, mi auguro a questo punto che salti fuori un co-sceneggiatore che sia in grado di proporre un sub plot adeguato a dare profondità alla narrazione e magari anche a stabilire quelle ironie drammatiche di cui abbiamo rilevato la necessità. Ovviamente tutto in funzione della domanda centrale che, con lo sviluppo della storia, potrà modificarsi. Su questo ci troviamo tutti assolutamente d’accordo. Ma è solo un breve attimo di pace. Perché subito riprende inesorabile la discussione sulla nonnina di Bruno, che un po’ sembra la vecchietta di Mars Attacks! di Tim Burton la quale, però, alla fine di tutto salva il mondo ascoltando il suo LP... Perciò, a me non resta, ovviamente dopo aver affidato a un editor della redazione la scheda de Il provino, che ringraziare e salutare dalle pagine della rivista innanzitutto Maria Daniela - che arditamente (e forse incautamente!) ci ha consentito di metterci alla prova pubblicamente in una discussione sul suo lavoro, e poi voi, gentili lettori, che spero ci abbiate pazientemente seguiti. Stefano

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Affabula Readings Nome del progetto: Il provino Autore/i: Maria Daniela Raineri Ricevuto: novembre 2005 Supporto: elettronico Produttore: nessuno Titolo dell’opera1 : Il provino Tipologia: lungometraggio Genere: commedia-noir Target: per tutti Ambientazione: città di Roma Epoca: contemporanea Versione: prima Redattore/i della scheda: Armando Vertorano e Alessandro Messedaglia Tema Fenomenologia dell’essere umano ultratrentenne contemporaneo. Le angosce di chi insegue un sogno e si ritrova ad arrivare sempre secondo. Sottotemi (1) sogno d’attore contro realtà e quotidiana normalità (a quasi quarant’anni si può essere “maturi” e inseguire i propri sogni?) (2) arte contro lavoro (2.1) Inevitabile divergenza: sincerità, ingenuità, fedeltà, amicizia, amore... oppure (2.2) Possibili congiunzioni: falsità, opportunismo, infedeltà, menzogna... La storia in tre frasi Bruno, 38 anni, aspirante attore, cronicamente disoccupato, semiconvivente con la decennale fidanzata Elena, laureata con lode, insegnante di ruolo e aspirante moglie-mamma, viene a sapere che la celeberrima Valeria Rocchini Giacomelli sta cercando attori e ottiene clamorosamente un provino a casa della regista. La regista precipita misteriosamente dalla finestra giusto un attimo prima dell’incontro con Bruno. Braccato dagli erronei sospetti della fidanzata (tradimento con la Rocchini Giacomelli) e dei carabinieri (omicidio della stessa), Bruno riceve invece l’ammissione di concorso di colpa da parte di Gianni, suo collega storico di provini, amante della regista ed eterno protagonista. Dipanati così tutti gli equivoci, Bruno può tornare a rituffarsi nella mischia dei pretendenti all’ennesimo, tanto agognato, ma nemmeno troppo edificante, ruolo pubblicitario. 1

Il titolo dell’opera può cambiare nel corso dello sviluppo, mentre il nome del progetto non muta ed è quello con cui viene archiviato nel database di Affabula.

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In sintesi Concetto, tema: eccellente Soggetto: soddisfacente Trama, struttura: mediocre Personaggi: soddisfacente Dialoghi: eccellente Ritmo: soddisfacente Stile: soddisfacente Inizio: mediocre Compimento della storia: mediocre

Punti deboli Chi narra, chi vede, chi parla: una scelta stilistica che invita all’errore. Il testo in esame è narrato in prima persona da un narratore intradiegetico-omodiegetico (la voce narrante, al tempo presente, appartiene al protagonista stesso della vicenda) attraverso una focalizzazione interna-fissa (la prospettiva cognitiva si staglia esclusivamente di fronte al protagonista). In più, a dare manforte a una pericolosa sovrapposizione tra personaggio, narratore e autore implicito, vi è la presenza di un’interpellazione diretta (immaginate di essere stati quasi testimoni dell’omicidio [...] e fate finta di niente di fronte al vostro migliore amico), che porta quasi automaticamente a instaurare un dialogo di intima complicità con l’ipotetico destinatario. Ma perché tutto ciò dovrebbe essere pericoloso? Cosa c’è di male nella scelta di un siffatto impianto narrativo? Nulla, se queste scelte stilistiche non fossero un invito al commento personale, alla dispersione della linea drammatica a favore di una serie di lunghi e brevi tratti riflessivi dal valore letterario. Sulla pagina il risultato è ampiamente godibile, ma sullo schermo? Cosa accade quando la comprensione di un atto o di un evento essenziali per la progressione della storia dipende in gran parte, o addirittura totalmente, da una premessa che non trova una sua traduzione audiovisiva, ma si ferma a livello di coscienza, di pensiero, di gag raffinata, sì, ma rinchiusa in impenetrabili confini di cerebralità? L’impressione è che non scorra pagina che non riferisca importanti informazioni che però non detengono la necessaria, essenziale componente della plasticità, della traducibilità audiovisiva del materiale. Ecco alcuni riferimenti concreti, estrapolati a partire dall’inizio e proseguendo. Da “Mi chiedo perché [...]”, fino a “Fame compulsiva, dice [...]”. La lunga tirata che apre il trattamento è un esercizio puramente mentale di Bruno, con l’aggravante che è proprio da questa prima cartella che viene fuori il set di informazioni essenziali che fissano i caratteri di base della tipologia esistenziale del protagonista. Forse il meccanismo che definisce e imposta il personaggio principale dovrebbe procedere attraverso un canale espressivo più concreto (sequenze, scene, azioni, non pensieri...). Da “È sempre così con Gianni [...]”, fino a “[...] è quello di promotore finanziario”. Un’altra volta il modo di passare informazioni vitali sul personaggio di Gianni, che entra in scena per la prima volta e che avrà nel finale un pesante ruolo rivelatore, si affida al monologo interiore di Bruno. Da “Valeria Rocchini Giacomelli è una leggenda [...]”, fino a “ [...] che mi ha visto padre e attore mancato”. Ancora una volta ci si trova di fronte a una lunga riflessione tra narratore e personaggio, al contempo essenziale per la comprensibilità del narrato (qui si imposta il personaggio della Rocchini Giacomelli e si ridefinisce quello di Gianni) e limitata a una dimensione puramente letteraria. Da “Perché? Perché ogni coppia [...]”, fino a “ [...] il traffico di uranio, e voi?” Esempio lampante di quanto fin qui teorizzato e riportato: si tratta di una gustosissima tirata nei confronti di certi retaggi di società, un’accusa ad assurdi formalismi che detiene un senso e un valore degni di nota se questo fosse un racconto, ma che per il momento non ha ancora alcuna traduzione visiva.

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Da “Pensare che per un attimo [...]”, fino a “[...] mi aveva rubato la scena, anche questa volta”. Emblematica chiosa a tutti gli esempi fin qui riportati, l’amara confessione-conclusione di Bruno in chiusura del III° atto non la si può immaginare al cinema se non in voce over e dà la netta sensazione che, così com’è scritto il resto del trattamento, questa voce, dal suo indefinibile altrove, dovrebbe sgolarsi dall’inizio alla fine del film per reggerne il senso e il ritmo. Il plot “giallo”: una sfida allo spettatore? Un altro punto debole sta nel modo in cui alcuni personaggi vengono messi in gioco in relazione al mistero sulla morte di Valeria Rocchini Giacomelli. Infatti anche se la storia è molto più vicina alla commedia che al giallo, la misteriosa morte di Valeria fa comunque scattare nel lettore il senso di sfida, inducendolo a cercare la verità prima dello svelamento finale. Un buon giallo però dovrebbe spiazzare lo spettatore cercando di depistarlo per tutto il racconto per poi smontare le sue supposizioni. Viste le premesse poste dalla narrazione, invece, i sospetti non possono che cadere su colui che poi si rivela essere l’effettivo responsabile del tragico fatto. (Si pensi a Bianca di Nanni Moretti: pur essendo tutt’altro che un giallo, è comunque presente un personaggio che svia l’attenzione dal reale assassino). La struttura. Dove andiamo? Che storia stiamo raccontando? Fissando innanzitutto delle coordinate comuni, si direbbe che in una storia del genere sia palese la necessità di rifarsi a un’impalcatura forte che regoli la quantità di informazioni per atto e la loro reciproca scansione, che fissi un obiettivo e aiuti a perseguirlo sopra ogni altra cosa. Ricercando una struttura all’interno de Il provino, questi dovrebbero essere gli snodi-chiave: - La notizia che la Rocchini Giacomelli sta cercando attori = Evento Dinamico - Bruno fissa un appuntamento a casa della regista = 1° Plot Point (è questa la Prima Soglia da varcare, perché è nell’affrontare telefonicamente la Rocchini Giacomelli che Bruno vince le sue paure e intraprende l’avventura, grazie anche - come nel più classico dei copioni - all’aiuto della nonnamentore) - La regista precipita dalla finestra di casa = Punto Centrale / di non ritorno - Elena confessa di aver baciato il “proprietario di Smart” = 2° Plot Point - Confessione di Gianni = Climax Se le coordinate di base sono queste, l’impressione è che i problemi più evidenti riguardino il secondo e il terzo atto. Salta subito all’occhio una debolezza posta tra l’avvio del mistero e il suo svelamento. Non ci sono infatti eventi cruciali che rispondano alla domanda innescata dal punto centrale. In particolare, il secondo plot point non è rilevabile al momento sulla linea principale della detection, ma sembra “sprofondare” su una linea secondaria, sulla quale va individuato il vero evento cruciale della seconda metà del secondo atto. Il secondo atto 1) Il punto centrale (o punto di non-ritorno) non può essere che la morte misteriosa della Rocchini Giacomelli, visto che è questo l’evento che catalizza tutta la vicenda, facendo da clamoroso spartiacque: prima è un certo tipo di storia, un certo tipo di film, poi è un’altra storia, un altro film. Ebbene, esso si posiziona troppo presto. Se questo dev’essere lo spartiacque del II° atto, la sua posizione è eccessivamente decentrata e sbilanciante. Giocandosi così presto la carta dell’elemento catalizzatore (drammatico, emotivo), il resto dell’atto diventa un affastellarsi di eventi e azioni che, pur portando avanti la storia, perdono forza in termini di progresso drammatico. La sensazione è che se il punto centrale dev’essere un faro guida - nel mezzo di un atto per definizione lungo e difficile, che illumini e rassicuri la via dell’ipotetico

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fruitore - anticiparlo in questo modo toglie al racconto (e al lettore) un saldo e preciso senso di direzione. Una volta consumatasi la morte della Rocchini Giacomelli, le linee drammatiche si disperdono, si moltiplicano, perdendo in forza e in chiarezza, perché da sole devono portare avanti la parte più corposa della storia. Viene così meno la tensione narrativa e il lettore perde gradualmente il senso della direzione (e così l’interesse), finendo per perdere di vista quale storia si stia narrando, quale sia, cioè, la vicenda portante. La tensione drammatica di gran parte del secondo atto, dunque, sembra costantemente sul punto di spegnersi, costantemente in fase calante e ogni volta rilanciata in avanti senza la dovuta convinzione, ma solo quanto basta per arrivare alla fine dell’atto stesso. La prima e più evidente conseguenza di un siffatto disequilibrio interno è la sensazione che gli eventi e le azioni non procedano più secondo un criterio di causalità, ma sempre più in funzione di un blando e slegato principio di casualità, addirittura finendo per raccontare aneddoti e fatterelli che ben poco occorrono allo sviluppo della storia. La debolezza strutturale appena esposta ha un primo e lampante sintomo: la seconda nota dolente del II° atto. 2) Il rapporto tra i due plot point è un evidente allarme della perdita di direzionalità e forza drammatica della vicenda. Sì, perché se ad aprire il II° atto è un plot point che si avvita attorno alla linea drammatica tesa tra Bruno e la Rocchini Giacomelli e afferma quindi che la vicenda principale è quella che si snoda attorno a Bruno e alle sue disavventure professionali, il secondo plot point è invece completamente affondato nella linea drammatica tesa tra Bruno ed Elena, esaltando quindi la vicenda che si occupa di Bruno e della sua dimensione domestico-familiare. In altre parole, se ad aprire l’atto è il clamoroso appuntamento tra il famelico (in tutti i sensi) Bruno e l’affascinante, misteriosa Valeria, a chiuderlo è la confessione da parte di Elena del suo tradimento. L’impressione, allora, è che tra un estremo e l’altro le linee narrative si siano allentate e attorcigliate e che, nel loro avvicendarsi alla linea principale della storia, abbiano finito per offuscare la comprensibilità dell’obiettivo primario e, quindi, la chiara consapevolezza di quale sia la storia che si sta narrando (Bruno-Valeria-Gianni?... Bruno-Elena-proprietario di Smart?...). Il terzo atto Ciò che non convince del terzo atto è l’ennesima svolta nella definizione della vicenda principale. Il climax, infatti, coincidendo con la confessione di Gianni, riporta di nuovo lo spettatore all’interno del triangolo drammatico Bruno-Valeria-Gianni, dopo che il secondo si era chiuso indirizzando invece tutto il corpus emotivo dalle parti delle vicende sentimentali del protagonista. Ci si aspetterebbe inoltre un climax più accattivante, più forte di una semplice confessione e per di più recitata così, blandamente e senza costrizioni o conflitti espliciti. Dopotutto, se all’inizio del II° atto mettiamo la misteriosa, clamorosa morte di un personaggio drammaticamente determinante, dovrebbe essere doveroso, per la legge dell’escalation, inventarsi una prova conclusiva ancor più esplosiva, ampiamente più forte: non che la confessione di Gianni non lo sia, ma sono il candore, l’estrema serenità, l’assoluta spontaneità con cui avviene che non convincono come finale drammatico. Concludendo, quindi, l’anticipazione del punto centrale e la conseguente debolezza drammatica del II° atto, sommate al ripensamento direzionale e alla scarsa presa emotiva del terzo, provocano una perdita di direzionalità (confusione, imblandimento dei fili narrativi) e non chiariscono quale storia si voglia qui in effetti narrare. L’effetto più immediato di tutto questo sembra essere un disorientamento fruitivo e una dispersione del potenziale interesse dello spettatore. Un’ultima annotazione riguarda la quantità di materiale narrativo. Forse, proprio mentre ci si adopererà per espellere dal testo tutti i passaggi incompatibili con l’audio-visibilità cinematografica, si dovrà anche tener conto dell’effettiva povertà di eventi e azioni che facciano avanzare la storia. Perché, a dire il vero, eliminando dalle pagine de Il provino tutti quei tratti puramente letterari, si ha la sensazione che poco rimanga da “far vedere”, almeno nella prospettiva della realizzazione di un lungometraggio.

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Punti forti Il trattamento proposto presenta alcuni importanti pregi, decisivi per un suo possibile approdo cinematografico.

LO STORY CONCEPT Cosa accadrebbe se un aspirante attore quarantenne, spiantato nel lavoro e traballante in amore, ottenesse un provino a casa di una famosissima e sensuale regista dalla torbida fama? Il what if de Il provino è potenzialmente ricchissimo, perché dispiega a grappolo un’infinità di altre opzioni, di ipotesi, di stimolanti domande: segno, questo, della bontà dello story concept di partenza. E se la regista morisse poco prima del provino? E se lui la udisse cadere dalla finestra di casa? E se lui in segreto la desiderasse? E se la fidanzata di lui ne fosse consapevole e gelosa? E se lei avesse una piccola storia con un altro? Lui verrebbe a saperlo? Come? Glielo direbbe lei? E lui come reagirebbe?... Sono solo alcune delle domande innescate come in una reazione a catena dal what if di partenza.

IL TEMA E I SOTTOTEMI Trattare creativamente una realtà come la fenomenologia della fauna ultratrentenne del nostro tempo, tra sogni d’adolescenza, doveri della maturità, legittimità di perseguire i primi e buonsenso nell’assolvere i secondi, è senza dubbio un tema attuale, scottante e accattivante, soprattutto se si va a contaminare con situazioni tipiche quali la convivenza forzata e amata coi genitori e il costante, impietoso paragone con figure di coetanei inspiegabilmente appagati e realizzati.

I PERSONAGGI Nonostante i personaggi siano presentanti e caratterizzati in forma prevalentemente cerebral-letteraria, bisogna ammettere che sono credibili e interessanti perché veri e coerenti con le loro back stories, ciascuna delle quali è a sua volta densa, anche qualora sia appena tratteggiata, come nel caso di caratteri secondari o marginali. Basta poco per inquadrare Elena, la fidanzata da 110 e lode che non ha mai perso un secondo a chiedersi cos’avrebbe fatto nella vita: l’ha vissuta in un modo solo, e tanti complimenti... O Gianni che, anche senza lo svelamento finale, in fondo avevamo già radiografato: falsamente felice proprio perché all’apparenza perfettamente realizzato... Cosa dire poi dei genitori di Bruno, prototipi dei lavoratori degli anni Sessanta e Settanta, che hanno regalato ai figli la più quadrata sicurezza economica e familiare, e che per tutta risposta si sono ritrovati in casa un quarantenne seminullafacente che parla di arte mentre mangia a sbafo? Perfetti. Sulla qualità del personaggio di Bruno, infine, non si dovrebbe nemmeno aprire la discussione: egli, semplicemente, è il rappresentante di una larga fascia di attuali trenta-quarantenni che non faticheranno a ritrovare in lui buona parte delle loro ossessioni e problematiche. Da non perdere è anche la figura marginale ma utilissima del giovane carabiniere, ex allievo attore di Bruno, uno più bravo e bello di lui che alla fine ha scelto di “crescere” e trovarsi un lavoro “vero”: lampante esempio di come l’autrice abbia sfruttato il tema di partenza anche attraverso i personaggi di contorno, essenziali cartine di tornasole rispetto alla condizione del protagonista.

I DIALOGHI Benché il discorso diretto sia poco utilizzato, perché a sostituirlo c’è comunque la presenza forte e individualizzante del narratore in prima persona, l’autrice fa ben sperare davvero rispetto alla futura traduzione in forma di dialogo.

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L’economia delle incursioni dialogiche predilige interventi lapidari, sintetici, scarni, non ridondanti né retorici o pomposi. Come si conviene all’impianto espressivo della commedia, Maria Daniela Raineri fa presagire l’esercizio del gusto per la battuta rivelatrice più che per la prolissa argomentazione.

Considerazioni generali e suggerimenti per lo sviluppo Per riprendere le fila del discorso, si riconosce che quanto a idea di partenza, successivo story concept e impianto tematico attivato, l’autrice ha sviluppato un progetto di notevole portata. La sensazione di grande potenzialità non viene peraltro tradita né dalla quantità dei personaggi (non troppi, non troppo pochi), né dalla loro qualità (credibili e ben riusciti). Ad infoltire la serie di pregi si aggiungono inoltre la buona scrittura e l’evidente senso dei tempi e delle misure nella stesura dei dialoghi (con un sano gusto per la battuta salace anche nei frangenti più neri). Ciò premesso, si vogliono qui dare alcuni suggerimenti per stimolare una prima riscrittura del progetto. A) È forte, bisogna ammetterlo, la sensazione che per trarre un film da un siffatto racconto bisognerebbe dispiegare una voce-pensiero di Bruno che dalla prima all’ultima scena commentasse quanto accade. Solo così, infatti, la storia manterrebbe la sua esuberanza stilistica, la sottile ironia del commento autoriale e il piacevole gusto della sarcastica disillusione. È così che ci si immagina questo film? Costantemente sostenuto da un salace commento d’autorepersonaggio-narratore? Non sarebbe forse il caso di cercare altre vie per veicolare le stesse informazioni? Percorsi narrativi, cioè, che possano suggerire allo sceneggiatore e al regista delle precise soluzioni visive (sequenze, scene, inquadrature...) non appesantite continuamente dalla zavorra di una voce over inevitabilmente ridondante. Un buon punto di partenza potrebbe essere la riscrittura dell’intero trattamento in terza persona. Dovrebbe essere un ottimo sistema per rivelare e comprendere di quanta macchinosità e vacuità cinematografica si vada caricando il testo ogni volta che si deve introdurre un pensiero, una sensazione, un’emozione, un monologo interiore di Bruno. Macchinosità e vacuità che l’uso della prima persona ottunde quasi completamente. Successivamente, si dovrebbe tentare di battere un canale informativo esclusivamente audiovisivo, annullando ogni tentazione puramente letteraria. Ad esempio, si potrebbe immaginare un incipit del tipo: Bruno, imbolsito quarantenne testardamente acconciato da supergiovane, viene scartato dalla segretaria della segretaria dell’assistente del responsabile del casting al provino per uno spot su giovani universitari che mangiano merendine supercioccolatose e ripartono di slancio... Bruno sta in piedi di fronte ad una scrivania di formica; dietro di lui una marmaglia di veri giovani e davanti, seduta e munita di chewing gum, una tiratissima diciottenne che lo squadra e legge con sdegno i suoi scandalosi dati anagrafici, scandendo bene: “TRENTOTTO ANNI... DISOCCUPATO...” Alcune risate dalla fila dei belloni e la ragazzina che gli appioppa un eloquente: “LE FAREMO SAPERE, AVANTI IL PROSSIMO...” Non che l’esempio appena esposto sia grande letteratura - e nemmeno grande cinema - ma rende l’idea del lavoro di revisione e riscrittura che si dovrebbe svolgere per una traduzione visiva dell’informazione che sostituisca il facile rifugio nel commento in voce over. Inoltre, cos’accadrebbe alla fisionomia e all’economia drammatica di questa storia se si applicasse il suddetto principio? Non sarebbe anche una buona occasione per ovviare in un colpo solo all’altro problema, quello di una certa “povertà” di fatti, riuscendo in questo modo a sfruttare le potenzialità che determinati eventi, presenti nel testo, potrebbero avere nel dare delle svolte alla narrazione? Ad esempio Bruno, interrogato dai carabinieri, o i suoi genitori che decidono di lasciare la casa sono

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situazioni che possono davvero creare ulteriori crisi nei personaggi e spingerli a chissà quali azioni, e invece ora sono lasciati come sospesi e il più delle volte la loro risoluzione giunge prima che si sia portato il momento alle estreme conseguenze. È probabile che, traducendo tutto l’impianto informativo dalla pura interiorità a una visione pura (eventi, azioni, dialoghi, scene, sequenze...), anche il trattamento potrebbe finire per godere di una più adeguata densità drammatica. B) Un secondo, grande bacino d’intervento potrebbe rivelarsi la gestione dell’articolazione interna degli atti. Come già suggerito, l’impressione è che incastonare la morte della Rocchini Giacomelli all’inizio del secondo atto anticipi troppo le cose e lasci briglia sciolta al resto della narrazione, procurando una grave dispersione di direzionalità e tensione drammatica: le fila si confondono, l’interesse scema e si perde la coscienza della trama principale. Si prova dunque a suggerire una proposta di revisione strutturale che potrebbe essere un utile stimolo all’autrice stessa. Eccola. Si potrebbe innanzitutto scegliere come storia principale la linea drammatica tesa tra Bruno, Gianni e la Rocchini Giacomelli. L’asse tematico si sposterebbe a favore del rapporto arte-lavoro e avrebbe come sottotemi le opposizioni onestà-disonestà, lealtà-slealtà, amicizia-opportunismo, amore-interesse... La storia si colorerebbe di noir, mantenendo comunque il suo impianto di commedia. Il corpus informativo riguardante la dimensione familiare di Bruno (Elena, i genitori, la nonna...) finirebbe per diventare uno strumento d’arricchimento nella costruzione del protagonista, ne definirebbe meglio il conflitto principale, contribuendo ad amplificare le sue tensioni e a giustificare con più forza le sue motivazioni, pur rimanendo comunque in secondo piano. A livello strutturale: Il primo atto dovrebbe sviluppare con più cura il personaggio di Gianni e regalargli alcune scene che informino sul suo lavoro, sul suo modo di concepire la vita, sulla sua situazione familiare apparentemente idilliaca. Il secondo atto, nella prima parte, potrebbe occuparsi della definizione della regista Rocchini Giacomelli, sfruttando ulteriormente le informazioni fornite verbalmente da Bruno o Gianni e prendendo spunto dal loro colloquio per preparare l’esposizione ritardata del personaggio, che bene si addice allo stereotipo della femme fatale. In questo modo una forma puramente audiovisiva definirebbe la sua personalità e allo stesso tempo si finirebbe per rendere più drammatica la narrazione. Una simile costruzione riuscirebbe a tenere ben saldo il senso della direzione della storia (BrunoRocchini Giacomelli-Gianni), avrebbe il vantaggio di “riaggiustare” verso il centro dell’atto il punto centrale della vicenda (la morte della donna) e definirebbe con estrema chiarezza l’identità della linea narrativa principale. In vista di un terzo atto più carico, poi, si potrebbe introdurre il germe della gelosia nel sistema dei personaggi (il triangolo primario Bruno-Valeria-Gianni e i triangoli secondari Bruno-Elena-Valeria, Bruno-Elena-proprietario della Smart), in modo che i subplot possano interagire e incrociare il plot principale della detection. Sarebbe quindi opportuno arricchire la storia, da un lato rendendo più significativi gli eventi già presenti (la cena a casa di Gianni ad esempio è molto carina, ma aggiunge poche informazioni rispetto a quelle che già si possiedono), dall’altro aggiungendone di nuovi, creando delle situazioni di cui Bruno sia protagonista (anche passivo) ed inserendo dei personaggi che attraggano su di loro l’attenzione e mettano in secondo piano Gianni: perché, ad esempio, in un’ottica meno “orizzontale”, non introdurre tra i personaggi un direttore artistico, se è vero che la commedia graffia quando ha a che fare con il potere?

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Forse si esagera con i suggerimenti, ma potrebbe essere buffo vedere Bruno che, mentre viene accusato del delitto, si lascia andare ad un’indagine personale e puramente mentale, nutrita di sospetti anche amorosi in cui, ripercorrendo gli eventi e la lista dei sospettati, giunge a delle conclusioni sballate ed improbabili. O forse, se si preferisce tener desta l’attenzione su di lui piuttosto che sulla detection, potrebbe essere una soluzione quella di svelare il vero andamento dei fatti all’inizio, per poi rendere Bruno ancora più frustrato nella sua convinzione di essere implicato in qualcosa che sappiamo non lo tocca minimamente. In questo modo si arriverebbe a un terzo atto in cui le conseguenze dell’azione si manifesterebbero pienamente, facendo esplodere la crisi. Se Bruno è concepito come un antieroe che, invece di agire, subisce gli eventi (scelta peraltro azzeccata), al momento la risoluzione arriva troppo presto: è troppo comodo per Bruno sapere come sono andati realmente i fatti prima che i carabinieri lo inchiodino o che i genitori lo lascino in mezzo a una strada. Naturalmente non si intende dire che il progetto debba abbandonare i suoi toni da commedia per diventare un thriller mozzafiato, ma una morte misteriosa è pur sempre una morte misteriosa e non può fare a meno degli elementi strutturali caratteristici di quel genere.

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Ciao a tutti, sono deliziosamente sbalordita per la profondità, professionalità, intelligenza e passione dei vostri interventi. Vi rinnovo ammirazione e gratitudine, ma più che tutto l’augurio che presto qualche produttore lungimirante si accorga che siete una miniera d’oro. Detto questo, mi pare che tutte le vostre osservazioni colgano nel segno, quindi la mia più che una replica sarà una rapida sequenza di conferme o precisazioni. La prima è che Il provino è un racconto. Nasce come generico “testo comico”, non specificamente per lo schermo. Non possiamo considerarlo un trattamento, ma solo un testo da cui prendere spunto per una sceneggiatura ancora tutta da inventare. Condivido appieno la proposta di scrivere il trattamento in terza persona. Questo sarà possibile solo dopo avere riscritto una scaletta che tenga conto della necessità di riempire i “buchi” strutturali che bene mi avete evidenziato. La narrazione in terza persona mi costringerà a liberarmi di ogni abbellimento letterario e a lavorare sullo scheletro della storia, concentrandomi sulle azioni dei personaggi e su eventuali bozze di dialogo. Sarà il vero terreno di prova e solo allora capiremo se la storia è in grado di reggere sullo schermo. Io sono fiduciosa e credo che ci sia materiale per un plot corposo e naturalmente penso anche che, pur mantenendo personaggi, toni e linee generali della trama, ci ritroveremo di fronte ad un testo completamente differente rispetto a quello iniziale. Ad esempio, butteremo tantissime battute buone sulla carta ma completamente inadattabili allo schermo. E sarà giusto così. In compenso dovremo essere così bravi da trovare battute altrettanto divertenti e taglienti da mettere in bocca ai personaggi, in grado non solo di strappare una risatina ma anche di portare avanti l’azione. Mi rendo conto che la voce over è una tentazione fortissima, apparentemente risolve un sacco di problemi. D’altro canto sono talmente irritata dall’uso scriteriato che se ne è fatto negli ultimi film italiani che, attualmente, la capacità di riuscire a raccontare una storia con azioni e dialoghi, senza affidarsi alla parte “letta”, mi sembrerebbe un grande traguardo. Se proprio non ce la faccio, allora dovrò mantenerla, cercando di darle un senso, ad esempio narrando la storia in un lungo flashback (durante un interrogatorio di Bruno, ad esempio), come da tradizione noir. Mi sembra molto buona la strada dell’indagine di Bruno in seguito alla morte di Valeria (che deve sembrare un omicidio o, perché no, potrebbe esserlo davvero). Confesso che questa era la mia idea iniziale, abbandonata per motivi poco nobili (pigrizia, fretta, spazio). Bruno potrebbe benissimo improvvisarsi detective, non credo che ciò striderebbe con il suo carattere. In realtà non ho mai pensato a Bruno come a un personaggio che subisce gli eventi. Al contrario, ha un obiettivo preciso da raggiungere e fa di tutto pur di potercisi almeno avvicinare. Corre da un provino all’altro, si indebita per seguire corsi di teatro, è alla continua ricerca del contatto giusto. Che poi viva come un eterno adolescente e si rifiuti di assumersi responsabilità tradizionali è un altro discorso. Ma di certo è uno che agisce per il conseguimento del suo scopo. A questo proposito una cosa mi ha colpito. Molti interventi hanno evidenziato la mancanza di azione nella storia e hanno definito Bruno eroe passivo. Pensare che, nella mia percezione, la storia è frenetica e Bruno è un personaggio in continuo movimento! E quindi mi sono accorta di un elemento cruciale: Bruno si agita moltissimo per non concludere nulla. Chi cerca di lavorare in questo mondo è spesso agitato e stravolto dalla stanchezza ma il più delle volte sulla domanda “stai lavorando in questo momento?” cambia discorso. C’è di che riflettere. Una cosa che forse non è emersa a sufficienza dal racconto è che Bruno rimane davvero stregato da Valeria. Valeria è una vera femme fatale. E riesce ad esserlo anche da morta! Per questo, forse, come mi avete consigliato, potrei darle più spazio, magari facendo incontrare i due. In fondo, se Bruno non fosse spaventosamente attratto da Valeria, non gli costerebbe nulla correre subito dalla polizia e testimoniare quel poco a cui ha assistito. Il fatto di essere andato al provino di nascosto da Elena e di avere aspettative inconfessabili sull’incontro con la regista lo fanno sentire in colpa, confondere e inanellare una serie di bugie ed omissioni che non fanno che metterlo ancora di più nei guai. Sono d’accordo sulla necessità di approfondire la figura di Gianni che, è vero, altro non è che la variante di Bruno (e la delusione finale di Bruno, in fondo, è anche quella di scoprire che l’amico è, proprio come lui, alla famelica ricerca di uno straccio di ruolo). Ho anche pensato che Gianni potrebbe non solo essere il testimone diretto del suicidio di Valeria, ma

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potrebbe addirittura essere il suo assassino. Se seguiamo la strada della detection fino in fondo, forse potremmo anche azzardarci ad alzare in un certo senso la posta in gioco. Naturalmente sono d’accordissimo sulla necessità di approfondire personaggi secondari (sì, ce ne sono parecchi) che possano diventare possibili sospetti. Ovviamente quella di Bruno sarà una detection sui generis, con pasticci, conclusioni errate, paure immotivate e folli e spericolate incoscienze. E resterà comunque il pretesto per parlare d’altro. Infatti penso che la domanda centrale vada al di là di “Bruno otterrà la parte?” Forse è piuttosto: “Dove sta il limite?” “Bruno è un fallito che si ostina contro ogni evidenza oppure è un artista che non può rinunciare al fuoco sacro dell’arte?” Nel corso della storia ogni avvenimento diventa un’argomentazione a favore della posizione di Elena, dei genitori, persino del carabiniere giovane (“Sei adulto, trovati un lavoro vero e lascia perdere la recitazione”): > i provini vanno male, > i soldi scarseggiano, > la vita privata va a rotoli, > un semplice provino si può trasformare in potenziale occasione di “tentazione” e in fonte di guai (infatuazione per Valeria, morte della donna, sospetti su Bruno), > il mondo di cui Bruno anela a fare parte è un mondo “finto”, con altissima concentrazione di disperati (scoperta finale su Gianni). Bruno resta via via sempre più solo nella sua ostinata ricerca (di una parte, sì, ma anche della sua identità, del suo posto nel mondo). L’unica che, forse inconsapevolmente, incoraggia Bruno è la ragazza in fila con lui al provveditorato che, rassicurandolo sul suo peso, lo convince a correre fuori. Così Bruno (che, come succede nella commedia, sul finale ricade nel suo fatal flow), contro ogni aspettativa di ragionevolezza, non appena viene a sapere della remota possibilità di un ruolo sfigatissimo (parliamo di pubblicità della fonduta in scatola!), è pronto a ricominciare tutto da capo. E spero proprio che avremo voglia di fare ancora il tifo per lui. Questi, in estrema sintesi, mi sembrano gli elementi principali da cui partire per la scrittura del “vero” trattamento. Per il resto, ogni intervento e ogni singola riga della scheda di lettura sono spunto per discussioni-fiume che spero di poter presto fare a voce con tutti voi. Per ora ancora grazie per il vostro enorme lavoro. Un abbraccio, Daniela Raineri

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MAMMALITURCHI! di Gianfranco Martana PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: COMMEDIA

È più importante assicurarsi una vittoria nel presente o è più appagante e confortevole crogiolarsi negli splendori del passato? Nonostante il trascorrere dei tempi, Roccafredda e i suoi abitanti si trovano ad affrontare una subdola ma destabilizzante invasione: sono tornati i turchi! Non si tratta più di saccheggiatori inturbantati, come quelli respinti dalle gesta eroiche degli avi, patrocinati dallo spettacolare intervento di Santa Sofia apparsa in cielo per la ritirata finale degli aggressori... Ora l’animosità è rivolta verso un’intraprendente comunità magrebina che, desiderando un luogo di culto sicuro e ben riconoscibile, non esita a reclamare per i propri bisogni l’inutilizzata e dimenticata chiesa di San Ciro, alla periferia del paese. Il conflitto interculturale, raccontato in chiave ironica ed efficace, permette a Gianfranco Martana di riportare alla luce, come un archeologo, livelli celati ed insospettabili di personaggi e situazioni, in un’opera di avvincente vitalità.

Più che mettere in scena il contrasto fra due mondi più o meno diversi e contrapposti, Mammaliturchi! intende sviscerare le diverse reazioni suscitate dagli eventi nella comunità cilentana autoctona. Gli arabi agiscono come catalizzatori di contraddizioni e paure che forse avrebbero potuto trovare anche vie diverse da quella religiosa per palesarsi. D’altra parte, il Cilento si trova pericolosamente in bilico fra un passato legato all’agricoltura e alla pesca, e un presente fatto di un turismo ancora piuttosto naïf, ben lontano dal glamour internazionale dei più ricchi e sussiegosi “cugini” della costiera amalfitana. I momenti cruciali del film hanno tutti un riferimento reale: la trasformazione di una chiesa in moschea è un evento che si è già verificato in alcuni Paesi europei, come l’Inghilterra e l’Olanda, in seguito alla progressiva “occupazione” di alcuni quartieri da parte delle comunità musulmane; l’apparizione del volto, con i suoi sviluppi e il suo comico epilogo, riprende invece in maniera molto fedele un episodio accaduto nella provincia di Caserta; le rappresentazioni in costume di antichi sbarchi saraceni sono un genere di spettacolo piuttosto comune sulle coste del Meridione, i cui paesi fanno a gara nel rivendicare invasioni vere o presunte. A ben pensarci, questo è un film sulle immagini e sul racconto della vita, dalle apparizioni di santi alle foto di matrimoni, ai murales, agli strati d’intonaco, ai riaffioramenti di altre ideologie e altre civiltà: una continua stratificazione e giustapposizione di passioni, amori, violenze, una continua ribellione delle cose e delle persone contro l’oblio che costantemente le minaccia. Desidero qui ringraziare l’amico Massimo De Pascale, sceneggiatore e documentarista, che ha collaborato con talento, cultura e passione a questo progetto. Gianfranco Martana

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A tocchi a tocchi la campana sona! Li Turchi so’ sbarcati a la marina! (canzone popolare del XVI secolo) Certo, non dev’essere facile vivere a Roccafredda. Il paese non è minuscolo, ma quando qualcuno ha provato a chiamarlo “cittadina” in molti hanno storto il naso: troppo stridente, questo termine, con la realtà dei fatti. Dunque, un paese punto e basta. Ridente, si sarebbe detto una volta, perché affacciato sul mare più o meno limpido e generoso del Cilento, con un entroterra benedetto da Dio per la fertilità dei campi. Oggi, però, essere ridenti non basta più: guardate i “cugini” della costiera amalfitana cosa sono stati capaci di fare: arte, storia, cultura, tradizioni locali. Ce le hanno davvero, tutte queste meraviglie, o se le sono inventate per vendersele al miglior offerente, perché sono più furbi, più smaliziati, più vicini a Napoli? I napoletani, si sa, sono capaci di venderti pure l’aria in bottiglia. I cilentani, invece, sono abituati da secoli a faticare come ciucci, a pensare solo alla famiglia, a tenere la testa bassa e a ingoiare offese e villanie di ogni tipo dai potenti di turno. Eppure Roccafredda qualche numero da giocarsi ce l’avrebbe: il mare, appunto, con una bella striscia di spiaggia soffice e chiara; un porto pittoresco, pieno di pescherecci in attività; un piccolo castello diroccato e un’antica torre di avvistamento; e non mancano bravi artigiani, che vendono a prezzi ancora accessibili. Ma le ambizioni di un paese sono sempre smisurate, si va sempre in cerca dell’unicità, del “questo ce l’abbiamo solo noi”, anche se non sempre basta dirlo perché sia vero. Spesso si dice che nei paesi non cambia mai niente. E invece, negli ultimi anni, a Roccafredda qualcosa è successo, che ne ha modificato profondamente il carattere: si è andata formando, piano piano, una comunità magrebina. Prima qualche sparuto lavoratore stagionale, venuto a raccogliere pomodori e altri ortaggi, poi qualche pescatore dalla Tunisia, poi i primi ricongiungimenti familiari. E così, più cresceva la comunità, più Roccafredda diventava una destinazione appetibile per nuovi emigranti, che sapevano di trovare un ambiente già favorevole al loro inserimento. Molti bambini sono nati lì, e prendono in giro i genitori che non sanno parlare bene l’italiano; a volte se ne vergognano pure. Oggi dimorano stabilmente a Roccafredda una ventina di famiglie magrebine, quasi tutte concentrate nella frazione di San Ciro. Questa zona periferica, attraversata dalla strada statale, è stata progressivamente abbandonata dagli autoctoni i quali, quando non hanno abbandonato definitivamente il paese, si sono trasferiti in zone più centrali. Il rapporto con la gente del posto, tutto sommato, è buono. Gli armatori e i pescatori di qui, per esempio, apprezzano molto le doti professionali degli africani, che hanno una grande tradizione di pesca d’altura. E poi, fra la gente di mare c’è sempre solidarietà e rispetto. Certo, una cosa è il rispetto, altra cosa l’amicizia. È difficile trovare dei magrebini alle cene e alle feste degli italiani, e ancora non si è dato il caso di un amore interetnico: c’è da giurare che, se si profilasse all’orizzonte, verrebbero fuori un bel po’ di problemi. Il vescovo da cui dipendono le parrocchie di Roccafredda ha sempre mostrato una particolare attenzione al dialogo interreligioso, a quello spirito ecumenico che il pontificato di Giovanni Paolo II ha perseguito tenacemente, in seguito al progredire inarrestabile della società multietnica. Un giorno, i rappresentanti della comunità magrebina di Roccafredda sono andati a trovarlo e gli hanno fatto il seguente discorso: premesso che loro sentivano molto la mancanza di un luogo di culto adeguato alle loro esigenze, e premesso ancora che la chiesa di San Ciro era ormai quasi totalmente sprovvista di fedeli, ecco, magari si poteva cedere quella chiesa inutilizzata alla loro comunità, per trasformarla in una moschea. Non ci credevano neanche loro, quando il vescovo li mandò a chiamare di nuovo per dirgli di sì, che in fondo la cosa si poteva fare, che anche il parroco don Antonio non avrebbe opposto resisten-

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za. D’altra parte, non è meglio dare un luogo sacro a chi sappia amarlo e custodirlo, piuttosto che vederlo marcire per l’incuria e il disinteresse? E non c’era già stato il cardinale Pappalardo, a Palermo, che aveva dato ai musulmani la chiesa di San Paolino dei Giardinieri? Certo, si trattava di una chiesa già sconsacrata, ma questi, in fondo, sono dettagli per addetti ai lavori. In paese la voce aveva cominciato a girare e a farsi sempre più insistente, suscitando un po’ di nervosismo nella popolazione, che evidentemente non era disposta a farsi scippare così, di punto in bianco, un pezzo della propria identità; anche se (questo va detto, a costo di essere sgradevoli) nessuno, fino a quel momento, aveva pensato a quella chiesa cadente come parte dell’identità di Roccafredda. Ad ogni modo, questa ipotesi non aveva ricevuto conferma ufficiale fino a quel giorno di maggio, quando l’attacchino del Comune, a bordo della sua Ape scoppiettante, fece il giro del paese per affiggere dei grossi manifesti, che si aprivano con queste fatali parole: “Cittadini di Roccafredda, è giunto il momento dell’accoglienza.” Seguiva un lungo testo, suggellato dalle firme del vescovo e di don Antonio. Ecco che il primo urlo si leva in strada: è quello di un passante, che ha appena letto il manifesto e ne sintetizza efficacemente il contenuto: “Vonno da’ ’a chiesa ’e San Ciro a ’e marrucchine!” dove “marrucchine” è il termine un po’ generico che si usa da quelle parti per indicare gli uomini e le donne del nord Africa. Quest’urlo lacera Roccafredda mentre una giovane donna forestiera attraversa per la prima volta il paese a bordo della sua auto, e mentre alcuni dei suoi abitanti sono occupati nelle loro faccende abituali. Il primo che incontriamo è Tommaso Di Luccio, un omino svelto e smilzo sui cinquant’anni, afflitto da una vistosa zoppia dovuta a un vecchio incidente sul lavoro. Da qualche anno, Tommaso è tornato da un lungo periodo di emigrazione in Svizzera, e ora si dedica all’attività di guida turistica e a quella di storico locale, il cui esito più prestigioso è stato il volumetto dal titolo Roccafredda nella storia. Lo vediamo sulla spiaggia, mentre racconta vivacemente a un gruppo di anziani turisti tedeschi la storia favolosa di un antico sbarco saraceno, proprio sotto l’antica torre di avvistamento. Inizialmente, Tommaso si cimenta in prima persona col suo tedesco un po’ arrugginito; poi, quando il discorso si fa più complicato, lascia quest’incombenza alla guida madrelingua, e può finalmente esprimersi al meglio: “Questi saraceni erano tremendi! Arrivavano all’improvviso, e buonanotte! Rubavano, uccidevano, si prendevano le donne... Per questo, quando li vedevano arrivare, quelli che stavano di guardia qua correvano subito al paese a dare l’allarme.” Ma, per quanto Tommaso possa sbracciarsi, gli esigenti turisti, abituati a ben altre meraviglie italiane, lo ascoltano con palpabile disinteresse. Questo dei saraceni è un vecchio pallino di Tommaso, tant’è che sta lavorando a un’idea straordinaria per rilanciare il languente turismo del paese: una rievocazione in costume del suddetto sbarco, conclusosi con la sconfitta dei pirati, grazie all’eroica resistenza dei paesani e soprattutto alla miracolosa apparizione della patrona Santa Sofia. In un altro punto del paese, nel salotto di casa sua, l’avvocato Gaspare Peluso sta leggiucchiando le carte di una causa condominiale, e fa partecipe la cognata Adele delle sue sarcastiche, sconfortate considerazioni: “Ma ti rendi conto? Questo tizio dice che lui può restare tranquillamente in casa durante i lavori di ristrutturazione, perché tanto ha un ingresso in una zona non interessata dai lavori. Però il bagno ce l’ha da quest’altra parte. E quindi che fa, non ci va, in bagno? E se non può andare in bagno, non può neanche avere l’abitabilità!” Adele, tutta impegnata a pulire i vetri, partecipa vivamente dello sconforto di Gaspare, anche se non ha capito nulla. Gaspare, che ha quasi sessant’anni, è vedovo da qualche anno. È molto legato alla cognata, che spesso va a trovarlo a casa e gli dà una mano nelle faccende domestiche. Ha un figlio sui trent’anni, Gabriele, che vive sul suo stesso pianerottolo, nell’appartamento di fronte. Grazie alle conoscenze

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del padre, Gabriele insegna disegno nella locale Scuola Media e, soprattutto, fa il pittore: da settembre a maggio, infatti, dipinge acquerelli, tempere e oli che hanno sempre gli stessi soggetti: le strade, gli scorci, le barche, il mare di Roccafredda. Quando arriva l’estate, vende i suoi quadri ai turisti e prende il sole in spiaggia. Per la verità, Gabriele non guadagna abbastanza da potersi permettere una casa come quella in cui abita: l’appartamento è di proprietà del padre, che gliel’ha affittato a un prezzo irrisorio. Ma torniamo a Gaspare e Adele. I due cognati sono in attesa di un’ospite, una restauratrice che dovrà rimettere a nuovo l’antica statua lignea di San Ciro, conservata nella chiesa omonima. Eccola, dunque, la graziosa restauratrice, la giovane forestiera che abbiamo già intravisto: è Giuliana Pasotti, in arrivo da Napoli, la capitale del Regno (come direbbe il filoborbonico Tommaso). L’incarico le è stato affidato proprio dal vescovo, che è anche, casualmente, suo zio (ma nessuno, per ora, lo sa). L’intenzione del vescovo, attraverso il restauro della statua, è quella di concedere alla popolazione un risarcimento simbolico per la perdita della chiesa. Ultimato il lavoro, infatti, la statua sarà trasferita nella più centrale e trafficata chiesa di Santa Sofia. Che poi il vescovo abbia voluto infiltrare in paese una fidatissima “quinta colonna” per sondarne gli umori è sospetto più che legittimo, anche se la buona fede di Giuliana non si discute. Gaspare e Adele accompagnano Giuliana al piano di sotto, nell’appartamento che abiterà per qualche settimana. Nel breve tempo della loro prima conversazione, Adele riesce a instillare una certa inquietudine in Giuliana, descrivendole don Antonio come “un personaggio un poco strano” e mettendola in guardia contro i rischi a cui va incontro andando a lavorare in contrada San Ciro: “E comunque state attenta, che quella è una zona un po’ pericolosa, soprattutto per una donna sola.” Quando Giuliana, giustamente stupita, fa presente che credeva di essere venuta in un paese tranquillo, Adele le risponde sconsolata: “Lo era! Fino a qualche tempo fa. Adesso in quella zona ci sono solo marocchini.” Don Antonio vive e opera a Roccafredda da qualche anno. Si tratta della sua prima esperienza di parrocchia: prima di allora, ha sempre lavorato in Curia. Per un lungo periodo è stato il responsabile della Musica Canonica della Diocesi, e il suo desiderio inconfessato è quello di tornare alle vecchie mansioni. Forse la sua adesione al progetto del vescovo nasce anche da questa motivazione; d’altra parte, don Antonio intrattiene con le famiglie dei magrebini rapporti più che cordiali. Da quando la contrada di San Ciro è stata abbandonata dai suoi abitanti originari, la chiesa si è praticamente svuotata dei suoi fedeli, con l’unica eccezione delle anziane Filomena e Annetta Capo, madre e figlia, che abitano proprio lì di fronte, a pochi passi. Ormai, i compiti pastorali del parroco non vanno oltre la benedizione di qualche vitellino o l’estrema unzione di un malato intrasportabile. Don Antonio deve fare i conti con la generale decrepitezza della chiesa, con gli insetti che la infestano e con una snervante perdita dal soffitto che fa cadere beffardamente l’acqua nell’acquasantiera. Per ovviare a quest’ultimo inconveniente, il parroco vi ha temporaneamente affiancato un catino di plastica, che ne fa le veci senza rischio di “inquinamento”. Un vecchio pozzo, tempo addietro meta di pellegrinaggi per la sua acqua “miracolosa”, è ora soltanto fonte di ulteriore umidità. Proprio mentre don Antonio si lamenta con l’incolpevole sagrestano, entra in chiesa una delegazione di magrebini del posto, che accompagnano l’architetto Mohammed Abd Al-Kebir a visitare la chiesa, in vista della sua ristrutturazione. Don Antonio li accoglie e li guida con grande disponibilità. Mentre ha luogo la visita, entra in chiesa un anziano parrocchiano con la figlia: la ragazza deve sposarsi, e ha bisogno di una dispensa per poterlo fare nella chiesa di Santa Sofia. La presenza degli arabi scatena l’ironia un po’ greve dell’uomo: “Ma chesta è già ’na moschea! Nun verite quanta mosche ce stanno?” Tutto preso dai suoi rilevamenti, l’architetto è ignaro di essere oggetto di tanto dileggio e, con lui, i suoi euforici connazionali. Di lì a poco, Giuliana fa la conoscenza di don Antonio e comincia il suo lavoro. All’inizio è intimi-

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dita dal carattere scontroso del parroco, che sembra interessato solo a suonare un pianoforte vagamente accordato e ad affrontare questioni eminentemente pratiche. Tuttavia, col passare dei giorni, la giovane restauratrice ha modo di apprezzare le sue doti di intelligenza e determinazione. Nei locali della confraternita del SS. Salvatore, solitamente adibiti al gioco delle carte, del biliardo e ad altre consimili attività, si studiano le contromosse alla sortita del vescovo. Cosa fare? Cortei, petizioni, dialogo, spedizioni punitive? Niente di tutto questo: capeggiati dal rude ed energico pescatore Gaetano, i membri della confraternita decidono di rivolgersi a un buon avvocato. Il prescelto è Gaspare Peluso che, d’altra parte, è un loro confratello. Gaspare, onorato per il prestigioso incarico, esordisce citando complicati articoli del codice canonico che, a suo dire, sarebbero in contraddizione con la decisione del vescovo: “Nel libro quarto, al canone milleduecentoventidue, comma uno, è scritto: Se una chiesa non può in alcun modo essere adibita al culto divino, né è possibile restaurarla, il Vescovo diocesano può ridurla a uso profano non in-de-co-ro-so. E già qui, avrei alcune riserve. Ma andiamo avanti...” Dopo una dotta ma un po’ noiosa dissertazione, Gaspare riesce a scaldare i cuori dei suoi confratelli dando prova di straordinaria rettitudine morale: “Volevo dirvi anche un’altra cosa. Voi sapete che la restauratrice, la dottoressa Pasotti, alloggia in un appartamento di mia proprietà. Ebbene, per sottrarmi a ogni tipo di sospetto e conflitto d’interessi, dovendo io con questo incarico oppormi alla Curia, vi annuncio che ho già restituito al vescovo i soldi che mi aveva versato per l’affitto!” Un boato di approvazione fa seguito a queste nobili parole. Gabriele, intanto, si ritrova sempre più a fatica nel ruolo di docente: chiuso svogliatamente in un’aula scolastica, scalpita per uscirne. Incuriosito dalla nuova venuta, decide di portare i suoi studenti alla chiesa di San Ciro, con la scusa di mostrare loro come si fa un restauro. Giuliana è felicemente sorpresa della visita di tanti ragazzini, e si mette di buon grado a spiegare il suo lavoro mentre Gabriele, un po’ in disparte, la osserva ammirato. La sindrome da accerchiamento comincia a mietere le prime vittime: mentre all’alba compiono il loro lavoro sull’estremità del molo, due spazzini vedono sbucare dalla foschia una grossa imbarcazione, un peschereccio di ritorno da una battuta. Sul ponte sono fermi in piedi, in posa quasi ieratica, i membri, tutti africani, dell’equipaggio. Alcuni di loro stringono arpioni o mezzi marinai. “Fra’, ma chiste chi so’?” chiede uno dei due spazzini all’altro, visibilmente preoccupato. “E chi adda esse? È ’a varca ’e Giuvanne Bisogno!” “Aah, m’ero pigliato ’na paura! Me penzavo ch’era ’n invasione...” conclude il collega, con un mezzo sorriso di scusa per quello sciocco timore. Come se non bastassero le tensioni che si stanno acuendo in paese, interviene un altro, fenomenale evento a creare scompiglio: tornando a casa con la figlia, Filomena Capo nota su un muro una macchia scura, nella quale crede di riconoscere il volto di Cristo; e in effetti, la somiglianza con l’iconografia classica di Gesù è notevole. In pochi minuti si crea intorno all’immagine un discreto assembramento di persone. Non solo nessuno solleva dubbi sull’origine soprannaturale del fenomeno, ma se ne individua immediatamente la motivazione: la collera divina per l’imminente cessione della chiesa. Inutili sono i tentativi di don Antonio, prontamente accorso sul posto, di richiamare la popolazione alla prudenza; egli viene anzi sbeffeggiato e additato alla pubblica riprovazione. Se serpeggia qualche dubbio è di tutt’altra natura, come nel caso di un uomo che si avvicina al muro, caccia dal taschino della giacca un paio di occhiali, li inforca con calma ed eleganza, e osserva attentamente la macchia: “Ma perché, scusate, non può essere Padre Pio?” Nel giro di pochi giorni, intorno all’immagine si sviluppa una diffusa devozione, fatta di pellegrini, piccolo commercio, immaginette prontamente sfornate dal fotografo Magliulo. Due uomini si

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cimentano perfino in una surreale disputa teologica per avvalorare o negare il miracolo: “Io non ho capito: è comparsa la Madonna a Lourdes e a Fatima, e non può comparire Gesù Cristo qua?” “Ma che significa? Quelli so’ posti importanti! Hai visto quanta gente ci va?” “Eh, ma la gente ci va perché ci sono state le apparizioni... Prima erano posti più sperduti di qua!” “Sì, però là la Madonna si è fatta vedere personalmente, ha parlato, ha detto i segreti, ha fatto ’nu sacc’ ’e miracule! Cca che tenimmo? ’Na faccia ca nun se vere manco bbona...” “Ehh! Ma chella mo’ è asciuta, ce vuo’ da’ ’o tiempo?!” Ovviamente, non poteva mancare la televisione. La presenza della giornalista e della telecamera scatena i più incontrollabili istinti: ognuno dice la sua, con esiti inevitabilmente comici. Si fa vedere anche il sindaco, per una irrinunciabile passerella, anche se, intervistato dalla giornalista sul futuro della chiesa, se ne lava pomposamente le mani: “Noi non interveniamo negli affari interni del Vaticano.” Qualcuno approfitta della presenza del sindaco per sottoporgli una ragionevole lamentela: “Signor sindaco, dovete far togliere quel bidone dell’immondizia da là vicino, che è un’indecenza e un disonore per il paese che il volto di Gesù deve stare vicino alla monnezza.” Prima che il sindaco possa rispondere, però, l’uomo viene rimbeccato da un altro passante: “Ma che staje ricenno? Se Gesù sta là, vuol dire che a lui gli andava bene così, se no poteva comparire pure da un’altra parte dove non c’era l’immondizia. Signor sindaco, non lo date retta a questo qua: l’immondizia deve restare al posto suo. Tutto deve restare al posto suo: non si deve toccare niente! È chiaro?” Insomma, il caos regna sovrano. Tommaso Di Luccio, che si aggira nei dintorni, approfitta della presenza dei media per pubblicizzare l’ormai prossima rievocazione storica. In questo clima di generale eccitazione, è facile trovare dei capri espiatori: due ignari marocchini che, attratti dalla folla, si erano avvicinati per vendere fazzoletti e CD pirata, vengono cacciati via con urla e spintoni. Oltre ad occuparsi del versante legale in senso stretto, l’avvocato Peluso esplora altre strade per fare pressione sull’opinione pubblica; ad esempio, pubblicizzare con una mostra fotografica il valore storico che la chiesa di San Ciro possiede per la comunità locale. A questo scopo, ottiene la collaborazione del fotografo Gerardo Magliulo, che insieme all’anziano padre costituisce la memoria visiva del paese: la loro cantina, infatti, oltre a salumi, bottiglie di pomodori e vecchie biciclette arrugginite, conserva numerosi scatoloni contenenti migliaia di foto di ogni tipo, scattate in paese negli ultimi sessant’anni. I magrebini, intanto, hanno fiutato il pericolo rappresentato da quella macchia enigmatica e corrono ai ripari. Con molta prudenza contattano Giuliana e le chiedono di fare un’indagine: vorrebbero che lei certificasse, grazie alla sua autorità scientifica, quello che ai loro occhi è ovvio, cioè che non si tratta affatto di un miracolo. Inizialmente, Giuliana rifiuta di collaborare: non ha nessuna intenzione di mettersi al servizio di una parte contro l’altra, ma quando si rende conto del culto che si sta sviluppando e di come questo venga strumentalmente utilizzato contro i magrebini, comincia a cambiare idea. Una sera, Giuliana esce di casa e va sul luogo dell’apparizione, accompagnata da due giovani arabi. Con grande circospezione procede a una sommaria analisi con acidi, tamponi e bisturi, in seguito alla quale rileva la presenza di un più vasto murale sottostante. Dall’oscurità della notte viene fuori Gabriele, che si complimenta ironicamente con Giuliana per la scoperta. Alla sorpresa della donna nel vederlo lì, Gabriele le risponde che l’ha seguita, insospettito da quell’uscita notturna dopo aver udito voci di suoi contatti con la comunità islamica. Adesso, se vuole conoscere tutta la verità, non deve far altro che salire a casa sua. Giuliana accetta, mentre i suoi accompagnatori vanno via felici. Le dita di Gabriele sciolgono i lacci che chiudono un grande e vecchio raccoglitore per disegni.

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Giuliana lo osserva con curiosità. Con mano veloce, Gabriele sfoglia i numerosi cartoncini, risalenti a oltre dieci anni, quando era un giovane “rivoluzionario” e dipingeva cose molto diverse dalla sua ultima produzione “turistica”. Finalmente trova quello che sta cercando. Con aria misteriosa, lo nasconde alla vista di Giuliana: “Ecco l’uomo che i nostri compaesani stanno adorando da una settimana!” Le mostra il disegno, che raffigura un busto di Che Guevara attorniato da combattenti e simboli della rivoluzione cubana. Giuliana è sbalordita e divertita da quel gigantesco e paradossale equivoco: “Che Guevara?! Che Guevara?!” continua a ripetere fra sé, ancora incredula. Il problema, le ricorda Gabriele, sarà ora comunicarlo a suo padre. L’avvocato Peluso, com’era prevedibile, non la prende affatto bene: suo figlio e la sua inquilina hanno tramato contro di lui e la sua causa! Con quale coraggio potrà ora affrontare i suoi confratelli? Si arriva così a una resa dei conti fra padre e figlio: l’avvocato chiede lumi su quel murale di cui non sapeva nulla, Gabriele gli risponde che il dipinto fu subito coperto con l’intonaco dai ragazzi della confraternita dell’epoca, che non gli dissero niente per risparmiargli un dispiacere. Già che c’è, Gabriele rinfaccia al padre questa mania d’intonacare che impazza in paese, come si fa con le case delle vacanze, per fare buona impressione sui turisti: è un po’ - conclude sarcasticamente - come nascondere la polvere sotto il tappeto. Ma l’avvocato non ci sta, e ricorda al figlio che non solo quelli che hanno le case campano grazie ai turisti: ci sono anche quelli che dipingono gli stessi quadri ogni anno e fanno vedere quant’è bella e poetica Roccafredda! Anche loro, in fondo, non fanno altro che buttare la polvere sotto il tappeto. Gabriele accusa il colpo e va via col cuore gonfio di un’indicibile amarezza. Non appena la notizia viene resa pubblica, lo sconforto dilaga fra i credenti che, in un attimo, si sono trovati privi di una formidabile arma di pressione sulla Curia e di una non trascurabile fonte di ricchezza per il paese. Nel giro di pochi giorni, infatti, il pellegrinaggio si interrompe, le bancarelle scompaiono, e l’immagine sul muro rimane sconsolatamente sola e abbandonata da tutti, ad eccezione di qualche irriducibile che attribuisce l’improvvisa marcia indietro di Gaspare a un fantomatico complotto dei “poteri forti”. Il signor Salzano sosta sulla soglia della salumeria rivolgendo sguardi malinconici alla strada deserta, mentre nel negozio dei Magliulo le gigantografie del volto sono in vendita a prezzi scontatissimi. Durante una battuta di pesca, Gaetano sfoga la tensione di quei giorni su Abdullah, suo compagno di lavoro: mentre l’arabo è inginocchiato in preghiera sul suo tappetino, Gaetano dà un ampio giro di timone, impedendogli di pregare rivolto alla Mecca. La reazione di Abdullah, imbufalito anche per le risate di scherno, è veemente, e viene fermata a fatica dai suoi colleghi. Gaspare, intanto, continua imperterrito la sua battaglia. Prima prova a portare don Antonio dalla sua parte, ma invano: il parroco, pur imbarazzato da quella situazione che lo vede pronto a disfarsi della “sua” chiesa, non indietreggia di un millimetro. È allora che Gaspare, visti fallire i suoi argomenti professionali, attacca don Antonio con un ricordo personale: “Don Anto’, voi non c’eravate ancora, ma io in questa chiesa mi sono sposato!” C’è poco da rispondere e, infatti, don Antonio resta silenzioso e turbato. Gaspare Peluso, però, non è tipo da perdersi d’animo e va a intervistare le signore Capo, fedeli custodi delle vicende della chiesa, per aggiungere delle testimonianze “storiche” al suo dossier. Con un microfono puntato sulla bocca, l’anziana Filomena dà inizio al suo racconto, lento e regolare come una filastrocca: “Mi chiamo Migliore Filomena vedova Capo. Sono nata il quattordici aprile del millenovecentoventidue. Sono stata battezzata nella chiesa di San Ciro, e ci ho fatto pure la Prima Comunione, la Cresima... e poi mi sono pure sposata, il ventisette agosto millenovecentoquarantuno, con Capo Ferdinando. Da trent’anni abito di fronte alla chiesa e vado

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a messa ogni mattina... Quando ero più giovane, davo sempre una mano al parroco a pulirla. Mo’ che so’ vecchia...” Filomena si stringe nelle spalle, come chi non sappia cos’altro aggiungere e, col permesso di Gaspare, si avvia verso la chiesa. Proprio allora, osservando l’andatura sofferente della donna, Gaspare ha un’intuizione geniale: invia alla Curia una richiesta di sospensione, affermando che l’ottantenne Filomena, a causa di gravi e croniche difficoltà di deambulazione, non potrebbe autonomamente raggiungere la lontana chiesa di Santa Sofia per partecipare alle funzioni liturgiche, con grave pregiudizio per la salute della sua anima... I tre membri più combattivi della confraternita, Gaetano in testa, diffidano dei tempi e dei modi incerti della giustizia e intendono prendere un’iniziativa autonoma, certamente poco elegante, ma destinata a risolvere il problema alla radice: con un blitz notturno vorrebbero contaminare con dei maiali l’area della chiesa. La proposta parte da Gaetano, che la giustifica a modo suo: “Praticamente, questi non possono fare una moschea dove ci sono passati dei maiali, hai capito? È un fatto loro di religione. L’ha detto la televisione!” L’idea di ricorrere alle maniere forti è approvata da Tommaso, che la benedice con una colta citazione storica: “Quando ci fu l’assedio dei piemontesi a Gaeta, a un certo punto gli ufficiali borbonici andarono dal re Francesco II, e dissero così: Maestà, maestà, siamo rimasti senza munizioni! Vulite sape’ che rispunnette ’o rre? Facite ’a faccia feroce!” Mentre matura questo progetto blasfemo, l’idea dell’avvocato Peluso sortisce gli effetti sperati: la Curia gli comunica che, in seguito all’istanza eccetera eccetera, vista la situazione della signora eccetera eccetera, si decide di sospendere l’iter della cessione in attesa di ulteriori accertamenti. Con mezzo paese sulle spine per vedere come andrà a finire, Gabriele e Giuliana si godono una splendida giornata di sole sulla spiaggia. Giuliana è allegra e impetuosa, ha una voglia matta di farsi un bagno. Gabriele è troppo pigro per starle dietro, ma segue con gli occhi la sua figura leggera e aggraziata correre sulla sabbia, scomparire nell’acqua e riemergere scintillante di luce e di energia. “Quale dio benigno me l’avrà mandata?” si chiede Gabriele. Nel pieno di questa beatitudine, risuona il trillo di un promemoria sul cellulare di Giuliana. Gabriele lo legge: “Riferire a zio.” Quando Giuliana esce dall’acqua, Gabriele l’accoglie con un sorriso furbetto: “Sì, brava... Tu vai a farti il bagno, e ti dimentichi di riferire a tuo zio!” Giuliana sobbalza, come per uno spavento. È un attimo, poi si riprende: “Ah, già! Ha suonato il promemoria?” Gabriele è colpito da quella reazione, e le chiede se c’è qualcosa che non va. Giuliana prima s’inventa beghe familiari, questioni di eredità in cui lei si troverebbe a fare da paciere, poi è presa dal rimorso di aver mentito, e confessa a Gabriele di essere la nipote del vescovo e che insomma, ecco... lo zio le chiede regolarmente informazioni sull’evolversi della situazione in paese. Gabriele non la prende bene, e le chiede perché gliel’abbia tenuto nascosto; la risposta, sincera, è che si vergognava di passare per una raccomandata, e poi non gli dice quasi niente, allo zio, perché non le piace fare la spia. Gabriele, però, sospetta un complotto: forse suo padre aveva ragione quando l’ha messo in guardia su di lei! Giuliana è sbigottita e offesa per le aspre, ingenerose parole di Gabriele; in un attimo, raccoglie le sue cose e corre via, lasciando Gabriele a meditare cupamente su quella inattesa rivelazione. La lotta sotterranea fra le due comunità si arricchisce di un nuovo, importante episodio: Mohammed Abd Al-Kebir si presenta a Tommaso e gli chiede un colloquio in un luogo tranquillo e appartato. Eccoli qui, dunque, faccia a faccia in fondo al molo: il custode delle tradizioni locali e il raffinato architetto arabo. Tanto raffinato, bisogna dire, quanto scaltro. Mohammed, infatti, ha tutta l’aria di voler “incastrare” il povero Tommaso facendo leva sul suo orgoglio di storico. Il discorso di Mohammed è il seguente: durante la sua visita alla chiesa di San Ciro, ha notato due strane coincidenze: innanzitutto, dai rilevamenti fatti con la bussola, risulta che l’abside è rivolta a sud-est, cioè pressappoco in direzione della Mecca; inoltre, la presenza di un pozzo è compatibile

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con la necessità di avere acqua nelle moschee per le abluzioni. Tommaso comincia a capire dove Mohammed voglia andare a parare, e cerca di smorzare subito l’effetto di quelle insinuazioni. Che la Mecca sia a sud-est, non vuol dire proprio niente: “A sud-est c’è anche Scalea! Che c’entra la Mecca?” Quanto al pozzo: “È un vecchio pozzo di acqua miracolosa. Una volta ci venivano un sacco di pellegrini, ma don Antonio ha voluto togliere tutto di mezzo...” Mohammed, però, ha un asso nella manica: un suo amico che lavora all’Archivio di Stato a Napoli ha fatto qualche ricerca, scoprendo un documento dell’anno 1185 con il quale il signore locale donava un terreno al vescovo. Questo signore si dice orgoglioso di aver strappato dopo molti anni agli infedeli musulmani un pezzo di terra che, per una serie di indicazioni inequivocabili, è sicuramente quello che oggi è la località San Ciro. La sua soddisfazione è ancora maggiore per il fatto di portare in dono anche una moschea, che gli infedeli avevano eretto in quella località e che il vescovo potrà facilmente, e a maggior gloria di Dio, trasformare in una chiesa. Con un plateale colpo di teatro, Mohammed tira fuori dalla borsa il saggio Roccafredda nella storia, e gli legge quanto ha scritto a proposito della chiesa di San Ciro: “Agli inizi del Settecento, in un’area da sempre abbandonata, fu edificata una chiesa, che fu dedicata a San Ciro, eccetera eccetera. Un’area da sempre abbandonata, lei dice. Eppure quel vostro antenato ci ricorda che già molti secoli prima, intorno alla moschea, esisteva un fiorente mercato, e case, e strutture militari.” Tommaso comincia a innervosirsi: “Ma voi che volete da me? Se siete così sicuro, perché non ci scrivete un libro pure voi?” La risposta di Mohammed è subdolamente efficace: “Pensate che qualcuno in questo paese si può interessare di quello che è successo mille anni fa? No! Solo voi avete questa sensibilità... Se questa storia viene fuori, sarà solo la vostra autorità di storico a soffrirne.” Tommaso, pur tentando di conservare la calma, appare atterrito dall’idea che questa eventualità possa realizzarsi. Dopo il bastone, però, Mohammed usa la carota, garantendo a Tommaso il suo impegno personale e quello della comunità magrebina affinché la moschea possa essere inclusa negli itinerari turistici di Roccafredda. Rinchiuso nella cantina dei Magliulo, Gaspare Peluso sta selezionando le foto per la mostra. Ad un certo punto, s’imbatte in uno scatolone con la scritta: “Matrimoni 1968”. Dopo un attimo di incertezza lo apre e scarta le foto con grande rapidità, come se avesse un obiettivo preciso. Ed eccole, infatti, le foto del suo matrimonio. Sfocate, o con un’inquadratura poco felice, foto che non aveva mai conosciuto, espressioni ignote di quel giorno, che osserva ad una ad una con crescente malinconia. Un nuovo, inaspettato evento manda a monte i piani dell’avvocato: la morte di Filomena, fulminata da un arresto cardiaco nel bel mezzo della stradina che separa casa sua dalla chiesa. Gaspare, con scarsa sensibilità, non nasconde la sua irritazione nell’apprendere la notizia: “Adesso stiamo proprio a posto! Il codice canonico sembra fatto apposta per far fare ai vescovi quello che vogliono. Il Sindaco se n’è lavato le mani. Mobilitiamo la gente, ma pare che facciamo solo folclore. Finalmente avevo trovato un modo di fermarli, e questa che fa? Si fa venire un colpo proprio adesso?! Ma vedi tu se si può andare avanti così!” Al funerale di Filomena vediamo per la prima volta la chiesa di San Ciro piena di fedeli. Ma c’è aria di smobilitazione, e l’omelia di don Antonio, tutta incentrata ambiguamente sulla necessità di accettare la morte e la perdita, sembra voler dire agli ultimi oppositori: “Rassegnatevi!” È giunto il momento dell’inaugurazione della mostra fotografica, intitolata “S. Ciro. Ieri, oggi, domani”, dove accorre mezzo paese, con la significativa assenza di don Antonio. Fra un boccone e l’altro del ricco buffet, Gaetano incita Umberto e Tommaso a mettere in pratica l’idea dei maiali. Tommaso, memore della minaccia di Mohammed, cerca di dissuaderlo, lasciando sbalordito Gaetano, che gli rinfaccia di essere stato proprio lui a consigliare di “fare la faccia feroce”. A togliere Tommaso da quell’imbarazzante situazione arriva Gabriele, che gli ha portato un bozzetto per il manifesto della rappresentazione. Si tratta di un coloratissimo cartoncino ad acquerello, che raffigura, in uno stile bidimensionale quasi naïf, uno scorcio della spiaggia con una tartana quasi a riva, sulla quale

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si vede un moro a mezzo busto. Di fronte a lui, sulla spiaggia, un pescatore che chiama l’allarme. Dalla sua bocca esce l’unica parola “Mammaliturchi!” nello stile dell’Annunciazione di Simone Martini. La reazione di Tommaso è di scarso entusiasmo, e quando Gabriele, cambiando discorso, butta lì l’idea di far interpretare i turchi ai magrebini, quasi lo prende per pazzo: “Ma come? E secondo voi io metto una cosa così importante nelle mani di gente che ci troverebbe più gusto a rovinarci la festa che a farla riuscire bene?” Gabriele non se la prende troppo, anche perché la sua attenzione è attirata dalla presenza in sala di Giuliana, che è ostentatamente ignorata dagli altri visitatori a causa della sua connivenza con il “nemico”. Nonostante la reciproca indifferenza che ha fatto seguito alla litigata sulla spiaggia, l’ostilità che la circonda risveglia in lui un senso di simpatia e di solidarietà. Così, lasciato Tommaso, Gabriele le si avvicina cautamente. Parlando del più e del meno, la residua animosità si stempera, e Gabriele si diverte a spiegare a Giuliana che dietro l’apparente bonarietà dei presenti si nascondono intenti bellicosi. Poi le indica una vecchia foto nella quale uomini e donne degli anni ’40 sembrano fissare severamente l’osservatore: “Vedi, ci sono gli antenati che li guardano e li giudicano, e non possono fare brutte figure...” Avendo ristabilito un clima amichevole con Giuliana, Gabriele ne approfitta per invitarla a casa sua a vedere i suoi quadri. “E tu faresti entrare a casa tua una spia raccomandata?” chiede Giuliana con sarcasmo. Gabriele è troppo felice per non seppellire quella vecchia polemica: “Diciamo che come spia ti assolvo per insufficienza di prove. Come raccomandata... siamo in due! Secondo te, come mai faccio il supplente a scuola? Tutto merito di papà!” Più che mai determinato a salvare la propria reputazione, e spinto all’azione dal pericolo imminente, Tommaso telefona a don Antonio con voce contraffatta: vuole avvisarlo che quella notte qualcuno tenterà di contaminare il suolo della chiesa. Don Antonio non capisce bene, e domanda chi stia parlando; ma Tommaso riattacca, lasciando il parroco stupito e preoccupato. È notte. Gaetano, Umberto e Pasquale conducono i maiali, legati a improvvisati guinzagli, verso la chiesa, ma sarebbe più corretto dire che sono i maiali a trascinarli. Anche fra di loro, però, si fanno strada dubbi di tipo teologico: “Ma si nuje jammo senza ce fa vere’, chille po’ comme fanno a sape’ ca so’ passate ’e maiale?” “E che ne saccio! Si vedono le impronte, rimane la puzza, qualche cosa succede...” “Qua secondo me ce vuleva ’o fotografo!” Quando passano di fianco alla casa del giovane Yeslam, il gruppetto ha un piccolo incidente: uno dei maiali viene attratto da qualcosa nella terra che circonda il sentiero, e con la massima indifferenza vi si inoltra, trascinando con sé il malcapitato Umberto, che viene catapultato e trascinato sul terreno molle e umido. Umberto, però, non molla la presa, con stoico senso del dovere. Yeslam, che per puro caso era affacciato alla finestra, comprende immediatamente la situazione e dà l’allarme con una serie di telefonate. Quando l’impavido ma sempre più confuso drappello giunge a un centinaio di metri dall’obbiettivo, si trova davanti un bellicoso muro umano formato da don Antonio in vestaglia e da una decina di magrebini in pigiama. Don Antonio gli si fa incontro e decide di affrontarli con l’arma del sarcasmo: “Buonasera, signori! Avete portato a passeggio il cane?” Poi, a Umberto: “E tu? Ti sei andato a fare i fanghi a Contursi?” I tre ardimentosi, che non erano preparati a trovare resistenza, e tanto meno pensavano di dover rendere conto a don Antonio della loro brillante idea, dopo aver biascicato qualche debole giustificazione, finiscono per tornarsene a casa con la coda fra le gambe, inseguiti dalle grida di giubilo dei magrebini. Non c’è niente di meglio, per liberarsi dallo stress, di una bella pescata. Così la pensano, almeno, Gaspare e Tommaso, seduti sugli scogli del molo di sovrafflutto e concentratissimi sui movimenti dei loro galleggianti. Tommaso, però, non è per niente tranquillo: si vede lontano un miglio che

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deve liberarsi di un peso; e infatti, dopo un bel sospiro, comunica a Gaspare la decisione della confraternita di rinunciare all’azione legale, visto l’isolamento nel quale si sono cacciati (ma certo lo stesso Tommaso non dev’essere stato contrario: sappiamo che aveva ottimi motivi per allentare la tensione). Gaspare un po’ se l’aspettava, e quasi non batte ciglio. Tommaso va ancora oltre, col suo riconosciuto talento visionario: “Avvoca’, diciamoci la verità: a livello di attrazione turistica, una chiesa che diventa moschea comunque è una cosa che funziona, è sempre una cosa a livello nazionale...” E poi, subdolamente: “Che poi ultimamente tengo quest’idea in testa, che magari ci sono già state delle moschee a Roccafredda, nei tempi andati. Chi lo sa... Prima o poi mi devo mettere a fare qualche ricerca...” Gaspare continua a non dare segni di interesse, e allora Tommaso cerca di rincuorarlo annunciandogli che in compenso è stato deciso all’unanimità di affidargli l’importante ruolo di “notaro” nella rappresentazione storica. “Oh-oh, che onore!” risponde Gaspare, che a stento trattiene la sua irritazione. Proprio quando le cose sembrano volgere al meglio per i magrebini, viene messa in atto la loro rappresaglia alla spedizione suina. È il 31 maggio e Yeslam, che lavora nella rinomata gelateria “Antichi sapori saraceni”, fa in modo da sostituire lo zucchero con il sale, rovinando la festa a tutti quelli che, in base a una consolidata tradizione, si affollano all’apertura di mezzanotte per celebrare solennemente la fine di gravosi fioretti. Allarmata da questa pericolosa escalation, Giuliana decide di fare qualcosa, e si rivolge a Gabriele per tentare un’azione diplomatica. Pensa e ripensa, i due giovani decidono di organizzare un summit fra una delegazione dei magrebini e una della confraternita. Certo, non è facile convincere le parti in causa, esacerbate da un mese di scontri, ma la determinazione di Gabriele e Giuliana è più forte di ogni risentimento. L’incontro si tiene alla bocciofila, in campo neutro. Le due piccole delegazioni si fronteggiano ai due lati di un lungo tavolo. In mezzo a loro, caraffe di limonata e stuzzichini. L’avvocato Peluso detta una serie di condizioni per rinunciare all’opposizione della sua parte: “Naturalmente, bisognerà rispettare certe regole... Per esempio, non potete svegliare la gente con l’altoparlante! Però il vostro... la persona che chiama... lì in alto...” Abdullah gli suggerisce il termine esatto: “Il muezzin.” “Ecco: il muezzin, se vuole, può chiamare a voce...” Gaspare pretende ancora che le scarpe non siano lasciate sul sagrato, per un’elementare questione di decoro. Abdullah risponde, con una punta di veleno, che in nessuna moschea le scarpe si tengono fuori; anche perché, se piove, si bagnano! Su richiesta di Tommaso, viene sancita anche la disponibilità dei magrebini a consentire l’accesso dei turisti alla moschea. Concluso l’accordo, in un’atmosfera ormai rilassata, Tommaso chiacchiera amabilmente col giovane Yeslam: “Devi sapere una cosa, che quando ero emigrato in Svizzera, noi italiani eravamo molto considerati dalle donne. Sai come dicevamo noi degli svizzeri? Che gli uomini erano ricchioni e le donne erano tutte... eh eh...” Ma la pronta risposta dell’arabo lo gela: “Ah, proprio come diciamo noi degli italiani!” Con perfetto tempismo, Giuliana ha portato a termine il suo lavoro: la statua di San Ciro è ora pronta per essere trasferita nella chiesa di Santa Sofia. Mentre don Antonio e alcuni volontari procedono al trasloco degli arredi sacri, Giuliana si ferma a salutarlo per l’ultima volta e scopre che il parroco non tornerà a lavorare in Curia: il vescovo l’ha addirittura “declassato”, trasferendolo nella parrocchia di un paesino sperduto, dove non avrà neanche un pianoforte scordato a disposizione, a meditare sui doveri di un sacerdote. In realtà, gira voce che il vescovo sia stato costretto a sacrificarlo per non farsi altri nemici. Giuliana è sinceramente dispiaciuta e risponde di getto che secondo lei il vescovo ci ripenserà. Don Antonio le risponde con amara ironia: “È più facile che un cammello...”

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In chiesa, intanto, approfittando del trambusto, il sagrestano compie un ultimo gesto di “resistenza”: in una piccola nicchia scavata sotto una mattonella seppellisce un crocifisso... L’ultima notte della sua permanenza a Roccafredda, don Antonio ha un incubo: il pozzo è straripato e continua a buttare acqua, allagando la chiesa fino a un metro d’altezza. Don Antonio tenta faticosamente di avanzare, nell’acqua che gli arriva al petto. Grosse bolle d’acqua fuoriescono dalla superficie nel punto in cui si trova il pozzo. Per andare avanti, è costretto a sbottonarsi la tonaca, abbandonandola al suo destino e restando in maglietta e pantaloni. Il catino, intanto, si stacca dal suo supporto e comincia a galleggiare. Don Antonio lo vede e tenta di raggiungerlo quasi nuotando. Il suo sguardo è inebetito, dalle sue labbra escono solo implorazioni sconnesse. Qua e là galleggiano alcuni oggetti: candele, fiori... Nella foga di bagnarsi le dita nell’acqua benedetta, quasi a chiedere la protezione divina, don Antonio rovescia il catino, che affonda barcollando, facendo disperdere il suo purissimo contenuto nel mare magnum del profano. Egli stesso, perduto l’equilibrio, finisce con la faccia nell’acqua e annaspa pietosamente. Poco lontano, anche la tonaca affonda: ormai è soltanto una grossa macchia, nera e minacciosa. Nella canonica desolatamente vuota, ormai sgombra delle sue cose, don Antonio viene risvegliato dal trillo del cellulare: è il segretario del vescovo, che gli annuncia che Sua Eccellenza lo invita a riprendere il suo vecchio posto in Curia. Terminata la telefonata, don Antonio resta con lo sguardo perso nel vuoto: sta evidentemente ripensando alle parole “profetiche” di Giuliana. A casa di Gabriele cinque tavole dipinte sono sparse nel salone. Con grande cautela, Gabriele le incerniera insieme, l’una affianco all’altra. Con lui c’è Giuliana, che osserva con attenzione il suo ultimo dipinto: da sinistra a destra, attraverso una serie di figure intermedie, si va dal volto di Cristo a quello di Che Guevara, passando per l’immagine apparsa sul muro. Gabriele si fa un po’ indietro per rimirare il suo capolavoro, un tardo esempio di pop art... Giuliana sembra apprezzare, e Gabriele ne approfitta per tentare un goffo approccio. Giuliana lo respinge educatamente e si toglie dall’imbarazzo suggerendogli il nome di un gallerista di Roma che sta organizzando una mostra di artisti contemporanei su soggetti sacri. Gabriele ringrazia, ma riesce a strapparle la promessa che si rivedranno fra un mese, quando avrà luogo la rievocazione in costume. Un nutrito gruppo di magrebini si ritrova a casa di Abdullah per festeggiare l’accordo e per ascoltare, con evidente emozione, un telegiornale marocchino che comunica la lieta notizia, con tanto di immagini amatoriali della chiesa e di don Antonio, girate tempo prima da Yeslam. La giornalista, però, dà una versione un po’ faziosa dei fatti: “Si tratta di un’antica moschea che finalmente torna all’Islam dopo una lunga usurpazione da parte della chiesa cattolica.” La confraternita ha deciso, su proposta di Tommaso, di destinare il fondo cassa, creato per le spese dell’avvocato Peluso, ai preparativi per la rievocazione storica. Nella sede, gremita come non mai, sono tutti intenti ad ascoltare il dottor Iavazzo, rappresentante della ditta Magic Lights di Milano, che è venuto a illustrare tutte le meravigliose possibilità della tecnologia laser applicata all’intrattenimento e allo spettacolo... Sul muro del miracolo, abbandonato come non mai, sono comparse qua e là altre macchie, di diversi colori: sono le altre parti del murale che riaffiorano. Lì di fronte, Gabriele osserva malinconicamente i resti della sua opera, fumando una sigaretta. Poi, lentamente, butta via la cicca, risale sulla sua bicicletta e si allontana. È passato un mese. Tutta Roccafredda e numerosi turisti si preparano a dare vita alla rappresentazione. I muri pullulano di locandine in bianco e nero che pubblicizzano la manifestazione, raffigu-

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ranti uno scontro all’arma bianca fra un saraceno e un soldato locale, mentre Santa Sofia veglia dall’alto. Lo stile è quello realistico e un po’ tetro dei fumetti di serie B. Certamente non l’ha disegnato Gabriele, il quale, in compagnia di Giuliana, sta prendendo beatamente il sole sulla spiaggia. Stavolta, però, quando Giuliana si butta in acqua, anche Gabriele si tuffa. Nella zona trucco, alcune comparse stanno per essere trasformati in saraceni. Fra loro c’è anche Gaetano, che sta assumendo il temibile aspetto di un turco e, per questo suo “passaggio di campo”, viene ferocemente preso in giro dai suoi amici. Quando vede avvicinarsi Tommaso, Gaetano si ricorda di una sua vecchia curiosità e gli domanda come sia finita la battaglia di Gaeta. “E secondo te come poteva finire? Hanno vinto i piemontesi, e hanno fatto l’unità d’Italia!” Passa un venditore di palloncini: sui quaranta, barba ispida, capelli pochi e unti, camuffati con un riporto imbarazzante, sguardo afflitto. Tommaso, passandogli vicino, inorridisce e lo apostrofa platealmente: “Miche’, ma ti pare il modo di andare vendendo palloncini? E tu così i bambini li fai scappare! Aggiustate ’nu poco ’sta faccia, faje ’nu sorriso... Nun è muorto ancora nisciuno!” Poi lo prende per un braccio, lo affida alle cure di una truccatrice e si allontana sbuffando. Ah, com’è difficile fare il turismo con gente che fino a ieri pascolava le pecore... Siamo ora nel pieno della rappresentazione. L’avvocato Peluso interpreta il “notaro”, capo della delegazione che parlamenta sulla spiaggia con gli invasori, il cui portavoce è un emozionato Gaetano, che finisce per confondersi nel mezzo del suo tronfio e minaccioso discorso: “Il pascià mio signore ha bisogno di tutto quello che... delle ricchezze di questo paese...” “Noi possiamo concedervi venti barili di acciughe salate, venti barili di acqua dolce delle nostre fonti, cento pezzi di stoffa pregiata e alcuni preziosi oggetti d’oro per il vostro onoratissimo pascià.” “Come vi permettete di offrirci questa miseria? Noi siamo tanti di noi... e abbiamo tante di quelle armi che se vogliamo vi possiamo ammazzare a tutti quanti uno a uno!” In preda all’imbarazzo per le proprie dimenticanze, Gaetano si passa una mano sul viso e si gratta la barba. Ma così il colore nero che gli è stato applicato viene via, rovinandogli il trucco. “Questo significa che non volete proprio ragionare! E allora a questo punto io vado a dire al pascià che gli uomini di questo vile paese... e le donne invece saranno... dai nostri soldati!” Tommaso cerca di rimediare al disastro intervenendo col megafono: “Purtroppo l’ambasceria cittadina non ha ottenuto i risultati voluti. I crudeli saraceni sono irremovibili: vogliono una vittoria completa e senza condizioni. I nostri concittadini tornano mestamente in paese per comunicare la brutta notizia e per tentare di organizzare la resistenza.” Poco più tardi, sul castello, gli eroici difensori si affacciano tra i merli per colpire gl’invasori, fra i quali spicca Gabriele. Anche le donne, in sensuali abiti da castellane, fanno la loro parte, lanciando ai nemici palline di gommapiuma. Fra loro, Giuliana si distingue come una delle più battagliere. I soldati, intanto, si passano secchi di acqua tiepida e li versano sui saraceni che tentano la scalata. I malcapitati che vengono colpiti urlano come se si trattasse di olio bollente. Gabriele riesce ad arrivare in cima, e con gli occhi cerca Giuliana. Nel caos della battaglia, i loro sguardi s’incrociano, carichi di significati nuovi. Gabriele si fa coraggio e, forte del suo ruolo d’invasore, la trascina in un angolo e la bacia. Giuliana non può far altro che cedere alla brutalità del moro. Ecco il momento tanto atteso: con i saraceni già trionfanti nelle strade del paese, dediti al saccheggio e alla violenza, con la resistenza armata già sconfitta, sembrerebbe non esserci più scampo. Eppure, annunciata da una musica celestiale, una luce squarcia il cielo notturno; ed ecco apparire (dopo qualche incertezza) la maestosa figura di Santa Sofia. L’eccitata meraviglia degli spettatori scatena un lunghissimo applauso. Questo momento segna l’inizio della ritirata dei brutali saraceni: eccone alcuni che guardano terrorizzati verso il cielo, cercando di difendersi con le braccia dall’invincibile nemico celeste; ecco la fuga verso la spiaggia, i sacchi lasciati cadere per terra; ecco la riscossa degli uomini superstiti, nei

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quali la Santa ha infuso e moltiplicato il coraggio; ecco, infine, le barche che vengono rimesse in acqua e si allontanano precipitosamente. Santa Sofia, compiuto il miracolo, si “spegne” e lascia il posto a più prosaici fuochi d’artificio. Annetta Capo si sta godendo, seduta in veranda con un plaid sulle gambe, lo spettacolo dei fuochi lontani. Improvvisamente, nota un furgoncino fermo davanti alla chiesa (il fragore dei fuochi gliene ha nascosto l’arrivo). Dal furgoncino vengono fuori in silenzio cinque arabi, fra i quali Abdullah, che precede tutti. Da una tasca, Abdullah estrae una chiave, con la quale apre il portale, mentre i suoi confratelli scaricano dei tappeti. In pochi istanti l’intero gruppetto entra nella chiesa vuota. Le luci vengono accese: vediamo stagliarsi in controluce le silhouette dei nuovi inquilini della chiesamoschea. S’intravedono, resi splendenti da una luce quasi irreale, gli elementi architettonici e di arredo tipici di una moschea: il mihrab, il minbar... Uno di loro torna fuori e rientra carico di altri due tappeti. Annetta assiste impietrita a questa scena finché, incapace di reggere a tanto strazio, si alza, ripiega con cura il plaid e rientra in casa, chiudendo silenziosamente la porta. La sagoma del campanile si staglia malinconica contro una brillante mezzaluna. Giunge infine l’alba di un nuovo giorno a Roccafredda. In paese rimangono le tracce di una giornata eccezionale e sfiancante, che i due noti spazzini tentano faticosamente di rimuovere. Gli abitanti di Roccafredda sono andati a dormire sereni e soddisfatti per quella grande vittoria, e poco importa che sia posticcia come i baffi finti che uno degli spazzini trova per terra e indossa, felice come un bambino, mentre brandisce la sua ramazza contro l’assonnato collega. A casa propria, Gaspare dorme, steso di traverso sul letto, ancora vestito da notaro. La stanchezza non gli ha dato il tempo di spogliarsi e mettersi sotto le lenzuola: si è addormentato mentre riguardava le foto di famiglia, che infatti sono sparse sul letto e sembrano vegliare sul suo sonno. A casa di Gabriele, Gabriele e Giuliana sono nudi a letto. Dormono beatamente dopo aver fatto l’amore, i loro corpi appena rischiarati dalla prima luce del giorno. Nella frazione di San Ciro, la cantilenante voce di un muezzin si spande dal campanile-minareto sulle terre circostanti, incuriosendo qualche gallina, infastidendo un uccello che vola via da un albero, mentre alcuni fedeli islamici, da soli o in piccoli gruppi, si dirigono verso il luogo sacro per la prima preghiera nella nuova moschea. Gianfranco Martana, 34 anni, vive fra Salerno e Roma. Dottore di ricerca in Italianistica con una tesi su “Gli scrittori italiani e il cinema del primo Novecento”, collabora con le cattedre di Letteratura Italiana e Letterature Comparate dell’Università degli Studi di Salerno. È uno dei tre autori italiani selezionati per il progetto “Voci dell’immigrazione” promosso dal Premio Solinas. La sceneggiatura Mammaliturchi! è stata finalista al Premio Solinas 2004 ed ha ottenuto altri riconoscimenti. Il trattamento de Il mercante di uomini è stato pubblicato su Plot n. 3. Attualmente il soggetto Otello... ma non troppo è in sviluppo presso la società New Deal di Roma. Come autore e regista ha realizzato, fra gli altri, il cortometraggio Indice di frequenza (s16mm, 15’), selezionato in numerosi festival europei e trasmesso dal canale satellitare Studio Universal, e il documentario Diario italico (s16mm, 33’). In passato ha maturato esperienze nella gestione di festival del cinema (Linea d’ombra, Salerno) e nel giornalismo on-line (responsabile delle pagine italiane del portale filmfestivals.com).

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È notte. Gaetano, Umberto e Pasquale conducono i maiali, legati a improvvisati guinzagli, verso la chiesa, ma sarebbe più corretto dire che sono i maiali a trascinarli. Anche fra di loro, però, si fanno strada dubbi di tipo teologico: “Ma si nuje jammo senza ce fa vere’, chille po’ comme fanno a sape’ ca so’ passate ’e maiale?”

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TUTTO INTORNO A TE di Anna Gasco PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO

L’unico modo per inchiodare una bugiarda impenitente che ha fatto della dialettica la sua migliore arma di difesa è quello di zittirla con le sue stesse parole. Nell’era della comunicazione ipertecnologica e iperveloce non è più sufficiente, per difendere le proprie menzogne, dimostrarsi abili oratori poiché le parole, come boomerang, attraverso l’etere ci possono tornare addosso, a volte con conseguenze disastrose. Verba volant, scripta (o registrata) manent.

Il nome dell’amante che scappa detto al marito mentre fa l’amore con la moglie è un classico. Qui i ruoli si invertono e si confondono: tanto per cominciare, a tradire è lei e il nome che le scappa detto mentre fa l’amore con l’amante è quello del marito - e pare non sia neanche la prima volta! Tutto intorno a te è la storia di un autogoal. L’inconscio a volte può giocare brutti scherzi, ma è anche vero che un lapsus in un certo senso ristabilisce la verità. La giovane protagonista, nella sua appena conquistata emancipazione, scimmiotta il ruolo maschile e ne veste i panni con tutti i suoi attributi, compreso il privilegio di tenere un’amante. Ma un atto mancato è sempre indice di un conflitto latente. Quello che fa è davvero quello che vuole? In Tutto intorno a te mi sono divertita a mettere in scena il repertorio dei difetti che i cosiddetti infedeli comunemente attribuiscono al partner, il quale - va da sé - si merita di essere tradito, anzi se lo cerca. Tuttavia non è la questione del tradimento - le famose corna - che mi interessa, ma l’inganno e più ancora l’autoinganno, quella profonda e contagiosa convinzione con cui il bugiardo inveterato mente. Su cosa si regge infatti la credibilità che vantano tanti bugiardi? Sulla pervicacia con cui mentono, sull’arrogante e sfrontata ostinazione, che a volte sfiora la protervia, con cui continuano a negare anche di fronte all’evidenza, sulla fantasia che mettono in campo nell’inventare scuse, giustificare tutto, in una parola sulla loro capacità di fingere, di simulare e quindi di recitare. La protagonista di Tutto intorno a te è un’attrice nata, che fa della vita un palcoscenico. E poi c’è Luca Cordero di Montezemolo e la conferenza stampa del 1° giugno 2004: un discorso importante, ascoltato da mezza Italia, che conteneva un paio di battute notate da pochi, ma che non sono sfuggite a molte e che mi è sembrato bello e giusto immortalare in questa modesta satira di costume che è Tutto intorno a te. Sarà pure un’egocentrica immatura, una bugiardona faccia di bronzo il nostro dongiovanni in gonnella, ma almeno non corrisponde agli stereotipi triti e ritriti di donna italiana proposti da Montezemolo: tristi mogli cornute in Panda coi bambini e allegre mantenute d’antan a bordo della Ypsilon. Ma... e la donna che lavora? verrebbe da chiedere al nostro presidente della Confindustria. Anna Gasco

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I TITOLI DI TESTA (bianchi su fondo rosso) si alternano agli SMS di due cellulari che dialogano tra loro. DISPLAY CELLULARE PRIMO CELLULARE (sul display si compone un SMS) Pausa pranzo? SECONDO CELLULARE Why not? PRIMO CELLULARE Direttamente in paradiso? SECONDO CELLULARE (sul display appaiono cuoricini e faccette sorridenti) Corro, anzi volo!

1. MONOLOCALE. INTERNO GIORNO. Bacio. Lungo e appassionato. I due si separano lentamente, guardandosi negli occhi. Sono seduti su un letto, uno di fronte all’altra. Lei: sui trenta, carina, capelli corti un po’ sparati, camicia di seta sotto il tailleur classico-elegante da giovane donna in carriera. Lui: sui trenta, una testa di riccioli bruni, occhi neri dallo sguardo dolce, jeans e maglietta aderente sui pettorali, al collo un laccetto di cuoio con perline colorate. Lei inizia a spogliare lui e viceversa, con foga, continuando a guardarsi negli occhi. La camicia di seta firmata finisce a terra insieme al resto: lei è rimasta in reggiseno e slip, un completino in pizzo nero trasparente, lui in boxer ultimo grido. LEI Sei bellissimo. Lei avvicina la bocca a quella di lui. Mentre gli accarezza la nuca e lo attira a sé, un cellulare incomincia a squillare. Lei si blocca. Tende l’orecchio. LUI Non rispondere. LEI Un secondo solo. Lei balza giù dal letto e si affanna a cercare il cellulare che continua a suonare, fruga prima nelle tasche della giacca, poi nella borsa. Eccolo finalmente! Ma appena ce l’ha in mano, la suoneria tace. Seduta sul bordo del letto schiaccia un tasto per vedere di chi è la chiamata persa ma lui, arrivandole alle spalle, la abbraccia da dietro, le sfila di mano il cellulare e, senza nemmeno richiuderlo, lo posa per terra ai piedi del letto.

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LUI Non adesso. Lui si getta con tutto il peso del corpo all’indietro, tenendola avvinta con gambe e braccia. La accarezza, la tocca. Lei si rigira su di lui. Ricominciano a baciarsi. Il paradiso è un monolocale appena ristrutturato. Moquette a terra, cuscini colorati, una sedia, un minuscolo angolo cucina e un bagno. Su una parete la gigantografia di due putti che si baciano con innocenza. In un angolo una tv. Al centro della stanza un tatami a due piazze su cui è steso un futon, sopra il quale lui e lei incominciano a fare l’amore. Lei sopra, lui sotto. Sul display a forma di oblò del cellulare scorre il tempo: 13.34’.30’’ 31’’ 32’’... Oltre l’abbaino, sotto il cielo azzurro, una distesa di tetti grigi. Attutito dalla distanza, il rumore della città, del traffico, della gente che corre indaffarata, frenetica. LEI (voce fuori campo) Ah... dio che bello... ah... Angelo... sì, così, continua così... ah... quanto mi piaci... ti sento tutto... sì... sì... dai... dai... così... così... ahhhhhh! Dato l’ultimo lungo sospiro, lei si lascia ricadere languidamente su di lui. Fa per baciarlo sulla bocca, ma lui volta la testa da una parte. LEI (stupita) Che c’è? Non ti è piaciuto? LUI (freddo) Mi hai chiamato di nuovo Angelo. LEI Ma cosa dici, avrò fatto ah ah... Lui non apre bocca. LEI ... adesso una non può neanche più fare ah ah quando... LUI (gelido) Hai detto Angelo. LEI (debolmente) Perché sei dolce... (sfacciatamente) e poi perché siamo in paradiso. LUI (caustico) O perché è il nome di tuo marito?! Lei si toglie da sopra a Marco e ricade supina accanto a lui. LEI Okey scusa, scusa, scusa... non me ne sono accorta... eh dai Marco, adesso non mi mettere in croce per quello... te l’ho detto, è un riflesso condizionato, un automatismo.

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MARCO (glaciale) Ci vai ancora a letto. LEI Ti dico di no! Non c’è più niente fra noi. MARCO (con sicurezza, quasi rassegnato) Tu te lo fai. LEI Ma come te lo devo spiegare? È una storia finita. Chiusa. MARCO E allora perché continui a starci? LEI È per il bambino, lo sai benissimo. Un bambino deve sentire che ha una famiglia... MARCO Famiglia? Ma se tuo figlio non lo vedi mai! Lei si alza e si dirige verso il bagno. Marco resta coricato, a braccia conserte, sguardo fisso davanti a sé, un’espressione tutt’altro che conciliante. LEI (voce fuori campo) Che c’entra... e poi Angelo non è pronto, se lo lascio potrebbe fare un gesto disperato. E il bambino resterebbe senza padre. No, per carità. Si sente un rumore di acqua corrente. LEI (voce fuori campo) Ne abbiamo già parlato. Devi solo avere un po’ di pazienza. Lei si infila di nuovo a letto vicino a Marco. LEI (dolcemente) In fondo cosa te ne importa: io e Angelo non facciamo l’amore da quattro anni. MARCO Laura... LAURA Sì? MARCO Federico, tuo figlio... LAURA Sì?

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MARCO Ha un anno e mezzo. LAURA Ancora quella storia? Ma te lo avevo già spiegato. È stata l’unica volta in quattro anni. Ero ubriaca, era capodanno. MARCO Federico è dei pesci. LAURA E allora? MARCO (sarcastico) O la tua gravidanza è durata quindici mesi o Federico è un bambino nato molto prematuro. Un miracolo che sia sopravvissuto! LAURA Tu e la tua mania dei calcoli! E va bene non sarà stato capodanno, era una festa che non mi ricordo, ma questo che importanza ha? Mi ricordo benissimo che ero ubriaca e che ero convinta di fare l’amore con te. MARCO (torvo) Noi due non ci conoscevamo ancora. LAURA Sì, è vero... ma io ti avevo già visto! Tu questo non te lo ricordi, ma io ti avevo già visto. E non riuscivo a cancellarti dalla mente. Continuavo a sognarti e a sperare di incontrarti di nuovo. Eri diventato un’ossessione per me. Tu invece non mi avevi neanche notata. Eri lì tutto carino, circondato da tante stronzette che cercavano solo di portarti a letto, e tu ridevi, non farmici pensare... mi sta venendo fame, a te no? Senza aspettare risposta, Laura allunga un braccio, prende la sacca sportiva di lui appoggiata sulla sedia, la apre, tira fuori un pacchetto e comincia a scartarlo. LAURA Sei passato al take away che piace a me! Tesoro, sei troppo buono, sei veramente un angel... Laura alza gli occhi. Lo sguardo raggelante di Marco le impedisce di terminare la parola. LAURA Una fatina... vediamo cosa mi ha portato oggi la fatina?! (aperto il pacchetto, si illumina) Amore!!! Crocchette di farro e sesamo! Riso thai con salsa al curry! Il mio menu preferito! Laura corre verso l’angolo cucina, prende due piatti di carta, forchette e tovagliolini, riempie due bicchieri di acqua minerale naturale e mette tutto su un vassoio. Mentre lo posa con attenzione al centro del talamo, lancia un’occhiata a Marco che, seduto sul bordo del letto, le dà la schiena infilandosi i boxer.

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LAURA (golosa) Wow, ti sei messo i boxer che piacciono a me. Laura sistema un paio di cuscini in modo da appoggiare la schiena e si mette comoda, ma subito si rialza. LAURA Cazzo è l’ora del TG! Con un salto raggiunge il telecomando, si rimette comoda e accende la tv. Il telegiornale è già cominciato. È in corso una conferenza stampa di Luca Cordero di Montezemolo. Laura, completamente rilassata, incomincia a mangiare il riso thai con un’espressione di totale appagamento, senza distogliere gli occhi dal teleschermo, concentrata sulle parole con cui il neoeletto presidente conferma il piano di rilancio del gruppo Fiat.

2. TELESCHERMO. LUCA CORDERO DI MONTEZEMOLO (rivolto a tutti gli italiani) “... compratevi un’Alfa quattro ruote motrici, per vostra moglie e per i bambini c’è la Panda, mentre per una vostra amica suggerisco la Ypsilon...”

3. MONOLOCALE. INTERNO GIORNO. Continuando a fissare lo schermo, Laura allunga una crocchetta di farro intinta nella salsa al curry in direzione di Marco. LAURA Tieni amore. LUCA CORDERO DI MONTEZEMOLO (voce fuori campo) “... ma non trascurate Idea e Stilo, mettiamo da parte i finti snobismi, compriamo italiano, comprate italiano, perché questa è la nostra forza...”1 Poiché nessuno viene a mangiare la crocchetta dalla sua mano, Laura si volta verso Marco che si sta infilando una scarpa. LAURA (incredula) Ti sei vestito... ma... allora sei ancora arrabbiato... Laura si infila in bocca la crocchetta di farro, si pulisce in fretta le dita nel tovagliolino, afferra il telecomando e spegne il televisore. Mette timidamente una mano sul braccio di Marco per cercare di farlo voltare verso di lei. Lui sposta il braccio. Lei incomincia ad accarezzargli dolcemente la schiena. LAURA Cosa ti prende amore, vieni qui vicino a me, mangia qualcosa, basta litigare, non roviniamo i pochi momenti preziosi che abbiamo a disposizione, le poche ore tutte per noi. 1

Dal telegiornale della terza rete RAI, 1° giugno 2004.

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Marco si limita ad allacciarsi la scarpa senza aprire bocca. LAURA (voce fuori campo) È geloso il mio piccolino... tesoro... ma allora mi ami. È amore grande, amore vero il tuo... è il cielo che ti ha mandato. Tu non immagini che delusione è stato il mio matrimonio. Laura sembra improvvisamente pervasa da un’infinita tristezza. LAURA Non sai la solitudine... e pensare che avevamo tanti progetti: imparare a fare immersioni insieme con le bombole, andare ai raduni di moto... Dovresti vederlo adesso. È diventato un pantofolaio. Non gli interessa più niente. Sempre da sua madre col bambino. Laura adocchia le poche crocchette di farro e sesamo rimaste. LAURA C’è solo più Federico. Io non esisto. E poi è diventato isterico, sempre stressato, capace di farmi una scenata perché mi sono dimenticata di comprare le merendine. Laura allontana lentamente la mano dalla schiena di Marco, afferra una crocchetta e se la infila in bocca. LAURA Comunque tra noi il sesso non ha mai funzionato, lui è un tipo inibito, represso... mica come te (risolino). Adesso dice che sono io che ho dei problemi, crede che sia diventata frigida (altra risatina maliziosa). Meglio! Così non si fa strane idee, ci mancherebbe ancora che diventasse geloso... (cercando di stuzzicare Marco) e invece, chi è che fa il gelosone qui? Eh dai... io lo so perché sei nervoso: tutta colpa di quella telefonata... (succhiando con gusto l’ultima crocchetta)... strano che non abbia ancora richiamato, di solito mi perseguita, adesso mi toccherà inventare una scusa perché non ho risposto e non ho ritelefonato subito... vediamo... cosa gli dico? MARCO Digli che eri con me. LAURA Bravo, così corre a chiedere il divorzio. MARCO Appunto. LAURA Spiritoso... no, non ci sperare. Non lo chiederà mai. Nello stato in cui è ridotto, dove la troverebbe una sostituta? (con una smorfia di disgusto) È diventato uno sciattone... grasso, sformato, con la pancia, e sta anche perdendo i capelli. MARCO Però tu ti fai scopare lo stesso. LAURA Ma allora sei proprio fissato con ’sta storia... (in tono sprezzante) scopare... pfff... ma l’hai visto?

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MARCO No, e nemmeno ci tengo. LAURA Non ti perdi niente. MARCO No? Sicura? Beh, ho cambiato idea. Marco afferra il cellulare di Laura e prima che lei possa reagire sta già digitando. Laura cerca di toglierglielo di mano, ma lui le sfugge e si mette a girare intorno al letto, continuando a digitare. Laura lo insegue. LAURA (spaventata) Cosa fai? Sei impazzito? Dai qua. MARCO Lo voglio proprio vedere il tuo ciccione! DISPLAY CELLULARE Sul display compare il volto di un uomo giovane, capelli un po’ lunghi biondi, giacca e cravatta da ragazzo per bene di buona famiglia. MARCO (voce fuori campo) Lo sapevo. È un bel tipo! LAURA (voce fuori campo) È fotogenico. In una seconda foto lo si vede che ride, i capelli al vento. MARCO (voce fuori campo) Non sembra affatto pelato... LAURA (voce fuori campo) È una foto vecchia. La foto successiva lo ritrae a mezzo busto, mentre sorride dolcemente, la testa reclinata sulla spalla di Laura. MARCO (voce fuori campo) ... e non è nemmeno grasso. LAURA (voce fuori campo) Perché non lo vedi a figura intera. Sul display compare la foto di Angelo in costume da bagno con il bambino in braccio: ha un fisico perfetto, da palestrato.

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4. MONOLOCALE. INTERNO GIORNO. Furioso, Marco richiude il cellulare con un colpo secco. Laura si dirige decisa verso di lui per recuperarlo, ma Marco indietreggia e alza il braccio. LAURA (intima) Ridammi il mio telefonino. Con una risata beffarda Marco glielo agita davanti al naso, come a dire: vieni a prendertelo se ci riesci. Laura allunga la mano, lui alza di nuovo il braccio. LAURA Non sei affatto divertente! Sventolando il cellulare, Marco si rimette a correre e Laura ricomincia ad inseguirlo, ora in una direzione ora nell’altra, senza riuscire ad acchiapparlo. Lui, pur di sfuggirle, passa con le scarpe sopra i cuscini, si sbilancia e va ad urtare contro la gigantografia dei putti. LAURA Smettila! Non ti stai comportando per niente bene, lo sai!? Marco continua a girare come un pazzo scatenato intorno al tatami. Esasperata, Laura monta sul futon. Così facendo dà un colpo al vassoio. La salsa al curry si rovescia sul letto insieme all’acqua. Nell’ennesimo tentativo di riappropriarsi del suo cellulare, Laura mette un piede sopra la salsa. Imprecando scende dal letto e finisce col piede sporco sulla camicia. Si china a raccoglierla e, tenendola per le spalle con due mani, contempla disperata la macchia gialla sul davanti. LAURA La mia camicia Armani... era nuova... adesso come torno in ufficio? MARCO Volevi il telefonino? Eccolo! Laura fa appena in tempo a lasciare andare la camicia per afferrare al volo il cellulare che Marco le ha lanciato. LAURA Ma tu sei matto... guarda che casino... ho mentito sì, è vero, ma solo perché non volevo farti star male. Cosa dovevo dirti? Che era carino? Ti saresti ingelosito. Non è il mio tipo, mi devi credere, mi è totalmente indifferente. Marco, col fiatone per il gran correre, si lascia cadere sulla sedia. MARCO (serio) Ripeto la domanda: e allora perché non lo lasci? E non mi rispondere per il bambino! Laura si piazza davanti a Marco, in piedi. China il mento e guardandolo di sotto in su, sfodera un sorriso perverso, da mangiatrice di uomini, come avesse improvvisamente deciso di rivelarsi per quella che è: una vampira, un essere spregevole, molto peggiore di quanto lui potesse mai immaginare.

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LAURA E va bene! Lo vuoi proprio sapere perché sto insieme a lui? Per i soldi! Contento? Come credi abbia pagato il cellulare che ti ho preso per Natale, con il registratorino, la chiamata vocale e l’apparecchio fotografico tutto incorporato, uguale a quello che ho regalato a lui? E il weekend che abbiamo passato a Capri? Secondo te dove li avrei trovati i soldi? E l’affitto del paradiso? Non dici più niente eh... perché i soldi fanno comodo anche a te... E se vuoi saperlo, non mi sento neanche in colpa. E sai perché? Perché questo è un mondo di merda. Perché a due come noi, nati in una squallida periferia di una città operaia, nati in una camera e cucina, a due come noi non regala niente nessuno! Il tono è diventato plateale, stile “comizio sindacale davanti a una piazza gremita di operai in cassa integrazione”. Laura fa una pausa studiata, come per lasciare spazio allo scrosciare degli applausi, poi si ricompone e prosegue in tono melodrammatico. LAURA Lui ha sempre avuto tutto, senza mai dover alzare un dito. Tanto c’era papà. Se la poteva sognare una come me, senza i suoi soldini. Sono una puttana? E va bene, ma ricordati che la colpa è sempre del cliente, mai della puttana. Che un po’ di quei soldi finiscono nelle nostre tasche, a finanziare la nostra felicità, è solo una questione di giustizia sociale. Si chiama redistribuzione del reddito. È lui che dovrebbe sentirsi in colpa, non noi. E io lo so che tu la pensi come me, perché siamo uguali noi due, siamo fatti l’uno per l’altra... Il tono delle ultime parole ha qualcosa di solenne. Sfinita dall’arringa, ma certa del successo, Laura si asciuga con un tovagliolino una goccia di sudore che le scorre tra i due seni. MARCO (alzando improvvisamente la testa) È qui che ti sbagli. Noi due non ci assomigliamo affatto. Solo adesso ti vedo per quella che sei. Hai appena fatto l’amore con me e cosa fai? Ti preoccupi perché tuo marito non ha ancora richiamato. LAURA Non sono affatto preoccupata. A quest’ora sarà da sua madre. MARCO O starà scopando. LAURA Marco per favore, un po’ di umanità! E comunque se volevi farmi preoccupare ci sei riuscito. Laura guarda pensierosa il cellulare che ha ancora in mano. Lo apre. LAURA Non vorrei che fosse davvero successo qualcosa. DISPLAY CELLULARE Sul display c’è la scritta: COSTO CHIAMATA. Laura, perplessa, schiaccia un tasto. MARCO (voce fuori campo) Ecco brava, fagli uno squillo.

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DISPLAY CELLULARE Sul display compare la scritta: 3 EURO. Laura, ancora più perplessa, schiaccia un altro tasto. MARCO (voce fuori campo) ... anzi, già che ci sei mandagli un messaggino. DISPLAY CELLULARE Sul display compare la scritta: REGISTRO CHIAMATE. Segue un’altra schermata: ULTIMA CHIAMATA EFFETTUATA. Cambia di nuovo la schermata e sul display compare il nome della persona chiamata: ANGELO. MARCO (voce fuori campo) Io non lo so se sei una squallida calcolatrice oppure una ninfomane o semplicemente una troia, so solo che sei una lurida egoista... Allibita, Laura guarda con un’aria decisamente preoccupata il display, poi ha un sussulto, come avesse ricevuto una scarica di corrente ad alto voltaggio. Solleva la testa di botto. Sbarra gli occhi. Un pallore mortale si diffonde sul suo bel viso. Laura deglutisce e con mano malferma schiaccia un ultimo tasto. DISPLAY CELLULARE Sul display compare l’ora e la data della chiamata effettuata: 1 GIUGNO 2004 / h 13.35’.35’’. Laura vacilla come se una legnata a tradimento le avesse spezzato le reni. Avvampa. Apre la bocca come volesse gridare, ma non riesce ad articolare alcun suono. La voce di Marco le giunge distorta, ovattata. MARCO (voce fuori campo) ... pensi che tutto giri intorno alla tua persona, credi di essere al centro dell’universo, ma ti sbagli... Il terrore dipinto in volto, la mano scossa da un violento tremito, Laura continua a guardare fisso il cellulare, come se improvvisamente si fosse trasformato in un serpente a sonagli. Boccheggia, poi si fa forza. LAURA (con voce soffocata) Davvero ho detto Angelo, prima, quand’eravamo a... a letto? MARCO L’hai gridato. LAURA (in un soffio) Mio Dio... MARCO Non fare scena. Ormai non attacca più. Me ne vado. È finita.

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LAURA (mormora tra sè) Non è possibile... MARCO E invece è proprio così. Hai capito bene. Ti lascio Laura. Con te ho chiuso. Per sempre. Marco si alza in piedi, afferra giubbotto e sacca e con fare sprezzante getta sul letto un mazzo di chiavi attaccato a un portachiavi a forma di cuore. A quel gesto Laura sembra riscuotersi. Raccoglie le chiavi e raggiunge Marco che è già sulla porta. Cerca di costringerlo a riprendersi le chiavi. LAURA No, aspetta, cosa fai, ti prego parliamone, torna a sederti, non hai nemmeno mangiato... Laura abbraccia Marco, cerca di trattenerlo, gli infila a forza le chiavi nella tasca della giacca. LAURA ... non fare così, tieni, tieni le chiavi del paradiso... MARCO (gelido) Questo è il tuo paradiso, non il mio. Laura tenta di impedirgli di andarsene bloccandolo sulla porta, ma Marco si divincola ed esce.

5. CORRIDOIO CONDOMINIALE. INTERNO GIORNO. Laura rincorre Marco fin davanti all’ascensore, rischiando di scivolare sul piede ancora unto di salsa al curry. LAURA Tesoro fermati, dove vuoi andare... Le porte dell’ascensore si aprono. Dalla cabina esce un anziano signore che, nel vedere Laura nuda, si lascia sfuggire un mugolio misto di sorpresa e ammirazione. Laura tenta di nascondersi dietro a Marco, ma lui si infila nell’ascensore. A Laura non resta che coprirsi le parti intime con il cellulare, mentre la porta automatica si richiude su Marco che, nel lanciarle un’ultima occhiata piena di profondo disprezzo, fa in tempo a gettarle ai piedi le chiavi col cuoricino attaccato. LAURA (con la voce che le muore in gola) Non puoi andartene così... L’ascensore riparte. Laura si china a raccogliere le chiavi, cercando di assumere la posizione meno sconveniente possibile, quindi indietreggia abbozzando un sorriso di circostanza, sempre usando il cellulare come foglia di fico. Il vecchio signore la guarda con occhio libidinoso. Poi ognuno dei due si volta e prosegue in direzioni opposte: il vecchio signore voltandosi in continuazione, Laura come se niente fosse. Arrivati davanti alla porta dei rispettivi appartamenti entrambi si girano e si guardano da un capo all’altro del lungo corridoio. Speranzoso, il vecchio signore sorride invitante. A Laura non rimane che accennare un saluto e sparire in fretta oltre la porta di casa.

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6. MONOLOCALE. INTERNO GIORNO. Laura entra, si chiude l’uscio alle spalle e vi si appoggia contro pesantemente. Sfinita, chiude gli occhi, ma li spalanca subito dopo. Con determinazione porta il cellulare all’altezza del viso e lo fissa, come avesse davanti una bestia capricciosa e infida. Tira un profondo respiro per farsi coraggio, quindi con voce strozzata, ma chiaramente intelligibile, sillaba un nome: LAURA An - ge - lo. DISPLAY CELLULARE Sul display appare l’avviso che la chiamata è stata inoltrata.

7. PIAZZALE ALBERATO. ESTERNO GIORNO. Una Panda è parcheggiata di traverso su un lato del piazzale alberato. Dall’interno dell’auto proviene una musica: è la campionatura elettronica dell’Inno alla Gioia di Beethoven.

8. FIAT PANDA. INTERNO GIORNO. L’Inno alla Gioia proviene da un cellulare posato sul cruscotto. Un giovane biondo, Angelo, il viso affondato nell’incavo del gomito, la testa appoggiata al volante, con la mano libera sferra pugni contro l’imbottitura del sedile.

9. MONOLOCALE. INTERNO GIORNO. Laura stringe con tutte e due le mani il cellulare e lo guarda fisso. LAURA (mormora) Rispondi, ti prego, rispondi.

10. FIAT PANDA. INTERNO GIORNO. Angelo solleva la testa, prende il cellulare e digita qualcosa sulla tastiera. L’Inno alla Gioia si interrompe. Sul viso di lui la rabbia si sostituisce al dolore. Preme un ultimo tasto e ascolta senza battere ciglio la voce registrata di Laura che proviene dal cellulare. CELLULARE DI ANGELO ... sì, così, continua così... ah... quanto mi piaci... ti sento tutto... sì... sì...

11. MONOLOCALE. INTERNO GIORNO. Il paradiso è un campo di battaglia. Sparse qua e là le macerie di un amore. Dappertutto pezzetti di gommapiuma fuoriusciti da un cuscino sventrato. Un angolo del manifesto che raffigura i putti si è staccato dalla parete e pende formando una grande orecchia. Laura è seduta per terra, nuda, la schiena contro il muro, i gomiti appoggiati alle ginocchia, la testa

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fra le mani. Ha lo sguardo fisso nel vuoto e l’espressione attonita di una che sta ascoltando la sentenza che la condurrà al patibolo. A pronunciare la condanna è la sua stessa voce registrata che proviene dal cellulare posato a terra accanto a lei. CELLULARE DI LAURA ... dai... dai... così... così... ahhhhhh... (cigolii, rumori di fondo) Che c’è? Non ti è piaciuto?... Un po’ più in là un bicchiere pieno d’acqua è rimasto miracolosamente in piedi. Mentre ascolta il dialogo tra lei e Marco, registrato poco prima e reinviatole ora da Angelo, Laura allunga lentamente una mano verso l’unico bicchiere sopravvissuto e con un colpetto del dito indice lo rovescia sulla moquette. CELLULARE DI LAURA (continua) ... Mi hai chiamato di nuovo Angelo. Ma cosa dici, avrò fatto ah ah. Una non può neanche fare ah ah quando... Il dialogo registrato continua sui TITOLI DI CODA (bianchi su fondo rosso). Tra un titolo e l’altro, sul display di un cellulare s/compaiono i seguenti SMS: 1° DISPLAY Ti penso ogni momento. Segue la scritta: cancella messaggio. 2° DISPLAY Sei l’uomo della mia vita. L’unico. Segue la scritta: cancella messaggio. 3° DISPLAY Sei sempre con me. Segue la scritta: cancella messaggio. 4° E ULTIMO DISPLAY Il nostro amore è una rosa senza spine, un amore senza fine. Segue la scritta: cancella messaggio. Anna Gasco, autrice torinese, ha scritto e diretto film e video tra cui: Le rose blu con T. Pellerano e E. Piovano, con la partecipazione di Laura Betti e Ninetto Davoli; Il Custode (premio CONI AGIS BNL per il soggetto al 40° Festival Internazionale del Cinema Sportivo) premiato con Il Paladino d’Argento; Camera Oscura e Epistolario Immaginario: videolettere dal carcere con Camera Woman; il documentario La Guerra alla Guerra con Daniele Gaglianone. Ha collaborato con l’A.N.C.R. e pubblicato sul Nuovo Spettatore. Ha firmato la sceneggiatura e la regia del musical per il teatro Night and Day. Segnalata nel 1999 al Premio Solinas con la sceneggiatura Il canto dell’usignolo, è di nuovo tra i finalisti del 2003 con La storia taciuta.

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E va bene! Lo vuoi proprio sapere perchÊ sto insieme a lui? Per i soldi! Contento? Come credi abbia pagato il cellulare che ti ho preso per Natale, con il registratorino, la chiamata vocale e l’apparecchio fotografico tutto incorporato, uguale a quello che ho regalato a lui?

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IL MIO POSTO NEL MONDO di Giulia Marcucci PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO Ingabbiato dalla fretta e dal vortice frenetico dei propri impegni, l’uomo è spesso cieco di fronte all’universo di emozioni che ha accanto a sé. Anche in un oggetto banale e insignificante come un cono segnaletico dimenticato può dischiudersi un’immensità di sentimenti. È la storia di un semplice pezzo di plastica questa, ma è in realtà la storia di tutti noi, che soffriamo nel sentirci abbandonati e conviviamo dolorosamente con la solitudine, fino a quando qualcuno non ci guarda con una luce diversa e ci regala una nuova occasione per sentirci utili e per essere felici. Tratteggiata con delicatezza e sensibilità, l’avventura di questo piccolo oggetto ci fa entrare in un mondo a parte, mostrandoci la poesia delle piccole cose che ci circondano ogni giorno.

È una storia semplice, lo so. È che il mio cuore viene toccato da storie semplici, così come il mio sguardo viene catturato dalla magia del cinema d’animazione. Il cono protagonista esiste davvero, anzi, ne esistono tanti come lui. Soli e abbandonati, aspettano in silenzio, in attesa che il mondo si ricordi di loro. Non serve aguzzare la vista per scorgerli, perché ciò che ci impedisce di vederli si chiama indifferenza e non si cura con un paio di occhiali. Il cono è il barbone che dorme su una panchina, è il ragazzo emarginato dai compagni, è la prostituta all’angolo di una strada, è il padre di famiglia licenziato, è l’anziano che guarda fuori dalla finestra dell’ospizio ed è anche il cane fedele abbandonato sull’autostrada. Questa storia vuole essere una metafora di come, senza preavviso, tutto possa crollarci addosso nonostante i nostri sforzi e di come, se abbiamo il coraggio di perseverare, il domani possa riservarci ancora un po’ di felicità, donandoci quel piccolo posto nel mondo capace di renderci unici e speciali. Giulia Marcucci

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1. STRADA. ESTERNO MATTINO. Lungo una strada di periferia è posizionata una fila di coni segnaletici. Attorno i rumori assordanti dei lavori in corso avvolgono l’ambiente. Un addetto ai lavori sta raccogliendo i coni segnaletici dalla strada. Fa molto caldo, è estate inoltrata e l’uomo dimentica di prendere un cono. Il cono dimenticato è rimasto in mezzo alla strada, proprio sulla riga bianca, le macchine gli sfrecciano accanto, soffocandolo con i fumi di scarico. Il calore che emana l’asfalto è evidente.

2. VICOLO. ESTERNO MATTINO. Un barbone si alza dalla panchina su cui stava dormendo, scosta i giornali che ha usato per coprirsi durante la notte e osserva il sole in silenzio, fregandosi le mani per riattivare la circolazione.

3. STRADA. ESTERNO MATTINO. Il guidatore di un’auto che sfreccia a tutta velocità getta dal finestrino la cicca incandescente della sigaretta che colpisce in pieno il cono. Un’auto fiammante rallenta la sua corsa in prossimità dell’oggetto e il conducente svuota il posacenere sul cono.

4. STRADA. ESTERNO POMERIGGIO. Un cane, nell’attraversare la corsia, si ferma ad annusare il cono. Sembra incuriosito dallo strano oggetto ma, richiamato con un fischio del padrone, si limita ad urinarci sopra con disprezzo e a scappare via.

5. STRADA. ESTERNO MATTINO. Il cono è sfiorato dalle foglie ingiallite che cadono dagli alberi, è arrivato l’autunno, il cielo è grigio e minaccia pioggia.

6. VICOLO. ESTERNO MATTINO. Il barbone, rannicchiato sulle scale davanti ad un portone chiuso, tossisce con forza portandosi le mani alla bocca, mentre osserva la pioggia cadere.

7. STRADA. ESTERNO POMERIGGIO. Il cono è bagnato da una pioggia torrenziale. Una macchina di grossa cilindrata, passando a tutta velocità accanto al cono, lo riempie di schizzi luridi. Una forte raffica di vento fa cadere il cono che rotola sul ciglio della strada.

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Un ragazzo, sfrecciandogli accanto con il suo scooter, con un gran calcio lo scaraventa nel fosso melmoso, ammaccandolo.

8. FOSSO. ESTERNO NOTTE. Il cono è riverso nel fossato, sporco e acciaccato sotto la pioggia torrenziale. Una grossa biscia d’acqua gli passa accanto, avvolgendolo con le sue spire per poi scomparire nel fango. Arriva la prima neve. Il cono, riverso nel fosso, viene ricoperto quasi completamente. Un ghiro infreddolito e tentennante gli si avvicina con circospezione. Il piccolo animale ha freddo e cerca un luogo sicuro per andare in letargo. Si infila nella cavità del cono e si addormenta.

9. VICOLO. ESTERNO NOTTE. Le mani del barbone, coperte da luridi guanti dalle dita mozze, si scaldano vicino ad un fuoco improvvisato in un bidone.

10. FOSSO. ESTERNO MATTINO. La neve inizia a sciogliersi, è arrivata la primavera. Il piccolo ghiro esce stiracchiandosi dalla cavità del cono e si allontana lasciandolo di nuovo solo. I semi delle piante fluttuano leggeri nell’aria tiepida andandosi a posare sul cono e formando un soffice manto attorno a lui.

11. CAMPO DI FIORI. ESTERNO MATTINO. La mano del barbone, avvolta in un lurido guanto dalle dita mozze, coglie delicatamente, attenta a non sciuparli, dei fiori di campo.

12. FOSSO. ESTERNO MATTINO. Gli uccellini cinguettano felici e una grossa cornacchia si posa sul cono, gracchiando e beccandolo con insistenza. Una fila di processionarie scure passa sul cono marciando in perfetta fila indiana.

13. CAMPO DI FIORI. ESTERNO MATTINO. La mano avvolta dal lurido guanto dalle dita mozze porta il mazzo di fiori di campo al naso del barbone che, socchiudendo gli occhi, ne inspira l’odore.

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14. FOSSO. ESTERNO POMERIGGIO. Uno stormo di passeri si posa sui rami dell’albero che sovrasta il fosso e il cono, in breve, si trova imbrattato di escrementi che piovono dal cielo. Il cono viene raccolto da un addetto alla pulizia stradale che lo getta sul suo furgoncino per portarlo alla discarica.

15. STRADA. ESTERNO POMERIGGIO. Il furgoncino, dopo pochi metri, urta un piccolo dosso e, sobbalzando, fa cadere il cono che rotola in mezzo alla corsia. La mano avvolta dal lurido guanto dalle dita mozze raccoglie il cono dalla strada proprio mentre un grosso tir sta per schiacciarlo. Il barbone osserva soddisfatto l’oggetto rigirandoselo tra le mani. Sorride compiaciuto.

16. RUSCELLO. ESTERNO POMERIGGIO. Il cono viene lavato nell’acqua limpida di un ruscello dal barbone che, dopo averlo pulito con grande cura, se lo mette sotto braccio e si allontana.

17. CAMPO DI GRANO. ESTERNO NOTTE. Il cono è illuminato da una splendida luna, è capovolto, posato su una cassetta di legno. Nella sua cavità sono stati messi dei bellissimi fiori di campo. Il barbone che l’ha raccolto sta consumando, in mezzo ad un campo di grano, una misera ma romanticissima cena al chiaro di luna con la sua amata.

Giulia Marcucci, nata a Fano (PU) il 24 marzo 1980, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione di Massa presso l’Università degli Studi di Perugia, ha conseguito il Master in Editing e Scrittura di prodotti audiovisivi presso il Virtual Reality & Multi Media Park di Torino. È appassionata da sempre del mondo dell’animazione, di letteratura per ragazzi, di personaggi fantastici e indimenticabili e di storie semplici, che sanno farsi ricordare.

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BOILER di Mauro Calvone PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: COMMEDIA NERA

Merano, 2001. Andreas Plack, un giovane di 23 anni, stipula una polizza di invalidità permanente con un’agenzia assicurativa e, per incassare il premio da un miliardo di lire, chiede a un amico di tranciargli la gamba con una motosega. Qualcosa però va storto, e Andreas muore dissanguato. Prendendo spunto da questo episodio di cronaca, Boiler, attraverso un’acuta operazione di immaginazione narrativa, riesce a fornire un ritratto intimo della provincia italiana e a rendere la vicenda di un ragazzo qualunque, raccontata con uno stile leggero e ironico, a tratti surreale, una parabola tragicomica sul potere di certi sogni, tanto più destabilizzanti quanto più, solo apparentemente, a buon mercato.

Boiler è un film che si colloca tra la leggerezza de Il favoloso mondo di Amelie e la graffiante ironia di Fargo. L’atmosfera che avvolge la storia è surreale, sia per l’azione in sé, assurda e tragicomica (ma ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto), sia per il contesto, a tratti grottesco, in cui essa trova spazio: un mondo di profondo isolamento, tanto incredibile quanto reale. La vicenda potrebbe essere ambientata in un paese di provincia qualunque, senza alcun riferimento a luoghi precisi. Infatti, nella storia, non è la specificità regionale, o nazionale, a essere determinante. Ciò che conta, piuttosto, è la purezza di certi luoghi, paesaggi monotoni ma affascinanti, luoghi incontaminati che ancora esistono, neanche troppo distanti dalle grandi città, ma allo stesso tempo sideralmente lontani. Questa ambivalenza spaziale è il nucleo stesso del film e si riproduce in tutte le dicotomie che lo animano. Fino alla risoluzione fatale. Perché, in fondo, non è possibile fuggire, pena la morte o la follia, da luoghi che di confini certi non ne hanno. Boiler è stato presentato al Premio Solinas 2006 dove ha vinto ex equo il Premio Leo Benvenuti come migliore sceneggiatura di commedia. Mauro Calvone

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Boiler ha poco più di vent’anni e non ha un centesimo in tasca. Vive ancora a casa dei suoi, con Mamma, specializzata nelle raccolte punti e regali, Papi, suo padre in pensione, e Viola, la sorella maggiore. Papi si bruciò più di trent’anni, sgobbando per una grande azienda edile, specializzata nella costruzione di reattori nucleari. Era solamente un muratore, ma del suo lavoro ci andava fiero. Papi era un appassionato di romanzi Urania, quelli di fantascienza, che ce li aveva tutti, e quando ebbe l’opportunità di lavorare per il nucleare fu come scoprire in un racconto di Asimov che c’era pure lui. Fu trapiantato al paese, per seguire il nuovo cantiere di quella che sarebbe dovuta diventare la più grande centrale nucleare italiana. Il paese gli piacque da subito e decise di restarci per sempre. Tutto liscio. Fino al novembre dell’ottantasette, quando gli italiani cacasotto decisero di abbandonare il nucleare come nuova fonte di energia. Quello per Papi fu un colpo che non avete idea. Fu così che si chiuse a riccio nella costruzione di galeoni in legno, dimenticandosi di avere dei figli che, magari, volevano giocare a pallone o andare al circo, tipo Boiler, per esempio, che allora aveva cinque anni. La madre di Boiler è casalinga. Guarda la tivù tutto il giorno e adora le previsioni del tempo. Le piace confrontare la temperatura del paese, dal quale non si è mai allontanata, con quella di città irraggiungibili tipo Bombay, Saigon o Kuala Lumpur. Fa pure le parole crociate e le raccolte punti, ma la casa è in ordine e il frigo sempre pieno. Boiler e Viola litigano continuamente, come due buoni fratelli. Però Boiler l’ammira, perché è una tosta, anche se è vegetariana convinta, che Boiler quelle schifezze, tipo tempeh o tofu, proprio non riesce a mandarle giù. Gliene frega zero se Viola dice che è roba ricca di proteine, vitamine, calcio e altri minerali, perché quando una cosa fa schifo è sempre ricca di ’ste cose che fanno bene alla salute. Boiler è un tipo sveglio. Sprizza energia, ti mette addosso buonumore. Fin da bambino. A scuola divenne ben presto un punto di riferimento per i compagni di classe. E per Lilla, sua cugina. Hanno la stessa età, ma non ci credi. A lei dai almeno tre anni di meno. Giocano insieme fin da quando erano piccoli, ancor prima della scuola, con l’aquilone e le bolle. Lilla è magra, tipo che ci vedi attraverso. Hai presente un geco? Quella specie di lucertola trasparente che le vedi gli organi interni. Fa niente. È fragile, tipo che hai paura di romperle qualcosa solo a guardarla. Lilla non sorride mai, tranne quando sta con Boiler. Lui è il solo ad avere la formula magica. Quella per farla ridere. Al paese di Boiler si conoscono tutti, tipo che nomi e cognomi sono solo roba da accensione mutuo casa e contravvenzione per eccesso di velocità. Provateci voi a spedire una lettera al signor nomecognome-indirizzo. Destinatario inesistente. Appena nato, ti allacciano un nomignolo che ti resterà addosso fino alla fine, e non pizzicatevi il labbro, scervellandovi su quel nome, rilassatevi: l’aspetto fisico, il lavoro di mamma e papà e gli occhi blu non c’entrano. Il paese è a poco più di un’ora d’auto dalla città, ma ad almeno dieci anni dallo stile di vita metropolitano. Piazzato ai piedi delle montagne, è letteralmente scavalcato, a più di cento metri di altezza, da un gigantesco viadotto che, del tanto strombazzato progresso, agli abitanti della valle regala solo gli scarti: mozziconi di sigaretta, fazzoletti sporchi, bottiglie di plastica. Eppure quel mostro di cemento, per i bambini del paese, è da sempre qualcosa di straordinario. Quand’era ragazzino, Boiler amava arrampicarsi su per il sentiero che, costeggiando la montagna, arrivava fino in cima, appena sopra il viadotto. Era capace di fissare l’asfalto per ore, come ipnotizzato dallo splendore delle auto, che sfrecciavano a tutta velocità, verso chissà quale meravigliosa destinazione. Dai primi anni Ottanta, fino alla diffusione della tivù digitale, il paese rimase per quasi vent’anni senza segnale televisivo, perché c’erano quegli attivisti, cioè quei gruppi di ecoterroristi, tipo coscienza

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ambientale o giù di lì, di quelli che ti facevano saltare tralicci, antenne e ripetitori, dichiarati colpevoli di inquinamento elettromagnetico. Okay, la corrente la riparavano. Pure il telefono. Ma il ripetitore tivù, dopo che fu abbattuto ben cinque volte in cinque mesi, non fu più rimesso in piedi. Dicevano che era il più dannoso, ’sti fanatici. Cazzo gliene fregava. In paese nessuno mai si era lamentato. Fu così che, da allora, la piccola comunità non ebbe più l’opportunità di crescere e maturare insieme alla tivù analogica, che proprio in quegli anni cominciò a trasformarsi nello schifo che è oggi. Ma con l’arrivo della tivù digitale, quella sparata via satellite, in paese fiorirono decine di parabole. La gente cambiò. La tivù ebbe lo stesso effetto di una calamità naturale. In pochi mesi e con la forza di un fiume in piena la tele, centrifugando i cervelli di tutti in un vortice docupornoculturalsportivo, sommerse il bacino di profonda astinenza radiotelevisiva della popolazione. Boiler venne come inghiottito dallo schermo piatto-cento hertz-trentasei pollici, comprato a rate per l’occasione. Se ne stava tutto il giorno sul divano, come drogato. Fu allora che, per lui, il telecomando si trasformò in una chiave d’accesso a mondi favolosi e sconosciuti. Tipo Alice nel paese delle meraviglie. I talk show erano i suoi programmi preferiti. Immaginava di essere l’ospite più importante, quello sul megaschermo, col suo primo piano che schiacciava l’esile figura degli altri invitati seduti in studio. Ma la cosa non funzionò. Si rese conto che, a differenza di tutti gli altri, lui era privo degli attributi televisivi necessari, tipo abbronzatura quattro stagioni e sorriso eternamente smagliante. E la cosa si faceva tanto più evidente quanto più l’inquadratura si stringeva sul suo volto pallido come la cenere. Da quel momento in poi, la storia fu sempre la stessa. Nemmeno cambiare canale e passare ad un altro talk show bastava più. Il sogno si era spezzato. Boiler si è ormai reso conto di appartenere a un altro mondo: un mondo niente amiche strafiche, niente case con piscina, niente auto sportive e soldi a palate, niente di niente di niente. Ogni volta che pigia il tasto off sul telecomando, Boiler si risveglia in un incubo. Cioè la vita reale. Cioè disgustosamente normale. Perciò decide di diventare ricco. Vuole i soldi, per conquistarsi una vita migliore. L’ha imparato dalla tivù. Capisce che per guadagnare non serve un lavoro. Gli basta un’idea. Di qualsiasi tipo. Boiler è determinato. Ci prova col lotto, l’idea di un brevetto, vuole scrivere un libro, soprattutto col lavoro da casa, quello che ti promette guadagni stellari, ma poi finisce che sei un venditore porta a porta di prodotti di bellezza. È il suo amico Ceppo a fargliela venire. L’idea buona. Proprio quella. Ceppo ha perso un piede in un incidente stradale e lo Stato gli ha riconosciuto un’invalidità del quaranta per cento. Dovreste vederlo Ceppo, ha un sorriso grande così. Ha ottenuto una pensione, una protesi gli consente perfino di guidare: tutto sommato riesce a condurre una vita normale. Anzi meglio, perché coi soldi della pensione ormai non deve nemmeno alzarsi presto, fanculo il lavoro. Boiler va in edicola, sfoglia riviste sulle protesi. Corre in città da un medico specialista, frequenta persino un gruppo di autoaiuto per mutilati, ovvero uno fra i tanti piccoli gruppi di persone che, condividendo le stesse difficoltà, lottano insieme per superarle. Hai presente i forum su internet per la Playstation2, con le soluzioni per risolvere i livelli? Uguale. Col tempo Boiler capisce che l’idea è proprio quella giusta. Si convince che con una protesi potrà continuare a camminare come prima, pure a correre e a guidare. Boiler elabora un piano. Il contratto d’assicurazione è il primo obiettivo. La fase uno. Perciò si fionda da Felice, l’assicuratore, perché vuole firmare una polizza di invalidità. Funziona così. Ogni mutilazione vale dei punti, tipo quelli delle tessere sconto, quando vai a fare la spesa. Cioè, se perdi

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un braccio per disarticolazione scapolo-omerale, vale il massimo e cioè l’ottantacinque per cento, se invece perdi un alluce vale il sette per cento, cioè praticamente zero, se perdi un rene, con integrità del rene superstite, vale il venticinque per cento, ma se perdi un testicolo vale un cazzo, perché non c’è indennità per le palle. “Quanto vale un piede?” chiede Boiler con un sorriso stampato in faccia tipo cieco che gli torna la vista. “Vale il cinquanta per cento” risponde Felice. Cioè, se perdi un piede, l’assicurazione ti molla il cinquanta per cento del capitale assicurato, ma se la percentuale di invalidità è superiore al sessanta per cento sei a cavallo, perché oltre quel limite l’assicurazione ti scuce il cento per cento dell’intero capitale. Perciò Boiler decide per la gamba, perché vale l’ottanta per cento, cioè l’intero capitale. Boiler vuole una polizza da un milione. Felice gliene offre una da duecentocinquantamila euro. È quello, in termini assicurativi, il valore economico della vita di un giovane come lui. Per Boiler è un colpo. Rifiuta. Fanculo. È troppo poco. Ma Felice non può fare altrimenti. Boiler è ostinato, non cede. È la sua vita, e vale più di duecentocinquantamila euro. Alla fine la spunta. Boiler stipula ben quattro polizze, con quattro compagnie diverse, da duecentocinquantamila euro ciascuna. È ciò che voleva. Se rimane senza una gamba, incasserà un milione di euro. Sta per diventare ricco, sta per cambiare canale su di una vita di quelle che vedi in tivù. Funzionerà a meraviglia. Passa alla fase due. Il piano intendo. Cioè trovare qualcuno disposto a tagliargli una gamba. Facile, pensa Boiler. “Ti do centocinquantamila euro se mi seghi la gamba” dice a Lilla, la compagna di giochi e d’avventure di sempre. La motosega l’aveva acquistata proprio lei, appena il giorno prima, alla ferramenta del paese. Non il loro, un altro. Che vi frega del nome, tanto non lo conoscete. Per convincerla, Boiler le aveva raccontato una storia, una delle sue. Naturalmente Lilla non gli aveva creduto, ma l’aveva comprata lo stesso, benché costasse un sacco di soldi. Finiva sempre così, Boiler lo sapeva. Ma questa volta si sbagliava. La risposta di Lilla è categorica, ostinata, ferrea. Non so come definirla tanto è irremovibile. Boiler insiste, ma niente da fare. Il rifiuto di Lilla è come scolpito nella roccia. Non lo farebbe nemmeno per cento milioni, questo è chiaro. Boiler non se l’aspettava proprio. Invece è naturale, perché Lilla non potrebbe mai fargli del male. Lei ama Boiler, benché non glielo abbia mai detto. Per Boiler, invece, Lilla è solo un’amica. Il che fa una differenza enorme, lo sapete pure voi. Perché lui ama Nicole Kidman. La prima volta che la vide stava facendo pipì seduta sulla tazza del cesso, come se niente fosse. Boiler era disciolto sul divano e lei apparve magicamente sullo schermo. Fu un colpo di fulmine. Quello era Eyes Wide Shut, che c’era pure il suo ex, Tom Cruise. Boiler sogna una vita tipo quella di Nicole, di quelle che a Lilla gliene frega zero. A lei basta una vita di quelle semplici, di quelle quando schiacci il tasto off sul telecomando, tipo casa con giardino, matrimonio coi figli e un lavoro qualsiasi. Per chi, come lei, vive in una famiglia sfasciata, tipo padre disoccupato che s’è giocato il negozio al videopoker, e madre che non sa nemmeno cucinare, la normalità è il bene più prezioso. Questo è il suo sogno. Ma per Boiler, quella è una vita disgustosamente banale. La stessa di Papi, suo padre, colpevole di aver passato quarant’anni in cantiere per una pensione che devi pure dire grazie, per uno schifo di alloggio in un paese che Nicole Kidman non ci sarebbe piovuta neppure per sbaglio, per una vita casa e famiglia che a vederla in tivù cambieresti canale dopo trenta secondi. Boiler è terrorizzato dall’idea di una vita così. Lilla la voleva restituire quella dannata motosega, subito dopo che Boiler le spiattellò il piano. Ma

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Boiler si impuntò che l’avrebbe resa personalmente. Ancora una volta Lilla si lasciò convincere, perché in fondo si fidava di lui. E poi era certa di averlo persuaso a desistere. Senza l’aiuto di Lilla, Boiler non ha altra scelta. Ne parla con Bambù. Dopotutto gli vuole bene, sono amici da sempre, benché lo biasimi. Cioè lo fa incazzare. Perché Bambù è uno di quelli che vivono e basta, zero sogni, zero ambizioni. L’edicola che gestisce è tutto il suo mondo. Ma Boiler sa bene che Bambù farebbe qualsiasi cosa per lui. Tipo un cane fedele. “Ti do centocinquantamila euro se mi aiuti” gli dice. Bambù lo ascolta senza fiatare. È come pietrificato. Bambù ha cercato di essere il migliore amico di Boiler fin dai primi giorni di scuola, quando erano compagni di banco. Era certo che Boiler, prima o poi, avrebbe fatto qualcosa di grande. Perciò voleva stargli vicino. Ma c’era Lilla, sempre in mezzo, e Boiler stava sempre con lei. “Che cosa devo fare?” domanda Bambù, elettrizzato. “Una cazzata” risponde Boiler. “Mi devi solo tagliare una gamba.” Qualche giorno dopo Boiler e Bambù provano la motosega nel bosco, ma non riescono a metterla in moto. Bambù non riesce neppure a tenerla in mano, troppo pesante. “Ma sei proprio sicuro che ci cascheranno?” gli dice. “Certo che ne sono sicuro” lo rassicura Boiler. Bambù è perplesso. “Non so, non mi convince.” Ma Boiler insiste: “Ci cascheranno!” “Come fai ad esserne così sicuro?” lo incalza Bambù. “Perché non esiste uno che si fa tagliare la gamba con una motosega, di proposito!” Boiler ha previsto tutto. Il suo piano è semplice. Strano che nessuno ci abbia mai pensato. Ti fai una bella assicurazione di invalidità, tipo un milione di euro di capitale assicurato. In più hai la pensione, fanculo il lavoro. Una vita tutta tempo libero. Ti fai tagliare la gamba, tipo con una motosega, da Bambù. Boiler avrebbe fermato l’emorragia grazie alle quattro nozioni di pronto soccorso che aveva imparato. Non vi ho detto che guida le ambulanze? Okay. Boiler guida le ambulanze. Fa il servizio civile al presidio della Croce Rossa perché, dopo aver lasciato l’alberghiero, gli tocca. E poi avrebbe dato l’allarme, telefonando a casa, o al pronto soccorso, o alla polizia, insomma a qualcuno. Avrebbe raccontato di essere stato assalito da un maniaco, anzi da un musulmano che va tanto di moda oggi, uno stronzo terrorista di Al Qaeda che se la bevono tutti. “Non è più facile simulare un incidente, tipo tagliando la legna?” dice Bambù, che la scusa del terrorista di Al Qaeda gli sembra un po’ contorta. Boiler fa spallucce. “Che importa!” risponde. Gli avrebbero creduto in ogni caso. “È un piano perfetto” dice Boiler, raggiante. “Ma dopo?” chiede Bambù, perplesso e assai poco convinto. “Dopo” dice Boiler “con tutti quei soldi ce ne andremo via da questo schifo di posto.” Bambù nicchia. “A me piace stare qui” sussurra. E arriviamo alla sera del giorno prescelto, signore e signori. Tra poco più di un’ora il sole sarà già tramontato. Lilla è in piscina, come tutti i sabati. Frequenta un corso di nuoto per gestanti ma non è incinta, è che le piacciono i discorsi tra mamme. C’è pure Stella, la splendida moglie di Felice, l’assicuratore. È incinta del terzo bambino. Lilla è nello spogliatoio, appena uscita dalla vasca. Stella è perplessa. Perché Felice, in settimana, ha stipulato una polizza da duecentocinquantamila euro. Per invalidità permanente. Boiler ha versato immediatamente i cinquemila euro della prima rata del premio. “A cosa diavolo gli serve?” domanda quella ficcanaso di Stella. Lilla impallidisce. Esce dalla piscina, mezza nuda, sale in auto e si fionda alla ricerca di Boiler. Passa da Bambù, ma l’edicola è stranamente

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chiusa. Lilla è disperata, forse ha capito. Erano giorni che Bambù si comportava in modo strano. C’era una specie di competizione tra i due. Almeno così la viveva Bambù, che non perdeva occasione per sottolineare i difetti, gli errori, le piccole manie di Lilla, quasi fosse una gara a punti. Specialmente in presenza di Boiler. A Lilla invece, quel genere di sfida non interessava affatto. Sapeva di averla già vinta. Ma ultimamente Bambù era diventato stranamente cordiale, quasi affettuoso. Come se pensasse di averlo vinto lui, alla fine, quel dannato campionato. Lilla vola verso il bosco, a tutta velocità. Non riesce a credere che Boiler l’abbia ingannata, che abbia convinto Bambù a tagliargli la gamba. Soprattutto dopo quello che era successo appena pochi giorni prima, e che le aveva cambiato la vita. Avevano fatto l’amore. Erano al solito posto. Al ripetitore tivù. Quello fatto saltare negli anni Ottanta ben cinque volte in cinque mesi, perché dicevano che era dannoso. Per Boiler quello era un po’ come la sua tana. Tipo capanna sull’albero o robe del genere. Un gigantesco groviglio di ferraglia e cavi, completamente foderato dal verde delle piante parassite. Erano entrambi silenziosi. Boiler era proprio giù di morale. Lilla era triste pure lei, gli occhi lucidi. Era fuggita da casa, come al solito, da quel bastardo di suo padre. Aveva bevuto. Quello era l’unico momento in cui si interessava di lei. Specialmente alle tette. Finché Lilla, senza preavviso, aveva baciato Boiler. Non il solito bacio, tipo quello che dai alla mamma prima di uscire. Questo era un bacio completamente diverso. Boiler ci restò secco. Però gli piacque. “La mia vita vale solamente duecentocinquantamila euro.” Disse amareggiato. Lilla lo baciò ancora, e ancora, che ormai non la smetteva più. “Io dico che sono un sacco di soldi” disse Lilla. “Io dico di no” sussurrò Boiler, accarezzandole il volto con una dolcezza che, lui per primo, non avrebbe mai sospettato di possedere. In quel momento si accorse che era la prima volta che la toccava, perché sotto le sue dita c’era una pelle proprio morbida, non come la sua, e liscia, e bianca come il latte, ed era bello. “Sposami e andiamocene via” disse Lilla, senza preavviso. “Sposami e te la taglio” aggiunse. Boiler si fece serio. “Ma davvero mi taglieresti una gamba?” domandò avidamente. Lilla fece spallucce, non rispose ma lo strinse forte tra le braccia. Si guardarono negli occhi, Lilla lo accarezzò dietro l’orecchio, si avvicinò un tantino, lo fissò intensamente e lo baciò. Boiler si lasciò andare, chiudendo gli occhi, che non era come al cinema con la musica e tutto il resto, ma era bello uguale. Ed era vero. Boiler e Bambù sono al ripetitore. Sono pronti. Bambù indossa un telo di plastica, perché non vuole imbrattarsi di sangue. Ha l’impressione che Boiler voglia rinunciare. Lui invece è determinato perché, alla fine, l’amico lo ha completamente convinto. Boiler si siede per terra. È silenzioso. Bambù sta per tranciargli una gamba, ma lui non riesce a cancellare dalla mente il volto luminoso di Lilla, le sue labbra umide, gli occhi, il suo corpo. Ha paura. Come quando scopri di avere una malattia contro la quale non c’è una cura, tipo l’amore, quello per Lilla, che l’aveva contagiato. Lilla scende dall’auto. È a piedi nudi. Fa per gettarsi nel bosco, quando scorge Bambù che, come ubriaco, cammina sulla strada sterrata, fradicio di sangue, con la motosega incollata alle mani. “Non doveva finire così!” ripete scuotendo la testa, come una cantilena. “Non doveva finire così!” Boiler è disteso sul prato, col bacino lacerato, in un mare di sangue. Intorno solo il silenzio del bosco. Chiude gli occhi. Li riapre. Infila la mano nella tasca, prende il cellulare. Pigia con un ultimo sforzo un tasto della rubrica, esita su un numero, il 118, ma viene distratto. Qualcuno sta avanzando verso di lui. È una donna magnifica. Boiler la riconosce immediatamente. È Nicole Kidman. L’attrice si china su di lui. Boiler sorride. Il telefono gli cade dalle mani. Nicole lo accarezza con amore, lo bacia, gli sussurra parole dolci, forse in inglese. Boiler non ci capisce un cazzo, ma le

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sorride lo stesso perché è finalmente felice. “Non importa Nicole, col tempo ci capiremo” le dice. Lilla è in ginocchio, tiene il capo di Boiler tra le mani. Troppo tardi. L’inchiesta, seguita da tutte le televisioni, stabilì che Boiler morì dissanguato. Bastarono pochi minuti. Non ebbe nemmeno la forza di parlare al telefono per chiedere aiuto. Bambù fu condannato per “omicidio colposo come conseguenza di altro delitto”. Poi, nel corso del giudizio, l’imputazione di omicidio volontario venne modificata in preterintenzionale. Non ci ho capito un cazzo, ma in questo modo fu condannato a meno di tre anni e non finì più nemmeno in carcere. Pochi giorni dopo la sentenza, Bambù si gettò giù dal viadotto. Lasciò solamente una lettera. C’era scritto che Boiler l’aveva ammazzato lui, di proposito, perché all’ultimo momento aveva deciso di rinunciare al piano, per sposarsi con Lilla e tuffarsi in una vita di quelle disgustosamente normali. Nei giorni passati insieme, scrisse Bambù, Boiler gli aveva come aperto gli occhi. Non vedeva l’ora di incassare la sua parte, per cominciare una nuova vita, lontano dall’edicola e dal paese. Aveva imparato a sognare, ormai non poteva più tornare indietro. L’inchiesta non fu riaperta. Il giudice si rifiutò di credere alla teoria del piano per truffare l’assicurazione, così come era emersa dalle numerose testimonianze. “È stato uno sfortunato incidente” decretò. “Non esiste uno che si fa tagliare la gamba con una motosega, di proposito!” Boiler aveva ragione. Poco più di un anno dopo, nel giro di poche settimane, Lilla ricevette una busta da ognuna delle compagnie assicurative. I contratti firmati da Boiler prevedevano una clausola. In caso di morte, le assicurazioni avrebbero dovuto scucire il venticinque per cento del capitale assicurato. E così fu, perché la morte di Boiler, in fondo, era stata accidentale. Lilla ottenne complessivamente duecentocinquantamila euro. Boiler li aveva destinati a lei. Con quella cifra, pensava, lui non avrebbe mai potuto realizzare il suo sogno. Troppo poco. Ma quel denaro era più che sufficiente per far avverare quello di Lilla: la normalità.

Mauro Calvone, socio e direttore creativo dell’agenzia di pubblicità Mark&Thing di Torino, è autore di L’uomo diviso dall’ombra (16 mm, 19’, 1991, Italia), premio del pubblico come miglior opera alla IX edizione del Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino e di L’età del fuoco (35 mm, 15’, 2004, Italia), presentato con successo nei maggiori festival internazionali e vincitore del Future Film Festival.

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PerchÊ lui ama Nicole Kidman. La prima volta che la vide stava facendo pipÏ seduta sulla tazza del cesso, come se niente fosse. Boiler era disciolto sul divano e lei apparve magicamente sullo schermo. Fu un colpo di fulmine. Quello era Eyes Wide Shut, che c’era pure il suo ex, Tom Cruise.

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LA RAGNATELA DI BAKU di Andrea Ruffini PROGETTO DI DOCUMENTARIO DURATA: 90 MINUTI

Con il suo progetto di documentario Andrea Ruffini ci mostra un’altra realtà dietro il boom petrolifero che sta trasformando l’Azerbaijan e il Caucaso in una zona che alcuni sostengono essere il nuovo centro di commercio di questo secolo. Attraverso le sei storie personali degli abitanti del “palazzo” chiamato Ragnatela si comprende quanto sia confusa, complessa e fragile la situazione nelle ex repubbliche sovietiche, nelle quali l’unica legge vigente è la legge della giungla. Una situazione intricata e ingarbugliata come quelle migliaia di fili elettrici attaccati ad un unico palo della luce, testimonianza anche dello spirito tenace degli abitanti. Ci resta una domanda: come si richiuderanno le vecchie ferite della Storia?

Il documentario vuole offrire una panoramica della situazione sociale dell’Azerbaijan, e in particolare della capitale Baku, che aspira ad essere una nuova Dubai. Il boom del petrolio, passato dalle mani dei russi a quello delle multinazionali petrolifere, non raggiunge gli strati più bassi della popolazione, che sono stati ingrossati dall’arrivo di centinaia di migliaia di profughi dopo la sanguinosa guerra del 1988-1994 con l’Armenia, che in realtà è ancora in corso. La Ragnatela, la baraccopoli sorta all’interno dello scheletro di cemento di un edificio non finito, con la sua popolazione variopinta e sfortunata, ben rappresenta il momento storico e sociale che l’Azerbaijan sta attraversando. Dalle finestre senza vetri si vedono i nuovi grattacieli che sorgono come funghi in tutta la città e che ospiteranno gli uffici delle multinazionali e gli hotel di lusso per gli uomini d’affari di tutto il mondo, tra i resti dell’Unione Sovietica, con casermoni ormai allo sfacelo e pozzi petroliferi arrugginiti. In mezzo a tutto questo i profughi che da dodici anni sono stati abbandonati a se stessi da un governo dittatoriale che li ignora, ma che essi continuano ad adorare in quanto ultimo residuo della passata grandezza. Sei racconti, così come sei sono i piani della Ragnatela: dalla famiglia dell’ultimo piano, che tra i piloni di cemento non finiti ha costruito persino un pollaio, al guardiano della scuola allestita nelle fondamenta, che affoga nella spazzatura lanciata dagli abitanti dei piani superiori. Ogni piano ha la sua storia: il bambino caduto in un buco che si è salvato grazie all’intricata rete di fili elettrici che attraversa ovunque la Ragnatela; la ragazza che ha sposato un rifugiato solo per scappare dalla campagna e vivere nella grande città; la famiglia venuta a Baku per comprare una baracca da un rifugiato a cinquemila dollari; il vecchio con Stalin tatuato sul petto che ha combattuto nella guerra in Afghanistan negli anni ’80 e ora muore mangiato dai topi. I racconti dei protagonisti offrono inoltre una visione allargata anche ad altre zone dell’Azerbaijan, dal Caucaso alla regione dei Talysh iraniani, alla zona occupata del Nagorno-Karabakh. Il documentario potrebbe essere il primo di una trilogia dedicata alla zona del Caucaso, che analizzerebbe situazioni analoghe in Armenia, con i profughi scampati alla guerra con l’Azerbaijan e alle tensioni con la Georgia, e in Georgia, con i profughi della guerra secessionista con l’Abkhazia. Andrea Ruffini

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SOGGETTO Nella capitale della repubblica ex sovietica dell’Azerbaijan, Baku, un tempo chiusa persino ai russi, il petrolio si vede e si sente: chiazze di greggio galleggiano sul Mar Caspio fino a lambire i marciapiedi del lungomare cittadino, appena ristrutturato e riempito di luci, bar e ristoranti e affollato di nuovi ricchi e uomini d’affari. Centinaia di pozzi petroliferi arrugginiti, abbandonati, eredità del selvaggio sfruttamento petrolifero operato senza alcun criterio di salvaguardia ambientale dai sovietici, costellano le periferie della città, fino a sfiorarne il centro storico. Immense paludi nere di petrolio circondano la città, conferendole quel caratteristico odore che sovrasta anche gli scappamenti delle vecchie Zhigulì, le auto sovietiche rimesse malamente a nuovo e che a migliaia affollano le strade di una città che in pochi anni ha triplicato il numero di abitanti. Tra le tante eredità che l’Unione Sovietica ha lasciato alle sue ex repubbliche, spiccano sicuramente un certo gusto per la corruzione e per il dispotismo, uno scarso rispetto per l’uomo e per l’ambiente, ma forse la peggiore eredità è la guerra. Il Nagorno-Karabakh, zona contesa da sempre da armeni e azeri, che entrambi considerano la culla della loro civiltà, fu tolto all’Armenia dai russi e inglobato in territorio azero nel 1926, un’altra di quelle bombe ad orologeria che Stalin sapeva piazzare con astuzia qua e là, tanto per essere sicuro di mantenere il controllo in zone altrimenti difficili. Alla caduta dell’U.R.S.S. la bomba è esplosa, e Armenia e Azerbaijan sono entrate in guerra, una guerra terribile e sanguinosa. Centinaia di migliaia di profughi azeri sono stati scacciati dalla regione occupata tutt’oggi dagli armeni e decine di migliaia di armeni sono stati scacciati dal territorio dell’Azerbaijan. Una catastrofe. I profughi azeri, vittime di una politica propagandista e disorganizzata, negli ultimi dodici anni hanno vissuto ovunque: nei vagoni ferroviari, nelle tende, in campi fatiscenti e improvvisati. Oggi alcuni sono riusciti a rifarsi una vita, ma la maggior parte, circa cinquecentomila persone, è ancora alla disperazione. La Ragnatela è il simbolo di tutto questo.

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Pensata come ospedale dai russi, alla caduta dell’impero dell’idea originaria non rimase che lo scheletro: un’intelaiatura di sei piani in ferro e cemento, vuota, in cima a una collina alla periferia di Baku. E in questo scheletro migliaia di profughi, dimenticati dai confusi piani di assistenza del governo, hanno intravisto il loro futuro. La struttura vuota si è lentamente riempita: lamiere, cartoni, mattoni, adulti e bambini. Qui i profughi hanno iniziato una nuova vita, creando una nuova baraccopoli, simile a una favela brasiliana, ma sviluppata in verticale. Vivono senza acqua né luce, ma soprattutto senza lavoro né soldi. Topi, malattie, spazzatura ovunque. E ovunque tanti fili elettrici: durante le elezioni dell’ottobre 2003, quelle elezioni farsa che hanno sancito l’ereditarietà del potere in democrazia, un palo della luce fu portato proprio di fronte alla Ragnatela: un unico palo della luce. A questo si sono subito attaccati tutti gli abitanti della Ragnatela: migliaia di fili elettrici penzolanti corrono in tutte le direzioni, entrano in tutte le baracche, in tutte le finestre dell’edificio. Da qui il soprannome. In fondo tutti questi fili sono la salvezza della Ragnatela, non solo perché hanno permesso a tutti di vivere un po’ meglio, ma anche perché dei tanti bambini che cadono nei pericolosi buchi dello scheletro dell’ex ospedale sovietico, alcuni riescono a salvarsi perché trattenuti nella caduta proprio da questa intricata rete di fili che attraversa l’edificio ovunque. Come ogni baraccopoli, anche la Ragnatela ha iniziato piano piano a vivere: sono sorti negozietti di generi alimentari a buon mercato, alcuni profughi, ormai rassegnati alla loro condizione, si sono sposati e hanno portato lì la nuova famiglia, altri hanno fatto fortuna e hanno venduto la baracca ad altri disperati che arrivano da tutto l’Azerbaijan povero e disoccupato, in cerca di lavoro nella capitale. E anche gli abitanti della Ragnatela, profughi di guerra e nuovi poveri, esclusi dal boom petrolifero che arricchisce solo alcuni, si uniscono al coro dei nostalgici dell’U.R.S.S., dispotica ma protettrice, al coro del “si stava meglio prima” che ormai si alza in tutto il paese e che ingenuamente spinge a cercare nuovamente rifugio nella dittatura come unica forma di governo possibile.

TRATTAMENTO Nel vecchio quartiere ottocentesco, ormai in decadenza, gli anziani seduti in mezzo alla strada osservano i cantieri dei grattacieli in costruzione che spuntano come funghi. Hanno ormai invaso anche il loro quartiere, si avvicinano minacciosamente alle loro case. Quando non c’erano neanche le Zhigulì, quelli sì che erano tempi. Con la nostalgia tipica dei vecchi, ricordano i tempi andati. Baku è in fermento. Il boom petrolifero muove milioni di dollari ogni giorno, e ogni giorno bisogna abbattere, costruire, e poi di nuovo abbattere e costruire. In città si vedono sempre più occidentali, soprattutto uomini d’affari che la sera si ubriacano nei pub in perfetto stile inglese che affollano il centro cittadino. I dollari girano, ma l’Azerbaijan non riesce a tenerseli. Fino alla caduta dell’Unione Sovietica, l’Azerbaijan era stata una nazione chiusa agli stranieri, russi compresi. Troppo petrolio. Gli azeri hanno passato ottanta anni in un limbo, senza accorgersi che intorno a loro il tempo passava. Poi l’indipendenza, l’invasione russa, ma soprattutto la guerra con l’Armenia, l’odiata vicina. Heidor scherza sempre sul suo cognome, Alyev, che è lo stesso del presidente. O meglio, della dinastia presidenziale. Tutti adorano gli Alyev, tranne qualche intellettuale che comunque si sente sempre meno. Negli Alyev è riposta la speranza degli azeri di poter tornare a vivere come venti anni fa, sotto l’Unione Sovietica. Allora c’era lavoro per tutti, si viveva bene, i prodotti erano genuini, di campagna. Certo, non c’era molta libertà, ma a che serve la libertà? Forse ora ce n’è di più?

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Il paese è pieno di manifesti enormi con i volti dell’ex presidente Alyev e dell’attuale presidente, suo figlio, che benedicono tutti, che parlano tra loro del futuro del paese, che promettono grandi cose. Si possono incontrare i manifesti nei posti più strani, come nel mezzo di un deserto polveroso, o in una discarica. Alyev, ex capo del partito in epoca sovietica, è stato richiamato in patria nel ’93, dopo gli insuccessi bellici dei neonati governi indipendenti azeri, ed in effetti è riuscito a fermare la guerra, o meglio, a congelarla. Perché Armenia e Azerbaijan in realtà sono ancora in guerra, da diciotto anni ormai. La guerra nella regione del Nagorno-Karabakh ha lasciato molte vittime, e la maggior parte sono ancora vive: sono i profughi che sopravvivono abbandonati a loro stessi in baracche fatiscenti, in ostelli cadenti, nei vagoni abbandonati, nelle tende. Heidor li conosce bene perché lui stesso è un profugo. Ha avuto più fortuna degli altri, aveva qualche soldo da parte e i parenti di Baku lo hanno aiutato, lo hanno accolto. Oggi si è stabilito nella capitale, ma il quartiere dove abita sarà abbattuto presto, per far spazio ad un centro commerciale. Tutto sommato è ancora fortunato, troverà un altro posto, in fondo tutto è meglio della Ragnatela. La Ragnatela rappresenta abbastanza bene l’Azerbaijan di oggi: lo scheletro di ferro e cemento di un ospedale sovietico non finito di costruire. È in cima a una collina da cui si può vedere un bel panorama di Baku. Si scorgono anche i grattacieli in costruzione, e la gente non capisce come mai si costruisca così tanto dappertutto, si parli così tanto del petrolio e del nuovo oleodotto che collega il Mar Caspio all’Europa, dei grandi affari che il presidente conclude con gli stranieri, ma loro li si lascia lì, a vivere nella Ragnatela. Negli anni, centinaia di migliaia di profughi in fuga dalla guerra sono arrivati a Baku, ma solo alcuni sono stati soccorsi e ospitati in alloggi di fortuna. Molti si sono dovuti arrangiare da soli. Nello scheletro dell’ex ospedale hanno intravisto un futuro e hanno iniziato a costruirvi le loro baracche, dando vita ad una bidonville in verticale, che nel tempo si è andata consolidando. Sono sorti piccoli negozietti di alimentari e i profughi si sono rassegnati e hanno iniziato a rimpiazzare le pareti provvisorie di lamiera con muri di mattoni più stabili e sicuri. Si sono sposati e hanno messo su famiglia. Oggi ci vivono migliaia di persone, nella maggioranza profughi, ma anche disperati provenienti da ogni parte del paese. In tempo di elezioni un politico a caccia di voti ha fatto piantare un palo della luce proprio davanti all’edificio. Un unico palo per tutti. Oggi sono migliaia i fili elettrici che, partendo dal palo in tutte le direzioni, si insinuano in ogni buco, in ogni fessura dell’edifico. Una visione impressionante che ha guadagnato al posto il suo soprannome: la Ragnatela. Al sesto piano, i piloni di cemento e di ferro arrugginito si slanciano verso il cielo. Le galline razzolano tra i rifiuti, in un pollaio di fortuna. Le scale semidistrutte a stento arrivano in questo piano non finito e senza tetto, che doveva essere il penultimo. L’aria è un po’ migliore che nei piani sottostanti ed è tutto più luminoso, meno angusto. La vista spazia per chilometri sulla caotica Baku, in cui vecchi sovietici e nuovi speculatori hanno lasciato e lasciano tuttora segni profondi e incomprensibili. Ma è anche il posto più pericoloso, il più alto, quello da cui i bambini possono cadere facilmente. È questa una delle piaghe della Ragnatela: i buchi strutturali sono delle pericolose trappole per i bambini che, giocando, vi cadono dentro a decine ogni anno, spesso morendo. Aysel è preoccupata per i suoi figli, ma del resto qui ha trovato posto per la sua baracca, e abitare in un piano così poco affollato è comunque un privilegio. Il marito è morto in guerra, lei è arrivata qui e ha conosciuto Nino, anche lui vedovo. Si sono messi insieme, lui ha accettato i figli di lei, e lei gliene ha dati altri due. Sono qui da dieci anni. Speravano, come tutti del resto, che fosse una sistemazione momentanea, in attesa di ritornare a casa. Nino è un brav’uomo, un contadino onesto che ancora non capisce il perché di tutta quella violenza. In fondo, gli armeni erano i loro vicini e hanno vissuto insieme per tanti anni.

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Ugur viene da Fizuli, al confine con il Nagorno-Karabakh, tuttora zona di guerra. Ha anche provato a tornare a casa. È stato via un paio di mesi, lasciando la famiglia ad aspettarlo alla Ragnatela, per non farsi occupare la baracca al quinto piano. Quando è tornato era più depresso che mai: la casa non c’era più, e Fizuli sembrava un paese di fantasmi. Ogni tanto, la notte, gli armeni accendevano dei fuochi e sparavano. Poteva sentire il fischio delle pallottole sopra la testa, sparate così, a caso. La gente, con l’aiuto di qualche ONG internazionale, sta tornando lentamente a ripopolare i paesi abbandonati, ma è difficile vivere lì, manca tutto ed è pericoloso. Ora non sa che fare, deve decidere se comprare i mattoni e stabilirsi definitivamente nella Ragnatela o tornare in campagna. È qui con la famiglia da dodici anni, i suoi figli non si ricordano più niente della loro terra. Non conoscono la campagna, i boschi. Conoscono solo la Ragnatela. Ha paura che diventino dei delinquenti. Davud ha nove anni. È nato qui. Vive con la madre al quarto piano. Il padre non l’ha conosciuto. Il compagno della madre ogni tanto c’è, ogni tanto no. Davud qualche anno fa è caduto in un buco, giocando. Un salto di quattro metri. È stato però fermato dalla fitta trama dei fili elettrici che l’ha trattenuto ed ha attutito la sua caduta. Ora zoppica leggermente, ma è vivo. La madre, da allora, ogni tanto dà segni di squilibrio. Il fratello di Davud invece è morto, cadendo nel buco, quando era ancora piccolissimo. Davud è contento di essere vivo, così potrà lavorare e guadagnare i soldi per riportare sua madre a casa. Lui il Nagorno-Karabakh non sa neanche dov’è, ma i racconti sulla campagna lo incuriosiscono, vorrebbe andare a vedere se è tutto vero. Shallala viene dalle montagne del Caucaso. Non è una profuga. Semplicemente non riusciva a vivere lì, isolata. Aveva voglia di vedere la città, di cambiare vita. E così è scappata. Non esiste disonore più grande per una donna azera che scappare di casa da sola, lasciando i genitori e i fratelli, per andare a far fortuna. Ma era ancora giovane, cinque anni fa, non si rendeva bene conto che non sarebbe più potuta tornare a casa. I parenti a Baku non l’hanno accolta bene, l’hanno ospitata solo per poco tempo. Le hanno anche trovato un marito, Ismayil. Ismayil è soprannominato l’Armeno perché era un azero che viveva in Armenia, prima che scoppiasse tutto. Dopo il massacro di armeni fatto nell’88 dagli azeri vicino a Baku, a Sumqaiyt, una delle scintille che hanno fatto scoppiare la guerra, gli azeri hanno cominciato a non essere più ben visti in Armenia, ad avere difficoltà nel trovare lavoro, ad avere paura. Ismayil ha pensato bene di andarsene in Azerbaijan, insieme a migliaia di azero-armeni. Shallala ha imparato a volergli bene, e spera di riuscire presto a vendere

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l’appartamento in muratura che hanno al terzo piano della Ragnatela, e magari tornarsene in montagna con il marito e i due figli. In fondo, lassù si viveva bene. La famiglia di Ahmed viene dal sud dell’Azerbaijan, al confine con l’Iran. Una zona poco conosciuta anche dagli stessi azeri, ma bellissima. Lì si conservano tuttora molte tradizioni dell’etnia Talysh, di lingua ed origine iraniana. Ahmed prima lavorava come pastore per il kolkhoz. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica ha cominciato a lavorare sempre meno. Quando in paese molti hanno iniziato ad andarsene, Ahmed ha deciso di andare a vedere la situazione a Baku. La città all’inizio lo ha spaventato, ma presto si è adattato. Ha fatto amicizia, ha vissuto qua e là e poi ha trovato l’occasione: un appartamento in muratura di due stanze al secondo piano della Ragnatela. Cinquemila dollari. All’inizio i padroni, dei rifugiati che avevano deciso di tornare nella loro terra al confine con il Nagorno-Karabakh, ne volevano seimila. Ahmed allora è tornato in paese, ha chiesto in giro e ha racimolato cinquemila dollari in prestito da alcuni commercianti, l’unica categoria che ha beneficiato del passaggio ad un’economia di libero mercato. È tornato alla Ragnatela con i soldi e ha comprato l’appartamento. Ora ci vive con la moglie e due dei tre figli che l’hanno raggiunto dal sud. Il terzo figlio ha preferito rimanere sulle montagne, ha trovato lavoro come pastore nomade di capre sulle montagne iraniane. Ahmed un po’ lo invidia, è difficile abitare in città e non vedere mai la natura. In vecchiaia certamente tornerà là, a morire. Anar ha 70 anni. Ha combattuto contro gli afgani, negli anni ’80. Ha ancora le medaglie. Prima ha lavorato sugli Urali e in Siberia. Ne ha viste tante. Ha molti tatuaggi, tra cui Stalin e Lenin, ma anche donne e cuori trafitti. Quando è tornato a casa, nel Nagorno-Karabakh, ha iniziato a lavorare come contadino nel kolkhoz, soprattutto nelle vigne. A quei tempi di vigne in Azerbaijan ce n’erano molte e, pur essendo un paese musulmano, molti facevano il vino e alcuni addirittura il konjak. L’uva azera era famosa nei mercati di Mosca. Gorbaciov, per combattere l’alcolismo dilagante in Russia, decise di far abbattere quasi tutte le vigne azere, o almeno è quello che si racconta. Ma solo quelle azere, non quelle georgiane o armene. Poi la guerra, la fuga. Molti dei suoi familiari sono morti. Vive al primo piano della Ragnatela con la figlia e la nipote, e, pur essendo un uomo avvezzo a tutto, non riesce a dimenticare la sua terra e spera di poter morire lì. Fa il guardiano nella scuola aperta da una ONG internazionale negli ex scantinati dove prima ci tenevano i cadaveri. Ora i locali sono stati ripuliti, ridipinti e arredati con banchi e lavagne, ma intorno è rimasto il degrado.

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Quando piove si allaga tutto. Dai piani superiori tutti gettano la spazzatura di sotto, e si sono formati degli enormi mucchi in cui razzolano le galline, “le stesse che poi dobbiamo mangiarci”, e soprattutto proliferano i topi. È difficile difendersi dai topi, quando hanno fame diventano pericolosi, ti assalgono la notte. Molti bambini sono stati morsicati, alcuni neonati sono morti. La gente ha delle strane bolle su tutto il corpo. Anar è preoccupato per il suo paese, perché oggi l’Azerbaijan sta male, prima era meglio. Il petrolio in Azerbaijan c’è sempre stato, non l’hanno certo scoperto gli americani. Ma dove finiscono tutti i soldi? Almeno prima c’era lavoro, si viveva in armonia anche con i vicini armeni tra i quali aveva tanti amici. Oggi ci sono solo violenza, povertà e razzismo. Scherza sui suoi tatuaggi, sulla Russia dove ha visto gli uomini più alcolizzati del mondo, ma che se riuniti insieme in una stanza possono costruirti un aereo con un cacciavite e due viti. E ricorda ridendo un vecchio detto armeno sulla situazione del Caucaso: perché non sono stati gli armeni ad andare sulla luna? Perché se fossero andati loro per primi nello spazio, i georgiani sarebbero morti di invidia, e se i georgiani fossero morti di invidia, gli armeni sarebbero morti di gioia, lasciando così tutta la terra agli azeri...

Andrea Ruffini è regista, direttore della fotografia e montatore di documentari, reportage e serie tv. Ha collaborato con società di produzione, ONG, istituzioni pubbliche e private e reti televisive italiane come RAIUNO, RAIDUE, RAI International, Canale 5, Italia 1, Rete 4. Da regista ha diretto documentari in diverse parti del mondo: We San Komot, I diritti delle donne in Sierra Leone, Il primo agente, in Russia, Los Piojos de Evita, in Argentina, Una vita indipendente, in Kosovo. In Italia ha invece girato Come foglie al vento e L’autostrada.

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VISSARION di Andrea Ruffini PROGETTO DI DOCUMENTARIO DURATA: 60 MINUTI CIRCA

Sembra incredibile come nell’epoca odierna, nonostante il progressivo degradarsi di valori e ideologie, riesca ancora a farsi strada un forte e disperato bisogno di spiritualità, un continuo cercare qualcosa in cui credere ciecamente e in maniera del tutto irrazionale. Analizzando i numerosi movimenti religiosi che si moltipicano in ogni parte del mondo, spesso ci si accorge che alla base di una tale “urgenza di dogmi” si nasconde un profondo disagio sia a livello dell’individuo ma anche e soprattutto a livello della società. La Chiesa dell’Ultimo Testamento di Vissarion è in questo senso un esempio lampante di tutto ciò: in un territorio martoriato come quello dell’ex Unione Sovietica, un uomo si annuncia come il Cristo Messia tornato sulla terra per completare la sua opera, e il popolo stanco e deluso non fa fatica a credere alle sue parole. Ma il vero “miracolo” di Vissarion sta nell’essere riuscito a rendere una cosa sola la fede e la voglia di rinascita, affiancando alle pratiche del culto un enorme e faticoso lavoro di edificazione di una comunità il cui obiettivo principale è quello di ristabilire l’equilibrio interiore e il contatto con la natura. Che si creda o no alle sue parole, il modo in cui Vissarion è riuscito a riaccendere la speranza e la voglia di vivere di molte persone non può certo lasciare indifferenti.

Il documentario offrirà un ritratto intimo di Sergei Torop, alias Vissarion, il leader spirituale e carismatico della Chiesa dell’Ultimo Testamento. Vissarion vive isolato, in cima a una montagna che sovrasta la Città del Sole, con sua moglie e sei figli. Uno sguardo alla vita privata di questo moderno Messia, della sua famiglia e dei suoi discepoli più vicini permetterà di indagare sulle possibili ragioni della grande influenza esercitata da Vissarion su migliaia di persone provenienti da tutto il mondo, che hanno abbandonato casa e lavoro per stabilirsi definitivamente in Siberia. Il documentario mostrerà anche la vita quotidiana della comunità e le enormi difficoltà che i fedeli devono affrontare per vivere in un ambiente così estremo, analizzando le motivazioni della fede cieca che migliaia di persone hanno nel nuovo Cristo e contestualizzando la comunità all’interno della società russa di oggi, confrontandola con le disperate condizioni di vita dei paesi e delle città siberiane più vicine. Andrea Ruffini

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“È tutto molto complicato, ma se vogliamo semplificare, sì, è vero, io sono Gesù Cristo. Ciò che è stato promesso si deve avverare. E in Israele 2000 anni fa fu promesso che io sarei tornato, che sarei venuto per finire ciò che era stato iniziato. Io non sono Dio. È un errore identificare Gesù con Dio. Ma io sono la Parola vivente di Dio Padre. Tutto ciò che Dio intende dire, lo dice attraverso di me.” Regione di Krasnojarsk, Siberia meridionale, 3.700 Km ad est di Mosca, ai confini con la Mongolia: Sergei Torop, originario della remota cittadina siberiana di Minusinsk, dichiara di essere il Figlio di Dio. Era il 1989. Oggi, dopo diciassette anni, migliaia di fedeli lo hanno seguito nella cosiddetta Città del Sole, sorta in mezzo alle montagne siberiane sulle rive del Lago degli Dei, leggendario luogo di provenienza degli ariani indoeuropei. Attorno alla Città del Sole, in luoghi altrettanto sperduti e con temperature che oscillano tra i -40° C d’inverno e i +40° C d’estate, sono sorti numerosi paesini fondati dagli stessi fedeli, giunti qui non solo da tutta la Russia, ma anche da numerose repubbliche ex sovietiche e persino dall’Europa. Ciò dimostra la grande influenza che Sergei Torop, alias Vissarion, ovvero “il Maestro”, ha esercitato su fedeli provenienti da tutto il mondo, compresa l’Italia, dove è stato invitato a tenere alcune conferenze e incontri. La Chiesa dell’Ultimo Testamento, questo il nome del movimento, si propone di riunire le quattro religioni principali in un’unica fede, secondo quanto indicato da Vissarion nel testo chiamato appunto L’Ultimo Testamento, opera monumentale scritta a quattro mani con il suo “braccio destro” Vadik, ex cantante ed ora al vertice della rigida gerarchia religiosa della comunità. La Chiesa di Vissarion, il nuovo Cristo, è diventata in breve tempo una delle comunità religiose più importanti e numerose del mondo. La nascita di una nuova spiritualità in Russia e nei paesi satelliti dopo la caduta del regime e l’effettiva possibilità di una vita sana e naturale, lontana dal caos del mondo moderno, ma soprattutto dalle delusioni, dalla povertà e dall’alcolismo che attanagliano l’ex U.R.S.S., hanno spinto migliaia di persone a rifugiarsi nel movimento e a rifarsi una nuova vita. La comunità, con i suoi trenta paesi costruiti interamente dai fedeli, è quasi del tutto autosufficiente: l’inospitale taiga, la foresta russa gelata d’inverno e paludosa d’estate, dove sorgevano i gulag fino agli anni ’50, è stata resa abitabile, e in alcune zone i seguaci di Vissarion sono riusciti persino ad avviare coltivazioni sinora impensabili, come le banane e la vite. Vestiti, mobili, attrezzi di lavoro: tutto ciò che può servire viene prodotto all’interno della comunità, fatta eccezione per alcune jeep e per gli indispensabili computer. Altra caratteristica della comunità è infatti l’informatizzazione, necessaria sia per rispondere alle moderne necessità di propaganda via internet, sia per gestire attività complesse come la falegnameria e lo studio dentistico. Il rispetto della natura e la quasi totale compatibilità ecologica della comunità hanno reso la Città del Sole un “sito ecologico” riconosciuto dalle più importanti associazioni di ecologisti del mondo, che l’hanno ritenuta in grado di salvare una buona fetta di Siberia dalla selvaggia colonizzazione russa degli ultimi secoli. Abakan, la capitale della repubblica autonoma della Kakhassia, è la città più vicina alla comunità di Vissarion. Il suo aspetto è tutt’altro che ospitale. Enormi casermoni popolari decadenti e scrostati, facce torve che si aggirano per le strade, vecchie macchine sovietiche che fanno servizio di taxi collettivo, autobus antidiluviani, spesso fermi in mezzo alla strada per un guasto, fanno quotidianamente parte del paesaggio. Ad Abakan solo pochi hanno sentito parlare di Vissarion nonostante la sua vicinanza. Il viaggio fino a Petropavlovka, il primo dei paesi della comunità, sembra un viaggio nella storia russa. Varie culture si incontrano, e a volte si scontrano, in queste zone ai confini dell’impero, per non dire del mondo: la cultura indigena, che sopravvive a stento in paesini fantasma ai margini della società; quella prerivoluzionaria, con le sue casette di legno colorate mezze sbilenche, le izbe

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con i tetti di paglia e i contadini con i lapti ai piedi e le camicie lunghe fino alle ginocchia; la cultura sovietica, con le sue industrie ormai abbandonate e le città di cemento in mezzo al niente, da cui non traspare altro che povertà e delusione; la sempre più diffusa cultura neocapitalista, fatta di imprenditoria e di mafia, di negozi di lusso destinati a pochi, di macchine fuoristrada da migliaia di dollari, di vestiti firmati, berretti da baseball e scarpe da ginnastica; ed infine l’onnipresente cultura cinese, che con le sue sterminate coltivazioni di cetrioli e cavoli destinati al loro mercato, sta attuando una lenta invasione che uccide i piccoli produttori agricoli locali. Un panorama dove tutti lottano, chi per l’affermazione, chi per la sopravvivenza. La vita nella comunità, per quanto dura, ha molto da offrire. Oltre al cibo spirituale, Vissarion offre una speranza, ormai scomparsa da quasi tutta l’ex Unione Sovietica, quella di vivere una nuova vita, lontano dalla violenza e dalla disperazione. Ma soprattutto lontano dalla vodka. Il tasso di alcolismo in Russia è altissimo, e più ci si allontana dai grossi centri più sale vertiginosamente. Non è difficile in queste zone vedere uomini dai visi gonfi e tumefatti che si aggirano senza meta pronti a tutto per qualche spicciolo, mentre le donne, indurite dalla vita, fanno i lavori che i loro uomini non riescono o non vogliono più fare. Nella comunità di Vissarion l’alcool è vietato, e subito sembra di essere in un altro mondo rispetto ai paesini cadenti incontrati pochi chilometri prima. Sorprendono le belle e pulite case di legno colorate, gli orti tenuti come giardini, l’aspetto sano e l’ospitalità degli abitanti che hanno salvato dalla rovina ben dieci paesi, ristrutturandone le case, costruendone di nuove e riportando in vita una zona che pareva destinata a morire. Conversando con gli abitanti, osservandoli nella loro vita quotidiana, si intuisce che non tutti sono lì solo per vivere accanto al nuovo Messia, ma c’è anche chi lo fa per sopravvivere a un mondo in rovina che non offre più futuro. Volodja sembra proprio uno di questi. Meccanico, autista dei pochi enormi fuoristrada di epoca sovietica che circolano nella comunità, “gli unici che riescano a sopportare le strade siberiane”, contadino e operaio tuttofare, Volodja è un sano e robusto uomo di campagna, che all’alba fa colazione con spicchi d’aglio crudo e panna acida. Non riesce bene a spiegare perché sia lì, non affronta questioni troppo spirituali, sfugge, indirizza il discorso su questioni pratiche. Guardandolo mangiare, lavorare, correre di qua e di là a risolvere problemi, viene subito il sospetto che siano altri i motivi che l’hanno spinto a vivere nella comunità e che forse, frugando bene nella legnaia, una bottiglia di “acquetta” fatta in casa Volodja ce l’abbia proprio nascosta. Sergej è invece profondamente legato a Vissarion. È stato tra i primi a giungere in questa zona nell’89, quando il maestro ha avuto l’illuminazione e ha deciso di addentrarsi nella taiga con qualche discepolo a cercare il posto più adatto alla fondazione della Città del Sole. L’impresa è stata ardua: la taiga è spietata. Centinaia di chilometri di foresta vergine, d’estate un labirinto di paludi e fango popolato da orsi e da milioni di tafani e zanzare, d’inverno un infinito mare di ghiaccio. In cima alla montagna più alta, Vissarion e i suoi hanno trovato il posto che cercavano: sulle rive del lago Tiberkul, uno dei più importanti centri di energia spirituale di tutta la Siberia, adorato da millenni da tutte le popolazioni siberiane. Va da sé che sarà l’unico posto sulla terra a salvarsi quando ci sarà la fine del mondo. Sergej era un colonnello dell’Armata Rossa. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, ha iniziato ad avere dei dubbi. Quando ha incontrato Vissarion, ha capito. Oggi è il primo prete della Chiesa di Vissarion. Battezza la gente, si occupa delle messe. La sua permanenza nella Città del Sole è però durata solo pochi mesi: era troppo dura per lui, e il Maestro lo ha rimandato a valle, in uno dei paesi che formano la comunità allargata. Perché è il Maestro che decide chi può vivere lassù, in cima alla montagna, ed è un privilegio di cui pochi possono godere, quello di vivere vicino a Cristo. Sergej difatti sembra voler nascondere una punta di delusione. La moglie lo ha raggiunto lì e condivide la sua nuova fede. Il figlio è rimasto a Mosca, un po’ scettico riguardo alla decisione del padre di lasciare l’esercito e diventare prete della Chiesa dell’Ultimo Testamento. I pellegrini si accalcano intorno al preistorico e monumentale camion sovietico che li trasporterà in

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visita al Maestro. Ha l’aria così solida che sembra un carro armato. Di certo sarà in grado di reggere le fangose e impraticabili strade siberiane. Vengono da ogni parte della Russia: dall’estremo oriente, da Mosca, dall’Ucraina, dalla Moldavia. Marina è bulgara, è in comunità da un anno e tra un po’ di tempo, quando si sarà sistemata definitivamente, farà venire la sua famiglia. Per ora è là con il suo ragazzo belga e stanno sistemando la loro casa. Una vecchina porta in regalo al Maestro un’enorme cassa di verdura del suo orto: sembra incredibile pensare che sia riuscita a portarla fin lì con le sue sole forze. Altri portano qualche modesto dono, ma i più sono a mani vuote, poveri russi animati dal desiderio di incontrare Gesù. Ci sono anche dei ragazzi che ogni anno vengono a visitare la Città del Sole, prima quasi per scherzo, poi sempre più seriamente. Sembrano dei campeggiatori, tanto sono allegri e spensierati. Il camion percorre strade sterrate, attraversa altri paesi della comunità raccogliendo altri pellegrini. La stradina costeggia un fiume, si addentra in foreste senza fine per poi finire in un torrente di fango che durerà diversi chilometri. Il camion arranca, ma ce la fa. I pellegrini saltano e sbattono l’uno contro l’altro, ma sopportano. La vecchina ha una resistenza sovrumana. I tafani a migliaia rincorrono il camion e colgono ogni frenata per entrare in massa dai finestrini semiaperti, ricoprendo i volti e le mani delle persone. I pellegrini si schiacciano l’un l’altro gli insetti con schiaffi e pizzichi, tra sorrisi di gratitudine. Una signora di mezza età, accovacciata su un mucchio di borse, ha l’aria assorta, vagamente soddisfatta. Un raggio di sole le illumina il volto. La Città del Sole è isolata da tutto. La natura è forte qui, e crearsi uno spazio non è facile. Niente elettricità, niente acqua, niente strada. Solo un paludoso sentiero nel bosco. Va meglio d’inverno: con le slitte sulla neve si arriva quasi fino in paese. La Città del Sole è stata ribattezzata “Ecopolis” e in effetti i Vissariontsi vivono nel rispetto della natura. I viottoli del paese si snodano tra orti, alberi secolari e cespugli di lamponi, la natura domina sempre sull’uomo, talvolta sembra quasi avanzare, come se volesse spazzare via la Città. Si utilizza l’energia solare grazie alla quale sono riusciti a mettere in piedi una falegnameria professionale, un ambulatorio medico, uno studio dentistico computerizzato, e persino una sala prove per la rock band della Città. Perché qui, come in ogni comunità che si rispetti, sono arrivate persone di ogni strato sociale, dall’umile operaio al manager. Volodja, intelligente ed energico, è il numero tre della comunità. Ex manager di una grande impresa turistica per miliardari russi, ha viaggiato molto e visto molto. Anche lui è stato catturato dal carisma del Maestro e ha mollato tutto. Ora è l’amministratore della comunità ed è in gamba. Si è costruito la casa con le sue mani e spera che prima o poi la comunità diventi completamente autosufficiente. La moglie Anna è di Khabarovsk, città dell’estremo oriente siberiano. È una bella donna bionda e dolce, ma il suo sguardo è triste. È dura vivere lassù, in mezzo alla taiga. Forse la cosa più difficile

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per lei è stata accettare l’inferiorità della donna rispetto all’uomo, uno dei dogmi della comunità. Ma la vita fuori è ancora più difficile, ne ha viste tante a Khabarovsk, e poi trova gratificante vivere accanto a Cristo. In cima alla montagna che sovrasta la Città del Sole ci sono tre costruzioni: la cattedrale del Maestro, incredibile edificio circolare di legno posto in cima ad una roccia, la casa di Vadim, il braccio destro di Vissarion e, al di sopra di tutte, la casa del Maestro. Vadim è ucraino, prima era un cantante, amava molto il reggae e la musica napoletana. Appare sempre sorridente e rilassato. È giunto qui con il Maestro, in quel viaggio tremendo che è stata la ricerca della Città del Sole, e con il Maestro ha scritto L’Ultimo Testamento, l’opera in quattro volumi che racchiude la dottrina della nuova Chiesa. Compito della Chiesa dell’Ultimo Testamento sarà riunire tutte le fedi cristiane nell’unica Chiesa, quella di Vissarion. Non è stato ancora deciso se ne faranno parte anche gli ebrei, che in fondo adorano Dio anche loro. Ma probabilmente in futuro la Chiesa delle Fedi Unificate raccoglierà le religioni di tutto il mondo. Vadim aggiorna continuamente le cronache di Vissarion, tra cui una biografia in fieri del Maestro che ha raggiunto i sette volumi ed è stata parzialmente tradotta in varie lingue. Vadim ha anche organizzato il viaggio di Vissarion in Italia, invitato da alcune associazioni italiane desiderose di conoscere il Maestro. Una foto di Vissarion in piazza San Marco è in bella vista sopra un comodino. Vissarion vive isolato nella sua casa, con la moglie e sei figli che non si vedono mai. È in tutto simile all’iconografia ufficiale: tunica, capelli lunghi e barba bionda, sguardo limpido e sincero. È indubbiamente carismatico, sicuro nelle sue affermazioni semplici ma incisive. Difficile vedere in lui il vigile urbano di un tempo, prima dell’illuminazione. È il Figlio di Dio, venuto per completare ciò che era rimasto in sospeso. Ma non si proclama Dio, semplicemente Dio parla attraverso di lui. È lui a dettare le leggi della comunità, attraverso una serie infinita di comandamenti che viene di quando in quando pubblicata anche via internet: vegetarianesimo e astinenza da tutti i vizi, amore verso il prossimo e rifiuto di ogni forma di violenza, invito alla vita comunitaria ma anche al rispetto della proprietà altrui, meditazione e amore per la natura. Una mescolanza di influenze cristiane, buddiste e new age. Vissarion ha viaggiato molto, in Germania, Italia, America, Inghilterra, Europa dell’Est e Paesi Baltici, e la sua è diventata ormai una delle più importanti comunità religiose del mondo, che secondo lui unirà presto tutte le fedi in un’unica religione. Questo sarà l’unico modo in cui l’umanità potrà salvarsi. Quando può, si ritira nella sua casa, dove ama dipingere, meditare e ascoltare la voce di Dio che gli infonde nuovo sapere e gli suggerisce nuove leggi per il benessere dei fedeli. La moglie Ljuba si prende cura di lui, provvede ai lavori di casa, a cucinare e a cucirgli i vestiti. Dalle finestre della sua casa i boschi della taiga si estendono per centinaia di chilometri tutt’intorno.

Andrea Ruffini è regista, direttore della fotografia e montatore di documentari, reportage e serie tv. Ha collaborato con società di produzione, ONG, istituzioni pubbliche e private e reti televisive italiane come RAIUNO, RAIDUE, RAI International, Canale 5, Italia 1, Rete 4. Da regista ha diretto documentari in diverse parti del mondo: We San Komot, I diritti delle donne in Sierra Leone, Il primo agente, in Russia, Los Piojos de Evita, in Argentina, Una vita indipendente, in Kosovo. In Italia ha invece girato Come foglie al vento e L’autostrada.

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FICTION CORTOMETRAGGI di GuidoCARBONE Cerasuolo PROGETTO DI DOCUMENTARIO DURATA: 52 MINUTI

Sono trascorsi sessant’anni dall’accordo “Uomini per carbone” tra il governo belga e quello italiano, un accordo ambiguo che ha lasciato in eredità un dubbio ancora irrisolto: si è trattato di un mero baratto per rispondere a drammatiche esigenze economiche oppure ha costituito il primo strumento politico per innescare un processo di integrazione socio-economica in ottica europea? Tesi che probabilmente non si escludono a vicenda e che Carbone (Men for coal) ha il pregio di voler esplorare con chiarezza, ricostruendo un fatto storico che ha cambiato il destino di molti uomini.

Quando mi hanno raccontato dell’accordo del 1946 più noto come “Uomini per Carbone”, ho pensato alla storia di due fratelli che ho conosciuto, originari di un piccolo paesino sulle montagne tra il Veneto e il Friuli. Il più vecchio dei due fratelli è morto qualche anno fa a più di ottant’anni. Gino era un uomo semplice che non aveva studiato. Era nato in un’Italia povera ed era cresciuto in un paese ancora ferito dalla guerra. Aveva scelto di cercare lavoro all’estero perché non vedeva alternative per farsi una famiglia e costruirsi una casa, magari proprio nel paese dove era nato. Gino era partito nel dopoguerra insieme agli “uomini per carbone” ed era tornato alla fine degli anni Sessanta, con i polmoni malati ma abbastanza soldi per costruire la piccola casa dei suoi sogni. Dopo la casa, con l’aiuto dei fratelli più giovani che non erano partiti, aveva rimesso in sesto la vigna e poi, piano piano, i campi e la stalla. Nel giro di vent’anni erano cominciati gli aiuti della Comunità Europea e i fratelli che avevano studiato un poco più di lui erano riusciti a trovare fondi e finanziamenti per trasformare le non ingenti proprietà di famiglia in una piccola azienda di successo. Negli ultimi anni il fratello più giovane, Gildo, si lamenta sempre di quest’Europa invadente che limita le quote latte e impone di cambiare le spine e di adeguare i sistemi di sicurezza, mentre i soldi non bastano mai per pagare le rate della nuova BMW e della terza tv a colori... Quando ho raccontato ai due fratelli che le due tonnellate e mezzo di carbone per le quali il governo italiano aveva scambiato Gino alla fine non erano mai state acquistate, perché l’Italia comunque non aveva trovato i soldi, Gino mi ha risposto: “Magari però se non andavo la casa non riuscivo a farla e i miei fratelli non avrebbero potuto metter su l’azienda che dà lavoro a tutti i miei nipoti e... insomma, magari è andata bene così... no?” Gildo invece ha detto: “Magari non avrei avuto tutti ’sti problemi che ho adesso...” Poi se n’è andato con la BMW nuova, perché aveva da fare. Il documentario ricostruisce e racconta la storia dell’accordo “Uomini per Carbone” per cercare una risposta alla domanda di quel vecchio emigrante: magari al fratello e ai nipoti potrà interessare. Guido Cerasuolo

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LA STORIA Alla fine della Seconda Guerra Mondiale il Belgio è tra i paesi vincitori, l’Italia tra gli sconfitti. Il Belgio ha bisogno di manodopera che lavori in profondità per lo sfruttamento degli ingenti giacimenti carboniferi, mentre l’Italia del dopoguerra dispone di un gran numero di disoccupati e ha una disperata necessità di materie prime per riavviare l’attività industriale. Il 23 giugno 1946, dopo quasi un anno di trattative, i governi di Roma e di Bruxelles siglano un accordo che stabilisce uno scambio di “uomini per carbone”. Sulla base di questo accordo, l’Italia s’impegna a fornire al Belgio duemila lavoratori alla settimana e il Belgio s’impegna a vendere 2,5 tonnellate di carbone al mese all’Italia per ogni minatore fornito. Diciottomila “volontari” lasciano l’Italia nel 1946, più di ottantamila si trasferiscono in Belgio nei primi quattro anni. Nel 1961 gli italiani in Belgio sono duecentomila. Tra il 1946 e il 1958 migliaia di minatori italiani si ammalano di silicosi, più di mille muoiono nelle miniere. Ma l’Italia non compera mai il carbone: costa troppo... L’accordo “Uomini per Carbone” del 1946 non fissa, infatti, un prezzo di favore per l’Italia, ma riserva al governo italiano il diritto d’opzione sull’acquisto di una determinata quantità di carbone a condizione che l’Italia fornisca un determinato numero di lavoratori: ogni minatore italiano in Belgio vale all’Italia il diritto all’acquisto di 2,5 tonnellate di carbone al mese. Una deportazione in tempo di pace? L’affissione di un manifesto rosa sui muri delle piazze di ogni città italiana è il mezzo propagandistico per il reclutamento dei lavoratori. I manifesti garantiscono un salario sicuro: nella poverissima Italia del dopoguerra il numero di disoccupati è molto elevato e i soldi scarseggiano anche tra coloro che dispongono di un lavoro. L’offerta di lavoro in Belgio appare come una reale opportunità per migliaia di persone. I requisiti per aderire all’offerta di lavoro sono di non avere più di 35 anni di età, non essere comunisti ed essere disposti a lavorare nelle miniere a più di 1.000 metri di profondità, dove i minatori belgi si rifiutano ormai di scendere. Ulteriore condizione per l’assunzione è la garanzia da parte dei “volontari” di lavorare almeno 12 mesi. Coloro che disattendono tale condizione, abbandonando anticipatamente le miniere, anche solo per paura, a volte sono rinchiusi nel Petit Château, una prigione di Bruxelles, fino a quando non si decidono a tornare in miniera o in Italia. Un’ampia parte del contratto tra il “volontario” e la Federazione delle Associazioni dei Minatori del Belgio impone ai lavoratori italiani condizioni inaccettabili che spesso non possono essere rispettate. Per molti italiani questa opportunità rappresenta comunque la possibilità di ricominciare, per altri invece un viaggio senza ritorno. Che il lavoro in miniera sia rischioso molti lo sanno o lo imparano subito. Quello che ignorano, e che i manifesti rosa non riportano, è che lo scambio di “uomini per carbone” è un accordo tra governi finalizzato a convincere gli italiani ad emigrare per un ipotetico “bene del paese” senza alcuna contropartita se non il riconoscimento di un salario per scendere nelle miniere più profonde.

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IL DOCUMENTARIO “Il Belgio è il primo paese europeo che apre le frontiere ai lavoratori italiani”. L’accordo Roma-Bruxelles del 1946 provoca una massiccia migrazione e, in qualche modo, rappresenta uno dei primi passi dell’unificazione europea. I lavoratori italiani che partono per il Belgio non sanno se si fermeranno un anno, un mese o un giorno. All’arrivo in Belgio molti decidono di tornare a casa, molti si fermano per anni. Alcuni si fanno raggiungere dalle famiglie, altri ne creano di nuove nel paese che li ospita. Tutti insieme, quei lavoratori sono i pionieri di un’esperienza che costituisce uno dei primi mattoni nella costruzione dell’Europa unita. Vorremmo che il film ci aiutasse a capire quale fosse, da parte degli “uomini scambiati per carbone”, la consapevolezza di essere parte di un disegno europeo. Vogliamo raccogliere le testimonianze e i ricordi di coloro che ancora ci sono: i lavoratori, i loro familiari e anche i politici che disegnarono l’accordo del 1946 e successivi. Vogliamo capire, dagli esperti che si occupano di storia europea, se lo scambio di “uomini per carbone”, in qualche modo, ha contribuito a costruire un sistema di scambi che, per molti, oggi è di grande vantaggio. Vogliamo domandare se si fanno ancora accordi come quello del 1946. I materiali del nostro racconto saranno le storie vere, i volti, le fotografie, i ricordi e il materiale d’archivio di un periodo che sembra ormai lontano. Attraverso le testimonianze e la rivisitazione dei luoghi ricreeremo l’atmosfera del tempo. Alcune vecchie canzoni, le immagini delle abitazioni dei minatori e delle loro famiglie ci faranno ritornare, lungo quegli stessi binari, in Belgio, dove le miniere crearono e cancellarono così tante speranze. Anche le voci dei Belgi, minatori, datori di lavoro e ospiti, ci aiuteranno a capire quei tempi e quelle persone, la difficoltà di convivere e di comunicare e, per contro, l’inevitabile fusione delle diverse culture attraverso il lavoro, la conoscenza reciproca e la creazione di nuove famiglie. Chiederemo ai politici e agli storici di mettere a confronto quello che, a una prima lettura, appare un cinico accordo dettato dalla ragion di stato, con i risultati che l’accordo “uomini per carbone” ha prodotto nella storia delle relazioni tra Belgio e Italia: benefici e sacrifici, danni e vantaggi... Guido Cerasuolo, nato a Venezia nel 1958. Nel 1986 ha creato Mestiere Cinema, società di produzione con cui ha diretto e prodotto più di 30 documentari, pubblicità e un primo lungometraggio. Negli ultimi dieci anni ha lavorato principalmente in qualità di lineproducer per molte produzioni internazionali girate in Italia. Da tre anni è produttore, tra gli altri, di tutti i documentari finanziati da AMREF (African Medical Research Foundation). Mestiere Cinema è una società di produzione televisiva e cinematografica fondata a Venezia nel 1986, nota nel mondo per avere girato film importanti come l’ultimo James Bond Casino Royale di Martin Campbell (Sony Pictures), Guerre Stellari, episodi I, II e III di George Lucas (Lucasfilm), The Italian Job con Mark Wahlberg e Edward Norton (Paramount). Mestiere Cinema ha prodotto molti documentari tra i quali documentari d’arte per la Biennale di Venezia, Monasteri della Bucovina per la RAI, documentari aziendali per Telecom Italia, Fondazione Cini e molti altri.

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CARI PRODUTTORI... Plot - storie per lo schermo pubblica soggetti, trattamenti e sceneggiature originali, di autori italiani e non. I produttori e le agenzie di sviluppo interessate a sviluppare e a produrre una delle storie pubblicate su questo o sui precedenti numeri, possono scrivere alla redazione di Affabula Readings, all’indirizzo info@affabula.it, specificando il titolo del progetto. Provvederemo a mettervi in contatto con l’autore.

CARI AUTORI... Potete inviare progetti per film di corto e lungometraggio, per il cinema e la televisione, documentari, programmi interattivi, in forma di racconti o trattamenti (minimo 6, massimo 30 pagg.), accompagnati necessariamente, previa esclusione, da sinossi, nota di intenti e curriculum dell’autore. Se disponibile, può essere inviata anche la sceneggiatura. Il dossier di progetto deve essere accompagnato dalla scheda di partecipazione e dalla liberatoria firmata, pubblicate sul sito www.affabula.it, alla pagina www.affabula.it/ inviare.htm Il progetto va inviato preferibilmente via e-mail a info@affabula.it o per posta raccomandata a: Associazione F.E.R.T. - programma Affabula Readings Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino Se il progetto viene inviato per e-mail, la liberatoria firmata può essere spedita via fax allo 011 531 490. Per ulteriori informazioni: info@affabula.it tel. 011 532 463

CARI LETTORI... La rivista è in vendita nelle principali librerie italiane specializzate in cinema e in quelle del circuito Feltrinelli. L’elenco completo delle librerie è pubblicato sul sito, all’indirizzo http://www.affabula.it/dove.htm Diversamente se ne può richiedere la spedizione, inviando un’e-mail a info@affabula.it, pagando il relativo importo di 5,00 euro per numero, più spese di spedizione, con un versamento sul conto corrente postale n° 49502545, intestato all’editore FERT RIGHTS srl, Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino.

storie per lo schermo un progetto editoriale di Affabula Readings programma dell’Associazione F.E.R.T. realizzato con il contributo di: Ministero per i Beni e le Attività Culturali Città di Torino - Divisione Servizi Culturali Fondazione CRT

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