Plot magazine 9

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ANTENNA MEDIA TORINO

Plot storie per lo schermo/annoV/numeronove/novembre2007

un’iniziativa ideata e organizzata da

www.giornateuropee.eu

i PRO ot GE dell e Gi TTI o Eur ope rnate e 20 07!

ISSN 1723-5057 ISSN 1723-5057

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ARRIVANO I CORTI! speciale cortometraggio:

AffabuLAB / come ri-scriverli Interviste / dove farli uscire I brevi di Affabula DOCUMENTO / CORTI VINCENTI 13/11/2007, 15.05


storie per lo schermo Rivista quadrimestrale anno V/numeronove/novembre 2007 Registrazione Tribunale di Torino N° 5716 del 21 luglio 2003

SOMMARIO

Direttore responsabile Alberto Barbera Redazione Claudia Beggiato Stefano Boccardo Elena Bona Biagio Cappiello Alberto Dessimone Roberta Di Maggio Anna Gasco Chiara Gilardo Helen Jardine Andreas Mazzia Alessandro Messedaglia Mario Pistacchio Tiziana Ripani Laura Toffanello Eleonora Torraco Coordinamento redazione Laura Toffanello con la collaborazione di Tiziana Ripani Coordinatore Affabula Readings Stefano Boccardo Progetto grafico Antonino Varsallona Illustrazioni e storyboard Claudia Amerio (pagg. 52, 66, 67, 68, 83) Stefania Gallo (pagg. 96, 118) Marianna Zanetta (pagg. 84, 95) Ufficio stampa e promozione Marta Franceschetti

Editoriale

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a cura della Redazione

AFFABULAB Dichiarazione dell’autore Zapad di Paolo Baravelli Discussione editoriale Scheda di lettura Replica dell’autore

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INTERVISTE Giorgio Arlorio, di Alberto Dessimone Elisabetta Arnaboldi, di Eleonora Torraco Paolo Manera, di Alberto Dessimone Francesca Repetto, di Claudia Beggiato Laurent Trémeau, di Helen Jardine Piero Clemente, di Stefano Boccardo Claudio Papalia, di Claudia Beggiato Andrea Jublin, di Stefano Boccardo

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SCENEGGIATURE Ultimo vino per il paradiso

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di Fabio Bettinelli, Marcella Bianchi Girani, Alberto Dessimone Storia di Ignazio

Redazione e amministrazione Associazione F.E.R.T. - programma Affabula Readings Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino Tel. +39 011 532 463 - Fax +39 011 531 490 E-mail: info@affabula.it www.affabula.it www.fert.org

di Giuliana Dea

Editore Fert Rights srl Corso Peschiera 148 - 10138 Torino

di Andrea Griseri

L’ultimo flash

pag. 69 pag. 85

di Erica Liffredo Vendetta

pag. 97

APPENDICE

Stampa Comlito Corso Peschiera 234 - 10152 Torino

Il resto

118 pag. 120

di Franco Dipietro Il supplente

Distribuzione in libreria DIEST distribuzione Via Cavalcanti 11 - 10139 Torino Tel./Fax 011 898 11 64

126 pag. 123

di Andrea Jublin Come inviare i vostri progetti Opzioni cercasi Dove trovare Plot

© Associazione F.E.R.T., 2007 Tutti i diritti di riproduzione dei materiali contenuti nella rivista sono riservati.

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Carissimi Lettori, questo numero di Plot ha come oggetto il cortometraggio, formato di durata ridotta del cinema contemporaneo retto da logiche espressive, estetiche, produttive e distributive a sé stanti, ma anche, storicamente, primo veicolo dell’immagine in movimento e territorio di fondazione estetica e narrativa dell’arte cinematografica. E non si può nascondere un brivido quando si ripensa a questa eredità pionieristica che ancora oggi vive e alimenta l’arte del corto, mantenendo intatte nel tempo le diverse funzioni che continua ad assolvere, dall’educazione allo sguardo alla sperimentazione, con una libertà creativa quanto mai vitale nel panorama attuale di una produzione ormai del tutto autonoma rispetto al lungo. Dal corto noi abbiamo voluto ripartire con una nuova forza rigeneratrice, con alcune novità sostanziali rispetto alla nostra linea editoriale. Innanzitutto, tentando di fare il punto della situazione attraverso alcune conversazioni che illuminino gli spazi odierni di ideazione, di scrittura, di produzione e di distribuzione del corto, confrontando ciò che accade in Italia con la situazione di altri paesi, della Francia soprattutto, la vera e propria patria del “dirlo corto”. Poi, con la consueta attenzione a quei documenti invisibili e transitori che sono strumenti essenziali di tutti i racconti per immagini, dedicando il nostro laboratorio di discussione editoriale e la relativa scheda di story editing al corto Zapad, sceneggiatura di Paolo Baravelli; e, infine, proponendo sia l’assaggio di alcune tra le migliori storie brevi giunte in redazione, in linea con la specificità del progetto Affabula Readings, sia le sceneggiature vincitrici in concorsi specifici importanti quali Sky-Lab Italia e Nisi Masa: vere e proprie “short case-history” internazionali che pubblichiamo in forma di documento originale, senza alcun lavoro editoriale. “Progetto corto”, dunque, storia fuori e dentro un formato: ci siamo chiesti (e abbiamo chiesto) semplicemente dove nasce, dove va, quali storie racconta, quali sono le opportunità, quali i problemi, senza la pretesa di essere esaustivi, ma seguendo un percorso, questo sì, il più unitario, ampio e complementare possibile, che mostri il processo che va dalle fasi di ideazione e scrittura a quelle della sua distribuzione. Per tentare di cogliere questo fenomeno inarrestabile, laddove è il bisogno che muove l’invenzione, crea le storie e apre gli spazi di fruizione, abbiamo aperto la nostra rivista al corto, che concentra in pochi minuti vitalità, stile, voglia di raccontare (proprio mentre il lungo registra travagli, malattie, difficoltà produttive e distributive istituzionali), rendendolo protagonista. L’augurio è che i diversi “tagli” con i quali oggi si presenta il numero (laboratoriale, progettuale, giornalistico) possano essere uno strumento utile di informazione per coloro che si cimenteranno con la nobile arte antica della breve durata. Un ritorno alle origini. Senza lungaggini, diciamolo pure, né agonie, ma con la logica sovversiva e la capricciosa inventiva tipica del corto. D’altra parte, se è vero che un film è sempre un viaggio inesorabile verso una fine, che dire di questa tipologia che su una fine veloce, immediata e “consumata” ha fatto la propria coraggiosa scommessa? Purché i “corti“ non siano condannati a rimanere nel giardino di chi li ha fatti! Buona lettura. La Redazione

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affabuLAB

Giunto al suo secondo appuntamento, AffabuLAB, il laboratorio di story editing di Plot, ospita Zapad, un cortometraggio di Paolo Baravelli, giovane autore bolognese che ce lo aveva inviato perché potesse partecipare alla selezione per la pubblicazione. Leggendolo, l’abbiamo trovato non del tutto maturo ma molto interessante e, convinti che “discuterlo” sulle pagine della rivista potesse essere proficuo per molti fra quanti scrivono, abbiamo chiesto all’autore - che ringraziamo per aver accettato - di poterlo presentare nella sezione AffabuLAB, mostrando i materiali ricevuti e l’analisi che ne è seguita. Nelle pagine successive, perciò troverete, oltre alla sceneggiatura, contestualizzata dalla relativa dichiarazione dell’autore, la discussione degli editor impegnati sul progetto, la scheda analitica inviata all’autore, e la sua replica. Perché proprio Zapad? Soprattutto per le potenzialità della storia che, allo stato attuale del progetto - come spesso ci accade di notare a proposito dei materiali che riceviamo - sono ancora fortemente in embrione rispetto alla stesura. Dunque, perché qualunque scrittura è un continuo processo di affinamento. Perché sbagliando si impara. E anche perché, come diceva Gianni Rodari, a volte succede che sbagliando si inventi.

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Questa sceneggiatura nasce da suggestioni diverse che nel tempo non si sono cancellate dalla mia memoria. La più lontana è un’intervista a Laurie Anderson su “La Repubblica” in cui la musicista parlava dell’agonia del padre, di come lui, nei suoi ultimi giorni, amasse guardare vecchi film western per cercare dentro di sé lo stesso coraggio dei cowboy nell’affrontare la morte a viso aperto, in duello. A questa immagine (non so quanto sincera, forse un po’ troppo poetica, già cinematografica) si è aggiunta più tardi la lettura del racconto di Maupassant intitolato Le diable, del 1886, che mi ha folgorato per la sua perfida descrizione dei rapporti personali in cui anche il sentimento in teoria più sacro, cioè la pietà per una madre che sta morendo, è oggetto di contrattazione, di compravendita. Così il momento solenne della morte diventa un inganno crudele, una messa in scena buffonesca, ridicola, e perciò forse profondamente umana. Al racconto di Maupassant ho in gran parte rubato la trama e l’ambientazione, trasportandole però nel presente. Oggi la maggioranza di noi compra la pietà, o più ipocritamente l’assistenza, per i familiari anziani che vivono i loro ultimi giorni, da donne arrivate in Italia dall’Europa dell’Est per sfuggire alla miseria. Queste donne, le famigerate badanti che spesso disprezziamo o di cui diffidiamo perché straniere, sognavano quasi tutte un Ovest ben diverso (“zapad” significa appunto “ovest” in russo): la terra delle opportunità, della fortuna, della libertà, eccetera. Invece sono costrette per necessità ad accettare un lavoro ingrato come quello di guardare i nostri vecchi (i nostri, mentre i loro li hanno dovuti lasciare in patria, lontano) nel momento terribile della paura, in cui si trovano faccia a faccia col buio. O meglio, noi le costringiamo a impersonare letteralmente quel ruolo di “Diavolo” che rifiutiamo e che affibbiamo loro solo per sentirci a posto con la nostra coscienza. Però mi piace pensare che ogni tanto il copione possa cambiare, che la compravendita e la contrattazione inevitabili diano vita a un inganno che non esclude la pietà. Allora tra badante e badato si instaura un rapporto di complicità, il “Diavolo” recita sì la propria parte fino alla fine, ma per una volta si porta via un’anima facendole ritrovare la dignità perduta, esaudendo un ultimo desiderio, avverando un sogno di bambino. Paolo Baravelli

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ZAPAD di Paolo Baravelli 1. INT. CAMERA DEL VECCHIO - GIORNO (L’ALBA) Dalla finestra con le imposte socchiuse filtra nella stanza un pallido chiarore. Le pareti sono spoglie, attraversate da crepe minacciose, i pochi mobili (un armadio, un comò) di pesante legno scuro. Nel letto matrimoniale giace supino un VECCHIO di 92 anni dal respiro RANTOLANTE, gli occhi persi nel vuoto, le mani nodose aggrappate alla coperta. Seduto sul bordo del letto, un quarantenne MEDICO barbuto, in giacca e cravatta, gli ausculta con espressione assorta il magro petto per mezzo di uno stetoscopio. Il medico ripone lo stetoscopio in una borsa di cuoio, si alza e si gira verso una RAGAZZA di 24 anni in piedi sulla soglia. La ragazza ha i capelli biondi raccolti in una coda, gli occhi azzurro ghiaccio, la pelle bianchissima; è vestita con una canottiera estiva, una minigonna di jeans e un paio di ciabatte di gomma infradito. Il medico le si avvicina, la fronte madida di sudore. MEDICO Potrebbe morire da un momento all’altro; o anche fra una settimana, o un mese... Impossibile dirlo con certezza. RAGAZZA (dall’accento slavo) Lei non sarà contenta... MEDICO (stringendosi nelle spalle) Mi dispiace. Il medico lascia la stanza seguito dalla ragazza.

2. INT. INGRESSO CASA / EST. CORTILE - GIORNO (L’ALBA) La ragazza, appoggiata allo stipite della porta d’ingresso, guarda il medico uscire dal cortile a bordo di un Suv nuovo di zecca e allontanarsi sulla strada. Il ROMBO del fuoristrada si affievolisce poco a poco. La ragazza muove qualche passo nel cortile infestato di erbacce. Si guarda intorno: il sole sorge sulla distesa infinita di campi di stoppie che, da ogni lato, circonda la casa isolata. Non un’anima in giro. Il silenzio è rotto soltanto dal CINGUETTIO degli uccelli. La ragazza si volta verso la facciata decrepita della casa, fissa la finestra dalle imposte semidivaricate della camera del vecchio, al primo piano. Sente un URLO, un richiamo disperato, provenire da lì. La ragazza SOSPIRA. Rientra.

3. INT. CAMERA DEL VECCHIO - GIORNO La ragazza scopre delicatamente il vecchio supino nel letto. Lui lancia un GEMITO penoso, si rannicchia.

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Lei gli abbassa a fatica i pantaloni del pigiama. Gli toglie un pannolone impregnato di urina che getta in un cestino dei rifiuti. Lo lava strofinando una spugna umida attorno al pene flaccido, ai testicoli avvizziti. Gli infila un pannolone asciutto.

4. MONTAGGIO - LAVORI DELLA RAGAZZA - La ragazza spalma una pomata sulle piaghe da decubito sanguinanti che il vecchio ha sui fianchi. - La ragazza, seduta su una sedia accostata al letto, passa un rasoio sulle guance scarne del vecchio, biancastre di schiuma. Gli provoca un piccolo taglio sul mento, ma gli occhi di lui rimangono ancorati al soffitto, insensibili. - La ragazza pettina i radi capelli del vecchio. Scaccia una mosca che continua a posarglisi sulla punta del naso adunco. Da una boccetta di vetro fa cadere alcune gocce di collirio nelle pupille di lui. - La ragazza, in una mano un pentolino colmo di latte fumante nel quale galleggiano pezzi di pane secco, nell’altra un cucchiaio, imbocca il vecchio. Con un tovagliolo di carta gli tampona le labbra da cui sgorgano rivoli di latte. Aspetta che deglutisca, poi gli ficca di nuovo il cucchiaio pieno tra le gengive sdentate. - La ragazza massaggia la pancia del vecchio steso sul dorso, a gambe sollevate e nudo dal bacino in giù. Reprimendo una smorfia di disgusto raccoglie in uno straccio le feci che gli fuoriescono dall’ano.

5. INT. CAMERA DEL VECCHIO - GIORNO (AL TRAMONTO) La ragazza, la canottiera fradicia di sudore, in pugno una scopa di saggina, spazza il pavimento della camera. Un’improvvisa folata di vento agita le tende. La ragazza si ferma, si affaccia alla finestra appoggiandosi coi gomiti al davanzale. Il sole sta calando sui campi sterminati. In lontananza un trattore affonda l’aratro nella terra riarsa, l’eco del MOTORE arriva come un placido borbottio. La ragazza toglie da una tasca della minigonna un pacchetto di sigarette e un accendino. Accende una sigaretta. Chiude gli occhi.

6. INT. CAMERA DEL VECCHIO - NOTTE La camera è illuminata solo dall’abat-jour sul comodino accanto al vecchio. La finestra è un rettangolo di nero buio. La ragazza entra nella stanza spingendo un carrello su cui troneggia una televisione con in cima un videoregistratore. Sistema il carrello di fronte al letto e collega le spine alla parete. Da una sportina di plastica prende un cappello di paglia e lo posa sul cranio del vecchio. Gli lega attorno al collo un fazzoletto colorato. Quindi gli infila in bocca un mozzicone di sigaro, spento, e sulle spalle una mantella di lana grigia da contadino. Aziona tv e videoregistratore. Sullo schermo della tv: inizia un FILM WESTERN di serie B, interpretato da attori sconosciuti. Il vecchio sorride, sembra rianimarsi. La ragazza si sdraia sul letto vicino a lui.

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7. INT. CAMERA DEL VECCHIO - NOTTE Il vecchio segue attentamente il film western. La ragazza, annoiata, gli fa aria con un ventaglio. Sullo schermo della tv: due PISTOLERI dai brutti ceffi si affrontano nella main street, estraggono contemporaneamente le Colt e sparano; quello dei due colpito a morte stramazza nella polvere. Il vecchio sussulta, gli occhi fuori dalle orbite, emozionatissimo. Solleva un braccio tremante e punta l’indice verso la tv. VECCHIO (biascicando) Loro... sono coraggiosi... non hanno paura... Io... voglio morire così... ma... non so... non sono capace... Il vecchio scuote la testa, lacrime gli rigano le guance. La ragazza lo accarezza. RAGAZZA Sssst... Sono sicura che imparerà. C’è ancora tempo. Stia tranquillo adesso, su, da bravo... Gli asciuga le lacrime usando un lembo del lenzuolo.

8. INT. CAMERA DEL VECCHIO - NOTTE Sullo schermo della tv scorrono i titoli di coda del film. La ragazza controlla il vecchio: è afflosciato su se stesso, il cappello, di sbieco, gli copre metà del viso, il mozzicone di sigaro gli è caduto sul petto. La ragazza si sporge su di lui. Esita, timorosa, poi riesce a percepirne il debole RESPIRO. Si alza dal letto e spegne tv e videoregistratore. Toglie al vecchio cappello, fazzoletto, mantella e sigaro. Ripone il costume da cowboy nella sportina di plastica e con questa esce dalla stanza cercando di non fare rumore.

9. INT. VANO SCALE - NOTTE La ragazza scende la scala dai gradini di legno che porta al pianoterra. Un gradino sconnesso manda uno SCRICCHIOLIO, lei si blocca, in ascolto. Dalla camera del vecchio non giunge alcun richiamo. La ragazza continua a scendere.

10. INT. CUCINA - NOTTE La ragazza, seduta a tavola, mangia un piatto di spaghetti sconditi. Su un mobiletto alle sue spalle una radio antiquata trasmette a basso volume una CANZONE di Laura Pausini. La musica viene interrotta dalla VOCE di uno speaker.

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VOCE SPEAKER E ora la cronaca locale: la polizia è sulle tracce della banda di rapinatori, tutti extracomunitari di origine slava, che la notte scorsa ha assaltato una villa nei dintorni di... La ragazza sente un’AUTOMOBILE avvicinarsi alla casa. Scatta in piedi e spegne la radio. Dalla finestra vede un’utilitaria dai fari abbaglianti entrare nel cortile.

11. INT. INGRESSO / CUCINA - NOTTE La ragazza apre l’uscio d’ingresso e quasi si scontra con una DONNA di 60 anni tarchiata, i capelli cotonati, il viso paffuto truccatissimo, con indosso un ridicolo costume da ballerina caraibica. RAGAZZA Buonasera... La donna, con atteggiamento infastidito, si dirige in cucina. La ragazza la segue. DONNA (imperiosa) Novità? RAGAZZA Il dottore dice che può morire da un momento all’altro... DONNA Balle! Io lo conosco bene, mio padre: è sempre stato testardo come un mulo. Può andare avanti così per mesi. Lo fa apposta, per farmi rabbia. La donna cammina nervosamente da un’estremità all’altra della minuscola cucina. La ragazza si risiede a tavola. DONNA (parla tra sé) Ma la casa è venduta, e deve essere liberata, subito. Altrimenti mi toccherà versare una penale per ogni giorno di ritardo, o addirittura, Dio non voglia, restituire il doppio della caparra... La donna schiaccia una zanzara che le è atterrata su un braccio grassoccio. Si volta verso la ragazza. DONNA E tu? Fai la bella vita, eh? Vitto e alloggio gratis, pagata per stare con un vecchio rimbambito... E magari te lo rigiri come ti pare, vero? Lo so come fa la gente come voi... Ma a me non mi freghi mica, signorina, la pacchia è finita! La donna estrae dalla borsetta, che ha con sé, il portafogli e da questo una banconota da 200 euro che fa cadere sulla tavola, davanti alla ragazza. DONNA Facciamo una scommessa, rischiamo tutte e due. Ecco i soldi per la prossima settimana: se il vecchio muore prima della fine, tu ci guadagni la differenza. Ma se vive di più, dovrai cominciare a pagare

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di tasca tua tutte le spese. Perché questi sono gli ultimi che ti do, capito? La ragazza fissa la banconota. DONNA Allora, affare fatto? La ragazza non risponde. DONNA Va bene, io devo andare, sono in ritardo per la lezione di salsa e merengue... Aspetto tue notizie! La donna esce dalla cucina. La porta d’ingresso SBATTE con violenza. L’utilitaria viene AVVIATA e si allontana SGOMMANDO dalla casa. La ragazza fissa ancora la banconota da 200 euro, senza toccarla. La copre con un massiccio posacenere. Si porta alla bocca una forchettata di spaghetti, ma non riesce a inghiottirli. Si alza e li butta nella spazzatura.

12. INT. SCALE / CAMERA DEL VECCHIO - NOTTE Qualcuno sale con circospezione le scale, diretto al piano superiore. Il gradino difettoso SCRICCHIOLA. Si apre la porta della stanza del vecchio. L’abat-jour è sempre accesa, lui dorme RUSSANDO sonoramente. Una VOCE profonda, dall’inflessione slava, urla. VOCE PROFONDA (VFC) Svegliati, vecchio! Il vecchio spalanca gli occhi. Sussulta. Di fronte a sé, ai piedi del letto, scorge una FIGURA mascherata con il suo costume da cowboy: il cappello di paglia sulla testa, il volto celato dietro il fazzoletto da cui spunta il mozzicone di sigaro, il corpo avvolto nella mantella da contadino stile poncho ora però tesa sul davanti dalla canna di un fucile. FIGURA MASCHERATA Questa è la resa dei conti, vecchio! Sei pronto? Il vecchio, in preda al panico, cerca di tirarsi su dal letto ma non ci riesce, fruga con una mano all’altezza del fianco come se cercasse una fondina, poi stende il braccio in avanti, l’indice e il pollice perpendicolari nel tentativo d’imitare una pistola. VECCHIO Pu... m! Pu... FIGURA MASCHERATA (fortissimo) BANG! BANG!

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Il vecchio, percorso da un fremito, ricade inerte sui cuscini. La figura mascherata si toglie cappello e fazzoletto: è la ragazza. Da sotto la mantella estrae non un fucile ma la scopa di saggina. Sputa, schifata, il mozzicone di sigaro. Si avvicina al vecchio. Lui non respira più, ha gli occhi sbarrati, vitrei, i lineamenti del viso però sono sereni, distesi, la bocca piegata in un sorriso di trionfo. La ragazza gli abbassa dolcemente le palpebre, gli dà un bacio su una guancia.

13. INT. CAMERA DEL VECCHIO - GIORNO (L’ALBA) Il medico barbuto in giacca e cravatta, seduto sul bordo del letto, esamina il cadavere del vecchio già rigido. MEDICO Un infarto. Prima o poi doveva succedere, era arrivato alla fine. La ragazza è sulla soglia della camera, indossa la solita minigonna e la canottiera estiva. La donna, figlia del vecchio, sale precipitosamente le scale e le arriva alle spalle. Ha ancora i vestiti da ballerina di salsa e merengue. DONNA Allora? RAGAZZA (ostile) È morto. Le due si guardano. DONNA Hai vinto tu, complimenti... La donna SOGGHIGNA. La ragazza si volta e scende le scale.

14. INT. CORRIDOIO / CUCINA - GIORNO (L’ALBA) La ragazza trascina per il corridoio un piccolo trolley. Arrivata quasi alla porta d’ingresso si blocca. Fa dietrofront, entra in cucina. Sulla tavola, sotto il massiccio posacenere, c’è la banconota da 200 euro. La ragazza esita, indecisa. Poi prende la banconota e la fa sparire nella tasca della minigonna. Esce dalla cucina. Spalanca la porta d’ingresso e, sempre trascinando il trolley, abbandona la casa. Cammina nella campagna desolata finché non scompare dal rettangolo della porta.

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Alla DISCUSSIONE EDITORIALE partecipano in ordine sparso: Claudia Beggiato, Stefano Boccardo, Alberto Dessimone, Helen Jardine, Andreas Mazzia, Alessandro Messedaglia, Laura Toffanello.

Stefano: Come avrete letto nella dichiarazione di Paolo Baravelli, Zapad nasce da suggestioni varie. In questo caso, quella che altrimenti sarebbe la materia bruta della narrazione viene in parte attinta - ci dice Paolo - da un precedente letterario che è il racconto Le diable di Guy De Maupassant. Se siete d’accordo è da qui che farei partire la discussione. Helen: In effetti, nella nota d’intenti, Baravelli dice che da Le diable ha in gran parte “rubato“ l’ambientazione e la trama, trasportandole però nel presente. È veramente così? Sinceramente ricordo solo il tema: “l’amour feroce de l’épargne”. Qualcuno ha riletto il racconto? Stefano: L’ho fatto io! Nell’edizione Einaudi, Racconti del crimine, dove la novella è pubblicata, la trama è riassunta in una postfazione a cura di Corrado Augias. Ve la leggo: È un’abietta storia di campagna. Una vecchia contadina sta per morire, suo figlio deve badare ai campi. Il medico curante gli suggerisce di farla assistere da una donna, chiamata in paese “la Rapet”, specialista in questo tipo di compagnia al punto che scrive l’autore “... pareva che avesse per l’agonia una specie d’amore mostruoso e cinico. Parlava soltanto delle persone che aveva visto morire, della varietà delle morti alle quali aveva assistito; e le raccontava, con una grande minuzia di particolari sempre uguali, come un cacciatore parla dei suoi colpi di fucile”. C’è una lunga e sordida contrattazione tra il contadino e la Rapet. Nessuno dei due sa bene quando la vecchia si deciderà a tirare le cuoia e se quindi sia meglio stabilire un compenso orario o a forfait. Alla fine si decide per una mercede complessiva di sei franchi e il contadino torna al suo lavoro. La Rapet crede d’aver fatto un buon affare, ma quando vede che i giorni scorrono senza che la vecchia si decida a trapassare, quando calcola che la cifra stabilita sta per essere superata dalle ore trascorse, viene presa da una grande ansia e sceglie di fare a modo suo. Comincia col terrorizzare la povera donna raccontandole che il diavolo appare sempre agli agonizzanti pochi istanti prima della morte. Quando ha ridotto la vecchia ad un parossismo di paura, esce dalla stanza, si avvolge in un lenzuolo e, in una tempesta di pentole scagliate sul pavimento, le ricompare d’improvviso davanti: “Smarrita, con gli occhi stravolti, la moribonda fece uno sforzo sovrumano per cercare di sollevarsi e di scappare; riuscì anche a tirare fuori dal giaciglio le spalle e il petto; poi ricadde con un gran sospiro. Era finita”.

Alberto: Proviamo a raccontare negli stessi termini Zapad, parafrasando il soggetto inviatoci dall’autore: È un’abietta storia di campagna...(ci scusi l’autore). Un vecchio giace nel proprio letto, immobile. Il medico, venuto a visitarlo, comunica alla badante, che lo assiste, che potrebbe morire da un momento all’altro, o forse fra un mese, impossibile sapere quando. La badante, alludendo misteriosamente a qualcuno, sostiene che “lei non ne sarà affatto contenta.” Il medico risponde di esserne dispiaciuto e se ne va. Durante la giornata la badante, che è una giovane slava, si prende cura del vecchio con amorevole scrupolo: lo lava, lo imbocca, non lo lascia mai solo. La sera lo barda con vecchi indumenti da contadino, in modo da farlo assomigliare a un cowboy. Poi gli mostra un film western videoregistrato e il vecchio sembra improvvisamente rianimarsi. Al momento del duello tra due pistoleri freme, emozionatissimo, sussurra che li invidia, perché anche lui vorrebbe morire con lo stesso coraggio, ma teme di non esserne capace. Piange. La ragazza lo rincuora: non deve agitarsi, ha ancora tempo per prepararsi al grande momento. La ragazza riceve la visita della figlia del vecchio. La donna è infuriata, ha già venduto la casa e aspetta solo la morte del padre, rischia di dover pagare una penale per la ritardata consegna o addirittura il doppio della caparra. Propone alla ragazza una scommessa. Le pagherà in anticipo una settimana: se il vecchio morirà prima della fine la ragazza intascherà la differenza, altrimenti dovrà farsi carico di lì in avanti di tutte le spese. La donna getta sul tavolo 200 euro e se ne va. Durante la notte, qualcuno (forse la banda di rapinatori slavi che si aggira nella zona assaltando abitazioni di cui ha parlato la radio?) entra di soppiatto nella stanza del vecchio. Lo sveglia minacciandolo. Il vecchio apre gli occhi e si trova davanti una figura vestita col suo costume da cowboy (cappello, fazzoletto, sigaro e il mantello stile poncho da cui ora però spunta la canna di un fucile). Il vecchio annaspa alla ricerca di un’arma, imita una pistola con le dita e la punta verso la figura dicendo “PUM!” Anche la figura spara, gridando “BANG BANG!” Il vecchio ricade sul letto come colpito da una pallottola.

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Dal costume da cowboy emerge la ragazza, con in pugno una semplice scopa. Si piega sul vecchio: è morto, ma con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Gli chiude gli occhi e lo bacia sulla guancia. Il dottore dà la colpa della morte a cause naturali, a quell’infarto atteso da tempo. Arriva trafelata la figlia del vecchio, fa i complimenti alla ragazza; ha vinto la scommessa, ghigna. La badante si prepara ad andarsene, ma prima si ferma in cucina dove ha lasciato i 200 euro. Li guarda indecisa, poi li afferra e se li mette in tasca. Esce dalla casa trascinandosi dietro una piccola valigia e cammina verso l’orizzonte, finché non scompare alla vista. Helen: Le analogie ci sono. Del racconto originario rimane l’avidità della figlia, la situazione drammaturgica portante di partenza (il triangolo genitore malato-figlio-badante) e la struttura drammaturgica (la visita del dottore, l’incontro tra il contadino e la badante, lo “scherzo” mortale della badante). In effetti, le due storie si somigliano... Stefano: Tuttavia, al di là di tutte le differenze originate dal transfert storico-culturale, ce n’è una assolutamente sostanziale: ovvero, e sto parlando della sceneggiatura di Baravelli, l’assoluta mancanza di movente, o ancora meglio di motivazione. Chiarisco: la trama che vi ho letto poc’anzi è tratta, come vi dicevo, dalla postfazione di Racconti del crimine, intitolata “Maupassant l’antigiallista”. Di Augias è interessante seguire l’analisi che provo a riassumere. Le diable è un esempio classico di delitto perfetto, indimostrabile. Proprio per questo, Augias lo considera inadatto al genere giallo allora nascente (siamo appena pochi anni dopo Uno studio in rosso, prima avventura di Sherlock Holmes) perché il racconto poliziesco si costruisce sempre su un delitto compiuto da un agente ignoto, si fonda su un’indagine che va avanti per ipotesi, condotta da un detective che dà una soluzione all’intreccio. Qui, al contrario, non c’è nessun detective e nessun detective potrebbe intervenire a provare che ci sia il delitto, non c’è nessun mistero, in quanto gli assassini sono noti, non c’è nessuna condanna e, soprattutto, non si applica ciò che, citando sempre Augias, Kracauer individua come tipico dei romanzi polizieschi che trattano non la riproduzione fedele della realtà, ma l’accentuazione del carattere intellettuale della stessa. Dunque Maupassant rovescia tutte le regole del giallo e da qui l’appellativo di “antigiallista”. Al carattere razionalista del giallo, alla logica del gelido meccanismo investigativo, oppone la sua novella che “si forma attorno a un caldo grumo di emozioni” che, in un senso meno illuministico e ben più naturalistico, sono messe sotto la lente di ingrandimento dello scrittore. Perciò il movente, ovvero quelle motivazioni che sono articolate in un vasto repertorio di malesseri, egoismo, lussuria, odio, invidia sociale, gelosia, avidità, “in una sorta di censimento dell’universale propensione all’omicidio” - sottolinea Augias - è la sola cosa che interessi a Maupassant, ed è su una dissertazione intorno a queste motivazioni che è incentrato il racconto. Claudia: Quindi stai dicendo che tra Le diable e Zapad non c’è un rapporto intertestuale forte? Stefano: Sicuramente per qualificare Zapad come trasposizione, mancano le marche di riconoscibilità dell’opera originaria. Nel nostro caso, più che di trasposizione o adattamento, secondo la qualificazione prodotta da Francis Vanoye in La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, mi sembra corretto parlare di “appropriazione”. Vanoye definisce l’appropriazione come processo di integrazione e di assimilazione dell’opera (o di certi aspetti dell’opera) adattata al punto di vista, allo sguardo, all’estetica, all’ideologia del contesto di adattamento e degli adattatori. Perciò l’appropriazione può andare dal rifiuto di intervento sull’opera, alla “deviazione” o alla “inversione”, che istituendo all’occorrenza rapporti intertestuali più o meno forti, configura l’opera seconda come liberamente tratta dalla prima. Per la sua libertà intrinseca, mi sembra quest’ultimo il caso più interessante di uso del testo originario. Comunque, procedendo al confronto, non era tanto mia intenzione indagare il rapporto tra i due testi, quanto cercare, attraverso il loro confronto, di isolare le criticità di Zapad... Claudia: Allora, scusate la brutalità, procediamo! Tanto per rompere il ghiaccio ne butto lì alcune. Nel lungo setup (10 scene su 13) si cristallizza una situazione di solitudine, malattia e assistenza, abbastanza stereotipata. Poi, nel giro di poche scene, tre per l’esattezza, incidente scatenante, climax e risoluzione si susseguono al ritmo di un nodo drammatico a scena. La protagonista non ha antagonisti, né ostacoli, né sorprese tali da alterare un piano, peraltro mai esplicitato...

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Helen: Con la protagonista ti stai riferendo alla badante? Claudia: Certamente. Perché? Ci sono dei dubbi? Helen: Non saprei. Sinceramente trovo il progetto interessante, ma talmente confuso che potrebbe trovare vie di sviluppo molto diverse. Al momento il tema non è chiaro, l’azione principale non mette in moto una domanda drammatica che lo rispecchi, la protagonista non è orientata da un fine, non ha una motivazione, perciò lo scioglimento sembra prodursi in un modo abbastanza casuale perché, al contempo, nella vicenda non esiste un determinismo sufficiente per escludere la soggettività dei personaggi. Mi sembra prematuro affrontare una vera e propria analisi testuale; più utile, forse, sarebbe ampliare l’orizzonte critico. Possiamo fare tutte le ipotesi che vogliamo, resta comunque il fatto che non è nemmeno chiaro se la badante sia il diavolo o l’angelo della morte, oppure se il diavolo sia l’Ovest... Stefano: ... Zapad! Sono d’accordo, prima mi riferivo proprio a questo. Come si è visto nell’idea di giallo rovesciato di Augias, al centro del racconto di Maupassant c’è il movente, o meglio la motivazione, ma è una motivazione non soggettiva, in quanto i personaggi agiscono in un regime psicologico di necessità e di oggettività. Così, a livello strutturale, nel racconto tutto si fonda su un progressivo, incalzante conflitto tra le motivazioni: c’è una questione di tempo che all’inizio è posta in termini assoluti, perché c’è un figlio che non può raccogliere il grano dato che la madre malata deve essere accudita (conflitto interno, per una ragione economica); c’è un medico che lo obbliga e lo costringe a ricorrere a una badante (conflitto esterno, per una ragione umana di fondo), ma la badante costa (conflitto esterno tra figlio e badante, per una ragione economica). Da qui scaturisce la scommessa crudele e la domanda drammatica di fondo: quanto può costare una morte? E, soprattutto, a chi costerà di più? Al figlio o alla Rapet? Alberto: Trattasi di speculazione. Stefano: Esattamente, ma di una speculazione sui sentimenti più sacri e inviolabili. È il rapporto causaeffetto, qui incarnato dalla “ratio economica”, la vera necessità che governa la progressione drammaturgica (i personaggi si muovono sospinti e indotti dal comportamento altrui) che costringerà la Rapet all’omicidio. In conclusione, nel racconto, anche l’azione più interna e soggettiva, la scelta di coscienza, di agire, non nasce quindi autonomamente, ma deterministicamente, come pura conseguenza dell’azione precedente. Nella sceneggiatura del corto, invece, questo rapporto di necessità, che dimostra come in un mondo governato dalla “ratio economica” i sentimenti soggettivi non abbiano un peso, tale che la scelta dell’omicidio appaia al lettore come l’unica soluzione logica praticabile per le coordinate di quel mondo (instaurando così una “bella” polemica sulla responsabilità della società e dei suoi valori collettivi, di contro a quella individuale), appare meno stretto e, dunque, potrebbe essere rafforzato. Claudia: Su questo sono completamente d’accordo. Leggendo la sceneggiatura così com’è adesso, si ha l’impressione che i fatti, più che essere legati da un rapporto di causalità, semplicemente si susseguano. Per chiarire quanto voglio dire, utilizzo come esempio quella che Baravelli definisce la scommessa tra figlia e badante. È solo dopo la scommessa, quando la figlia le propone di tenersi i soldi, che la badante uccide il vecchio. Tra i due fatti esiste un rapporto cronologico, che tende a diventare logico-causale. Ma possiamo veramente credere che la badante uccida il vecchio per così poco denaro? Laura: No. Perché la catena causale appaia plausibile, la motivazione realistica deve essere di supporto e cioè aderente alle coordinate del mondo della storia, ai valori che vengono messi in gioco attraverso il sistema dei personaggi, e alle loro esigenze drammatiche. Perciò non parlerei di scommessa, ma di un vero e proprio affare, con una posta in gioco che renda più plausibile quanto accade. Se la questione si presentasse nei termini di “Ti propongo un affare... i canonici 200 euro settimanali, sui quali ti puoi tenere anche la differenza, e altri 800 se il vecchio muore entro la fine della settimana”, tutto risulterebbe più realistico. Alberto: A proposito di verosimiglianza, non dimentichiamo che, nella sceneggiatura, l’evento scatenan-

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te è rappresentato dalla vendita della casa paterna. Per non minare dalle fondamenta tutto il racconto, credo sia necessario valutare giuridicamente quanto sia realistico un contratto del genere. Chi è l’attuale proprietario della casa? Se fosse il padre, la figlia non avrebbe potuto vendere un bene altrui. Il padre, viste le condizioni, potrebbe essere stato tuttavia interdetto; supponendo che la figlia sia stata nominata sua tutrice, quale giudice autorizzerebbe la vendita della casa dell’interdetto dove lo stesso, non autosufficiente e malato terminale, risiede? Se invece fosse la figlia la proprietaria della casa, il suo accanimento nel volere la morte del padre sarebbe francamente abnorme, soprattutto considerando che esistono alternative di alloggiamento, magari costose, ma non più di un’assistenza domiciliare. Tra le due ipotesi, la seconda appare giuridicamente realistica, ma debolissima dal punto di vista della credibilità, a patto che - su questo insisto - non venga illustrato il profondo rapporto conflittuale tra padre e figlia, chiarendo perché lo odi così tanto da volerlo, oltre che sfrattare dalla casa (soluzione più agevole e moralmente “meno impegnativa”), anche sfrattare dalla vita. È questa la vera criticità della sceneggiatura: la debolezza della motivazione sottostante all’obiettivo della figlia (uccidere il proprio padre), obiettivo che, pur reggendo l’evento scatenante, non ha forza sufficiente per alimentare un obiettivo altrettanto forte quanto quello della protagonista (uccidere un uomo). Così com’è presentata, l’unica motivazione che induce la badante a decidere di far passare a miglior vita il vecchio è la proposta economica della figlia. Come dice Claudia, la decisione della badante è successiva all’incontro con la figlia, e concordo con Laura sul fatto che 200 euro non siano una somma sufficiente. Alessandro: Non sono così d’accordo con te sul fatto che la seconda ipotesi, a meno che non venga illustrato il profondo rapporto conflittuale tra padre e figlia, sia debole dal punto di vista della credibilità. Quello dell’odio familiare, dei “parenti serpenti”, è un frame di sceneggiatura talmente condiviso che le probabilità che una figlia odi suo padre sono quante quelle di trovare delle patatine in un supermercato. Per com’è costruita la figlia poi, un personaggio spregevole a tutto tondo, surreale ai limiti del buffonesco, la sua proposta tra una salsa e un merengue non mi pare incredibile. Helen: Resta il fatto che la posta in gioco, come si è detto, è troppo bassa; ma è bassa dalle due parti. Alberto ha giustamente detto che la situazione della casa non è credibile; ma non solo non è credibile dal punto di vista giuridico, è anche debole dal punto di vista drammaturgico. In altri termini, manca una vera necessità che costringa alla vendita della casa. E se ci fossero gli interessi di una grande multinazionale, dello Stato che deve costruire una ferrovia, un ponte, o qualcosa del genere? Da queste forze è difficile scappare. Se fosse così, che ruolo avrebbe la figlia? Perché una figlia e non un agente immobiliare o un funzionario dello Stato? Stefano: Prima ho cercato di isolare i conflitti attraverso i quali si sviluppa la novella di Maupassant. Tralasciando il fatto che nella sceneggiatura manca il primo conflitto sia interno che esterno (è assente il personaggio della figlia, che è evocato in quanto volontà “lontana” e la badante è già presente; è lei dunque che riceve la notizia della prossima morte dal dottore), mi sembra che anche il secondo sia assente. Nel successivo incontro tra la figlia e la badante, infatti, non c’è una scommessa, ma un vero e proprio accordo. A ben vedere, non si tratta di una logica conflittuale (o perdo io o perdi tu), ma di un vero e proprio “agreement” di reciproco vantaggio (ci guadagno io e ci guadagni tu). Nel racconto, oltretutto, l’omicidio è la soluzione escogitata dalla Rapet a un problema economico che la minaccia ed è perpetrata ai danni del figlio che appare alla fine come il perdente, come l’ingannato. Nella sceneggiatura, invece, l’omicidio è introdotto come proposta allettante e pertanto più come snodo drammaturgico che come (ri-)soluzione. Una proposta che fa nascere il problema della scelta e che, in assenza delle forti motivazioni e dei forti conflitti del racconto, diventa la domanda centrale, il gancio a cui appendere il conflitto interiore della protagonista: giocarsi l’anima per un po’ di soldi? Da questo punto in poi sul personaggio peserà la responsabilità di una scelta. Alessandro: Evidentemente, la badante è il personaggio cardine della vicenda. Da lei dipende tutto, ma anche se ci chiediamo cosa sceglierà di fare, la vera domanda drammatica è, piuttosto, come lo farà. Come

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risolverà la situazione il personaggio centrale, dato che agisce, per un rapporto di potere economico, in nome e per conto di un altro? Stefano: Il problema è complesso, tra soldi e pietà. E dalla complessità nasce la risposta ambigua della badante. In quanto personaggio “gestionale”, ancor più che decisionale, la scelta non è giocarsi l’anima per un po’ di soldi. L’assenza del dilemma morale, del conflitto interiore, è dovuta alla particolarità del personaggio, che conosce la natura della volontà profonda del vecchio. È questa la differenza fondamentale tra Zapad e Le diable: la badante conosce la vita del malato, diversamente dalla figlia, sa che vuole morire; mentre nel racconto non è espressa la volontà del defunto, qui sì. La morte dunque si trasforma da crudele in pietosa, in liberatrice, in una specie di eutanasia. E lei, in quanto buona gestrice, decide di esaudire il desiderio di morte del vecchio. Una morte ambigua, al tempo stesso eroica e “camuffata”, ironica e grottesca. All’accordo con la figlia e alla sua volontà, la badante risponde con quella del malato. Come prima ne gestiva la vita, ora ne gestisce la morte. A lei spetta più che altro il compito di mediare le due volontà che vogliono la stessa cosa, ma per un fine diverso: per soldi da una parte, per la pace dall’altra. In altre parole, la badante agisce, ma non sceglie. Alberto: Hai parlato del valore gestionale della badante. Oltre a conoscere i desideri del vecchio, è colei che per tutta la sceneggiatura si prende cura di ogni necessità materiale del malato. Nel lavoro di Baravelli, però, le sue mansioni sembrano raccontate più che con crudo realismo (che tra l’altro è la coordinata culturale e stilistica della novella ma non dell’appropriazione) con una sorta di compiacimento voyeuristico. Per fare un esempio, leggo la scena 3:

La ragazza scopre delicatamente il vecchio supino nel letto. Lui lancia un GEMITO penoso, si rannicchia. Lei gli abbassa a fatica i pantaloni del pigiama. Gli toglie un pannolone impregnato di urina che getta in un cestino dei rifiuti. Lo lava, strofinando una spugna umida attorno al pene flaccido, ai testicoli avvizziti. Gli infila un pannolone asciutto. E ancora, dalla scena 4:

La ragazza massaggia la pancia del vecchio steso sul dorso, a gambe sollevate e nudo dal bacino in giù. Reprimendo una smorfia di disgusto, raccoglie in uno straccio le feci che gli fuoriescono dall’ano. Descrivere fedelmente e realisticamente le mansioni della badante, comunica certamente allo spettatore quanto sia duro e sgradevole il suo lavoro. Mostrare i dettagli degli organi genitali e documentare “live” le feci che fuoriescono dall’ano, però, lede la dignità del malato. Non solo. È un’esposizione che sconfina in una morbosa curiosità gratuita: siamo in una fiction, non in un documentario didattico per assistenti domiciliari o infermieri! Il disgusto si può rappresentare anche senza riprendere da vicino tutti i particolari. Se vedo una smorfia sul viso della ragazza mentre armeggia nei pressi del basso ventre del vecchio malato, chiudere uno straccio (esistono comunque le padelle), e gettarlo via, capisco che si tratta di feci anche se non le vedo e se non le vedo fuoriuscire dall’ano (da dove altro possono fuoriuscire???). È una scelta di rappresentazione che potrebbe altresì incontrare notevoli problemi in ottica realizzativa, perché comunque si tratta di una sceneggiatura, e la sceneggiatura, in teoria, sarà girata: quale attore o quale controfigura, si presterebbe ad essere filmato in piena “defecatio” a gambe in su? Helen: Sono molto d’accordo con Alberto. La parte citata della scena 4 è da togliere, in quanto “oscena” nel senso etimologico del termine (“ob skene”, fuori dalla scena); cito dalla Poetica di Aristotele, libro 7.3: “Coloro poi che, per mezzo della vista, non procurano il pauroso, ma soltanto il mostruoso, non hanno nulla in comune con la tragedia, perché nella tragedia non si deve cercare un piacere qualsiasi ma quello suo proprio”. Alessandro: Oltre a questo c’è anche un problema di tono: come far convivere vive piaghe da decubito con dita che fanno “BANG” e uccidono? Come mettere d’accordo la pulizia dell’ano con una tarchiatella

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sessantenne sempre “da merengue vestita” che piomba in casa e lancia bislacche scommesse da 200 euro? Intendiamoci, nulla è sbagliato, ma non credo che le chiavi interpretative e fruitive sottese a questi due generi possano convivere. Nel primo caso penso ai Dardenne, nel secondo a Sorrentino: bravi tutti e tre, ma non credo potrebbero mai lavorare insieme... Forse in questo caso c’è troppo autore e quindi troppa voglia di dire, sostenere, affermare una causa. Il partito preso può anche starmi bene, ma le immagini, credo, almeno quelle dovrebbero trovare una maggiore coerenza interna, ecco tutto. Helen: Per tornare all’ambiguità della badante, al suo essere sospesa tra denaro e pietà, il fatto è che ne Le diable è l’avidità a dominare tutto, a orientare deterministicamente la catena causale, a essere il tema portante. Nella sceneggiatura, invece, la questione tematica è meno chiara. Certamente anche in Zapad, la figlia è mossa dall’avidità ma, per il resto, come si connota il mondo della storia? Nell’assenza di una motivazione e di un fine espliciti che informino il personaggio della badante, un personaggio completamente e forse volutamente oscuro, di fronte all’obiettivo di un vecchio moribondo, che in uno stato di semincoscienza afferma di voler “morire così”, riferendosi ai pistoleri, al western, io credo che sia nel rapporto tra i personaggi e il paesaggio che debba essere rintracciata una parte del tema o dei temi: l’isolamento, i confini, l’invasione, l’intromissione (il fatto che la badante è obbligata ad invadere lo spazio intimo del vecchio), e ancora, l’abuso, la lesione (in inglese, “encroachment”, termine anche giuridico, sulla proprietà: “advance beyond proper limits, the act of building a structure which is in whole or in part on a neighbor’s property”). Andreas: E nella sceneggiatura, come emerge la questione dell’isolamento? Helen: Aspetta che leggo, li avevo segnati... isolamento: “Le pareti sono spoglie, attraversate da crepe minacciose, i pochi mobili (un armadio, un comò) di pesante legno scuro”; “il sole sorge sulla distesa infinita di campi di stoppie che, da ogni lato, circonda la casa isolata. Non un’anima in giro. Il silenzio è rotto soltanto dal CINGUETTIO degli uccelli”; “Il sole sta calando sui campi sterminati. In lontananza un trattore affonda l’aratro nella terra riarsa”. Riguardo all’intrusione: “La ragazza muove qualche passo nel cortile infestato di erbacce”, mentre per i confini: “distesa infinita di campi di stoppie che, da ogni lato, circonda la casa isolata”. E, soprattutto, liberazione: “Cammina nella campagna desolata finché non scompare dal rettangolo della porta”. Stefano: Potrebbe essere questa la motivazione reale della badante. Nel racconto, il denaro era l’unica, chiara motivazione dei protagonisti che egoisticamente seguivano il proprio tornaconto, il loro obiettivo. Era la risposta a tutto. Nella sceneggiatura, invece, sembra un avanzo, qualcosa che rimane sul banco. Non serve neppure a dare una risposta a quello che, nella versione di Baravelli del racconto di Maupassant, diventa il dramma di una scelta che si compie senza sposare una motivazione. Non serve neppure drammaturgicamente allo spettatore per conoscere la volontà della protagonista. C’è dunque davvero qualcosa che il denaro non può comprare, una zona nascosta e residuale? Per Baravelli e stando alla sua “appropriazione”, i soldi che ancora governano questo mondo (è pur sempre vero che lei li prende) rimangono poca cosa rispetto al desiderio di andarsene. Ed è questa la chiave di volta della sua “appropriazione”, a patto che una riscrittura la rafforzi, la precisi, la segua come via interpretativa: se Maupassant metteva in scena l’aggressività cinica tipica di una società in via di sviluppo, Baravelli ne sottolinea la decadenza, i miti ormai logori (il western) in cui la sua consunzione danarosa è già avvenuta. Nonostante nutra ancora desideri che sono miraggi (desiderio di morte, esotismo in forme ingannevoli e posticce, ridicole, sempre nuove), mostra infine il suo carattere esausto. Andreas: In definitiva, è al carattere esausto dell’Ovest che l’autore si riferisce. Non per nulla Ovest è il titolo della sceneggiatura. E il titolo di ogni progetto è elemento essenziale per le aspettative che crea nello spettatore e per la premessa che contiene, anche se in questo caso mi sembra che la premessa venga solo parzialmente sviluppata. La scelta del titolo dovrebbe portare con sè un’analisi dei rapporti fra Est ed Ovest e delle immagini dell’altro costruite da ambo le parti, un confronto delle rispettive percezioni. La figura del padre, costretto dalla malattia a una vita solo apparente e del tutto incapace di affrontare la morte a viso aperto e con coraggio, come appare evidente dalle sue poche battute, non è forse l’immagine di un Ovest in decadenza,

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del tutto incapace di affrontare nuove sfide? La badante, l’Est, pur nell’esistenza misera cui è costretta esclusivamente dalle circostanze, è invece ricca di forza vitale e capace di compiere gesti cruciali. Istituire due campi semantici sulla base di questa distinzione geografica, permette di riportare anche la figlia all’interno della contrapposizione tematica Est-Ovest. Così come il padre, neanche lei ha il coraggio di agire, il coraggio di vivere la sua crudeltà fino in fondo. E inoltre, l’atteggiamento verso l’anziano genitore, aggiunge un ulteriore tratto al campo semantico dell’Ovest: il dominio dell’interesse economico su quello affettivo, altro sintomo di un distacco dalla vita oramai insanabile. Credo che dando più evidenza alla composizione dicotomica, marcando due campi contrapposti (da un lato la badante, dall’altro il padre e la figlia), si contribuirebbe a rafforzare la struttura dei personaggi, sovrapponendo al conflitto drammatico di base (che vede in qualche modo alleati, alla luce del finale, badante e padre) un conflitto più essenziale. Un primo suggerimento, senza per questo appesantire la sceneggiatura, potrebbe essere inserire marche evidenti degli elementi in opposizione (vitalità-apatia, lotta-decadenza, coraggio-codardia). Si potrebbe ad esempio sfruttare l’elemento sonoro, sostituendo Laura Pausini con un’energetica musica balcanica, o con una contaminazione fra musica disco e tradizionale (già in se stessa contenente un elemento di incontro-scontro culturale). Helen: Ripensando alla questione naturalista, al denaro, mi viene in mente Verga, quella novella, come si chiama? Alessandro: La Roba? Helen: Esattamente. La terra non è solo un elemento della poetica naturalista e verista, ma anche un tratto centrale del western. In Zapad la terra è al centro della storia proprio come nel western, dove incarna sempre un terreno di conflitto-confronto tra due valori contrapposti: natura selvaggia contro civiltà. La frontiera, secondo Steve Neale in Genre and Hollywood, serviva a “segnare il punto d’incontro tra la natura e la cultura degli anglo-americani e quella degli altri, tra l’Ovest anglo-americano e l’Est anglo-americano”. In Zapad, dunque, il contrasto tra Est e Ovest, segnalato da Andreas, è da sfruttare di più e meglio. La badante, come già accennato prima, è l’intrusa. Claudia: Una fuorilegge. Helen: “The outlaw” che arriva dall’Est con i suoi valori, i quali coincidono con quelli del Far West: l’individualismo, la libertà, l’integrità, ma anche l’egoismo, la natura con la sua purezza, il pragmatismo, la brutalità, la tradizione. In qualche modo bisogna far vedere che la badante veicola questi valori. Neale continua dicendo che “quel contatto con la frontiera [...] è un mezzo di rinnovamento e rigenerazione personale.” Un’altra domanda sulla badante, dunque, è: come cambierà alla fine? Andreas: Uno degli aspetti più interessanti della sceneggiatura è sicuramente l’introduzione del tema del cinema western che, sostituendo la mitologia minacciosa del diavolo con quella avventurosa della frontiera, è anche il contributo più originale dell’autore. Il western, inoltre, si ricollega in modo evidente al discorso su Est ed Ovest. Quello rappresentato nel cinema western è l’occidente eroico della conquista di nuovi spazi, del superamento delle frontiere, della lotta dell’individuo contro l’ambiente (nel senso più ampio possibile del termine, fino ad includere l’elemento umano). Ma nella realtà del racconto, come abbiamo già notato statica e devitalizzata, di questo mondo mitologico risulta evidente soltanto l’assenza. Per questo potrebbe essere interessante provare ad immaginare Zapad come una storia western, per vedere che ruolo potrebbero rivestire i tre personaggi principali. Il padre sarebbe il vecchio cowboy, i cui giorni di gloria sono ormai lontani e che vive nel ricordo patetico di un passato irraggiungibile. È il mondo che lo circonda ad averlo reso obsoleto, la frontiera di cui sogna non esiste più. La figlia sarebbe invece una rappresentante del nuovo ordine, che ha eliminato la possibilità di una vita di peripezie, fatta di grandi sfide, ideali ed emozioni forti, schiacciandola sotto il peso di un sistema di relazioni asettiche dominato dall’interesse economico. È una speculatrice, che non ha altra priorità se non

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quella del profitto. L’unico protagonista possibile resta allora la badante. È lei la sola a vivere oltre la frontiera, ad affrontare uno spazio sconosciuto ed ostile, forse non come un cowboy, ma come un bandito, costretta ad adattarsi alle regole di un mondo crudele (accetta di trasformarsi in assassina), ma mantenendo un codice morale, seppure ambiguo (la compassione presente nel suo gesto, l’indecisione finale di fronte al denaro). Laura: Ma se così fosse, saremmo più in un anti-western che non in un western. Sarebbe una variazione disillusa sui temi classici del genere. Andreas: Questo succede perché in Zapad, l’Ovest eroico viene a mancare da subito, è un corpo stanco che non riesce a rigenerarsi. Sembra avere bisogno di attingere nuova linfa da un altro mondo, quell’Est (che è anche la sua nuova frontiera, parlando dell’Unione Europea) dove è ancora presente una forza vitale genuina. Questo incontro, tuttavia, nasce all’insegna della corruzione, la nuova frontiera viene subito assimilata e corrotta. Affidandole il “lavoro sporco”, viene equiparata nell’abiezione, e non sfruttata come possibilità di rinnovamento e purificazione. Ma nell’essere sicario e non mandante vi è comunque vitalità, la forza insita nella capacità di fare il male; la purezza resta solo nella compassione con cui si compie il gesto. Alessandro: Chi è dunque la badante? La nota di intenti ci dice che è il diavolo, costretta dalla nostra società, dall’Ovest ricco, ad interpretare quel ruolo per interposta persona. Come il diavolo, lei non appartiene a questa realtà sociale ed economica. Vi entra come straniera e dopo la morte dello “yankee” sparisce dalla porta. Non è parte di questa dimensione. Asseconda, come fa il diavolo, i desideri già malati degli uomini. Stefano: Ma nel racconto di Maupassant non esisteva questo aspetto, questo punto di vista più esterno. C’era un solo cardine, radicato come una spina, all’interno della stessa società che l’autore ritraeva. La spina del diavolo, appunto: il denaro era il diavolo. La storia diegetica del diavolo, l’abile invenzione della contadina nel racconto, sparisce dalla sceneggiatura che si impernia, invece, sul mito dell’Ovest. Non c’è nessun riferimento diretto al diavolo. Principalmente la sua funzione è svolta molto bene dalla badante, dal momento che è un personaggio che parla con le sue azioni. In quell’essere già presente nella situazione, nascosta e mimetizzata, la badante vive la quotidianità in opposizione al personaggio della figlia rinchiuso in un orizzonte esotico, lontano, patetico, e alla fine la abbandona come una viaggiatrice. Ma i richiami alla figura e alle funzioni diaboliche sono distribuiti in tutta la sceneggiatura. A partire dalla proposta di un vantaggio comune che è diabolica, un autentico patto, e fino all’esotismo della figlia che romanticamente è associato ad un altro orizzonte, ad una visione più carnale, al delirio dei sensi, alle feste e ai sabba. Proprio all’inganno dei sensi è da collegare il travestimento della badante: dove nel racconto lei si travestiva letteralmente da diavolo, qui nel passaggio da una morte crudele ad una pietosa, il diavolo si prende, in quanto “badante”, cura dell’anima. Qui, di contro alla raffigurazione diabolica di altro tipo con il motivo della vecchia magra e avara, ci sono il desiderio di morte, il suo fascino, la bellezza della protagonista. C’è la riscossione del prezzo con cui ci si può dannare e macchiarsi di omicidio. L’esitazione davanti ai soldi è il regolamento dei conti, la consapevolezza che prenderli potrebbe marchiare il suo gesto. Lei compie un omicidio che l’altra non commette, “realizza” un suicidio che l’altro non può commettere. La posta è alta, potremmo essere nei paraggi della dannazione. Eppure la badante è un personaggio estraneo a tutte le regole codificate. Helen: Mi viene in mente il film indipendente The Ballad of Little Jo, di Maggie Greenwald. La logline si spiega da sola: “In the Wild West, a woman had only two choices. She could be a wife or she could be a whore... Josephine Monaghan chose to be a man.” (Nel Far West una donna aveva solo due scelte; poteva sposarsi o poteva fare la puttana... Josephine Monaghan ha scelto di essere un uomo). La badante può esistere solo restando fuori dagli stereotipi consueti. Stefano: Travalicare il luogo comune è proprio il tratto tipico del diavolo romantico. Secondo Mario Praz ne La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, dall’orripilante maschera medievale, dai tratti orridi, il diavolo nel romanticismo diviene mesto, per essere angelo caduto; mestizia e morte sono i suoi tratti; ha il fascino del ribelle indomito, dalla decaduta bellezza, che sta dalla parte del vinto. Non è dunque una personificazione del male, ma ha una superiorità morale. Ha un fascino sinistro nel tipo

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tradizionale del bandito generoso, del sublime delinquente. La badante sta a tutti gli effetti dalla parte dei vinti, e la sua assenza di motivazione diviene superiorità morale. E ancora, certi elementi che ritorneranno negli uomini e nelle donne fatali dei romantici, quali la misteriosa origine, le tracce di spente passioni, il sospetto di un’orribile colpa, l’abito melanconico, il pallido volto, gli occhi indimenticabili, l’energia, sono tutti tratti che si possono, o si potrebbero, riconoscere anche in questo piccolo diavolo dell’Est, nato da quel patto più grande che la società occidentale stringe per la ricchezza, e che lei contribuisce a far ripiegare su se stesso, con un’azione diabolica, collegando due volontà come fossero fili elettrici scoperti, e facendolo esplodere per sempre. Helen: Parli della badante come angelo caduto, angelo della morte. Nella sceneggiatura c’è una bellissima immagine di “un trattore (che) affonda l’aratro nella terra riarsa”: perché non una falciatrice? Non potrebbe essere l’immagine iniziale, quella con cui la storia comincia? La metafora di tutto? Claudia: Potrebbe, rispetto a quanto detto finora. Ma prima di pensare all’immagine metaforica non sarebbe meglio vedere la coerenza che quest’immagine ha con il resto? Soggetto, scansione drammaturgica, finale, coerenza e consistenza dei personaggi rispetto alla vicenda? Alberto: Ehm... sono le 20.03 del 18 agosto. Non è un po’ tardi? Helen: Sì, in effetti. Ci siamo dilungati su questioni pertinenti all’ampliamento dell’orizzonte narrativo più che su quelle strettamente meccaniche, ma era necessario farlo: il progetto forse è più ricco di quanto lo stesso autore non si renda conto. Possiamo rimandare un’analisi più circoscritta alla scheda? Stefano: Senz’altro. Chi se la prende?

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Nome del progetto: Zapad Autore/i: Paolo Baravelli Supporto: elettronico Produttore: nessuno

Titolo dell’opera1 : Zapad Tipologia: cortometraggio Target: pubblico generico Ambientazione: campagna desolata della provincia italiana Epoca: contemporanea Documenti ricevuti: sinossi (1 cartella), sceneggiatura (10 pagg.), nota d’intenti e breve biografia dell’autore (1 cartella) Versione: 01 Lettori: Tiziana Ripani, Laura Toffanello Redattore della scheda: Laura Toffanello

La storia in tre frasi Una badante slava, che sta prestando assistenza ad un anziano moribondo, riceve dalla figlia dell’assistito un’offerta: se il vecchio morirà entro la settimana in corso, potrà tenersi la differenza risparmiata sui costi di mantenimento, altrimenti dovrà accollarsi tutte le spese future. La badante non accetta e non declina ma, nella notte, qualcuno travestito da cowboy si introduce nella stanza del vecchio, puntandogli un fucile contro e intimandogli di svegliarsi. Nel finto duello che ne consegue, il vecchio, atterrito, spara per primo, simulando il colpo con la voce, così come fa lo stesso pistolero mascherato, uccidendo l’avversario. Il vecchio, infatti, muore d’infarto e sotto le spoglie mentite del cavaliere non c’è uno dei tanti malviventi slavi attivi nelle rapine di cui la radio in quei giorni sta dando notizia, ma la badante stessa che, conoscendo la passione del vecchio per i western e il desiderio di morire con coraggio, ha deciso sì di prendere il posto del diavolo, di portarsi, come da contratto, via la sua anima, concedendogli però l’onore delle armi. Di seguito verranno analizzati, relativamente al soggetto (argomento, azione, personaggio) e alla struttura narrativa, gli elementi di forza e di debolezza che sussistono. Punti deboli L’argomento: L’argomento della storia di Zapad, ciò di cui si parla in Zapad, coincide grossomodo con l’azione centrale enucleata nella storia in tre frasi. Data, infatti, una situazione statica (una badante straniera si occupa di un anziano malato), interviene un elemento dinamico (la figlia dell’uomo ha venduto la casa e, per adempiere all’impegno preso, ha bisogno che il genitore muoia nell’arco della settimana) che altera l’equilibrio e mette in moto la peripezia. La vicenda, pertanto, diventa quella della badante che accetta o non accetta la proposta della figlia e di come e perché la onora, fino al ristabilirsi del nuovo equilibrio. L’argomento di Zapad, perciò, è il contratto stipulato con “il diavolo”, per l’appunto la badante, la quale, però, pur recitando la sua parte fino alla fine, e intascando quanto pattuito, si prende l’anima del defunto anche per restituirgli, attraverso un atto di pietà, la dignità che la malattia gli ha sottratto. L’argomento, dunque, come dicevo, coincide con l’azione centrale (dato che la storia trova il suo respiro nel formato di un cortometraggio), ma lì non si esaurisce, perché in questo caso ciò che conta non è solo cosa l’agente dell’azione scelga di fare, ma anche il perché, ovvero la sua 1

Il titolo dell’opera può cambiare nel corso dello sviluppo, mentre il nome del progetto non muta ed è quello con cui viene archiviato nel database di Affabula.

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motivazione psicologica. Del resto, che il tema abbia un risvolto psicologico è già ben presente nell’autore attraverso la particolare scelta del modo in cui il “contratto” viene eseguito, ma deve essere ancora ulteriormente rafforzato attraverso altri elementi, in particolare l’azione, le etichette del vettore dell’azione (che verranno discussi più avanti) e il titolo stesso del lavoro, il quale non a caso è Zapad. Nella sua nota d’intenti l’autore ci spiega che “zapad” in russo significa “ovest”, un ovest che da terra della prosperità sognata si rivela in realtà essere ben diversa, una terra in cui le donne straniere, tra le tante altre cose, si ritrovano a guardare i nostri vecchi, mentre a casa hanno lasciato i propri. Questo risvolto dell’argomento (un particolare tipo di pietas), tuttavia, pur essendo suggerito dal titolo, resta solo dentro la nota d’intenti, perché dell’Est, cioè di quel luogo da cui la protagonista proviene e in cui ha lasciato qualcuno, magari altrettanto solo e malato, nel testo non c’è nessuna traccia, traccia che invece dovrebbe comparire se l’autore desidera che questa attitudine dell’argomento si manifesti. Il personaggio Con il personaggio intendo qui specificamente ciò che prima ho denominato il vettore, l’agente dell’azione centrale, ovvero la badante slava. Fermo restando quanto detto sopra e cioè che la storia di Zapad è la storia di una badante che uccide un vecchio ma per restituirgli dignità, prima ancora che per “contratto”, diventa fondamentale, a mio avviso, l’aggiunta di qualche etichetta. Faccio notare che, al momento, la protagonista/agente dell’azione non ha neppure un nome e che il nome è considerato una delle etichette basilari dei personaggi. Considerando che, sempre, la prima etichetta del personaggio è l’azione, questa particolarità trova un’accezione diversa a seconda dei contesti narrativi in cui il protagonista/vettore agisce. Nella narrativa apsicologica (la fiaba, per esempio), se qualcuno pesca è un pescatore. Questo accade genericamente anche nel cortometraggio che, avendo uno scarso respiro, definisce i propri personaggi/agenti attraverso l’azione centrale. Nel nostro caso, rispetto all’azione centrale, la protagonista sarebbe un’assassina. Nel setup della storia invece è una badante, una donna cioè che ha fatto di quel che viene definito un lavoro di cura, una professione. Proprio dal rapporto “omicidio”/cura deve scaturire, e già in parte è così, la motivazione della protagonista, pertanto ritengo che l’aggiunta di qualche altra etichetta darebbe la possibilità di chiarire un personaggio che è ancora poco definito. Se infatti del vecchio noi sappiamo cosa vuole, e idem per la figlia, di cosa desideri la protagonista, dove vada nell’epilogo con una valigia e un po’ di denaro, non sappiamo nulla. Anche se a casa abbia un padre o una madre che magari sta morendo (basterebbe una telefonata per introdurre il suo Est) non siamo a conoscenza, così come non è chiaro se la cura particolare con cui si occupa del vecchio sia abilità professionale o dedizione. Allo stesso modo, nemmeno il conflitto, che dovrebbe originarsi dal momento in cui la figlia fa la sua proposta, è minimamente suggerito. E il conflitto è sempre il motore della storia. Non sto evidentemente consigliando di dedicare alla protagonista uno spazio che in un cortometraggio sarebbe eccessivo, strutturandola attraverso una serie esorbitante di etichette, ma solo evidenziando che gli altri personaggi, possedendo una motivazione evidente, sono più definiti della protagonista stessa e che la natura “psicologica” del cortometraggio, in cui il perché è quasi più importante del cosa, esige una calibratura attenta delle etichette del protagonista/agente. L’azione centrale In tutto quanto detto finora, ho denominato volutamente l’offerta che la figlia fa alla protagonista non “scommessa” (come secondo l’autore) ma “contratto”, e questo per due ragioni. La prima, importante, ma dal punto di vista della meccanica della storia accessoria, è che il “contratto”, il patto col diavolo è in se stesso un topos ben preciso, che dunque può rimandare al tema senza ambiguità. La seconda, invece, è di carattere narrativo. Infatti non è minimamente realistico che un essere umano qualsiasi si trovi a prendere in considerazione una scommessa tanto bislacca (tenersi la differenza dei 200 euro nel caso in cui l’assistito muoia entro la settimana a fronte di accollarsene il mantenimento a tempo indeterminato). Se, infatti, il secondo termine della questione è totalmente incredibile (perché la badante dovrebbe farlo, chi potrebbe obbligarla e come?), il primo mette in gioco una posta talmente bassa, che non ha ragione di esistere nemmeno per la più povera e sfortunata delle donne. Invece, nel caso in cui la questione si presentasse nei termini di “Ti propongo un affare... i canonici 200 euro settimanali, sui quali ti puoi tenere anche la differenza, e altri 800 se il vecchio muore entro la fine

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della settimana”, tutto risulterebbe abbastanza realistico da riportare l’intreccio nel campo del verisimile, sottraendolo a ciò che ora è un esclusivo necessario poetico. Altra questione ancora è invece pertinente all’esecuzione del “contratto”. Per rimandare immediatamente alla motivazione della protagonista di onorarlo, ma dentro un’accezione particolare di pietas, credo che sarebbe opportuno introdurre perlomeno un’altra possibilità ipotetica di risoluzione. Se, per esempio, il medico desse alla badante un farmaco che il vecchio deve assolutamente prendere, pena la morte certa del paziente, il fatto che lei glielo somministri porterebbe l’attenzione non sul cosa, ma sul come, rimandando al perché, ovvero alla famosa motivazione. Va detto comunque, che, per come si propone il lavoro finora, con una protagonista dalle etichette tanto scarne e non orientata chiaramente verso uno scopo (goal oriented), l’azione centrale perde totalmente di forza e tutto ciò che accade nel climax e nell’epilogo, pur essendo messo in moto dall’azione stessa, appare come frutto del caso anziché come conseguenza poetica. Più che essere mossa da un vero e proprio fine, e cioè aiutare il vecchio ad affrontare la morte, la protagonista appare come qualcuno che agisce in preda a una sorta di felice sonnambulismo e, una volta che ha ottenuto ciò che accade, mentre c’è, intanto che si trova in quella situazione, si prende anche i 200 euro. Tale casualità poetica, in luogo di una sana causalità, oltre che alla scarsa consistenza della protagonista, si lega, a mio avviso, a una scorretta strutturazione narrativa del soggetto, elemento che esaminerò nella prossima sezione, ma è certamente intrinseca anche all’azione centrale. L’azione centrale, infatti, mette forzatamente in moto una domanda centrale, ovvero: la protagonista accetterà oppure no l’offerta della figlia dell’assistito? E pur spalancando tale domanda un’inequivocabile occasione di conflitto (per l’appunto il vero motore della storia), l’autore liquida la questione in poche righe che mi permetto di riassumere così: la donna fa la sua offerta, “la ragazza fissa ancora la banconota da 200 euro, senza toccarla. La copre con un massiccio posacenere. Si porta alla bocca una forchettata di spaghetti, ma non riesce a inghiottirli. Si alza e li butta nella spazzatura” e a questo punto ha già preso la sua decisione, senza che un’occasione ghiotta di aprire uno spazio/tempo per il conflitto venga dall’autore minimamente colta. La struttura narrativa Sempre rifacendomi alla storia in tre frasi, vorrei sottoporre all’attenzione dell’autore che, se il soggetto è effettivamente “una badante slava riceve dalla figlia dell’assistito un’offerta...”, nel paradigma del corto ciò avviene troppo tardi (a pag. 9, nell’economia di 10 pagg.). Come detto poco sopra, infatti, oltre al fatto che dando a tale segnale di suspence diversa collocazione strutturale si aprirebbe uno spazio di conflitto di coscienza nella protagonista (non necessariamente da mostrare), soprattutto si determinerebbe nello spettatore l’indispensabile sentimento di speranza e timore rispetto a ciò che sta per accadere. Se, per esempio, l’autore anticipasse (addirittura nell’apertura) l’offerta della figlia, da quel momento in poi il pubblico non potrebbe fare a meno di chiedersi che cosa potrebbe succedere se lei accettasse e intanto resterebbe inchiodato con la badante davanti a quel piatto di spaghetti, cercando un’anticipazione del futuro in ogni suo minimo gesto, compreso quello di mettere sotto il posacenere il denaro, probabilmente temendo ciò che sta per accadere, salvo poi scoprire in una esposizione ritardata dell’assistito, che il vecchio in questione ha una vita che è una non-vita e che anche il diavolo può essere pietoso. Questa operazione, tra le altre cose, consentirebbe di proiettare il pregiudizio non banalmente sulla figura della figlia, in un certo senso la deuteragonista, ma direttamente nella mente dello spettatore. Che cosa penseremmo noi di una giovane donna slava, bella, algida, a cui vengono offerti dei soldi per accelerare un processo? Non risponderemmo forse secondo un frame di sceneggiatura canonico, che deriva sostanzialmente da un cliché, ovvero da un pregiudizio? Se ciò avvenisse, ritengo che l’esito della storia, la quale nelle intenzioni dell’autore vuole avere sostanzialmente il carattere di racconto morale, guadagnerebbe in incisività. I personaggi: La figlia. Il personaggio della figlia, così com’è costruito ora, ovvero “una donna sulla sessantina, tarchiata, i capelli cotonati, il viso paffuto truccatissimo, con indosso un ridicolo costume da ballerina caraibica”, è pertinente all’idea che l’autore vuole trasmettere della morte come momento di farsa buffonesca e ridicola. Tuttavia, la sgradevolezza di cui chi scrive riesce a informarla è ottenuta attraverso un procedimento grossolano, che viene per l’appunto dal mostrarci un personaggio pacchiano al

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limite del caricaturale, operazione sempre difficile e che ha come pericolo quello di eventualmente scaraventare lo spettatore dal buffonesco raffinato al macchiettistico semplicistico. Nell’ottica del cortometraggio, pertanto, dove per economia narrativa vale la regola di definire i personaggi attraverso poche etichette, a maggior ragione se si tratta di personaggi non in immediata correlazione con l’azione centrale, ciò su cui mi permetto di attirare l’attenzione dell’autore è l’ipotesi di lavorare su frame di sceneggiatura già predefiniti e di appoggiarsi al genere. Vista la materia narrativa in questione e la suspence di cui potrebbe valersi favorevolmente il racconto, perché non sfruttare per questo personaggio secondario la più classica delle trame e cioè quella non di una figlia brutta e ridicola, ma quella di una moglie bella e più giovane dell’anziano coniuge, del quale potrebbe godersi il patrimonio? Faccio notare, comunque, che se questo suggerimento è in linea con la possibilità di costruire una storia più noir, e cambia piuttosto radicalmente il soggetto originale rispetto alle conseguenze che potrebbe aprire a livello di story concept, l’annotazione precedente sul rischio caricaturale del personaggio resta sostanziale e deve essere valutata dall’autore attentamente. Il vecchio. Sul personaggio del vecchio ritengo che il lavoro da fare sia stabilire con più criterio la malattia di cui è ammalato, quando è peggiorato, se sia o meno cosciente, che cosa la badante possa fare per lui. Tutte queste informazioni dovrebbero evidentemente passare attraverso i dialoghi principali (quello tra badante e figlia e quello tra badante e medico) che rimandano alla questione della malattia. Oltre alle informazioni referenziali, però, se il tema volesse assumere su di sé l’opportunità di rimandare all’eutanasia, questi due dialoghi potrebbero, senza troppa difficoltà, mettere in luce punti di vista differenti. Nel caso specifico, la figlia (o moglie, se all’autore interessasse il suggerimento precedente) discuterebbe la coppia vita-morte (relazione di contrari) e quello con il medico i due termini non morte-non vita (ancora una volta in relazione di contrarietà). Interessante a questo punto il territorio non logico ma psicologico che si spalancherebbe alla riflessione: se per la badante la vita dell’uomo fosse uguale a una non-vita (relazione di contraddizione solo apparente), cosa che ci appare chiara dallo stato del vecchio sulla cui condizione di non autosufficienza l’autore insiste molto, ecco che nella coppia di complementari vita-non morte (in cui vita implica non morte) e mortenon vita (in cui morte implica non vita) la sostituzione che si originerebbe darebbe adito a un gap in cui morte implica vita, dunque liberazione, dunque pietà. In quanto appartenenti alla stessa sovraclasse (quella degli esistenti), che oltre ai personaggi contiene anche l’ambiente, discuterò qui di seguito ambientazione (campagna desolata della provincia italiana) e film western (dove considero il West come personale Ovest del vecchio, perciò come ambiente). Ambiente. L’ambiente che l’autore descrive e a cui si riferisce è molto suggestivo. La campagna isolata della provincia, quella in cui i ritmi sono ancora ampiamente naturali, fa da contrasto alla necessità della società progredita di controllare tutto, compreso il tempo della vita allungandolo, o accorciandolo, a proprio piacimento. In questo caso l’ambiente fa da contrappunto al tema della storia. Anche il casolare, con pareti spoglie, attraversate da crepe minacciose, con pochi mobili di pesante legno scuro e i gradini di legno che scricchiolano, se da un lato attualizza nell’ambiente l’indice della vecchiezza, dall’altro, visto l’isolamento dal resto del mondo, si presterebbe bene a organizzare quel percorso di paura e suspence di cui ho parlato in precedenza. Il film western. Credo che se si introducesse nel dialogo con il medico una prassi di accudimento ordinaria nonostante il peggioramento, la questione dei film potrebbe entrare con una motivazione più naturalistica. Se il dialogo col medico durante la visita (che per ragioni drammaturgiche suggerirei comunque di spostare dopo la scena con la figlia, in ogni caso essa stessa successiva alla crisi) contenesse i seguenti argomenti: la crisi viene effettivamente constatata, il paziente è peggiorato e d’ora in poi, visto l’aggravamento, potrebbe vivere un giorno, una settimana, un mese, è impossibile dire quanto, deve comunque prendere una medicina senza la quale rischia un’altra crisi, questa volta letale, alla domanda della badante “Mi dica almeno se è cosciente, dottore... Io non so che fare...”, una risposta del tipo “Non c’è niente da fare. Si comporti come prima e gli dia la medicina y ogni x ore”, preparerebbe una sorta di normalità in ciò che accade dopo. Il vecchio urlerebbe, proprio com’è ora nella sceneggiatura e la donna, che non ha altri strumenti per calmarlo, tenterebbe una strada

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consueta. Dopo averlo abbracciato per calmarlo, prenderebbe il carrello tv e mettendo una cassetta tra le poche, direbbe “Calma, vecchio, adesso ti metto il tuo film preferito...” e probabilmente si fermerebbe con lui a guardarlo, cercando negli occhi del vecchio un miglioramento, ma senza trovarlo. Forse il vecchio, piangendo, direbbe “Non hanno paura loro...” e la badante risponderebbe “Non piangere, te ne prendo uno più bello domani...” In questo modo la motivazione realistica sarebbe fatta salva e in più si aprirebbe uno spazio ulteriore di arricchimento tematico attraverso l’uso del film western. Che il testo indichi proprio questo genere, infatti, non è certamente casuale: quello del film è l’Ovest del vecchio, l’unica possibile via di fuga da una vita ridotta ai minimi termini, ma è un Ovest di serie B, che di fronte agli occhi della badante (la quale si trova nella stessa situazione) potrebbe denunciare tutta la sua piccolezza. Non sarebbe peregrino allora che la badante gli prendesse al videonolo un vero grande film western, di quelli in cui tutto parla della frontiera. Certamente così andrebbe perduta la connotazione buffonesca che in questo caso, tuttavia, ritengo rischi di togliere direzione e trasparenza alla motivazione dei personaggi. In cambio, quel che se ne avrebbe sarebbe: mostrare il rapporto di tenerezza tra badante e vecchio (dato che lei va a prendergli la videocassetta), suggerire tra i due personaggi una somiglianza (rispetto all’Ovest), e, se la donna il giorno in cui va al videonolo prendesse in un negozio anche il “costume” da pistolero, mostrare che la peripezia non è frutto del caso, ma di precisa scelta da parte della protagonista che, alla proposta della figlia, reagisce con un piano articolato. I dialoghi Rispetto ad un materiale narrativo come quello di Zapad, ritengo che i dialoghi non debbano avere nessuna funzione particolare se non quella di: (1) far avanzare l’azione, (2) dare informazioni sull’antefatto (backstory), (3) esprimere coerentemente il carattere dei personaggi. Che l’autore scelga di accettare al minimo o al massimo i suggerimenti per lo sviluppo, si segnala che i dialoghi dovrebbero comunque essere raffinati almeno in relazione al punto tre. Per esempio, rispetto al vecchio, non essendo mai stato chiaro quanto e se sia lucido e sensibile, le battute di dialogo “Loro... sono coraggiosi... non hanno paura... Io... voglio morire così... ma... non so... non sono capace...”, a mio avviso stonano, in quanto assumono su se stesse un valore troppo esplicativo che, invece, andrebbe distribuito sulla costruzione del personaggio attraverso le sue etichette ed estrapolato dalla relazione con gli altri personaggi e loro motivazioni.

Punti forti Tutti i punti analizzati in precedenza nell’ottica di debolezza, contengono una loro forza. Il soggetto, in particolare, è interessante perché anche così com’è (senza evolvere lo story concept) ben si presta ad illustrare un tema ricco e complesso come quello messo in gioco. In relazione, poi, al sottotema del pregiudizio, sottolineo la correttezza della presenza della falsa pista sulla banda dei rapinatori slavi, utilissima dal punto di vista della meccanica narrativa e opportunamente seminata nel respiro del corto.

Considerazioni generali e suggerimenti per lo sviluppo Avendo già tentato considerazioni ed espresso suggerimenti all’interno dei punti focalizzati, tenterò una sintesi procedurale che distingua gli interventi possibili in ordine di grandezza e necessità. La prima ipotesi pertanto è quella di carattere più conservativo. Lasciando il soggetto com’è e mantenendo i personaggi così come sono (salvo la protagonista, le cui etichette andrebbero in questo caso raffinate) suggerisco di anticipare la proposta della figlia che, però, tassativamente non può essere l’attuale scommessa, ma deve presentarsi come una proposta vantaggiosa e accettabile. Una revisione dei dialoghi in chiave meno esplicativa, un film western grande che metta al servizio di questa storia gli elementi del genere (per es., la solitudine del pistolero,

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la fine dell’Ovest, ecc.) e un finale in cui la ragazza prende dalla donna il saldo del contratto e se ne va, sarebbero indubbiamente sufficienti a migliorare il racconto. Se invece l’autore volesse essere più radicale, anziché solo anticiparla, potrebbe portare in apertura la scena del contratto. Questo consentirebbe di aprire in medias res con una situazione molto interessante e suggestiva (e forse, per quanto riguarda l’atmosfera, in più aperta sintonia con il racconto originale cui l’autore si riferisce). Una volta aperta la storia in questo modo, l’autore dovrebbe presentare il vecchio e la sua situazione attraverso la scena col medico e dopo occuparsi di raccontare il rapporto tra vecchio e badante attraverso le stesse sequenze che già sono contenute, aggiungendo solo, per esempio, una telefonata alla figlia (per riferire eventuali novità che evidentemente non ci sono), il farmaco salvavita (il quale, in questa storia che è più di suspence, sarà utile a rafforzarla), la visione del film per calmare il vecchio e la successiva esecuzione del piano che contemplerebbe l’acquisto del costume e il noleggio della videocassetta, fino al procedere della trama come da originale (con la sola modifica per la quale tutte le operazioni in cui la badante sbarba, pettina, profuma e prepara il vecchio al grande giorno, prima che sia ora della vestizione, avvengono qui), più epilogo in cui la badante riscuote il premio pattuito. In questo secondo caso, essendo questa opzione più di trama che di situazione, la costruzione della protagonista passerebbe tutta per l’azione e gli interrogativi posti in precedenza sulla necessità di rimandare al suo Est, perderebbero di importanza. Nell’ottica, poi, di costruire una storia veramente noir, utilizzando questa seconda trama, ma appoggiandosi sui classici elementi del genere (trasformando, dunque, la figlia in moglie) segnalo l’ipotetica evoluzione dello story concept verso un altro finale: la moglie si rifiuta di pagare il saldo e la badante si avvia con il suo trolley verso chissà dove, ma il film non termina qui. La scena successiva si riapre nello studio di un notaio, dove, a sorpresa, la moglie del vecchio scopre che il testamento è stato cambiato e che tutti i beni del coniuge non andranno, come era certa, a lei. Ma questo sarebbe veramente un altro copione...

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Carissima Redazione, vi confesso che leggere la vostra discussione editoriale e la vostra scheda ha provocato in me un susseguirsi di violente emozioni: prima una profonda vergogna (del tipo “Oddio, ho sbagliato tutto, mi hanno preso come esempio negativo!”); poi rabbia (del tipo “Ah, sì? Allora gliela farò vedere io!”); poi di nuovo vergogna, a ruota ancora rabbia, e avanti così per alcune ore in cui mi sono aggirato per casa in preda a una smania incontrollabile, finché non sono crollato, sfinito, su una poltrona... A distanza di alcuni giorni mi viene da ridere ripensando alla mia reazione, ma - cercate di capirmi - per la prima volta una mia “opera” era stata analizzata e commentata da un gruppo di editor professionisti e io, grazie alla vostra discussione, avevo potuto sapere che cosa la redazione pensasse del mio lavoro e di conseguenza cosa pensasse di me. A 36 anni, in quel pomeriggio febbrilmente peripatetico, avevo così scoperto che con la scrittura, non solo si è continuamente faccia a faccia con se stessi, ma si mettono in gioco sensibilità, capacità e convinzioni intime, insomma si mette a nudo l’anima e la si sottopone al giudizio altrui. Quando vi ho spedito la sceneggiatura di Zapad non immaginavo niente del genere. L’avevo scritta parecchi mesi prima e poi abbandonata in un cassetto, completamente privo di speranze su una sua pubblicazione e ancor più su una sua realizzazione, insoddisfatto dei vari concorsi andati male. Ho deciso di riesumarla e mandarla a “Plot” perché una vostra e-mail mi aveva informato che stavate cercando corti per il nuovo numero. Così ho cliccato su “invia” e non ci ho pensato più. Poi è arrivata la telefonata della redazione che annunciava la scelta del mio progetto per “AffabuLAB” a cui, qualche tempo dopo, sono seguite scheda e discussione editoriale, le quali - come ho raccontato poc’anzi - hanno generato crisi e sentimenti contrastanti. A posteriori mi sono reso conto di quanto poco tempo e riflessione avessi dedicato al mio lavoro e quell’insoddisfazione per il destino poco fortunato di Zapad si è tramutata in insoddisfazione per Zapad. Come ho raccontato nella nota d’intenti, nella stesura del progetto erano confluite una serie di sensazioni-immagini impresse dentro di me in tempi diversi e cullate a lungo: le letture dell’intervista a Laurie Anderson e del racconto di Maupassant, esperienze autobiografiche, ricordi del servizio civile, di mio nonno che amava anche lui i film western, i “cappelloni”, l’atmosfera della campagna che circonda il paese in cui vivo e, in ultimo, le ore che tutti i giorni trascorro con mia nonna ottantasettenne sempre meno padrona di sé (allora la badante protagonista del corto è il mio alter ego? Se è così mi preoccupa un po’ lo stato del mio subconscio...). Zapad è stato il tentativo di replicare tutte queste suggestioni e di trasmetterle al lettore sotto forma di storia - spero - evocativa e originale, perché penso che, soprattutto nello spazio breve di un cortometraggio, la cosa più importante sia stimolare l’immaginazione, far provare emozioni, poco importa se lasciando parti ambigue, indefinite e aperte alla libera interpretazione di chi legge o vede. Così facendo, però, per scelta ma anche per imperizia, ho tralasciato di costruire una struttura drammaturgica coerente, che concatenasse queste immagini-sensazioni in una stretta causalità, e ora non sono più così sicuro del mio operato. Zapad, infatti, nelle mie intenzioni doveva essere una descrizione oggettiva ed esterna delle ultime 24 ore di vita del vecchio, in cui gli avvenimenti si susseguivano come nella vita casualmente, appoggiandosi solo alla struttura dello scorrere circolare del tempo: alba-giorno-notte-alba. Rispetto alla plausibilità del susseguirsi di questi avvenimenti mi ero domandato: è credibile questo? Potrebbe accadere veramente? Finora la risposta era sempre stata sì. Leggendo i vostri interventi, tuttavia, mi sono reso conto che troppa casualità ha generato incertezza, e che ciò che ritenevo intellegibile lo era solo nelle intenzioni, nemmeno troppo chiare a me stesso. Pertanto, prima di pensare ai cambiamenti di una nuova versione, cercherò di chiarire quali siano i punti fermi della mia storia, concentrandomi in particolar modo sui personaggi, sulle loro

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motivazioni e sulla meccanica narrativa, dopodiché sarò pronto a rimettermi al lavoro, con maggiore consapevolezza, a una nuova versione, nella quale cercherò di tenere ben presenti le criticità che avete evidenziato. Tra le proposte di modifica avanzate nella scheda, credo che all’inizio mi orienterò verso quella più conservativa. Anticiperò il momento della scommessa-contratto per sottolineare il conflitto con la figlia del vecchio; inserirò la suspense di un farmaco salvavita che la ragazza deve decidere se usare o no; la ragazza riceverà anche una telefonata da parte della madre rimasta in patria che la aggiorna sulle condizioni del padre malato; aggiungerò etichette per definire meglio i personaggi e non vestirò la figlia del vecchio da ballerina caraibica; renderò i dialoghi più naturali. Sono pronto però a ricredermi e a provare anche quelle soluzioni di cambiamento più radicali che ora mi lasciano un po’ perplesso, come per esempio il noleggio di un “vero, grande film western” (ne avevo scelto uno di serie B perché questi replicano in maniera semplice, diretta, i luoghi comuni del genere; ma se dovessi cambiare idea che ne dite di Per un pugno di dollari? Troppo allusivo?) e del costume da cowboy (anche se a mio avviso è importante che siano gli abiti da contadino del vecchio, dato che rappresentano la sua vita passata, e la sua morte diventa nuova vita se la ragazza li indossa), o la trasformazione della figlia in giovane moglie, se a un tratto dovessi accorgermi che la mia storia ancora non mi soddisfa. In ultimo vorrei replicare a una vostra osservazione che, lo ammetto, mi ha un po’ ferito (questo non significa che non sia giusta): l’accusa di compiacimento voyeuristico per le scene 3 e 4. Ho usato parole sgradevoli, è vero, ma l’ho fatto perché sono convinto che, oltre all’intento scioccante, nella rappresentazione diretta di una realtà squallida, del decadimento di un corpo, di rapporti umani brutali, si nasconda più verità che in qualunque altra immagine. Penso, rischiando di essere retorico e ingenuo, che solo partendo dal punto più basso della carne e degli istinti si possa trovare la forza per salire verso l’alto di sentimenti come la pietà, la compassione, la comprensione per gli altri, o almeno la forza per sognare una vita migliore. Comunque, a scanso d’equivoci, toglierò le due descrizioni troppo esplicite, in particolare quella della scena 4 (che nasce da un ricordo del servizio civile: la madre più amorevole che abbia conosciuto accudiva il figlio in coma, senza bisogno di padelle), perché non voglio costringere nessun vecchio attore a esibirsi in questo modo davanti alla macchina da presa né un eventuale spettatore a godere morbosamente di un simile spettacolo! Infine vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato e soprattutto per la vostra pazienza. Arrivederci a presto con una nuova versione di Zapad (è una minaccia!) Paolo Baravelli

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Volevamo intervistare il Cortometraggio. Chiedergli come sta, quali sono i suoi progetti per il futuro, se è felice o vorrebbe cambiare qualcosa. Chiedergli cosa pensa. Volevamo domandare a questo illustre antenato del cinema di oggi, come vive o sopravvive. E come cresce. Se si sente padre, nonno, oppure figlio. Lo abbiamo cercato, seguito e quasi trovato. Ma il Cortometraggio è sfuggente: tra festival, rassegne, grandi idee e esercizi di stile, è davvero difficile riuscire a trovarlo. Per questo motivo Plot ha intervistato i suoi amici, gli estimatori, i conoscenti. Un grande sceneggiatore, direttori di festival e tele-festival, un consulente editoriale, un critico cinematografico, un’associazione culturale, un autore. Ognuno di loro ci ha raccontato il corto, ripercorrendo una storia lontana nel tempo, che ogni giorno scopre di avere ancora molto da dire, e che per il futuro riserva parecchie sorprese.

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«Il corto ha bisogno di semplicità e la semplicità è complicata.» Giorgio Arlorio La scrittura cinematografica, un mare tempestoso. Scrittura cinematografica intesa non come tecnica, insieme di regole, ma come linguaggio espressivo personale, caratterizzato da motivazioni profonde e da una rispettosa curiosità per il mondo. Uno sceneggiatore di grande esperienza si racconta e invita a costruire nuovi luoghi di incontro per confrontarsi e scambiarsi idee, per comunicare autenticamente: veri laboratori sperimentali di scrittura creativa che colmino il vuoto lasciato dalle vecchie botteghe dei produttori di un tempo, dove sceneggiatori come lo stesso Arlorio, Sonego, Age, Scarpelli, Solinas e molti altri, si confrontavano su argomenti di interesse comune, ognuno con le proprie conoscenze, esperienze e passioni. Prima di scrivere.

parte piemontese del documentario su Lizzani presentato anch’esso a Venezia quest’anno (Viaggio in corso nel cinema di Carlo Lizzani, di Francesca Del Sette, ndr). E poi ancora Filippo Gravino, che in seguito ha vinto il Premio Solinas nel 2003 con la sceneggiatura Il nemico dell’acqua ed è diventato sceneggiatore (ha lavorato al soggetto e alla sceneggiatura di Lascia perdere Johnny, di Fabrizio Bentivoglio, attualmente in produzione, ndr). E mi ricordo il vincitore della prima edizione del 1997: la sceneggiatura si intitolava Cucine ed era un bel ritratto di una casalinga di classe proletaria, della sua doppia vita, doppia in senso di pesante, ai fornelli in casa e aiuto cuoco in un ristorante come mestiere. Ci stupimmo perché sembrava scritta da una donna di una certa età, invece l’autore era un ragazzo di San Benigno Canavese (Davide Franchetto, autore successivamente dei corti Pensieri Notturni, premiato al concorso Amori in corto di Terni 2001 e Testa di cane, presentato al Festival Internazionale Cinemambiente di Torino 2003, ndr).

Tu sei stato per anni in giuria del Pescara Corto Script, il primo concorso italiano dedicato alle sceneggiature per cortometraggio, ora ne sei il Presidente onorario. Che impressione hai avuto e hai di questa manifestazione? È un concorso interessante per due motivi. Il primo è che il premio consiste nel dare la possibilità di realizzare la sceneggiatura vincitrice, ed è una formula che ha dato ottimi risultati. Ma soprattutto, al di là dei corti realizzati, è interessante perché abbinato ad un seminario a cui partecipano finalisti, uditori e giurati fra cui vi è sempre un regista, per esempio Tavarelli, uno sceneggiatore, Francesco Bruni, un produttore di cortometraggi, Gianluca Arcopinto, e poi giornalisti, come Stefano Della Casa che ora è Presidente della Film Commission Torino Piemonte. E in questi due giorni di incontri si discute, si creano contatti, nascono progetti. Alcuni partecipanti hanno poi frequentato il Centro Sperimentale e sono diventati sceneggiatori che hanno avuto successo.

Tu sei promotore e giurato, con Ettore Scola, Furio Scarpelli, Libero De Rienzo e Alex Infascelli, di Corto Sicuro. Dedicato ai cortometraggi realizzati, Corto Sicuro è un concorso a tema sugli infortuni sul luogo di lavoro. Corto Sicuro mi piace molto, anche se non siamo ancora riusciti ad ottenere una partecipazione ottimale: noi ci siamo impegnati andando nelle scuole, nelle Università, siamo venuti anche a Torino al DAMS. Le Università ci hanno accolto con un po’ di freddezza, come promotori di un’iniziativa quasi marginale, invece, non solo il tema è un tema ovviamente alto, ma è un tema ricco per sviluppare idee. Per esempio se vai a Genova all’archivio dell’Ansaldo, che raccoglie la storia del lavoro, praticamente l’unico archivio veramente completo sul tema, ci sono infiniti materiali per far sciogliere le briglie della fantasia.

Per esempio? Michele Pellegrini che ha lavorato alla sceneggiatura di Uno su due di Eugenio Cappuccio e alle sceneggiature di Non pensarci di Gianni Zanasi e Nessuna qualità agli eroi di Paolo Franchi, entrambi quest’anno presenti alla Mostra del Cinema di Venezia. Mi ricordo di Beppe Varlotta, un film-maker di Asti che in seguito ha girato dei cortometraggi (tra cui Nanà, sul mondo del tartufo, interpretato da Felice Andreasi e Mario Monicelli, ndr) e ultimamente ha collaborato nella

Un archivio ricco di spunti? Sì, perché partecipare al concorso non deve essere considerato come un compito da svolgere su un tema, come un’esercitazione: occorre interpretarlo come un prezioso ambito di ricerca su cui far lavorare la fantasia. Comunque anche quest’anno i corti partecipanti erano molto belli. Nella prima edizione mi ricordo il bellissimo corto La danza

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dei coltelli di un ragazzo sardo (Salvatore Cubeddu, ndr) che viveva a Torino e faceva l’aiuto cuoco in un ristorante: era un montaggio di tutti i pericoli che si corrono maneggiando i coltelli nella cucina di un ristorante, non so se l’hai visto. Sì: ad una a una le lame dei coltelli cominciano, nell’affettare i vari cibi, una danza molto ben ritmata. Tutti si aspettano l’infortunio, che però non arriva. Un monito ad essere attenti e prudenti. Sì, era bello, una bella scelta musicale. Un altro molto bello tra quelli in finale alla prima edizione era un corto di animazione, La mattonata, sempre di un torinese credo. Francesco Alliaud di Cesana Torinese: con un foglio di giornale puoi fare molte cose, ma non fare un cappello da muratore, perché non ti protegge la testa... questo era il messaggio. Molto originale, ironicamente perfido. È stato scelto come spot per la campagna pubblicitaria della Giornata Nazionale per le Vittime degli Incidenti sul Lavoro. Secondo te il cortometraggio può essere considerato la palestra per futuri registi e sceneggiatori di lunghi? Sì, anche se è un po’ limitativo, almeno quando i corti erano girati solo in pellicola, oggi con il digitale si sono abbattuti i costi, a volte si possono fare anche in casa. In realtà, però, pensando alla sceneggiatura, non è una palestra in vista del lungo, perché il corto ha un linguaggio diverso. Il corto, per sua costituzione e sua struttura, ha come origine letteraria molto più il racconto, il racconto breve che non il romanzo e quindi ha una sua autonomia. E poi, nel mondo, il corto ha un suo ampio mercato, non in Italia dove è uno dei campi in cui siamo in ritardo. Io sono stato in giuria al Festival du Court Métrage di ClermontFerrand, uno tra i più vecchi e sicuramente il più grande concorso, e lì arrivano corti straordinari, veramente straordinari, e hanno un loro linguaggio decisamente autonomo. A riprova che nel mondo esistono autori e registi che continuano a fare sia il corto che il lungo, con uguale interesse, proprio perché hanno due linguaggi diversi, autonomi. In Italia un festival di corti molto noto è la Mostra Internazionale del Cortometraggio di Montecatini Terme, arrivato alla 58ª edizione. Sì, un festival interessante. Mi ricordo che nel 1996, a Montecatini, arrivò una giovanissima ragazza serba (Andrijana Stojkovic, ndr) con un corto

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selezionato nella categoria documentari e che aveva una struttura narrativa fortissima, un’idea narrativa fortissima. Il corto durava neanche tre minuti ed era un’unica inquadratura, se vuoi te lo racconto rapidamente, perché è esemplare come forza narrativa con una sola inquadratura e senza audio, muta. Certo, racconta. La mdp, fissa, inquadra l’interno di una stanza dove vivono due persone anziane seguendole in rapidi tagli, nei quali si capisce che trascorre una giornata attraverso il cambiamento della luce proveniente da una finestra sulla parete di fronte al punto di ripresa. Sono illustrati quattro momenti della giornata, senza audio, il risveglio, prima colazione a letto servita dalla moglie, una lettura di giornale del marito mentre la moglie rassetta la stanza, una partita a carte al tavolo tra di loro, la preparazione della cena e l’andare a letto. Appena diventa buio la mdp arretra, sicuramente attraverso una grande gru o una flycam, e arretrando in asse scopre che la stanza fa parte di un grande capannone dove ci sono centinaia di altre stanze uguali a quella precedentemente inquadrata, come un alveare, e tanti uomini formica che si muovono all’interno delle loro stanze, finché arriva il totale di questo enorme capannone (in questo senso è un documentario), e scorre una scritta che spiega che per tutto il periodo della guerra dei Balcani, per mezzo milione di jugoslavi, di quel tipo è stata la casa. E si capiva quindi il titolo Kuca che in serbo significa “casa”. Era di grande efficacia, capisco che raccontarlo non renda quanto vederlo. L’idea era certamente molto forte. Straordinaria, una grande capacità narrativa: attraverso questa unica porta d’ingresso avevi l’idea di un’epoca, un mondo, anni di guerra. E tutto solo attraverso le immagini, senza dialogo? Non c’è una parola, un suono, straordinario. È stata un’intuizione, certamente dovuta ad aver trovato la situazione, aver avuto la possibilità di poter fare quel tipo di inquadratura, e quindi in questo senso è un documentario, ma un documentario che dura neanche tre minuti, realizzato con un’idea narrativa fortissima. Ma ci sono tanti corti molto interessanti. Per esempio in quella specie di carnevale, come fatalmente lo sono tutti i grandi premi, che è l’Oscar, la sezione dei corti narrativi, documentari e d’animazione è straordinaria: al Festival di Montecatini ho visto i corti vincitori e


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i finalisti di dieci anni di Oscar, ed erano strepitosi. È una sezione raffinatissima, non nel senso di elitario, ma proprio di livello!

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Quindi tra i suggerimenti che ti sentiresti di dare agli autori di corti, puntare soprattutto sull’idea è quello fondamentale? Senz’altro. L’idea non deve necessariamente essere narrativa o tradizionale, quelli che ti ho citato sono abbastanza poco tradizionali. Quando invece fai un compitino, il risultato è debole. Quello che vinse la prima edizione di Corto Sicuro (Il silenzio, realizzato da un gruppo di ragazzi di Massa), per esempio, che racconta di una moglie di un infortunato sul lavoro, era fatto bene, per carità, però fatalmente è una riduzione di una vicenda dalla forte drammaticità che avrebbe potuto raccontare un lungometraggio ad ampio respiro. Occorre invece una scintilla inventiva che parte da una necessità di interpretazione: tutte le opere cinematografiche, secondo me, sono adattamenti, da romanzi, da opere letterarie, dalla cronaca, ma l’originalità della realizzazione sta nel trovare un piccolo ingresso, una porticina personale, o di gruppo, per affrontare un tema. Questo è un invito alla ricerca di ciò che ti spinge veramente ad affrontare quel tema, evitando di limitarsi a riprodurre la solennità, la tradizionalità di altre opere magari anche belle.

Nei corti che tu hai avuto modo di leggere al Pescara Corto Script e in quelli che hai visto come giurato a Corto Sicuro, quali sono i punti deboli che hai più frequentemente rilevato? I punti deboli sono l’adattarsi, in qualche modo il ritrovarsi ad imitare, il conformarsi. Però il conformismo ha un suo senso più o meno perfido, più o meno deteriore, quando almeno vuol dire adattarsi a qualcosa di grande, ma quando invece è cercare di fare il piccolo cliché di quello che avviene nella cinematografia maggiore, con pochi mezzi e anche con minore capacità espressiva e visiva, il risultato è in genere un compitino che qualche volta è discreto e altre volte è patetico. E spesso banale. Il risultato dimostra tanto i limiti economici del corto quanto i limiti espressivi. È molto difficile fare in dieci minuti di sceneggiatura una specie di giallo di imitazione o una commedia, per esempio, intanto perché sono generi che richiedono una maggiore professionalità e qualche tecnica in più. Ma non solo per questo: è che, fatalmente, i mezzi sono minori, gli attori sono meno professionali e allora risalta l’imitazione, e questa è la cosa da evitare, e lo dico sia per il Pescara Corto Script che per Corto Sicuro.

Avere quindi una motivazione forte e autentica, come base di partenza? Diciamo una motivazione forte, sì. Io ricordo uno dei vincitori del Premio Solinas di qualche anno fa, Angelo Carbone: aveva scritto una storia di grande delicatezza, nulla di urlato, di clamoroso, e durante l’incontro con i finalisti qualcuno gli chiese: “Perché scrivi?” Lui, taciturno, introverso, ma con dentro una grinta notevole, rispose: “Io scrivo per indignazione.” Allora qualcuno si mise a ridere, poi lui spiegò che per indignazione intendeva il significato alto della parola, la necessità, un’emozione che ti spinge a scrivere. Un qualcosa che per forza è una reazione, non nel senso che deve essere una storia contro, ma un tema che ti sembra necessario e indispensabile affrontare, sperando di non sbagliare. La speranza di poter dare il tuo apporto. E nel corto è ancora più forte questo bisogno e in un certo senso ci sono più possibilità che in un lungo, che richiede una maggiore complessità di struttura e di progettazione. (Angelo Carbone è l’autore del soggetto e della sceneggiatura, con Roan Johnson, di Ora o mai più di Lucio Pellegrini, 2002; ha scritto la sceneggiatura di Liberi di Gianluca Maria Tavarelli, 2003 ed è stato cosceneggiatore con Alessandro Angelini di L’aria salata, dello stesso Angelini, 2006, ndr).

Infatti, proprio per la carenza di mezzi, non si può contare sull’abilità espressiva degli attori, quasi sempre amici reclutati all’occorrenza. Certo, a volte però vedi dei corti interessanti. Per esempio quello che ha vinto quest’anno Corto Sicuro (Kalel, di Raffaella Fontò, ndr), è molto sorprendente. Anche questa è un’unica inquadratura, un’intervista, montata, ad un extracomunitario che racconta di un cugino vittima di un incidente sul lavoro in Italia: è nervoso, non vuole parlare, s’incazza, e chiede continuamente di fumare e gli dicono di no, non so se l’hai visto. Sì, alla premiazione a giugno a Roma, ora è anche visibile sul sito dell’ANMIL. Ricorda il primo Daniele Segre. Io ho avuto un piccolo sospetto. Ho pensato: “Se è un’intervista reale è molto bella perché ben montata, se è inventata è geniale.” Ed è risultata essere inventata, l’intervistato è un attore. Lì non c’è imitazione, è tutto inventato: sicuramente il racconto è una somma di frammenti di storie vere, quindi ha una forte realtà di fondo, ma la realizzazione è geniale.

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Tu hai scritto o girato dei corti? Ho girato dei corti tantissimi anni fa in un periodo in cui il cortometraggio aveva una sua collocazione precisa, c’era una legge che prevedeva dei sostegni, ma era obbligatorio abbinarlo alla proiezione di film: in genere erano documentari che dovevano durare poco. Ne ho fatto uno su Casorati, il pittore, perché sono nato nella casa dove un tempo lui viveva. Un altro, che mi piaceva molto, documentava un aspetto storico totalmente scomparso a Torino e che era di scenografia sociale: le lavandaie di Bertolla. Da Bertolla, vecchia borgata tra Torino e San Mauro, un tempo partivano le lavandaie con i carri a cavallo e provvedevano a ritirare, lavare e riconsegnare la biancheria della borghesia di Torino. Il corto venne bene perché riprendeva tutta un’umanità, un microcosmo, senza dare spiegazioni, ma rispettando quel mondo e nel contempo trasmettendo emozioni che derivavano da testimonianze a volte un po’ comiche, un po’ malinconiche o drammatiche. In fondo è quello cui bisogna mirare nei corti, essere mossi da una certa curiosità autentica e rispettosa. In questo senso il corto può essere una palestra. Il corto ha bisogno di semplicità e la semplicità è complicata, non è un ossimoro: è difficile raggiungere la più semplice e quindi più pura e alta rappresentazione possibile. Secondo me è una delle mire più alte che si possono avere, ed è diventata una discriminante per i miei gusti. E lo stesso discorso vale per i grandi film, per esempio Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood: la stessa battaglia, già raccontata da Eastwood con Flags of our fathers, ma da un’altra prospettiva, quella dei nemici.

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molto la cornice a discapito della sostanza, dell’anima del progetto. Chi si inoltra nel raccontare culture non proprie, deve fare attenzione a non prendere posizione e giudicare, avere uno sguardo oggettivo, ed è molto difficile. Sì, certo si può sbagliare, però ti accorgi quando i film, anziché mirare a trasmettere forzosamente un pensiero guida per lo spettatore, gli fanno fare un viaggio di scoperta. Quelli sono film semplici: alcuni di Altman, secondo me, in questo senso sono straordinari. Poi, ovviamente, ci sono anche i gusti personali. Tornando al discorso dei concorsi, tu hai cominciato a scrivere in un periodo in cui si producevano tanti film e c’era poca gente che scriveva, perché si era appena usciti dalla guerra, dal fascismo. Come no, l’ho sempre detto. Oggi invece si producono pochi film e sono molti gli aspiranti autori e sceneggiatori. Tu che sei stato tra i fondatori del Premio Solinas, pensi che oggi i concorsi rappresentino l’unica strada per poter far emergere il proprio talento, la propria abilità? No, non sono l’unica strada ma possono aiutare. Più di tutto oggi servirebbe ricostruire in qualche maniera, soprattutto per la scrittura, dei luoghi di incontro. Forse servirebbe anche per la regia, anche se i registi sono in genere molto più individualisti, sono anche più incoraggiati ad essere individualisti e quindi ad ascoltare meno altre persone; certo, a volte ci sono dei talenti veramente capaci di lavorare da soli, ma non è la cosa più facile. La grossa forza di quel periodo lì, tieni conto che il cinema era in ascesa e poteva permettersi di pagare la gente, erano le cosiddette botteghe: qualsiasi grande produttore metteva in cantiere la progettazione di una dozzina di film all’anno per farne tre, e quindi nelle botteghe dei produttori si lavorava in comune, c’era un continuo scambio di idee tra chi le frequentava. Secondo me una delle principali condizioni di disagio, oggi, per chi voglia scrivere, è la solitudine. Allora, a parte le botteghe, ci si ritrovava a parlare e discutere nelle osterie, nelle sedi di partito. Adesso è un mondo molto isolato: uno ha come l’impressione di poter lavorare da solo perché può disporre di internet e quindi di conoscere il mondo, ma è un’impressione fallace.

Quindi lo stesso avvenimento raccontato da due punti di vista opposti? Sì, in quello dal punto di vista dei giapponesi, che ritengo strepitoso, c’è una voglia di riferire che parte dal rispetto, dalla non sovrapposizione dell’ideologia o del pensiero degli autori che è straordinario. Il film nasce dal ritrovamento di lettere autentiche di un colonnello giapponese, mai spedite a casa o mai arrivate e tutto lo sviluppo è fantastico perché non è mai solenne, barocco, maestoso, troppo colorato, sempre con un approccio di enorme rispetto e di enorme emozione. E non significa avere un approccio totalmente asettico, perché poi si corre il pericolo di voler condire troppo con la regia e il risultato sono storie barocche, pesanti. Il cinema ha infatti troppi mezzi, per esempio, rispetto alla pagina letteraria: il colore, l’inquadratura, i primi piani, i carrelli. Tutti mezzi che se non sono tenuti a freno il più possibile, risultano sovrabbondanti e rinforzano

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Un laboratorio continuo? E certo, un laboratorio da vivere quotidianamente. Poi c’è anche un altro problema: il proliferare delle scuole private. Sono sempre più di impostazione americana dove i costi sono terribilmente alti. Anche solo frequentare il Centro Sperimentale, che è ancora praticamente gratuito, per un giovane che venga da fuori Roma, rappresenta una spesa ragguardevole e così ti ritrovi a fare un secondo lavoro per mantenerti e limitare di conseguenza il tempo per la frequentazione della scuola: non è più una vita laboratoriale come era tutto sommato la nostra. Ed è un aspetto che si riflette sul risultato finale: il risultato finale è mirare alla realizzazione di film troppo chiusi, che cadono dall’alto, freddi. Così non va bene, i film devono essere contraddittori, specialmente in questo mondo che si continua a dire che non è rappresentabile. Ma cosa vuol dire un mondo non rappresentabile? Mica occorre qualcosa di straordinario per poter raccontare. Una volta Amidei disse: “Qui bisogna darsi da fare, mica possiamo sperare che venga una terza guerra mondiale per permettere a Rossellini di fare un altro capolavoro.” Ecco, bisogna darsi da fare, trovare un modo per raccontare questo mondo così sfilacciato, ma per trovarlo occorre il massimo della comunicazione possibile, e una comunicazione che sia ricerca vera, di ogni tipo di narratività, di linguaggio. Ma non una comunicazione astratta, tipo quella che fornisce la formula universitaria Scienze della Comunicazione. Io ho lavorato con le Università, ma sempre con il metodo dei laboratori sperimentali, ossia incontri a distanza di tempo dove ogni volta affidavo temi di ricerca.

È forse tipico di questo periodo: si sono moltiplicati i mezzi di comunicazione, ma si comunica in modo autentico molto meno. A parte leggere molto, per scrivere quanto è importante scambiarsi continuamente idee e opinioni? Importantissimo, nessuno di noi può disporre di tutti i materiali, intesi come nutrimenti culturali. Qualcuno di noi ha amato di più le letture, altri hanno amato di più la pittura, altri la musica, altri hanno amato di più camminare e ascoltare la gente, registrare: nessuno di noi da solo ha tutte queste esperienze, conoscenze. La bottega serviva a mettere insieme tutti questi autentici nutrimenti culturali: la maggior parte del tempo di una giornata di lavoro era spesa nella lettura dei giornali, commentare gli articoli, scoprire un avvenimento e recarsi sul luogo per capire cosa era successo, prendere il tram, come diceva Sergio Amidei, e poi nella bottega nascevano le storie anche con l’aiuto di chi aveva idee che venivano, per esempio, dalla pittura, dall’architettura. Ora tutto questo non c’è più. Adesso, anche nella situazione attualmente disastrata, il Centro Sperimentale, specialmente per la scrittura e il montaggio, offre abbastanza, ma sicuramente non come potrebbe essere. Anche la struttura americana, sia quella del potere che quella degli indipendenti, tenta di trovare soprattutto luoghi di incontro e di laboratorio. Il Sundance Film Festival, nato da un’iniziativa economica di Robert Redford, è diventato il più grande luogo di incontro del cinema indipendente mondiale. Come hai ricordato tu, un tempo Sergio Amidei diceva agli sceneggiatori di prendere il tram, per percepire, conoscere, interessarsi alla società circostante. Oggi si tende a privilegiare la didattica, fioriscono corsi, seminari, scuole di sceneggiatura: secondo te, oltre ad insegnare la tecnica, questi corsi possono far crescere la creatività? Secondo me la maggior parte dei corsi sono illusori e talvolta scientemente ingannevoli, perché promettono traguardi che non sono realistici. Un luogo di incontro non può promettere un risultato, deve favorire al massimo l’incontro stesso, deve nutrirlo il più possibile con dei materiali. E in questo senso anche il Centro Sperimentale è ancora limitato: cosa vuol dire una scuola nazionale di cinema che chiude la giornata alle cinque del pomeriggio? La scuola nazionale di cinema non potrebbe e dovrebbe essere un campus aperto ventiquattrore su ventiquattro, con le lezioni sì, e il resto dedicato alla visione, ai laboratori, alla sperimentazione?

In generale, le scuole sono quindi utili e funzionano quando rappresentano un luogo di aggregazione e di confronto? Sì, in altri Paesi funzionano, non promettono obiettivi irraggiungibili solo per prendere soldi. Per esempio, parliamo tanto degli Stati Uniti: le scuole che ci sono là, le scuole di scrittura creativa, che sono certamente frequentate anche da signore annoiate della borghesia, sono reali luoghi di incontro e di ricerca. Specialmente nelle città di provincia, anche grandi, hanno funzionato, perché se vai a vedere la gente che è uscita da quelle scuole o che, per averle frequentate, ha per esempio cominciato a scrivere a 45 anni, trovi Carver, gente che dai teatrini, dalla forma off isolata e solitaria, ha trovato altra gente con cui parlare, litigare, criticarsi, politicizzare su qualcosa che era un interesse comune, e allora anche la frangia snob che le frequenta si riduce a favore di una

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maggioranza che comunica autenticamente, a favore di una ripresa della comunicazione.

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chiesto. McKee è l’unico che conosco, ed è molto superiore a quello che ricevi o senti da lui in questi seminari, perché gli si chiede qualcosa di meccanico, gli si chiedono delle regole, delle astuzie. Certo che ci sono, ma non bisogna partire dalla ricerca delle regole e dalle astuzie. Per esempio Furio Scarpelli, ma non credo sia nemmeno sua la frase, aveva una specie di antiregola di base: “Le trame si comprano dal tabaccaio” perché sono tutte uguali o almeno... La trama da sola non è un valore, il valore sono le persone che la nutrono e le persone che la nutrono non le puoi progettare dall’inizio, non puoi programmarle in un percorso già definito, se hanno un minimo di umanità e credibilità devono essere imprevedibili anche a loro stesse. La trama non è la cosa più importante. Io credo che i moventi, i motivi, le spinte propulsive non possono essere di scuola, possono essere favoriti da una scuola, se per scuola si intende una specie di agorà, come era un tempo. Le botteghe erano una forma di agorà. Un film o un libro, non sono temi in classe, devono essere in qualche modo imprevedibili anche per chi ci si affeziona e sente la necessità di intraprendere questo viaggio. Io di questo sono profondamente convinto, ma non sono mica il solo, per fortuna.

A proposito della scuola americana, a novembre arriva a Genova per un seminario Syd Field, considerato il miglior insegnante di sceneggiatura al mondo, secondo la rivista The Hollywood Reporter, e ad aprile arriverà a Roma Robert McKee, definito il guru americano della sceneggiatura, sempre per un seminario. Entrambi hanno pubblicato dei manuali: tu cosa pensi della manualistica statunitense? Io penso che la manualistica sia utile quando ti diverte leggerla, quando è fatta con una certa ironia. Credo che l’eccessiva imposizione di regole sia un danno alla creatività. Anche i famosi tre atti: quando diventano un sistema cliché, sono assolutamente dannosi. Io credo che i film più interessanti siano quelli in cui entri nella storia e viaggi, quelli che si contraddicono, vanno avanti: non sono viaggi organizzati e per far questo credo che il primo viaggio, continuando a divertirsi nel senso alto della parola, devono farlo gli autori. Perché se qualche autore mentre scrive si annoia, dovrebbe capire che è il momento di lasciar perdere quell’avventura, subito, perché è il peggior segnale di pericolo. Il segnale positivo si ha invece quando l’autore, che ha inventato dei personaggi estraendo idee dal mondo che ha visto o immaginato, si accorge che a questi personaggi non si può far fare tutto quello che si vuole, dal di fuori. E questo l’ha detto Cechov, non l’ha detto uno qualsiasi. Quello è il momento in cui sei felice, ti diverti, li segui, viaggi insieme a questi personaggi. Se tu invece insegui dei progetti rigidamente architettonici, cosa insegui? Insegui uno schema, insegui una struttura, insegui una razionalità, oppure insegui, senza volerlo o senza saperlo, la tua personale demagogia? Poniti questa domanda. Ma generalmente, e semplificando il discorso al massimo, tutte le storie sono composte da un inizio con la presentazione dei personaggi, da uno svolgimento e sviluppo e da un epilogo, no? Sì, ma non bisogna cercare questa cosa qui. Io McKee l’ho conosciuto, è un bravo editor americano, a parte che editor in America vuol dire un’altra cosa, e quando è venuto per la prima volta in Italia e gli hanno chiesto di spiegare la tecnica della sceneggiatura, lui si è messo a ridere perché pensava di essere stato invitato a un incontro tra scrittori e quindi gli faceva ridere l’idea di insegnare dei sistemi per scrivere. Poi, sai, tutti si adattano e alla fine fanno quello che gli viene

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«Un buon corto è un’idea fulminante e un’esecuzione di qualità.» Elisabetta Arnaboldi Il cortometraggio. Protagonista e ospite della maggior parte dei festival cinematografici italiani. Orfano di un proprio mercato e spesso invisibile. Emarginato dal circuito cinematografico, il corto trova nuovi spazi all’interno del palinsesto televisivo grazie a Short but Great, tele-festival de La 25ª ora - Il cinema espanso, in onda su La7. Abbiamo intervistato Elisabetta Arnaboldi, curatrice del programma.

manchino lavori sperimentali o caratterizzati da una forte ricerca espressiva, ma i corti sembrano animati da una maggiore spinta narrativa.

Perché nasce un Festival televisivo di cortometraggi? Il Festival del corto Short but Great de La 25ª ora Il Cinema Espanso è il primo ed unico festival cinematografico di natura televisiva, e nasce nel 2003. La peculiarità della manifestazione è quella di offrire ai cortometraggi degli autori emergenti uno spazio di visibilità su un’emittente nazionale. A differenza della maggior parte delle analoghe manifestazioni - pur mettendo in palio premi per i corti vincitori - il Festival è a iscrizione gratuita. L’idea di un tele-festival sovverte il concetto stesso di manifestazione cinematografica: lo spettatore non si deve spostare per visionare le opere in concorso ma lo può fare comodamente dal divano. Un Festival che non ha un luogo fisico se non lo schermo del televisore di casa.

Quali tipologie di corti sono accettate? C’è un tema che viene via via fissato? Accettiamo tutti i generi di corti, senza fissare un tema.

Chi può partecipare? Sia società di produzione che autori, senza limiti di età. La maggior parte degli autori iscritti sono italiani, ma nel corso di questi anni abbiamo presentato in concorso anche opere di registi europei ed extraeuropei.

Quali sono i criteri di selezione dei corti e qual è la motivazione alla base della scelta di programmazione? L’originalità, la sincerità e l’urgenza narrativa, prima ancora che l’aspetto estetico. Naturalmente sotto il profilo visivo esiste una soglia di professionalità sotto la quale non è possibile scendere, ma corti stile videoclip lucidi e vuoti - così come le opere ben girate ma “furbe”, scontate, che sanno di già visto, povere sul versante sceneggiatura, rette solo dal mestiere del regista - non ci entusiasmano. Cos’è un buon corto? Un’idea fulminante e un’esecuzione di qualità.

Qual è la sua personale esperienza all’interno del Festival? Che ruolo ha? Sono la curatrice della trasmissione, quindi la responsabile delle scelte artistiche. Riguardo al Festival lo stiamo già migliorando di anno in anno: in questa terza edizione, tra gli altri, abbiamo invitato in studio a presentare i lavori attori e registi del calibro di Luigi Lo Cascio, Jasmine Trinca, Cristina Comencini, Giovanni Veronesi, Daniele Luchetti. Hanno accettato con entusiasmo di partecipare al festival come “padrini” e “madrine” dei corti. È un segnale: se ci credono loro ci possono credere anche i produttori.

Quali sono le tematiche ricorrenti nei corti? Spesso i corti sono incentrati sulla difficoltà del crescere, sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Due capolavori che parlano di questo sono i vincitori delle prime due edizioni del Festival: Ho deciso di Luca Scivoletto e Montesacro di Alessandro Celli. Sono due registi di cui si sentirà parlare ancora in futuro. Chi effettua la selezione e da chi è composta la giuria? La redazione de La 25ª ora effettua la selezione dei corti mentre è il pubblico televisivo che, attraverso la votazione online, decreta il vincitore del Festival. Il premio consiste nella programmazione del film vincitore e in una telecamera professionale all’autore del corto.

Com’è cambiato Short but Great in questi tre anni? Quale direzione sta seguendo? Nel corso delle tre edizioni è aumentato il numero dei corti che abbiamo ricevuto (siamo arrivati a più di 600), così come la loro qualità. Mediamente, rispetto a tre anni fa, i lavori selezionati presentano meno estetismi fini a se stessi e più desiderio di raccontare una storia: questo non vuol dire che

Qual è la prossima scadenza per partecipare? Quali sono le date di messa in onda del Festival?

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«Il corto è, e deve essere, “a fondo perduto”.» Paolo Manera

La prossima scadenza per sottoporre i corti è la primavera 2008. I corti selezionati tra i migliori film-maker di nuova generazione sono trasmessi nel programma di approfondimento di La7, La 25ª ora - Il cinema espanso, a partire dall’8 ottobre.

Il cortometraggio italiano galleggia tra l’urgenza espressiva e la ricerca del nuovo, tra il web e la sala cinematografica. Tra un passato ricco di storia e un futuro incerto, tra nuovi mercati, nuove forme di visibilità e distribuzione, fondi di sostegno e circuiti alternativi, il corto è assediato dalla tecnologia digitale e corteggiato dai festival. Ne parliamo con Paolo Manera, critico e redattore cinematografico.

Dopo il passaggio su Short but Great cosa succede ai corti? A volte trovano una loro strada girando per ulteriori festival, ottenendo acquisti televisivi, suscitando l’interesse di produttori che commissionano agli autori nuovi lavori. Altre volte non hanno seguito, e restano la prova interessante di un regista di talento.

Il tuo Dal cinema breve al corto (in I corti. I migliori film brevi da tutto il mondo, Einaudi Stile libero, 2001) tratteggia le origini, la storia e l’evoluzione del corto fino agli anni ’90: quali temi riterresti opportuno affrontare in un’ipotetica appendice di aggiornamento al saggio? Sottolineerei il ruolo di alcuni dei principali festival internazionali nel definire e ridefinire la nozione stessa di cortometraggio attraverso le retrospettive e i programmi speciali, con un percorso di vera e propria esplorazione archivistica del cinema a 360 gradi (dal muto alla video arte, includendo videoclip, cinema industriale, pubblicitario, didattico...) di grande intelligenza cinematografica ma anche culturale, storica, politica. Allo stesso tempo dedicherei uno spazio specifico ad alcuni film fondamentali, avendo potuto vederli e rivederli: fino a pochi anni fa chi scriveva di cortometraggi, come i primi storici del cinema, doveva affidarsi alla memoria, a faticosi scavi nelle cineteche, a quanto intuito dai pochi documenti rintracciabili. Adesso è un po’ più facile, se si sa dove cercare, grazie al web e al mercato in espansione del DVD interessato anche a “prodotti di nicchia”.

Qual è lo stato generale del corto in Italia? Quale mercato e quale futuro? Il corto non ha grande mercato in generale, ma da questo punto di vista l’Italia è il fanalino di coda: pochi incentivi alla distribuzione, prima ancora che alla produzione, condannano i cortometraggi all’invisibilità. Il futuro è inevitabilmente fatto di priorità: prima c’è da sistemare la politica cinematografica maggiore, quella dei lunghi. Quali problemi devono affrontare i giovani che cercano di farsi strada in questo mondo? Come li aiuta in tal senso il Festival? I problemi dei giovani registi sono sempre gli stessi: trovare qualcuno che creda in loro e gli affidi un piccolo capitale da investire. Il Festival ha il pregio di far circolare i loro biglietti da visita, raggiungendo anche gli addetti ai lavori. In questi anni qual è stata la cosa più bella e quella più brutta successa al Festival? Per fortuna siamo troppo giovani per avere una casistica di cose brutte. Cose belle? La gioia degli autori quando gli comunichiamo che il loro corto è stato selezionato per il Festival e di quelli (due finora) a cui abbiamo detto: “Hai vinto tu.”

Internet ha creato uno spazio infinito per la diffusione e promozione dei corti. A fronte di questa sterminata visibilità potenziale, non credo sia corrisposto un adeguato incremento delle risorse nella formazione e produzione: quali possono essere le conseguenze di questo scollamento? Per formazione e produzione la situazione è difficile ovunque, in Italia con un ritardo di anni rispetto a tante altre nazioni. Ma colgo l’occasione per ripetere che il rapporto tra internet e il cinema - argomento su cui ho lavorato negli ultimi anni come “mediatore” tra il mondo della ricerca e

Una frase per concludere... Più vado avanti più vado verso la semplicità. Lo diceva Borges. E aveva ragione.

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passaggio ci porta a tanti corti con un’estetica da video delle vacanze. Altro fattore interessante: girare in pellicola significa scegliere, studiare, ottimizzare, mentre con il video si ha la tendenza a strafare e improvvisare “che tanto poi c’è la postproduzione”. Girare bene in HD non costa molto meno che girare in pellicola. In entrambi in casi, per il risultato contano le persone. Quindi anche il decantato “abbattimento dei costi” con il digitale è tutto da verificare. E la proiezione? Con una copia in pellicola 35mm il corto può essere proiettato in qualsiasi sala tradizionale, con buona sicurezza di certi standard di immagine e sonoro. Con la copia video, come sanno i cortisti di buona esperienza, è sempre un’avventura diversa e spesso un film diverso... Dunque, la pellicola probabilmente scomparirà come supporto di proiezione (ma tra un buon numero di anni), ma forse rimarrà come strumento di acquisizione, come del resto già avviene con la fotografia professionale o con la musica (si finalizza in digitale, ma si suona e magari si registra su strumenti vintage). La cinepresa e la pellicola scompariranno per la produzione di routine, sopravviveranno per “un certo cinema”.

innovazione tecnologica e il mondo del cinema indipendente - è tuttora pieno di equivoci e false aspettative. Le tecnologie agevolano la “visibilità”, ma l’aumento esponenziale di “cose visibili” rende sostanzialmente tutto invisibile. Nel frattempo piccoli e grandi broadcaster sono alla ricerca forsennata di contenuti, e i cortometraggi sembrano la scelta ottimale, ma pochissimi hanno intenzione di pagarli, o anche solo riconoscere dignità alla singola opera. Il problema della distribuzione (cioè di qualcuno che scelga, e promuova, e costruisca un pubblico, eccetera), dunque, rimane. Ma al di là di tutto, continuo a sostenerlo, internet è perfetto come bacheca, archivio, vetrina, ambiente di lavoro e studio, insomma. Il cinema è un’altra cosa. Il cortometraggio, ancora più che il cinema tradizionalmente inteso, ha senso in sala: insieme ad altri cortometraggi, con un pubblico reale presente fisicamente, che si appassiona e applaude o fischia, con gli autori che si presentano e si raccontano tra di loro e con il pubblico, prima e dopo il film, fuori e dentro la sala, per poi proseguire con gli eventi paralleli, una mostra, una lettura, un DJ set, una festa... internet è perfetto per aiutare la realizzazione e la comunicazione di “questo”, non può e non potrà mai sostituirlo. Io per primo uso il web se voglio scovare qualcosa che “mi serve”, ma poi un bel corto lo voglio in una copia in buona qualità, che possa far vedere bene alle persone a cui voglio bene...

Il principale mercato internazionale del cortometraggio si tiene in Francia, in occasione del Festival du Court Métrage di ClermontFerrand, la più importante kermesse di cortometraggi a livello mondiale. Una preziosa iniziativa italiana è il Mercato Internazionale del cortometraggio al Venice International Short Film Festival, quest’anno all’ottava edizione. L’Italia sta muovendo i primi passi verso una strategia reale nella promozione dei corti? Da alcuni anni si succedono progetti e tentativi per avere, come in altri Paesi, un “mercato del corto”, una “agenzia del corto”, una presenza istituzionale definita, con risorse e strategie più incisive negli ambiti della formazione, della produzione, della circuitazione. Negli ultimi mesi c’è un evidente fermento in questo senso, con progetti che saranno presto ufficializzati. La speranza è che ci sia, finalmente, circolazione di informazione ed esperienze. E chiarezza: tra chi realizza, chi promuove, chi distribuisce; tra pubblico e privato, profit e no profit; tra quello che è realmente internazionale e quello che è, ad essere generosi, “locale”... che ci sia il coraggio di scegliere, a costo di rischiare l’impopolarità, e che per non creare false aspettative e amare illusioni si dicano sempre le cose come stanno: a partire dal fatto che il corto è, e deve essere, “a fondo perduto”, senza soldi e con glamour relativo; urgenza espres-

Anche i festival cominciano a strizzare l’occhio allo spazio infinito della rete. La Fondazione Cinema per Roma ha promosso, in collaborazione con MySpace, un concorso di corti sul web nell’ambito della manifestazione Cinema - Festa Internazionale di Roma. È il preludio alla scomparsa dei corti in pellicola? I festival di cinema in effetti hanno un senso se sanno esplorare l’esistente per trovare il nuovo cinema. Lo si trova attualmente nel web? Può darsi. Dopodiché c’è un problema molto concreto: la qualità dell’immagine. Non nel senso della apparente professionalità, ma in generale, in termini di densità, profondità, eccetera. E dopo anni di retorica del digitale e delle sue magnifiche sorti progressive, la pellicola rimane clamorosamente superiore agli altri formati. Quando vediamo un corto o un lungo in HD che ci convince, ammettiamolo, stiamo parlando di una fotografia che cerca di darci l’illusione della pellicola. E qualunque professionista sosterrà che si può girare bene in digitale se prima ci si è confrontati con la pellicola: la mancanza di questo

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siva e laboratorio del nuovo (nuovi autori, nuovi linguaggi) che deve esistere di per sé, non in vista in un improbabile “mercato” ma piuttosto di un possibile “circuito”. Queste sono le linee per il futuro intervento di Film Commission Torino Piemonte sul cortometraggio, focalizzandosi ovviamente sull’area Torino-Piemonte, in cui peraltro si parte da una situazione già avvantaggiata rispetto alla situazione nazionale. Dal 2006 lavori alla Film Commission Torino Piemonte, occupandoti del Piemonte Doc Film Fund e dei progetti web. Come si pongono in generale gli Enti locali e in particolare la Regione Piemonte nei confronti della produzione di cortometraggi? In Piemonte è stato da poco introdotto il Fondo regionale per il documentario: sono in cantiere iniziative analoghe per la produzione dei cortometraggi, per esempio un Piemonte Short Film Fund? Gli Enti locali sono fondamentali ovunque, anche nelle nazioni in cui c’è un forte intervento statale. Nel caso italiano, è evidente che sono e saranno sempre più decisivi. La Regione Piemonte ha strutturato un sostegno ai corti e ai documentari da metà anni Novanta attraverso il Fondo per gli audiovisivi ai sensi della L.R. 58/78, poi attraverso la costituzione con la Città di Torino della Film Commission Torino Piemonte, che è diventata il principale referente per il sostegno dei cortometraggi girati in Piemonte (mentre il fondo della Regione si orientava soprattutto ai documentari), contribuendo a sostenere alcune delle spese di realizzazione. Dal 2007 la Regione Piemonte interviene solo a sostegno dei documentari, con l’istituzione insieme alla Film Commission Torino Piemonte del Piemonte Doc Film Fund, e spetta alla sola Film Commission il sostegno ai corti. Film Commission, in effetti, ha in cantiere una serie di progetti sul corto che si concretizzeranno pienamente nel 2008: stessa aspirazione alla chiarezza, all’efficienza e all’internazionalizzazione del Piemonte Doc Film Fund, modalità ovviamente diverse, che stiamo studiando con la necessaria cura.

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«Un premio per giovani assegnato da giovani.» Francesca Repetto

Franti - Nisi Masa Italia è un’associazione culturale con sede a Torino. Creata da studenti di cinema e da giovani professionisti del settore, Franti è uno dei gruppi fondatori di Nisi Masa, organizzazione nata nel 2001, che opera in 17 Paesi europei con il sostegno e il patrocinio del Consiglio d’Europa e del Programma Gioventù, e che da sei anni organizza l’omonimo concorso di sceneggiature per cortometraggi. Abbiamo intervistato Francesca Repetto, responsabile per l’Associazione Franti del concorso europeo. Com’è nata l’idea di un concorso europeo per sceneggiature di cortometraggi? Dall’anno della sua fondazione, nel 2001, il network europeo di associazioni giovanili Nisi Masa si è occupato di organizzare e coordinare un numero sempre crescente di progetti legati al mondo dell’audiovisivo, dell’arte o della cultura in genere, coinvolgendo giovani provenienti da tutta Europa e aiutandoli a sviluppare una profonda “consapevolezza internazionale”. Nasce così, come primo progetto del network, l’idea di organizzare un concorso di sceneggiature tra diversi Paesi. La nostra intenzione è sempre stata quella di riconoscere la scrittura e di favorirne al massimo la realizzazione. Infatti ogni anno i tre progetti vincitori ricevono un aiuto economico che sostiene i giovani autori nella realizzazione delle loro storie. Quindi premiare la scrittura è funzionale alla produzione delle opere. Un bilancio di questi sei anni di concorso: che cosa è cambiato nell’organizzazione e nelle risposte degli autori? A livello organizzativo, la situazione è notevolmente migliorata: il numero di Paesi aderenti alla rete è passato da 7 a 17 e inoltre le singole associazioni nazionali hanno acquisito più esperienza e sicurezza. La sede centrale di Nisi Masa, a Parigi, può contare su alcune persone che lavorano a tempo pieno per lo sviluppo delle attività e del concorso. Anche le giurie, nazionali e internazionali, hanno raggiunto una procedura di selezione e valutazione più efficiente. A Torino e nel resto d’Italia, Franti, la sezione italiana di Nisi Masa, ha cercato di pubblicizzare al massimo l’edizione 2007 del concorso, con buoni risultati, poiché abbiamo ricevuto 40 progetti. Rispetto agli autori, invece, le risposte cambiano di anno in anno, a seconda del tema che viene


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i festival di Angers e Clermont-Ferrand, creando dei momenti di visibilità importanti sia per i giovani autori che per le attività dell’associazione stessa.

proposto e di come esso viene recepito e interpretato. Per molti la partecipazione al concorso rappresenta una tappa iniziale nel loro personale processo di maturazione nella scrittura, mentre per alcuni si tratta di esperimenti estemporanei.

Quindi i progetti dei vincitori vedranno la pellicola? Sì, la pellicola o il video. Come ho detto, gli aiuti finanziari e tecnici vanno ai 3 vincitori, che li useranno per realizzare i loro cortometraggi. A questi aiuti possono aggiungersi altre fonti di finanziamento, trovate autonomamente dagli autori. Ad esempio, uno dei 3 vincitori di due anni fa, Claudio Lauri di Napoli, per completare il budget ha ottenuto l’appoggio di una casa di produzione della sua città e ha realizzato un bellissimo prodotto, Sea Bass Dream, che è stato in concorso in numerosi festival, tra cui Napoli Film Festival, Mediterraneo in Corto, Premio Massimo Troisi ed è stato candidato al David di Donatello.

Qual’è lo stato della scrittura di sceneggiature in Europa? Dal nostro punto d’osservazione, il Paese più produttivo è la Francia, non solo perché l’organizzazione Nisi Masa è molto attiva e ben strutturata sul territorio, ma soprattutto perché il cortometraggio è decisamente promosso come formato e ci sono moltissimi festival dedicati. Inoltre, operano organismi di forte sostegno, come il GREC (Groupe de Recherches et d’Essais Cinématographiques), con cui abbiamo collaborato fino all’anno scorso per finanziare la realizzazione dei tre progetti vincitori. Rispetto al numero totale di sceneggiature pervenute nelle ultime edizioni, i Paesi da cui riceviamo più progetti sono la Turchia, la Francia, l’Italia e il Belgio con una media di 50 sceneggiature per nazione.

Quali sono stati i “vostri” più grandi successi? Uno dei più grandi successi di Nisi Masa è rappresentato da On a train di Barnabas Toth, vincitore del concorso nel 2002. Nisi Masa trovò una casa di produzione a Parigi, Envie de Tempête Productions, e la sceneggiatura venne realizzata e riscosse un enorme successo. Il corto ha concorso in numerosi festival internazionali ed è stato acquistato da due canali televisivi francesi (TPS & Ciné-Cinémas), da uno inglese (Channel Four) e da uno belga (Be TV). Ha vinto numerosi premi come lo Special Jury Prize al Cottbus Film Festival (Germania), il primo premio al Grasse Film Festival (Francia), l’Audience Award al Budapest Film Festival (Ungheria). In alcuni casi sono stati realizzati anche cortometraggi di alcuni finalisti che hanno partecipato al workshop, pur non avendo vinto il nostro concorso. È il caso di Mariel Macià, un’autrice spagnola che ha partecipato al workshop di scrittura del 2004 ad Angers ed ha trovato un appoggio finanziario dalla Comunità Europea realizzando il corto Leo and Abril. In tal modo Mariel ha avuto la possibilità di farsi conoscere e produrre l’anno successivo un secondo corto, Flores en el Parque, pluripremiato in numerosi festival internazionali. Simile il caso di Alessandro Bianco, finalista italiano che partecipò al workshop 2 anni fa e che ha realizzato il proprio corto in modo indipendente ed è stato in concorso in numerosi festival come il Beverly Hills Hi-Def Film Festival, European Independent Film Festival, Aarhus International Film & Video Festival, Sunscreen Film Festival, Newport Beach Film Festival.

Quali sono i criteri di selezione dei progetti? I due fattori principali sono necessariamente la qualità dell’elaborato e l’attinenza al tema proposto, che quest’anno era “il cerchio”. Ovviamente, l’attenzione poi si sposta anche sulla realizzabilità del progetto che, ad esempio, non deve essere gravato da eccessivi effetti speciali. Da chi è composta la giuria locale e internazionale? La giuria locale è composta da 10 membri dell’Associazione Franti che leggono tutti i progetti e cercano di restringere il più possibile il campo arrivando a quelli più validi, che possono essere da 1 a 3, a seconda del numero totale di progetti ricevuti. La giuria europea è invece composta da 2 rappresentanti per ognuna delle 17 associazioni nazionali che fanno parte del network e i giurati cambiano di anno in anno. Le giurie sono composte, sia a livello locale che internazionale, da studenti di cinema e giovani professionisti del settore. L’idea centrale è che sia un premio per giovani assegnato da giovani. La giuria internazionale quest’anno si riunirà a Kars, in Turchia, per eleggere i 10 finalisti e i 3 vincitori. Questi ultimi riceveranno un aiuto finanziario per la realizzazione del progetto e tutti e 10 i finalisti parteciperanno ad un workshop di scrittura in un festival europeo all’inizio del 2008. Negli anni passati, i workshop si sono svolti durante

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Il cerchio era il tema del concorso di quest’anno. Chi lo ha scelto? Come hanno reagito gli autori? Il tema è scelto a novembre dalla giuria che si incontra per stabilire i 3 vincitori e i 10 finalisti del concorso. Non c’è una vera e propria procedura; si propongono i temi più svariati e poi si restringe il campo fino alla votazione finale... un enorme brainstorming! Per quanto riguarda le risposte che abbiamo ricevuto dagli autori, in quest’edizione abbiamo notato una debolezza diffusa rispetto alla comprensione e interpretazione del tema, forse troppo ampio, e che ha prodotto risultati un po’ equivoci e a volte non molto coerenti. Il cerchio è stato affrontato nei modi più diversi, giocato come figura strettamente geometrica, usato come metafora della guerra o evocato da strutture narrative circolari. In questo materiale così variegato, abbiamo potuto comunque notare lavori decisamente buoni, tra cui ovviamente i 2 vincitori: Davide Giurlando con Il girotondo e Franco Dipietro con Il resto.

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«Un buon corto è un intento, uno sguardo, un progetto di regia.» Laurent Trémeau La Francia è il Paese europeo dove è più forte la cultura del cortometraggio. Una cultura radicata nel territorio, fatta non solo di programmi specifici per lo sviluppo e il sostegno del corto, ma soprattutto di festival dedicati. Festival e mercati di orientamento europeo come quelli di ClermontFerrand, Brest e Aix-en-Provence. Ne parliamo con Laurent Trémeau, direttore artistico di Un festival c’est trop court, il festival del cortometraggio di Nizza.

Qual è lo stato del cortometraggio in Francia? Il cortometraggio va molto bene in Francia, sia per quanto riguarda le cifre della produzione, sia per il numero di festival. Il settore è ben strutturato con degli organismi importanti quali l’Agence du Court-Métrage che ha fatto proseliti in tutta Europa e la Maison du film court che aiuta i giovani creatori a realizzare il proprio film. Ad uno sguardo più attento si potrebbe dire che - per usare le parole dell’attore Mathieu Amalric in occasione del Festival di Clermont-Ferrand 2004 - i film francesi mancano in maniera singolare di audacia e di stile. Tuttavia, dal flusso indistinto di film prodotti annualmente, emergono delle perle rare. Il cortometraggio resta un laboratorio fondamentale, aperto ad ogni tipo di formato e di sperimentazione, in cui si intersecano e si confondono il cinema di avanguardia, il documentario militante, i web film, la video arte, clip, film di fine studi, animazione ibrida. Da un punto di vista critico, che si scelga un’angolazione storica, estetica o sociologica, il ricorso al cortometraggio costituisce un magnifico supporto negli spettacoli educativi. Il pubblico, i giovani in particolare, scoprono uno sguardo, una durata, un linguaggio, un ritmo ai quali non sono abituati. Una volta preparati ed iniziati, il loro senso critico si aggiunge al loro piacere di spettatore. Si dimentica così la nozione di “cortometraggio”, si guarda un film in modo semplice e puro.

E salutando Francesca, chiudiamo anche noi il cerchio di questa intervista pubblicando in Appendice la versione originale di una delle due sceneggiature vincitrici: Il resto, di Franco Dipietro.

Il cortometraggio come spazio di formazione e di trasmissione? Assolutamente sì. Si trovano, del resto, programmi di cortometraggi inseriti all’interno di iniziative scolastiche quali Collège au cinéma e Lycéens au cinéma. Esistono anche numerosi DVD pedagogici. Non bisogna dimenticare che molti dei classici del cinema come La jetée di Chris Marker, il primo

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Chaplin, i documentari di Resnais sono dei corti...

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beneplacito dei media specializzati. È una garanzia per dinamizzare la manifestazione, con tutta la catena di professionisti, e per acquisire così una certa notorietà. Quando mi reco a Clermont-Ferrand, che riceve 5.000 film all’anno, è una vera gioia per un organizzatore: tutti i professionisti, tutti i settori mescolati insieme, decine di Paesi espositori all’interno del mercato; ci sono proprio tutti. Ma non credo alla validità di un mercato a Nizza. In primo luogo perché ce n’è già uno ad Aix. L’unico progetto da cui sarei tentato sarebbe quello di un confronto con i nostri vicini transalpini, un mercato franco-italiano, un gemellaggio con un festival... Un legame che solo Nizza, per la sua posizione geografica, potrebbe realizzare.

Il Festival di Nizza ha scelto un orientamento europeo, perché? La questione europea è al tempo stesso un’idea e un ambito restrittivo. Il sentimento europeo è qualcosa che sento profondamente. Quando viaggio per l’Europa, sento di appartenere a questa comunità. Potrei abitare e lavorare facilmente in un altro Paese europeo. Provengo da una regione vicina alla frontiera, la Lorena, che una volta era tedesca e vivo a Nizza, a due passi dall’Italia. La difesa delle lingue e delle identità regionali mi angoscia sempre un po’, in fondo si tratta di nazionalismo... pertanto, avrei sicuramente fatto lo stesso Festival a carattere europeo a Nancy, a Perpignan o... a Torino. Ma c’è già un Festival, credo... d’altronde anche quello di Nancy guarda ai paesi dell’Europa centrale e dell’est. Oltre alla competizione europea, ogni anno rendiamo omaggio ad un Paese in particolare: nel 2007 è stata la volta della Spagna che con 6 programmi ha declinato la cinematografia spagnola passata e presente.

Quali sono i criteri con i quali selezionate i film? Ah, la famosa questione della linea editoriale. Noi siamo un comitato di selezione totalmente arbitrario. Ognuno sceglie secondo il proprio gusto. Non abbiamo né griglie né tanto meno dogmi, neppure inconsapevoli. Forse gusti e sensibilità simili. Poiché accogliamo ogni tipo di progetto - fiction, animazione, documentario e sperimentale - e ogni tipo di durata - fino ad un’ora - la nostra offerta cinefila è abbastanza estesa. Prendiamo pochissimi film, una trentina, ma nonostante tutto il tasso di selettività del Festival in rapporto al numero di film sottoposti è del 6,5%. È una percentuale superiore a quella della maggior parte dei grandi festival dove il numero dei film che concorrono arriva talvolta a diverse migliaia!

Lei ha citato Torino, qual è la situazione del cortometraggio in Italia e negli altri Paesi europei? Piero Clemente del Festival Internazionale del Cortometraggio di Siena conosce meglio di me il suo territorio. L’avevamo invitato nel 2001. Noi riceviamo numerosi film italiani, di fatto molto vicini a noi. E quest’anno sono stati premiati a Nizza due film, Uova di Alessandro Celli e Il supplente di Andrea Jublin. Pertanto penso che attualmente ci sia un ritorno del cinema italiano. Il Belgio, la Germania, la Spagna, il Regno Unito - per citare soltanto i Paesi invitati - sono dinamici. Qualche segno distintivo: la Germania possiede numerose scuole di cinema di valore; il Regno Unito si distingue nel campo delle nuove immagini, il Belgio sempre intriso di realismo sociale sentimentale, noir o burlesco, la Spagna chiacchierona, adolescente, appassionata.

Cos’è un buon cortometraggio? È un film dietro il quale c’è un autore. Un intento, uno sguardo, un progetto di regia. È anche una narrazione? È prima di tutto una narrazione, non tanto nel senso tecnico, drammaturgico, ma un intento tradotto in immagine: è scrittura. Un film si svolge nel tempo, racconta, vive, si esprime in una durata, con l’ausilio di parole ed immagini. La questione della scrittura cinematografica è al centro delle nostre preoccupazioni in quanto riceviamo molti film che non funzionano per problemi di scrittura.

Esiste dunque un vero e proprio mercato del cortometraggio in Francia e in Europa? Sì, e l’esistenza di mercati in parecchi festival francesi ne è la prova. A Clermont-Ferrand, innanzitutto, il più importante festival d’Europa e forse del mondo consacrato al cortometraggio. Ma anche a Brest e ad Aix-en-Provence. Un mercato attira gli acquirenti, i diffusori, i distributori e i venditori. Si tratta dunque di un luogo dove l’economia del cortometraggio si sviluppa con il

Organizzate dei workshop di scrittura? Sì, da quattro anni, grazie all’iniziativa dell’associazione nizzarda Regard Indépendant, per un pubblico adulto, più cinefilo che professionista. Noi diamo l’avvio, nessuno di noi

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scelto come padrino. A Nizza, i beneficiari degli Ateliers courts saranno gli autori-registi, scelti attraverso un bando per progetti, ma con una sceneggiatura non “rigida”, per poter lavorare sulla scrittura con dei professionisti, nel corso dei seminari. E anche per non respingere i candidati provenienti dal mondo del video, delle arti plastiche. Tra le varie fasi di selezione dei candidati, scrittura, riprese, montaggio, passano due mesi, e si arriva alla fine con 3 film. Personalmente non desideravo lanciare un concorso del tipo “Progetto di film in 48 ore“ durante il Festival: gli Ateliers courts si inseriscono all’interno di una prospettiva reale di formazione nella quale c’è il tempo per seguire i registi nel loro percorso.

è sceneggiatore. È una prima risposta. Niente di paragonabile, salvo le scuole di cinema, esiste nella nostra regione. Il sostegno alla scrittura è un problema molto sentito in Francia. Quali tipologie di intervento esistono? Gli aiuti ci sono e sono anche numerosi. Sicuramente il CNC (Centre National de la Cinématographie) destina parecchi aiuti sia agli autori che ai produttori; il GREC (Groupe de Recherches et d’Essais Cinématographiques) aiuta le opere prime; le regioni come la Provence-AlpesCote-d’Azur sostengono il lungometraggio, il documentario, il cortometraggio e offrono anche, cosa interessantissima, aiuti allo sviluppo, una specie di borsa per la scrittura. Questo tipo di sostegno è abbastanza diffuso grazie all’iniziativa delle collettività territoriali, di associazioni di promozione, di festival. Come anche i concorsi di sceneggiatura che accompagnano i progetti fino alla loro realizzazione. Come si colloca il vostro Festival in relazione a queste problematiche? Queste iniziative e le relative problematiche ci sembrano d’importanza capitale perché produzione e diffusione sono correlate. Un festival serve soprattutto a mostrare i film, tuttavia resta uno spazio d’incontro e di scambio tra i professionisti del settore. Questo dialogo viene alimentato attraverso tavole rotonde. Ma da tre anni ci si domanda come si possano direttamente sostenere e sviluppare gli aiuti alla creazione: workshop, soggiorni di creazione. Questo perché c’è un coinvolgimento crescente dei festival francesi ed europei nel sostegno alla creazione e alla produzione. L’anno scorso il rapporto Rocca sulle “Prospettive di evoluzione del sistema francese di diffusione del cortometraggio” raccomandava di dotare i festival di fondi autonomi: premi, borse di scrittura. Allo stesso tempo, le pratiche amatoriali e la produzione associativa sono temi che toccano anche la nostra regione in cui mancano le società di produzione. In breve, dopo aver a lungo osservato e identificato le carenze, abbiamo cercato di mettere in atto un meccanismo che non sia un semplice copia e incolla di aiuti esistenti e di creare un ponte tra seminari, formazione e soggiorni di creazione. Tale progetto si chiama Ateliers courts, un’iniziativa che parte da un’associazione di Marsiglia, La Réplique, che ha realizzato numerosi corti scrivendo la sceneggiatura in collaborazione con un regista

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«Il cortometraggio costa poco e offre tanto.» Piero Clemente Italia? Esistono delle differenze rispetto ad altri Paesi europei? In Europa, e nel mondo, è la Francia a detenere il primato, se non della qualità, senz’altro della quantità di corti prodotti, di manifestazioni, di spazi di visione e di strategie di produzione, promozione e diffusione del cortometraggio; ancora una volta dobbiamo citare il Festival di Clermont-Ferrand con i suoi oltre 140.000 spettatori che affollano le 10 sale in cui si proiettano i corti ogni anno per 9 giorni; ancora una volta dobbiamo citare Unifrance Film International, agenzia statale per la promozione del cinema francese nel mondo, che ha un’apposita sezione delegata alla promozione del cortometraggio francese, con un cospicuo budget per la stampa delle copie, per la realizzazione dei sottotitoli, per l’invio dei registi nei festival in cui sono selezionati; ancora una volta si deve citare l’Agence du Court-Métrage che può beneficiare perfino degli obiettori che vogliano fare servizio civile presso questa struttura impegnata, con budget statale, nella promozione e diffusione del cortometraggio francese sul territorio nazionale, con programmi nelle sale non solo di Parigi. E ancora una volta dovremmo dire degli aiuti alla scrittura e alla produzione del cortometraggio offerti dalle regioni, dalle province e dai comuni, su tutto il territorio nazionale. In Italia la situazione è ben nota... Pochi e molto difficili da ottenere gli aiuti statali alla produzione. Sporadici quelli regionali, a parte Lazio e Piemonte. Per quanto riguarda i festival, poi, la posizione della Commissione Cinema è che ce ne sono troppi. Quindi si deve diminuirne il numero e per realizzare questo progetto si riducono i contributi ai festival fino a vederne la chiusura.

Il cortometraggio e i festival: un binomio quasi indissolubile. Festival come spazi di visibilità, occasioni di incontro tra le idee degli autori e il mondo produttivo e distributivo. Ma anche punti privilegiati di osservazione sulla realtà cinematografica italiana. Ne parliamo con Piero Clemente, direttore del Festival Internazionale del Cortometraggio di Siena.

Qual è la storia recente del cortometraggio nel nostro Paese? Di quale salute gode oggi in Italia? In realtà la storia recente del cortometraggio in Italia non è del tutto nera. Vero è che gli aiuti pubblici sono quasi inesistenti; altrettanto vero è che l’iniziativa privata e volontaria ha uno slancio e una inventiva che ci offrono un panorama denso di opere anche di un certo valore. Quindi si può dire che il cortometraggio italiano gode di buona salute per quanto riguarda il numero di opere che vengono prodotte. Rispetto al resto dell’Europa soffriamo invece di una scarsità di mezzi e di una quasi inesistente distribuzione. In effetti in Italia sono rimasti pochi momenti per vedere dei cortometraggi al di fuori dei festival. Parliamo degli aspetti distributivi. Televisione, festival, concorsi: quali sono, a suo avviso, i canali per coinvolgere il grande pubblico? L’interesse del pubblico c’è, o almeno ci sarebbe, se si offrisse la possibilità di usufruirne in maniera continuativa. La televisione avrebbe tutto da guadagnare proponendo cortometraggi in diverse fasce orarie; il cortometraggio è un formato duttile, che si presta a comporre palinsesti di differenti durate e destinabile a differenti fasce di pubblico. Il cortometraggio costa poco e offre tanto! Eppure c’è un misterioso virus che induce a pensare che debba essere gratuito altrimenti non serve. Con i soldi spesi per molte fiction televisive di scarso successo e di scarsa qualità si potrebbero acquistare centinaia di cortometraggi da offrire a pubblici di ogni genere. L’offerta sporadica di corti, sia in televisione che al cinema, unita alla cronica mancanza di mezzi per la comunicazione e la pubblicità, non aiuta il pubblico a fidelizzarsi al genere.

Che tipo di orientamento ha il Festival di Siena? Il Festival Internazionale del Cortometraggio di Siena è un festival generalista di cinema breve, intendendo con questo che non è un festival aperto a tutti i generi di comunicazione per immagini in movimento, ma solo a quella parte identificabile con una struttura e con un linguaggio cinematografico. Nel 2006 per la prima volta abbiamo iscritto il Festival al sito internazionale multifestival www.shortfilmdepot.com. Questo ha generato un incremento che ha portato le iscrizioni al nostro Festival dalle 1.300 del 2005 a oltre 2.300 nel 2006. Shortfilmdepot è un sito che fa capo a Clermont-Ferrand e che permette agli autori di

Quali sono i principali circuiti di festival in Italia e in Europa? Quali attualmente le azioni di sostegno e di supporto al cortometraggio in

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futuro si delinea per il cortometraggio? Senza dubbio il cortometraggio ha tratto e può ancora trarre benefici dalla semplicità di reperimento e di gestione delle nuove tecnologie. Ma credo sia reciproco... Il cortometraggio ha offerto alle nuove tecnologie un terreno fertile di idee e di esigenze. Ha dato la possibilità di sperimentare senza dover mettere in moto la grande macchina del cinema. Di sicuro il corto continuerà ad essere il primo fruitore dei benefici offerti dalle nuove tecniche di ripresa, di montaggio, di proiezione.

iscrivere il proprio film a numerosi festival contemporaneamente compilando una sola scheda. Alla fine, nel 2006 abbiamo selezionato 70 film internazionali e 31 film italiani. Complessivamente, l’anno scorso, sono stati proiettati circa 250 film. Dove “vanno a finire” successivamente i corti italiani? Alcuni dei corti italiani fanno il loro breve giro dei festival, quelli che secondo la Commissione bisognerebbe chiudere; pochi tra questi vengono acquistati da quei pochi canali televisivi che ancora vogliono farli vedere nel nostro Paese.

Il cortometraggio e la scrittura. Che cosa può fare a questo proposito un festival? Tanto! Il festival non è solo il luogo in cui si vedono i film... Soprattutto i festival di cortometraggio sono luoghi in cui ci si incontra per parlare, per dire cosa vorremmo fare, cosa vorremmo vedere. Il festival è il luogo dove i film cominciano a vivere, non il capolinea. Nei festival nascono le idee tra gli autori che si incontrano e si conoscono. Noi, durante il Festival Internazionale del Cortometraggio di Siena, stimoliamo l’incontro e il dialogo tra gli autori presenti e cerchiamo di metterli in contatto col mondo produttivo e distributivo per far sì che davvero il Festival sia il luogo in cui le idee siano concepite.

Si può parlare di un mercato del corto in Italia? Direi di no! Il mercato italiano del cortometraggio non esiste più; forse non è mai esistito in Italia un vero mercato del cortometraggio. In questi giorni sta nascendo una struttura che dovrebbe ridare un po’ di dignità al cortometraggio italiano, favorendone la promozione in Italia e all’estero. Si tratta di una struttura che ha la testa a Torino (anche se tante altre teste, compresa la mia, ci hanno provato in passato senza successo) e le braccia in tutta Italia. La struttura risponde al nome, spero provvisorio, di INC (Istituto Nazionale del Cortometraggio), e nasce grazie all’impegno di Gianni Volpi oltre che alla collaborazione di molti soggetti in tutto il territorio nazionale che con lui stanno dando vita al progetto. Gli obiettivi di INC saranno illustrati nel corso di una conferenza che si svolgerà nel corso del prossimo Torino Film Festival.

Che cosa racconta il corto italiano, c’è una distinzione rispetto a quello degli altri Paesi? Si può dire che i corti diano un’immagine del proprio Paese? Non c’è dubbio che il cortometraggio, molto più di un lungometraggio, racconti del proprio Paese. Se non altro a causa dei numeri: in Italia si producono, forse, un centinaio di lungometraggi e almeno 500 corti in un anno. Già questo mette le basi perché ogni giovane autore, che affronti l’idea di mettere in moto un meccanismo di comunicazione visiva, parta dal proprio quotidiano, dalle storie di cui è testimone e che è in grado di elaborare con la propria fantasia. Il corto italiano risente ancora molto del cinema neorealista e della commedia. Ed è anche grazie a questo che all’estero è ancora molto apprezzato. Nel 2006 abbiamo portato alcuni programmi di corti italiani nei festival di Grecia, Polonia, Emirati Arabi, Lituania, Francia, Spagna, Belgio, riscontrando quanto il corto italiano venga accolto davvero come la star del cinema e, nel corso delle discussioni con il pubblico, quanto venga identificato col “grande” cinema italiano del passato.

Qual è il rapporto tra produzione e distribuzione? Che ruolo svolgono i media? Di nuovo, in questo momento non si potrebbe parlare di un rapporto tra la produzione e la distribuzione, per quanto riguarda il cortometraggio in Italia. La distribuzione nel nostro Paese si limita, come già detto, a qualche sporadica vendita televisiva. Anche i tentativi che si sono fatti nel passato, fare circolare dei programmi di corti nei cinema, sono falliti anche a causa dell’episodicità con cui venivano offerti al pubblico. Anche la sana usanza di proiettare un corto prima di un lungometraggio al cinema è praticamente scomparsa. Senza dubbio il corto avrebbe bisogno di una maggiore attenzione. Non lo si può trattare come un qualunque prodotto di comunicazione. Ha bisogno invece di spazi propri e di inserimenti in contesti di fruizione non casuali. Grazie alle nuove tecnologie, quale scenario

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Nel panorama cinematografico, il corto è il principale mezzo di educazione allo sguardo, oltre ad essere uno spazio di formazione e sperimentazione. È corretto dire che un festival debba delineare una tendenza, fare il punto della situazione rispetto ad un’offerta varia? Un festival, secondo me, non deve dettare linee o tendenze, caso mai registrarne l’esistenza e, dove necessario, evidenziarle, criticarle, sottolinearle. Un festival deve principalmente partire dall’assunto che il cinema è un’arte e che il film ne è la sua espressione. Ed è solo attenendosi a questa formula che un festival può rendere un buon servizio al cortometraggio e al cinema più in generale. Il cortometraggio ha il suo spazio di comunicazione e deve mantenerlo. Molti giovani autori ne fanno, anche giustamente, un uso tipo palestra. Alcuni realizzano un pezzo di lungometraggio per dimostrare al produttore che sono in grado di dirigere un film. Ma ci sono anche autori, e sono certo quelli che amiamo di più, che davvero sentono la necessità di realizzare un cortometraggio per comunicare attraverso questa dimensione, intesa come formato, cinematografica le proprie visioni del mondo, della vita e dell’arte.

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«Il corto è per definizione un prodotto d’essai.» Claudio Papalia La necessità di inventare, definire o scoprire uno spazio d’elezione per il cortometraggio italiano è una delle questioni più spinose del settore. Problematica complessa e annosa, sospesa tra vecchi e nuovi luoghi comuni. Dal webcasting al marketing virale al product placement, dai multiplex ai cinema d’essai, ne abbiamo parlato con Claudio Papalia, coordinatore editoriale delle Giornate Europee del Cinema e dell’Audiovisivo e direttore del Book Film Bridge. Cominciamo questa chiacchierata proprio dal Book Film Bridge che quest’anno hai inaugurato con una sessione intitolata Piemonte Product Placement, dedicata ai corti e ai vini del Piemonte. Con quale scopo? Volevo mettere intorno a un tavolo chi aiuta il cortometraggio e chi cerca nuovi mercati per vini di qualità e per quegli ottimi prodotti della gastronomia che meritano una distribuzione globale ma non possono permettersi colossali investimenti pubblicitari. Cerco un’alleanza fra contenuti di qualità, un’alleanza fuori dagli schemi. Un programma denominato, ad esempio, IN VINO VARIETAS, può contenere decine di corti: commedie, musicali (ricordo un eccellente concerto jazz di Furio Di Castri e Antonello Salis sul vino all’Opera), magari videodanza. Lo vedo su YouTube, con i link ai siti commerciali dei vinificatori, consultabile in Australia, Canada, Giappone, da parte di internauti attenti ai clip, magari inesperti di vino, che trovano lì, con l’intrattenimento, il loro primo contatto con prodotti eno-gastronomici di valore. Non a caso, Franco Martinetti, i cui vini sono un cult come i film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, ha colto subito le potenzialità di questo marketing virale. Dunque, vedi YouTube come un sistema di distribuzione per i corti? I siti gratuiti di webcasting sono un veicolo per i corti, anche se non ne risolvono i problemi produttivi; se la tua distribuzione si limita a questi vettori, devi lavorare con gli sponsor. Ma il corto è più forte di quanto attualmente si pensi. È stato l’iniziatore del cinema da L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, dal nickelodeon, dal vaudeville; nei decenni della distribuzione di massa è apparso in crisi, anche se la flessibilità mentale dei produttori degli anni ’60 ha permesso ad ottimi film ad episodi di fare succulenti box-office, cosa oggi apparentemente dimenticata. Adesso, sui nuovi

www.cortoitaliacinema.com

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media, il corto forse è più appetibile del lungometraggio. Sull’internet e sui videomobili lo è di sicuro.

che la gente vorrebbe, ma che i media tradizionali rifiutano di fornire: cabaret, teatro, arte, musica di ricerca, saggi.

Allora il corto non ha problemi di distribuzione oggi? Non ne ha mai avuti tanti, ma domattina potrebbe non averne più. Le nuove distribuzioni hanno bisogno più di corti che di lungometraggi. Bisogna però che produttori e creativi sappiano rispondere a requisiti nello stesso tempo nuovi e millenari. In primo luogo, la forza visiva, che passa subito i confini e annulla le barriere linguistiche. Poi, l’identificazione dei contenuti che valgono, gocce in un oceano. Il cosiddetto “tag”, l’etichetta che aiuta i motori di ricerca a far emergere un singolo contenuto dal mare magnum, è essenziale. Come lo è la forza drammaturgica, perché la Poetica di Aristotele guida anche i corti, che troppo spesso trovano nel finale a sorpresa uno svilente deus ex machina. Il corto - dramma, commedia, o documentario che sia - deve avere personaggi complessi e un motore intrinseco, una necessità.

Che sono tutti prodotti d’essai... Il corto lo è per definizione, anche se le sale d’essai lo hanno tradito, così come il servizio pubblico televisivo. C’è “essai” nel corto del giovane regista che dà una prova di sé, i migliori dovrebbero essere distribuiti sistematicamente dalla tv pubblica e dai cinema d’essai: per gli uni si paga il canone e per gli altri il biglietto, ma tutti e due poi riempiono gli intervalli con la pubblicità. Io credo che il servizio pubblico dovrebbe essere obbligato a trasmettere i corti prima della mezzanotte e che i cinema d’essai dovrebbero addirittura sbigliettarli, un euro per il corto, più il biglietto tradizionale. E, se rifiutano, i sostegni pubblici dovrebbero arrestarsi. Obblighi a parte, i cinema d’essai dovrebbero capire che non si contrasta la concorrenza dei multiplex imitandoli ma differenziandosi, è la regola base del marketing: vale per i corti come per la lingua originale. Poi c’è un’altra forma di essai possibile sul corto, quella propriamente saggistica. Come mai pochi utilizzano le potenzialità dei cosiddetti “embedded link”? Sulle immagini si possono inserire note testuali, filmiche, sonore; i saggi sull’internet o su DVD sono una sfida da raccogliere, per chi ha qualcosa da dire e sa farlo.

Occorre muoversi per tematiche? Proprio così. Collane di corti, con titoli originali e transnazionali: questa è una delle misure da adottare. Qualche esempio, con la precisazione che Fert Rights ne gestisce la proprietà intellettuale: BONUS CINEPHILE può essere un’etichetta sui DVD dei film restaurati, e contraddistingue piccoli documentari di qualità da aggiungere al lungometraggio “museale” e da realizzare con bandi creativi presso i produttori indipendenti. Su YouTube e in generale sull’internet, questo tag può portare ad anteprime parziali, a loro volta collegate con il sito di vendita a distanza. Poi, c’è una collana che farei partire subito e che chiamerei BORDERLINE SHORTS. Oggi è borderline la tv generalista, mentre i film-maker fanno spesso esercizio di conformismo! Ci metterei tematiche di frontiera, anche arrischiate ed avventurose. Ti do due esempi che ne definiscono gli estremi: ERODOX, documentari erotici d’autore, esibizioni di adulti consenzienti per un pubblico adulto; qualcosa che sottragga il bisogno umano di immaginazione erotica al mercato nero delle luci rosse, un’operazione analoga a ciò che accadrebbe se finalmente si legalizzasse la marijuana. E, dall’altra parte, L’EGALITÉ: collezione di documentari di denuncia, di inchieste, di esempi positivi, per facilitare la consapevolezza dell’identità fra affermazione della legalità e realizzazione dell’uguaglianza tra i cittadini. Nel mezzo, si può collocare un’infinità di contenuti

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E in questo caso qual è l’argomento? L’argomento è probabilmente la nostalgia. La nostalgia per la gioventù, così lontana dalla vita adulta che tende poi a pietrificarsi in ruoli, permessi da chiedere, codici bancari e tasse da pagare.

Nel 2005 un cortometraggio intitolato Il supplente è inviato al concorso organizzato da Sky-Lab, il laboratorio creativo di Sky Cinema Italia, dedicato ai cortometraggi e alle nuove tendenze dell’industria audiovisiva. Prodotto nel 2006, in breve tempo diventa un piccolo caso, facendo incetta di premi in vari festival internazionali, da Dresda a Bucarest, dalla Francia all’Arizona. Ripercorriamo con l’autore, Andrea Jublin, la storia del progetto, dall’ideazione alla distribuzione e oltre. Perché ogni film contiene almeno due storie; la prima è la storia che racconta, la seconda è quella della sua realizzazione.

Questa idea, come poteva diventare una storia? Poteva diventarlo se questo signore faceva un mestiere noioso, lontano dalla vita allo stato puro rappresentata dalla classe di ragazzini. Ho iniziato dunque a immaginare il personaggio, chiedendomi perché guardasse fuori. Doveva essere una situazione “bipolare”: che lavoro fa, chi è uno che è “il contrario, l’opposto” di una classe di ragazzini? Non può essere altri che qualcuno che fa un lavoro “da grande”, forse noioso, con scadenze, un ruolo che ti ingabbia, una specie di sentinella della realtà di tutti i giorni. Ho iniziato da lì. Per poi, all’inizio del corto, mostrare ai ragazzi della classe un “bambino grande” ovvero il suo opposto.

Per iniziare, cito testualmente la rivista Cineforum, che a proposito del tuo corto, presentato e premiato all’ultima edizione del concorso di Clermont-Ferrand, scrive: “È uno spaccato di vita scolastica quando a scuola non c’è il professore, ma arriva un supplente, o almeno, un presunto tale: la classe precipita nel caos se dietro alla cattedra c’è un nostalgico avvocato sotto mentite spoglie, perché non è vero che tutti gli adulti quando crescono dimenticano di essere stati bambini e a volte essere fan di Del Piero serve.” Detta così, è un po’ criptica e andrebbe spiegata.

Hai iniziato a preparare la storia dal personaggio. Ma come l’hai strutturata? Personalmente sono un maniaco delle scalette, delle strutture, dei libri di sceneggiatura americani e cose del genere. Mi piacciono i corti quando sono dei piccoli film, quando sono un lungometraggio in versione bonsai. Anche se, normalmente, la struttura principale dei lunghi è quella in tre atti mentre quella dei corti è normalmente in due atti. Anche Il supplente è in due atti. Nella prima parte, il prof. si diverte come un matto in classe, nella seconda ci spiega chi sia in realtà e si dirige verso il climax. Anche in un altro mio corto, Grazie al cielo, era così. Mi piace che ci sia tra primo e secondo atto una svolta seguita dal climax che ne Il supplente è il momento in cui il professore, una volta rientrato nello studio legale portandosi dietro la pallina di uno studente, deve scegliere se ridarla al ragazzino, giunto sin lì per riprendersela, o al ricco cliente cinese che la desidera.

Bene... Facciamo dunque un passo indietro. Da dove hai preso lo story concept del progetto, l’idea di un sedicente supplente che getta scompiglio in una classe e che è in realtà un avvocato che lavora nel palazzo di fronte? Ho avuto l’idea mentre stavo lavorando in un ufficio a Torino; là, di fronte c’era una scuola. Mi sono immaginato un signore che, durante il suo lavoro, sbirciava là dentro e mi sono chiesto che cosa sarebbe accaduto se questo signore avesse avuto voglia di tornare ragazzino. L’idea è nata molto prima, un anno prima rispetto alla stesura della storia, poi è rimasta in giacenza, a maturare, anche perché all’inizio non mi sembrava un granché. Poi, solo poi, ho trovato il modo di piegarla ai miei temi. Perché sono convinto che uno abbia solo pochi temi che ama investigare. A me piace parlare di personaggi che hanno nostalgie, tensioni verso vite che non sono le loro, che vorrebbero essere qualcosa d’altro. Forse anche i “grandi” autori, i primi della classe, raccontano nei loro film sempre le stesse ossessioni.

Il climax è qui uno snodo drammaturgico in cui le contraddizioni scoppiano? Sì, è il punto verso cui tutto deve tendere, il culmine. Il protagonista si doveva portare dietro qualcosa da quel mondo scolastico, una specie di “elisir”, un qualcosa che però anche il mondo dei grandi vuole e desidera. Anche perché un altro tema del corto è l’omologazione. La società desidera

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l’omologazione, ne sono un esempio i programmi affamati di gossip e cose del genere che vorrebbero abbattere qualunque forma di pudore che invece, forse proprio per questo, è da salvaguardare più che mai. Per questa ragione il protagonista, alla fine, non darà la pallina al cliente. Alcuni hanno criticato il finale considerandolo un po’ telefonato. Ma io volevo che il protagonista si salvasse, un happy end, volevo che fosse così. Perché ci credo che si possa fare qualcosa. E volevo comunicare questa speranza. E anche se forse sarebbe stato più interessante dal punto di vista drammaturgico che il supplente avesse consegnato la pallina nelle mani del ricco cliente, un autore alla fine deve fare i conti con se stesso, con ciò che intende comunicare. Una volta che hai terminato di idearlo e di scriverlo che cosa è successo? Ricordo che a luglio del 2005 siamo andati al Genova Film Festival per un reading di una tua sceneggiatura intitolata Lo sterminatore e pubblicata su Plot. Allora mi parlasti di avere appena terminato di scrivere Il supplente e che, in nottata, l’avevi mandato al concorso Sky-Lab. Che cosa hai inviato? Ho inviato la sceneggiatura. Poi è passato un bel po’ e ad agosto mi hanno comunicato che su 480 progetti iscritti avevano scelto il mio. Mi hanno chiamato a Venezia, al Festival, e mi ha premiato Spike Lee. Il premio consisteva nella possibilità di realizzare la mia sceneggiatura. Per farlo, mi davano la possibilità di frequentare un corso di regia a Los Angeles, all’UCLA (University of California), della durata di un paio di settimane. Poi quando sono tornato in Italia, sono partito per Roma, dove ho girato. Quali aiuti, sia in termini di scrittura, sia per le riprese (attori, location, attrezzature) hai ricevuto da Sky-Lab? E che differenze hai notato nel passaggio dalla carta alla scena? Non ci sono stati cambiamenti a livello di storia, rispetto alla versione originale. In questo senso, mi hanno dato una libertà totale. Per la realizzazione a Roma, ho lavorato con la società di produzione Frame by Frame, che mi ha fornito le attrezzature, il direttore della fotografia, il direttore di casting e così via. Ho dunque preparato il mio casting avendo già un’idea molto precisa degli attori; e poi abbiamo iniziato con le prove a cui ho dedicato molto tempo, secondo l’impostazione teatrale da cui provengo. È in quel momento, una volta in scena, che ho apportato alcune modifiche. E questo è il bello di essere sia

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lo scrittore che il regista del progetto. Soprattutto se devi anche recitare, come nel mio caso, è un vantaggio ulteriore perché puoi in un certo senso cucirti la parte addosso. In quanto scrittore, poi, gli esseri umani sono sempre diversi dai personaggi che immagini mentre scrivi. Devi umanizzarli, soprattutto per quanto riguarda il dialogo. Ma la storia è rimasta quella. Come giudichi questa esperienza? È stata fantastica, le persone con cui ho lavorato erano tutte bravissime. Poi hai dovuto distribuirlo. Oltre al passaggio televisivo su Sky, Il supplente è diventato un piccolo caso che ha ricevuto numerosi premi internazionali da diversi festival. Quali sono state le svolte principali? Il corto ha fatto la sua prima mondiale al Sundance Film Festival. Non abbiamo vinto, ma è stato importantissimo per il mercato americano perché, grazie alla visibilità ricevuta, Sky ha potuto vendere i diritti a diversi Paesi di quell’area. L’ho inviato al Festival du Court Métrage di ClermontFerrand, in cui ha vinto il premio Canal+, che ha rappresentato la vera e propria svolta per venderlo sui mercati del resto del mondo, e all’Aspen Shortsfest, dove ha vinto il premio Best Comedy Short, che è stato molto importante perché con questo riconoscimento si accede alla selezione per gli Oscar a cui l’abbiamo inviato e adesso siamo in attesa. Hai cercato da solo i festival? In questo senso, quale, se c’è stata, la collaborazione con Sky e con la società di produzione? Io mando il DVD al festival, se il corto è scelto Frame by Frame, la casa di produzione, manda loro il Beta SP, il Digibeta o l’HD da proiettare. Dunque esiste un mercato per i corti? Quali sono i criteri per entrarvi? Sì, c’è un mercato. Ma devi accedere a questi grandi festival. Soprattutto a quello di Clermont-Ferrand. Là ho visto corti di vario livello, come in tutti i festival, ma tutti erano di altissima qualità dal punto di vista tecnico e questo significa soldi e case di produzione che ci hanno investito. Il supplente, un caso con una forte destinazione internazionale. E in Italia? In Italia i corti non hanno un gran mercato. Da altre parti investono perché è evidente che credono di avere un ritorno economico. È forse anche questione di una distribuzione diversa.


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E, per finire, da che cosa si giudica un buon progetto internazionale di corto? L’editing è fondamentale. Ci credo molto come credo molto in tutte le pratiche di riscrittura. Per la sceneggiatura del lungometraggio che sto scrivendo ho chiesto alla società di produzione di farla visionare a un professionista bravo. Io poi, da sempre, mi servo di quello che chiamo il mio “centro di ascolto”; sono quattro o cinque amici fidatissimi, ai quali sottopongo di volta in volta le varie stesure e ai quali chiedo di essere cattivissimi. Per il resto, dopo l’idea, lavoro tenendo sempre sott’occhio uno “scalettone” e consigliandomi il più possibile con le persone di cui mi fido. Un progetto di corto deve avere un’idea forte, ma questo discorso è forse valido anche per il lungo. Se si vuole accedere ai festival internazionali forse se hai un’idea forte è meglio. Da questo punto di vista ai vari festival internazionali non ho notato differenze tra i corti perché, pur provenendo da varie parti del pianeta, per tutti valeva questa regola. Ho visto corti che avevano idee così interessanti che all’uscita della sala mi sono chiesto come potessero essere venute in mente agli autori. Dunque, per spiegarmi meglio, il minimal, un po’ italiano, anche raffinato magari, paga poco.

Dunque il cortometraggio ha una sua autonomia, ma per te è stato anche una palestra e un “biglietto da visita”? A dire il vero, io ho iniziato provando con il lungo (Ginestra, ndr) perché per me lo specifico filmico è il lungo. Ma è sicuramente vero, il corto è l’unico modo di imparare. E poi, dopo i festival, con il mio cortometraggio sotto il braccio sono andato in giro per le case di produzione. Una di queste, Indiana Production, ha visionato il mio lavoro, gli è piaciuto e mi ha chiesto di scrivere un lungo. Speriamo bene. Quali consigli per chi scrive un film? Prima ancora di essere il più coerente possibile con se stesso, capire come funzionano le strutture del racconto. Credo che chi scrive per il cinema debba prestare molta attenzione alla tecnica della narrazione. Perché magari tu vuoi dire una cosa, ma comunicarla è tutta un’altra cosa. La comunicazione ha a che fare con gli altri, con un pubblico. Penso che l’arte debba essere qualcosa che in qualche modo serve e perciò vorrei che in un film tutti capissero tutto. Anche per questo motivo sono legato alla struttura espositiva classica, all’americana, che poi è quella aristotelica, in tre atti.

Ringraziando Andrea Jublin, pubblichiamo in Appendice Il supplente nella versione originale inviata dall’autore al concorso Sky-Lab.

E alla luce della tua esperienza, quali consigli per chi vuole cimentarsi in un cortometraggio? Io sono stato sicuramente fortunato e il mio è un caso particolare. Ma l’unico consiglio che mi sento di dare è di farne tanti, di non mollare mai e di prestare molta attenzione a quello che si vuole dire. Talvolta sento alcuni “colleghi” che rinunciano a girare perché non ci sono le condizioni ottimali, la pellicola, l’attore giusto, il direttore della fotografia... Io provengo dall’autoproduzione e i primi corti me li sono pagati coi risparmiucci. Forse l’unica preoccupazione che si deve avere è di impegnarsi a creare storie, sforzarsi di raccontarle in modo che tutti possano capirle e sentirle. Soprattutto nel cortometraggio che è una tipologia contaminata dalla video arte, dalla pubblicità... Va tutto bene, è tutto giusto, bisogna sperimentare, ma talvolta all’uscita della sala ti chiedi che cosa volesse dire l’autore. E scopri che il problema non è né la pellicola, né l’attore, né il direttore della fotografia, ma la scrittura: perché saper scrivere una bella storia è maledettamente difficile. A questo proposito, come giudichi l’attività dello story editing? È una pratica consolidata? Nel tuo caso, hai ricevuto un servizio di questo tipo?

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ULTIMO VINO PER IL PARADISO di Fabio Bettinelli, Marcella Bianchi Girani, Alberto Dessimone PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO Nonostante alla vicenda facciano da sfondo un funerale e la pioggia, l’aggettivo che per primo viene in mente leggendo questo corto, il cui tema è il vino, è senz’altro “frizzante”, ma anche “mosso” e “vivace” potrebbero rendergli giustizia. Per certo non “fermo”, dal momento che tutti i personaggi danzano secondo una coreografia che avvince, soprattutto, per i suoi ritmi e per la sua spontaneità. Il progetto per cortometraggio Ultimo vino per il paradiso nasce da una riflessione sulla trasformazione che il consumo del vino ha recentemente subito. Da fattore alimentare, il vino negli ultimi anni si è trasformato in fattore estetico: bere un calice di vino è di moda, sono comparse miriadi di vinerie in concorrenza con le storiche birrerie, si sono moltiplicati corsi per sommellier, il termine degustazione è sempre più diffuso. Bene. Non fosse però che il prezzo del vino è salito vertiginosamente, tante etichette sono diventate inavvicinabili, comprese quelle meno prestigiose. Nelle vinerie siamo disposti ad assaggiare un rosso californiano anche a un prezzo spropositato, in Francia spesso il costo di una bottiglia di vino supera l’intera addition di quattro commensali. La nostra storia vuole essere un po’ un ritorno alle origini, dove, in un paese delle Langhe, si scontrano metaforicamente, in chiave di commedia con una punta di surrealismo, questi nuovi e un po’ isterici fenomeni vanitosi e spettacolari, per soccombere al capezzale di chi ha vissuto una profonda e autentica passione per il vino. Fabio Bettinelli Marcella Bianchi Girani Alberto Dessimone

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1. INT. CHIESA - GIORNO Dal pulpito che si affaccia sui banchi allineati, un parroco sulla settantina, alto, magro, occhi azzurri molto chiari, capelli bianchi, fitti, tagliati corti e con indosso una lunga tunica nera, DON GEREMIA, sfoglia la Bibbia inserendo man mano dei segnalibri. Alle sue spalle due bambini, vestiti come CHIERICHETTI, accendono le candele sull’altare addobbato con paramenti viola. Don Geremia scende dal pulpito, entra nella sacrestia che si affaccia su un lato del presbiterio, raggiunge un monumentale armadio di legno scuro intagliato con figure sacre, sfila da sotto la tunica una chiave con la quale apre un’anta dell’armadio, afferra una bottiglia di vino rosso senza etichetta, esce dalla sacrestia e raggiunge l’altare: versa meticolosamente un po’ di vino nell’ampollina, torna in sacrestia, ripone la bottiglia nell’armadio, richiude l’anta a chiave facendola sparire sotto la tunica. TITOLO: ULTIMO VINO PER IL PARADISO

2. EST. STRADA CAMPAGNA - GIORNO Un taxi percorre solitario un’assolata strada di campagna sul fianco di una collina ordinatamente striata da lunghi filari di una vigna rigogliosa. In lontananza, le nuvole di un temporale.

3. INT. TAXI - GIORNO Alla guida del taxi un uomo sulla quarantina, grassoccio, dall’espressione bonaria, GIOVANNI. Indossa un camiciotto a quadretti sbottonato sul petto. Sul sedile posteriore un uomo distinto sui 50 anni, ROGER CARTER, legge attentamente una copia della rivista Wine Spectator, che riporta sulla copertina una foto in primo piano di Roger a tutta pagina, tenendo appoggiata la mano destra su una borsa di cuoio bombata, sul sedile accanto a lui. Roger alza lo sguardo sul panorama che sfila dal finestrino. ROGER (con forte accento americano) Caro Johnny, magnifico posto, ogni volta che vedo questa campagna sono incantato. GIOVANNI (sorridendo) E ogni volta me lo dice, e ogni volta mi chiama Johnny: Giovanni, Mister Carter, Giovanni. Dallo specchietto retrovisore Giovanni nota la foto di Roger sulla copertina della rivista. GIOVANNI Perbacco Mister Carter, siamo diventati famosi eh? ROGER Meraviglioso anno, per me and for the Californian wine. Roger abbassa lo sguardo sulla rivista ROGER Look! Wine Spectator, la bibbia of the wine world. Nella top 100 wine di quest’anno, Kingaard

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Pinot Noir Napa Valley California 2003 è secondo, the second wine in the world, dopo il vostro Brunello 2001, ma prima del Bordeaux 2003, terzo. GIOVANNI Il suo amico francese lo sa? Roger ride di gusto, sventolando la copia della rivista. ROGER Gli ho telefonato, prima che potesse leggerlo su Wine Spectator. Roger rialza lo sguardo verso la campagna, mentre Giovanni tira un lungo sospiro. GIOVANNI Se Giacomo potesse saperlo, sarebbe fiero di lei. Roger appoggia delicatamente la mano destra sulla borsa bombata. ROGER Lo saprà, lo saprà. GIOVANNI Era molto attaccato a voi, quando lo portavo all’aeroporto per venire da lei, mi diceva: “Ha talento, sperimenta ma rispetta il vino, sentiremo parlare di lui molto presto.” Roger sorride malignamente. ROGER E quando andava in Francia, cosa diceva? Giovanni sporge il labbro inferiore, strizzando un po’ gli occhi. GIOVANNI Diceva: “Nelle vene del Barone non scorre sangue blu, ma rosso, rosso come il vino che fiuta già nei grappoli.” Attraverso i finestrini del taxi scorrono le prime case di un piccolo paese.

4. EST. CHIESA - GIORNO Don Geremia esce dal portone della chiesa seguito da due chierichetti che reggono in mano rispettivamente l’aspersorio e il vangelo, mentre comincia il suono greve delle campane a morto.

5. EST. CIMITERO - GIORNO Un uomo di mezza età, mingherlino, con un fiammifero stretto tra i denti, vestito con abiti da muratore, SEVERINO, appoggia una pala accanto ad una lapide posta in capo ad una fossa,

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carica due zappe su una carriola e si allontana spingendola. Sulla lapide, la foto in una cornice ovale di un uomo anziano, sorridente e con gli occhi vispi, e la scritta: GIACOMO BARBERIS 1927 – 2006. SEMPRE FEDELE AL BUON VIVERE HAI CELEBRATO IL NOSTRO VINO SUL TETTO DEL MONDO. ORA CI SORRIDERAI DALLA VIGNA DEL SIGNORE.

6. EST. STRADA - GIORNO Il taxi accosta al muro che fiancheggia una via che porta ad una piazza, quasi all’angolo. Roger scende dal taxi: indossa scarpe da ginnastica, un completo chiaro e un cappello panama. Percorre pochi passi e si ferma all’ingresso della piazza: si guarda intorno e s’incammina verso alcune persone che sostano di fronte all’ingresso di un’abitazione, accanto ad un carro funebre con il portellone aperto. Il taxi riparte, lasciando intravedere due manifesti funebri affissi al muro, affiancati. P.P. sul primo dei due manifesti: ROGER CARTER PRESIDENTE DELLA CALIFORNIA ACADEMY WINE & FOOD RICORDA COMMOSSO IL SUO IMPAREGGIABILE MAESTRO GIACOMO. GOODBYE JACK. LOS ANGELES 10 AGOSTO 2006.

7. INT. CASA GIACOMO - GIORNO Roger si affaccia all’ingresso di una stanza. Al centro vi è una bara aperta adagiata su un catafalco. Entra nella stanza, appoggia la borsa su una sedia, si avvicina alla bara. Reggendo con una mano il cappello contro il petto, sorride puntando l’indice dell’altra mano verso l’interno della bara. Si volta ed estrae dalla borsa una bottiglia di vino: sollevandola verso l’alto la ammira fiero e, strizzando un occhio, la ripone soddisfatto dentro la bara. ROGER (sussurrando) Per te. Goodbye Jack.

8. EST. STRADA - GIORNO Nella via che porta alla piazza, una vecchia Mercedes con targa francese accosta maldestramente. Ne scende trafelato un uomo, CYR DE LONGUEVILLE, di mezza età, abbondantemente stempiato e con un pizzetto brizzolato. Non tanto alto, tarchiato, indossa una camicia bianca con “ascot” grigio e pantaloni scuri. Apre svelto la portiera posteriore dell’auto, armeggia chino sul sedile, si drizza reggendo goffamente la giacca scura sul braccio sinistro. Chiude la portiera, s’incammina e si sofferma di fronte ai due manifesti funebri affissi al muro quasi all’angolo della piazza. Dà una veloce scorsa al primo e si sofferma sul secondo. P.P. sul secondo dei due manifesti: A NOME DELL’ÉCOLE DE LA SOMMELLERIE FRANÇAISE, CYR DE LONGUEVILLE AFFRANTO PIANGE IL SUO MAESTRO E MENTORE GIACOMO. ADIEU JACQUES. BORDEAUX 10 AGOSTO 2006. Proseguendo oltre, Cyr vede Roger uscire dall’abitazione di Giacomo e dirigersi verso un bar su un lato della piazza. Cyr attraversa la piazza, entra nella casa di Giacomo.

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9. INT. CASA GIACOMO - GIORNO Cyr si affaccia rispettosamente alla camera ardente facendosi il segno della croce e si avvicina alla bara. Nota la bottiglia di vino lasciata da Roger, l’afferra con irritazione. Con una smorfia altezzosa di disapprovazione, scruta da vicino l’etichetta sulla quale vi è scritto: KINGAARD PINOT NOIR NAPA VALLEY 2003. Rassicurandosi con la coda dell’occhio di non essere visto, Cyr prende una bottiglia senza etichetta e con uno stemma araldico lavorato sul vetro, che tiene nascosta avvolta nella giacca e, dopo averne baciato lo stemma con aria trasognata, la sostituisce a quella nella bara. All’improvviso, la voce di un uomo alle sue spalle. DON GEREMIA (VFC) Se può gentilmente uscire, dovremmo procedere. Cyr, con la bottiglia di Roger in mano, sussulta. Sguinzaglia rapide occhiate a sinistra e a destra, cercando una via d’uscita che non c’è. Deve per forza voltarsi. Indugia fissando la bottiglia. Alle sue spalle Don Geremia e i due chierichetti lo osservano in silenzio. Piegandosi leggermente in avanti, quasi prostrandosi sulla bara, avvolge con difficoltà la bottiglia di Roger nella giacca. Si volta tentando di dissimulare un terribile imbarazzo, impacciato esce dalla camera ardente, sotto lo sguardo di Don Geremia e dei due chierichetti. Entra nella camera ardente Severino e si avvicina alla bara con Don Geremia: stupiti, i due scorgono la bottiglia di vino lasciata da Cyr. SEVERINO (accigliato) Ma che roba l’è? Na buta ’nt la bara? Don Geremia osserva da vicino la bottiglia. DON GEREMIA Saran stati i forestieri. SEVERINO I foresté? DON GEREMIA Ma sì, l’american o il transalpino. Regalino per Giacomo, per riconoscenza. SEVERINO Chi? Coj dui sofistich che d’istà venivano da Giacu? DON GEREMIA Sì, un po’ sofistich ma brave persone, gli volevano bene a Giacomo. SEVERINO Perché Giacu gli ha insegnato ’l mësté come Dio comanda, vero Don? DON GEREMIA Sì, e sempre a voler primeggiare tra loro: Giacomo ’s divertiva come un mat a cuntelo, diceva che erano come can e gat!

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SEVERINO (ironico) E il regalino lo facciamo fare al can e al gat? Don Geremia prende in mano la bottiglia e la scruta serrando le labbra e scuotendo la testa. DON GEREMIA No! Forse sta roba ’l’è grama anche per la mëssa. Va ’n crota e prendine una di quello buono. Severino sogghigna senza far cadere il fiammifero ed esce lesto dalla camera ardente. Don Geremia porge la bottiglia di Cyr ad uno dei due chierichetti. DON GEREMIA Portala in cucina. Il chierichetto esce dalla camera ardente, mentre rientra Severino: i due si incrociano con le bottiglie in mano. Severino ripone nella bara la bottiglia, sotto lo sguardo soddisfatto di Don Geremia che si china sul feretro. DON GEREMIA (sottovoce) Questo puoi offrirlo a San Pietro, della tua vigna, d’la toa téra.

10. EST. CASA GIACOMO - GIORNO Cyr si guarda attorno furtivamente sulla soglia di casa di Giacomo e s’incammina veloce verso la sua auto. Una mano robusta gli si posa improvvisa sulla spalla. Cyr sgrana gli occhi sussultando. ROGER (VFC) Fermo lì, Baron De Longueville! Cyr si volta con sguardo terrorizzato, nascondendo la bottiglia, avvolta nella giacca, dietro la schiena. ROGER How are you? Ti ho spaventato, eh? Cyr sorride a denti stretti. CYR (con accento francese, e sufficienza) Sempre a fare cinema. ROGER (bonariamente) E tu sempre presuntuoso. Roger si avvicina a Cyr sorridendo e lo abbraccia vigorosamente, notando la giacca che il francese stringe con le mani dietro la schiena. ROGER Fatti abbracciare bene!

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Cyr si divincola impacciato, sistemando la giacca che avvolge la bottiglia sotto il braccio sinistro. CYR (infastidito) Ça suffit Roger, nous ne sommes pas à Hollywood! Roger, serio, accenna a prendere sotto braccio Cyr dalla parte sinistra. ROGER Hai ragione. Il povero Giacomo... Cyr si scosta con eleganza. Roger guarda prima Cyr, poi la giacca e alza le braccia. ROGER Grande atelier francese... ok, ok, non la tocco. Roger prende Cyr sottobraccio dalla parte destra e s’incammina trascinandolo: il francese si guarda intorno impacciato, stretto dalla morsa di Roger che estrae dalla tasca un foglietto. ROGER Ho preparato un piccolo ricordo da leggere in chiesa. Lo leggeremo metà io e metà tu, Giacomo avrebbe voluto così, right? Cyr tenta inutilmente di scostarsi da Roger. CYR D’accord, ma prima dovrei... Roger, interrompendolo senza ascoltarlo, con tono deciso e affettuoso, lo stringe ancora più forte, trascinandolo in avanti. ROGER Non scappare, non fare il timido. Senti cosa ho scritto: “Giacomo mancherà a tutti noi, al suo mondo, il mondo del vino che lo consacrò a Lisbona, nel 1980, come World’s Best Sommelier e dove, il Barone ed io, allora giovani e inesperti lo incontrammo per la prima volta. Nacque subito un’amicizia e un affetto paterno da parte sua verso di noi. Uomo mite, umile e intelligentemente curioso, Giacomo guardava alla California con interesse per la sperimentazione di nuovi vini...”

11. INT. CHIESA - GIORNO Cyr è in piedi al leggio davanti all’altare, con la giacca sotto il braccio sinistro, a fianco di una panca di legno dove siedono Don Geremia, con gli occhi chiusi, il gomito appoggiato su un bracciolo con la mano che regge la fronte, e i due chierichetti. CYR “... e ammirava la rigorosità della tradizione della Gironda. Come dite qui, Giacomo ci prese sotto la sua ala...”

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Roger, seduto nel primo banco accanto al SINDACO con la fascia tricolore, osserva con perplessità la giacca sotto il braccio del francese. CYR “... ricambiò i nostri inviti con splendidi soggiorni nel vostro paese, con grande sapienza e pazienza ci insegnò i segreti e le virtù del vino, ad amarlo. Giacomo lascia sì un vuoto incolmabile, ma lascia in eredità ai suoi cari, a noi tutti, il suo immenso amore per il vino, la terra, la vita.” Cyr tace e si volta verso Don Geremia che rimane con gli occhi chiusi: un chierichetto lo sfiora con il gomito e il parroco alza la testa e fa un cenno con la mano a Cyr in direzione dei banchi. Don Geremia e i chierichetti si alzano in piedi avvicinandosi all’altare mentre Cyr, con la giacca stretta sotto il braccio, si avvia un po’ goffamente verso il primo banco e si siede accanto a Roger che, continuando ad osservarlo stranito, si arieggia con il cappello.

12. EST. CHIESA / STRADA - GIORNO Sul piazzale innanzi al portone della chiesa sosta il carro funebre con il portellone aperto. Le campane rintoccano in segno di lutto, si aprono i battenti del portone della chiesa. Una fastidiosa brezza sorprende le persone che defluiscono dalla chiesa, tra cui Roger, sotto braccio al cereo Cyr, che regge la giacca con il braccio sinistro. I portantini caricano la bara sul carro funebre che lentamente si muove: la gente silenziosamente si accoda. Un temporale si fa minaccioso, mentre il corteo funebre imbocca la ripida salita che conduce al cimitero. Roger alza gli occhi al cielo. ROGER Caro Cyr, temo che dovrai usare la tua bella giacca. My God, non l’hai lasciata neanche per leggere il discorso! Cyr si libera dalla stretta di Roger e si massaggia il braccio sinistro con la mano destra. ROGER (sarcastico) Se avessi coperto le vigne con la tua bella giacca, avresti evitato la più brutta annata francese! Roger, sogghignando, osserva con la coda dell’occhio Cyr. ROGER Buttavi via la giacca, ma non il vostro vino, supér! Cyr, non interrompendo il massaggio, abbassa gli occhi sulla giacca. CYR (sospirando) Un’annata cattiva può arrivare. Roger, sorpreso da Cyr, insolitamente remissivo, incalza. ROGER A noi californiani, no. Annata meravigliosa, Giacomo ne sarebbe orgoglioso. Anzi lo è...

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Cyr ha un fremito, guarda fisso davanti a sé, stringendo ancora di più la giacca.

13. EST. CIMITERO - GIORNO Sotto le prime insistenti gocce del temporale, il feretro di Giacomo viene adagiato nella terra. In capo alla fossa Don Geremia, con accanto i due chierichetti, benedice il feretro con l’aspersorio. Ai lati, uno di fronte all’altro, Cyr e Roger. Roger osserva incuriosito Cyr, che, immobile, non accenna ad indossare la giacca nonostante l’infittirsi della pioggia. Don Geremia fa un cenno a Severino che comincia a seppellire la bara.

14. EST. STRADA - GIORNO All’uscita dal cimitero la pioggia è più insistente. Roger, tentando di ripararsi con il cappello, osserva stranito Cyr, impassibile con la giacca sotto il braccio sinistro. I due camminano svelti. ROGER Ma Cyr, metti la giacca, ti prenderai un malanno. CYR (ironico) Sì? Come le mie uve che non ho coperto con la giacca? Roger si avvicina a Cyr e affettuosamente accenna ad afferrare la giacca. ROGER Caro vecchio Cyr la morte di Jack ti ha proprio sconvolto. Dai, ci penso io... Roger afferra risoluto la giacca. Cyr si scosta di scatto, scoprendo la bottiglia di vino. Roger, con la giacca in mano, osserva inorridito la bottiglia sotto il braccio di Cyr. ROGER (incredulo) La mia bottiglia per Jack... Roger strappa la bottiglia da sotto il braccio di Cyr. La osserva stralunato. CYR (con ostentata supponenza) Jacques non meritava la tua soupe Campbell: va in Paradiso non al supermarché. Roger getta la giacca di Cyr in terra, calpestandola. ROGER (furioso) Invidioso d’un francese, hai tolto mia bottiglia e l’hai tenuta nascosta in your fucking jacket! Cyr raccoglie con indifferenza la giacca inzuppata d’acqua. CYR (arrogante) Non fare cinema, calma: importante che il nostro maestro sia in buona compagnia. Roger sgrana gli occhi fissando prima Cyr e poi la bottiglia di vino.

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ROGER Cosa diavolo vuoi dire? Hai messo un’altra... al posto della mia? CYR (petulante) Oui monsieur. Un Chateau Mouton De Longueville 1982 della mia collezione privata accompagna Jacques. Roger si avvicina a Cyr, naso contro naso, sotto un acquazzone sempre più violento. ROGER (rabbioso) French shit. Baron de Longueville, ora vedrai! Roger, si volta di scatto e sempre più fradicio si dirige lesto verso il cimitero. CYR (a voce alta) Ma cosa vuoi fare, cowboy? Un tuono esplode fragorosamente. ROGER (urlando) Che Dio mi fulmini se non rimetto mia bottiglia accanto a Jack! Cyr sorride scuotendo la testa. Un altro tuono esplode ancora più forte del primo. ROGER (fuori di sé) E che Dio mi strafulmini se non mi bevo your shitty Chateau alla mia salute. Cyr fa una smorfia di paura, stringe i pugni dalla rabbia, rincorre Roger imprecando sotto la pioggia.

15. EST. / INT. CASA DI SEVERINO - GIORNO Una casetta adiacente all’ingresso del cimitero. All’interno Severino sta apparecchiando la tavola con del pane, formaggio e salame. Una bottiglia di vino senza etichetta troneggia sulla credenza: Severino apre un cassetto e prende un cavatappi.

16. EST. CIMITERO - GIORNO Roger si avvicina alla tomba di Giacomo. Si guarda intorno e trova la pala usata da Severino. Appoggia la bottiglia sulla lapide e sotto il diluvio comincia a scavare. Cyr lo raggiunge e tenta di fermarlo. CYR Ma sei impazzito? Un po’ di rispetto per i morti! Cyr afferra la pala nelle mani di Roger.

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ROGER Via quelle sporche mani. Tra i due inizia un violentissimo tira e molla per il possesso della pala che, ondeggiando pericolosamente, colpisce la bottiglia di Roger mandandola in frantumi.

17. INT. CASA SEVERINO - GIORNO Severino, con la bottiglia di vino in mano e il cavatappi nell’altra, sobbalza all’improvviso rumore di vetri rotti proveniente dal cimitero. Posa bottiglia e cavatappi sulla credenza, afferra un ombrello ed esce svelto di casa.

18. EST. CIMITERO - GIORNO Severino entra nel cimitero e, sorpreso, scorge Roger e Cyr fradici e infangati. Roger è inginocchiato sulla tomba di Giacomo e piange di un pianto nervoso. Cyr, seduto per terra alle spalle di Roger, sbuffa. SEVERINO Cosa fate lì? Colti di sorpresa Roger e Cyr si guardano attoniti. Cyr indica la tomba di Giacomo. CYR (balbettando) Volevamo salutarlo ancora una volta... SEVERINO (commosso) Oh Signur, ma siete marci come pulcini. Venite dentro che ci mangiamo una fetta di salame insieme, come avrebbe voluto la buon’anima di Giacomo.

19. INT. CASA SEVERINO - GIORNO Severino entra in casa e si avvicina alla credenza. Alle sue spalle Roger e Cyr, zuppi d’acqua, esausti, si siedono al tavolo in silenzio. Severino stappa la bottiglia, si volta verso Cyr e Roger con un sorriso un po’ gioviale e un po’ ebete. SEVERINO Gradite anche un bicchierino? Roger e Cyr annuiscono con il capo senza alzare lo sguardo, Severino riempie tre bicchieri e li porta in tavola. Prende il suo e lo alza con fare cerimonioso. SEVERINO A Giacomo. Cyr e Roger alzano in alto i bicchieri.

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CYR A Giacomo. ROGER A Giacomo. Severino beve soddisfatto il vino tutto d’un fiato. Roger lo assaggia con indifferenza. Cyr lo sorseggia, posa il bicchiere, corruga le sopracciglia. Riprende il bicchiere in mano, ne beve un altro sorso, porta il bicchiere all’altezza degli occhi e lo guarda in controluce, inclina il bicchiere a 45 gradi fissandolo, riporta il bicchiere all’altezza degli occhi, lo fa ruotare lentamente su se stesso e lo porta all’altezza del naso inspirando più volte, beve un altro sorso, inspira attraverso i denti, muove il vino all’interno della bocca, espira, deglutisce ed espira ancora. CYR Il mio Chateau... Roger si desta alzando un sopracciglio e guarda Cyr che, scattando in piedi, incalza Severino. CYR Dove hai preso questo vino? Severino si volta verso la credenza dove è appoggiata la bottiglia. SEVERINO (candidamente) Sulla credenza. Cyr alza gli occhi al cielo e si avvicina alla bottiglia. Con le dita sfiora il rilievo dello stemma araldico. CYR Il mio Chateau Mouton 1982, il mio Chateau Mouton per Jacques. Roger inizia a ridere, sempre più forte. ROGER Neanche i morti lo vogliono il tuo Chateau. Cyr si volta di scatto verso Roger e Severino. CYR (rivolto a Roger) Tais-toi! Cyr prende per il bavero Severino, strattonandolo, sotto lo sguardo sempre più divertito di Roger. CYR Croque-mort, beccamorto, sei stato tu? Tu... Severino tenta invano di divincolarsi dalla morsa di Cyr.

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SEVERINO Mi? Ma no, è stata la volontà del Signore. Roger ride a crepapelle, alza il suo bicchiere di vino ancora pieno. ROGER Come promesso, bevo il tuo Chateau Mouton alla mia salute. Cyr, accecato dalla rabbia, si avventa su Roger e i due ricominciano ad azzuffarsi. Severino li guarda con sufficienza, si riempie un altro bicchiere, apre la porta di casa e appoggia un fianco allo stipite, contemplando la coda del temporale che sta lasciando il campo a raggi di sole che illuminano, come lame dorate, i vigneti accanto al cimitero. Mentre Cyr e Roger si azzuffano rumorosamente, Severino beve una lunga sorsata di vino fissando l’ingresso del cimitero. SEVERINO (sorridendo) Can e gat. Fabio Bettinelli, nato a Ivrea (TO) il 23 ottobre 1972, ha frequentato i corsi di sceneggiatura della Scuola Holden di Torino ed è diplomando in Regia e Fotografia presso l’Accademia Griffith di Cinema, a Roma. Ha scritto e realizzato cortometraggi e video selezionati da numerosi festival tra cui: il Torino Film Festival (2004), la mostra TIP alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (2004), il CorTorino (2005), il Festival TV di La7, 25a Ora - Il Cinema Espanso (2006), e ha realizzato video per produzioni teatrali, tra cui Rosettafu di Barbara Altissimo.

Marcella Bianchi Girani, outsider del gruppo sia per età che per esperienza specifica nel settore. Traduttrice-interprete, si occupa da anni di corsi di formazione pre e post diploma, sia aziendali che per conto d’importanti Centri regionali. Ha al suo attivo la traduzione di sceneggiature per società torinesi leader nell’animazione. Inoltre, da due anni collabora, come coordinatore progetti/promoter, con un’associazione culturale torinese operante nel sociale. Alberto Dessimone, laureato in giurisprudenza, autore e story editor di Torino, ha frequentato i corsi di sceneggiatura della Scuola Holden, il master di sceneggiatura Tracce, a Roma, e un corso di formazione per story editor a Torino. Menzione speciale a Bassa in Corto 2005 e quarto classificato al Roma Film Corto 2005 con la sceneggiatura Le Piccole Antenne, secondo classificato a Venezia al concorso Donna, Madre, Lavoratrice con la sceneggiatura Per crescere un figlio ci vuole un villaggio, finalista al concorso Corto Sicuro 2007 con il cortometraggio 120 decibel diretto da Matteo Silvan.

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Roger... estrae dalla borsa una bottiglia di vino: sollevandola verso l’alto la ammira fiero e, strizzando un occhio, la ripone soddisfatto dentro la bara. Cyr si affaccia rispettosamente alla camera ardente facendosi il segno della croce e si avvicina alla bara. Nota la bottiglia di vino lasciata da Roger, l’afferra con irritazione... Rassicurandosi con la coda dell’occhio di non essere visto, Cyr prende una bottiglia senza etichetta e con uno stemma araldico lavorato sul vetro...

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... dopo averne baciato lo stemma con aria trasognata, la sostituisce a quella nella bara. All’improvviso, la voce di un uomo... Alle sue spalle Don Geremia e i due chierichetti lo osservano in silenzio. Piegandosi leggermente in avanti, quasi prostrandosi sulla bara, avvolge con difficoltà la bottiglia di Roger nella giacca... Entra nella camera ardente Severino e si avvicina alla bara con Don Geremia: stupiti, i due scorgono la bottiglia di vino lasciata da Cyr.

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STORIA DI IGNAZIO di Giuliana Dea PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO Si può cambiare il mondo? Esporsi in prima persona, per denunciare i crimini che si consumano quotidianamente nelle nostre metropoli, serve davvero a qualcosa? Ignazio, il protagonista del cortometraggio firmato da Giuliana Dea, pensa di no. Ma sarà proprio la sua rassegnazione, mischiata alla paura, a chiuderlo in un quel muto cinismo e in quell’indifferenza che daranno luogo all’esito drammatico della sua storia, per l’appunto la Storia di Ignazio. Martin Luther King scriveva: “Non ho paura dei violenti, ma del silenzio degli onesti.” E Giuliana Dea, attraverso l’acuta parabola che propone, sembra sottoscrivere in pieno questa affermazione.

Questo cortometraggio è nato come esercitazione durante il corso Rai-Script. L’esercizio consisteva nel costruire una storia serializzabile con Ignazio, personaggio dato in partenza, come protagonista. Già dall’inizio il mio interesse nei confronti di Ignazio è stato rivolto alla sua intima convinzione per cui le cose non cambiano, non possono cambiare ed è meglio non impicciarsi negli affari degli altri. Ma non bastava. Per raccontare questo aspetto del protagonista avevo bisogno di metterlo in contrapposizione con un carattere completamente opposto al suo, che entrasse in conflitto con lui in modo naturale. Ho scelto quindi una sorella combattiva, vedova di un ex operaio sindacalista e figlia orgogliosa di un padre antifascista che, per restare fedele ai propri principi, non si è mai schierato con il regime. Laddove Ignazio è il disincanto, Maria è la rappresentazione ingenua dell’idealismo e dei principi a oltranza. Per di più, Maria è permalosa, come tutti quelli che sono convinti di essere dalla parte della ragione, e la lite a casa sua è il degno finale di ogni discussione con il fratello. La mia scelta di mettere Ignazio a contatto diretto con le conseguenze delle sue convinzioni è una carognata, ma fa parte del mestiere dello sceneggiatore e rispecchia perfettamente quello che è il mio pensiero. Io sono dalla parte di Maria, anche se la faccio incontrare con il suo assassino. La sua morte dovrebbe servire a Ignazio come lezione, come presa di coscienza: non immischiarsi, qualche volta, ha delle conseguenze anche sulla propria vita. Questo Ignazio lo sa, ma non riesce a smentire se stesso. E anche se la sua reazione può sembrare vigliacca, è l’unica possibile. Giuliana Dea

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1. EST. EDICOLA - GIORNO All’interno di un’edicola si intravede dietro una pila di quotidiani IGNAZIO, un uomo sulla sessantina, con un paio di occhiali spessi, che sistema riviste e libri appena arrivati. Si avvicina un avventore, l’INGEGNERE, dall’aria distinta, ben vestito. Ignazio prende un quotidiano e una rivista e li porge all’ingegnere. IGNAZIO Buongiorno, ingegnere. È arrivato... L’ingegnere annuisce, in segno di approvazione. Da una tasca interna del cappotto toglie un portafogli. Porge a Ignazio una banconota da 20 euro e attende il resto. INGEGNERE Ignazio... Ignazio comincia a contare il resto in moneta. IGNAZIO Serve qualcos’altro? INGEGNERE No, no... Una curiosità. Si è saputo più niente? Ignazio consegna il resto scuotendo la testa. IGNAZIO Ma cosa vuole... La signora Franca non è nemmeno andata in questura. Ci voleva una giornata intera, e chi gliela ripaga? Non ha neanche un aiutante... Si avvicina la SIGNORA QUARTUCCI, una donna sulla cinquantina. SIGNORA QUARTUCCI (borbottando) Così si fa. E intanto c’è un altro ladro in giro... L’ingegnere sorride. IGNAZIO Lo so anch’io, signora Quartucci, ma cosa crede? Che la polizia riesce a trovarlo? La signora Franca non l’ha neanche visto bene in faccia... E poi qui in zona hanno rubato in dieci negozi in tre mesi... Sa quanti ne hanno presi? Ignazio fa un cenno con le mani, a indicare ‘nessuno’. La signora sbuffa. L’ingegnere la osserva divertito. SIGNORA QUARTUCCI Dammi Gioia, va’.

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INGEGNERE È bello vedere che ci sono ancora signore idealiste... IGNAZIO (porgendo alla signora la rivista) Dice così perché non ne ha una in casa... Mentre l’ingegnere ride, la signora Quartucci lancia un’occhiataccia a Ignazio, paga e si allontana. STACCO

2. INT. CASA DI MARIA - GIORNO Ignazio è seduto al tavolo di un salotto modesto ma tenuto bene, sullo sfondo foto di matrimonio e genitori con bambino. Il tavolo è apparecchiato per due, ma uno dei due posti è vuoto, un piatto di spaghetti intonso fa compagnia a Ignazio che invece mangia tranquillamente. MARIA (VFC) ... ma certo, perché tu sei il solito egoista... Tanto che problema c’è se fuori c’è un ladro in giro a rapinare i negozi? Basta che non capita a te! (pausa) Anche se non spara, la cosa è grave. Ignazio continua a mangiare facendo finta di nulla. Prende il telecomando di fianco al suo posto e cerca di spegnere la voce di Maria, poi accende il televisore. Compare sullo schermo l’immagine di una fabbrica e di operai fuori dai cancelli, in sciopero. Ignazio riprende a mangiare. SPEAKER TELEGIORNALE ... Continua lo sciopero alla ALUTAL per protestare contro il provvedimento di drastica riduzione del personale e il trasferimento dell’attività in Corea deciso dai dirigenti della società. COMMENTI DI OPERAI E SINDACALISTI IN DIRETTA IN SOTTOFONDO. IGNAZIO (VFC, SOVRAPPOSTA ALL’ULTIMA FRASE DELLO SPEAKER) Maria, vieni... c’è la fabbrica del Massimo. Le immagini degli operai lasciano il posto a un’intervista con un uomo di mezza età. Sul sottopancia compare la scritta: LUCIANO RICCIOTTI - DIRETTORE DELLO STABILIMENTO. MARIA, una donna in carne, sui 50 anni, vestita di gonna e maglioncino, esce di corsa dalla cucina. Ignazio toglie gli occhiali, li appanna col fiato e li pulisce nel tovagliolo, poi li rimette. Mette a fuoco il viso di un uomo di forse 35 anni. IGNAZIO È mica il figlio del Ricciotti? Maria sbuffa. Rientra in cucina. MARIA (VFC) Proprio lui.

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RICCIOTTI In realtà la fabbrica non sta chiudendo. Purtroppo siamo obbligati a ridurre il personale ricorrendo alla cassa integrazione per proteggere i nostri operai. La multinazionale che ci ha assorbiti ritiene il costo del lavoro in Italia insostenibile. IGNAZIO E sì che sembrava un babbeo... Maria rientra in salotto, appoggia il piatto sotto il naso del fratello e si siede trascinando la sedia. MARIA Il babbeo tra poco lascia a casa tuo nipote. Da quando è lui il direttore non si ragiona più. IGNAZIO Neanche con lo sciopero? MARIA (con fervore) Maccccché! Ancora un po’ e gli manda contro l’esercito. Ignazio sorride. IGNAZIO E il Massimo? MARIA (con orgoglio) Ah, tuo nipote avanti così si incatena ai cancelli... IGNAZIO Uguale a suo padre... Ignazio abbassa la testa guardando il piatto. MARIA Sì, uguale a suo padre! E allora? IGNAZIO Tuo marito cosa ci ha guadagnato a fare il sindacalista? MARIA E senza quelli come Giuseppe gli operai dove li trovavano gli stipendi migliori, le ferie pagate, il diritto allo sciopero... Ignazio taglia un bel pezzo di carne. IGNAZIO ... La mobilità... la cassa integrazione... e un bell’infarto a 42 anni.

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Maria si volta, prende i piatti con rabbia e va in cucina. Ignazio sospira e beve un sorso di vino.

3. EST. EDICOLA - GIORNO L’orologio di Ignazio segna le 15.00. La piazza è relativamente tranquilla, l’edicola non è intasata da avventori. Ignazio si dedica alla lettura: sfoglia una rivista. Davanti all’edicola passa una DONNA ANZIANA, che trascina faticosamente la gamba destra. Ignazio dà un’occhiata alla donna, poi torna a leggere. La lettura di Ignazio viene bruscamente interrotta dall’URLO DELLA DONNA ANZIANA. Ignazio, per lo spavento, lascia cadere la rivista, si solleva e guarda nella direzione della donna. Mette a fuoco un UOMO, di schiena, che cerca di strappare la borsa alla donna anziana. URLA DELLA DONNA Ignazio non si muove. L’uomo riesce a strappare la borsa a fatica, e per il contraccolpo si volta in direzione di Ignazio. È un RAGAZZO BIONDO, con un cappello calcato sulla testa ma il viso ben riconoscibile. Non ha più di 20 anni. Ignazio riesce a vederlo bene. Il ragazzo scappa, e quando è lontano Ignazio esce dall’edicola e si avvicina alla donna, ancora scossa e spaventata. IGNAZIO Signora, si è fatta male? Ignazio aiuta la donna a sedersi. La donna comincia a piangere. Le urla della donna hanno attirato alcuni PASSANTI. Una RAGAZZA prende un cellulare e compone un numero. RAGAZZA Sì, c’è stato uno scippo, una donna ha bisogno di un medico... STACCO I PORTANTINI dell’ambulanza, due persone vestite di bianco, aiutano la donna a sollevarsi. SIRENA DI UN’AMBULANZA CHE SI ALLONTANA Un POLIZIOTTO interroga la ragazza del cellulare che fa un cenno di negazione con la testa. RAGAZZA Ho solo sentito urlare. Sono arrivata e ho visto un cerchio di persone, e in mezzo il signore con gli occhiali... (indica Ignazio) che cercava di calmare quella poveraccia... Il poliziotto chiude il suo blocco, ringrazia la ragazza e si avvicina a Ignazio.

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POLIZIOTTO È lei che ha trovato la donna? Ignazio deglutisce. IGNAZIO Beh... sì... Guarda in basso, cercando un punto, poi toglie gli occhiali, li pulisce, li rimette sul naso. Il poliziotto si accorge della sua titubanza. POLIZIOTTO Stia tranquillo, sono poche domande di routine. Niente di complicato. Ha visto qualcosa che ci possa aiutare? Ignazio continua a muovere la testa in segno di negazione. IGNAZIO No... Ero seduto a leggere... L’edicola di fronte è mia... E ho sentito gridare... Ho visto un’ombra di spalle che correva via... E la signora a terra... Il poliziotto prende nota. POLIZIOTTO Sicuro di non averlo proprio visto in faccia? Non si è voltato per nulla? INSERT Viso del ragazzo biondo in primo piano, serio. IGNAZIO (VFC) No... IN DISSOLVENZA Il viso del ragazzo viene sostituito da quello del poliziotto, concentrato sul suo taccuino. Ignazio distoglie lo sguardo dal poliziotto. IGNAZIO ... non si è voltato. Il poliziotto scrive tutto quello che dice Ignazio. POLIZIOTTO E non ha notato nessun segno particolare? Ignazio scuote la testa con convinzione. IGNAZIO Non ho notato niente...

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Il poliziotto lo guarda fisso, poi chiude il taccuino rassegnato. POLIZIOTTO Se dovesse ricordare qualcosa, ci avverta subito.

4. EST. EDICOLA - SERA Sulla piazza della stazione è calata la sera, l’orologio di Ignazio segna le 19.00. Ignazio chiude le saracinesche del chiosco. Un lampione illumina il punto dove è avvenuto lo scippo. Ignazio lo guarda. Infine si incammina.

5. INT. CASA DI IGNAZIO - SERA Ignazio è in cucina, con il fornello acceso sotto una pentola d’acqua. Su un tagliere affetta la cipolla. SPEAKER TELEGIORNALE (VFC) ... nuovo scippo nella zona industriale, a distanza di due settimane dalla rapina al supermercato. Ignazio smette di tagliare la cipolla e si sposta in salotto a guardare le immagini. Vede sullo schermo la sua edicola, la piazza, le immagini del pronto soccorso e la donna che parla al microfono. SPEAKER TELEGIORNALE Una donna di 70 anni è stata aggredita da un uomo non identificato, che l’ha lasciata tramortita sul marciapiede. Gli abitanti della zona, considerata per tradizione tra le più tranquille della città, cominciano a sentirsi in pericolo. Ignazio sbuffa. IGNAZIO Esagerati... SIGNORA QUARTUCCI (VFC) Non si può andare avanti così. C’è da aver paura a uscire di casa. Nessuno vede niente, nessuno fa niente... Ignazio si toglie gli occhiali e li pulisce. Li rimette e adesso è a fuoco sul televisore l’immagine di un UOMO DI MEZZA ETÀ con la scritta in sovrimpressione: ISPETTORE MOSER. ISPETTORE Ci stiamo impegnando a tenere sotto controllo tutto il territorio, ma non possiamo essere onnipresenti. C’è bisogno della collaborazione dei cittadini. Ignazio rientra in cucina e riprende a tagliare la cipolla, aumentando gradualmente la velocità. GIORNALISTA (VFC) Quindi secondo lei è colpa dei cittadini se la polizia non trova i colpevoli?

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ISPETTORE (VFC) Se i cittadini si ricordassero di avere anche dei doveri il lavoro delle forze dell’ordine sarebbe sicuramente più semplice...

6. INT. CAMERA DI IGNAZIO - NOTTE Ignazio si sveglia di soprassalto, si guarda intorno. Riconosce la finestra chiusa da cui filtra la luce lunare, e nella penombra intravede l’armadio, lo specchio, il comò e la sponda del letto. Si trova in camera sua. Si alza dal letto ed esce dalla stanza.

7. INT. CUCINA DI IGNAZIO - NOTTE Ignazio è seduto al tavolo, davanti a una tazza di camomilla. La tiene con entrambe le mani, senza decidersi a berla. STACCO A NERO

8. EST. EDICOLA - GIORNO Ignazio arriva all’edicola. L’orologio segna le 06.30. I lampioni sono ancora accesi e lo spiazzo davanti all’edicola è illuminato. A Ignazio sembra che l’asfalto sia più luminoso nel punto in cui ha visto lo scippo. Ignazio si volta e comincia a tirare su le serrande dell’edicola. Sollevata l’ultima, si volta di nuovo. Le luci dei lampioni sono spente, la strada è tutta grigia allo stesso modo. STACCO Ignazio è seduto dietro la pila di giornali. Sono le 07.30. L’ingegnere arriva puntuale. INGEGNERE Buongiorno, Ignazio... Ignazio grugnisce qualcosa che l’ingegnere non capisce. Gli porge il suo giornale senza aprire bocca. L’ingegnere, sorpreso, guarda Ignazio. INGEGNERE Qualcosa non va? Ignazio fa un cenno di negazione con la testa. SIGNORA QUARTUCCI Ma come, ingegnere, non ha saputo?

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L’ingegnere si volta. Ignazio prende la Settimana Enigmistica. INGEGNERE (VFC) No... Cosa dovrei sapere? SIGNORA QUARTUCCI (VFC) Hanno scippato una donna qui davanti. Mi hanno intervistata, sa? Ieri sera ero al telegiornale... Ignazio si nasconde dietro le sue pile di giornali. L’ingegnere si volta, cerca Ignazio, con una banconota da 5 euro in mano. INGEGNERE Ma come... Ignazio ricompare alla sua vista. Prende la banconota e gli porge il resto. IGNAZIO Eh... Uno col cappello sulla testa è passato e ha strappato la borsa... INGEGNERE E tu l’hai visto? IGNAZIO (titubante) Mah... Io ho visto la signora per terra... INGEGNERE E com’è possibile? Sei a due metri di distanza e non ti sei accorto di niente? Ignazio non sa cosa rispondere. SIGNORA QUARTUCCI (sbrigativa) Anche lei, ingegnere, che domande fa? Ignazio è vecchio e ha due fondi di bicchiere! Cosa vuole che ha visto? Ignazio guarda oltre l’ingegnere, dove ha visto lo scippo. INGEGNERE (VFC) Non so... magari ha sentito un urlo... Eh, Ignazio? Ignazio guarda l’ingegnere e la signora Quartucci, con l’aria spaventata. Deglutisce.

9. INT. CASA DI MARIA - GIORNO Maria, seduta alla tavola apparecchiata, guarda Ignazio che invece di mangiare sospira, nervoso. Il piatto davanti a lui è intonso. Prende la forchetta, infilza un paio di maccheroni al sugo e non riesce a portarli alla bocca.

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MARIA Si può sapere cos’hai? Ignazio è imbarazzato. Continua a giocherellare con la forchetta, rivoltando la pasta nel piatto. IGNAZIO Ma niente... Ho fatto un brutto sogno. Maria annuisce, si alza. Entra in cucina. MARIA (VFC) Te, i brutti sogni non ti sono mai piaciuti. Maria ritorna con una bottiglia d’acqua e una pastiglia. MARIA Manda giù. Ignazio prende la pastiglia in mano. La rigira tra le dita. IGNAZIO Che porcheria è? MARIA (VFC) Valeriana. La prendeva Giuseppe tutte le mattine delle assemblee sindacali. Tutte erbe. Ignazio ingoia la pastiglia e beve un sorso d’acqua. IGNAZIO Come va alla fabbrica? MARIA Hanno ripreso il lavoro stamattina. Massimo dice che reggono un mese. Poi a spasso. IGNAZIO (sarcastico) Ecco a cosa servono gli scioperi... Maria sbuffa. MARIA Ma tu da dove sei uscito così? Non sei mica figlio di tuo padre... IGNAZIO Buono il papà... Diserta per combattere contro i tedeschi e gli sparano. Torna a casa e chiede di tornare a lavorare. Il comune gli risponde: “Lei risulta iscritto al Partito Fascista.” Guarda la famiglia del Ricciotti... Tutti fascisti della prima ora, e appena finisce la guerra, chissà com’è, son diventati tutti socialisti...

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MARIA (urlando) Ma il papà aveva la sua coscienza! IGNAZIO Altro che la coscienza serve... Guardalo, il figlio babbeo del Ricciotti. Senza la coscienza ha studiato, è diventato dirigente e adesso manda a spasso tuo figlio! MARIA (urlando) Smettila! IGNAZIO (infierisce) Con la coscienza di Giuseppe non avete finito di pagarci il mutuo... Maria esce esasperata. Ignazio guarda la valeriana, la ingoia e beve il bicchiere d’acqua. STACCO

10. EST. EDICOLA - GIORNO Ignazio continua il suo lavoro. Guarda l’orologio. Segna le 17.00. Prende il cellulare. Digita un numero, porta il cellulare all’orecchio. IGNAZIO Maria... Sei arrabbiata? (pausa) Lo sai come sono fatto... Apro bocca e dò fiato... (ride) Dov’è che vai a fare la spesa? (pausa) Allora prendimi un litro di latte e portamelo qui... (pausa) Ti aspetto. STACCO La piazza è illuminata dalla luce del crepuscolo e dalla luce dei lampioni accesi. Ignazio consegna il resto a un cliente. La piazza sembra quasi vuota. In lontananza si vede una figura che Ignazio non mette subito a fuoco. Toglie gli occhiali e li rimette. Adesso riconosce la sorella, con la borsa al braccio, che si avvicina all’edicola. MARIA Guarda che al ritorno non passo da casa. Vado dalla Giusi. IGNAZIO A fare cosa? MARIA (seccata) C’ha lì una gonna nuova. Deve farle l’orlo... (sbuffa) Gliel’avrò fatto vedere venti volte, come si aggiusta l’orlo... Te come fai, senza latte? Ignazio scrolla le spalle.

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IGNAZIO Eh... Faccio senza. Prendilo lo stesso, va’... Lo porto via dopo pranzo. Maria annuisce, si allontana, poi ci ripensa. MARIA Domani faccio le lasagne. IGNAZIO Lasagne... Cos’è, festa nazionale? Maria si allontana, riprendendo la sua direzione. MARIA Fai poco lo spiritoso che se cambio idea mangi pastina in brodo... Ignazio ride. La sorella è già a qualche metro dall’edicola, quando mette fuori la testa. IGNAZIO Maria... Maria si volta. IGNAZIO Prendi il vino. (pausa) Quello buono, neh... Maria risponde con un gestaccio inequivocabile al fratello, poi si volta di nuovo. STACCO Ignazio abbassa le saracinesche. L’orologio segna le 19.00. Ignazio si incammina.

11. INT. CASA DI IGNAZIO - NOTTE Ignazio entra a casa e accende la luce. Va in bagno. SQUILLO DEL TELEFONO IGNAZIO (VFC) Vengo, vengo... SCIACQUONE DEL WATER Ignazio si avvicina al telefono. Solleva il ricevitore.

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IGNAZIO Pronto? Sul volto di Ignazio si dipinge ad ogni parola che ascolta una maschera di terrore. DISSOLVENZA A NERO

12. INT. DISTRETTO DI POLIZIA - NOTTE Seduto a una scrivania l’ispettore, con aria distaccata, guarda lo schermo di un computer. ISPETTORE Un balordo con problemi di alcol e droga... La pistola non è sua. Dice che l’ha presa a uno spacciatore. Era ricercato per piccoli furti, qualche scippo... Di fronte al poliziotto siede il COMMISSARIO, una donna di forse 40 anni. COMMISSARIO ... fino ad oggi. La donna si alza, guarda dalla finestra che dà direttamente sul corridoio. Vede Ignazio, seduto su una panca, con una busta tra le mani. ISPETTORE (VFC) La vittima si chiamava Maria Costa, vedova Ceccotti. Era entrata al minimarket per fare la spesa, lo ha visto puntare la pistola contro la cassiera e ha urlato. Il rapinatore si è spaventato ed è partito un colpo. COMMISSARIO Parenti? In corridoio, Ignazio apre la busta con gli effetti personali di Maria: la borsa, la fede, la catenina con l’immagine della Madonna... Rimette tutto nella busta, delicatamente. ISPETTORE (VFC) Un figlio che non riusciamo a contattare. E il fratello. È ancora qui. (pausa) Vorrebbe vederlo. Nell’ufficio entra un POLIZIOTTO con una scheda segnaletica in mano. La donna continua a guardare Ignazio, che tiene la busta chiusa con entrambe le mani, stretta. La donna si volta. COMMISSARIO Dammi la scheda segnaletica. Il poliziotto consegna alla donna la scheda. La donna esce dall’ufficio. Si avvicina a Ignazio. COMMISSARIO Signor Costa...

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Ignazio si volta. Guarda la donna, che gli consegna la scheda segnaletica. Ignazio esita, poi la prende. Guarda prima la foto di profilo, poi quella frontale, senza riuscire a mettere a fuoco. Pulisce gli occhiali e li rimette. Quando guarda di nuovo, l’immagine mostra il ragazzo che ha scippato la vecchietta. Ignazio sbarra gli occhi. COMMISSARIO Signor Costa, che cos’ha? (pausa) Lo conosce? Ignazio deglutisce. Guarda la foto con attenzione: gli occhi, i capelli, la bocca... Ignazio deglutisce. Porge di nuovo la segnaletica alla donna. IGNAZIO No. Non l’ho mai visto prima. La donna guarda Ignazio, poco convinta. Poi si volta e rientra nel suo ufficio, lasciando Ignazio solo, nel corridoio della questura affollata. DISSOLVENZA A NERO VOCI DI PERSONE IN LONTANANZA

Giuliana Dea, diplomata in sceneggiatura alla Civica Scuola di Cinema di Milano, ha firmato come soggettista due documentari: Viaggio intorno a Miracolo a Milano e Giulio Cingoli - Il gioco del mondo nuovo, del quale ha curato anche la regia. Nel 2003 ha scritto la sceneggiatura dello spettacolo multimediale My Own True Love. Dopo il corso Rai-Script lavora come dialoghista per diverse soap. Il suo soggetto, L’ultima estate sul lago, ha ricevuto una menzione al Sonar Subject 2006 e il suo primo romanzo sarà pubblicato nel 2008 da Delos Books.

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Ignazio non si muove. L’uomo riesce a strappare la borsa a fatica, e per il contraccolpo si volta in direzione di Ignazio. Ăˆ un ragazzo biondo, con un cappello calcato sulla testa ma il viso ben riconoscibile. Non ha piĂš di 20 anni. Ignazio riesce a vederlo bene.

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L’ULTIMO FLASH di Erica Liffredo PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO

Il progetto di Erica Liffredo ci ha colpito perché racconta un secondo allucinante Viaggio al termine della notte, una nuova discesa agli inferi senza scampo, “tombale” per i due protagonisti che, a causa dell’ingordigia di uno dei due, sono costretti a ricorrere nuovamente alle proprie meschine risorse per ottenere la droga. Ma L’ultimo flash è anche un gioco sul punto di vista, dove alla fine l’escalation di violenza della strada si perpetua indossando gli abiti puliti delle istituzioni. Una beffa assurda, un non-sense per i protagonisti che altri non sono se non carnefici di strada e vittime di un potere superiore, che muoiono per quella stessa legge violenta che schiaccia il più debole. Il finale è un momento cruciale perché, attraverso il tema kubrickiano, scioccante e sublime, del fascino estatico dell’ultraviolenza, lo sguardo dello spettatore è come se si fermasse idealmente alle soglie del centro di recupero, sulla strada, laddove può soltanto immaginare gli orrori potenziali della normalità. L’Ultimo flash affonda le sue radici nel mondo reale, quel mondo in cui a volte si viene proiettati violentemente, come gettati a terra da un colpo di pistola, rapido e inaspettato. Spesso si dice che la realtà supera i limiti dell’immaginazione. Con l’immaginazione ho provato a superare i limiti della realtà. Il soggetto è nato dall’intrecciarsi e dal mescolarsi di storie sentite raccontare, da esperienze non vissute, ma viste vivere. Si sono rintanate in un angolo della memoria e del cuore per esplodere in questa storia. Le ho volute portare all’eccesso, per vedere cosa sarebbe accaduto. E il risultato è stato un mondo assurdo, cinico, portato all’autodistruzione e alla distruzione dell’altro in una sorta di implosione che cattura i protagonisti e li trascina in un vortice senza uscita. I personaggi sono imprigionati in un gioco di scatole cinesi dove l’inseguitore è in realtà l’inseguito, lo sfruttatore lo sfruttato, il salvatore il carnefice. Forse con questa sfida alla realtà ho voluto esorcizzare l’avvento di un mondo come questo, inaccessibile anche al più piccolo spiraglio di luce, ironicamente sadico. Erica Liffredo

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1. INT. BAGNO DISCOTECA - NOTTE ELISA è davanti al grande specchio che occupa una parete del bagno e sta guardando la propria immagine riflessa. Le sue mani dalle dita affusolate sono appoggiate al piano di marmo in cui sono incastonati i lavandini. Il lavandino di fianco a lei è intasato: residui di vomito, di carta igienica e un bicchiere di plastica vi galleggiano, ma ad Elisa sembra non importare. Ad uno sguardo più attento si notano le profonde occhiaie scure che segnano il suo giovane volto dai contorni delicati, deturpato da molte, piccole, crosticine. Lunghi capelli neri scendono disordinati sulle sue ossute spalle. La porta del bagno si apre e FORTE si sente il rumore della MUSICA, che torna attutito non appena la porta si richiude. Entrano due ragazze ubriache che a stento si tengono in piedi. RIDONO. Una si appoggia alla parete dietro Elisa, è visibilmente fuori: ha i capelli colorati, spettinati, il trucco sfatto, le calze strappate. L’altra entra rapida nel gabinetto, senza neanche chiudere la porta, si SENTE che sta VOMITANDO. Elisa è sempre immobile. Con la mano destra inizia, come se fosse un riflesso condizionato, a grattarsi l’altro braccio, anch’esso deturpato da alcuni piccoli lividi e da crosticine.

2. INT. DISCOTECA - NOTTE ELISA apre la porta del bagno. Esce barcollando. I suoi occhi sono persi in uno sguardo vuoto. Cammina tra quell’ammasso di carne umana che balla impazzita. C’è gente dappertutto. Ballano sui tavolini, sulle poltrone, ovunque. Forte e assordante il RUMORE della MUSICA copre ogni altro suono. Il RITMO è veloce, si sente il BATTITO DEL CUORE di Elisa accelerare così tanto che sembra debba esploderle nel petto. Le luci intermittenti, vibranti, colorate, danzano al ritmo della musica. Elisa vede ciò che le sta intorno a tratti, come illuminato dai flash continui di una macchina fotografica. Tante facce, tutte diverse, piene di piercing: al naso, alla bocca, al sopracciglio, spille infilzate nelle guance, catene al collo, borchie ovunque, creste verdi, rosse, arancione. Tutti sono sudati, sempre in movimento, tanto frenetici da sembrare indemoniati. Tutto le sembra come deformato da una lente che rende i volti mostruosi. Elisa incespica tra la gente, sferza una gomitata a un ragazzo che intralcia il suo cammino. ELISA Togliti di mezzo! Lo guarda negli occhi, ma le sue pupille sono enormi e immobili. Si gira e vede un ragazzo alto, vestito con una tuta da ginnastica, che la sta guardando. ELISA Che cazzo vuoi? Senza aspettare risposta o reazioni gli passa oltre e continua a camminare. La sala si riempie di fumo artificiale, la nebbia le fa lacrimare gli occhi. Una smorfia si disegna sul suo viso. Inciampa in una ragazza seduta a terra. ELISA (mentre sta per cadere) Porca puttana! Riesce a tenersi in piedi. La ragazza si volta e la guarda con occhi indifferenti. ELISA Troia.

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Si gira per proseguire il suo cammino, ma subito si scontra con un tizio che, con i piedi incollati a terra, frenetico fa ruotare il braccio come se stesse sbattendo l’impasto di una torta immaginaria. ELISA Ma che cazzo ci faccio qui? Si gira e vede, a pochi passi da lei, appoggiato ad una colonna, ANGELO, che sta sorseggiando un cocktail. Si avvicina a passi rapidi. Lo afferra per un gomito. ELISA Hai visto Marco? ANGELO Ma stai ancora con quello? ELISA (nervosa) L’hai visto o no? ANGELO No. ELISA Merda, ma dove cazzo s’è nascosto? Elisa si allontana da lui, fa alcuni passi. Si ferma e si guarda intorno. Alla sua sinistra si intravede il bancone del bar, estremamente affollato, lievemente illuminato. Di fronte ci sono alcune poltrone tatticamente in penombra. Intravede MARCO seduto su una poltrona. I suoi capelli ormai si stanno diradando sulle tempie e quell’innaturale magrezza lo fa sembrare ancora più vecchio di quei 30 anni che porta sulle spalle. Elisa si avvicina. Lo osserva: ha un bicchiere di birra in mano che lentamente si sta rovesciando sui suoi jeans strappati. È immobile. Sembra in catalessi. Accanto a lui una coppia di punk gay si baciano vogliosi, le lingue ripetutamente si lasciano andare a leccate lascive, le mani infilate nei pantaloni sbottonati si agitano frenetiche. Sul viso di Elisa si disegna un’espressione di schifo dalla quale traspare un senso di nausea fisica. Comincia ad innervosirsi. È sudata. Con passo aggressivo si avvicina a Marco. ELISA (mentre cammina, ogni passo più veloce del precedente) Non ci posso credere, sempre la solita storia, che figlio di puttana, sei strafatto! Ti sei fatto senza dirmi un cazzo! Lo spinge aggressiva. ELISA (urlando) Sei un bastardo! Lo scuote con violenza, mentre Marco non oppone resistenza alcuna, sembra un inerme pupazzo fra le sue mani. Unico cenno di reazione un leggero sorriso beffardo che si disegna sulle sue labbra. ELISA Ti sei fatto, brutto pezzo di merda! Ti sei fatto senza di me! Hai finito la roba! Come faccio adesso?

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Gli dà dei pugni, la faccia a un centimetro dalla sua. ELISA Alzati! Muoviti! Dobbiamo andare! Subito! Marco rimane immobile con quell’espressione ebete. ELISA (mentre cerca di alzarlo con la forza) Muoviti ho detto! Dobbiamo andar via da qui, subito! Non ce la faccio più, andiamo! Subito ho detto! Lo solleva con una forza innaturale per la sua fragile corporatura, mentre Marco cerca di tirarsi su. Si mette in piedi a fatica. Elisa lo prende sottobraccio e si avvia decisa tra la gente verso l’uscita.

3. EST. PARCHEGGIO - NOTTE Elisa e Marco si avvicinano a una vecchia Alfa Romeo tutta scassata. Parcheggiata accanto alla loro macchina si intravede un’auto scura, la rossa luce a intermittenza della brace di due sigarette lascia percepire la presenza di due uomini, nascosti dal denso fumo accumulato dietro i finestrini chiusi. Marco si appoggia al tettuccio dell’auto, ma il suo braccio non regge e perde l’equilibrio. ELISA (nervosa) Che cazzo stai aspettando? Marco, con una lentezza insopportabile per Elisa, mette la mano destra in tasca e prende le chiavi. ELISA (mentre dà un calcio alla portiera) Stronzo! Elisa gli sottrae con violenza le chiavi dalla mano e apre la porta. Marco con un colpo della mano la scansa e si siede al posto di guida. Elisa gli getta addosso le chiavi. ELISA Datti una mossa almeno. Marco apre la porta a Elisa che veloce sale.

4. INT. AUTOMOBILE - NOTTE Marco accende l’autoradio. Il nastro dei Sister of Mercy parte deciso. Il motore si accende RUMOROSO. Elisa ALZA IL VOLUME. Imboccano la strada che conduce in periferia. L’auto corre veloce. Fuori dal finestrino le luci della città scivolano via rapide. La strada lasciata alle spalle sembra la nera scia di un motoscafo. ELISA Sei uno schifoso egoista del cazzo. (più forte) Era anche mia quella roba, o te ne sei dimenticato?

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MARCO Che palle... ELISA Dovevi chiamarmi, stronzo! MARCO Te ne vai in giro a scopare... ELISA (scoppia a ridere) Certo che detto da te, che per 400 euro al mese te lo fai mettere dentro, fa il suo effetto. Stai andando al solito posto almeno? MARCO Sì, sì. Elisa con gesti svelti si sfila le mutandine da sotto la gonna e le getta noncurante sul cruscotto. Si sistema la già corta minigonna tirandola su ancora un po’. Marco mette la freccia a destra. Ferma la macchina. Elisa scende SBATTENDO la portiera.

5. EST. STRADA - NOTTE Elisa si incammina con passo sicuro lungo il ciglio della strada. Si sente chiaro il TICCHETTIO dei tacchi sull’asfalto. Si gira. Alza il pollice per fare autostop e continua a camminare all’indietro. In lontananza si intravede la macchina scura del parcheggio. Pochi passi e una macchina mette la freccia. Accosta. Si ferma. Elisa apre la portiera e sale. La PORTIERA si richiude SONORAMENTE.

6. INT. AUTOMOBILE - NOTTE L’uomo alla guida è grasso e sporco. L’auto riparte. Elisa guarda fuori dal finestrino, mentre gli alberi del viale scompaiono. Si guarda intorno. Le scappa da ridere. Quella vecchia macchina è indecente, schifosamente sporca: il posacenere straripa di mozziconi di sigarette, una bottiglia di vino vuota rotola sul tappetino tra i piedi di Elisa. Il sedile sul quale è seduta è pieno di macchie. Si volta indietro. Il sedile posteriore è pieno zeppo di vecchi giornali, c’è anche una cassetta di legno mezza rotta, con dei residui di frutta, sembrerebbe. Fa una smorfia di schifo. Poi scoppia a ridere. Una RISATA forte, sadica. L’uomo la guarda e, senza dire nulla, infila la sua grassa e unta mano tra le sue magre cosce. Quella mano enorme è maldestra per l’ansia di scopare. Brusco fa svoltare la macchina in uno stretto vicolo buio. L’uomo spegne il motore e i fari. L’UOMO Che cazzo c’hai da ridere? Adesso ti infilo il mio cazzo in quella bocca di merda, così la pianti! Alle puttane la bocca serve solo per fare i pompini! La sua mano destra abbandona le calde cosce e afferra brutale la testa di Elisa. Con l’altra mano si sta aprendo i pantaloni e cerca frenetico, tra il grasso strabordante, il membro piccolo e voglioso. ELISA (sarcastica) Cos’è non lo trovi?

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L’uomo le stringe forte con la mano i capelli, guardandola dritto negli occhi. Elisa non riesce a trattenere un’espressione di dolore. L’UOMO (con il membro in mano) Te la faccio passare la voglia di ridere piccola puttana.(con rabbia) Ora fai quello che devi! Elisa, immobile, lo guarda negli occhi. Sorride. La luce dei fari di una macchina si riflette nello specchietto retrovisore, illuminando la scena da dietro. Si sente il RUMORE DI PASSI che si avvicinano. La portiera del guidatore si apre violentemente. La canna gelida di una pistola sulla tempia dell’uomo. MARCO (VFC) Volevi fottermi la ragazza, eh? I soldi, subito, porco schifoso! L’uomo è immobile, gocce di sudore imperlano la sua fronte. MARCO (VFC) Mi hai sentito? Marco sposta veloce la canna della pistola sul pacco dell’uomo, abbassandosi come per godersi lo spettacolo. MARCO E allora? Non penserai che non ho il coraggio di farlo? L’uomo inizia a tremare. Elisa RIDE e la sua risata diventa man mano più forte ed acuta. Avvicina la faccia al viso dell’uomo. ELISA Chi è che sta fottendo chi, adesso? Tu sei la mia puttana! L’uomo cerca di prendere il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni ma, per l’agitazione, non riesce a sfilarlo dalla tasca. MARCO Sbrigati, o ti faccio saltare quel minuscolo verme che hai tra le gambe! L’uomo finalmente trova il portafoglio e lo allunga a Marco con la mano che trema convulsamente. Marco lo afferra, prende i soldi e lo getta a terra. Elisa scende dall’auto.

7. EST. VICOLO BUIO - NOTTE Marco, con i soldi ancora stretti in mano, ed Elisa si avvicinano correndo alla macchina. Salgono. Il motore è ancora acceso. L’auto sgomma in una retromarcia nervosa. Inversione a U. A tutta velocità per la strada.

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8. EST. STRADE DELLA CITTÀ / VIA DEL CENTRO - NOTTE Di nuovo in città, la macchina corre veloce per strade conosciute: le luci dei fari del traffico notturno, i CLACSON impazziti. Marco ferma la macchina davanti al portone d’ingresso di un vecchio palazzo del centro. Marco scende dalla macchina. Sale i tre gradini che lo separano dall’ingresso. Si avvicina al citofono e senza soffermarsi preme un bottone. VOCE UOMO (VFC) Chi cazzo è? MARCO Apri Tex, sono io, datti una mossa, ho fretta. Si sente lo SCATTO della porta che si apre. Marco scompare dentro. Elisa si accende nervosamente una sigaretta. Si intravede la macchina scura passare. Elisa per un instante impercettibile incrocia lo sguardo dell’uomo seduto sul lato del passeggero. La porta si apre di nuovo, Marco esce e rapido sale in macchina.

9. INT. / EST. AUTOMOBILE - NOTTE L’auto riparte. Il respiro di Elisa è affannoso. ELISA E allora? Quanto cazzo ci hai messo? Hai tutto? MARCO Sì, sì, ho tutto, tra poco mi ringrazierai, Tex è stato più generoso del solito stasera. ELISA (sarcastica) Chissà che gli avrai mai promesso. MARCO Niente, gli ho detto che una di queste sere passavi a trovarlo e lo facevi divertire un po’! Lo sguardo di Elisa si sofferma un attimo sui pantaloni di Marco, ancora mezzi slacciati. ELISA Sì, certo. Direi che si è già divertito abbastanza. Elisa si avvicina a Marco e lo bacia sulla guancia. Marco schiaccia l’acceleratore, si sente chiaramente il ROMBO del vecchio motore portato a 4.000 giri. Le luci della città si allontanano. Marco mette la freccia, gira a sinistra in una strada sterrata. Il rumore delle GOMME SULLA TERRA accompagna il sobbalzare dell’auto. Ferma la macchina, spegne il motore, spegne i fari. C’è SILENZIO, si ode solo il frenetico trafficare delle mani che cercano ciò che serve. Il respiro di entrambi esplicita l’ansia. Da sotto il sedile Elisa sfila veloce una scatola di latta. La apre. Ognuno dei due pensa per sé. Elisa

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con movimenti rapidissimi si mette il laccio emostatico, afferra la siringa, cambia l’ago con movenza meccanica. Marco, ancora più rapido di lei, ha già preparato l’eroina. Elisa gli dà la propria siringa. Il liquido fatale entra. La siringa è di nuovo nelle mani di Elisa. Si guarda il braccio già tante volte martoriato. L’ago entra nella pelle. Il viso di Elisa si distende, a stento ha la forza di mettere via siringa e laccio. Ogni muscolo si rilassa. Chiude gli occhi. Ora il SILENZIO è totale. Lo SCRICCHIOLIO di passi sulla terra interrompe quel silenzio. Le portiere si aprono. Braccia forti, enormi, dove ogni muscolo è definito nel dettaglio, sfilano violentemente Elisa fuori dall’auto.

10. EST. STRADA STERRATA / A FIANCO DELL’AUTO - NOTTE Elisa a stento si tiene in piedi. Di fronte a lei un ragazzo dalla testa rasata, LUCA, la guarda con disprezzo. Elisa alza lo sguardo, ma sul viso traspare un’espressione immobile, ebete. ELISA (con un esile filo di voce) Che cazzo sta succedendo? SONORO, uno SCHIAFFO fortissimo la fa roteare su se stessa. Cade a terra. La maglietta bianca macchiata dal rosso del sangue che copioso esce dal labbro. Il colpo impetuoso e impietoso di una “mag-lite” enorme le fa quasi perdere i sensi. Non si muove più. Il viso è sporco di terra e di sangue mescolato alle lacrime. Un calcio la raggiunge allo stomaco. TOSSISCE più volte, come se avesse voglia di vomitare. LUCA Puoi solo strisciare e affogare nel tuo vomito. Un altro calcio. Ancora uno. LUCA Che schifo, guarda! Mi hai imbrattato le scarpe con il tuo sangue! Lecca! Le avvicina i piedi alla bocca, ma Elisa resta immobile come una bambola rotta. Un altro ragazzo, GIÒ, affianca Luca e insieme i due urlano. VOCI Guardala, la troia! Scommetto che fai i pompini anche a tuo padre per soldi! E magari tua madre sta lì a guardarvi, e magari gode anche lei! Le VOCI continuano a urlare INSULTI, ma il loro suono diventa ATTUTITO, le parole si capiscono a stento, mentre sputi raggiungono il suo corpo inerme. Sul viso di Elisa lenta scende una lacrima, che lascia una bianca scia su quel viso sporco. Piano scende il SILENZIO, le voci diventano sempre più lontane fino a scomparire. Elisa chiude gli occhi. È buio. Dall’altro lato della strada Marco giace a terra immobile. Una rossa pozza di sangue lentamente si allarga.

11. EST. / INT. AUTOMOBILE - NOTTE Giò e Luca salgono sulla loro auto scura. RIDONO. Giò avvia prima il motore, poi i fari. Si accende una sigaretta. Ingrana la retro. La macchina esce dallo stradello. È sulla strada: prima, seconda,

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terza, quarta, quinta, 0-100 in pochi secondi. Via veloci. Luca accende l’autoradio. Il disco dei Raimstein a 2.000 watt. Sono visibilmente eccitati. Luca non riesce a stare fermo. LUCA Cazzo che figata! Cazzo, cazzo, cazzo! Hai visto come sanguinava quella puttana? Giò tiene stretto il volante e guarda fisso la strada davanti a sé. GIÒ E lui? Pietà ha chiesto! Che uomo di merda! (con la voce in falsetto, imitandolo) Per favore, ti prego, non farmi del male, prendetevi lei, potete farle tutto quello che volete. LUCA È stato meglio della migliore delle mie scopate, cazzo! GIÒ Se penso al rumore delle ossa che si sbriciolano, mi viene duro. LUCA Poteva durare di più, però! A quella è bastato uno schiaffo per crollare! Giò intanto ferma la macchina davanti a un bar lungo la strada.

12. INT. BANCONE DEL BAR - NOTTE Giò e Luca si avvicinano con passo deciso allo spoglio bancone del bar. LUCA (alla cameriera) Due caffè, per favore. CAMERIERA Normali? LUCA Sì, grazie. Bevono rapidi il caffè in sincrono. Luca guarda fuori, sta albeggiando. Poi guarda l’orologio, che segna le 05.15. LUCA Cazzo se è tardi, dobbiamo andare!!! Giò butta incurante 5 euro sul bancone. GIÒ Tieni pure il resto, è di mancia. Si avviano correndo all’uscita.

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13. INT. / EST. AUTOMOBILE - NOTTE Giò e Luca sono di nuovo in macchina. L’auto si ferma in un grande parcheggio semideserto. Giò e Luca prendono dai sedili posteriori una borsa di plastica. Tirano fuori due divise bianche. Via gli anfibi militari, via la giacca di pelle. Nuova maglia bianca, pantaloni bianchi, camice bianco. Scendono dalla macchina, perfetti nelle loro linde divise da infermieri.

14. EST. SCALINATA DI UN ELEGANTE PALAZZO - NOTTE Luca è leggermente avanti a Giò. Salgono i pochi scalini che conducono all’entrata di corsa. Entrano attraverso una grande vetrata, che porta la scritta: CLINICA ANTONIETTA MAGI.

15. INT. CORRIDOIO - NOTTE Luca e Giò camminano veloci lungo un asettico corridoio deserto, le loro sagome con quella divisa sono in armonia con quel luogo freddo. Si vede campeggiare il nome del reparto nel quale lavorano: CENTRO DI RECUPERO AVANZATO PER TOSSICODIPENDENTI.

Erica Liffredo, laureata in Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Parma nel 2005, ha frequentato il Master in Editing e Scrittura di Prodotti Audiovisivi presso il Virtual Reality & Multi Media Park di Torino. Collabora a progetti di documentari con Stefilm International di Torino, dove ha svolto uno stage nel 2006, e con Aranciafilm di Bologna.

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6 Ora il silenzio è totale. Lo scricchiolio di passi sulla terra interrompe quel silenzio. Le portiere si aprono. Braccia forti, enormi, dove ogni muscolo è definito nel dettaglio, sfilano violentemente Elisa fuori dall’auto.

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VENDETTA di Andrea Griseri PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO

“Sfigati di tutto il mondo, unitevi!” L’appello, questa volta, è lanciato dalla piazza televisiva e genera un minaccioso proselitismo, una rete di solidarietà che porta alla creazione di una struttura cellulare, senza testa, tipica delle organizzazioni terroristiche. Non ha più senso chiedersi chi muova il filo più lungo della tela, chi manovri le marionette dello show mediatico; ogni individualismo è bandito, al punto che ci piacerebbe immaginare un Oscar Wilde che, uscendo dalla sala dopo la visione del corto, un po’ disgustato, commentasse: “Tutti sono buoni a compatire le sofferenze di un amico, ma ci vuole un’anima veramente bella per godere dei successi di un amico”. Un’apocalittica, grottesca farsa va in scena in tv fino al finale, nel progetto di Andrea Griseri, che a noi ha anche piacevolmente richiamato nei suoi toni più cupi la metafora del potere mediatico e terroristico del fumetto-film V per Vendetta. Ormai ogni categoria di reietti o ex reietti della società ha ritrovato la fiducia in se stessa e celebra pubblicamente il proprio orgoglio identitario. Ma perché gli “sfigati”, che non suscitano simpatie, non dispongono di paladini prestigiosi né di nemici altrettanto importanti, devono rassegnarsi a restare reietti fra i reietti? Oggi si assiste finalmente al riscatto del diverso, ma il diverso è sempre minoritario: lo “sfigato” ha il problema di essere maggioranza e le maggioranze, almeno nella nostra sofisticata società occidentale, non vanno più molto di moda (a meno che non si tratti di maggioranze costituite da “consumatori”). Pensate a ciò che è capitato alla classe operaia: la sua forza (il numero, la ricchezza di prole) si è tramutata in debolezza; il mondo continua a essere pieno di operai ma nessuno più li riconosce, loro stessi cercano di dissimularsi e tutti ne proclamano la scomparsa prima di rituffarsi nelle proprie personali “nicchiette” che sanciscono le diversità e preservano in modo illusorio dalla condizione di “sfigati”. Con la mia “fatica” ho voluto restituire una dignità e una speranza all’immarcescibile, vergognoso, indecente, onnipresente, molteplice, proteiforme, fastidioso, malaugurante, eterno, inconcludente “sfigato”. Scusate l’immodestia, ma è dai tempi del “Discorso della montagna” che non si dedica un briciolo di attenzione affettuosa alla categoria. Andrea Griseri

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1. INT. EMITTENTE TELEVISIVA (SALA RIUNIONI) - GIORNO Intorno a un tavolo siedono EDOARDO SPERANZA (alto, capelli in disordine, viso pulito, sorriso che tradisce un leggero nervosismo, camicia a quadretti aperta e giacca di velluto informale; poggiato sul tavolo di fronte a lui, un fascicolo con la copertina rossa che durante il dialogo consulta nervosamente), FAZZUTO (uomo corpulento, accigliato, “colesterolico”, in maniche di camicia e cravatta; di fronte a lui sul tavolo un secondo fascicolo, con il medesimo frontespizio, che non viene neppure toccato) e tre PERSONE (due uomini e una giovane donna vestiti di nero) che osservano il più rigoroso silenzio. FAZZUTO Continui... EDOARDO Allora, il protagonista non deve avere un nome. È uscito in strada in pantofole. FAZZUTO E che succede? EDOARDO È sorpreso da un fortissimo acquazzone che non accenna a smettere. La variazione di luminosità indica che potrebbe aver trascorso, riparato alla meno peggio, due giorni e due notti. FAZZUTO Allora? E che succede? EDOARDO Niente. Non succede assolutamente niente. FAZZUTO (ringhioso) Niente? EDOARDO Cioè, dipende. Dopo che è cessato il temporale, ciabattando con le babbucce bagnate, ritrova la strada di casa e si arresta di fronte alla porta. Si odono richiami, grida di bambini che giocano, litigano, ridono. La voce di una donna che li sgrida. Il suo dito si avvicina al citofono. Dopo un istante eterno preme il pulsante. Ne esce un suono roco e inespressivo; la porta rimane chiusa. FAZZUTO Chiusa? EDOARDO Chiusa. Allora il protagonista comincia ad errare per la città. Finisce che si ritrova in un grande magazzino a rubare un paio di scarpe da ginnastica. Non ha altro da fare, senza soldi, in pantofole, lei capisce... FAZZUTO Lo arrestano?

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EDOARDO No, no. Lui ruba le sneakers e se ne va felice. Fazzuto resta a lungo in silenzio con le mani intrecciate sulla pancia e il capo chino... FAZZUTO Non ci sono svolte! Il climax? Dove cazzo è il climax? E l’incidente scatenante? Debole! Fazzuto picchia un pugno sul tavolo e i tre convenuti silenziosi sussultano. Il loro capo inizia a oscillare e fino alla fine della scena annuiscono senza soluzione di continuità FAZZUTO Ammesso che ci sia! EDOARDO Dobbiamo avere il coraggio di rinnovare le nostre poetiche. Rappresentare la vita. Spesso aspettiamo la svolta decisiva. Ma non accade. L’esistenza è un piano inclinato dal quale scivoliamo lentamente. È un processo inesorabile. Gli eventi accadono senza una ragione apparente e la vita non rispetta le regole di Aristotele. Fazzuto lo guarda a lungo in silenzio. FAZZUTO Se ne vada! La riunione è finita! Tiri fuori un’altra idea! O sparisce o torna con un’altra idea! Edoardo smuovendo con cautela la sedia si alza e si avvia verso la porta. Fazzuto lo richiama indietro. Anche la donna vestita di nero si alza in piedi. FAZZUTO (con tono più conciliante, indicando la donna) Se ha problemi le telefoni. La donna gli consegna un biglietto da visita nero scritto con caratteri chiari. Edoardo lo ripone nel portafoglio.

2. EST. STRADA - GIORNO Appena uscito dalla sede dell’emittente, Edoardo si ferma di fronte a un marocchino che vende frutta e verdura su un banchetto improvvisato. Ha un trasalimento. EDOARDO Ti conosco! Andavamo a scuola insieme! Edoardo con un gesto della mano indica la mercanzia. Lo guarda con perplessità e stupore. EDOARDO Sei italiano!

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VENDITORE Mi sono travestito. Non mi chiedono la licenza. Mi lasciano in pace. Non riuscivo più a lavorare. Sto qui davanti e aspetto. Un giorno mi chiameranno lì dentro (indicando il palazzo) e apparirò in una trasmissione.

3. INT. CASA DI EDOARDO – NOTTE Edoardo è di fronte alla televisione. Tiene tra le mani una lattina di birra. Sullo schermo appaiono le immagini della sigla di un talk show. Sul display del lettore DVD lampeggiano le cifre digitali che indicano l’ora: 21.00. SCHERMO TELEVISIVO La scenografia dello studio del talk show è semplice e lussuosa. Due poltroncine con lo schienale rotondo di colore rosso, riservate all’ospite e all’intervistatore, in mezzo a una sorta di palcoscenico drappeggiato da enormi tendaggi di colore blu cobalto; alcuni sono fatti di tessuto pesante, altri di organza leggera e trasparente dalle pieghe irrisolte come se una mano impertinente li avesse stropicciati. Appare il titolo del programma: I SUCCEEDED - GENTE SPERICOLATA, GENTE CHE CE L’HA FATTA, mentre entra in scena l’INTERVISTATORE, in smoking luccicante, che si accomoda su una delle due poltroncine. Un UOMO con i capelli bianchi, vestito elegantemente (blazer blu doppiopetto, camicia bianca aperta sul petto) è accolto dall’intervistatore. INTERVISTATORE Diciamo che la cosa rilevante nella sua vita... UOMO ELEGANTE L’amore. Ho sfatato un luogo comune: fortunato al gioco e fortunato in amore. INTERVISTATORE Quante mogli? UOMO ELEGANTE Potrei passare per uno sciupafemmine. Ma no! Sono un funzionalista del matrimonio. Cinque mogli. Quando cominciano ad invecchiare scatta il libello del ripudio. Senza rancore. A ciascuna ho saputo donare anni di grande intensità. Continuano a manifestare in ogni modo la loro gratitudine. Sono tutte cuoche eccellenti. INTERVISTATORE Scusi, scusi? In una donna lei cerca la cuoca? UOMO ELEGANTE Cibo e sesso vanno a braccetto. Indimenticabile Tognazzi! Coltivano specialità differenti: una i primi, un’altra i secondi. INTERVISTATORE Il suo segreto?

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UOMO ELEGANTE Insieme alla capacità di sorprenderle ho una competenza distintiva, sempre la stessa. INTERVISTATORE (ridacchiando) Credo di capire. UOMO ELEGANTE (serio) Ma il fatto di essere anche uno splendido animale è del tutto accessorio, strumentale. Scrosciano gli applausi in sala. CASA DI EDOARDO Edoardo maneggia nervosamente la lattina ancora mezza piena deformandola. Il contenuto schizza in parte sui suoi pantaloni, ma lui non sembra preoccuparsene. SCHERMO TELEVISIVO L’intervistatore accoglie un indiano, PANJADI, che indossa doppiopetto nero, cravatta nera e camicia candida, abbagliante. INTERVISTATORE Mr Panjadi, quando lei arrivò a Londra, a 18 anni, non aveva un soldo in tasca! PANJADI It isn’t true. I had eleven pennies. A little treasure (ride imitando la voce di Gollum nel Signore degli Anelli). My preciousssss! Scorrono i sottotitoli in italiano: NON È ESATTO. AVEVO 11 PENNY. UN TESORETTO. IL MIO TESORO! INTERVISTATORE E poi? PANJADI (attendendo la fine della traduzione) I started my business. A corner shop, it was a pharmacy. Sottotitoli: DIEDI AVVIO AL MIO BUSINESS. UN NEGOZIO D’ANGOLO, UNA FARMACIA. INTERVISTATORE Geniale! E fino a che ora lavorava? PANJADI Until three in the night. Sottotitoli: FINO ALLE 3 DI NOTTE. INTERVISTATORE Capito? Quando le farmacie chiudono, se avete bisogno di un’aspirina, dove andate? Al corner shop!!! E ora a 30 anni di distanza...

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PANJADI I was named entrepreneur of the year. Sottotitoli: MI HANNO NOMINATO IMPRENDITORE DELL’ANNO. INTERVISTATORE E quali consigli darebbe a un giovane che volesse intraprendere la strada del successo? PANJADI Live your dreams! Chase your dreams and go for! That’s exactly what I have done! Sottotitoli: VIVETE I VOSTRI SOGNI! PERSEGUITELI! ECCO CHE COSA HO FATTO! In mezzo a uno scrosciare di applausi l’intervistatore stringe con vigore la mano all’imprenditore indiano. CASA DI EDOARDO Edoardo spegne la tv, corre alla scrivania, accende il computer e inizia a scrivere febbrilmente.

4. INT. EMITTENTE TELEVISIVA (SALA RIUNIONI) - GIORNO Intorno al tavolo della sala riunioni seggono Edoardo, Fazzuto e i tre collaboratori di Fazzuto, che nella precedente riunione non hanno mai parlato. EDOARDO Un talk show in controtendenza. Fatto di storie di sfigati! FAZZUTO Speranza lei è senza speranza! EDOARDO Un controcanto sarcastico ai talk show che ci propinano le solite storie di successo! Non sanno dire altro! Successo! Cercano di inamidarci lo sguardo! Vogliono impedirci di vedere la bellezza e la tragedia da cui siamo circondati! I tre personaggi silenziosi si agitano e rumoreggiano. EDOARDO Mettiamo in scena gente che non ha mai avuto il coraggio di dare corpo alle proprie ambizioni, segregata in una cheta mediocrità. FAZZUTO (sarcastico) Cheta! COLLABORATORI DI FAZZUTO Cheta!

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FAZZUTO Alla gente dobbiamo vendere sogni! 1° COLLABORATORE Vendere sogni! È la nostra mission! EDOARDO Allora rifacciamo il Grande Fratello! Ma alla rovescia. Vince chi solidarizza! Basta con la guerra di tutti contro tutti! Ma meglio gli sfigati! FAZZUTO Ma va là coglione! 2° COLLABORATORE Azzanniamoci! Arricchiamoci! 1° COLLABORATORE Facciamo a cazzotti! Spacchiamoci i denti! La donna sembra estranea alla gazzarra. Fazzuto afferra Edoardo per un braccio e lo costringe ad alzarsi. Lo spinge nel corridoio. FAZZUTO Un coglione come te qui non ci lavora! Ti pago l’ultimo mese di contratto! E basta! E basta! Fazzuto soffia di rabbia e gesticola con eloquenza gridando “BASTA”.

5. EST. STRADA - GIORNO Edoardo uscendo dalla sede dell’emittente incontra CARLA, la sua fidanzata, che lo sta aspettando; è bionda, graziosa, leggermente pingue, l’espressione dolce e svogliata. Dopo averlo abbracciato e baciato lo ascolta con concentrata attenzione, stringendo le labbra (il loro dialogo è muto, completamente coperto dai rumori consueti della città e del traffico). Carla appare indignata. Gli parla animatamente spiegandogli qualcosa. Cerca il cellulare nella borsetta e compone un numero.

6. INT. STUDIO TELEVISIVO ULTIME DA MACONDO - GIORNO Un uomo piuttosto anziano e ossuto, capelli grigi raccolti in una coda, orecchino, con indosso una camicia all’orientale senza colletto, un paio di pantaloni di colore indefinito e sandali, IAIO, sta telefonando. Sul tavolo accanto a lui è posato un piattino con i resti di uno spinello; su una parete risalta il logo televisivo: ULTIME DA MACONDO, caratterizzato da un “lettering” fuori moda in stile vagamente hippy. IAIO Ci rimane un’unica trasmissione. Quella musicale. Il notiziario è sospeso. Alvarez è all’ospedale con il pneumotorace. Magro, magrissimo.

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CARLA (VFC) Appunto. Che hai da perdere... IAIO (armeggiando per prepararsi una canna) Le agenzie hanno tagliato gli spot. E mi hanno chiesto di cambiare il titolo. CARLA (VFC) Da Frank Zappa a Beethoven? IAIO Volevano sapere chi è Frank Zappa. Il fratello scemo di Theresa Brunswick ho detto! (sputa) Non hanno capito. CARLA (VFC) Lo porto? IAIO Un altro fallito? Vengono a cercare rifugio. CARLA (VFC) No lui è diverso. Ci siamo messi insieme qualche mese fa. È una bella persona. In tutto. Una persona geniale. Iaio annuisce sorridendo beffardo. CARLA (VFC) Allora? IAIO L’ospizio è troppo caro. Mi trovate qui.

7. INT. STUDIO TELEVISIVO ULTIME DA MACONDO - GIORNO EDOARDO Andremo in onda immediatamente dopo Succeeded. Se non troviamo un soggetto reale, scrivo io i testi. Sarà un rigoroso contrappunto. Ho un presentatore bravissimo; prendeva per il culo i direttori di testata, appiccicava rime satiriche nella toilette e lo hanno cacciato dalla Grande Emittente. CARLA (eccitata) Se c’è bisogno della tipa cornuta e mazziata in amore eccomi. IAIO (interrompendola) La scenografia sarà una caricatura. Deve costare poco. Carla trae a sé Edoardo scoccandogli un lungo bacio “a ventosa” sulla guancia. CARLA Ad eccezione degli ultimi mesi ovviamente.

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EDOARDO Tra due giorni c’è Succeeded. IAIO E tu stanotte prepara i testi. Domani iniziamo le riprese.

8. EST. STRADA - GIORNO Edoardo e Carla camminano in una strada affollata. EDOARDO Dove li troviamo i personaggi? Carla indica la folla con un largo gesto della mano. CARLA Tranquillo. Le strade sono piene di sfigati. EDOARDO (sorridendo a Carla) Una donna cornuta e mazziata. Carla gli dà un bacio. EDOARDO E che so... un verduriere.

9. INT. CASA DI EDOARDO - NOTTE Edoardo lavora febbrilmente al computer. Sulla scrivania sono allineate numerose lattine di birra. Ogni tanto Edoardo interrompe il lavoro e le colpisce con una pallina da ping-pong. Le raccoglie e le colloca su uno scaffale dove sono radunate, come in una collezione, altre lattine di ogni marca e provenienza.

10. INT. STUDIO TELEVISIVO ULTIME DA MACONDO - GIORNO Lo studio è allestito secondo il modello della trasmissione “I Succeeded”, ma presenta una realtà degradata. I tendaggi blu sono stracciati, le poltroncine sembrano sfondate, il pavimento è sporco. Sulla parete di fondo si legge la scritta: IMMONDIZIA: GENTE SFIGATA, GENTE COSÌ COSÌ. Fuori campo dall’inquadratura televisiva, Iaio e Edoardo osservano attentamente lo svolgersi delle riprese: Edoardo indossa le cuffie e regge in mano una serie di fogli. Entra Carla accolta con malagrazia da un INTERVISTATORE che siede su un seggiolino da tecnigrafo. INTERVISTATORE Lei ci parlerà di cicatrici!

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CARLA Se lo ricorda quel film? Travolti da un insolito destino... INTERVISTATORE ... nell’azzurro mare d’agosto. Melato e Giannini. Commedia all’italiana con qualche pretesa, successo immeritato. CARLA Anche io volevo amare un marinaio. INTERVISTATORE (suadente) Sìììì! CARLA Mi misi insieme a Ninì. Era un marinaio per davvero. Vivevamo a Livorno, quartiere dell’Ovo Sodo. INTERVISTATORE Non mi dirà che anche in questa scelta ha giocato una suggestione cinematografica... CARLA Oh! Ricordo quando è arrivato Virzì. Ha ambientato lì il suo capo... INTERVISTATORE ... una delle poche prove decenti del cinema italiano negli ultimi 10 anni. Per il resto nebbia! Virzì compreso! Scommetto che lei voleva fare l’attrice. CARLA (vivacemente) No, assolutamente! Volevo semplicemente... amare! INTERVISTATORE Oh l’amore! E come è andata? CARLA Ninì stava fuori per settimane a causa del suo lavoro. Le poche volte che era a casa, all’inizio, non aveva occhi che per me. Ricordo il profumo della sua pelle, il vello di peli morbidi. INTERVISTATORE Per favore! Che schifo! Si contenga! CARLA Poi ha cominciato a far tardi, a tornare a casa ubriaco. INTERVISTATORE Mi lasci indovinare... la picchiava? CARLA Ero sempre piena di lividi.

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INTERVISTATORE (ironico) Ma sono perspicace! Mai sentita una storia del genere! E i soldi? CARLA Mi ha ripulito il conto titoli. INTERVISTATORE Quanto tempo è passato? CARLA Più o meno 10 anni. INTERVISTATORE (con espressione di affettata ammirazione) E adesso? CARLA Mi sto rimettendo in sesto, anche se è dura. È un bastardo, ma gli voglio bene comunque. INTERVISTATORE (alzandosi di scatto) Bene! Grazie! Complimenti! La salutiamo! Carla, accompagnata dal rumoreggiare di un pubblico inesistente, si allontana e raggiunge Iaio e Edoardo, appostati in disparte. Entra in scena il verduriere-falso marocchino che Edoardo ha incontrato di fronte alla sede dell’emittente televisiva. VERDURIERE Da piccolo giocavo a fare il verduriere. Aspettavo con ansia il momento di andare a fare la spesa con mia madre. INTERVISTATORE Junghiano! La verdura come archetipo! Continui... VERDURIERE E volevo andare in televisione. Che tutti mi vedessero. Mi costringevano a studiare. Appena ho potuto ho messo su un piccolo negozio di frutta e verdura: hanno aperto un supermercato a due passi. Allora provo a spostare il negozio in un piccolo paese di montagna: un’alluvione ha spazzato via il paese. INTERVISTATORE Eh! Il riscaldamento globale... VERDURIERE Adesso mi travesto da extracomunitario clandestino e vendo verdura. Davanti alla Grande Emittente. Loro non mi hanno mai chiamato. Ma adesso sono in televisione! INTERVISTATORE (sarcastico) Vedremo di organizzare una televendita di verdure! Condotta da lei!

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VERDURIERE (scoppiando in singhiozzi) Siete tutti molto buoni qui, molto buoni! INTERVISTATORE E adesso passiamo a un altro settore! Il business! L’industria! Entra un OMINO pelato che zoppica vistosamente. OMINO Se permette preferirei un monologo. INTERVISTATORE Non è possibile, qui parliamo in due! OMINO La prego! La imploro! INTERVISTATORE E va bene, le farò una sola domanda! Sarà come monologare. Ci racconti la sua vita! OMINO Avevo creato dal nulla una fabbrica di fiori finti. Erano bellissimi, ordini da ogni parte del mondo. Un fulmine sul magazzino e tutto è andato a fuoco! INTERVISTATORE La rosa vive lo spazio di un mattino! OMINO Non mi sono perso d’animo. Ho fondato una fabbrica di bottoni, questi umili compagni della vita. Ma c’era anche il reparto cerniere. La mafia le ha dato fuoco per errore. Io il pizzo lo pagavo sempre. Ho sporto denuncia. Purtroppo l’assicurazione non copriva i danni causati da organizzazioni di stampo mafioso. Così non mi hanno pagato, ma i mafiosi sono stati arrestati. INTERVISTATORE Un cittadino esemplare! Finisca, la prego. OMINO Dopo un paio di mesi li hanno liberati. Una sera mi aspettano alla fermata dell’autobus, mi chiedono scusa per l’errore e mi azzoppano. Questa è la mia storia! INTERVISTATORE Abbiamo le lacrime agli occhi. Avanti un altro! Fuori campo dall’inquadratura, Iaio, Edoardo e Carla continuano ad osservare le riprese con grande attenzione.

11. VELOCE MONTAGGIO DI EST./ INT. - Sulle edicole campeggiano le locandine di due giornali che titolano: IMMONDIZIA, IL SUC-

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CESSO DELL’INSUCCESSO e INTELLIGENTE PROVOCAZIONE DELL’ULTIMA TV INDIPENDENTE. - Su un quotidiano spicca la foto di Iaio. - In un servizio televisivo Edoardo risponde a un’intervista, mentre scorrono diversi spezzoni tratti dalla trasmissione “Immondizia”.

12. INT. CASA DI EDOARDO - GIORNO Edoardo è intento a ritagliare articoli da un giornale; compone un numero di telefono consultando un biglietto da visita che ha estratto dal portafoglio.

13. INT. STUDIO TELEVISIVO ULTIME DA MACONDO - GIORNO Iaio consulta la posta elettronica sul suo computer: CONFERMIAMO IL NOSTRO INTERESSE AD ACQUISTARE PER CONTO DEL NOSTRO CLIENTE ULTERIORI SPAZI PUBBLICITARI PRESSO LA VOSTRA EMITTENTE.

14. INT. CASA DI EDOARDO - NOTTE Carla siede sul divano di fronte alla televisione accesa. Edoardo sposta alcune lattine di birra della collezione e al loro posto appiccica gli articoli che ha ritagliato (spicca il titolo: IL BUON PROFUMO DELL’IMMONDIZIA). CARLA Vieni qua, vicino, vicino. Edoardo si siede. Carla gli mette le braccia al collo. CARLA Sai? È da qualche giorno che te lo volevo dire. Edoardo si gratta furiosamente la testa. EDOARDO Non mi dire che... non abbiamo preso precauzioni? CARLA (con un’espressione leggermente delusa e sorpresa) No, non è quello che pensi. EDOARDO (sollevato) Ah! No! CARLA Ho lasciato la supplenza annuale. Basta con quelle bestie.

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EDOARDO E cosa farai? CARLA Ma la tua assistente amore! Lavorerò solo per te! Faremo grandi cose insieme! E voglio aiutare gli sfigati. Stanno diventando una specie di movimento d’opinione! Organizzano il primo raduno regionale a casa di Iaio. Sarà una festa, ti inviteranno di sicuro! Edoardo cerca il telecomando e accende la tv. EDOARDO Silenzio adesso. Comincia. SCHERMO TELEVISIVO Sullo schermo compare lo studio di “I Succeeded” dove fa il suo ingresso ROCCO, un giovane bello ed elegante. INTERVISTATORE Rocco, un ragazzo come tanti, faccia pulita e tanto entusiasmo, che dalle lontane Puglie è giunto fino in... ROCCO Lituania. Dopo il Master in Business Administration ho capito che la società di revisione contabile non faceva per me. Così sono andato in Lituania. Il mondo globale non ha frontiere. INTERVISTATORE A fare cosa in Lituania? ROCCO Vendo tintura per capelli. Gli ex comunisti ne vanno pazzi. Mi adorano. Vado in televisione e dico: buongiorno! Sono Rocco, amministratore unico della Tricofilin ltd e ho 33 anni. Letteralmente: mi adorano. CASA DI EDOARDO Dopo un brevissimo zapping Edoardo, sdraiato in modo scomposto sul divano, sintonizza la tv su Ultime da Macondo. Negli studi di “Immondizia” l’ospite è un giovanotto con un dolcevita beige. SCHERMO TELEVISIVO GIOVANOTTO Volevo diventare un grande manager. Mi sono laureato a pieni voti e sono stato subito assunto in una multinazionale. Il mio problema è il meteorismo. INTERVISTATORE Che cosa? Che sta dicendo? GIOVANOTTO Era la mia grande occasione. La presentazione di un progetto al CEO della casa madre americana. In

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genere consumavo un panino dietetico alla buvette dipendenti. Ma quel giorno mi hanno invitato al ristorante ospiti. Mi sentivo very high e ho mangiato come un maiale. INTERVISTATORE (soffocando dalle risate e parlando a fatica) Riusciamo a immaginare! GIOVANOTTO Arrivo sul palco di fronte al microfono acceso. In sala c’era un grande silenzio. Ho piantato un rutto devastante. L’impianto di amplificazione funzionava benissimo. CASA DI EDOARDO Mentre scorrono i titoli di coda e si diffonde la musica della sigla, Carla riprende la conversazione. CARLA Lavoriamo amore? Abbiamo un ricchissimo materiale umano per le prossime puntate. EDOARDO Adesso no. Mi è venuto mal di testa. CARLA Vuoi che usciamo a prendere un po’ d’aria? Non mi hai più portato a correre nel parco! Edoardo scuote il capo. CARLA Mi farebbe bene. Dici che sono cicciotella... Si toglie la maglietta e rimane a torso nudo. Edoardo la guarda per un attimo, scuotendo il capo. EDOARDO Ti ho detto che ho mal di testa. Dopo un lungo silenzio Carla si riveste e raccoglie alcune carte dal tavolo. CARLA (con voce soffocata come se cercasse di trattenere le lacrime) Ci vediamo alla festa. Quando vuoi correre, chiamami. Carla esce di casa, Edoardo fa per trattenerla ma ricade inerte sul divano.

15. INT. CASA DI IAIO - NOTTE La casa è invasa da una folla festosa; è una sorta di raduno degli sfigati. GIOVANOTTO Mi sento vivo! Finalmente! Dopo tanto tempo!

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OMINO Dobbiamo sbandierarla la nostra sfiga! VERDURIERE Feroci, determinati! Nessuna vergogna! Carla guarda Edoardo con tenerezza e una certa apprensione. CARLA Siamo tutti pieni di gratitudine, Edoardo. Ci hai restituito un’identità! IAIO Stiamo facendo una rivoluzione. Nei media, nella società. GIOVANOTTO I commentatori più acuti lo hanno intuito. INTERVISTATORE Artisti punk, preti di frontiera, presidenti di provincia, vescovi, direttori di giornale. Arrivano valanghe di lettere! ALTRO SFIGATO Tutti con noi! IAIO Succeeded metterà in scena la casalinga imprenditrice. Mi ha telefonato una tizia piena di debiti che aveva cercato di vendere cosmetici per telefono. CARLA (a Edoardo) Vuoi farle un provino? Preferisci scriverle un testo? Edoardo riceve una telefonata. Si fa largo fra loro con un sorriso cortese. IAIO (guardandolo stupito) Continuano ad affluire i volontari per le nuove puntate. Organizzeremo uno Sfiga-pride! EDOARDO (ironico, additando la piccola folla) Potevi chiamare i giornalisti stasera. Edoardo raggiunge la porta; Carla cerca di trattenerlo. CARLA Dove vai? Ti dovevo presentare... Valter! Vieni Valter! EDOARDO Devo uscire, scusate. Carla rimane impietrita. Quindi si riscuote, si mette la borsetta a tracolla ed esce trascinando per mano VALTER.

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16. EST. STRADA / CASA DI EDOARDO - NOTTE Con la vecchia Panda di Carla raggiungono la casa di Edoardo. Carla scende dall’automobile, raggiunge il portone e citofona. Nessuno risponde. Carla risale in macchina e parcheggia. Valter si accende una sigaretta con le mani che tremano. CARLA Non ti agitare. Aspetteremo qui davanti tutto il tempo che è necessario. DISSOLVENZA INCROCIATA Carla e Valter sono di fronte al portone di Edoardo. Le finestre illuminate del condominio si sono spente una dopo l’altra. Valter è addossato al muro, ai suoi piedi sono sparse numerose cicche. Una vettura nuova fiammante parcheggia poco distante; scendono Edoardo e una bella ragazza bruna, piuttosto minuta, vestita di nero: è Annalisa, la donna incontrata nello studio di Fazzuto che aveva consegnato a Edoardo il proprio biglietto da visita. CARLA (con tono dolce e dimesso) Edoardo ecco Valter. Nella vita non ha mai combinato niente. 45 anni. Niente! EDOARDO Può parlare con Annalisa. La mia nuova copy. CARLA (fingendo di ignorare la donna) Ha un figlio down in un istituto! EDOARDO (guardando Valter) Ci dia un colpo di telefono e non sia timido. Annalisa senza parlare gli porge un biglietto da visita. CARLA Abbiamo perso la festa da Iaio. EDOARDO Ho un sacco di lavoro da finire. Io non ho tempo per le feste. Edoardo varca il portone con Annalisa. Carla strappa dalle mani di Valter, imbambolato, il biglietto da visita di Annalisa.

17. INT. STANZA BUIA – NOTTE Nell’oscurità si illumina lo schermo di un televisore. SCHERMO TELEVISIVO Compare la sigla fatua e trionfale di “I Succeeded”. L’ospite della serata è Edoardo. Siede lisciandosi il mento con le dita.

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INTERVISTATORE E non accusateci di mancanza di spirito sportivo! Ecco il nostro più temibile concorrente! EDOARDO Un’operazione win win. La nostra crescita ha trainato la vostra. Siamo complementari. INTERVISTATORE La rinascita di Ultime da Macondo è una pietra miliare della libertà mediatica! EDOARDO Il fondatore purtroppo oggi non si sentiva bene. INTERVISTATORE Ma lei è qui con noi! Ci dia la chiave di lettura di questo successo. EDOARDO Per lo sfigato c’è sempre una speranza. Io ne sono l’esempio. La sfortuna e l’insuccesso non saranno mai cancellati. In fondo sono vecchi come il mondo. Ma qualcuno riesce a chiamarsi fuori. È il cinismo della volontà. INTERVISTATORE E i suoi ospiti? EDOARDO Gli ho dato un’opportunità! INTERVISTATORE I nostri spettatori vogliono sapere qualcosa di lei. Il suo ideale di donna per esempio! EDOARDO Minuta, brunetta, mediterranea, aggressiva. INTERVISTATORE E i suoi programmi per il futuro? EDOARDO (ridendo) Sono nella tana del lupo... Forse una tv commerciale ma di nuovo conio. Non parlerò più di sfiga, di cinismo magari... 18. INT. CASA IAIO - NOTTE Iaio assiste alla trasmissione “I Succeded” con Edoardo ospite. Appallottola alcuni fogli e li scaglia contro il televisore. Cerca vanamente di aspirare il fumo dallo spinello spento. Armeggiando furiosamente con il telecomando spegne l’apparecchio.

19. INT. STANZA BUIA - NOTTE L’ambiente si illumina all’improvviso, mentre sullo schermo continuano a scorrere le immagini di “I Succeeded”. Uno dopo l’altro si rivelano i volti delle persone presenti: sono gli ospiti di “Immon-

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dizia”. Ciascuno di loro lancia uno sguardo feroce a Carla, che ha il volto rigato di lacrime. VERDURIERE E adesso? INTERVISTATORE Dobbiamo parlargli. GIOVANOTTO Parlargli? OMINO Mi è venuta un’idea. Trascorre un lungo momento di silenzio. OMINO (determinato) Carla, tu ci devi aiutare.

20. EST. STRADA CITTADINA - NOTTE Carla cammina sola per strada, parlando al cellulare. CARLA Edoardo? Sì ti ho visto. Ci dobbiamo parlare… Certamente… Perché non andiamo a correre? Domani sera? Sarà buio… Non importa, vengo da sola. 21. EST. PARCO - NOTTE Carla e Edoardo corrono affiancati nel parco. Carla rallenta l’andatura. Edoardo si volta e sembra esortarla ad affrettare il passo. Carla si siede, togliendosi una scarpa come se dovesse liberarsi di un sassolino, fa a Edoardo cenno di proseguire. Edoardo scuote il capo e ricomincia a correre, avviandosi in direzione di un fitto cespuglio. Una mano sbucata dal folto della vegetazione lo ghermisce. Una figura incappucciata gli mette sulla bocca un tampone. Edoardo si accascia. L’assalitore lo trascina nel folto dei cespugli. Un piccolo corteo di tre persone, visibili in controluce, sbuca dalla vegetazione e avanza lentamente, reggendo il corpo esanime di Edoardo. Una di loro zoppica vistosamente.

22. MONTAGGIO DI DUE SERVIZI TRATTI DA EDIZIONI SUCCESSIVE DEL TELEGIORNALE - GIORNALISTA E ora la cronaca. Ancora avvolta dal mistero la scomparsa di Edoardo Speranza, autore e sceneggiatore del programma Immondizia che ha rappresentato una vera rivoluzione nel mondo dei talk show. La fidanzata ha dichiarato di averne perso le tracce la sera di martedì nel parco della Pellerina, dove la coppia si era recata per fare jogging. Va in onda una breve intervista a Carla.

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CARLA (di fronte a un microfono in strada) Ero rimasta un po’ indietro e l’ho perso di vista. Credevo si fosse nascosto in un cespuglio per orinare. L’ho cercato a lungo per i vialetti. Era buio. Alla fine ho avvisato la polizia. - GIORNALISTA Assume un contorno sconcertante la scomparsa di Edoardo Speranza, la notizia è di poche ore fa: lo sceneggiatore sarebbe vittima di un rapimento ad opera di una sedicente organizzazione che si firma Vendetta della sfiga; è una sigla finora sconosciuta nella variegata galassia del terrorismo internazionale. Oggi è stata recapitata agli uffici dell’emittente privata Ultime da Macondo una cassetta videoregistrata con un messaggio dello sceneggiatore prigioniero. Siamo in grado di mostrarvela. Appare sullo schermo un filmato che denuncia un’evidente origine amatoriale. Edoardo legge con voce uniforme e monotona un testo contenuto nel foglietto che regge fra le mani tremanti. Veste la tuta che indossava nel momento del rapimento nel parco. Sullo sfondo la parete è stata coperta da una carta color senape che ricorda quella usata dagli ambulanti per i sacchetti della verdura. Seminascosto dalla figura di Edoardo si intravede il logo dell’organizzazione: un tondo in cui Paperino assesta una randellata al cugino Gastone. L’immagine è attraversata, in caratteri rosso sangue, dalla scritta: VENDETTA DELLA SFIGA. EDOARDO Gastone ha finito di divertirsi. Sfigati, Paperini di tutto il mondo unitevi! Afferrate il nodoso randello della vendetta e sbattetelo in testa ai vostri nemici! Nessuno veglierà su di voi quando entrerete e quando uscirete! Il sole vi provocherà il glaucoma e la luna vi cadrà sulla testa! Lo sfigato vi aspetta nell’ombra dietro la soglia delle vostre case per punirvi! Tutti! Indistintamente! Cattolici, atei, musulmani, politeisti, ebrei, comunisti, neoliberisti, neonazisti, leghisti, radicali, moderati: lo sfigato farà giustizia e non avrà riguardo per nessuno! Io sono Edoardo Speranza, sceneggiatore. Sono uno sfigato e continuerò ad esserlo. La Vendetta della sfiga mi rilascerà dietro pagamento del riscatto di 10 milioni di euro, che dovranno essere generosamente offerti da tutti gli uomini e le donne di successo del paese. Altrimenti verrò ucciso. In caso di rilascio lavorerò come un disperato per rimborsare il riscatto. Vi prego, vi imploro! Salvatemi la vita! Carla, ti chiedo perdono, aiutami, ti amo e ti amerò per sempre.

23. INT. COVO DI VENDETTA DELLA SFIGA - NOTTE I leader di “Vendetta della sfiga” (omino pelato, giovane in dolcevita beige, intervistatore e verduriere) sono radunati in una stanza con il soffitto basso. Su un tavolo rudimentale è posata una pistola. L’intervistatore mesce champagne, tutti appaiono euforici. La televisione è sintonizzata sul telegiornale. SCHERMO TELEVISIVO GIORNALISTA Dovrebbe essere prossima alla conclusione la penosa vicenda dello sceneggiatore rapito da Vendetta della sfiga. Le offerte per il pagamento del riscatto sono giunte da ogni parte del mondo. Le indagini non hanno permesso finora di dare un volto e un nome agli organizzatori del sequestro ma si affaccia un’ipotesi inquietante: dietro la sigla Vendetta della sfiga si potrebbe nascondere una struttura terroristica cecena alla ricerca di nuove fonti di finanziamento.

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COVO DI VENDETTA DELLA SFIGA L’omino maneggia una vecchia calcolatrice da tavolo. OMINO Dovremmo essere a 9 e ½. GIOVANOTTO (ubriaco) Come le settimane! OMINO Possiamo praticare uno sconto. Ne abbiamo abbastanza per lanciare il movimento. GIOVANOTTO Buuuu! Buonista! INTERVISTATORE Sapete che ci faccio coi 9 milioni? Ce ceno! (imitando l’accento romano) Tutti brindano euforici. INTERVISTATORE Alla sfiga! Eterna, immarcescibile, complice sfiga! TUTTI Alla sfiga! Il verduriere calza un passamontagna ed esce con un bicchiere colmo di champagne e una cannuccia. Entra in un bugigattolo dove Edoardo è incatenato. Gli strappa un lembo di cerotto dalla bocca e gli infila fra le labbra la cannuccia. VERDURIERE (contraffacendo la voce) Bevi! Anche tu devi festeggiare la sfiga! Tra poco sarai libero. Libero, vivo e sfigato. Per sempre! E tutti parleranno di noi! Quando Edoardo finisce di bere, il verduriere gli tappa nuovamente la bocca e raggiunge i compagni.

Andrea Griseri ha scritto quattro romanzi e numerosi racconti. Nel 2001 si è iscritto al Master in Editing e Scrittura di Prodotti Audiovisivi. Un suo racconto, Il fungo di metallo, tratto dall’omonima sceneggiatura, è stato pubblicato su Plot. Inoltre ha all’attivo un progetto per lungometraggio, Vento a favore, scritto con Norma Colombero, e la sceneggiatura di un corto. È laureato in Scienze Politiche con una tesi sul tema, purtroppo attualissimo, della “Teoria della guerra giusta”. Tra breve, un suo romanzo, Il memori@le della collina, verrà pubblicato dalla casa editrice Infinito.

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La scenografia dello studio del talk show è semplice e lussuosa... Un uomo con i capelli bianchi, vestito elegantemente è accolto dall’intervistatore...

I leader di “Vendetta della sfiga”... sono radunati in una stanza...

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Chiudiamo in quest’ultima sezione la nostra panoramica sul cortometraggio con Il Resto, una storia che riflette sul “cerchio” della ciambella: “un dolce che al suo centro non ha nulla. Come il senso di colpa” (Franco Dipietro), e Il supplente, una vicenda sulla nostalgia per la giovinezza e sulla virtù del coraggio, perché “è guardando indietro che uno può trovare il modo e la via per crescere” (Andrea Jublin). Sono le sceneggiature rispettivamente premiate da Nisi Masa e Sky-Lab Italia, e vengono pubblicate a seguire in copia fotostatica.


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CARI PRODUTTORI... Plot - storie per lo schermo pubblica soggetti, trattamenti e sceneggiature originali, di autori italiani e non. I produttori e le agenzie di sviluppo interessate a sviluppare e a produrre uno dei progetti pubblicati su questo o sui precedenti numeri della rivista, possono scrivere alla redazione di Affabula Readings, all’indirizzo info@affabula.it, specificando il titolo del progetto. Provvederemo a mettervi in contatto con l’autore.

CARI AUTORI... Potete inviare progetti per film di corto e lungometraggio, per il cinema e la televisione, documentari, programmi interattivi, in forma di racconti o trattamenti (minimo 6, massimo 30 pagg.), accompagnati necessariamente, previa esclusione, da sinossi, nota di intenti e curriculum dell’autore. Se disponibile, può essere inviata anche la sceneggiatura. Il dossier di progetto deve essere accompagnato dalla scheda di partecipazione e dalla liberatoria firmata, pubblicate sul sito www.affabula.it, alla pagina www.affabula.it/ inviare.htm Il progetto va inviato preferibilmente via e-mail a info@affabula.it o per posta raccomandata a: Associazione F.E.R.T. - programma Affabula Readings Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino Se il progetto viene inviato per e-mail, la liberatoria firmata può essere spedita via fax allo 011 531 490. Per ulteriori informazioni: info@affabula.it tel. 011 532 463

CARI LETTORI... La rivista è in vendita nelle principali librerie italiane specializzate in cinema e in quelle del circuito Feltrinelli. L’elenco completo delle librerie è pubblicato sul sito, all’indirizzo http://www.affabula.it/dove.htm Diversamente se ne può richiedere la spedizione, inviando un’e-mail a info@affabula.it, pagando il relativo importo di 5,00 euro per numero, più spese di spedizione, con un versamento sul conto corrente postale n° 49502545, intestato all’editore FERT RIGHTS srl, Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino.

storie per lo schermo un progetto editoriale di Affabula Readings programma dell’Associazione F.E.R.T. realizzato con il contributo di: Ministero per i Beni e le Attività Culturali Regione Piemonte - Direzione Generale Cultura Città di Torino - Divisione Servizi Culturali Fondazione CRT

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