eBook PLS MAGAZINE INTERVISTE 2015

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2015 EBOOK INTERVISTE www.plsmagazine.com


STORYTELLING

BEGINNERS

ANTONIO LORENZINI

MARCO SIRACUSANO

MICHEL E ABRIOL A

FRANCESCO FARACI

IMMA TUCCIL L O CASTAL DO

ESTHER AMREIN

GUIDO GAUDIOSO

SEBASTIANO BEL L OMO

MARIANO SIL L ETTI

CHIARA PAOLUCCI

NINO CANNIZZARO

SHARON FORMICHEL L A

FABIO MOSCATEL L I

MARIANGEL A TRIPIEDI

CIRO BATTILORO CL AUDIO MENNA ALFREDO CHIARAPPA ROBERTO PIREDDU GAETANO FISICARO VALERIA CATANIA STEFANO MIRABEL L A ROMINA ZANON SIMONE D’ANGELO

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Storytelling PLS MAGAZINE

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Antonio Lorenzini

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Antonio Lorenzini, fotografo freelance di Siena, inizia a fotografar e giovanissimo con la sua prima Polaroid che tutt’ora custodisce gelosamente. La sua innata curiosità lo porta ad essere in continua ricerca espressiva ed emozionale. Trova nella fotografia in bianco e nero la sua migliore alleata. Pur scattando in digitale non ha abbandonato la pellicola e la sua passione lo porta pure a costruire personalmente delle macchine rudimentali a foro stenopeico. Antonio, qual è stato il tuo primo scatto? A che età hai sentito di voler fotografare? All’età di 11 anni ricevetti in regalo la polaroid e cominciai per gioco, uno scatto dopo l’altro, per le strade della mia città e nel quartiere della mia contrada, la Torre, dove oggi dopo tantissimi anni sono tornato a vivere. Era emozionante aspettare che la pellicola imprimesse lentamente l’immagine. Appena prendeva consistenza sotto i miei occhi provavo un senso di realizzazione, un desiderio profondo di continuare. E così è stato. Il reportage è la tua prerogativa principale: “reportagista nell’anima”, leggo nella tua biografia. Essere testimone dell’appartenenza al mondo, di quella società che, sovente, l’individuo guarda distrattamente senza prendersene cura perché vive nella sfera delle consuetudini, dimenticando talvolta il valore del “viaggio”. Sì, la definizione è giusta. Amo trattare temi sociali che molto spesso sono disagio ed emarginazione; raccontare storie di vita cercando sempre la naturalezza e mai il “costruito”, lasciando un messaggio di speranza perché credo fermamente che questo nostro mondo abbia il dovere e la capacità di migliorarsi. Sono nato a Siena dove il senso di appartenenza è molto radicato. Mi sento un romanì, un argentino, un giapponese e tanto altro. Credo che le nostre radici siano soprattutto importanti per il confronto e p er la crescita individuale e collettiva. Conoscere la propria identità e, almeno in parte, comprendere quella altrui è indice di evoluzione per l’esser e umano. A tal proposito mi piace ricordare una frase di Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Qual è stata la tua esperienza più intensa in merito? Rapportarmi con gli ex malati psichiatrici di Firenze. La loro spontaneità senza schematismi e la loro libertà d’animo mi hanno colpito profondamente. “La semplicità di un’esistenza nomade ai confini di quella stanzialità a noi tanto cara, una vibrazione di suoni e di voci che si accavallano…” così descrive Paola Palmaroli l’essenza di “Romanì”, il reportage di Lorenzini in mostra ad Orvieto 2015. Attraverso le parole si traduce la tua voglia di raccontare la storia di un villaggio Rom nei pressi di Firenze, inserito in uno scenario in netto contrasto: da un lato la patria artistica dell’italianità, dall’altro la quotidianità di una minoranza che vive grazie al forte spirito di adattamento. Il calore che traspare dalle baracche, dalle cucine, dietro le tende e i tappeti appesi ai fili retinati, è la chiave di lettura di questo spaccato di vita. L’accoglienza dei bambini resta innocente: sorridono e giocano con la purezza del cuore. La preparazione di un pasto caldo profuma di anima semplice, di appartenenza, di nostalgia, quella che filtra dagli occhi degli adulti. Cosa hai provato trovandoti in questo contesto? Il lavoro “Romanì” mi ha arricchito moltissimo soprattutto a livello umano; è durato due anni ed in questo periodo ho conosciuto persone meravigliose. Ho ritrovato anche me st esso, l’Antonio bambino di tanti anni fa con la voglia di vivere la strada. Gli scatti parlano: le figure appena accennate mi trasmettono un’infinita dolcezza. Ho scoperto l’altra parte della luce, l’ombra, che diventa protagonista emozionale – nel campo Rom il buio arriva molto presto, soprattutto in inverno, dove la luce artificiale è quasi sempre assente. La foto che chiude la mostra è la speranza, il desiderio di cambiare, la voglia di essere considerati semplicemente esseri umani.

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Michele Abriola

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Un’armonia d’immagini in ogni sua fotografia, una graduale visione di volti, paesaggi, luoghi di forte impatto emotivo. Un fotografo poliedrico, dalle idee brillanti, che con grande maestria trasmette al pubblico molteplici sensazioni: tenerezza, sensualità, ironia, amore.

Parliamo di Michele Abriola, fotografo italiano, nato il 17 giugno 1970 a Potenza, dove vive e lavora. Ha realizzato numerosi reportages in giro per il mondo, dalla Thailandia alla Cina e poi in India mettendo in evidenza progetti del calibro di The face of Tianjin, People contact, e ancora nel 2013 ha presentato due documentari sociali: L’altra India, frutto di una particolarissima esperienza alla periferia di Delhi e, a seguire, Relazioni con la scenografia delle città di Shangai, Lishui e Beijing che evidenzia le “emozioni in movimento” di luoghi densi di tradizioni culturali. Infine, ad Orvieto Fotografia 2015, l’ultimo progetto, Fivet mette a fuoco una realtà desiderata da tante coppie: la fecondazione in vitro. Da Pechino al Palais des Congrès di Strasburgo, in Francia, grazie al suo talento e alla sua bravura ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali: Nikon Awards, A.N.F.M. Awards; Honorable mention all’International Photographic Award I.P.A. 2013, 15th China International Photographic Art Exhibition, con annessa mostra p ersonale e pubblicazione del catalogo poi, nel 2014, al MIFA Moscow International Foto Awards; infine, secondo classificato al Wedding Photographer of the year 2014 Album Epoca, terzo classificato al FIIPA2015 categoria Moda, nominee al 8th International Color Awards, honorable mentions al Paris Photo PX3-2015.

Michele, puoi raccontarci brevemente come e quando hai deciso di diventare fotografo? Ricordo che da piccolo andavo spesso con mio padre a trovare un caro zio che aveva uno studio fotografico nel centro storico della mia città. Era uno dei primi fotografi di Potenza e fondatore della prima agenzia di fotogiornalismo lucana. Rimanevo sempre affascinato da quel che vedevo: tante storie narrate, tanti volti, le più disparate situazioni documentate. Desideravo toccare con mano tutte le fotografie e le varie attrezzature d el piccolo laboratorio. Era una sorta di virus latente! Infatti, ho iniziato a fotografare solo molti anni dopo. Ho scelto così la fotografia come se fosse un diario privato dove annotare pensieri ed emozioni. Successivamente ho cominciato a documentare il vissuto altrui. A quel punto, la mia passione si è trasformata lentamente in una professione. In tutti i viaggi che hai fatto in questi anni, quale episodio ricordi particolarmente? Sono stato frequentemente in giro per il mondo ed ho visto molte situazioni differenti. Tuttavia ricordo, con maggior intensità, il mio viaggio in India nel 2013. Ero partito per documentare il Kumbh Mela, il p ellegrinaggio Hindu attraverso il quale i fedeli giungono al fiume sacro, ma una volta atterrato a Delhi, mi sono reso conto che sarei stato l’ennesimo fotografo a raccontare la stessa storia. Ho iniziato così a vagare p er la città e nei borghi di periferia, senza un’idea precisa di cosa volessi fotografare, fin quando sono giunto in un villaggio poco distante da Delhi di nome Bahadurgarh. Ho deciso di fermarmi quando ho visto i tanti cantieri edili presenti nella zona e in via di espansione. Mi sono addentrato timidamente in quei luoghi e, non avendo un fixer a disposizione diventava difficile riuscire ad avvicinarsi agli operai. Quindi, ho abbandonato le mie macchine fotografiche e i miei obiettivi ed ho portato con me soltanto il telefono cellulare. Mi ha garantito un accesso più immediato, e ogni giorno ho scoperto un modo completamente diverso di documentare. Mi sono reso conto di quanto una macchina fotografica rappresenti una sorta di corazza per il fotografo e, a volte, un forte repellente per il soggetto fotografato. Al contrario, un semplice telefono cellulare mi ha permesso maggiore libertà di movimento e certamente la possibilità di entrare in luoghi vietati alla sola vista di una qualsiasi fotocamera.

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Il talento e la tecnica sono, senza ombra di dubbio, gli elementi peculiari della tua fotografia, frutto di intuizione e pianificazione. Come nascono i progetti che hai realizzato negli anni? A quale progetto sei più affezionato? Un buon progetto nasce da una buona idea. Ciononostante, capita spesso che ottimi progetti vengano alla luce quasi per caso, senza una progettualità iniziale. E’ stato così per Ice cream I Scream, una delle serie fotografiche cui sono più affezionato. Si tratta di un genere di fotografia completamente diversa dal reportage. Il progetto saltò fuori, per una coincidenza fortuita, quando iniziai a fotografare p ersone con un grandangolo a pochi centimetri di distanza dal volto. Capii immediatamente che in quello spazio ridotto si celava un micro-mondo fatto di imbarazzo, emozione, stupore iniziale e di attimi lunghissimi. Così, per sciogliere il momento iniziale di disagio chiesi ai soggetti che fotografavo di assumer e delle espressioni divertenti. Tutto diventava magico, quasi irreale, e questo grazie alla deformazione prospettica dell’ottica grandangolare. Non mi bastava, volevo qualcosa di diverso, qualcosa di veramente personale. Allora sperimentai un tipo di post produzione sulle fotografie che potesse anche restituire una certa illustrazione fotografica simile ad una caricatura. Col tempo affinai la tecnica e così riuscii a trasformare d ei semplici ritratti in qualcosa di unico e spettacolare, attraverso il gioco di colori, la nitidezza superficiale e le manipolazioni facciali.

Ammirando le tue fotografie nei vari temi trattati scopriamo una “vibrazione inconfondibile”, immagini che suscitano emozioni di varia natura. In tutte esiste, però, un comune denominatore: il fattore sensibile, quell’elemento inimitabile che per l’artista è manifestazione della sua anima e non solo della sua bravura. Cos’è per te il fattore sensibile? Bella domanda! Cosa succede se semplicemente assaggiamo un cibo, oppure annusiamo un profumo? Usiamo i nostri sensi. Se invece, per esempio, assaggiando quel cibo o annusando quel profumo iniziamo a sorridere? Entriamo in contatto con tutte le sensazioni prodotte dalla nostra anima. Il fattore sensibile per m e è, dunque, quella condizione in cui noi riusciamo ad essere in sintonia con la nostra anima, con il nostro io più profondo. Attenzione, ascolto, vigilanza, sono tutte caratteristiche importanti che per un artista diventano “illuminanti” al fine di realizzare una buona fotografia, ritratto, reportage, landscape o altro.

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Imma Tuccillo Castaldo

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Nasce a Saviano in provincia di Napoli il 9 aprile 1972 ma da circa due anni vive e lavora a Sofia in Bulgaria. Imma Tuccillo Castaldo, fotografa fr eelance, è una purosangue partenopea con lo sguardo curioso ed attento, alla continua ricerca dell’emozione da custodire gelosamente dentro un’immagine fotografica. La sua dimensione artistica spazia dalla visuale prospettica delle città al delicato contatto con la natura. L’esigenza nasce dalla voglia di seguire il sentiero della meraviglia dove lo stupore del suo mondo in miniatura, uno dei suoi lavori preferiti, si carica di sfumature ed effetti cromatici senza eguali. “Flâneur” di baudelairiana memoria, così si definisce (lasciando il termine al maschile), artista multidirezionale, creativa e sensibile, vive la sua professione a trecentosessanta gradi per esaltare l’arte visuale nella sua bellezza più pura nascosta dietro la spudorata realtà. Come scriveva Charles Baudelaire: “Il meraviglioso ci avvolge e ci bagna come l’atmosfera ma non lo vediamo”. Laureata in Filosofia della Politica all’Università di Napoli, operatore sociale, un master universitario a Roma sull’immigrazione e la mediazione culturale, Advocacy Consultant e, infine, hai frequentato la scuola di fotografia presso l’Istituto Nazionale di Cinematografia e Televisione “R.Rossellini”: un fitto profilo biografico dove salta agli occhi immediatamente la tua continua volontà di ricerca e di contatto umano. Imma, quanto sono stati determinanti per le tue scelte gli studi e le esperienze fatte? Ho sempre p ensato che la vita fosse troppo breve e le cose da veder e, sperimentare, imparare e scoprire, fossero così tante da dover posseder e almeno dieci vite per soddisfare tutta la mia curiosità. Poi ho scoperto che più imparo, più la curiosità si affina, rigen era quesiti. Credo che l’elisir di giovinezza sia proprio questa voglia e, come un bambino, desidero godere delle sorprese che la vita mi riserva, rimanere a bocca aperta, col naso all’insù per poter inciampare e rialzarmi. Studiare è uno dei modi per soddisfare questa mia curiosità affamata. Incontrare il mondo è l’altro modo. Quando conosco una persona e mi metto in ascolto del suo esistere, posso vivere un’altra vita. Una delle espressioni che più amo è “mettersi nei panni dell’altro” o “camminare nelle scarpe di un altro”. L’empatia è come una macchina del tempo e dello spazio: ti sposti da un universo all’altro costantemente. Tutto questo vivere influisce sulle scelte, indubbiamente, ma non sempre scegliamo consapevolmente. A volte, semplicemente viviamo e solo dopo qualche tempo ci accorgiamo che respirando abbiamo percorso un sentiero invece che un altro. Ad esempio, i miei studi sono stati il frutto di scelte fatte come esperienza di “vita vissuta” piuttosto che di riflessioni ponderate. La Filosofia e la Politica sono scienze dove l’esperimento del pensiero e dell’agire sono costanti. Ad ogni esperimento corrispondono due risultati possibili: successo o fallimento. Non vi sono altre possibilità. Questa tensione concettuale è sana: obbliga tutti i sensi a pr estare attenzione, ad aver cura d ell’oggetto sperimentato e del come si procede. La cura è il segr eto per essere liberi. Una delle mie canzoni preferite è, per l’appunto, La Cura di Franco Battiato e n ell’ascoltarla, a volte, ripenso alle per sone e alle situazioni di cui, forse, non mi sono presa cura abbastanza e vorrei rimediare, se possibile. Qual è stato l’episodio che ti ha spinto a dedicarti all’arte fotografica? Ho cercato a lungo il bello e il vero; quando ho scoperto che pensiero ed azione sono di fatto l’uno l’essenza dell’altra, ho cercato il giusto. Non ci sono eventi particolari che mi abbiano ispirato. Vi sono esigenze. Volevo trovare uno strumento di comunicazione che, di volta in volta, mi mettesse nella condizione di esprimere, sia pure in parte, le mie perplessità e le mie speranze ma soprattutto che invitasse gli altri a discutere del bello, del giusto e del vero. Le parole non possono raccontare tutto. Infatti, proprio quando all’improvviso divennero mute, presi una macchina fotografica e cominciai a reinventare la realtà. Una fotografia non è mai la rappresentazione fedele della r ealtà, se non altro perchè essa appartiene al passato cioè all’istante esatto dello scatto. La fotografia è una realtà a parte, è infedele, tradisce la realtà stessa per il semplice “gusto” di farlo. A volte penso che fotografia e realtà stiano l’una all’altra come due amanti in una relazione complicata. Si tradiscono a vicenda pur essendo innamorate. La realtà che oggi viviamo è una realtà narcisista, è autocelebrazione. Si presenta spesso artefatta, alterata, isterica come una logora ninfomane. Certo, c’è anche una realtà gravida di oscenità umane, quella delle miserie e delle em ergenze. Di questo tema, ripetuto sotto molti cieli, la fotografia diviene complice infame, a mio avviso, soprattutto quando si presta all’esaltazione dell’autorefotografo sui carpets internazionali. La denuncia perde significato (significante vuoto) e, di conseguenza, miseria, emergen za, dolore e morte diventano caratteri del prodotto fotografico, strumenti della barra da inserire nella composizione. Al di là di questo, la fotografia è per antonomasia l’amante infedele. Ed è p er questa sua spudoratezza che ho voglia di fotografare.

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La tua fotografia spazi a dall’immagine urbana, come il progetto intitolato “Flâneur”, che lascia allo spettatore la scoperta della forma architettonica e di una visuale prospettica molto particolare, per passare al contatto genuino con la natura seguendo un percorso di effetti cromatici, come quello di My Miniature World. Parliamo di due aspetti che spesso si scontrano nella realtà, l’eterna lotta tra città e campagna, tra uomo evoluto e natura primitiva. Tra i due soggetti fotografati con quale, Imma, si sente maggiormente appagata? Fotografare non mi appaga. Se mi appagasse, probabilmente, smetterei di fotografare. Sono a mio agio nei sentieri boschivi, quando ho bisogno di avvertire l’odore della terra e di sentire le mani imbrattate al suo contatto, così come le unghie sporche, gli abiti e i capelli. Quando fotografo mi estraneo dal momento che vivo e, come un ladro, cerco di rubare a me stessa un’emozione e custodirla gelosamente. Il mio futuro lo immagino distante dalla dimensione urbana, una distanza sufficiente a recuperare il Tempo. “Flâneur” è senz’altro un diario di viaggio estremamente ricercato ed interessante. Come è nato questo lavoro? Il rapporto con la città è difficile. La città ruba tempo da dedicare a famiglia, passeggiate con gli amici e gli amanti. Roma fa parte di questo contesto. Le interminabili attese alle fermate d egli autobus, le file sgangherate e il traffico nella capitale spiegano, meglio di ogni altro aspetto, l’appellativo di “città eterna”. La città fagocita il tempo di ciascuno e lo digerisce facendolo proprio. Questa sensazione mi ha spinto a percorrerla come se cercassi di strapparle il tempo che mi sottrae ogni volta che l’attraverso e per farlo l’ho decomposta. La mia digestione delle sue forme più ambite e godute ha fatto emergere Roma Caput Mundi, il primo capitolo di “Flâneur”. Anche quando ho visitato Sofia, per la prima volta nel 2005, i quartieri costruiti dal regime, costituiti da parallelepipedi tappezzati di finestre, chiamati blocks, mi hanno impressionato. Continuano a farlo, esercitano su di me un fascino ambiguo. In uno di questi palazzoni grigi vi ho abitato: una potente esperienza estetica. Ho atteso così i cieli, mosaico di nuvole, per poter dare profondità, ed ho restituito, attraverso Babelyulin, le sensazioni alternate di stupore e claustrofobia vissute nel quartiere dove stavo. Io sono il Flâneur. La multiesposizione mi ha permesso di raccontare la mia ribellione a ciò che non sostengo con serenità, anche nella vita quotidiana. Quali progetti fotografici hai realizzato ultimamente? L’ultimo, in ordine di tempo, è un progetto che mi è particolarmente caro. Si tratta di My miniature world. Il mio mondo in miniatura è quello vissuto in oltre un anno di pendolarismo tra l’Italia e la Bulgaria. Ho immaginato stampe di dimensioni ridotte (15×15 cm) perchè desidero invitare l’osservatore a leggere la mia intimità, a volte sconvolta, altre pixelizzata, oserei dire. Il progetto è realizzato con la fotocamera del mio smartphone Sony Xperia. Questo perché voglio soprattutto rimarcare il fatto che fotografare non coincide con il possesso di uno strumento dal valore di mercato più o m eno elevato o con il numero di pixel che eccitano l’erotismo del consumatore da caso clinico. Fotografare è un’esperienza, la mia esperienza dell’adesso, singolare e plurale nello stesso t empo. Parafrasando Jean-Luc Nancy, fotografare è esperienza della singolarità plurale. In cantiere c’è l’idea di esporre la serie a Roma. La mostra sarà curata dall’Architetto Eleonora Carrano e dal Prof. Carlo Severati. Sarà ospitata negli spazi di Embrice, in Via delle Sette Chiese. Sono molto contenta del risultato raggiunto, anche se lo immagino come un progetto che si amplia sempre più con nuove prospettive. Si arricchirà d’immagini finché ne sentirò la necessità. Quale città d’arte ti rappresenta meglio come artista? Napoli, senza alcun dubbio. La mia anima fu sedotta dalla leggenda di Partenope. Tengo molto alle nostre antiche origini greche. Partenope era una giovane fanciulla che, seduta sugli scogli del Mar Jonio, guardava gli orizzonti e sognava terre lontane. Innamorata e ricambiata dal giovane Cimone, fuggì con lui per vivere il loro amore, contrastato dal padre. Raggiunsero una terra che li accolse con la sua florida vegetazione, un paradiso. La notizia si sparse e così, ben presto, dalla Fenicia, dall’Egitto e dalla Gr ecia giunsero popoli ad insediarsi.

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Partenope resse quella terra, popolata da genti diverse, con rispetto e saggezza, amata da tutti. La leggenda di Partenope nutre le mie intime radici anche dopo averle estirpate dalla mia terra. M’incanta l’idea dei molti popoli che coabitano nel mio sangue. E’ una sensazione che avverto quando percorro le strade di Napoli facendomi assorbire dalle voci, dagli odori dei bassifondi, dalla nobiltà, dalla ricchezza e dalla povertà, dall’orgoglio di una terra calorosa. E’ questa Napoli che racconto a coloro che me ne chiedono, oltre a raccontare della pastiera, ovviamente. Quali personaggi (artisti e non) sono stati per te fonte d’ispirazione? Le persone che incontro, le biografie di alcuni artisti, filosofi e personaggi storici leggendari sono le mie sorgenti di ispirazione. Anche Lady Oscar, e lo affermo con un grande sorriso! La fantasia li insegue e, a volte. provo ad immaginare le loro vite, le loro passioni. Faccio fatica a focalizzarne alcuni, ma indubbiamente Annemarie Schwarzenbach è l’artista, il personaggio e la donna che ha influenzato molte prospettive e decisioni nella mia vita. Non sono una fotoreporter, tuttavia il suo vissuto, oltre lo stile, è, per me, un centro di gravità che diventa punto di riferimento, dopo aver percorso distanze siderali con l’immaginazione. Ringraziamo Imma per il suo prezioso contributo lasciando alla bellezza dell’arte fotografica un pensiero della Schwarzenbach: “Si dovrebbe diventare un pezzo di deserto o un pezzo di montagna e una striscia di cielo di sera” e aggiungiamo una piccola nota redazionale… per leggere intimamente la fotografia.

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Guido Gaudioso

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Guido Gaudioso è un artista con un percorso estremamente singolare: avvocato di professione e fotografo al tempo stesso, due attività che apparentemente si conciliano ben poco ma che insieme rappresentano la materia sensibile per liberare la sua natura alchemica in tema di arte visuale. Solve et coagula era la formula essenziale del sapiente alchimista ed è proprio questa la sottile peculiarità di Gaudioso: restituire alla fotografia artistica quella traccia “chimica” (un tempo si definiva alchimia) che attraversa la forma umana, la sintetizza e la rende sostanza visiva accessibile al pubblico in visita presso le sue esposizioni. Guido nasce il 23 novembre 1967 a Siracusa dove vive tutt’ora, circondato dalle bellezze naturali della splendida isoletta di Ortigia, in una città immersa nel mondo ellenico tra templi e antiche sinagoghe contornate dai contrasti artistici dei suggestivi palazzi barocchi. Nel 2007 vince il primo premio della mostra concorso “I have a dream”, indetta da Tribe Art. Nel 2008 partecipa alla collettiva su “Arte e nuovi media”, presso la Galleria Civica di Arte Moderna a Spoleto. Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati nel catalogo “New Media Design. Le nuove frontiere dell’arte”, Sometti Editore. Il suo “doppio lavoro”, come lo definisce, ossia avvocato di giorno e fotografo di notte, lo porta a frequenti spostamenti, nutrendo la gioia di tornare sempre tra i vicoli ombrosi e tranquilli della sua terra natìa. La tua storia è molto interessante, un percorso come avvocato con una spiccata vena artistica. Puoi raccontarci chi è Guido Gaudioso e come riesce a conciliare i due aspetti professionali? Innanzitutto ti ringrazio per i giudizi assai lusinghieri e spero almeno in parte meritati. A volte, durante le interviste o chiacchierando con un collezionista al vernissage di una mia mostra, mi piace scherzare, raccontando che in effetti io sono “avvocato di giorno, fotografo di notte”. In certi casi sembra fondamentale pr ecisare subito che, come hai giustamente accennato, quella della fotografia (o viceversa quella della professione forense) non è una semplice passione, una sorta di hobby cui sono particolarmente affezionato. Per me – lo dico sinceramente e senza r etorica – si tratta di vere e proprie necessità. Un’esigenza dell’anima che ho sempre avvertito, fin da piccolo. Da grande, poi, con maggiore consapevolezza. Mi chiedi come si conciliano la professione di avvocato con quella di fotografo. Se intendi da un punto di vista pratico-organizzativo, ti rispondo che non si conciliano facilmente. Sono entrambe passioni divoranti e impegni che richiedono grande e costante attenzione ma soprattutto profonda dedizione. Potrei rispondere, scherzosamente, che dormo meno di sei ore a notte, riuscendo così a realizzare (devo confessare, con delle belle soddisfazioni) gli obiettivi che mi pongo, nell’uno come nell’altro campo. In realtà, secondo il modo in cui le vivo e concepisco, le due attività non sono così lontane tra loro visto che in entrambi i casi si tratta di discipline umanistiche. Per me, l’essere umano è sempre stata la principale fonte di ispirazione e l’oggetto della mia ricerca. Un tempo e in parte ancora oggi, gli avvocati erano appassionati intellettuali e studiosi delle pieghe più recondite dell’animo umano in ragione della loro professione e principalmente per inclinazione naturale. Condivido pienamente quella passione e quel tipo d’interesse. Non a caso mi sono laureato con una tesi in criminologia, scienza giuridica in cui confluiscono sociologia, antropologia, medicina e diritto. Al centro vi è la natura umana con i suoi lati più oscuri nel tentativo di svelarne i misteri e le ragioni. Insomma, il diritto “vivente” (così definito in ambito forense) da un lato e la fotografia dall’altro, in special modo la ritrattistica, hanno un punto di contatto sostanziale che si fonda sul campo d’indagine e di analisi cercando di comprendere o, quanto meno, rappresentare i bisogni dell’uomo e le sue eterne domande. Il tuo interesse per il teatro ti ha permesso di realizzare un progetto singolare intitolato “La Strada” dove metti in evidenza la “libera vita errante”, per dirla alla maniera di Chabot de Gironville, come si trova scritto sul tuo sito. Quanto è importante per te la libertà espressiva? Gentilissima intervistatrice, le tue domande sono davvero stimolanti e pertinenti.A parte gli scherzi, hai toccato un punto per me assai importante, non solo nella mia personale sfer a creativa ma per come concepisco l’arte tout court, in quanto regno delle infinite possibilità di espressione e comunicazione.

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In poche parole, per me la libertà espressiva è fondamentale ed irrinunciabile come ogni forma in cui si estrinseca la libertà umana, in effetti. E’ vero che ad una illimitata libertà deve corrispondere una proporzionale assunzione di r esponsabilità, ma n essuno può imporre ciò o altri limiti di sorta dall’esterno. L’arte non lo ammette, per definizione. Abbiamo avuto esempi illuminanti di quel che accade quando è l’Autorità a dettare criteri di giudizio su cosa è arte e cosa non lo è (o meglio e ancor più grave, ciò che non può esserlo. Vedi il terrificante concetto di “arte degenerata” che proponeva il regime nazi-fascista). Non m eno assurdo e pericoloso, in ogni caso, l’asservimento dell’arte e delle su e concrete espressioni ad una qualsivoglia ideologia politica, cui subordinare l’idea creativa. Rifiuto decisamente l’opinione secondo la quale l’arte per essere tale deve essere utile ovvero aver e una “funzione sociale”. L’esigenza espressiva d ell’uomo non può esser e condizionata da alcunchè. Essa è libertà, per antonomasia, selvaggia, illimitata e a volte scandalosa (in quanto portatrice di nuovi punti di vista e prospettive), quasi sempre EVERSIVA ed anarchica. Lascio volentieri ad altri il compito di creare opere (fatte di parole, immagini, suoni – non importa) che abbiano il solo fine di alleviare la noia quotidiana o assecondare i più sterili luoghi comuni estetici e concettuali. Per citare Roland Barthes, “la fotografia è sovversiva quando è pensosa” (La camera chiara). Un altro particolarissimo lavoro con il quale hai anche ricevuto numerosi consensi è “In corpore”, una riflessione sulla bellezza della forma fisica, tra simulazione e realtà, tra materiale ed immateriale. Anche il progetto fotografico “Kynesis”, sulla danza, mette in luce i movimenti del corpo in perfetta armonia. Secondo te il corpoè oggetto o soggetto? “In corpore” è un progetto fotografico che investiga il tema del corpo umano, delle sue metamorfosi e del modo in cui oggi lo percepiamo. Per un fotografo ritrattista, il corpo umano è n ecessariamente soggetto. Ma in modo complesso e ambivalente. In ogni caso, come artista visivo, è proprio tra le forme che mi muovo. Per me il corpo è soggetto significante, al pari della luce. Allo stesso tempo, questi sono solo riflessi, movimenti di superficie che servono a riecheggiare e rappresentare ciò che più si agita nel profondo. A proposito di “Kynesis” e di come immagino il rapporto tra danza e fotografia, posso dire che come la danza è mat eria viva che si concretizza, vive e respira nei corpi di chi la pratica, così la fotografia è luce, un’operazione alchemica che congela il movimento e lo riproduce su una superficie piana, materializzandosi nei sali d’argento. Luce e movimento sono i due indici che guidano la realizzazione delle fotografie di “Kynesis”. A ciò è dovuta la scelta di fondali neri, un buio da cui emergono i corpi traslucidi dei ballerini. Le forme luminose dei loro corpi appaiono dal nulla grazie alla luce che ne evidenzia i lineamenti. L’eleganza delle coreografie cela lo sforzo fisico necessario perché ciò avvenga. L’immagine si fa metafora. La fotografia traduce la metafora in zone di bianco, grigio e nero. La potenza evocativa della tua arte fotografica suscita nello spettatore emozioni contrastanti. Quanto conta per te la fisicità e quanto la sensibilità? Qual è il confine fotografico tra corpo e anima? Non credo di poter immaginare una differenziazione, una dicotomia tra “fisicità” e “sensibilità”. Per me sono la stessa cosa. E p er lo stesso motivo, l’ambizione più alta è quella di tradurre questo concetto in fotografia, nel modo più chiaro ed efficace. In un altro senso potrei dire che quello che definisci “confine fotografico tra corpo e anima” è l’occhio, lo sguardo dell’osservatore come quello del soggetto ritratto. Più che di confine, parlerei di soglia, punto d’accesso e contatto tra esterno e interno. Quindi non “limes” (barriera, confine, limite) ma “limen” (soglia, ingresso). Nei miei ritratti, il soggetto guarda sempre “in camera” vale a dire, verso l’obiettivo. Colui che guarda viene guardato, in una sorta di moto infinito tra estraniazione e riconoscimento dell’altro sè. Simboli e forme, analogico e digitale, interpretazioni molto personali di vari aspetti del genere umano. Questi sono i segni di riconoscimento della tua arte. Secondo te, qual è il tuo archetipo ovvero a quale stile fotografico riconosci di appartenere? Se vogliamo intendere il cosiddetto genere fotografico, posso definirmi ritrattista. Ma d evo dire che le categorie e gli “inquadramenti” mi stanno stretti, nella loro rigidità.E’ vero che grandi maestri della fotografia come Richard Avedon, Diane Arbus, August Sander, Ugo Mulas, Man Ray sono stati un’enorme fonte d’ispirazione, insieme a geni inimitabili come Michelangelo, con i suoi “incompiuti” (la Pietà Rondanini o Prigioni), Caravaggio e Chaim Soutine. •

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Questo non mi costringe dentro uno schema predefinito, non è una razionalizzazione che compio a priori. Me ne sono reso conto durante la realizzazione d ei miei progetti fotografici, in particolare raffrontando la serie dei “Ritratti” con quella di “In corpore”. Quando le esigenze espressive l’hanno richiesto, sono passato, senza drammi o difficoltà particolari, dalla pellicola e dal lavoro in camera oscura al digitale, persino alla postproduzione estrema tanto da allontanarmi considerevolmente da quel che viene tradizionalmente definito “fotografia”. In fondo, torniamo al discorso sull’assoluta libertà creativa dell’artista, sottomesso soltanto alle proprie esigenze espressive. Non sono ingenuo: so bene che il mercato impone ben altri meccanismi. Semmai trovo molto utili, oserei dire assai “fecondi”, i simboli e l’apparato iconografico della grande tradizione ermetica. Confesso che ne abuso a piene mani, ma con il massimo sforzo di onestà intellettuale. D’altronde subisco da tempo il fascino della tradizione alchemica e della filosofia ermetica. Come potrebbe essere altrimenti, per un fotografo che ha usato la cam era oscura e ne conosce i procedimenti? Prima dell’avvento della fotografia digitale e dei suoi eccessi ipertecnologici, quasi ogni fotografo (per lo meno chi maneggiava carte, sali d’argento e bagni di sviluppo) era a modo suo un moderno alchimista. La tua sensibilità artistica è cost antemente presente in ogni evento che hai messo in cantiere in questi anni di carriera. Quest’alchimia visuale si realizza attraverso lunghi periodi di studio e progettazione. Per concludere, quindi, siamo molto curiosi di sapere a quali progetti stai lavorando attualmente. Puoi rivelarci cosa accade adesso nella tua “fucina fotografica”? E’ molto bella l’immagine mentale che proponi: “fucina fotografica” e ti ringrazio per il riferimento alla cosiddetta “alchimia visuale”. Mi chiedo se davvero posso rispondere alla tua domanda. Di solito e secondo tradizione, l’artifex opera in solitudine e segretezza – nella propria fucina – per la realizzazione dell’Opera e precocemente non può svelare nulla al riguardo. Ma naturalmente scherzo, o meglio sai bene che tipo di pensiero ho appena citato. Per tornare, molto più umilmente, al sottoscritto ti dirò che sto continuando a riflettere su uno dei filoni che si è sviluppato durante la produzione di “In corpore”, a proposito del rapporto tra corpo e materia. Ho trovato grande ispirazione nella pittura di Jean Fautrier ed in quella di Francis Bacon. Come anche in tutto ciò che non ho capito della filosofia bergsoniana. Inoltre, in merito alla fotografia, potrei citare il bellissimo lavoro di Brassai sui muri di Parigi o quello del grande Nino Migliori. Prima che tu possa rimproverarmi e richiamarmi all’ordine, risponderò molto più semplicemente che sto r ealizzando una serie fotografica sui “Muri” (riflessione su tempo e materia). Quindi non allarmarti se ti capiterà di veder e un tizio con la macchina fotografica posizionato a 5 centimetri da un muro sbrecciato e corroso dalle intemperie. Inoltre sto progettando, con l’aiuto e il sostegno di un caro amico musicoterapeuta, un fotoreportage sullo splendido lavoro che svolge un’associazione canad ese a favore dei malati terminali, nelle foreste nordamericane. Un tema molto intenso e che mi sta grandemente appassionando. Ringraziamo Guido Gaudioso per la gentile chiacchierata, alleggerita da un pizzico di sale ironico della nostra terra d’origine siciliana d.o.c. E’ così: la materia artistica nascosta tra i fluidi sanguigni dell’essere umano diviene solvente creativo che scioglie i nodi dell’anima. Anche questa è fotografia, la libera alchimia visuale.

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Mariano Silletti

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Lucano d’origine, classe 19, Mariano Silletti concilia armonicamente il suo lavoro di carabiniere con la passione viscerale per la fotografia. La sua p ersonale ricerca fotografica esplora temi quali la street photography e il reportage documentaristico. Fa parte del collettivo italiano di fotografia di strada InQuadra. La fotografia lo accompagna da quando aveva 15 anni cominciando da autodidatta grazie anche alla spinta, quasi inconsapevole di suo fratello che un giorno gli regalò la sua vecchia Yashica FX3 Super. Mariano lascia un segno nei cuori degli spettatori, grazie ai valori profondi in cui crede e che diventano evidenti nei suoi scatti: l’inesorabile trascorrere del tempo come in Domus Sapiens, vincitore del Leica Talent 2014 , e ancora i drammi della vita, il senso di smarrimento e la speranza che non può morire come in Ludovicu, uno dei suoi lavori più emozionali con il quale ha vinto il World Report Award 2015 e il Moscow International Foto Awards – categoria Editorial Photo Essay Mariano, innanzitutto cosa rappresenta per te la Basilicata, la tua regione d’origine? La Basilicata è una terra da scoprire, una finestra dalla quale guardar e epoche, uomini, storie venute da lontano, da un passato che ci appartiene. E’ sicuramente il set fotografico più adatto per questa impresa: i suoi paesaggi dai contorni severi e infiniti, le pietre delle strade, i volti solcati dai segni del tempo così simili alle pieghe dei colli all’orizzonte. Mi piace dialogare con la mia terra anche in modo silente e misterioso, condividendo i punti dove si può cogliere il suono di questa conversazione ai limiti dello spirituale. I miei scatti, spesso, sono il connubio tra tempo e spazio. Quali soggetti catturano il tuo obiettivo interiore? Ho sempre il desiderio di raccontare storie che trasmettono emozioni, prevalentemente mi attrae tutto ciò che stimola la riflessione. La fotografia ha contribuito a farmi sviluppare maggiore sensibilità e attenzione nei confronti di quello che mi circonda. Nei miei scatti cerco di cogliere costantemente le emozioni, il rapporto tra il soggetto ritratto e gli altri, gli avvenimenti principali della sua esistenza e i luoghi principali della sua vita. A parte il fotografo, quale veste riesci meglio ad indossare? Sicuramente quella di carabiniere che mi ha sempre dato la possibilità di svolgere un lavoro attivo, non monotono e soprattutto utile agli altri. Cerco sempre di contribuire a migliorare il mondo nel quale viviamo ma non è sempre facile: occorrono capacità personali, esperienza e impegno. Questo mi succede anche nella fotografia, cerco di rispettare i miei soggetti e di non essere troppo invadente, facendo emergere soprattutto il lato umano. Domus Sapiens è il progetto selezionato come miglior lavoro del Leica Talent 2014 che evidenzia vari aspetti dell’esistenza: la vita di coppia, la casa e tutti quei momenti del quotidiano che lasciano una traccia indelebile nell’esistenza. Parlaci di questa singolare esperienza. Ho cominciato alla fine di gennaio quando a Matera c’era un freddo terribile. Ero talmente sprofondato in questo mondo che percepivo tutta la realtà intorno a me più strana di come fosse davvero. I soggetti mi sembravano misteriosi. Prima di scattare ho scritto su un quaderno tutto ciò che la coppia mi raccontava. Avevo riempito diverse pagine e sulla copertina avevo anche dato il titolo al progetto: “Domus Sapiens”. Era da molto tempo che pensavo a queste due parole. Questa è sicuramente una storia semplice, bella e malinconica.

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Tuttavia stava diventando molto più lunga di quanto avessi previsto all’inizio; aveva assunto ormai troppa forza con un odore intenso di umanità. Ho fotografato la casa di questa coppia, il luogo più importante per loro, quello in cui vivono ed esprimono la loro essenza, in tutti i loro aspetti. Ho immortalato l’ambiente cogliendone gli aspetti più significativi per evidenziarne l’identità. E’ stata una maniera alternativa di realizzare un ritratto degli ultimi anni della loro vita, attraverso l’habitat in cui passano le loro giornate, cariche di amore, religiosità, ricordi, memorie, sofferenze, isolamento, abitudini e fragilità. Un altro progetto molto particolare è Ludovicu, il tuo lavoro più maturo. Vuoi raccontarci questa esperienza? L’idea mi è venuta durante le ricerche di una persona scomparsa, Ludovicu. All’età di 57 anni era arrivato dalla Romania con la sua famiglia. Da tempo soffriva di Alzheimer e purtroppo un giorno di dicembre del 2013, era uscito di casa senza più fare ritorno. Veronica, sua moglie, dopo averlo atteso per ore alla fine era venuta in caserma. La storia di Ludovicu ha toccato la mia anima e io, carabiniere e fotografo per passione profonda, non volevo che questa storia fosse dimenticata. Mi sono sentito attratto immediatamente da questa vicenda per non parlare delle difficoltà che abbiamo dovuto incontrare a causa della avverse condizioni climatiche e di un territorio impervio da perlustrare. Mentre lo cercavamo, ci siamo imbattuti in mille mondi diversi: migranti, pastori, contadini, e naturalmente i nostri compaesani. Osservavo con altri occhi. La nostra ricerca era ostinata, ho visto paura e dolore. Un uomo svanisce sen za lasciare alcuna traccia. Mi sono sentito circondato dalle ombre e volevo che si dissolvessero. Una primavera dopo l’inverno ma di Ludovicu nessuna traccia: svanito nel nulla. Ad oggi Ludovicu non è ricomparso. Più che un reportage è stato un percorso emozionale. Ho imparato a osservare e ad aver pazienza, a vedere in maniera differente quella dimensione che mi appartiene da circa 23 anni. E’ stata un’esperienza formativa che mi ha spinto ad intraprendere, con più maturità visiva, la mia strada artistica. Non è sempre facile utilizzare la fotografia come fonte di ricerca ma ritengo importante la r elazione esistente tra questa e il mio lavoro. E’ un modo diverso di raccontare gli avvenimenti d’attualità, o meglio, un’altra maniera di interpretare la realtà. Sicuramente, nell’utilizzare la macchina fotografica, non mi pongo le stesse domande che si pone un normale fotografo: il mio è un punto d’osservazione privilegiato. Mariano, ho letto dal tuo sito che sei appassionato come me di Salgado con le sue magnifiche fotografie che testimoniano due aspetti della stessa realtà: l’uomo in continuo viaggio con i suoi pregi e difetti, e la natura che resiste ai cambiamenti ma che rimane la sede dello stupore e della meraviglia. Oltre a questo grande fotografo quali nostri contemporanei ti attraggono? Quando ho visto per la prima volta gli scatti di Salgado mi sono emozionato. “Terra”, in particolare, mi ha folgorato! E’ stato proprio in quel momento che ho deciso di impegnarmi seriamente per crescer e come fotografo. Adoro pure Paolo Pellegrin da cui ho imparato tanto soprattutto sulle sfumature della luce. Mi piace molto anche Felix Lupa. Invece, per quanto riguarda la street photography sono rimasto colpito da Alex Webb: il suo occhio sempre attento a dosare le luci, i colori e le emozioni, con la giusta dose d’ironia, mi ha veramente conquistato.

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Nino Cannizzaro

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Un’altra storia prende forma, ancora un racconto, tra immagini e parole, per mettere a fuoco il profilo del protagonista odierno di Storytelling. All’apparenza ombroso ma con un forte senso dell’umorismo che si estrinseca quando entra in confidenza col prossimo, una consapevole attenzione per i bagliori velati dai chiaroscuri, una semplicità ammantata di riservatezza, questo è uno dei “mondi” di Nino Cannizzaro, fotografo palermitano, personalità poliedrica con molteplici interessi che spaziano dalla lettura alla musica, ponendo costantemente al centro del cerchio l’amore per l’arte ed in particolare per lo scatto fotografico, con un accurato sguardo verso il paesaggio umano ed urbano. Vive a Bagheria anche se in realtà, come lui sostiene, la sua vita è in ogni sentiero che lo conduce alla fotografia, l’eterna d ea adorata, professione praticata, inizialmente da autodidatta, a partire dal 2007. Come tanti figli di Sicilia, si legge nella sua biografia, porta con sé “tutte le contraddizioni di una terra dura, conturbante e viscerale” come la sua curiosità per il mondo e per la gente che incontra per strada, dove il suo occhio imprevedibile rivolge attenzione estrema alla parte più intima penetrando nelle profondità degli abissi esistenziali. Catturato dalle intense emozioni, respira il soffio di ogni vita che attraversa, tracciando una linea fotografica fatta di luoghi, volti, azioni che vengono alla luce gr azie al suo sentire, quella frenetica voglia di scoprire senza lasciarsi turbare, condividendo, infine, col pubblico ogni sua percezione visiva. Nino ha partecipato a numerose esibizioni fotografiche come quella, tenutasi lo scorso aprile, in occasione della collettiva “Questo Paese”, nell’ambito della rassegna “A place to see” del B4 di Via Ripamonti 13 a Milano. Nel 2014, invece, al Tizipac International Contest, è giunto al primo posto nella categoria People. Nel 2013 è stato selezionato per la Rassegna Italiana di Fotografia Contemporanea – Confini 11 ed ha vinto, insieme ad altri cinque artisti, con il progetto “Quando Jupiter guardava ad Est”. Durante lo stesso anno al Grand Prix de la Découverte (Paris) ha ricevuto il Jury Award of Merit nella categoria Still Life, mentre il precedente anno, sempre al Grand Prix di Parigi, ha ottenuto il riconoscimento della giuria nella sezione Landscapes – Seascapes. E’ m embro di SPontanea (Italian street photography) Nino, come e dove hai incontrato la fotografia? Con la passione per l’arte figurativa, forse, ci sono nato. Crescer e in una casa piena di libri d’arte, usati come fumetti, vista la passione di mio padre per la pittura, probabilmente, ha fatto il resto. L’incontro con la fotografia è stato, invece, fortuito e improvviso. Un giorno mi è capitato di guardare un rarissimo documentario su Mario Giacomelli: la folgorazione! Il giorno dopo ho comprato una macchina fotografica digitale. Dagli esordi in digitale alla scoperta dell’analogico, dagli esperimenti in camera oscura a quelli con lo smartphone, tutto è frutto di scoperte e sperimentazioni da autodidatta, tra letture onnivore e di portfolio durante i Rencontres d’Arles, mostre di ogni genere, insieme a tanto altro che non c’entra niente con la fotografia. Come definiresti il tuo stile fotografico? In realtà in nessun modo; lascio volentieri il piacere agli altri. A me basta continuare a “sentire” quello che faccio. I tuoi progetti sono particolarmente complessi, spesso di denuncia, come “Palermo-Messina andata e ritorno” e “Le detroit perdu”. Ci sono ancora delle immagini che mostrano la tua terra quale luogo-limite, così come la definisci. Mi riferisco proprio al lavoro City limits. “Sport popolare in spazio pubblico” si legge su un muro a cui hai dato identità. Puoi raccontarci cosa ti ha spinto a documentare la periferia della tua Palermo? “Palermo-Messina andata e ritorno” si limita a guardare fuori dal finestrino del treno che attraversa oltre 200 chilometri di costa, tra le più belle e degradat e zone che mi sia mai capitato di vedere. Seguendo la rotta di Ulisse “Le Detroit Perdu” scruta un luogo reale come lo Stretto di Messina e il faraonico progetto del ponte che rischia di alterare gli equilibri di queste terre quasi magiche. “City limits” è un lavoro in progress, nato come progetto del collettivo di Street Photography SPontanea di cui faccio parte, iniziato per esplorare i limiti della città più che quelli della sua periferia, ma i suoi sviluppi futuri sono imprevedibili come i margini di qualsiasi cosa.

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“Quando Jupiter guardava ad est” è il titolo della tua raccolta fotografica che ha vinto, insieme ad altre cinque, la rassegna italiana di fotografia contemporanea Confini 11. Le immagini rappresentano una cruda realtà dove la mano delle potenze, come la Nato, ha preso possesso, a volte in forma silente, di alcuni angoli della nostra Italia. Da dove nasce quest’idea? Quando Nino guardava ad est cosa vedeva? L’idea è nata dal nome del contest “Confini” e dalla mia passione per la storia, seguite da un lungo periodo di ricerca e riflessioni sui confini naturali ed appaltati dell’Italia, della fotografia e d ello schermo del pc che ho, in effetti, usato per guardare questo mondo da una prospettiva “diversa”, anche se non nego che mi piacerebbe continuare ad esplorare altri punti di vista di quei paesaggi. Entrando per un attimo nella tua sfera personale, in quale mondo vive Nino Cannizzaro? In tanti mondi. Tutti quelli che trovate nelle mie fotografie. Unstructured_City, uno dei tuoi primi progetti, si discosta dal tuo modo di fotografare. E’ un lavoro singolare e d’effetto e ricorda vagamente la pittura futurista. Le immagini sembrano plastiche, cedevoli alla vista. Permettimi la forma ironica: cosa si cela dietro l’elasticità del tuo occhio? Unstructured_City è nato dopo aver visto la trilogia qatsi (nel linguaggio hopi significa vita) di Godfr ey Reggio e dopo essermi cimentato un po’ con l’analogico. In gen erale mi piace sperimentare altre prospettive e creare cose completamente diverse dal solito, proprio per vedere che effetto fa. A proposito di effetti, hai appena realizzato una straordinaria raccolta dal titolo Ronzio, fortemente sinestesica, molto intensa, frutto di un lavoro sviluppato nel tempo, dove gli stati d’animo, le passioni e le ossessioni viscerali pulsano in testa emettendo suoni visivi. I tuoi occhi hanno fermato le immagini più significative del tuo percorso fotografico. Puoi raccontarci come sei arrivato a sentire questo ronzio? Cosa rappresenta per te questo progetto? Questo “Ronzio”’ lo sento da sempre. Forse è il mio modo di percepire le cose. Il progetto, in fondo, rappresenta solo un momento per tirare fuori quello che ho dentro osservandolo da un altro punto di vista. Dopo aver raccolto per anni decine e decine di scatti (i ronzii) generati da contrastanti stati d’animo e viscerali emozioni ho deciso di condividere questo lavoro lasciando ad ogni sguardo la libertà di ved ere e sentire senza alcuna ambizione, presunzione o intenzione di suggerire nulla se non ciò che è. Il cupo pulsare di passioni e ossessioni che guidano la mia ricerca della luce nelle stridenti oscurità del quotidiano è tutto un ronzio insieme a quello che si addensa nel profondo della mia vita e nella mia visione fotografica. Rimanendo in argomento, mi viene in mente una figura retorica che desidero esternarti come spunto per la prossima domanda. Come un palombaro che nuota nelle profondità degli abissi avvertendo il sibilo della pressione, tu scivoli lentamente nell’oscurità dello scatto fotografico trasformando le sfumature di luce nei bagliori della discesa. Cosa vede Nino durante la risalita in superficie? Qualche tempo fa qualcuno mi ha detto che ci sono più ombre e chiaroscuri sulle mie foto a colori che in quelle in bianco e nero. In ogni caso con la fotografia, e non solo con quella, cerco di guardare sotto la superficie, ciò che se ne sta giù, in profondità. Ogni tanto scappa fuori da crepe, sguardi, stranezze ed imperfezioni. In parte vedo quello che c’è nei miei scatti, in parte quello che sento e poi… c’è l’ingrediente segreto che, ovviamente, in quanto tale, non vi posso svelare.

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Fabio Moscatelli

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Siamo in Italia, nel cuore d ella capitale ed è proprio qui che gli occhi mettono a fuoco una nuova immagine, documentata da emozioni moltiplicate nel tempo con appunti di viaggio che hanno fotografato l’anima del mondo. Il nostro obiettivo incrocia quest’oggi lo sguardo di Fabio Moscatelli, fotografo romano il quale, senza scader e nella spettacolarizzazione, riesce a donare al pubblico una visione più intensa di quella delicata realtà che dorme dietro l’angolo, nella speranza di risvegliare la linfa vitale che nutre la forma. Fabio Moscatelli nasce a Roma, il 6 luglio 1974 dove vive e lavora p er la maggior parte del tempo. Inizia a fotografar e a 25 anni come assistente di studio e cerimonia per approdare in seguito alla fotografia di reportage sociale ed etnologico. Studia presso la Scuola Romana di Fotografia che gli riconosce nel 2012 una borsa di studio per un Master di Reportage grazie al progetto “Fronte del Porto“. Vincitore del Concorso National Geographic nella categoria Ritratti del 2013, nel 2014 partecipa alla realizzazione d ella campagna fotografica “Chiedilo a Loro” per la CEI e, nello stesso anno, vince il Moscow International Foto Awards nella sezione Book-Documentary. Le sue fotografie sono state pubblicate su svariate riviste di settore: Lens Culture, Phom Magazine, Shoot Magazine,Private International Review Of Photography, L’œil de la photographie, The Post Internazionale e Gup Magazine. P ersona di grande talento, Fabio è un fotografo particolarmente sensibile verso quell’aspetto dell’esistenza che viene considerato “diverso” in cui il destino e le coincidenze fortuite hanno dettato le dure regole d ella vita. Infatti in Sleep of no dreaming e in Gioele – Quad erno del tempo libero, le immagini guidano il cuore e la mente in una m editazione singolare dove accade un incontro visivo e compenetrato con il proprio Sé, quello che ci permette di non dimenticare mai che, alla r esa dei conti, siamo tutti, indistintamente, comuni mortali “diversamente umani”. Oltre alla fotografia, è appassionato di musica, un accompagnamento quotidiano che spazia dal progressive al metal, passando p er il jazz. Una fonte di nutrimento per la sua arte come ci confida in maniera semplice e naturale: “Senza la musica non posso davvero stare”. Fabio, quando hai capito che volevi diventare un fotografo? Come molti, ho iniziato fotografando in viaggio con l’idea di portare a casa la b ella cartolina o la foto ricordo da mostrare agli amici finché tutto questo mi lasciò un vuoto anzi cominciava a starmi stretto senza darmi alcuna soddisfazione. Sentivo che quel tipo di fotografia non mi apparteneva. Nacque così il bisogno di utilizzare questo strumento per esprimere me stesso, ma soprattutto come veicolo di conoscenza. Forse in maniera anche un po’ incosciente, mi recai nell’edificio dell’ex ambasciata somala di Roma, dove sapevo che avevano trovato rifugio molte persone fuggite da quella ventennale guerra civile. Venni accolto benissimo e così potei realizzare il mio primo reportage. A quel punto l’esigenza del racconto tramite immagini si è fatta sempre più forte sino a quasi trasformarsi in una vera e propria necessità. Quanto è importante il contenuto e quanto la forma? Credo che n el reportage la priorità vada sempre data al contenuto, anche se questo non significa che la forma non abbia la sua parte. Guardo spesso le fotografie cercando di “spogliarle” della loro estetica per poter osservare ciò che rimane. E’ un esercizio complicato ma estremamente utile. Ormai da tempo non seguo regole precise, scatto in maniera totalmente libera: è il mio modo di esprimermi. Al di là di quel che cerco di raccontare, in ogni fotografia c’è una parte di me. Mi è stato insegnato a considerare foto buone, piuttosto che belle foto e la differenza non consiste solo nell’aggettivo. Cos’è per te l’istinto fotografico e come si sviluppa? E’ un talento che molti hanno dentro. C’è chi riesce a farlo em erger e e chi ha la sfortuna di non accorgersene. L’istinto non te lo insegna nessuno, puoi rafforzarlo, ma non impararlo; certo, si può invece sviluppare. Il modo più semplice per farlo cresc ere è quello di studiare ogni giorno, dedicarsi alla ricerca fotografica, degli autori e dei loro lavori. Guardare, osservare, studiare, senza però emulare. Sar ebbe un grave errore. Bisogna esser e in grado di affinare il proprio linguaggio; ci vuole tempo e pazienza ma n e vale la p ena. E’ una grande soddisfazione soprattutto quando una foto viene immediatamente associata al proprio artefice.

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Come nasce un tuo reportage? In maniera del tutto casuale e, in particolar modo, per il desiderio di approfondire tematiche di cui sono ignorante. Per questo motivo considero il mezzo fotografico un potente strumento. Mi guardo intorno con occhi attenti e curiosi; mi rendo conto di essere cambiato nel corso degli anni, di avere una vista più matura. Sono molto preso da quello che mi circonda, perché credo che la buona storia possa nascondersi anche a pochi metri da casa. Infatti, uno dei miei ultimi lavori, The Right Place, è stato realizzato a qualche centinaio di metri dal quartiere dove abito. Il tuo progetto “Sleep of no dreaming” è stato pure realizzato a Roma, questa volta presso C asa Iride: storie drammatiche ed intense che colpiscono gli occhi e l’anima del mondo. Si tratta di un centro d’accoglienza per ragazzi che vivono in stato vegetativo a causa di traumi neurologici dovuti ad incidenti stradali. Come sei arrivato lì e qual è stato il primo episodio che ti ha spinto a testimoniare questa realtà? Puoi descriverci le tue emozioni, non solo fotografiche? ‘Sleep of no dreaming’ viene alla luce dopo un piccolo trauma personale. Mi era stato commissionato un reportage da una rivista che si occupa di disabilità per parlare di uno dei ragazzi, ospite di Casa Iride. Solitamente mi documento sul tema che vado ad affrontare, ma nell’occasione non ebbi tempo e modo. Mi trovai così catapultato in una realtà che, in principio, mi trovò totalmente impreparato e, in particolare, mi lasciò molto turbato. Non riuscivo nemmeno a sollevare la macchina fotografica; gradatamente presi coraggio ed iniziai a scattare ma con una finalità ben chiara in mente: volevo raccontare quella realtà in maniera completa, con il tempo che richiedeva effettivamente che non poteva di certo ridursi al documentare soltanto una singola giornata. Ne parlai con i responsabili della struttura e con i genitori dei ragazzi ricevendone subito i consensi: erano entusiasti del mio interessamento. Non volevo impietosire con immagini banali e scontate e soprattutto non amo spettacolarizzare sul dramma e sul dolore. Il mio intento era quello di informare, con quanta più delicatezza possibile, portando a conoscenza del mondo che sta fuori che non esiste solo il caso Englaro o Schumacher ma che ci sono pure queste p ersone, gente comune colpita fisicamente e negli affetti. Entro quest’anno spero di riuscire a pubblicare il libro i cui fondi andranno interamente devoluti all’Associazione Risveglio di cui Casa Iride fa parte. Le emozioni vissute sono state fortissime: rabbia e dolore, risa e gioie, e paradossalmente c’è tanta vita, quella che, magari, non ti aspetti. Non voglio argomentare su motivazioni pro o contro l’eutanasia, non è questa la sede adatta, ma prima di schierarsi, sar ebbe utile capire veram ente di che cosa si parla. Per me è tutt’ora un’esperienza umana unica. Continuo a frequentare Casa Iride, sono spesso ospite a cena; ho degli amici lì che hanno solo bisogno di un po’ di compagnia. Proprio pochi giorni fa uno dei ragazzi ci ha lasciato, una brutta infezione lo ha portato via. Il mio lavoro sarà dedicato a lui. Anche se per poco tempo, Gianluca mi ha dato moltissimo; non pensavo che un ragazzo in stato vegetativo potesse regalarmi un sorriso. Tanto basta per sentirmi fiero di aver fatto conoscere questa realtà al di là delle mura che accolgono questi giovani, una voce, seppur flebile. Uno dei lavori che ti sta molto a cuore è Gioele, la storia di un bambino autistico di 11 anni che ama l’acqua e i cavalli e disegna animali misteriosi scrivendo poi sul suo quaderno delle fantastiche avventure. Cosa rappresenta Gioele per te? Una scoperta straordinaria; Gioele è un mio grande amico, un figlio acquisito, il compagno di giochi di mia figlia, un bambino speciale. Insomma, tutto, fuorché un soggetto fotografico. Circa un anno fa mi sono chiesto: cos’è l’autismo? Perché non approcciarlo con la fotografia? E così è nata la collaborazione con Gioele, perché di questo si tratta, di una vera e propria collaborazione. Il libro che sto realizzando con l’aiuto di Doll’s Eye Reflex, Gioele – Il Quaderno del Tempo Libero, oltre a contenere le mie foto, sarà arricchito dagli scatti realizzati dallo stesso Gioele, dai suoi disegni e dai suoi scritti. Senza di lui tutto questo non sarebbe potuto accadere. E’ quasi passato un anno e non ho ancora una risposta alla domanda iniziale che mi posi, ma ho scoperto che è incredibile avere un amico così speciale e quando un bambino autistico, all’improvviso e senza apparente motivo, mi dice “ti voglio bene”, ti assicuro che regala un’emozione unica. Una delle sue foto l’ho accompagnata con una frase: “Passate il vostro tempo con questi bambini: sono preziosi”. Ecco, lo ribadisco.

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Cosa vedi affacciandoti dalla tua finestra fotografica? Una miriade di opportunità, di storie da raccontare, di persone interessanti e territori inesplorati; ognuno con la sua potenzialità espressiva, pronta a schiudersi agli occhi e al cuore di chi vorrà affrontarla. Mi è rimasta sensibilmente impressa una tua composizione fotografica intitolata “L’ultima fermata”. Spiegacene il contenuto. Se dovessi immaginarti alla fine del tuo viaggio chi vorresti incontrare all’ultima fermata e chi o cosa porteresti con te sino al termine? “L’ultima fermata” la ritengo una tappa fondamentale del mio percorso fotografico inizialmente concepita quasi come una sfida, ma trasformatasi da subito in un desiderio: raccontare mio padre, scomparso quasi 20 anni fa, attraverso un viaggio interiore da riportare in immagini, nelle quali far rivivere poi quei ricordi, quelle emozioni e sensazioni, se non addirittura i profumi che mi legano ancora oggi al mio papà. Non mi interessava la fruizione altrui, è un progetto egoista, per me stesso, per rivivere certe situazioni e dar modo a mia figlia di poter conoscere, seppur in una forma differ ente, quel nonno che fisicamente non potrà mai abbracciare. Forse la definizione giusta è questa: una fiaba per Syria, mia figlia. E’ certamente un lavoro ermetico e p ersonale, quasi psichedelico direi, di non semplice accesso; io ne ho le chiavi ma mi fa piacere che molti siano riusciti a compenetrarlo nonostante un linguaggio molto concettuale e, per certi versi, evocativo. E’ stato un viaggio nostalgico e al tempo stesso meraviglioso. Alla fine, lo scopo che mi ero prefissato è reso manifesto totalmente e per quanto mi riguarda conta moltissimo anche perché credo che all’ultima fermata ho avuto modo, forse per un’ultima volta, di salutare mio padre. Scendo da questo treno con un bagaglio colmo di eredità morale e insegnamenti di vita e ora che sono anch’io papà, spero di trasmetterlo a mia volta, fino alla prossima ultima fermata. La vita è un ciclo. Ecco perché ‘L’ultima fermata’ si apre e si chiude con delle foto che parlano di lei: è un inno alla nostra esistenza e non alla nostra fine biologica. Fabio, dopo questi personali appunti fotografici che lasci scritti nella nostra anima, quali lavori stai preparando? Il mio interesse si è spostato su temi in cui posso esprimermi in maniera personale ed intima, abbandonando per ora il fotogiornalismo tradizionale, ma non ripudiandolo, ci mancherebbe. Sto pensando di realizzare un progetto traendo spunto da un libricino della Yourcenar. Per ora è tutto in fase embrionale e poi sono concentrato soprattutto sulla realizzazione d ei libri “Sleep of No Dreaming” e “Gioele – Quad erno del t empo libero” ma come dicevo prima, lo spunto è dietro l’angolo e chissà che non si presenti già oggi, scendendo in strada.

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Ciro Battiloro

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Seguendo un sentiero fotografico intuitivo e genuino, basato unicamente sullo scatto in analogico, arriva dalla Campania un giovane fotografo documentarista, Ciro Battiloro. Una scelta meditata e consapevole, r adicata in un concetto profondo secondo il quale non è necessario omologarsi ad uno spazio-tempo che fomenta il consumismo e che spesso trascura l’autenticità del vissuto. Resistendo così all’era del digitale, Ciro testimonia attraverso il reportage sociale momenti di vita comune, talvolta legati alle tradizioni culturali, come in Iran: life, death and pray, dove la preghiera è lo strumento che allevia il dolore per la morte. La sua visione dell’esistenza è strettamente connessa alla forza interiore che, malgrado le avversità, unisce Gli abitanti della terra (il titolo di un altro suo progetto). Negli anni passati ha partecipato a numerosi concorsi vincendo per la Fondation EuropAtlas Concours Photos 2013/2014. Alcuni suoi scatti sono stati pubblicati su Witness Journal, Limes Images BlackLie e Doc! Photomagazine. Ciro, puoi parlarci brevemente del tuo percorso fotografico? A 18 anni nutrivo un grande interesse per l’arte, dalla pittura alla scrittura passando per la musica. Sentivo una forte esigenza di esprimermi in qualche modo. Un giorno scoprii i grandi reportages dei fotografi della Magnum e cominciai a pensare che forse la fotografia racchiudeva un po’ la magia di tutte le arti, riproponendole in una maniera diversa, viscerale e soprattutto vissuta, nascendo da uno stretto legame con ciò che il pianeta Terra e i suoi abitanti può offrire alla nostra esistenza. Allo stesso tempo compresi che quella straordinaria forma nuova di bellezza poteva diventare evocativa ed enigmatica proprio nel suo incontro col sentire personale. A quel punto iniziai a scattare con qualche macchina di fortuna, totalmente da autodidatta, avvertendo, col passare degli anni, l’esigenza di approfondire il più possibile i mondi che mi accingevo a raccontare.

La tua anima napoletana ti porta a documentare terre e popoli “in continuo fermento” e spesso censurati dal resto del mondo. Momenti di vita, ma soprattutto di dolore e morte, s’intersecano alla preghiera, unica fonte di salvezza. Mi riferisco al tuo progetto Iran: life, death and pray. Spiegaci cosa hai visto e sentito e cosa ti ha spinto a realizzarne un reportage. L’Iran è un paese vastissimo sia per territorio che per varietà di etnie e vissuti, tanto che forse sar ebbe n ecessaria una vita intera p er poterne conoscere la vera anima.nCiò che sicuramente accomuna un po’ tutte le latitudini di questo paese è l’intimo legame che scorre tra la vita, la morte e la preghiera. Un legame complesso che in alcune sue manifestazioni è sincero ed autentico come nella commemorazione delle vittime di guerra tra Iran e Iraq e, altre volte, è pura e semplice messa in scena, n ecessaria p er non violare i dettami del governo. La vita in Iran sembra sdoppiarsi tra la sua sfera pubblica e quella privata. Tra le mura domestiche, il popolo persiano rivela la sua vera indole ospitale, cortese e ricca di cultura. Per usare le parole di Kapuscinski, questo è un popolo che ha un gran gusto e ciò lo si evince da tante cose: dalla b ellezza dei tappeti su cui scorre la vita quotidiana al trucco delle donne e alla poesia r acchiusa nei saluti. Nella sua manifestazione pubblica tutto ciò assume sp esso toni cupi, a causa d el rigore imposto dal governo e dai suoi dettami religiosi, non condivisi da molti. Da lì è nato il reportage: m’interessava raccontare questa dialettica di atteggiamenti ed emozioni. Parli spesso di “resistenza” al preservare la tradizione, ad una vita difficile e stentata come quella dei Rom, ai meccanismi tecnologici. Perché è così importante per te fotografare le resistenze? Qual è quella di cui non puoi fare a meno? Innanzitutto vorrei chiarire cosa intendo per concetto di resistenza. Non la concepisco tanto come un lottare contro condizioni disagiate o complesse quanto come un’opposizione all’omologazione del mondo contemporaneo, come un resistere al t empo moderno o, per usare una definizione di E.Junger, al tempo del lavoro che fagocita ogni gesto nella sua logica del profitto. Ecco perché nutro una grande stima per quei popoli o quei micro mondi che nella loro quotidianità, con tutte le conseguenze positive e n egative, conservano una forte autenticità.

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Subisco il fascino degli “ Yoruks”, i pastori turchi nomadi, le cui esistenze sono scandite dal ritmo della natura, oppure del popolo Rom che non si lascia rinchiudere in nessuno schema precostruito e che ha la forza di lasciarsi scivolare addosso ogni tragedia storica (Porrajmos) o personale. Mi sento rapito dai quartieri popolari di Napoli che nella loro arretratezza preservano il potere della semplicità e della spontaneità. Il tuo progetto Gli abitanti della Terra raccoglie le testimonianze di come si vive nei campi Rom. Questo ti ha portato a conoscere, non molto lontano da casa tua, una realtà diversa ma molto vicina al tuo paese d’origine. Secondo te cosa accomuna e cosa differenzia gli abitanti della tua terra dai Rom? Chiaramente gli abitanti della mia terra e i Rom che ho conosciuto, e continuo a frequentare, hanno un substrato culturale totalmente differente per religioni, credenze e vissuti storici. Eppure, hai ragione nel cercare qualche punto che ci accomuna. Innanzitutto, il condividere un’esistenza un po’ marginale nelle società in cui viviamo. Mi riferisco alla condizione di subordinazione del meridione rispetto al resto d’Italia e alla condizione di perenni esuli che i Rom vivono soprattutto nella loro patria natia. In più ci avvicinano anche alcuni tratti fondamentali del nostro modo di essere, un po’ come gli attori, con quell’ironia e quella teatralità che ci permettono di “arrangiarci” in ogni situazione. I tuoi scatti sono perlopiù sviluppati in analogico. Cosa rappresenta per te la fotografia tradizionale e cosa ti attrae invece del digitale? Mi viene a questo punto di chiederti anche quale strumento della tua attrezzatura fotografica t’identifica meglio? Ho iniziato a scattare in analogico e ancora oggi utilizzo solo questo mezzo. La fotografia tradizionale è per me un po’ come il primo amore. E’ un abito da sposo che mi fa sentire a mio agio, è un tempo dilatato che mi porta a riflettere, è il mistero della camera oscura, è fisica e chimica che prendono forma in un’immagine. Ciò non vuol dire che non apprezzi dei bei lavori realizzati in digitale e, naturalmente, anche alcuni vantaggi, quali i costi di sviluppo che sono senz’altro più economici. Ma per ora continuerò a scattare con la mia M6. Quali sono i tuoi fotografi di riferimento? Sicuramente Koudelka, Salgado, Thomas Dworzak, Larry Towell e Jason Eskenazi. Una citazione che tieni sempre a mente? “Nulla unisce le creature quanto la sventura affrontata insieme e felicemente.” Dal romanzo di Ivo Andric intitolato “Il Ponte sulla Drina”.

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Claudio Menna

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Cosa vedono gli occhi di un fotografo quando apre l’obiettivo della sua fotocamera? Quali storie straordinarie si nascondono dietro una vita ordinaria? E’ un mistero raccontato da immagini sospese nell’invisibilità del tempo, rapite da un volo sul mare di un attimo eterno. Devozione e bellezza, ribellione e accettazione, spensieratezza e preoccupazione sono i testimoni oculari della fotografia di Claudio Menna, trent’anni il prossimo 28 dicembre, che svelano i segreti del fattore umano, elemento indispensabile ad alimentare la sua passione per l’arte visuale. Dopo aver conseguito la laurea in architettura all’Università Federico II di Napoli, ha scoperto la fotografia otto anni fa a causa di un evento personale che ha segnato profondamente la sua vita. I suoi scatti sono stati presentati in vari eventi sul reportage sociale come il Projet 192, uno scatto per le vittime dell’attentato alla stazione di Madrid del marzo 2004. Nell’ottobre 2013 si è classificato primo al concorso “Art Save the City” di Parma con il progetto La Ciudad de D10S m entre n ell’agosto 2014 si è esibito con una personale a Polignano a Mare (Ba), mostra intitolata SEA STORIES -DEEP BLUE, una sezione dedicata al mare della stessa r accolta. Nel gennaio 2015 ha fondato il collettivo MAGMA insieme a Gaetano Fisicaro con il quale collabora anche al magazine on line di reportage e fotografia documentaristica MAG’azine.

Claudio, il tuo percorso fotografico comincia ufficialmente nel 2007. Come sei passato dall’architettura alla fotografia? Raccontaci un po’ quali sentieri hai intrapreso per arrivare sin qui. Ho iniziato a fotografar e otto anni fa quando appresi la notizia di avere una malattia degenerativa agli occhi che avrebbe, n el corso del tempo, fatto diminuire progressivamente il mio visus. Al principio l’ho vissuta come una sorta di terapia autoprescrittami per fissar e quante più immagini possibili nella mia memoria; poi gradatamente ho cominciato ad interessarmi alla fotografia documentaristica ed alla possibilità di raccontare storie attraverso gli scatti che per m e devono avere sempre, come prerogativa, l’indagine sociale. Non inseguo lo scoop o la notizia eclatante del momento. Credo, invece, che il vivere quotidiano nasconda una miriade di aspetti interessanti che attendono soltanto di essere narrati.

Parliamo del tuo progetto “La Ciudad de D10S”, una raccolta fotografica che comprende varie storie incentrate sulla tua città, Napoli. Intanto puoi spiegarci perché D10S, il nickname usato per indicare Maradona? E’ un viaggio personale intrapreso nella mia città, alla ricerca delle radici che mi legano a questa tanto discussa t erra. E’ vero che il titolo richiama l’appellativo utilizzato nel mondo, e soprattutto qui a Napoli, per Diego Armando Maradona, vera icona pagana, ed a tratti religiosa, verso cui il popolo napoletano si identifica. E’ il simbolo della passione, del sangue, della gioia e del dolore, tra lacrime e urla strazianti quale condizione necessaria affinché possa verificarsi il miracolo sportivo, religioso e quotidiano che porta ad una rivalsa sociale ed umana da parte della gente che, giorno dopo giorno combatte per la sopravvivenza e l’affermazione del proprio essere. Napoli è un mondo più che una città, nel quale convivono tante realtà diverse e contrapposte fra loro, in un equilibrio precario messo duramente alla prova. In questi anni di fotografia ho camminato a lungo nei quartieri più popolari, e le contraddizioni incontrate sono state innumerevoli. La miseria derivante dalla crisi economica e la mancanza quasi assoluta delle istituzioni hanno trasformato il popolo, tentando di abbrutirlo, proprio come una serie di personaggi danteschi collocati in differenti tipologie di gironi infernali, dove ognuno ha il suo ruolo e la sua connotazione in base al grado di imbarbarimento. Tutto ciò genera soffer enza, in particolare, tra quelle p ersone che d ecidono di combattere per uscire dall’inferno proprio perché non vogliono farne parte passivamente. Napoli è questa, un luogo dantesco dove però puoi scegliere se rimanere incastrato nei tasselli dei diversi gironi urbani ed umani, o uscirne lottando, pur restando qui, nella tua terra.

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Una sezione di questo portfolio è dedicata al mare della tua zona. Mi riferisco a Sea stories, momenti di rara bellezza dove i protagonisti rispondono fortemente al richiamo dell’acqua, non solo come tradizione culturale radicata nelle vene ma, forse, come forma di devozione per i luoghi natii. Sembra quasi che il tempo resti sospeso in un attimo eterno che aiuta l’uomo, desideroso di libertà, a dispiegare le ali in un volo pindarico verso una meta immortale. Cos’è per te la devozione e cosa ti ha spinto a “ricostruire” la tua città? “La Ciudad de D10S” diventerà in futuro un libro; questo avverrà quando riterrò concluso il mio personale viaggio qui a Napoli. “Sea stories” è il capitolo dedicato al mare vissuto dai suoi “scugnizzi” come una sorta di tempio sacro, nel quale tutti gli anni si recano per celebrarlo nell’unico modo che conoscono, ossia tuffandosi per viverlo dentro ogni cellula. Ho interpretato i loro tuffi come un evasione dalle difficili problematiche sociali che quotidianamente devono affrontare. E’ un salto nel blu, un’immersione nelle profondità dell’anima, di cui il mare ne è lo sp ecchio più fedele. Personalmente ritengo d evozione verso una qualsiasi realtà il rispetto per la vita, per la propria origine ma, per m e, Sea stories è anche evasione e libertà. Ognuno di noi ha il diritto di evadere dal proprio quotidiano alla ricerca di quel qualcosa che possa farci stare m eglio e viver e felici, come i devoti fanno verso i loro idoli, sacri e profani. “There’s no place like home” è l’altro progetto dedicato questa volta ad un quartiere di Napoli, Montesanto dove convivono due realtà differenti: la quotidianità frenetica napoletana da un lato e dall’altro un substrato apparentemente nascosto di una piccola comunità di gente immigrata. Sono immagini che testimoniano la presenza pacifica di persone che oramai si sono integrate pienamente all’ambiente circostante. Puoi raccontarci l’episodio che ti è rimasto più impresso mentre fotografavi gli “squatters”? Gli squatters non sono una recente invenzione del mondo globalizzato, ma esistono dagli anni ’90. Rappresentano quei ribelli, senza tetto o immigrati, che trovano tutti quei luoghi nel mondo, abbandonati o “non vissuti” , e li occupano abusivamente. Qui a Napoli l’unico posto adibito allo squatting è una vecchia sottostazione ottocentesca, che ho fr equentato per otto mesi, tutti i giorni a tutte le ore. Ho trovato una comunità con abitudini e regole interne atte a mantenere un proprio equilibrio in totale e pacifica convivenza con gli abitanti del quartiere Montesanto. La provenienza degli occupanti è abbastanza eterogenea: l’intera Europa è racchiusa in quel cortiletto adiacente il deposito abbandonato. Non c’è soltanto un episodio che mi è rimasto impresso, ma una serie di ricordi che mi legano a quelle persone. Innanzitutto vista la delicatezza del tema affrontato, mi sono sentito subito in dovere di raccontare quelle vite e quella realtà senza filtri e finzioni scenico-fotografiche, ma sempre con etica e massimo rispetto, due importanti prerogative del mio modo di interpretare la fotografia. Il ricordo più vivo che ho di questo progetto, riguarda i primi giorni di frequentazione quando uno d egli occupanti, Booghy, mi aggredì infastidito dalla mia presen za. Oggi siamo diventati amici ed ogni volta che gli rammento il nostro incontro, mi abbraccia sorridendo, dicendomi però che continua ad odiare le macchine fotografiche. “About a boy”, l’ultimo tuo lavoro, documenta un altro aspetto della vita sociale. Si tratta di G., un ragazzo speciale che vive in un mondo molto personale. Vuoi raccontarci questa singolare storia vista dalla tua prospettiva? Ho conosciuto G. quest’anno all’interno di un istituto per ragazzi con patologie visive e psichiche nel quale faccio volontariato. Lì, sto portando avanti un progetto sul tema della cecità e della particolare percezione visiva che quei ragazzi vivono. Infatti, insieme a loro sto realizzando un libro intitolato “The world is blind, not Us” e G. è uno dei tanti giovani protagonisti. La sua storia è molto forte e le problematiche quotidiane che lui e la sua famiglia devono affrontare sono particolarmente difficoltose. Ho deciso di raccontare la sua storia perché mi ha interessato e colpito il modo in cui lui vive la sua vita, nonostante tanti aspetti crudi ed impervi che la caratterizzano. Il mondo di G. è molto difficile, ma riesce sempre a cavarsela con l’apporto di una famiglia splendida, superando giorno dopo giorno i tanti ostacoli che incontra. Un inno alla speranza ed alla forza d’animo di tanti ragazzi come lui, e di tante persone che quotidianamente devono combattere e superare i mille demoni che queste psicopatologie creano. Ed è proprio questo lo straordinario nell’ordinario.

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Dalle tue fotografie noto che in più occasioni hai fotografato dei cani? Che rapporto hai con loro? Adoro i cani e ritengo siano esseri speciali in grado di amar e incondizionatamente chi gli sta vicino, senza preoccuparsi di bilanciare il “dare-aver e”, l’esatto opposto dell’esser e umano. Amo in particolar modo il mio piccolo grande Bomber, compagno di vita, e di avventure. Qual è il tuo motto vitale? Non ho un motto in particolare; mi piace soprattutto una citazione di Calvino da “Le città invisibili” che dice: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

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Alfredo Chiarappa

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Quando le emozioni svelano il viver e quotidiano l’essenziale, nascosto dalle ombre, risorge per portare al mondo una nuova luce. Attraverso l’arte fotografica, la r ealtà appar e sotto un’altra veste, quale testimonianza nuda di questo pianeta che, con tutte le sue sfumature, rispecchia l’agire del genere umano. Controsensi eclatanti tra popoli, identità non ancora ben definite e in mezzo alle pieghe dell’anima, un forte pensiero creativo, una sperimentazione istintiva vissuta sulla propria pelle, una tecnica affinata nel tempo ma soprattutto una sinteticità compositiva che riesce con un fermoimmagine a raccontare tutta una vita. Queste sono le storie fotografate da Alfredo Chiarappa, giovane talento lucano, nato a Melfi (Pz) il 30 agosto 1982. Impulsivo e intraprendente, nella sua professione è meticoloso e preciso, mantenendo però costantemente viva la voglia di imparare. Pur avendo vissuto negli ultimi anni a Milano, attualmente lavora ed abita a Mater a. Fotografo documentarista ma anche filmmaker e direttore di fotografia, laureato in Visual Communication and Movie Design al Politecnico di Milano, ha conseguito il diploma di reportage d’autore alla Scuola Romana di Fotografia. Alfredo ha cominciato la sua attività lavorando come assistente e multimedia producer per Franco Pagetti, uno dei più grandi fotoreporter italiani, socio dell’agenzia VII Photo. Molti viaggi nella sua vita, dallaRussia al Kosovo e ancora in Bosnia e Serbia, collaborando con numerose testate nazionali ed internazionali, focalizzando il suo lavoro sulle nuove generazioni e il confronto con l’attuale situazione politica e sociale. I suoi progetti hanno partecipato a vari contests ricevendo premi e riconoscimenti come nel 2011 al Photodreaming, World Photo Contest e nel 2012 all’OER 2, quale Best photoreporter 2012 e ancora a Bruxelles in Belgio.

Alfredo, innanzitutto ti chiedo di raccontarci brevemente come sei approdato alla fotografia. Sinceramente non ricordo un evento in particolare che mi ha avvicinato alla fotografia. L’interesse è nato dopo aver studiato storia della fotografia, unito alla mia voglia di raccontare storie e alla mia poca attitudine alla scrittura. La fotografia mi è sembrata subito un linguaggio interessante e mi p ermette una sorta di sinteticità compositiva con un intenso impatto emotivo. Hai viaggi ato molto, soprattutto in paesi che sono stati tormentati dalle guerre. Con New Born Suspension, uno dei tuoi particolarissimi progetti, hai portato la tua personale testimonianza di un luogo come il Kosovo in cui vivono giovani al di sotto dei 25 anni che rappresentano la futura generazione di quelle terre. Cosa ha significato per te questo viaggio? Lavoro soprattutto su paesi che sono usciti da una guerra. Preferisco raccontare le conseguenze, non sono un war photographer e non mi sento a mio agio in quelle situazioni. New Born Suspension è il mio primo progetto a lungo termine, che tutt’ora non sento completato. L’intento è quello di raccontare i controsensi di un paese nato in circostanze abbastanza particolari, conseguente ad una forte immigrazione da parte dell’etnia albanese alla fine degli anni 40, e dichiaratosi independente nel 2008, dopo il genocidio operato dai serbi nel ‘99. Conseguenza del genocidio è stato il brusco abbassamento dell’età media d ella popolazione, che tutt’ora è sui 26 anni. Il Kosovo è uno stato limite, una risoluzione ONU. E’ stato un altro tentativo di democratizzazione controllata da parte degli Stati Uniti. I giovani hanno un passaporto che vale zero, un accesso all’istruzione facile ma n essuna possibilità d’inserimento nel mondo del lavoro, visti i tassi di disoccupazione. In più hanno degli strani trattati commerciali; infatti, solo 101 stati dell’Onu ne hanno riconosciuto l’indipendenza. Praticamente vivono in una bolla da cui non possono uscire. Il mio scopo è quello di raccontare questo contesto in una situazione reale. Tra i luoghi che hai fotografato qual è quello in cui torneresti a scattare e perché? Tornerei in Bosnia perché c’è una storia che voglio raccontare.

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Secondo te qual è il trait d’union tra fotografia e videografia? Certo, il legame è forte, ma sp esso frainteso. Fotografia e filmmaking partono dalla scelta dell’inquadratura, ma quello che cambia è il rapporto con il tempo. Il filmmaking aggiunge alla narrazione la funzione temporale, lo svolgersi e il concludersi dell’azione. Per un certo periodo i fotografi si sono limitati a far e degli slideshow in movimento, magari con l’aiuto della motion graphic, per aprirsi al mercato del web, ma non ha funzionato. Quando sono uscite le prime reflex che filmavano in HD, oltre a fotografare portavo a casa anche dei piccoli video, ma il risultato non era mai buono, non riuscivo ad aver e un vero racconto filmico e perdevo anche la concentrazione per fotografare. P er questo adesso prima di iniziare una storia mi interrogo sempre su quale sia la lente migliore per raccontarla, se il filmmaking o la fotografia, ed una volta fatta la scelta, focalizzo la mia attenzione sulle necessità narrative dei due mezzi. Recentemente sei stato selezionato da Camera – Centro Italiano per la fotografia Leica e Regione Piemonte per partecipare ad una residenza di nove giorni, con l’eccezionale presenza di Alex Webb, nelle Langhe piemontesi e nel Monferrato. Oltre alle splendide immagini che hai prodotto, puoi descriverci la tua esperienza a stretto contatto con un fotografo internazionale? Cosa ti ha lasciato quest’incontro? L’esperienza, seppur breve, è stata molto intensa ed ha totalmente stravolto la mia attitudine alla ricerca dell’immagine. Con Alex e sua moglie Reb ecca avevamo un appuntamento quotidiano in cui facevamo editing e riflettevamo sul lavoro del giorno, cercando nuovi spunti e nuove suggestioni. Abbiamo imparato soprattutto a superare la frustrazione che si prova nelle sessioni di scatto quando, in base alle situazioni esaminate, non ci sono i presupposti che apparentemente possono sembrare interessanti per un buon risultato. Quest’incontro ci ha insegnato a leggerci meglio dentro e a non mollare per poter alla fine raggiungere gli obiettivi prefissati. Ti è mai capitato di dimenticare qualche pezzo della tua attrezzatura? Non sono un feticista delle macchine fotografiche, penso invece che esista uno strumento utile in funzione del progetto da r ealizzare, che sia l’Iphone o il medio formato digitale. Non sempre la tecnologia più sofisticata aiuta a fare un lavoro migliore, anzi spesso la t ecnica può diventare una limitazione. Comunque preferisco girare con attrezzature che non diano eccessivamente nell’occhio, e che non mettano troppo in soggezione le persone che sto fotografando. A proposito di cose perse o dimenticate, mentre lavoravo al progetto Crossing Leningrad ho smarrito l’astuccio delle card in un locale del centro. Una cameriera l’ha ritrovato e guardando il materiale ha capito che per me poteva essere importante. A quel punto mi ha cercato e me l’ha riconsegnato. E’ stata proprio una fortuna perché quello è stato il mio primo lavoro pubblicato e premiato.Puoi darci un’anticipazione sul tuo prossimo lavoro? Adesso sto sviluppando un progetto sulla mia terra, la Basilicata, i suoi abitanti ed il loro rapporto con le estrazioni petrolifere. E’ una raccolta fotografica che prevede una miscellanea di mie foto insieme ad immagini d’archivio. E’ la prima volta che lavoro su un materiale che non ho prodotto personalmente. Infatti, al momento sto studiando come poter integrare questi due linguaggi.

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Roberto Pireddu

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Frame in bianco e nero, immagini esposte al sottile velo delle ombre, figure accennate dentro bagliori riflessi: Shadow inside è il titolo del progetto che racchiude l’essenza di un lavoro particolarmente curato dalla mano, ma soprattutto dall’occhio, del fotografo italiano Roberto Pireddu. Classe 1984, Roberto nasce a Cagliari il 5 ottobre anche se da circa due anni vive e lavora a Bologna. La sua storia ha origine da una vena artistica giovanile quando, già in tenera età, comincia a disegnare conseguendo il diploma di geometra “mai sentito suo”, come asserisce ogni qualvolta si tocca l’argomento. La Sardegna, sua terra d’origine, è protagonista di un fotoreportage intitolato “Ma | re” che mette in evidenza la spiaggia del Poetto di Cagliari, un tratto di costa di antica bellezza, deturpato dall’abusivismo edilizio. La monocromia è il “gioco” che predilige maggiormente, quell’incontro tra luce e tenebre di goethiana materia dal quale emergerà uno stato d’animo, ovvero il colore di un’emozione, intensa, intima, tecnicamente espressiva. Ed è proprio questa la caratteristica fondamentale che contraddistingue la fotografia di Roberto Pireddu. Le sue produzioni hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, in particolare per Shadow inside come il “PX3 Prix de la Photographie de Paris 2014ʺ, il “Silver Awards FIOF 2014” per la categoria Storia e la menzione d’onore “IPA International Photography Awards 2014”. Quando sei giunto alla decisione di percorrere la via del fotografo? Ho maturato la decisione di percorrere la via della fotografia un giorno di ottobre di tre anni fa, mentre la mia compagna ed io assistevamo ad un incontro di un famoso architetto tedesco giunto a Cagliari per parlare di “deriva urbana”. Il meeting si concluse con una deriva, appunto: una passeggiata senza meta lungo le vie strette e caratteristiche del centro storico del capoluogo sardo. Requisito fondamentale era quello di non abbassare mai lo sguardo verso i propri piedi e, tenendo la testa il più possibile orientata verso l’alto, fissare aree visive che, difficilmente, si osservano mentre si cammina. Ho trascorso tutta la passeggiata con la compattina della mia compagna al collo, chiestale prima di iniziare il percorso, e ho fatto un centinaio di fotografie in due ore. Prima di quel giorno non avevo mai scattato una fotografia. Da quel momento non ho più smesso. La tua terra d’origine, la Sardegna, è sicuramente un luogo magico dove i colori della Natura arricchiscono lo scenario creativo di ogni sorta d’artista. Eppure, tu scegli la monocromia, un sensibile gioco di ombre profonde apparse dal nulla dentro un’immagine. Parlaci di questa scelta mirata che ti ha portato a ricevere svariati awards. Sono sempre stato attratto dalla monocromia. Prima di conoscere la fotografia ho sempre disegnato a matita per cui, nonostante negli anni sia cambiato il mezzo di espressione, il metodo di interpretazione è rimasto grosso modo lo stesso. C erto, la mia Sardegna offre una varietà di colori a cui, sinceramente, non potrei mai rinunciare. Ad esempio, non riesco a immaginare il mare in un colore diverso dal blu ma quando mi approccio ad una possibile fotografia, tendo a destrutturare la scena che ho di fronte concentrandomi su fattori come, ad esempio, luce, contrasto, equilibrio e forme. I colori, quindi, passano totalmente in secondo piano. Questo perché una fotografia in bianco e nero, contenendo meno informazioni visive, costringe l’osservatore ad analizzarla dando maggiore importanza alla tecnica, al contenuto e al significato. Semplificando i concetti, la monocromia è formata da bianchi e neri, luci e ombre. Le ombre non sono altro che zone buie non colpite, o meno illuminate rispetto ad altre. Le luci, invece, sono tali perché investite da un fascio luminoso. Le ombre, quindi, sono complementari e indissolubilmente legate alla luce: entrambe sono entità impalpabili ma allo stesso tempo capaci di creare volume. Mi piace definire la monocromia “maestosamente semplice” proprio per questo motivo. Il bianco e nero, inoltre, essendo fondamentalmente un’astrazione, permette all’osservatore di non dover cercare il vero, proprio invece di un’immagine a colori. A proposito della tua meravigliosa isola, hai realizzato un progetto che s’intitola “Ma | re”, immagini di una delle coste cagliaritane che a causa dell’intervento dell’uomo ne hanno mutato l’aspetto. Puoi descriverci cosa ti ha spinto a documentare questa porzione di mare e spiaggia? Ci tengo a dire che il nome di questo tratto di costa è “Poetto”. La scelta di documentare la sua storia, fondamentalmente, nasce dal fatto che io, su quella spiaggia, ci sono cresciuto e appartengo all’ultima generazione che ha potuto conoscere ed apprezzar e la sua vera bellezza. Le amministrazioni, i cittadini, hanno sempre speso un sacco di parole ma, fino ad ora, niente di serio è stato fatto per preservare una grossa fortuna che avevamo noi cagliaritani e che ora rimpiangiamo. Si tratta dunque di un bisogno personale. Voglio parlare di tutti gli errori che sono stati fatti, dalla cattiva gestione delle istituzioni alla negligenza dei comuni cittadini, per poterli esorcizzare e fare in modo che non si verifichino più.

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Di quale strumento della macchina fotografica hai bisogno per sentirti gratificato nella tua professione? E di quale puoi fare tranquillamente a meno? Eccetto il treppiede quando realizzo lunghe esposizioni, non ho uno strumento “must have”. Se posso, ne sc elgo due che apprezzo particolarmente: il primo è la mia lente 18mm (27mm su pieno formato visto che scatto con una mirrorless Fuji) che, difficilmente, smonto dal mio corpo macchina; il secondo è un filtro ND8. Non ho dubbi, invece, riguardo lo strumento di cui posso fare tranquillamente a meno, e volentieri: Il flash. So che adori le linee geometriche più d’ogni cosa. Ovviamente scherzo, perché leggendo la tua biografi a ho capito che è esatt amente il contrario! Esiste, però, un segmento che unisce la lunga esposizione all’ombra profonda che appare misteriosamente nei tuoi scatti. Come nasce una tua realizzazione fotografica? Ed è proprio vero! Dopo aver studiato disegno tecnico a scapito di quello artistico per il quale ho sempre avuto una vocazione, le linee geometriche si sono rivelate una tortura. Dopo svariati anni, però, nonostante la mia antipatia nei loro confronti sia sempre rimasta vivida, sono stato costretto a riconsiderare la loro importanza in quanto mi hanno permesso di apprendere un metodo di lavoro ordinato e in seguito metabolizzare il rigore e la divisione formale degli spazi che poi, in fotografia, risultano esser e fondamentali. Le mie realizzazioni fotografiche, infatti, partono sempre da un’analisi della scena precedente allo scatto che, in seguito, vado a riempire con gli elementi mobili che mi caratterizzano: le ombre. A proposito di ombre, Shadows inside è il progetto che negli ultimi tempi ti sta dando più soddisfazioni. Scatti particolari di corpi indefiniti, figure flebili che si muovono nella luce, passaggi tridimensionali di entità oniriche. Quali sensazioni percepisce Roberto Pireddu riguardando le sue fotografie dopo averle scattate? Shadows Inside è un progetto nato con l’intenzione di rappresentare emozioni e stati d’animo. Per tale motivo, quando vado a riguardare uno scatto dopo averlo realizzato, voglio che in me questo scateni appunto un’emozione, una reazione immediata. Il frame mi deve colpire e se questo non succede, mi fermo a pensare, azzero e riparto per trovare una soluzione che rappresenti nel miglior modo il messaggio che avevo in mente. Quali sono le tue ombre, quelle che vorresti vedere venir fuori dall’obiettivo del tuo inconscio? E quali invece le tue luci ovvero i tuoi punti di forza, quelli che desideri siano evidenti per riconoscerti? Ognuno di noi ha un mondo interiore e la fotografia, infatti, è un riflesso d el nostro inconscio. Credo che non sia possibile studiare un set di emozioni da esprimere con tratti evidenti e definiti che, volutamente, mi piacerebbe far em ergere e che mi possano rendere riconoscibile. Penso che, quando si approccia a un mezzo, che sia esso fotografico o di altro genere, la spontaneità dell’atto, spogliata da tutto che ciò che è “marketing”, sia quella che r egola il m eccanismo. E’ una questione d’istinto. Certo, il tempo, lo studio e l’esperienza ti permettono di crearti un background su ciò che è funzionale o no alla tua causa. In questo momento storico il mio istinto mi porta a pensare, osservar e e intendere la fotografia secondo certi canoni e di conseguenza i miei scatti sono una rappresentazione di tutti i miei pensieri di questo momento storico. Nulla vieta che gli stessi canoni, che ora ritengo idonei, potrebbero anche non esserlo più in futuro. La fotografia parla sempre di noi, e noi, come esseri umani, rispondiamo agli stimoli mutando e adattandoci o meno alle situazioni. Questo processo però, ovviamente, è ingovernabile perché come ho già detto poc’anzi è una questione d’istinto, sensazioni. Domani, chissà esagero, potrei addirittura preferire il colore! Puoi darci un cenno del tuo prossimo lavoro? Da quando, due anni fa, ho lasciato Cagliari per trasferirmi a Bologna, riesco ad avvertire ancora più chiaramente il fascino della mia isola: le sue unicità, le sue forze e, ahimè, le su e debolezze. Al momento sto vagliando diverse ipotesi ma sono sicuro che il mio prossimo lavoro sarà incentrato sulla mia terra d’origine: la Sardegna.

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Gaetano Fisicaro

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La forza espressiva che sprigiona una fotografia nasce dall’occhio attento, che indaga, osserva, scandaglia, seppur a volte inconsciamente, l’anima della folla e dei luoghi in cui si muove. Ed è proprio da questo moto silente tra fotografo e fotografato che scaturisce il dialogo visivo. A tal proposito, il grande Gabriele Basilico asseriva che Il suo non era uno sguardo veloce che catturava una scena bensì lo sguardo di chi sta in un posto per guardare di più. Diceva in un’intervista: “Cerco di creare un dialogo con il luogo: io lo esploro, lui mi rimanda delle cose”. In effetti, la fotografia rende visibile ciò che rimane sottratto alla vista, magari in un angolo della periferia, e, continuando con le parole di Basilico può servire “a rivelare una realtà che magari è protetta e giace nascosta nel mondo che sta davanti a noi”. Qual è allora il messaggio che ci porta sin qui? Partiamo esattamente da questo punto per parlare oggi di un giovane talento italiano: Gaetano Fisicaro, trentun’anni il prossimo 25 novembre, originario di Siracusa vive e lavora a Napoli. La sua interpretazione visiva nasce dall’esigenza di sviluppare tematiche sociali e ambientali. In effetti, nel suo percorso professionale ha portato con sé una laurea in Tossicologia dell’Ambiente, conseguita nel 2007 ma soprattutto la passione per la visual art e il desiderio di esprimere per immagini quegli aspetti dell’esistenza umana che rappresentano la vera anima del mondo. Sono i sentimenti, che trasferisce nettamente con il suo stile, a prender e possesso della vista: emozioni scaturite da un’idea fuoriescono dai suoi progetti come un urlo nella folla, un’eco per la giungla urbana. Nel 2013 comincia la sua collaborazione col collettivo fotografico PHOTO GRAPHIA realizzando diversi progetti e mostre, partecipando ai Recounters di Saint Geniez d’Olt (FR), al Festival FotoConfronti Off 2013 di Bibbiena (Ar) e allo Speakers’ Corner d el 3° Ragusa Foto Festival. Socio fondatore del gruppo fotografico “Camera Chiara”, cura il periodico di fotografia “CROMIE” per promuovere giovani talenti. Nel 2015 insieme all’amico fotografo napoletano Claudio Menna fonda il collettivo MAGMA PHOTO Collective, dedito alla fotografia documentaria e di reportage da cui nasce la fanzine MAG’ZINE. Nonostante la giovane età, Gaetano ha al suo attivo numerosi riconoscimenti come la menzione d’onore al MIFA 2014 per il progetto Urban Soul – Anima Urbana, unarappresentazione del quotidiano e dell’esistenza, gente comune che abita la città, con le sue gabbie mentali che intrappolano l’anima in una ripetitiva routine, rendendo sfuggenti anche i rapporti con gli altri e dove la solitudine diviene elemento indispensabile per comprendere i fenomeni che si manifestano nella struttura urbana. Nel 2015 si è aggiudicato la Bronze Medal alt PX3 Photo Competition per la sezione Professional Press Sport con un altro interessante progetto: Unbroken – Lives at canter e ancora al KOLGA TBILISI PHOTO nella categoria On e Shoot con la foto “Uscita S.S. Immacolata” e per il Reportage con due lavori: “amaROMondo” e “UNBROKEN – Vite al galoppo“. Infine, due recentissime m enzioni d’onore alla IPA 2015 per il suo nuovo progetto ambientale: “Black Blood – Land of Poisons”. Gaetano, com’è avvenuto il tuo incontro con la fotografia? Nella mia famiglia non è mai mancato il rapporto con la fotografia soprattutto nella conservazione di momenti e ricordi (gite, compleanni, battesimi, matrimoni, etc etc) ma l’avvicinamento ad essa nasce dopo la laurea e grazie al r egalo della mia fidanzata, ovvero la mia prima Reflex. Da lì in poi prima di capire la strada da seguire è passato del tempo. Nel 2011, ho conosciuto una persona che esponeva ad una mostra – oggi è un caro amico – e proprio in quell’occasione è cambiata la mia percezione della fotografia. Ho scoperto la potenza del linguaggio fotografico con cui si possono raccontare storie, non solo personali ma anche di carattere universale e che riguardano, comunque, gli uomini all’interno di questo pezzo di mondo. Da quel momento in avanti ritengo che la strada sia in continua ascesa, cercando di fare sempre un “incontro fotografico” che porti nuovi stimoli e idee. Uno dei tuoi progetti, “Altro giro altra corsa”, è una produzione che mette in evidenza la vita dei giostrai, coloro che lavorano dietro le quinte nei luna park. Durante il tuo sopralluogo lì, quale episodio ricordi particolarmente? Esiste nell’anima di Gaetano un parco dei divertimenti? Forse sì. Probabilmente è partita proprio da lì la curiosità di andare a scoprire un mondo che conoscevo solo in parte, legato in fondo ad un momento della mia infanzia. E’ un progetto a cui tengo tanto e che mi ha permesso di conoscere delle p ersone fantastiche. In particolare, ricordo la felicità di uno dei ragazzi quando gli portai le stampe di alcune foto che avevo fatto. Non posso dimenticare il suo volto contento alla notizia che lo scatto che lo ritraeva era stata pubblicato online sul sito del National Geographic.

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Hai realizzato numerosi lavori nella tua terra, la Sicilia, tra reportage e ambiente, passando per sentieri dove la gente diviene protagonista del tuo obiettivo. Fotografia sociale in amaROMondo, street photography in Anima Urbana, scatti legati alle radici, alla fede, alla ritualità di gesti come in Holy Fire of Faith. Qual è quello in cui ti rispecchi maggiormente? Credo un po’ in tutti. In ognuno dei miei progetti c’è un pezzo di me, la ricerca di qualcosa che m’incuriosisce o m’interessa approfondire. Cerco di m ettere tutto me stesso in quello che faccio o che voglio fare. Un argomento deve, prima di tutto, coinvolgermi personalmente. Non riesco ad essere distaccato. Cosa accade quando metti insieme le immagini per creare un portfolio? Questa è una domanda difficile. Succede di doversi confrontare da un lato con l’affetto verso alcune fotografie e dall’altro con la necessità di dover tirare fuori il frutto di un lavoro. Devo dire che in questo caso mi è stato molto utile il percorso che ho deciso di intraprendere quest’anno, ovvero la masterclass di fotografia con Podavini, Cocco e Marchetti. Sono stati dei punti di riferimento per me e mi hanno aiutato a capire come mettere insieme ed ottimizzare un buon progetto. Ovviamente, non esiste una regola universale per tutto, anche se la cosa principale, come dicevo, è c ercare di distaccarsi da quelle immagini a cui ci si sente particolarmente legati, ma che, a volte, non possono esser e funzionali all’interno di una storia. Trovo che editare sia la parte più difficile nonché la chiave che ne segna il destino. Un buon editing dà forza al lavoro, uno fatto male lo penalizza. Di solito, quando ho un’idea mi consulto con la mia fidanzata e con alcuni amici che ritengo possano essermi di aiuto per avere un consiglio/suggerimento, perché torna sempre quel legame affettivo con certe fotografie, cosa che gli altri non hanno, non essendo coinvolti emotivamente. Da lì in poi la strada è in salita: sono a metà dell’opera. Successivamente stampo le foto e inizio a metterle insieme fino a quando non sono convinto che il mio lavoro esprima ciò che, in origine, era l’idea. Sei co-fondatore, insieme al fotografo napoletano Claudio Menna, del collettivo Magma Photo, oltre ad occuparti del magazine MAG’ZINE. Insomma, un’intensa attività che ti porta a confrontarti costantemente con i tuoi colleghi. Quando osservi gli altri scatti da cosa sei attratto al primo impatto? Trovo che il confronto sia alla base di una crescita prima di tutto condivisa. Ognuno di noi può esser e utile all’altro: conoscenze, idee, opinioni, ogni input ha un suo peso e se arriva al punto e momento giusto fa scattare delle molle, degli ingranaggi. Solitamente non mi attraggono le foto singole di per sé. Preferisco valutare e approfondire la conoscenza tramite progetti. Oggigiorno sono tutti in grado di scattare una foto buona, ma risulta più difficile realizzare un lavoro di immagini che abbia un senso compiuto. Credo, comunque, di esser e attratto prima di tutto dall’argomento e, in seguito, dalle fotografie e dal modo in cui lo stesso autore ne ha dato un’interpretazione. Secondo te, In cosa dovresti migliorare e qual è, invece, il tuo punto di forza? Credo che I miei punti di forza siano la spontaneità e la sincerità: nei rapporti con gli altri, soprattutto, è giusto essere il più trasparente possibile. Le persone d evono aver e fiducia in te e in quello che stai facendo e questo va ricambiato con la massima umiltà e chiarezza possibile. Invece, trovo che non ci sia un solo aspetto in cui devo migliorare, ma diversi; p er dirla all’inglese, è necessario un continuos improvement. Penso comunque che in questo momento debba affinare la determinazione e la caparbietà. Ci sto lavorando, vedremo se i risultati saranno dalla mia parte Qual è la tua icona fotografica? Non credo di avere una specifica icona fotografica. Il mio sguardo si è “sporcato” con i grandi Maestri della fotografia, si è “perso” in nuove strade e stili fotografici fino ad arrivare alla fotografia contemporanea, passando per il cinema. Sicuramente ci sono dei fotografi che mi hanno influenzato e lo fanno tutt’oggi, non per questo sono diventati un’icona per me.

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Veronica Catania

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Veronica Catania, classe 1987, è una giovane fotografa italiana in continuo movimento. La sua storia parte dall’Italia, da una viscerale passione per il cinema e per il mondo della visual art. Dopo la laurea vola verso l’Australia: sono intensi mesi di viaggio con taccuino e macchina fotografica, raccogliendo esperienze e abilità, e collezionando racconti visivi unici. Tornata in Italia vince il primo premio al Festival del Fotogiornalismo, grazie al quale accede ad un master in reportage alla scuola “Graffiti” di Roma. Lo scorso anno ha ottenuto la vittoria per la terza edizione del concorso “Giro del mondo in case private 2014” indetto dal sito franceseBedycasa e contemporaneamente viene assunta dalla stessa azienda committente per intraprendere un lavoro di reportage, alloggiando, per l’appunto, in case private in circa undici paesi n el mondo. L’anno dopo vince una borsa di studio alla “Scuola Romana di fotografia” Attualmente vive in Brasile. I suoi progetti sono intrisi di sentimenti per i paesi che ha visitato e le p ersone che ha conosciuto. Raccontano il suo percorso alla scoperta di quella parte di sé che è racchiusa in una scatola metallica e non aspetta altro che scattare fuori con un flash. Lo scrittore Stephen Littleword asserive che “Un viaggio è sempre una scoperta. E’ la scoperta di ciò che i luoghi nuovi fanno alla tua mente e al tuo cuore. Viaggiare è sempre, in qualche forma, esplorare se stessi”. ma quale attinenza potrà mai avere la fotografia di Veronica Catania con il continuo viaggiare? Per rimanere in tema, lo abbiamo “scoperto” ponendole alcune domande: Veronica, quando hai capito che volevi fotografare? L’amore per l’immagine è stato sempre presente in me, sin da piccola, insieme a quello per la letteratura. Ho studiato cinema con l’intenzione di raccontare delle storie attraverso delle belle immagini. Viaggiando ho capito che mi serviva qualcosa di più immediato, adatto a quel peregrinare, che mi potesse dar e la possibilità di “congelare” le persone e le cose che ved evo assieme ai miei sentimenti; così ho rispolverato la mia passione p er la fotografia, nata con l’analogico. Negli anni mi sono trovata di fronte a tanti volti e tantissimi paesaggi mozzafiato e lì mi sono posta molte domande: “Cosa può dare la mia foto che già non c’è in una cartolina? Cosa può trasmettere di una persona il suo semplice ritratto? Avevo capito che non potevo più scattare mere rappresentazioni estetiche, avevo bisogno di un messaggio. Viviamo in un epoca in cui c’è un’incredibile sovrapproduzione di immagini. Capii questo processo doveva esser e forzatamente motivato in quella marea, doveva aver e un valore, un senso di consapevolezza e un’interpretazione del mondo in cui viviamo scaturito da una ricerca. Comprendere di poter coniugare la fotografia all’arte della narrazione è stato p er me determinante: finalmente potevo raccontare una storia, a modo mio. Come ha scritto Tiziano Terzani “Per un vero fotografo una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e i filtri giusti. Una storia vuol dire legger e, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa.” Facendo mio questo assunto ho finalmente capito che narrare attraverso le immagini era ciò che volevo fare, e che non avrei più smesso. Parliamo di Hanging in the balance, uno dei tuoi progetti esperienziali. Stare in bilico non è solo metafora ma per molte persone è un modo di vivere. Come è nato questo l avoro? Ricordi una circostanza in cui ti sei sentita come un’equilibrista? Il lavoro è nato come progetto di master per la Scuola Romana di Fotografia e ho conosciuto Erika, la protagonista, tramite un mio carissimo amico e grande fotografo,Fabio Moscatelli. Sono entrata nella vita di Erika in punta di piedi, rispettando i suoi tempi e c ercando di comprendere il più possibile il suo mondo interiore per poterlo trasporre nelle mie fotografie. Dopo un po’ di tempo è nata una vera e propria collaborazione e una b ella amicizia e sapere che lei si è infine rispecchiata pienamente nel lavoro è stato p er me un momento di grande soddisfazione. Non è sempre stato facile però, e se Erika vive in equilibrio tra due mondi diversi, l’autismo e la neuro-tipicità, anch’io mi sento una piccola equilibrista che cerca di destreggiarsi tra dubbi e difficoltà e che non ha ancora saputo trovare pienamente la sua dimensione. Un giorno mi disse che se credevo di guadagnarci qualcosa con la sua storia mi sbagliavo di grosso, che non sarebbe interessata a nessuno. Quella sua disillusione su tutto, spesso mi scoraggiava e non riuscivo a contrastare la sua negatività. Mi presi una pausa di riflessione ma il giorno dopo tornai e le risposi ciò che pensavo davvero, ovvero che ciò che speravo di guadagnarci l’avevo già ottenuto. Tutto quello che imparavo quotidianamente standole accanto, ciò che lei mi mostrava di sé, la sua vita, i suoi dubbi, le sue paure, nelle quali rivedevo un po’ anche me stessa, mi bastava. Al giorno d’oggi vivere di fotografia è un sogno al limite del r ealizzabile, ma molti, come me, vivono per la fotografia, e anche se dobbiamo fare i conti con il bilico del filo sospeso, è un rischio che fa parte del gioco, e vale la pena correrlo, per tutto quello che sa regalarci.

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Fotografare è una continua ricerca, esplorazione del mondo grazie alle immagini che documentano la vita. In quale posto ritieni di essere stata portavoce visiva di un messaggio? Nel mio percorso di ricerca fotografica mi dedicai presto al reportage sociale, facendo lavori per alcune Ong in Asia. Avviandomi però alla produzione di un corpo di lavoro, facevo agire il mio istinto creativo senza passarlo al setaccio della mia riflessione. Nei miei scatti cercavo di spiegar e il più possibile mostrando la situazione in cui mi trovavo, per essere utile ad una causa. Volevo veicolare a tutti i costi il significato che davo a quelle fotografie, finendo per r enderle banali: volendo che fossero portavoce, appunto, di un messaggio, le rendevo didascaliche. Trattando storie individuali è normale e forte l’esigenza di voler rispecchiare il più possibile la per sona raccontata, ma è giusto che ogni storia individuale possa diventare universale attraverso lo sguardo d egli altri, che ognuno possa trovare qualcosa di sé e provare un’emozione di fronte a ciò che vede, anche diversa da chi la racconta, non importa, purché susciti qualcosa: io miro a questo. Penso di esser e ancora lontana dalla meta e imparare è la cosa più preziosa che ci è data di far e, quindi non smetto, confrontandomi ogni giorno con nuove “imprese” e sperando, nel mio piccolo, di esser e stata almeno per qualcuno la portavoce di un messaggio importante attraverso i miei scatti. In Cile incontrai un ragazzo molto giovane, viveva di arte, e gli feci una domanda banale “Come hai fatto? Cosa hai dato loro che non hanno potuto trovare in altri artisti, magari con più esperienza di te?” lui mi rispose “E’ quello che non gli ho dato che conta di più”. Ho capito dopo tempo ciò che voleva dirmi. L’arte più vera è quella che non dà delle risposte ma che fa porre delle domande. Un’altra tua produzione fotografica è “Down the rabbit hole”. Cosa hai visto dietro quei volti appesi al filo dei loro cellulari? Prendendo spunto dal titolo, secondo te, cosa si nasconde nella tana del coniglio? Ho iniziato questo progetto mentre lavoravo in un ristorante di Roma. Ci ho lavorato per tutto il tempo dei miei studi e ad un ennesimo “San Valentino” mi sono stupita di come due ragazzi, tra cuoricini, candele e un enorme scatola di cioccolatini sul tavolo, stessero uno di fronte all’altra, incollati al proprio smartphone. Con il tempo mi sono r esa conto di come gruppi di persone, riuniti in lunghe tavolate, riuscissero a non dirsi una parola per tutta la durata della cena. Ho iniziato a portare la macchina fotografica con me e a rubare degli scatti. Viaggiando molto ho poi constatato con dispiacere di quanto, in numerosi paesi del mondo, non ci si può perm ettere molto, eppure si possiede uno smartphone. Questa tecnologia, che, seppure ci avvicina a chi è lontano, ci distacca da chi ci è vicino e ci trascina in una realtà diversa dal qui e ora: da questo il titolo del lavoro. Una realtà fittizia, una scappatoia, in un buco nero nel quale vedo solamente la morte d ella comunicazione: al crescere d ella fiducia nella tecnologia decresce quella negli esseri umani, fino al punto di poter pensare di far e a meno d ella compagnia altrui. Lo smartphone può essere un ausilio per le relazioni se usato in maniera intelligente, ma non una sua sostituzione. Non ci si sente soli mentre si trascorrono le ore nei mezzi pubblici o mentre si è a casa ad annoiarsi, a lavoro o a scuola, ma, quando si è “connessi”, lo si è terribilmente… soli. Probabilmente, come è avvenuto altre volte in passato con molte novità della t ecnologia, una volta interiorizzato il cambiamento si riuscirà a conviverci senza farsi assorbire, e anche questa tecnologia non verrà più abusata, relegandola ai confini che le spettano; quindi penso e spero che questo sia solamente un periodo e che, come Alice, ci risveglieremo presto da questa falsa dipendenza. “Animalia” è un tuo particolarissimo lavoro che richiama l’attenzione del pubblico sul concetto d’identità e delle maschere che sp esso l’essere umano indossa per celare la propria essenza. Come avviene in Nevada, ormai da oltre vent’anni, al famosissimo festival “Burning Man”, l’uomo si traveste da tigre per sentirsi maggiormente a suo agio e difendersi dai giudizi esterni: l’apparente aggressività per nascondere la sua fragilità. Da dove è nata quest’idea e come sei arrivata a realizzarne un progetto? Si dice che per fare d ei buoni reportage bisogna fotografare qualcosa di molto vicino a sé, o di completamente distante. Io ho scelto sempre la seconda, perché sono una persona curiosa, e mi piace confrontarmi con realtà e persone molto diverse l’una dall’altra. Ho tantissimi amici che non potrebbero stare nella st essa stanza p er più di cinque minuti, eppure ho un legame speciale con ognuno di loro. Mi stimola conoscere punti di vista diversi dal mio e modi di vivere totalmente differenti, e la fotografia è uno speciale lasciapassare per questo tipo di curiosità, che ti permette di entrare nella dimensione privata e intima degli altri. Sono riuscita a r ealizzare questo progetto sulla vita di Diego, principalmente perché lui mi ha permesso di accedervi e di mostrarsi senza paura di essere giudicato.

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E’ una per sona molto dolce e spontanea e a differen za di altri miei lavori, come una storia sull’Alzheimer che mi ha dato tanto ma mi ha fatto anche molto soffrire, con Diego mi sono divertita moltissimo e ho potuto assorbire un po’ della sua spensieratezza. Il suo modo di vivere è sicuramente non convenzionale e va rispettato, perché come dico spesso, diverso non significa né peggiore né migliore, solamente differente. Per questo mi impegno p er valicare i confini che mi separano da ciò che non conosco, sia materialmente che ideologicamente, dandomi la possibilità di posare uno sguardo sempre nuovo sul mondo. Grazie alla tua vittoria per la terza edizione del concorso “Giro del mondo in case private 2014”, ideato dall’azienda francese Bedycasa, hai potuto visitare numerosi luoghi e conoscere culture diverse, realizzando anche l’omonimo portfolio che condensa i momenti salienti dei tuoi itinerari. Puoi raccontarci la tua esperienza? E’ stata per m e un’esp erienza unica, che mi ha arricchita moltissimo soprattutto per quanto riguarda il lavoro di squadra. Ho viaggiato sempre da sola, assaporando quella libertà che solamente l’indipendenza può dare, e inizialmente mi sono trovata stretta nelle decisioni che dovevo condividere con altri tre reporter, due francesi e uno spagnolo. Avevo per la prima volta ricevuto un incarico e un committente per il mio lavoro. A questo si aggiungeva la paura di dover veicolare dei messaggi che non mi rappresentassero appieno. Pian piano, però, ho capito davvero che la missione di questa azienda, proponendo l’alloggio a casa di persone d el posto, rispecchia totalmente il mio modo di essere, di concepire il viaggio e di approcciarmi ad altre culture ed ho scoperto la b ellezza di poter condividere un’esp erienza così ricca e intensa con tre persone che stimo molto e che mi hanno insegnato tanto, sia artisticamente che personalmente. Come diceva il mio compagno Rafa “It’s not the country, it’s the people” e infatti questo viaggio è stato reso indimenticabile non tanto dai posti che abbiamo visitato ma da tutte quelle persone che in paesi così diversi del mondo, unite da una stessa visione, ci hanno accolto nelle loro case permettendoci di scoprire non solo il loro mondo e le loro abitudini ma anche le loro vite e le loro emozioni. Un’occasione che non capita a tutti nella vita, e ne sono grata. In quale paese desideri realizzare il tuo prossimo progetto? Mi sono trasferita da poco in Brasile, dove sto tentando, innanzitutto di imparare la lingua e di conoscere meglio il paese, e poi di trovare spunto per la mia prossima storia. Sono sicura che non dovrò cercare molto, perché, come spesso mi accade, sarà lei a trovare me.

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Stefano Mirabella

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Quali immagini sono i messaggeri della vita? Sono le strade che prepar ano lo sguardo, non i recinti di cemento, sono gli occhi feriti dalle rifrazioni visive, non l’ignara complicità della gente che passa, sono le ombre allungate sulle pareti di un treno, alla ricerca di nuovi spazi dove la luce si dilata. Con una sola parola: fotografia, anzi non fotografia come la definisce, tracciandone una sua personale impronta, Stefano Mirabella, fotografo romano, appassionato di street photography e membro del collettivo italiano SPontanea. I suoi viaggi fotografici lungo le vie delle città rappresentano non soltanto l’esplorazione del quotidiano ma la riscoperta di sé attraverso una percezione del mondo che è anche introspezione, consapevolezza della realtà e desiderio di trascenderla. Stefano muove i primi passi nel mondo della fotografia n el 2003, frequentando alcuni corsi nelle migliori scuole di Roma. Attualmente lavora nel campo della televisione satellitare e, naturalmente, nell’ambito fotografico. Impegnato nel reportage sociale, ha viaggiato molto in questi anni: Thailandia, Cambogia, Laos, Birmania, India, Siria e territori occupati palestinesi. Queste esperienze hanno dato vita ad alcune mostre per sonali e varie pubblicazioni. La passione per la fotografia lo ha guidato sulla strada dell’insegnamento. Infatti, tiene costantemente corsi di base e avan zati sia individuali che per conto di associazioni e scuole. E’ docente presso “Laboratori Visivi” e “Prospettiva 8”. Ha partecipato a numerosi contest italiani e stranieri come il Miami Street Photography Festival, il Siena International Photo Awards e il concorso internazionale di fotografia “Where Street Has No Name” del 2013 meritando il primo premio. E’ anche vincitore del Leica Talent 2014,nonché Leica Ambassador e insegnante Leica dal 2015. Stefano, parlaci brevemente di te, del tuo percorso tra le mille sfaccettature dell’arte fotografica. Un percorso nato tanti anni fa, complice una macchina fotografica regalatami per la comunione, che mi accompagnò poi nei primi viaggi in giro per l’Europa, una compagna fedele che ancora conservo con gelosia. Iniziò tutto quel giorno, credo, il giorno della mia prima comunione; più tardi i primi corsi, tanta pratica e approfondimenti personali, studio di autori, molte mostre, e una passione inesauribile. Quest’ultima è fondamentale, nasce tutto da qui: il desiderio di sperimentare, mettersi in gioco, rinunciare a molte cose pur di inseguire quello che vuoi, la voglia di condividere ciò che ami, e poi cresce il desiderio di conoscere e conoscersi meglio. Questa passione ha un nome, FOTOGRAFIA. Non una forma d’arte, p er quanto mi riguarda, ma un semplice mezzo con il quale raccontare me stesso attraverso gli altri. Ogni fotografia è incondizionatamente il riflesso di ciò che siamo, delle esperienze che abbiamo vissuto. Perché hai scelto la street photography? Cosa ti suggeriscono le persone che fotografi? Il quotidiano è un teatro dove continuamente tutti noi andiamo in scena. Anche il fotografo, anzi il non fotografo, va in scena e questa cosa mi affascina tantissimo. Non devo recarmi in studio per scattare le mie fotografie, non devo andare in zone di guerra per raccontare storie, devo solo esplorare il quotidiano, accettandone la sua dimensione “anarchica” e la sua innata imprevedibilità. Sviluppare una precisa attitudine nello scovare situazioni strane, particolari, inconsuete, fantastiche, che si nascondono dietro l’angolo, è la “missione” del non fotografo. Per riuscire in tutto ciò e per non influenzare con la propria presenza il naturale scorrere della quotidianità, bisogna esser e poco invasivi e impattare meno possibile nella scena. Ecco perché il grande Marco Pesar esi si definiva un non fotografo e non posso che trovarmi d’accordo e fare mia questa interpretazione. Da quando faccio fotografia di strada ho “riscoperto” la città in cui vivo e la gente che la abita, ho scoperto anche nuove cose rispetto a me stesso. Questo è un valore aggiunto incredibile. La tua raccolta “City limits” per il collettivo SPontanea destruttura il concetto di città mettendo in evidenza, invece, l’uomo che si muove entro i limiti di questo spazio. Parafrasando una parte del testo del tuo progetto, secondo te quali potrebbero essere i “canoni di vivibilità che ogni essere umano meriterebbe”? Le condizioni in cui versano le grandi città non sono che il frutto di una scellerata condizione sociale; le città non sono più a misura dell’uomo che le vive ma sono il frutto di una società votata all’omologazione, alla chiusura e all’abbrutimento. Troppo spesso non si vive ma si sopravvive e lo si fa ai margini, in una periferia lontana. Nella serie di foto che ho scattato ho sempre messo al centro l’individuo umano, per ricordare che quella è la posizione che gli spetterebbe in una società vivibile.

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Cosi non è: il cemento, a volte solo accennato, diventa però sempre protagonista, pronto ad inghiottire l’uomo ad ogni suo passo, quel cemento che lo accoglie ma più che offrire un riparo diventa una gabbia. Ecco, le grandi città sono diventate oramai gabbie, recinti, luoghi che tendono ad allontanare l’uomo dall’elemento in cui dovrebbe vivere e crescer e, cioè la NATURA. Altro lavoro singolare è la serie intitolata “Solo uno dei miei due occhi” che fa parte del progetto annuale “Lo stesso posto” per SPontanea. Hai scelto di raccontare un posto diverso, l’occhio sinistro, pur essendo uguale l’ambientazione, ossia la strada. Com’è nata quest’idea e cosa vedi con un occhio che non scorgi con l’altro? Come insegna Joel Meyerowitz gli occhi da tenere aperti m entre si fotografa sono due, ovviamente quello dentro il mirino ma anche l’altro, che serve per controllare ciò che avvien e all’esterno del fotogramma. Qualcosa di inaspettato può, all’improvviso, entrare in scena. Vederlo, intuirlo attraverso lo sguardo, può consentire di gestire “l’imprevisto” in modo più appropriato. Ogni anno con SPontanea, il collettivo di street photography a cui appartengo, ci auto-assegniamo un progetto comune da sviluppare. Nel 2015 abbiamo affrontato “Lo stesso posto” ed ero, quindi, alla ricerca di un luogo dove far nascer e e crescere l’idea. Il non luogo, rappresentato dall’occhio ferito di alcuni passanti incontrati durante le mie uscite fotografiche, è diventato il protagonista della storia. Con il tempo ho corretto il tiro, cercando solo persone che avessero il cerotto sull’occhio sinistro. Ne è nata una serie singolare, di ritratti, mai posati, di persone accomunate da una “sventura” e casualmente incontrate durante il mio cammino. Saper guardare e poter vedere è tutto in fotografia. Forse, la paura o la preoccupazione di non poter più osservare fotograficamente in un certo modo o, come fatto fino ad ora, mi ha reso sensibile al tema della cecità e alle problematiche legate alla vista. Il portfolio “Shadow”, rigorosamente in bianco e nero, è la sintesi della rappresentazione del quotidiano unita all’aspetto immateriale della strada, dove la gente cammina ignara della propria ombra. Simbolicamente, sembra che le persone siano talmente assorbite dal vivere quotidiano da non vedere altro. Alcuni scatti sono anche spiritosi e, per rimanere in tema d’ironia, ti chiedo se puoi spiegarci nel dettaglio questo bizzarro gioco che cattura luci ed ombre. Le ombre, che concetto affascinante! La proiezione immateriale di una persona, che invece di materia è costituita. Rimandi e proiezioni che si allungano e assumono forme strane e stravaganti a seconda della luce del momento. La nostra ombra ci precede o ci anticipa, fa parte di noi ma la dimentichiamo spesso. La lasciamo lì su un muro, su una parete e, a nostra insaputa, assume forme strane e particolari. La propensione per la ricerca di situazioni particolari mi ha spinto all’osservazione e alla ricerca delle ombre che per loro natura, sono anch’esse particolari. Da quando, tanto tempo fa, vidi una foto di James Nachtwey, scattata in Palestina durante uno degli innumerevoli scontri nei territori occupati, appresi semplicemente che tramite le ombre si può raccontare molto. Un altro maestro in tal senso, da cui ho imparato tanto, è il fotografo am ericano di origini greche Constantine Manos. Basta guardare i suoi due libri American Color 1 e 2 per rimanere assolutamente “intrappolati” nelle ombre e nei colori, sapientemente gestiti dal suo occhio e dal suo obiettivo. Qual è il tuo fotografo di riferimento? Citarne uno sarebbe irrispettoso per tutti quelli, e sono tanti, che mi hanno inevitabilmente influenzato e trasmesso tanto, anzi tantissimo. Va bene. Allora sarò irrispettoso, solo un pochino però, e dico Alex Webb. La sua innata capacità nell’affrontare la strada mi affascina da sempre. Trovo che il suo modo di gestire la scena sia unico. I suoi scatti sono complessi e viaggiano su un labile confine al di là del quale c’è il caos visivo dove però le sue foto non cadono mai. Grazie alla collaborazione che ho da poco intrapreso con Leica Italia, ho avuto la fortuna di conoscerlo e passarci un po’ di tempo insieme. Che dire: un’esperienza unica! Quali altri strade percorrerai nel tuo prossimo futuro? Quali strade? La strada ovviamente, senza alcun dubbio!!! La strada intesa anche e soprattutto come esplorazione del quotidiano, delle persone e del luogo dove vivono. Esplorazione, perché no, di me stesso.

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Romina Zanon

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Romina Zanon, vincitrice del contest In Absentia 2015, svela il suo fattore umano e professionale in una fitta intervista che lascia scoprire il suo talento e le notevoli capacità introspettive. Il suo progetto intitolato “La presenza acuta dell’assenza. Lei asp etta, sola” risulta essere un racconto intenso, fortemente evocativo che segu e una struggente linea poetica oltre che fotografica. Al suo attivo ha varie mostre personali e collettive di disegno (Trento, Rovereto, Belluno, Jesolo), la pubblicazione del libro “Segni di devozione popolare a Caldes” (2013) e il film “La Montagna Infranta” di Mirco Melanco (2013), presentato alla 70° Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, di cui ha realizzato i disegni delle animazioni e la sceneggiatura iniziale. Attualmente vive e lavora in Trentino come visual artist (video, disegno, fotografia) e grafica, collaborando con vari enti nazionali e internazionali come la prestigiosa Smarano International Organ Academy (TN) e Stradanova Slow Theatre (TN).

Romina, qual è il filo che unisce il disegno artistico alla fotografia? Susan Sontag nel suo saggio “Sulla fotografia” asserisce che “La fotografia (…) p ermette una partecipazione e insieme un’alienazione nelle nostre vite e in quelle altrui, dandoci modo di partecipare nell’atto stesso in cui rafforza l’alienazione”. Reputo che questo accada anche nell’arte del disegno, o perlomeno, per me è sempre stato così. Concepisco entrambi i mezzi come processi visivi d’indagine del reale e dell’animo umano, dove l’autore percorre una precisa via creativa, un’immersione nella storia che si accinge a narrare e dopo un’alienazione, un distacco, un’uscita dalla storia per poterla rileggere, anzi rivedere, come narratore o voce fuori campo. Lo sguardo dell’artista è sempre stato per me in bianco e nero. All’età di dodici anni, ho iniziato a praticare il chiaroscuro a china e ho imparato a vedere la realtà che volevo raffigurare escludendone mentalmente le frequenze cromatiche. Recuperare le motivazioni di questa sc elta non è facile. Probabilmente vanno ricondotte ad una forte e naturale attrazione n ei confronti dei caratteri di poetica eleganza e maestosa semplicità della monocromia. Una monocromia che nell’arte fotografica diventa, come ha affermato Roberto Cotroneo, un’astrazione, e come tale assume un significato tutto suo, perché rilegge la realtà e la rende diversa. Il tuo percorso è incentrato nel mondo dell’arte già da tempo, partendo dai tuoi studi prima, per continuare poi con la professione, e naturalmente anche nel tempo libero. Come e dove collochi nella tua vita l’arte fotografica? Nel corso di quest’anno l’esigenza di raccontare tramite immagini fotografiche si è fatta sempre più forte sino a quasi trasformarsi in una vera e propria necessità. La fotografia rappresenta una parte fondamentale d el mio quotidiano, sia come attività, che come studio teorico e ricerca artistica. Una ricerca finalizzata a trasformare le immagini fotografiche in un personale linguaggio espressivo attraverso cui ricreare e rendere visibili le idee scaturite dall’osservazione della realtà e dei sentimenti dell’uomo.Penso che, prima di ogni cosa, sia fondamentale andare oltre le barriere d ell’ovvietà e della mera rappresentazione estetica, raggiungere un senso di consapevolezza e un’interpretazione personale della realtà puntando sulla ricerca, sia su se stessi che sulle tematiche narrate attraverso il mezzo fotografico.

Parliamo del contest In Absentia, ma soprattutto del progetto per il quale sei stata premiata, non solo per le fotografie significative ma anche per il testo descrittivo. L’idea del progetto trae spunto dalla vita d elle mie prozie Oliva e Maria, vissute insieme per tutta la vita, fino al giorno in cui Oliva, la più anziana delle due, morì. Ero molto legata a loro e assistetti alla sofferenza di Maria dopo la morte della sorella. Un ricordo che è rimasto indelebile nella mia mente. Qualche mese fa, dopo otto anni dalla scomparsa di Oliva e sette anni da quella di Maria, ho iniziato ad avvertire la necessità di elaborare un racconto visivo liberamente ispirato a questa vicenda.

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Legando la scrittura alla fotografia, “La presenza acuta dell’assenza. Lei aspetta, sola”, suggerisce ed evoca il senso di vuoto lasciato dalla morte, cercando di trasformare una particolare storia individuale in una narrazione “universale” del sentimento della perdita. Una scelta narrativa che ha comportato la necessità di non rendere la protagonista fisicamente riconoscibile e di collocarla in una dimensione spazio-temporale non definita. “Un chiuso silenzio che non cede”. Con questo verso di Pavese ha inizio il racconto. E’ una sorta di risalita dagli inferi che porta dalla più acuta disperazione alla liberazione dal tarlo ossessivo del dolore. La perdita della sorella provoca in Lei (così ho chiamato la protagonista) un’angosciosa assenza che, nel suo perdurare, acquista le forme di una più acuta presenza. E’ una condizione emozionale che crea un legame con lo spazio in cui è inserita la protagonista: l’identità lacerata del suo io si riflette nelle crepe dei muri, nel pavimento strappato, nelle oniriche ombre proiettate sulle pareti. Solo l’insistente preghiera riuscirà, con il passare del t empo, a far assumere all’assenza il colore dell’attesa. L’attesa di un ritorno, o di un sonno profondo che non possa avere termine che n el giorno del ricongiungimento, oppure, ancora, l’attesa di qualcosa in grado di consumare l’angoscia e colmare il vuoto dell’assenza. La serie si conclude con l’immagine di una finestra coperta da una tenda, la stessa finestra di fronte alla quale Lei si sedeva “durante l’attesa”. E’ un finale che ho lasciato volutamente aperto e che può essere interpretato sia come spinta primordiale che risolleva verso la rinascita e oltrepassa il dolore, sia come ricongiungimento con la persona amata attraverso la morte. Al di là del tuo portfolio, cosa significa per te Assenza e Presenza? In questo periodo della mia vita riconduco la parola “assenza” a una d elle mie paure, cioè la mancanza di aspirazioni, obiettivi, speranze, sia nella sfer a r elazionale che privata e lavorativa. Mi spaventa l’idea della possibilità di svegliarmi una mattina senza più nulla a cui aspirare o che dia senso al quotidiano. Il concetto di presenza, invece, lo ricollego alla mia famiglia e ai miei amici più cari, al loro incoraggiamento e amore incondizionato e soprattutto a mia madre, il cui prezioso aiuto si è rivelato fondamentale per la r ealizzazione di questo progetto. Quali sono i tuoi interessi oltre la fotografia? L’arte e il cinema senza dubbio. L’amore per l’immagine è stato sempre presente in me, sin dalla più tenera età, e poi le passeggiate e il vagabondare sen za sosta tra le vie di Parigi per osservarne le luci, le ombre, i ritmi, le persone per dissezionare quel magico groviglio di linee e movimenti che la rende viva e ricomporlo in nuovi paesaggi mentali e storie personali. I miei occhi vivono della gioia di visioni sempre nuove. Che genere di fotografia prediligi? Sono affascinata dal cosiddetto “racconto fotografico” o “phototelling”, dalla fotografia come strumento di realizzazione di romanzi visivi. Trovo estremamente interessante ciò che a volte prende vita dall’incontro tra fotografia e arte della narrazione. Qual è il tuo prossimo passo? Sto lavorando a due nuovi progetti: un cortometraggio che trae spunto da “La presenza acuta dell’assenza” e che per certi versi ne rappresenta il completamento e un nuovo progetto fotografico incentrato sul tema della solitudine e della dipendenza, un racconto che questa volta sarà declinato al maschile.

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Simone D’Angelo

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Un progetto fotografico nasce da un viaggio in un luogo lontano cogliendo gli istanti di vita di un popolo, le tradizioni, i riti culturali, le bellezze paesaggistiche e i lineamenti dei volti della gente inconsapevole. Talvolta, può scaturire, invece, dal mondo circostante, quello vicino a casa, proprio dietro l’angolo, dove la natura, turbata dall’ambiente urbano, ha subito una devastante metamorfosi, tentando di adattarsi alle forzature prodotte dall’uomo. Le raccolte fotografiche di Simone D’angelo affrontano questi temi lasciando aperto uno spazio alla percezione d ei sensi e alla riflessione. Tr entasette anni, originario di Anagni, vive e lavora a Roma, dove svolge la sua attività professionale in una w eb agency. Dopo un percorso di studi al Liceo artistico e all’Istituto europeo di Design ha cominciato a scattare da autodidatta partecipando recentemente ad un master di fotografia documentaria tenuto da Massimo Mastrorillo in collaborazione con la Luz Academy e 001. E’ stato sempre affascinato dal mondo, avventurandosi in viaggi alla scoperta della sua vera passione, divenuta nel tempo una parte integrante della sua vita, una fonte inesauribile di ricerca oltre che un modo per testimoniare la r ealtà. In limbo, Oaxaca, The Sacrifice, I must have been blind, sono solo alcuni dei lavori che mettono in evidenza la cifra stilistica del fotografo D’angelo, tanto da essere premiato con numerosi riconoscimenti. Infatti, proprio con I must have been blind, ha vinto il Leica Talent 2014 e l’Ikonemi Open Call 2015. Infine, ha partecipato al circuito mostre di Fotoleggendo 2015e al Tangram Festival 2015. Simone, quando hai cominciato a fotografare e quali sono i temi che prediligi? Ho una formazione artistica e sono sempre stato attratto da tutto ciò che è immagine e immaginazione, eppure non ho mai avuto una particolare predilezione per la fotografia, se non per quella applicata al cinema. Devo aver iniziato a scattare con la r eflex a pellicola di mio padre durante i viaggi con i miei genitori, ma il vero interesse è arrivato col tempo, soprattutto quando ho scoperto che la macchina fotografica mi dava sia la possibilità di esprimermi che di evader e. Non è un caso che abbia legato la fotografia all’idea del viaggio e forse non è neanche un caso che ultimamente abbia sentito la necessità di evadere anche da questo legame. Oaxaca, è un progetto evocativo, non solo per le immagini suggestive ma anche per i brillanti colori degli scatti. Inoltre, come si legge sul tuo sito è dedicato a Sergio. Puoi raccontarci questa storia? Gli scatti di Oaxaca provengono da un viaggio fotografico in Messico con Ernesto Bazan. L’occasione erano i festeggiamenti per il Dià de los Mu ertos, un’esperienza davvero coinvolgente durante la quale ho conosciuto e stretto amicizia con persone veramente in gamba. Una di queste era Sergio Barra, un amico, oltre che un bravo fotografo messicano, che purtroppo qualche mese fa ha perso la vita in un incidente stradale. Qual è stato il viaggio che hai vissuto con più intensità e che ti ha dato maggiori spunti fotografici? E’ stato sicuramente quando sono stato in Indonesia, forse proprio perché era il primo vero viaggio. Un mese passato tra escursioni nella giungla del Borneo, vulcani attivi, sincretismi religiosi e trasferimenti su traghetti locali tra le varie isole che compongono quell’incredibile arcipelago del Sud-Est asiatico. Parlando di spunti fotografici non so scegliere un paese in particolare. Da ogni viaggio ho portato a casa qualcosa, compresa la convinzione di non aver portato indietro abbastanza. The Sacrifice, uno straordinario portfolio in bianco e nero che richiama alle tradizioni indonesiane e, in questo caso, una cerimonia funebre, molto sentita dal popolo Toraja. Puoi spiegarci come hai vissuto quest’esperienza e cosa ti è rimasto impresso? L’altopiano di Tana Toraja, n ell’isola di Sulawesi, è un posto meraviglioso. Una volta arrivati si ha la sensazione di essere isolati e protetti dal resto del pianeta. Se non ricordo male, è l’unica regione dell’Indonesia a maggioranza cristiana ed è nota soprattutto per le cerimonie funebri, veri e propri riti collettivi per i quali le famiglie risparmiano per mesi, a volte anni. Durante questo periodo, il defunto viene tenuto in casa. Ricordo che mi colpì una sorta di banchetto nel quale gli invitati pagavano una tassa governativa per ogni bufalo o maiale che veniva portato in dono e sacrificato: un’usanza imposta dai missionari calvinisti che trovavano economicamente illogico questo spreco di bestiame.

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Quelle foto, anche se oggi le sento un po’ lontane, mi ricordano il momento esatto in cui ho capito di voler provare a fotografare con più consapevolezza. Quel giorno, proprio durante il rito del sacrificio dei bufali, da semplice spettatore mi ritrovai ad esser e letteralmente risucchiato dalla forza centripeta della scena. Più mi avvicinavo, più mi sentivo coinvolto e appagato. Immagino di essere una di quelle persone che hanno scelto la macchina fotografica come lo strumento migliore per accordare timidezza e curiosità. Secondo te, dove conduce la ricerca fotografica e dove, invece, vuoi condurre la tua? Bella domanda. Difficile rispondere. Oggi siamo tutti degli instancabili produttori/fruitori di immagini, per di più tutti interconnessi, e credo che questa mutazione antropologica stia cambiando, e continuerà a cambiare, i connotati della fotografia, almeno per come crediamo di conoscerla. Se da una parte sono aumentate per ognuno le possibilità di emergere, dall’altra si rischia di esserne abbastanza condizionati tanto da perdere in identità. Comunque non credo esistano strade buone o cattive in modo assoluto. Oggi mi sento vicino ad un’idea di fotografia che possa raccontare, coniugando diversi livelli di lettura, e che sia in grado di documentare anche superando il preconcetto di realtà. Mi viene in m ente Bella e Perduta, l’ultimo film di Pietro Marcello. Narra la realtà della Terra dei Fuochi, di una vera reggia borbonica abbandonata e di un vero custode volontario che si impegna per salvarla dal degrado anche contro le minacce della camorra. Tanta roba che già di per sé sarebbe bastata p er un documentario di denuncia, eppure il regista non s’accontenta e va oltre, attinge al mito e crea una storia visionaria e simbolica in cui un Pulcinella ha il compito di salvare uno dei tanti bufali maschi che, in quanto inutili alla filiera produttiva della mozzarella, vengono ogni anno eliminati e smaltiti nei campi. Credo ci sia molto da imparare da lezioni come queste, anche in fotografia. I must have been blind è il progetto che mostra una parte della Valle del Sacco, in Lazio nella provincia di Frosinone, in un contesto di squilibrio ambientale dovuto ai trascorsi dell’inquinamento dell’area interessata. Qui, però, l’uomo non è presente fisicamente ma soltanto attraverso i disastri che ha causato mentre la natura continua la propria vita sopravvivendo a tutto questo. Cosa ti ha spinto a realizzare questo lavoro che ha ottenuto svariati riconoscimenti? Riconoscimenti del tutto inaspettati, soprattutto perché tutto è nato un po’ per caso e non lo considero neanche un progetto finito. Conoscevo la situazione ambientale della Valle del Sacco in quanto sono nato e cresciuto proprio lì, a pochi passi dalla zona industriale in cui anche i miei genitori hanno lavorato. Tuttavia, non avevo mai pensato di raccontarla perché ero assuefatto da quella fascinazione p er l’esotico che sp esso ti porta a non trovare particolare interesse per l’ambiente in cui vivi. Le cose sono cambiate quando ho sentito di voler uscire da questo blocco. Ho avuto la fortuna di partecipare ad un master di fotografia documentaria con Massimo Mastrorillo che, oltre ad aprirmi a nuovi stimoli, mi ha costretto ad un ridimensionamento obbligato del raggio d’azione. Così sono tornato a casa dei miei genitori e da lì sono ripartito. Non solo ho imparato quanta attenzione sia necessaria p er mettere a fuoco un ambiente prettamente familiare, ma ho pure scoperto il piacere di lasciarmi guidare anziché rincorrere, di evocare piuttosto che descrivere. Da qui il titolo I Must Have Been Blind, preso in prestito da una canzone di Tim Buckley del 1969. L’ho ritenuto adatto per richiamare la m ente a questo ritorno alla consapevolezza, personale o collettiva che sia. A quale progetto stai lavorando attualmente? Dulcis in fundo la domanda che prova a m etterti ansia! Per il momento non sto seguendo nessun progetto in particolare. Ho delle idee in attesa di prendere forma o finire nel dimenticatoio. Prendo appunti e cerco, anche con un po’ di fatica, di non cadere nel tranello del voler per forza raccontare avendo poco oppure nulla da dire.

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Marco Siracusano

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Giovanissimo fotografo italiano, classe 1992, nato a Catania il 20 giugno, la Sicilia scorre nelle sue vene come il mare, la spiccata sensibilità, il calore della famiglia, la creatività isolana, quella che contraddistingue da secoli i popoli mediterranei, questo è Marco Siracusano, nipote d’arte, con una passione viscerale per la sperimentazione. “Sperimentare è fotografar e” ci spiega. Delle semplici parole che fanno comprendere quanto per il fotografo sia indispensabile esperire, mettersi alla prova continuamente per ricercare la propria immagine, quella fotografia che sarà il suo segno di riconoscimento nel tempo. Si dedica seriamente all’arte fotografica dopo il liceo, proseguendo gli studi allo IED (Istituto Europeo di Design) di Milano, dove consegue la laurea in Fotografia, sviluppando come tesi finale una sequenza di ritratti sui malati di Alzheimer, dal titolo “Non mi Ricordo”. Attualmente lavora a Milano come fotografo freelance, oltre che come assistente alla Sala di Posa dell’Istituto Europeo di Design. Marco, quanto la famiglia ha influenzato il tuo interesse per la fotografia? Inizialmente, molto poco. Da ragazzino avevo sviluppato un rifiuto nei confronti della fotografia. In realtà, oggi la famiglia mi supporta tantissimo. Cosa è cambiato nel tuo approccio con la fotografia dal liceo ad ora? Durante il periodo del liceo non scattavo molte fotografie, e quelle che producevo sembravano banali, ma indispensabili per spingermi a voler continuare. Non volevo arrendermi e così ho imparato a ricercare il mio linguaggio, invece che raccontare e riprodurre la realtà. Bisogna avere pazienza: solo nel tempo si arriva allo scatto giusto. Quanto sono importanti lo studio e la sperimentazione per un giovane fotografo che si accosta al particolare mondo della fotografia? Fondamentali. Lo studio della tecnica, innanzitutto, per ottenere delle fotografie corrette, è un ottimo punto di partenza. La continua ricerca: l’immagine va cercata, aspettata e infine scelta. E’ troppo facile scattare; è più difficile selezionare. Guardando le tue fotografie tra i ritratti molto curati del progetto 23F, Shore e le altre, presenti su Behance, qual è, secondo te quella in cui t’identifichi meglio? Shore, perchè è il mare. A proposito di questo progetto, leggo nella tua presentazione che proprio una delle immagini di Shore è stata acquistata di recente da una galleria d’arte milanese. Una grande soddisfazione! Ci racconti come hai realizzato questi scatti? Le fotografie d el progetto Shore, sono state realizzate con una compatta digitale subacquea. Aspettavo l’onda ”giusta” per lanciare la macchina in mezzo alla spuma del mare con uno scatto ritardato. L’ho ripetutamente, direi anche violentemente, tirata tra le onde fino a farla smettere di funzionare. Ero quasi certo di aver perso i files per via d ell’acqua salata che aveva bagnato la scheda SD. Poi, la sorpresa! Quali artisti, non soltanto fotografi, hanno lasciato un’impronta nel tuo percorso fotografico? Sono attratto dalle immagini. I colori della pittura impressionista, la forza de “La Gr ande Onda di Kanagawa” di Katsushika Hokusai e ancora “I Tre Musici” di Picasso. Avrei voluto tanto conoscere Man Ray. Oggi apprezzo molto Gregory Credwson e Andreas Gursky: mi incuriosiscono quasi quanto Damien Hirst.

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Francesco Faraci

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Francesco Faraci, giovane fotoreporter palermitano sensibile alle sfumature che vivono di luce propria lungo le strade della sua terra, la Sicilia, nasce il 25 dicembre del 1983 e, giovanissimo, comincia a fotografare da perfetto autodidatta, sino a quando il suo occhio allenato e il suo cuore sempre aperto verso la gente lo spingono a prendere seriamente in mano la macchina fotografica. “Non amo le definizioni” – sostiene a spada tratta. Ad interessarlo particolarmente è il paradosso esistenziale: nascita e morte, dolore e gioia, solitudine nascosta dietro il vivere moderno, e ancora un’attenzione spiccata verso le minoranze, i bambini e le per sone che pullulano nei quartieri disagiati delle varie città. Trae ispirazione dalle sue stesse origini: la sicilianità, l’incrocio di culture diverse, il fascino geografico e la centralità di un’isola puramente mediterranea. A questi strumenti si aggiungono le testimonianze, a volte crudeli, seppur veritiere, di quel mondo attuale che solo un abile reporter riesce ad immortalare e che diventano una leva visiva per lo spettatore spingendolo a porsi delle domande che, purtroppo frequentemente, non hanno risposte, ma stimolano alla riflessione sulla condizione esistenziale e il disagio del nostro Paese. Questo è il caso di “Malacarne”, uno dei tanti progetti, realizzato in un quartiere situato nel centro storico di Palermo, l’Albergheria, sede dei monumenti più caratteristici della città, come Palazzo Reale, dove però emerge una r ealtà contrastante in cui si trovano bambini e ragazzi che giocano spensierati, forse ignari del modello di società che prenderanno dai più grandi, quelli che stanno “nel giro”, spacciatori, ladri, sbandati. Secondo Francesco, la fotografia è un mezzo attraverso il quale è possibile diventare testimoni del proprio tempo. Ed è proprio questa sua voglia di lasciare un segno tangibile nella vita del nostro secolo che nel 2014 vince il primo premio al festival “Nuove Impressioni – impressioni di strada” con un reportage dal titolo “Cupe vampe” entrando a far parte dell’agenzia fotografica Controluce e ancora del gruppo Magma, un collettivo di tre fotografi impegnati a incentivare e divulgare il concetto di fotografia come prezioso elemento di cultura contemporanea attraverso iniziative di vario genere. La fotografia documentaristica di Faraci passa da “Genesi del dolore” (mar zo 2014), una veglia funebr e d ella tradizione locale a “Joy” (aprile 2015), un r eportage pieno di vitalità ed energia scattato in uno dei più grandi parchi di Barcellona in Spagna. Altri lavori molto significativi sono: “Impressioni indiane”, carico di forte religiosità tipica del mondo induista, progetto messo in opera nell’aprile di quest’anno sempre a Barcellona, per culminare con “Urban Change”, un’insieme di fotografie che puntano sul concetto di integrazione in una città come Palermo dove la presenza degli immigrati ha cambiato, in parte, quel tessuto urbano costruito in mezzo alle straordinarie bellezze artistiche palermitane. I suoi lavori sono stati pubblicati da riviste italiane e straniere, avendo anche partecipato a mostre personali e collettive nazionali ed internazionali. Dal 2015 collabora con il gruppo L’Espresso e infine con i mensili Combonifem ed Erodoto108.

Francesco, cosa ti ha spinto a cercare la tua arte nella street photography e nel sociale? Quello che cerco non è arte. Nemmeno la street photography nel suo senso più stretto. Cerco di fuggire dalle d efinizioni quanto più possibile, perché potrebbe esser e tutto, ma anche il suo contrario. Io non sono un artista. La mia è una rivolta interiore; è la voglia di non essere più straniero nella mia terra. Ho creduto nella politica, nelle grandi rivoluzioni, poi mi sono accorto che l’unica rivoluzione possibile è quella che comincia dentro di noi per estendersi ver so il sociale. Parte dal basso. Qui interviene la fotografia: dar voce alla vita, mostrare, al di là d el senso estetico, la realtà che ci circonda con la tendenza alla disgregazione che questo secolo si porta dietro. Fotografare è riflettere andando oltre le apparenze, combattere l’ipocrisia e l’indifferenza in maniera pacifica senza cercare consolazione o riposo. La fotografia è una forma di lotta: dal momento in cui si sc eglie chi e cosa fotografar e, diviene un atto politico, libero, anarchico. Non ho cominciato ricevendo in regalo una macchina fotografica o ereditando una passione, magari segu endo qualcuno. E’ arrivata durante un processo di profondo mutamento e l’ho accolta a braccia aperte. Come vivi la tua città, Palermo, sia come cittadino che come fotografo? In realtà non c’è molta differenza fra la mia vita da cittadino e quella da fotografo, p er un solo motivo: Io sono quello che faccio. Vivo appartato. La città ti dà la possibilità di esser e invisibile, puoi vedere, osservare senza esser e visto. E’ senz’altro un buon posto per nascondersi e allo stesso tempo essere dentro il suo movimento. Palermo è una città in grado di rapirti completamente. La amo e la odio, come tutti.

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Oltre ad essere un fotoreporter scrivi anche testi. Secondo te in che misura la scrittura e la fotografia possono essere testimoni del tuo viaggio esistenziale? Questa è una domanda interessante. Da tempo mi interrogo su quanto la fotografia influenzi la scrittura e viceversa, ma non ho ancora trovato una risposta e forse il bello risiede proprio in questo. Spero di non trovarla mai. Entrambe concorrono, anche se in modi diversi, a mettere ordine nel caos. La fotografia deve parlare da sé, non deve essere spiegata. Può nascere un confronto, una critica ed è sempre un modo costruttivo, utile, anche se per me è impossibile definire con esattezza chi o che cosa mi porta a ritrarre un momento piuttosto che un altro. Scrivere, raccontare delle storie, invece, ha il sapore di una confessione. Dentro ci sono i miei dubbi, le mie paure e i rimpianti. C’è la terra in cui vivo, i suoi mali e le sue meraviglie, in ultimo le miei radici. Cerco di esserci sempre, non per narcisismo, ma per un bisogno. E’ un percorso di comprensione, di esorcismo e di rinascita. Quali sfumature cerchi dietro la tua macchina fotografica? La macchina fotografica non è che un m ezzo. Sei tu che devi usarla e non il contrario. Alla tecnica preferisco l’istinto. Alla perfetta composizione di un’immagine preferisco l’imperfezione dell’inquadratura purchè ci sia della sostanza e abbia qualcosa da dire. Nella realtà, la perfezione non esiste ma la fotografia, in qualche modo, deve provare a riflettere il caos, il disordine della vita quotidiana. Inoltre, non conta tanto la potenza del mezzo quanto l’esser e più vicino possibile all’azione. Una buona fotografia dipende da quanto si è disposti a sporcarsi le mani e dalla capacità di entrare in un contesto facendosi accettare.

Malacarne è il progetto che ti sta più a cuore. Ci spieghi come lo hai realizzato e che impressioni hai avuto scattando per le strade dell’Albergheria? Malacarne è un progetto senza fine. Parte da Palermo, dalle strade dell’Albergheria perché è lì che ho capito che nulla è mai come si vede. C’è sempre qualcosa oltre e una porta n e apre tante altre e via dicendo. Ci sono i bambini, quelli che la maggioranza etichetta facilmente come delinquenti, teppisti, buoni a nulla. Sono i ragazzi di vita di Pasolini, diffidenti, scontrosi, sospettosi e qualche volta anche violenti, ma con una gran voglia di riscatto e di qualcuno che li ascolti. Al di là delle etichette, rimangono quello che sono in tutta la loro umanità e dolcezza. Non sono che bambini e fotografandoli m’illudo di poterlo dimostrare. Naturalmente, demolire la loro diffidenza non è facile, richiede tempo ed empatia. Bisogna entrare in punta di piedi in quei luoghi e nelle loro vite. In definitiva, bisogna essere ciò che si vuole ritrarre senza tuttavia snaturarsi o cedere ai compromessi. Non è un calcolo scientifico e nemmeno un metodo, ma solo il mio modo di affrontare la realtà. Un aspetto da non sottovalutare e, forse, un po’ banale, è questo: quando fotografo i bambini sono felice, e loro con me.

Per niente banale, caro Francesco. Il momento della gioia è essenziale in questa vita! E, in effetti, dalla tua fotografia traspare il dualismo emozionale. I contrasti dell’esistenza umana sono il tuo punto di forza come in Genesi del dolore o Joy, dove emergono in maniera prorompente i sentimenti che albergano in ognuno di noi e che ci accompagnano nel corso della vita. Cos’è per te il paradosso esistenziale? Pur sapendo che non esiste materialmente un modo per farlo, desidero fermare il tempo: conservare, attraverso la fotografia, quei volti e quelle situazioni che nell’istante successivo saranno già cambiati. Si nasce, si cresce e poi si muore con l’ossessione di non avere abbastanza tempo. Ma cos’è poi? Chi lo ha inventato? Non è altro che una nostra percezione. Esser e contro e a favore. Prendere posizione. Indignarci. Esser e vivi e partecipare nel mondo è fondamentale. Abbiamo il dovere di combattere i mostri, affrontare i nostri dubbi e le paure, ma non possiamo chiudere gli occhi, essere ciechi o sordi mentre il resto sotto i nostri piedi si dissolve. Attendere gli eventi, poi agire.

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Per concludere la nostra intervista ti confesso che osservando le tue fotografie mi hai fatto venire in mente un film a me molto caro, “La forza del campione” quando si parla delle tre regole di vita, ossia paradosso, ironia e cambiamento. La prima e la terza sono evidenti nella tua arte ma cos’è per te l’ironia? E’ la capacità di non prendersi troppo sul serio, di fare autocritica e difendersi in qualche modo dalle aberrazioni della società per non essern e fagocitato. Se mi p ermetti, ti rispondo alla pirandelliana maniera, giusto per rimanere in tema d’ironia: “Deve saper e, signora, che abbiamo tutti come tre corde di orologio in testa: La seria, la civile, la pazza. Soprattutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte. Ci manger emmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. Non si può. Io mi mangerei – per modo d’esempio – il signor Fifì. Non si può. E che faccio allora? Do una giratina così alla corda civile e gli vado innanzi con cera sorridente, la mano protesa: «Oh quanto m’è gr ato ved ervi, caro il mio signor Fifì!». Capisce, signora? Ma può venire il momento che le acque s’intorbidano. E allora… allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr’otto, senza tante storie, quello che devo. Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio”!. (da il berretto a sonagli). Pirandello è tra i miei scrittori di riferimento!

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Esther Amrein

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Quando la fotografia entra nella vita dell’artista si sviluppa un dialogo silenzioso, dove lo spazio, tra soggetto e oggetto, si annulla per far posto all’emozione, al “sentire”, all’essere l’uno parte dell’altro. Vivere empaticamente la fotografia: questa è la chiave di lettura di Esther Amrein, fotografa svizzera che abita e lavora a Firenze. Nasce il 7 settembre 1969 quando, ancora in fasce, arriva in Italia. La spiccata sensibilità, il suo amore per gli animali, in particolar modo per i cani, e la passione per la fotografia sono gli ingredienti essenziali della sua vita. Attraverso le immagini cattura le emozioni che prova, trasmettendo al pubblico l’immediata empatia con il soggetto fotografato. Esther, sei nata in Svizzera, ma vivi a Firenze. Puoi raccontarci brevemente come sei arrivata in Italia e quando hai cominciato a fotografare? Sono arrivata in Italia quando avevo appena due mesi. Mio padre aveva deciso di lavorare come insegnante di una scuola svizzera all’estero. La scelta era tra Rio e Firenze e alla fine siamo arrivati qui. Il mio papà possedeva una Contaflex con la quale aveva immortalato l’infanzia di noi figli. Crescendo l’ha regalata a m e e d evo dire che la uso con un piacere particolare per l’effetto che mi fa la p ellicola: si scatta con più attenzione, come se fosse un raro tesoro, direi, unico. Quando è arrivato il mio primo cane, decisi di comprare la prima digitale, una compattina della Canon. I cani sono soggetti difficili da fotografare, specialmente se cuccioli e vivaci. Questo mi ha spinto ad approfondire un po’ di più la fotografia e la tecnica. Così, qualche anno fa, più o meno n el 2011, ho acquistato la mia Reflex, sempre C anon, e ho partecipato ad alcuni corsi specifici. Ho ancora molto da imparare, la mia tecnica è tutto fuorché perfetta, la mia cultura fotografica è da arricchire e l’esperienza pure, ma come in tutte le cose, se c’è d eterminazione e voglia di migliorarsi si può raggiungere un livello di alta qualità. Non sentirsi mai arrivati è un buon modo per continuare a crescere, in tutte le cose. Visto che sei un’appassionata di cani ci parli della tua relazione con questi fedeli amici? Il mio rapporto con i cani è molto di più che una passione: con loro vivo e lavoro. Ho quattro dolcissimi cani e, grazie a loro, mi occupo di Pet Therapy, gli interventi assistiti per coadiuvare il rapporto tra paziente, animale e medico. Inoltre, mi dedico all’educazione e rieducazione d ei cani d egli altri utilizzando tecniche legate all’apprendimento organico che fanno leva sulla stretta r elazione tra mente e corpo. Imparare a conoscere questi preziosi amici e, soprattutto, comunicare con loro al di là della parola, mi ha permesso di approfondire molti aspetti delle relazioni tra individui. I cani aiutano ad esternare le emozioni creando un contatto empatico con gli altri. In un certo senso, posso dire che hanno fortemente influenzato il mio modo di fare fotografia, anche quando non sono loro il soggetto dei miei scatti. Da loro ho ricevuto molto più di quanto ho dato. Parliamo adesso del reportage presentato ad Orvieto Fotografia 2015. Si tratta di “Vite dipendenti”, un progetto che racconta scene di vita di una residenza per malati di Alzheimer. Osservando le fotografie traspare la tua grande sensibilità mettendo a fuoco dei momenti straordinari vissuti in un contesto limitante come quello delle case di cura e di riposo. Ci puoi spiegare cosa hai provato trovandoti lì? Tra le tante cose di cui mi occupo, lavoro part-time nella casa di riposo dove ho realizzato gli scatti per Orvieto. In quel luogo mi sento a casa. Poche cose riempiono il cuore come la gratitudine manifestata dalle persone anziane, anche solo per un gesto o una parola donata. Con loro mi sento in sintonia: sono felice della loro serenità e soffro p er le loro difficoltà. L’empatia mi guida sia nella relazione con i cani che in quella con gli anziani. Con questo lavoro ho voluto sottolineare il fatto che la qualità di vita degli anziani, in particolare di quelli che vivono in una struttura in condizione di non autosufficienza, dipende in gran parte da chi si prende cura di loro e dai soldi che vengono investiti. Le politiche sociali continuano a fare tagli su tagli, specialmente nell’ambito dell’assistenza agli anziani. Ciò significa tagliare la possibilità di vivere pienamente, garantendone soltanto la sopravvivenza. Sono per sone che, anche se limitate nelle loro capacità, quindi “dipendenti”, hanno diritto a una vita dignitosa, qualità che tutti desideriamo per noi stessi e per i nostri cari. Loro sono il nostro passato, la nostra storia, i cari di qualcuno, e noi abbiamo il compito di accompagnarli e salutarli con cura e con rispetto.

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Visto che sei un’appassionata di cani ci parli della tua relazione con questi fedeli amici? Il mio rapporto con i cani è molto di più che una passione: con loro vivo e lavoro. Ho quattro dolcissimi cani e, grazie a loro, mi occupo di Pet Therapy, gli interventi assistiti per coadiuvare il rapporto tra paziente, animale e medico. Inoltre, mi dedico all’educazione e rieducazione d ei cani d egli altri utilizzando tecniche legate all’apprendimento organico che fanno leva sulla stretta r elazione tra mente e corpo. Imparare a conoscere questi preziosi amici e, soprattutto, comunicare con loro al di là della parola, mi ha permesso di approfondire molti aspetti delle relazioni tra individui. I cani aiutano ad esternare le emozioni creando un contatto empatico con gli altri. In un certo senso, posso dire che hanno fortemente influenzato il mio modo di fare fotografia, anche quando non sono loro il soggetto dei miei scatti. Da loro ho ricevuto molto più di quanto ho dato. Parliamo adesso del reportage presentato ad Orvieto Fotografia 2015. Si tratta di “Vite dipendenti”, un progetto che racconta scene di vita di una residenza per malati di Alzheimer. Osservando le fotografie traspare la tua grande sensibilità mettendo a fuoco dei momenti straordinari vissuti in un contesto limitante come quello delle case di cura e di riposo. Ci puoi spiegare cosa hai provato trovandoti lì? Tra le tante cose di cui mi occupo, lavoro part-time nella casa di riposo dove ho realizzato gli scatti per Orvieto. In quel luogo mi sento a casa. Poche cose riempiono il cuore come la gratitudine manifestata dalle persone anziane, anche solo per un gesto o una parola donata. Con loro mi sento in sintonia: sono felice della loro serenità e soffro p er le loro difficoltà. L’empatia mi guida sia nella relazione con i cani che in quella con gli anziani. Con questo lavoro ho voluto sottolineare il fatto che la qualità di vita degli anziani, in particolare di quelli che vivono in una struttura in condizione di non autosufficienza, dipende in gran parte da chi si prende cura di loro e dai soldi che vengono investiti. Le politiche sociali continuano a fare tagli su tagli, specialmente nell’ambito dell’assistenza agli anziani. Ciò significa tagliare la possibilità di vivere pienamente, garantendone soltanto la sopravvivenza. Sono per sone che, anche se limitate nelle loro capacità, quindi “dipendenti”, hanno diritto a una vita dignitosa, qualità che tutti desideriamo per noi stessi e per i nostri cari. Loro sono il nostro passato, la nostra storia, i cari di qualcuno, e noi abbiamo il compito di accompagnarli e salutarli con cura e con rispetto. Quanto è importante per Esther il connubio tra fotografo e soggetto fotografato? Importantissimo. Per me la fotografia è comunicazione. Con lo scatto cerco di cogliere un’espressione, una postura, un movimento, uno sguardo, l’impressione che rimane nel t empo, cosi come l’emozione. “Ascolto” l’altro e, in ogni caso, osservo tutto ciò che mi circonda, per poter raccontare una storia a chi ha voglia di “sentire” attraverso le mie immagini. Almeno questo è quello che desidero trasmettere, la linea guida della mia continua ricerca. Parlaci dei tuoi nuovi progetti. Sto ultimando un progetto autobiografico che m’impegna molto soprattutto emotivamente. Inoltre, ho in cantiere un lavoro sull’omosessualità maschile, da un punto di vista letterario, e sto lavorando insieme ad un collega a tre progetti sul tema della marginalità. Forse ho più idee in mente che tempo a disposizione per realizzarle. La mia vita è così: la fotografia, i cani, il prossimo e tanto desiderio di fare. Quali sono i tuoi artisti preferiti? Ce ne sono tanti meritevoli di attenzione ma se devo citarne alcuni, tra i miei preferiti metterei la Woodmann, Sieff, Gardin, Giacomelli e non posso dimenticare Erwitt, per i suoi scatti sui cani, anche se sono molto diversi da come li fotografo io.

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Sebastiano Bellomo

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Fotografo siciliano appassionato d’arte, ironico, estremamente percettivo verso un mondo in continua evoluzione, Sebastiano Bellomo trasmette quel calore sensoriale che solo l’immagine in bianco e nero riesc e a trasferire. La realtà diventa linguaggio fotografico manifestandosi in tutte le sue sfumature, l’ambiente non è più estraneo agli occhi, le per sone appaiono familiari tanto da rimanere impresse n ella memoria. Nasce a Sant’Agata di Militello (Messina) il 12 luglio 1970 e comincia, ancora bambino, a scattare istantanee per gioco. La voglia di cogliere l’attimo cresce prepotentemente e la bellezza della sua terra lo spinge a percorrere la strada della fotografia dove scopre l’importanza della parola visiva. “Fotografo per non dimenticare, per non smetter e di guardare”, asserisce con sicurezza. Ed è proprio questo desiderio di immagazzinare immagini, negli occhi e nella mente, che fa di Sebastiano un artista “progressive”, alla continua ricerca di volti, momenti, luoghi da catturare per alimentare il ricordo nel tempo. Vive attualmente a Campofelice di Roccella in provincia di Palermo dove lavora come impiegato. Ha partecipato a numerosi contests italiani e stranieri nonché a mostre personali e collettive come Projet192 – “Madrid 11 marzo 2004”, in memoria delle vittime degli attentati terroristici, e, ancora, negli Stati Uniti, in Florida, per l’evento Art Takes Miami. Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati sul magazine la Repubblica.it, l’Huffington Post e Superabile (Inail), come ad esempio il suo Reportage “Racconti in cucina”, tratto dall’omonimo libro, a cura della scrittrice Delia Altavilla, per conto dell’INAIL di Palermo e dell’Opera Don Calabria di Trabia e Termini Imerese.

Sebastiano, puoi raccontarci brevemente come sei arrivato al mondo della fotografia? Avevo circa 9/10 anni quando mi fu regalata una Polaroid “Zip” che produceva istantanee solo in bianco e nero. Dapprima era per m e un giocattolo ma mi emozionava tanto riuscire a fermare l’istante. Continuai poi a scattare in analogico (ancora il digitale era abbastanza lontano) ma, in seguito, abbandonai (apparentemente) perché, fra studio ed altre attività ludiche, il tempo non era mai abbastanza. Comunque la passione rimase e il classico “ritorno di fiamma” avvenne nel 2004 all’incirca con l’avvento del digitale. Da allora è stato un costante studio, una continua evoluzione, com’è tutt’ora. La Sicilia è una terra magica, piena di contrasti e a volte d’incoerenze ma, senza dubbio, rappresenta l’officina artistica ed intellettuale più ambita. Cosa pensi della tua isola? La Sicilia in poche parole è tutto ed il contrario di tutto, però è la mia terra e pur criticandola, spesso anche duramente, la amo. Le culture millenarie che si sono succedute si fondono facendoci ereditare pregi e difetti che ci caratterizzano e forse è proprio in questo contesto che nascono i più particolari artisti. La Sicilia è una fucina che suggerisce assiduamente stimoli nuovi e senz’altro creativi a trecentosessanta gradi. Basta saperli captare. Ho l’impressione, a volte, di essere fuori dal mondo ma con il web puoi metterti in contatto con chiunque e ovunque per lavoro e non solo. I social networks e i siti specializzati per la fotografia in questo ultimo quinquennio sono stati un trampolino di lancio per molti. Quindi, anche se ci troviamo in un’isola al confine con l’Africa possiamo arrivare in ogni luogo del mondo. Prediligi le immagini in bianco e nero che spesso diventano espressione di un linguaggio ricercato e d’impatto. Puoi spiegarci il perché di questa scelta? Mi piace citare Wim Wenders quando dice: “Il mondo è a colori, ma la realtà è in bianco e n ero”. Qui ci imbattiamo in diverse scuole di pensiero e possiamo stare ore ed ore a disquisire senza aver e n é torto né ragione. Ad ogni modo, tengo a precisare che per me non si tratta di una “moda” e forse nemmeno di una scelta. Dal canto mio, ti dico che quello che vedo in bianco nero non lo vedo a colori: è come se avessi dei sensi percettivi al bianco e nero che si attivano nel momento in cui scatto. Negli anni è diventato il mio “linguaggio” fotografico, la mia espressione principale che, a mio avviso, riesce a rafforzare totalmente il messaggio da trasmettere all’osservatore .

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l tuo continuo viaggio “in strada” ti permette di incontrare persone di vario genere che vengono rapite per un attimo dal tuo obiettivo. Immagina di trovarti tu al posto loro. Qual è il tuo istante personale? Bella domanda! La risposta potrebbe sembrare semplice. Diciamo che non sono abituato a stare dall’altra parte della fotocamera però, se devo pensare al mio istante personale, ti dico che dev’essere ironicamente vero. E’ quello che, in effetti, sono realmente nella vita di tutti i giorni.

Osservando gli scatti presenti sul tuo sito nella raccolta “architecture”, quali sono i tuoi spazi metafisici? Innanzitutto in quella serie mi sono lasciato ispirare dall’artista metafisico per antonomasia e cioè De Chirico sforzandomi sempre più di rappresentare dei luoghi, degli spazi urbani, semplicemente nella loro essenza dove, a “far rumore”, è per l’appunto, il silenzio, a volte “spezzato” dalla presenza umana. In sostanza, i miei spazi metafisici li concepisco come una pace per l’anima un’oasi in cui probabilmente l’uomo ritrova se stesso attraverso un’esperienza sensoriale.

A quale progetto ti senti più legato? Quale lavoro stai realizzando in questo momento? Senza ombra di dubbio sono legato, e non solo fotograficamente, al progetto “Racconti in cucina”, promosso dall’Inail (sede di Palermo) svolto all’interno della comunità Sant’Onofrio dell’Opera Don Calabria di Trabia. Il progetto ha avuto come obiettivo la creazione di occasioni di incontro, socializzazione e occupazione attraverso la proposta di laboratori didattici di cucina e di narrazione. I protagonisti sono degli infortunati, pertanto persone diversamente abili, ex tossicodipendenti e immigrati con storie ed esperienze di vita differenti che si sono ritrovati insieme ai fornelli abbattendo così barriere e pregiudizi. Il tutto si è concluso a settembre scorso con la pubblicazione di un libro che racchiude ricette, racconti ed un mio reportage. Per il momento sto lavorando alla seconda edizione del progetto ma quest’anno sarà svolto con modalità diversa ed inoltre ci sono, work in progress, un paio di progetti di street photography.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento? La lista completa potrebbe essere lunga ma ne cito due su tutti. Non posso restare indifferente ai lavori di Sebastião Salgado sia per la straordinaria bellezza d elle foto che per quello che raccontano; i suoi lavori sono esemplari e credo che stia lasciando ai posteri un patrimonio fotografico notevole. L’altro è Walker Evans che con la sua fotografia documentaria e sociale riuscì, secondo me come nessuno, ad immortalare la grande depressione americana degli anni ’30. Hai un motto personale? La mia vita è tutta un motto da mettere in pratica ma quello che dico sempre è “meglio essere protagonisti della propria tragedia che spettatori della propria commedia”!

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Chiara Paolucci

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Fotografa emiliana particolarmente attenta a lasciare una traccia indelebile dei luoghi che il tempo corrode e che spesso l’uomo modifica deturpandone la reale bellezza, Chiara Paolucci ama i colori della terra e d el legno, le pietre e le sfumature tra il blu e verde come l’ottanio. Il suo delicato progetto “Le case nella valle” è la testimonianza di quanto l’arte fotografica sia portavoce tangibile delle mille sfaccettature dell’esistenza. Classe 1977, nata il 24 maggio nella provincia nord del modenese, n el 1996 consegue il diploma di maturità in Grafica e fotografia presso l’Istituto Statale d’Arte di Modena. Nel 2003 si specializza in grafica d el prodotto all’Istituto Europeo di Design di Milano. Lavora come graphic designer nell’ambito dell’editoria e packaging collaborando con diverse aziende modenesi ma negli ultimi anni, il suo talento artistico emerge risvegliandone la volontà di portare alla luce i suoi progetti fotografici. Sensibile a cogliere l’armonia dei paesaggi naturali, Chiara focalizza il suo obiettivo verso quella bellezza che esiste senza valori aggiunti, non omologata ai canoni moderni, destinata purtroppo a scomparire nel tempo. Attraverso i suoi scatti la Paolucci ci invita a riflettere su quanto sia importante per l’essere umano salvaguardare la bellezza del territorio dai cambiamenti antropici per tutelarla nello scrigno della nostra memoria visiva ed emozionale. Chiara, come ti sei avvicinata al campo della fotografia? Nel 2007 il mio modo di percepire ciò che mi circondava cambiò. Avvertivo un inspiegabile entusiasmo di fronte al panorama che mi accompagnava lungo quelle strade che io chiamo “le strade dal lunedì al venerdì”. Sono i tragitti percorsi con indifferenza quando la m ente è altrove soprattutto se stai andando o tornando dal lavoro. Comprai la mia prima macchina fotografica digitale, una compatta Olympus Tough, e la tenni sempre con me cominciando così a collezionare paesaggi. L’appartenza alla meravigliosa terra emiliana sembra determinante negli scatti de “Le case nella valle”. In particolar modo, si avverte l’enfasi nel riconoscere i limiti dei patrimoni che non possono essere preservati dal progresso. Cosa significa per te “salvare l’arte” ovvero tutelare la Bellezza? La bellezza è uno stato d’animo prodotto dalla gratificazione dei sensi. Questo è ciò che provo di fronte a certe armonie naturali. Anche l’uomo produce bellezza ed è proprio quella che io identifico come arte. Fotografo tutto quello che è prossimo a sparire: cortili sui quali si dispongono ruderi di vecchie case, fienili, pollai, pozzi, piccole chiese ed edicole votive, strade sterrat e segnate in parallelo da file di vecchi pali in legno per l’energia elettrica. Molte sono strutture abbandonate e prive di interesse artistico e architettonico e trattengono un frammento dell’ingegno di chi le ha costruite ed abitate, assumendo una valenza estetica notevole p er l’accurata opera di antropizzazione dell’ambiente in cui sono state inserite. Sono isole di armonia visiva che, poco alla volta, scompaiono inglobate dalle aree r esidenziali ai confini dei paesi, o demolite. La bellezza paesaggistica è la capacità da parte dell’uomo di modificare l’ambiente senza scader e nello spreco. Non è massificazione, non è solitudine. Nelle mie immagini desidero far prevalere il senso dello spazio aperto e il silenzio, memoria visiva di un diverso modo di vivere e di costruire queste terre. Oltre alle campagne ci sono altri soggetti che preferisci ritrarre? La fotografia relativa al cibo alla quale mi sono avvicinata per motivi di lavoro e che è anche molto in voga in questo periodo. Parlaci della tua esperienza di Orvieto 2015 e dei tuoi progetti Per molti anni ho fotografato senza mai interessarmi di esibire pubblicamente i miei scatti. Solo ultimamente ho deciso di condividere il mio progetto partecipando a concorsi e a circuiti del settore. Quella di Orvieto è stata un’esperienza molto positiva. Il fatto di poter esporre è importante e ogni segno di apprezzamento mi stimola a portare avanti la mia ricerca paesaggistica. Infatti, sto identificando nuovi luoghi da raggiungere e ritrarre nelle campagne del ferrarese, bolognese e nel polesine per poi realizzarne dei nuovi progetti.

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Quali artisti o uomini di cultura attraggono Chiara? Ettore Roesler Fran z pittore vedutista romano che alla fine dell’Ottocento ha utilizzato la fotografia sia come modello per le sue opere sia come vero e proprio strumento di reportage per lasciare una testimonianza dei cambiamenti urbanistici che Roma stava subendo. Egli prestava particolare attenzione ai quartieri più popolari dei quali sarebbe stato più facile perdere m emoria storica. Un’altra persona a me molto cara è Luigi Fantini (1895-1978), speleologo e paleontologo dell’Appennino bolognese, che in epoca non sospetta ebbe la sensibilità di raccogliere immagini delle abitazioni più antiche della sua zona prima che la guerra, le demolizioni e certe meschine ristrutturazioni le compromettessero per sempre. E ancora, Stephen Shore, fotografo statunitense, del quale amo il silenzio che si respira ammirando i suoi scatti di paesaggi urbani, dove la presenza umana è marginale o del tutto assente. Si tratta di strade di quartieri periferici, luoghi di sosta durante un lungo viaggio, sui quali non si hanno aspettative, ma che non scadono minimamente nel rimarcarne lo squallore.

Per concludere la nostra breve intervista, c’è una frase che ti calza a pennello? “L’esperienza mi insegna che l’esperienza non mi insegna”. E’ un pensiero che mi è balenato all’improvviso constatando che occorre cambiare punto di vista per trovare nuove soluzioni, per non limitarsi ad azioni standardizzate o guidate dalle opinioni altrui.

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Sharon Formichella

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Capita spesso di sentir parlare promettenti fotografi della voglia che li ha spinti a catturare immagini, magari per intuito, oppure per se stessi, solo per seguire una ricerca personale. Così comincia la storia di Sharon Formichella, vent’otto anni, napoletana d’origine. Vive in Toscana, a Prato, e lavora a Firenze la pura e semplice curiosità ha p ermesso che lei abbia scoperto, qualche tempo fa, il mondo della fotografia e che questa nuova conoscenza si sia trasformata, lentamente, in una passione. E’ questo il particolare approccio che molti vivono accostandosi all’arte fotografica: un colpo di fulmine, un afflato che dapprima resta in un luogo silenzioso, in una dimensione singolare, per poi trasformarsi in uno spazio plurale, accessibile al resto d el mondo. Sharon ne è l’esempio vivente. Il suo p ercorso inizia tre anni fa quando comincia a frequentare il Bacchino, un fotoclub della sua città dove, tra una proiezione e l’altra, tra una chiacchiera con addetti del campo e qualche partecipazione agli incontri serali con fotografi “di mestiere”, sente un sottile richiamo riuscendo a lasciarsi trasportare da ciò che osserva, scoprendo nello scatto qualcosa di speciale, un’emozione che le dona l’opportunità di esprimersi al di là delle parole, a volte in silenzio. Sharon, hai scoperto il bizzarro mondo della fotografia frequentando il fotoclub Il Bacchino di Prato. Puoi raccontarci cosa ti ha invogliato ad intraprendere la carriera di fotografa? Dopo aver frequentato il FotoClub, non avevo ancora b en chiaro di cosa io volessi dalla fotografia. Mi ero appassionata molto al gener e che viene d efinito street photography. Con il passare del tempo ho scoperto qualcosa in più, qualcosa di più intimo e personale. Napoli è la tua terra natale ma vivi nella meravigliosa Toscana, in quel di Prato, dove puoi attingere a continue suggestioni visive. Secondo te quanto conta l’habitat per sviluppare una carriera come fotografo? Indubbiamente in una grande città si possono trovare tanti spunti fotografici. Ma non è cosi per me. E’ come vivo la fotografia: nasce da un impulso interiore. E’ un’emozione che collega cuore e m ente quindi, alla fine, a mio parere, non è tanto indispensabile il posto in cui abiti quanto cosa riesci ad assimilare dal tuo ambiente, l’intensità del vissuto, quali impressioni avverti in ciò che ti circonda quotidianamente. Parliamo di “Riflessioni riflesse”, uno dei tuoi progetti che è un po’, come lo definisci, una tua ricerca personale. Secondo te cosa riflettono le vetrine del mondo? Riflessioni Riflesse è un progetto in cui effettivamente ho seguito una parte della mia personale ricerca. Per quasi un anno, osservavo i volti riflessi nelle vetrine dei negozi, gli sguardi distratti dei passanti, quelli attenti di chi cerca qualcosa al di là dei manichini nei negozi. E tutto ciò avveniva mentre non guardavano me. La particolarità è proprio questa. Le loro espressioni si riflettevano attraverso i vetri mentre mi chiedevo: “chissà cosa sta p ensando questa persona, chissà cosa ha passato nella sua vita”. Secondo me, riflettono ciò che non vediamo di noi stessi ovvero come siamo realmente, senza maschere. Un altro lavoro, “Solo il silenzio” è davvero suggestivo. Si respira un senso di particolare immobilità nei volti dei soggetti, la presenza immortale che viene espressa al meglio attraverso l’immagine in bianco e nero. Per dirla alla maniera di Wittgenstein, nella vita e nell’arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto efficace del silenzio. Eppure dai tuoi scatti il messaggio arriva chiaramente, senza parlare. Descrivici come sei arrivata a questa tua raccolta fotografica. Solo il Silenzio è un insieme di scatti che ho raccolto strada facendo, dove tutto, intorno alle persone, scompare. Forse sembrerà banale, ma con il passare del tempo mi sono ritrovata a guardarli nuovamente nell’insieme, e la prima sensazione che mi è affiorata è stata proprio quella di… silenzio: uno stacco totale dalla realtà di tutti i giorni, un qualcosa di etereo. Probabilmente, a livello inconscio, era ciò che stavo c ercando. Quando li ho uniti, ho visto immagini ferme, quasi surreali, un mondo parallelo, fuori da ogni rumore, dal caos quotidiano, un osservare senza sentire con le orecchie bensì con l’anima. E tutto questo è accaduto nel momento in cui mi sono lasciata trasportare soltanto dalle emozioni.

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Quali programmi hai per il futuro? Non ho ancora dei programmi definiti. Vivo alla giornata cercando di prendere sempre il meglio di ciò che mi capita. La fotografia è una grande passione che però non d eve diventare per me un’ossessione. Qual è la tua fonte ispiratrice? Prediligo alcuni fotografi cercando comunque di essere sempre me stessa. Apprezzo moltissimo Mario Giacomelli, Michael Ackerman e Daydo Moriyama.

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Mariangela Tripiedi

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Di origine pugliese, Mariangela Tripiedi nasce a Tar anto il 20 febbraio 1984 anche se attualmente vive e lavora a Viterbo. Personalità introspettiva, particolarmente attenta a catturare quei piccoli dettagli che ricompongono il puzzle di una vita, le sue sono storie realizzate attraverso l’esp erienza diretta, sono dittici riflessi nello specchio dell’anima. Reportages di particolarissimi progetti fotografici mettono a fuoco il cuore dell’arte visiva: il fiorire dell’amore sotto la sua lente fotografica come inAmor arma ministrat, e ancora una gestazione interiore che sviluppa un emozionante florilegio di vicende descritte in Another mother, per continuare in un toccante e profondo lavoro catartico, Origo, quale potente espressione di forza ed energia purificata dal dolore, dopo averlo oltrepassato. La bellezza d ei suoi scatti in bianco e nero dimora in questi valori rendendo manifesta quella luce che rigenera ogni cellula. I progetti di Mariangela Tripiedi sono pubblicati su Lens Culture. Mariangela, raccontaci quando è nato in te l’amore per la fotografia. Ho ricevuto la mia prima macchina fotografica da bambina. Non ero brava in quelle “arti” che solitamente t’insegnano a scuola: non avevo molta dimestichezza in disegno, in recitazione, per non parlare della musica che pur amavo ascoltare ma non suonare perché le note uscivano stridule. La macchina fotografica, invece, mi dava l’impressione di poter tirar fuori le mie emozioni, ovvero tutto ciò che partiva dal cuore, quello che percepivo, sentivo, vedevo. Ho cominciato a scattare inconsapevolmente utilizzando questo strumento come un rudimentale mezzo di espressione, fino a quando non ho incontrato il primo libro di fotografia e, a quel punto, ho compreso quanto potente potesse essere questa straordinaria arte, se utilizzata con consapevolezza, sia tecnica che emotiva. Da quel momento, oltre a scattare, mi sono messa a parlarne e a studiare. Non ci siamo più lasciate. La macchina fotografica è rimasta il prolungamento del mio cuore, fino ad oggi. Diciamo che siamo nate insieme. Cosa vedono i tuoi occhi e come nutri la tua arte visiva? I miei occhi vivono di quotidiano e di infinito. Osservo quello che mi circonda fino a “spolparlo”. Partendo da piccoli dettagli, costruisco innumerevoli storie che vedo nella mia m ente senza fotografarle. Leggo molto, soprattutto sulla fotografia e mi interesso a quello che gli autori contemporanei e del passato hanno fatto e stanno facendo. Il lavoro degli altri è come leggere un libro per me e, allo stesso modo, mi arricchisce. Passeggio molto in solitudine, osservando e meditando, e guardo notissimi film.

Parliamo di “Another Mother”, uno dei tuoi significativi progetti che diverrà presto un libro. Hai incontrato donne diverse, ognuna con una propria storia, un percorso di gestazione fisica ma anche interiore. Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Quale vicenda ti è rimasta particolarmente dentro? Di questo progetto, che mi ha visto impegnata per quattro anni e che oggi vede la luce attraverso un libro editato insieme all’amico Federico Cianciaruso, mi porto dietro sicuramente le donne che mi hanno aiutato a realizzarlo, il loro esser e madri ed il loro femmineo. E’ stato un lavoro duro, spesso con vicende emotivamente violente, ma mi sono sentita fortunata per aver avuto la possibilità di trasformare in immagini tutte queste storie e queste emozioni. Ancora non riesco a distaccarmi dalle immagini che ho scattato; ogni volta che mi capita di rivederle per questioni pratiche di impaginazione del libro, lo stomaco si chiude in tutte le emozioni che queste donne mi hanno regalato e le lacrime scendono involontarie. Grazie a tutte loro credo di poter essere una madre ed una donna più consapevole; ci siamo unite e riunite in un abbraccio di imperfezione, ed è ciò che ci rende più forti e di cui andiamo fiere. Io stessa sono n el progetto con la mia storia di madre piena di errori e di pianti, ma anche di sorrisi e voglia di imparare. Sono orgogliosa di loro e di m e, ci siamo messe in gioco raccontando la nostra maternità, quella che la società non vuol vedere, non come nelle riviste patinate, ma quella che è presente in ogni donna, fatta di luci e di ombre, di cui non serve vergognarsi e che non bisogna nascondere prima che diventi un consistente problema sociale.

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Cosa vedono i tuoi occhi e come nutri la tua arte visiva? I miei occhi vivono di quotidiano e di infinito. Osservo quello che mi circonda fino a “spolparlo”. Partendo da piccoli dettagli, costruisco innumerevoli storie che vedo nella mia m ente senza fotografarle. Leggo molto, soprattutto sulla fotografia e mi interesso a quello che gli autori contemporanei e del passato hanno fatto e stanno facendo. Il lavoro degli altri è come leggere un libro per me e, allo stesso modo, mi arricchisce. Passeggio molto in solitudine, osservando e meditando, e guardo notissimi film. Parliamo di “Another Mother”, uno dei tuoi significativi progetti che diverrà presto un libro. Hai incontrato donne diverse, ognuna con una propria storia, un percorso di gestazione fisica ma anche interiore. Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Quale vicenda ti è rimasta particolarmente dentro? Di questo progetto, che mi ha visto impegnata per quattro anni e che oggi vede la luce attraverso un libro editato insieme all’amico Federico Cianciaruso, mi porto dietro sicuramente le donne che mi hanno aiutato a realizzarlo, il loro esser e madri ed il loro femmineo. E’ stato un lavoro duro, spesso con vicende emotivamente violente, ma mi sono sentita fortunata per aver avuto la possibilità di trasformare in immagini tutte queste storie e queste emozioni. Ancora non riesco a distaccarmi dalle immagini che ho scattato; ogni volta che mi capita di rivederle per questioni pratiche di impaginazione del libro, lo stomaco si chiude in tutte le emozioni che queste donne mi hanno regalato e le lacrime scendono involontarie. Grazie a tutte loro credo di poter essere una madre ed una donna più consapevole; ci siamo unite e riunite in un abbraccio di imperfezione, ed è ciò che ci rende più forti e di cui andiamo fiere. Io stessa sono n el progetto con la mia storia di madre piena di errori e di pianti, ma anche di sorrisi e voglia di imparare. Sono orgogliosa di loro e di m e, ci siamo messe in gioco raccontando la nostra maternità, quella che la società non vuol vedere, non come nelle riviste patinate, ma quella che è presente in ogni donna, fatta di luci e di ombre, di cui non serve vergognarsi e che non bisogna nascondere prima che diventi un consistente problema sociale. Tutte le storie che ho raccontato, sono assolutamente ancorate al mio cuore, ma una in particolare mi ha stravolto l’anima: dopo circa due anni che lavoravo al progetto mi ha contattato una donna che si dichiarava madre, pur non avendo figli. Era una donna che aveva subito diversi aborti. Parlare con lei è stato mer aviglioso e mi ha restituito una visione della maternità ambivalente: da una parte le sue emozioni, la sua rabbia nei confronti della vita, ma anche della società, della gente che la guardava come una donna incompleta. Amici e parenti le si rivolgevano con pietà, non riconoscendole assolutamente tutta la forza che invece questa donna possiede e dimostra ogni giorno, superando costantemente una perdita dietro l’altra. Dall’altra parte, ha cambiato la mia visione sul concetto stesso di “maternità” che noi culturalmente riconosciamo esclusivamente a chi ha un figlio, a chi ha partorito. Lei, invece, si sente madre di tutti i bambini che ha p erso, poiché ha comunque potuto avvertire la loro presenza d entro di lei e questo le ha concesso, se pur momentaneamente, di sentire quell’amore incondizionato che è parte integrante della maternità stessa.

Un altro tuo lavoro molto interessante è “Amor arma ministrat”, un racconto fotografico che vede protagonisti Stefano e Marilisa, due anime che s’innamorano e scoprono la gioia della nascita di un figlio, un amore al di là del passato e delle proprie vicissitudini personali. Lasciamo a te lo spazio per svelarci come hai realizzato questo significativo progetto. Ho parlato con Stefano la prima volta per caso in un parco cittadino, eravamo lì per difendere la dignità di quel parco dal cemento di un palestra che il comune voleva costruire e che poi, alla fine, ha edificato. Mentre chiacchieravamo mi colpì moltissimo la sua idea di “comunità”. Era un concetto bello, forte, fiero, di altri tempi. Così gli chiesi qualcosa in più e Stefano, con una semplicità disarmante mi rispose: “Sono un ex-tossicodipendente, mi sono fatto per anni ed ho smesso da anni”. Guardavo incredula quest’uomo radicato e sincero. Non era solo: poco distante si trovava anche la sua compagna con un tenero pancione e questa cosa mi fece riflettere.

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Passò del tempo prima che chiedessi a Stefano e Marilisa di aiutarmi a realizzar e questo progetto, soprattutto di permettermi di poter entrare nelle loro vite e, a loro volta, anch’essi conobbero la mia. Così, alla fine hanno accettato. Non m’interessava r accontare la storia di un ex-tossicodipendente; volevo descrivere la storia di Stefano, dell’uomo che è oggi, del padre che è adesso, di questa persona amata e capace di amare, che vive in una comunità che lo rispetta ed ha fiducia completa in lui. E’ una comunità fatta d’amici, vicini e parenti che stimano ciò che lui è oggi. Questa vuole essere la storia di un uomo nuovo che ricorda il suo passato con consapevolezza, p erché da quella storia è partito per un viaggio migliore che lo ha portato da Marilisa e da sua figlia Cristiana. Quella di Stefano è una storia in cui è l’amore la vera forza ad avergli procurato i mezzi per riuscire ad intraprendere un sentiero differente. Quali altre produzioni fanno parte della tua storia personale? Un progetto cui sono particolarmente legata, è senz’altro Origo. E’ stato r ealizzato con il contributo della danzatrice Simona Buccolieri, in un momento particolarissimo della mia vita. Origo è un viaggio catartico nel dolore e attraverso il dolore. Origo è la spinta primitiva che ti dà la forza di andar e avanti, il fiume impetuoso che ti solleva verso la rinascita, che non allenta la presa. Origo è il confine tra la tempesta e il sereno, la rete di energia vorticosa e vibrante delle donne nelle sale chemioterapiche, di tutte le donne che combattono, non importa quale battaglia o nemico. Origo è la nascita di tutte quelle donne dal dolore. Origo non è la malattia è la vita. Cosa c’è nella tua vita al di là della fotografia? Prima di tutto mia figlia, poi la musica, i libri, il bosco. Ci sono gli amici e gli infiniti istanti.

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