andrea inglese la distrazione

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Andrea Inglese Da La distrazione, Sossella, Roma, 2008. Testi per Farenheit


Mia nonna è stata la parte marxista di me : “La tua filosofia ce l’ho sotto gli stivali” e “Scendi con i piedi per terra”, “Quella che ti manca è la filosofia pratica”, diceva. Alle volte aggiungeva: “Vesti proprio come un barbone” oppure “Metti fuori questo cappotto che puzza”. Nel mondo di ricatti e di aggressioni che vedeva, giungla impietosa di tasse, scadenze burocratiche, condominiali insidie, al di sopra di tutto le uniche, eccelse virtù: puntualità di pagamento, ermeneutica della posta ordinaria, lettura crittografica delle raccomandate, prontezza dell’intervento domestico, scarpe, piastrelle, denti lucidati sempre. La minaccia del consesso umano alla cerchia familiare – tirannide di affettuosi, dogmatici costumi – esigeva massima concretezza, teologia del dettaglio, matematica di base. La praticità, insomma, incubo perenne della mia esistenza. “Manchi di senso pratico” diceva come intendesse “Ti manca un polmone”. Voleva sopprimere in me la secolare divisione del lavoro, trarre dal sognatore il muratore, dal poeta l’avvocato, dal metafisico l’idraulico.


Macchine Mi sveglio nella notte, e penso: “ci devono essere, è necessario che ci siano” e m’incammino, mentre intorno è buio, “non è possibile che non ci siano”, e le cerco, mi metto, camminando, di notte, a cercarle una per una le macchine del mio appartamento. A tastoni avanzo, aiutato da più piccole macchine, facendo luce in zone circoscritte dello spazio, le illumino, si fanno evidenti le piccole o grandi corazze, alcune mute, altre in lievissimo tremolio come di palpebra, basta appoggiare piano la punta delle dita, le minime, calde vibrazioni, le quasi organiche oscillazioni interne dei meccanismi più ridotti, concentrati, dietro ed in fondo, i motori, le ventole, la circolazione dei liquidi, la pressione dei gas, tutte le passo in rassegna puntando la luce, toccando con i polpastrelli le macchine del mio appartamento. Guardo, di notte, camminando su e giù, pur conoscendo a memoria le sagome, le loro disposizioni negli angoli, negli armadi, nei vani delle pareti, le macchine, le piccole come le grandi, attive o inattive, a corona, a cerchio, a ragnatela buona, come esse mi tengono in vita, come mi danno vita, come mi tolgono il sonno, loro, nel loro splendore in sordina, nel lavoro clandestino, costante, avvelenando e tenendo in vita, in velenosa vita, la vita.


Milano Escono tutti dalle auto come sputati da una capsula spaziale sotto fortissima pressione: allargano di scatto le braccia, le dita incollate a pugno, e abbaiano. L’aria aperta li ferisce, è chiaro, i colori delle cose li irritano, i profumi li confondono: tanta abbondanza non pagata, non infilata nella borsa della spesa, li rende matti. Tornano al chiuso dell’abitacolo con gli occhi iniettati di sangue.


E poi mi sono messo a guardare le scarpe. Le mie, estive, di pelle, marroni chiare. Non la suola accidentata, segata sul tacco nel lato esterno di entrambe, no, dentro, perché le calzo a piede nudo, e si devastano progressivamente con straordinaria armonia, aprendo brecce dove poggia il calcagno, per sfregamento, entropia minima, ad ogni passo, con tutta la memoria lì, del passaggio mio sulle superfici, quel camminare sempre insano, fitto, che si ignora, fuggendo avanti, a scavalcare il proprio camminare, sorvolandolo a mente, come perdendo i propri pezzi altrove, sfilati fuori, immateriali, a mulinare d’ansia nell’aria, anzi in atmosfera zero, implacata, dei miraggi. E solo le scarpe registrano tutto lo sforzo dei passi, la concretezza dello slancio, ogni metro, per gradini, prati, ghiaie, lastre irregolari, asfalti monotoni. Non io, che le sfilo entrato in casa, dimenticando la terra che sempre mi tiene a posto, sul punto d’appoggio, appiedato nel mondo, certo almeno di questo.


Passante Ti hanno detto?, hai saputo?, era un sogno?, dovevi guardare, non per sentito dire, non ero io, succedeva, ma come sempre, te ne ricordi?, sai ripetere?, quello no, succedeva, si dice, tanti, erano tanti, ma poco, ci si accorgeva poco, non ero solo, chi allora?, con chi?, qualsiasi, gente intorno, sempre, troppi, eri stanco?, eri assente?, che cosa vedevi?, ogni volta, ma in fretta, proprio in discesa, non credevo fosse, non cosÏ, non fino a quel punto, ero io, con me, a parlarmi, di soldi forse, quanti ne hai contati?, molti, erano coperti, a metà , li vedevo, ma nascosti, sotto coperte, chi?, o cartoni, sacchi pieni, spesso, dov’erano?, di passaggio, ecco, ero di passaggio, presumevo, indizi, una mano poggiata a terra, succedeva, dicevano, anche a me, dicevamo tutti, in continuazione, passando, passando via, lanciati, ognuno era se stesso, solidamente, non volevi o non potevi ascoltare?, disastri di frasi, a volte, non io, ero in me, eravamo tanti, ma veloci nel passaggio, via, nascosti, noi eravamo piÚ nascosti di loro, in piedi, di corsa, a terra come statue loro, che cosa dici?, non so, niente, forse neppure, per davvero respiravano, lÏ fermi, con la bocca devastata, noi via, basta, bastava.


Non hai confinato la tua mente al frammento, al pezzo separato, al detrito d’immagine posto come campo assoluto, sommario di mondo. Vedi che la pietra apparente del reale, la cittĂ nostra filmata, contiene una segreta lotta di viventi, fatiche per stringere l’entrata della luce, ferimenti per aprire... E il monumento del visibile: il morente chiamato al microfono, tirato in piedi sulla sabbia, sotto un’ombra organizzata, è tagliato via dai suoi torturatori, apparsi altrove, in altre ore, dentro camicie fresche di lavaggio e stiratura, usando penne su fogli e non uncini su carni disarmate.


Le cieche Due cieche giovani e molto imbranate saettano i bastoni a casaccio. Infilato il vagone di misura marciano sui piedi di tutti, posano mani su facce sbagliate, danno gran colpi di zaino. Una signora le inquadra, ma quelle rompono subito le righe. Ad una grido il nome del capolinea, ma fa finta di niente. Poi lo fanno davvero il casino: la piccola scende e rimane incagliata nella folla, l’altra è bloccata tra due schiene di colossi, che amniotici ascoltano una sorda musica, e tace. L’aiutante è un signore dal grande impermeabile, interroga la piccola, si sbraccia. Gli oppositori mancano. L’azione non riprende e tutti aspettiamo qualcosa: uno strappo di moviola all’indietro o un pompiere dagli stivali neri, l’elmo d’acciaio. Un buon motivo e forse non si parte mai più, lo dice una voce dall’alto: “Il treno di sotterra è fermo, un uomo ride sui binari o un finto animale.” Poi a spintoni scavo per la più alta un passaggio, che imbocca lieve. Di nuovo assieme, sbandano via in una loro tenebra, a colpi di bastone la tagliano, con falcate distratte. Se ne ridono di me, dell’uomo con l’impermeabile, del nuovo suggeritore che le accosta di lato.


Qui tutto è strafinto, ingenui pensano non me ne renda conto, che non sappia ammaestrati quei bambini dietro la rete metallica, quando parlano alterando la voce come sciamani, o la gazza, nell’olmo troppo sottile, che emette elettronica un suono, e rimane bloccata al congegno del ramo. Un telefilm ha spiegato il senso e la durata media della caccia, quando non bastano animali, ma uomini devono nutrire altri uomini lavorando, o era la favola delle conquiste: i cavi sottomarini, i ponti di vetro, le poltrone volanti. Altri fenomeni, come incidenti aerei, attacchi di panico e cadute dai balconi, possono essere con poca spesa memorizzati. Qualcuno tiene a mente anche gli appuntamenti che scordiamo. L’epidemia che già circola da anni non è visibile ad occhio nudo. Allo specchio sto al gioco: vedo un volto che ho imparato a riconoscere, anzi lo faccio mio quando parlo, anche se poi le parole vengono da continenti sommersi, e per questo giungono in superficie offuscate. A volte neppure varcano le labbra.


Desiderio Le reti erano quelle alte del tennis dietro a cui colava un’acqua dubbia, tra argini d’erba. Tu imparavi a ipnotizzare le rane, io sganciavo cauto il tuo reggiseno, e le menti buie schiarivano, in sogno nessuno ha fretta, potevo passarti ogni tanto la lingua sulla schiena, tra le scapole, mentre la festa in giardino continuava. Portavo bicchieri sempre doppi, pieni di sangue, che rovesciavo a terra, al riparo da bocche assetate, indiscrete, ancora non ti decidevi a sfilarlo il vestito scollato, ci spostavamo sui fondali senza mai doverlo consumare il desiderio, ed esso si eternava davanti a noi, nitido nell’aria, come un fiore crudo, una galassia.


Proprio mentre passo e mi dico “L’amore, quanto sarebbe bello e facile, fare l’amore” e mi guardo intorno con l’aria placida d’intesa, sì, si può fare, basta essere un po’ al riparo, le ginocchia si toccano, la luce ostacolata dalle piante o da un muro di cinta, una qualsiasi ragazza, con cui abbiamo parlato un poco, senza affanno e sorprese, avendo il tempo di notare la forma della fronte, delle sopracciglia e la screpolatura delle labbra, che hanno un facile sorriso, ma nel prato a fianco già sento i passi affannati di una coppia, si fermano davanti ad un albero basso, lui l’afferra a braccia tese come a sradicarla da terra, tira la maglia con tutta la forza, lei punta i piedi, si aggrappa al tronco, lui la investe con tutto il corpo, la schiaccia, si scontrano le teste, schiumano, lui è sopra di lei per rompere tutte le resistenze, le fa un enorme violenza, lei gli resiste con furia, non scorre un rivolo di sangue, è solo un piacere che non riescono a controllare in nessuna maniera.


Non accade. E intanto passano le minuscole cose, e ad esse ti attieni, spiando gradazioni infime di colore, infami, vuote. Non giunge. L’equilibrio è buono, aprendo la bocca l’aria vi entra, respiri, guardi lontano, fermo sulle due gambe, e le muovi. Non avviene. Intanto vanno, di ora in ora, con un delicato meccanismo di strazio, i giorni: siedi e ti alzi, cambi di tasca le chiavi, perché non scavino dentro la tela, passi la spugna sul tavolo, rivolti una maglia, guardi ad uno ad uno i gradini o in alto la flessione dei rami con l’ultima luce e sembra il raggio fare di ogni fine una cosa solenne. Non era questo. Ma quelle storie monche, rade, filtrate in inverno attraverso muri e pareti, hanno a lungo preparato un sogno: verrà l’unica viva sorte a devastare di nuovo, verrà guastando ogni misura di calma e di conforto, per ricomporre il piccolo vivere nostro dentro i ferocissimi mali del mondo. E sentiremo, quel giorno, ampio come un pianeta l’attimo e il passo, e la difficoltà ad ogni metro di non cadere.


Presagi del passato Ti voglio dire che sotto, in me, laddove il mio cavo si congiunge con l’immensa cavità che divora nascosta la metropoli, facendo sabbioso il basamento, lì confluiscono le seti. L’ira dorme finché i sepolti affondano e non toccano fondo. La pietra che tu credi ultima o l’acciaio è disegno provvisorio, caso, che attende il taglio. La nube alta dentro cui usciremo bianchi spettri di polvere, a brandelli nei nostri brandelli, è la giustizia di sangue. Riconosceremo la fratellanza di un unico errore. D’abitudine, nei giorni di felice presente, si piange divisi, in abitacoli bui o dietro porte di pubblici bagni, schivandosi sempre. Ma nel crollo, prime a piegarsi come carta sono le paratie, le mura divisorie.




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