Andrea Raos
[Quaderni] Dobbiamo distruggere o creare? [Andrea Raos]
Titolo:
Andrea Raos – [Quaderni]
Poesie di:
Andrea Raos
Fonti: Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Pieraldo, 2003); Lettere nere. Un’autografia (Parzialmente edito in Àkusma. Forme della poesia contemporanea, Metauro, 2000; Luna velata, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003; e in AA.VV., Prosa in prosa, Le Lettere, 2009); Charles Reznikoff, Holocaust (Black Sparrow Press, 1975 – Traduzione inedita di A. Raos); Le api migratori (illustrazioni di Mattia Paganelli, Oèdipus, 2007); I cani dello Chott el-Jerid (di prossima pubblicazione per Arcipelago)
A cura di Fabio Teti
Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.
Poesia2.0
da Discendere il fiume calmo (1992-1995)
[da: Nessun frammento]
Salendo alta nell’aria, questa voce, Facendosi più calde, meno rare Le correnti, si unisce alla precoce Sera, si incrina e increspa contro il mare; Invece in quella terra da cui parte Il grido, quella parte d’ombelico Di uno che intravisto da una parte Tremare dentro recita al nemico La ferita dando ogni forza all’erba Che ne accoglie le membra e si distacca Poco a poco una pelle che non serba Più acqua o proteine, in cui la sacca Dell’uretra si scassa e quanto innerva La lacca delle urine gela in biacca.
***
Un altro si sta straziando da sé Prendendosi ad unghiate addosso agli occhi Che vanno dentro l’orba in pochi tocchi Precisi ma nessuno sa il perché, D’altra parte neppure ci si chiede Cosa chiami le folaghe a migrare Volando in uno straccio triangolare A un verso dell’andare, un’altra sede Che le accolga al di là della palude – Le seguii dalle tracce di escrementi – Non contando sul favore dei venti Distratti ma passando terre nude Carezzate dalle piume innocenti Giù, sino a dove il volo si chiude.
***
(dopo l’esplosione) Io non so verso dove allontanarmi. Intorno a me piove calda la sabbia. Terna di gesti è sputo insetto – gabbia. Mani fuse nella beltà delle armi. Le labbra secche, chiuse, dure. Le labbra tue stanno colando sale, Non è ricordo, sarà sempre male. E appunto sono sfigurate e scure. Due fori più in là sono riposti. Sul fondo loro la luce non scocca. Per geometria dei piani vanno accosti. Fuori di me cerco denti, una bocca. Torco per questo un corpo: “Tu chi fosti?”. Per dire infine proprio a me è toccato.
***
Glas 1. che deve prendere a pretesto il passaggio di mano, bianconero, lo striato della sciarpa annodata brusca per scuotersi l’acqua di collo o ancora che lascia che si abbassi, la stessa mano, ripiegata nel buio o che sia, continui ad essere, decida di continuo l’acqua ancora – io che la guardo – di celarci l’uno all’altro quasi in sogno chiede con parole diverse qualche cosa come pioggia, quasi al bar come a domenica si pensa alla passata tormenta forma evanescente strattona ciecamente la manica e siamo poli perfetti del discorso senza luogo come sfere, ferro e magnete, nessun danno, no problema.
2. Nel vortice che cade addosso ai fari all’esterno del parcheggio ogni cristallo pare vivo in questo vento. Adesso da lui a me da me a lui parte neve parte neon glas è neve in senegalese, quel bianco che discese e ci coprÏ.
da Lettere nere. Un’autografia (1996-2002)
La venuta dell’amante meraviglioso et je ne puis approuver que ceux qui cherchent en gémissant. Pascal
fantasma della prima persona e spina singolare nella carne, è indubbio che potrebbe ricordare ogni dettaglio. e dunque, o è pura e semplice finzione o sta evitando di scontrarsi con qualcosa che già sospetta essere troppo doloroso per lui. osservato a lungo, in questi giorni, non sembra che sia poi così cambiato rispetto a come lo si ricordava. pure è certo che lentamente, forse troppo lentamente, si sta avvicinando al cosiddetto punto-limite. lo si può notare da certi scatti d’umore inusuali, una voracità accresciuta. il sogno, la piaga. tuttavia, non può ancora dirsi lo stato alterato, l’animo convulso a pareggiare i conti, d’un ricordare completo. constata almeno che ha prodotto ferite profonde con tradimenti e menzogne della specie più banale, facendosi adatto ai contesti o alla sua percezione di ciò che ci si aspettava da lui in quel momento. vie d’uscita non ne ha. non ne vede, cosa chiede. non mostra esitazioni, d’altra parte, quando si tratta di rivivere certi eventi particolari, purché a lui favorevoli. ha già tentato di definirlo un gettare luce su fatti ignoti a tutti. favorevoli nel senso più concreto, come potrebbe esserlo il prestito a fondo perduto di una somma di denaro, o un regalo imprevisto. questo non molto spesso. non è mai stato molto abile, dice, con i regali. o troppo o troppo poco. come che sia, di fatto non è la prima cosa alla quale si pensa quando si pensa a lui. si visualizza piuttosto una presenza incostante ma florida, lucida e vivace. che sono tanti aggettivi per non dire nulla. una sola traduzione del suo volto, una pazienza illimitata, è messa in dubbio dalla piega angolosa dell’orecchio sinistro, dallo scattare improvviso e frenetico, spesso, delle palpebre. non può credere che sia vero ciò che dicono di lui. rifiuta di accettare la malvagità, è così che la definisce con il tono di chi vuole insultare, l’oggettività della statistica, lo stillicidio dell’infinito potenziale, chiede a noi se non vediamo numeri complessi che ruotano, sfere di cristallo sospese nel vuoto, saldate al buio incastrato a sua volta dentro sfere d’alabastro, in eterno per simpatia vibranti per materia su materia, alle soglie della coscienza, nell’anticamera della memoria, che scorrono a fluire lentamente finché sembrano a guardarle palloni aerostatici di forma inusuale avvicinarsi e allontanarsi, ad inghiottirlo quasi od a sfuggirgli, con la lentezza tremenda figlia della sua allucinazione. durante questo scorrere di tempo considera le migliaia di secoli bambini che ha passato a navigare a vista in questo sogno. comunque, rifiutare il riassunto di una vita è forse semplice istinto di sopravvivenza della maschera dell’io individuale, quella riversata nell’oggi, l’attuale, della volpe che si recide la zampa per sfuggire alla trappola, nel qual caso la metafora istantanea del sangue sulla neve avrebbe trasparenza superiore ancora a quella della neve stessa, o in ogni caso per semplice lucidità di sovraffollamento, che sarebbe allora mentale, dopo praterie per centinaia di chilometri, sino alla scogliera, con soste irregolari e brevi,
costellate di striduli richiami, scatti dettati dal panico, zigzag dopo zigzag sino ad affastellarsi in un fantastico domino già afflosciato in forma di città luminescente, il lemming insegue il picco più profondamente inciso per sbocciare a milioni, alla superficie dell’oceano a milioni contro le onde, milioni di onde come solo movimento, grido il balzo banale già sbocciato addosso all’acqua calcolabile all’impatto. questa la certezza da uomo d’affari della terra e sfigurato da tagli coincidenti con la volta celeste che lo conduce per viottoli, volte e torrenti, autostrade e rigagnoli, elettricità. un caso mai inventato. per questo non chiarire, mai, il campo d’esperienza. si limita ad enumerare una serie di possibili fattori scatenanti. che cosa appunto nasca da ciò, non lo dice, oppure tenta forse di comunicarlo per vie meno diritte. movimenti di una spalla, sguardi diretti, sguardi, sguardi di sfuggita, il suo gesto abituale di sfregarsi la fronte. una cosa che racconta spesso, probabilmente per sviare l’attenzione, è un’accurata descrizione del giardino della casa in cui è cresciuto fino ai cinque anni. fatto sorprendente, forse al limite dell’attonita mistificazione, per chi sostenga la fallacia, la morte implicita in qualsiasi vita vista in forma di autobiografia, sarebbe in questa luce veramente questa vita in quanto cuore vuoto e colmo di un fango acidulato e grigio, pulsante con la regolarità di un’infezione, ogni mattina da riconcepire in quanto contraddizione e vanità di ogni cercare, voler cadere nella tentazione del piede in fallo, del vuoto ricco di senso che dovrebbe nutrire, dissetare chi, e parla di chiunque, ma al posto suo pensando sempre, forse, e poi ancora, basandosi sul suo valore e la miseria altrui, su chi frequenta i cuori di coloro che eccellono e degli umili, a chi col cuore vuoto cerca pace fra tutti costoro, chi dice di riuscire a rimanere, in quell’eredità detta, navigante a vista nel male originato dalla fine del male, ma sa bene che in fondo non è nulla, invece, e in ogni modo, e non è lui, ma in particolare, ed è sorprendente vedere come si accalora, all’improvviso, per sottolineare, è questo, con veemenza, l’aspetto estraneo, quasi ostile, degno di una giungla inesplorata, rivestito nella sua immaginazione dalla serra in rovina nell’angolo più lontano dall’abitazione vera e propria. una serra piuttosto grande, se i suoi ricordi sono esatti. purtroppo, dice, è su questi soli che può basarsi, perché è passato davanti al giardino, molti anni dopo, ma i proprietari successivi l’avevano abbattuta. più nulla. a tal punto che non si nasconde il timore che non sia mai esistita e che di conseguenza lui stia costruendo su fantasmi. ebbene, di quel luogo in pieno decadimento, cui era proibito anche solo avvicinarsi a causa delle vetrate in pezzi che disseminavano il prato di aculei trasparenti, l’immagine più vivida che gli sia rimasta è quella di un gatto, fulvo e bianco, che fu scoperto imprigionato negli angoli spioventi del metallo. un gatto ferito, curato da tutti con grande attenzione e affetto. dal suo punto di vista, nell’ottica delle sue preoccupazioni attuali, l’aspetto più degno di interesse dell’intero episodio è che non ha assolutamente alcun ricordo di che fine abbia fatto quel gatto. svanito nel nulla. per qualcosa vi è qualcuno con memoria della fine? il salvataggio, lui, sì, forse proprio perché quell’atto aveva racchiuso in sé la sensazione forte, lo strappo dell’avvicinarsi, attratti dal persistere del gemito, alla zona proibita, ma non così la sorte successiva, nel quotidiano, dell’animale. forse fuggito, lasciando un ciuffetto di peli intricati in una cornice di rovi. oppure morto. anzi, oggi sicuramente morto, soggiunge ridacchiando. mortissimo proprio. soffio che non trasporta più nulla, sarà a dir tanto montagnola di sabbia fra altre mille, su una spiaggia deserta, all’ombra di una schiera silenziosa di pini marittimi, al massimo sarà
l’incunearsi d’un aculeo fra la corteccia e il tronco, però allora sull’orlo sfrangiato di un cecidio, che può chiamarsi anche galla, quel tumore che si forma nelle piante come reazione all’introdursi di un organismo, vegetale o animale, il penetrare di un organismo estraneo, in cui a quel punto sarà qui, in compagnia sua, a respirare allora l’aria ghiacciata del non respirare più, il capogiro del non potersi più dire per domani avrei voglia di inventarmi una vita diversa. ma ben poca cosa, lui lo sa e lo ha sempre detto a chiunque volesse ascoltarlo, sarebbe comunque sopravvivere a, grazie a una teoria di sinonimi in cui però restare senza fiato anche solo per avere chiuso per la durata di un battito gli occhi. perché questo ricorda. il timore di una cantina buia dal fondo sconcertante e immenso, i più orrendi pericoli. eppure questo non gli serve che a sbloccare un’altra idea che scorre da un fiume più lontano, un fiume calmo, dato che sepolto in fondo alla memoria giace lì qualcosa che appartiene, il sangue e l’anima ed il muschio venoso che di questo corpo bacia tutte, ognuna cavità, che appartengono, lui dice, all’oggi. la pazienza che chiede per questa immagine abusata di oggi e ricordare è perché ritiene di poter dire tramite essa una cosa importante, una cosa che potrebbe fargli attraversare indenne la fiamma di un momento della vita. perché quando ci si trova immersi nel buio, questo è il punto, quando si sta immobili nel fondo fisso dell’oscuro, viene spontaneo ritenere che la vista fra i sensi più di tutti sia del tutto inutile, che si possano stringere le palpebre e affidarsi, nel difficoltoso incedere, all’udito e al tatto, oppure attraversando i meandri dell’odorato leggere l’ambiente. è vero, in fondo a cosa serviva quel giorno guardare piangendo attraverso il vetro rigato di pioggia senza vedere nulla se non ad aumentare il carico di sofferenza di ogni umano, a dare nostalgia, martoriarsi e palpitare di piaga per ogni breve accendersi del mondo visibile, dovunque e quale fosse in ogni istante? eppure proprio in questo risiede, secondo lui, ciò che in fondo è forse proprio necessario: spalancare gli occhi nell’oscurità, non cedere al non poter vedere. e non è questo un rivelarsi al vero o al vuoto, non già toccare il fondo o spacciarsi per gioioso o per amante o disperato o lucido, no, ma prender fuoco solamente, a partire dalle palpebre e allargarsi e tendersi scendendo sempre più veloce sino a diventare guizzo e turbine nei punti che lambiscono l’esterno, sapere che non si vedrà mai di sé questo lampo, non percepito e mai visto per converso allora il nero, nulla chiede, non c’è niente, e da dietro le palpebre, da fusi alle pupille, divenuti per un attimo quel guizzo, navigare sino ai lembi estremi del sistema nervoso centrale a vacillare sul bordo della pelle ed immediatamente su di nuovo, risalire incespicando dalla periferia della mente contro il flusso del sangue e delle sensazioni, tornare e ritrovarsi dopo ancora a quello stesso passo esitante nella stanza affondata nell’oscuro. cosa è stato? dunque non vi sia posto qui per questo frammentario immaginare un rivo d’acqua o di sudore, sentito scorrere sul dorso, modulato dalle pieghe della spina vertebrale, generante un suo pensiero sulle sensazioni, in sé sgradevoli, ma che possono portare la consolazione, amara e parziale, insapore e proprio poco sostanziale, il tempo che comunque scorre, di questo e grazie a questo scorrimento, in questo corpo che lo prende e lo sopporta in pieno. no, ma sia, che piaccia o no, sia questo nascere nel nero, dentro la felicità. e subito dopo, corpi semplici. ci ha già provato innumerevoli volte, si è sgolato, ha pianto, ha annerito risme di carta – perché sono queste le sue forme, le sue volte mentali a sesto acuto in geografia –, ma ancora adesso non rinuncia, tenta ancora di raccontare questo sogno che ha fatto tempo fa, un rapporto
diretto con la storia del gatto. in realtà dunque quel felino minuscolo si è trovato coinvolto in un complotto internazionale, il rapimento di un personaggio importante, anzi, ancora meglio, la figlia di uno scienziato, così è perfetto nel suo immaginario. le autorità hanno messo al gatto un collare fosforescente per seguirlo nel buio. amico da sempre della ragazza, compagno di giochi e miagolii colmi di ogni delizia, l’intelligente bestiola l’ha rintracciata all’olfatto nel labirinto della metropoli. l’indagine si conclude con un pieno successo. o altri libri di questo tipo, che divorava con ansia ed affetto all’epoca degli eventi. e dunque gatti come corpi semplici, le due parole che ha sognato, corpi anch’esse, vividamente incise su un fondo scuro in modo da risaltare abbaglianti, fanno definizione del felino minuscolo e mortale che cerca la ragazza attraverso l’urlare dei gas di scarico e il gemere sommesso delle macchine umane. questo nostro stare inchiodati come mici su un albero, in questa metropoli, è pertanto un lampeggiare di profili su un fondo bianco, rinascere aspirati da un tubo di scarico, una sostanza che bacia la coscienza, non dire parolacce, trattenersi, sentirne colare l’abbraccio umido e vischioso, di questa coscienza come di ogni altra, sotto la maglia di cotone che avvolge cosce e polpacci, percorrerti ridacchiando la pelle. e poi un altro sogno di felicità bruscamente interrotta, oppure dal finale interlocutorio. un uomo anziano, ovvia proiezione del sognante in un qualunque decennio futuro, che cammina per raggiungere la sommità di una duna fra un numero incalcolabile di altre, un paesaggio dolcemente scosceso. su questa, possiamo immaginare, intende assistere al sorgere del sole, spettacolo che, come sa chi ci è stato, ha nel deserto un peso nuovo. in quel momento, proprio nel preciso momento in cui ha finito di arrancare a fatica sul pendio e sta per accovacciarsi tranquillo sulla sabbia ancora fredda dall’aver subito la notte qui al suo estinguersi, viene punto da uno scorpione e muore prima di vedere il disco celeste spezzare la linea dell’orizzonte per trasformare in nuovo giorno la danza ondulata, abituale, dei richiami a un altro grido più contratto che un istante prima vi tessevano le rondini (chi avrebbe mai detto che è pieno di rondini il deserto, ed è così eppure). la fine dell’uomo non fa parte del sogno, che si interrompe appena prima giacché a quanto pare non è mai possibile sognare la propria morte, è invece una proiezione pseudologica nata dal rimuginare oracolante tipico del risveglio dopo una notte tormentata. lei invece, la ragazza adesso donna di stanotte, come tutti quelli che ha sognato, non è come quelli che sognava, è ancora un altro e un altro ancora e viscido mai sempre non tornare, che lemure di qualcosa di simile ad un incontro principe, un evento, agli occhi suoi ha in sé tutti gli squarci e le prospettive possibili di un’evoluzione non inevitabile dell’esistenza. poteva non essere quella che è. potrà non divenire quella che già fu. ovvero il cammino che si sarebbe potuto imboccare, tra i rovi con passo esitante, per uscire da una rumorosa assenza, individuare percorsi per entrare nella serra fatiscente e uscirne con il gatto fra le braccia senza tremare e senza ferirsi o perdersi. tracciare un cammino non mistico, non intellettuale o razionale, sola logica vitale, pensare, sopravvivere, sé stessi, non questo sto per diventare. ovvero il saper vedere appena al di là, da qualche parte, su un orizzonte poco o nulla definito, ma certo, ecco che cosa cercavo, ecco cosa avrei sempre voluto fare, ecco che sto facendo ciò che sento. lui la chiama, cercando di riderci sopra, quell’ineffabile, rara e preziosa sensazione dell’essere d’accordo con ciò che si fa o si dice, si pensa o sente. ma deve stare invece attento a non tagliarsi, non un semplice soffio delle spine sulla gamba indifesa nell’inventato sentiero inquinato da mali
universali ed onniscienti, da serpenti, che suonano per lui di richiami stridenti nella mente e si colorano nel nome della voce di chi lo mise al mondo, per pomeriggi interminabili e calure prive di discorso o evoluzione lineare, ma veramente il vetro rotto che lo accecherà nel sole e farà brillare, in seguito, la terra di un autunno più rosso e denso in ogni zolla del più cattivo succo è cosa da dimenticare. sta cercando per vie impervie di calcolare le potenzialità esplosive d’un fulmineo ritorno alla radice, uno scavare alla base del male, valutando che questo potrebbe portare a un chiarimento, se non addirittura a una riparazione, una scomparsa, un essere cancellata dalla terra e dalla memoria di una qualunque catena di eventi. perché in quel sogno appariva tutto così semplice, così ovvio, così lontano dal tormentoso e costante punzecchiare del reale, come se in un solo soffio appannato di respiro fosse rinato, gloriante e luminosa questa vita, un trascorrere i propri giorni al mondo grazie al modo di una linea unica, non retta ma continua, sottile ma non fragile, incostante nel costante mutare ma forte invece, molto forte nel mostrare ridendo la propria direzione attraverso l’abbaglio quotidiano, e allora questo e altro si domanda tormentandosi le mani tormentate, facendosi pesare la sua assenza mentale di ali robuste a sufficienza per affrontare un tale immaginario volo immaginato in cui si sa schiacciato da un teorema, sa da sempre e per sempre la vita un fascio di parallele, ma ecco all’improvviso due rette che lo intersecano. i segmenti di esistenza che ne risultano comunque proporzionali, compi un gesto e non sfuggi alla conseguenza, all’eco, all’amplificarsi e ripercuotersi che ti crolla addosso con l’immensità di una colpa universale non tua ma proprietà di ognuno e al tempo stesso solo tua per ciò che hai commesso non sapendolo, per ciò che hai ben fatto volendolo, per ciò che non hai mai neppure pensato, ma che sicuramente ci pensavi in fondo, e hai solo da sperare allora e speri in effetti che le rette siano composte di infiniti punti per sperare quindi di dissolverti infine nel continuo e nel ruotare armonico di un qualunque infinito e cessare di esistere come entità separata e condannata a sperare e, a tuo modo, come credi, se anche ti fa piacere crederlo o anche se cerchi di non pensarci, tuttavia non ci riesci e resti sofferente di un dolore che le parole non trattengono con sé, non in quanto troppo grande ma perché privo di nome, di che non chiedere nient’altro e poi cosa sperare più. a questo sostiene di essere giunto. vuole continuare e quindi continuerà, dice parafrasando in modo più inconsapevole di quanto non creda, nel momento in cui afferra un’asticella di legno leggerissima con la quale ha manifestato l’intenzione di tracciare e traccia effettivamente segni criptati sulla sabbia, destinati ad eccitare la fantasia dei bambini che potrebbero passare giocando su questa spiaggia. potrà sembrare strano ma lui sembra abbastanza convinto che ce ne siano, sostiene di averne già visti che giocavano a rincorrersi, a una ragionevole distanza da lui, apparendo e scomparendo dietro i ligustri sparpagliati a siepe e strangolati da rizocarpi e licnidi, da geografici e canini che, si dice, possono volendo strangolare un uomo e anche, poco più vicino al pulsare del mare, dietro i ciuffi di lavanda che costellano l’area da lui prescelta in quanto campo e in quanto immaginazione, solo come una minuscola immaginazione, scomparire e riapparire pochi istanti dopo nuovamente al di là di quella stessa siepe di ligustri che contempla per ore, mossi dolcemente dal vento, lui e lei, a velocità diverse ma degne nel tremante cercarsi, degne di due amanti. ora che non sente né calma né sete, così afferma con il ritmare solito le frasi che gli emerge dal rumore sordo
rimandatogli da ogni passo o dal battere il circolo del fiato che mille e mille volte al giorno gli concedono i polmoni, ora che né sonno né furia, adesso può pensare a giocare a qualche indovinello con l’innocenza dei suoi piccoli. i bambini. quelli che ha visto e quelli che non ha visto, quelli che ha rifiutato con un moto di fastidio e quelli che ha accettato sorridendo un po’ smarrito, ma che però, torna sulle sue frasi come ripensandoci, come per aggrottare corrucciato la fronte, ma che però ha respinto forse anche loro, soprattutto loro, in un suo limbo di gratuita violenza, quelli con cui non sa di che cosa discorrere e quelli che lascia invece andare sull’onda dei loro magri ricordi e di aspettative sbilenche come quarti di luna, che ascolta creare spettri di futuro senza, a giudicare dal suo sguardo, capire una sola parola o l’unica parola che continuano, dicono, continuano a dire di continuo, potrebbero anche parlare nella sua lingua o in una delle sue lingue, potrebbero anche esprimersi a gesti o inscenare una danza rituale, lasciare nell’incertezza od ordinare in codici, ma perché non potrebbero fuggire terrorizzati alla vista di un serpente enorme e senza dubbio immaginario, ma forse si spaventerebbero ridendo dei colori di guerra con cui hanno adornato il suo viso sgocciolante fango. quello che è, lui sì, del tutto inventato, nei tratti angolosi e bruschi, nelle labbra viola dopo un bagno troppo lungo, con il sole già quasi scomparso. deliziarsi loro della sua furia incongrua. naturalmente non sa dire che cosa cambierebbe in tutto questo, da che punto di vista, in cosa qualcosa sarebbe più facile. non cambierebbe nulla, no, ripete fra sé scuotendo per ore e ore ritmicamente la testa, spezzandosi le unghie già ròse contro la parete. in cosa stia lo svilupparsi di un momentaneo tocco fra due correnti opposte che rimontano, qui sta secondo lui il paradosso, il discendere calmo per miliardi di volte il medesimo fiume sino a colmare eternamente il ribollire di un’acqua totalmente immaginaria. ogni cosa accadrebbe proprio lì, nel punto in cui il liquore degno di tutte le fantasmagorie di lampi originerebbe incubi travestiti da sogni, case o serre votate alla rovina, animali mai esistiti o già scomparsi. oppure solamente cenere. ma quest’acqua in cui già si tuffano piangendo alcuni. ma voler dimenticare anche solo di averli mai visti. potrebbe così ricostruire l’intera scena, facendo in modo che tutta la banda delle sue presenze riesca a ritrarsi, in preda all’orrore, alcuni già cianotici o bluastri in volto, e addormentarsi o spegnersi contorti in pose divertenti, ancora in preda al proprio inutile lavorio di maschere sostenute da un’idea. lo chiama lo scorrere del tempo, spera in lui, l’avvicinarsi, il restare a un passo a malapena. non una parola di ciò che dice è credibile, non una sillaba nella sua mente è là dove dovrebbe essere. ma si capiva che lo capiva, ed era chiaro che lo voleva, ma di lontano, da là dove già non era più lui perché annichilito dal fulgore, ma tramontava, come sempre, è quasi freddo all’improvviso, è violacea la pietra, e la sua ombra ingigantendosi al tempo stesso scompariva, sembrava massaggiarsi distrattamente un’anca come per attrarre l’attenzione di una folla muta ed assente, per dire che ci sono anch’io qui, e pure quanto è duro non esserci benché si stia sentendo che si esiste o così almeno credo, e poi dice ma certo che è così, come potrei provare altrimenti questa lacerante, di mancare di un qualunque oggetto essenziale, fondamentale, non ricordo come si chiamava quando c’era, ma ogni volta così dolce ed improvvisa, sensazione, e in questo esplode in lui il ricordo o mostra allora di svanire, di essere bambino ed impietrirsi in un ghigno scavato e piegato quasi in due nell’urlo che sulla spiaggia vetrificata dalla folgore non ribatte, non trema, non evoca altri accenti o desta echi, né
in lui balena altra realtà in cui bambino, disegnando e giocando, tremulo, mai nato, scaglia ora il balbettio che è proprio suo nel freddo che lo attornia, a mo’ di melodia, per scacciare con la paura l’assedio, per dire andate via, con i fantasmi che lo stringono in amore e voglia di non sollevare mai più i polmoni a chiedere spasmodici respiro, a qualunque scoria e memoria, che pure sogna e prova desiderio, tanto che adesso è solamente cenere il suo fiato e, per preparare la venuta del suo sogno e la discesa sulla terra di quel mostro sogghignante che chiama balbettando e dice che è il suo amante meraviglioso c’è unicamente questo a mo’ di litania, e lecca allora comunque la sabbia per vedere ciò che è vero delle grafie dipinte, del poco che ricorda, sperando di scannare il disegno scomposto, piegato a cicatrice, che lo opprime nel profondo, vomita la sabbia appena ingurgitata, fa sorridere, scintillano all’aprirsi, le due palpebre sfiorate contro un bordo affilato di conchiglia, oppure siano, stavolta appena più distanti, prati in numero immenso, costellati di chiazze alberate dietro le quali può celarsi ogni ignota minaccia, ogni odiare l’umano che l’universo sa ospitare nel ventre generoso, ma forse non ha colpa se reitera così anche lui per sempre o molto a lungo a mo’ di litania così, che per il fatto di concepire disordinata una tale fedeltà al mondo, lui dice allora che sta comunque uscendo, benché le condizioni atmosferiche non siano per nulla favorevoli, di tutto questo cosa si può dire, tanto che dopo qualche giorno di schiarita il tempo sembra stia volgendo nuovamente al peggio, e tornerà ancora e ancora a camminare su quella spiaggia solida e lucente di una sabbia grigia e verso i bordi dolce e ambrata, che anche sia l’unica cosa che fa regolarmente, sia tracciata allora dalla linea del nadir come un’esplosione di fuochi artificiali la curvatura della terra e il sole, il drago enorme, che sia compassionevole e che volga su di lui la lingua di fiamma schiantata verticale sulle onde, rutilante di sconcertata indifferenza alla sorte od all’età futura, un odio di calmare la volontà di morte, e sia con lui per l’attimo brevissimo di ogni quando si fa la rivoluzione, di sempre quando l’attirarsi l’uno all’altro dei pianeti copre di una tenebra percorsa da schiocchi e sussurrii taglienti, sottili e quasi inesistenti un emisfero, un qualunque punto, un margine, una cresta della vita che incide ignaro ognuno per portare, alla prossima stagione, nuova pioggia a questa pioggia, cenere alla grandine, lampi che infanghino il buio, maschere rutilanti in un immenso circolo di ghiaccio, ed è già stato detto che la chiama la venuta dell’amante meraviglioso, la invoca ogni mattina, mostra che veramente lui ci crede. con voce spezzata soggiunge che non si tratta della morte, no, ma che sarà soltanto un semplice, un autentico amante, vero corpo conoscente per via della sua propria carità mortale.
da Distruzione, eco (2000-2002)
[da: Distruzione, eco – 1] Ho, ben sai, crudeltà bastante, pure mai ti immaginai campo di ghiaccio chine le foglie al soffio, tu stormire rauco nel bosco di cannule e timer, i contatori abbarbicati ai solchi tubolari nei due bracci, grida verdi, disegnate, delle arterie ferite a simulare ogni singulto, gli sbalzi vascolari: tic tic tic. Cos’hai imparato a imprimere il tuo stare immobile su una distesa immobile brina, irta? Fuori, you prick, e di corsa.
***
Viola ogni cosa traslucida a sera alla soglia dell’alba data fine all’insonnia non è più di un confuso barbaglio, un lampo di niente, non un giorno vissuto, non un libro di versi – meno anche dei baci che ho inferto. Per questo ne dico che penso due forme di rosa: una conchiusa – che è io – tagliata da un taglio esso stesso il piacere – esso stesso la rosa – e una totale, coincisa nel mondo, pensata natura, rosa futura.
***
[da: Caròla d’acqua] ... oltremire ... tra le foglie, un’onda breve contro lo scarico. ...
due testuggini di cui una minuscola. ... dovrebbe chiamarsi piviere, volato appena visto. un gatto e un corvo. ... tre corvi, fanno il bagno frullando tra le foglie fradicie. più lontano chissà quanti passeri. ... ci sono delle zucche di cemento armato, servono a nascondere i depuratori. tagliate a metà che controsole galleggiano.
***
... un guizzo, ma ero voltato. so che ci sono, le vedi a filo d’acqua sempre. ... in una vecchia fotografia era tutto ghiacciato la neve chinava gli alberi ai bordi. ... quando in inverno sono fini le nuvole e il sole sembra un disco di carta il cielo tramutato in un foglio d’argento tintinna sull’acqua credi il gelo di nuovo. ... due guizzi vicini, uditi di spalle. ... un piccolo airone? ... coperto di fiori, per un po’ non lo puliscono.
***
... perché mi chiami giorgio, non lo sai che il nonno giorgio è morto? ... una bellissima, cabrata, vera caròla, tuffo d’argento nel vento e poi un’altra subito dopo, nell’identico punto, più calibrata, in equilibrio a guardarmi. ma prima si era dall’alto un colibrì – doveva essere, sì, un uccello-mosca – sopra smeraldo e rosso chiaro sul petto, sottile quasi, tuffato a chiederle.
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[da: Distruzione, eco – 2]
Dobbiamo distruggere o creare? tu che pensi? Questo stesso ponticello di sabbia, cumulo di qualche giorno e un po’ di vento, che abbiamo guardato, è creatura umana adesso, è caso della mia intenzione o d’un ancor più grande caso? Già se appunti lo sguardo su una foglia si tramuta in foglia; premi contro il muschio il viso e non accade nulla. Fissata allora questa sabbia la chiamavamo sabbia mentre senza dirne il nome il formicaleone vi ha fatto ciò che doveva fare, che tuttora fa e che smetterà di fare un giorno. Perciò come io vedo l’ineternità nei suoi frantumi così l’antica roccia mi risugge, e mi odia. Distruggere, creare… l’odio non è stato per l’uomo, sono io.
***
La sapienza trasmessa dagli antichi si sbriciola in miseria se respiro, la fa vana la stasi ad ogni battito avverata e prevista. Come dimenticare che le ombre, le inquietudini non celano che calma di rigore, un silenzio già immenso?
La sapienza trasmessa dagli antichi, pertanto, non deve essere pensata che come fuga verso avanti di una torma di animali sospinti dall’incendio: evento non innaturale, non formale, che accade molte volte in una vita e milioni in ciascuna memoria ed immaginazione – evento vitale e mortale, comprensibile e fondamentale che fa dell’esistenza un’estinzione non solo all’apparire in fieri.
***
[da: Distruzione, eco – 3]
È quel bisogno che ho di esistere per stato indipendente dalla causa e per un moto proprio dei miei giorni che mi fa di mille uno, ad ogni onda più breve lanciato da milioni, ad ogni uno mille, a quanti mille uguale, a quanto sale. Un filo.
***
Di tutte quelle specie che esistenti immaginavano tracciati mille filamenti di milioni di tinte che portavano da un luogo a un altro, da un paradiso a un continente, un monte, da milioni di generazioni ad atti di generazione, a più simbiosi, a transizioni, ad oscillante un vetro di parete che cangiante da distesa a distesa rumoreggiano insettivora melagranata luce che li dice, nel brusio con cui annunciano il di loro panico così lo scroscio di quell’acqua e il suo finire che presto non più coincideranno come questo non essere membro, io non sono.
da Olocausto, di Charles Reznikoff (2006)
Dedico questa traduzione ai detenuti di GuantĂĄnamo, Abu Ghraib, e chissĂ quanti altri. Parigi, 7 marzo 2006. a. r.
[ IV. Ghetti ]
1 All’inizio c’erano due ghetti a Varsavia: uno piccolo e uno grande, e tra di essi un ponte. I polacchi dovevano passare sotto il ponte e gli ebrei sopra; e accanto c’erano guardie tedesche a sorvegliare che gli ebrei non si mischiassero con i polacchi. A causa delle guardie tedesche, a qualunque ebreo non si togliesse il cappello in segno di rispetto quando attraversava il ponte si sparava – e a molti si sparò – e a alcuni senza motivo.
2 Un vecchio trasportava pezzi di legna da ardere da una casa che era stata abbattuta – non era stato emanato alcun ordine che lo vietasse – e faceva freddo. Un comandante delle SS lo vide e gli chiese dove aveva preso la legna, e il vecchio rispose che l’aveva presa da una casa che era stata abbattuta. Ma il comandante estrasse la pistola, la puntò alla gola del vecchio e gli sparò.
3 Un mattino dei soldati tedeschi e i loro ufficiali irruppero nelle case del quartiere dove erano stati ammassati gli ebrei, gridando che tutti gli uomini dovevano uscire; e i tedeschi presero tutto dai cassetti e dalle credenze. Tra gli uomini c’era un vecchio con l’abito – e con il copricapo – della pia setta ebraica chiamata Hasidim. I tedeschi gli misero in mano una gallina
e gli dissero di ballare e cantare; poi dovette fingere di stare strangolando un soldato tedesco e di questo fu scattata una fotografia.
4* Gli ebrei nel ghetto erano divorati dalla fame o terribilmente magri; da sei a otto in una stanza e senza riscaldamento. Delle famiglie morivano nel corso della notte e quando i vicini entravano la mattina – a volte giorni dopo – li vedevano assiderati o morti di fame. Bambini piccoli per strada piagnucolavano dal freddo e dalla fame e venivano trovati al mattino assiderati. I corpi giacevano ovunque nelle strade vuote, smangiucchiati dai topi; e i corvi erano scesi a frotte per beccare i loro corpi.
* Quando il ghetto di Varsavia fu sigillato da mura, la maggior parte degli ebrei che vi rimasero non aveva alcun modo di guadagnarsi da vivere e si videro famiglie – padre, madre e bambini – seduti per strada. I bambini scavavano nei bidoni della spazzatura per trovare bucce di patata o qualunque altra cosa da masticare.
5 Una voce si sparse nel ghetto: gli ebrei sarebbero stati portati in un altro posto con più cibo, cibo migliore, migliori alloggi – e lavoro. E difatti, a questo seguirono manifesti e ordini per cui quelli in certe parti del ghetto dovevano portare i loro bagagli, tutto l’oro e i gioielli che possedevano, e cibo per tre giorni – ma ciò che portavano non doveva eccedere un determinato peso – e dovevano recarsi in una certa piazza.
Chi disobbediva sarebbe stato fucilato. E le famiglie nei distretti indicati vennero con i bambini e i bagagli. Ma alcuni uomini saltarono dai treni che li portavano via e tornarono indietro a avvertire gli ebrei ancora nel ghetto – o portati lì da altre parti – che i treni non andavano in un luogo in cui vivere ma in cui morire. E quando manifesti dello stesso tipo ricomparvero – per altri distretti – la gente cominciò a nascondersi. Ma molti andarono nella piazza indicata; perché davvero credevano che sarebbero stati risistemati: di sicuro i tedeschi non avrebbero ucciso gente sana e atta al lavoro.
6 Un pomeriggio alle tre circa cinquanta ebrei erano in un bunker. Qualcuno spinse all’interno il sacco che copriva l’entrata e udirono una voce: “Venire fuori! Altrimenti buttiamo una granata.” Le SS e la polizia tedesca muniti di fruste erano pronti e cominciarono a picchiare quelli che erano nel bunker. Quelli che ne avevano la forza si allinearono come ordinato e furono portati in una piazza e messi su un’unica fila per essere fucilati. All’ultimo momento, un altro gruppo di SS arrivò e chiesero cosa stava succedendo. Uno di quelli che erano pronti a sparare rispose: avevano tirato gli ebrei fuori dal bunker e stavano per fucilarli come ordinato. Allora il comandante del secondo gruppo disse: “Questi sono ebrei grassi. Tutti buoni per farne sapone.” E così portarono gli ebrei a un treno merci che non era ancora partito per un campo della morte – un treno merci russo senza scalini – e dovettero issarsi l’un l’altro nei vagoni.
7 Fra quelli che si erano nascosti c’erano quattro donne e una bambina di circa sette anni nascoste in una buca – una fossa coperta di foglie; e due SS andarono alla buca e ordinarono loro di uscire. “Perché vi siete nascoste?” chiesero e cominciarono a colpire le donne con delle fruste. Le donne imploravano salva la vita: erano giovani, erano pronte a lavorare. Fu ordinato loro di alzarsi e correre e le SS estrassero le rivoltelle e spararono a tutte e cinque; e poi continuarono a spingere i corpi con i piedi per vedere se erano ancora vive e per assicurarsi che erano morte gli spararono di nuovo.
8 Una delle SS prese una donna con un bambino fra le braccia. Lei cominciò a implorare pietà: se sparavano a lei che lasciassero vivere il bambino. Era vicina a uno steccato tra il ghetto e dove vivevano i polacchi e oltre lo steccato c’erano dei polacchi pronti a prendere il bambino e stava per passarglielo quando era stata presa. L’SS le tolse il bambino dalle braccia e le sparò due volte, e poi tenne il bambino in mano. La madre, sanguinante ma ancora viva, strisciò fino ai suoi piedi. L’SS rise e squarciò il bambino come si lacererebbe uno straccio. Proprio in quel momento passò un cane randagio e l’SS si inginocchiò per carezzarlo e prese un po’ di zucchero da una tasca e lo diede al cane.
da Le api migratori (2003-2006)
[da: I. Api-muta. Inverno, autunno] Immagina che succedeva prima un’esplosione, liberava api modificati il codice genetico piangeva il tecnico, agonia. Mia. Nel laboratorio. Oggi è giorno alla luce del sole, ne piove dai rami come pioverebbe a vento, se piovesse pioggia, la pioggia – è luce del sole che sgoccia dai rami, goccia dopo goccia (come cade, com’è rada) – come dice: “il tempo si è spezzato, si frantuma. Nessuna voce si ripete e molta perdita mantiene.” Se in questo luogo si producono, allevandole, le api più violenti - precipitare nella morte - morte data - della specie -, ugualmente è questa frase, questa voce, che risuona nella mente di colui che le architetta, come gene, come siero. Se questo si ripete nella mente, creandole (“frantuma, si frantuma”), “questo deserto è dove stare, è qui il cammino, non si stenda altrove, non vi sia frattura – il tempo si è fermato, spegnerà la terra – si stanno spegnendo, ne finirà un altro innumerevole, un pianeta.” risalendo il corridoio bianco, il tempo asettico dell’attraversare – solo – il laboratorio,] “morte mia, ne finiranno una ad una le api che da me create straziano in ogni modo il mondo, in ogni terra tutto ciò che può venire ucciso – ne finiranno ma non prima che il riadattamento, il capovolgimento dell’umano in biologia porti con sé ogni cosa via” ma deve anche rispondersi – “non amarmi, mondo, non mi chiedere di ricominciare, con te, a vivere – non prendermi per mano, nel mio vuoto anaerobico, anaffettivo non c’è spazio
per altri che per questo stare – eppure, manca quanto, quanto manca il giorno tiepido, tua notte, tuo frusciare meraviglie, sussurrati inviti…” Drizza di scatto il capo, c’è un rumore dentro brusco infrangersi di lama, vetrata orizzontale acuta, più sottile di esplosione – diffusione – vibrazione fuga d’api da una crepa imprevista, cristallo rode generazioni, che frantuma – investe, avvolge, turbina massacro e strazio d’uomo “ma ne ho compiuto il male, che ricade – ne ho toccata nell’intimo natura, ho fatto il male.” si dibatte, tenta, mentre intanto cede “Eppure ho scritto anch’io, lettere d’amore. Anch’io voluto avrei. E non di bisogno di consolazione, non mi serve, non di forme d’amore, non ragione – ma abrasione e millimetrica ridecostruzione, che il corpo, il male sappia, e su d me ricada – non l’amore.” Tremare, muore.
Le api a malapena si attardano, neppure lo divorano, né spolpano. Escono e si spandono dal laboratorio. Inizia ancora. Ora. ***
Fuori dal laboratorio La terra esplodeva, ancora una volta. Sono milioni di millenni in piena, per completa frantumazione si riversano per terra – esplode, esplosa: “nella dolcezza, nell’amore, né la dolcezza né l’amore stanno – non sopporta più niente, la vita, non sopporta niente” “venite, attraversiamo” – traversando “volo d’animali, l’immenso il più disteso non ho mai visto un altro fiume” – con l’amore
come l’acqua, com’è acqua, colma di leggera, come fuga a malapena, a stento volo, che non vuole, che non prende il volo. Sprofondano dentro la terra, cascate di roccia che la roccia, voragine che dentro la voragine, da quella stretta che, dentro, alleva, morso dalla morsa della pietra: “trasvolando che sento, che cadrò”. La roccia si solleva, esplode il suolo, si fa lava, bolle, folle: è trasvolando che cadendo, sciame dopo sciame, tutto passa. Ed ora che passato passava tutto, intero, per intero, e su ciò che diventa, si avventa: l’orso piccolo strappato, che confuso, dalla madre, alla madre, ombra, l’orso da poco nato che spaventa ancora il mondo (che da adulti rende muti senza spaventare, è li e basta, è cosa che succede, uccide),] che zampetta e uggiola un po’ debole, un po’ mite – è via dalla madre ombra, d’ombra, “ti ho sognata ma eri già morta, ti ho sognata ma non eri niente, un agitare di follicoli, estinzioni, di parentesi” cosa, oh cosa di sangue e di niente, ad annerire ora, cosa significa restare in vita? che cosa strazia ora questa mano, mano che non tiene? questa gola? capivi che ne usciva suono, nel frastuono, non perché la vibrazione arriva, non vedi il battere e ribattere laringe, strepito – è il corpo intero che si chiude esplode, ricontrae, riesplode, nel riaccelerare che il respiro, per respirare, spira, che i polmoni, nel vibrare, emettono, riemettere con tutta la carne che li chiude mentre, ancora (e come morde, come tremito, che trema) e nuovamente, intanto, affollano il nascere i morenti, si affollano, al disnascere, morenti,
- l’orso piccolo, già morto, muore ancora, cosa nasce? l’ape pazza che attraversa, il corpo, cosa non nasce? sono soli, ora, il vuoto, accerchia l’erba, verso cui, già piega, verso dove la terra serba il pianto che le spetta, cosa nasce e non nasce? allontana, l’allontanarsi altrove, il numero di api-sciame, innumerevole – cosa né nasce né non nasce? “non posso, pure, non passare, vero?”
***
I cammini paralizzati Caduto via dal vento, sorvola una città. Ci siamo a sbattere. Si frange. Scontra intanto che si abitua il vento al nostro esserci. Coprirlo, non vederci, in questo andare. Abbiamo superato un primo passo, un primo fiume, continuando che passava il vento dice. Perché fame non restare, insinua di continuo, la città. “È come un sogno che facevo da bambino” ci diceva chi ci crea, chi già moriva: centro commerciale visto dall’alto, centro immenso, di scaffali a centinaia, centinaia metri alti, scale l’uno contro l’altro, passerelle, gente tridimensionale, merce ovunque, anche fuori anche dentro, in sincronia, per più colori, assorda musica. Sono superfici una per specie, sono piani di intricata e di dischiusa, di materia e piena, e nera, arriva in piena, sulla merce, sulla musica, l’orda intera che spandeva espansa,
onda espande e la clientela esplode, si aprono a ventaglio sulla rosa a raggi se: 1) prodotti per la casa 2) lavatrici 3) libri e quotidiani 4) marmellata 5) pescheria 6) ortaggi e sono piena fuga che si squarcia indietro, all’indietro, e che non serve, totalmente implosa. Che si chiude a ventaglio, fa cammini paralizzati, prima, nella rosa da una prima, aperta lacerata. Sempre meno, mentre cadono, uno irrigidito, uno contratto, oh spasimo, cosa chiedono, che gridano, o scemano, oh spasmo, questa clientela annerita, bruna del suo sangue che niente, tiene, non trattiene e goccia, e sgoccia. E cade. E senti intanto che svaria, come cade dolce alla dolcezza il suo brusìo, lo sciame che ne tenta ancora piano, aprire vene e farne rivoli, ruscelli, rami – cade corpo e scatolame. Ne facevamo così poco, di quel corpo, di corpi, che ancora meno ne restava, ancora male. È come chi moriva, chi ci crea: “Ancora un po’ di meno, ti prego, un poco meno male.”
***
Parlare della neve. Neve dagli occhi… Intanto. Altrove. Dentro. Accanto. Quali, saranno ultime? Avvertirò la fine? . . puntini . Che cosa, quale traccia? Conterà, restare?
Paura, sparire?
Dove sono, quale modo? mondo, quale? azzurra, come zucchero, di shampoo la mano candida di schiuma, la ricordavo a malapena ed invece eccola qua, che non sorride, non è nulla, è solo immagine di te che dopo il bagno, per rassicurarmi, mi avvolgevi nel lenzuolo e mi portavi a letto in cima alle scale. C’era luce che pioveva dal basso nella mia gola rovesciata e negli occhi che non ti credono.
Mi sento solo in ogni luogo sia, inginocchiato a un mondo che non vedo, addosso al vento – e come sfrana via, la vita, da sotto le dita… Somiglia alla notte e non lo è: la notte è piena, freme – qui invece luce e luna sprofondate entrambe,
Ovunque sia, qualunque fosse: quanto pesa, come manca. Perché non c’è, opprime.
I giorni si perdevano per via. I cammini paralizzati preparavano e veniva poi riempita api, di grida in volo, urla, si abbatteva frastagliate per concentrici. Sembrava per un po’ non accadere nulla. Accadeva, non, che il suono dopo scivolava.
Scompariva. In seguito, i cammini paralizzati esplodevano l’uno dentro l’altro come, tremiti. Palpiti. Se ne erano bruciate a centinaia di migliaia, contro la fiamma che accostava, nella città che brucia, se ne inclinavano paurosamente i muri
sino a coprire la strada, che abbracciata, se ne concentravano altre pietra dopo un’altra, dopo pietra, un’altra pietra dopo, e su queste per massa, per sciame, nella città che crollava e che trema, se ne premevano a strati. Che farfalle. Che assordanti, ténere, falle.
In seguito, per i cammini paralizzati sembrava non passasse ape, tanto il silenzio, tanto immobile. E in quel preciso istante che sembravano passate, che si estinguesse il buio per tornare indietro, che vedersi ancora fosse, oh possibile, oh chiamato, oh prossimo, oh toccarsi almeno un poco e spegnersi o, a pena, rivedersi,
In quel momento dato, punto, da un punto all’altro dei cammini paralizzati scoppiano,] le urla che riesplodono, sembrava, era è, impossibile, doglia esplode che trasogna, ancora una volta, urla fa tremare rimbomba la strada, sono passate, non ancora, via. Ancora morti, morenti, colano dagli occhi che sangue, che bianco, e urla che concludono in niente, singhiozzo che non chiude, un singulto che cede.
C’è tuttora movimento di granchio, ossessione disquieta che intride, che cola da lato a lato. È come una cosa che brucia, cammino paralizzato di fruscìo che trancia e che disquieta. Procede per falle – che farfalle.
Come il moto sfocia nella quiete, così la quiete crolla, cade nella falla in cui il cammino, passo, fremito, giunge a paralizzato, che si compie. Quanta fine, che farfalla.
Non sarà certo questo disquilibrio a trattenermi in vita – annuncia al contrario la mia fine puramente pura ed individuale: indistinzione verso indistinzione. . Non così lo sciame. . Che pure muore, e finirà, dopo di me – soltanto un po’ più piano:
Finirà per fame, per pena, per male, per noia, per niente. Finirà per niente, per noia, per male, per pena, per fame.
***
Merda dagli occhi, sangue dalle ascelle. Neve, è latte impoverito. Nessun sogno, ma distrofia onirica – incube ed ucronica. Neonato adagiato in una culla, succhia il seno. Non latte, ma vene impoverite. Timpano trafitto, sangue che prilla. Incide, stride. Bambino che sciame. Mano, chiama. Il neonato viene ucciso – ma prima fatto a pezzi, a vagiti, dalle api. “Nascono morti dalla nascita quei pochi che nonostante tutto nascono. Non guardare chi ti dice «non guardare». È quasi come pensa a «tutto ciò continuerà dopo di te»”.
***
Cammini disegnati di calcare. Api pensano, ci pensano. Sciame che divisi, due divide.
“Non sono più gentile, anche più solo? Se vedo quel neonato fatto a pezzi – come piena, come strazio – e guarda e dice «non guardare» la collettiva, mente che né guida né non guida, cosa farò di questo vuoto di materia, carta non graffita e non-memoria, non-niente, e tutta, questa, quanta pena?
So cosa devo dire. So che dico:
«La terra è scossa da vene invisibili di materia vuota e di solida aria. Massa che fibra per fibra. Le sento pulsare, che trema, terra mai così solida, mai così ferma come quando completamente vibra.»”
È sempre così – sciamava, sciame – che urla la vita. Animali per placche si distraggono, che rinunciano alle ali.
Esistono cammini disegnati di calcare, città sfiorate punto a punto: e non collegano. L’estraneo permane, microscopico: ogni uomo, che spreco, ogni astro.
C’era l’amore, ma era con l’amore. C’era l’amore, ma non era altrove.
Dove i giardini pendevano e l’acqua rallenta – dove sta disarticolata, strappo e ruga di roccia incisa, divisa – dove l’aria è cancrena guarda le api passare, guardare:
“Lo diremo gli uni agli altri: «ti vedo come gli animali, che nella preistoria erano agitati, continuare continuare eppure fascinati dal fuoco»”
Roccia, piaga delle ere. Niente più riguarda l’uomo. Api, fascìna, fuoco.
Saremo un solo incubo, uno strazio che strega insieme lo stare e l’andare. Riguarderà l’uomo, l’amore, l’apertura alare.
Adesso in questo punto, incontrano. Madre che chiedono. Ma come è dialogato, che divise? Madre, orma agli api Siete soli al mondo, lo sapete, siete nudi e vuoti, eppure ora uscite, menomati, meno amati. Uscite geneticamente modificati, api, non è colpa mia se siete. Uscite, è fato. Ăˆ sete.
***
dalle api La menomata, la meno nata madre delle api come cede come cade a terra . Come rade la meno amata, dagli api, delle api.
***
alle api Siete sole al mondo, vi ripeto. Leggete il male che sprigiona ogni mio poro come la pace che da me composta vi aspetta per fiorire. dagli api Sentito, voluto, sperato, creduto niente
, pensato, spento.
***
alle api Ăˆ soli al mondo chiedere, o chiedete, e a quello che vi dico, non credete. Ăˆ soli al mondo credere, e a chi non crede, a chi, chi chiedere.
***
dalle api Urla sempre la vita, e come, e contro, queste impronte, si forma un mondo, un monte si inabissa. In pieno cielo una nuvola, un velo, sovrasta, e cede. Chiediamo. Chiedete, credi. Cedi.
***
agli api A dove, a come, cede, la pace che scomposta, e semiaperta, che vi aspetta. E fiorirĂ .
***
dagli api Che freme, fera, e che pertugio, che si inclina, nera, che si incrina, sfera. Accostando, a sera, aspetta che finisca il sole finché notte, nel nero, esploderà.
***
Ma come si è causato, che divise? Cosa disse, ad api, madre? Cosa, che divide
Lasciate che il sole si sciolga, lasciate che le stelle e i loro cicli di fogna, lasciate che l’aria, che. Che luna. Lasciate che fango,
lì dove orma era arma e era aria
arnia
II. La favola delle api
Ma come è cominciato, che divisi? Adesso è come sera, che mattina, cosa dicono, che buio: Il farsi sciame delle api è frutto d’apprendimento, non è innato; è in seguito ad evoluzione che si è inciso nel loro patrimonio. Sfuggite a questo processo esistono tuttora, forse ignare, api solitarie, relitti delle ère, che non sciamano. “ Noi api siamo come gli animali che nella preistoria erano agitati, continuare continuare. Ne ho visti, voler attraversare il mare! Era quando non c’era niente sulla terra e l’ape non aveva visto il fiore. Noi api eravamo gli animali, ci posavamo intorno uno ad una quando lentamente scemavano i fuochi, non per sciami, una per uno, perché non esisteva sciame. La sera imitando gli animali dovevamo riposare e come dormire. Ma prima, dal crepuscolo e fino a notte piena guardavamo i fiori che di notte si chiudono, le lucciole che a notte, nel deserto, schiudono. Che cosa sciamano dal buio al buio, volta del cielo che è tracciata, per finissime scie, per impalpabili. All’alba siamo come gli animali: non è un risveglio, è scatto di paura per via del gelo della notte che l’oblio consuma e richiamato dal tepore della prima luce è gelo ricordato dal rifulgere che l’oblio frantuma. All’alba ci alzavamo in volo perché alla prima luce era importante tornare a muovere le ali, non lasciare che i corpuscoli di brina. Era inverno, tremava, è malapena che traspare, addosso al cielo, un disco bianco: la notte era la luce e il sole era la luna, luce morbida, costante e mattutina, notte piena.] All’alba gli animali il gelo il volo e dopo e successivamente, e dopo il volo
porta dove sono gli animali, per crolli e diafasie, per mia miseria, è una distesa immensa, è mille ali che sciamava, sciame. Ma non di api. E io non sciamo. Api era di movimento incessante, di quelli che si riproducono per onde, panico di fame. È dove niente basta. Ci sono ceneri che, ali che non vogliono, non volano, perché il mondo, tremano. È sempre così che urla la vita. Urla sempre, la vita. Così, è in questo nascere e rinascere, in questo chiedere continuamente aiuto che per masse, per sciame, ciascuno dice «dico che io morirò. Che sciami.» Ma io non sciamo. E intanto che come api, come fame, osservavamo fare massa gli altri animali e fare sciame, e quale sciame per nutrirsi, dove cibo, che lentamente cominciano a cedersi per particelle, esofagi; intenti a chiedersi, quando e come arriverà, che traversando a banda, come api, la pianura che non nutre niente, non noi soli, non di sbando, si riempiono di cibo, ma mai abbastanza per vincere il peso dei giorni, la noia, i secondi; intanto che le stringhe proteiniche si preparavano a scindersi in infinitesimo, che nel decadere e incidersi in pareti muscolari, che mucose, calde, esplose, miriadi di rose che decadono, cedono, e non noi; ora, orma, si frammentano sui lati, cadono, ruotano tra i fiori non specie, siamo due; non siamo, niente, fiore, forma. E non si forma niente in questo volo, non c’è orma, non è aria, siamo in due quest’aria smossa che dolcemente e piano dalle nostre ali cade accanto, ci separa dagli altri, dallo sciame
amara, questa aria, quanto amore che ti dico ora: «Sei il meglio che potesse capitarmi, e tu lo sai. Eppure è di materia dolorosa che stridono le nostre particelle. Ripetiamocelo giorno dopo giorno intanto che piangiamo ancora, intenti a chiederci se mai capiterà. Invece io di pomeriggio, e sera e favo, e sono già lontano da ciò che come vento, come vena, come viene; sognati in pieno inverno i fiori al primo tempestarsi e schiudersi, che smeraldi, che rami; è lì che ti ho vista aperta di striscio, di strazio. Vita che non tiene, che un amore contiene e passa in sogno intanto che, volati via, noi polline polvere ci dice: non conta niente il come, conta soltanto starti accanto.» Lei trema con lo stoma, tenta con le ali, poi risponde: «Io sono arnia, amore, sono arma. Arma e arnia. Arnia, arma.» Si guardano volatili, amori muti. Volati via. Vibratili. «Mio polline.» «Molecola.» ” Il tempo scorre per annunci indistinguibili che accada infine quella cosa, una qualunque cosa, vita dopo vita invano attesa da ognuno in propria vita. Mai sciolte, strette bene catene, crolli, disfasie: questo pianeta in cenere, annuncio impercettibile di chissà che.
da I cani dello Chott elJerid (2010)
Solidago. Alizarina. Granata. Felce. Mattone. Oltremare. Zinco. Titanio. Ametista. Zaffiro. Carminio. Porpora. Fiamma. Corallo. Glicine. Acquamarina. Amaranto. Giada. Bruciato. Celadon. Ruggine. Eliotropo. Mirto. Cremisi. Malva. Magenta. Rubino. Cinabro. Falun. Cadmio. Indaco. Ciano. Cenere. Nero. Forma. Spento. Mano. Fuso. Cera. Carta. Mania. Fumo. Roccia. Praseodimio. Arancia. Cadenza. Disossato. Intimo. Covo. Brivido. Calcare. Guscio. Conocchia. Staffile. Rebbio. Cava. Rame. Cielo. Stasi. Resto. Vento. Sonaglio. Buio. Staffa. Ruscello. Vena. Seta. Osso. Cranio. Inchiostro. Ossido. Squama. Costellazione. Ciglio. Catena. Sole. Scudo. Anello. Ferro. Specchio. Fessura. Ricciolo. Piuma. Sciabola. Lama. Risacca. Vetro. Cascata. Bosco. Mano. Crepaccio. Palmo. Brachiblasto. Conchiglia. Perla. Fruscio. Battito. Capra. Coperta. Schiuma. Cassa. Ala. Ditale. Crosta. Scarpa. Foglia. Aquila. Soma. Fuoco. Pipistrello. Cirro. Gabbia. Seme. Incendio. Nido. Ciuffo. Gravitazione. Lancia. Cavalletta. Vena. Raggio. Goccia. Morso. Rete. Foschia. Gelo. Stella. Piaga. Schiocco. Ripiano. Selce. Punta. Torrente. Parete. Cassa. Schianto. Cibo. Ramo. Freddo. Caduta. Scroscio. Radice. Tralcio. Ceppo. Palpebra. Dente. Tenda. Alba. Gasometro. Catrame. Ventre. Gorgo. Orizzonte. Fossa. Isola. Tronco. Saliva. Fango. Raggio. Mesosfera. Batuffolo. Numero. Ununtrio. Tropopausa. Unghia. Sorso. Sfiato. Ghiaccio. Muscolo. Crollo. Scafo. Lastra. Strada. Polso. Lampo. Ciano. Indaco. Cadmio. Falun. Cinabro. Rubino. Magenta. Malva. Cremisi. Mirto. Eliotropo. Ruggine. Celadon. Bruciato. Giada. Amaranto. Acquamarina. Glicine. Corallo. Fiamma. Porpora. Carminio. Zaffiro. Ametista. Titanio. Zinco. Oltremare. Mattone. Felce. Granata. Alizarina. Solidago.
Andrea Raos (1968) ha pubblicato Discendere il fiume calmo, in F. Buffoni (a cura di), Quinto quaderno italiano (Milano, Crocetti, 1996), Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Roma, Pieraldo, 2003), Luna velata (Marsiglia, cipM – Les Comptoirs de la Nouvelle B. S., 2003), Le api migratori (Salerno, Oèdipus – collana Liquid, 2007), Lettere nere (estratti), in AAVV, Prosa in prosa (Firenze, Le Lettere, 2009) e I cani dello Chott el-Jerid (Milano, Arcipelago, 2010). Ha curato l'antologia di poesia contemporanea italiana e giapponese Chijô no utagoe – Il coro temporaneo, prefazioni di Nanni Balestrini e Yoshimasu Gôzô, traduzioni di Tarô Okamoto e Andrea Raos (Tokyo, Shichôsha, 2001).