Marina Pizzi - Inediti

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Il Cantiere delle parvenze

INEDITI

Marina Pizzi



Titolo: Marina Pizzi - Inediti Testi di: Marina Pizzi Fonti: Il cantiere delle parvenze, 2010

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

Poesia2.0



MARINA PIZZI

IL CANTIERE DELLE PARVENZE



1. la mia sciarpa è un tragitto lontano uno scalmanato talamo di nebbia dove è agreste il cielo e logica la tana di perdere la vita. rotta anemia della città calva senza nidi di cuccioli cantanti né elemosine badanti il veritiero abbraccio. s’intani il mio straccio che non vede né attende nulla. la maestria dell’alba bada a non gridar di troppo le rondini bambine. le grotte scialbe come fandonie dove ristagna il secolo al petrolio espanso. la fatica senza saliva delle mie abitudini-arsure su per l’acredine di attese morenti nel trotto della pupilla impazzita. il lutto m’incolla la salsedine addosso questo proverbio che non serve a consolare la resina del sangue.


2. quale sarà il chiodo che mi sonnecchia dentro che vitalizza l’edera della malasorte che si diverte con un attizzatoio verso la zattera che mi malmena tetra malizia corvo miliziano? invano l’azione del tubero rinasce al cielo, qui la penombra perpetua della slitta chiama l’oasi ad appassire. quale paese d’asma andrà vicino al rantolo? perché qui le smanie delle serve vogliono morire di un attacco immune, colpo sordo non imposto randagismo.

3. falò di stoppie codici di cenere queste livree già prospere di nulla elemosine cortesi. così resiste l’alibi del bilico, la cornucopia placida


del gatto musicale. osteria museale il tuo sguardo non sotto teca ma veliero darsena. ho comandato l’astio di non venire approdo di se stesso, ma diluvio t’amo modo d’avvento-accento ludo per sempre. brevetto di comari la mattina quando s’impara a venire al mondo sopra faccende di dondoli senza doli. dove sei tu re minimo e prezzemolo, ambulacro e molo per remi divini. aiutami a campa’ con questi nodi duri fatti di gessi mortuari.

4. ipotesi di cervi mancarti sotto lo zero che mi campa capanna di brevetti andati a male. la spalla del silenzio è una bestemmia darsena, una spallata al sudario che non vuol morire la rendita


del datario. dove non sono vergine m’incanalo lungo gli stemmi che non danno affetto. io poveretta la militare stoffa che fonda ruggini e cipressi. litigio di remore la stasi di non concepire più. in vena ho un amore di distanze intatte meraviglie. ora m’acquatto e ti dimostro strenne queste braci di quaderni di civiltà dismesse.

5. attorno alla galassia del distacco piango la rotta di non saper la rotta né la perfetta eresia del vento. gerundio di comete l’inutile avvento quando la rupia è la miseria del certo lo sciacallo avventa lo sparviero. la minuzia della rondine commuove le ventole che aizzano il fuoco


per la felicità comunque. in breve sullo scempio del ristagno la malinconia del cerchio non è divina né pone eclisse una calma darsena.

6. libagione d’àncora non so lasciarti nel losco del tombino della storia.

7. agorà del sale palude della gola dove il ludo è logica del gelo e la festività dell’ombra abbraccia le penombre e le novene delle sabbie mobili con la paura sempre erettile e le stagioni sporche


nel credito del pane. fragilità del sacro strazio startene ridotta zona di farfalla insidia della falla. il matrimonio sragiona alla parete del fatuo nome, questa radura patrimonio d’scia.

8. immortalità sacrale l’astuccio della nebbia dove la lite è un fato di ristagno e si comincia a sgretolare il torto della faccenda d’ascia. criminalità dell’angolo custodire a rovescio la camicia sotto il gelo della storia darsena e la cometa corrotta in un sasso. dolce stile anemone di bello questa versione tattica del vivere


didattiche le curve dei mattini.

9. nubifragio del tatto starti a guardare sotto le unghie che scavano nei baci unguenti di salive per le resine del dare. scompiglio a mare aperto l’inguine questo pagliaccio che stempia il cuore e nuda le maree con uno slancio d’epoca. intruglio a fato avvinto il tuo ristagno stazione sul convulso pernottare arie palustri e darsene di lutti. gerundio del pane nero questo discapito nottambulo balordo acre di flutto dove annerisce l’apice del fato.


10. galateo di stracci rupe nel petto stare a sentire le prigionie d’angolo dove si sfama l’attrazione darsena se la salsedine stempia le persiane.

11. il gallo della foce è senza canto né giostre da sedurre. qui resta il muto occaso della notte senza delta d’abbraccio né cintole strette la vita. il commando dell’alamaro è la paura darsena la rotta di concludere con smorfia. agreste la conchiglia di lumaca seduce la scia, incrocia il singhiozzo al sorriso. là la ventola del baro aumenta l’onere senza onore.


ti bacio con le carezze degli esclusi le voglie amare dei reclusi le stimmate di guardia contro il portone. vedi tu di amarmi con le malizie di ciechi dove nessuno è vivo.

12. in te nel decesso avvenuto disincanto magnifico vederti guardarti smotivato nelle palpebre chiuse. morto così mortale da far paura questo tuo linciaggio senza pietre. è un peccato sapere quale flusso ti calcò nel letto del tuo Ulisse non più affascinante di un rovo. morto nel male di maggio trito di rose la tavolozza bigia dell’accattone al fondo della vita violata grazia. dividendo di lettere guardarti quando il gerundio non permette più


la giostra monumentale la mela minima.

13. qui nel male che acciacca le persiane rimanga un verbo al sì contro la caccia che le ali al terreno incolla e fa proseliti le meretrici polveri. qui si succhia un lingotto di dolore per le scale vuote dove le crepe spergiurano i diritti delle rondini in un chiodo d’occaso ho messo il vólto il viso vòlto al disbrigo di non piangere le rotte attente al timone timoroso. in te se guardai la luna piena era un amore tacito d’eclissi uno stilema senza abbreviazione. le mondine superbe delle gestanti stanno nel verbo d’acqua la vita la bella vita senza quarantena. le credenziali nere degli specchi


mettono a lutto le dimagrite stanze svezzate per spezzare ogni sorriso.

14. è un secolo che mi ostino a perdere il posto. e mi oscilla il cuore in un pilastro lapidato invano. qui la corda della foce non marcisce, il marmo aderisce alla lapide già morta. qui il mio contegno è labile maestro d’asme, una caduta e un lancio braccano sempre la nuca da abbattere. le eleganze del ballo non tacitano il titano del portone che vuole chiudere ciliegine e pilastri questo stretto sistema della stempiata arringa che non convince le regole da ammettere. è già gerundio il tempo che da sempre progetta le farfalle che non vengono né le oasi del brindisi beate. mo’ di calunnia l’apice del cielo a nulla vale una formazione accademica


per le lentiggini di satana tarato e forte. annullami la spalla che codifica l’altezza e le missioni di tattiche benigne dove la fortezza smuore e smorza il ponte levatoio.

15. foschie sul seminato quando l’incontro è un trovatello d’ascia. qui la cupola rende stupido il cielo. iettatura d’asma passare in ospedale per vederti passare. discorso d’appendice l’urlo di morire o solo il sospiro rorido del rantolo. qui s’impiglia l’eresia del fosco il nano triste tristissimo gigante. a quale malia porterò la mansione del secolo? qui sul cornicione della storia c’è l’emorragia di cadere. non basta l’erta per sfinire il fianco o la cometa fradicia. nessuno è indispensabile nel cheto del frutteto


questo zucchero apolide lasciato a marcire sotto la tetra forca dell’inutile.

16. qui si scarta il tempo in un breviario satanico il corrimano traballante luciferino l’appoggio della mano. si è diabolici per la paura di cadere di andare a battere contro la nebbia piena. è un tramortito nome che ci scorta dentro le fiaccole dello stillicidio ciclo assassinante. nella realtà del muschio che ci rasenta tutti sta la frottola del primo marinaio la gerarchia dell’apice in condotta. in un quaderno di rese e rette vane la giunonica malizia dell’orologio


quando giocare non simula la vita. qui si scarta il tempo in un breviario d’ascia. un canto sulla soglia del lamento.

17. languori di paese quando la canicola langue gli archivi di finestre e le guardinghe foci del nulla rimano le giostre con le culle nemiche di rovi che tramontano le genie del verbo. con i tetti spioventi il giramondo guarda in alto così rispetta il pio pavoncello in mezzo alla piazza vuota: si lascia guardare tra gli scuri che vegetano la polvere. il titano del sale è un orafo paziente dove la vera tana si fa bivacco di senza patria attivi. l’elemosina del fulcro chiama la creta ad allestire un capanno per uova fresche


e la bellezza del cuore è sindrome d’immancabile fola autrice del fausto distacco dal corpo dove l’indice muore.

18. un giorno qualunque in data di catastrofe mi ferì la questua sparsa sul sagrato la luna giovane senza la fidanza di competere con la nenia del cipresso. meringa di sale il velo della sposa quando la gara di guardare il vero genuflette le prassi delle ruggini. titano di giostrina stare al mondo con i bambini che tifano la rima di giorni immensi lussuosi d’arca. marette di coriandoli vederti il giorno chiuso d’alamari pessimi dove i bambini dolgono svegliarsi. le libertà conchiuse delle foglie arbitrano liquami di dolori


i morti offesi da un quasi pianto. così mi va di vestirmi in un nodo di malta per lapidare il sole combustione di luce la conchiglia.

19. crolla la cialda mare di sterpaglia si fa l’addome antro di responso verso quel cuore che scodella abissi resina contumace per le vedove. di poco talento il varco delle nuvole chiama quel dove che non fu cortese verso l’avamposto di coriandoli. avvento di edicola guardare il mondo nel guaio della colpa data senza altezza di accusa. in mano all’impotenza della cantina si decifri la lettera d’enigma, il millantato credito del coma lacerto.


20. dio mangiucchia le dimore d’alba dove le prove del baratro si trovano valenze dell’invano per i profughi. in una notte di baveri e fiocchi di neve la cometa fa piangere i vigliacchi le teste giovanili ancora per poco. in mano alla bellezza di vederti resto blasfemo nonostante l’eremo con la virtù ciondoloni del salice piangente. con la virtù sciocca dell’estate voglio i ladroni che spacciano conchiglie gente dappoco e rantoli di polvere.

21. in un cielo di scoscese balbuzienti venne la daga delle scosse eclissi la vena esangue della gioia vuota. in mano alle vedute delle stelle si comportò l’alunno un veritiero


enigma: venne la madre e gli fermò la nuca che lo alzava in volo. encomio ad angolo il massimo della gioia per questo coma che si incolla tutto verso la staffetta di farsi termine. tutto si allunga in un eremo di stelle dove le gioie frugano i dolori per la gara di fuggire il mondo. dove dappresso una storia vedova il gran sentiero di perdere le staffe con le ginestre che piangono di ruggini.

22. va via la vita senza ricordo se il dondolio dell’etimo non rassicura che ci sia rimedio. un intralcio di condotto dover sopportare il no. e la venia ancestrale non serve a salvare le povere bestiole. qui è dannato il salario e la vendetta


non serve. si piange il preludio e l’epilogo. chi resiste è un filino-darsena, una donna in stato interessante dove la nebbia frana-sfratta l’orizzonte. qui magari le gesta delle rondini fanno stupore per ingrandire un seme di meraviglia.

23. mi sarà d’occaso il mantice dell’ombra la bravura di saltare il fosso. così nel mare se ne andrà la pioggia per gentili approcci e conchiglie femmine. mattino mattino la guglia del santo quando s’inverna per apici pigrizie e zonzi senza pregi. l’ilarità del mare è una cometa panica. mentre morivo in una stanza uncinata a discapito del cigno che ci crede almeno all’amore. il lacerto dell’ombra issa se stesso verso la sequenza della rovina.


24. in data di eclissi in data di acrobata so far centro al modo della scuola quando s’impara veramente il sì. ho pettorali di arrivo come incidenti quando la barca si genuflette al mare e tutto sembra carico di sassi. per desiderio di pace piango la fune che stringe la gola con tattica di nebbia nella paura che sconforta il calice. si va così bacando l’obiettivo questo stradario che non serve a nulla ma osanna le porte che fanno indice sotto promesse succulente. la paura del fato è più che mai ardita verso i giochi delle lune piene ma il pube si sconnette dal mondo intero. la grondaia nubile di rondini duole la bile delle notti insonni verso gli scavi che si fanno a letto.


25. marette di elemosine cullarti dentro la febbre di guardarti per sentire il guado che ti voglio. rovo di rose l’imponente morte in casa del ciliegio generoso quando l’avaria bacia le crisalidi. nulla si placa nel gerundio d’ascia.

26. amor non ebbi che lasciti di nebbia salutari ammicchi con le rondini tate. e le ingerenze del panico sul sale resero regale il buio. qui in collina si sposta la vendetta di una qualunque stanza addetta alla finanza dell’aquilone che non vola. la falla del bivacco raccomanda dadi per le giovani ombre. si recita addosso a un palo penzoloni senza speranza la cinta


della censura. qua si sta a casa con l’aureola dentro un cassetto e il peccato mortale nel pugno della resistenza non condivisa.

27. irata pioggia bacca di nessuno sarabanda d’arresto voler vivere cadenza d’àncora la darsena vitale sul detenuto. l’abbecedario al centro della stanza lucra la guancia in un sorriso in un commesso di rara scienza. la luna sfatta a grappoli d’inedia colpisce le lentiggini del mago la libertà costretta della falla. la giacca appesa all’origine del chiodo sfalda la riva in un agguato forse senza cuore della cerchia.


28. tu non sei badato dalle fionde dell’aria né dal continente che ti ammalia tanto tanto da renderti atleta di nuoto per lo stretto da superar tranquillo nonostante il panico del dado tratto tra eresie e simboli divieti. qui la morte in ernie di collaudo (soqquadro al patrimonio che non c’è) ha la peggiore fiaccola del tempo il re disgiunto dal regno e la nomea del tragico paese con le ceneri in giogo d’edera. la maretta della darsena riposi per convalescenze di buon augurio.

29. la luna è una pozzanghera di nervi una bacchettona che si rifà il trucco sotto gli occhi atavici di vivi in attesa di morire. le lentiggini


del fato non ribellano la pelle intrisa di giovinezze ipotetiche. qui la corda salina del costrutto impiega il tedio di mattoni pagani per preparare tane senza amore. le penombre cortesi delle cameriere offrono letti intonsi asciugami canditi per un amore in forse. nasce la lebbra della villania del sole. scorciatoia d’occaso cadrà il mio petto stanco.

30. la notte del dispaccio fu la pertica di morte la stasi vuota di non imparare. cumulo tardivo questa gioia da decesso avvenuto finalmente in circolo la cenere. l’avaria del setaccio intasa l’università dell’equivoco dolente


dove la voce è simbolo fendente. impara da me che ho singolo il dirupo e rubo il timone per ingannare il boia da sotto la recita del nato vivo stagno. ogni giorno un bastone d’ulivo simula la storia dell’enigma per mantenere intatta la cisterna. non basta il cielo per credere in dio né la ragione per commettere la favola di ridanciane oasi o forti simulacri.

31. come faccio come faccio come faccio a scardinare l’ora a rendere ponte quest’annata di fuoco piatta alla cenere. l’ossario della fronte ha la vena del dolore l’aria triste di perdere la tastiera con la visuale stramba. in meno di un centesimo ti rido la figliolanza dell’acrobata badato dalla resistenza dell’equilibrio


al brio sciupato della rotta nuda senza bussola. la sola strofa che potrà servirmi sia la foggia giunonica del bacio la cialda della giovinezza in pantofole per vezzo. in realtà la carie non è avvenuta ancora e la bellezza è la porcellana del secolo, vizzo semmai lo stradario della stazione. è qui la bara della tana quando fu dolce cedere le zampe per agguantare il sonno con la cometa sul lucernario. mo’ è rasoterra restare per resistenza e tento.

32. nel lutto che fa cipresso la mia stanza chiamo la rotta rorida di sangue per un segugio buono da ingrassare per il palio d’origine. qui non basta la tresca d’alambicco per mostrare la falla. l’inguine atavico del dubbio ha circonferenze d’abaco numerico


senza fendere la rotta. qui s’incolla la nomea del peso verso lo stolto crollo. è già oggi che vado a morire da sotto il pendolo del dolo. la voce fatua della tua disfatta insegue fasti di delirio in indici manomessi. qui sconnesso il rito della sfinge simula chissà. varietà del sale la scalea del sogno…

33. la lira giovane del compianto acrobata è caduta saltandosi le corde. la collana dell’infanzia in onda con la sacralità del veto. giunonico potere delle ginestre nel dirupo cronico del maggio. rigagnolo di stoppie questo resistere calibrato dal rango della polvere. al limite del sacco la barriera


dà muscoli al pianto alla condanna di erigere scavi per possenti dighe. la cara madre del caso scimmiotta bambine cattive verso le tegole del baro onnipotente. minuscolo l’encomio della falla uccida il diavolo del verso, prigioniero libero.

34. non resta la palude che un gentile accenno ti rimanda a scuola la meraviglia di capire l’antefatto e lo stilema entrambi fratelli della rotta verso il coriandolo reciso. la musa dell’abaco ti dice di tornare al ventre della sapienza dove la madre è un tondo di sottana e l’alamaro reduce di guerra. in fondo alla cantina del tuo abito


abita la spocchia di sentirsi vivi soltanto dalla resina del sale. un silenzio di corda dà l’anfiteatro del piangere. si spreca amore per un cortile corto cieco di rondini. non resta che un saluto errabondo dove l’origine giochi a far di scarto finanche una cometa di volontà. assale amore l’erta del commiato nulla basta a fabula di stelle.

35. notiziario d’addio fremere le onde e le chimere in branco sono asfittiche bambine di colloqui vanitosi. la lettera marina delle comari non salpa Ulisse né il partigiano. male ti dico il fatuo delle stelle e le ciliegie amare della scorta da sotto l’elmo della micidiale


guerra. in mano alla stazza dell’acquitrino gironzolano le penne di non scrivere che algide vendette solamente.

36. cruccio e limone riparar le stelle quando qualcuno illuda di madonna la colossale ingiuria della frottola. moria da ieri perdere fortuna se genuflessa la ridanciana gioia sibili il sudario di rovina. marchiata a dito l’anemia del bosco di resine flesse per l’amore di conseguita requie. è dì domani di rendere la spugna verso un sudario di sola cenere. maretta di soqquadro imparentarsi troppo con le onde così venute a emular lo scempio. in pace o per rivalsa sia perpetuo l’ardore del diritto di non piangere.


37. l’alunno della sera al venerando inchiostro dell’odissea del dado. che cosa è accaduto nel nerveo bastone d’ulivo che rintocca nel vento la paginetta stanca. per maestro il guado d’occidente dove si muore per certo più della ronda a vuoto che non incrocia che ceneri. nel lutto di finestre fatue nulle di te sta la pena del vortice il compleanno caduco della bacca d’esilio. il lamento della cena quando compare l’orco del tedio. antagonista il gomito di piangere l’occiduo amplesso di non avere amante né l’almanacco in cuore di faccenda.


38. liquida da me questo dolore in gorgo questa mulattiera sfinita che indaga le ninfette delle doglie sotto il muro che esonda lacrime di polvere. verrà la mente del velame antico questa notte demente di agonia dove è fissato il verbo dell’eclisse la pattumiera antica della folla e l’augustale freccia di resistere impervietà di fato e di ginocchio. missione dell’agenda stare appuntando novità e comete per androne quando a scrivere è solo un solitario divieto senza fissa dimora.

39. iride e baraccopoli vederti dentro il cinema della gioventù quando era il massimo sgarro


per scoprire la vita per non drogarsi appunto e finire sul marciapiede. bello come una sfinge d’acqua il talismano di credere che sia silenzio la pergamena del dubbio. qui sola a sbrogliarmi strazio verso la pioggia che ne viene su più di un santuario quando ne è il tempo. tu credi che la tenebra sia lutto, ma quaggiù più del lunedì di fabbrica non ne conosco altre. sforma un alamaro che sfoggi la mia onta e per dirupo il sole. reca con me l’anemone di mare per una madre occidua. sta morendo. un’altra cicogna per le risa dei becchini.


40. addio di guado amaro la prospettiva stretta per la volpe che scava tunnel per l’altrove per la vedetta del pane che vuole la discola sporta per gli alunni in piena dove si scantona il vento si fa di perla il sale. addio sulla piena del sudario dove arranca la rivoluzione della nuvola presa laddove si rimpianga il vento trito padrone di una giacca fiacca.

41. indagine al sollievo vederti ancora anima buona in codice di nebbia. qui la balaustra che anima il confine riflette la strada di chi muore


nottetempo in cimasa con le rondini. il muro gentile della patria non rallenta la tattica del baratro anzi si smuove in panico d’eclisse. la nomea di reggere le tresche abilita al modo della ruggine sapere che si smuore solitaria lite. l’abilità del sale è stare stretto all’inguine del rantolo. giù di straforo ho visto un dio pargoletto di sé stesso.

42. mi si accorcia il teatro vado a rimorchio nello scempio dell’indice ora ad ora, altri serpigni casi di patema quando si annuncia che la noia vive vicina al pareggio con la cenere. in realtà la recita dell’angelo balbetta con i sassi l’impossibile la lira sporca di liquami d’ascia.


morir di noia come la testuggine come le bambine delle dune vuote tradotte dalle furie delle onde. lo schianto delle vergini è una marea rossastra, demenziale la gita con le vertigini. in giacca sfatta sono a vederti partire senza graffi fidanzati. mi piace morire con la lanterna in mano con il gruzzolo d’iride che mi travolge e mi scontenta al fianco. è avvenuto che domani mi sveno, mi tolgo i vestiti vado nuda tra i cipressi che innalzano i morti denunciando la nuca della carità svenuta.

43. in fondo al sale e all’incuria srotolo questa faccenda che mi dà per vinta anemia di un patto senza fronde. agostano il contatto con la lupa


che fa di me una donna sola con mansuetudine di abisso. parca animella senza risorse so il treno che si spaura al vento i sogni esuli di quaderni elementari. le brecce delle rendite patriarcali credono al panorama del futuro. qui s’incoda la venia delle notti fra pasquali randagi impauriti scampati al sacrificio. non ho potuto dire gol nell’indice del mortale. nell’atrio che frastuona le finestre amo l’arringa degli spifferi le gaie stanze di chi morì da piccolo. è tutto pesante, va via male.

44. la noia dell’indice questo elenco d’asma contatore lapidario


zonzo del conato dove la nuca si strozza e la candela traballa. scatto d’ira saperti nato sotto i conati della fronte. malessere d’essere saperti in falla nella lunga stazione delle elemosine con canguri dal marsupio cucito.

45. non acuire il giorno in un segreto fa’ di me l’esperto di una conca canterina e buona come l’infante ridente alla materna ugola. le travi delle giornate sono abbracciate in tanti blocchi negletti maestà del sale staffile d’unicorno un po’ così non essere felice sul dieci del salario di ventura.


46. le giacche del tuo affanno moriranno sarai cheto crocicchio di ventura senza paura tacita gioia sotto l’emisfero del ponte. in mano alla sferzata dei secondi sotto canuti secoli e fondali la cortesia del palio avrà per te vittoria. si calmeranno le acque del canneto per una scia di rendita l’abitudine di strofinare la roccia in cerca dello spiritello onnipotente verso la forza del nirvana in testa.

47. ho conosciuto l’esule e la vetta del corrimano all’ultimo piano dove s’incarna il rito della palla che scorre lungo il cornicione. la malattia del rango è una manata


che accerchia nel bavaglio la lusinga di un patto con la morte. in questo momento credo che la rondine riporti il pasto nel becco per i figli vuoti e le comete rendano balsamo la fronte dove nessuno più pianga per un appuntamento. le morie dei calchi sembrano cadaveri da sotto le palizzate delle coliche di fraticelli senza monasteri. così i pazzi si drizzano nel tempio dell’altare sgombro vacuo gomitolo di storia fatua.

48. quale adiacenza d’acqua forgiò l’amplesso nel verbo vuoto della sfinge nana se la penuria del bavero nel vento di nebbia oscurò gli angoli. nel giaciglio che prospera i seni c’è il cammino dell’oasi che stana


il travaglio del mare con la luce nel luccichio del sale la rivolta. quale condanna elemosinò i frutti nella genia del male che dileggia le trombettine ilari del caso ammesso. a me non torna il conto della scommessa tanto il divario della trama al teschio dove si arrende il flusso di marea. unità del cappio starti a badare da re fasullo che non sa smentire le rotte delle nuvole piÚ ginniche.

49. mi somigliano la minestra e l’insidia questo miraggio darsena che scema il senso della resistenza la malia del sale senza sete. in te che vivo di penuria e fiele resta la nomea del fango il grillo mattutino che poliglotta


inventa le battute per la tana. cosÏ in mare si respira l’onta di bestemmiare le onde di risacca.

50. edizioni di siepe poter dormire un poco sotto il prologo bello del tuo amore avvistato a vista di vedetta ladruncolo colpevole di mito sempiterno vociare tra le leggende di chissĂ che gusto per la donna piena. in fondo ho un aquilone che non sa volare nĂŠ fondere le stelle dentro una cometa ilaritĂ del cielo nudo doloroso rospo fraterno di brontolii senza senso.


51. Il volo

accorri all’eremo del salto fai volarti per bene oltre le manciate del riso beneaugurante le stizze dei bambini che non possono emularti con le stesse birbe. là si estende il sillabario del dado l’affresco bello e il musivo ordine dell’aria di traverso dove non temi le rondini che schivano a paradosso i cornicioni immobili. le premure dell’abaco non daranno aceto né balbuziente la rotta dell’asta ti porterà di sotto, ma oltre fionda per la schicchera del volo il tuo sempre.


52. è la meringa nera quando tu ti allontani fato sugli occhi che si prestano ai muri.

53. si va a camminare per mia madre è un polpaccio di cemento dove si placa la mina dello sguardo e l’elemosina guadagna una caduta panica. in una rotta di alamaro vidi la spada passata sulle terme del poeta a rovinar vacanza. il periglio del marsupio ruzzola se stesso verso il rivierasco scopo di scovare il lutto della zolla e la favolista stazione del chissà. la giostra della calunnia ti sarà incompetente, salvo il fatuo avvento della marina d’onda sotto il portico cortese.


54. nella bara è chiusa la fiaba il fuoco non la connette per liberare la cenere resta tatuata bolla di bagaglio verso un malessere da cominciare libero comunque di soffrire l’entusiasmo della balera comica quando da ragazza tua madre smussava le radici del cancro. la giravolta del panico restituisce un gioco contro il coma delle onde, le gerle timide del soqquadro quand’eri bambina e bivaccava amore sotto la cimasa dello sguardo primo. ora è rigagnolo di stagno visitare le veneri cattive così giovani da far vomitare. si decima la ronda, piange il cannocchiale ferito dalla luce. qui si gemma un’aurora di guerra e le persiane non riconoscono nessuno.


55. la rotta del tranello è stare in barca con l’egemonia dell’anello che fa vortice accanto alla gimcana che non tollera bivacchi con vedute più benigne. l’era corsara catapulta il sogno verso il vocativo delle rondini con il forziere di regalar le stelle.

56. e tu vedrai di me l’ora asciutta quando non cava la rondine il suo nido e tutto muore in un conclave sciatto. la casa è chiusa per inginocchiare i vandali questa primizia che fu un’altalena una smisurata alcova di baci primi. così sfinisce il mondo la sua specie questa minaccia languida di sfinge una cambusa con viveri a bordo. di te intrattengo la voga e la sirena


questa amnistia vitale quanto un abaco cortese con le sfingi che non protestano.

57. piange l’orefice che si pentì dell’amo d’oro per adescare un povero pescetto aguzzo solo di comete. con la morte ai bordi del letto si avvicinò la broda della stirpe questa gente che vedi dopo morto segnata dalla croce che non porta. in mano all’abaco che gioca con le creature c’è un avvento che spia per ricontare tutte le aureole dei furti. in mano alla transenna della stirpe parte l’abbecedario del cattivo membro il botanico fannullone di aver da piangere chiunque in testa abbia un anello vuoto. l’anemia del codice è una sabbia blasfema quanto un antro di vano cuore


del tu entri ma non esci più.

58. l’unica tenerezza in un caos di addobbi tu che prometti di non essere vile sotto l’alcova di tua madre ormai zoppa tu che tremi l’alunno che non fosti e le sirene zoppicano per spergiuro. il ladrocinio del ventre è ormai abitudine di donne arrese che non sanno il palato quale che sia la norma per genuflettere pietà. una solitudine immensa è stata capita da un intruso. qui mi adagio in un incavo di stornello per abbeverare i più assetati. la cavità del sale è un alambicco di passato. qui s’inverna nonostante il sole e l’Adalgisa delle donne di servizio non possono la giara dell’olio fine.


59. se riscrivi il mondo in un licenziamento troverai la barba vuota del pagliaccio la gimcana triste del collega morto l’ilarità cattiva del dolore dove la madre è un’oasi di ghiaccio e la farfalla un’epidemia di lutto. qui si gioca nel limbo del cratere per una marea di cancro la furbetta sabbia. in tutto c’è da piangere chi venga caduco o brevettato sulla darsena del senso inavvenuto. non so cantare la doglia del pascolo davanti alla scogliera del miracolo del lascito. venero la venia di farmi eremo soltanto, tanta cordialità la veglia del baratro dove per simpatia finirò la cantica del petto con il plettro. ridere di me è una sagacia nuova una ventura a rendere la fiacca della faccia.


60. accorri al frutto che ti darà mestizia così come il cipresso al camposanto o la cometa travestita da acquazzone. appòggiati allo zigomo del pane momento di rancore d’àncora il bimbo al sillabario che non spiega. traduci le gimcane con le fosse ad attrice la canicola del sale o le pattuglie in giro di catture. emergi da te un filo d’acqua marcia una ciliegia in giro con i còmpiti del lieto una destrezza ad eremo e calvizie. incedi con la vanga della gaiezza in gola una lucertola in fase di scompiglio verso la creta che ha cuore senza paura avvezza a se stessa chimera di bestemmia.


61. in un selcio di naufragio ho visto l’onta di perdere la vita per un mulattiere cattivo con il mulo bimbo leggiadro. qui la casa del Pascoli è un cimelio infantile quasi una cometa per liberar le rondini e le campane in mezzo agli scarafaggi nei catini da toilette. qui dove il freddo annusa nei bracieri c’è l’inganno dell’erta di morire cane nel muso della terra.

62. una frase di disuso usa vivere in un ricatto d’ombra dove la ciminiera è la fata della penombra per scoiattoli che bramano ciottoli di buon cibo. un tributo per amore è un occaso che brancola nel buio delle storie eccelse di altri. nulla inneggia


la marea dell’alba quando la brina stagna le farfalle. attendere il sole è una fandonia alta. così si brevetta il passero morente la recidiva agonia dell’afa quando il cipresso non ce la fa. ad uncino la rotta della siepe prende in giro l’asilo di bimbetti al chiasso della gioia ma è la lotta principiante al fosco. dove si allena il bavero assassino. qui domani saranno le sragioni di perdere di tutto.

63. la lucerna della sera quando il tarlo incendia la rivolta del pane azzimo. l’unità del vuoto trova cancelli abietti e per domani è prevista la crociata di spianare il vento


senza riccioli dispacci. il baluginio d’avvento consacra pargoli lietissimi senza i lutti delle falde acquifere. l’eredità salina ha sentenziato gli zuccheri materni. è moritura l’alpe senza foce. in uno strappo sul rammendo ho visto morire il salvacondotto favolistico. tu non parlerai le lingue crepuscolari quando le scuole rammentano le lapidi e le ginestre soccorrono il deserto.

64. è finito il tempo e la corteccia è vuota un passerotto cinguetta disperato dentro la guazza di un postaccio arato. dimentica di me che fui la folle baldanza di un tramestio per la gioia quando le messi si danno ad una ad una.


le corse trappole del male più possente raggiungono le femmine dell’incrocio verso le mine della guerra scorsa. qui s’intromette il vuoto della sfinge questa calura misera d’esilio quando le campane suonano le credule. una ginestra chiama l’eremo di sé verso le gimcane delle zolle inopportune al vezzo dell’infante.

65. sperduta anagrafe della mia nuca o perlomeno la pazienza di sopravvivere lungo il sillabario della grafia minuta la mela storta di perdere la vita. le tattiche che barano le morse in fondo sono fantasmi infanti ilarità del crepacuore.


66. in un giorno di custodia ho visto il sole dietro i vetri di una stanza stramazzata per un alamaro chiuso alla casacca. era dio un anello di fantasma una vendemmia senza i piedi dentro anzi una cometa senza coda. io mi adagio in un divano difettoso cosĂŹ l’acredine di morire dentro la meraviglia di una nave a largo. amore di stornello starti a guardare animale del bello sopra le rocce cosĂŹ cattive da reggerti appena. la lavagna scolara è andata a sbriciolarsi dentro il tunnel che la ama poco e la biblioteca del morto è un depredare dediche cortesi e pagine intonse.


67. la fandonia del cielo chiaro passo di fionda a tradimento dove la mente è scarto di fede ruminare bestemmie costa destino. le ronde del fato povero costeggiano giare ammaccate dove il contenuto è giro a vuoto. gli ammassi delle ceneri vanno a giungla ma nulla ammette un cimitero d’afa data la vista di credere l’alieno. il pazzo del borgo gira alla fontana credendola madre. le ire del sangue apologhi doni d’immortalità. difendi il mio sangue rappreso allo scolio del rantolo! la genia del palazzo ha il tranello nel cortile. l’eco a vanvera della gola del pozzo insegna a tramortire le misere allodole credenti e credulone. finiscono le fiaccole senza accendere le rotte.


68. l’agonia dell’ora occlusa quando il sale delle darsene si fa compatto l’età materna un complotto in atto. così nel buio delle lune piene la risacca del mare si fa rantolo encomio di aggirare angolo la morte. la folle disparità della penombra brami la bara di sembrar cipresso così per applauso al sognare. andavo a scuola con la cialda in tasca lo scapito del grembiule troppo lungo la voglia botanica di crescere sotto la teca delle meraviglie rare. fu pastrano d’alito bruciato questa ciabatta con il male dentro con lo stipendio sparuto dell’idiota. invano ad elmo incorniciai la vita il tunnel ne rimase invitto e la calunnia un abito da sposa.


69. donna di scarto mia madre bella solo di gioventù mio padre la sposò credendola più giovane sarta analfabeta. letargo del cuore visse per cucire le catacombe dei suoi giorni aciduli battesimi di vestitini per bambini in trine di ben altri. chiuse le vesti in un dì di cecità quando l’età sorresse il malaffare della sopravvivenza. in anni d’incantesimo stette al mondo dimenticando-si. anche il mio computer si è fatto lento cieco da sempre.

70. chiarità di baci l’adagio la luna spenta di capire i morti nei fuochi fatui a mo’ di girandola. vengo da te per rispettarti il seno


per la nuca più indifesa della rondine quando sul tetto del travaglio d’erbe s’illumina la vedetta della cena e l’aquila e il gabbiano se la intendono. dar da mangiare agli affamati è una vecchia storia calibrata dalla nenia del piangere sotto le ortiche di chi resta indietro. il mare è una venuzza di ristagno rettilineo augusteo del senza fretta.

71. ti lasci andare o mio amoroso allo sfaccendìo della corsa a questo rimorso che sa di oltre mondo quando le rovine non temono le erbacce le ciminiere prendono in giro il sole. è così che le scimitarre degli alieni sembrano forbici di sarti di alta moda quando il poeta è una conserva alata e la marionetta un esule dell’aria.


verrà di me un campionato d’Ercole così sconfitto! griderà la rondine la breve alcova di sé. non varrà per i ciottoli la mensa o il salvacondotto d’asilo, qui è un tramestio di rantoli senza salme ancora. tu dimmi tu quale sarà la venia che cinguetta l’asilo di restare sottotetto d’amore. qui non so bastare la cimasa per la salsa stazione della casa insita al viottolo del bello. in gioventù lasciai la razione per un cortile di seduzione verso ogni cena o colazione. oggi diminuisco le pretese in un pensiero.

72. in mano all’acrobatico del lutto tutto rimanda al fragore del mare alla staffetta di chetare il dado. in mano alla rondine salata rimane la rotta d’indurire il tempo


per provare a sconfiggere chi falsi l’acredine del perimetro per cerchio il bello di girare sull’io del fare.

73. gerla di verdetto ho visto il sale vanitoso di cristalli sotto il sole. avaria di avanzo resta mia madre saltata su una mina dentro casa. corsia di abuso l’abaco del mare ingordo di sé tanto belloccio da ripetere lo sguardo. ho avuto un padre a dondolo che mi baciava nell’aria. ora è cenere di dolo come i millenni che non aspettano nessuno. qui la calura del rancido ispeziona la cicca del boia questa canicola perfida di dado. in mano alla ciarla della rondine voglio morire blasfema festiva


davvero per davvero madre di zero.

74. intatto avvento il tuo dolore fisso questa cometa nera di sopruso quando la vena è fragile da rompere e le stampelle perdurano il dirupo. in coda al gerundio della speranza resta un bimbo nel dispendio del non amore quando su tutto vince la canottiera del detenuto. le teche della notte ingannano i vampiri questi spergiuri esuli chissà. in tono alle trombette dell’asilo non c’è nessuno ormai. quali schiaffoni amano le vele per amare il mare? quale rotta ammalia la conchiglia madre? non ho la resina per darti il mio amore io che ho perduto il talamo e la scansia. resti per noi la coccola del santo il buon cammino della ciotola piena oltre le carestie delle persiane serrate.


75. è sicuro che pianga con l’acquazzone nelle tasche questo infernetto di lusso che è la mia piaga dentro l’ultimo giardino della città bandita dalle mura. in un sole indecente senza ombre soggiace abbandonato il cane del medico condotto, perfido dotto. le stamperie del sale non rendono le nozze né le felicità dell’indice promesso. in un incedere caduco ho preso l’ombra brava bambina gentile incendio di un amore precoce che la fa stazione di un silenzio da sala da attesa lei esubero di sé albero della cuccagna.

76. ora s’inciampa in un valico di coma costretto il mare a sciabolare nuvole vanitose donne di soppiatto. vola dal libro un indice divino


una cornucopia quasi di fachiro intatto come sempre nella favola. a sorsetti ti evito le frottole canute delle tarde iridi del sole picchiatello. la malia del sottotetto è per difenderti dal tarlo del ciclope che vuole andarsene dalla toppa della porta. così non sarà nessuno a farti visita al tempio che veneri d’incanto da piccolino quando la madre era giovane. va e viene la linea della sfinge quando le donne hanno l’abaco favorevole e gl’innamorati riposano le truppe.

77. si scoscese l’abaco in un alterco di coma. rise la ventura l’ultima spiaggia. la conchiglia novantenne finì nella pattumiera. le tempie mortali delle scorie ebbero un bambino felicissimo.


qui nella culla delle croci d’asma vivacchia la cicala senza stirpe il cane abbandonato in cima alla china. tu patriarca d’ebeti verdetti hai chiuso il tram di tagliare l’orizzonte moria d’echi senza senso. l’industria del verbo nero chiarìa per estinzione.

78. finisce il tempo della ciotola divina quando all’angolo della strada si credeva di evadere la vita per provar fantasmi o amori già morti prima di nascere. qui in realtà sono una povera demente senza capire perché vado a frottole lungo i binari che non capiscono niente. è finito l’eremita del mio avvento gigante frottola del seno quando a giocare si gioca per non morire.


il cortile infante delle rondini chiama sovente i passeri impiccioni così per giocare con la terra insieme alle cicale fannullone.

79. non darmi una rotula d’ospizio io che cammino con il cipiglio d’essere ancora la faccenda dell’eclisse nel ritorno del sole e della luna. non voglio il trionfo dello sbadiglio quando le donne fingono di amare e le maree rotolano risacca. è così festivo il trancio del tuo nome che è bello inventarsene il nomignolo per i sentieri che bruciano incolpevoli. le vesti delle rondini si conciano a cipressi per dire che domani ciarlerà la cicala del caso indefesso. nessun uomo possiede il permesso di scappare oltre. tu troverai


la nespola contadina di pensare qui il vincolo chimerico di sballottare i nervi verso l’ospizio che non funziona più.

80. mare materno spinosa agave qui si ristora bulbo di sentiero la sirena intona il suo Ulisse mai blasfema sull’apice di rotta. l’infermo carosello dell’infanzia dava a credere le ninfe più felici le rendite blasfeme delle stirpi. in coda al cipresso più benevolo resta la cicuta del buon Socrate abile cristallo che stazza a benvolere le rotte benemerite del dubbio. tu amore che resti in quarantena dimmi la rotta che si presti finalmente verso le stimmate dei fedeli anemoni. versa di me la sanguigna stozza


questo pio satellite che vedo verso lo stato di chi muoia felice.

81. ho paura ormai non so alzarmi dal viottolo che lega ferragosto che spiazza le clessidre nel corridoio di un uliveto bambino. il brevetto di vederti è solo un atomo di gioia una faccenda d’aria per la stirpe per la progenie d’alba quando la bara recalcitra. tra l’aspettare e l’andare in coma il passo è breve, vellutato anche. quella lunatica forca d’abisso conosce i tic del deserto. tu non andare a farti comandare dal verdetto d’indice, dimmi di te le fratture lente queste bravate d’ossa senza scheletro. in piazza sotto il veto della chimera resta un’ansia che si chiama eclissi


una figlietta buona come il pane. tu non conosci le ginestre in fiore dove divertono i grilli le fanfare del vento megalomane, manata del fato.

82. si sfinì nell’epos della fossa alamaro cortese senza guerra cucciolo sacro con l’ombelico in mano: si scoprì che il tuorlo della luce non gli voleva bene. era distratto dal segreto di piangere se stesso dentro il letto senza stima la malizia aurea di un angelo senza pietà in un attorno falso. nel santuario il santo è nella teca la bancarotta dei dadi non sa niente né la verità corrotta di spartire un’oasi per caso. sotto la quercia la svilita casa cantoniera quando


la caccia era la scomunica e la compagine del lutto un fraintendere l’amore per la corsa per le fiaccole del mare mai di requie. abissale la perla di vederti nel condominio dello zonzo dove lo zero in bocca dà l’esilio senza concime né rotta in cima. il diario della sera fa da sfinge al tema al cipresso fulminato stasi di sé.

83. il mio brusio è un animo malato un’ascia su un’incudine una falcata di trampoli con tarlo. qui c’è da popolarsi di risa per piangere davvero finalmente sotto le spurie recidive trappole. qui non è bastata la regia del vento per togliere le arsure delle frottole da lungo tempo despote. e poi se mi ricordi il piatto forte


sono l’anemia del mio sudario questo letto d’asma dove non so più scegliere che asfodeli per i morti con i dadi neri.

84. e corre ancora la moria dell’afa lucertola che festeggia angioli sotto il cavalcavia pericoloso. in mano alla stagione del periglio invento le cicale avvocatesse tanto per lenire un passato calvo. tu dimmi ancora quale sarà lo strazio che mirerà all’esilio finalmente questo baraccato nome di sintassi dove s’inchiodano l’aquila e la nuvola. a Spoleto piansi il primo aborto la spoliazione dell’anima e del senso sotto chimere fulgide di chiodi. in verità l’eredità di stare somiglia la distanza di non essere


che le palanche lunghe di muratori armarti nel sudario della stirpe. in me si conterà la giostra integra del finalmente gioco senza vestali né inni per le bettole del caso. da domani la veglia ti dirà chi sei se finirà la nebbia dell’occaso.

85. sarà l’occaso vicino casa, nulla servirà questo novembre breviario per la vestigia che non viene. tu bel Francesco in animo di terra ami il lupo e la moria del vento con le maree in abaco di stelle. qui sotto il silenzio delle siepi c’è l’abazia della metafisica il riordino dell’abaco preciso. con il cordino di chiamarmi appeso sono il giullare del fulmine-cometa


questa ristretta enfasi del ridere. invano la repubblica dell’essere pubblica il cimelio dell’avanguardia la retta effimera dell’ultimo bambino. la bilia del gioco di rimando coincide con la stagione discola il canticchiare dove sta la rendita. in mano ti saprò attendere anemone del fiore che più amo bazzecola del cielo sulla terra.

86. cose di addio cose di falena la luce che inganna l’io di far lena questa minuscola voglia di morire da sotto il tetto all’erba quadrifoglio. sono una nave insita al bagliore che percepisce il cielo più stellato le rendite qualsiasi dell’agave.


87. rimane un viottolo di cicale un carcerato dietro la grata invoca caligini per tornare vivo nonostante le piazze chiuse. tu domani ti accorgerai di me con la sinossi di un cipresso fulminato magnifico nell’orto che concluso non è. il lago del lutto è una chimera d’asma una faccenda d’amore nonostante il logo di sfiaccolar le stelle senza nome. tu hai imparato a dormire sotto il lago nella sterpaglia delle rondini malate. qui si parla d’ingessar le stelle tanto per cattiveria di stagione di caccia la venatoria blasfemia del feudo. è già domani che divento adulto sotto i cornicioni pericolanti. domani m’incammino con la croce in spalla per far diventare bambino un mira lago senza bontà da dare. sono cattivo con le bare che si aprono al mio passaggio.


non basta un’aureola per redimere i monaci che pregano per messa senza riordino di un mondo incapace.

88. ho preso le gocce per morire un poco un addobbo da poco confiscare il ventre per lenire la zolla che risucchia la contumacia alla rendita del carso. tu domani piangerai di me la gemma quella donnina fiaccola e germoglio con il risucchio in rendita. e ti ricordo alma di scoiattolo tutto positivo nella coda che volve di richiami. nella felicità del monte un pianoro scombussola le ore per le lucciole di venere. io ti chiedo di amarmi solo un poco con le ciotole del ventre che elemosinano androne il grande verbo, finalmente! ma già oggi è un idolo di meno una carcassa al fiume che fa piangere


le generalità riflesse del sole appeso.

89. qui si cambia la mia vita con l’elemosina del sale con lo stambecco mite delle rocce. ride il sommario la rivalità dell’ombra bravura che sa di travertino e marmo. tu ritorni fanciullo in un alunno granitico così siepe di grano puro da far piangere le Alpi. oggi ricordo un’ape regina dove il miele fu per lo più amore e sillabario sul colle senza sole. correva l’anno dell’arci divieto del finalmente non nascere. le stimmate delle onde finalmente in anello amarono la sposa e la mentalità del cielo. con le viscere del cielo esaminai l’abaco finestra nana sulla strada doccia d’ecumene per non piangere. tu dammi amore ti sarò felice


bambinello pasciuto sotto le mine e le ginestre le più belle e strambe.

90. gelo di torre ho visto l’indice del brevetto inabile. àncora d’addio il collo della rondine morta. il grano elementare così bello stanzia la rotta per le cicale a spasso. a turno di editto il calendario di perdere. amore di cimasa ebbi da piccola quando leggera la fibbia del carcere era l’evasione di Eva. qui in carcere aspetto le stazioni della cornucopia ad arrivare. valenze ingenue finalmente il bello dì. efelidi del vento baciarti. salute dello stagno averti accanto sillabario bambinello arca di Noè.


91. stava in lutto il quadrifoglio raro tutto s’inerpicava in un giorno per mortificare il credo di fortuna tu fune del dì marziano. cosa farà in stanza l’immacolata sposa ginestra in voce di crisalide? in estro di chiamarti al giorno lungo non basta la volontà dell’avo buono questo marcito abaco di spugna. l’avarizia del merletto che non sposa è dentro tara di vacanza eterna una simbiosi scivolosa e triste. eventuali smorfie di successo avranno tende d’alto mare issate per la giovinezza della ricchezza appunto. in un conclave di pratoline in orto si fissava la resina compianta dalla melagrana spaccata in sangue.


92. viltà del coro assoluto scempio imparare le rotte di salsedine dove moria l’arca già più vuota impara a retrocedere i comandi. la boscaglia carnosa bella del senso comandi la beltà del fraseggio d’anima se finalmente un mare di comete abbia a conversare con le allodole. la vecchietta di ferragosto aveva vent’anni più di me eppure era vecchia più oltre un occaso di sostanza. la libertà del tuono la chiamava ebete non angelicata, breve. i capelli bianchi in un gelido incarnato su occhi azzurri, belli. la cicala a squarciagola accompagnava la veglia del viatico come madonna minima. io donna della sera la mimavo nell’onda del tramonto o mito nero il caso d’esser vivi. tu sisma di mattanza il gesto cattivo contro il fieno, i girasoli reclinati. è fioco il genio di chiamarti amore


o bivaccante gesto di risacca.

93. quale sarà l’occaso che mi toglierà dal caso rosa del principe rosa della curva la chimera posticcia di non trovarmi inserviente nell’”ospedale de li malati poveri”? nel crollo delle indulgenze si è penzoloni lo stesso: si taglia il tempo con un’acciuga vuota con il male di vivere in latrine al massimo pulite con la varecchina con la china dell’ombra. qui il sale è uno scempio per ladruncoli che soffiano denari con i sorrisi più pii. come stanno le regie del sangue dacché morire è un abaco di certo? nessuna risposta dalla baraonda dei manichini che indossano vestiti improbabili nelle guerriglie di centri commerciali più scialbi del solito? nelle fabbriche lager del cotone posticcio


si lavora con la ciotola e il letto accanto.

94. così s’insacca l’estasi del buio rametto tonto di betulla sotto la neve calvo. calamite di salto potere il vizio di essere la gioia della mite grazia dell’asino buono, tenero anfiteatro d’occhi. arrivano i tuoni che sanno di omiciattoli paurosi sotto i balconi d’infiorate di altri.

95. in ogni genere di memoria ho perso il ricordo la faccenda brulla di toccarti vivo contento incenso di te stesso vivo.


intanto si accendeva la parata del rantolo nessun reduce da festeggiare nel labirinto dell’occaso senza eclisse. tu a malapena indietreggiavi per gironzolare un amore di resistenza una gimcana per non farti prendere dalla regia apolide del fato di moria. una sacrosanta bugia svolò dal rantolo per inventare una civetteria femmina una bravura innata.

96. si dà la luna volto di commiato una saracinesca per scortar l’amante lo sposalizio del sale ben più cattivo verso le letizie delle frottole infanti le luci nude come fiumiciattoli d’acredine al verbo di vita quando la rondine vira la cimasa


nulla imparando dalla maestria. nulla si sa perché avvenne il rantolo sfortuna d’angolo di siepe verso il pepe di riordinare il nascere. qui è citrullo l’animo del seme questo infante nato per non nascere sotto il cipresso delle lune birbe.

97. piaga di dio il veritiero anfratto che non lo contempla affatto. è finito il rumore in una soglia vulcanica voglia di finire il residuo del sangue. qui la gioia è un nido di pece un rasoio di bara. in faccia al cipresso l’omino buono incapace di mutamento. l’almanacco degli angoli crudeli descrive il pagliaccio di paglia


la lunga antenna del solo buio. la manciata delle fosse è la catena del ricordo. indagine di avvento averti accanto. nel cimitero velato della stirpe tutto è conteso.

98. qui è riunito un pallore lusingato a sfinge. è quello dell’agguato a se stessi presso la rimessa della piscina vuota con le lucertole che corrono festive di muri. la tegola della luna fa da madre al breve regno della siepe dove s’immagina la fuga della trottola pestifera d’equilibrio. in mano alla regia della fune un olivastro simula le olive per il carisma della rotta. è invece solo un lucidare sterpi per le colpe di vili licenze armate. erta marina la condanna a morte. sulla tara dell’ombra è divampato


il diavolo del volo nullo. qui si spegne l’avarizia al giorno e la nomea della pozzanghera patita. dove si ammassa l’utero del fango lascio la giacca per correre veloce senso al millimetro.

99non tornano gli amici del lieto fine, una sciabola sommerge il lago contuso contro l’abaco di cemento. amore di ventura fu la stanza bacata da mille rivoli di serpi piratesche le indagini del cosmo. nessuno amò la vegliarda pace né la guerra per un sussurro acre dove si screpola l’indice del mito. avevo una foto che spopolava amore una lanterna nuda come le steppe in una casa isolata. sul lato opposto del binario viveva la cicogna regale


anfora di madre.

100. mi dispiace poi molto di stare in clessidra di disperare poi molto di fendere la luce per un poemetto di argilla intorno al cuore e fare ombrello l’asino del mondo senza capire la beltà dell’eremo. in fondo non ho la giacca della darsena per riparare il seme che si fracida dirimpettaio alunno del mio pianto. in saio d’ombra vo disperdendo la foglia maggiore dell’uliveto la bella traccia di credere in dio nonostante la freddezza della stirpe. l’inverno fu a colori ma mai nessuno si accorse di prenotare la felicità sul sagrato enigmatico di una chiesa. la malia dell’ombra seppe da guardiano le eredità guardinghe della deriva


quando il mare è nano e pare piatto o esile riflusso. in verità il camice del becchino venne a prendere l’alunno appena entrato. poi da così non ci sarà che preda la fionda del rigagnolo.



Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55. Ha pubblicato i libri di versi: “Il giornale dell’esule” (Crocetti 1986), “Gli angioli patrioti” (ivi 1988), “Acquerugiole” (ivi 1990), “Darsene il respiro” (Fondazione Corrente 1993), “La devozione di stare” (Anterem 1994), “Le arsure” (LietoColle 2004), “L’acciuga della sera i fuochi della tara” (Luca Pensa 2006), “Il solicello del basto” (Roma, Fermenti Editrice, 2010). Altre raccolte inedite in carta, complete e incomplete, rintracciabili sul Web sono: “La passione della fine”, “Intimità delle lontananze”, “Dissesti per il tramonto”, “Una camera di conforto”, “Sconforti di consorte”, “Brindisi e cipressi”, “Sorprese del pane nero”, “L’acciuga della sera i fuochi della tara”, “La giostra della lingua il suolo d’algebra”, “Staffetta irenica”, “Sotto le ghiande delle querce”, “Pecca di espianto”, “Arsenici”, “Rughe d’inserviente”, “Un gerundio di venia”; il poemetto “L’alba del penitenziario. Il penitenziario dell’alba“; le plaquettes “L’impresario reo” (Tam Tam 1985) e “Un cartone per la notte” (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio


Mugnaini, 1998); “Le giostre del delta” (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura. Ha vinto due premi di poesia. Nel 2004 e nel 2005 la rivista di poesia on line “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave” l’ha nominata poeta dell’anno. Fa parte del comitato di redazione della rivista “Poesia”. E’ tra i redattori del blog collettivo “La poesia e lo spirito”. Sul Web cura i seguenti blog(s) di poesia: Sconforti di consorte, Brindisi e cipressi e Sorprese del pane nero.



www.poesia2punto0.com


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