Polizia Penitenziaria - Marzo 2010 - n. 171

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Galleggiante, modulare o tradizionale... purchè si costruisca!



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Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

ANNO XVII Numero 171 Marzo 2010

La Copertina Le diverse tipologie di carcere per risolvere il sovraffollamente degli istituti

L’EDITORIALE & IL PULPITO Riorganizzare la Polizia Penitenziaria

Direttore Responsabile Donato Capece

di Donato Capece e Giovanni B. De Blasis

capece@sappe.it

IL COMMENTO L’abominevole banalità del male...

Direttore Editoriale Giovanni Battista De Blasis

di Roberto Martinelli

deblasis@sappe.it

Direttore Organizzativo Moraldo Adolini

L’OSSERVATORIO POLITICO Funzione riuducativa della pena

Capo Redattore Roberto Martinelli

di Giovanni Battista Durante

Comitato di Redazione Nicola Caserta Umberto Vitale

PRIMO PIANO Carceri, galleggianti, modulari o tradizionali ...purchè si costruisca

Redazione Politica Giovanni Battista Durante Progetto Grafico e impaginazione © Mario Caputi (art director) Direzione e Redazione Centrale Via Trionfale, 79/A 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. fax 06.39733669 E-mail: rivista@sappe.it Sito Web: www.sappe.it Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di: “Polizia Penitenziaria -

LE FIAMME AZZURRE Nessun provvedimento per i pensionati! a cura di Lionello Pascone

LO SPORT Vancouver e dintorni a cura di Lalì

SOCIETà & CULTURA Storia di ordinaria ingiustizia di Aldo Maturo

Società Giustizia & Sicurezza” Registrazione Tribunale di Roma n. 330 del 18.7.1994

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Stampa Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 00030 S. Cesareo (Roma)

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Finito di stampare: Marzo 2010 CHI VUOLE RICEVERE LA RIVISTA DIRETTAMENTE AL PROPRIO DOMICILIO, PUO’ VERSARE UN CONTRIBUTO DI SPEDIZIONE PARI A 20,00 EURO, SE ISCRITTO SAPPE, OPPURE DI 30,00 EURO SE NON ISCRITTO.

Questo Periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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Donato Capece Segretario Generale Sappe capece@sappe.it Direttore Responsabile

Riorganizzare la Polizia Penitenziaria uando si parla di carcere è sempre molto forte la tentazione di sviluppare ragionamenti ispirati a singoli eventi o a specifiche questioni che, occasionalmente ed improvvisamente, fanno diventare interessante il dibattito sul mondo penitenziario. Non bisogna, però, correre il rischio di discutere di questi temi sull’onda dell’emozione, trascurando la complessità del carcere e la sistematicità che dovrebbe caratterizzare eventuali interventi.

Nelle foto alcuni momenti del Convegno

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In misura diversa, è ristretto, ma in ciascun carcere, un numero di persone di molto superiore alla massima capacità ricettiva degli istituti. Oggi, esiste un eccesso di presenze di circa 22.000 detenuti rispetto alla capienza regolamentare. Questo è quello che normalmente si dice quando si parla di sovraffollamento. In realtà, non esiste nessuna fonte normativa che dica quanto spazio ciascun detenuto debba avere all’interno della camera detentiva e questo non è un dato poco rilevante. La prima conseguenza derivante da un numero eccessivo di detenuti è, ovviamente, la riduzione significativa degli spazi disponibili all’interno della camera detentiva. Questa situazione determina, tanto per dire, l’impossibilità di stare in piedi tutti contemporaneamente nello spazio non occupato dalle brande, di scrivere, leggere, di guardare la televisione in un luogo diverso che non sia il letto: e tale condizione è aggravata dal fatto che nelle camere detentive i ristretti trascorrono, tranne qualche eccezione, circa venti ore al giorno.

Così, alla riduzione degli spazi conseguono una maggiore promiscuità ed una più probabile conflittualità tra gli occupanti della camera detentiva: in sostanza, diminuisce la capacità di risposta del mondo penitenziario alle istanze dei detenuti come diminuisce la capacità di assistenza sanitaria. Grandi presenze comportano inevitabilmente una flessione dei normali meccanismi di controllo. Con riflessioni sul piano della sicurezza: crescono così i rischi, già molto presenti, di traffici illegali all’interno del carcere, e quelli connessi all’uso di stupefacenti. L’aumento dei carichi di lavoro per il personale influisce, inoltre, in modo decisivo sulla indispensabile conoscenza che la struttura penitenziaria dovrebbe avere dei detenuti che ospita ed incide notevolmente sulla qualità della osservazione. Infine, il sovraffollamento peggiora le capacità dell’amministrazione di tenere distinti i detenuti in base alla loro posizione giuridica, anche per il numero molto alto di detenuti in attesa di giudizio e di condannati a pene molto brevi. Altre caratteristiche uniche del nostro paese sono il flusso e i periodi di permanenza in carcere. Ogni giorno entrano ed escono centinaia di persone dal carcere, un movimento frenetico che comporta uno stress enorme del sistema soprattutto in una fase, quella dell’accoglienza, che è la più delicata e la più difficile da gestire. Questo quadro è reso ancora più difficile dalle caratteristiche della popolazione detenuta in gran parte costituita da stranieri, tossicodipendenti e da persone con problemi mentali. Chiunque conosca il carcere sa quanto sia consistente la presenza di reclusi con problemi mentali, spesso connessi alle dipendenze, che avrebbero bisogno di una assistenza psichiatrica costante ed incisiva. Le conseguenze sulla persona di terapie farmacologiche prolungate, prive di altre forme di sostegno o di terapia, dovreb-

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Giovanni Battista De Blasis Segretario Generale Aggiunto Sappe deblasis@sappe.it Direttore Editoriale

bero costituire argomento di riflessione e di approfondimento per tutti gli operatori penitenziari e sanitari. L’osservazione della tipologia dei detenuti che fanno ingresso in carcere e dei reati di cui sono accusati consente di affermare come il sistema della repressione penale colpisca prevalentemente la criminalità organizzata e le fasce deboli della popolazione: in effetti, il carcere è lo strumento che si usa per affrontare problemi che la società non è in grado di risolvere altrimenti. Se il carcere è in larga misura destinato a raccogliere il disagio sociale, è evidente come la società dei reclusi non possa che essere lo specchio della società degli uomini liberi. In altri termini, sembra che lo Stato badi solo ad assicurare il contenimento all’interno delle strutture penitenziarie. E’ giunta l’ora di ripensare la repressione penale, mettendo da un lato i fatti ritenuti di un disvalore sociale di tale gravità da imporre una reazione dello Stato con la misura estrema che è il carcere e dall’altro, anche mantenendo la rilevanza penale, indicare le condotte per le quali non è necessario il carcere (ipotizzando sanzioni diverse). E’ chiaro che una opzione di questo tipo dovrebbe ridisegnare il sistema a partire dalle norme in materia di immigrazione e dalla individuazione delle risorse per affrontare il tema delle dipendenze e dei disturbi mentali fuori dal carcere. Infine, appare utile richiamare il dato già riportato in premessa circa la permanenza brevissima (inferiore a 11 giorni) di quasi il 50% dei detenuti che fanno ingresso dalla libertà perché colpiti da custodia cautelare. E’ opportuno ricordare che circa i 2/3 dei detenuti sono in attesa di giudizio e altrettanti rimangono in carcere non più di 48 ore, il tempo della convalida dell’arresto, per poi essere rimessi in li-

bertà. Si tratta del cosiddetto fenomeno della porta girevole che causa soltanto un inutile aggravio di lavoro per il personale della polizia penitenziaria. A questi dati bisogna aggiungere quelli riguardanti i tossicodipendenti in carcere: sono circa il 25% del totale della popolazione detenuta, nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia, proprio per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno. E’ infatti previsto che i condannati a pene fino a sei anni di reclusione, quattro anni per coloro che si sono

resi responsabili di reati particolarmente gravi, possano essere ammessi a scontare la pena all’esterno, presso strutture pubbliche o private, attraverso gli istituti della sospensione della pena e dell’affidamento terapeutico, dopo aver superato positivamente o intrapreso un programma di recupero sociale. Nonostante ciò, queste persone continuano a rimanere in carcere. Rispetto ad una situazione così dirompente per l’organizzazione penitenziaria è necessario interrogarsi su che cosa fare e quali iniziative intraprendere. Riteniamo che la politica debba dare delle risposte certe ed immediate. Il piano carceri è una prima e importante risposta, ma bisogna fare ancora di più. ✦

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Roberto Martinelli Segretario Generale Aggiunto Sappe martinelli@sappe.it Capo Redattore

L’abominevole banalità del male...

Nelle foto, sopra la copertina del libro sotto Michele Placido, Kim Rossi Stuart e Renato Vallanzasca

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ono allibito, anzi indignato, dal fatto che in questo Paese senza ormai alcuna memoria civile la vita di un incallito criminale come Renato Vallanzasca possa essere considerata talmente importante e significativa (sic!) da essere messa al centro di un libro (“Il fiore del male”) e, prossimamente, di un film nel quale le gesta del pluri-assassino saranno interpretate dal pur bravo attore Kim Rossi Stuart, che ha contribuito con Romanzo criminale a rendere seducenti, ricche di glamour, tenebrosamente maledette le peripezie della «banda della Magliana». Quale senso ha raccontare la vita di un delinquente che deve scontare 4 ergastoli e 260 anni di carcere per sei omicidi, quattro sequestri di persona, innumerevoli rapine, scontri a fuoco, evasioni, sommosse carcerarie? Posso solo immaginare quanto si sentiranno onorati i familiari dei nostri poliziotti, barbaramente trucidati da questo criminale, qualora dovessero leggere il libro o assistere alla proiezione del film. Così come si sono sentite ferite ed umiliate le famiglie di quelle vittime massacrate dai criminali protagonisti di storie, rivisitate talvolta anche in chiave romantica, che ultimamente popolano il piccolo e il grande schermo. Il crimine affascina più della mediocrità del bene, si sa. Ma oramai il crimine strappato alla cronaca nera e consegnato ai colori abbacinanti di un film è diventato una tendenza irresistibile.

Come ha giustamente scritto Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, il cinema è cinema e il sangue versato dalle vittime cinematografiche di Vallanzasca avrà un sapore di pomodoro molto diverso da quello delle sue vittime «reali».

Al cinema la tragedia perde consistenza e diventa spettacolo e avventura. Diventa quasi una cosa diversa, la realtà. Il successo folgorante di Romanzo criminale diventa un archetipo: una banda di spacciatori brutali e sanguinari acquista cinematograficamente e televisivamente la dimensione del mito, gli spettatori giovani godono ad imitarne gestualità e modi di dire, il bello degli attori si trasferisce sul bello dei loro crimini recitati. Il bellissimo volto di Denzel Washington in American gangster rende bello e seducente anche il grande spacciatore di Harlem, il campione della mafia nera che comunque appare infinitamente più attraente dei corrotti, sordidi e bolsi poliziotti di una New York sempre più degradata. Il bellissimo Johnny Depp rende incredibilmente affascinante Dillinger. E anche nella versione francese del Nemico pubblico il grande criminale appare come un paladino della giustizia che ripara torti e scandalizza la società borghese uccidendo un numero incalcolabile di persone anche nei modi più efferati. Ha ragione l’Associazione Vittime del Dovere a denunciare che in una parte del panorama cinematografico e letterario italiano esiste una inquietante tendenza alla riproposizione delle gesta di assassini senza scrupoli. Tutto ciò porta all’inevitabile legittimazione di eroi negativi. Ed è sconfortante prendere atto della totale assenza di sensibilità da parte di uomini di “cultura” che, pur sapendo del dolore dei familiari delle Vittime, cedono alle tentazioni del facile “successo” e non considerano che tale popolarità è costruita sul sangue di tante persone che credevano nello Stato Democratico e si sono battute per il rispetto delle regole e del vivere civile. Ricordiamo che Renato Vallanzasca ha barbaramente e freddamente ucciso numerose persone, molte delle quali onesti servitori dello Stato, padri, mariti e figli esemplari. E poi, come già qualcuno ha dichiarato, non ci si mascheri dietro al fatto che questo criminale sta comunque scontando la sua pena, come se questa condizione sia un merito e non un dovere verso la società. Quelli come lui, i cui nomi non solo non meritano di essere celebrati, dovrebbero essere dimenticati e destinati al più definitivo degli oblii. Ha scritto ancora Battista che il «Bel René» che vedremo al cinema sarà dunque bello per forza, per scelta e per esigenze di copione, e quindi la banalità del Male apparirà per forza meno

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banale. E si chiede: chissà quanti saranno i giovani spettatori che troveranno irresistibilmente «fico» quel Kim Rossi Stuart che distribuisce violenza e morte ma che sarà redento grazie alla gradevolezza dell’ aspetto, alla prestanza del suo fisico, al sogno che si leggerà nello sguardo e nei suoi begli occhi. Che sarà un eroe, anche se nella vita reale eroe non fu. Che sarà il prodotto di un’ avvincente sceneggiatura, anche se il mondo vero non è uno script e chi ci ha rimesso la pelle non si rialzerà quando le luci di scena saranno spente. Sarà solo cinema. Solo? «... Chi abbia regolato i propri conti con la giustizia ha il diritto di reinserirsi nella società, ma con discrezione e misura e mai dimenticando le sue responsabilità morali anche se non più penali. Così come non dovrebbero dimenticare le loro responsabilità morali tutti quanti abbiano contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio e di violenza da cui sono scaturite le peggiori azioni terroristiche, o abbiano offerto al terrorismo motivazioni, attenuanti, coperture e indulgenze fatali. Queste sono le ragioni per cui si doveva e si deve dar voce non a chi ha scatenato la violenza terroristica, ma a chi l’ha subita, a chi ne ha avuto la vita spezzata, ai familiari delle vittime e anche a quanti sono stati colpiti, feriti, sopravvivendo ma restando per sempre invalidati… Solo così, con questo rispetto per la memoria e con questa vicinanza alle persone che hanno sofferto, si potrà rendere davvero omaggio al sacrificio di tanti...» Questo parole sono estrapolate dall’autorevole appello che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto il 9 maggio 2008 in occasione del Giorno della Memoria dedicato alle Vittime del Terrorismo. Faccio mio il suggerimento dell’Associazione Vittime del Dovere agli sceneggiatori e ai produttori cinematografici italiani che sempre più spesso prendono spunto da soggetti che animano la cronaca nera. Ascoltate il Capo dello Stato, date voce alle Vittime, leggete le loro storie e diffondete il loro esempio di coraggio ed abnegazione. Se la fantasia vi fa difetto, approfondite le testimonianze delle Vittime del Dovere, di uomini troppo spesso dimenticati e caduti nel silenzio più assoluto, servitori dello Stato, umili, ma nello stesso tempo grandi per l’esempio di generosità che li ha portati all’estremo sacrificio. Storie di persone perbene che a nessuno viene in mente di rappresentare e che vivono solo nei ricordi dei loro cari. Celebrate queste vite, ignote ai più. Queste sì. ✦

APPROVATA LA NORMA CHE RICONOSCE LA SPECIFICITA’ PER LE FORZE DELL’ORDINE uella del 3 marzo 2010 resterà una data storica per la Polizia Penitenziaria e per le Forze dell’Ordine. Con l’approvazione definitiva al Senato del ddl 1167-B, collegato alla manovra finanziaria (recante deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro) diventa legge dello Stato la Specificità delle Forze di Polizia, delle Forze Armate e del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e si sancisce in primo luogo che noi non siamo lavoratori come gli altri, ma Professionisti della Sicurezza! L’articolo che sancisce la norma e di cui ci si deve ricordare bene è il 19 che recita: (Specificità delle Forze Armate, delle Forze di Polizia e del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco) 1. Ai fini della definizione degli ordinamenti, delle carriere e dei contenuti del rapporto di impiego e della tutela economica, pensionistica e previdenziale, è riconosciuta la specificità del ruolo delle Forze Armate, delle Forze di Polizia e del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, nonché dello stato giuridico del personale ad essi appartenete, in dipendenza della peculiarità dei compiti, degli obblighi e delle limitazioni personali, previsti da leggi e regolamenti, per le funzioni di tutela delle istituzioni democratiche e di difesa dell’ordine e della sicurezza interna ed esterna, nonché per i peculiari requisiti di efficienza operativa richiesti e i correlati impieghi in attività usuranti. 2. La disciplina attuativa dei principi e degli indirizzi di cui al comma 1 è definita con successivi provvedimenti legislativi, con i quali si provvede altresì a stanziare le occorrenti risorse finanziarie. 3. Il Consiglio centrale di rappresentanza militare (COCER) partecipa, in rappresentanza del personale militare, alle attività negoziali svolte in attuazione delle finalità di cui al comma 1 e concernenti il trattamento economico del medesimo personale. Adesso il nostro prossimo passo è quello di far sostanziare questa Specificità con adeguate risorse: un obiettivo che risulta essere alla portata grazie a questa previsione di legge. ✦

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Giovanni Battista Durante Segretario Generale Aggiunto Sappe durante@sappe.it Responsabile redazione politica

Funzione riuducativa della pena, tutela della collettività e delle vittime di reati Intervento al seminario del 19 marzo 2010 al Comune di Bologna - 1ª parte

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La funzione rieducativa della pena 1.2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 1974. L’articolo 27 della Costituzione, in base al quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, è rimasto sostanzialmente inattuato, fino all’approvazione della legge penitenziaria, la n. 354/75, e all’emanazione del relativo regolamento di esecuzione, novellato nel 2000. La Corte Costituzionale, con una innovativa sentenza del 1974, la n. 204, essendo stata chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale dell’attribuzione al Ministro della Giustizia della facoltà di concedere, con proprio decreto, la liberazione condizionale, ha affermato «Il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale». Istituto, quello della liberazione condizionale, che, come sostiene la stessa Corte, con la legge n. 1634 del 1962, tuttora vigente, era stato introdotto anche per l’ergastolo. Proprio in virtù di questa estensione normativa è stato possibile mantenere nel nostro ordinamento la pena dell’ergastolo, evitando così che la Corte Costituzionale la dichiarasse illegittima, proprio in relazione al principio affermato dalla stessa Corte nella citata sentenza n. 204 del 1974. Non si

comprendono, quindi, le argomentazioni di quanti continuano a sostenere che l’ergastolo sia costituzionalmente illegittimo, atteso che si tratta soltanto di una pena edittale che, in virtù del richiamato istituto della liberazione condizionale, non trova concreta applicazione. La sentenza de qua ha sostanzialmente introdotto, nel nostro ordinamento, il principio di flessibilità della pena; flessibilità che non è in antitesi con la certezza della pena, come, invece, vorrebbero far credere coloro che ritengono che la pena debba essere scontata interamente, per come l’ha inflitta il giudice in sentenza; una pena, quindi, immutabile, ma non sempre certa. Certezza della pena e flessibilità della pena, invece, non sono per nulla in contrasto tra loro, ma esprimono, a mio avviso, concetti diversi. Certezza della pena non vuol dire che un soggetto condannato alla pena della reclusione debba rimanere in carcere per tutto il tempo previsto dalla sentenza. Ciò non sarebbe possibile perchè il nostro ordinamento non lo prevede, ma credo che non sarebbe neanche giusto, perché colui che ha commesso il reato, a distanza di anni, potrebbe essere un soggetto diverso da quello che era prima. E’ del tutto evidente che il passaggio cruciale, nell’esecuzione della pena, è proprio questo: capire se e quando, colui che ha commesso il reato e sta scontando la pena, a distanza di tempo, è cambiato, è un soggetto diverso da quello che era prima. E’ questa la fase più importante di tutta l’esecuzione penale. La fase in cui entrano in gioco diverse componenti: autorità penitenziarie e magistratura di sorveglianza. Rispetto a quest’ultima vorrei fare una breve riflessione. Con riferimento sempre alla ci-

tata sentenza n. 204 del 1974, la Corte ha affermato che attraverso l’applicazione dell’istituto della liberazione condizionale «Siamo in presenza di una vera e propria rinuncia, sia pure sottoposta a condizioni prestabilite, da parte dello Stato alla ulteriore realizzazione della pretesa punitiva nei riguardi di determinati condannati, rinuncia che non può certamente far capo ad un organo dell’esecutivo, ma ad un organo giudiziario, con tutte le garanzie sia per lo Stato che per il condannato stesso. Oltretutto si tratta di interrompere l’esecutorietà di una sentenza passata in giudicato, legata al principio dell’intangibilità, salvo interventi legislativi (art 2, comma secondo, del codice penale) o previsioni costituzionali (art. 87, penultimo comma, della Costituzione) o provvedimenti giurisdizionali (artt. 553 e 554 del codice di procedura penale) fino a determinare la estinzione della pena, una volta adempiuti gli obblighi imposti». La Consulta ha pertanto affermato un principio generale in base al quale tutto ciò che incide sull’intangibilità del giudicato, interrompendo l’esecutorietà di una sentenza, trova legittimazione costituzionale soltanto attraverso interventi legislativi, previsioni costituzionali o provvedimenti giurisdizionali. Esperienze giuridiche di altri ordinamenti ci consegnano un quadro diverso dal nostro. In Germania, realtà che ho avuto modo di conoscere personalmente, nonché in Inghilterra, sono le autorità amministrative a decidere sull’ammissione ai benefici previsti dalla legge penitenziaria. Con il mutare delle condizioni sociali e dell’organizzazione istituzionale del nostro

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Paese, probabilmente sarebbe giustificabile una reinterpretazione di quei principi che impediscono, nel nostro ordinamento, un’organizzazione diversa, nell’ambito della quale siano le autorità amministrative, ma non politiche, ad occuparsi di tutta la fase dell’esecuzione penale, compreso l’accesso ai benefici penitenziari. 1.3. Situazione penitenziaria in Italia e comparazione con altri ordinamenti E’ del tutto evidente, comunque, che tutta l’organizzazione amministrativa deve migliorare ed essere più efficiente di quella attuale. Noi siamo destinatari di un ordinamento spesso all’avanguardia, ma purtroppo inattuato e inattuabile per le gravi ed endemiche carenze amministrative. Per carenze amministrative intendo tutto ciò che attiene all’organizzazione dell’esecuzione penale: strutture, mezzi e risorse. Strutture inadeguate e fatiscenti, carenza di figure professionali adeguate, come gli educatori, carenza di uomini e donne della polizia penitenziaria, sovraffollamento esasperato, promiscuità della popolazione detenuta e presenza di gravi disagi, come le patologie mentali, la tossicodipendenza che riguarda circa il 25% dei detenuti, gli stranieri che sono circa il 40%, soprattutto extracomunitari, rendono davvero difficile, se non impossibile, attuare qualsiasi programma di recupero sociale e di trattamento individualizzato. Si deve poi tenere conto del fatto che più del 60% dei reclusi sono in attesa di giudizio, soggetti, quindi, rispetto ai quali non è possibile avviare nessuna opera di rieducazione. A ciò si aggiunga la scarsa possibilità di far lavorare i detenuti. Il lavoro rappresenta il primo e più importante elemento del trattamento. In Germania il 70% dei detenuti lavora e fa attività sportive. Sudare e non sedere è il motto dei tedeschi, i quali ritengono che «I detenuti devono dissipare le energie». Lavoro come elemento preponderante del trattamento, ma anche come elemento dal quale scaturiscono risorse per l’istituzione. Tutte le strutture penitenziarie tedesche hanno un bilancio in attivo, proprio grazie al fatto che la maggioranza dei detenuti lavorano. Paradigmatica l’esperienza di un detenuto tedesco che era diventato manager di una grande società, quando ancora

era in esecuzione di pena, e guadagnava circa dodicimila euro al mese. Il confronto con gli altri paesi è utile, anche se non possiamo prendere sempre esempio da tutti. L’esperienza americana, spesso citata da quanti si occupano di carcere e di esecuzione penale, non può e non deve rappresentare un modello per noi. Secondo la tesi di Christie, negli USA, vi sarebbe stato un vero e proprio fenomeno di ricarcerizzazione, derivante dal «progressivo e determinante peso politico del settore, tanto pubblico quanto privato, interessato al business penitenziario, comparto economico in forte espansione che non diversamente da quello militare costituisce oggi una delle lobby politiche più influenti nelle politiche nazionali ed internazionali». Quindi, il lavoro penitenziario, in America, rappresenterebbe solo una fonte di guadagno per le imprese pubbliche e private, senza alcuna finalità rieducativa, al punto da indurre le istituzioni ad attuare una politica di carcerizzazione selvaggia e, spesso, indiscriminata. C’è un altro aspetto della nostra realtà sociale e penitenziaria che non ci consente di poterci assimilare a nessun altro paese. Si tratta del fatto che nelle nostre carceri è presente uno zoccolo duro appartenente alla criminalità organizzata: mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita. Con queste persone non è possibile nessuna attività trattamentale e di recupero sociale, atteso che si tratta di soggetti che non potranno mai cambiare regole di vita, proprio per il vincolo che li lega alle consorterie criminali cui appartengono. L’unico cambiamento possibile, per questi soggetti, può avvenire attraverso la collaborazione con le istituzioni. Ipotesi, questa, alla quale consegue, come sappiamo, un programma di protezione e un conse-

guente cambio di identità. In questo caso non possiamo, quindi, parlare di recupero sociale, di rieducazione e di trattamento penitenziario. Non si comprendono, quindi, le richieste di coloro che vorrebbero l’abolizione del 41 bis, una disposizione normativa importante, anzi, fondamentale per la lotta alla criminalità, che non deve essere depotenziata, proprio in virtù del fatto che nelle carceri esiste questo zoccolo duro della criminalità organizzata, rispetto al quale devono necessariamente prevalere le esigenze di sicurezza rispetto a quelle rieducative e/o trattamentali. Con queste persone non c’è trattamento che tenga. Devono essere isolate e tenute in stretto controllo, anche per evitare che attraverso il carcere continuino a delinquere ed a gestire le organizzazioni criminali cui appartengono e di cui, spesso, sono i capi. L’ultima relazione dei servizi segreti lancia l’allarme proprio rispetto al fatto che i boss possano continuare a governare le loro organizzazioni attraverso il carcere. Quindi, le attività di controllo e sicurezza all’interno del carcere devono essere potenziate e non diminuite, sia con riferimento agli appartenenti alla criminalità organizzata, sia per quanto riguarda i terroristi. Oggi alcune carceri italiane ospitano anche terroristi internazionali, appartenenti ad Al Quaeda. Chi sostiene il contrario non ha a cuore le esigenze di sicurezza del nostro Paese, fermo restando la legittimità delle rivendicazioni di ognuno. Pertanto, è sempre più cogente la necessità di avere una Polizia Penitenziaria che svolga un lavoro di vera e propria intelligence nel carcere, attraverso la raccolta di informazioni, analisi delle stesse e collaborazione con le altre agenzie che svolgono la stessa attività nel nostro Paese. Abbiamo appreso con piacere, dal Capo del Dipartimento, al recente convegno organizzato dal SAPPE a Roma, che tale attività di collaborazione sta diventando sempre più intensa, oltre che proficua. Un’attività, questa, che dovrebbe essere utilizzata anche dalla magistratura di sorveglianza, quando si tratta di dover decidere la concessione dei benefici previsti dalla legge penitenziaria. E’una grande anomalia del sistema chiedere determinate informazioni agli organi di polizia che operano solo all’esterno del carcere, per soggetti che sono detenuti da medio e lungo tempo. ✦ (fine prima parte ...continua sul prossimo numero)

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Carceri galleggianti, modulari o tradizionali... purchè si costruisca! l Sappe ha già dato la sua disponibilità a verificare la possibilità di altri percorsi di edilizia penitenziaria alternativi come le carceri leggere e le carceri galleggianti. Vediamo più da vicino di cosa stiamo parlando con la presentazione dei dati forniti dai produttori delle strutture con le prime immagini e i primi riscontri degli operatori penitenziari.

opera in soli 7 mesi. Le strutture di contenimento (le sezioni detentive), in questo senso, hanno assunto un ruolo fondamentale nel trattamento dei detenuti per il reinserimento sociale, ed è per questo che nella

LE CARCERI LEGGERE Sul sistema modulare ci siamo già espressi giorni addietro in maniera positiva in quanto tra le sue caratteristiche troviamo: un edificio in acciaio, con grandi capacità di resistenza agli agenti atmosferici, agli attacchi chimici o ad altri processi deteriorativi, che può essere sopraelevato senza particolari misure strutturali e con costi competitivi e tempi di esecuzione estremamente rapidi. Si tratta di edifici con 600 posti letto costruibili in quattro mesi, con un costo inferiore ai 20 milioni di euro, e posti in

realizzazione di questo prodotto innovativo è stato profuso il massimo impegno e la competenza specialistica derivante dall’esperienza in materia di edilizia penitenziaria dei soggetti che compongono ne sono i produttori. tra i loro maggiori vantaggi troviamo: 1) Esecuzione in tempi ridotti rispetto a qualsiasi altra tecnologia costruttiva di tipo tradizionale (cemento armato, prefabbricato, muratura tradizionale). 2) Riduzione apprezzabile dei costi di costruzione ed abbattimento sensibile dei costi di gestione e manutenzione.

Nelle foto, interni di carceri modulari (per gentile concessione del Consorzio SVEMARK)

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3) Basso impatto ambientale. I moduli detentivi, dotati delle necessarie infrastrutture edili, sono composti da sistemi di camere e servizi di tipo modulare in metallo, progettati per la detenzione e prodotti già completi di impianti ad alto contenuto tecnologico, servizi igienici e componenti specifici, come infissi di sicurezza di tipo penitenziario, apparecchi sanitari, arredi funzionali e quant’altro necessario per renderli finiti a regola d’arte e pronti per l’uso. I sistemi di camere modulari integrano gli standard realizzativi e qualitativi del regolamento edilizio penitenziario vigente nel nostro Paese. I fabbricati detentivi sono basati sui modelli piú evoluti oggi conosciuti ed accettati in Italia per la costruzione di complessi penitenziari, e fondono i seguenti concetti fondamentali: • Massima sicurezza attiva e passiva; • Planimetria efficiente con il minimo impiego di personale di controllo; • Standard elevato di “qualità della vita detentiva; • Innovazione tecnologica per la supervisione e gestione della struttura.

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un rapido montaggio sul sito. Un gruppo di 4 operai può montare fino a 5 celle al giorno completamente finite in fabbrica e pronte per essere utilizzate. LE CARCERI GALLEGGIANTI L’idea di affrontare il sovraffollamento delle carceri anche attraverso la realizzazione di strutture galleggianti nasce dall’impegno del Governo di favorire la costruzione di piattaforme galleggianti quale soluzione flessibile atta a far fronte all’emergenza carceraria, ribadito al tavolo della cantieristica aperto presso il Ministero dello sviluppo economico. Sono stati sviluppati dei progetti di massima su richiesta dell’amministrazione penitenziaria, ipotizzando per questa soluzione molteplici vantaggi, quali tempi di consegna ridotti e certi (circa 24 mesi), l’utilizzo di aree portuali dismesse o banchine inutilizzate, dove le piattaforme saranno ormeggiate, che semplifica l’individuazione del sito rispetto a soluzioni tradizionali soprattutto in aree con limitata disponibilità di spazi a terra, e un’alta flessibilità operativa, che comprende le possibilità di spostamento in aree di emergenza e di riconversione ad altri usi (ad esempio

per operazioni della Protezione Civile). Si tratta di progetti nuovi non la trasformazione o l’adattamento di una struttura preesistente. Una nuova costruzione, che non solo faccia tesoro delle esperienze positive e negative in questo campo di Gran Bretagna, Stati uniti e Olanda, ma che si ponga l’obiettivo di affrontare e risolvere attraverso soluzioni ad hoc, secondo le più moderne tecnologie, tutte le tematiche di vivibilità che l’amministrazione ha evidenziato o vorrà evidenziare in futuro. Il progetto prevede 320 celle da 14 mq (più 2 mq di bagno) ciascuna, e alloggia un totale di 640 detenuti. Ha una lunghezza di 126 m, una larghezza di 33 m e un’altezza di 34,8 m, dimensioni che possono essere espanse in virtù della

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cosa ne pensa Donato Capece...

I COSTI DI GESTIONE E’ stato stimato che il ciclo di vita effettivo di una camera modulare metallica è di almeno 100 anni. E’ stato inoltre stimato per difetto che, nell’arco temporale di dieci anni, il risparmio del costo di gestione per manutenzione ed interventi vari rispetto ad una equivalente camera in calcestruzzo su una struttura penitenziaria di 400 unità risulta essere non inferiore ad 6 milioni di euro. Altri vantaggi della camera modulare in acciaio rispetto ai metodi tradizionali sono: Velocità costruttiva, pesi e volumi della costruzione modulare La camera modulare in acciaio a due posti a parità di volume pesa in via approssimativa 6.500 Kg contro un peso della equivalente cella costruita in calcestruzzo pari a oltre 40.000 Kg. Questo comporta una semplice ed economica installazione con una gru o fork lift di modesta portata e

Donato Capece Segretario Generale Sappe (Polizia Penitenziaria) L'esperienza di altri Paesi ci dimostra che è una cosa fattibile, sicura, con tempi certi e costi bassi. Ad oggi sono recluse in Italia 67mila persone, per una capienza che già ai livelli massimi si ferma a quota 40mila. Inizialmente le chiatte con le insegne del Ministero della Giustizia potrebbero essere due o tre. Ma superare le resistenze di quanti temono che in realtà si tratti di zattere malsane non sarà facile, anche se a livello sperimentale è opportuno realizzare qualche istituto galleggiante. Attendere ancora vorrebbe dire perdere il controllo delle carceri, che stanno scoppiando e nelle quali ogni giorno si rischia la rivolta.

Nelle foto, nel box sopra Donato Capece nella pagina ancora camere detentive modulari (Consorzio SVEMARK)

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cosa ne pensa Enrico Sbriglia... Nelle foto, in alto Enrico Sbriglia a fianco alcuni modellini di carceri galleggianti

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Enrico Sbriglia, Segretario Sidipe (Direttori) «Non è certo questa la risposta definitiva al sovraffollamento, ma è senz’altro un rimedio». Enrico Sbriglia, segretario nazionale del Sidipe, il sindacato dei direttori delle carceri, non si fa illusioni. I penitenziari galleggianti serviranno «a trovare il tempo di realizzare nuovi istituti a terra». Il Sidipe, sindacato che rappresenta l’80% dei direttori delle carceri, si dice soddisfatto del piano elaborato su richiesta del governo. «Penso a un’integrazione e non a una sostituzione - spiega Sbriglia - come a un’ambulanza che non escluda la necessità dell’ospedale». Il riferimento è alla necessità di interventi su strutture stabili, a cominciare dalla riqualificazione delle caserme militari dismesse, che «a un punto di vista estetico sono senz’altro più accettabili degli orrendi contenitori che sono i penitenziari recentemente costruiti».

litari o tratti di costa non sfruttabili commercialmente o turisticamente. Il posizionamento a ridosso di una banchina rende l’accessibilità alla struttura galleggiante del tutto equivalente a quella di un carcere a terra. Un cordone ombelicale che collega la piattaforma alla banchina consente il funzionamento della struttura senza la necessità di installare a bordo impianti particolarmente costosi e delicati. La manutenzione e la gestione tecnica della piattaforma verrebbero quindi ad avere gli stessi costi di un carcere a terra. Anzi, le tecnologie collegate all’acciaio potrebbero addirittura facilitare l’opera-

tività della struttura. Il modello a corpo triplo con una rotonda centrale garantisce la sicurezza dei detenuti e degli agenti. La presenza di locali comuni per detenuti (medicheria, barbiere, soggiorno, colloqui con direttore), situati sullo stesso piano di ogni sezione detentiva, consente una gestione più economica degli spostamenti dei detenuti all’interno dell’istituto. Nella configurazione proposta è possibile tracciare percorsi separati per detenuti e agenti, nonché suddividere le aree detentive in varie sezioni di piccole dimensioni consentendo di utilizzare gli stessi spazi in diverse ore della giornata. ✦

modularità del progetto. Le aree accessorie per detenuti (aule didattiche, laboratori, officine) si dispongono su una superficie di 5.000 mq, ai quali si aggiungono i 3.900 mq di uffici, aree colloqui, infermeria, sala polifunzionale e direzione. 2.700 mq sono di aree esterne. La cubatura è di 83.000 mc e la stazza lorda indicativa di 24.800 gt. La piattaforma è progettata per restare permanentemente ormeggiata a una banchina in un’area protetta dai flutti, come in aree portuali, industriali, arsenali miPolizia Penitenziaria - SG&S n. 171 - marzo 2010



Lionello Pascone Coordinatore Nazionale Anppe Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria

Provvedimenti per i pensionati, neanche se ne parla!

Nella foto, la sede dell’ISTAT Istituto Nazionale di Statistica

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lcune settimane fa è stato annunciato l’intendimento da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri di ridurre a due le aliquote dell’Irpef. La notizia è stata, però, immediatamente smentita, non ha avuto neppure il tempo di essere ponderata e valutata dal momento che l’epoca attuale non consentirebbe interventi del genere. Infatti, è inutile, se non assurdo, sostenere che la crisi è ormai alle spalle, che gli effetti dell’emergenza internazionale vanno scomparendo o si sono molto attenuati; la realtà è ben diversa e non permette ancora di nutrire aspettative e tanto meno di ipotizzare progetti. Eppure, per il popolo dei pensionati l’iniziativa sarebbe stata l’unica veramente positiva perchè, indirettamente, vale a dire, nell’ambito di un provvedimento di carattere nazionale, si sarebbero trovati, comunque, tra i destinatari di un beneficio economico. Certo è che l’indifferenza per la categoria dei pensionati è assoluta: ben può dirsi che non vi è un provvedimento che la interessi. Anzi, nei mesi di febbraio e di marzo, sono stati effettuati conguagli e molti hanno visto la propria pensione letteralmente decurtata, perchè quando bisogna operare trattenute, si interviene immediatamente, senza il consenso degli interessati; al contrario, se spetta un emolumento legittimo trascorrono mesi prima che l’importo si concretizzi sotto un profilo monetario. Le diatribe normative e politiche si intensificano soprattutto in questi tempi elettorali; quando si parla di pensioni, l’argomento riguarda esclusivamente chi è ancora in servizio per eventuali penalizzazioni; nessun segnale, spiraglio,

verso i veri pensionati, che continuano ad andare avanti con disponibilità sempre più insufficienti e inadeguate e non in grado di garantire condizioni di vita soddisfacenti. Basti ricordare che, relativamente agli incrementi annuali collegati al codice

ISTAT, è stato stabilito che l’aumento concreto, per l’anno 2009, era stato eccessivo, sicchè, a gennaio, si è provveduto a recuperare il di più e, per l’anno 2010, l’adeguamento dello 0,7% in relazione al reddito, è ridicolo, a fronte di una inflazione reale di circa il 10%. ✦

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Regolamento di disciplina sull’uso del Gonfalone, dello Stemma e dei Labari dell’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria Articolo 1 Riferimenti normativi Il presente regolamento viene predisposto con riferimento al R.D. 7 giugno 1943, n. 652, concernente il Regolamento per la consulta araldica, il D.P.R. 7 aprile 2000, n. 121, riguardante il Regolamento della disciplina dell’uso della bandiera della Repubblica Italiana e dell’Unione Europea da parte delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici, al D.Lgs.267/2000 Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali. Articolo 2 Gonfalone e Stemma Il Gonfalone e lo Stemma dell’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria (A.N.P.Pe.) sono quelli concessi, per configurazione e per dimensioni, con il D.P.R. 14 luglio 2008. Il Gonfalone è l’emblema con il quale l’A.N.P.Pe rappresenta unitariamente l’intera Associazione. Come attributo della personalità dell’Associazione, esso è proprio dell’Associazione medesima, che ne è titolare. Articolo 3 Custodia del Gonfalone Presso la Segreteria Nazionale dell’A.N.P.Pe vi sono due esemplari del Gonfalone: il primo, stabile, collocato presso l’ufficio del Presidente o presso quello del Coordinatore Nazionale ; il secondo, mobile, custodito in un apposito armadio. Articolo 4 Uso del Gonfalone Il Gonfalone rappresenta l’Associazione nelle manifestazioni e nelle cerimonie civili, militari e religiose, di tipo umanitario e solidaristico. Le manifestazioni promosse dalle Associazioni combattentistiche e dalle Forze di Polizia e partigiane sono assimilate a quelle pubbliche di interesse generale. La Segreteria Nazionale può disporre l’uso del Gonfalone in occasione di manifesta-

zioni e iniziative di interesse per comunità locali, organizzate da Enti, Associazioni e movimenti che perseguono obiettivi di interesse sociale, culturale, morale e civile della collettività. L’invio del Gonfalone è subordinato alla valutazione del carattere civile ed etico dell’iniziativa. Articolo 5 Scorta del Gonfalone Scortano obbligatoriamente il Gonfalone almeno due soci dell’A.N.P.Pe . Nelle cerimonie civili e militari il Gonfalone viene collocato dietro le Bandiere decorate al valor civile e militare. Quando il Gonfalone partecipa ad una cerimonia in luogo chiuso, esso si colloca alla destra del tavolo della Presidenza. Se alla riunione è presente la Bandiera nazionale, il posto d’onore è riservato a questa, a destra del Gonfalone. Articolo 6 Labaro Il Labaro è una insegna che riproduce lo Stemma dell’Associazione, di dimensioni ridotte rispetto a quelle del Gonfalone. E’ un vessillo, generalmente quadrato o rettangolare, sospeso ad una barra perpendicolare all’asta verticale. Articolo 7 Dotazione e uso del Labaro Ogni sezione dell’A.N.P.Pe. è dotata di Labaro, che riproduce lo stemma e riporta il nome della sede della sezione. Il Labaro riveste gli stessi colori del Gonfalone, per cui viene usato, a livello periferico, in ogni circostanza in cui non viene utilizzato il Gonfalone, nel rispetto dei medesimi criteri. Il Labaro sarà sempre scortato da almeno due soci dell’A.N.P.Pe., assumendo le stesse modalità di uso del Gonfalone. Articolo 8 Uso dello Stemma Lo stemma dell’A.N.P.Pe. ha lo scopo di contraddistinguere l’Associazione in tutte le iniziative culturali, promozionali e di co-

municazione poste in essere dall’Associazione; è di proprietà dell’Associazione ed è vietato, in via assoluta, a chiunque, di farne uso. Contraddistingue, inoltre, la partecipazione dell’Associazione ad iniziative promosse e attuate, a qualsiasi titolo e forma, da Enti pubblici, Enti locali, Società e Associazioni di cittadini, sempre nell’interesse della comunità. L’uso dello Stemma deve essere autorizzato dalla Segreteria Nazionale. Articolo 9 Medaglie Dopo cinque anni dalla costituzione, ogni sezione dell’A.N.P.Pe. viene insignita di una medaglia di bronzo. Dopo dieci anni dalla costituzione, ogni sezione dell’A.N.P.Pe. viene insignita di una medaglia d’argento. Dopo quindici anni dalla costituzione, ogni sezione dell’A.N.P.Pe. viene insignita di una medaglia d’oro. Le medaglie porteranno sul dritto lo Stemma dell’Associazione; sul retro sarà impressa la data dell’anniversario con la denominazione della sede. Articolo 10 Rinvio Le norme del presente regolamento si intendono modificate per effetto di sopravvenute disposizioni vincolanti, di carattere gerarchicamente superiori. In tali casi, in attesa di formale modificazione, si applica la normativa sopraordinata. Articolo 11 Casi non previsti Per quanto non previsto nel presente regolamento troveranno applicazione le norme nazionali, regionali e comunali. Articolo 12 Diffusione Il presente regolamento sarà trasmesso a tutte le Sezioni periferiche dell’A.N.P.Pe. per una corretta e puntuale osservanza. ✦

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Roma: Paliano: Incontro ANPPe il personale di Nel mese di dicembre 2009, si è svolto presso il ristorante La Pace di San Quirico Rebibbia salutA (FR) l’incontro annuale degli iscritti Anppe della provincia di Frosinone. Hanno partecipato più di 30 soci, alla presenza del Segretario Provinciale ANPPe Antonio Giuseppe Rossi; all’ordine del giorno il rinnovo del tesseramento e la relazione annuale di attività 2009. Cosentino L’incontro si è concluso con la rituale cena di fine anno. ✦

Nelle foto: a fianco il segretario ANPPe Giuseppe Rossi, il segretario SAppe Maria Antonietta Bentivoglio e il coordinatore del Nucleo Traduzioni della C.R. Paliano Gianguido Romolo. Sotto, l’annuale cena sociale

L’ispettore Superiore Sostituto Commissario Antonino Cosentino, dopo 40 anni di servizio (di cui 35 presso la Casa Circondariale Nuovo Complesso di Roma Rebibbia) è andato in pensione. Nella sua brillante carriera ha svolto compiti particolarmente delicati sotto il profilo della sicurezza, dimostrando sempre grande professionalità e senso del dovere. La Redazione esprime il più caloroso saluto al collega Cosentino, che ancora offrirà molta della sua esperienza all’ANPPe.

Campobasso: lutto in Segreteria

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Nel mese di febbraio 2010, è deceduto il socio dell’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria Mario Quaranta, di anni 60, della Sezione di Campobasso. Giungano alla famiglia le più sentite condoglianze.

Roma: siglata collaborazione tra l’ANPPe e l’ANVUP Il 24 febbraio 2010 a Roma, presso la sede A.N.P.Pe. di Via Trionfale 79A è stato firmato un documento tra I’A.N.P.Pe. Sezione di Roma con il Consigliere Nazionale Vincenzo De Felice e l’A.N.V.U.P. (l’Associazione Nazionale dei Vigili Urbani in pensione) Sezione di Roma con il Presidente Cav. Egidio Onori. Le due Associazioni, entrambi non aventi fini di lucro e che vantano una tradizione prestigiosa nelle rispettive attività istituzionali, considerata l’analogia di scopi statutari quali il rispetto della legalità, la solidarietà tra i soci e l’attaccamento alle Istituzioni nonché lo svolgimento di attività di volontariato in favore della collettività, hanno dichiarato di considerare gemellate le sezioni romane delle rispettive Associazioni che potranno, pertanto, svolgere attività in comune nelle seguenti materie: • Volontariato, che potrà comprendere attività di vigilanza presso Scuole, parchi, ville, monumenti, spiagge, musei; • Attività culturali, come visite a monumenti e partecipazioni ad eventi, spettacoli, manifestazioni. ✦

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Giuseppe Altavista Nato a Brienza il 22 marzo 1914, trascorse i primi anni in seno alla famiglia. Compiuti gli studi liceali classici, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli, conseguendo la laurea nel 1937 con il massimo dei voti. Negli stessi anni frequentava la Scuola Allievi Ufficiali di Napoli, prestando poi servizio quale sottotenente di complemento nel 31° Reggimento dell’Arma di Fanteria di stanza a Napoli. Nel 1939, avendo superato brillantemente il concorso, entrava in magistratura. Svolgeva, quindi, prima, il tirocinio come uditore giudiziario, presso la Corte di Appello di Potenza, venendo poi destinato alle funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna. In seguito all’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, fu richiamato alle armi nel novembre del 1940 e destinato, come tenente, al fronte greco-albanese, dove rimase dal 1941 al 1943, distinguendosi per molte azioni di estremo coraggio, tanto da ricevere la croce al merito di guerra. Nel marzo deI 1943, in quanto magistrato, fu assegnato quale sostituto procuratore al Tribunale Militare di Guerra delle Forze Armate per la Grecia, ad Atene, dove l’11 settembre 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, venne catturato dai tedeschi e condotto nel campo di concentramento di Luchenvald, in Polonia. Qui rimase fino all’aprile del 1945 (quando fu liberato dagli alleati), nelle più terribili condizioni di vita sopportando fame, sete, freddo e dovendo svolgere lavori forzati sotto il controllo armato dei tedeschi; in tale situazione rifiutò numerose volte di raccogliere le sollecitazioni degli ufficiali tedeschi che promettevano la libertà in cambio della Repubblica Sociale Italiana. Tornato in Italia nel 1945, in debolissime condizioni fisiche, non volle richiedere alcuna indennità o pensione per le sofferenze patite ritenendo di aver fatto solo il proprio dovere come cittadino italiano. Per questi meriti gli fu anche attribuito il distintivo della guerra di liberazione come partigiano. Rientrato in Italia riprese la sua carriera di magistrato venendo destinato alla Procura della Repubblica di Forli, dove, quale

Pubblico Ministero, si distinse per le brillanti dote requisitorie. Nel 1950 fu trasferito a Roma, al Ministero di Grazia e Giustizia, presso la Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, dove fu assegnato a funzioni direttive di sempre maggiore responsabilità, ricoprendo prima l’incarico di Direttore di vari Uffici (edilizia carceraria, personale carcerario, detenuti); successivamente venne nominato Capo della Segreteria della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, ufficio di coordinamento di tutte le attività di tale Direzione. Fu chiamato al Gabinetto del Ministro, prima come vice-capo, poi come capo, con vari Ministri succedutisi in quegli anni (Colombo, Reale, GoneIIa Zagari, Gava) per la particolare stima e fiducia che riscuoteva all’interno del Ministero, per la sua totale dedizione al lavoro e per la massima attenzione e competenza per tutte le problematiche giuridiche, tecniche e di carattere umanitario. Nel frattempo, avendo raggiunto nella carriera il grado di Magistrato di Cassazione e poi Presidente di Sezione, fu nominato nel 1973 Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, incarico che mantenne fino alla sua morte improvvisa il 30 dicembre 1979. In questi anni si prodigò per il riordinamento del personale degli istituti minorili, in particolare di quello del ruolo dei servizi sociali minorili e del personale presente negli istituti minorili; per migliorare la situazione di servizio, giuridica ed economica degli agenti di custodia, da lui ritenuti elemento fondamentale per il buon andamento dell’amministrazione carceraria. Soprattutto il suo impegno fu massimo per il miglioramento delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena, giungendo a far approvare dal parlamento la legge 354 del 1975, di riforma dell’ordinamento penitenziario, voluta e redatta sotto la sua direzione, che rappresenta una svolta storica per il sistema penitenziario italiano. Per l’opera umanitaria svolta soprattutto nei confronti dei detenuti è stato insignito anche Medaglia d’oro al Merito della Redenzione Sociale e di altri riconoscimenti da parte di fondazioni e istituti di carattere umanitario che operavano all’interno delle carceri. Contemporaneamente all’attività d’ufficio, ha svolto compiti delicati ed importanti in organizzazioni di carattere internazionale.

Nonostante l’attività professionale e culturale lo assorbisse totalmente, portandolo spesso anche all’estero, non ha mai dimenticato né trascurato la sua Brienza, mantenendo sempre stretti contatti con i suoi concittadini. Era a Brienza, infatti, che Giuseppe Altavista amava e desiderava trascorrere quei pochi giorni di riposo che durante l’anno poteva concedersi per recuperare le forze e ristorare lo spirito. Con cura si dedicava sempre ai problemi della comunità di Brienza, adoperandosi in prima persona.

Negli ultimi anni della sua vita e della sua attività lavorativa si trovò ad affrontare il problema del terrorismo, che in particolare nelle carceri si manifestò con la massima virulenza; si sacrificò fino allo stremo delle forze e con estremo coraggio per mantenere fermi i principi dello stato di diritto all’interno delle carceri.Per questo entrò nel mirino delle Brigate Rosse e fu iscritto nelle liste delle personalità da colpire; nonostante ciò non venne mai meno all’impegno del lavoro fino al termine della sua vita. In questi anni terribili non volle, infatti, chiedere il trasferimento ad altro incarico, per non abbandonare il proprio impegno per l’Amministrazione Penitenziaria. La morte improvvisa, avvenuta il 30 dicembre 1979, in piena attività di servizio, provocò un forte sentimento di dolore e rimpianto tra i suoi collaboratori e tra le Autorità del momento, tanto che furono intitolati alla sua memoria il Centro Studi Penitenziari e il Museo Criminologico con sede a Roma via del Gonfalone 29, l’Istituto penale per minori di Eboli e l’Istituto penale per minori di Lecce. In conclusione, si può ricordare il giudizio espresso dall’onorevole Guido Gonella, ex ministro di Grazia e Giustizia nel necrologio apparso sui quotidiani romani la mattina del 31 dicembre del 1979, che lo definì «vittima generosa di un logorante adempimento del dovere». ✦

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Nelle foto, in alto nel tondo Giuseppe Altavista sotto, Altavista passa in rassegna i plotoni schierati

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Catanzaro: inaugurazione dell’anno giudiziario el mese di gennaio 2010 si è celebrata a Catanzaro l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Qui, diversamente dalle altre sedi, non è stata attuata la protesta proclamata dall’A.N.M. (Associazione Nazionale Magistrati). Presenti all’inaugurazione numerose autorità civili e militari, una rappresentanza della Polizia penitenziaria e l’Autorità dirigente del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria.

Il Presidente vicario della Corte d’Appello, Dott. Gianfranco Migliaccio, ha voluto evidenziare la lotta alla ’ndrangheta capace di penetrare negli appalti pubblici, che in una regione come la Calabria, rappresentano il fattore principale di sviluppo. ✦ Giuseppe Cosenza

Vibo Valentia: primo Corso del metodo globale di autodifesa Si è tenuto a Vibo Valentia, nel mese di marzo 2010, il 1° Corso MGA riservato al personale di Polizia Penitenziaria dell’istituto Vibonese. Hanno partecipato al Corso circa 15 unità di Polizia Penitenziaria seguiti costantemente dai tre istruttori, ottenendo così ottimi risultati sia sul piano dell’apprendimento che quello dei risultati raggiunti. ✦ Franco Denisi

Torino: lutto

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Il 19 febbraio 2010, è scomparso prematuramente il collega Michele Signorile, prestava servizio presso la Casa Circondariale di Torino. Giungano alla famiglia le più sentite condoglianze da parte del personale della Casa Circondariale, della Segreteria Generale del Sappe e della Rivista.

Napoli: record di presenze di detenuti negli istituti campani La Campania è tra le prime tre Regioni italiane con il record di presenze di detenuti, ad un passo dalle 8mila presenze, numero mai registrato neppure ai tempi dell’indulto del 2006, considerato che al 31 gennaio scorso i detenuti presenti erano 7.774 rispetto ad una capienza tollerabile di 5.311 posti letto. Il Segretario Generale Donato Capece il Segretario Generale Aggiunto Umberto Vitale e il Segretario Nazionale Emilio Fattorello hanno visitato ben 10 delle 17 strutture penitenziarie regionali, constatando come al costante e crescente affollamento della popolazione detenuta ristretta in Campania non corrisponde purtroppo un adeguamento degli organici della Polizia Penitenziaria, carenti nelle 17 carceri regionali di ben 200 agenti in meno rispetto a quanto previsto. Nel ricordare l’apprezzamento già espresso dal Sappe all’annunciato piano carceri del Governo, Capece auspica che se ne vedano presto gli effetti anche in Campania: «Il piano carceri dovrebbe dare indubbiamente una “scossa” salutare al sistema. Speriamo ad esempio che per effetto delle annunciate nuove assunzioni (con procedure di urgenza) di 2.000 unità di Polizia Penitenziaria l’Amministrazione penitenziaria predisponga con urgenza un piano di mobilità del Personale in servizio nelle sedi del Nord che aspira ad essere trasferito nelle Regioni meridionali (come la Campania) e che le previste norme di accompagnamento finalizzate ad attenuare il sistema sanzionatorio per chi deve scontare un piccolissimo residuo di pena, contenute nel piano carceri del Governo, portino ad una effettiva riduzione di detenuti nelle carceri campane».

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Reggio Calabria: il Prefetto risponde al SAPPe

dare ulteriore conferma dell’impegno e della disponibilità di questa Prefettura, ed il mio personale, ad adoperarsi al fine di dare avvio ad ogni soluzione praticabile. ✦ Luigi Varratta

Fiocco Rosa

Ho ricevuto la lettera deI 26 gennaio scorso e desidero innanzitutto ringraziare per le cortesi espressioni di saluto rivoltemi in occasione della mia nomina a Prefetto di questa città. Se pur sia passato poco tempo dal mio insediamento, mi sono ben note le problematiche della Casa Circondariale di Reggio Calabria, le gravose condizioni in cui quotidianamente opera il personale della Polizia Penitenziaria e le drammatiche condizioni di vita dei detenuti ivi ristretti.

Una situazione che altro non è se non la cassa di risonanza del più generale disagio del sistema penitenziario nazionale, ormai giunto al collasso, come più volte denunciato e da più parti. Questo ufficio, sensibile alle richieste di attenzione pervenute da codesto sindacato e dalle altre sigle di categoria, si è fatto portavoce delle criticità segnalate presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, da ultimo con prefettizia del 9 ottobre scorso. In questa circostanza desidero

Il 7 marzo è nata Noemi Caputi figlia dell’Ispettore Mauro e di Anna. Ai neo genitori vanno le felicitazioni della Redazione ed in particolare quella dell’Appuntato Caputo...

Roma: consiglio regionale del Lazio Si è svolto lo scorso 2 marzo 2010, presso il Ristorante Il Maniero di Villa Adriana (Roma), il Consiglio Regionale del Lazio. All’incontro hanno partecipato i Segretari provinciali della Regione, tutti i segretari locali dei 21 istituti penitenziari laziali e i componenti della Segreteria Generale a partire da Donato Capece, Giovanni Battista De Blasis, Roberto Martinelli e Umberto Vitale. Ospite d’onore il Capogruppo Pdl alla Regione Lazio Fabio Armeni che ha espresso all’assemblea il suo saluto e della compagine che rappresenta. Durante i lavori del Consiglio sono stati oggetto di discussione molteplici temi sono stati messi in risalto l’endemica carenza di personale, i carichi di lavoro, l’indennità meccanografica, l’edilizia agevolata, la doppia presenza, le nuove tute di servizio, il benessere del personale etc; tutte argomentazioni che saranno portate all’attenzione dei vertici del Ministero della Giustizia, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Provveditorato Regionale. Sono state anche analizzate l’azione politica intrapresa negli ultimi anni e le nuove proposte che saranno oggetto di riflessione per il prossimo futuro, oltre alla relazione sull’andamento degli iscritti nella Regione. Un ringraziamento particolare a Lionello Pascone, per la

sua opera di fine verbalizzatore e collaboratore. Ringrazio, altresì, il collega Andrea Arzilli per l’ottima opera multimediale. Maurizio Somma

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Vancouver e dintorni i Giochi Paralimpici Invernali

A lato, il logo delle Paralimpiadi di Vancouver sotto, Gianmaria Dal Maistro e Tommaso Balasso festeggiano la conquista della medaglia olimpica

Giochi invernali per normodotati si sono conclusi per le Fiamme Azzurre, con il miglior piazzamento di Cecilia Maffei al sesto posto nello short track. Mentre andiamo in stampa però ci giunge un raggio di sole dal freddo di Vancouver: Gianmaria Dal Maistro e la guida Tommaso Balasso, rappresentanti i nostri colori nella squadra azzurra paralimpica impegnata in Canada dal 12 al 21 marzo, sulle nevi di Whistler Creekside, hanno conquistato nello slalom la prima medaglia per le Fiamme Azzurre nella storia dei Giochi invernali. La medaglia, di bronzo, è arrivata nello Slalom maschile per visually impaired. Terzi al termine della prima manche con condizioni meteo proibitive a causa della nebbia ed un ritardo di 86 centesimi dagli spagnoli Santacana-Galindo, hanno fermato il cronometro, nella seconda manche su 57.58, confermando il terzo posto. L’Oro è andato agli slovacchi Krako / Medera, l’Argento agli spagnoli Santacana / Galindo. Nel gigante di sci alpino Gianmaria si è ripetuto conquistando il suo secondo bronzo. Stesso copione dello slalom: l’oro è andato ugualmente alla coppia

Vancouver : classifica finale dello slalom cat. “Visually impaired” 1. Jakub Krako-Juraj Medera SVK 1’45”82 2. Jon Santacana-Miguel Galindo ESP 1’46”91 3. GIANMARIA DAL MAISTRO-TOMMASO BALASSO ITA 1’48”32 4. Miroslav Haraus-Martin Makovnik SVK 1’48”38 5. Norbert Holik-Lubos Bosela SVK 1’50”10 6. Chris Williamson-Nick Brush CAN 1’51”12

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slovacca Krako/Medera, l’argento agli spagnoli Santacana/Galindo. E dato che non c’è due senza tre, al penultimo giorno di gare, Gianmaria Dal Maistro, con Tommaso Balasso, hanno vinto la terza medaglia di questa edizione conquistando l’Argento nella Super Combinata Visually Impaired.

Tom e Jerry, dopo il quarto posto nella frazione di Super G, hanno recuperato due posizioni nello Slalom chiudendo al secondo posto e conquistando la medaglia d’Argento. Una olimpiade da incorniciare per i due talenti delle Fiamme Azzurre e da guardare con orgoglio da parte di tutto il Comitato Paralimpico guidato da Luca Pancalli. I due campioni nostrani, da soli, hanno contribuito in maniera determinante a che l’edizione 2010 dei Giochi parli italiano in almeno tre delle specialità invernali in gara. Meravigliosamente abili, Gianmaria e Tommaso ci hanno regalato una grande gioia dopo le piccole e grandi delusioni olimpiche. Delusioni che non sono da addetti ai lavori che si attendevano una pioggia di medaglie dalle Fiamme Azzurre in gara, sebbene intendiamoci, sarebbe stata una pioggia gradita una volta tanto. A noi in fondo il bicchiere risulta mezzo pieno considerando anche solo la partecipazione a Vancouver di una buona rappresentanza del team della Polizia Penitenziaria e pensando in prospettiva all’esperienza accumulata da atleti giovanissimi che potranno dire la loro di qui in poi nelle kermesse a cinque cerchi. La delusione per le medaglie mancate è stata di altri nel quadro più in generale della débacle azzurra in fatto di podi complessivamente conquistati alla fine dei Giochi da tutti gli atleti presenti, e alla prova in ombra dell’elemento più in vista in azzurro e delle Fiamme Azzurre, Carolina Kostner. Riguardo alla prova di Carolina però, la questione va separata in due parti: il

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a cura di Lalì info@sappe.it Redazione sportiva

podio mancato e la prova in se per se. Di podio chi è più vicino all’ambiente del pattinaggio italiano ed internazionale non ha mai parlato alla vigilia. Nemmeno dal quartier generale delle Fiamme Azzurre si era mai pensato di caricare la nostra portacolori della responsabilità di dove tornare dal Canada con la medaglia al collo. La speranza era che intanto rientrasse nelle dieci, col beneficio di quelle punte di eccellenza che le sono state congeniali in molte occasioni passate e che possono anche fare la differenza se le avversarie non sono proprio precisissime. Solo a quel punto la zona podio sarebbe stata più vicina pur restando blindatissima dalla potenza coreano-giapponese che monopolizza ormai la scena internazionale ed è destinata a continuare a farlo per molto anche in futuro a giudicare dalle giovanissime leve che si sono messe in evidenza con un esordio olimpico brillantissimo in terra canadese. Tra tutte la nippo-americana, compagna di allenamento di Carolina e allenata ugualmente da Frank Carrol, Mirai Nagasu, quarta a sedici anni. Di più di un posto nelle dici non si poteva assolutamente chiedere a Carolina: pur eguagliando il punteggio di Tallin che le era valso il titolo d’Europa appena un mese prima di Vancouver sarebbe giunta nona, lontana dalla terza posizione della canadese Joannie Rochette con 202.64 punti, dall’argento della giapponese Mao Asada che ha chiuso a 205.5 e a distanze da Everest dall’inarrivabile Yu Na Kim. Proprio la coreana, semplicemente di un altro pianeta, è stata la prima donna a superare il muro dei 200 punti. Ha eseguito in aria l’impossibile atterrando con la leggerezza di una piuma, e, misura del suo enorme talento, è stata in grado di far sembrare semplice e naturale uno sport che è forse tra i più complicati al mondo. Con il suo score finale sarebbe entrata anche nei dieci della classifica maschile. La prima terrestre dopo di lei, Mao Asada, ha convinto, l’atleta di casa Joannie Rochette, bronzo finale, ha commosso il mondo gareggiando a pochi giorni dalla morte della madre, fulminata da un infarto, ed è stata una prova di nervi ben saldi la sua prestazione oltre ai meriti tecnici dimostrati. E Carolina? Non sorride più all’ingresso sul ghiaccio come le si era visto fare all’europeo, parte l’aria di Bach, è tesa, si vede, dovrebbe iniziare con un salto triplo-doppio-doppio, ma sul

triplo mette le mani a terra e quindi i due doppi abortiscono. Sul successivo triplo lutz cade ma pare voler reagire. Dopo il primo axel e doppio riusciti il Coliseum Palace la rincuora con un caloroso applauso. Triplo flip e di nuovo è a terra. Il pubblico la sostiene ancora. Triplo loop e terza caduta. Il Coliseum a questo punto diventa anch’esso di ghiaccio. Poi esegue gli angeli e la serie di passi, ma la gara è irrimediabilmente andata e la finirà in sedicesima posizione, facendo peggio di Torino 2006 ed era dura riuscirci, uscendone delusa quanto al mondiale di Los Angeles e con le mani sul volto quasi a non voler credere a quei quattro minuti da incubo per lei e per chi l’ha guardata. Il giudizio della stampa è spietato. Cominciano ad arrivare titoli al limite delle offese personali che la definiscono regina immaginaria, cenerentola senza magia, fragile, pesante, confusionaria ed incapace di comprendere lo scarto che c’è tra quel che è e quel che dice di voler essere, sul web qualcuno la ribattezza Cadolina, la sua prova è giudicata come quattro salti in padella, uno strazio, un pianto, un ruzzolare contro se stessa. Tra le frasi più demolitorie c’è quella di un noto quotidiano nazionale non sportivo che si chiede: «C’è qualcuno in grado di prenderla per mano, nella sua sensibilità un po’ autistica, in grado di farle capire che il tempo invecchia in fretta e che i fantasmi (si legga i fantasmi che ha dentro di lei) muoiono appena si smette di sognarli?» Queste citazioni sono solo una selezione minima del tanto che si è scritto e del troppo che si è detto. Il Presidente del Coni Petrucci, che adora il carro dei vincitori ed in genere si limita ad avere parole solo per quelli che vi salgono dopo prestazioni da podio, ha chiosato sulla vicenda affermando che Carolina «Non sarà mai una campionessa». Il perché di tanto accanimento contro di lei dopo le altre sconfitte della spedizione azzurra tutto sommato passate in sordina, è da rintracciarsi nell’enorme campagna mediatica che è stata fatta da sempre intorno alla figura del talento gardenese e nelle aspettative tutte giornalistiche di successi sportivi sempre più alti che ne legittimino fama e attenzioni degli sponsor. La Kostner è stata fatta oggetto di previsioni verticistiche nelle classifiche internazionali in modo esponenziale rispetto alla

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A fianco, Cecilia Maffei con le compagne di staffetta

Gianmaria Dal Maistro e Tommaso Balasso portabandiera italiani alle Paralimpiadi di Vancouver 2010

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Alcune immagini di Carolina Kostner alle Olimpiadi di Vancouver

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crescita della sua popolarità, ma in tutto questo scrivere, attendersi molto e caricare di responsabilità la persona che sul ghiaccio ha finora vinto più di chiunque altro nella storia del pattinaggio di figura azzurro, nessuno o quasi si è soffermato a guardare l’evoluzione rapidissima del pattinaggio che da artistico (qual è quello da sempre praticato da Carolina) è diventato nel giro di pochi anni acrobatico, funambolico e pazzescamente tagliato su misura per le esili e minute coreane e giapponesi tanto da precludere il cammino di chiunque nella rincorsa a quelle posizioni di vertice. Tutti erano convinti dell’idea che Carolina, la Winx sui pattini, avesse dovuto vincere come all’europeo di Tallin, la gara senza Giappone e senza Korea. Speriamo che da Vancouver in poi si ritorni alla valutazione della realtà per quella che è e che il flop innanzitutto delle previsioni giornalistiche prima che della prova dell’atleta delle Fiamme Azzurre suggeriscano ponderazione nell’incensare o buttare giù dalla torre i campioni. Speriamo che Carolina stessa ritrovi la tranquillità di essere semplicemente il talento che è magari tornando a sorridere, e a divertirsi quando pattina abbandonando per prima l’idea, o il terrore, di dover vincere ad ogni costo. Se ai mondiali di Torino del prossimo 27 marzo ci riuscisse, sarebbe già quella una grande vittoria. Storia dei giochi paralimpici e di Tom & Jerry La prima edizione dei Giochi Paralimpici si svolse nel 1976 a Ornskoldsvik, in Svezia, e dalla edizione del 1992 (Albertville) la manifestazione viene ospitata dalla stessa sede alla quale sono stati assegnati i Giochi Olimpici. Fondamentale conquista

per la visibilità di tutto il movimento sportivo paralimpico è stata la decisione di trasmettere da questa edizione tutte le gare ed in diretta. Ci si può augurare che ciò sia solo un primo passo deciso per abbandonare l’abitudine di parlare di campioni di tale valore solo per brevi flash a margine di qualche trasmissione sportiva. I Paesi partecipanti a Vancouver sono passati dai 39 di Torino 2006 agli attuali 44 e gli atleti iscritti da 474 a 507. Quattro anni fa gli azzurri conquistarono otto medaglie complessive (2 ori, 2 argenti e 4 bronzi), anche per merito di Dal Maistro e Balasso. Gianmaria, nato trent’anni fa a Schio (4 dicembre 1980) è il portabandiera azzurro alla cerimonia di apertura dei Giochi. A soli quattordici anni c’è stata la sua prima convocazione in azzurro. Nel 1996 esordisce ai campionati mondiali austriaci di Lech giungendo quarto nello slalom gigante. Nel 1998 ai giochi Paralimpici di Nagano 1998 conquista due argenti ed un bronzo, due anni dopo fa sua anche la Coppa del Mondo di specialità nello slalom speciale. Alle Paralimpiadi statunitensi di Salt Lake City 2002 è stato argento nello slalom gigante. Nel 2003 vince la Coppa del Mondo di specialità nel super gigante ed ai mondiali di Wildshonau (Austria) del 2004 porta a casa due argenti ed un bronzo. Il risultato più importante della sua carriera, sogno di qualunque atleta magnificamente dotato come lui, è stato l’oro nel Super gigante delle IX Paralimpiadi invernali di Torino 2006. ✦

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Alfredo Gambardella

LE COLONIE PENALI NELL’ARCIPELAGO TOSCANO IBISKOS ULIVIERI Editore ’istituzione delle colone penali agricole e in particolare l’esperienza relativa alle isole dell’Arcipelago Toscano, rappresentano, nella storia delle istituzioni penitenziarie, un esempio significativo di come sia possibile prevedere soluzioni alternative alla pena detentiva scontata nelle carceri, tradizionalmente intese come luoghi chiusi. Per la sua specifica natura è stato necessario trattare l’argomento da vari punti di vista. Nel primo capitolo è stata ricostruita la genesi storica delle colonie penali con particolare riferimento alla realtà toscana, partendo dalla istituzione nel 1858 dell’isola-carcere di Pianosa. Oltre a ciò, ci sono alcuni riferimenti all’esperienza delle colonie penali italiane d’oltremare, nonché all’istituto del domicilio coatto, che, con le colonie agricole ha in comune il sistema della relegazione insulare (molte isole, in particolare Capraia nell’arcipelago toscano, ospitarono entrambi gli istituti). Nel secondo capitolo, invece, sono stati considerati gli aspetti più propriamente politici e giuridici che interessano le colonie penali, riportando, per le varie epoche storiche, la normativa, le discussioni dottrinali, i commenti che gli studiosi facevano sull’istituto. Particolarmente significativo è stato lo studio riguardante la contrapposizione ideologica tra scuola classica e scuola positiva circa il ruolo che esse dovevano avere nel sistema punitivoi e le conseguenze da ciò derivate nella formulazione del codice penale Rocco del 1931. Nel terzo capitolo sono stati esaminati gli aspetti più propriamente sociologici, in particolare il trattamento penitenziario cui erano sottoposti i reclusi all’interno delle colonie, gli orari che dovevano rispettare e il lavoro che dovevano svolgere, soprattutto in relazione al secondo dopoguerra, indicando quindi i motivi che hanno determinato la progressiva chiusura di tale tipologia d’istituto. Inoltre è stato considerato l’utilizzo sul finire degli anni Settanta delle colonie penali come istituti di massima sicurezza, con particolare attenzione all’isola dell’Asinara in Sardegna, in quanto si sono rilevate alcune affinità tra questo istituto e il regime adottato nella sezione speciale (Agrippa) dell’isola di Pianosa. Concludendo, è stato preso in esame l’attuale esperienza di Gorgona dove lo spazio disponibile nel contesto isolano rappresenta una variabile importante per compiere attività che in altre carceri non sono possibili e che sono un elemento fondamentale nella moderna funzione risocializzante del sistema carcerario. Fondamentale è stata l’attività di ricerca, da parte dell’autore, delle fonti reperite nell’Archivio di Stato di Firenze, che ha permesso di accedere ad antichi regolamenti e carteggi ufficiali del Ministero di Grazia e Giustizia (ora della Giustizia), nonché a testimonianze scritte di funzionari, operatori e detenuti. Dalla trattazione sulle colonie penali agricole è emerso che l’istituto ha avuto diverse finalità e diverse modalità di realizzazione sia in relazione alle epoche storiche sia ai luoghi dove è stato concepito e attuato. E’ stato assunto il lavoro, in particolare quello organizzato all’aria aperta, come l’aspetto distintivo delle colonie penali, che of-

frono ai detenuti la possibilità di espiare la loro pena in un ambito meno costrittivo, seppur in molti casi non sempre favorevole. Infatti la scelta della insularità, che caratterizza la quasi totalità delle colonie, se da una parte ha garantito una maggiore sicurezza, tenendo conto che i detenuti si possono muovere abbastanza liberamente in uno spazio determinato, dall’altro ha presentato numerosi risvolti negativi, primo tra tutti la lontananza che ha fortemente limitato la socialità dei detenuti e del personale. Altro aspetto negativo è rappresentato dai costi di gestione che questi istituti dovevano sopportare a causa, soprattutto, dei problemi di trasporto. Si è giunti pertanto alla chiusura di gran parte degli istituti penitenziari presenti nelle isole, dopo che essi hanno ricoperto nel corso del Novecento un ruolo importante in alcune emergenze politiche e sociali relative a epoche e a contesti storici diversi. Pertanto le isole hanno subito una sostanziale trasformazione: da luoghi di detenzione privilegiata (per il fatto di svolgersi all’aperto), a luoghi punitivi. Pensiamo ad esempio, in epoca fascista, al domicilio coatto che venne riservato a coloro che non intendevano uniformarsi alle idee politiche dominanti o governative, divenendo così strumento di repressione e di coercizione ideologica; fino alla istituzione di istituti di massima sicurezza (Pianosa) che hanno rappresentato la risposta dello Stato di fronte all’emergenza mafiosa e terroristica. Il presente è caratterizzato dall’esperienza di Gorgona, dove si è recuperato lo spirito originario delle isole-carcere. Essa è un modello positivo di organizzazione di lavoro e socialità, che, pur con i problemi inevitabili in un contesto carcerario, può rappresentare un’alternativa valida alle tradizionali carceri chiuse con il loro carico di disagio e la mancanza di prospettive motivanti . Il carcere chiuso ha avuto un esito nel complesso positivo soprattutto nella realtà attuale (Gorgona), dopo un lungo percorso di esperienze che hanno mostrato lo scollamento tra le finalità dichiarate (dare un’occupazione ai condannati, favorire la loro emenda morale, risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri) e le effettive situazioni di disagio e di precarietà delle condizioni di vita e di lavoro dei detenuti. Le riflessioni espresse riguardo al sistema carcerario hanno come punto di partenza i problemi attuali della detenzione penitenziaria (sovraffollamento, mancanza di prospettive di lavoro, scarse attività risocializzanti, ecc.) e come punto di arrivo le prospettive future che si fondano sulla validità dell’esperienza di Gorgona. Gli aspetti rilevanti di tale esperienza consistono nel fatto che il lavoro è considerato l’elemento cruciale del trattamento penitenziario, (ciò limita gli aspetti demotivanti e apre prospettive future sul piano lavorativo); inoltre una permanenza in cella limitata alle sole ore notturne permette ai detenuti di trascorrere gran parte della giornata all’aria aperta con gli evidenti benefici che essa comporta. Tutto ciò non esclude che siano presenti problemi legati soprattutto alla lontananza dalla terraferma con i conseguenti disagi per i detenuti, il personale addetto alla struttura e i loro familiari, tutti elementi che hanno contribuito in modo determinante alla progressiva chiusura delle colonie. ✦

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Nella foto, la copertina del libro

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Il Profeta

In alto, la locandina del film sotto, alcune scene

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l film Il Profeta è un prison movie francese che racconta la metamorfosi di Malik, un 19enne finito in galera, che lentamente e progressivamente si trasforma da manovale della delinquenza al servizio di una banda di corsi in un piccolo boss perfettamente in grado di badare ai suoi interessi . Nel film ritroviamo tutti gli stereotipi tipici del cinema carcerario, usati tutti con intelligenza, ai quali si vanno via, via aggiungendo tutte le caratteristiche e le dinamiche dei grandi gangster movie della storia recente e meno recente del cinema. Malik El Djebena ha soltanto 19 anni quando viene condannato a sei anni di prigione. Entra in galera senza niente, una banconota e dei vestiti troppo usurati, che secondo la Polizia Penitenziaria non vale nemmeno la pena di conservare. Quando esce è a capo di un impero, con tre macchine che lo scortano in giro per la città. Tra i due Malik c’è il carcere, la protezione offertagli da un mafioso corso, l’omicidio come rito d’iniziazione, l’acquisizione di conoscenze e traffici, le incursioni in permesso fuori dal carcere, dove gli affari prendono il via. Certamente, tutto ciò avviene all’interno di una prigione il cinema lo ha già raccontato tante altre volte, così come ci ha già raccontato della nascita di un padrino. La novità di Malik è nella capacità di apprendere in fretta. Il ragazzo impara ad uccidere ma, allo stesso tempo, impara anche che nel carcere c’è una scuola dove possono insegnargli a leggere e a scrivere. Impara da autodidatta il dialetto franco-italiano della Corsica. Si procura un’arma, che obbligherà il capo a tener conto di lui. Dagli arabi impara a capire cosa vogliono, dai Marsigliesi impara a trattare, da un amico, forse, imparerà a voler bene. I compagni di galera prendono a definirlo un profeta, perché lui è quello che parla, con gli uni e con gli altri, quello che porta i messaggi dentro e fuori, che conosce la gente che può far comodo negli affari. Egli fa grandi cose, insomma; la sua via è tracciata come quella di chi ha una missione. Alla fine, il regista Audiard ci racconta l' universo senza speranza delle carceri francesi, dove si impara solo a essere più violenti e più avidi di quanto non si fosse prima di entrare.

La scheda del Film Regia: Jacques Audiard Altri titoli: A Prophét Tratto da un’idea Abdel Raouf Dafri Soggetto: Abdel Raouf Dafri Sceneggiatura: Abdel Raouf Dafri (sceneggiatura originale), Nicolas Peufaillit (sceneggiatura originale), Jacques Audiard Thomas Bidegain Fotografia: Stéphane Fontaine Musiche: Alexandre Desplat Montaggio: Juliette Welfling Scenografia: Michel Barthélémy Costumi: Virginie Montel Produzione: Why Not Production, CHIC Films, Page 114, BIM, France 2 Cinéma, UGC, Celluloid Dreams Distribuzione: BIM Personaggi ed Interpreti: Malik El Djebena: Tahar Rahim César Luciani: Niels Arestrup Ryad: Adel Bencherif Jordi: Reda Kateb Vettorri: Jean-Philippe Ricci Reyeb: Hichem Yacoubi Professore: Gilles Cohen Pierre Leccia Antoine Basler Jean-Emmanuel Pagni Prix al Frédéric Graziani • Grand val di ti Genere: Drammatico 62° Fes 2009). Cannes ( Durata: 153 minuti Origine: Francia, 2009

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a cura di G. B. De Blasis

Stammheim l film del regista Reinhard Hauff narra la storia e le vicende del famigerato gruppo terroristico tedesco Baader-Meinhof, esponenti di spicco dell’organizzazione RAF. Il 21 maggio 1975 a Stammheim, nei pressi di Stoccarda sede di un moderno supercarcere, inizia il processo proprio ad Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin e Jan Carl Raspe, quattro terroristi che volevano cambiare la società con la forza delle armi, responsabili di numerosi attacchi a banche, lanci di bombe, sparatorie con la polizia che comportarono vittime da entrambe le parti. I quattro terroristi furono arrestati nel 1972 e subirono più di tre anni di detenzione preventiva in completo isolamento tra scioperi della fame e proteste per ottenere condizioni migliori di detenzione. Il processo durò due anni e si concluse con la condanna all'ergastolo degli imputati (rimasti in tre dopo che la Meinhof si suicidò in cella nel maggio del 1976). Nell'ottobre del 1977 si concluse definitivamente la tragica storia della RAF, allorquando i tre terroristi superstiti vengono trovati tutti morti nelle loro celle e le Autorità decretarono ufficialmente quale causa della morte, il suicidio di gruppo.

A fianco, la locandina sotto, alcune scene del film

La scheda del Film Regia: Reinhard Hauff Soggetto: Tratto dal libro omonimo di Stefan Aust Sceneggiatura: Stefan Aust Fotografia: Frank Bruhne Musiche: Marcel Wengler Montaggio: Heidi Handorf Produzione: Bioskop Munchen - Thalia Theater, Mamburg Distribuzione: IMC (1987) - CD Videosuono Personaggi ed Interpreti: Ulrike Meinhof: Therese Affolter Peter Danzeisen Hans Kremer Holger Mahlich Horst Mendroch Presidente della Corte: Ulrich Pleitgen Hans Christian Rudolph Andreas Baader: Ulrich Tukur Gudrun Ensslin: Sabine Wegner Genere: Drammatico Durata: 104 minuti, Origine: Germania Orientale (DDR), 1986 va l d i O al Festi R 'O D O • OR S 986 anni Berlino 1 ai minori di 18 • Vietato

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Aldo Maturo* avv.maturo@gmail.com

Storia di ordinaria ingiustizia ome ammazzare la moglie e vivere felici. E’ una delle storielle che Bruno Tinti, Procuratore Aggiunto di Torino, riporta nel suo libro Toghe rotte, cronaca di ingiustizia quotidiana, raccontata da chi la giustizia la fa tutti i giorni. Il libro, con la presentazione di Marco Travaglio, è scritto da Tinti ed altri colleghi che hanno deciso di condurre per mano il lettore nelle aule dei nostri tribunali per fargli toccare con mano la giustizia ingiusta.

L’autore del libro Bruno Tinti

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Non è un libro per addetti ai lavori. E stato scritto per essere letto da tutti, chiaro, semplice, spietato, divertente. Ritornando alla nostra storiella, diciamo subito che le mogli possono stare tranquille. La storia è reversibile e può essere destinata anche ai mariti: la riassumo in maniera ancora più semplice di quanto ha fatto l’autore sfrondandola di tutti gli aspetti tecnici per renderla accessibile al comune lettore. Forse è al limite dell’as-

surdo, ma non tanto. E’ però indicativa di come, scattando determinati meccanismi processuali, pur a fronte di un delitto, si possa uscire dalla porta principale del tribunale invece che da quella sotterranea che porta al carcere. Un uomo, all’inizio del 2006, dopo aver sperperato tutti i beni della moglie senza fargliene accorgere (in realtà l’ha truffata) decide di ucciderla e lo fa anche in maniera spietata, come solo si può fare quando l’amore si trasforma in odio. Commesso il delitto, chiama il suo avvocato e si fa accompagnare dai carabinieri dove confessa, a verbale, sapendo che la presenza dell’avvocato darà valenza processuale al verbale e alla sua confessione. Dichiara di aver ucciso la moglie perché, asserisce, lo tradiva con il suo migliore amico, descrive le modalità, indica il luogo dove si trova il cadavere, consegna l’arma del delitto e le chiavi dell’appartamento per consentire di verificare quanto ha dichiarato. I carabinieri corrono a casa e possono constatare che è tutto vero, avvisano il Pubblico Ministero di turno, fanno gli accertamenti e i rilievi del caso. Il nostro uomo non viene arrestato perché il Pubblico Ministero sa che il Giudice delle Indagini Preliminari difficilmente concederebbe la custodia cautelare mancando uno dei tre requisiti previsti dall’art.274 del codice di procedura penale (quello sul banco degli imputati anche in questi giorni ogni volta che il magistrato scarcera qualcuno), indispensabili per tenere una persona in carcere. In particolare: a) non sussiste pericolo di inquinamento di prove, perché è stato lo stesso marito ad avvertire i carabinieri, ha confessato il delitto, ha offerto spon-

taneamente tutte le prove necessarie e quindi non c’è più niente da inquinare; b) non sussiste pericolo di fuga per gli stessi motivi. Se avesse voluto fuggire non sarebbe andato dai carabinieri accompagnato dal suo avvocato; c) non sussiste pericolo di reiterazione del reato, perché di certo non se ne andrà in giro ad uccidere mogli. Una ne aveva, l’ha uccisa e ormai basta così. D’altra parte il suo comportamento processuale è stato ineccepibile: si è costituito, ha confessato, si è messo a disposizione degli inquirenti. L’indagine si conclude e in pochi mesi viene portato davanti al Giudice con l’accusa di omicidio aggravato. Pena prevista: ergastolo. A questo punto scatta la strategia difensiva e tramite i suoi legali chiede di essere processato con il rito abbreviato, che prevede la riduzione di un terzo della pena. Di fronte alle due circostanze aggravanti - omicidio con sevizie e reato commesso al fine di occultarne un altro (non far scoprire alla moglie la truffa) - chiede le attenuanti avendo scoperto che lei lo aveva tradito con il suo amico. Questi, d’accordo con il marito omicida, confermerà integralmente tale versione, fornendo eventualmente anche particolari che avvalorano il rapporto, tanto la signora è morta e di certo non potrà smentirlo. L’omicidio quindi è stato commesso in uno stato d’ira dovuto a fatto ingiusto di lei e merita questa forma di attenuante (art.62 comma 2 codice penale). Il nostro protagonista si preoccupa anche di risarcire il danno ai parenti della moglie, per cui merita anche l’attenuante del risarcimento danni (Art.62

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comma 6 codice penale). Se poi gli si aggiungono le attenuanti generiche (è stato sempre un lavoratore, non ha mai preso una contravvenzione, ha confessato, etc..) avrà messo sul piatto della bilancia una serie di circostanze attenuanti che il giudice dovrà valutare per vedere se “pesano” più delle aggravanti, cioè se sono prevalenti. Se decide in tal senso la pena prevista passa dall’ergastolo alla reclusione da 24 a 30 anni : considerata la dinamica dei fatti è altamente probabile che si partirà dai 24 anni. Con una prevedibile contabilità processuale, il nostro imputato comincia a scalare dai 24 anni iniziali le riduzioni dovute per le attenuanti : meno un terzo di pena per lo “stato d’ira”, meno un terzo di pena perché “ha risarcito” i familiari, meno un terzo di pena per le “attenuanti generiche” che non si negano a nessuno, arriva ad un residuo di sette anni e mezzo. Siccome ha chiesto il rito abbreviato bisogna decurtare un altro terzo e siamo a cinque anni. Però i fatti sono avvenuti prima del 2 maggio 2006 - termine previsto per fruire dell’ultimo indulto - ed allora gli spetta anche lo sconto di questi tre anni di indulto. Ne restano quindi due. A questo punto, dice,

o gli viene data la sospensione condizionale della pena (prevista per le pene fino a due anni) o gli viene dato l’affidamento in prova al servizio sociale (previsto per le pene fino a tre anni). In realtà il nostro protagonista si è dimenticato che gli sconti hanno un limite e che un altro articolo (il 67 del codice penale) prevede che quando concorrono più circostanze attenuanti la iniziale pena dell’ergastolo non può ridursi a meno di 10 anni di reclusione. Ma lui non si demoralizza. Vanno bene anche 10 anni, però bisogna sempre togliere i 3 anni dell’indulto 2006 e siamo a 7, che non sconterà tutti perché per ogni anno di carcere con buona condotta lo Stato “regala” 90 giorni di sconto che valgono come pena espiata: si chiama liberazione anticipata. Maturata la metà pena (tre anni e mezzo di cui ha espiato veramente solo due anni e mezzo o poco più perché l’altro anno è solo virtuale ed è il frutto di 315 giorni di sconto per la citata liberazione anticipata) potrà chiedere di essere ammesso alla semilibertà (uscirà dal carcere al mattino e ci ritornerà la notte solo per dormire) e dopo qualche mese, appena sceso sotto i tre

anni residui, potrà chiedere di essere ammesso ai servizi sociali, che significa stare a casa, lavorare, fare una vita normale ed essere controllati di tanto in tanto da un’assistente sociale. Da una pena prevista di 24 anni, per una perversa applicazione di norme tecnico giuridiche, ne potrebbe scontare solo due e mezzo. Il meccanismo ha funzionato e tutto sommato il carcere sarà solo un breve incidente di percorso per liberarsi della moglie (o del marito, se la protagonista è una lei). Quella descritta – liberamente ricostruita da un capitolo del citato libro - non è una storia del tutto folle e fantasiosa e non vuole di certo istigare qualcuno a liberarsi del partner, anche perché nessuno può garantire lo stesso effetto domino di circostanze favorevoli. Forse è surreale ma è il frutto di elaborazioni processuali applicabili realmente perché previste dal nostro codice di procedura penale, in un susseguirsi di duelli vissuti tutti i giorni nelle aule di giustizia di questo Paese dove, sotto il cartello “la giustizia è eguale per tutti (e si esercita nel nome del popolo)”, è sempre più difficile assicurare la giustizia vera e, quando accade, non sempre è giusta, ancor meno eguale, mai tempestiva. ✦ * Avvocato, già Dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria

La copertina del libro di Bruno Tinti

Foto ricordo scattata nel 1978 a Napoli Poggioreale dopo la celebrazione dell’annuale Festa del Corpo (all’epoca Agenti di Custodia)

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fonte: www.pianetacarcere.it

SVIZZERA

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Congresso mondiale contro la pena di morte: uccidere costa più dell’ergastolo Il IV Congresso mondiale contro la pena di morte, tenutosi a Ginevra, vuole sradicare questi e altri pregiudizi, sensibilizzare l’opinione pubblica al problema e creare contatti fra persone favorevoli all’abolizione della pena capitale. «Si tratta di una pena fondamentalmente ingiusta, che colpisce i gruppi sociali più emarginati», ha criticato durante una conferenza stampa di presentazione del congresso Edward McCarthy, cittadino statunitense che ha trascorso 21 anni della sua vita in prigione, 19 dei quali nel braccio della morte. Processato e condannato per tre volte alla pena capitale, McCarthy è stato scagionato grazie a un test del DNA. La sua testimonianza, insieme a quelle di altri reduci dal braccio della morte, sarà uno dei momenti salienti del IV Congresso contro la pena di morte. «La Svizzera, che è patrocinatrice dell’evento, considera che l’applicazione della pena di morte sia un ostacolo inaccettabile sul cammino dell’Umanità», ha affermato l’ambasciatore Thomas Greminger, capo della divisione sicurezza umana del ministero degli esteri elvetico. Greminger ha anche ribadito l’impegno della Svizzera nella campagna internazionale per l’abolizione della pena di morte. Per Berna, ha sottolineato l’ambasciatore, si tratta di una priorità di politica estera. Cauto ottimismo Raphaël Chenuil Hazan, direttore dell’’associazione francese Uniti contro la pena di morte, e Arnaud Gaillard, coordinatore del congresso a Ginevra, hanno dal canto loro messo in evidenza soprattutto la strada che rimane da fare, nonostante i risultati fin qui ottenuti. Venticinque anni fa, in due terzi dei paesi del mondo era ancora in vigore la pena capitale. Oggi il loro numero diminuito a un terzo. «Ciononostante ogni anno sono giustiziate 6000 persone; è una cifra enorme», ha puntualizzato Hazan. Al IV Congresso contro la pena di morte sono attese circa mille persone, tra cui molti rappresentanti dei media di paesi in cui la pena di morte ancora è ancora applicata. Attualmente gli stati che conti-

nuano a giustiziare dei condannati sono 58. Si tratta in maggioranza di paesi asiatici, arabi e caraibici. L’elenco comprende anche democrazie come gli Stati uniti, l’India e il Giappone. Argomento di governi populisti L’incontro degli abolizionisti a Ginevra vuole dare un sostegno al processo di ratifica della risoluzione dell’ONU per una moratoria delle esecuzioni e del secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, che impedisce ai paesi che hanno abolito la pena di morte di fare marcia indietro. «I governi populisti di alcuni paesi non escludono la possibilità di reintrodurre la pena di morte per lottare contro il crimine. Studi scientifici hanno però dimostrato che la pena di morte non ha alcun carattere dissuasivo», ha sottolineato Arnaud Gaillard. Tra i paesi in cui si è discussa la possibilità di ristabilire la pena capitale ci sono il Messico e la Giamaica. In alcuni stati degli Stati uniti, le esecuzioni sono invece state sospese per ragioni economiche. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, è più costoso giustiziare una persona che tenerla in prigione per tutta la vita. Tra la condanna a morte e l’applicazione o la revoca della sentenza possono passare fino a 20 anni. «Durante tutto questo tempo bisogna pagare gli avvocati, far fronte ai costi delle indagini e del processo, sopperire alle spese di laboratorio e dell’esecuzione», spiega Raphaël Chenuil Hazan. Quello economico è però solo un degli aspetti del problema.

GEORGIA Condannati potranno scontare pene nei monasteri Dal carcere ai monasteri ortodossi: i condannati per crimini minori in Georgia potranno da oggi scontare le loro pene tra monaci e clero ortodosso, dedicandosi a lavori socialmente utili. Lo prevede un accordo tra la chiesa ortodossa e la giustizia del Paese caucasico, che ha un dichiarato doppio obiettivo: alleggerire le carceri sovraffollate e aiutare nella ricostruzione dei monasteri distrutti in epoca sovietica. I condannati potranno ricostruire dove serve, o anche dare una mano nella manutenzione, ha spiegato il

metropolita Theodor. L’accordo segnala anche la crescente vicinanza tra governo georgiano e chiesa ortodossa autocefala, erede di una delle prime chiese cristiane al mondo e considerata un elemento inalienabile dell’identità della Georgia anche rispetto all’’ortodossia russa.

OLANDA Evade di prigione scavando un tunnel con un cucchiaio Ha scavato un tunnel con un cucchiaio ed è scappata dal carcere dove scontava la sua pena per omicidio: protagonista dell’’evasione da film è una detenuta della prigione di Breda, nel sud dell’Olanda, secondo quanto hanno fatto sapere i portavoce dell’istituto di detenzione. Attualmente alla macchia, l’evasa, 35 anni, ha lasciato la prigione la notte tra sabato e domenica attraverso il tunnel di due metri circa che collegava la sua cella all’esterno e che si è scavata da sola con un cucchiaio da tavola.

VENEZUELA Scontro tra detenuti in carcere Yare, 8 morti e 15 feriti Scontri a colpi d’arma da fuoco e rudimentali coltelli tra bande rivali nel carcere di Yare, in Venezuela: morti 8 reclusi, feriti altri 20. Lo ha reso noto la direttrice della prigione, Gladys Galope, dopo che l’intervento della Guardia Nazionale ha sedato la rivolta. Le carceri venezuelane sono ritenute tra le più violente dell’area, con un bilancio di almeno 300 vittime ogni anno.

INGHILTERRA Londra, principe saudita resta in carcere Resta in carcere il principe saudita accusato di aver ucciso fa un suo dipendente nell’albergo dei vip di Londra. Saud Bin Abdulaziz Bin Nasir Bin Abdulaziz Al Saud, 33 anni, membro della famiglia reale saudita, è comparso per la prima volta in tribunale. Avrebbe picchiato e strangolato il suo inserviente Bandar Abdullah Abdulaziz in una stanza al terzo piano del Landmark Hotel di Marylebone, nel centro di Londra. ✦

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Nel nostro lavoro le formalità conservano ancora un loro peso. In una complessa macchina burocratica, è indispensabile ricorrere ancora al supporto cartaceo che certifichi, mediante l’indicazione delle proprie generalità e firma in calce, l’esistenza stessa di una richiesta, di una ricevuta, di un qualsiasi scambio di informazioni o documenti ufficiali tra l’Amministrazione e il dipendente. Tutto questo si traduce in pratica, in una serie vastissima di moduli di domande, di autocertificazioni etc. che sono a garanzia del dipendente e obbligatorie per l’Amministrazione senza le quali si navigherebbe nell’arbitrio e quindi nell’illegalità. Se le formalità sono necessarie, in certe forme e in certi casi però sono anche dannose. Per esempio non tutte le regole sono state formalizzate e, mentre è chiaro ed evidente che in una domanda di ferie bisogna indicare le generalità del richiedente e i giorni richiesti, per quanto riguarda tutte le regole accessorie, non esistono regole ufficiali e ci si adagia sulla prassi. Proprio ieri ho avuto la necessità di presentare una domanda di congedo ordinario (ferie) e ho preso uno dei moduli già pronti disponibili in Segreteria. Tra una riga e l’altra, soffermandomi a leggere tutte le parole, ho provato un senso di nausea a leggere formule del tipo alla Signoria Vostra Illustrissima oppure Con Osservanza e anche il più subdolo: Al Signor Direttore.

In effetti tutti i moduli presenti in tutte le Segreterie delle Direzioni in cui ho prestato servizio fino ad ora, sono pieni zeppi di moduli da compilare che riportano formalità simili a queste che lentamente si sono impossessate di tutta la modulistica già pronta che abbiamo a disposizione. Mi sorge il dubbio che in passato, quando la maggior parte dei nostri colleghi aveva ancora qualche problema con la lingua italiana, ci sia stato un Direttore che con pazienza e metodo abbia compilato personalmente tutti i moduli prestampati che abbiamo a diaposizione oggi, riempiendoli di formule di pura sottomissione che potevano essere giustificate nel tardo medioevo, ma che oggi, un appartenente alla Polizia Penitenziaria potrebbe tranquillamente evitare, per la sua dignità e per quella dell’intero Corpo. Personalmente d’ora in poi perderò un po’ di tempo a riscrivermi tutta la modulistica che via via mi sarà necessario utilizzare, purgandola di quelle formule bizantine ed inutili. Vi saluto con una formula che ho visto usare da un Ispettore Superiore alla fine di una relazione di servizio indirizzata al proprio Direttore: Si coglie l’occasione per porgerLe i miei deferenti ossequi. Praticamente una formula di saluto degna della lettera che Massimo Troisi e Roberto Benigni scrivevano a Savonarola nel film Non ci resta che piangere. P.S. Segnalate (attraverso i commenti all’articolo) altre formule medioevali in uso presso la vostra modulistica del vostro Istituto. ✦

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Alla Signoria Vostra Illustrissima, la mia faccia sotto i vostri piedi

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Laurell K. Hamilton

James Rollins

NARCISSUS

LA CHIAVE DELL’APOCALISSE

NORD Edizioni pagg. 652 - euro 19,60

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NORD Edizioni pagg. 468 - euro 19,60

rmai da sei mesi, Anita non ha contatti né con Jean-Claude né con Richard. Sei mesi di solitudine e castità, per riflettere e soprattutto per rimettersi in forze. Segnata sia dal marchio dei vampiri sia da quello dei lupi mannari, si è infatti ritrovata debole e vulnerabile come non mai; in più, sa che quel malessere passerà solo quando uno dei due marchi prenderà il sopravvento. Eppure, ancora una volta, Anita non può permettersi il lusso di riposare, perché un essere misterioso ha approfittato della sua assenza per rapire alcuni innocenti che lei aveva giurato di proteggere. Insomma deve intervenire ma, nelle sue condizioni, rischia seriamente di farsi ammazzare, quindi, mettendo da parte l’orgoglio, si decide a chiedere aiuto: celebrando un rito antico e pericoloso, la cacciatrice di vampiri, Jean-Claude e Richard fondono i loro marchi, creando un legame indissolubile. Improvvisamente Anita acquisisce l’energia delle due creature della notte, percepisce il battito dei loro cuori e sente i loro pensieri, le loro paure, i loro desideri. Ma questo nuovo potere ha un prezzo altissimo: in un crescendo di tensione fisica ed emotiva, Anita si troverà coinvolta in una battaglia che potrebbe trasformarla per sempre, una battaglia in cui la posta in gioco è la sua stessa natura umana...

Inghilterra, 1086. Il censimento ordinato da Guglielmo il Conquistatore è stato finalmente portato a termine. La summa di quel lavoro immane è un volume in cui sono elencate tutte le terre e le proprietà del regno. Ma ben presto strane voci cominciano a circolare, e nessuno sa perché due luoghi sono indicati con un’unica, enigmatica parola scritta in inchiostro cremisi: devastato. Circondata da un’aura di mistero, quell’opera monumentale passerà alla storia con un titolo inquietante: Il libro del Giorno del Giudizio. Oggi. Tre omicidi nell’arco di poche ore. Prima il figlio di un senatore americano che svolgeva attività di volontariato in una fattoria nel Mali; poi un sacerdote, esperto di archeologia e studioso di san Malachia, ucciso da un’esplosione all’interno della basilica di San Pietro; infine un professore di biologia molecolare, trovato morto nel suo laboratorio a Princeton. Tre vittime connesse da un dettaglio raccapricciante: sui cadaveri è stata impressa a fuoco una croce celtica. E lo scenario che si presenta agli agenti della Sigma si complica ulteriormente quando le indagini del comandante Grayson Pierce rivelano il coinvolgimento di una multinazionale impegnata nella produzione di alimenti geneticamente modificati. Come mai una ricerca che potrebbe alleviare le sofferenze delle popolazioni africane sembra essere legata a un oscuro flagello che ha colpito l’Inghilterra nel XI secolo e alle visioni di un santo che ha profetizzato la fine del mondo? Per rispondere a questa domanda, Gray dovrà ricostruire le tessere

di un mosaico sconcertante e, insieme alle due donne che hanno segnato il suo passato, trovare la chiave per scongiurare un’apocalisse... Zoran Zikovic

L’ULTIMO LIBRO TEA Edizioni pagg. 240 - euro 10,00 Che cosa terribile! Purtroppo alla libreria Il Papiro si è verificato un triste incidente. Il signor Todorovi , uno dei clienti più affezionati, è morto improvvisamente, mentre stava leggendo un libro seduto su una poltrona. Vera Gavrilovi , una delle due libraie, è costernata, e quando arriva l’ispettore Dejan Luki , per un semplice controllo, gli comunica a cuore aperto tutto il suo sconcerto e la sua preoccupazione. Non è che l’inizio, ahimè, perché al primo si sussegue un altro decesso, e poi un altro. Le morti sono inspiegabili, l’unica traccia è che tutte le vittime stavano leggendo un libro. Per Dejan, poliziotto amante dei libri, e Vera, libraia appassionata, comincia una strana indagine, sempre più incalzante, che si allargherà e si complicherà fino a coinvolgere addirittura la polizia segreta. Finché non s’imbatteranno nell’ultimo libro... Mentre la storia si dipana, svolta dopo svolta, le pagine di questo romanzo, nitide e scorrevoli, inducono con disinvolta maestria a riflettere sulle questioni che più appassionano chi ama i libri: che rapporto c’è tra un autore e i suoi personaggi? Qual è la relazione tra sogno e letteratura? Cosa succede quando si apre un libro? Alla sua prima traduzione in Italia, Zoran Živkovi si presenta con un romanzo che racchiude l’essenza del suo inconfondibile mondo narrativo: raffinato, immaginifico, surreale.

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a cura di Erremme

Patrizia Debicke Van Der Nott

James Patterson

L’UOMO DAGLI OCCHI GLAUCHI

LA MEMORIA DEL KILLER

CORBACCIO Edizioni pagg. 298 - euro 18,60

LONGANESI Edizioni pagg. 284 - euro 16,60

L’uomo dagli occhi glauchi o Ritratto di giovane inglese è una splendida tela di Tiziano, dipinta intorno alla metà del Cinquecento. Ritrae un giovane biondo, bello, sicuro di sé, senz’altro aristocratico. Ma chi sia veramente, nessuno lo sa. Patrizia Debicke, abituale frequentatrice del nostro Rinascimento, ha costruito una storia appassionante attorno a questa figura misteriosa, che sembra identificare nel giovane Lord Templeton, figlioccio del potente duca di Norfolk. Inviato in Italia per conto di quest’ultimo, Templeton rimane folgorato dal pittore veneziano al punto di chiedere di fargli un ritratto. Ma il ritratto è anche un pretesto per coprire il vero scopo del suo viaggio, che è quello di proteggere un’eminente personalità inglese, protagonista di spicco del Concilio di Trento, la cui vita è messa in pericolo da una macchinazione ordita alla corte dell’anziano Enrico VIII nel momento di massima tensione fra cattolici e protestanti. Fra duelli e veleni, in una Venezia insidiosa e mascherata e in una Roma corrotta e devastata dalla piena del Tevere, il giovane inglese cercherà di portare a termine la sua missione, senza tuttavia rinunciare ai piaceri dell’amore e dell’amicizia…

una collezionista d’arte ben nota per la sua stravaganza. E il contenuto della cassetta è un autentico mistero: un manoscritto, composto da antichissimi fogli di papiro, e un diario, in cui è raccontata la storia di quello strano reperto. Ciò che Afdera non può immaginare è che, per anni, quella banca è stata tenuta costantemente sotto controllo dal Circolo Octagonus, un ordine occulto del Vaticano che protegge da secoli le istituzioni ecclesiastiche e che è autorizzato a far ricorso a qualunque mezzo, lecito e illecito, per difendere l’integrità della Chiesa. Infatti quel manoscritto è l’unica copia esistente del Vangelo di Giuda, un testo che, se correttamente interpretato, dimostrerebbe l’inganno su cui è stata fondata la religione cattolica. Armata di pochi, labili indizi, ma decisa a scoprire il mistero celato in quelle pagine, Afdera inizia una ricerca che la porterà da Ginevra ad Alessandria d’Egitto, da Antiochia ad Acri, sempre seguita e minacciata dalla longa manus del Circolo Octagonus. Ma sarà soltanto a Venezia, il labirinto d’acqua, che la verità riuscirà a emergere. E, con essa, il segreto più inquietante della Storia...

Ha affrontato serial killer, psicopatici, criminali di altissimo livello. Sì è addentrato nelle pieghe più oscure della psiche umana per snidare il male. Eppure c’è una sfida che per Alex Cross rimane ancora in sospeso, da anni: l’omicidio della moglie Maria, morta tra le sue braccia in seguito a un colpo di pistola, forse diretto a lui, o forse no... Quando il detective John Sampson, suo amico da una vita, gli chiede aiuto per il caso di uno stupratore seriale, le cose si complicano. Perché quel caso sembra avere alcuni agganci con l’omicidio di Maria. E basta questa possibilità per far riaffiorare il dolore per quella tragedia e l’angoscia per il mistero che ancora la avvolge. C’è davvero un legame fra l’assassinio della moglie e il mostro? La risposta è nella memoria del killer e solo catturandolo vivo Cross potrà ottenerla. O, forse, la risposta è nella memoria stessa di Cross, e solo mettendola a tacere lui potrà trovare finalmente pace. ✦

Eric Frattini

IL LABIRINTO D’ACQUA NORD Edizioni pagg. 360 - euro 18,60 La chiave di una cassetta di sicurezza custodita in una banca di New York è l’enigmatica eredità che la giovane archeologa Afdera Brooks ha ricevuto dalla nonna, Polizia Penitenziaria - SG&S n. 171 - marzo 2010

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Lettera al Direttore del TG com entile Dr. Liguori, sono passati sette mesi da quando Le Ho scritto per lamentare il mio disappunto per come vengono definiti sul Tg com da Lei diretto gli appartenenti al Corpo a cui orgogliosamente appartengo. Sulla condanna a Fabrizio Corona per le foto scattate in carcere leggo nell’articolo principale: Ha corrotto un secondino. Nonostante la Sua gentile risposta alla mia lettera precedente e la considerazione da Lei espressa verso tutti gli appartenenti al Corpo, mi pare di capire che nella Sua redazione ci sia qualche giornalista che non nutre molta considerazione verso la Polizia Penitenziaria, infatti nell’articolo si citano due terminologie inesatte, secondino e guardia carceraria.

Il bravo giornalista che oggi conosce i difficili problemi delle carceri, il grave sovraffollamento, quasi 68.000 detenuti e la carenza del personale penitenziario, un emergenza quotidiana che noi gestiamo con grande fatica tutti i giorni ma anche con grande professionalità e dedizione, rinunciando ai nostri riposi e ferie, penalizzando anche le nostre famiglie, non oserebbe mai usare questa terminologia offensiva che ormai non usa piu’ nessuno, ma soprattutto una persona colta e preparata quale dovrebbe essere un giornalista e la categoria che rappresenta. Anziché avere rispetto verso una classe di lavoratori servitori dello Stato che opera in silenzio e senza grande visibilità, , ecco il “bravo” giornalista di turno che tira fuori vecchi vocaboli usati nei film americani per indicare un appartenente al Corpo della Polizia Penitenziaria, una cosa vergognosa anche per chi scrive. Denota una scarsissima professionalità e ig-

noranza sulla materia, un modo scorretto e antiquato di fare informazione che non ha nulla a che vedere con i seri giornalisti, e se io dovessii trovare un vocabolo da paragonare userei quello di scribacchino. Conoscendo la Sua professionalità sono certo che Lei concordera’ su quanto da me lamentato, da lunga data seguo il Tg Com e mi dispiace dirle che per evitarmi altro disdegno nel leggere articoli dove veniamo offesi ogni qualvolta veniamo citati, da oggi non seguirò piu’ le notizie del Tg Com, da oggi mi aggiornerò leggendo le notizie Ansa.it e sono certo che non mi dovrò lamentare su terminologie primitive usate da qualche suo giornalista. La saluto con grande stima, la ringrazio dell’attenzione e le porgo i miei piu’ Cordiali saluti. Paolo Spano Poliziotto penitenziario Vice Segretario Prov. SAPPe - Cagliari

IL MONDO DELL’APPUNTATO CAPUTO

© 2010 Caputi & De Blasis

...PURCHÉ SI COSTRUISCA

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