Polizia Penitenziaria - Settembre 2011 - n. 187

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anno XVIII • n.187 • settembre 2011

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1° meeting bilaterale dei sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria SAPPE e BSBD



in copertina: Il Segretario Generale del Sappe Donato Capece e il suo omonimo del sindacato tedesco BSBD Anton Bachl si stringono la mano al meeting di Montegrotto Terme

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Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

L’EDITORIALE Da Montegrotto Terme al Senato della Repubblica per resettare e fare ripartire il sistema di Donato Capece

ANNO XVIII • Numero 187 Settembre 2011

IL PULPITO Anonymus attua un defacement del sito del Sappe di Giovanni Battista De Blasis

Direttore Responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

SAPPEINFORMA 1° Meeting bilaterale Italia-Germania dei sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria

Direttore Editoriale: Giovanni Battista De Blasis deblasis@sappe.it Capo Redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it

di Erremme

Redazione Cronaca:Umberto Vitale Redazione Politica: Giovanni Battista Durante

IL COMMENTO Convegno al Senato sulle attuali condizioni dell carceri italiane

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di Roberto Martinelli

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di Giovanni Battista Durante

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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Da Montegrotto Terme al Senato della Repubblica per resettare e fare ripartire il sistema

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e settimane centrali del mese di settembre hanno visto due importanti appuntamenti concentrati sulle criticità penitenziarie, nazionali ed europee. A Montegrotto Terme, se ne parla diffusamente in altre pagine di questo numero della Rivista, in un clima conviviale ed assai partecipato, si sono svolti proficuamente i lavori del I^ Meeting bilaterale Italia – Germania di interscambio professionale dei Sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria SAPPE e BSBD. Con l’amico e collega Anton Bachl, con i referenti del BSBD dei vari Land tedeschi e con i componenti la Segreteria Generale ed i Segretari Nazionali del SAPPE, riteniamo di avere gettato le basi per una stabile e duratura cooperazione professionale e sindacale sui temi delle criticità carcerarie europee e, soprattutto, sulla tutela professionale – al di là e nel rispetto delle specifiche prerogative degli ordinamenti nazionali – di coloro che nelle carceri lavorano principalmente per l’ordine e la sicurezza. Le proposte congiunte emerse saranno ora portate all’attenzione della Commissione e del Parlamento Europeo per i conseguenti interventi da adottare. Certo è che quello di Montegrotto può essere considerato un bel passo in avanti nella realizzazione di una Confederazione europea dei Sindacati autonomi dei Corpi di Polizia Penitenziaria degli Stati membri che si ponga l’obiettivo di monitorare, accrescere e tutelare la professionalità e la specialità operativa dei poliziotti penitenziari europei. Ma questo sarà anche il tema di un Convegno che terremo al Parlamento Europeo di Bruxelles con i rappresentati dei Corpi di Polizia penitenziaria di tutti gli Stati dell’Unione Europea per confrontarsi e collaborare insieme. Il SAPPE, dunque, mentre altri siglano e si crogiolano in miopi conventio ad excludendum a tutto discapito delle priorità che riguardano TUTTI gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria – che abbiano o meno questa o quella tessera sindacale in tasca... – e l’Istituzione stessa, il SAPPE ancora una volta si attiva concretamente per costruire qualcosa di positivo per il futuro, la professionalità e la valorizzazione sociale del Corpo. Subito dopo Montegrotto, il Senato della Repubblica ha dedicato un’intera sessione di la-

vori d’Aula al problema delle carceri, il 21 e 27 settembre (ma va detto e stigmatizzato come sia stato scandaloso vedere e constatare come i lavori del Senato si siano tenuti in un Aula semideserta...). Il Ministro Palma, che peraltro abbiamo incontrato il 26 settembre in via Arenula, ha detto cose importanti e significative. Su tutte, di avere scritto al ministro Tremonti per superare qualsiasi impasse della Ragioneria dello Stato che possa ritardare e impedire le previste assunzioni di 1.600 nuovi agenti; interessante è anche l’intenzione di apportare modifiche al codice penale ed a quello di procedura penale per deflazionare detenuti e numero traduzioni, centinaia di migliaia ogni anno. In particolare, è importante l’intenzione di andare concretamente ad incidere sul fenomeno sliding doors per detenuti con detenzioni brevi e brevissime che entrano ed escono dal carcere al massimo in 7 giorni in tutto ma che incidono concretamente e pesantemente sul sovraffollamento: parliamo di circa 90mila detenuti l’anno. Interessante in questo contesto il ripristino della funzione delle camere sicurezza delle caserme dei carabinieri e dei commissariati di polizia. Palma, nell’incontro al Ministero, ha parlato di disponibilità ad esaminare la questione riallineamento dei vari ruoli della Polizia Penitenziaria con i colleghi della altre Forze di Polizia anche fosse solo dal punto di vista giuridico e non economico. Ha detto che la nomina della dottoressa Matone a Vice Capo DAP è stata una sua scelta e noi abbiamo ribadito la condivisione per questa scelta stante l’autorevolezza del Magistrato incaricato. Raccogliendo infine l’allarme del SAPPE ha dichiarato di condividere la necessità di avvicendare la dirigenza penitenziaria, anche i dirigenti generali che secondo lui non devono ricoprire lo stesso incarico per più di tre/cinque anni. Credo e ritengo sia giunta l’ora di passare dalla parole ai fatti: l’emergenza carceri è sotto gli occhi di tutti e servono strategie di intervento concrete. Il sovraffollamento degli istituti di pena è una realtà che umilia l’Italia rispetto al resto dell’Europa e costringe i poliziotti penitenziari a gravose condizioni di lavoro. Centrale è l’autorevole critica fatta recentemente al sistema penitenziario dal Presidente

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della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha anche sottolineato con forza come ciò sia dovuto al peso gravemente negativo di oscillanti e incerte scelte politiche e legislative, tra tendenziali depenalizzazione e depeninteziarizzazione e ciclica ripenalizzazione, con un crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estenzione della carcerazione preventiva. Con un sovraffollamento di 67mila detenuti in carceri che ne possono contenere a mala pena 43mila, accadono ogni giorno eventi critici come aggressioni, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo. Ed è quindi ora che la classe politica rifletta seriamente sulle parole del Capo dello Stato ed intervenga con urgenza per deflazionare il sistema carcere del Paese, che altrimenti rischia ogni giorno di più di implodere. Il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è spesso lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensioni, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Noi torniamo a sollecitare l’adozione di riforme strutturali, che depenalizzino i reati minori e potenzino maggiormente il ricorso all’area penale esterna, limitando la restrizione in carcere solo nei casi indispensabili e necessari. Ci aspettiamo segnali concreti. Chiediamo ad esempio una presa di posizione del Capo Dipartimento Franco Ionta: si decida a scegliere se vuole fare il capo dipartimento o il commissario straordinario delle carceri perchè è evidente che tutti e due i lavori non li può fare. Al Ministro Palma chiediamo che passi dalle parole ai fatti, a cominciare dal riallineamento di tutti i ruoli della Polizia Penitenziaria, dall’avvicendamento dei dirigenti del DAP che stanno lì da oltre 10 anni, dalla istituzione della Direzione Generale del Corpo di Polizia Penitenziaria al Dap e dalla restituzione al servizio in carcere di quegli educatori ed assistenti sociali che fino ad oggi sono stati impiegati – al DAP, nei Provveditorati e nelle Scuole - con pessimi risultati nella formazione e nell’aggiornamento professionale della Polizia Penitenziaria, vecchia e ferma a trent’anni fa. Quel che serve, insomma, è aria fresca. E spero che questo l’abbia già capito il nostro Ministro Guardasigilli...

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Giovanni Battista De Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

Anonymus attua un defacement del sito del Sappe. Ionta tenta il defacing del blog della Rivista

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a molti anni, il mese di agosto ha segnato una pausa nel lavoro redazionale di questa Rivista. A dire il vero, da quando Polizia Penitenziaria Società Giustizia & Sicurezza è andata on line, la pausa non è stata proprio assoluta. Tuttavia, quest’anno, alcune straordinarie circostanze hanno impedito qualsiasi soluzione di continuità nelle nostre attività di redazione. Già dai primi giorni del mese, infatti, ci siamo trovati a combattere con il defacement delle home pages dei nostri siti compiuti dagli hacker di Anonymous e Luzlec che hanno così voluto porre in atto una azione dimostrativa finalizzata alla diffusione di un comunicato di solidarietà ai detenuti. Necessariamente, per alcuni giorni, se non settimane, l’intera redazione della Rivista e tutto lo staff informatico del sindacato hanno dovuto lavorare alacremente per ripristinare i siti web. Il respingimento dell’attacco informatico ed il ripristino del controllo della gestione dei siti è stato ottenuto anche grazie alla qualificata collaborazione della Polizia Postale del Centro Nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche (CNAIPIC). Come se questo non bastasse, nello stesso periodo si è aggiunto un polemico scambio di opinioni con il Capo del Dap, Franco Ionta. In questo ultimo frangente, sono rimasto particolarmente sconcertato dalla spropositata reazione del Pres. Ionta ad un nostro pezzo, concretizzatasi in una esplicita accusa di pubblicare articoli demagogici e di basso profilo. In qualità di Direttore Editoriale (ma anche di cofondatore) di questa Rivista non potevo che rimanere profondamento ferito dalle parole del Capo del Dap che con i sui giudizi sommari ha mortificato il lavoro dell’intera redazione, che pure ha sempre interpretato la sua mission nel senso più alto del giornalismo.

Dopo quasi venti anni di pubblicazioni, infatti, nessuno può più disconoscere il ruolo di primissimo piano che la Rivista Polizia Penitenziaria Società Giustizia & Sicurezza si è ritagliata nel panorama editoriale dell’esecuzione penale, in particolare, e della giustizia, più in generale. E questo ruolo di rilievo ce lo siamo conquistato, checchè ne dica il Pres. Ionta, grazie all’alto profilo dei contenuti, alla completezza dell’informazione e alla correttezza deontologica dei redattori e dei collaboratori. Del resto, non avremmo mai potuto acquisire autorevolezza e rilevanza mediatica e il conseguente gradimento dei lettori, se avessimo ospitato articoli ed editoriali “dai contenuti demagogici e di basso profilo”. Chi ci legge sa bene che tra le pagine di Polizia Penitenziaria Società Giustizia & Sicurezza troverà notizie, informazione, cronaca, editoriali e commenti nel rispetto della regola fondamentale del giornalismo che impone di separare, sempre e comunque, i fatti dalle opinioni. Sull’onda dell’indignazione, qualche giorno fa, ho firmato personalmente un editoriale pubblicato on line sul blog della Rivista,

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per sostenere con forza le ragioni della redazione di Polizia Penitenziaria Società Giustizia & Sicurezza e per rispedire al mittente la nota del Capo del Dap. Ora come allora, ribadisco che, pur riconoscendo il sacrosanto diritto di Ionta (e di chiunque altro citato in un nostro articolo) di smentire, replicare, criticare, confutare o contestare le nostre tesi, non è consentito a nessuno di esprimere giudizi sulla correttezza deontologica, sulla professionalità o sulla buona fede di chi scrive sulla Rivista. Tantomeno può essere discusso il diritto ad esprimere le nostre opinioni. Ed in relazione a quest’ultima affermazione, vorrei concludere citando un pensiero di John Stuart Mill che mi è molto caro e che, in un certo qual modo, ha sempre ispirato la linea editoriale di questa Rivista. “Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero diritto di far tacere quell’unico individuo più di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l’intera umanità.”

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Al centro il defacciamento del nostro sito sotto la lettera del Pres. Franco Ionta


A Montegrotto Terme (Padova) si è tenuto il 1° meeting bilaterale Italia - Germania di interscambio professionale dei Sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria SAPPE e BSBD

I In alto la locandina del meting nelle Foto i Segretari Generali di Sappe e BSBD Capece e Bachl

ambito europeo, una quanto più possibile omologazione dei sistemi giudiziaria e penitenziari dei vari Paesi aderenti. L’occasione è stata anche utile per trovare soluzioni comuni al sovraffollamento penitenziario, che è un problema non solo italiano e tedesco ma europeo, e per mettere in campo delle sinergiche strategie di in-

l Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa Organizzazione del Personale di Polizia Penitenziaria, ha partecipato dal 19 al 21 settembre scorsi, a Montegrotto Terme (nella provincia di Padova), un Meeting di interscambio professionale con una delegazione dell’omologo Sindacato tedesco BSBD - Bund der Strafvollzugsbediensteten Deutschlands. Il Meeting nasce dai rapporti intercorsi nell’ultimo anno tra il SAPPE e il BSBD e si è prefisso di individuare, fatte salve le prerogative ordinamentali dei rispettivi Paesi, soluzioni al comune problema del sovraffollamento penitenziario per avere, in tervento sull’esecuzione della pena nei Paesi europei e sulle condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari nei rispettivi Stati. Si è dunque trattato di un importante momento di confronto, di analisi e di studio del sistema penitenziario nazionale e tedesco nonchè di studio delle iniziative di strategia sindacale che saranno svolte dalle Segreterie Generali del SAPPE e del BSBD nei prossimi mesi. E l’importanza dell’appuntamento è stato guardato con attenzione dal Quirinale e da Palazzo Madama, sedi delle due più importante istituzioni del Paese. Come ha infatti scritto il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, Do-

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nato Marra, nel messaggio di saluto inviato in occasione del meeting, il Capo dello Stato guarda con attenzione alle problematiche penitenziarie ed «auspica la tempstiva adozione, da parte del Parlamento e del Governo, di misure idonee al loro superamento». Il Presidente della Repubblica, nel formulare gli auguri di buon lavoro, ha sottolineato che «il contributo propositivo di chi opera nel settore potrà fornire spunti di interesse per la formulazione di valide strategie di intervento» sulle criticità penitenziarie. Anche il Presidente del Senato della Repubblica Renato Schifani, nel suo messaggio, ha sottolineato come «questa iniziativa costituirà un momento prezioso di riflessione e confronto sulle problematiche legate al sistema penitenziario attuali a livello nazionale ed europeo. Il confronto tra i sistemi dei due Paesi risulterà certamente di grande utilità al fine di rafforzare l’operato della Polizia Penitenziaria, presidio indispensabili a garanzia dei cittadini».

Nel corso del meeting, che ha ottenuto i patrocini del Dipartimento della Giustizia Minorile, della Regione Veneto, della Provincia di Padova, dei Comuni di Abano Terme e Montegrotto Terme, si sono insediati gruppi di lavoro tecnici finalizzati ad elaborare il profilo professionale del poliziotto penitenziario europeo, anche con particolare riferimento alla formazione ed all’aggiornamento professionale, e a definire comuni e sinergiche azioni sindacali

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nei rispettivi Paesi. E i gruppi di lavoro sono stati molto produttivi, tanto che le conclusioni saranno poste all’attenzione del Parlamento e della Commissione Europea oltrechè alle competenti Autorità nazionali di Italia e Germania. Nel corso del meeting si è tenuta una visita alla Casa di Reclusione di Padova, accolti con cordialità dal direttore, dal Funzionario Comandante il Reparto e dai colleghi in servizio, durante la quale sono state visitate le lavorazioni ed una sezione detentiva. Molto apprezzata la visita alla locale sezione dell’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria ANPPE, nei cui locali è ospitato anche un Museo relativo al Corpo ed ai gloriosi Agenti di Custodia, ed il lauto e gradito buffet che la Segreteria Regionale SAPPE del Veneto ha voluto offrire alle due delegazioni. Il prossimo Meeting si terrà il prossimo anno in Germania, e probabilmente vedrà allargare la partecipazione alle rappresentanze di Polizia Penitenziaria di altri Paesi europei. erremme

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Nelle foto il Dott. Capece e il Dott. Bachl e due immagini dei partecipanti al meeting


Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Convegno al Senato sulle attuali condizioni delle carceri italiane

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Nelle foto al centro il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sotto i partecipanti al Convegno

l sovraffollamento degli istituti di pena è una realtà che umilia l’Italia rispetto al resto dell’Europa. E’ l’osservazione formulata dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nell’intervento pronunciato all’interessante convegno che si è tenuto a fine luglio a Roma a Palazzo dei Giustiniani, promosso dal Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica con il patrocinio del Senato della Repubblica. «Quel che mi preme riprendere e sottolineare -ha tra l’altro detto il Capo dello Stato - è un dato molto significativo [...]: e cioè il peso gravemente negativo di oscillanti e incerte scelte politiche e legislative. Oscillanti e incerte tra tendenziale, in principio, depenalizzazione e “depenitenziarizzazione”, e ciclica ripenalizzazione con crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estensione, in concreto, della carcerazione preventiva. Di qui una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo

orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile[...]. Evidente in generale è l’abisso che separa, come si è detto, la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona. E’ una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo, arrendendosi all’obbiettiva constatazione della complessità del problema e della lunghezza dei tempi necessari [...] per l’apprestamento di soluzioni struttu-

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rali e gestionali idonee. C’è un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto [...] ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria». Le parole del Capo dello Stato tracciano un segno nel drammatico corso della crisi del sistema penitenziario, efficacemente denunziata anche dal presidente del Senato Renato Schifani: «Il problema del sovraffollamento delle carceri e della giustizia va affrontato con grande urgenza e nello spirito di coesione nazionale che è indispensabile per ogni processo di riforme. E’ indispensabile ripensare ad un sistema più efficiente e rapido, pur senza eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale che resta un punto fermo ed essenziale; e senza mai ledere le giuste garanzie difensive di indagati ed imputati». Una situazione complessa, quella penitenziaria, a fronte della quale «alcune soluzioni sono state adottate», sottolinea Schifani, citando ad esempio il decreto «che consente il trasferimento dei detenuti stranieri senza il loro consenso negli Stati di appartenenza». E poi c’è il piano carceri del governo, che «ha portato ad oggi un ampliamento di 1.100 posti e a breve si avrà un ulteriore incremento di 2.900 posti», ha continuato Schifani avvertendo però che «diviene tuttavia necessaria la ricerca di ulteriori valide soluzioni, durature e strutturali», perché «la detenzione non può e non deve significare scontare la pena in condizioni non umane» e «la migliore tutela della vittima di reato è l’effettività sia

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della pena sia della sua funzione primaria che è la rieducazione». Il Presidente Schifani ha poi concluso: «Anche per chi delinque valgono e vanno osservati sempre e sopra ogni cosa i diritti fondamentali della nostra Costituzione». Il primo presidente della Corte di Cassazione Ernesto Lupo ha invece rivolto «un appello ai giudici» perchè facciano «un uso sempre più prudente e misurato della misura cautelare restrittiva». Lupo ha spiegato che si tratta di uno strumento da «mantenere nell’eccezionalità quando un altro strumento non può essere usato«. A sottolineare i rischi della custodia in carcere in quanto causa di sovraffollamento, è stato anche il giudice di Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi, secondo il quale «è forte il pericolo che nella prassi giudiziaria se ne faccia un uso eccessivo». Significative anche le parole di Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati: «Sulla carcerazione preventiva l’Anm è molto sensibile: il carcere deve rappresentare l’estrema ratio». E per far fronte al sovraffollamento delle prigioni, «bisogna trovare rimedi sul piano del diritto procedurale e sul piano del diritto sostanziale. Occorrono misure alternative e soprattutto una ragionata depenalizzazione». «Al di la’ della condivisione dei meccanismi per risolvere il problema carceri ha aggiunto Palamara - voglio dare atto a Marco Pannella di aver sensibilizzato l’opinione pubblica su questi temi. Parliamo di problemi che interessano tutti». Sul tema del carcere, ha poi sostenuto, «c’e’ un dato oggettivo: l’enorme numero di popolazione detenuta che travalica la capienza. La risposta non può essere solo la costruzione di nuove carceri: sullo sfondo ci sono altri aspetti problematici che riguardano il giudice di cognizione e il giudice di sorveglianza». Interventi strutturali per affrontare l’emer-

genza delle carceri italiane, che passino attraverso la depenalizzazione dei reati minori, la costruzione di nuove carceri, e una modifica alle modalità di ricorso alla custodia cautelare è stata la concorde sollecitazione arrivata dagli interventi dei presidenti delle Commissioni Giustizia di Senato e Camera, Filippo Berselli e Giulia Bongiorno. «L’amnistia, così come l’indulto, è una misura contingente, che non risolve il problema», ha avvertito Berselli, sottolineando la necessità piuttosto di «depenalizzare i reati minori, applicando sanzioni amministrative pecuniarie, anche elevate, e il ritiro della

patente o del passaporto». Poi costruire nuove carceri, che migliorino un patrimonio «vecchio e inefficiente, che risale in gran parte al ‘700 e all’800». Quanto al sovraffollamento, intervenire sugli stranieri attraverso «accordi bilaterali che riducano l’accesso dei clandestini e prevedano che, in caso di reati, le pene siano scontate nei paesi d’origine». E soprattutto modificare l’istituto della custodia cautelare, che deve essere «una soluzione residuale». Anche per la presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, «l’amnistia non può essere la precondizione per le riforme» ma è «una soluzione tampone che serve solo se unita a una riforma strutturale». La maggior parte della gente che sta in carcere, ha sostenuto Bongiorno, «è in custodia cautelare, che viene usata in maniera

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spropositata, e su questo bisogna intervenire». Tra le misure possibili, «c’è anche la depenalizzazione» ma soprattutto, «ci vuole la volontà politica di occuparsene, ma il Parlamento si occupa di altro». Da par sua, il Capo del DAP Franco Ionta ha sottolineato che «il sovraffollamento e le conseguenze che si riversano sulla gestione quotidiana delle carceri, sulla dignità di vita delle persone detenute e sulle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari non può essere affrontato e risolto con provvedimenti diretti solo a superare le difficoltà contingenti». Per far fronte al sovraffollamento, a suo dire, “occorrono interventi strutturali proiettati a stabilizzare il sistema: edilizia penitenziaria, contrattualizzazione della dirigenza penitenziaria e riallineamento della Polizia Penitenziaria, nuovi modelli operativi per la gestione degli istituti e del sistema delle traduzioni». Parlando poi di edilizia carceraria, Ionta ha ribadito che il «patrimonio edilizio penitenziario è insufficiente per capienza e talvolta inadeguato a far vivere la carcerazione in maniera dignitosa». Non è mia competenza dire se possa essere l’amnistia che fortemente invocano i Radicali e Marco Pannella in particolare (che è arrivato ad attuare la protesta estrema - pacifica e non violenta, com’è nello stile dei Radicali - dello sciopero della fame e della sete) la panacea di tutti i mali. Certo è che se, come è avvenuto per l’indulto del 2006, al provvedimento di legge non segue parallelamente un complessivo ripensamento del sistema sanzionatorio in Italia ci troveremmo punto e a capo in poco tempo. Lo insegna l’esperienza dell’indulto del 2006, del quale beneficiarono oltre 35mila persone, un terzo delle quali rientrò nelle patrie galere in brevissimo tempo. E’ del tutto evidente che se chi esce dal carcere non ha prospettive concrete per entrare consape-

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Nella foto il Presidente del Senato Renato Schifani


Nelle foto volmente in un circuito sociale di legalità sopra ed una vera e propria volontà di cambiar l’intervento di Schifani vita, nel 90 per cento (e forse più) dei casi

a fianco Il Presidente Napolitano tra Schifani e Pannella

torna a delinquere. Gli autorevoli interventi del Convegno romano confortano la mia opinione secondo la quale bisognerebbe ripensare il carcere e realizzare un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia che preveda circuiti penitenziari differenziati ed un maggiore ricorso alle misure alternative attraverso, da un lato, un carcere invisibile sul territorio cui affidare tutti coloro che commettono un reato che non crea allarme sociale e, dall’altro, un carcere di massima sicurezza, per i 41 bis o comunque riservato ai soggetti che si macchiano di gravissimi reati. Bisognerebbe pensare un carcere che non peggiora chi lo abita, non lo incattivisce, non crea nei suoi abitanti la convinzione di essere una vittima: questi risultati si possono realizzare con il coinvolgimento del sociale ma soprattutto con il lavoro durante la detenzione, anche attraverso progetti concreti per il recupero ambientale del territorio, che abbatta il fenomeno dell’ozio in carcere. In questo contesto si dovrà delineare per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego ed un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale. Donne e uomini con il Basco Azzurro che, mi sia consentito ricordarlo ancora una volta, nel contesto sovraffollato delle carceri italiane svolgo un lavoro particolarmente stressante e duro con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto

umanità. E credo sia importante ricordare i sacrifici che affrontano ogni giorno le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria per garantire vigilanza e sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti di pena partecipando nel contempo alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti. Sovraffollati senz’altro (66.942 detenuti al 31 luglio contro 45.681 posti regolamentari), i 207 penitenziari italiani hanno conosciuto una lieve boccata di ossigeno grazie alla cosiddetta legge svuota carceri che, consentendo la detenzione domiciliare a chi ha una pena residua non superiore ad un anno, ha fatto uscire fino ad oggi 2.942 detenuti, di cui 775 stranieri. In attesa che entro il 2013 siano realizzati 9.150 nuovi posti che il piano del governo ha previsto con la costruzione di 11 istituti e 20 padiglioni in quelli già esistenti per un costo complessivo di 675 milioni di euro, il mondo carcerario continua ad es-

zioni disciplinari e 1.855 gli infortuni accidentali. E ancora: in questi primi otto mesi dell’anno in carcere si sono verificati 305 casi di violenza o minaccia a pubblico ufficiale; 174 di minacce, ingiurie e violenze; 24 risse; sei casi di spaccio di stupefacenti; 29 denunce per detenzione di droga; tre per violenza sessuale; cinque furti; 29 lesioni personali; due lesioni personali gravi. Non sono mancate le evasioni: due da permessi di necessità e 29 da permessi premio; cinque nel corso di lavoro esterno al carcere; quattro dalla semilibertà; 18 da arresti o detenzione domiciliari (ma nessun di queste evasioni si sarebbe verificata a seguito dell’applicazione della cosiddetta legge svuota-carceri); otto da ospedali senza piantonamento. Dieci gli evasi arrestati e tre quelli che si sono costituiti. Nonostante le gravi carenze, nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento i Baschi Az-

sere afflitto da eventi che denotano un sistema in emergenza. Problemi acuiti nel periodo di caldo estivo. La mappatura degli eventi critici compiuta da un gruppo di monitoraggio ad hoc istituito presso il DAP fa emergere una realtà complessa con cui quotidianamente si confrontano soprattutto le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria: dal primo gennaio ai primi di agosto sono stati 38 i detenuti che si sono tolti la vita in cella e 602 i tentati suicidi; 64 i decessi per cause naturali; 55 i casi di accumulo di farmaci o alcol; 193 i danneggiamenti di beni dell’amministrazione; 26 i casi di incendio; 415 le infra-

zurri della Polizia Penitenziaria in servizio nel Paese credono nel proprio lavoro, hanno valori radicati ed un forte senso d’identità e d’orgoglio, e ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti. Ecco, io credo che è partendo da questi dati e dalle dure parole del Capo dello Stato al Convegno di Roma sulla giustizia e le carceri che si dovrebbe partire per realizzare davvero un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia.

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Roberto Martinelli Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

La “Santa” Setta

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ia Staropoli è una giovane donna calabrese, laureata in giurisprudenza. Negli anni in cui frequenta l’università fonda il sito Mafia Crimes insieme ad un gruppo di amici poliziotti, accomunati dall’interesse di approfondire e diffondere gli studi sulle organizzazioni criminali in Italia e all’estero. Nel frattempo, anche in Calabria qualcosa sta cambiando. La copertina del libro Nel 2005 nasce il movimento Ammazzateci Tutti. Lei decide di aderire al movimento e, nel 2009, diviene componente del Consiglio direttivo di presidenza. Nel 2010 ricopre l’incarico di responsabile dell’Ufficio intese con le Forze dell’ordine e dell’Ufficio studi criminologici. Nel 2011 Lia Staropoli pubblica il suo primo libro: un approfondito studio sulla ‘ndrangheta che è stato anche la sua tesi di laurea. Il relatore della tesi, come si legge nella prefazione di Aldo Pecora, Non un magistrato qualsiasi ma Nicola Gratteri, nella veste, meno nota, di docente dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria. A questa tesi di laurea, diventata un libro, pubblicato da Laruffa editore, è stato dato il titolo di La “Santa” Setta – Il potere della ‘ndrangheta sugli affiliati e il consenso sociale sul territorio. Il libro è bello ed interessante, soprattutto

per chi voglia capire il fenomeno mafioso e la ‘ndrangheta in particolare: una setta che ha sempre agito nell’ombra e che dispone di un’organizzazione potentissima, sia per il vincolo che lega gli associati, un po’ diversi dalle altre mafie, sia per struttura, sia per mentalità, sia, soprattutto, per il potenziale economico e militare che la connota.

Come spiega lo stesso Aldo Pecora nella prefazione Lia Staropoli ha compiuto delle «attente e scrupolose ricerche antropo-

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logiche, sociali, culturali e forse anche psicologiche..., ampliando l’orizzonte ed i tecnicismi della giurisprudenza in materia di criminalità organizzata...» «Lia Staropoli – prosegue Aldo Pecora – in questa sua attività di ricerca ha osservato, esplorato, annotato, messo a fuoco tutte quelle singolarità comportamentali ed ambientali della malavita calabrese apparentemente meno raccontati dalle cronache che “contano” e che purtroppo in tutta evidenza, come vedremo, hanno cementato e consolidato negli anni un preoccupante consenso sociale.» Quella compiuta da Lia Staropoli è un’analisi attenta, dettagliata e profonda che mette in luce tutti gli aspetti di questo fenomeno criminale che, negli anni, ha assunto dimensioni planetarie, attraverso investimenti e ramificazioni in tutto il mondo, grazie, anche, ai consolidati rapporti con altre organizzazioni. La ‘ndrangheta è diventata una delle più potenti organizzazioni criminali esistenti, grazie al potere economico e militare. Non trascurabile è il consenso sociale di cui gode sul territorio. Al pari delle altre organizzazioni criminali pratica riti di affiliazione che incarnano una parvenza di sacralità. Spesso questi riti e le riunioni tra i boss si svolgono in luoghi sacri, come il santuario di Polsi, sull’Aspromonte.

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Anche l’origine delle mafie è ammantata di leggenda: i fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre cavalieri di Toledo che nel 1400 ripararono a Favignana dopo che col sangue avevano lavato l’onore violato della sorella, si racconta che siano i fondatori delle tre mafie. Osso restò in Sicilia spargendo il sapere mafioso di Cosa Nostra, Carcagnosso andò a Napoli fondando lì la camorra, Mastrosso si fermò in Calabria a fondare la ‘ndrangheta, forse quella riuscita meglio perché per secoli è rimasta la meno vista, la più sommersa, delle organizzazioni criminali. Ciò ha fatto sì che anche le istituzioni abbassassero un po’ la guardia negli anni addietro, rispetto a questo fenomeno, meno conosciuto ed indagato degli altri, proprio per il suo modo di agire in silenzio. L’organizzazione mafiosa denominata

‘ndrangheta è costituita per lo più da affiliati legati da rapporti di parentela e questo ne ha fatto un’organizzazione impenetrabile dall’esterno, anche per le stesse istituzioni. Per questa ragione, l’apporto dei collaboratori di giustizia è stato molto scarso, diversamente da quanto è avvenuto per la mafia. Negli ultimi anni la gente ha cominciato a prendere coscienza di questo fenomeno, soprattutto dopo alcuni fatti eclatanti, come l’assassinio del giudice Scopelliti e del Presidente del Consiglio regionale Fortugno.

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La strage di Duisburg è stato l’ultimo degli episodi eclatanti, che ha provocato una dura rea- Nella foto zione da parte delle istitu- Lia Staropoli zioni, ma anche della gente comune. Questi fatti eclatanti che la ‘ndrangheta aveva sempre evitato, hanno determinato molte iniziative, anche popolari, che hanno visto come protagonisti molti giovani. Oggi il fenomeno è sotto i riflettori molto più di prima e ciò rappresenta un aspetto molto importante, perché serve a scuotere le coscienze ed a far diminuire quel consenso sociale che è stata l’arma vincente della ‘ndrangheta nel corso degli anni.

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a cura di Lady Oscar Redazione Sportiva rivista@sappe.it

Fiammate Azzurre d’estate

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Nelle foto sopra Giovanni Pellielo e il logo dei Campionati del Mondo di Belgrado 2011 sotto Marco Panizza nell’altra pagina a cavallo, Sara Bartoli a destra Stefania Cicala Alice Fagioli e Francesca Zanirato nel box Ester Soldi

ra agosto e settembre hanno brillato più volte i colori delle Fiamme Azzurre nelle rassegne mondiali e nazionali che hanno interessato le discipline che il gruppo sportivo ospita. Abbiamo scelto in particolare, per brevità, tre sport in cui i portacolori della Polizia Penitenziaria si sono particolarmente distinti: Tiro a volo, Sport Equestri e Canoa. Il Tiro a volo ha visto come protagonisti assoluti dei nostri colori l’ormai leggendario Giovanni Pellielo ed il giovane ma già affermatissimo tiratore Marco Panizza che in due giornate, 18 e 19 agosto, si è assicurato il titolo mondiale universitario alle Universiadi cinesi di Schenzhen rinverdendo dopo molti anni la vittoria individuale del marciatore azzurro e delle Fiamme Azzurre Walter Arena, conquistata a Duisburg nel 1989. La vittoria di Marco sulle pedane di Longgang non è praticamente mai stata in discussione, con il nostro atleta che non ha sbagliato nulla nella prima giornata, finendo le prime tre serie con 75/75 proseguendo poi con due errori nelle qualificazioni (due tornate con 24/25) con un errore solo nel penultimo piattello dell’ultima serie che gli hanno comunque consentito di accedere alla finale da leader di classifica provvisorio con uno score di 123/125 appaiato con il polacco Trzebinski, a pari punti. Nella finale a sei (quella che prevede un solo colpo da poter sparare al piattello, cioè di prima canna) Marco si è distinto nuovamente con un ottimo 23/25 ed il suo 146/150 complessivo gli ha consentito di mettersi al collo un prezioso e meritato oro. E’ stata una competizione di alto livello tecnico, con punteggi non dissimili rispetto a quelli che hanno caratterizzato la recente rassegna europea di Belgrado e gli ancor più i recenti campionati mondiali di settembre, sempre a Belgrado. Marco Panizza nelle Universiadi ha oltretutto guidato anche la formazione azzurra all’oro di squadra, con un totale di 363/375 (Panizza 123, Prosperi 122 e Andrea Miotto 118): ed è stato così demolito il terzetto cinese (357), proprio sulla pedana di casa, mentre il bronzo è andato ai polacchi (349 a seguire, poi la Slovacchia con 348, e gli Usa con 343). Un campionato straordinario quello del ragazzo piemontese,

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Agente di Polizia Penitenziaria e studente di Scienze Biologiche presso l’Università del Piemonte Orientale, in una specialità olimpica come il trap, dopo il podio iridato nella fossa universale (terzo posto nell’edizione 2010 in una specialità diffusa a livello internazionale, ma non inclusa nel programma tecnico dei Giochi Olimpici). Bravo e complimenti a Marco, che in stagione è stato anche primo nel campionato militare eccellenza gareggiando insieme ad altri tiratori esperti del calibro di Frasca e De Filippis ad esempio, e probabile azzurro, secondo previsioni del responsabile tecnico della sezione del tiro a volo delle Fiamme Azzurre Pietro Aloi, nella rassegna prevista nella seconda settimana di ottobre prossimo in Kazakistan, nella finale del Gp delle Nazioni. Per ciò che concerne il nostro grande Giovanni Pellielo, dopo un europeo di Belgrado un po’ in ombra (11° posto conclusivo) e dopo un recentissimo mondale individuale in cui è riuscito nell’individuale a piazzarsi non più su del quarto posto, Johnny, nella prova a squadre, ha consegnato alle Fiamme Azzurre il 21° titolo mondiale della storia che ne contraddistinguono la tradizione. Quella di Belgrado (5/6 settembre) è stata una rassegna iridata contraddistinta certamente da note stonate per il nostro atleta visto che la due giorni della fossa olimpica si era aperta per lui con due errori nella prima serie di qualificazione che lo avevano costretto ad una disperata rimonta finita con un 75/75 nelle ultime tre serie e poi con una finale, agguantata grazie a uno spareggio concluso al 5° piattello supplementare. Dal 122/125 della prima fase, Pellielo ha cercato di costruire la rimonta nel podio individuale, purtroppo non raggiunta dopo un 22/25 di prima canna nella serie clou. Con 144/150 il vercellese si classificato 4° dietro al compagno di squadra Massimo Fabbrizi, dietro al campione olimpico David Kostelecky (146/150) ed al francese Stephane Clemans (145/150), che pure era approdato alla finale a sei solo nel 10° turno dello shoot-off nelle qualificazioni contro il dominicano Sergio Pinero. La prestazione complessiva del team azzurro ha comunque consegnato all’Italia un oro a squadre che è anche il nuovo primato del mondo con 369/375: un punteggio insperato che rasenta la prova tipo da inserire nelle antologie relative alla tecnica vincente del tiro sportivo. Il record precedente apparteneva ugualmente all’Italia peraltro, con 368/375: e in quel terzetto, detentore del record dal lontano 1995, c’era ancora il nostro Pellielo con Venturini e Tittarelli. In campo nazionale i tiratori della Polizia Penitenziaria hanno continuato ugualmente a farsi onore e nelle ultime settimane sono giunti due titoli tricolori nella disciplina del calibro 20. Prima

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Giulia Pintor vincente nella prova femminile a Lunghezza il 21 agosto con 125/150, poi con Adriano Lamera 5° nella finale maschile con 132/150, mentre Alberto Bartoli è giunto 7° e primo degli esclusi proprio a beneficio del bergamasco compagno di squadra, a quota 112/125; con Gianluca Viganò 11° a 109 e Sergio Fattorello 13° a 107). Poi Lamera ha fatto suo il titolo della fossa universale, sul campo di tiro di Rivarolo Mantovano (27/28 agosto), dominando il campo con 180/200. Negli Sport Equestri c’ è stato un en plein di vittorie al campionato italiano militare di dressage e di completo disputatosi dal 17 al 19 settembre presso il centro equestre di Montelibretti. Vittoria per distacco con una percentuale del 75% nelle due giornate di gara per Ester Soldi in sella a Wiena’s dream nel campionato italiano assoluto di dressage. Ottimo terzo posto per Evelina Bertoli su Esido alle spalle del quotato cavaliere olimpico dell’esercito Andrea Mezzaroba. Primo

posto per Sara Bertoli in sella a Robella del Ferro che ha avuto la meglio nel campionato intermedio militare di completo superando la numerosa concorrenza grazie ad un’eccellente prova di salto ostacoli, terminata senza errori, che le ha permesso di scalare la classifica e di imporsi sugli avversari. Esaltante la conquista del primo gradino del podio nel campionato militare assoluto di completo da parte di Evelina Bertoli, giunta al termine di tre giornate di gara che l’hanno vista mettersi alle spalle atleti di grande esperienza, soprattutto grazie alle eccellenti prove nel cross e nel salto ostacoli. Sempre a settembre sono arrivati tre importantissimi titoli italiani assoluti per la Canoa targata Fiamme Azzurre. Le due atlete capaci di conquistare il tricolore nelle rispettive categorie sono state: Stefania Cicali e Alice Fagioli, protagoniste all’Idroscalo di Milano (9/11 settembre) aggiungendo una fantastica prestazione complessiva: Alice ha vinto il titolo nel K1 500 (1’55”12), Stefania nel K1 1000m (4’06”62) e poi entrambe, in coppia, hanno regalato il terzo oro della rassegna alla Polizia penitenziaria nel K2 1000m (3’51”54). L’altra Fiamma Azzurra della spedizione, Francesca Zanirato è giunta invece 4° ( con 46”81) nei 200 metri vinti da Norma Murabito e 5° nella finale del K1 500m che ha visto protagoniste le compagne di squadra Fagioli e Cicali.

Per saperne di più su il Completo dell’equitazione... E’ una specialità equestre caratterizzata da prove assai diverse l’una dall’altra e pertanto richiede grande impegno e versatilità da parte del cavaliere che voglia cimentarvisi. Fino al 1949 il Completo era ufficialmente definito militaire. In quell’anno il duca di Bedford fondò le Badminton Horse Trials, aperte anche ai civili, fino ad allora giudicati inadatti a praticarlo proprio in ragione della durezza dell’impegno. La gara si svolge nell’arco di tre giorni. Ogni concorrente deve gareggiare in tre competizioni: dressage, cross-country e salto a ostacoli. Ogni giornata viene dedicata a una diversa specialità. Il primo concorso completo fu organizzato nel 1902 dall’esercito francese, per saggiare le abilità della cavalleria. Sebbene la tre giorni di prove fu inclusa per la prima volta nel programma delle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 le regole attuali furono applicate la prima volta nel 1924, ai Giochi di Parigi. Ogni specialità viene giudicata in base a un coefficiente to-

timetri) da compiere in 4-5 minuti. La terza fase, identica alla prima, ha uno sviluppo tale di 16 punti così ripartiti: 3 per il dres- di 8-10 chilometri, da compiere in 35-45 sage, 12 per il cross-country, e uno per gli minuti. L’ultima fase, della corsa campeostacoli. La classifica tiene conto delle pe- stre, è da compiere al galoppo, su un pernalità in cui i singoli concorrenti incorrono nelle tre prove.

Il dressage: ha una durata di circa otto minuti e comprende 18 movimenti obbligatori. Ha programma ridotto rispetto a quello del dressage puro, non sono previsti quindi i cambiamenti di direzione, le piroette al galoppo e alcune figure particolarmente complicate. Il cross-country: specialità molto dura, in cui il minimo errore può costare carissimo. La prova è suddivisa in quattro fasi distinte, ciascuna delle quali deve essere terminata entro un tempo prestabilito. La prima fase galoppo e trotto su strada e su pista è percorsa su una distanza di circa cinque chilometri che devono essere percorsi in un tempo compreso fra i 20 e i 25 minuti. La seconda fase è una corsa sulle siepi (con 8-10 ostacoli, alti un metro e quaranta cen-

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corso compreso fra i 7 e gli 8 chilometri, in 13-14 minuti. Dopo la terza fase un veterinario controlla le condizioni fisiche del cavallo (battito cardiaco e condizioni degli arti). Nel terzo giorno si svolge la prova di salto agli ostacoli. Il percorso, di media difficoltà, prevede 12 ostacoli con un’altezza massima di un metro e venti centimetri.

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Maurizio Maria Guerra avvocato www.avvocatoguerra.it

Dipendenza da causa di servizio Unicità d’accertamento per Equo Indennizzo e Pensione Privilegiata. Conseguenze della mancata impugnativa

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opo l’entrata in vigore del d.P.R. 461 del 2001, quando si chiede l’accertamento della dipendenza da causa di servizio di infermità e lesioni, il parere espresso dal Comitato di Verifica delle Cause di servizio è vincolante per l’Amministrazione, tanto che in calce ai più recenti decreti negativi, l’Amministrazione avverte l’interessato che l’atto va gravato dinanzi al competente T.A.R., o in alternativa con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica nei termini di legge e che “decorso inutilmente il termine stesso, il giudizio sulla dipendenza diventerà inoppugnabile anche in sede di successivo eventuale provvedimento negativo di pensione privilegiata”.

Secondo l’Amministrazione, la mancata tempestiva impugnativa del decreto negativo dinanzi al Giudice Amministrativo, renderebbe definitiva la non dipendenza da causa di servizio delle infermità oggetto del provvedimento a norma dell’art. 12 del d.P.R. 461 del 2001, non soltanto ai fini dell’equo indennizzo ma anche ai fini del diritto a pensione privilegiata, vista l’unicità d’accertamento stabilita dalla predetta disposizione. E nei giudizi pensionistici dinanzi alla Corte dei Conti, cominciano ad essere sollevate dall’Amministrazione le seguenti eccezioni: a) difetto di giurisdizione dell’adita Corte dei Conti perché “la domanda proposta dal ricorrente, pur diretta in de-

finitiva a ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di alcune patologie finalizzate anche alla concessione della pensione privilegiata, comporta una prodromica pronunzia in ordine alla illegittimità di atti inoppugnabili di natura non pensionistica”. Secondo l’Amministrazione resistente, la Corte dei Conti non avrebbe potere giurisdizionale di rivisitazione della pronuncia negativa di dipendenza da causa di servizio vincolata dal parere del C.V.C.S. non gravato e come tale definitivo.. b) difetto del potere di accertamento, di verifica e di diverso apprezzamento da parte del Giudice in ordine ai pareri espressi dal C.V.C.S.. L’Amministrazione ritiene che il parere espresso dal Comitato di Verifica della Cause di Servizio, ex C.P.P.O., obbligatorio, vincolante e che non ammette il ricorso a pareri di altri Organi, non renderebbe possibile neanche al Giudice delle pensioni (come al Giudice Amministrativo) di sostituire il proprio apprezzamento a quello rientrante nella discrezionalità tecnica dell’Organo Consultivo, in tal modo confondendo la giurisdizione del giudice amministrativo (giudice dell’atto) con quella di merito della Corte dei Conti quale giudice delle pensioni. Sulla competenza giurisdizionale della Corte dei Conti anche dopo l’entrata in vigore del nuovo regolamento per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di cui al d.P.R. 461/01, è sufficiente richiamare la sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 5467 del 06.03.2009 secondo la quale “deve affermarsi il principio che è devoluta alla Corte dei Conti non solo la domanda di accertamento della causa di servizio proposta unitamente alla conseguente

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domanda di condanna dell’ente previdenziale al pagamento del trattamento pensionistico, ma anche la sola domanda di mero accertamento della causa di servizio quale presupposto della spettanza del trattamento pensionistico di privilegio” (e ciò indipendentemente che la pronuncia sia stata emessa con provvedimento che conceda o neghi anche l’equo indennizzo). Con la citata sentenza la Corte regolatrice ha ribadito che nelle controversie per l’ottenimento della pensione privilegiata ordinaria per invalidità dipendente da causa di servizio, la Corte dei Conti può autonomamente rivalutare la dipendenza da causa di servizio anche negando o riconoscendo la sussistenza della dipendenza stessa accertata servizio durante, senza incontrare alcuna preclusione negli accertamenti effettuati ad altri fini sulle infermità medesime, in quanto l’indicato giudizio della Corte dei Conti, riguardando la spettanza del diritto a pensione, verte sul rapporto e non sull’atto amministrativo e non si applicano, rispetto ad esso, i limiti propri del giudizio d’impugnazione dell’atto amministrativo in sede giurisdizionale generale di legittimità. In conclusione la Corte di Cassazione ha affermato il principio che è devoluta alla Corte dei Conti non solo l’accertamento della causa di servizio proposta unitamente alla domanda di condanna dell’ente previdenziale al pagamento del trattamento pensionistico, ma anche l’accertamento della causa di servizio, presentata durante l’attività di servizio, ai fini e quale presupposto della spettanza del (futuro) trattamento pensionistico privilegiato. Tanto dovrebbe bastare per eliminare ogni eventuale residua incertezza anche in presenza dell’unicità d’accertamento della di-

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pendenza da causa di servizio ex art. 12 del d.P.R. 461/01. Sicché il personale delle Forze di Polizia, dovrà ricorrere tempestivamente dinanzi al competente T.A.R. soltanto ai fini dell’equo indennizzo, restando impregiudicato il ricorso alla Corte dei Conti ai fini dell’accertamento della dipendenza da causa di servizio quale “presupposto” della pensione privilegiata. Normalmente, infatti, i decreti negativi dell’Amministrazione contengono due provvedimenti: - uno sulla dipendenza da causa di servizio delle infermità, valido anche ai fini del diritto a pensione privilegiata ex art. 12 del d.P.R. 461/01, e come tale rientrante nella esclusiva competenza giurisdizionale della Corte dei Conti; - l’altro sul diritto all’equo indennizzo la cui impugnativa, sia che l’istante si trovi in servizio o che si trovi in pensione, rientra nella esclusiva competenza del giudice amministrativo non riguardando la materia previdenziale. I pareri espressi dal C.V.C.S. ex art. 12 del d.P.R. 461/01 ancorché vincolanti per l’Amministrazione anche in sede di concessione della pensione privilegiata, non diventano inoppugnabili in difetto di ricorso dinanzi al giudice amministrativo, come vorrebbe sostenere l’Amministrazione, ma sono validamente impugnabili senza alcun termine decadenziale dinanzi alla Corte dei Conti singolarmente (ai soli fini dell’accertamento del riconoscimento della dipendenza da c.s. quale presupposto del diritto a pensione privilegiata) o in una con i decreti negativi della pensione privilegiata stessa.

Simonetta Matone nominata Vice Capo del Dipartimento

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imonetta Matone nata a Roma nel 1953. Sguardo attento e occhi scuri che sembrano voler penetrare dappertutto, voce ferma e senza alcuna paura di dire ciò che pensa: Simonetta Matone ha lottato per tanti ragazzini e tanti ne ha salvati dall’abuso, dallo sfruttamento, dalla violenza non vista, non ascoltata, quella che si perpetra nelle famiglie di una società che nasconde invece di denunciare. Quelli che ancora ricorda sono i ragazzi per cui non ha potuto far nulla, i nomi continua ad averli ben stampati dentro la mente. Simonetta Matone è nata a Roma il 16 giugno 1953, è sposata ed ha tre figli. Laureata in giurisprudenza alla Sapienza di Roma nel 1976, dal 1979 al 1980 è vicedirettore del carcere presso Le Murate a Firenze. Dal 1981 al 1982 è giudice presso il Tribunale di Lecco e dal 1983 al 1986 è magistrato di sorveglianza a Roma. Fin dall’inizio della sua attività lavorativa, per lei la parola giustizia lenta non esiste: troppe persone aspettano, troppe cause, fascicoli che non possono rimanere chiusi in armadi per anni. Ha 26 anni è scrupolosa e scioglie nell’ambito civile centinaia di riserve ereditate dai suoi predecessori. Tutti ricordano il suo lavoro svolto con attenzione, porta in Camera di Consiglio numerosi processi civili pendenti da anni ricevendo l’encomio dal Consiglio dell’ordine. Dal 1983 è magistrato di sorveglianza presso la Corte di Appello di Roma fino al 1986. Organizza il primo convegno nazionale sulla detenzione in Italia e in quell’occasione i detenuti mettono in scena Antigone di Sofocle. Lavora in carcere e concede ben novecento permessi con un record assoluto di rientri: mancheranno solo 9 alla sua fiducia. I detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia (Roma), le regalano una targa: «a Simonetta, che a molti spezzò la chiave dell’attesa». Crea, in favore della popolazione carceraria del Lazio, una fitta rete di rapporti con le amministrazioni locali per incoraggiare ogni utile intervento di risocializzazione e di sostegno. Nel 1987 è nominata capo della Segreteria del ministro della Giustizia Giuliano Vassalli. È delegata a mantenere i rapporti con le Direzioni generali ed in particolare con gli uffici giudiziari, diventando il tramite tra i capi degli uffici ed il ministro per la soluzione dei problemi legati alla organizzazione degli stessi ed alla cronica mancanza di personale. Messa a disposizione dal ministro Martelli, chiede di essere trasferita alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Roma: diventa sostituto procuratore e dal 1991 al 2008 la sua stanza, come dirà in un’intervista, si trasforma nella sua cognizione del dolore. Arrivano fascicoli che parlano di abusi su bambini, di violenze, di famiglie ammalate;

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leggi in ritardo, silenzi, collusioni. «La storia più terribile? Quella di una madre che sorteggiava i numeri della tombola per stabilire quante frustate, quante bruciature, quante scottature nell’acqua bollente fosse giusto infliggere ai suoi figli». Nel 1992 fonda, con altre colleghe, l’ADMI - Associazione Donne Magistrato Italiane. Ha istruito delicatissimi procedimenti quali il primo processo di riduzione in schiavitù nel 1992, il cui principale imputato, all’epoca dei fatti minorenne, aveva costituito una imponente struttura criminale votata allo sfruttamento di 27 minori rom. Ha istruito il primo processo nel Lazio a carico di un gruppo di naziskin, che si erano resi responsabili di una feroce aggressione a danno di un gruppo di inermi extracomunitari. Ha posto fine con l’arresto e la condanna ad una infinita serie di rapine compiute a danno di minorenni da parte di due minori figli di un boss della banda della Magliana. Ha istruito il procedimento per le terribili violenze sessuali di cui sono rimaste vittime tre bambine ad opera di un gruppo di 23 minorenni. «Non si può tollerare che i bambini, ripeto i bambini, vengano indotti alla criminalità, siano sfruttati, lesi nei loro diritti umani all’infanzia e allo studio». Nel 2008 diventa capo gabinetto del Ministro per le Pari Opportunità. Si tiene lontana da polemiche e lavora per la tutela delle donne, dei bambini, si espone e non si risparmia. «Togliamoci dalla testa il cliché della pecora nera: non ho mai trovato nella mia professione un ragazzo autore di un reato, specie se grave, che non avesse alle spalle le ragioni che dessero l’esatta spiegazione per quanto aveva fatto. Per carità, non sto giustificando. Ma dietro ogni grosso crimine c’è sempre un qualcosa che non funziona a livello familiare». Nel 2000 ha vinto il Premio Donna, nel 2002 il Premio Minerva per la Giustizia e il premio Donna, nel 2004 il premio Il Collegio e nel 2005 il premio Donna dell’anno 2005 della Regione Lazio. Ha rappresentato l’Italia presso il Consiglio d’Europa presso il CDCJ, per il Reclamo Collettivo, presso il Comitato Permanente della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti del minore. È stata nominata nel 2009 Focal Point italiano presso il Consiglio d’Europa per i minori.

La biografia scritta da Maria Procino è tratta dall’Enciclopedia delle Donne (www.enciclopediadelledonne.it).

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Per la prima volta dopo 10 anni la Polizia Penitenziaria non sarà presente al Salone Nautico di Genova

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al 1962 il Salone Nautico di Genova ha rappresentato e rappresenta una delle vetrine più importanti del settore a livello mondiale, e dal 2003 (grazie alla tenacia e all’impulso del SAPPE ed all’impegno degli allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto e Capo Dipartimento Gian Carlo Caselli) è sempre stato presente anche il Corpo di Polizia Penitenziaria con il Servizio Navale, che ha avuto la possibilità di illustrare ed informare le centinaia di migliaia di visitatori che si registrano ad ogni edizione sui compiti istituzionali svolti dai Baschi Azzurri anche in ambito navale nelle acque della penisola. Ma quest’anno non ci sarà lo stand della Polizia Penitenziaria al 51° Salone Internazionale della Nautica, a Genova dal 1 ottobre.

Immagini del 51° Salone Nautico

Le ragioni? “Mancanza di fondi”, come ha comunicato ai Sindacati della Polizia Penitenziaria il Provveditore della Liguria, Giovanni Salamone, in una strigata comunicazione che ha dato diffusione della decisione del Capo del Dipartimento, Franco Ionta. Una decisione scandalosa! Ma come? Non ci sono i soldi per valorizzare il ruolo della Polizia Penitenziaria in una importante manifestazione internazionale che ci ha visto presenti negli ultimi anni quando gli organi di informazione denunciamo pubblicamente che sono stati spesi 900mila euro in consulenti per un Piano Carceri mai decollato, qualche milione di euro per realizzare uno scintillate nuovo ingresso del Dipartimento e centomila euro per realizzare una Cappella religiosa al DAP (!)? Non ci sono soldi per noi ma fino a pochi giorni fa i nostri dirigenti andavano in giro con Jaguar e Maserati mentre i mezzi della Polizia Penitenziaria che trasportano i detenuti cadono a pezzi? E soprattutto non ci sono soldi per valorizzare in un contesto internazionale di prestigio – quale è il Salone internazionale della Nautica di Genova - l’importante ruolo del Corpo dopo che sono stati REGALATI 110 milioni di euro - dieci milioni di euro all’anno per dieci anni (!) - alla Telecom per 400 braccialetti elettronici per il controllo dei detenuti buttati in qualche cassetto del Viminale? Ma è davvero questione di soldi? Io credo di no.

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Negli anni passati, ed in particolare nell’ultima edizione, lo stand della Polizia Penitenziaria era realizzato in economia presso il centro penitenziario di Secondigliano e la Base Navale di Nisida, con il Coordinamento dei Provveditorati Regionali di Napoli e Genova. Il supporto logistico era a cura della Direzione della casa Circondariale di Genova Marassi mentre i vari servizi di rappresentanza e di ordine pubblico erano stati effettuati con l’impiego del personale di Polizia penitenziaria della Liguria. E quindi i costi sono talmente contenuti che non giustificano questa assurda decisione di Ionta, che pure è il Capo della Polizia Penitenziaria ed in virtù di ciò riceve un appannaggio stipendiale di 500mila euro l’anno! Ma questa decisione fa nascere una

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volta di più il sospetto è che del Corpo di Polizia Penitenziaria, della sua immagine e valorizzazione sociale non frega nulla alla casta del DAP. Possibile non si capisca che il Corpo di Polizia Penitenziaria non ha bisogno di manifestazioni autoreferenziali, come ad esempio certe Feste locali, ma di cerimonie allargate alla partecipazione dell’opinione pubblica che deve conoscere quali e quante difficoltà operative incontrano le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria nel quotidiano lavoro nelle carceri italiane? Siamo e dobbiamo essere una Istituzione sempre più trasparente, una casa di vetro, perché non abbiamo nulla da nascondere, anzi dobbiamo assolutamente valorizzare quello che ogni giorno i Baschi Azzurri fanno nel mondo sconosciuto delle carceri. In questo contesto, la presenza al Salone Internazionale della Nautica è stata fondamentale negli ultimi anni. Nel caso della Polizia Penitenziaria, poi, proprio per l’importanza dei servizi fondamentali svolti dal nostro Corpo, l’aspetto pubblico è importante. I cittadini hanno il diritto di conoscere da vicino le attività di una delle loro cinque Forze di Polizia e hanno ampiamente dimostrato di apprezzarne il lavoro quando glien’è stata data occasione di valutazione. Impedire che la Polizia Penitenziaria possa essere con il suo stand al Salone Nautico per ‘mancanza di fondi’ dopo che ne sono stati spesi a centinaia e centinaia di migliaia per operazioni discutibili è grave, vergognoso ed inaccettabile. Denunciamo anche qui la nostra totale disapprovazione per la scelta di non organizzare lo stand del Corpo di Polizia Penitenziaria al Salone Nautico di Genova. Questa grave scelta fa tornare indietro di molto la fiducia che il Personale aveva iniziato ad avere nei confronti di un’Amministrazione che dimostra, ancora una volta, di sottovalutare quanto l’aspetto della mancanza di riconoscimento sociale per il proprio lavoro, avvertito dai nostri colleghi, incida in ognuno a mettere in crisi il senso di appartenenza al Corpo e ai suoi doveri istituzionali. Le motivazioni di ordine strettamente economico non solo non possono essere giustificate, ma sono un vero e proprio insulto agli appartenenti alla Polizia Penitenziaria e dimostrano il senso di menefreghismo che una parte assolutamente minoritaria di questa Amministrazione ha nei confronti delle persone che ne rappresentano di gran lunga sia la consistenza strettamente numerica e garantiscono l’effettivo funzionamento, spesso sopperendo alle lacune che gli altri non sono in grado di colmare. Un’altra pagina buia di questa Amministrazione Penitenziaria matrigna verso i Baschi Azzurri del Corpo e la loro valorizzazione sociale e mediatica... erremme

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Teramo: lotta allo spaccio di sostanze stupefacenti Il Sappe esprime il convinto e sincero apprezzamento, per l’importante attività di Polizia giudiziaria dei baschi azzurri di Teramo congiunta con unità cinofile della Guardia di Finanza e in particolar modo per il fiuto del cane Pamir, sequestrando un’ingente quantitativo di sostanza stupefacente, arrestando in flagranza di reato lo spacciatore, che, sottoposto immediatamente a processo e stato condannato ad un anno e un mese di reclusione dal Tribunale di Teramo, evitando quindi lo spaccio in carcere di droga. «Ritengo che il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria debba adeguatamente valorizzare quest’attività di servizio, assegnando unità di cinofili del Corpo in tutti gli istituti della penisola in particolare a Teramo dove sono ristretti 100 detenuti tossicodipendenti, riconoscendo al Personale di Polizia impiegato un’adeguata ricompensa». «Il costante e pesante sovraffollamento dell’istituto teramano dove sono presenti 430 detenuti a fronte dei 240 posti letto regolamentari , fa fare ogni giorno alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria i salti mortali per garantire la sicurezza. Da parte mia intendo ancora una volta esprimere la testimonianza di vicinanza del Primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, ai disagi delle colleghe e dei colleghi in servizio ». Giuseppe Pallini

Viterbo: il collega Ferruzzi Campione Interforze di bici L’Assistente Capo del corpo Stefano Ferruzzi, in forza al Reparto di Viterbo, domenica 18 settembre 2011 si è laureato Campione Italiano Interforze 2011. La gara si è svolta a Grosseto sulla distanza di 80 km. Ferruzzi, atleta in forza alla Cicli Montanini, squadra amatoriale della provincia di Viterbo, ha siglato in volata il suo successo guadagnando appunto la maglia tricolore e portando lustro all’immagine del Corpo della Polizia Penitenziaria.

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Nella foto Stefano Ferruzzi con due colleghi


inviate i vostri articoli a rivista@sappe.it

Airola: visita del Prefetto di Benevento all’IPM

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l 15 Agosto 2011 l’Istituto Penale Minorile di Airola(BN) ha ospitato il Prefetto di Benevento Dott. Michele Mazza, il quale con l’occasione ha voluto verificare le condizioni di lavoro e la sicurezza della struttura. Ad accogliere il Prefetto presso l’I.P.M. di Airola un picchetto di Polizia Penitenziaria formato da 5 unità (Ass. Capo Pasquale Vitale, Ag. Sc. Lucia Maglione, Ass. Capo Antonio Cieri e l’Ass. Capo Pasquale Ruggiero) in uniforme di rappresentanza, comandato dal V. Sovr. Carmen Landolfi. Durante la visita il Prefetto è stato accompagnato dal Comandante di Reparto Isp. Sup. Angelo Marotti e dal Direttore della struttura penitenziaria Dr.ssa Mariangela Cirigliano, cui va il merito di aver meticolosamente illustrato tutte le bellezze ancora oggi presenti nell’istituto beneventano che si ricorda essere stato un ex palazzo ducale, appartenuto inizialmente alla famiglia Caracciolo. L’IPM di Airola ha inestimabile valore se si pensa che nel 1823 ospitò per tre giorni il Principe Vittorio Emanuele di Savoia, divenuto poi re d’Italia. Si rammenta che solo nel 1930 il Palazzo venne donato allo Stato per essere poi destinato alla rieducazione dei minori. Servizio di Ciro Borrelli - Foto di Pasquale Ruggiero

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Palermo: organizzata dal Sappe una riunione conviviale per gli iscritti dell’Ucciardone

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in data 26 agosto 2011 è stata organizzata dal Vice Segretario Regionale Sappe Cataldo Calì con la collaborazione degli altri dirigenti Sappe di Palermo Ucciardone, una mangiata, come si dice in sicilia arrusti e mangia, l’evento è stato possibile grazie ad un collega che ha messo a disposizione la sua campagna sita in zona monte San Calogero Termini Imerese - Caccamo da dove si ammirava una bellissima visuale della costa e del mare da Cefalù a Palermo. Al fine di dare la possibilità anche a chi faceva mattina e notte di poter partecipare, l’evento ha avuto inizio alle 15,00 sino alle 24,00 ed è stato un via vai di colleghi, una quarantina, che hanno partecipato ed apprezzato tantissimo questa iniziativa ideata dal Sappe. Il Sappe di Palermo Ucciardone ha voluto organizzare questo evento perchè, purtroppo, l’Amministrazione non fà niente per il benessere del personale ed in particolare i colleghi dell’Ucciardone vivono una situazione critica con una carenza di personale pari a 170 unità, lavorano in posti di servizio sporchi e fatiscenti, dove di sentinella ti passeggiano i ratti, negli altri posti di servizio vi sono blatte e una miriade di zanzare e qualche topone, i bagni sono pieni di muffa e umidità e gli scarichi rotti, sovente di pomeriggio la sera e la notte i colleghi occuppano doppi e tripli posti di servizio. Con questa iniziativa abbiamo regalato un sorriso ai colleghi, costretti a lavorarare in condizioni estreme, ed è stato un momento importante di unione per cementare anche i rapporti interpesonali. Cataldo Calì

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Cairo Montenotte: il giuramento degli Agenti del 162° Corso

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l 29 luglio scorso i neo Agenti del 162° corso hanno giurato fedeltà alla Repubblica. Alla cerimonia, alla quale hanno partecipato con commozione molti familiari dei neo Agenti, ha presenziato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, accompagnato dal direttore della Scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo, Nicolò Mangraviti, e dal Comandante di Reparto, Commissario Andrea Zagarella. Il giuramento si sarebbe dovuto tenere in realtà in piazza della Vittoria, nel centro di Cairo Montenotte, ma l’improvvisa scomparsa del vicesindaco Gaetano Milintenda ha indotto gli impeccabili organizzatori a svolgere la cerimonia nel piazzale della Scuola, per testimoniare il rispetto verso la memoria del vicesindaco Milintenda e verso il lutto di tutta la comunità cairese. La cerimonia ha visto il giuramento, con il tradizionale grido corale, di una cinquantina di Agenti del 162° corso, che hanno sfilato al ritmo della Banda musicale davanti ai Labari ed ai Gonfaloni delle varie Associazioni combattentistiche e d’Arma, tra le quali quello dell’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria ANPPe, del comune di Cairo, della Provincia di Savona e della Regione Liguria. Presenti in tribuna autorità tra gli altri, il Segretario Generale del SAPPe Donato Capece, il Coordinatore nazionale dell’ANPPe Lionello Pascone e il Provveditore della Liguria Giovanni Salamone.

Una bella cerimonia che, seppure ammantata di tristezza per l’improvviso lutto che ha coinvolto la comunità cairese, ha testimoniato e saldato una volta di più il lungo e profondo legale che unisce la Scuola ed i poliziotti di Cairo Montenotte con i cittadini dell’importante centro della Valbormida. erremme

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Potenza: il Sappe e tutta la Polizia Penitenziaria in lutto per Mimmo

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ome un fulmine a ciel sereno, una improvvisa tragedia si è abbattuta sull’intera Comunità dei baschi azzurri lucani. Venerdì 2 agosto è deceduto a Potenza, a seguito di leucemia, l’Assistente Capo Domenico Lacerenza, nato a Tricarico (MT) il 5 luglio 1970, caposaldo dell’Ufficio Matricola della Casa Circondariale di Potenza. Una persona meravigliosa, un amico di tutti, sempre disponibile nell’aiutare chi ne avesse bisogno. Una gravissima perdita per gli amici ed i colleghi ma ancor di più per i propri cari. Mimmo lascia la moglie Antonella e la figlia Carlotta. La sua scomparsa, tanto improvvisa quanto ingiusta, è una grave perdita per tutta la comunità lucana del Sappe e della Polizia Penitenziaria. Anche i componenti la Redazione di Polizia Penitenziaria e la Segreteria Generale del Sappe intendono esprimere ai familiari e ai parenti di Mimmo Lacerenza sincero cordoglio e profonda commozione.

Saluzzo: come difendersi dalle aggressioni?

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i susseguono ormai giornalmente come un bollettino di guerra in Piemonte, Liguria e fino alla punta dello stivale negli oltre duecento istituti italiani, le aggressioni ai Poliziotti che svolgono il loro servizio all'interno delle sezioni detentive - soli a gestire 100 - 150 detenuti per otto ore e più. Recentemente sono accaduti disordini negli Istituti di Saluzzo: dove un detenuto ha aggredito, senza motivo apparente, in successione due agenti di Polizia Penitenziaria tanto da farli ricorrere alle cure mediche, o come nell'Istituto di Fossano dove durante uno sfollamento Regionale, altri due poliziotti sono rimasti contusi.

Reggio Emilia: detenuto dell’OPG preso in stazione dopo essere evaso dall’ospedale E’ ormai allarme sulla carenza di Agenti di Polizia Penitenziaria nella struttura carceraria reggiana

L Il Reparto di Polizia Penitenziaria di Saluzzo, riesce a garantire con la propria professionalità e spirito di Corpo, la gestione di un istituto che ospita diverse tipologie di detenuti, nonostante un notevole sottorganico. E’ opportuno che gli Agenti di Polizia Penitenziaria in servizio negli Istituti italiani dispongano individualmente di armi non letali da utilizzare per la difesa e la gestione di eventi critici che possono coinvolgere più detenuti contro un solo poliziotto o nei confronti di altri detenuti. Solo le grandi capacità organizzative ed operative consolidate in prima linea dalla Polizia Penitenziaria dei Reparti della Provincia di Cuneo, anche in situazioni critiche permette il normale e corretto svolgimento di tutte le attività interne ed esterne agli Istituti, per questo la Segreteria del Sappe nell'esprimere la vicinanza ai colleghi dei Reparti di Saluzzo e Fossano, sottolinea la necessità che i Poliziotti Penitenziari possano/debbano potersi difendere dalle aggressioni. Antonio Amodeo

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a carenza di personale tra gli agenti di Polizia Penitenziaria acuisce ogni giorno di più il problema del sovraffollamento. E non mancano gli episodi che accrescono l’allarme. L’ultimo, soltanto qualche giorno fa, con l’evasione di un ricoverato dell’Opg, poi rintracciato e fermato nei pressi della stazione ferroviaria. L’uomo, ricoverato all’Opg, nei giorni scorsi era stato trasferito al Santa Maria Nuova per alcuni accertamenti medici. Nessun piantone davanti alla sua stanza, nessun agente di scorta. E non per negligenza, ma per assoluta carenza di personale. Così, al pomeriggio l’uomo si alza dal letto, si veste, esce dalla stanza, lascia l’ospedale. Nessuno lo ferma. Ad accorgersi della sua scomparsa gli infermieri e il personale dell’ospedale cittadino, che danno immediatamente l’allarme. Alcuni agenti della Polizia Penitenziaria, avvertiti dell’evasione rientrano in servizio salgono su un’auto che arriva (in prestito) dal Provveditorato Regionale di Bologna e si mettono alla ricerca dell’evaso. Che verrà rintracciato poco dopo nei pressi della stazione ferroviaria. «La situazione - ha dichiarato Michele Malorni, Segretario del sindacato Sappe in questi ultimi mesi è ulteriormente peggiorata, la carenza di personale si fa sempre più pesante. Mancano gli agenti per le traduzioni e per la sorveglianza nei reparti detentivi».

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a cura di Ciro Borrelli rappresentante Sappe ICF Roma info@sappe.it

Reclusione e convalida dell’arresto per il detenuto minorenne Nelle foto la sede dell’IPM di Airola (BN) e, nel riquadro, lo stesso istituto in una foto degli anni ‘40

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n questo articolo illustreremo quello che accade nel settore minorile quando si verifica la convalida di un arresto di un minorenne o quando una pena diventa definitiva con sentenza del Tribunale dei Minori. Le differenze - rispetto a quanto avviene nell’ipotesi in cui il reato è commesso da un uomo adulto - sono minime. Lo dimostra il fatto che i detenuti minorenni sono soggetti allo stesso Ordinamento Penitenziario e lievi sono le sfumature dettate dalle circolari interne del Dipartimento Giustizia Minorile (ad esempio il personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso le strutture minorili è autorizzato ad indossare abiti civili in luogo della uniforme ordinaria di servizio). Va detto anche che nel contesto della giustizia penale minorile l’ipotesi del carcere è di natura residuale, va inteso cioè come ultima soluzione cui ricorrere quando non è possibile applicare ad un minore uno dei benefici o delle soluzioni alternative che l’ordinamento italiano prevede. Per quanto riguarda gli Istituti Penali per Minorenni, chiamati nel passato case di correzione, riformatori, istituti di osservazione, essi sono di fatto piccole case di reclusione senza sentinelle sul muro di cinta.

Tuttavia nel loro interno si ritrovano le stesse sbarre alle finestre e le porte blindate con chiavi di ottone pesante presenti negli Istituti per Adulti. Si rammenta che in Italia gli I.P.M. possono ospitare esclusivamente giovani di età compresa tra i 14 ed i 18 anni, sottoposti al medesimo ordinamento penale e penitenziario dei maggiori ma con pene ridotte. Tuttavia se la condanna si protrae oltre il compimento del diciottesimo anno di età, il detenuto rimane presso il penitenziario minorile sino al ventunesimo anno, dopodiché viene trasferito d’ufficio presso una casa circondariale o penitenziario ordinario. Se la pena stabilita da un Tribunale dei Minori diviene esecutiva, in séguito a emissione di sentenza di condanna passata in giudicato , dopo che il minore ha compiuto i 18 anni, egli viene comunque ristretto presso un Istituto Penale Minorile se di età inferiore agli anni 21, altrimenti direttamente presso un carcere ordinario. I detenuti minorenni provengono prevalentemente da un Centro di Prima Accoglienza per minori, in cui la reclusione (massimo 96 ore) ha forme meno severe. Gli Istituti Penali per i Minorenni (IPM) assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria quali la custodia

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cautelare detentiva o l’espiazione di pena dei minorenni autori di reato. Attualmente sono attivi in Italia 19 Istituti Penali Minorili e in essi vi lavora 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno la Polizia Penitenziaria, che con meno di mille unità si occupa quasi di tutto. Tali strutture hanno un’organizzazione funzionale e compiono un’azione educativa sempre più integrata con gli altri Servizi della giustizia minorile e del territorio. Negli I.P.M. vengono garantiti i diritti soggettivi dei minori, dalla crescita armonica psico-fisica, allo studio, alla salute, con particolare riguardo alla non-interruzione dei processi educativi in atto e al mantenimento dei legami con le figure significative. In accordo con la normativa vigente ed al fine di attivare processi di responsabilizzazione e maturazione dei minorenni, vengono organizzate in I.P.M. attività scolastiche, di formazione professionale, di animazione culturale, sportiva, ricreativa e teatrale. Il Magistrato di Sorveglianza, che siede presso ogni Tribunale per i minorenni competente per territorio, ha il compito di vigilare sullo svolgimento dei vari servizi dell’Istituto e sul trattamento dei detenuti ai sensi dell’art.5 del D.P.R. 230/00.

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a cura di Giovanni Battista De Blasis

Stone

G In alto la locandina sotto alcune scene del film nel riquadro De Niro e Norton

erard Stone, interpretato da Edward Norton, è un criminale condannato a dieci anni di carcere per l’omicidio dei propri nonni. Dopo otto anni di detenzione la commissione per la libertà vigilata affida il suo fascicolo a Jack Marby, interpretato magistralmente da un grande Robert De Niro, agente penitenziario prossimo alla pensione. Tra lui, in attesa di uscire di prigione dopo aver scontato tre quarti della pena, e l’agente incaricato di seguire il suo caso nascerà un rapporto personale che va ben oltre il rapporto professionale. Infatti, Stone, intuite alcune debolezze dell’agente, non esita a ricorrere alla sua fidanzata (la bellissima Milla Jovovich), per tentare di sedurre il poliziotto ed ottenere il parere favorevole, indispensabile per la

sua scarcerazione. Inevitabilmente l’agente cadrà nel vortice del sesso fino ad invertire i piani caratteriali e stravolgere le prospettive. Nell’agente penitenziario vengono, così, a galla disagi e nevrosi che si impadroniscono degli angoli bui della psiche, proprio mentre in Stone si avvia un percorso di redenzione mistica che lo conduce, apparentemente, a superare le proprie inquietudini e le proprie angosce. La sceneggiatura del film intreccia tematiche del disagio sociale, come la solitudine e la depressione, con le malattie mentali e gli squilibri psichici, la crisi religiosa con il rapporto patologico e perverso tra l’uomo e la prospettiva ultramortem. In buona sostanza, il film solleva interrogativi importanti, ma senza risolverli con risposte soddisfacenti. Il punto di forza della pellicola rimane, indubbiamente, la coppia De Niro-Norton che regala feeling e scambi di battute di alto livello.

Regia: John Curran Soggetto: Angus MacLachlan Sceneggiatura: Angus MacLachlan Fotografia: Maryse Alberti Montaggio: Alexandre de Franceschi Scenografia: Tim Grimes Costumi: Vicki Farrell Produzione: Millennium Films, Mimran Schur Pictures, Holly Wiersma Productions Personaggi ed Interpreti: Jack Mabry: Robert De Niro Stone: Edward Norton Lucetta: Milla Jovovich

Madylyn: Frances Conroy Jack da giovane: Enver Gjokaj Madylyn da giovane: Pepper Binkley Procuratore: Liam Ferguson Miss Dickerson: Sandra Love Aldridge Guardia Peters: Greg Trzaskoma Guardia della torre: Don Cochran Candace: Rachel Loiselle Direttore: Peter Lewis Janice: Sarab Kamoo Insegnante: Linda Boston Genere: Drammatico, Thriller Durata: 105 minuti Origine: USA, 2010

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Genova, Città dei Diritti, dedica la settimana internazionale ai Giusti

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Nella foto Genova Boccadasse e, in alto, la locandina dell’evento

al 7 al 14 luglio 2011 ha avuto luogo nel capoluogo ligure “Genova Città dei Diritti”, la quarta edizione della Settimana Internazionale dei Diritti. In quei giorni Genova si è posta come punto di riferimento nazionale e internazionale per una riflessione di ampio respiro sul tema dei diritti. L’edizione di quest’anno della Settimana è stata dedicata ai Giusti: ossia alle persone che, poste di fronte alle ingiustizie della Storia, hanno saputo e sanno reagire, talora anche a rischio della propria vita, facendo del principio di responsabilità la loro prima, più alta bussola morale. Nella Settimana hanno trovato spazio battaglie, sfide, testimonianze, storie personali differenti tra loro ma tutte partecipi del difficile impegno per difendere ed elevare le forme della convivenza umana. Il tema è stato sviluppato affrontandone gli aspetti culturali, sociali, civili, politici e umani; guardando all’attualità più urgente ma anche alle grandi questioni storiche. Si è trattato di un percorso che ha visto coinvolte persone sconosciute e nomi noti internazionalmente, piccoli eroi quotidiani e candidati al Premio Nobel. La Settimana ha raccontato le loro testimonianze e battaglie più recenti: la questione armena e l’Olocausto, le foibe e il fascismo, la Russia di Putin e la Cina comunista, il Messico dei narcos e il genocidio in Rwanda, il terrorismo e la mafia, i bimbi rom e le lotte di libertà nel Mediterraneo. Ideatore del programma è stato Nando dalla Chiesa, responsabile del Progetto Genova Città dei Diritti. E nella Settimana dedicata a I Giusti”si è parlato anche di carcere e delle morti nelle strutture dello Stato, non solo quelle detentive. “Se mancano i Giusti” è il titolo dell’incontro ospitato giovedì 14 luglio a Palazzo Tursi nel quale è stato presentato il libro di

Luigi Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri”. E’ necessario, utile ed importante dire che ogni volta che una persona muore in carcere questa è una notizia che intristisce tutti, specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità.

Non possiamo però accettare una falsa rappresentazione delle carceri italiane come luoghi fuori dalle regole democratiche e dal rispetto dei diritti umani in cui quotidianamente e sistematicamente avverrebbero violenze in danno dei detenuti ed ogni decesso che purtroppo in esso avviene è quindi sospetto. Non si può accettare che al duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità vengano associati i terribili vocaboli di violenza, indifferenza, cinismo e omertà. Non è accettabile il gioco al massacro dell’onorabilità della Polizia Penitenziaria e dei suoi appartenenti: ci amareggiano le sollecitazioni a fare piena luce su alcune morti avvenute in carcere quasi a instillare il dubbio (a gente che nulla sa di carcere e delle reali dinamiche penitenziarie) che questi tragici

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eventi fossero stati seguiti e gestiti con leggerezza e disinteresse o, peggio ancora, con omertà. E’ la Magistratura che deve accertare - e lo fa come sempre con serenità, equilibrio e pieno rispetto dei valori costituzionali - gli elementi di cui è in possesso quando si verificano in carcere questi tragici eventi critici. Ma non si può essere giustizialisti a corrente alternata chiedendo, da un lato, verità e giustizia e, dall’altro, contestando gli esiti degli accertamenti giudiziari una volta che questi escludono cause violente in queste morti, Credo debba essere importante per il Paese conoscere il lavoro svolto dai poliziotti penitenziari: è importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti. Il nostro Corpo, negli oltre 200 penitenziari italiani, è costituito da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità perché nessuno perda la vita, sventando ogni anno centinaia e centinaia suicidi di detenuti (oltre 1.130 nel solo 2010). Ci sono moltissime ragioni per chiedere un cambiamento - un profondo cambiamento - delle politiche carcerarie del nostro Paese. Il carcere è in crescita esponenziale. In venti anni le presenze sono più che raddoppiate: erano 25.804 il 31 dicembre 1990 e 67.961 alla stessa data del 2010 (il che corrisponde a circa 90.000, ingressi nell’anno). La capienza regolamentare dei nostri istituti

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è di 41.500 e, dunque, il sovraffollamento è di oltre un terzo. In molte carceri i detenuti stanno chiusi per oltre 20 ore in celle di tre metri per tre nelle quali occorre stare in piedi o seduti a turno. E nelle carceri italiane, dal 1992 ad oggi, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria - e questi sono numeri che quasi nessuno dice - sono intervenuti tempestivamente in carcere salvando la vita a ben 14.748 detenuti che hanno tentato di suicidarsi; impedendo che i 103.588 atti di autolesionismo (un numero pari al numero di abitanti di importanti città italiane come Ancona, Piacenza o Bolzano) posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze; intervenendo efficacemente in prima persona, rimanendo spesso feriti, nei 40.335 ferimenti ed aggressioni posti in essere verso poliziotti e altri operatori penitenziari o detenuti.

Peccato infine che non si sia ricordato che nel patrimonio storico e morale della Polizia Penitenziaria c’è un collega che meglio di tutti ha rappresentato la nobiltà del nostro lavoro, pagando l’alto sacrificio della Sua vita. E’ Andrea Schivo, agente di custodia di Villanova d’Albenga, Medaglia d’oro al Merito Civile e insignito dallo Stato di Israele della onorificenza di “Giusto fra le Nazioni”.

Vorrei qui ricordare la motivazione a supporto della concessione della Medaglia d’Oro al Merito Civile: “Nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, si prodigava con eroico coraggio e preclara virtù civica nell’alleviare le sofferenze delle famiglie ebree, rinchiuse nel penitenziario milanese di San Vittore in attesa di essere deportate nei lager tedeschi, procurando cibo e capi di vestiario e facendo giungere loro i messaggi dei familiari. Scoperto dagli aguzzini nazisti veniva trasferito nel campo di Flossenburg, dove moriva di stenti e di sevizie. Fulgido esempio di elevato spirito di servizio, encomiabile abnegazione e spiccato senso morale fondato sui più alti valori di umana solidarietà. 29 gennaio 1945 - Flossenburg (Germania)”. Il Suo nome è aggiunto agli altri presenti nel Giardino dei giusti presso il museo Yad Vashem di Gerusalemme. erremme

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Nella foto la famiglia di Andrea Schivo


Giovanni Passaro passaro@sappe.it

Card di libera circolazione Perchè si deve pagare il duplicato?

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entile collega, complimenti per la chiarezza d’esposizione che fornisce grande aiuto a noi Agenti di Polizia Penitenziaria. Presto servizio nella città di Roma, per cui mi è stata consegnata la tessera di libera circolazione che da diritto all’utilizzo gratuito dei mezzi di trasporto di Roma. Però, al primo utilizzo ho avuto modo di costatare che la card non era funzionante (penso perché smagnetizzata), così mi sono recato in segreteria per la sostituzione della stessa. Con rammarico, ho appreso che per il duplicato devo pagare di 10 euro, trovo questa procedura poco corretta. Che ne pensate? Cordiali saluti. Lettera firmata

Gentile lettore, le misure organizzative atte a disciplinare le modalità di accesso, degli appartenenti alle forze dell’ordine, alle linee di trasporto pubblico locale nei confini del Comune di Roma (1) costituiscono parte integrante del protocollo d’intesa tra Atac spa e Amministrazione penitenziaria. La fornitura delle tessere di libera circolazione (titolo di viaggio denominato METREBUS CARD, fornito su supporto a lettura elettronica, con funzionamento contactless) per l’utilizzo del servizio di trasporto pubblico avviene in conformità a quanto previsto dalla Legge della Regione Lazio n. 16 del 16 giugno 2003, all’art. 45 comma 18, che – stralciato – recita: “Nel caso in cui per l’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblico è necessario il possesso di titolo elettronici, le aziende esercenti i servizi ovvero i soggetti gestori del sistema di bigliettazione rilasciano agli interessati, a richiesta dei rispettivi comandi, i titoli di libera circolazione”. In caso di deterioramento e/o difettosità delle Card, le richieste di duplicato devono essere inviate ad Atac Spa, esclusivamente

tramite i referenti, con un report riepilogativo entro il 30 di ogni mese. I duplicati sono rilasciati previa corresponsione a favore dell’Emittente di un importo pari a 10,00 euro IVA inclusa, quale rimborso dei costi per emissione e attivazione. In caso di difettosità (quando l’Emittente – in sede di verifica tecnica – rilevi vizi di fabbricazione), le card sono rilasciate gratuitamente. A tal fine è opportuno soffermarsi su alcune avvertenze/precauzioni di utilizzo delle Card, cui i titolari, sono tenuti a osservare: • devono proteggere e custodire le Card con la massima accuratezza al fine di preservarne l’integrità e prevenire ogni forma di deterioramento; • devono adottare ogni cautela atta a impedire la compromissione, il danneggiamento o l’utilizzo improprio delle Card, preservandone sempre il corretto funzionamento. Onde prevenire eventuali deterioramenti del chip delle Card con consequenziale inutilizzabilità delle Card stesse, i titolari: • non devono custodire le Card in prossimità di sorgenti di emissioni elettromagnetiche (magneti, carte di credito, batterie, apparecchiature elettriche ed elettroniche, come ad esempio cellulari, hard-disk, etc.); • devono custodire le Card senza esporle a fonti di calore (o comunque a temperature troppo elevate) o a basse temperature; è pertanto sconsigliabile, ad esempio, lasciare la Card in auto, sotto il sole o accanto a fonti di calore; • non devono bagnare, né piegare o tor-

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cere, né strappare, né sottoporre a pressione (per es., si sconsiglia di scrivere sopra la Card con una penna a sfera) o a taglio le Card, né tantomeno forarle (per es., per agganciarle ai diffusi collarini porta badge). La modalità di corresponsione di rimborsi dei costi deve essere effettuata a mezzo bonifico bancario, indicando nella causale “rimborso dei costi di emissione e attivazione n. ……. Card di libera circolazione per Ente ………………..”; per eventuali rilasci successivi di Card la causale dovrà essere specificata caso per caso (“richiesta duplicati, ulteriore richiesta, etc., per Ente………”).

(1) Le Card abilitano all’utilizzo gratuito dei seguenti servizi di trasporto pubblico nei confini del Comune di Roma (per maggiori informazioni sito web www.atac.roma.it): • linee autobus/filobus/tram e linee Metropolitana “A” e “B” (Atac S.p.A.); • tratti urbani delle linee regionali Co.Tra.L.S.p.A.; • ferrovie in concessione “Roma-Lido”, “Roma-Pantano” e tratto urbano della “Roma-Viterbo”, (Met.Ro S.p.A.); • tratti urbani delle ferrovie regionali Trenitalia FR1, FR2, FR3, FR4, FR5, FR6, FR7, FR8 (in seconda classe) limitatamente ai collegamenti sui quali è consentito l’accesso in base alle vigenti disposizioni.

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di Aldo Maturo* avv.maturo@gmail.com

Quando l’espulsione non è reato

E

ssere espulsi e non lasciare l’Italia può diventare una regolare trasgressione ignorata dalla legge. Proprio nel momento in cui i Paesi della sponda sud del mediterraneo stanno esplodendo e l’Italia viene invasa da una valanga umana inarrestabile che ci coglie inevitabilmente impreparati e potrebbe avere un effetto socioeconomico devastante, trova applicazione per il nostro Paese la Direttiva 115/2008 del Parlamento d’Europa che ha stabilito nuove modalità di rimpatrio per i clandestini. La norma, già esecutiva dal 24 dicembre 2010 – termine ultimo entro il quale l’Italia e gli altri Stati europei avrebbero dovuto adeguare la normativa interna alle norme europee – prevede nuove modalità di rimpatrio con procedure eque e trasparenti adottate caso per caso tanto che il semplice fatto del soggiorno irregolare non deve essere l’unico elemento di valutazione. La nuova norma si discosta notevolmente dai provvedimenti amministrativi di espulsione che la Bossi Fini prevede invece in maniera automatica e generalizzata. Il più penalizzato è il comma 5 quater dell’art.14 del nostro testo sull’immigrazione ove si prevede l’arresto e il processo per direttissima con una pena fino a quattro anni di reclusione per lo straniero che permane in Italia illegalmente dopo aver ricevuto l’ordine di allontanamento del questore. Se non intervengono modifiche o interpretazioni urgenti l’art.14 di fatto è da considerare inapplicabile al clandestino che non ha ottemperato al provvedimento di espulsione. Abolitio criminis ha già sentenziato qualche Procura, come a dire non è reato. La Direttiva europea 115 prevede forme diverse di espulsione ed essendo immediatamente esecutiva dal 24 dicembre 2010 costringe le Procure o ad ignorare gli arresti effettuati dalle forze dell’ordine o a scar-

cerare gli extracomunitari già in carcere perché colpiti dalle sanzioni dell’art.14 della Bossi Fini. Qual è il trattamento da riservare invece allo straniero secondo la direttiva europea? Diciamo che di fatto le questure si trovano a dover adottare provvedimenti che richiedono una istruzione preliminare impossibile.

cedere allo straniero un termine per la partenza volontaria, se sussiste pericolo di fuga in caso di concessione di rimpatrio volontario, se esiste ogni altro elemento utile ad evidenziare la presenza o meno del pericolo che si sottragga volontariamente al rimpatrio. Il trattenimento nei CIE è possibile a condizione che non possano essere applicate altre misure sufficienti e meno co-

A fronte di un cittadino straniero presente irregolarmente in Italia, l’espulsione non deve essere più automatica ma prevede una serie di provvedimenti preliminari, quali la decisione di rimpatrio, il rimpatrio volontario, il provvedimento di allontanamento coercitivo e infine, come ultima soluzione, il trattenimento nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). Il Ministero degli Interni ha diramato una circolare (400/B/2010) ai questori ed ai prefetti invitandoli a prestare la massima attenzione ai provvedimenti di rimpatrio che potrebbero essere impugnati dagli interessati se difformi dalle direttive comunitarie. Prima andrà verificato se sussistono le condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno umanitario o ad altro titolo, se sussistono motivi che impediscono di con-

ercitive. Le motivazioni, conclude il Capo Nella foto della Polizia, devono essere adeguate e non adottate in virtù di meccanismi automatici di rimpatrio. Non immagino come possa essere possibile contemperare simili direttive (sia europee che del Capo della Polizia) con le ondate di stranieri che si riversano sulle coste di Lampedusa e dintorni. Intanto molte Procure, in presenza di una Bossi Fini che prevede modalità di rimpatrio diverse da quelle previste dalla direttiva europea, stanno già disapplicando i provvedimenti di espulsione fino ad arrivare anche a scarcerare chi è stato arrestato per averli ignorati. *Aldo Maturo, Avvocato, già Dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria

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Luca Pasqualoni Segretario Nazionale ANFU pasqualoni@sappe.it

Il Potere Giudiziario Responsabilità disciplinare e penale dei magistrati

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on le seguenti riflessioni si intende concludere il ciclo di articoli riguardanti il potere giudiziario, sul quale, tuttavia, ci si riservano eventuali ed ulteriori incursioni. Il problema della responsabilità del magistrato ha assunto, specie negli ultimi tempi, particolare rilievo ed interesse, sia sotto l’aspetto della responsabilità civile che sotto quello della responsabilità disciplinare e finanche penale. L’intervento sempre più incisivo della magistratura in ambiti di grande rilievo politico ed economico, dai quali in precedenza sembrava distaccata da un certo, per così dire, timore reverenziale, con il conseguente turbamento di sottili equilibri, la carica penetrante dei poteri a lei demandati, che investono i beni e la stessa libertà dell’individuo, ed il loro non sempre congruo esercizio, l’insoddisfazione per l’attuale legislazione, hanno indotto ad una diffusa opinione di un giudice legibus solutus e alla ricerca di soluzioni per una maggiore garanzia del cittadino, mediante una più rigorosa regolamentazione. Non bisogna disconoscere, peraltro, che tale esigenza è stata avvertita dalla stessa magistratura, attraverso un ampio dibattito e la predisposizione, sin dal 1970, di schemi di progetti di legge da parte delle due associazioni dell’epoca e di alcune correnti interne alle stesse, poi, successivamente tradotti in legge. E’ ovvio che il giudice deve trovare nella sua coscienza il senso della dignità della propria funzione, che può incidere su interessi primari, quali la libertà individuale ed i beni dei cittadini, e “prendere coscienza, come è stato incisivamente detto, della propria responsabilità, personale e professionale, superando le umane manchevolezze nella ricerca del vero significato e della effettiva portata della sua funzione giurisdizionale”, in “una adeguata visione dei problemi della posizione e della funzione della giustizia in uno stato democratico”. Ciò non può comportare, tuttavia, anche in virtù della sua autonomia ed indipendenza, lo svincolo da qualsiasi responsabilità: si tratta, piuttosto, di stabilire i limiti in cui la stessa può essere fatta valere, senza incidere sull’autonomia, indispensabile baluardo al corretto svolgimento delle specifiche funzioni. E’ noto che la responsabilità disciplinare viene normalmente riferita a quel genere particolare di soggezione speciale in cui determinati soggetti si trovano rispetto all’Amministrazione. La stessa postula, quindi, una organizzazione gerarchica ed un controllo verticistico che, se ben si attagliava alla legislazione anteriore, non è più sostenibile dopo l’entrata in vigore della Costituzione, per la quale la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere e sempre per la quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge, tanto che non sussiste alcun rapporto gerarchico tra gli stessi e l’organo di autotutela, vale a dire il Consiglio Superiore della Magistratura, cui è demandata la potestà disciplinare. La responsabilità che continuiamo a chiamare disciplinare, trova, pertanto, ormai fondamento nella sottoposizione alla legge, al fine di assicurare il regolare svolgimento delle funzioni, attraverso l’os-

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servanza di un codice deontologico di comportamento ed in rapporto all’esigenza di imparzialità che da quella deriva. Possiamo individuare le violazioni del dovere di imparzialità con riguardo a tutti quei casi nei quali il comportamento scorretto è espressione di una commistione tra interesse di giustizia ed interesse personale del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, tale da incidere o da poter incidere sulle scelte, che quell’esercizio comporta. Se scorriamo le raccolte di giurisprudenza, sia della Sezione Disciplinare, sia della Corte Suprema di Cassazione, possiamo agevolmente individuare una prima preoccupante tipologia, offerta dai casi, fortunatamente piuttosto rari, di magistrati che deliberatamente strumentalizzano l’esercizio della funzione per soddisfare personali esigenze della più varia natura: l’avvio di una indagine preliminare per indurre il proprio debitore ad adempiere, o la citazione come teste della donna che si desidera incontrare, o l’occhiuto rilevamento delle irregolarità commesse da chi non è stato abbastanza compiacente, fanno parte tutti del nostro repertorio. Una seconda tipologia riguarda l’obbligo di astensione, vuoi in ragione di un interesse diretto del magistrato nell’affare trattato, vuoi in ragione dei rapporti personali del magistrato con i soggetti interessati all’affare: la mancata astensione nel trattare la causa che interessa il fornitore abituale, alla trattazione dell’affare per il quale si è indagati, alla trattazione del processo penale a carico del proprio socio occulto in una società commerciale; fino al caso singolare del magistrato che tratta in grado di appello un affare già trattato in primo grado. Una terza categoria è caratterizzata dalla violazione del dovere di garantire una sorta di par condicio ai collaboratori: viola certamente il dovere di imparzialità il magistrato che nella distribuzione degli incarichi agli ausiliari favorisce l’uno o l’altro professionista per proprio personale interesse, per colleganza familiare o più semplicemente per personale simpatia. Anche in tali ipotesi ricorre, infatti, commistione tra motivazioni di ordine personale e motivazioni attinenti alla funzione esercitata; e poco importa che il danno alla funzione sia solo eventuale ed indiretto. Orbene, la violazione del dovere di imparzialità può verificarsi a diversi livelli di gravità. Un primo e più grave livello, nel quale nessuna distinzione può farsi tra Giudice e Pubblico Ministero, è quello del perseguimento, attraverso l’esercizio della funzione, di un fine personale con l’adozione di scelte in contrasto con il fine giustizia, o che, comunque se ne discostano. Un secondo livello, nel quale la sostanziale coincidenza tra l’interesse personale perseguito e l’interesse di giustizia maschera la commessa violazione: una violazione che, pur se non si risolva in una obiettiva deviazione dal fine di giustizia, evidenzia una situazione di rischio e determina una caduta di credibilità della funzione. Un terzo ed ultimo livello, nel quale la parzialità non si salda necessariamente ad un interesse concreto del magistrato, ma è l’ef-

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fetto, anche inconsapevole, ma non per questo immune da colpa, della sua incapacità di mantenere il dovuto distacco dall’affare trattato o di superare il proprio pregiudizio ideologico, religioso e sociale. Per fronteggiare le forme di commistione tra interesse privato e interesse di giustizia l’ordinamento accorda alle parti gli istituti della astensione e della ricusazione i quali costituiscono o dovrebbero costituire la risposta dell’ordinamento all’eventuale distorsione dai fini di giustizia. Entrambi gli istituti fanno riferimento a situazioni concrete, di solito extraprocessuali idonee a mettere in dubbio l’imparzialità del giudice. Uno strumento supplisce l’altro, nel senso che, se il giudice non rileva sua sponte la situazione che lo obbligherebbe ad astenersi, le parti processuali hanno facoltà di promuovere un procedimento finalizzato ad allontanarlo dal processo, in quanto sospettato di parzialità. Invero, l’istituto della legittima suspicione è stato reintrodotto nel codice di procedura penale italiano dalla legge c.d. Cirami, che ha aggiunto un ulteriore caso ai due già esistenti per il trasferimento del processo, allorché gravi situazioni ambientali causino un tale turbamento da determinare l’insorgenza di un legittimo sospetto. Il fatto che gradi diversi di imparzialità sono richiesti al giudice ed al pubblico ministero la cui funzione reclama scelte valutative ed operative mirate ad un determinato risultato processuale, sia che agisca in sede civile, nei casi in cui è ammessa la sua iniziativa od obbligatorio il suo intervento, sia che lo faccia nel processo penale, spiega, o meglio dovrebbe spiegare, perché vi sono norme sulla sua astensione, ma perché non sono a lui applicabili quelle sulla ricusazione come espressamente previsto dall’articolo 73 c.p.c.. Analoga norma non esiste nel codice di procedura penale, che tra l’altro prevede all’articolo 52 solo una facoltà di astensione per il P.M., da cui può desumersi l’impossibilità di utilizzare lo strumento della ricusazione nei confronti di quest’ultimo. La ratio di una simile preclusione, o meglio esclusione, suole farsi poggiare sull’impossibilità logica, prima ancora che giuridica, in quanto non appare concepibile il rifiuto acchè una parte processuale svolga il proprio ruolo. A ben vedere, tuttavia, tale ratio si infrange nei meandri della dimensione reale. Si ponga mente, a titolo esemplificativo, al caso in cui un Procuratore della Repubblica svolga indagini preliminari nei confronti di persona accusata di molestie sessuali, pur avendo, in passato, la moglie o la figlia subito analoghe attenzioni, o nei confronti di appartenenti alle Forze dell’Ordine per il reato di lesioni gravi, pur avendo lo stesso o soggetti a lui vicini subito illo tempore un trattamento non proprio ortodosso da parte di alcuni poliziotti. Non vale la pena obiettare che l’esercizio dell’azione penale trova il suo limite nel controllo giurisdizionale del GIP, poiché può accadere che il P.M. svolga indagini a senso unico, trascurando qualsiasi elemento probatorio a favore e, quindi, prospettando al GIP un quadro accusatorio orientato: è evidente che in questo caso l’azione di controllo del GIP viene a narcotizzarsi, senza considerare che su tale quadro accusatorio il GIP potrebbe finire per accogliere, di buon grado, la richiesta di misure cautelari in vinculis a cui di certo non può fungere da controaltare l’interrogatorio di garanzia, atteso che il medesimo dovrebbe essere condotto dallo stesso giudice per le indagini preliminari che anzitempo ha disposto la custodia cautelare in carcere ritenendo la

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sussistenza di gravi indizi di colpevolezza: eppure già con riferimento al giudice dell’udienza preliminare la Corte Costituzionale ha avuto modo di affermare l’incostituzionalità a svolgerne le funzioni da parte del GIP allorquando questi avesse assunto nella fase delle indagini preliminari una qualunque decisione e, quindi, avesse espresso già un determinato convincimento sulla responsabilità dell’indagato successivamente rinviato a giudizio. E’ evidente che siamo in presenza di una falla nel sistema delle garanzie che pone inquietanti problemi di costituzionalità, sia sotto l’aspetto della terzietà che della imparzialità del giudice, soprattutto in relazione al fatto che l’indagato raggiunto da misura cautelare, magari ex abrupto, ignaro quindi che si stavano svolgendo indagini sul suo conto, potrebbe trovarsi nell’impossibilità di offrire, nel brevissimo tempo di appena due giorni, elementi probatori a favore che smontino l’impalcatura accusatoria. Parimenti, potrebbe accadere che la reiterata richiesta di proroga delle indagini preliminari, dapprima formalmente per giusta causa e poi per oggettiva impossibilità di concludere le indagini o per complessità delle stesse, mascheri viceversa la spasmodica ricerca di elementi probatori a carico, in altri termini dissimuli un accanimento giudiziario, a cui il GIP potrebbe offrire, inconsapevolmente, il suo benestare, anche per quei condizionamenti interpersonali che si vengono immancabilmente a creare nei rapporti di colleganza professionale, specie se la richiesta promani dal Procuratore Capo. Tali casi, lungi dall’essere rari, come dimostrano i repertori giuridici, rendono difficilmente giustificabile, sul piano pragmatico, la scelta del legislatore di rimettere alla discrezionalità del P.M. l’astenersi o meno dal procedimento e, quindi, la non previsione della ricusazione per il medesimo P.M. in una materia di primaria importanza, quale quella della libertà dell’individuo ed impongono un ripensamento sulla natura facoltativa dell’astensione. L’aspetto soggettivo della responsabilità del giudice appare dunque fondamentale, perché nessuna struttura interna di responsabilità potrà mai essere in grado di imporre al singolo quel massimo di tensione morale che è sempre indispensabile per adempiere bene l’arduo compito del giudicare; tuttavia, ove non si voglia, attraverso il semplice richiamo alla coscienza, imboccare la comoda scappatoia del moralismo, è necessario ricorrere a varie ed opportune ipotesi di intervento sanzionatorio esterno nei casi in cui la coscienza individuale si sia dimostrata insufficiente ad impedire la“deviazione del magistrato dal retto esercizio della sua funzione anche mediante l’introduzione di forme di responsabilità di rilevanza penale. Al riguardo il nostro ordinamento non prevede nessun reato proprio dei magistrati, ma la specifica previsione di ipotesi criminose per i comportamenti illeciti dei pubblici ufficiali, nella convinzione che il raggio d’azione dei medesimi sia sufficiente a coprire tutti i possibili comportamenti penalmente sanzionabili che possono essere posti in essere dai magistrati. Tuttavia, il ripudio della nostra

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tradizione penale alla configurazione di reati tipici per i giudici è andato progressivamente scemando, tanto che si prospetta da più parti l’esigenza che l’ordinamento preveda alcune fattispecie penali tipiche riferibili ai giudici sulla base di “un’autonoma incriminazione, senza la quale la legge penale viene meno a quella funzione educativa e di richiamo che le è propria, come nel caso di denegata giustizia o di indebita detenzione”. L’introduzione di fattispecie penali tipiche appare particolarmente avvertita in riferimento alle ipotesi di comportamento dei giudici che incidono illegittimamente o sulla sfera di libertà personale del cittadino o su quella della sua libertà morale. Anche per questi casi esiste attualmente un corpo di norme (artt. 606, 608, 609, 610, 611,612 e 613 del c.p.) che possono eventualmente reprimere gli abusi del giudice, ma in questo caso è quanto mai necessario prevedere una incriminazione tipica, o quanto meno una circostanza aggravante, per i particolari poteri che in questo campo sono attribuiti ai magistrati. Inoltre, la funzione di magistrato, esigendo sempre doti di equilibrio, sobrietà e lucidità, potendo incidere sulla sfera della libertà personale e patrimoniale, rende la mancata previsione di un accertamento iniziale e periodico in tal senso, a differenza di altre professioni, assolutamente ingiustificabile. A conclusione riteniamo doveroso richiamare il principio di uguaglianza di cui l’articolo 3 della Costituzione che recita: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, e aggiungiamo noi di funzione” tanto decantato e invocato dai componenti dell’Associazione Nazionale Magistrati, quando si tratta di affermare l’uguaglianza dei politici di fronte la legge e stranamente remissivo quando si tratta di affermare l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario. Quanto aveva ragione George Orwell quando nella chiosa finale del saggio La fattoria degli animali, sferzante e brillante allegoria del totalitarismo sovietico del periodo staliniano, affermava magistralmente che ...tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri, in relazione agli avidi suini che da artefici della rivoluzione assunsero ben presto la veste di nuova classe dominante.

Maria Barbella E’ italiana la prima donna condannata alla sedia elettrica

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a cinematografia americana di stampo criminale, e non solo, ha sempre offerto una visione dei condannati a morte alla sedia elettrica prettamente maschile, probabilmente perché le donne uccidono di meno e meno violentemente degli uomini, a parte casi eccezionali. Nella realtà anche se poche, rispetto agli uomini, sono documentate 567 esecuzioni di donne negli Usa, che costituiscono il 35% delle esecuzioni confermate dal 1608. E’ pur vero che i dati riportati si riferiscono a tutti i tipi di esecuzioni e non solo alla sedia elettrica, strumento di morte ideato dal dottor Alfred Southwick, un dentista di Buffalo nello Stato di New York, che dal 1° gennaio del 1890 sostituì il cappio. Pochi sanno, però, che la prima donna condannata a tale martirio fu una ragazza italiana, Maria Barbella. La donna originaria di Ferrandina, in Lucania, fu condannata alla sedia elettrica negli Stati Uniti il 16 luglio del 1895, colpevole, secondo la corte dell’epoca, di omicidio passionale. Ma chi era questa pseudo-criminale tanto da essere condannata alla massima pena capitale? Maria Barbella era una giovane e timida ragazza italiana di 17 anni, emigrata a New York, alla fine dell’Ottocento, da un piccolo

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paesino della Lucania con la famiglia. Giunta, quindi, nella terra promessa trovò, di lì a poco, lavoro come sarta in una fabbrica di mantelli, la Louis Graner & C. E’ proprio lungo la strada che la portava tutte le mattine al lavoro che Maria conobbe Domenico Cataldo, un lustrascarpe che dopo infiniti tentativi di approccio riuscì a far colpo sulla donna. Tanto che alla fine Maria cedette alle continue lusinghe dello spasimante, peraltro, anch’egli Lucano di Chiaromonte. Una relazione difficile e soprattutto una passione non corrisposta da Domenico Cataldo, sposato in Italia, e padre già di due bambini, di cui Maria sconosceva l’esistenza. Cataldo, per ottenere il suo scopo, le promise di sposarla e si impegnò anche a chiedere il consenso ai genitori di Maria. Maria accecata dalla passione, dalle continue lusinghe e promesse del fidanzato finì con il concedersi a Domenico. Una volta raggiunto lo scopo, Domenico iniziò ad allontanarsi da Maria. A nulla valsero le persistenti richieste di Maria di mantenere fede agli impegni e alle promesse fatte. Domenico iniziò sempre più a disprezzarla e a prospettargli un suo ritorno in Italia.

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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Un affronto, un’onta incancellabile, che la giovane Maria, sedotta e abbandonata, decise di lavare con il sangue. Il 26 aprile 1895, Maria lo raggiunse in un bar e mentre Domenico giocava a carte con un connazionale, gli disse: «vieni a casa da mia madre per parlare del nostro matrimonio». Senza scomporsi, Domenico le rispose: «Solo un porco ti sposerebbe». Maria tirò fuori da sotto lo scialle un affilato rasoio e gli tagliò la gola. Domenico spirò subito in un lago di sangue. Ai poliziotti, che poco dopo l’ammanettarono, riuscì solo a dire in un inglese incomprensibile: «Me take his blood so he no take mine. Say me pig marry». «Ho preso il suo sangue così non prende il mio. Diceva che solo un porco mi avrebbe sposato» (La signora di SingSing di Idanna Pucci). Maria Barbella fu così richiusa nel carcere di Sing-Sing, la famigerata prigione di New York. Il successivo processo celebrato in un clima di intimidazione e paura, senza che l’imputata conoscesse la lingua inglese, e tantomeno i suoi traduttori, tramutò l’aula di giustizia in una sorta di teatro dell’assurdo, caratterizzato da una mimica che lo trasformava in una sorta di dialogo tra sordi. Dopo un processo frettoloso e venato di razzismo, Maria fu condannata alla sedia elettrica. E sarebbe stata la prima donna a sperimentare la pena capitale alla sedia

elettrica se non fosse intervenuto il suo angelo custode. La storia di Maria non passò inosservata in Italia. La contessa Cora Slocomb di Brazzà, ricca ereditiera americana sposata con un nobile di origine italiana, apprese dalla stampa americana la notizia della povera immigrata italiana. Alla fine dell’anno 1895, decise di trasferirsi negli Stati Uniti per guidare la protesta, anche con l’aiuto di un’altra donna coraggiosa, Mrs. Foster vedova di un generale, mobilitando l’attenzione dell’opinione pubblica e della stampa a favore di Maria Barbella, e per chiedere la revisione del processo. Il 10 dicembre 1896, un anno dopo la condanna a morte, la giuria americana emise il verdetto di non colpevolezza. Si sa molto poco di quello che accadde dopo e certo che Maria Barbella si risposò con un altro emigrato italiano. Il caso di Maria Barbella, diventerà anche la prima campagna contro la sedia elettrica, strumento di morte caratterizzato dalla particolare atrocità dell’esecuzione,

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in cui il condannato viene fatto sedere su una particolare sedia ed in questa posizione gli vengono applicati elettrodi inumiditi alla testa e al polpaccio. Dopodiché vengono inviate forti scariche di corrente elettrica alternata di durata varia, aumentando progressivamente il voltaggio (da 500 a 2.000 volt): in questo modo il decesso viene causato dall’arresto cardiaco e dalla paralisi respiratoria. Solitamente, le scariche sono due: la prima serve a rendere incosciente il condannato, causando la morte cerebrale. La seconda, di un voltaggio maggiore, distrugge gli organi interni e provoca la morte totale. La condanna a morte per sedia elettrica è ancora oggi praticata in molti Stati americani, come l’Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Indiana, Kentucky; Ohio, Rhode Island, South Carolina, Tennesse e Virginia. Ritornando alla nostra storia, alla fine la battaglia, almeno per Maria Barbella, fu vinta. La povera, giovane donna della Basilicata, una dei 247.000 italiani che sbarcarono in America nel 1892, fu libera e salva. Una sorte diversa toccò, invece, ad altri due nostri connazionali, qualche anno dopo, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Purtroppo, loro non riuscirono ad evitare la sedia elettrica, nonostante i forti dubbi sulla loro colpevolezza emersi durante il processo, e la confessione di un detenuto portoricano che li scagionava dal duplice omicidio di un contabile e di una guardia di un calzaturificio, ma questa è un’altra storia che vi racconterò un’altra volta. Alla prossima...

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Nelle foto dell’altra pagina ritratti di Maria Barbella

a fianco una sedia elettrica dell’epoca sotto l’ estratto di nascita e ancora una foto di Maria Barbella


inviate le vostre lettere a rivistae@sappe.it

Lettere al Direttore...

G

ente,

fondamentalmente ritengo che se abbiamo avuto risposta alle nostre chiacchiere, anche se non lo sono, ebbene possiamo ritenerci già fortunati. Il Nostro Capo ha una nomina politica e se vuole la politica lo scarica da un momento all’altro. Invece i Capi di sempre quelli seduti alle scrivanie del Dipartimento dell’Ammini-

strazione Penitnziaria, quelli che fermano con la burocrazia ogni iniziativa valida per noi “Poliziotti Penitenziari non ci hanno risposto e non lo hanno mai fatto in tutti questi anni di gestione. Vorrei rivolgere al Capo un mio pensiero/domanda: «... è a conoscenza che a breve, con le pensioni del 2012 saremmo quasi ridotti di un ulteriore 2500 unità? ..., e quelle unità ancora non rimpiazzate? ..., e della popolazione detenuta che

continua a crescere? Significativo è stato il suo intervento per sbloccare il blocco delle assunzioni, ma non servirà o servirà a poco. Soffriamo quotidianamente e ci aspetta un futuro davvero drastico pensando al blocco degli stipendi e di tutti gli scatti; speriamo che non avremo anche una decurtazione delle tredicesime e dello stipendio! » Comunque grazie Capo se ci viene a trovare, grazie a voi che ci date la possibilità di interloquire con il Capo del Dipartimento in maniera semplice, opportunità questa che non ci da la nostra Amministrazione. Attilio Russo

di Mario Caputi & Giovanni Battista De Blasis - © 1992 - 2011

il mondo dell’appuntato Caputo© APPUNTATO CAPUTO, STA ARRIVANDO UNA DELEGAZIONE TEDESCA A VISITARE IL NOSTRO ISTITUTO... MI TROVI QUALCUNO CHE POSSA FARE DA INTERPRETE !

MI DISPIACE COMMISSARIO MA IN SERVIZIO NON C’E’ NESSUNO CHE PARLA IL TEDESCO. PERO’, SE VUOLE CI SAREBBE ESPOSITO CHE E’ UN APPASSIONATO DELLE STURMTRUPPEN DI BONVI..

DIAFOLO DI UN KAPUTEN...

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