PoliziaPenitenziaria Società Giustizia e Sicurezza anno XXIII • n.237 • marzo 2016
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Il sogno dell’Appuntato Caputo
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10 Polizia Penitenziaria
In copertina: Il sogno dell’Appuntato Caputo (illustrazione di Mario Caputi)
04 EDITORIALE
Società Giustizia e Sicurezza
anno XXIII • n.237 • marzo 2016
Le bugie, le verità e le promozioni per meriti ...ministeriali! di Donato Capece
05 IL PULPITO Il sogno dell’Appuntato Caputo di Giovanni Battista de Blasis
06 L’OSSERVATORIO POLITICO Quale riforma per la Polizia Penitenziaria? di Giovanni Battista Durante
08 IL COMMENTO La sicurezza sociale e l’impunità dei delinquenti di Roberto Martinelli
10 CRIMINOLOGIA La prostituzione minorile di Roberto Thomas
24 CRIMINI & CRIMINALI
13 MINORI Verso l’eliminazione del Tribunale per minorenni di Ciro Borrelli
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DIRITTO & DIRITTI Colloqui e corrispondenza detenuti: diritto o concessione? di Giovanni Passaro
16 ANTROPOLOGIA CRIMINALE Semantica e linguaggio di Massimo Montaldi
20 LO SPORT
22 CINEMA
Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, On. Avv. Antonio Di Pietro Donato Capece, Giovanni Battista de Blasis, Giovanni Battista Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme
Codici QR: cosa sono, a cosa servono e come leggerli di Federico Olivo
28 COME SCRIVEVAMO Cinema e carcere di Roberto Martinelli
I quesiti dei lettori di Valter Pierozzi
32 LE RECENSIONI
Il massacro di Attica a cura di G. B. de Blasis
Società Giustizia e Sicurezza
Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it
26 WEB E DINTORNI
30 SICUREZZA SUL LAVORO
Intervista a Monia Baccaille di Lady Oscar
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Madri che uccidono i propri figli - parte II di Pasquale Salemme
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L’EDITORIALE
Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it
Le bugie, le verità e le promozioni per meriti ...ministeriali
L’
Amministrazione Penitenziaria si ostina a tranquillizzare l’opinione pubblica sull’allarme sovraffollamento delle carceri del nostro Paese, ma in realtà smentisce se stessa. I dati sulle presenze in carcere ci dicono altro. Ci dicono, infatti, che l’affollamento nelle carceri italiane persiste e insiste.
Nella foto: fotocopie di documenti
Alla data del 29 febbraio scorso erano fisicamente presenti, nei 195 penitenziari italiani, ben 52.846 detenuti, comunque 3mila in più rispetto alla capienza regolamentare fissata dal DAP in 49.480 posti (conteggiando anche sezioni detentive chiuse e in ristrutturazione). Come si fa dunque a sostenere che l’affollamento nelle nostre prigioni “non sussiste”, come dice il DAP? La situazione resta allarmante e lo testimonia meglio di ogni parola il numero degli eventi critici che ogni giorno si verificano nelle quasi 200 carceri. Risse, incendi, aggressioni, tentati
suicidi, colluttazioni, ferimenti, atti di autolesionismo. Gli eventi critici sono aumentati, che piaccia o meno, da quando ci sono vigilanza dinamica e regime penitenziario “aperto”. Perché se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, come ha informato il DAP in un recente comunicato stampa, è altrettanto vero che non tutti i ristretti sono impegnati in attività lavorative e, anzi, trascorrono tutte quelle ore del giorno a non far nulla. Da inizio mese, marzo 2016, abbiamo contato l’evasione dei detenuti a Rebibbia, il tentato suicidio di un detenuto a Frosinone, droga intercettata nel carcere minorile di Catanzaro, l’educatrice molestata a Pesaro, droga e telefonini sequestrati ancora a Frosinone, i mille problemi del carcere di Salerno, i poliziotti penitenziari aggrediti a Prato e a Torino, il tentato suicidio di un detenuto a Cremona e un altro salvato a Reggio Calabria, i due poliziotti aggrediti a Matera, gli incendi a Trieste e Salerno... Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità, altro che le reazioni stizzite delle Camere Penali ai nostri costanti allarmi sulla critica quotidianità delle carceri italiane. Le polemiche strumentali e inutili come le loro non servono a nessuno. I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento da quando vi sono vigilanza dinamica e regime aperto per i detenuti. Quelli del carcere non sono problemi da nascondere come la polvere sotto gli zerbini , ma criticità reali da risolvere. I numeri dei detenuti in Italia sarà
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pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni, i ferimenti, i tentati suicidi e purtroppo anche le morti per cause naturali si verificano costantemente, spesso a tutto danno delle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria che in carcere lavora 24 ore al giorno. Con buona pace di talune dichiarazioni corporative che non rappresentano affatto la realtà quotidiana che si vive nelle nostre strutture detentive. Tutti questi eventi critici hanno coinvolto numerosi appartenenti alla Polizia Penitenziaria, coinvolti loro malgrado in questa costante e logorante tensione operativa. E l’Amministrazione che fa? Anziché premiare loro, in prima linea nelle carceri, il DAP intende promuovere al grado superiore per meriti eccezionali (!) alcuni poliziotti penitenziari del Ministero che avrebbero acquisito i dati dalle carceri sugli effetti della nota sentenza Torreggiani. Il DAP, che tempo fa già si rese responsabile di un’altra promozione beffa (venne promosso al grado superiore un archivista del DAP senza alcun compito operativo!), anziché premiare chi lavora tutti i giorni in prima linea in carcere tra mille difficoltà e grande professionalità, vorrebbe dare la promozione a chi ha solamente raccolto dei dati! Una cosa che lascia senza parole e rispetto alla quale ho già sollecitato un intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, sollecito che rinnovo da queste colonne. Le promozioni per meriti straordinari ed eccezionali siano conferite a chi se le merita in carcere per compiti operativi, non a chi fa fotocopie o compie ordinarie mansioni d’ufficio al Ministero! F
IL PULPITO
Il sogno dell’Appuntato Caputo
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uasi venticinque anni fa, io e Mario Caputi inventammo il primo personaggio satirico a fumetti della storia del Corpo di Polizia Penitenziaria. Quel fumetto prese forma grazie alla magica matita di Mario e acquistò voce attraverso la mia fantasia e la mia immaginazione. Il nostro Eroe prese il nome di Appuntato Caputo. Le vicende di Caputo sono quasi tutte ispirate alla vita vissuta e non è stata casuale la scelta del grado di appuntato, perché quel grado, io e Mario, lo abbiamo davvero indossato prima della riforma. Inizialmente, il nome era “AppuntatoCaputo”, con una crasi tra grado e cognome, per rendere l’idea di un poliziotto penitenziario rassegnato al proprio destino, che accettava la propria condizione come “il minore dei mali”, stato d’animo nel quale si trova colui che, minacciato di gravissima ingiustizia, accetta quelle minori come un regalo. Caputo fa apertamente il verso al Fantozzi di Paolo Villaggio e, infatti, anch’egli è lo stereotipo della rassegnazione... è colui che “obbedisce tacendo”, è il Fantozzi delle carceri. Caputo è l’unico appartenente al Corpo ad aver mantenuto il grado di appuntato, anche dopo la riforma, perché lo indossa sul cuore. L’Appuntato Caputo esprime il punto di vista di quelli che vivono, ogni giorno e ogni notte, la realtà penitenziaria in prima linea: nelle sezioni, sui muri di cinta, nelle corsie degli ospedali, nelle traduzioni.
Le vicissitudini di Caputo sono sicuramente dei paradossi, delle estremizzazioni della realtà, ma si rifanno, comunque, a situazioni reali, quelle che lui vuole denunciare per far sorridere ma anche per far riflettere sui malesseri e sui disagi del carcere. Ispirandoci a Orwell, con le strisce di Caputo abbiamo cercato di dimostrare che davvero “la legge è uguale per tutti, ma per qualcuno è un po’ più uguale!”.
Nonostante tutto, però, il nostro appuntato è soprattutto “un buono”, una brava persona che, anche in momenti di rabbia o di rancore, resta incapace di far del male a chiunque. Ed è per questo che, come il Ragionier Ugo Fantozzi, andrà sicuramente in Paradiso. Non possiamo dire la stessa cosa, invece, di coloro che lo sfruttano, che lo abbandonano nel momento del bisogno, che lo disprezzano, che lo deridono e che lo vogliono relegare nel limbo dei diseredati (...ma questo è “solo” un problema di coscienza).
Uno degli obiettivi delle vignette di Caputo è quello di sensibilizzare i lettori: dopo il sorriso del primo impatto, si spera in un esame di coscienza, giacché quel paradosso, quella gag oggetto del fumetto, è la parodia di un vero malanno dell’amministrazione penitenziaria. La mission impossible dell’Appuntato è quella di tenere in apprensione tutti quelli che, nel bene e nel male, hanno la responsabilità di amministrare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Tenerli in apprensione perché niente può sfuggire agli occhi e alle orecchie dell’Appuntato Caputo ...colpe, negligenze, azioni o omissioni. Nessuna franchigia, nessun salvacondotto e, soprattutto, nessun timore reverenziale. Tutti hanno trovato spazio nel mondo di Caputo: gli anziani Capriotti e Cianci, gli uccellini di Coiro, il Fantasma dell’Opera Margara, il D’Artagnan De Pascalis, il Superman Caselli, il Cardinale Di Somma, la SuperSimo Matone, l’Highlander Pagano e il Marchese del Grillo Tamburino. Purtuttavia, adesso, dopo venticinque anni, l’Appuntato Caputo si è “permesso” di sognare... e ha sognato di diventare “Ispettore”. Caputo, in realtà, aveva già fatto domanda nel 2003 per partecipare al concorso esterno ...ma, tra prove annullate, ricorsi al TAR e provvedimenti in autotutela, alla fine non c’ha capito più nulla e si è bocciato da solo. Allora, con santa pazienza, ha ripresentato domanda nel 2008 per partecipare al concorso interno.
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Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it
Caputo si immagina già Ispettore
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IL PULPITO
Nella foto: il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri nell’altra pagina operazione dei NIC insegne della Polizia Penitenziaria
Dopo i terribili quiz preselettivi del 2010, però, il concorso è finito nell’oblio per quasi sei anni, prima che Caputo potesse cimentarsi con la prova scritta. Superata l’inspiegabile impasse e dopo ripetuti falsi allarmi, con l’arrivo del nuovo direttore generale del personale, si è ricominciato a parlare del famigerato “tema”. Dapprima è corsa voce di una prova territorializzata cioè da espletare in tante sedi di esame presso le scuole del Corpo. Poi, invece, è arrivata la convocazione nella capitale presso la Fiera di Roma. Passati, però, solo pochi giorni è sopraggiunto un contrordine: non più la Fiera di Roma ma l’Hotel Centro Congressi Ergife, sempre di Roma. A Caputo è sembrato di vivere dentro una sua vignetta... Nella settimana precedente la prova – si è tenuta il 23 marzo – sono trapelati i primi rumors sulle probabili tracce: misure di sicurezza, misure alternative, articolo 21 e chi più ne ha, più ne metta... Il tema della prova scritta, infine, senza troppa inventiva e fantasia, è stato incentrato sull’uso legittimo delle armi e della forza fisica, in generale ed in particolare negli istituti penitenziari. L’Appuntato Caputo, come sempre, ha fatto il suo compitino senza infamia e senza lode, consapevole del fatto che quei 608 posti disponibili hanno già tutti, più o meno, un nome e un cognome e che, probabilmente, lui arriverà seicentonovesimo in graduatoria... una graduatoria che non scorrerà mai. Ma va bene così... va bene lo stesso. Tanto, prima o poi, passerà questo benedetto riordino delle carriere e anche Caputo, per grazia di Dio, potrebbe avanzare di grado ...magari un giorno prima della pensione. O, forse, il riordino delle carriere passerà un giorno dopo il suo congedo? ( ...e intanto, al Dap, scendono dal cielo proposte di promozione per meriti eccezionali come se piovesse!) Caro Caputo, mi sa tanto che tu il grado superiore lo indosserai soltanto nei tuoi sogni... F
Quale riforma per la Polizia Penitenziaria?
N
egli ultimi tempi si parla con sempre maggiore insistenza di una riforma radicale del Corpo di Polizia Penitenziaria. A dire il vero si è anche parlato di una possibile soppressione del Corpo, con passaggio in altra Forza di polizia, eventualità, questa, al momento accantonata.
Ciò che destò le maggiori preoccupazioni fu la paventata ipotesi di divieto di svolgere attività investigativa, cosa che fece pensare, e fa pensare, anche perché non esistono altre possibili attività investigative del Corpo, allo scioglimento del NIC (Nucleo Investigativo Centrale), e all’uscita dalla DIA. Se così fosse
Resta l’ipotesi di riforma già avanzata tempo fa da Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto a Reggio Calabria, il quale ha fin da subito parlato di un nuovo Corpo, con compiti più ampi rispetto a quelli attuali, tra i quali la ricerca di latitanti, la gestione dei collaboratori di giustizia e la tutela dei magistrati. Questo progetto ha iniziato a prendere forma con la convocazione degli Stati Generali da parte del Ministro Orlando e l’istituzione del tavolo 15. Dopo la pubblicazione della proposta, nel corso della cui elaborazione tutte le organizzazioni sindacali furono audite, sono state molte le reazioni negative. Tutte le critiche erano incentrate sulla perdita delle funzioni generali di polizia giudiziaria, cosa assolutamente non vera, poiché è chiaramente scritto che tali funzioni restano immutate. E questo lo dissi chiaramente anche a qualche collega che mi contattò in quel periodo.
sarebbe una grave perdita per tutti, per il prezioso contributo che la Polizia Penitenziaria offre in tali ambiti alla magistratura, alle altre Forze di polizia, anche se alcuni la vedono come un’intrusione, e al Paese nella lotta alla criminalità organizzata. Sarebbe anche un controsenso, rispetto all’attribuzione dell’ulteriore compito di cattura dei latitanti. Come si possono catturare i latitanti senza un’adeguata attività investigativa? Non sono un professionista del settore investigativo, ma credo sia evidente a tutti che la cattura dei latitanti presuppone l’attività investigativa, tranne che le altre Forze di polizia non li trovino e poi chiamino noi per andare a prenderli. Ma credo anche che la cattura dei latitanti non possa e non debba essere un compito esclusivo di una sola Forza di polizia. Al di là di questo, comunque, la possibilità che la Polizia Penitenziaria possa o non possa svolgere attività
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L’OSSERVATORIO POLITICO investigativa è questione di non poco conto, che attiene ad una scelta ideologica, una sorta di contrapposizione tra due correnti di pensiero: una che vuole, appunto, un Corpo dell’esecuzione penale, privato di ogni funzione di polizia, un’altra che vuole, invece, un Corpo di polizia sullo stesso piano delle altre Forze dell’ordine, seppur con compiti specialistici, ma pur sempre di polizia, come è oggi la Polizia Penitenziaria, che svolge attività investigativa attraverso il NIC e le diramazioni periferiche, che fa parte della DIA e dell’Interpol, seppur ancora con numeri esigui, che ha compiti di polizia stradale, limitatamente all’attività di servizio (come è giusto che sia) che dovrebbe entrare a far parte delle Sezioni di polizia giudiziaria presso le Procure ed assumere tutte le attività che attengono all’esecuzione penale, con propri ruoli tecnici, in parte già costituiti. Bisogna riconoscere, infine, alla Polizia Penitenziaria una propria dignità dirigenziale, con un numero adeguato di dirigenti, fino alla qualifica di dirigente generale. Un Corpo di polizia potenziato nelle funzioni attuali e non dimezzato, ma un Corpo di polizia vero, che faccia parte a pieno titolo del Comparto Sicurezza ed interagisca alla pari con le altre Forze di polizia, fermi restando i compiti e le funzioni di ognuno. Dicevo delle due scuole di pensiero sul ruolo e le funzioni della Polizia Penitenziaria, scuole di pensiero che trovano autorevoli rappresentanti, con argomenti a sostegno e argomenti contrari, all’una e all’altra tesi, a secondo di ciò che si vuole dimostrare. E’ del tutto evidente che se si parte dall’assunto che la sicurezza del Paese è la cosa più importante da tutelare, non si può non rendersi conto di quanto sia importante il ruolo della Polizia Penitenziaria, anche in ambito investigativo. Con circa novemila detenuti appartenenti alla criminalità organizzata e il fenomeno del radicalismo islamico avere una polizia in carcere capace di raccogliere
informazioni, svilupparle e veicolarle attraverso l’autorità giudiziaria, piuttosto che limitarsi ad essere informatore di altri organismi, è sicuramente la cosa migliore e più giusta da fare. Il contrario sarebbe la dispersione di un patrimonio investigativo importante per il Paese. Quindi, con una impostazione di questo tipo, che a nostro avviso è quella più giusta, non si può che propendere per quella scuola di pensiero che vuole una Polizia Penitenziaria, o della Giustizia, o dell’Esecuzione Penale, poco importa il nome purché sia polizia, che sia polizia a tutti gli effetti, senza
Da questi ultimi, invece, potrebbe evolversi la futura classe dirigente, posta anche alla direzione degli istituti; a questo punto, evidentemente, coloro che andrebbero a ricoprire tale incarico perderebbero le funzioni di polizia, a vantaggio di quel ruolo di equilibrio richiesto per garantire tutte le componenti professionali, nonché i detenuti che, comunque, non mi pare che oggi non siano garantiti dai funzionari della Polizia Penitenziaria. La riforma del tavolo 15 contiene altri importanti elementi di riflessione, come l’attribuzione dei Provveditorati non più alla dirigenza generale, la soppressione del Dipartimento e la dipendenza del Corpo direttamente dal
limitazione alcuna, tranne che, per tentare di accontentare entrambe le scuole di pensiero, non si finisca per scontentare tutti, creando un Corpo che sia una via di mezzo, con funzioni di polizia limitatamente all’acquisizione della notizia di reato, alla conservazione degli elementi di prova raccolti nell’immediatezza, senza possibilità di sviluppi ulteriori. Questo probabilmente accontenterebbe gli appartenenti a quella scuola di pensiero che non vogliono una polizia in carcere, ma scontenterebbe coloro che, come noi, ambiscono a rafforzare sempre di più il Corpo di Polizia Penitenziaria, non per un’ambizione meramente corporativistica, ma per rendere un servizio dignitoso al Paese. Quindi, è opportuno che coloro che non sono portatori di professionalità tecniche continuino a fare il loro lavoro ed a sviluppare i loro percorsi di carriera separatamente da coloro che svolgono funzioni di polizia.
Ministro, tutti elementi, questi, che porterebbero ad un risparmio di spesa, in linea, quindi, con la spending review, ma che necessitano, comunque, di un approfondimento. F
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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it
IL COMMENTO
Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it
La sicurezza sociale e l’impunità dei delinquenti
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talia, il Paese dei ladri impuniti. E’ la sintesi, inconfutabile e preoccupante, dei dati diffusi nel corso delle inaugurazioni dell’anno giudiziario nelle Corti d’Appello, raccolta dal giornalista de Il Fatto Quotidiano Alessandro Mantovani che ha anche cercato di capirne le ragioni. I dati, dunque.
Nelle foto: sentenza e condanna
A Firenze aumentano i furti in casa (+7% in un anno) e le rapine (+13,6%), a Genova pure (di circa l’8%), a Torino salgono leggermente i reati contro il patrimonio e diminuiscono gli arresti per gli stessi fatti, a Bologna ci sono tre rapine al giorno e sono il doppio di quelle di Genova che è ben più grande, a Palermo se ne contano un po’ meno di un anno fa ma sono particolarmente violente, a Bari e a Napoli furti e rapine diminuiscono da un anno all’altro ma solo perché partivano piuttosto alti e comunque sono cresciuti i furti in casa, sostanzialmente stabili a Roma (nella capitale anche il numero di rapine non è variato granché). La tendenza complessiva nazionale è in lieve calo. Secondo i dati, riferiti al 2014, le rapine denunciate sono state
circa 39 mila contro le 43 mila di un anno prima (meno 10%), i borseggi invece sono aumentati da 166 mila a 179 mila e si moltiplicano soprattutto a Roma (più 31,5% in un solo anno), i furti in appartamento sono passati da 251 a 255 mila tra il 2013 e il 2014. Reati predatori, reati indotti probabilmente dalla crisi che difficilmente diminuiranno se l’economia non tornerà a crescere. È la cosiddetta microcriminalità, che poi tanto micro non è per chi i reati li subisce. La rapina, peraltro, è un reato grave anche per il codice e il rischio di finire in carcere, se si viene scoperti, è concreto (in teoria si rischiano da tre a dieci anni, da quattro a venti nei casi più gravi quando ci sono di mezzo armi). Ebbene se allunghiamo la serie storica, il calo di un anno non deve far perdere di vista che le rapine messe a segno in Italia sono all’incirca le stesse del 2001 (38 mila) ma sono aumentate del 25 per cento rispetto a vent’anni fa e raddoppiate rispetto al 1984; scippi e borseggi sono quasi triplicati; i furti in appartamento quasi raddoppiati. Poi c’è la cosiddetta insicurezza percepita che se ne infischia del dato statistico da un anno all’altro. Vede, semmai, che l’autore di ben quattro furti in appartamento nello stesso stabile, a Palermo, viene ripreso dalle telecamere di sicurezza ma nessuno lo arresta. Quindi tornerà. A volte, ma non sempre, ha la pelle di un altro colore e parla un’altra lingua e questo non fa che accrescere l’intolleranza di un Paese sempre più disgregato. Una criminalità, una delinquenza trasversale, italiana e straniera, sempre più agguerrita e sfrontata, come conferma anche l'imperversare di furti, truffe, scippi e rapine ai danni di persone deboli, per lo più anziani.
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Dalla coppia di signore ben vestite che si presentano in casa con la scusa del censimento e mentre una fa le domande l'altra ruba nelle stanze, alla truffa dell'inesistente sinistro stradale dove si chiede di ovviare alle pratiche assicurative pagando subito in contanti, le modalità di raggiro sono tante e sempre più inedite e sofisticate. E poi l’aumento di atti bullismo e cyberbullismo verso i più giovani, le violenze verso i disabili e gli anziani ricoverati in strutture dedicate (!) e chi più ne ha più ne metta... Con buona pace degli aumenti di pena minacciati o dispensati periodicamente da una politica strabica (che non vede che quando i ladri finiscono in carcere, ne escono specializzati nel furto) ma soprattutto miope, perché non vede proprio il dato più vistoso, e cioè che nel 95% dei casi i ladri restano "ignoti" alle forze dell'ordine e alla giustizia, come ha rilevato recentemente Donatella Stasio sulle colonne de Il Sole 24 Ore. Le dosi ulteriori di carcere sbandierate come medicina salvifica dell'insicurezza urbana restano dunque sulla carta e non hanno nemmeno un effetto deterrente. Gli aumenti di pena per i reati di strada sono una costante della politica giudiziaria e della sicurezza quando la cronaca o le statistiche riportano in primo piano la microcriminalità. Misure con una forte carica simbolica ma una scarsa efficacia concreta, poiché non trovano riscontro nella vita quotidiana dei cittadini, ingannati o illusi da slogan bugiardi come quello della "tolleranza zero". A fronte dell’aumento di reati contro il patrimonio che generano forte allarme, gli arresti nel complesso sono diminuiti di oltre il 20 per cento. Il dato generale risente dell’intervento normativo che ha limitato la custodia
IL COMMENTO cautelare per i reati di detenzione e spaccio di droga quando la quantità sequestrata è minima, cioè quasi sempre nel caso dell’arresto di un pusher in strada. “C’è questo, perché l’arrestato sarà scarcerato il giorno dopo, ma anche una mentalità che cambia”, ha dichiarato proprio a Il Fatto Quotidiano il Pubblico Ministero di Torino Andrea Padalino. “La sfiducia sta nel fatto che si arriverà a un processo e, di conseguenza, maggiori difficoltà a operare con lo strumento dell’arresto, anche se le situazioni caso per caso sono diverse. Per esempio per il furto semplice, senza aggravanti, non è prevista la custodia cautelare e l’arresto è facoltativo. Che lo arresti a fare se domani esce?”. Ancora più netto il giudizio di Marcello Maddalena, che è stato procuratore capo e procuratore generale a Torino: “Il carcere è l’extrema ratio per chi ha fatto una scelta di vita di carattere delinquenziale. La recidiva conta poco mentre dovrebbe contare parecchio. I reati predatori, più di quelli legati agli stupefacenti, sono tipici di chi ha fatto una scelta di questo tipo, in parte necessitata ma anche legata a un certo modo di vivere. Non può essere addebitato al sistema giudiziario, è stata una scelta del legislatore quella di restringere la custodia cautelare senza garantire maggiori celerità dei processi ed estendere misure alternative che non hanno la stessa efficacia dissuasiva e impeditiva”. L’ultimo allarme arriva da Antonino Condorelli, procuratore generale di Venezia, che lo ha detto chiaro e tondo: “Sono troppi i reati per cui non possiamo applicare la custodia cautelare in carcere. La polizia può arrestare in flagranza i responsabili, ma poi dobbiamo rimetterli fuori”. In Veneto non si parla d’altro, come ha ricordato Il Corriere del Veneto: nel 2006 due nomadi tentarono di derubare il rigattiere Ermes Mattielli che aprì il fuoco ferendoli gravemente. Risultato? “Il rigattiere fu
condannato a risarcire i ladri con 135 mila euro. E fin qui niente da dire”, ha commentato un investigatore che seguì il caso. Ma aggiunge: “Il paradosso è che invece i due ladri pochi giorni fa sono stati fermati per un altro furto. E subito rimessi in libertà. Finora nessuna condanna definitiva. Niente carcere”. Spesso, soprattutto in campagna elettorale, si parla (a sproposito) di giustizia e certezza della pena. Vogliamo vedere qualche esempio concreto? Dal 2 aprile 2015 non sono più punibili per tenuità del fatto i reati sanzionati fino a 5 anni di reclusione se l’offesa è di scarsa gravità e la condotta non è abituale. E’ stato infatti appositamente introdotto nel codice penale, con il decreto legislativo n. 28 del 16 marzo 2015, un nuovo articolo, il 131 bis, che prevede la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Certezza della pena... Non solo. La pena inflitta dal giudice è finta, perché poi se ne fa davvero circa la metà, con l’eccezione degli ultimi quattro anni: questi non si fanno per niente. Non ci si crede, vero? Invece... Art. 48 dell’ordinamento penitenziario: dopo aver scontato metà della pena si è ammessi alla semilibertà. Significa che di giorno si va in giro a lavorare e di notte si torna in prigione a dormire. Trent’anni? Fatti 15, te ne vai la mattina e torni la sera. Già sembra incredibile ma, in realtà, è ancora peggio di così perché... Art. 54: ogni anno di prigione vale nove mesi. Se non hai creato problemi durante la detenzione ogni anno ti abbuonano tre mesi. Quindi i 15 anni teorici (la metà dei 30 che ti hanno dato) sono in realtà undici anni e 25 giorni, fatti i quali te ne vai la mattina e torni la sera. Ma non è vero nemmeno questo perché... Art. 30 ter: ogni anno hai diritto a 45 giorni di permesso (con qualche eccezione). Quindi gli undici anni sono in realtà (più o meno) nove anni e due mesi, fatti i quali te ne vai la mattina e torni la sera. Naturalmente questi calcoli variano a seconda della pena che il giudice ti ha inflitto: più o meno in prigione ci si passa davvero meno di un terzo della pena originaria.
Ma non è vero nemmeno questo perché... Art. 47 ter: arrivati a quattro anni dal fine pena teorico si concede la detenzione domiciliare, la pena si sconta in casa propria o in qualsiasi altro luogo che il detenuto richieda. Avete capito bene: quando mancano quattro anni al fine pena, si può stare a casa propria. Certezza della pena... E allora già non ci mancano i delinquenti ma, ad esempio nel caso dello straniero, se tu arrivi da un Paese nel quale se rubi 5 euro ti fai 5 anni di carcere, il nostro è il Paese di Bengodi. E’ un dato di fatto oggettivo che sono stati numerosi i provvedimenti di legge assunti per ridurre le presenze nelle carceri del nostro paese, a partire dalla legge 199 del 2010 fino ad arrivare ai recenti decreti legislativi sulle depenalizzazioni del 2016. Non dimentichiamoci che in Italia siamo arrivati all’assurdo di riconoscere un indennizzo economico e un nuovo e ulteriore consistente sconto sulla pena ai detenuti ‘costretti’ a stare in celle sovraffollate... Ribadisco quel che penso e che ho già avuto modo di dire e scrivere, anche su queste colonne. Pensare di risolvere i problemi del sovraffollamento delle carceri con leggi che daranno la possibilità a chi si è reso responsabile di un reato di non entrare in carcere, è sbagliato, profondamente sbagliato e ingiusto. Le soluzioni potevano e possono essere diverse: nuovi interventi strutturali sull’edilizia penitenziaria, l’aumento di personale e di risorse (e invece la Legge di Stabilità 2016 ha ingiustamente bocciato un emendamento per l’assunzione di 800 nuovi Agenti di Polizia Peniteziaria), espulsione dei detenuti stranieri, introduzione del lavoro obbligatorio durante la detenzione, anche modifiche normative sulle disposizioni penale, riservando il carcere ai casi che lo meritano davvero. Ma intaccare la certezza della pena per coprire le inefficienze e le inadempienze dello Stato è sbagliato, profondamento sbagliato e ingiusto. F
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Roberto Thomas già Magistrato minorile, docente di criminologia presso l’Università di Roma La Sapienza rivista@sappe.it
CRIMINOLOGIA
La prostituzione minorile I
l fenomeno della prostituzione è vecchio quanto il mondo, secondo un noto adagio popolare, ed in effetti non potrà mai essere debellato, ma soltanto controllato al fine della tutela della salute individuale e “sociale”.
Nella foto: Mary Quant creatrice della minigonna
Gli aspetti morali che lo hanno marchiato d'infamia - portando alla chiusura delle cosiddette case di tolleranza (proibito chiamarle con il nome di bordelli per il perbenismo allora dominante) con la legge Merlin (legge 20 febbraio 1958 n.75 ) - si sono progressivamente attenuati con l'evoluzione del costume sociale, iniziato in maniera tumultuosa fin dagli anni '60 del secolo scorso, con la nascita dei movimenti di liberazione della donna (il cosiddetto femminismo, che portò alla creazione della “minigonna”, a Londra nel 1963, da parte di Mary Quant) e l'irrompere del movimento studentesco nel 1968. Comunque il principio costituzionale della libera disponibilità del proprio corpo, che deriva dalla inviolabilità della libertà personale (ex art.13
Cost.), ha indotto il nostro Legislatore a ritenere la prostituzione, di per sé, un atto lecito penalmente e cioè non costituente reato . Facevano eccezione gli atti di adescamento della prostituzione in luogo pubblico, che erano considerati una contravvenzione penale dall'art. 5 della precitata legge, che prevedeva l'arresto fino ad otto giorni e l'ammenda fino a diecimila lire, fatti reato che l'art. 7, primo comma, lettera e) del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, ha trasformato in meri illeciti amministrativi, puniti con una sanzione pecuniaria. Giustamente, però, si riteneva - e tuttora si ritiene - che dovesse essere punito severamente lo sfruttatore in tutte le sue varie forme, con una pena che si è aggravata dai due a sei anni di reclusione (ex art.3 Legge Merlin, pena raddoppiata in caso di prostitute minorenni, ex art. 4 legge precitata), alla reclusione da sei a dodici anni, ai sensi dell'art. 4 della legge 1 ottobre 2012 n. 172, come si dirà meglio in prosieguo . Si deve rilevare, però, che negli ultimi anni in Italia, a causa anche della immigrazione giovanile straniera, la prostituzione, pur rimanendo ancora in gran parte un fenomeno di odioso sfruttamento, ha assunto pure la forma di una vera e propria pluralità di “cooperative volontarie”, formate da giovanissime ragazze che vengono appositamente dai loro Paesi per esercitarla per un tempo limitato (uno o due anni), al fine di guadagnare quanto basti per sistemarsi economicamente per il resto della loro vita. Tale nuovo fenomeno, che purtroppo aveva iniziato a coinvolgere anche
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soggetti minori in numero sempre maggiore (sia stranieri che italiani ), ha indotto giustamente il legislatore, per tutelare la loro integrità fisica e psichica, a emanare la precitata legge 172 del 2012, con la quale s'introduce il delitto di prostituzione minorile, inserito nell'art. 600 bis cod. pen.che recita : “E' punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.000 a euro 150.000 chiunque : 1) recluta o induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto; 2) favorisce, sfrutta, gestisce, organizza o controlla la prostituzione di una persona di età inferiore agli anni diciotto, ovvero altrimenti ne trae profitto. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di un corrispettivo di denaro o altra utilità, anche solo promessi, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro a 1.500 a euro 6.000.” La tutela penale del soggetto minorenne che si prostituisce (indifferentemente se maschio o femmina) - che ovviamente prostituendosi non commette reato per il già ricordato principio costituzionale - si estende , pertanto, dalla punizione dello sfruttatore (art.600 bis, primo comma, cod. pen.) a quella dello stesso suo “cliente” (art. 600 bis, secondo comma, cod. pen.). Così facendo la minaccia della sanzione penale potrebbe indurre il potenziale frequentatore ad astenersi
CRIMINOLOGIA dagli incontri sessuali con minorenni i quali, in tal maniera , otterrebbero una giusta, ulteriore protezione da fenomeni di prostituzione che si possono ricondurre alla pedofilia in generale. Il profilo psicologico del minore che si prostituisce – superato ormai quello tradizionale e a senso unico di una vittima costretta a prostituirsi per una grave situazione di miseria, che pur talora permane, soprattutto nei Paesi dell'Oriente - è spesso il risultato di un periodo preadolescenziale improntato ad un grave precoce disagio derivante da “insofferenze” alla disciplina educativa, fughe da casa, abbandono scolastico e, successivamente, lavorativo, insieme al suo reciso rifiuto, complessi d'inferiorità e sensi abbandonici, carenza della figura paterna che lo conduce, sovente, a “ritrovarla” in quella dell'adulto, suo “cliente”. In particolare per il maschio minorenne prostituto ( cosiddetto “femminiello”) sussiste la mancanza d'identificazione con la virilità paterna, con ricerca conseguente di relazioni sessuali con altri uomini adulti, e, spesso, si rileva anche una stretta dipendenza dalla madre, che molte volte è stata delusa ovvero maltrattata da un uomo. Ovviamente scattano dei perversi percorsi imitativi, nei casi in cui esistano familiari conviventi esercitanti la prostituzione, secondo la teoria dell'apprendimento sociale di Albert Bandura (contenuta nel libro “Social Learning Theory”, Englewood Cliffs, N.J. , Prentice Hall, 1977 ), per la quale gli individui , attraverso l'introiezione di modelli culturali appresi in famiglia (o dai mass media), ne imitano i comportamenti, mediante varie forme di meccanismi psicologici che si riportano tutte al “disimpegno morale” che fa evaporare il senso etico, che già si possiede, con una simulata giustificazione del comportamento deviante posto in essere. Comunque in tutte le precitate cause scatenanti la prostituzione minorile, l'elemento unitario che le identifica è il fatto che essa costituisce, per chi la
esercita, una forma di soggezione a soggetti adulti per motivi di sesso a pagamento. Si pensi, per esempio, al caso della minore straniera attratta in Italia con le lusinghe dell'offerta di un lavoro onesto da individui senza scrupoli, che l'inducono poi a prostituirsi, riducendola sovente in una vera e propria condizione di schiavitù, con privazione della libertà, costringendola a vivere in squallidi appartamenti senza poter uscire, e a subire i loro quotidiani maltrattamenti. Ciò capita ancora con i rom adolescenti che fanno i “femminielli” sulla via Salaria, subito fuori del centro urbano di Roma, e che sicuramente sono delle povere vittime di padri - padroni che li mandano a prostituirsi, e di odiose ritorsioni, al rientro al campo, qualora non soddisfino le aspettative di guadagno economico dei loro genitori aguzzini. Bisogna rilevare , però, che in alcuni casi (soprattutto in quelli già citati delle minori straniere che si “associano” per prostituirsi per un periodo di tempo determinato, senza la presenza di uno sfruttatore), l'atto di prostituzione rappresenta di per sé una volontà apparentemente libera, e quindi non coartata, di ottenere la soddisfazione pecuniaria con cui si pensa di conquistare il mondo e tutte le sue conseguenti frivole felicità. Questa analisi parte dalla mia esperienza di decine di casi che ho trattato come pubblico mistero minorile di Roma. Nelle indagini preliminari da me svolte, anche al fine di richiedere dei provvedimenti amministrativi a tutela dei predetti minorenni, li ho interrogati a lungo cercando di penetrare “nella loro testa” per comprendere le ragioni profonde del loro prostituirsi. Ne è uscito un quadro umano devastante. In molti casi si trattava di povere “schiave”, sfruttate da loschi soggetti, che mi chiedevano aiuto per uscire dalla spirale della violenza in cui erano finite loro malgrado. In tali ipotesi, qualora tra gli sfruttatori vi fosse anche un minore, contestavo a
questo ultimo il concorso del reato di sfruttamento (ai sensi del precitato art.600 bis cod. pen.) con la fattispecie prevista dall'art. 600 del codice penale, intitolata “Riduzione o mantenimento in schiavitù - in quanto con la violenza fisica o psicologica, l'inganno, la minaccia , la promessa di una somma di denaro riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali...”- e quello dell'art. 601 cod. pen., intitolato “Tratta di persone”, per averle indotte, sempre con la violenza e l'inganno, a far ingresso in Italia al fine di prostituirsi, entrambi gravissimi delitti puniti con la pena della
reclusione da otto a venti anni. Inoltre ho avuto occasione di conoscere, nei miei interrogatori, varie ragazzine fra i tredici e diciassette anni di nazionalità russa, ucraina, moldava, albanese, bulgara e rumena che erano giunte appositamente in Italia, alle volte in maniera rocambolesca, dopo aver mentito alle famiglie d'origine, dicendo di aver trovato un lavoro onesto, e che si erano aggregate l'un l'altra al fine di proteggersi maggiormente dai “rischi” della strada. Alcune ragazzine italiane, studentesse di buona famiglia, da me interrogate mi hanno confidato di utilizzare la rete informatica per contattare i “clienti”, inviando foto provocanti per stuzzicare ancor di più la perversione e invogliarli ad incontrarle
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Nella foto: sulla strada...
Á
CRIMINOLOGIA ripetutamente. In tal maniera si creavano una ricca rete di clientela, riuscendo a guadagnare anche mille euro al giorno. Già, mille euro al giorno che permettevano a queste ragazzine di ridermi in faccia, senza alcun pudore , quando proponevo loro degli impieghi mediante una “borsa lavoro”, organizzata dal servizio sociale e pagata dal Comune di Roma, che prevedeva un appannaggio mensile di trecentocinquanta euro. Quindi tutte le mie parole e i miei buoni consigli, erano, purtroppo, buttati al vento!
Nella foto: baby squillo
Riflettendo, allora, mi domandavo se tali soggetti si potessero considerare delle vittime degli adulti, anche se era mio dovere, comunque, tentare di aiutarle ad uscire dalla grave situazione psicologica in cui esse si trovavano, che mostrava loro una realtà traviata come la scelta migliore. Successivamente, nell'ambito del mio insegnamento presso il master di secondo livello in criminologia presso la Sapienza- Università di Roma, trattando della prostituzione minorile, ho preparato un questionario di contenuto assai semplice e l'ho somministrato ai cento allievi, per il 90% donne laureate in psicologia . In esso si richiedeva se di fronte al caso dei Parioli di Roma - in cui due ragazzine di quattordici e quindici anni, studentesse, si erano prostituite con personaggi importanti quali avvocati e imprenditori (tra cui il marito dell'on. Mussolini), per acquistare con i proventi della loro “attività” orologi di marca, gioielli ,
vestiti griffati, vacanze di lusso ecc. essi considerassero le due minori A) vittime degli adulti, B) colpevoli, C) al 50% vittime e al 50% colpevoli. Il risultato è stato il seguente: il 51% dei compilatori le riteneva colpevoli, il 30% era favorevole alla situazione intermedia , mentre solo il 19% le riteneva comunque vittime. Certamente il campione esaminato era assai ristretto e non dislocato territorialmente, pur se composto al 90% da soggetti addetti ai lavori, in qualità di psicologhe e per di più donne (per evitare qualsiasi deriva d'interpretazione “maschilista”), comunque può essere significativo di una potenziale linea di tendenza di non giudicare sempre ed in ogni caso i minori vittime degli adulti, riconoscendo, talora, che ci mettono del “proprio” in qualche azione non conforme alla cosiddetta “normalità” dominante, a meno di non voler ritenere che “quel qualcosa di proprio”si riconnetta sempre e comunque alla cattiva educazione ricevuta dagli adulti ( i genitori e i professori ), e pertanto considerare questi ultimi i soli “colpevoli” del comportamento deviante dei minorenni, sempre innocenti vittime del mondo dei “grandi”. Connesso con il fenomeno della prostituzione minorile è quello del turismo sessuale verso i minori, che si esplica, sostanzialmente, nell' ipotesi di sfruttamento della prostituzione minorile mediante la copertura dell'organizzazione e la propaganda di iniziative turistiche che prevedono “l'incontro” con bambini che si trovano nel luogo in cui viene programmata la vacanza. Si tratta sostanzialmente di uno sfruttamento della prostituzione transfrontaliero e viene punito con la medesima pena detentiva dello sfruttamento commesso sul nostro territorio e cioè con la reclusione da sei a dodici anni e la multa (lievemente superiore) da 15.493 a 154.937 euro (art. 600 quinquies, cod. pen, intitolato “Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile”). Colui che aderisce a siffatte iniziative,
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andando da turista nei siti programmati dallo sfruttatore “turistico” e avendo rapporti sessuali con i minori reclutati appositamente da questo ultimo, incorrerà nella sanzione penale prevista nel secondo comma dell'art. 600 bis cod. pen., e cioè alla pena della reclusione da uno a sei anni e alla multa da 1.500 a 6.000 euro, qualora il minore abbia fra i quattordici e i diciotto anni; se invece è di età inferiore ai quattordici e superiore ai dieci, la pena detentiva è quella prevista dall'art. 609 quater cod. pen. (intitolato “Atti sessuali con minorenne”) e cioè dai cinque ai dieci anni di reclusione, pena identica alla norma di violenza sessuale (art. 609 bis codice penale) alla quale l'atto sessuale con minorenni di anni quattordici viene equiparato. Qualora l'età della prostituta sia inferiore ai dieci anni si applica la pena dai sei ai dodici anni di reclusione, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 609 quater codice penale Invero, ormai da anni, in Europa è nato e si è sviluppata una tipologia di viaggio turistico, soprattutto nei Paesi del terzo mondo, che comprende un pacchetto di offerte non solo relative ad una adeguata sistemazione alberghiera ed a gite ed escursioni in loco, bensì anche alla concreta disponibilità di un bambino pronto a soddisfare ogni pratica pedofila del viaggiatore. Questo vergognoso turismo che sfrutta la povertà economica di tanti minori soprattutto della Thailandia e dell'India, costretti dall'indigenza a offrirsi come vittime sacrificali di adulti perversi per un tozzo di pane, è stato per troppo tempo libero di esplicarsi senza alcuna sanzione giuridica fino all'emanazione della legge 3 agosto 1998, n. 269, che lo ha giustamente represso severamente con l'introduzione del precitato art. 600 quinquies del codice penale. Da rilevare che può considerarsi una nuova forma di turismo sessuale - con un grossissimo incremento quantitativo di casi di anno in anno quella realizzata da adulti residenti in paesi ricchi nei confronti di bambini che vivono in nazioni povere, che si
CRIMINOLOGIA offrono, via internet, ai primi per la somma media di cinque o dieci dollari, secondo il tipo di prestazione richiesta (ad esempio quella di spogliarsi, ovvero di masturbarsi). Contro il diffondersi di tale turpe traffico la polizia americana ha riprodotto, virtualmente, una bella bambina filippina di dieci anni, denominandola Switty, che agisce da “agente provocatore”, nel senso di mettersi in contatto, attraverso uno dei settantamila siti internet destinati alla pedofilia, con soggetti che cercano bambini in rete per soddisfare le loro insane voglie, permettendone l'immediata identificazione, che ha consentito nell'ultimo anno di individuare nel mondo oltre mille pedofili (tra cui ventidue italiani). Da ultimo si deve rilevare che la legge 6 febbraio 2006 n. 38, “Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet” ha introdotto due nuovi organi di lotta al fenomeno in questione e cioè “L'Osservatorio per il contrasto della pedofilia minorile” e “L’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi” . Entrambi svolgono il compito di monitorare le attività svolte, nel settore di loro competenza, da tutte le pubbliche amministrazioni e di analizzare i dati del fenomeno, per elaborare strategie di prevenzione e di repressione efficaci, mediante l'acquisizione di dati ed informazioni a livello nazionale e internazionale relativi alle attività svolte per la prevenzione e la repressione dell’abuso e dello sfruttamento sessuale dei minori e alle strategie di contrasto alla tratta di esseri umani, programmate e realizzate anche da altri Paesi, al fine della redazione di una relazione tecnico-scientifica annuale, a consuntivo delle attività svolte, che dovrà essere presentata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, annualmente, al Parlamento, ai sensi dell’art. 17, comma 1, della legge 3 agosto 1998, n. 269. F
GIUSTIZIA MINORILE
Verso l’eliminazione del Tribunale per i minorenni
È
di questi giorni la notizia dell'intenzione dell'attuale Governo di procedere alla riforma del Tribunale della Famiglia che prevede, come diretta conseguenza, la soppressione del Tribunale per i Minorenni. Tale istituzione ha accompagnato e promosso negli anni, in Italia, la cultura dei diritti dei minori, è stato un organo garante del "supremo interesse del minore" che il nostro legislatore impone venga tenuto in considerazione sia negli ambiti di applicazione penale che civile. Questo richiede un lavoro continuo di formazione, approfondimento e aggiornamento su tematiche che non sono solo strettamente giuridiche e che richiedono un impegno esclusivo. La riforma prevede che il Tribunale della Famiglia di nuova istituzione sarà inserito, come sezione specializzata, presso i Tribunali Ordinari senza tuttavia un'autonomia di funzione che consenta ai magistrati in organico di occuparsi solamente della materia minorile. Il timore che, dunque, venga svilito e mortificato il lavoro di tanti magistrati che si sono spesi perché i minori fossero considerati centrali nei procedimenti che li riguardano è fondato, così come è fondato il timore che proprio i bambini saranno i primi a subirne le conseguenze. Condividiamo le preoccupazioni di quanti in questi giorni chiedono di ripensare alla riforma proposta e alle modalità della sua attuazione e chiediamo che siano garantite condizioni di lavoro che consentano alla magistratura delegata di svolgere le proprie funzioni in modo efficace e che dia continuità alla storia della giustizia minorile che ha "fatto scuola" in Italia in tema di diritti dei minori. L’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, in relazione alla recente proposta
Ciro Borrelli Dirigente Sappe Scuole e Formazione Minori borrelli@sappe.it
approvata dalla Commissione Giustizia della Camera che prevede la soppressione dei Tribunali e delle Procure per i minorenni e l’introduzione di sezioni specializzate per la persona, la famiglia e i minori presso i Tribunali Ordinari e di Gruppi
specializzati presso le Procure Ordinarie ritiene che la previsione di alcuni aspetti essenziali relativi all'accorpamento delle competenze e alla specializzazione, oltre che alle modifiche processuali, con l’attribuzione delle materie più strettamente minorili a una sezione distrettuale con funzioni esclusive e il mantenimento della composizione mista, costituiscano condizioni necessarie ma, da sole, insufficienti ad assicurare effettività ai principi costituzionali di giurisdizione specializzata. Infine è da sottolineare che, nel sopprimere uffici altamente specializzati, si rischia seriamente di depauperare la cultura della giurisdizione minorile in favore di esigenze organizzative tese a ripianare carenze di risorse negli uffici per gli adulti, e di compromettere il complessivo sistema di protezione dell’infanzia, già duramente provato dai tagli alla spesa pubblica, così determinandosi un ulteriore grave pregiudizio alla condizione dei diritti dei minori e degli adolescenti nel nostro Paese. F
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Nella foto: il Tribunale per Minori di Napoli
DIRITTO E DIRITTI
Giovanni Passaro Segretario Provinciale del Sappe passaro@sappe.it
Colloqui e corrispondenza dei detenuti: diritto o concessione?
L’
art. 21 comma 1 Cost. riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero attraverso la parola, lo scritto e qualsiasi altro mezzo di diffusione. Conferendo la titolarità di tale diritto a “tutti”, si conferma la qualifica del diritto in esame come un diritto dell’uomo e come tale garantito a tutti i cittadini indipendentemente dal loro status. Una prima manifestazione assimilabile alla libertà di pensiero riscontrabile nell’ordinamento penitenziario è rappresentata dall’art.18 Ord. Pen. che si occupa della corrispondenza (epistolare e telefonica) e dei colloqui. Vero è che tali attività rientrano, più incisivamente, nella libertà di comunicazione, che a sua volta, è tutelata dall’art. 15 della Costituzione. Prima di poter vagliare se la disciplina dettata dall’art. 18 citato, risulti in conformità con la tutela offerta dagli articoli costituzionali menzionati, è opportuno esaminare la portata della disciplina in materia di corrispondenza e di colloqui, per poter soltanto successivamente raffrontarla con le garanzie costituzionali. La normativa penitenziaria in tema di colloqui è contenuta nell’art.18 Ord. Pen., e dispone che: “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici”. Tale disciplina, integrata dalle disposizioni del regolamento di esecuzione del 2000 (art.37 ss.), deve essere inquadrata nello spirito del favor per i contatti con il mondo esterno e con il rapporto con la famiglia elevati, difatti, ad elementi del trattamento dall’art. 15 Ord. Pen. Tale favor raggiunge la sua massima espressione, in riferimento ai colloqui con i familiari, proprio in virtù del fatto che la normativa si riferisce a tutti i congiunti e non solo “ai prossimi
congiunti” come disciplinava il regolamento del 1931. A questo favor familiae si contrappone una diversa disciplina regolamentare, che considera i colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi come eccezionali e subordinati all’autorizzazione soltanto quando ricorrano ragionevoli motivi. Lo svolgimento del colloquio deve avvenire in locali interni senza mezzi divisori o in spazi all’aperto a ciò destinati, sempre che non sussistano ragioni sanitarie o di sicurezza che ne impongano lo svolgimento in locali interni comuni muniti di elementi divisori. Il numero di colloqui mensilmente previsti è di sei, ridotto ad un massimo di quattro per i detenuti e gli internati per uno dei delitti previsti dal 1 comma dell’art. 4-bis Ord. Pen. e per i quali si applichi il divieto di benefici ivi stabilito. Per quanto attiene, invece, ai colloqui dei detenuti con il proprio difensore, troviamo una lacuna nella normativa penitenziaria, colmata dal legislatore, inizialmente solo con riferimento all’imputato detenuto, al quale è stato riconosciuto il diritto a conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura (v. art. 104 c.p.p.); per l’estensione del diritto a conferire con il proprio difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena riconosciuto al detenuto in via definitiva, si deve volgere lo sguardo a un intervento additivo della Corte Costituzionale, con il quale questa ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 Ord. Pen. nella parte in cui non prevedeva la relativa previsione. Il diritto a conferire con il difensore, in quanto rientrante nel novero della tutela costituzionale del diritto di difesa, non può essere rimesso a una valutazione discrezionale dell’amministrazione. Per avere, però, un quadro completo della disciplina occorre prendere in esame anche quelle disposizioni che si riferiscono
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alla corrispondenza. Quest’ultima, disciplinata sempre nel medesimo art. 18, è ammessa sia verso i congiunti sia verso terzi; particolare disciplina è dettata in riferimento alla corrispondenza epistolare, raccolta nel comma 7, e stabilisce che solo mediante un provvedimento del Magistrato di Sorveglianza la stessa possa essere sottoposta a “visto di controllo” da parte del direttore o da altri da questi designato. L’amministrazione, inoltre, deve garantire ai detenuti e agli internati, che non possano provvedervi a loro spese, l’occorrente per scrivere una lettera e l’affrancatura ordinaria (art. 18 comma 4, Ord. Pen. e art. 38 comma 2, Reg. Esec.). La corrispondenza in busta chiusa è sottoposta a ispezione al fine di individuare eventuali oggetti non consentiti, ma deve avvenire in maniera tale da garantire la riservatezza sul contenuto dello scritto. Quanto alla corrispondenza telefonica, l’art. 18 si limita a sancire che essa può essere autorizzata nei rapporti con i familiari, e solo in casi particolari con i terzi, secondo le modalità e le cautele previste dal regolamento. Quest’ultimo consente un ascolto eventuale, seguito dalla registrazione delle conversazioni telefoniche dei detenuti, mentre per i condannati per i reati previsti dall’art. 4-bis, la registrazione costituisce la regola; per la corrispondenza telefonica con i terzi, invece, necessita l’autorizzazione del direttore dell’istituto solo qualora ricorrano ragionevoli motivi. Soltanto ora che sono state tracciate le linee generali sulla disciplina penitenziaria in materia, possiamo verificare la compatibilità o meno della stessa rispetto ai dettami della Costituzione. L’art. 15 Cost. stabilisce che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili; la
DIRITTO E DIRITTI limitazione di tale diritto può essere disposta solo con atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge”. Da ciò discende che, il regime “autorizzativo” cui sono sottoposti le corrispondenze e i colloqui dei reclusi, non si presta del tutto a garantire quel diritto rientrante tra i valori supremi della Costituzione. Basti pensare già alla stessa formulazione dell’art. 18 Ord. Pen., secondo la quale “i detenuti sono ammessi ad avere colloqui” anziché “hanno diritto” e ciò paleserebbe una scelta del legislatore per una graziosa concessione rispetto a un diritto. Ma l’inattuazione del disposto costituzionale si coglie anche nell’inosservanza della garanzia della riserva di legge, essendo un regolamento e non la legge a stabilire la maggior parte delle restrizioni, senza peraltro specificare adeguatamente quali siano i criteri utilizzati per l’autorizzazione ai colloqui con “persone estranee” o per l’adozione di misure restrittive nei confronti della corrispondenza, perciò, senza rispettare il requisito della determinatezza della fattispecie limitativa. Si pensi in materia di colloqui, in cui il provvedimento autorizzativo è connotato da una “discrezionalità praticamente assoluta”, quando i destinatari non siano i familiari. Ma il fattore più dubbioso, è costituito dal fatto che a fronte di un diniego del permesso di colloqui, l’ordinamento penitenziario non predispone alcun mezzo attivabile dal recluso e, in ossequio al principio della tassatività dei rimedi impugnatori, si dovrebbe desumere l’inoppugnabilità del provvedimento. Tuttavia, data la natura amministrativa del permesso di colloquio, non è mancata dottrina che ha suggerito l’utilizzo, in tal caso, dello strumento predisposto all’art.35 Ord. Pen., cioè l’esercizio del diritto di reclamo. Ma anche riconoscendo l’utilizzo del reclamo, l’effetto finale non sarebbe di grande rilievo, in quanto non possiede natura giurisdizionale. Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale, con la già citata sentenza n. 26 del 1999, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 Ord. Pen. nella parte
in cui non prevedono una tutela giurisdizionale avverso gli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi di diritti dei detenuti e degli internati, proprio in quanto, anche qualora il destinatario del reclamo sia il Magistrato di Sorveglianza, il procedimento dinanzi a lui sarebbe privo dei requisiti minimi per essere qualificato come giurisdizionale. Stessa conclusione si riscontra con riferimento alla corrispondenza, sia per l’elusione delle garanzie costituzionali, sia per la mancata previsione di uno specifico mezzo di gravame. Infatti, è agevole costatare che il visto di controllo per essere disposto deve essere motivato dall’autorità giudiziaria, ma a quest’ultima è lasciato un ampio margine di discrezionalità poiché l’art. 18 nulla dice in merito alle modalità o, ai casi che possono giustificare la misura restrittiva, eludendo così la riserva di legge richiesta dall’art. 15 comma 2 Cost. L’inadeguatezza della normativa penitenziaria finora descritta, trova un ulteriore conferma nei numerosi interventi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; interventi che si sono spinti fino a sollecitare proposte di riforma della disciplina concernente le limitazioni della libertà di comunicazione dei detenuti, rimaste finora senza seguito. La giurisprudenza formatasi ruota attorno al contenuto dell’art. 8 CEDU, nel quale si stabilisce che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza; non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto essa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, sia necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione di reati, la protezione della salute o della morale o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Ed è proprio con riferimento a tale articolo che la Corte Europea ha rilevato la violazione nella legislazione italiana, costatando l’eccessivo margine di discrezionalità riconosciuto dall’art. 18 Ord. Pen., nonché il contrasto con l’art. 13 della Convenzione, in forza del
quale “ogni persona i cui diritti e le cui libertà, riconosciute dalla Convenzione stessa, siano violati, deve poter fruire di un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale”. Concludendo, l’art. 8 CEDU costituirebbe senz’altro un importante argomento per un’eventuale sentenza che dichiari l’incostituzionalità dell’art. 18 Ord. Pen., non tanto come parametro diretto per la verifica della conformità costituzionale, bensì come argomento rafforzativo di un’interpretazione che veda tra i destinatari del diritto di libertà contenuto nell’art. 15 Cost. anche i detenuti.
I tentativi di revisionare la disciplina della corrispondenza e dei colloqui dei detenuti, così come sollecitato dalle condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sfociarono nel disegno di legge n. 4172 presentato dal Ministro della Giustizia, con il quale si proponeva di revisionare gli art. 18 e 18-bis Ord. Pen. e di introdurre l’art. 18-ter. In quest’ultimo si stabilivano i limiti oggettivi e temporali, la competenza all’adozione dei provvedimenti che incidono il diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e le finalità, ma la previsione più importante, era l’indicazione dei mezzi d’impugnazione; in tal modo si rimetteva all’originale art. 18 il solo compito di enunciare le condizioni dell’esercizio del diritto alla corrispondenza. Progetto di revisione che non trovò un seguito e che induce a ritenere, quindi ad escludere, per le ragioni fin qui esposte, che l’attuale art. 18 Ord. Pen. sia in grado di farsi portatore di un “diritto” alla corrispondenza e ai colloqui dei detenuti. F
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ANTROPOLOGIA CRIMINALE
Massimo Montaldi Antropologo Criminologo Art.17 Rebibbia rivista@sappe.it
Semantica e linguaggio: il diverso significato delle parole nelle limitazioni della libertà
L
a criminologia è una prospettiva scientifica abbastanza recente, se pensiamo che essa inizia a configurarsi come specializzazione solo poco più che un secolo fa. Eppure essa è intimamente connessa con tutto ciò che puo definirsi culturale, storico, sociale. Deviando dalla norma penale condivisa, il reato insorge come fattore sottrattivo di un valore condiviso nella vita della struttura sociale.
Nella foto: ricerca di significati linguistici
Questa posizione di analisi, nel suo fluire, fa riferimento anche ad una dimensione di relazioni che si configurano entro un quadro di significati linguistici che hanno lo scopo di spiegare azioni e comportamenti devianti, soggettività e responsabilità, le cui conseguenze siamo chiamati a significare linguisticamente, dunque concettualmente. Chiunque in qualche modo si trova ad interessarsi al percorso che le responsabilità intraprendono all’interno dei luoghi istituzionali preposti, non può esimersi dal constatare che in generale esse sono processi in continua trasformazione, più o meno lunga, nella quale le responsabilità traghettano in terminologie che hanno lo scopo di recuperare al senso condizioni sociali
reintegrative, precedentemente lese. In poche parole un soggetto responsabile di un fatto penale, condannato ad espiare la restituzione del danno procurato, al di la della esperienza di restrizione, viene impegnato contemporaneamente in un percorso critico, nel quale è possibile convertire in coscienza sociale assertiva quei presupposti che l’avevano indotto al reato. In questo tipo di analisi di ordine scientifico, cioè di ricerca, verso il quale è impegnato istituzionalmente, un ruolo sociale attivo è tale quando mantiene all’interno di un comune progresso di comprensione le finalità di una società civile. Coltivare relazioni comuni in questo ambito specifico, significa al contempo essere disposti a mettere in gioco continuamente le proprie convinzioni, le proprie credenze, e perché no, anche le proprie esperienze. Mettere in gioco tutto ciò che ci appartiene in un contesto di rappresentatività istituzionale, vale a dire essere disposti a cedere e distribuire idee, proposte, ma soprattutto linguaggi, tesi a superare ogni volta il tempo e gli orizzonti, in poche parole, e nel nostro caso, mostrare apertura verso l’esame critico linguistico dei significati e delle semantiche del carcere e della detenzione. A questo proposito, se davvero tutti siamo convinti che la via dei linguaggi non è solo un mero attachment teorico, ma una delle poche direzioni con le quali è possibile orientarsi, vale l’ipotesi che l’uomo trovi soluzioni adeguate al tempo, e nuove realtà da interporre a vecchi problemi. Parole come detenzione, custodia, espiazione, non possono indurci a percepire semplici affermazioni i cui significati sono stabiliti per sempre, senza interrogarci sul fatto che le parole
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sono codici complessi, capaci di significati molteplici, dei quali conosciamo solo una parte del loro potenziale concettuale. Una delle più efficaci disposizioni che si può assumere nei processi di comprensione è quella che ci induce ad accogliere ipotesi per le quali i nuovi concetti possono contribuire ad allargare il senso delle cose conosciute, oppure svelarne altre, e contribuire e facilitare il cammino costante verso il progresso. Nell’analisi delle semantiche tuttavia, è fondamentale confrontarsi con altre culture, e dunque altri linguaggi. Nella cultura anglosassone non mancano diversi punti critici per quanto riguarda il mondo della devianza, sebbene essa si configura quale cultura linguistica piuttosto rivelatrice di concetti. Lo studio delle terminologie della devianza nella lingua inglese si presenta abbastanza ricco di spunti buoni per una proficua riflessione comparativa sull’uso del linguaggio della detenzione. Seppur nei limiti di un articolo, e non di una pubblicazione scientifica, emerge schietta tale ricca riflessione di concetti e di sensi, per quanto riguarda le semantiche, perché sovente ci si imbatte in diversi utilizzi che segnano il profondo interesse della lingua inglese verso una raffinata sequenza di distinguo tra le parole, mentre nella lingua italiana le stesse assumono significato a seconda della posizione che occupano nella frase, in altri termini è possibile rilevare ambiguità e polisemia, cioè diversi significati anche in netto contrasto tra loro. Prendiamo ad esempio il termine Banged-up, che si traduce in italiano come “arrestato”. In questo caso se procediamo alla separazione dei due termini Banged e
ANTROPOLOGIA CRIMINALE Up, ci accorgiamo che il verbo Bang significa urto, colpo, al passato Banged e unito con il sostantivo Up, si riferisce invece all’arrestare qualcuno. Fa certamente riflettere la composizione morfemica di questo termine, almeno sul fatto che nella frase “banged up found these entries” il colpo, l’urto, si associa alla traduzione letteraria di “finire al fresco”. Una siffatta analogia tra termini e significati non può essere un caso. Rimanda ad una esigenza concettuale più profonda. In realtà la condizione dell’essere arrestati, può restituire un feedback emotivo di “colpo” o “urto” che la persona arrestata subisce. Ma a pensarci bene può essere interpretato anche come evento che ha preceduto la condizione soggettiva dell’arrestato ma riferisrsi all’urto, al colpo che la comunità ha subito a causa della violazione commessa dal soggetto. Un altro termine che fa riflettere è quello di “detenuto”. In lingua italiana non fa nessuna differenza pronunciare questa parola in caso di possedere qualcosa, oppure in caso si voglia indicare la condizione soggettiva di restrizione di un soggetto. Nella lingua inglese in questo caso la quantità di terminologie è ricchissima, e tale distinzione è assolutamente semantica e concettuale, e non dopende dalla posizione della parola detenere rispetto ad altre. Detenuto, in quanto soggetto trattenuto in carcere si indica con le parole prisoned, incarcerated, detained, cioè detenuto in quanto status, prisoner, inmate, detainee. Tuttavia “detunuto” in quanto posseduto, si indica con termini completamente diversi, cioè “Held, owened, possessed”. Come si può notare la lingua inglese effettua distinzioni molteplici per quanto riguarda la separazione dei significati “detenere un soggetto”, e “detenere in quanto possedere qualcosa”. Mentre invece nella lingua italiana la parola “detenuto” assume diversi significati a seconda della posizione rispetto ad altre parole, o termini, oppure sostantivi, che insieme
condividono la frase. Ciò ci spinge ad una prima considerazione di tipo linguistico, simbolico ed etico. In effetti la lingua inglese può aver avuto l’esigenza storica di separare i significati di detenere un oggetto, e detenere un soggetto, al fine di non ingenerare equivoci circa l’idea di poter possedere l’umanità di un soggetto, piuttosto che l’inerzia di un oggetto, piuttosto che la formulazione di un concetto. Questa separazione ci spinge a pensare che il valore della vita umana non si può possedere come fosse un oggetto e che, nello specifico della condizione di detenuto in carcere, questo status non può riferirsi al possedere materialmente qualcuno, ma solo custodirlo in un più ampio spettro di diritti e doveri da ambo le parti e nell’interesse di tutti, in primis la comunità sociale. Un altra analisi può illuminarci sui diversi significati del termine “custodire” nella lingua inglese. In questo caso il termine “custodia”, quale “tutela o salvaguardia”, è indicato nei termini “conservation e safekeeping”, mentre “custodia” nel senso “sorveglianza e detenzione”, viene declinato con i termini “custody e detention”. In questo caso però i due termini possono riferirsi invariabilmente alla condizione di custodia di una persona detenuta, confermando la meticolosità linguistica con la quale la lingua inglese si cura di semantizzare, significare questo complesso intrico di morale, legislazione ed etica sociale, giudiziaria, penitenziaria, in poche parole, politica sulla devianza. In ultimo, a conferma della cura con la quale le analogie fonetiche e semantiche della lingua inglese si curano di significare campi particolarmente complessi, il termine “espiare” viene indicato ancora una volta, come nel caso di Banged up, con un contributo tra termini, e cioè “compensate for”, che introduce il concetto di “compensativo per qualcuno”. In questa breve escursione linguistico semantica, si può evincere che le società, dunque le culture, cioè le
lingue, hanno inteso contraddistinguere sistemi di idee e di pensiero particolari, circa questioni analoghe nelle diverse società e culture. Inoltre possiamo affermare che analizzare comparativamente lingue diverse, in merito a circostanze sociali analoghe, è un po’ come rendersi conto che il confronto non può che configurarsi quale arricchimento degli spazi di pensiero e di senso. Nelle carceri italiane vengono detenute diverse decine di migliaia di persone nella condizione di “detenzione per espiare”, cioè per compensare il danno arrecato alla società. Ciò consente di riassumere che la Polizia Penitenziaria, unitamente alle professioni del carcere, svolge un compito complesso che va oltre la mera sorveglianza, e che richiama i concetti di custodia quale tutela e salvaguardia del
detenuto, un compito socialmente rilevante e sempre gravido di inaspettati risvolti etici e morali, legali e soprattutto sociali. Eppure, sovente, la dimensione sociale confonde il possedere con il custodire, l’ingannevole “misleading” con il deviante “abnormal” ecc, distinzioni che gli operatori del carcere hanno invece presenti nel complicato compito oggettivo ed al contempo semantico, significante, sociale e concettuale. I significati sono in un certo senso, in quanto la quotidianità deve fronteggiare un contatto con la sofferenza della detenzione, con la responsabilità pubblica e privata del grande impatto della devianza sul sistema sociale, che pretendono la traduzione di sempre nuove problematiche. Una delle più importanti è la capacità
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Nella foto: detenzione
Á
ANTROPOLOGIA IL LIBRO di decodificare quegli spazi scivolosi tra gli interstizi della razionalità sociale e l’emotività collettiva, la solitudine delle scelte di opportunità ed i modelli di intervento istituzionali scossi dal continuo rivolgimento dello specchio sociale, verso il quale tutti siamo chiamati a riflettere senso e significato. A chiunque abbia avuto la pazienza e l’interesse di seguirmi fin qui, non può essere sfuggito l’enorme compito che spetta a chi è chiamato a svolgere un ruolo di custode della sovranità sociale.
Nella foto: un fotogramma tratto dal film Accadde al penitenziario
Si tratta anche di un lavoro che svela inaspettate esigenze sociali. La produzione di molteplici significazioni e semantiche del senso della civiltà che il gruppo intende perseguire, della cultura che si prefigge di modellare nel solco di storia e tradizioni costruttive; un lavoro intenso e sempre in bilico tra l’essere ed il non essere. Appesa nella trama delle sofferenze e dell’alterità, questa posizione si trova a gestire linguaggi mai esaustivi per spiegare i contesti per i quali sono stati prodotti, seppure veicoli di coscienza, flussi continui di esistenze, relazioni e rapporti, connessioni con il mondo che noi tutti intendiamo costruire insieme. Il carcere è l’istituzione che maggiormente assolve il compito focale di significare le decisioni sociali complessive. Chiunque si trovi a dover gestire le conseguenze di una data civiltà dei significati e dei linguaggi, si misura con il gravoso compito di spiegare l’umanità. Il carcere è soprattutto linguaggio, ed il senso che tutti noi vogliamo intendere che siano i suoi significati. F
Un processo canonico per Luigi Calabresi? E’ quanto richiede don Ennio Innocenti, che fu padre spirituale del commissario assassinato a Milano nel 1972, in un libro intitolato «Luigi Calabresi, il Santo, il Martire». Una mole di testimonianze raccolte a favore delle virtù cristiane del funzionario di polizia
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resso il teatro della Basilica Nazionale di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, a Roma, è stato presentato il libro «Luigi Calabresi, il Santo, il Martire», di Don Ennio Innocenti. Relatori, il vescovo Giovanni D’Ercole e il docente universitario Michele Malatesta. Il libro, in edizione fuori commercio, si compone di 618 pagine ed è una raccolta di scritti e documenti sul commissario di polizia assassinato a Milano dal movimento rivoluzionario di estrema sinistra “Lotta Continua” il 17 maggio 1972. L’autore, don Ennio Innocenti, fu il padre spirituale del commissario di polizia, che era cattolico praticante, e fu lui, nel 2007, ad avanzare per primo la richiesta di un provvedimento canonico di verifica delle virtù cristiane di Luigi Calabresi, dopo avere ottenuto il sostegno del cardinale Camillo Ruini. Ma la decisione non spettava a Ruini, bensì all’Arcivescovo di Milano, per competenza territoriale, città dove si era consumato il sacrificio di Calabresi. In attesa del nulla osta, il ponderoso libro può rappresentare un valido sollecito alla proposta. Il libro è stato stampato, in edizione fuori commercio, a cura della Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis, ente ecclesiastico legalmente riconosciuto, con sede a Roma in via Capitan Bavastro 136, telefono 06.5755119, website: www.fraternitasaurigarum.it indirizzo e-mail: fraternitasaurigarum@gmail.com. Il lavoro di don Innocenti si divide in tre parti: un’ampia biografia di Luigi Calabresi; una serie di giudizi sulla sua fede e sul suo eroismo; il suo sacrificio sotto l’aspetto cristiano (non a caso,
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sulla copertina del libro è riprodotta una lettera inviata dal giovane Calabresi a don Innocenti in occasione di un Santo Natale e nella quale egli affermava che ciò che conta è «conoscere ciò che il Cristo ci chiede, e fare la sua volontà»). La prima parte ospita importanti testimonianze sulla fede cristiana e lo spirito di carità del commissario, tra cui quella di padre Virginio Rotondi, fondatore del movimento “Oasi”, e una minuziosa ricostruzione del rammarico e del dolore della Santa Sede dopo il delitto, e delle commemorazioni ufficiali in ambito cattolico che hanno continuato a susseguirsi dopo di allora. La seconda parte inizia con una scrupolosa documentazione concernente l’eroismo cristiano di Luigi Calabresi, a cominciare da una raccolta di “testimonianze giurate”, curata da don Innocenti, a giustificazione di una eventuale richiesta di aprire un procedimento canonico che possa accertare le virtù religiose dello scomparso. Tra queste, le testimonianze di Fausto Belfiori, giornalista e saggista, di monsignor Ernesto Menghini e di don Mario Vanini. Viene poi riportata la prima, argomentata, richiesta di riconoscimento canonico, formulata da don Giorgio Maffei, nella quale si legge tra l’altro che «Luigi Calabresi non diede mai segno di risentimento non solo verso i suoi calunniatori, ma anche verso quegli “amici” e quei “cattolici” che non furono solidali con lui, che quasi lo osteggiarono». Don Innocenti ricorda come, in piena adesione alla richiesta di don Maffei, si pronunciarono a favore del
IL LIBRO provvedimento illustri consultori della Congregazione per le Cause dei Santi come monsignor Gherardini e padre Ols, teologi come padre Giovanni Cavalcoli, esponenti del clero come monsignor Giovanni D’Ascenzi, arcivescovo emerito di Arezzo, Cortona e Sansepolcro, l’arcivescovo Mauro Piacenza, presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa (in seguito cardinale e penitenziere maggiore del Tribunale della Penitenzieria apostolica), infine don Pietro Vittorelli, abate ordinario dell’Arciabbazia di Montecassino, e monsignor Egidio Caporello, vescovo di Mantova. Ognuna di queste personalità ha scritto lettere o pronunciato discorsi e interventi che vengono fedelmente riprodotti nel volume. Ad esempio, monsignor Giovanni D’Ascenzi, commemorando a Rimini il commissario Calabresi, concluse la sua relazione con queste parole: «Seguendo il camino della sua vita, ho notato una coerenza, una costanza e un crescendo nei valori morali, civili e religiosi, tali da meritare una ricerca accurata di documentazioni e testimonianze per valutare se siamo di fronte a un credente che ha vissuto la fede e l’amore del prossimo in maniera eroica. Personalmente vedrei con grande soddisfazione l’avvio, da parte dell’Autorità ecclesiastica, di un processo canonico perché sia riconosciuta l’eroicità delle sue virtù». A proposito di virtù, «Le virtù cardinali e teologali di Luigi Calabresi» è il titolo di uno scritto di padre Serafino Tognetti, monaco della Comunità dei Figli di Dio, che approfondisce il rapporto dell’anima del commissario con le seguenti virtù: fede, speranza, giustizia, fortezza, temperanza, prudenza, carità. In merito a quest’ultima, padre Tognetti scrive: «Di fronte al linciaggio morale cui fu sottoposto, egli rispose con queste parole a Enzo Tortora, che gli aveva chiesto come faceva a resistere: “E’ semplice: credo in Dio. Non ho mai fatto nulla di cui possa vergognarmi e non odio nemmeno i
miei nemici. Ho angoscia per loro, non odio. E’ una parola, odio, che proprio non conosco”». Nel 25° anniversario dell’assassinio, l’arcivescovo Remigio Ragonesi, Vicario di Roma, scrisse a don Innocenti che «la memoria di Luigi Calabresi è eredità morale non solo di famigliari, amici e conoscenti, ma di tutti noi. Negli anni forse più oscuri della nostra generazione, quest’uomo ha avuto il coraggio di resistere alla fazione furiosa e anche armata sapendo di rischiare la vita. Egli sapeva dal Vangelo, di cui era non solo lettore ma seguace convinto, che la vita, dono immenso di Dio, si “salva” e si valorizza non già consumandola nell’egoismo, ma “perdendola”, cioè offrendola, immolandola all’amore per Iddio e all’amore, che da esso discende, per il prossimo, per la famiglia, per la Patria, per i fratelli, anche se traviati, anche se nemici». Cinque anni dopo, nel 30° anniversario, il cardinale Camillo Ruini diede il proprio avallo alla proposta di Don Innocenti scrivendogli: «La fama del suo eroismo cristiano, lungi dall’appannarsi in questi trent’anni, si è estesa e si è consolidata con testimonianze, studi e ripetute argomentazioni di laici, di sacerdoti e di Vescovi. Nulla osta, pertanto, che venga proposto, secondo le regole, al Tribunale diocesano competente, l’esame canonico delle sue virtù, che già il Santo Padre Giovanni Paolo II indicava come esemplari». Anche i cardinali Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, Fiorenzo Angelini e Angelo Comastri hanno espresso la loro ammirazione per la persona del commissario Calabresi scrivendo prefazioni alle varie edizioni del libro di Giordano Brunettin «Luigi Calabresi. Un profilo per la storia». E veniamo alla terza ed ultima parte del ponderoso volume di don Innocenti. E’ intitolata “Il martire” e contiene interviste a varie personalità, tra cui il prefetto, poi deputato e senatore, Achille Serra, e testimonianze di grandi personalità del passato come Indro Montanelli e Enzo Tortora. In un accurato e dettagliato studio di
don Innocenti sull’ odium religionis che contrassegnò il periodo rivoluzionario scoppiato nel ’68, si legge: «Egli sapeva di essere nel mirino del nemico e affrontava quel pericolo con decisione analoga a quella espressa da Gesù nell’ultima salita a Gerusalemme, rinunciando alla propria legittima difesa armata , ma affidandosi solo a Dio e alla sua imperscrutabile volontà. Per questo molte personalità ecclesiastiche hanno visto in lui un martire». In attesa del nulla osta dell’arcivescovo di Milano per l’apertura di un processo di verifica delle virtù cristiane del commissario, don Ennio Innocenti, nella parte finale del libro, nel capitolo intitolato «Possibilità che la causa canonica del commissario Calabresi giunga a buon fine», così scrive: «Si osserverà che dopo vari anni dal verdetto possibilista del Cardinale Vicario (il riferimento è alla lettera dell’arcivescovo Remigio Ragonesi scritta nel 25° anniversario dell’omicidio), la causa non è ancora iniziata, e questo fatto fa emergere l’ipotesi che qualche obiezione sussista. […] Forse ha un peso anche il fatto che la vedova superstite del commissario abbia esibito sempre estrema freddezza a fronte della ventilata proposta canonica, rifiutando ogni collaborazione alla composizione della biografia stesa dal professor Giordano Brunettin. In contrasto, va notato che il clima dell’opinione pubblica sta ora cambiando in senso favorevole e che la Chiesa è abituata a fare i conti con i secoli e non con la breve durata della vita, delle passioni e degli interessi dei singoli». Nell’attesa, don Ennio Innocenti invita chi dovesse ricevere grazie per la richiesta intercessione di Luigi Calabresi, a darne notizia alla Sacra Fraternitas Aurigarum, i cui indirizzi sono riportati sopra. F
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di Luciano Garibaldi giornalista e storico luciano.garibaldi@fastwebnet.it
Il ritratto di Luigi Calabresi del pittore romano Mattia Serino nella copertina del libro
LO SPORT
Intervista a Monia Baccaille, una delle cicliste di punta del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre
Lady Oscar rivista@sappe.it
Nelle foto: Monia Baccaille
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uando il telefono di Monia squilla sono circa le 14:30 di lunedì pomeriggio. L'ora migliore l'aveva indicata lei, perché quello era il momento in cui Aurora e Vittoria (le sue piccole di tre anni e diciotto mesi) sarebbero state a letto per il pisolino pomeridiano. Al primo tentativo nessuna risposta ma, dopo pochi minuti, ecco un suo messaggio: "Ciao, ci sentiamo fra 50 minuti? Sto facendo i rulli perché il tempo stamattina non mi ha permesso di allenarmi". Mentre gran parte delle persone a quell'ora dopo pranzo è al caffè e le mamme sarebbero sprofondate sul divano approfittando del riposo delle loro creature, per ritrovare le forze in previsione dei giochi del pomeriggio quelli che durano dal risveglio all'ora della nanna - lei, una delle atlete più titolate e brave che il ciclismo italiano abbia prodotto, è sulla propria bici a fare una seduta di allenamento. Il tempo piovoso non era stato clemente per una corsa in esterna, in teoria un ottimo alibi per saltare la seduta oltre al dettaglio, nient'affatto trascurabile, che solo due giorni prima aveva gareggiato in uno degli appuntamenti del ciclismo professionistico nazionale più duri e affascinanti della stagione: Strade Bianche. E’ una corsa che riporta per un giorno
il ciclismo alle sue radici, all’epoca dei pionieri. Si corre su strade sterrate, tra paesaggi da cartolina. Partenza ed arrivo sono a Siena ed il tracciato si snoda per gran parte attraverso le Crete Senesi. La corsa affronta nove tratti di strada sterrata, con una sequenza infinita e affascinante di strappi, saliscendi, curve e muri, per comporre un percorso tecnico e selettivo. Dopo l’ultimo chilometro inizia un muro in pavè con pendenze fino al 16%. E’ qui che i corridori si sfidano per la fiammata finale che porta alla meraviglia dell’arrivo in Piazza del Campo. Nonostante tutto questo Monia Baccaille, ciclista e mamma, due giorni dopo è sui rulli. Prima di dormire Vittoria, mentre la guardava allenarsi, le ha lasciato vicino una sua costruzione. Dopo cinquanta minuti parte l'intervista e la voce al telefono è allegra e squillante. Monia, hai già vinto molto nel ciclismo. Cosa ti spinge a continuare, soprattutto dopo essere diventata mamma di due meravigliose bambine? L'adrenalina delle gare, quella di sempre quando sei in sella alla bicicletta. Una sensazione meravigliosa che vale sempre la pena di essere vissuta.
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Oggi sei un'atleta - mamma. Cos'è cambiato rispetto al passato? Cambia tutto. Gestire due figlie è un impegno grande e si modificano i ritmi di vita in modo consistente. Da atleta in genere esci in bicicletta, poi quando hai finito fai gli addominali, stretching e segue la fase di recupero. Con due bimbe piccole quel recupero è relativo, perché, ad esempio, si svegliano diverse volte di notte e comunque anche i tempi di lavoro sono condizionati dalle loro esigenze e dai loro bisogni. Dal punto di vista mentale, come sappiamo fondamentale per gli atleti, hai avvertito delle differenze?
LO SPORT In gara ed in allenamento pensando a loro sono più attenta di prima. Siamo sempre su due ruote, oltre al caschetto non abbiamo chissà quali protezioni ed il ciclismo sta diventando sempre più uno sport veloce e pericoloso: gallerie del vento, ricerca applicata per diminuire i tempi e gli atleti stessi che corrono non pensando troppo alla propria ed altrui incolumità. Poprio per questo, con la testa alle mie due figlie ammetto che rispetto a prima tiro più i freni quando sono in bici. Due bimbe che fra qualche anno per emulazione potrebbero voler praticare il suo stesso sport. A questa osservazione ride e dice che no, si opporrebbe, ma poi ammette che probabilmente farebbe come sua madre, a cui lei nel 1991 chiese di iniziare il ciclismo per seguire una sua amichetta. Alla fine si convinse a farla provare e a questo si deve la nascita di una campionessa. Monia, toglici un'ultima curiosità. Quali sono i tuoi obiettivi di carriera? Per ora punto solo alle competizioni nazionali, anche se intendo concedermi una eccezione. Il prossimo 3 aprile andrò a disputare il Giro delle Fiandre.
DALLE SEGRETERIE Cosenza Festa della donna
L’
8 marzo 2016, in occasione della Festa della donna, presso gli Istituti di Cosenza, Paola, Castrovillari e Rossano, i Segretari del S.AP.Pe. hanno consegnato a tutte le operatrici delle strutture dei piccoli cadeaux in segno di ringraziamento e riconoscenza per tutto ciò che fanno. L'iniziativa è stata molto apprezzata da tutte le figure femminili presenti, che hanno ringraziato il nostro Sindacato, qualcuna con la commozione che le si leggeva sul viso per questo "piccologrande" gesto di considerazione. Un augurio a tutte le donne... Certo che Dio ha creato l’uomo prima della donna. Si fa sempre una bozza prima del capolavoro finale. (anonimo) F I segretari S.A.P.Pe. della provincia di Cosenza
Cosenza
Paola
Monia Baccaille nelle Fiandre ha sempre vinto e anche questa volta, ne siamo sicuri, onorerà il Giro al meglio delle sue possibilità. Mai come in questo caso partecipare è già vincere. F
Castrovillari
Castrovillari
Paola Polizia Penitenziaria n.237 • marzo 2016 • 21
a cura di Giovanni Battista de Blasis
CINEMA DIETRO LE SBARRE
Il massacro di Attica
Regia: Euzhan Palcy Titolo originale: The Killing Yard Soggettoe e Sceneggiatura: Benita Garvin Fotografia: John Simmons Montaggio: Paul LaMastra Musica: Patrice Rushen Costumi: Nicoletta Massone Effetti: Martin Williams
C
Nelle foto: la locandina e alcune scene del film
ol titolo originale The killing yard, questa co-produzione Cananda - Stati Uniti è l’ennesima pellicola che racconta la rivolta del carcere di Attica del settembre 1971. Si tratta di un discreto film per la tv, con dei bravi attori e una storia molto intrigante, ancorché incredibilmente vera: la rivolta di alcuni carcerati, soffocata nel sangue, che sconvolse l’America buonista, degli anni settanta, scatenando una tempesta mediatica e giudiziaria. La storia è raccontata attraverso il rapporto tra l’avvocato Ernie Goodman (bianco ed ebreo) e il detenuto nero Bernard Stroble, alias Shango (attivista delle black panters), alternando la storia personale di questi due uomini con la drammatica storia processuale.
la scheda del film
Produzione: Paramount Television e Harris & Company Distribuzione: Paramount Network Television Productions
Le sequenze nel carcere sono tutte in flashback e di taglio documentaristico in bianco e nero. Difficile credere che si tratti di fiction, perché le riprese sembrano davvero reali. Per chi non conoscesse i fatti questo film, nonostante la provenienza televisiva, è efficace e senza troppi fronzoli. Il 13 settembre 1971, nel carcere di Attica, mille detenuti, prevalentemente neri e portoricani, presero in ostaggio trentotto persone, tra poliziotti penitenziari e impiegati civili. I carcerati chiedevano un miglioramento delle condizioni di vita del penitenziario che, a loro parere, erano invivibili. Il quinto giorno dell’occupazione del carcere, però, furono uccisi due poliziotti penitenziari e questo diede alla direzione della prigione il pretesto per scatenare una violenta repressione che si concluse con 39 morti (29 detenuti e 10 poliziotti penitenziari) e 80 feriti. La Polizia di Stato mise fine ai disordini sparando più di duemila colpi di arma da fuoco, indiscriminatamente su detenuti ed ostaggi. Dopo la rivolta le autorità sostennero che gli ostaggi morti erano stati uccisi dai prigionieri ma, in seguito, emerse che almeno nove erano stati uccisi dai poliziotti. Shango, uno dei capi della rivolta, venne accusato di duplice omicidio.
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Personaggi e interpreti: Ernie Goodman: Alan Alda Shango: Morris Chestnut Linda Borus: Rose McGowan L.D. Barkley: Lindsay Owen Pierre Malcolm Bell: Dean Patrick Fleming Haywood Burns: Tyrone Benskin Conrad: B Martin Sage Johnny Flowers: Benz Antoine Juror Thomson: Terence Bowman Court Clerk: Bill Corday Anthony Simonetti: Larry Day Beth: Lesley Faulkner Vicky: Dawn Ford D.A.: Christopher Heyerdahl Dr. John Edland: Arthur Holden Genere: Drammatico Durata: 110 minuti, Canada - USA, 2001 Il film poggia quasi interamente sulla dimensione processuale e sul confronto-scontro tra l’avvocato, colto esponente della middle class, e il sanguigno Shango, di umili origini e che, come molti neri, ha provato sulla sua pelle la brutalità del razzismo. F
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CRIMINI E CRIMINALI
Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it
Madri che uccidono i propri figli - parte II
N
el fenomeno delle madri che uccidono i propri figli, in linea generale, ci sono tre aspetti che appaiono essere sempre presenti in questi particolari omicidi: a) l’età dei genitori: sembrerebbe emergere che quanto più giovani sono i genitori, tanto maggiore è il rischio connesso all’infanticidio o al figlicidio;
figlicidi è cresciuto notevolmente rispetto al passato e sulla base della casistica, si può affermare che tale delitto è sempre accompagnato dalla circostanza che le madri che uccidono soffrono di crisi depressive, a volte conseguenti alla gravidanza che non volevano, ritenendola un errore, oppure perché eccessivamente
b) la situazione coniugale: il rischio di vittimizzazione è maggiore nelle situazione familiare in cui i coniugi sono divisi da profonde spaccature e incomprensioni. Si accentua notevolmente quando la donna è costretta a vivere da sola e a farsi carico di tutte le responsabilità dei figli, con il rischio che a lungo andare non possa sentirli più suoi; c) l’età del bambino: se da un lato un numero maggiore di omicidi avviene nei primi mesi del bambino, per le cause che ho già ampiamente elencato nella prima parte dell’articolo, dall’altro avviene spesso che nei primi mesi di vita del piccolo non si istaura alcun rapporto tra madre e figlio e quest’ultimo è considerato alla stregua di oggetto e non di essere umano; dall’altro lato è ancora diffuso l’omicidio dei figli in età adolescenziale, dove la causa è ascrivibile al forte conflitto che si istaura tra i genitori e i figli. In Italia il numero di infanticidi e
preoccupate per il futuro del figlio. E’ il caso di Anna Maria Colecchia che si è ammazzata, dopo aver strangolato i suoi due figli. La mattina del 29 aprile del 1997, Enzo, prima di uscire di casa per recarsi a lavoro, si sofferma come tutte la mattine a salutare i suoi due tesori, Valeria di 8 anni e Domenico che di anni ne ha 5. In tarda mattinata, come consuetudine, telefona alla moglie per salutarla, ma lei non risponde. Richiama ancora e poi ancora senza ottenere risposta. Inizia a preoccuparsi e chiama i vicini di casa, ma anche loro non ottengono risposta. L’ansia e le preoccupazioni crescono, tanto da allertare anche il cognato. Verso le 14,00, giunge presso la propria abitazione insieme al cognato, che nel frattempo lo aveva raggiunto, ed entrano in casa. La scena che si presenta è raccapricciante: i corpi dei due bambini sono stesi sul lettino inanimati, con le mani giunte sul petto;
Nella foto: disperazione dopo il dramma
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la moglie, invece, è nel bagno appesa a un tubo. Accanto al telefono vi è un bigliettino con su scritto: "Perdonami Enzo, soffrivamo". Anna Maria Colecchia ha ucciso i suoi due figli, strangolandoli con una sciarpa di seta bianca, per poi impiccarsi nel bagno. Anna Maria aveva 35 anni, era una donna depressa e afflitta da una forma di esaurimento nervoso, tanto da essere in cura da circa otto mesi presso la A.S.L. Il marito è in stato di choc, mai avrebbe immaginato un così tragico epilogo. I suoi due tesori sono stati barbaramente soffocati dalla sua moglie in maniera del tutto inaspettata e senza alcun motivo apparente: la donna non aveva mai dato in precedenza segni di squilibrio tali da prevedere un comportamento così sanguinario. La pista più seguita è quella di un raptus di follia della moglie. Qualcosa è scattato nella sua mente quando tra le 9,00 e le 10,00 del mattino ha deciso di sterminare la sua famiglia. In Italia, in base ai dati sull’applicazione dell’art. 88 c.p. (vizio totale di mente), buona parte delle donne autrici di questi tipi di reati (infanticidio e figlicidio) vengono giudicate infermi di menti e quindi incapaci di intendere e di volere. E’ il caso, ad esempio, di Loretta Zen. Il 13 maggio del 2002, quando all’interno della propria abitazione a Madonna dei Monti, frazione montana di Santa Caterina Valfurva in provincia di Sondrio, Loretta apre il cestello della lavatrice e getta al suo interno la propria figlia Vittoria, di soli 8 mesi, assieme ai panni sporchi, aggiunge nella vaschetta il detersivo e poi la mette in moto come se nulla fosse. Il marito, Venanzio Compagnoni, 39 anni, operaio, era uscito insieme alla figlia di 11 anni per fare benzina. Al rientro ha trovato la moglie, Loretta Zen, 31 anni, seduta davanti alla lavatrice in stato confusionale. La figlia di 8 mesi, Vittoria, è stata trovata morta, annegata in lavatrice. La donna non ricorda nulla e viene ricoverata presso il reparto psichiatrico dell'ospedale di Sondrio.
CRIMINI E CRIMINALI L’autopsia rileverà che la bambina non è morta per annegamento ma per soffocamento, quindi con molto probabilità la bambina è stata uccisa prima ed occultata dalla madre nella lavatrice. La donna soffriva di forti crisi depressive, probabilmente dovute al succedersi di due lutti nell’arco di pochi mesi: il padre e il suocero. Per i giudici Loretta Zen non è imputabile poiché incapace di intendere e di volere al momento del delitto. Secondo la perizia la donna era affetta da un disturbo depressivo maggiore grave (era già in cura per una grave depressione post-partum) con manifestazioni psicotiche (sentiva le voci del padre e del suocero, entrambi morti, e aveva uno scollamento con la realtà che vedeva in modo distorto e reinventato subito dopo il fatto). Loretta Zen ha scontato la sua condanna presso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (MN) unica struttura ospedaliera in Italia che accoglie donne assassine. L’8 settembre del 2005, a Merano, un bambino di quattro anni viene ucciso a coltellate dalla propria madre Christina Rainer, di 39 anni, mentre stava facendo colazione con pane e marmellata. Proprio lei ha telefonato alla polizia, dicendo: "Ho ucciso una persona". E poi agli inquirenti ha detto: "E' stato un momento di black out". All’arrivo della polizia, il corpo del piccolo giaceva, vestito, in una pozza di sangue, nella cucina dell'appartamento. Sul tavolo, i resti della colazione. Rannicchiato su un divano, il fratello maggiore, terrorizzato. Julian sarebbe stato ucciso davanti agli occhi del fratello di cinque anni. La sorella più piccola, invece, non era in casa perché aveva trascorso la notte nell'abitazione di una zia. Al momento del delitto il padre, Fiorenzo Delladio, un tecnico dell'Azienda energetica meranese, si trovava al lavoro. Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, la donna, si è lanciata da una finestra del secondo piano del commissariato durante l’interrogatorio.
In questa seconda parte dell’articolo ho raccontato altre tre storie di madri che hanno ucciso i propri figli, ma gli infanticidi e i figlicidi avvenuti in Italia negli ultimi trent’anni sono davvero tanti e non mi resta che riportarne, con una breve sintesi, la cronistoria: • Il 12 febbraio 1988 annegano nella vasca da bagno due fratellini di uno e cinque anni. Inizialmente si pensa ad una tragica fatalità ma quando, tre anni dopo, il 9 marzo del 1991, muore affogato anche il terzo figlio di otto mesi la tragica realtà viene a galla. E’ stata la madre. La donna prova anche a togliersi la vita ma verrà incriminata per l’omicidio dei suoi tre figli. • Il 30 agosto del 1997 a Montecassiano, in provincia di Macerata, una donna uccide il figlio di tre anni e la figlia di sei, strangolandoli e annegandoli. Lei si suicida impiccandosi a una ringhiera. • L’11 agosto del 2000 a Caserta una madre in crisi depressiva si uccide con le tre figlie di sei, due e un anno, saturando la macchina con i gas di scarico. • Il 29 giugno del 2001 in provincia di Roma, una donna uccide con 30 coltellate i suoi due figli di 6 e 5 anni. • Il 3 giugno del 2003 una madre uccide la figlia di tre mesi affogandola nel water dell’ospedale dove era ricoverata. • Il 7 luglio del 2004, in provincia di Foggia, una donna uccide la sua bambina di 5 anni e il maschietto di quasi 2, soffocandoli con il nastro adesivo. Poi si suicida nello stesso modo. • Il 18 maggio del 2005 in provincia di Lecco una mamma racconta di essere stata aggredita in casa mentre faceva il bagno al figlio di 5 anni. Durante l’aggressione, il bambino sarebbe annegato nella vasca. Più tardi confesserà che ad uccidere il piccolo è stata lei. • Il 17 marzo del 2005 a Roma una neonata di due mesi viene uccisa con una coltellata dalla madre che tenta il suicidio. • Il 20 luglio del 2009 a Parabiago, in provincia di Milano, un’altra mamma uccide il figlio di 4 anni,
strangolandolo con un cavo elettrico. La donna soffriva di depressione ed era in cura. Viene trovata, sotto choc, a vegliare il cadavere del bimbo. • Il 26 aprile del 2009 a Genova una madre uccide il proprio bambino di appena 19 giorni con il cavetto di alimentazione del cellulare. Poi si suicida. La donna viveva da sola con il figlio e soffriva di depressione postpartum. • Il 24 settembre del 2009, in provincia Bologna, una madre accoltella i due figli, un bambino di sei anni e una bambina di cinque. Poi si suicida gettandosi dalla terrazza della sua abitazione. La donna soffriva di depressione per la separazione dal marito.
• Il 19 febbraio del 2010 a Venezia una donna uccide il figlio, un bimbo di sei anni, soffocandolo nel suo letto. Poi si suicida, impiccandosi. • Il 22 ottobre 2011 a Orbetello, provincia di Grosseto una commercialista romana di 48 anni uccide il figlio di 16 mesi annegandolo dopo essersi allontanata con lui dalla spiaggia su un pedalò. • Il 25 ottobre 2013 in provincia di Lecco, una donna uccide il figlio di tre anni infierendo più volte sul corpo. • Il 1° marzo scorso quando Daniela Falcone, 43 anni, di Rovito, in provincia di Cosenza, ha accoltellato il figlio di 11 anni, Carmine De Santis, trascorrendo con lui la notte nel luogo del delitto, fra i resti gelidi del suo corpo morente. Successivamente tenta, senza riuscirci, di togliersi la vita. •Il 4 aprile del 2013 una donna uccide la figlia di tre anni facendole bere del diserbante. Poi lascia un biglietto: “Benedetta la porto via con me”.
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Nella foto: Loretta Zen
Á
CRIMINI E si getta dal secondo piano. • Il 21 aprile del 2013 una madre accoltella la figlia e poi si taglia la gola. A ritrovare i due corpi nella camera da letto della piccola è il marito. • Il 9 marzo del 2014 una madre uccide a coltellate le sue tre figlie di 3, 10 e 13 anni. “L’ho fatto perché sono disperata”. Alla base del gesto la relazione finita con il marito e problemi economici. • L’11 dicembre 2014, una donna russa in vacanza in Liguria si immerge nel mare gelido con in braccio il bambino di 9 mesi. “Poteva essere malato: doveva morire. E io l’ho affogato”. La donna temeva che il piccolo avesse ereditato dalla nonna le sue stesse patologie: epilessia e schizofrenia. • E infine il caso, ancora in corso, presente nelle pagine di tutti i giornali nazionali, quello di Veronica Panarello, madre venticinquenne di
Nella foto: Veronica Panarello
Ragusa che si sospetta “possa” aver ucciso il suo piccolo di soli 8 anni strangolandolo con delle fascette. Lo scenario è sempre il medesimo con un solo colpevole: la madre che uccide ciò che ha generato perché gli appartiene ed è solo suo. Ma quanto la società fa per le donne che non hanno alcuna forma di sostegno e aiuto di cui hanno bisogno? Quante vengono ascoltate (e non giudicate)? Quante di loro sono colpevolizzate perché “non sono delle buone madri?” I segnali a volte ci sono, ma sono sottovalutati o sottaciuti, sino a quando non si verifica l’irrimediabile tragedia. Alla prossima... F
WEB E DINTORNI
Codici QR: cosa sono, a cosa servono e come leggerli
L
e vediamo dappertutto, sulle etichette dei prodotti, sulle riviste, nei manifesti, ma cosa sono in realtà quelle immagini con piccoli quadrati bianchi e neri che sembrano tutte uguali? Sono i “QR Code”. Il nome "QR" è l'abbreviazione dell'inglese "Quick Response" (risposta rapida), in virtù del fatto che il codice fu sviluppato per permettere una rapida decodifica del suo contenuto.
Basti pensare che la stessa quantità di informazioni contenuta in un codice a barre, può essere memorizzata, con un codice QR, in un decimo dello spazio. Nel 1999 la Denso, pur conservando i diritti del brevetto, ha rilasciato il Codice sotto licenza libera e nello stesso anno, la maggiore compagnia telefonica Giapponese, la NTT Docomo, ha iniziato ad utilizzarli nella sua piattaforma “i-mode” che è stato uno dei primi sistemi per navigare su internet tramite telefonino.
In pratica sono immagini che contengono informazioni come i codici a barre, ma permettono di memorizzare più contenuti: fino a un massimo di 4.296 caratteri alfanumerici oppure 7.089 caratteri numerici. Il codice QR è stato inventato nel 1994 da un’azienda del gruppo giapponese della Toyota, la Denso-Wave, per superare i limiti dei codici a barre, e la Toyota iniziò ad utilizzarli per tracciare i pezzi di ricambio delle automobili nelle fabbriche. Sui normali codici a barre, infatti, non si riuscivano a memorizzare abbastanza informazioni e serviva un sistema più efficiente per gestire le scorte di magazzino.
Il codice QR si rivelò subito utile per evitare alle persone il noioso compito di inserire gli indirizzi web nel telefonino e così divenne un ottimo strumento per i pubblicitari che potevano condensare in poco spazio, un link al sito web dei prodotti. In questo modo, chiunque abbia installato sul proprio smartphone un’applicazione per la lettura del QR Code (ce ne sono di gratuite sia per Android che per Apple) può raggiungere velocemente qualsiasi indirizzo web, semplicemente inquadrando il Codice con il proprio smartphone. Il codice QR ha anche altre proprietà. Per esempio, i quadrati più grandi posti agli angoli, consentono la
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WEB E DINTORNI rettangolare che partono da un minimo di 5x19 moduli. Per sfruttare al meglio il codice QR, per prima cosa bisogna scaricare sul proprio smartphone una delle tante applicazioni gratuite per leggere le immagini (QR Reader), inquadrare l’immagine con la fotocamera del telefono, aspettare qualche secondo per permettere all’applicazione la decodifica del codice e confermare l’intenzione di visitare il sito web “nascosto” nell’immagine. Attenzione però. Siccome a tutti gli effetti, nella maggior parte dei casi, l’immagine del QR Code è un link ad un sito web, potrebbe essere sfruttato da malintenzionati per far cliccare su un sito che fa partire in automatico dei virus: quindi bisogna evitare di inquadrare, a caso,
Prima del QR Code: i codici a barre
Il 26 giugno 1974 presso un supermarket a Troy, nell'Ohio, il primo prodotto (un pacchetto di gomme americane) veniva venduto utilizzando un lettore di codici a barre. Quel pacchetto di gomme si trova ora nello Smithsonian's National Museum of American History. Con la commercializzazione dei primi sistemi di lettura laser, vennero utilizzati lettori ottici di codici a barre più economici e di minori dimensioni. Negli anni ’60 il Giappone ha avuto un alto tasso di crescita economica. Iniziarono a diffondersi supermercati in numerosi quartieri delle città che vendevano una vasta gamma di prodotti. A quei tempi, i cassieri dovevano digitare manualmente i prezzi delle merci sui registratori di cassa e questo comportava una grande perdita di tempo e numerose patologie da tunnel carpale per i cassieri. Per risolvere il problema vennero utilizzati i codici a barre. Tuttavia, dopo pochi anni, anche in Giappone il codice a barre iniziò a mostrare i suoi limiti. Il codice a barre può memorizzare
N
el 1948 due studenti di ingegneria dell’Università di Drexel-USA, Norman Joseph Woodland e Bernard Silver svilupparono la prima bozza di codice a barre.
L'idea nacque dopo aver ascoltato le esigenze del presidente di un'azienda del settore alimentare che aveva la necessità di automatizzare le operazioni di cassa. Negli anni seguenti vennero sviluppati diversi tipi di codici a barre, anche di forma ovale, ma i lettori ottici dell’epoca erano molto ingombranti e costosi. Nei primi anni ’70 Woodland sviluppò presso IBM i codici a barre lineari, che furono adottati il 3 aprile 1973 con il nome "UPC" (Universal Product Code).
qualunque immagine QR, soprattutto se non sono stampate su superfici di oggetti o riviste conosciute. F LINK AL SITO UFFICIALE DEL QR CODE DELLA DENSO http://www.qrcode.com/en/ da linkare attraverso il suo QR Code...
soltanto un limitato numero di caratteri alfanumerici, insufficienti per registrare tutte le informazioni necessarie alle aziende che gestiscono numerosi articoli. Non solo. Il codice a barre è a una dimensione perché può essere letto solo rispettando un unico orientamento e per questo viene definito “lineare”, mentre le informazioni del QR Code sono memorizzate nelle due dimensioni, sinistra-destra, alto-basso e può essere letto correttamente da qualunque angolazione lo si inquadri: per questo viene definito codice bidimensionale o a matrice. Attualmente esistono diversi tipi di codice a barre e diversi tipi di codice a matrice.
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Federico Olivo Coordinatore area informatica del Sappe olivo@sappe.it
LA SCHEDA
“centratura” dell’immagine permettendo la decodifica del messaggio, anche se la si inquadra da diverse angolazioni e questo permette un notevole risparmio di tempo perché può essere letto a 360°. Inoltre, un algoritmo di correzione automatico, permette la lettura del messaggio anche se l’immagine è parzialmente danneggiata (graffi, macchie, segni), fino ad un massimo del 50% di area danneggiata. Esistono diversi formati di QR Code. Dalla versione 1 formata da una matrice da 9x9 moduli (il modulo si riferisce ai punti bianchi e neri che compongono il codice QR.), fino alla versione 61 con 422x422 moduli. La maggior parte delle volte vengono utilizzati codici di forma quadrata, ma ne esistono anche di forma
Nelle foto: Norman j. Woodland il primo prodotto venduto con codice a barre un lettore ottico per il riconoscimento dei codici a barre
a cura di Giovanni Battista de Blasis
COME SCRIVEVAMO
Cinema e carcere
I cent’anni del Grande Schermo ed i films di prigione di Roberto Martinelli
Più di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.
I
l 1995 sarà ricordato come l'anno coincidente con il compimento del primo secolo di vita del cinema. La prima dimostrazione dell'apparecchio inventato dai fratelli Lumière, infatti, risale al marzo 1895 nella francese Lione mentre il primo spettacolo a pagamento avvenne a Parigi qualche mese dopo, esattamente il 28 dicembre. Un'evento artistico - culturale di estrema importanza se si considera che il Grande Schermo, almeno fino alla comparsa ed alla successiva diffusione capillare della televisione nelle case degli Italiani, ha rappresentato un punto di aggregazione sociale per i giov:ani e per i nuclei familiari; veicolo formativo che ha permesso di far conoscere luoghi, costumi ed abitudini differenti rispetto a quelli propri ed abituali. Un centenario ampiamente celebrato dalla stampa, specializzata e non, che ha omaggiato la memoria storica del cinema e ne ha testimoniato la vitalità odierna; con l'opportunità di documentare al meglio l'evoluzione della componente tecnica dalla fine dell'Ottocento ai giorni nostri, il passaggio dal cinema muto a quello sonoro, dalle immagini in bianco e nero a quelle a colori. Celebrazioni che, però, hanno anche registrato le diffidenze di certi cinefili d'essai per i quali tutto ciò è troppa grazia - rispetto al silenzio che, a loro dire, solitamente si registra in merito e, provocatoriamente, si sono domandati se il centenario acquisti il sapore di una scadenza conclusiva (cento e non più cento, insomma: il vecchietto ha fatto il suo corso, festeggiamolo e non se ne parli più ...) oppure se tanto interesse si debba unicamente alla moda delle
celebrazioni ad ogni costo. Ma, vi domanderete, per quale motivo anche "Polizia Penitenziaria-Società Giustizia & Sicurezza " si occupa di cinema? Preliminarmente perchè, come ho già avuto modo di affermare, la nostra Rivista - che ha l'obbligo di fare opinione al di là ed oltre le tematiche professionali - non deve avere preclusione alcuna circa i contenuti sociali, politici e culturali che caratterizzano il Paese.
Una costante che si è mantenuta perfettamente integra nonostante il passaggio dal cinema muto a quello sonoro. E proprio questa evoluzione ha generato una rappresentazione degli istituti di pena cupa, angosciante, ammonitrice.
In secondo luogo, perchè il Grande Schermo ha spesso utilizzato la fotogenia della prigione, sulla scia dei romanzi e dei drammi popolari ottocenteschi, per mettere in scena, fra pareti di cartapesta e sbarre di legno, la disperazione di carcerati celebri e meno celebri, colpevoli ed innocenti, tutti accomunati dal sogno della libertà. Una rappresentazione che ha sempre percorso il doppio binario della drammaticità e quello della comicità. Se, da una parte, i tormenti del Conte di Montecristo venivano riassunti in poche ma efficaci sequenze, dall'altra i Re della risata Charlie Chaplin, Buster Keaton, Ben Turpin e Ridolini hanno vestito - chi prima, chi poi - la casacca a righe e si son dati da fare per evadere, magari con la palla al piede.
Negli anni trenta, i films di prigione diventarono una specialità del cinema americano tanto da dare origine ad un vero e proprio filone, tra il melodrammatico ed il sociale, parallelo a quello poliziesco: specialità che, come tutti i percorsi seri, ha generato una inevitaoile parodia. E' l'esempio del film CARCERE (1930), di Hill, in cui la magistrale interpretazione di recluso dell'attore Chester Morris, coniugato con chiaroscuri vigorosi ed i rumori ferrigni delle celle, traumatizza gli spettatori: immediata la versione comica, caricaturale e burlesca ad opera di Stanlio ed Ollio - o meglio, Stan Laurel ed Oliver Hardy - in MURAGLIE (1931), diretto da Parrott. Da registrare, sul versante serio, il film PRIGIONIERE (1931) con Sylvia Sydney, che ha il merito di
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COME SCRIVEVAMO rappresentare la drammaticità della detenzione vista al femminile. Nel corso dei decenni si moltiplicano i titoli tra i quali meritano di essere segnalati IO SONO UN EVASO (1932) di LeRoy, LA BOLGIA DEI VIVI (1939) di Seiter, I DIMENTICATI (1942) di Sturges, LA FORZA BRUTA (1947) di Dassin, L'UOMO DI ALCATRAZ (1966) di Frankenheimer. Ed ancora i più recenti FUGA DI MEZZANOTTE (1977) di Parker, FUGA DA ALCATRAZ (1979) di Siegel, con uno straordinario Clint Eastwood, FUGA D'INVERNO (1984) di Gillian Armstrong con Mel Gibson e Diane Keaton, IL BACIO DELLA DONNA RAGNO (1985) di Babenco e, uscito proprio quest'anno, LE ALI DELLA LIBERTA' di Darabont, con Tim Robbins. Un discorso a parte dev'essere fatto per quanto riguarda i films di prigione italiani.
Nel box: accanto al titolo la copertina del numero di ottobre 1995
soprattutto l'impareggiabile ed inimitabile Aldo Fabrizi che interpreta proprio il ruolo di Agente di Custodia ed è la figura principale e centrale della trama: un film che non può mancare nella nostra videoteca. Straordinario è SCIUSCIA' (1946) di Vittorio De Sica, nel settore serio, come l'interpretazione del Maestro
compianto Nanni Loi e con Alberto Sordi nella parte del detenuto protagonista che, tra il drammatico ed il comico, evidenzia le storture della carcerazione preventiva, ancora oggi all'ordine del giorno nelle discussioni in materia giudiziaria. Auguri cinema: buon compleanno e appuntamento al... 2095! F Nelle foto: alcune immagini tratte dai film citati nell’articolo
Tra tutti merita una citazione particolare ACCADDE AL PENITENZIARIO (1955) di Giorgio Bianchi perchè attori protagonisti sono dei veri Grandi del cinema nazionale quali Alberto Sordi, Walter Chiari e Peppino De Filippo ma
della Comicità italiana, il Principe Antonio De Curtis in arte Totò, nell'omonimo film TOTO' SEXY di Amendola. Particolarmente significativo e tristemente attuale è DETENUTO IN ATTESA DI GIUDIZIO, diretto dal
Polizia Penitenziaria n.237 • marzo 2016 • 29
Nei box: la vignetta ed il sommario del numero di ottobre 1995
GALLERIA ARTISTICA Locri Giovanni Vescio un artista in uniforme
G Nella foto: Giovanni Vescio
significazione critica dell’opera
sotto la sua opera “Incanto”
iovanni Vescio Assistente Capo della Polizia Penitenziaria segretario Sappe, in servizio presso la casa circondariale di Locri e artista emergente della città di Ardore (RC). Dopo aver conseguito la maturità artistica, ha frequentato con profitto l’Accademia di Belle Arti di Firenze ma l’abbandona, suo malgrado, per intraprende un’attività lavorativa che lo allontanerà dagli studi. Per molto tempo la pittura è solo il mezzo per il nutrimento dell’anima: né gli impegni lavorativi, né quelli familiari riescono a spegnere la vena artistica dell’autore, che porta a compimento, nei ritagli di tempo, numerose opere, prevalentemente olio su tela e acquarelli, con un affinamento dello stile e delle forme. • La prima uscita pubblica è del 2006 con la partecipazione al concorso Memorial di Paolo Musolino a Gioiosa Ionica;
• nel 2013 viene invitato ad esporre le sue opere all’evento “Ruota della memoria” a Siderno Superiore; • nel 2014 si classifica al 4° posto al Premio accademico internazionale di poesia e arte contemporanea Apollo Dionisiaco di Roma con l’opera Abbraccio (olio su tela 100x150) ricevendo un alto riconoscimento al merito; partecipa alla III edizione di Natività contemporanea a Rossano con Abbraccio e Infinito (olio su tela 100x80); • nel 2015 si ripete conquistando un 4° posto al Premio accademico internazionale di poesia e arte contemporanea Apollo Dionisiaco di Roma con l’opera Incanto (olio su tela 90x230); • la vittoria della Mostra di selezione di Rossano con il dipinto Amore senza confini (olio su tela 125x155) gli permette di accedere direttamente all’esposizione Biennale internazionale di arte di Roma; • partecipa alla IV edizione di Natività contemporanea a Rossano con Natività sacra (acquarello 60x80) e Pensiero che va (acquarello 60x80).
Con l’opera Incanto (olio su tela 90x230) ha vinto la selezione, tra i numerosi artisti calabresi, alla 11ª Biennale Internazionale d’Arte di Roma 2016, che si terrà nelle prestigiose sale del Bramante a Roma.
Una potente sintesi dei poli oppositivi, di vita e di morte, è l’opera del Vescio. L’atto d’amore è rinuncia e morte dell’identità significante, della forma in apparenza della persona, per l’abbraccio aperto all’alterità, come proprio essere. Il dolore stesso della perdita di sé è potenza fecondatrice di filiazione, connessa al desiderio umano di vita eterna. 30 • Polizia Penitenziaria n.237 • marzo 2016
La morte è esorcizzata dall’artista nel rituale dell’averla in ascolto e in luogo di passaggio trasformativo, per il dono di generatività, che l’invisibile della verità del senso volge in nuovo fenomeno significante ed eternante stirpe di vita. Presidente Fondatrice, Prof.ssa Fulvia Minetti
I quesiti dei lettori
L’
art.36 del Decreto Legislativo recita: tutti i lavoratori, anche se non esposti a rischio specifico, debbono essere informati sulla loro attività lavorativa. In merito all’antincendio, dopo aver valutato il rischio se alto, medio o basso, si effettueranno i corsi da azienda accreditata, o da un formatore anch’esso accreditato. Invece per quanto riguarda l’alto rischio, solo i vigili del fuoco sono accreditati. In merito al DM 98 il medio rischio incendio prevede 8 ore di lezione, di cui 5 di teoria e 3 di pratica. Quello basso prevede 4 ore, di cui 2 di teoria e 2 di pratica. Per quanto riguarda l’alto rischio incendio, ne prevede 16 ore, di cui 12 di teoria e 4 di pratica. Anche nel primo soccorso DM 388/2003, si parla di alto, medio o basso rischio. Per quanto riguarda l’alto rischio si prevedono tecniche più complesse e il corso prevede 12 ore, mentre il medio basso è di 8 ore. Oltre agli accenni sul primo soccorso si parlerà anche della rianimazione cardio polmonare RCP-BLS. Come vedete, il tutto è determinato in base alla vostra valutazione dei rischi dell’ istituto. Per quanto riguarda il primo soccorso, basta un medico per poter effettuare il corso o, in alternativa, il medico competente del lavoro. Ora vorrei rispondere ad alcune domande che diversi colleghi mi pongono sul tema della sicurezza sul lavoro. Farò soltanto nomi e non cognomi, per la tutela della privacy.
La prima domanda che mi trovo davanti è di Claudio da Torino che mi dice: “lavoro al pc da lunedì al venerdì, devo essere visitato?” Ciao Claudio, in primo luogo bisogna vedere se con il video terminale ci lavori almeno 20 ore settimanali e se dopo due ore di pc fai 15 minuti di cambio mansione, per non affaticare la vista, come previsto dal D.lgs 81/08, in merito all’art. 173 “definizione Vdt”.
SICUREZZA SUL LAVORO Qualora rientri nelle venti ore settimanali o più, devi essere sottoposto a sorveglianza sanitaria dal medico competente del lavoro. Ovvero, lui ti farà un visita preventiva, annotandolo sul tuo libretto sanitario e ti manderà, al più presto, alla visita convenzionata dell’istituto (visita oculistica) o ASL d’appartenenza. Dopo la visita oculistica, il medico del lavoro valuterà se sei idoneo alla mansione o hai bisogno di prescrizioni (occhiali).
europee, non si può escludere che la stessa superi la soglia degli 85 decibel, limite di sopportazione uditiva. In questo caso, il datore di lavoro, o chi per lui ti deve dotare di cuffie antirumore che abbattino la soglia in accesso (DPI). Perchè dico questo? Calcolando che la nostra soglia uditiva e di circa 65 db, le cuffie non devono abbattere il rumore a zero, in quanto in tal modo non potresti sentire l’allarme di evacuazione.
Andrea da Torino ci dice di lavorare alla MOF( manutenzione ordinaria fabbricati), nello specifico ci dice di lavorare come sorveglianza degli idraulici. Ciao Andrea spero che il piombo per costruire gli scarichi per i lavandini delle celle sia stato abolito come previsto con l’avvento del D.lgs 277/91, poi abrogato dal Dlgs 81/08. Come vedi il piombo doveva essere già abolito, in quanto portava nel tempo un grave rischio cancerogeno (tumore), in quanto l’organismo non può espellerlo. Se la struttura è di vecchia costruzione si deve cercare di rinnovare le vecchie procedure di lavoro, installando materiale di tecnologia avanzata quali la plastica per esempio. E comunque se ancora lavorate il piombo oltre ad essere sottoposti a visita specialistica da parte del medico del lavoro, ti consiglio di farti comprare dal tuo datore di lavoro delle mascherine facciali apposite, al fine di evitare l’inalazione del piombo (DPI).
Angelo ci scrive da Palermo, dicendoci che nell’area dove parcheggiano i loro autoveicoli, la pensilina di copertura è di eternit. Angelo, spero che la tettoia sia ancora in buono stato, sebbene anche in questo caso l’ex 277/91, oltre il piombo e il rumore, prevedeva l’annullamento della produzione di amianto, specialmente per chi lavorava nelle cave. Questo, naturalmente, con le statistiche si è riscontrato nel tempo: tumori ai polmoni (abestosi). Naturalmente sappiamo che nelle case vecchie, quando ancora non vi era l’acqua potabile, avevamo in soffitta dei cassoni di eternit ,questo vuole in parte rincuorare Angelo dicendogli che se la copertura non presenta friabilità o rotture, si può metterla in sicurezza coprendola con delle vernici speciali, da un azienda accreditata. Il pericolo, infatti, è la fibra dispersa nell’ambiente che se inalata può causare nel tempo gravi problemi al lavoratore. D’altro canto i costi per lo smaltimento della tettoia e della bonifica circostante, sono enormi.
Stefano ci scrive da Milano e ci chiede: “lavoro in falegnameria e c’è un rumore fastidioso, cosa posso fare?” Stefano, in primis spero che il tuo datore di lavoro abbia fatto una valutazione dei rischi sul tuo posto di lavoro e in quel contesto abbia fatto, o fatto fare, una rilevazione fonometrica, quantificandola in decibel. Vedi Stefano, anche in questo caso in merito all’ex Dlgs 277/91 era previsto l’abbattimento del rumore. Nelle statistiche INAIL, nel tempo, ci si è accorti che il lavoratore perdeva l’udito, detto “ipocussia” (configurata come malattia professionale). Qualora il progettista abbia fabbricato una macchina conforme alle direttive
Luciano da Firenze ci scrive dicendoci che lui lavora nella porta carraia, dove transitano i mezzi, e ci chiede come tutelarsi. Ciao Luciano, spero che il gabbiotto dove lavori sia a norma e distante dal passaggio dei mezzi e che non permetta che le polveri sottili degli scarichi entrino nel tuo posto di lavoro (piombo), e ci sia un ricambio di aria (condizionatore). Che la carraia sia dotata di cappa di aspirazione forzata e che gli scarichi siano portati tramite filtri all’esterno. E comunque se operi fisso in quel posto, spero tu sia sottoposto a visita specialistica obbligatoria da parte del medico del lavoro.
Antonio da Napoli ci chiede: “Lavoro come sorveglianza al magazzino detenuti per la fornitura di vettovaglie per il primo ingresso dei detenuti, detersivi ecc...” Ciao Antonio, la tua attività lavorativa è ancora più complessa, in quanto dove operi ci sono più rischi specifici. In primo luogo bisogna sapere se le scaffalature sono ancorate al muro e conformi alle normative vigenti, se i carichi sospesi non sono superiori a quanto previsto dal D.lgs 81/08 (movimentazione dei carichi), se i pesi maggiori sono posti in basso e non in alto (procedure di lavoro). Se il carico che tu movimenti è superiore a 30 kg, oltre ad essere sottoposto alla sorveglianza sanitaria, si devono rivedere le procedure di lavoro. Per quanto riguarda i detersivi (rischio chimico) bisogna vedere se i prodotti comportano dei rischi alla salute del lavoratore (come sode, varecchine, acidi ecc.) In questo caso consiglio di reperire le schede tecniche dei prodotti dal fabbricante, informare i lavoratori art. 36 del Dlgs 81/08 dei rischi sia per inalazione che per via cutanea, e di far comperare al datore di lavoro i DPI necessari alla vostra mansione specifica, oltre ad essere posti a visita dal medico competente del lavoro. Franco da Roma ci chiede: “Lavoro in una stanza attigua dove si trova un appartato Ups con due batterie a corrente continua che lo alimenta, come mi posso tutelare?” Salve Franco spero che il tuo datore di lavoro abbia fatto una valutazione dei rischi e che abbia provveduto a dotare di un’areazione, sia naturale che artificiale, il locale. Devi sapere che se il locale non è areato e non è manutentato, specialmente nelle batterie può causare una coincidenza di fattori, quali corti circuiti elettrici, sprigionamento dei vapori acidi delle batterie creando una miscela tra comburente e idrogeno, provocando una esplosione che potrebbe causare gravi danni al locale, sprigionando gas tossici per i lavoratori che stazionano nei paraggi. Ti consiglio di verificare tramite i tuoi rappresentanti dei lavoratori se il locale corrisponde alla normativa vigente. Continuate ad inviarmi i vostri quesiti. F
Polizia Penitenziaria n.237 • marzo 2016 • 31
a cura di Valter Pierozzi Dirigente Sappe Esperto di sicurezza sul lavoro valter60@live.it
a cura di Erremme rivista@sappe.it
LE RECENSIONI Livio Ferrari
NO PRISON OVVERO IL FALLIMENTO DEL CARCERE RUBBETTINO Edizioni pagg. 138 - euro 12,00
U
n altro carcere è possibile? Se lo chiede in questo libro Livio Ferrari, fondatore della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, forte dell’esperienza di direttore dell’associazione di volontariato Centro Francescano di Ascolto di Rovigo e coautore, con il professore universitario di Bologna Massimo Pavarini, del Manifesto “No Prison”. Nei vari capitoli affronta i vari tasselli che caratterizzano il sistema carcere e ne dedica uno anche al Corpo di Polizia Penitenziaria: mal gliene incolse, verrebbe da dire dopo aver letto quel che scrive nei nostri riguardi. Un Corpo di Polizia, il nostro, che vive una sindrome di emulazione rispetto alla Polizia di Stato, caratterizzato da un esagerato potere delle rappresentanze sindacali e da un goffo tentativo di volersi ricavare degli spazi esterni per presidiare il territorio. Forse Ferrari ha trascorso troppo tempo con i detenuti da non avere avuto modo di conoscere il nostro ruolo e la nostra funzione. Da tempo, ad esempio, diciamo più misure
alternative, con impiego in lavori di pubblica utilità, per i detenuti meno pericolosi e più lavoro in carcere. Il detenuto che in carcere ozia non si rieduca, ma esce anzi ancora più incattivito di quando vi è entrato. Nonostante le statistiche dicano che il condannato che espia la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4% contro il 19% di chi ha fruito misure alternative e addirittura l’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. E per fare questo è necessario prevedere un nuovo ruolo per il Corpo di Polizia Penitenziaria, che allarghi il suo perimetro istituzionale al di là delle mura carcerarie e controlli la corretta applicazione delle misure alternative. Se avesse avuto l’interesse ad approfondire il ruolo e la funzione del SAPPE, Ferrari avrebbe ad esempio appreso come noi che rappresentiamo le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria impegnati 24 ore al giorno nella prima linea dei padiglioni e delle sezioni detentive delle oltre 200 carceri italiane ci dicemmo subito assolutamente d’accordo con i contenuti del noto messaggio che il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano inviò nell’ottobre 2013 al Parlamento affinchè si avviasse nel nostro amato Paese una indispensabile e decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti e offrendo loro reali opportunità di recupero. Garantendo, però, ai poliziotti penitenziari più sicure e meno stressanti condizioni di lavoro, tenuto conto che le tensioni connesse al sovraffollamento determinano quotidianamente moltissimi eventi critici nelle carceri – atti di autolesionismo, tentati suicidi, risse, colluttazioni – che se non fosse per il nostro decisivo e risolutivo intervento avrebbero più gravi conseguenze. Non penso sia sfuggita a Ferrari la constatazione che negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2014, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno salvato in Italia la vita ad oltre 20mila detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi
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120mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Altro che la banalità dei luoghi comuni... Per questo, era forse più opportuno che prima di trattare di carcere e di Polizia Penitenziaria Ferrari ascoltasse qualche poliziotto e qualche sindacalista...
Arturo Rubino
COMPENDIO DI DIRITTO PENITENZIARIO MAGGIOLI Edizioni pagg. 239 - euro 20,00
N
on è semplice spiegare con chiarezza il diritto e il trattamento penitenziario, ma bisogna dire che questo Compendio ci riesce con competenza e agilità. Esaminando l'evoluzione normativa della materia in esame, il libro su concentra sugli aspetti trattamentali e rieducativi del detenuto posti a caposaldo dall’articolo 27 della Costituzione, che sottolinea come la pena debba essere improntata alla tutela della dignità, della personalità ed alla salvaguardia dei diritti di tutti coloro che vengono privati della libertà personale. Integra, oltre ad un approfondimento delle misure alternative alla detenzione, una disamina dell’articolazione centrale e periferica dell’Amministrazione Penitenziaria e dei soggetti coinvolti nell’esecuzione della pena.
Marinella Accinelli Barbara Masini
LA GABBIA. Davvero tu credi di essere fuori? KIMERIK Edizioni pagg. 103 - euro 12,00
Q
uale può essere la spinta decisiva che permetta di condividere e superare un disagio sociale? Si possono provare a piegare le sbarre di una
LE RECENSIONI gabbia mentale nella quale ci si trova costretti a convivere con le ansie e le paure conseguenze di amori malati, legami perversi, disagi, violenza e sofferenza? Le Autrici ci conducono in questo tortuoso ma interessante percorso attraverso le storie di 8 persone, uomini e donne, che hanno chiesto aiuto ad una psicologa per superare, con la psicoterapia di gruppo, i loro problemi. Storie che raccontano la paura di amare, il peso della responsabilità, il dramma dell’anoressia, l’impotenza e la paura, il rimpianto, la manipolazione, la malattia del padre-padrone, l’attacco di panico. Storie che in qualche caso abbiamo sentito anche da chi è stato in carcere perché, incapace di farsi aiutare o di superare il disagio nonostante l’aiuto, ha assunto condotte delinquenziali talvolta rovinandosi la vita. Questo è un libro importante, nel quale il riscatto sociale è il denominatore comune, che ci deve aiutare a capire come la conoscenza e il giudizio sulle persone debbano sempre andare oltre l’aspetto esteriore e l’immagine che presentano. Ma è un libro anche prezioso, perché ci aiutano a comprendere sensazione, questa, che spesso tendiamo a rimuovere - che di fronte a noi potremmo avere persone che, senza darlo a vedere, vivono un disagio e un dramma, che si sentono chiusi in una gabbia appunto, e che quel di cui hanno bisogno è un aiuto e un consiglio per venirne fuori. Onore alle Autrici, che hanno reso accessibile ai profani temi e argomenti “forti”. Da non perdere.
DEMOCRAZIA E DIRITTO 3/2014 FRANCO ANGELI Edizioni pagg. 173 - euro 31,50
D
enso approfondimento culturale sulla questione penitenziaria in questo trimestrale del Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato delle edizioni Franco Angeli.
Esperti del settore e studiosi che sviscerano i vari aspetti critici che caratterizzano il sistema dell’esecuzione penale con particolare riferimento all’ambito penitenziario. Utile alla comprensione ed allo sviluppo di una nuova cultura penitenziaria.
Vito Ingletti
DIRITTO DI POLIZIA GIUDIZIARIA LAURUS ROBUFFO Edizioni pagg. 592 - euro 54,00
N
on è un caso se questo prezioso Volume, giunto alla XIII edizione, è tra i più consultati e studiati nei percorsi formativi e di aggiornamento professionale del personale appartenente alla Polizia Penitenziaria e alle altre Forze dell’Ordine, comprese Polizie municipali e provinciali, Guardie Particolari Giurate e Capitanerie di Porto – Guardia Costiera. Basta sfogliarlo anche solo superficialmente per constatare come l’opera abbia il pregio della chiarezza e della sintesi senza però trascurare un approfondito esame su tutto ciò che deve sapere ad un Operatore della Sicurezza in materia di Diritto penale, Procedura penale e Diritto di Polizia per lavorare con competenza e professionalità.
Michele Ciarpi Riccardo Turrini Vita
LE TRASFORMAZIONI DEL PROBATION IN EUROPA LAURUS ROBUFFO Edizioni pagg. 207 - euro 29,00
I
l Probation, secondo la definizione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per mezzo delle Raccomandazioni n. R(2010)1 e n. R(92)16 descrive
l’esecuzione in area penale esterna di sanzioni e misure, definite dalla legge ed imposte ad un autore di reato. Comprende una serie di attività e interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore di reato e volti a contribuire alla sicurezza pubblica. L’istituto nasce nel XIX secolo negli Stati Uniti e consiste, almeno in origine, nella sospensione della pronuncia di una condanna a pena detentiva, ovvero in un periodo di prova in cui l'imputato, di cui sia stata accertata la responsabilità penale ma a cui non sia stata ancora inflitta una condanna, è lasciato in condizione di “libertà assistita e controllata” sotto la supervisione di un agente di probation (probation officer). Negli ultimi 25 anni, il probation si è evoluto in Europa e nel resto dei paesi occidentali ad un ritmo senza precedenti. E questo interessante libro ne ripercorre proprio la storia e le trasformazioni negli ultimi cinquant’anni in Europa, offrendo al lettore l’opportunità di approfondire la conoscenza dell’importante istituto con chiarezza ed esaustività. Particolarmente interessanti il capitolo dedicato al sistema dell’esecuzione penale esterna in Italia, che richiama cenni storici e caratteri propri, e le considerazioni degli Autori sul prossimo futuro in materia, nel quale si fa espresso riferimento ad un altro altrettanto istituto giuridico, quello della sospensione del processo con messa alla prova. F
Polizia Penitenziaria n.237 • marzo 2016 • 33
L’ULTIMA PAGINA
Donne Laura Pierini Vice Segretario Sappe Firenze rivista@sappe.it
D
onne di fragilità vestite. Calpestate, schiacciate a terra, da piedi e mani deformati da paure ancestrali, follie di ragione, credi religiosi, nel tentativo di annientarne l’essenza. Quell’essenza che racchiude l’universo e la vita.
Donne di fragilità svestite. Canne al vento, piegate, sferzate da vortici di eventi infausti, lacrime di dolore che scivolando a terra nutrono le radici e le rendono forti. Quella forza che dà origine all’universo e alla vita. Donne di rabbia vestite. Corazze impenetrabili, racchiuse a difesa nel proprio mondo,
furie cieche, che insensibili al mondo ne perdono il contatto. Quel contatto che nutre l’universo e la vita. Donne di rabbia svestite. Anime libere, fluttuanti energie in giocoso movimento, accolgono, donano equilibrio, come un ago della bilancia. Quell’equilibrio che permette il fluire dell’universo e della vita. Non esiste un’unica donna.. ognuna di noi si veste e si sveste a seconda del momento che sta vivendo. Ogni fase, ogni donna vissuta fa parte del nostro divenire. Il mio augurio come donna a tutte le donne è di vivere se stesse. F
Il mondo dell’appuntato Caputo di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2016 rivista@sappe.it
Specchio, specchio delle mie brame... chi è il più bell’ispettore del reame?
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www.mariocaputi.it
Per ora é uscito il libro! Raccolta antologica delle vignette dell’Appuntato Caputo pubblicate dal 1994 al 2014 sulla Rivista mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza Da che parte é l’uscita? si puo’ acquistare in tutte le librerie laFeltrinelli oppure sui siti www.lafeltrinelli.it e www.ilmiolibro.it
Formato 15 x 23 cm Copertina morbida 240 pagine a colori ISBN: 9788891092052