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PoliziaPenitenziaria Società Giustizia e Sicurezza

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anno XXIV • n.251 • giugno 2017

2421-2121

www.poliziapenitenziaria.it

Speciale riordino delle carriere: tutte le tabelle



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05 Polizia Penitenziaria

In copertina:

Società Giustizia e Sicurezza

Il Riordino delle carriere visto dall’Appuntato Caputo

04 EDITORIALE Carceri, 718 detenuti che lavorano ... di Donato Capece

05 IL PULPITO E facciamola ‘sta benedetta unificazione ... di Giovanni Battista de Blasis

06 IL COMMENTO Prigioni d’Europa, uno sguardo d’insieme di Roberto Martinelli

08 L’OSSERVATORIO POLITICO La vicenda Riina alla luce della sentenza della Suprema Corte di Cassazione di Giovanni Battista Durante

10 SPECIALE Il Riordino delle carriere Le tabelle e tutto quello che c’è da sapere

anno XXIV • n.251 • giugno 2017 26 CRIMINI & CRIMINALI

16 CRIMINOLOGIA Profilo criminologico del violentatore sessuale minorenne di Roberto Thomas

20 DIRITTO & DIRITTI Le fonti sovranazionali del diritto penitenziario di Giovanni Passaro

22 LO SPORT Scherma: Aldo Montano podio europeo di Lady Oscar

23 MINORI DGMC: Nuovo protocollo d’intesa di Ciro Borrelli

24 CINEMA DIETRO LE SBARRE Camp X-Ray a cura di G. B. de Blasis

PoliziaPenitenziaria Società Giustizia e Sicurezza

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, On. Avv. Antonio Di Pietro Donato Capece, Giovanni Battista de Blasis, Giovanni Battista Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 • fax 06.39733669 e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it Progetto grafico e impaginazione:

© Mario Caputi www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2016 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

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La strage di Via Caravaggio di Pasquale Salemme

28 WEB E DINTORNI

Uso consapevole dei social network di Federico Olivo

30 SICUREZZA SUL LAVORO Il microclima sul posto di lavoro di Luca Ripa

32 MONDO PENITENZIARIO Misure alternative: forse ci siamo... di Alessandro Torri

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Legge sull’affettività: i possibili scenari di Francesco Campobasso

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Collaborazione tra Polizia e Area educativa di Michela Salvetti

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Cod. ISSN: 2421-1273 • web ISSN: 2421-2121 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma) Finito di stampare: giugno 2017 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

Edizioni SG&S

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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L’EDITORIALE

Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Carceri, 718 detenuti che lavorano sono una goccia nel mare...

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lcuni giorni fa l’Amministrazione Penitenziaria ha diffuso un comunicato stampa nel quale ha messo in evidenza come, poco meno di un anno fa, il Capo DAP Santi Consolo avesse sollecitato le direzioni degli istituti penitenziari di tutto il territorio nazionale a incrementare la differenziazione della raccolta dei rifiuti. A oggi, ci informa il comunicato, la diffusione di questa buona pratica è aumentata di ben 29 punti percentuale rispetto alla situazione di partenza.

Nel 2016 infatti erano 113 istituti su 191 ad averla adottata (il 59%, in prevalenza negli uffici del personale), mentre oggi sono 168 su 191 (l’88%). Rilevante è il numero delle sezioni detentive interessate dalla raccolta differenziata: attualmente si registra che sono 844 su 1.130 complessive sezioni detentive, rispetto alle 16 sezioni iniziali, con un incremento quindi dall’1 al 75%. Considerato che le sezioni e gli spazi di vita detentivi coinvolti sono distribuiti in 127 Istituti penitenziari, emerge che il 66%, delle strutture sull’intero territorio nazionale ha adottato la raccolta differenziata dei rifiuti in tali spazi. A oggi i detenuti occupati nelle attività lavorative del settore sono 718, di cui 46 sono esclusivamente impiegati nel compostaggio. Per il Dipartimento, dunque, il tema è stato considerato trainante sotto diversi

aspetti: rappresenta in primo luogo la possibilità di introdurre elementi di educazione alla protezione e alla salvaguardia dell’ambiente, perché interviene sulle abitudini comportamentali quotidiane della popolazione ristretta. L’auspicio è che l’acquisizione di tale sensibilità ed abitudine da parte delle persone detenute possa trasferirsi anche all’esterno una volta riacquistata la libertà. Il comunicato stampa dipartimentale rileva inoltre che la pratica della raccolta differenziata vuole essere un modo per incrementare le possibilità di occupazione lavorativa e di acquisizione di nuove competenze spendibili sul mercato del lavoro libero. Il DAP, inoltre, evidenzia che la raccolta differenziata ha, tra gli obiettivi, la diminuzione dei costi del servizio di raccolta e, pertanto, rappresenta anche una modalità di razionalizzazione delle risorse pubbliche di cui l’Amministrazione penitenziaria dispone. “Si tratta di un programma di ampio respiro che abbisogna di tempi medio-lunghi per raggiungere tutti gli obiettivi connessi ma che mostra già tutta la forza delle sue potenzialità nei risultati finora ottenuti”. Dunque, il DAP si ‘auto-promuove’ per questo obiettivo raggiunto che vede impegnati nelle attività lavorative 718 detenuti. 718! E’ utile rammentare che i detenuti presenti alla fine di maggio 2017 nelle carceri italiane erano quasi 57mila, per cui è del tutto evidente che è assolutamente marginale l’iniziativa del DAP rispetto alla consistenza attuale della popolazione detenuta. Consistenza, va messo sempre in evidenza, che alimenta tensione nelle nostre carceri, con ricadute negative sull’operatività degli appartenenti al

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Corpo di Polizia Penitenziaria, sempre più spesso al centro (loro malgrado) di eventi critici, favoriti anche dal sistema di vigilanza dinamico e dal regime aperto. Davvero non comprendo come si possa aver avuto il coraggio, nella recente legge di modifica delle norme penali e penitenziarie, di estendere ancora di più la vigilanza dinamica nelle carceri, che vorrà dire più caos e violenza nei penitenziari. Non ci si ostini a vedere le carceri con l’occhio deformato dalle preconcette impostazioni ideologiche, che vogliono rappresentare una situazione di normalità che non c’è affatto: gli Agenti di Polizia Penitenziaria devono andare al lavoro con la garanzia di non essere insultati, offesi o – peggio – aggrediti da una parte di popolazione detenuta che non ha alcun ritegno ad alterare in ogni modo la sicurezza e l’ordine interno. Ma tornando al comunicato stampa del DAP, evidenzio che, a parere del SAPPE, servono altri provvedimenti. Fare lavorare i detenuti durante la detenzione dev’essere prioritario: lo stare in cella a non far nulla, l’ozio, è concausa delle costanti tensioni e dei continui eventi critici. Su questo, c’è ancora molto da fare. In Italia lavora circa il 15% dei presenti, quasi tutti alle dipendenze del DAP in lavori di pulizia o comunque interni al carcere, poche ore a settimana. Eppure chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, contro il 19% di chi fruisce di misure alternative e addirittura dell’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. Tenere i detenuti fuori dalle celle buona parte del giorno a non far nulla è una scelta assurda e pericolosa. Dovrebbero lavorare i meno pericolosi in progetti di recupero ambientale nelle città, pulendo i greti dei fiumi o i giardini pubblici, gli altri in attività dentro al carcere. C’è la volontà, da parte del DAP, di percorrere questa strada, coinvolgendo concretamente le direzioni penitenziarie con il contributo della Magistratura di Sorveglianza, senza lasciare che ciò avvenga occasionalmente ed a macchia di leopardo sul nostro territorio nazionale? F


IL PULPITO

E facciamola ’sta benedetta unificazione delle forze di polizia...

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ecentemente, un sondaggio online del Movimento cinque stelle ha riportato di attualità la vexata quaestio dell’unificazione delle forze di polizia. Nel sondaggio, sono state proposte cinque opzioni tra le quali gli iscritti hanno scelto, in maggioranza, quella che prevedeva “l’accorpamento di Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria, e trasformando le attuali qualifiche esclusive di ciascun soggetto in nuove specialità in seno alla nuova ed unica Forza di Polizia. Con l’eccezione della Polizia Militare che verrebbe devoluta ad apposito soggetto in seno alle Forze Armate”, con 10.081 voti. A seguire, con 8.184 voti, è risultato gradito il modello francese “nei centri urbani maggiori solo la Polizia di Stato e nei centri urbani minori la sola Arma dei Carabinieri”. 7.022 preferenze sono andate alla proposta di “distribuzione esclusiva per provincia indipendentemente dalla grandezza. Ogni provincia è destinata in maniera esclusiva alla presenza di una delle due forze di polizia, le quali tuttavia avrebbero nelle rispettive province di competenza le stesse specificità, mentre la Guardia di Finanza e la Polizia Penitenziaria conserverebbero specificità e organizzazione territoriale attuali”. Solo per due nuove forze di polizia si sono espressi favorevolmente in 5.985, mentre 4.282 iscritti hanno manifestato il convincimento che sia meglio che nulla cambi. Innegabilmente, la sicurezza pubblica affidata a ben cinque Corpi di Polizia (poi ridotti a quattro) sparpagliati tra le competenze di cinque o sei ministeri (...senza parlare, poi, delle polizie locali, provinciali e regionali, dei vigili del fuoco e di talune guardie

forestali regionali) è una delle anomalie tutte italiane. Non a caso, da moltissimi anni si parla della necessità di una razionalizzazione delle forze dell’ordine per ottimizzare l’organizzazione e la gestione delle risorse a disposizione. Senza ombra di dubbio, una delle ipotesi più accreditate è sempre stata quella che auspicava due soli Corpi di Polizia, uno a ordinamento civile ed uno ad ordinamento militare, interdipendenti e operativamente coordinati fra di loro. In buona sostanza, per raggiungere questo obiettivo, lasciando intatta l’organizzazione e l’ordinamento militare dell’Arma dei Carabinieri, basterebbe unificare Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria (con l’aggiunta dell’ex Corpo Forestale) in un unico Corpo di Polizia Nazionale, da riordinare e riorganizzare in specializzazioni e specialità secondo i corrispondenti compiti istituzionali. In tal modo, all’interno di un unico Corpo di circa duecentomila uomini e donne, potrebbero essere incardinate una serie di divisioni organizzate secondo le diverse competenze: Polizia giudiziaria, Polizia di sicurezza, Polizia investigativa, Polizia stradale, Polizia ferroviaria, Polizia tributaria, Polizia penitenziaria, Polizia ambientale, Polizia di prevenzione, ecc. ecc. Nel corso degli ultimi decenni, più di un’analisi ha dimostrato come all’unificazione dei vari Corpi di Polizia conseguirebbe un risparmio di miliardi di euro per le casse dello Stato. Del resto, anche senza essere economisti, non è difficile prevedere notevoli risparmi di spesa dalla razionalizzazione delle risorse, dei mezzi e delle infrastrutture e, soprattutto, dal dimagrimento delle burocrazie e dal ridimensionamento degli apparati.

Per guardare a casa nostra, ad esempio, potremmo lasciare in dote al Dap e al Ministero della Giustizia tutti quei Magistrati, Dirigenti e Funzionari non indispensabili per il Corpo, così come tutti quegli impiegati civili che adesso sono solo funzionali alla gestione amministrativa della Polizia Penitenziaria. In particolare, potremmo anche dismettere tutti quei servizi (e i mezzi necessari al loro svolgimento) di protezione, scorta e tutela di burocrati che orbitano intorno al Corpo. E’ evidente, infatti, che la Polizia Penitenziaria è “servente” rispetto al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, laddove è costretta a svolgere una lunga serie di servizi sconnessi dai propri compiti istituzionali, che potrebbero cessare con la confluenza in un unico Corpo di Polizia alle dipendenze del Ministero dell’Interno. Immagino, e presumo, che la stessa cosa valga pure per i colleghi della Finanza, della Forestale e delle altre Forze dell’Ordine frastagliate nelle diverse amministrazioni. Tra l’altro, come ho già avuto modo di sostenere in passato, potrebbero essere smantellati sia i provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria che lo stesso Dipartimento di Largo Daga che potrebbe cedere le sue funzioni residuali al Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, all’interno del quale istituire una Direzione Generale dell’Esecuzione Penale (magari comprendente anche la Giustizia Minorile). Indubbiamente, all’unificazione delle forze di polizia conseguirebbe anche la ristrutturazione di un vasto settore della pubblica amministrazione, a tutto vantaggio delle finanze pubbliche e in perfetta filosofia spending review. Last but not least ...sono anche convinto che, lontano dal DAP, crollerebbe il consumo di Maloox, Gaviscon, Tavor e Lexotan tra gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria (pur continuando a fare lo stesso, identico, lavoro di prima). F

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Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it


IL COMMENTO

Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Prigioni d’Europa, uno sguardo d’insieme

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ncora una volta, il Consiglio d'Europa si presenta puntuale all'appuntamento con il quale, ogni anno, fornisce a studiosi e operatori del diritto un prezioso quadro dei sistemi sanzionatori penali degli Stati membri. Il 14 marzo 2017 scorso sono stati infatti pubblicati i rapporti Space I e Space II – sezioni del progetto SPACE, Statistiques Pénales Annuelles du Conseil de l’Europe – relativi alla popolazione carceraria e all’utilizzo di sanzioni non detentive all’interno dei Paesi membri del Consiglio d’Europa.

Nella foto: l’interno di un carcere europeo

Nel recente passato, ossia l'8 marzo 2016, era stata comunicata la pubblicazione dell'edizione 2014 delle Statistiche penali annuali del Consiglio d'Europa, nella consueta forma di due documenti: Space I-2014 e Space II2014 , relativi rispettivamente alle pene detentive e alle misure limitative della libertà personale (Community Sanctions and Measures, secondo l'ampia nozione fornita dal Consiglio d'Europa nella Raccomandazione 2010/1). I rapporti Space I-2014 e Space II-2014, frutto di una rilevazione alla quale ha partecipato il 96% degli Stati membri, sono stati presentati il 23 dicembre 2015: il primo fotografa la situazione al 1° settembre 2014, il secondo al 31 dicembre 2014. I due rapporti appena resi disponibili, nati a quasi dieci anni di distanza uno dall’altro (Space I è stato creato nel 1983, mentre Space II ha visto la luce nel 1992), sono annualmente realizzati grazie, in primo luogo, all’invio

all’amministrazione penitenziaria di ogni stato membro di un questionario, rivisto e migliorato ogni anno dai redattori del Consiglio d’Europa, nonché, in secondo luogo, all’analisi e alla validazione delle risposte così ricevute da parte di un comitato scientifico istituito presso l’Università di Losanna. Giulia Mentasti, collaboratrice della prestigiosa Rivista Diritto Penale Contemporaneo, tirocinante presso il Tribunale di Milano, ha messo in evidenza come le profonde diversità insite nelle legislazioni dei 47 Paesi membri pongano tra le principali sfide di questo progetto la maximum comparability, ossia uno sforzo di adattamento delle categorie e degli istituti nazionali alle formule necessariamente generiche proposte da SPACE, così da consentire un’efficace comparazione dei risultati ottenuti. Mentasti ha quindi approfondito i contenuti dei due rapporti. In particolare, Space I – 2015 – i cui dati sono aggiornati per quanto attiene alla popolazione carceraria e al personale impiegato al 1° settembre 2015, mentre per ciò che riguarda i movimenti sono aggiornati a quanto accaduto nel corso del 2014 – ha come obiettivo primario la rilevazione dei numeri relativi alle persone detenute a vario titolo in carcere (prison populations), ma fornisce, al contempo, preziose informazioni in merito alla composizione della popolazione penitenziaria, alle condizioni di detenzione e ai movimenti, ossia ai flussi di ingresso e di uscita (compresi i decessi) dagli istituti penitenziari. Al questionario Space I – 2015 ha risposto l’87% dei Paesi membri, pari a 45 delle 52 amministrazioni penitenziarie presenti nei 47 Stati del Consiglio d’Europa. Da tali risposte emerge che al 1° settembre 2015 le persone detenute nelle carceri europee (con l’eccezione di Bosnia Erzegovina, Islanda, Malta, Monaco, Islanda e Ucraina, i cui dati non sono stati resi disponibili) sono 1.404.398, circa

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125.000 in meno rispetto al 2014. Ne è diretta conseguenza che anche il tasso medio europeo di detenzione, oggi pari a 115,7 detenuti ogni 100.000 abitanti, sia diminuito del 7% rispetto al 2014, quando era di 124 detenuti su 100.000 abitanti. Sebbene tali cifre mostrino un generale calo del numero di detenuti, la situazione delle carceri rimane insoddisfacente, con ben il 33,3% delle strutture in stato di sovraffollamento e una media europea di 94 detenuti ogni 100 posti disponibili. Mentasti ha rilevato inoltre che, sulla composizione qualitativa della popolazione carceraria così come mostrata dalle statistiche, tre sono i dati che saltano all’occhio: l’età media dei detenuti è aumentata di un anno rispetto ai tre precedenti rilevamenti e si assesta per il 2015 a 35 anni; la componente femminile continua a costituire una bassa percentuale sul totale, seppure in lieve crescita: 5,2% (si fermava al 5% nel 2014); infine, il dato forse più interessante è quello che riguarda le percentuali di cittadini stranieri detenuti. A tal proposito è bene premettere che esistono grandi differenze tra Stato e Stato (ad esempio, in Romania solo lo 0,9% dei detenuti è straniero, mentre a San Marino gli stranieri sono il 100%); ciò nonostante la mediana europea per il 2015 è pari al 10,8%, in sensibile calo rispetto all’anno precedente (era 13,3%). Da ultimo la percentuale delle persone detenute in carcere in attesa di giudizio è pari, a livello europeo, al 26,9%. Quanto ai tipi di reato per i quali sono state pronunciate le condanne, al primo posto si collocano i reati connessi alle sostanze stupefacenti (18,7%), seguiti a breve distanza da furto (16,2%), omicidio (13,2%) e rapina (12,6%). Da ultimo i dati relativi ai movimenti registrati negli istituti penitenziari europei nel corso del 2014 (Prison movements during 2014). Tra le informazioni più rilevanti, si segnalano: la durata media delle detenzioni,stabilizzata, come l’anno precedente, intorno ai sette mesi; il tasso medio di mortalità, che nel corso del 2014 è stato di 27 deceduti ogni 10.000 detenuti (un punto inferiore rispetto al precedente anno); tra le cause di morte, il suicidio è tuttora ampiamente presente, pur se in attenuazione rispetto al passato, con un tasso di 7,2 suicidi ogni 10.000


IL PULPITO detenuti (erano 7,6 nel 2013, 11,2 nel 2012): cifre assai più elevate sono state peraltro registrate in Portogallo (15,7), in Norvegia (16,1) e, soprattutto, a Cipro (44,1). Space II – 2015, come anticipato, fornisce una panoramica sulle percentuali di utilizzo, da parte dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, di sanzioni alternative alla detenzione (non-custodial sanctions and measures). A questo secondo sondaggio hanno risposto 47 delle 52 probation agencies dei 47 Stati Membri. Mentasti ha rilevato come, in linea generale, sia emerso che al 31 dicembre 2015 1.239.426 persone erano sottoposte a misure non detentive (concepite in senso ampio, così da ricomprendere, fra l’altro, le misure non detentive applicate in fase pre-processuale a titolo di misura cautelare e le forme di mediazione tra vittima e autore del reato); nel corso dell’intero anno, 1.173.278 persone avevano fruito di tali misure, mentre altre 1.130.444 avevano terminato il loro periodo sotto il controllo dei probation services nazionali. Altri dati significativi concernono le fasi processuali e i reati per i quali le misure sono utilizzate: di rado – e in linea con gli anni precedenti – le misure non detentive vengono utilizzate prima del giudizio (pre-trial detention), per una percentuale di circa il 7,5% sul totale (nel 2014 era del 6,7%); in ben 24 Paesi, inoltre, la probation viene utilizzata per ogni tipo di reato, senza restrizioni inerenti alla gravità dello stesso. Il rapporto mostra che in media la durata della misura non detentiva è di 17,5 mesi per reati contro la persona (con l’eccezione della violenza sessuale, per la quale la durata media sale a 22,8 mesi) e di 20,1 mesi per i reati contro il patrimonio. Guardando, invece, al numero di addetti alle agenzie di probation, il valore medio è di 5,6 persone ogni 100.000 abitanti: i Paesi più impegnati su questo fronte risultano, con grande distacco, il Regno Unito (19,9 Northern Ireland e 15,3 England e Wales), la Lettonia (19,1) e l’Estonia (14,7). In via generale si può affermare che in media il ricorso a misure di alternative è in lento, ma continuo calo: se nel corso del 2014 vi era una media di 196,5 persone sottoposte a misure alternative ogni 100.000 abitanti, durante il 2015 tale valore è ulteriormente diminuito

dello 0,7% raggiungendo la media di 195 ogni 100.000 abitanti e contribuendo così alla registrazione – tra il 2010 e il 2015 – di un calo del 9,7% nell’utilizzo di queste misure a livello europeo. Infine, un approfondimento è stato dedicato ai tipi di reato interessati dalle misure alternative: la mediana mostra che la loro applicazione più diffusa a livello europeo riguarda la violenza sessuale (19.77), seguita dai reati in materia di stupefacenti (15,59) e dalla rapina (15,27). Da entrambi i rapporti, è possibile trarre dati interessanti relativi all’Italia. Da Space I – 2015 emerge che il nostro Paese al 1° settembre 2015 mostrava un tasso medio di detenuti pari a 85,6 per 100.000 abitanti – in valore assoluto, 51.949 detenuti su più di 60 milioni di abitanti –: un tasso nettamente inferiore a quello europeo (115,7). Ancora, si noti che al 1° settembre 2015 il 35,2% dei detenuti era in attesa di giudizio, non aveva cioè ancora riportato una condanna definitiva. Tale valore, se ancora alto rispetto alla media europea – inferiore di quasi dieci punti percentuali (26,9%) – si mostra comunque in calo rispetto ai precedenti rilevamenti concernenti l’Italia: era 31,7 nel 2015 e 37,1 nel 2013. Purtroppo ancora grave è la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane, problema endemico per il nostro sistema penitenziario e che sta tornando a numeri significativi, se non allarmanti. Nel 2010 il tasso di sovraffollamento era pari al 151%: tale dato aveva portato la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare in due occasioni l’Italia (Sulejmanovic c. Italia, 2009; Torreggiani c. Italia, 2013) per violazione del divieto di pene inumani o degradanti ex art. 3 CEDU. Da quel momento l’Italia ha corretto la propria rotta – con una serie di interventi volti sia all’aumento della capienza delle strutture esistenti, sia e soprattutto a una generale riduzione degli ingressi, ottenuta grazie a una nuova disciplina delle misure cautelari personali e delle misure alternative –, con l’effetto di ridimensionare significativamente il sovraffollamento: 146% nel 2011, 139% nel 2012, 131% nel 2013. I dati di Space I – 2015 – aggiornati, come anticipato, al 1° settembre 2015 – mostrano un tasso di sovraffollamento pari 105,6 detenuti ogni 100 posti disponibili, che, benché diminuito

rispetto al precedente rilevamento (nel 2014 era pari a 109,8), risulta ancora superiore alla mediana europea (93,7). Si aggiunga che nel corso del 2016 si è registrata un’inquietante risalita del tasso di sovraffollamento, che a fine anno risulta assestato a 108,8. Guardando invece alla composizione qualitativa della popolazione carceraria, Mentasti rileva che la componente femminile, in linea con il resto delle percentuali europee, è molto bassa: pari al 4,1%, con 2131 detenute. Risultati differenti sono invece riscontrabili nella percentuale di detenuti stranieri, che in Italia raggiunge il 33%, un valore triplo rispetto alla mediana europea. Ancora da Space I – 2015 si traggono informazioni in merito alla durata media della detenzione e al tasso di mortalità dei detenuti. La prima si assesta in Italia a 13,7 mesi (quasi il doppio rispetto alla media europea), mentre il secondo è pari a 17 ogni 10.000 detenuti con, tuttavia, con un’allarmante percentuale

di suicidi (46,7%), che fa del suicidio la seconda causa di morte durante la detenzione. Esaminando, infine, le informazioni raccolte in Space II – 2015, emerge che in Italia al 31 dicembre 2015 le persone che stavano usufruendo dei vari tipi di misure alternative alla detenzione erano 53.030: in primo luogo, autori di reati in materia di sostanze stupefacenti, seguiti da autori di reati contro il patrimonio e contro la persona (tra questi ultimi, i meno frequentemente ammessi a misure non detentive – diversamente rispetto alla media europea – sono gli autori di violenze sessuali). Un ultimo dato relativo alle percentuali di addetti ai servizi sociali o, più in generale, alla sorveglianza/sostegno dei soggetti che eseguono misure alternative: in Italia gli addetti sono 3,3 ogni 100.000 abitanti (per un totale di 2019 persone), un valore ancora inferiore rispetto alla pur non elevata mediana europea (5,6). F

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Nella foto: una recinzione antiscavalcamento


L’OSSERVATORIO POLITICO

Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe giovanni.durante@sappe.it

La vicenda Riina alla luce della sentenza della Suprema Corte di Cassazione

L

a prima sezione penale della Corte di Cassazione, nei giorni scorsi, ha emesso una sentenza destinata fin da subito a far discutere, non tanto per il contenuto, quanto per la persona della quale si era occupata: Totò Riina, detenuto dal 1993 al regime del 41 bis. L’avvocato di Riina aveva presentato al Tribunale di sorveglianza di Bologna una richiesta di differimento della pena ex articolo 147, n. 3, del codice penale e, in subordine, di esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare, ex art. 47 – ter, comma 1 – ter, legge 26 luglio 1975, n. 354. Il Tribunale ha escluso la sussistenza dell’ipotesi di differimento obbligatorio dell’esecuzione della pena detentiva, ai sensi dell’articolo 146 del codice penale, poiché non era emerso da alcuna relazione che le condizioni di salute del detenuto non consentivano alcun tipo di cura efficace, considerato, anche, che lo stesso era stato più volte ricoverato ex art 11 legge 354/75, nonché attentamente monitorato rispetto alle pur gravi condizioni di salute. Per quanto riguarda la sussistenza dei presupposti di un rinvio facoltativo, ai sensi dell’articolo 147 c. p., il Tribunale ha sostenuto che il detenuto era seguito in ambiente penitenziario per tutte le patologie, peraltro stazionarie. Inoltre, per alcune di esse era stato ricoverato e, quindi, adeguatamente curato. Lo stesso giudice escludeva il superamento dei limiti inerenti il rispetto del senso di umanità di cui deve essere connotata la pena e del diritto alla salute. Evidenziava il giudice nell’ordinanza che lo stato di detenzione nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia, essendo il rischio dell’esito infausto pari e comune a quello di ogni cittadino, anche in stato di libertà. Evidenziava altresì il Tribunale la tutela del preminente interesse

collettivo alla tutela dell’ordine e dell’incolumità pubblica, in considerazione della pericolosità sociale e della capacità criminale del detenuto, essendo lo stesso in posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”. Il Collegio ha accolto il ricorso ritenendo che la motivazione fosse carente e contraddittoria. La Corte ha osservato che lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria. Rileva la Corte che il giudice di merito deve adeguatamente verificare e motivare se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena… rileva nel giudizio de quo la valutazione complessiva dello stato di logoramento fisico in cui versa il soggetto, sovente aggravata anche da altre cause non patologiche come, nel caso di specie, la vecchiaia. La Corte afferma l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente che deve essere assicurato al detenuto ed in relazione al quale il giudice che ha rigettato il provvedimento di differimento dell’esecuzione della pena deve adeguatamente motivare. Nel secondo punto la Corte evidenzia la contraddittorietà della motivazione dove, da un lato

8 • Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017

afferma la compatibilità dello stato di detenzione del condannato con le sue condizioni di salute e dall’altro evidenzia espressamente le deficienze strutturali della casa di reclusione di Parma, dove egli è ristretto, pur ritenendo le stesse irrilevanti ai fini della decisione sulle istanze oggetto di valutazione. Ciò, in considerazione del fatto che è lo stesso Tribunale ad evidenziare la necessità del condannato, per come rappresentata dal difensore e non contestata dal provvedimento, di avere a disposizione un particolare letto rialzabile, le cui dimensioni non rientrerebbero nella ristretta stanza detentiva. La Corte ha ritenuto che il Tribunale abbia errato nel ritenere che le deficienze strutturali del luogo di restrizione non siano rilevanti ai fini del decidere sull’istanza del ricorrente. Lo stesso Tribunale, ad avviso della Corte, avrebbe dovuto rinviare la propria decisione all’esito di un accertamento volto a verificare, in concreto, se e quanto la mancanza di un letto incida sul superamento o meno di quel livello di dignità dell’esistenza che anche in carcere deve essere assicurato, con riferimento ad un soggetto anziano e gravemente malato, non dotato di autonomia di movimento. Al terzo punto la Corte ha altresì ritenuto il provvedimento carente di motivazione sotto il profilo della attualizzazione della valutazione sulla pericolosità del soggetto, tali da configurare quelle eccezionali esigenze che impongono «Riina si trova in una condizione di cura e assistenza continue che a dir poco sono identiche, se non superiori, a quelle che potrebbe godere in uno status libertatis». Onorevole Rosy Bindi


L’OSSERVATORIO POLITICO «Se Riina va a casa è lo Stato che è più forte della mafia. Io non ho bisogno di arrivare a livelli sotto la civiltà per dimostrare la forza dello Stato». Onorevole Marco Di Lello l’inderogabilità della esecuzione della pena. Pertanto, la Corte ha annullato l’ordinanza e rinviato al Tribunale di sorveglianza di Bologna, per un nuovo esame. Il Tribunale, quindi, dovrà reiterare l’ordinanza, ovviando alla carenza e alla contraddittorietà della motivazione, lacune che hanno portato all’annullamento di quella precedente, da parte della suprema Corte. Basterà questo per far rimanere in carcere Totò Riina, fino al resto dei suoi giorni di vita. Com’era prevedibile, visto lo spessore criminale della persona coinvolta, la sentenza della Corte di cassazione ha fatto molto discutere, anche in considerazione della sintesi giornalistica che, a volte, soprattutto quando si tratta di questioni giuridiche piuttosto complesse, può generare disinformazione. Si è parlato e scritto, soprattutto nei titoli di stampa, di spiraglio per Totò di Riina di poter uscire dal carcere. Niente di tutto ciò, ma solo l’affermazione, attraverso una sentenza, di alcuni principi di diritto che ormai possono ritenersi incontrovertibili nel nostro ordinamento, oltre all’invito, al tribunale di sorveglianza di Bologna, di meglio motivare il diniego del differimento dell’esecuzione della pena, sia in ordine alle condizioni oggettive di detenzione, sia rispetto all’attualità del pericolo che il condannato costituisce per l’ordine e la sicurezza pubblica. Sulla vicenda è immediatamente intervenuto il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, il quale in un’intervista al Corriere della Sera ha affermato che Totò Riina, pur avendo gravi problemi di salute, deve rimanere in carcere perché resta il capo di Cosa Nostra. Ha altresì affermato che Provenzano era in condizioni addirittura peggiori, ma è rimasto in carcere. Roberti ha anche sottolineato come in carcere i diritti

del detenuto siano garantiti, forse più di un cittadino libero. A mettere una pietra tombale sulla vicenda è stata la Presidente della Commissione antimafia, onorevole Rosy Bindi, la quale, a sorpresa, si è recata a Parma, insieme ad altri componenti della stessa commissione. Dopo aver visitato il detenuto, attualmente ricoverato in una struttura ospedaliera, si è successivamente recata nel carcere parmense, dove ha potuto constatare la situazione della stanza in cui è stato detenuto Totò Riina e nella quale dovrebbe ritornare, nel caso di rientro in carcere. La Presidente scrive nella relazione che al di là delle diverse opinioni espresse e diffuse dalla stampa, alcune che appaiono ispirate alla legge del taglione e che altre invece ad una malintesa umanizzazione della pena ben oltre quanto previsto dalle norme costituzionali, abbiamo cercato di acquisire i dati essenziali per una valutazione della vicenda secondo i principi del nostro ordinamento. Quanto scritto dalla Presidente Bindi rende molto bene l’idea di quali siano i punti di vista con cui, a volte, vengono affrontate certe questioni nel nastro Paese. La malintesa umanizzazione della pena sembra essere ben radicata in politici come Marco Di Lello, componente della Commissione antimafia, il quale, proprio in commissione, ha affermato che se Riina va a casa è lo Stato che è più forte della mafia, io la penso al contrario della Presidente Bindi, non si tratta di una sconfitta. Io non ho bisogno di arrivare a livelli sotto la civiltà per dimostrare la forza dello Stato. Voce fuori dal coro, quella di Di Lello, e per questo molto stonata. L’onorevole Bindi, nella sua relazione, ha affermato che Riina si trova in una condizione di cura e assistenza continue che a dir poco sono identiche, se non superiori, a quelle che potrebbe godere in uno status libertatis o in uno di regime di arresti domiciliari e di cui gli è ampiamente assicurato il diritto innanzitutto ad una vita dignitosa e dunque a morire, quando ciò avverrà, altrettanto dignitosamente a meno che non si voglia postulare l’esistenza di un diritto

a morire fuori dal carcere non riconosciuto dalle leggi vigenti. Inoltre, nella stessa relazione si evidenzia come il detenuto, seppur gravemente malato, sia nelle piene facoltà cognitive, circostanza, questa, confermata anche dagli agenti del GOM (Gruppo operativo mobile della Polizia Penitenziaria); egli intrattiene rapporti epistolari con i famigliari, con i quali fa regolari colloqui, nonché con l’avvocato. Ciò, a testimonianza del fatto che potrebbe sempre impartire ordini, nell’ambito dell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, possibilità, questa, che renderebbe concreta ed attuale la sua pericolosità sociale. Infine, qualora il detenuto dovesse rientrare in carcere, troverebbe una situazione logistica completamente mutata, a seguito dei lavori di adeguamento della stanza detentiva, eseguiti proprio al fine di poter contenere il letto di degenza, di cui lo stesso «Totò Riina è ancora il capo di Cosa detenuto Nostra». Procuratore potrebbe Nazionale Antimafia avere Franco Roberti bisogno. La vicenda Riina e tutto quello che ne è conseguito dovrebbe far riflettere sul fatto che la salvaguardia dei diritti umani in carcere, a cominciare soprattutto da quello alla salute, non è poi così disastrosa nel nostro Paese, se si considera che un qualsiasi detenuto, da questo punto di vista, può considerarsi un privilegiato, rispetto ad un qualsiasi cittadino, il quale, se va in pronto soccorso, rischia di trascorrerci dalle dieci alle quindici ore, in relazione al tipo di problema che presenta; un detenuto, invece, proprio in ragione della condizione in cui si trova, gode sicuramente di una corsia privilegiata. Lo stesso dicasi per eventuali visite specialistiche ed esami diagnostici, per cui un qualsiasi cittadino deve attendere mesi, se non anni. Un cittadino che ha sempre lavorato onestamente e pagato le tasse, se dovesse trovarsi nelle condizioni di Riina, cosa che capita spesso, purtroppo, dovrebbe pagarsi le cure e anche la badante, con enormi sacrifici per la famiglia. F

Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017 • 9


SPECIALE

Riordino delle carriere: le tabelle e tutto quello che c’è da sapere

R

uolo degli agenti assistenti • La promozione alla qualifica di assistente capo si consegue a ruolo aperto mediante scrutinio per merito assoluto al quale è ammesso il personale che abbia compiuto quattro anni di effettivo servizio nella qualifica di assistente. • Agli assistenti capo che maturano otto anni di effettivo servizio nella qualifica è attribuita, ferma restando la qualifica rivestita, la denominazione di “coordinatore” che determina, in relazione alla data di conferimento, preminenza gerarchica anche nei casi di pari qualifica con diversa anzianità. • Gli assistenti capo con qualifica di coordinatore, oltre alle specifiche mansioni previste assumono l’onere di verificare il corretto svolgimento delle attività del personale di pari qualifica o subordinato con il controllo del puntuale rispetto delle tabelle di consegna.

Ruolo degli ispettori con carriera a sviluppo direttivo Articolazione della carriera del ruolo

PROGRESSIONI IN CARRIERA DOPO IL RIORDINO QUALIFICA

ANZIANITÀ

Agente

5

Agente scelto

5

Assistente

4

Assistente Capo

8

Assistente C. Coordinatore

Á ÁÁÁ

CONCORSO Vice Sovrintendente

5

Sovrintendente

5

Sovrintendente Capo

8

Sovr. Capo Coordinatore

ÁÁÁ

CONCORSO Vice Ispettore

2

Ispettore

5

Ispettore Capo

9

Ispettore Superiore

8

Sost. Commissario

4

Sost. Comm. Coordinatore CONCORSO

10 • Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017

ÁÁÁÁÁ

Ruolo dei sovrintendenti • La nomina alla qualifica iniziale del ruolo dei sovrintendenti di consegue a domanda: • mediante selezione effettuata con scrutinio per merito comparativo riservato a domanda nel limite dell’70% dei posti disponibili al 31 dicembre di ciascun anno, agli assistenti capo che ricoprono, alla predetta data, una posizione in ruolo non inferiore a quella compresa entro il doppio dei posti individuati; • nel limite del restante 30% dei posti disponibili al 31 dicembre di ciascun anno, mediante concorso per titoli ed esami con modalità semplificate, da espletare anche mediante procedure telematiche, riservato al ruolo degli agenti assistenti con una età non superiore ad anni 40, che abbia compiuto almeno quattro anni di effettivo servizio (fino all’anno 2026 non è richiesto il requisito dell’età); • La promozione alla qualifica di sovrintendente si consegue, a ruolo aperto, mediante scrutinio per merito assoluto al quale sono ammessi i vice sovrintendenti che alla data dello scrutinio abbiano compiuto cinque anni di effettivo servizio nella qualifica. • La promozione alla qualifica di

sovrintendente capo si consegue, a ruolo aperto, mediante scrutinio per merito assoluto al quale sono ammessi i sovrintendenti che alla data dello scrutinio abbiano compiuto cinque anni di effettivo servizio nella qualifica. • Ai sovrintendenti capo che maturano otto anni di effettivo servizio nella qualifica è attribuita, ferma restando la qualifica rivestita, la denominazione di “coordinatore” che determina, in relazione alla data di conferimento, preminenza gerarchica anche nei casi di pari qualifica con diversa anzianità.

degli ispettori: • Vice Ispettore; • Ispettore; • Ispettore Capo; • Ispettore Superiore; • Sostituto Commissario. La nomina a vice ispettore si consegue: • Nel limite del 50% dei posti disponibili al 31 dicembre di ogni anno mediante concorso pubblico, con riserva di un sesto dei posti agli appartenenti ai ruoli del Corpo di Polizia Penitenziaria con almeno tre anni di anzianità di effettivo servizio alla data del bando che indice il concorso, in possesso dei prescritti requisiti ad eccezione del limite di età; • Nel limite del 50% dei posti disponibili al 31 dicembre di ogni anno, mediante concorso interno per titoli di servizio ed esame, riservato al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che espleta funzioni di polizia in possesso alla data del bando che indice il concorso, di anzianità di servizio non inferiore a cinque anni, (e non più sette), del diploma di istruzione secondaria che consente l’iscrizione ai corsi per il conseguimento del diploma universitario. I vincitori del concorso esterno di cui alla


RIORDINO DELLE CARRIERE IN PRIMA APPLICAZIONE - TRANSITORIO x • Un concorso straordinario per titoli entro il 30 ottobre 2017 • Un concorso straordinario per titoli di 800 posti entro il 30 giugno 2018

Vice Sovrintendenti Titolo studio: licenza media

60% Assistenti Capo (mantenendo la sede) 40% Ruolo Agenti /Assistenti > 5 anni

30% Concorso pubblico Vice Ispettore Titolo studio: diploma

30% Concorso interno 70% Concorso a titoli

Ruolo Agenti /Assistenti > 5 anni

70% Riservato personale Ruolo Sovr. 50% Sovrintendente Capo (mant. sede) 50% Vice Sovr. e Sovrintendenti

80% Concorso interno a titoli (Ispettori Capo con diploma)

Vice Commissari 50 posti Ruolo ad esaurimento

20% Concorso interno a titoli (Sostituto Commissario)

A REGIME (2026) x Vice Sovrintendenti Titolo studio: licenza media

70% Concorso a titoli riservato Assistenti Capo 30% Ruolo Agenti /Assistenti > 4 anni

50% Concorso pubblico per diplomati Vice Ispettore Titolo studio: diploma

(Riserva 1/6 personale > 3 anni - Corso di formazione di 24 mesi)

50% Concorso interno riservato personale > 5 anni (Corso di formazione di 12 mesi)

70% Concorso pubblico per Laurea Magistrale Commissari Titolo studio: Laurea

(Riserva 20% personale > 5 anni con Laurea Magistrale Corso di formazione di 24 mesi - imm. in ruolo: Commissario Capo )

30% Riservato Ruolo Ispettori con Laurea Triennale > 5 anni (Riserva 20% Sostituto Commissario - Corso di formazione di 12 mesi - immissione in ruolo: Vice Commissario) Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017 • 11

Á


SPECIALE NUOVE DOTAZIONI ORGANICHE DEL CORPO DI POLIZIA PENITENZIARIA RUOLI

QUALIFICA

Agente Agente Scelto Agenti/Assistenti Assistente Assistente Capo

DOTAZIONE ORGANICA Uomini Donne Totale

29.300 3.032 32.332***

Sovrintendenti

Vice Sovrint. Sovrintendente Sovrint. Capo

4.140

360

4.500**

Ispettori

Vice Ispettore Ispettore Ispettore Capo

2.640

375

3.015*

590

50

Ispettore Sup. Sostituto Comm. TOTALE

640

40.487***

* dotazione da incrementare di n. 535 unità - ** dotazione da incrementare di n. 800 unità *** dotazione da ridurre in considerazione degli aumenti precedenti (consistenza organica complessiva inferiore per assicurare il principio dell’invarianza di spesa)

NUOVE DOTAZIONI ORGANICHE DELLA CARRIERA DEI FUNZIONARI DEL CORPO RUOLI

QUALIFICA Vice Commissario Commissario Commissario Capo

Carriera dei Funzionari

DOTAZIONE ORGANICA

315

Commissario Coordinatore Commissario Coordinatore Superiore Primo Dirigente Dirigente Superiore

TOTALE RUOLO 299

96 5

12 • Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017

715

lettera a) frequentano un corso di durata di due anni preordinato anche all’acquisizione della specifica laurea triennale. Gli allievi vice ispettori che al termine dei primi due anni del corso abbiano ottenuto il giudizio di idoneità al servizio di Polizia Penitenziaria quali vice ispettori ed abbiano superato gli esami previsti e le prove pratiche, sono nominati vice ispettori in prova e sono avviati alla frequenza di un periodo di tirocinio applicativo della durata non superiore ad un anno. Queste disposizioni si applicano a partire dal 1 gennaio 2026; I posti di cui al comma 1, messi a concorso e non coperti, sono portati in aumento di quelli riservati, per gli anni successivi, alle rispettive aliquote di cui al medesimo comma 1, lettere a e b. I vincitori del concorso interno di cui alla lettera b) devono frequentare un corso di formazione della durata di sei mesi. • La promozione a ispettore capo si consegue a ruolo aperto mediante scrutinio per merito assoluto al quale è ammesso il personale avente un’anzianità di cinque anni (e non più sette) di effettivo servizio nella qualifica di ispettore. • la promozione a ispettore superiore si consegue a ruolo aperto mediante scrutinio per merito assoluto al quale è ammesso il personale avente una anzianità di nove anni di effettivo servizio nella qualifica di ispettore capo. Per l’ammissione allo scrutinio è necessario (solo a partire dal 1° gennaio 2026) il possesso di una delle lauree individuate dall’art. 7 del decreto legislativo 21 maggio 2000 n. 146; • La promozione alla qualifica di sostituto commissario si consegue mediante scrutinio per merito comparativo al quale è ammesso il personale che ha maturato otto anni di effettivo servizio nella qualifica di ispettore superiore; • Ai sostituti commissari che abbiano maturato un’anzianità nella qualifica di almeno quattro anni è attribuita la denominazione di “coordinatore”. Gli stessi nell’ambito del coordinamento di una o più unità operative, assume l’onere di avviare gli interventi finalizzati alla verifica dell’efficienza dei servizi affidati alle medesime. Tali attività sono svolte con particolare riguardo all’esigenza di garantire gli obiettivi di sicurezza dell’istituto ivi compresi l’ordine e la disciplina nelle sezioni detentive ed il perfetto funzionamento degli impianti di controllo interni ed esterni e del servizio di vigilanza armata. Ruolo dei funzionari Articolazione della carriera dei funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria


RIORDINO DELLE CARRIERE N U O V E D O TA Z I O N I O R G A N I C H E D E I R U O L I T E C N I C I D E L C O R P O D I P O L I Z I A P E N I T E N Z I A R I A B A N C A D AT I D N A RUOLI Agente Tecnico Agente Scelto Tecnico Assistente Tecnico Assistente Capo Tecnico

DOTAZIONI ORGANICA 12

Vice Sovrintendente Tecnico Sovrintendente Tecnico Sovrintendente Capo Tecnico

18

Vice Ispettore Tecnico Ispettore Tecnico Ispettore Capo Tecnico

Biologo

Informatico

Ispettore Superiore Tecnico Sostituto Direttore

10

14

2

2

3

11

Direttore Tecnico, limitatamente frequenza corso Direttore Capo Tecnico Direttore Coordinatore Tecnico Direttore Coordinatore Superiore Tecnico TOTALE COMPLESSIVO • Vice commissario penitenziario; • Commissario penitenziario; • Commissario capo penitenziario • Commissario coordinatore penitenziario; • Commissario coordinatore superiore; • Primo dirigente; • Dirigente superiore. L’accesso al ruolo dei funzionari avviene: • nei limiti del 70% dei posti disponibili mediante concorso pubblico al quale sono ammessi i candidati in possesso di laurea magistrale o specialistica ed età compresa tra i 18 e i 32 anni; Il 20% dei posti disponibili (del 70%) è riservato al personale appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria con una anzianità di servizio di almeno cinque anni in possesso di laurea magistrale specialistica ad eccezione del limite dell’età; • nei limiti del 30% dei posti disponibili mediante concorso interno per titoli di servizio ed esame al quale è ammesso a partecipare il personale del ruolo degli ispettori del Corpo di Polizia Penitenziaria con almeno cinque anni di servizio nel ruolo, in possesso di laurea triennale; il 20% dei posti (del 30%) è riservato ai

sostituti commissari in possesso di laurea triennale; • i vincitori del concorso di cui alla lettera a) sono nominati allievi commissari e frequentano un corso di formazione della durata di due anni; al termine del corso di formazione gli idonei prestano giuramento e accedono con la qualifica di commissario capo; • i vincitori del concorso di cui alla lettera b) sono nominati vice commissari e frequentano un corso di formazione della durata dodici mesi; al termine del corso di formazione sono confermati nel ruolo dei funzionari con la qualifica di vice commissario. • La promozione a commissario si consegue, a ruolo aperto, mediante scrutinio per merito assoluto, al quale è ammesso il personale con la qualifica di vice commissario che abbia compiuto due anni di effettivo servizio nella qualifica; • La promozione a commissario capo si consegue, a ruolo aperto, mediante scrutinio per merito assoluto, al quale è ammesso il personale con la qualifica di commissario che abbia compiuto cinque anni di effettivo servizio nella qualifica; • La promozione a commissario

72 coordinatore si consegue a ruolo chiuso, mediante scrutinio per merito comparativo e superamento di un corso di formazione dirigenziale della durata di tre mesi al quale è ammesso: • Nei limiti del 70% dei posti, il personale con qualifica di commissario capo, vincitore del concorso per esterni che ha maturato almeno sei anni di effettivo servizio nella qualifica; • Nei limiti del 30% dei posti, il personale con qualifica di commissario capo, vincitore del concorso per interno, che abbia maturato almeno sei anni di effettivo servizio nella qualifica. • La promozione alla qualifica di commissario coordinatore superiore avviene mediante scrutinio per merito comparativo al quale è ammesso il personale con qualifica di commissario coordinatore che ha maturato cinque anni di effettivo servizio nella qualifica. • La promozione a primo dirigente si consegue mediante scrutinio per merito comparativo al quale è ammesso il personale con la qualifica di commissario coordinatore superiore che abbia compiuto quattro anni di effettivo servizio nella qualifica; • La promozione alla qualifica di

Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017 • 13

Á


SPECIALE INCREMENTO PARAMETRALE ED ECONOMICO RELATIVO AL RUOLO DEGLI AGENTI ED ASSISTENTI QUALIFICA

PARAMETRO PUNTI PARAMETRO AUMENTO NETTO ASSEGNO ATTUALE INCREMENTO FUTURO MENSILE UNA TANTUM (EURO) PARAMETRO (TASS. 38% o 27%)

Agente

101,25

4,0

105,25

da 31,22 a 36,76

350

Agente Scelto

104,50

4,0

108,50

da 31,22 a 36,76

350

Assistente

108,00

4,0

112,00

da 31,22 a 36,76

350

Assistente Capo

111,50

5,0

116,50

da 39,03 a 45,95

350

Assistente Capo

111,50

5,5

117,00

da 42,93 a 50,55

350

Assistente Capo

113,50

8,0

121,50

da 62,44 a 73,52

800

Assistente Capo

113,50

8,0

121,50

da 62,44 a 73,52

1000

min. 5 anni qualifica min. 8 anni qualifica (Coordinatore)

min. 12 anni qualifica (Coordinatore)

dirigente superiore si consegue mediante scrutinio per merito comparativo al quale è ammesso il personale con la qualifica di primo dirigente che abbia compiuto almeno cinque anni di effettivo servizio nella qualifica. Disposizioni transitorie e finali per il Corpo di Polizia Penitenziaria Entro il 31 dicembre 2019 si provvede all’ampliamento della dotazione organica del ruolo dei sovrintendenti e degli ispettori fino al raggiungimento rispettivamente di n. 5300 e n. 3550 unità. Nella fase di prima applicazione: • Alla copertura dei posti disponibili dal 31 dicembre 2008 al 31 dicembre 2016 nel ruolo dei sovrintendenti si provvede mediante concorso straordinario per titoli, da attivare entro il 30 ottobre 2017, riservato al personale in servizio alla data di indizione del bando, attraverso il ricorso a modalità e procedure semplificate, secondo le seguenti aliquote: • Per il 60% dei posti disponibili, agli assistenti capo che ricoprono alla predetta data una posizione in ruolo non superiore a quella compresa entro il triplo dei posti riservati; • Per il 40% riservato al personale del ruolo degli agenti ed assistenti che alla predetta data abbiano compiuto almeno quattro anni di effettivo servizio. • Alla copertura degli 800 posti di vice sovrintendente si provvede mediante un

concorso straordinario per titoli da attivare entro il 30 giugno 2018 secondo le modalità previste in precedenza dalla lettera a); Al personale partecipante ai posti riservati agli assistenti capo è salvaguardato il mantenimento, a domanda, della sede di servizio. • Le procedure concorsuali per l’accesso al ruolo degli ispettori non concluse alla data di entrata in vigore del presente decreto rimangono disciplinate dalla previgente normativa. • In fase di prima attuazione l’accesso al ruolo degli ispettori avviene, per il 70% dei posti disponibili, mediante concorso interno per titoli riservato al personale di Polizia Penitenziaria con un’anzianità di servizio di 5 anni: • Di questo 70% di personale appartenente al Corpo: 1.a) il 70% riservato agli appartenenti al ruolo dei sovrintendenti; la metà dei posti del predetto 70% riservato ai sovrintendenti capo con mantenimento della sede; 2.b) il 30% riservato al ruolo degli agenti assistenti con almeno cinque anni di effettivo servizio; • Fino all’anno 2026 per l’ammissione allo scrutinio di ispettore superiore non sono richiesti i titoli di studio previsti dalle disposizioni a regime. • Nella fase di prima attuazione , in via transitoria: • È istituito il ruolo a esaurimento del corpo di Polizia Penitenziaria articolato

14 • Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017

nelle seguenti qualifiche; • Vice commissario penitenziario; • Commissario penitenziario; • Commissario capo penitenziario. L’accesso alla qualifica iniziale del ruolo ad esaurimento avviene, per una sola volta, per n. 50 posti, mediante concorso interno per titoli, riservato al ruolo degli ispettori con qualifica non inferiore a ispettore capo in possesso del diploma d’istruzione secondaria superiore. Il 20% dei posti (quindi 10 posti) è riservato ai sostituti commissari. I vincitori del concorso sono nominati vice commissari e frequentano un corso di formazione della durata di sei mesi. • La promozione alla qualifica di commissario capo dei commissari nominati con la procedura transitoria di prima attuazione si consegue mediante scrutinio per merito comparativo a ruolo aperto, dopo quattro anni di effettivo servizio nella qualifica di commissario. Con decorrenza 1 gennaio 2017: • Gli assistenti che al 1 gennaio 2017 hanno maturato un’anzianità nella qualifica pari o superiore a quattro anni, sono promossi, previo scrutinio per merito assoluto, alla qualifica di assistenti capo; • I vice sovrintendenti che al 1 gennaio 2017 hanno maturato un’anzianità nella qualifica pari o superiore a cinque anni, sono promossi, previo scrutinio per merito assoluto, alla qualifica di


RIORDINO DELLE CARRIERE INCREMENTO PARAMETRALE ED ECONOMICO RELATIVO AL RUOLO DEI SOVRINTENDENTI QUALIFICA

PARAMETRO PUNTI PARAMETRO AUMENTO NETTO ASSEGNO ATTUALE INCREMENTO FUTURO MENSILE UNA TANTUM (EURO) PARAMETRO (TASS. 38% o 27%)

Vice Sovrint.

112,25

4,5

116,75

da 35,12 a 41,36

350

Sovrintendente

116,25

5,25

121,50

da 40,98 a 48,25

350

Sovrint. Capo

120,25

4,0

124,25

da 31,22 a 36,76

350

Sovrint. Capo

120,25

5,5

125,75

da 42,93 a 50,55

350

Sovrint. Capo

122,50

8,5

131,00

da 66,35 a 78,12

1200

min. 4 anni qualifica (Coordinatore) min. 8 anni qualifica (Coordinatore)

INCREMENTO PARAMETRALE ED ECONOMICO RELATIVO AL RUOLO DEGLI ISPETTORI QUALIFICA

PARAMETRO PUNTI PARAMETRO AUMENTO NETTO ASSEGNO ATTUALE INCREMENTO FUTURO MENSILE UNA TANTUM (EURO) PARAMETRO (TASS. 38% o 27%)

Vice Ispettore

120,75

4,0

124,75

da 31,22 a 36,76

350

Ispettore

124,00

7,0

131,00

da 54,64 a 64,33

350

Ispettore Capo

128,00

5,5

133,50

da 42,93 a 50,55

350

Ispettore Sup.

133,00

4,5

137,50

da 35,12 a 41,32

350

Ispettore Sup.

135,50

4,5

140,00

da 35,12 a 41,32

350

Sostit. Comm.

139,00

4,5

143,50

da 35,12 a 41,32

350

Sostit. Comm.

139,00

9,0

148,00

da 70,25 a 82,71

1300

Sostit. Comm.

139,00

9,0

148,00

da 70,25 a 82,71

1500

min. 8 anni qualifica

min. 4 anni qualifica (Coordinatore) min. 8 anni qualifica (Coordinatore)

sovrintendenti; • I sovrintendenti che al 1 gennaio 2017 hanno maturato un’anzianità nella qualifica pari o superiore a cinque anni, sono promossi, previo scrutinio per merito assoluto, alla qualifica di sovrintendenti capo; • Al personale che riveste la qualifica di assistente capo con almeno otto anni di anzianità nella stessa è attribuita la denominazione di “coordinatore”; • Al personale che riveste la qualifica di sovrintendente capo con almeno otto anni di anzianità nella stessa è attribuita

la denominazione di “coordinatore”; • Il personale che riveste la qualifica di ispettore capo con un’anzianità pari o superiore a nove anni è ammesso allo scrutinio, a ruolo aperto, per la promozione a ispettore superiore; • Il personale che riveste la qualifica di ispettore superiore che ha maturato anzianità nella stessa pari o superiore ad otto anni è promosso per merito comparativo a sostituto commissario; • Al personale che riveste la qualifica di sostituto commissario che ha maturato un’anzianità nella qualifica di almeno

quattro anni è attribuita la denominazione di “coordinatore”; Per i vincitori dei concorsi interni a complessivi 1757 posti per l’accesso al corso di aggiornamento di formazione professionale per la nomina alla qualifica di vice sovrintendente del ruolo dei sovrintendenti del Corpo di Polizia Penitenziaria, pubblicati nella Gazzetta ufficiale – IV serie speciale concorsi ed esami – n. 12 dell’11 febbraio 2000, in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto, la decorrenza giuridica dell’anzianità è anticipata al 31/12/2000. F

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Roberto Thomas Docente del corso di formazione in criminologia minorile presso La Sapienza Università di Roma Già Magistrato minorile rivista@sappe.it

CRIMINOLOGIA

Profilo criminologico del violentatore sessuale minorenne

I

Nelle foto: violenza

l numero dei reati attinenti alla sfera sessuale commesso dai minori, è stato, come linea di tendenza, sempre in crescita, in Italia, secondo i dati forniti dall’ISTAT, dal 1970 in poi, con particolare rilevanza fra il 1995 e il 1996 e gli anni a seguire (dalle 489 denunce penali del 2000 alle 1049 del 2012 , dato ultimo che si desume dalla tabella 17 a pag. 551 del 2° Rapporto sulla devianza minorile in Italia, 2013, redatto dal Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia, Gangemi Editore).

sporchi in famiglia”, nella chiusa cerchia parentale , che era pronta a richieste di riparazione, se non a vere e proprie vendette, per compensare l’affronto all’onore subito non solo dalla vittima, spesso minorenne, ma al buon nome della sua parentela. Vittima, insomma, non era soltanto chi avesse subito l’azione criminosa di violenza, bensì anche il suo ambiente familiare che ne richiedeva conto, al di fuori del sistema processuale penale, direttamente all’autore con mezzi non sempre ortodossi a carattere “costrittivo”.

Ciò avviene per due ordini di motivi, uno attinente al numero assoluto delle denunce in materia fino al 1970, l’altro alla configurazione giuridica del reato di violenza sessuale, quale è emersa dopo la riforma normativa avvenuta con la legge 15 febbraio 1996 n. 66. Invero, fino agli anni 70 del secolo scorso, il numero oscuro (cioè la percentuale dei delitti non denunciati) dei reati attinenti alla sfera sessuale era assai elevato, con conseguenza della diminuzione in senso assoluto del numero dei reati di violenza sessuale denunziati . Ciò derivava dal diffuso perbenismo e da un malinteso senso del pudore che imponevano di “lavare i panni

In secondo luogo gioca a favore del costante incremento dei reati sessuali, soprattutto a partire dal 1996, la loro configurazione in un'unica norma complessiva (l’art. 609 bis del codice penale, intitolata “violenza sessuale”) che , come un grande contenitore, racchiude in sé, genericamente la commissione di tutti gli atti violenti attinenti alla sfera sessuale. Dal che si deve dedurre che la qualifica di violenza sessuale, riportata nel certificato penale (con il mero riferimento all’art. 609 bis del codice penale) e ripresa poi dall’ISTAT per la sua statistica giudiziaria , non corrisponda al comune concetto della stessa, e cioè a quello di una vera e propria violenza carnale consumata,

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quando si consideri che la qualifica di cui sopra si applica, ad esempio, al lascivo “strofinamento” della vittima all'interno di un autobus affollato di persone, approfittando della confusione . Atteggiamenti, certo, che devono essere sanzionati penalmente, ma con una diversa definizione giuridica che non possegga la gravità di quel marchio d’infamia che proviene dalla denominazione di violenza sessuale (ad esempio, precedentemente alla riforma del 1996 cit., tale comportamento trasgressivo veniva ricompreso nella categoria degli “atti di libidine”, che prevedevano una sanzione penale assai inferiore a quella della violenza carnale). Da ciò ne consegue, in buona parte, un “falso” incremento dei reati di violenza sessuale, (considerando che la sola categoria dei delitti di violenza carnale consumata ne costituisce una percentuale sicuramente minoritaria) per un malinteso “giro di vite” della repressione penale, introdotto dall’art. 609 bis del codice penale. Ma c’è di più. Il precitato articolo del codice penale aumenta la sua portata criminogena con la previsione del successivo art. 609 quater, rubricato come “atti sessuali con minorenne”, ove si prevede la configurazione della violenza sessuale per tutti gli atti, privi di violenza o minaccia (e quindi consensuali), con i minori di quattordici anni, e con quelli minori dei sedici, se compiuti dal genitore o da altra persona adulta che conviva con lui. Unico limite, gli atti sessuali consensuali commessi su minori di ogni età, da parte di altri minori con un età , non superiore di tre anni, rispetto alla vittima.


CRIMINOLOGIA Siffatta previsione penale viene a disconoscere, di fatto, l’avvenuto processo di maturità, anche nel campo sessuale, dei minori di anni quattordici, in concomitanza della rapida evoluzione sessuale dei costumi, quando si pensi all’illiceità penale - punita come violenza sessuale - di un rapporto consensuale amoroso scoppiato fra una ragazza di tredici anni e dieci mesi ed un ragazzo di sedici anni e undici mesi, pur limitato alle semplici effusioni sessuali esteriori (baci, carezze, toccamenti ecc.) . Ciò premesso, limiteremo, pertanto , la nostra riflessione sulla personalità dei soli minori che commettono reati di “vera” violenza sessuale-carnale, consumata o tentata, sulla vittima , ben consci che siffatti turpi reati sono una quantità ben inferiore di quella fornitaci dai dati ufficiali, che è pari circa al 2,1- 2,3 del numero totale dei reati commessi dai minorenni (come si evince dai dati del 2° Rapporto precitato, pagg. 549, 551) . La distinzione fondamentale che deve essere fatta, per tali minori, è quella fra adolescenti “normali” e quelli che definiremo “con problemi di natura psicologica”. Per i primi, che hanno apparentemente un idoneo sviluppo psico-fisico, quanto ad intelligenza ed introiezione di valori di riferimento rispetto al proprio ambiente socio familiare, la genesi della violenza sessuale può scatenarsi o individualmente o in fenomeni di gruppo. A proposito di questa distinzione, deve rilevarsi che è la stessa legge penale a prevedere due reati autonomi per indicare, da un lato, la violenza sessuale individuale (art. 609 bis cod. pen., che prevede una pena base della reclusione da cinque a dieci anni), dall’altro, quello, ben più grave , della violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies, cod. pen., che prevede la pena base della reclusione da sei a dodici anni). Individualmente, una delle molle principali alla violenza può consistere nella dimostrazione di essere un duro esibizionista (che si richiama molto

all’atto di bullismo) nei confronti di una vittima (indifferentemente di sesso diverso od omologo) che viene considerata come debole e sottomessa. Certamente la predetta , per la sua attraente presenza percepita dall’autore del reato, suscita in lui un palpabile richiamo, un’attrazione significativa, che lo induce al passaggio dell’azione criminosa (cosiddetto acting out ). La “conquista” violenta eccita il minore, che perde i freni inibitori, che gli sono normalmente propri, e si insinua in lui una volontà di “possesso” esclusivo della sessualità della vittima. A questo proposito Francesco Introna, in “Lineamenti di criminologia minorile”, pag.124 nota giustamente che : “la violenza carnale può essere condizionata dal comportamento provocatorio o semi-consenziente della vittima e questo è a sua volta condizionato da un'evoluzione del costume sessuale : se qualche decennio addietro il petting era raro mentre ora è molto diffuso, è chiaro che oggi si determinano, rispetto al passato, molte più occasioni perché uno dei due partners del petting (il maschio , quasi sempre ) voglia ad un certo momento andare oltre e giungere fino al coito. D'altra parte la vittima ha, a secondo dei tempi e dei costumi sessuali, una diversa disponibilità a denunziare una violenza carnale o a denunciare come violento un coito consentito o semiconsentito”. Compiuto il turpe atto sessuale violento, dopo l’immediato “godimento”, il ricordo dei pianti, delle urla della vittima, gli fanno venire in mente, lucidamente, quasi riacquistando un’apparente normalità, la possibilità dei rischi che corre nel caso di una denuncia della persona violentata, ed allora egli mette in atto la seconda fase del suo comportamento violento , con la minaccia, spesso accompagnata da schiaffi ed urli, per intimorire sempre di più la vittima, di non proferire parola con nessuno di quanto è successo fra loro.

Alle volte l’autore , fidando sempre su una forma di sudditanza psicologica indotta che pensa di percepire nella persona violentata, e qualora ritenga che essa, nonostante tutto, abbia subito il “fascino perverso” della sua violenta personalità (quasi una specie di sindrome di Stoccolma), lucidamente la lascia libera, ricevendo dalla stessa la promessa di rivederla al suo “richiamo”. E così può iniziare una serie ripetuta di violenze che terminano soltanto quando la vittima, acquistata un minimo di forza psichica e stanca dei continui soprusi, prende il coraggio di denunciare tutto, prima in famiglia e poi all’autorità costituita. Il violentatore di gruppo - composto da minori che possono considerarsi psico-socialmente “normali” - nasce, criminologicamente per una serie concomitanti di cause, alcune coincidenti, altre estremamente diversificate rispetto a quelle che

abbiamo rilevato per l’autore della violenza sessuale che agisce individualmente. Invero, prevale in lui l’appartenenza al branco e alle direttive imposte dal componente leader (e, pertanto, può parlarsi di baby gang, solo se ripete più volte dette violenze, come finalità prevalente della aggregazione criminale di appartenenza) in cui l'adesione alle predette regole ha una valenza rassicurante per il singolo componente, tendendo a sottrarlo ovviamente purtroppo in maniera negativa – alla sua insicurezza e mancanza di autostima . Infatti il violento rapporto sessuale multiplo, nella sua crudele sadicità di umiliare la povera vittima, viene ad affermare

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Á


CRIMINOLOGIA un concetto (distorto!) di virilità per ciascun componente del gruppo di violentatori, tendente a “valorizzare” la sua persona. Talora non vi è una premeditazione nella commissione dell’azione criminosa, bensì , spesso, subentra la “molla” dell’occasione “fortunata”, quale quella delle circostanze favorevoli ambientali ( il trovarsi, ad esempio, in un luogo appartato ), o di una malintesa preliminare “disponibilità” da parte della stessa vittima (che, per ipotesi, scherza con gli appartenenti al gruppo con frasi a doppio senso, sulla sessualità in generale).

Nella foto: violenza

Allora è un attimo, e ad un cenno del capo branco, tutti si scagliano sulla malcapitata vittima, cercando di possederla con una turpe violenza . Come si diceva un tempo “è l’occasione che fa l’uomo ladro”, o meglio, nel nostro caso lo rende un violentatore! Durante la violenza sessuale alle volte si riprende con il telefonino le sequenze della medesima , ma non sempre si diffonde il filmato via internet, a differenza della violenza di gruppo perpetrata per finalità di bullismo, sintomo, in questo ultimo caso, della smania di esibizionismo propria di tutti i componenti di quel branco, che ne impone la diffusione globale informatica al fine della dimostrazione della propria “bravata”. In questo contesto si pone la sottile distinzione criminologica fra la tipologia di gruppo violentatore, che sia bullo o meno.

Essa non incide né sulla forma della violenza, che rimane in entrambi i casi di una gravissima brutalità, né nella sua definizione giuridica che rimane uguale per entrambe come violenza sessuale di gruppo, ma, semplicemente, sulla finalità, per così dire, sociologica dell’azione delittuosa perpetrata, che consiste nel dimostrare, commettendo la violenza, una volontà istrionica da parte del branco violentatore con i connotati propri dei bulli, che prevale su quella del mero godimento sessuale, mentre , al contrario, appare lo scopo di una volontà esclusivamente volta al soddisfacimento del desiderio fisico per l’altro tipo di gruppo . Invero, quanto ai fini della punizione penale, entrambe le tipologie di violenza sessuale di gruppo sono assolutamente identiche, ricevendo lo stesso trattamento sanzionatorio, poiché l’eventuale finalità “bullistica” non incide sull’elemento del dolo generico proprio del reato previsto nell’art.609 octies, del codice penale, che come detto, punisce la violenza sessuale di gruppo da sei a dodici anni di reclusione. Spesso l’aggregazione dei violentatori a fine di bullismo è formato da adolescenti di buona famiglia, generalmente studenti ed incensurati. E’ prevalente in loro, spesso , una volontà di “scherzo” malinteso, che li porta a commettere atti così gravi, alle volte, senza quasi rendersene conto, trascinati, come già detto, da un impulso che approfitta di una situazione a loro favorevole. Come è già stato detto la stessa vittima non è stata, premeditatamente prescelta, ma risulta sovente occasionale, in base alla fortuita situazione che rende loro “tutto più facile”. E’, in questa tipologia del branco di violentatori formato dai bulli, come abbiamo detto, pur sicuramente esistendo l'appagamento sessuale, è assolutamente prevalente il momento istrionico del divertimento, quasi goliardico, senza pensare minimamente ai gravi danni fisici e psicologici che la vittima riceve. In alcuni casi famosi di cronaca, infatti si

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è visto che solo alcuni dei componenti della banda dei bulli ha effettuata la violenza sessuale, mentre altri, i più piccoli di età, si sono limitati a guardare e a fotografare l’evento , quasi una forma di “apprendistato” imposta dal loro capo e dai compagni più smaliziati. Dal quadro sovraesposto della violenza sessuale commessa da un minore definibile “normale”, di natura occasionale, emergeva la constatazione di Freud che segnalava siffatta forma di regressione all'infanzia, determinata da un incompleto sviluppo della libido, non come una malattia o una perversione, scrivendo nel suo libro del 1905 “Le aberrazioni sessuali”, in “ Tre saggi sulla teoria sessuale”, trad. it., Torino, Boringhieri, 1975, pag.43 : “Dove la situazione è favorevole, anche l'individuo normale può porre per tutto un periodo simile perversione al posto della meta sessuale normale oppure accoglierla accanto ad essa. In nessun individuo sano viene a mancare una qualche aggiunta , da chiamare perversa, alla meta sessuale normale, e questo fatto generale basta di per sé solo a dimostrare l'inopportunità di un impiego moralistico del nome di perversione”. La seconda categoria di adolescenti che possono commettere atti sessuali violenti è composta da minori con problemi psicologici derivanti da grave immaturità affettiva o sociale (a sua volta causata da frustrazioni e carenze affettive subite in famiglia, grave labilità dell'umore, debole autocontrollo, impulsi di autoaffermazione come compensazione al senso della propria insufficienza o incapacità , insofferenza all'autorità in generale ecc.) o con disturbi di natura psichiatrica, spesso parafiliaci. A proposito di questi ultimi si deve sottolineare che il termine parafilia nasce nel Manuale Diagnostico Statistico DSM-III, APA del 1980, sostituendo la precedente dizione di perversione o deviazione sessuale. Successivamente nel DSM-5 del 2013


STORIE si sottolinea a pag. 795 come : “alcuni di essi per venire soddisfatti, comportano azioni che, a causa della loro nocività o potenziali pericoli per altre persone, vengono definiti come reati”. In particolare il DSM-5 ne elenca analiticamente otto, precisamente il disturbo voyeuristico (l'osservazione “nascosta” di persone nude o che fanno l'amore ), quello esibizionistico (la manifestazione esterna, improvvisa e inaspettata, della visione dei genitali a terzi), il flotteuristico (il toccamento del corpo di una persona approfittando di una situazione di confusione), il disturbo da masochismo sessuale (il godimento sessuale derivato dalla inflizione di sofferenze da parte del partner), quello da sadismo sessuale (l'eccitazione sessuale derivata dall'infierire con umiliazioni e con violenza sul partner, il pedofilico (l'interesse sessuale verso i minori di anni quattordici), il disturbo feticistico (stimolazione dell'eccitazione derivante dal toccamento di oggetti) e infine quello da travestitismo (l'uso di abiti dell'altro sesso che produce stimoli di godimento). I soggetti in questione, soprattutto se minori, vivono la loro personale sessualità, in maniera problematica , con una distorsione dei comportamenti spesso indicativi di un loro “disturbo” (ad esempio, la presenza di una continua e irrefrenabile voglia di masturbazione in pubblico) . L’altro sesso viene visto con paura , quasi ossessivamente, con l’ angoscia di una pseudo-coscienza della propria “diversità” . Per tale motivo è possibile che siffatti adolescenti si indirizzino prevalentemente verso bimbi di pochi anni, molto più piccoli rispetto alla loro età e normalmente dello stesso sesso, che sono assolutamente indifesi, per sfogare su di essi i loro bassi istinti sessuali, con il dominio violento del loro maggiore sviluppo fisico che può sfociare, in alcuni casi, con l’uccisione della piccola vittima , previamente violentata, per impedirle qualsiasi possibilità di denuncia. F

di Antonio Parente rivista@sappe.it

Donato Carretta:

un ingiustificabile oblio sul direttore di Regina Coeli trucidato nel 1944

N

el corso della vita può capitare di essere, involontariamente al centro di un lieto avvenimento o di una grave ed incresciosa situazione. Capita pure che questa incresciosa situazione sia volutamente tenuta nascosta per motivi familiari come capita sovente nella storia di un Paese che un fatto “grave” venga volutamente ed artatamente tenuto nascosto per fini “partitici”. Allora si aspetta che l’oblio stenda un velo pietoso sull’accaduto e che meno se parla e meglio è, anche se a distanza di decenni. Pochi, infatti conoscono la tragedia di Donato Carretta. Ai più uno sconosciuto, ma ben noto in alcuni ambienti politici italiani della sinistra. Ma ciò che meraviglia è che se si chiede di lui nel suo antico “posto di lavoro” si scopre che effettivamente l’oblio ha raggiunto il suo scopo. Donato Carretta un uomo al posto sbagliato nel momento voluto. Ma senza ulteriore indugio sciogliamo questo pietoso enigma. Un triste episodio che segnò luttuosamente la vita di Regina Coeli è infatti legata al barbaro assassinio del Dottore Donato Carretta, Direttore di quel carcere, avvenuto il 18 settembre del 1944. Il Carretta, presente quel 18 settembre, nel Palazzo di Giustizia di Piazza Cavour (Cassazione) quale testimone nel processo contro l'ex Questore Pietro Caruso (accusato di rastrellamenti, arresti illegali, violazione dell'extraterritorialità della Basilica di S. Paolo, torture e di collaborazionismo con i tedeschi nell'eccidio delle Fosse Ardeatine) fu assalito da una donna presente in aula, che gli si scagliò contro accusandolo di essere complice del Caruso per la strage delle Fosse Ardeatine dove era

morto il proprio figlio (Ranzato G. 1997). La folla, accorsa numerosissima in un'aula incapace di contenerla, trovò la vittima da immolare ed il capro espiatorio su cui sfogare la propria rabbia. La folla pronta a vendicarsi ed inviperita per di più dalla momentanea sospensione del processo, senza neanche interrogarsi sulla identità del malcapitato lo assalì a bastonate, pugni e calci riducendolo in fin di vita. Il Carretta fu trascinato fuori del Palazzo di Giustizia e disteso sui binari del tram per essere schiacciato, ma il tranviere si rifiutò ed il corpo fu allora scaraventato nel sottostante fiume Tevere, dove alcuni barcaioli, a colpi di remi, continuarono ad infierire sul corpo martoriato. Il cadavere venne ripescato sotto il Ponte S. Angelo portato sul Lungotevere e trascinato davanti a Regina Coeli dove fu appeso ancora sanguinante a testa in giù alle grate della finestra di lato al portone di ingresso. Giustizia era fatta. Ancora oggi non una targa, non una lapide, ma un voluto oblio assoluto! F

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Nelle foto: sopra una donna accusa Donato Carretta sotto la folla sul Lungotevere assiste al martirio del cadavere di Carretta da parte dei “barcaroli”


DIRITTO E DIRITTI

Giovanni Passaro passaro@sappe.it

Le fonti sovranazionali del diritto penitenziario

I

Nella foto: la sede dell’ONU a New York

l tema dei diritti dell’uomo è oggi al centro dell’interesse dell’opinione pubblica mondiale. E’ a livello nazionale che la tutela delle persone private della libertà è diventata sempre più frequentemente oggetto di attenzione da parte della Comunità Internazionale, e lo dimostrano le infinite Convenzioni, Dichiarazioni e Risoluzioni presenti in materia.

L’art. 9 prescrive che “nessuno potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato”. Infine l’art.10 stabilisce che “ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale

Il risultato finale è stato non solo il riconoscimento di quanto contenuto dalle Convenzioni a principi generali nell’orizzonte Europeo, ma anche l’esplicarne efficacia diretta nei singoli Stati Membri. A titolo di esempio citiamo: La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948), prevede nel suo art. 3 che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. Secondo l’art. 4 che “nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta saranno proibite sotto qualsiasi forma”. L’art. 5 sancisce che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”.

che gli venga rivolta”. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (adottata a Roma il 4 novembre 1959 e resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955 n. 848), richiamata dall’art. 6 del Trattato di Lisbona che sancisce la piena adesione dell’Unione Europea alla Convenzione e definisci i diritti fondamentali contenuti e garantiti in essa come principi generali. Da ciò è naturale conseguenza che diventassero direttamente operanti negli ordinamenti nazionali, con il grado e la forza di norme comunitarie, ma soprattutto ne discende che i giudici interi dovranno interpretare la legge ordinaria alla luce delle disposizioni convenzionali ed eventualmente disapplicarle in caso di incompatibilità. Sebbene la menzionata Convenzione non preveda espressamente una tutela

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verso la popolazione detenuta, la Corte Europea dei diritti dell’uomo in quanto titolare del potere di giurisdizione concernente la sua interpretazione e applicazione, ha tuttavia interpretato alcune norme di essa e rese applicabili anche a questa materia. Infatti, ha ritenuto applicabile l’art. 3 della Convenzione che sancisce la solenne proibizione delle torture e dei trattamenti inumani e degradanti a tutela delle persone la cui libertà è privata. Questa estensione di applicabilità ha consentito di costruire un sistema di tutela anche su un piano internazionale, affiancandosi ai rimedi ordinari stabiliti da ciascun Stato Membro. L’individuo, infatti, che lamenti una violazione delle norme della Convenzione può ricorrere dinanzi la Corte stessa, e ottenere, a seguito d’indagini e di un‘apposita procedura, una pronuncia che accerti ufficialmente la violazione dello Stato che l’ha commessa; inoltre è richiesto agli Stati di astenersi da qualsiasi prassi che possa ostacolare l’esercizio del diritto di ricorrere dinanzi la Corte. L’esercizio di questo diritto è però subordinato all’esaurimento, a pena d’inammissibilità, dei rimedi ordinari interni a ciascun ordinamento. Le pronunce emanate dalla Corte sono qualificate come vincolanti e da ciò comporta che l’eventuale non adeguamento al dettato della pronuncia da parte dello Stato costituirà un illecito internazionale. Nel corso del tempo, la giurisprudenza della Corte ha racchiuso le varie linee guida in materia in alcuni principi fondamentali: in primo luogo ha esteso l’applicazione del divieto di tortura e di trattamenti inumani e


DIRITTO E DIRITTI degradanti a qualsiasi forma e titolo di restrizione della libertà, comprendendovi quindi sia l’esecuzione della pena sia misure di sicurezza, cautelari, di prevenzione o arresti e fermi; in secondo luogo ha specificato cosa si debba intendere per trattamenti inumani, degradanti e per torture. Nel primo senso, vengono ricondotti quei trattamenti idonei a determinare una umiliazione di apprezzabile gravità; nel secondo senso viene identificato quel trattamento che mira a cagionare volontariamente una sofferenza di particolare entità, e nel terzo senso viene definita la tortura quale trattamento inumano o degradante che causa una sofferenza particolarmente intensa, indipendentemente dal fatto che sia posto in essere al fine di estorcere una particolare condotta dalla vittima. Previsioni complementari sono state prescritte dalla Convenzione per la prevenzione della tortura (sottoscritta a Strasburgo il 26 novembre 1987 e resa esecutiva in Italia con l. 2 gennaio 1989, n. 7). Trattasi di un Comitato Europeo di vigilanza investito del compito di effettuare visite presso case circondariali e istituti per l’esecuzione delle pene. La differenza dell’intervento da parte del Comitato Europeo e la Corte Europea dei diritti dell’uomo consta nel definire il primo intervento come preventivo mentre il secondo come intervento subordinato a una violazione lamentata. Il Comitato ha diritto di accedere nei locali e interrogare persone informate sui fatti; accerta non la singola violazione ma che esistano condizioni tali da favorire possibili torture o trattamenti vietati. Lo stato è tenuto a uniformarsi a eventuali raccomandazioni ricevute e la loro omissione comporterà una sanzione costituita da una dichiarazione di non collaborazione dello Stato. Il Patto Internazionale su diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con L. 25 ottobre 1977 n. 881), all’interno del quale anch’esso esalta all’art. 10, comma 1, che “qualsiasi

individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana”; il secondo comma prosegue stabilendo che “gli imputati, salvo circostanza eccezionali, devono essere separati dai condannati e sottoposti a un trattamento diverso, consono alla loro condizione di persone non condannate; e gli imputati minori devono essere separati dagli adulti e il loro caso deve essere giudicato il più rapidamente possibile”. Infine il terzo comma garantisce che “il regime penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale”. Fu proprio il Comitato dei Ministri della Corte Europea che elaborò le prime “regole minime per il trattamento penitenziario” mediante la Raccomandazione del 1973 n.73. Raccomandazione ispirata al modello delle Nazioni Unite già elaborato nel 1951. Prima di allora non esisteva a livello internazionale un “corpus” di norme che stabilisse un trattamento minimo per i condannati. Entrambe queste fonti possono porsi alla base di quella che è stata definita come la ”Riforma Penitenziaria” in quanto, sebbene semplici raccomandazioni, spinsero i Paesi Europei a riesaminare la regolamentazione in merito e a rinnovarla. In ambito Europeo, la sempre più attenzione rivolta al popolo dei detenuti, ha poi condotto ulteriormente il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a riesaminare la precedente raccomandazione e a elaborarne una versione aggiornata. Fu proposta così la raccomandazione del 12 febbraio 1987 contenente le “Nuove” regole penitenziarie europee sul trattamento minimo dei detenuti, arrivando all’ultima versione aggiornata nel 2006. Tutti gli intenti e gli scopi che fino a quel momento orientarono il Consiglio Europeo, sono stati canonizzati nella prima parte, e racchiusi in veri e propri “principi fondamentali”.

Si stabilisce infatti che: 1. Tutte le persone private della libertà devono essere trattate nel rispetto dei diritti dell’uomo. 2. Le persone private della libertà conservano tutti i diritti che non sono tolti loro secondo la legge con la loro condanna o in conseguenza della loro custodia cautelare. 3. Le restrizioni imposte alle persone private di libertà devono essere ridotte allo stretto necessario e devono essere proporzionali agli obiettivi legittimi per i quali sono state imposte. 4. Le condizioni detentive che violano i diritti umani del detenuto non possono essere giustificate dalla mancanza di risorse.

5. La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera. 6. La detenzione deve essere gestita in modo da facilitare il reinserimento nella società libera delle persone che sono state private della libertà. 7. Devono essere incoraggiate la cooperazione con i servizi sociali esterni e, per quanto possibile, la partecipazione della società civile agli aspetti della vita penitenziaria. 8. Il personale penitenziario svolge una missione importante di servizio pubblico e il suo reclutamento, la formazione e le condizioni di lavoro devono permettergli di fornire un elevato livello di presa in carico dei detenuti. 9. Tutte le strutture penitenziarie devono essere oggetto di regolari ispezioni da parte del governo, nonché di un controllo da parte di una autorità indipendente. F

Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017 • 21

Nella foto: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo


LO SPORT

Lady Oscar rivista@sappe.it

Scherma: Aldo Montano podio europeo e successo in Coppa del Mondo

D

al 12 al 17 giugno la capitale della Georgia, Tbilisi, ha ospitato i Campionati Europei 2017 di scherma. In attesa dell’evento iridato di Lipsia che si svolgerà a luglio, gli specialisti della disciplina si sono ritrovati nel Caucaso per contendersi i dodici titoli continentali in palio. L'Italia ha segnato il record di podi riportando a casa un carico di ben 11 medaglie, una in più di quanto raccolto nell'edizione 2011 di Sheffield, e con la leadership nella classifica finale per nazioni. Nel medagliere vanno quattro ori, tre argenti e quattro bronzi.

Nella foto: la squadra di sciabola maschile

Il ricco bottino è arrivato grazie alla sciabola maschile, con il quartetto azzurro composto da Luca Curatoli, reduce dal bronzo individuale, Luigi Samele, Enrico Berrè ed il portacolori della Polizia Penitenziaria Aldo Montano. Il team ha conquistato la piazza d'onore bissando quella dello scorso anno a Torun. I ragazzi del CT Giovanni Sirovich, dopo aver esordito ai quarti superando per 45-37 i padroni di casa della Georgia, hanno avuto ragione della Germania in semifinale col punteggio di 45-39, completando una rimonta iniziata a metà match grazie dapprima a Gigi Samele, proseguita poi da Enrico Berrè e conclusa da Luca Curatoli. Nell'assalto finale, però, è stata l'Italia a subire la rimonta da parte dei campioni in carica della Russia, che hanno concluso col punteggio di 45-

41. Nel medagliere complessivo all time comanda la Russia con 63 ori davanti all’Italia che di metalli più pregiati ne conta due in meno. Terza l’Ungheria, nettamente distaccata a quota trentuno. Un anno fa finì con il dominio russo (sei ori su dodici a disposizione), mentre al secondo e al terzo posto giunsero Francia e Italia (l’unica vittoria italiana portò la firma di Arianna Errigo nel fioretto). Fuori dal podio invece la Nazionale di spada femminile. Il quartetto composto da Rossella Fiamingo, Mara Navarria, Giulia Rizzi ed Alberta Santuccio, dopo aver vinto il primo assalto di giornata contro la Svezia per 45-31, è stato sconfitto per 45-42 dalla Francia nel match dei quarti di finale. In seguito, le azzurre hanno subìto anche il 40-34 dalla Polonia e poi la stoccata del 32-31 contro l'Ucraina, chiudendo così all'ottavo posto in classifica finale. L'appuntamento con la rassegna continentale è all'edizione 2018 che si svolgerà a NoviSad, in Serbia. La prima edizione risale al 1981 (a Foggia), l’ultima è dello scorso anno in Polonia, a Torun. Un argento a squadre che impreziosisce ulteriormente il palmares di Aldo Montano, olimpionico esperto, volto noto anche della cronaca rosa oltre che rappresentante delle Fiamme Azzurre. Da poco padre (a febbraio è nata Olympia), Aldo è reduce dal successo in Coppa del Mondo ottenuto a Madrid lo scorso 21 maggio. L’Italia ha, infatti, vinto la gara a squadre che concludeva la tappa spagnola del circuito di Coppa del Mondo. Tra i grandi protagonisti di quest’impresa c’è stato proprio il livornese portacolori della Polizia Penitenziaria. Punta di diamante del quartetto azzurro, composto altresì dai compagni Luigi Samele, Enrico Berrè

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e Luca Caratoli, il nostro Aldo con i suoi decisivi assalti ha contribuito a far superare nettamente, per 45-34, la Russia nella sfida finale che ha permesso alla squadra italiana di salire sul gradino più alto del podio. L’Italia ha concluso così la stagione di Coppa del Mondo a squadre, caratterizzata da un ottimo ruolino di marcia. Gli azzurri del CT Giovanni Sirovich hanno vinto oltre alla gara di Madrid anche quella di Gyor in Ungheria, salendo poi sul secondo gradino del podio nelle altre tre gare stagionali a Dakar, Padova e Varsavia. Montano e compagni, sulle pedane madrilene, hanno iniziato la giornata trionfale vincendo per 45-40 l’assalto contro la Turchia previsto dal tabellone dei 16. AI quarti è poi giunto il successo contro la Francia col netto punteggio di 45-34, a cui ha fatto seguito la vittoria contro la Romania per 45-39. TBILISI (13/17 giugno) Campionati Europei di scherma – sciabola M: (1) Max Hartung GER, (2) Aron Szilagyi HUN, (3) Sandro Bazadze GEO e Luca Curatoli ITA, (38) ALDO MONTANO (Q/2V-3S, 64: S/Oleksiy Statsenko UKR 8-15); sciabola squadre M: (1) Russia, (2) Italia/ALDO MONTANO-Luigi SameleEnrico Beré-Luca Curatoli (16: bye, QF: V/Georgia 45-37, SF: V/Germania 45-39, F: S/Russia 41-45) COPPA DEL MONDO – Sciabola maschile – Prova a squadre 21 maggio 2017 Finale ITALIA b. Russia 45-34 Finale 3°-4° posto Ungheria b. Romania 45-43 Semifinali ITALIA b. Romania 45-39 Russia b. Ungheria 45-38 Quarti ITALIA b. Francia 45-34 Romania b. Usa 45-41 Ungheria b. Iran 45-35 Russia b. Germania 45-35 Tabellone dei 16 ITALIA b. Turchia 45-40 Classifica: 1. ITALIA (Luca Curatoli, Enrico


LO SPORT Berrè, Luigi Samele, Aldo Montano), 2. Russia, 3. Ungheria, 4. Romania, 5. Usa, 6. Iran, 7. Francia, 8. Germania. F

"Ora d'acqua" per i ragazzi del Minorile milanese

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razie alla collaborazione della Fondazione Candido Cannavò, al Beccaria e a San Vittore è divenuta una bella realtà l'idea della Canottieri Milano di portare il canottaggio dietro le sbarre. Molti sono stati finora i giovani che, dopo aver dato l'immancabile calcio a l pallone, si sono incuriositi ed hanno iniziato a provare il remoergometro. Il canottaggio è uno sport completo e al di là dei benefici fisici della disciplina l’idea di introdurlo nasce dalla possibilità di far fare ai reclusi qualcosa in gruppo, con gare e spirito di competizione. Più che il risultato conta la possibilità di fare squadra che può risultare importante per superare le differenze caratteriali o le singole nazionalità che si confrontano in un ambiente come il carcere. Regole e rispetto, come in qualunque attività sportiva organizzata. Donata Minorati, azzurra a Los Angeles 1984 nel canottaggio, si è offerta come istruttrice in tale bella iniziativa. Il progetto, denominato "Ora d’acqua", è stato varato nei carceri milanesi, ma ha ottime possibilità di essere esteso a tutto il Paese. Olimpia Monda, direttore dell’istituto penitenziario minorile Beccaria, ha sposato in pieno il progetto nato sei anni or sono presso la Canottieri di Milano. Francesco Stoppa è responsabile e curatore del progetto. Il lavoro viene svolto dietro le sbarre con remoergometri, ma una volta l’anno si può uscire (a luglio) e la sfida è sui navigli come fanno alcuni dei 1400 ragazzi che partecipano ai corsi estivi della Canottieri. Ora d’acqua per alcuni diventa anche un'ora di libertà... F

GIUSTIZIA MINORILE

DGMC: Nuovo protocollo d’intesa

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l 9 giugno 2017, in occasione della X Assemblea Nazionale della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia tenutasi nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, il Capo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, Gemma Tuccillo, e la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Ornella Favero, hanno firmato un protocollo d’intesa finalizzato ad una maggiore integrazione delle attività di volontariato con i servizi minorili e gli uffici di esecuzione penale esterna. In particolare, il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità riconosce la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia quale interlocutore di riferimento per le scelte programmatiche che riguardano gli ambiti di intervento del volontariato nel settore della giustizia minorile e si impegna ad agevolare l’accesso e lo svolgimento delle attività dei volontari, in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna per i servizi minorili. In merito alla firma del protocollo, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha commentato che «è un accordo importante, che risponde all’esigenza di promuovere un ulteriore e più intenso percorso di collaborazione con le organizzazioni di volontariato che aderiscono alla Conferenza Nazionale». «Il Protocollo d'intesa – continua il Guardasigilli – delinea un percorso ambizioso e importante e avviene in un momento in cui speriamo di giungere presto all’approvazione della riforma del processo penale, che contiene la delega al Governo a risistemare l’ordinamento penitenziario, facilitando tra l’altro il ricorso alle misure alternative,

Ciro Borrelli Dirigente Sappe Scuole e Formazione Minori borrelli@sappe.it

eliminando automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, valorizzando il lavoro e riconoscendo il diritto all’affettività». I due firmatari del protocollo d’intesa realizzeranno una mappatura e una banca dati delle agenzie di volontariato impegnate nel settore dell’inclusione e del reinserimento di persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, favoriranno la stipula di convenzioni per lo svolgimento di attività a beneficio della collettività, promuoveranno l’offerta di programmi di accoglienza residenziale per chi non può accedere a misure di comunità, svolgeranno un lavoro di sensibilizzazione della collettività in materia di misure e sanzioni di comunità.

Il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, inoltre, promuoveranno attività riabilitative e riparative, collaboreranno all’offerta di attività culturali, sportive e ricreative, promuoveranno l’accompagnamento nelle misure di comunità e nei rapporti con la famiglia. L’accordo di collaborazione ha efficacia per tre anni e verrà rinnovato con il consenso delle parti. F

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Nella foto: un istituto minorile


a cura di Giovanni Battista de Blasis

CINEMA DIETRO LE SBARRE

Camp X-Ray

Regia: Peter Sattler Soggetto e Sceneggiatura: Peter Sattler Fotografia: James Laxton Montaggio: Geraud Brisson Musica: Jess Stroup Scenografia: Steven M. Luna Costumi: Christie Wittenborn

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Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

amp X-Ray è un film drammatico del 2014 scritto e diretto da Peter Sattler, con Kristen Stewart, Peyman Moaadi e John Carroll Lynch, premiato al Sundance Film Festival. Ambientata nel 2008, la pellicola racconta la storia della giovane Amy Cole che, per fuggire dalla sua vita monotona, si arruola nell'esercito per andare in servizio in Iraq. Purtroppo per lei, però, la giovane soldatessa viene assegnata al campo di prigionia di Guantánamo dove dovrà svolgere le funzioni di polizia penitenziaria. Il film, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non prende né la strada dell’action, né quella del cinema d’inchiesta restando più sul genere melò interculturale, in cui le violenze fisiche ai prigionieri restano in secondo piano rispetto alle loro conseguenze psicologiche e alla storia di un uomo e una donna. Dopo prevedibili difficoltà di adattamento e dopo aver fatto i conti con una serie maltrattamenti e abusi

la scheda del film

Produzione: GNK Productions, Gotham Group, Rough House Pictures, Upload Film, Young Gang Distribuzione: PFA Films

da parte dei suoi superiori, Amy riesce finalmente ad adeguarsi al suo nuovo lavoro arrivando, addirittura, a stringere un rapporto particolare di amicizia con Alì, un prigioniero tunisino arrestato a Brema in Germania e rinchiuso lì da otto anni con il numero identificativo 471, nonostante sia innocente. Alì, a parte dormire e mangiare, ha come unico passatempo la lettura di Harry Potter e il sudoku. Tuttavia, Amy non riesce ad adeguarsi alla violenza banale e gratuita distribuita regolarmente e senza scalpore ai prigionieri come, ad esempio, i letti senza cuscini, le notti con la luce sempre accesa, le docce in pubblico, l’alimentazione forzata, gli interrogatori casuali ... Diventa, quindi, salvifico per lei, il legame con il prigioniero musulmano che la chiama “Blondie” e cerca di instaurare con lei un rapporto personale e un canale di comunicazione privato. Un legame che cresce faticosamente tra il cortile della prigione e la porta della cella, all’ombra di commilitoni bruschi e immaturi e altri detenuti. Il legame con Alì nasce perché Alì si comporta come un occidentale, cioè segue schemi mentali e linguistici ed ha perfino gusti occidentali. Alla fine, il messaggio è l’invito alla mediazione culturale, laddove entrambe le parti camminano nella stessa direzione. F

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Personaggi e interpreti: Col. Drummond: John Carroll Lynch Amy Cole: Kristen Stewart Ransdell: Lane Garrison Ali Amir: Peyman Moaadi Mary Winters: Tara Holt Rico Cruz: Joseph Julian Soria Giornalista: Nawal Bengholam Detenuto n.1: Mark Naji Detenuto n.2: Anoop Simon Detenuto n.3: Robert Tarpinian Guardia: Richard Serio Bergen: Cory Michael Smith IRF #1: LaDell Preston IRF #2: Daniel Leavitt Madre di Cole: Julia Duffy Mahmoud: Marco Khan Raymond Jackson: Ser' Darius Blain Mary Winters: Tara Holt Ehan: Yousuf Azami Genere: Drammatico Durata: 117 minuti, Origine: USA 2014


SAPPEINFORMA

Allarme rosso organici della Polizia Penitenziaria: nei prossimi anni in pensione più di diecimila poliziotti

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o scorso 14 febbraio, nella seduta n.463, la prima Commissione Affari Costituzionali del Senato ha approvato il seguente emendamento: «2-bis. Al fine di assicurare compiuta attuazione alla proroga sino al 31 dicembre 2017 delle graduatorie di cui al comma 2 e per incrementare l’efficienza delle carceri, l’Amministrazione penitenziaria, nell’ambito delle facoltà assunzionali relative all’anno 2016 previste dall'articolo 66, comma 9-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in deroga a quanto previsto dall'articolo 2199 del codice dell'ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, e successive modificazioni, è autorizzata ad assumere nel ruolo iniziale del Corpo di polizia penitenziaria 887 unità di personale, in via prioritaria, mediante lo scorrimento delle graduatorie dei vincitori dei concorsi di cui al predetto articolo 2199, comma 4, lettera b), e, per i posti residui, mediante lo scorrimento delle graduatorie degli idonei non vincitori dei medesimi concorsi approvate in data non anteriore al 1° gennaio 2012 attribuendo, in ogni caso, precedenza alle graduatorie relative ai concorsi più recenti». Dunque, per l’anno in corso saranno assunti nel Corpo di Polizia Penitenziaria 887 nuovi poliziotti. Indubbiamente, il provvedimento legislativo appena richiamato, dà una grossa boccata di ossigeno, vista la persistente carenza di organico che affligge il Corpo. Purtuttavia, se si analizzano i dati del personale in servizio, e si fanno delle semplici e comprensibili proiezioni, lo scenario futuro appare quasi catastrofico. Attualmente in servizio, infatti, ci sono circa 9.200 poliziotti penitenziari che hanno una età anagrafica compresa tra 50 e 60 anni e circa 19.000, invece, sono quelli che hanno età tra i 40 e i 50

anni. Addirittura, 1.350 appartenenti hanno più di 55 anni e nei prossimi quattro anni saranno congedati. Entro il 2027, quindi, 9.200 agenti, con il solo criterio del pensionamento per “vecchiaia”, ovvero per sopraggiunti limiti di età (60 anni), andranno in quiescenza. A questa cifra, poi, vanno aggiunte le cessazioni dal servizio che si verificano ogni anno (solo nel 2016 risulterebbero essere ben oltre le 500), fra le quali le infermità dovute per cause di servizio o per altre cause, le condanne penali, le destituzioni, le dispense per scarso rendimento, i passaggi ad altre amministrazioni, i nuovi impieghi e, purtroppo, anche i decessi. L’Amministrazione, allora, per mantenere inalterate le dotazioni organiche che ha fissato unilateralmente nell’ultimo schema di Decreto in corso di approvazione al Ministero della Giustizia, dovrà obbligatoriamente indire concorsi pubblici per non meno di 1.000 unità l’anno. Se si pensa, per meglio far comprendere, che nel 2016, a causa della procedura concorsuale interrotta dalla Magistratura per presunte infiltrazioni mafiose, nessun poliziotto è stato immesso nei Ruoli e che nel 2017 saranno 887 i nuovi, ben si comprende che già si è molto al di sotto la media di assunzioni annue che, come detto, dovrebbe attestarsi in più di mille uomini all’anno. Ancora più allarmanti sono le previsioni sul medio-lungo periodo. Questo perché, oggi in servizio, circa 19.000 appartenenti alla Polizia Penitenziaria hanno una anzianità compresa tra i 40 e i 50 anni. Senza essere dei matematici, si comprende come fra meno di 20 anni i poliziotti che avranno ottenuto la dispensa, esclusivamente per il raggiungimento del sessantesimo anno di vita, saranno ben al di sopra dei 30.000 (circa 10.000 nei prossimi 10 anni e 20.000 nei prossimi 20 ai quali vanno sommati i cessati dal servizio per altre cause), mentre il trend assunzionale del nostro Dipartimento, a voler essere fortemente ottimisti e

magnanimi, è molto inferiore ai mille nuovi assunti ogni anno (la media degli ultimi 2 anni, 2016-2017, è di 444 unità nel 2016 e 444 unità nel 2017). La proiezione sui prossimi venti anni, invece, apre uno scenario quasi fantascientifico, considerando che le assunzioni medie\annue dovrebbero raggiungere la quota, evidentemente utopistica, di 1.500 assunzioni. Si consideri, ancora, quale altro elemento di riflessione per i nostri amministratori, che 4.250 appartenenti al Corpo hanno una anzianità di servizio compresa tra i 30 e 40 anni, mentre 17.200 sono alle dipendenze del D.A.P. da oltre 20 “moti di rivoluzione”. Ancora, su un totale di 32.000 appartenenti al Ruolo degli agenti/assistenti ben 24.500 ricoprono la qualifica di assistente capo, mentre appena 2.500 quella di agente e circa 3.100 quella di agente scelto. Dei 24.500 assistenti capo, 6.500 hanno più di 50 anni e circa 1.000 di loro più di 55anni. Il Corpo, da quanto si evince palesemente, è composto da uomini sempre più “anziani”, sempre più logori da anni e anni passati “in prima linea” al servizio del cittadino e dell’intera comunità. Donne e uomini che hanno subito decine di aggressioni, che hanno diversi “acciacchi” fisici, che sono stati sottoposti per lustri a turni massacranti e a stress psico-fisico giornaliero. Ecco allora perché è ancora più indispensabile programmare e pianificare il necessario turn-over. Da una attenta analisi dei dati appena espressi, e senza necessità di essere dei dipendenti dell’I.S.T.A.T., è chiaro che, se non vi sarà un deciso intervento da parte degli organi legislativi ed esecutivi dello Stato, le sorti del Corpo di Polizia Penitenziaria sono tutt’altro che rosee. La Polizia Penitenziaria necessita di maggiore rispetto e considerazione. È stato lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a ribadire in occasione della festa del Corpo, che la Polizia Penitenziaria “merita maggiore rispetto, maggiore sostegno, maggiore considerazione e maggiore prestigio sociale, poiché svolge un compito arduo, difficile e di primario interesse per tutti i cittadini” Se non vi sarà una chiara e netta assunzione di responsabilità, soprattutto, da parte della “politica”, a rischio non sono solo i “baschi azzurri”, ma la sicurezza dell’intero “sistema Paese”. F

Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017 • 25

Emanuele Ripa Segretario Locale del Sappe ripa@sappe.it


CRIMINI E CRIMINALI

Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

La strage di via Caravaggio

S

l’anomalia. Così, accompagnato da due agenti di polizia e da un vigile del fuoco, l’avvocato Zarrelli raggiunge il quarto piano del civico 78 di via Michelangelo da Caravaggio, nella parte alta del quartiere Fuorigrotta a Napoli, dove Gemma Cenname abita con il marito, Domenico Santangelo, e la figlia di questi di primo letto, Angela. Forzando la serranda di una finestra, il gruppetto di persone entra nell’appartamento della Cenname. Una volta entrati, e dopo aver riattaccato l’interruttore centrale dell’energia elettrica, la scena che si presenta davanti al manipolo di persone è raccapricciante: sulle pareti, sul pavimento del corridoio, sulla porta del bagno, in cucina, ampie chiazze di sangue. Nella vasca, i corpi di Domenico Santangelo e Gemma Cenname in avanzato stato di decomposizione. Sotto di loro, la carcassa di un cane. La vicenda che propongo questo mese, In una camera, sul letto matrimoniale, il cadavere di Angela Santangelo per l’atrocità dell’esecuzione, creò avvolto in una coperta(1). paura e sgomento in una città come La mattanza si sarebbe consumata, Napoli, tanto da ritenerla uno dei delitti più efferati e misteriosi avvenuti secondo I medici legali, una decina di giorni prima, nella notte tra mercoledì nella città partenopea. La strage che si consumò in via 29 e venerdì 31 ottobre, all'incirca tra Caravaggio e i successivi sviluppi le ore 23:00, 23:30 e le 5 del mattino. processuali che ebbe, se non fosse una I corpi, al momento del ritrovamento, storia realmente accaduta, avrebbe erano in avanzato stato di tutte le caratteristiche per essere decomposizione e presentavano tutti ripresa in un thriller mozzafiato: per le evidenti e diffusi colpi alla testa, inferti, modalità di esecuzione con cui con molto probabilità, con un oggetto vennero ammazzate le vittime; per le contundente, oltre a ferite da arma da vicissitudini del presunto colpevole, taglio alla gola. Le vittime della strage prima condannato e poi assolto e, sono: Domenico Santangelo, 54 anni, soprattutto, per la presenza di un ex capitano della marina mercantile di libro, il cui racconto contribuì a Napoli e all’epoca dei fatti scagionare il colpevole. Il telefono rappresentante di vendita; Gemma della signora Gemma Cenname, da più Cenname, 50 anni, di professione di una settimana, squilla a vuoto. ostetrica, originaria di Camigliano in Il nipote della donna, l’avvocato provincia di Caserta e la figlia di prime napoletano Mario Zarrelli, si nozze dell’uomo, Angela Santangelo, insospettisce e la sera dell’8 novembre 19 anni, impiegata dell'INAM, nonché 1975 decide di recarsi al il loro cane un yorkshire terrier, di commissariato di zona per segnalare nome Dick. Nel corso dei primi olitamente le storie che racconto terminano sempre con l’individuazione di uno o più colpevoli che, dopo essere stati processati, vengono condannati. Dopo più di 60 racconti, a memoria, mi sembra che in un solo caso un delitto sia rimasto privo di un colpevole (“se vinco a scacchi uccido ancora”, n.227 aprile 2015).

Nelle foto: sopra Domenico Santangelo e Gemma Cenname sotto Angela Santangelo

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sopralluoghi sulla scena del crimine, la polizia scientifica, oltre a ricavare delle impronte di scarpa (numero 4142) impresse nel sangue sui pavimenti di alcune stanze e del corridoio, rileva delle impronte digitali su una bottiglia di whisky e una di brandy poggiate su un mobile-radio dello studio di Domenico Santangelo. Inoltre, dall’appartamento risultano spariti alcuni oggetti, tra cui una statuetta di bronzo e il diario personale di Angela. In ultimo, dal garage era sparita l’automobile del Santangelo, un Lancia Fulvia di colore rosso. Particolare importante, soprattutto per i risvolti che avrà la vicenda, è che all’epoca dei fatti, purtroppo, non era ancora possibile rilevare, ricostruire e identificare le tracce biologiche lasciate sui reperti della scena del delitto. Qualche giorno dopo la scoperta dei cadaveri, un uomo, Eugenio Laudicino, che abitava nei pressi della casa del Santangelo, riferì agli inquirenti, che tra la notte del 30 e il 31 ottobre, intorno alle 2, lungo via Caravaggio, a bordo della sua Fiat 500, aveva incrociato una Lancia Fulvia rossa, identica a quella della vittima, che viaggiava contromano a forte velocità. Al volante, secondo la descrizione dell’uomo, vi era un uomo sui 30 anni, aitante e con i capelli mossi. La Lancia sarà ritrovata la sera del 10 novembre in via Nuova Marina, nella zona del porto, abbandonata e con la batteria scarica. Gli inquirenti, dopo alcuni mesi di indagini serrate, giunsero alla conclusione che esistesse un collegamento tra la strage e Domenico Zarrelli, nipote di Gemma Cenname una delle vittime del massacro. La supposizione degli inquirenti si basava su delle dichiarazioni rilasciate da un testimone e su altri elementi indiziari, tra cui, una ferita alla mano del Zarrelli compatibile con un morso di cane. Domenico Zarrelli, all’epoca dei fatti, era un giovane studente universitario della facoltà di giurisprudenza di Napoli, di 34 anni, Il ragazzo figlio di un presidente di Corte d'Appello deceduto, nonché fratello dell'avvocato Mario Zarrelli: l’uomo che aveva segnalato la scomparsa della Cenname.


CRIMINI E CRIMINALI Il 29 marzo 1976, su richiesta del Pubblico Ministero, il Giudice istruttore emette così un mandato di cattura nei confronti di Domenico Zarrelli, con l’accusa di essere l’autore del triplice omicidio. Il giovane viene così arrestato nel mentre si trovava nello studio legale del fratello. Al processo di primo grado, le prove raccolte a carico del Zarrelli si rivelano inconsistenti: l’impronta trovata in casa Cenname è quella di una scarpa di misura 42, mentre Zarrelli porta il 45; i due mozziconi rinvenuti nell’appartamento sono di sigarette “Gauloises”, ma Zarrelli fuma da sempre le HB; gli esami dei periti escludono che le impronte digitali lasciate su un bicchiere possano appartenere ad una delle tre vittime o a Zarrelli(2). Il 9 maggio del 1978, nonostante il giovane si fosse sempre proclamato innocente e la fragilità degli elementi raccolti dalla pubblica accusa, la Corte di Assise di Napoli lo condanna all'ergastolo. All’epoca della strage, altri due nominativi entrarono in particolar modo nelle attenzioni degli inquirenti: una pista collegata a motivi d’affari e una pista (più privilegiata e sorretta da indizi pesanti) collegata a motivi passionali, privati. La prima porta a Gemma Cenname: la donna affittò un capannone di sua proprietà ad un pregiudicato calabrese coinvolto in storie di droga, spacciatosi per un ingegnere chimico; l’altra ad Angela: girarono voci su un medico, un superiore di lavoro di Angela che abitava a non molta distanza da casa dei Santangelo. In appello, il 6 marzo del 1981, i giudici si convinsero che gli elementi contro Zarrelli non consentivano di affermare con certezza la responsabilità dell’imputato e sentenziarono l’assoluzione “per non aver commesso il fatto”. A sostenere la tesi difensiva contribuì anche un libro, un racconto di fantasia ispirato alla vicenda, “Il giorno degli assassini” di Carlo Bernara, pubblicato nel 1980. La tesi elaborata dall’autore nel libro, fatta propria nel corso del processo dal collegio difensivo dell’imputato, era che l’omicidio fosse stato compiuto non da una, ma da più persone, perfettamente

organizzate (3). Domenico Zarrelli, che nel corso della detenzione aveva conseguito la laurea in giurisprudenza, con una tesi sulla “prova indiziaria nel processo penale”, viene così scarcerato. Ottenuta la libertà, inizia il praticantato nello studio del fratello e si sposa con una donna conosciuta durante la detenzione. Un anno e mezzo dopo la sentenza di assoluzione, la Corte di Cassazione annulla la sentenza d’appello rinviandola, per un nuovo processo, alla Corte d’Assise di Appello di Potenza. Nel luglio 1983, Zarrelli viene posto agli arresti domiciliari. Vi passerà sei mesi, fino al 9 gennaio 1984, quando il Tribunale di Potenza si pronuncia per il pieno proscioglimento. Questa volta, la Cassazione conferma il verdetto. E a un anno dall’ultima sentenza, nel novembre ’86, il fratello Mario scrive al Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, e al Ministro di Grazia e Giustizia, Mino Martinazzoli: un ricorso in trenta cartelle, per chiedere l’autorizzazione a procedere civilmente contro due magistrati – Italo Ormanni, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione e Felice Di Persia, Sostituto Procuratore della Repubblica di Napoli – responsabili delle interminabili vicende giudiziarie di Domenico. L’avvocato Zarrelli invoca l’applicazione degli articoli 55 e 56 del codice di procedura civile, secondo i quali il giudice “è civilmente responsabile, quando nell’esercizio delle sue funzioni è imputabile di dolo, frode o concussione”(4). Ancora oggi il coltello da cucina usato nel delitto e la coperta utilizzata per soffocare il cane della famiglia sono custoditi nell'Ufficio Reperti del Tribunale di Napoli dell'ex Tribunale di Castel Capuano e nel 2013 sono stati esposti per la prima volta al pubblico nell'esposizione temporanea, allestita all'interno del Tribunale, “Corpi di reato”, divenendo così inutilizzabili per successive indagini scientifiche. Nell'ottobre 2011, l’allora Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Napoli, Giovanni Melillo, in seguito a un esposto anonimo, in cui venivano indicate informazioni utili al rinvenimento di alcuni reperti

presso gli archivi del Tribunale, dispose nuove analisi scientifiche tra cui quella dell'impronta genetica. Tra i reperti ritrovati negli archivi ci sono un bicchiere usato, alcuni mozziconi di sigaretta, e un asciugamano macchiato di sangue che, a seguito delle analisi effettuate dalla Polizia Scientifica, risultano presentare tracce di origine biologica incompatibili con i profili delle vittime (5). Il 28 agosto 2014 viene diffusa la notizia secondo la quale le analisi scientifiche effettuate sui reperti avrebbero dato come risultato l'individuazione del profilo genetico di Zarrelli(6). Nonostante la conferma dell'identificazione, in base al

principio del "Ne bis in idem" (brocardo latino utilizzato nel diritto per affermare il principio che una persona non può essere processata due volte per lo stesso fatto), Zarrelli non potrà incorrere in un nuovo procedimento penale. Alla prossima... F (1) Cento volte ingiustizia Innocenti in manette di B. Lattanzi, V. Maimone Mursia 1996; (2) Ibidem; (3) I grandi delitti italiani di A. Accorsi, M. Centini Newton Compton Editori, 2013; (4) Ibidem nota 1; (5) Strage di via Caravaggio: sul luogo del delitto il dna dell'imputato assolto, Giuseppe Crimaldi in Il Mattino, 28 agosto 2014; (6) Strage di via Caravaggio, dopo quarant’anni rilevato Dna del principale indiziato ormai assolto, in La Stampa, 28 agosto 2014.

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Nelle foto: sopra i corpi delle vittime immersi nella vasca da bagno sotto Domenico Zarrelli


WEB E DINTORNI

Federico Olivo Coordinatore area informatica del Sappe olivo@sappe.it

Forze di Polizia e Forze Armate: uso consapevole dei social network

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Nelle foto: social network nell’altra pagina la platea del dibattito del 15 giugno

Per visualizzare il video inquadra il codice QR riprodotto sopra

i è svolta il 15 giugno, presso la Scuola di perfezionamento delle Forze di Polizia, a Roma, la presentazione del progetto dal titolo “L’uso consapevole dei social network” da parte degli appartenenti alle Forze di Polizia e alle Forze Armate, in cui è stato proiettato il video "Siamo quello che postiamo".

L’iniziativa è stata presentata dal direttore del TG La7 Enrico Mentana che ha moderato gli interventi del Capo di Stato Maggiore della Difesa Claudio Graziano, il Capo della Polizia di Stato Franco Gabrielli, i professori Mario Marcellini e Annamaria Giannini, rispettivamente Capo Dipartimento Comunicazione della

Il progetto nasce dall’esigenza di sensibilizzare tutti i Poliziotti e i militari sulle conseguenze delle dichiarazioni espresse sui social network attraverso la propria identità digitale che può esporre sé stessi a conseguenze disciplinari o addirittura penali, ma rischia anche di compromettere l’immagine della propria amministrazione di appartenenza nei confronti dell’opinione pubblica. Durante la conferenza è stato proiettato anche un filmato che racchiude le simulazioni di pubblicazioni e interventi inopportuni sui social network in cui gli appartenenti ai Corpi dello Stato possono incorrere. Il video ci ricorda l'uso del social ma sopratutto che cosa comunichiamo con i nostri post e con le foto: #primadipostarepensa perché #siamoquellochepostiamo, o almeno così veniamo percepiti dagli altri.

Sapienza Università di Roma (anche Commissario AGCOM) e docente della facoltà di Psicologia della stessa Università. In sala erano presenti anche tutti i vertici delle altre Forze Armate e Forze di Polizia. Come ha spiegato il Prefetto Gabrielli, l’intento che ha ispirato tutto il lavoro non è stato tanto quello di cercare di “reprimere” i comportamenti degli operatori, quanto quello di informare e sensibilizzare le persone “in divisa” che tali rimangono anche quando scrivono sulla tastiera del proprio computer e del proprio smartphone. Ogni giorno, decine di migliaia di militari e poliziotti, postano foto in servizio, fanno affermazioni sul proprio lavoro e sui propri colleghi, rilasciano dichiarazioni che solo apparentemente rimangono tra la schiera delle proprie amicizie, ma che invece sono esposte sia al legittimo giudizio dell’opinione pubblica sia

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all’utilizzo strumentale da parte di altri soggetti interessati a raccogliere informazioni che dovrebbero rimanere nell’ambito della sicurezza e dell’operatività del proprio servizio. Nel filmato sono presenti numerosi casi, tratti da eventi realmente accaduti, che mostrano come un messaggio apparentemente innocuo o ritenuto divertente, ai limiti dell’ingenuità, possa amplificarsi a dismisura e offrire ad altri una percezione dissonante o addirittura contraria ai valori rappresentati dalla divisa o uniforme che indossiamo in servizio; divisa o uniforme che sui social non possiamo pensare di mettere da parte. Mai. Il fenomeno non è nuovo perché è già da qualche anno che si verificano casi negativi anche eclatanti, ma con la recente diffusione e pervasività dei vari social network (si pensi che in Italia, il solo Facebook ha raggiunto i 30 milioni di utenti attivi ogni mese, di cui 24 milioni attivi ogni giorno), rischia di diventare un comportamento che mette addirittura a repentaglio la propria sicurezza e quella dei propri colleghi. Il Generale di Corpo d’Armata Claudio Graziano ha portato l’esempio di alcuni casi verificatisi in teatri operativi in cui singoli militari, presi dall’entusiasmo e anche dalla comprensibile emozione, hanno commentato sui social l’inizio della missione e il teatro operativo in cui stavano per intervenire. E’ chiaro che un comportamento del genere, non mette a rischio solo il “decoro” dell’amministrazione... Paradossalmente, certi comportamenti sono più frequenti nelle giovani generazioni che dovrebbero essere quelle più abituate e più esperte ad utilizzare i nuovi strumenti e i nuovi linguaggi, ma come hanno spiegato i due professori che sono stati anche i


SEGRETERIE

WEB E DINTORNI curatori del progetto, mentre il personale più anziano ha avuto il tempo di formare la propria identità di militare o poliziotto, in anni in cui certe potenzialità espressive non esistevano (il massimo dei social di allora erano le quattro chiacchiere al Bar Sport), le nuove generazioni si sono ritrovate immerse in un nuovo contesto in cui nessuno prima di oggi ha potuto fare da guida o ha potuto tramandare un’esperienza e avvisare dei pericoli futuri. Ecco perché i ragazzi che oggi ricoprono una doppia identità, quella di comune cittadino e quella di operatore della sicurezza, fanno più fatica a separare i due contesti e rischiano involontariamente di

Penitenziaria si è sottovalutata parecchio la trasformazione che stava avvenendo. Negli ultimi anni, soprattutto con la “complicità” della nostra amministrazione centrale, da sempre incapace di tracciare chiare linee guida nell’ambito della comunicazione pubblica ed istituzionale, sono stati sottovalutati atteggiamenti e comportamenti da parte di tanti colleghi che solo quando hanno raggiunto l’opinione pubblica e quindi hanno rischiato di lambire le responsabilità dei vertici, hanno solleticato l’attenzione del Capo DAP che però, in quei casi, ha dato solo disposizioni per intraprendere indagini sui singoli e con il solo intento repressivo.

rendere pubbliche delle affermazioni dannose per sé e per gli altri. Non mancano certo le eccezioni. Anzi, proprio tra i militari e i poliziotti in pensione, suggerirei di aprire un altro capitolo da approfondire al più presto, ma è innegabile che siamo di fronte ad uno scenario ormai troppo esteso e che aumenterà sempre di più in termini di numero di persone coinvolte e potenzialità espressive a disposizione. Il breve filmato che è stato proiettato in sala e che comunque è più lungo della versione ridotta attualmente resa pubblica (che qui vi mostriamo), è un ulteriore passo che le amministrazioni militari e di polizia, hanno voluto intraprendere per sensibilizzare i colleghi dei rischi, ma soprattutto delle responsabilità che ciascun operatore porta sempre con sé, anche quando pensa di stare nell’intimità della propria cerchia di amicizie e conoscenze. Anche nella Polizia

E’ chiaro invece, e nell’incontro di ieri è stato chiaramente espresso più volte, che solo una consapevolezza diffusa in tutti gli operatori di Polizia Penitenziaria (per rimanere nel nostro ambito), permetterà di utilizzare i social network in tutta sicurezza e responsabilità. Ma questo si potrà raggiungerlo solo con una formazione pianificata, con approfondimenti mirati, con iniziative e linee guida chiare per qualunque poliziotto penitenziario, giovane o anziano che sia. I casi precedenti, il livello di attenzione e le capacità espresse fino ad ora dal DAP, non fanno ben sperare. Il problema riguarda sia il settore tecnologico che quello della comunicazione (argomenti che da tempo non possono essere trattati in modo separato), settori nei quali l’amministrazione penitenziaria, fino ad ora, non ha mai dato prova di comprendere appieno. F

Latina Gli Internazionali di Supermoto al “Sagittario”

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i è tenuta, presso il circuito internazionale de “il Sagittario” di Latina la quinta prova degli Internazionali di Supermoto. Nella classe Supermoto l’adrenalina ha superato i limiti di “legge” concessi!! Si conferma in Red Plate Marc Schmidt 1°/1° (SWM Team BRT) che con due sudate vittorie di manche conquista la classifica di giornata. Mentre nella frazione di apertura il leader della classifica si è ‘limitato’ a controllare gli avversari, nella seconda frazione ad animare gli spettatori sulle tribune, e soprattutto sul web, è stato l’esaltante duello con Diego Monticelli 3°/2° (TM): i due portacolori delle case italiane hanno lottato fino sotto la bandiera a scacchi incrociando più volte le traiettorie e arrivando sulla linea del traguardo distanziati di pochissimi centimetri. A dirigere l’evento il nostro Sovrintendente Ciro Borrelli della Polizia Penitenziaria in veste di Direttore di Gara Nazionale della Federazione Motociclistica Italiana.

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IL LIBRO DEL MESE

Un nuovo libro per Rosa Cirone

dell’epoca. Intanto, quella che oggi chiameremmo un’analisi della scena del crimine ed una valutazione del “profilo” dell’autore del crimine viene fatta, anche se con nomenclatura diversa, dal Capitano del Popolo che con vero piacere che scrivo nel suo racconto riferisce che l’uomo queste poche righe per “senza mostrare la minima introdurre e brevemente emozione ha segnalato di aver presentare lo scritto della Dottoressa ritrovato nel proprio letto la di lui Immacolata Rosa Cirone. Un piacere duplice poiché investe due moglie ...estinta”, segnalando da subito uno stato d’animo dell’uomo diversi momenti della mia vita particolarmente sospetto e che mal si professionale cui tengo molto allo concilia con il dolore che un marito stesso modo. Infatti, attraverso una dovrebbe provare a causa della morte puntuale ricostruzione storica, veniamo condotti in un tempo lontano della moglie. Ancor più illuminante è ove si sviluppano fatti che, purtroppo, l’attività di analisi sullo stato del materasso su cui avrebbe dovuto si ripropongono nella nostra attualità dormire l’uomo per provare che lo in maniera deflagrante. Oggi catalogheremmo la vicenda di cui stesso su quel materasso proprio non ci ha dormito quella notte. Al riguardo trattasi come “femminicidio”. interviene addirittura un tappezziere Un termine molto brutto soprattutto per quello che che, prendendo le misure e con altre trovate che oggi definiremmo creative, sottintende, ovvero un dimostra l’assunto iniziale. Si tratta di omicidio caratterizzato modalità piuttosto grossolane ma che dall’esser donna della dimostrano con quanto ingegno già vittima. Quale cosa più all’epoca si analizzasse la scena del odiosa della violenza crimine. In questi atti può scorgersi cosiddetta di genere che già un vero e proprio fascicolo del proprio in questa parola, sopralluogo di polizia giudiziaria così “femminicidio”, si può come oggi si intende. tristemente apprezzare. Al di là di questi aspetti che più Ciò mi riporta alla mente direttamente risultano connessi con la la prima parte della mia mia attività professionale, non vita professionale più trascurabile è la parte dell’opera in cui recente quando ho avuto modo di si descrive il sistema carcerario del occuparmi di stalking e di reati Granducato di Toscana e le prime connessi con la violenza di genere. aperture liberali in tema di funzione Resto proprio per questo colpito dal rieducativa della pena. percorso che la Dottoressa Cirone sceglie nella sua narrazione: partire da Il miglioramento delle condizioni di vita all’interno dei penitenziari, su cui un fatto di cronaca solo apparentemente lontano secoli da noi, viene gettata una chiara luce, viene posto alla base di quel processo di non dimentichiamo di trovarci rinnovamento e di cambiamento nell’ambito di un crimine del 1836, culturale e concettuale che ruota per descrivere dinamiche purtroppo intorno alla pena. attualissime. Ma nel testo non solo si Dunque, uno scritto che è tecnico ma affronta il tema della violenza di allo stesso tempo racconto, un’idea genere, veniamo, di più, presi per mano e condotti nel vivo di quella che originale tratta da archivi storici che sono pieni di curiose e nel nostro caso oggi definiamo “scena del crimine”, tristi vicende. Uno scritto da leggere la cui “analisi” rappresenta oggi il tutto d’un fiato con la consapevolezza mio lavoro. di addentrarsi, con gli strumenti Di analogie con l’attuale attività di sopralluogo sulla scena del crimine ce dell’epoca, in un fatto di cronaca nera e di conseguenza sulla “scena del ne sono tante ed in modo particolare crimine”. F Paolo Terracciano colpisce la relazione medico-legale

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La copertina del libro della dott.ssa Rosa Cirone

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l microclima è quel complesso di parametri fisici - ambientali (temperatura, aerazione, umidità...) che caratterizzano l’ambiente di lavoro e che assieme a parametri individuali (attività metabolica e abbigliamento) determinano gli scambi termici fra l’ambiente stesso e gli individui che vi operano. Le condizioni microclimatiche che si generano sono così un fattore determinante per la salubrità degli ambienti, poiché interagiscono inevitabilmente con il benessere dei lavoratori. Il conseguimento delle migliori condizioni microclimatiche difatti permette di raggiungere il cosiddetto benessere termico: cioè lo stato di piena soddisfazione nei confronti dell’ambiente lavorativo. L’organismo umano può essere paragonato ad una macchina termica alimentata da combustibili sotto forma di alimenti che vengono trasformati parte in lavoro (10-20 %) parte in calore (80-90%). Ne consegue che l’individuo per essere in grado di mantenere costante la sua temperatura interna (circa 37 gradi), deve dissipare il calore metabolico prodotto in eccesso nell’ambiente. Per mantenere questa condizione di equilibrio stabile è necessario che il Bilancio Termico sia nullo, cioè la quantità di calore prodotta e assunta dall’organismo deve essere uguale a quella dissipata (omeotermia) Senza dover affrontare l’argomento in maniera troppo tecnica, si può semplicemente dire che quando il valore del Bilancio Termico è zero, si è di fronte ad una condizione di benessere termico, quando questo valore è inferiore o superiore a zero, si è in presenza di una mancanza di comfort termico che costringe il nostro organismo ad attivare tutti quei meccanismi di termoregolazione volti a mantenere costante la temperatura interna del nostro corpo. Quando il nostro organismo non è più in grado di contrastare condizioni microclimatiche avverse si è, invece, in presenza di uno stress termico che può cagionare anche effetti negativi


SICUREZZA SUL LAVORO

Decreto Legislativo n.81/2008:

Il microclima seri sulla salute dell’individuo, come: il colpo di calore, il congelamento, l’assideramento o l’esaurimento fisico. Generalmente, in un ambiente di lavoro è possibile trovare due tipologie di condizioni climatiche ambientali: ambienti moderati e ambienti severi. Si possono definire “ambienti moderati” tutti i luoghi di lavoro nei quali non esistono specifiche esigenze produttive, come per esempio uffici, scuole o laboratori. Sono definiti, invece, “ambienti severi” quei luoghi di lavoro nei quali specifiche ed ineludibili esigenze produttive (vicinanza a forni ceramici o fusori, accesso a celle frigo o in ambienti legati al ciclo alimentare del freddo, ecc.) o condizioni climatiche esterne (in lavorazioni effettuate all’aperto, in agricoltura, in edilizia, nei cantieri di cava, nelle opere di realizzazione e manutenzione delle strade, ecc.) determinano la presenza di parametri termo-igrometrici stressanti. A loro volta questo tipo di ambienti termici si dividono in ambienti severi caldi e ambienti severi freddi. La vigente normativa sulla sicurezza dispone che nei luoghi di lavoro chiusi è necessario che i lavoratori dispongano di aria salubre in quantità sufficiente, ottenuta preferibilmente con aperture naturali e, se ciò non è possibile, con impianti di aerazione che non devono causare fastidio ai lavoratori per eventuali correnti d’aria. La ventilazione naturale dei locali di lavoro deve essere realizzata mediante superfici apribili con le modalità previste dai Regolamenti comunali o regionali di igiene edilizia. Anche l’impiego di sistemi meccanici deve rispondere a tali Regolamenti e

Luca Ripa Dirigente Sappe Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza rivista@sappe.it

nello specifico a norme di buona tecnica (UNI ISO 10339). Il D.Lgs. n. 81/08 prescrive, all’allegato IV, che gli impianti di aereazione siano sottoposti a costante manutenzione ed accurata pulizia e sanificazione. Questo al fine di eliminare immediatamente un qualsiasi sedimento o sporcizia che possa comportare un pericolo concreto alla salute dei lavoratori.

si deve, dunque, tener conto dell’influenza che possono esercitare sopra di essa il grado di umidità ed il movimento dell’aria concomitanti, principio che si basa più sul benessere dell’organismo umano che sulla scelta di temperature medie per ogni singolo locale. La temperatura nei locali di lavoro deve essere, infatti, adeguata all’organismo umano durante la permanenza nei luoghi di lavoro,

L’impianto di aereazione deve essere sempre mantenuto funzionante. In presenza, infatti, di lenti ricambi d’aria si determinano condizioni di insalubrità tali, per i motivi precedentemente affrontati, di arrecare sofferenza ai lavoratori. Per escludere queste situazioni, è indispensabile che ogni guasto o mal funzionamento dell’impianto sia prontamente individuato e riparato. Quando le necessità di lavorazione impongono ai lavoratori temperature troppo altre o troppo basse, il datore di lavoro deve provvedere alla difesa dei lavoratori, mediante misure tecniche localizzate o in alternativa con mezzi personali di protezione. Introdotti i concetti di microclima e di benessere termico, nella analisi della temperatura adeguata per i lavoratori,

tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori. Al fine di perseguire lo scopo di generare ambienti di lavoro con elevato benessere termico, si deve, dunque, intervenire costruendo (o restaurando) edifici a regola d’arte. Nello specifico realizzando pareti, superfici e vetrate esterne con ampio potere isolante. Nonché, installando (o potenziando) un impianto di condizionamento e di riscaldamento adeguato alla superficie lavorativa ed al numero dei lavoratori presenti. Non dimenticando, però, che l’impianto dovrà essere continuo oggetto di un’attenta manutenzione che garantisca sempre il pieno, sicuro ed efficace funzionamento. F

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Nella foto: impianto di climatizzazione centralizzato


MONDO PENITENZIARIO

Alessandro Torri Praticante avvocato Collaboratore Segreteria Sottosegretario Cosimo Ferri rivista@sappe.it

Accesso alle misure alternative alla detenzione: forse ci siamo!

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Nella foto: uscita dal carcere

l termine di un lungo percorso parlamentare la riforma del processo penale e dell’Ordinamento Penitenziario è giunta, lo scorso 14 giugno, alla sua approvazione definitiva alla Camera dei Deputati. La riforma, oltre ad affrontare alcune delle tematiche più discusse del processo penale, contiene la delega al Governo per modificare l'Ordinamento Penitenziario ispirata ad una nuova visione di detenzione basata sull'effettiva personalizzazione del trattamento e sul recupero della funzione rieducativa della pena attraverso percorsi di recupero e reinserimento sociale nel quadro della previsione dell’articolo 27 della Costituzione. Un fondamentale ambito di incidenza dei principi e criteri direttivi ai quali il Governo dovrà attenersi è rappresentato dalla disciplina delle misure alternative alla detenzione, delle quali occorre rivedere le procedure di accesso con un intervento di razionalizzazione delle modifiche legislative che si sono succedute e di potenziamento della finalità della misura da attuarsi, armonizzandone il presupposto di accesso con il limite di pena previsto per la sospensione dell’ordine di esecuzione. In particolare, il punto c) del comma 85 del testo di riforma indica la strada per il superamento dell’incoerenza sistematica, a più voci denunciata in questi anni, tra la previsione dell’articolo 47 comma 3-bis

dell’Ordinamento Penitenziario, introdotto dalla legge n. 10/2014 (cd. Svuota-carceri), con il quale il legislatore ha ampliato la possibilità di ricorrere alle misure alternative per coloro che sono stati condannati a “pene, anche residue, non superiori a quattro anni di detenzione”, e la tradizionale disciplina codicistica dettata dall'articolo 656 comma 5 c.p.p. che per la sospensione dell'ordine di esecuzione fa riferimento a coloro che sono stati condannati ad una pena detentiva inferiore ai tre anni di reclusione. Si tratta di un aspetto di grande rilievo sul quale anche il Consiglio Superiore della Magistratura si era espresso, con delibera del 23/01/2014, invitando il legislatore ad intervenire nella direzione di un maggiore coordinamento tra le norme per eliminare le incertezze e garantire una maggiore valorizzazione degli strumenti alternativi alla pena detentiva. Sotto connesso profilo, non sono rare le pronunce della giurisprudenza (di un caso si è occupata proprio in questi giorni la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto) che hanno risolto l'antinomia adottando un'interpretazione evolutiva della norma codicistica anche in virtù dell’esigenza di fornire una risposta più rapida ed efficace all’emergenza del sovraffollamento carcerario che, seppure sia stato in parte risolto, presenta ancora caratteri di instabilità che dovranno essere definiti modificando l’Ordinamento Penitenziario. L’esigenza di intervenire sul piano normativo discende, altresì, dalla necessità di garantire il rispetto effettivo dei principi di cui agli artt. 3 e 27 comma terzo della Costituzione, dovendosi scongiurare il rischio, insito nell'attuale incertezza della disciplina

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applicabile, di non assicurare uguaglianza tra i cittadini che, trovandosi in situazioni analoghe, potrebbero vedersi negato ingiustamente l’accesso alle misure alternative con il conseguente ingiustificato vulnus al conseguimento della primaria finalità della pena di reinserire, rieducare e risocializzare il condannato. Con questa delega si intende fornire una risposta che si pone in continuità con lo spirito della legge del 2014: è lo stesso Parlamento che, al punto c) sopra richiamato prevede che il limite di pena che impone la sospensione dell'ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni. Si tratta di un intervento coerente con le riforme che si sono succedute in questi anni, indirizzate verso il duplice obiettivo, da una parte, di ridurre la popolazione carceraria, e, dall'altra, di fornire una risposta sanzionatoria adeguata alla difesa della società dal delitto commesso. Registriamo dunque il definitivo mutamento dell'approccio culturale con la detenzione e l’esecuzione penale esterna grazie ad una nuova spinta alla valorizzazione dei trattamenti che possono svolgersi, con ottimi risultati in termini di abbattimento della recidiva, anche all’esterno degli istituti penitenziari. L’ampliamento dei casi di applicazione della misura alternativa dell’affidamento ai servizi sociali rappresenta, infatti, una scelta responsabile che va nella direzione di ottimizzare il lavoro affidato all’Uepe e di perseguire la riduzione, nel limite dello stretto necessario, dell’accesso all’ambiente del carcere anche in entrata, con significative conseguenze sulle presenze numeriche all’interno delle strutture. F


MONDO PENITENZIARIO

Legge sull’affettività: tra fantasia e realtà, i possibili scenari

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a tempo, una buona rappresentanza di politici propende per l’approvazione della legge sull’affettività in carcere, garantendo ai detenuti momenti di intimità con i rispettivi partners, dando un ulteriore sostegno al loro graduale reinserimento sociale. Parrebbe essere questo uno dei principi sottesi al disegno di legge n. 1587, presentato qualche tempo fa in Senato, che parte dalla constatazione dell’assenza nel nostro ordinamento della possibilità, per i reclusi, di poter coltivare, all'interno del contesto carcerario, rapporti con i propri cari che non siano soggetti al previsto e inflessibile controllo visivo della Polizia Penitenziaria e che, in quanto tali, si consumano negli ordinari colloqui che consentono lo scambio di conversazioni ma, nel contempo, non viene dato spazio a quell’intimità che caratterizza ogni legame affettivo. Su questa base muove, quindi, il nuovo progetto di Legge, nonché sul rilievo che in altri Paesi (Croazia, Olanda, Norvegia e Danimarca) sono già consentiti colloqui non sorvegliati di alcune ore o, addirittura, sono predisposti dei mini appartamenti (come in alcuni Lander della Germania), dove ai detenuti viene data la possibilità di avere rapporti, in piena intimità, con i propri cari. Ragion per cui, i termini del progetto di Legge in questione, prevederebbero l’individuazione di spazi riservati ai detenuti e ai loro partners in grado di sensibilizzare momenti di dolce tenerezza tanto da “risvegliare” i sopiti sensi delle loro carcerazioni. Chiaro che, qualora quanto ipotizzato si trasformasse in realtà, si renderebbe inevitabile tutta una serie di innovazioni nella macchina organizzativa degli istituti penitenziari che rendano compatibili sia le

esigenze di servizio che le “emozioni” dei reclusi. Legittime appaiono in tal senso le perplessità degli addetti ai lavori, in primis la categoria dei poliziotti penitenziari, già alle prese con un’Amministrazione in preda alla ricerca di una propria identità smarrita da tempo ed in un contesto in piena evoluzione (quasi sempre in senso peggiorativo per ciò che concerne l’operatività giornaliera dei baschi blu). Non a caso, a fronte di organici sempre più malconci, in strutture fatiscenti costrette a rimodellare i sistemi di vigilanza, ecco a noi tutti una nuova legge, largamente innovativa ma che, per taluni aspetti, ci immerge in quello che a tutti gli effetti può ben rappresentare lo stesso sistema carcere nell’immediato futuro: l’affettività. Ed allora, in una idealistica proiezione al futuro, ci siamo posti il dilemma su ciò che avverrà nel momento in cui si materializzerà in concreto il nuovo disegno di Legge. In maniera del tutto fantasiosa ed ironica, ci siamo quindi posti il problema e, come semplice approccio, una realizzazione idealistica di ciò che potrà essere. Occorrerà in primis rivedere i compiti istituzionali e, con essi, i posti di servizio. Tanto per gradire, alle croniche carenze di organico ed ai consueti accorpamenti di più posti di servizio, il settore dell’Istituto riservato agli amplessi dei detenuti e alle loro compagne – che potrebbe chiamarsi convenzionalmente “Sezione Eden” potrebbe identificarsi come “Box addetto guardone”. Non si esclude che, per accedere alle mansioni richieste, potranno essere indetti corsi di formazione specifica con tanto di attestato. Nelle tabelle di consegna il servizio

potrebbe essere articolato inserendo clausole del tipo “per non alterare l’amplesso del detenuto, l’addetto alla vigilanza eviterà il verificarsi di rumori vari, procedendo ad una preventiva bonifica della sala HOT con l’ausilio di un lavorante” che, per le mansioni che sarà chiamato a svolgere non si identificherà più con lo “scopino” ma con quello di “scopatore del reparto”. Ai conti correnti, per agevolare e rendere protetto il rapporto lussurioso del richiedente, potranno mettersi in vendita profilattici (inseriti quindi tra i beni consentiti) e, per evitare intenzioni maldestre degli acquirenti, sarà forse necessario un sommario controllo, magari gonfiandolo alla presenza dell’agente di turno.

Chiaro poi che ci si dovrà occupare anche delle emozioni delle anime singole, quelli che (ahimè) non hanno compagne/i per soddisfare momenti di intensa intimità. Come fare? Si potrebbe pensare ad un box all’interno di una sezione, con oggettistica varia e con luci soffuse in grado di agevolare momenti piccanti e di puro piacere. Le stanze, rigidamente a tema, con calendari un po’ osè, potrebbero essere pensate con dei camerini, angoli per la seduzione, divanetti e macchinette per un refrigerio dopo “cotanta fatica...”, i materassi sostituiti con cadenza mensile e le stesse reti metalliche rischierebbero costanti rattoppi in considerazione della frenetica attività a cui saranno esposti giornalmente. In infermeria, previa prescrizione medica, si potranno acquistare farmaci contro l’ansia da prestazione,

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Francesco Campobasso Segretario Nazionale del Sappe campobasso@sappe.it

Nelle foto: affettività in carcere secondo Buster Keaton

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MONDO viagra, pomate e quant’altro utile all’uso. Alle normali cause di servizio, potrebbe aggiungersi quelle derivanti da “stress da sesso-correlato” ed in piena evoluzione, si potranno prevedere istituti specializzati per ricevere ed accogliere vere e proprie sezioni in grado di risaltare i crismi puri della piena intimità. Tornando seri, l'argomento è senza dubbio complesso, sia per ciò che concerne l’aspetto politico-legislativo che quello morale ed etico, e richiederebbe la ricerca di soluzioni intermedie in grado di mediare tra due opposte esigenze: da un lato quella di permettere al detenuto un rapporto più diretto con il proprio coniuge o partner in un ambiente non controllato, dall'altro quello di evitare ripercussioni in negativo sull’operato degli agenti, dando supporto a questi ultimi nel garantire la sicurezza all'interno degli istituti penitenziari. Infine, con riferimento alle detenute, portatrici evidentemente di uguali diritti rispetto all’altro sesso, probabilmente qualcuno ha dimenticato che per le donne incinte vige un divieto di fatto assoluto di compatibilità col regime carcerario. Nella pratica, succederebbe (sperando di non essere facili profeti...) che le recluse, più o meno volontariamente ed al solo fine di evitare la carcerazione, potrebbero cercare in ogni modo di esser fecondate per ottenere gli arresti/detenzione domiciliare: insomma un ottimo metodo per impedire di dare esecuzione alle decisioni della Magistratura. Per chi non avesse ancora compreso i nefasti effetti di quanto prospettato, basterà andarsi a rivedere il memorabile film premio Oscar del 1963 “Ieri, oggi e domani”, diretto da Vittorio De Sica e magistralmente interpretato da Marcello Mastroianni, in cui una venditrice abusiva di sigarette, per non essere arrestata, ricorre ad una sequela infinità di maternità, fino a quando il marito cederà sessualmente a questo tour de force e la povera contrabbandiera Adelina (interpretata da una divina Sophia Loren) varcherà le porte della galera!!! F

Io sono qui per far rispettare le regole, e questo vale per tutti e per primi per i miei uomini Nella misura in cui noi rispettiamo le regole siamo credibili e possiamo pretendere che anche i detenuti lo facciano, questo è anche il senso della divisa simbolo di uno Stato garante del Diritto. Il fatto che nel carcere tutti debbano rispettare le norme è rieducativo perché diverso da contesti in cui la criminalità impone il suo volere arbitrario e i diritti sono calpestati. Io ho un ruolo che implica la partecipazione ad un percorso di trattamento e di rieducazione per questo credo sia fondamentale il lavoro d'equipe e il dialogo con gli altri operatori ”. Queste furono le parole di presentazione del comandante di un carcere nel giorno del suo insediamento e che hanno il merito di richiamare due delle funzioni fondamentali del Corpo di Polizia Penitenziaria: la vigilanza e il trattamento. Il rispetto delle regole diventa anche il prerequisito della possibilità di poter proporre attività trattamentali in sicurezza, ma è anche vero che l'adesione alle regole più duratura avviene per consenso e non per imposizione, per questo vi è un legame logico che unisce le due funzioni rendendole complementari. Il senso della pena oltre che avere una funzione di protezione sociale e sanzionatoria, diviene anche quello di un progetto finalizzato al cambiamento rispetto alla devianza o quanto meno alla possibilità di tentare un percorso ad esso finalizzato. Questa è anche la direzione indicata dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “La concreta realizzazione di un sistema rispettoso dell'art 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena e sul senso di umanità cui devono corrispondere i relativi trattamenti rimane obiettivo prioritario... Occorre proseguire sulla strada di un modello organizzativo e di gestione che, nel garantire la sicurezza della comunità e il libero

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svolgimento delle relazioni sociali, sappia unire l'opportunità dell'istruzione, del lavoro, l'apertura alla società per offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell'integrazione” . (Sergio Mattarella, messaggio al Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, 2017). La complessità delle funzioni richiamate dal Presidente della Repubblica, a fronte anche della penuria dei mezzi a disposizione delle carceri e dell'eterogeneità del tipo di detenuti e atti devianti, richiama la necessità che il lavoro di rieducazione veda come base la collaborazione tra area educativa e polizia. L'impostazione di un progetto di rieducazione spesso incontra ostacoli e non si è mai certi del suo raggiungimento finale, per questo richiede un continuo lavoro di confronto e di scambio di informazioni tra polizia e area educativa. al fine di impostare un percorso di cambiamento ad personam, che garantisca un trattamento individualizzato. L’Ordinamento Penitenziario individua gli elementi del trattamento rieducativo nell’istruzione, nel lavoro, nella religione, nelle attività culturali, ricreative e sportive, nei rapporti con la famiglia e nei contatti con il mondo esterno , contesti di rilettura del comportamento e dell'identità dei detenuti e che i poliziotti possono osservare essendo sempre presenti nel loro svolgimento. Polizia e area educativa sono continuamente chiamate a declinare obbiettivi e indicatori di cambiamento da verificare in sede di equipe, dove si dovranno esprimere valutazioni tenendo conto delle osservazioni emerse. Utile a tal fine è anche il confronto e spesso la consulenza dei poliziotti della matricola nell'interpretare i documenti giuridici o recuperare sentenze fondamentali per un inquadratura giuridica della situazione del detenuto, e per aiutarlo a orientarsi rispetto alla sua progettualità futura. L'articolo 5 dell'ordinamento del


MONDO PENITENZIARIO

Lavorare insieme per il cambiamento: la collaborazione tra Polizia Penitenziaria e Area educativa Corpo di Polizia Penitenziaria 395/90 introduce una novità rispetto al passato, indicando tra i compiti istituzionali della Polizia Penitenziaria la partecipazione alle attività di osservazione e trattamento rieducativo dei detenuti, anche nell'ambito di lavori di gruppo, andando nella direzione di una collaborazione tra le aree e sottolineando il fine rieducativo della pena nel rispetto delle rispettive funzioni di ruolo. In quanto psicologo carcerario vorrei anche richiamare l'utilità delle segnalazioni ricevute dai poliziotti che lavorano in sezione rispetto allo stato di disagio dei detenuti in circostanze particolari o il contributo possibile al loro sostegno psichico, raccontato dagli stessi detenuti quando viene attuato. La frase di un agente di turno in sezione: “dottoressa quel detenuto non sta bene non è che ci può fare un colloquio...” spesso accompagna il lavoro di psicologi ed educatori. M. detenuto da lunghi anni recentemente aveva avuto notizie molto preoccupanti senza parlarne a nessuno ed aveva anche pensato al suicidio, un agente che lo conosceva bene lo aveva avvicinato, notando che non stava bene “il fatto che si accorgesse che stavo male mi ha fatto sentire che non ero solo un delinquente senza dignità ma una persona, non mi sono sentito solo e sono riuscito a chiedere aiuto” . Lo stesso agente lo inviò allo psicologo ed ebbe poi un ruolo determinante nel sostegno psichico di quella persona che più volte torno da lui per ringraziarlo. I detenuti inoltre spesso richiamano l'importanza dell'atteggiamento dei poliziotti quando i figli entrano per andare a trovarli: sono loro ad accoglierli e guidarli nelle sale

colloqui, sono loro che devono interrompere il colloquio anche quando il bambino non si vuole allontanare dal genitore. L'atteggiamento con cui viene fatto e le parole che accompagnano questi momenti rimangono impresse nella memoria delle nuove generazioni in senso positivo o negativo. “GL è un detenuto di alta sicurezza, ha una figlia di 4 anni che lo viene regolarmente a trovare, ultimamente la bambina a fine colloquio non si vuole allontanare da lui e i familiari solo con la forza riescono a staccare la bimba, che si allontana piangendo. A volte è presente un agente che notando la sua difficoltà cerca di intervenire per calmare la bambina: quando lui è di turno, racconta il padre, il distacco è più facile e la bambina esce più serena”. La complessità del compito e del contesto, l'isolamento del carcere rispetto alla società e la scarsità delle risorse, portano spesso a far emergere i problemi e i fallimenti rispetto a questi obiettivi, ma esistono molti esempi positivi di professionalità. In una ricerca del Ministero della Giustizia il tasso di recidiva dopo 7 anni era del 68,45 % (1998-2005), tra chi, prima della liberazione, era stato in affidamento ai servizi sociali era del 19%. Chiaramente i detenuti che accedono alla misure alternative sono tra quelli dal percorso migliore, ma è vero anche che il contributo al cambiamento e quindi ad un comportamento che agevoli l'apertura alle misure alternative diviene parte integrante della prevenzione della recidiva. La prevenzione e l'adesione alla norma per consenso abbassa il tasso di devianza e risponde alla richiesta della

Michela Salvetti Psicologa consulente carcere rivista@sappe.it

vittima che da un lato è di riconoscimento del male subito, e dall'altro che in futuro non debba ricapitare di subire un reato. “Recuperare l’autore di reato, in questo senso, non è rilevante solo dal punto di vista umanitario, ma costituisce un fattore cardine di prevenzione generale, intesa correttamente - nel senso positivo. Come ben sanno le organizzazioni criminose, che non a caso cercano di evitare, soprattutto, la defezione dei loro membri, in quanto fattore destabilizzante rispetto all’indiscutibilità dei comportamenti nei quali il gruppo si riconosce” . (Luciano Eusebi, professore di Diritto Penale Università Cattolica Milano).

Il motto scritto sullo stemma della Polizia Penitenziaria è “Despondere spem munus nostrum”, garantire la speranza è il nostro compito, parole impegnative che sintetizzano come la missione di garantire la sicurezza debba completarsi con l'investimento nella possibilità di un cambiamento, questo per provare a prevenire altre vittime, pur ribadendo che a tal fine la collaborazione del detenuto è essenziale. F

Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017 • 35

Nella foto: ascolto


a cura di Giovanni Battista de Blasis

COME SCRIVEVAMO

Pentiti e superpentiti di Luigi Giannelli Più di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

I

I termine "pentito" è ormai entrato nell'uso comune del linguaggio giuridico quasi come avesse assunto la veste di un articolo del Codice Penale. Parola deformata dal suo significato originale che rappresentava semplicemente una persona che, commessa un’azione illecita di qualsiasi tipo, si ravvedesse prendendo cognizione del suo errore e tentando di riparare al male commesso, si è trasformata in una serie di sinonimi che tutto esprimono ad eccezione della semplicità di ciò che in realtà vuol dire. Troppe volte ormai abbiamo sentito parole composte, a partire da "pentitismo" per arrivare a "super pentito", per non sorridere amaramente anche su quel tipo di etichette da scoop giornalistico che tanto attraggono i mass-media e, purtroppo, influenzano ed esaltano la gente comune. Il pentito è divenuto parte integrante di un sistema di indagine, di procedimento di processo. Il pentito è diventato un affare che può valere fama e potere, vittoria o sconfitta non a favore della giustizia ma per proprio interesse personale, coltello dalla parte del manico tenuta saldamente dall'accusato come dall'accusatore. E' duro dover constatare che un certo tipo di magistratura accetti certi compromessi, che la logica ed il riscontro possano venire adattate o assunte come verità incontestabile dalle dichiarazioni di una persona che fino a ieri era considerato - come d'altronde era - un laido criminale, ed oggi invece una sorta di testo sacro. Se si considerano le ultime notizie di cronaca, come quelle della rivelazione sui pentiti foraggiati dallo Stato a suon di miliardi e dell'ultimo pentito che ha

dichiarato di aver visto Andreotti, nel 1978, salire sulla Lancia Thema del mafioso di turno, ad una certa data in cui Andreotti era certamente in altro posto e la Lancia Thema non era ancora stata neanche messa in commercio, viene da inorridire. Ma ciò che fa più male, che duole sulla coscienza e sull'intelligenza, è la strumentalizzazione che si opera su questi fatti.

demonizzazione e la contestazione del pentito farebbe sì da far aumentare le probabilità che, venga ingiustamente assolto. Allora? Allora è un grosso problema e di non facile soluzione, perché come dicevano i nostri antenati latini, di solito la verità è nel mezzo, parole di saggezza, di senso della misura, di consapevolezza che un processo tratta vite umane e non fama e notorietà per

E’ gravissimo, ingiusto, quando non criminale, usare campagne di stampa e di opinione pubblica pro-pentiti e contro-pentiti, sono cose che vanno a deteriorare e relegare in un cestino della carta straccia quella Giustizia di cui il Paese ha bisogno, ed il perché è semplice, facciamo un esempio, se Andreotti - cito questo nome solo perché più attuale, ma potrei parlare anche del misconosciuto Rossi Mario se Andreotti, dicevo, fosse innocente, una campagna di stampa, che bene o male plasma le idee dell'opinione pubblica, ten desse ad evidenziare ed a convincere sull'utilità e sulla genuinità dei pentiti, questi potrebbe essere condannato e sarebbe una grave ingiustizia; se viceversa lo stesso statista fosse colpevole, la

un avvocato o avanzamenti e gratifiche per la carriera di un magistrato. Trovare la verità è un'opera laboriosa che implica la conoscenza di tutti gli strumenti e mezzi a propria disposizione, è un duro lavoro di ricerca, di discussione, di analisi delle psicologie, di mestiere e, soprattutto, di accettazione del fatto che può anche non avere successo, per quanto possa essere difficile da ammettere. Perché la verità a tutti i costi non paga, non ha mai pagato ed è la causa prima di tutte le ingiustizie del mondo. Ma, per tornare ai pentiti, vengono spontanee domande che fino ad oggi non hanno avuto risposta proprio per quella famosa deformazione, o se preferite travisamento del suo significato: è possibile che un feroce

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COME SCRIVEVAMO

assassino, una persona che ha macchiato indelebilmente la propria coscienza con atti atroci, possa divenire improvvisamente buono e giusto, sociale e credibile, imparziale e interessato solo alla sua redenzione?

Io non credo. E' possibile che un'indole, una mentalità radicata, una mancanza di critica ed autocritica , una specie di

fede nelle proprie azioni possa generare la sua stessa antitesi? Non credo. E' più facile da accettare che il pentito nasca per un calcolo, per una vendetta, per un interesse, per una corruzione; magari anche per influenza parziale. Ma se è così come io penso. come si può estrapolare il vero dal falso, la genuinità dall'inquinamento? Ed ecco che torna a galla il vecchio detto latino sul lavoro per la ricerca della verità (e della giustizia). La prima indagine infatti, la più importante, deve essere incentrata sull'analisi del soggetto, sulle sue motivazioni sui suoi intenti, su ciò che esso ritiene come conseguenza del suo pentimento.

non dovrebbe mai mentire. Su queste cose potremmo scrive re un decalogo, perché sono certo che ognuno di voi che legge queste righe. ha un valido suggerimento supplementare. Insomma questa storia dei pentiti che si sta trascinando ormai da anni, ha creato a mio avviso più male che bene e lo Stato, sia pur con intenti sani, avendola ratificata e fomentata, dovrebbe prendere seri provvedimenti (credo già si stia operando in tal senso) per far cessare lo scandaloso evolversi di una cultura di iniquità e di strumentalizzazioni di cui non solo non abbiamo bisogno, ma che corre su una strada in discesa verso l'aumento delle incertezze, delle paure, dei malesseri sociali che

A costo di ricorrere a professionisti del campo come psicologi, sociologi e psichiatri e magari, perché no, anche ad una tanto nominata ma chissà perché mai usata, macchina della verità. Ma non finisce qui. Il soggetto, perché la parola pentito scusatemi proprio non l'accetto, non dovrebbe avere che le attenuanti che il Codice Penale prescriveva e non l'impunità degli omicidi commessi; non dovrebbe abitare in ville lussuose, mangiare caviale, bere champagne, girare su automobili di grossa cilindrata e andare in crociera; non dovrebbe, soprattutto, essere pagato più di ciò che un professionista normale può guadagnare in tutta la sua vita e, ciliegina aspra sulla torta,

scaturiscono ed emergono molto di più da un'ingiustizia acclarata piuttosto che da un mancato ritrovamento di una singola verità. Abbiamo bisogno, per concludere, di persone preparate, scevre da interessi e calcoli, convinti assertori dell'essenza della verità in tutte le sue curve e i suoi spigoli, che operino, ma davvero, perché al di là delle facili soluzioni (e, parliamoci chiaro, il soggetto pentito “è” una facile soluzione) mettano tutte le loro capacità e la loro professionalità al servizio di quello Stato che li paga, della popolazione che ha fede in loro, della giustizia vera, quella che migliora, che purifica, che dona la vera identità naturale a tutti gli uomini. F

Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017 • 37

Nelle foto: la copertina del numero di marzo 1997 sotto la vignetta in basso il sommario nelle altre foto: pentiti famosi


di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2017 caputi@sappe.it

L’ULTIMA PAGINA Il mondo dell’appuntato Caputo ASPETTANDO IL RIORDINO...

QUANTO DOVRO’ ASPETTARE ANCORA?...

38 • Polizia Penitenziaria n.251 • giugno 2017

NON LO SO... PROVA A RIPASSARE TRA VENT’ANNI!


CONCORSI POLIZIA PENITENZIARIA, POLIZIA DI STATO e FORZE ARMATE

Concorso Polizia Penitenziaria 540 Allievi Agenti

Concorso Polizia di Stato 1.148 Allievi Agenti

Concorso Polizia di Stato

Teoria e Test Prova scritta d’esame (III edizione)

Allievi Agenti Teoria e Test Prova scritta d’esame (III edizione)

pagg. 752 28,00 euro EdiSES

pagg. 752 28,00 euro EdiSES

Concorso VFP1 Volontari Ferma Prefissata 1 anno

Test psico-attitudinale e colloquio psicologico

Esercito - Marina Aeronautica Volume completo per il reclutamento dei VFP1 pagg. 321 20,00 euro EdiSES

Teoria e Test Preparazione completa a tutte le fasi di preparazione (II edizione)

pagg. 684 24,00 euro EdiSES

per la preparazione ai concorsi nelle Forze di Pozia e nelle Forze Armate pagg. 411 22,00 euro EdiSES

E’ sempre molto alto il numero dei giovani che scelgono di indossare la divisa e di fare carriera nelle Forze di Polizia e nelle Forze Armate. Fino ad oggi, per accedere al concorso pubblico da Agente della Polizia Penitenziaria, della Polizia di Stato o da Carabinieri, bisognava aver fatto prima il volontario in ferma prefissata, di 1 anno o 4 nelle Forze Armate; nel triennio 2016-2018, invece, sono stati e saranno banditi concorsi pubblici per i giovani provenienti dalla “vita civile” a cui saranno destinati, per il 2016 e 2017, il 50 % dei posti disponibili, ogni anno, mentre per l’anno 2018 la percentuale salirà al 75%, secondo l’articolo 10 del D.Lgs n.8/2014. La Casa Editrice EdiSES, specializzata nella preparazione ai concorsi nelle Forze di Polizia e nelle Forze Armate, ha editato diversi libri, utilissimi proprio per affrontare questi concorsi. Da segnalare, in particolare, due testi. Uno è quello specifico per il concorso pubblico, bandito lo scorso 7 aprile dal Ministero della Giustizia, per il reclutamento di complessivi 540 allievi agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria del ruolo maschile e femminile, riservato ai volontari in ferma prefissata di un anno o quadriennale ovvero in rafferma annuale, in servizio o in congedo. L’altro, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 maggio 2017, è dedicato al concorso per 1.148 Allievi Agenti della Polizia di Stato che prevede, oltre ai posti riservati a VFP1 e VFP4, ben 893 posti aperto a tutti i cittadini italiani. Molto utili anche il libro che prepara ed aiuta ad affrontare gli accertamenti psico-fisici e attitudinali per il reclutamento dei VFP1 di Esercito, Marina, Aeronautica e quello che fornisce gli elementi essenziali per affrontare i test psicoattitudinali ed il colloquio psicologico per la preparazione ai concorsi nelle Forze di Polizia e nelle Forze Armate.



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