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PoliziaPenitenziaria Società Giustizia e Sicurezza anno XXIV • n.253 • settembre 2017

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Giù le mani dalla Polizia Penitenziaria



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Polizia Penitenziaria

In copertina:

Società Giustizia e Sicurezza

L’immagine usata per la Manifestazione di protesta della Polizia Penitenziaria tenutasi a Roma

04 EDITORIALE

In piazza per la nostra dignità di Donato Capece

05 IL PULPITO

è meglio scegliere a chi dare la colpa che cercare le cause del disastro penitenziario di Giovanni Battista de Blasis

06 IL COMMENTO

Carceri, mille leggi per un solo risultato: torna il sovraffollamento di Roberto Martinelli

anno XXIV • n.253 • settembre 2017 14 CRIMINOLOGIA

27 SICUREZZA SUL LAVORO

17 GIUSTIZIA MINORILE

28 MONDO PENITENZIARIO

La criminologia storica e la morte di Benito Mussolini e Clara Petacci di Roberto Thomas Orlando: i Tribunali minorili non chiuderanno di Ciro Borrelli

18 DIRITTO & DIRITTI

L’isola di Pianosa: detenuti nel mare protetto di Giovanni Passaro

10 SAPPEINFORMA

20 LO SPORT

12 L’OSSERVATORIO POLITICO

23 CINEMA DIETRO LE SBARRE

13 MONDO PENITENZIARIO

24 CRIMINI & CRIMINALI

Basta aggressioni. Giù le mani dalla Polzia Penitenziaria E intanto nelle carceri aumentano le criticità di Giovanni Battista Durante La Polizia Penitenziaria nella lotta al terrorismo di Alessandro Torri

Arco, argento per Simonelli e Franchini di Lady Oscar La Fratellanza a cura di G. B. de Blasis

La rivolta di Porto Azzurro di Pasquale Salemme

PoliziaPenitenziaria Società Giustizia e Sicurezza

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, On. Avv. Antonio Di Pietro Donato Capece, Giovanni Battista de Blasis, Giovanni Battista Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme

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Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 • fax 06.39733669 e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it Progetto grafico e impaginazione:

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Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994

Priorità all’ordine e alla disciplina ma senza tralasciare la sicurezza del posto di lavoro di Luca Ripa

Bicentenario costruito a tavolino per liquidare la Polizia Penitenziaria di Federico Olivo

30 DISCUSSIONI

La Penitenziaria non è una “Polizia col camice bianco”. Rafforziamo l’autorevolezza dell’uniforme di Emanuele Ripa

32 MONDO PENITENZIARIO

Amministrazione penitenziaria in piena zona retrocessione. Ci vorrebbe Zamparini... di Francesco Campobasso

33 L’AGENTE SARA RISPONDE... Congedo programmato e malattia

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Cod. ISSN: 2421-1273 • web ISSN: 2421-2121 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma) Finito di stampare: settembre 2017 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

Edizioni SG&S

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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L’EDITORIALE

Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

In piazza per la nostra dignità. In attesa che il DAP batta un colpo...

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orna il sovraffollamento nelle carceri italiane. Oggi, nelle 190 prigioni del Paese, sono presenti 57.393 detenuti, quasi 20mila dei quali sono gli stranieri, e gli eventi critici tra le sbarre (colluttazioni, atti di autolesionismo, risse, ferimenti, tentati suicidi, aggressioni ai poliziotti penitenziari) si verificano ogni giorno con una spaventosa ciclicità. I suicidi in cella, poi, sono stati oltre 40 dall’inizio dell’anno, cifra mai raggiunta prima dalla nascita della Repubblica.

Nelle foto: il Sappe in piazza Montecitorio a Roma

Martedì 19 settembre 2017 si è celebrato a Roma, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Bicentenario del Corpo di Polizia Penitenziaria, celebrazione che però è stata boicottata da tutti i Sindacati del Corpo, che hanno tenuto una rumorosa manifestazione davanti alla Camera dei Deputati, alla presenza di parlamentari appartenenti ai diversi schieramenti politici (Salvatore Tito di Maggio, Maurizio Gasparri, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Vittorio Ferraresi, Nicola Molteni, Massimiliano Fedriga ed altri ancora). Ancora grazie alle centinaia e centinaia di presenti, a tutti coloro che hanno partecipato alla manifestazione, specie a chi ha letteralmente trascorso una notte in bianco per essere presente nella Capitale, arrivati dal Friuli Venezia Giulia, dal Veneto, dalla Valle d’Aosta, dalla Sardegna, dalla Calabria,

dalla Sicilia, dalla Lombardia. ...Ma grazie anche a coloro che sono arrivati da Campania, Puglia, Basilicata, Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Abruzzo, Molise, Marche, a chi ha “giocato in casa” come i colleghi del Lazio e di Roma. ...Tutta Italia era presente: iscritti e segretari SAPPE sono confluiti in piazza Montecitorio, con i colleghi iscritti alle altre Sigle sindacali, per protestare – pacificamente e con grande senso di responsabilità – rispetto ad un dato oggettivo: il sistema penitenziario, per adulti e minori, si sta sgretolando ogni giorno di più. Vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto, fortemente voluti da questo Governo (con il Ministro della Giustizia Andrea Orlando) e da questa Amministrazione Penitenziaria (retta da Santi Consolo), hanno dato il colpo finale alle politiche di sicurezza interna alle carceri. Ogni giorno registriamo aggressioni ai poliziotti, risse, colluttazioni, ferimenti, atti di autolesionismo e tentati suicidi. I suicidi, poi, sono a cifre spaventose: oltre 40 detenuti dall’inizio dell’anno. Ma deve allarmare anche il dato riferito ai suicidi di poliziotti, due a metà settembre. E se non accadono più tragedie più tragedie di quel che già avvengono è solamente grazie agli eroici poliziotti penitenziari, a cui va il nostro ringraziamento. Tutti insieme abbiamo denunciato con forza, davanti al Parlamento, che i vertici del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione Penitenziaria hanno smantellato le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8 ore al giorno con controlli sporadici e occasionali, con detenuti di 25 anni che incomprensibilmente continuano a

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stare ristretti in carceri minorili, togliendo le sentinelle dalle mura di cinta, aprendo le porte delle celle a tutti i detenuti indiscriminatamente. E coloro che hanno la responsabilità di guidare il Ministero della Giustizia e l’Amministrazione Penitenziaria si dovrebbero dimettere dopo tutti questi fallimenti. Le responsabilità dello sfascio delle carceri italiani sono ben precise. E per denunciare tutto questo, martedì 19 settembre 2017, eravamo, tutti uniti, a denunciare l’invivibilità delle carceri italiane. Massimo è il nostro rispetto istituzionale e personale per il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ci hanno lusingato, come appartenenti al Corpo, alcune delle parole contenute nel messaggio del Capo dello Stato: “Nell'esercizio dell'attività di vigilanza, spetta alla Polizia Penitenziaria il difficile compito di far fronte alle situazioni di sofferenza e di disagio proprie della realtà carceraria, compito assolto, grazie all'abnegazione ed alla non comune professionalità degli appartenenti al Corpo, pur a fronte delle innegabili criticità del sistema carcerario". Proprio richiamando le “innegabili criticità del sistema carcerario” citate dal presidente Mattarella, si capisce perché non potevamo restare ancora in silenzio. Nel suo messaggio, il Capo del DAP Santi Consolo ha tra l’altro detto: "in questo momento di transizione e cambiamenti faccio appello al senso di responsabilità delle forze sindacali con un saluto che vuole, anche, essere segno di intento collaborativo". Ho solo un commento da fare, nel merito: è ora che l’annunciato intento di Consolo si traduca in atti concreti. Noi attendiamo che il DAP batta un colpo. F


IL PULPITO

È meglio scegliere a chi dare la colpa che cercare le cause del disastro penitenziario

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n Spagna, l’Homicisium era una multa di epoca medievale che dovevano pagare gli abitanti di una città quando veniva rinvenuto il corpo di una persona uccisa nel loro territorio senza che venisse trovato il colpevole. Contestualmente all’introduzione dell’Homicisium, nacque l’usanza (e il modo di dire) dell’Echar el muerto al otro (passare il morto all’altro). In buona sostanza, quando si trovava un individuo morto si caricava di notte su un mulo o su di un carro e lo si andava a scaricare nel territorio della città più vicina, per evitare di pagare il tributo. Inevitabilmente, il modo di dire Echar el muerto al otro (passare il morto all’altro), con il tempo, è diventato sinonimo di scaricare le colpe su qualcun altro. Manco a dirlo che l’Echar el muerto al otro è l’usanza più praticata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. E, spesso e volentieri, l’Otro, al Dap, è la Polizia Penitenziaria. Il grandissimo Marcello Marchesi (uno dei più grandi umoristi di tutti i tempi) che, quasi sempre, scherzando diceva la verità, sosteneva che ...è meglio andare dallo psicanalista che dal confessore perché mentre per il secondo è sempre colpa tua, per il primo è sempre colpa degli altri. Quelli bravi, quelli che hanno studiato, parlano di “self-serving bias” per definire l’atteggiamento secondo il quale, quando le cose vanno bene è merito di se stessi e quando vanno male è colpa di qualcun altro. Nathanael J. Fast, assistente alla cattedra di gestione e di organizzazione presso la USC Marshall School of Business e Larissa Tiedens, docente di comportamento organizzativo presso l’Università di

Stanford, hanno condotto alcuni esperimenti scoprendo che incolpare pubblicamente gli altri aumenta le probabilità che la pratica diventi “virale”, cioè che sia diffusa a livello sistemico. Fast aggiunge, però, che quando la pubblica accusa diventa prassi comune, i suoi effetti su una organizzazione possono essere dannosi per tutti, perchè gli individui che hanno paura di essere accusati di qualcosa diventano meno disposti a correre dei rischi, sono meno innovativi o creativi e hanno meno probabilità di imparare dai propri errori. Secondo Fast, chiunque può diventare un “incolpatore”, ma ci sono alcuni tratti in comune. In genere, chi tende a scaricare la colpa sugli altri è una persona egoista e ha maggiori probabilità di essere narcisista, con la tendenza, però, a sentirsi cronicamente insicura. Ecco il Comunicato del DAP immediatamente dopo l’evasione di due detenuti da Civitavecchia (e dopo l’arresto di uno dei due...). Evasi Civitavecchia: Dap, cortili dovevano essere presidiati. Dubbi anche su tempi arrivo pattuglia. Da mesi indagini sicurezza (ANSA) - ROMA, 1 AGO ...el muerto al otro. Dice l’Ufficio Stampa del Dap, sempre solerte quando si tratta di scaricare le colpe (e la coscienza) dei “Dirigenti” ministeriali e sempre assente quando si tratta di parlare delle azioni positive del Corpo: “ I posti di servizio a garanzia della sicurezza dovevano essere tutti presidiati e i cortili passeggi dovevano essere vigilati da unità di polizia penitenziaria. L'impianto anti scavalcamento e video sorveglianza era funzionante e ha

fatto scattare immediatamente l'allarme. Oltre ai predetti presidi di sicurezza e vigilanza era anche previsto un servizio di pattuglia con unità di polizia penitenziaria e armamento individuale. Da una prima ricostruzione i tempi di percorrenza della pattuglia, per raggiungere il punto di scavalcamento, dovevano essere nettamente inferiori a quelli necessari ai due evasi per scavalcare il muro di cinta. Il Dap sottolinea quindi che sono in corso accertamenti in ordine alla dinamica dell'evasione e alla ricostruzione delle connesse fasi di allontanamento dei due detenuti.” In parole povere... “ è tutta colpa dei poliziotti che non hanno fatto quello che noi (da qui) abbiamo detto loro di fare.” Una domanda sorge spontanea: ma se è sempre colpa degli altri a cosa serve la dirigenza del Dap? Nessuna azione o omissione ha una conseguenza? E da domanda nasce domanda: che ci stanno a fare tutti quei dirigenti al Dap? Io credo che una dirigenza vera non pensa ad incolpare nessuno, pensa solo a rimediare e risolvere il problema. Una delle più famose massime di Voltaire (ispiratrice di parecchi sistemi giuridici mondiali) dice: “E’ meglio rischiare di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente.” Possibile che al Dap continuiamo ad essere per sempre condannati al Medioevo e al sistema dell’ Echar el muerto al otro? Non c’è dubbio che è molto più facile cercare un capro espiatorio piuttosto che trovare le cause del disastro. F

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Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

Nella foto: Nathanael J. Fast


IL COMMENTO

Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Carceri, mille leggi per un solo risultato: torna il sovraffollamento

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l problema "del sovraffollamento delle carceri italiane non è stato risolto perché molti istituti di pena operano ancora al di sopra della loro capacità". Il giudizio, noto da tempo agli addetti ai lavori quali gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, è del Cpt, comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa in un rapporto sull'Italia redatto in base alla missione condotta nell'aprile del 2016 e presentato a inizio mese di settembre.

Nella foto: il Consiglio d’Europa

Nel documento, il Cpt ha ribadito anche che l'Italia deve rispettare gli standard che il comitato ha fissato per lo spazio che ogni detenuto deve avere a sua disposizione in cella: 6 metri quadrati di spazio vitale, esclusi i sanitari, in cella singola, e 4 metri quadrati in una cella che occupa con altri. Pur prendendo nota degli sforzi fatti dall'Italia per risolvere la questione del sovraffollamento dopo la condanna della Corte di Strasburgo (Torreggiani), il Cpt ha inoltre osservato che nel primi 6 mesi del 2016 la popolazione carceraria è aumentata da 52.164 a 54.072 detenuti, e che questo aumento non si è arrestato. Tanto che il 31 agosto 2017 erano ristrette nelle carceri italiane ben 57.393 persone, connazionali e straniere. Un dato, questo del nuovo affollamento delle

carceri del Paese, che è la risultanza di un trend di entrare che dal mese di dicembre 2016 è costantemente in aumento: si è infatti passati dalle 54.653 presenze del dicembre 2016 alle 55.381 di gennaio 2017, poi diventati 55.929 a febbraio, 56.289 a marzo, 56.436 ad aprile, 56.863 a maggio, 56.919 di giugno. Piccolissima ed impercettibile flessione c’è stata il 31 luglio scorso, quando i detenuti presenti erano 56.766: ma in soli trenta giorni c’è stato un nuovo aumento di ingressi, tanto che a fine agosto le presenze si sono attestate a 57.393. Le carceri che tornano ad essere nuovamente affollate, oltre a determinare condizioni di lavoro particolarmente difficili per la Polizia Penitenziaria anche a seguito di provvedimenti di organizzazione interna assai discutibili (come la vigilanza dinamica ed il regime apeeto, inefficaci se i detenuti non lavorano e non sono impegnate in concrete attività scolastiche, trattamentali, sociali), certificano un dato inequivocabile: il fallimento dei provvedimenti normativi adottati dal Governo e dal Parlamento italiani in materia di deflazione delle carceri, al di là di quel che pensano e sostengono coloro che evidentemente hanno interesse a mistificare la realtà. E’ infatti del tutto evidente che il sovraffollamento carcerario sembra destinato ad affliggere, ciclicamente, il sistema penitenziario italiano. Lo ha ribadito un recente studio elaborato dal Servizio studi del Senato della Repubblica, che ha esaminato com’era la situazione delle carceri non più tardi di quattro anni fa e cosa è stato fatto per porre rimedio al costante e crescente affollamento delle celle. A partire dall'indulto del 2006 sono stati adottati vari provvedimenti

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legislativi per far fronte all'emergenza, ma i risultati non sempre sono stati all'altezza delle aspettative: ancora nel 2013 l'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) che le ha intimato di risolvere, entro il 24 maggio 2014, il problema del malfunzionamento cronico del suo sistema penitenziario. Secondo la Corte, la situazione di sovraffollamento costituisce infatti violazione dell'art. 3 della Convenzione europea che, sotto la rubrica "proibizione della tortura", pone il divieto di pene e di trattamenti disumani o degradanti. Il 9 marzo 2016 il Consiglio d’Europa ha chiuso la procedura di esecuzione della sentenza contro l’Italia, accogliendo «con favore la risposta data dalle autorità italiane» attraverso «l’introduzione di importanti riforme». Che a nulla sono servite, se le carceri sono tornate ad livelli allarmanti di affollamento… Nel giugno 2006 la situazione penitenziaria era decisamente critica: i detenuti in carcere erano infatti 61.264, ben 18.045 oltre la capienza regolamentare, e la percentuale di sovraffollamento era arrivata al 42%. Per fronteggiare l'emergenza il Parlamento intervenne con un provvedimento di clemenza, la legge 31 luglio 2006, n. 241. La concessione dell'indulto produsse un immediato effetto deflativo, tanto che a fine anno la popolazione carceraria scese a 39.005 detenuti, su 43.000 posti circa a disposizione (con un tasso di sovraffollamento pari a 91). Negli anni successivi, tuttavia, si registrò un progressivo ritorno alla situazione ante-indulto: 48.693 presenze nel 2007, 58.127 nel 2008, 64.791 nel 2009 e 67.961 nel 2010, quasi 23.000 in più rispetto ai posti disponibili. Dopo il calo vistoso a


IL COMMENTO seguito del provvedimento di indulto del 2006, dunque, a partire dal 2007 i tassi di sovraffollamento mostrarono valori superiori alla soglia di 110 detenuti ogni 100 posti disponibili e risultano in costante crescita, fino al picco di 151 nel 2010. Il Governo intervenne nuovamente nel 2010, varando da un lato un piano straordinario di edilizia carceraria (il cosiddetto Piano carceri, che avrebbe dovuto portare alla creazione di 11.934 nuovi posti detentivi con una spesa prevista di 463 milioni circa di euro, ma che ha portato solo ad un miglioramento della capienza, certificato dalla Corte dei Conti con la Deliberazione 30 settembre 2015, n. 6/2015/G(3) , pari a 4.415 posti tra 2010 e 2014) e, dall'altro, apportando modifiche alla legislazione penitenziaria. La legge 26 novembre 2010, n. 199 introdusse così la possibilità di scontare presso la propria abitazione (o in un altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza) la pena non superiore ad un anno, anche residua di una pena maggiore. Successivamente, il decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211 ha aumentato il limite della detenzione domiciliare a 18 mesi. E si è spinto anche più in là: oltre a prevedere un'integrazione dei fondi per l'edilizia giudiziaria e la riparazione per l'ingiusta detenzione, ha disposto la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e previsto misure per scongiurare il problema delle cosiddette "porte girevoli", cioè la permanenza brevissima in carcere di quegli arrestati in flagranza di reato da sottoporre a processo con rito direttissimo. E l'effetto deflativo della legge n. 199 (e successive modificazioni) si vide subito: il maggior numero di detenuti è uscito infatti nel triennio 20112013(4) , con un picco nel 2012, conseguente proprio all'innalzamento a 18 mesi del limite di detenzione domiciliare previsto dal D.L. 211. Nel dicembre 2013 il D.L. 146 ha portato tale misura a regime e questo fece registrare, nel 2014, una progressiva diminuzione del numero dei detenutibeneficiari.

Per quanto concerne la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), inizialmente prevista entro il 31 marzo 2013, a causa dei ritardi sia nell'attuazione dei programmi regionali di accoglienza sia della disciplina attuativa da parte dello Stato, il decreto legge 25 marzo 2013, n. 24 ha disposto il differimento al 1° aprile 2014. Tale termine venne ulteriormente prorogato al 31 marzo 2015 dal decreto legge 31 marzo 2014, n. 52. Solo il 19 febbraio 2016 il Consiglio dei ministri nominò il Commissario per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, con il mandato di chiudere definitivamente il capitolo degli OPG in Piemonte, Toscana, Veneto, Abruzzo, Calabria e Puglia, e di garantire l’apertura delle strutture residenziali sanitarie per le misure di sicurezza (REMS) in ogni Regione. Impercettibili gli effetti deflattivi della legge 21 aprile 2011, n. 62, intervenuta in materia di custodia cautelare ed esecuzione della pena da parte delle detenute madri, che al 31 dicembre 2010 erano 42 ed erano accompagnate da 43 bambini (altre 6 donne erano invece in stato di gravidanza). Per loro il legislatore ha inteso privilegiare il ricorso a istituti a custodia attenuata (ICAM), ampliando anche l'ambito di applicazione della detenzione domiciliare speciale per le detenute con figli. I dati mostrano però come la presenza di detenute in ICAM, a partire dal 2014, appaia poco significativa, con numeri pari a sole 3 o 4 unità. Gli interventi di ristrutturazione edilizia e il conseguente aumento della capienza degli istituti, da un lato, e i miglioramenti normativi dall'altro, hanno determinato poi una lieve tendenza alla diminuzione delle presenze, con 66.897 detenuti al 31 dicembre 2011 (e un tasso di sovraffollamento di 146) e 65.701 alla stessa data del 2012 (e un tasso di sovraffollamento di 140). Ma già a partire dal 2013 si è registrata una nuova tendenza all'aumento. A conferma della gravità della situazione, l’8 gennaio 2013 la Corte di Strasburgo, con la Sentenza

Torreggiani, condannò l'Italia intimandole di adeguarsi, entro il 24 maggio 2014 (termine poi posticipato al giugno 2015 dal Comitato europeo dei ministri), agli standard minimi dell'Unione Europea, citati in premessa. All'epoca della sentenza Torreggiani, cioè all'inizio della XVII legislatura (marzo 2013), erano presenti nelle carceri italiane 65.906 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 44.041 unità, con 18.865 detenuti in eccedenza rispetto ai posti previsti (+ 42,8%). Come richiesto dalla Corte di Strasburgo, il Ministero della Giustizia ha provveduto - nei sei mesi successivi alla sentenza - a elaborare un "Piano d’azione" volto a sanare le deficienze strutturali del proprio sistema detentivo, prevedendo: a) interventi di natura normativa finalizzati a

diminuire i flussi d’ingresso in carcere e a potenziare l’esecuzione penale esterna; b) interventi di riconversione dei piani di edilizia penitenziaria volti a rimodulare gli Istituti esistenti piuttosto che a intraprendere lunghi percorsi di nuove costruzioni; c) interventi di natura organizzativa e gestionale nel senso di una implementazione di regimi più aperti, con graduale riconduzione della cella alla sua destinazione di “camera di pernottamento” e non di luogo dove trascorrere la maggior parte della giornata; d) predisposizione del sistema di rimedi, preventivo e compensativo. Una prima risposta legislativa alla condanna dell'Europa venne con il decreto-legge 1 luglio 2013, n. 78 , il quale, oltre ad innalzare da 4 a 5 anni il limite della pena che consente l'applicazione della custodia cautelare

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Nella foto: cella sovraffollata

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IL COMMENTO in carcere, intervenne in materia di esecuzione delle pene detentive, al fine di favorire l'applicazione della liberazione anticipata. A distanza di qualche mese, anche sulla scia del messaggio alle Camere con cui il Presidente della Repubblica esortava il legislatore a risolvere la questione carceraria, il Governo emanò il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, cosiddetto "Svuotacarceri", recante "misure urgenti per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria". Il provvedimento, portando a termine un percorso avviato nel 1997, ha istituito la figura del Garante Nazionale a tutela dei detenuti, un'Autorità indipendente dall’esecutivo che è deputata a praticare un controllo di tipo non giudiziale su tutti i luoghi di privazione della libertà e può agire di propria iniziativa per contribuire al superamento di eventuali problematicità.

Nella foto: detenuti in cella

Non solo. Nel testo approvato dalle Camere, oltre a ridurre la pena per il piccolo spaccio, lo “Svuotacarceri” ha introdotto significative modifiche al sistema penitenziario, come l'imposizione, nell'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, del cosiddetto "braccialetto elettronico", o la misura temporanea della liberazione anticipata speciale, che porta da 45 a 75 giorni per semestre (ma solo fino al 22 febbraio 2016 e solo per le pene in espiazione dal 1° gennaio 2010) la detrazione di pena già prevista per la liberazione anticipata ordinaria. Una significativa riduzione del sovraffollamento si è poi verificata

grazie alla sentenza 12 febbraio 2014, n. 32 della Corte costituzionale con la quale la Consulta ha dichiarato l'illegittimità della cosiddetta legge "Fini-Giovanardi", ripristinando sostanzialmente la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti sia sotto il profilo delle incriminazioni, sia sotto quello sanzionatorio. Ciò ha determinato un assetto delle pene più favorevole al reo nel caso di detenzione e spaccio di droghe leggere, alleggerendo la pressione sul sistema penitenziario. Infatti, dando seguito alla sentenza della Corte, il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 ha modificato le tabelle allegate al TU stupefacenti, determinando così l'elevata incidenza percentuale dei detenuti (condannati o in custodia cautelare) per violazione della legge sugli stupefacenti. Dopo vari interventi "emergenziali", il Parlamento, con la legge 28 aprile 2014, n. 67, ha messo mano ad un'ampia riforma del sistema penale, tentando di intervenire in modo strutturale sulle cause del sovraffollamento carcerario. Oltre a disciplinare, anche nel processo penale ordinario, la sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell'imputato, il provvedimento reca ampie deleghe al Governo a introdurre pene detentive non carcerarie, a disciplinare la non punibilità per tenuità del fatto e ad operare una articolata depenalizzazione. A tali deleghe il Governo ha dato successivamente attuazione con il decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28 (in materia di tenuità del fatto), con il decreto legislativo 15 gennaio 2016 n. 7 (in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili) e con il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 ( in materia di depenalizzazione). Sempre per far fronte alle critiche della Corte di Strasburgo e dare definitiva risposta alle richieste del Consiglio d'Europa, il Governo ha emanato il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 recante "disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati

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che hanno subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 della CEDU, nonché di modifiche al c.p.p. e alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all'ordinamento penitenziario, anche minorile". Il provvedimento, oltre a prevedere un risarcimento economico (!) per gli ex detenuti costretti a sopportare condizioni detentive non conformi agli standard europei, modifica l'art. 275 c.p.p. sui criteri di scelta delle misure cautelari, in modo da limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere. In sintesi ed in virtù di ciò, lo Stato italiano, con i soldi delle tasse dei cittadini onesti e che rispettano la legge, ha pagato persone condannate con sentenza passato in giudizio responsabili di avere commesso reati ed i peggiori crimini... E’ giustizia, questa? E’ una cosa da Paese normale? Un'ulteriore limitazione all'utilizzo della custodia cautelare dietro le sbarre, attraverso la modifica dei presupposti per l'applicazione della misura e del procedimento per la sua impugnazione, è da ultimo stata prevista dalla legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità). Un ulteriore provvedimento che riguarda le carceri è la legge 23 giugno 2017, n. 103 che reca Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario. Il provvedimento prevede al comma 85 dell'articolo 1, una serie di principi e criteri direttivi proprio per la riforma dell'ordinamento penitenziario: fra i quali la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, nonché delle preclusioni all'accesso ai benefici penitenziari; la previsione di norme tendenti al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la sorveglianza dinamica; interventi a


IL COMMENTO tutela delle donne recluse e delle detenute madri. Le conclusioni del documento del Senato della Repubblica sono impietosi: “Il cammino verso una più umana concezione della detenzione può dirsi perciò non ancora concluso, anche se l'8 marzo 2016 il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha deciso di archiviare la procedura di esecuzione delle sentenze contro l’Italia in tema di sovraffollamento carcerario, valutando positivamente l’attuazione del Piano presentato nei sei mesi successivi alla famosa sentenza Torreggiani. L'analisi degli interventi legislativi mostra come la situazione carceraria sia progressivamente migliorata a partire dall'indulto del 2006, ma è innegabile che il nostro Paese non sia ancora in grado di garantire il rispetto di quegli standard di vivibilità detentiva che ci viene chiesto dal Consiglio d'Europa. In base alle statistiche penali SPACE I e II del Consiglio d'Europa l'Italia infatti è ancora sesta nel ranking europeo per affollamento penitenziario”. Tutto questo ampio ventaglio legislativo non è servito a ridurre l’affollamento delle nostre carceri. E il sovraffollamento incide negativamente non solo sull’umanizzazione del percorso detentivo (che sembra essere l’unica cosa che davvero interessa ai paladini dei diritti dei detenuti) ma soprattutto sulle condizioni di lavoro di chi vive la prima linea delle sezioni 24 ore al giorno, ossia gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Ma, mi domando, perché non si è fatta una legge per espellere tutti i detenuti stranieri oggi ristretti in Italia (che sono oltre 20mila)? Gli accordi bilaterali su questo tema sono falliti perché i Paesi di origine non vogliono i loro delinquenti: meglio tenerli lontani dal proprio territorio... Ma uno Stato serio ed autorevole deve sapersi imporre, adottando gli adeguati e necessari provvedimenti di competenza, anche facendo valere le proprie ragioni in ambito europeo.

E, ancora, perché non si è imposto l’obbligatorietà del lavoro per i detenuti - tutti! - utili a produrre per loro un reddito economico e, quindi, a pagare allo Stato i costi della loro detenzione, come avviene in altri Paesi? Allora sì che forse potrebbe avere un senso una eventuale vigilanza di natura dinamica... Ed invece è notizia di questi giorni che con una circolare del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, datata 6 settembre ed inviata a provveditori regionali e ai direttori delle carceri, si è provveduto all’aggiornamento per i compensi dei detenuti lavoranti, prevedendo "una percentuale media di aumento di circa l'83% rispetto agli importi attualmente riconosciuti". L'aumento, spiega la circolare, è un effetto dei nuovi contratti collettivi nazionali di lavoro applicati, ma è semplicemente indecente: vi sembra mai normale e possibile che un detenuto, ristretto in un carcere per avere commesso uno o più reati, possa prendere uno stipendio mensile di 1.000, 1.100, 1.200, 1.300 euro al mese se lavora??? Io lo trovo semplicemente scandaloso. In Germania i detenuti che lavorano prendono meno di un euro per ogni ora di lavoro e si pagano tutto: spese per detenzione, televisione, luce, acqua... E’ anche per questo, forse, che l’Italia è il Paese di Bengodi per i delinquenti... Da tempo il SAPPE denuncia come la sicurezza interna delle carceri è stata messa a dura prova da provvedimenti discutibili proprio come la vigilanza dinamica e il regime aperto (che fa stare i detenuti tutto il giorno fuori della cella a non far nulla, nell’ozio e nell’apatia con le conseguenze che queste inevitabilmente determinano), come l’aver tolto le sentinelle della Polizia Penitenziaria di sorveglianza dalle mura di cinta delle carceri, come la mancanza di personale – sono 8.000 gli Agenti che servono, e il Governo ha recentemente autorizzato solamente 305 nuove assunzioni... -, come il mancato finanziamento per i servizi anti intrusione e anti

scavalcamento. Le carceri sono in costante ebollizione: e gli atti di violenza contro i nostri Agenti (ferimenti, colluttazioni, aggressioni) e destabilizzanti la sicurezza interna (come risse, pestaggi, rinvenimento di telefonini) sono pressochè quotidiani. Ma per quanto tempo ancora il sistema potrà reggere, se chi ha il dovere istituzionale e morale di intervenire non lo fa concretamente? Eppure, quando vogliono, i nostri parlamentari sono molto attenti e sensibili... Per 608 parlamentari è finalmente arrivato il 15 settembre 2017, il fatidico giorno che garantisce una rendita da mille euro al mese dopo soli quattro anni, sei mesi e un giorno di “lavoro”, cioè dall’avvio della legislatura. Al compimento dei 65 anni gli onorevoli potranno godere di un assegno mensile stimato in circa 9501.000 euro, sempre che non siano rieletti: in tal caso potranno goderne a

60 anni. Mentre il ddl Richetti - che dovrebbe tagliare il 40% dei 2600 trattamenti già in essere - resta impantanato al Senato dopo l'approvazione della Camera dei deputati a luglio. Altro che chiacchiere. Per garantirsi il tanto vituperato vitalizio (a parole, nei talk show televisivi e sui giornali, ovvio...), i ‘nostri’ parlamentari si sono fatti un baffo dell’instabilità politica che ha visto succedersi in meno di cinque anni tre presidenti del consiglio, 24 ministri e quasi 500 cambi di casacca tra deputati e senatori. Lo vedete che, quando vogliono, i nostri politici sono attenti e sensibili? F

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Nella foto: l’Aula della Camera


SAPPEINFORMA

Basta aggressioni. Giù le mani dalla Polizia Penitenziaria

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l 19 settembre 2017 il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria ha scritto un’altra pagina di storia del sindacalismo della Polizia Penitenziaria. Insieme alle altre Organizzazioni Sindacali del Corpo abbiamo manifestato a Roma, davanti alla Camera dei Deputati, nel giorno del Bicentenario della Polizia Penitenziaria per affermare che nulla c’era da festeggiare...

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foto di Michele Lorenzo e Roberto Morabito

MANIFESTAZIONE A MONTECITORIO

Nelle foto: alcune istantanee della Manifestazione, indetta dai Sindacati di Polizia Penitenziaria, che si è tenuta a Roma il 19 settembre in Piazza Montecitorio

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L’OSSERVATORIO POLITICO

Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe giovanni.durante@sappe.it

...E intanto nelle carceri aumentano gli eventi critici

Q

uello che abbiamo scritto negli ultimi mesi sulla situazione dell’amministrazione penitenziaria e delle carceri in generale trova sempre più conferme, giorno dopo giorno. Gli eventi critici non accennano a diminuire, anzi, sono sempre più drammatici. Erano tanti anni che in carcere non si verificava un omicidio. Nei giorni scorsi è avvenuto anche questo: un detenuto ha ucciso il compagno di cella nel carcere di San Gimignano. A seguito di un violento litigio tra due

Nella foto: sopra il carcere di San Gimignano sotto il Ministro della Giustizia Andrea Orlando

detenuti romeni uno ha ammazzato l’altro, usando uno sgabello di legno con il quale ha colpito più volte il compagno di cella. Il detenuto ucciso era un ergastolano in carcere per omicidio. « Nel carcere di San Gimignano - ha dichiarato il Garante dei detenuti della Toscana - che è classificato ad alta sicurezza, non c’è un direttore: è la direttrice di Grosseto che copre anche questa funzione recandosi presso la struttura un paio di volte a settimana. E’ una situazione che ho denunciato più volte e non è isolata. A Sollicciano è lo stesso, c’è un direttore a mezzo servizio, per così dire, che da Parma viene a Firenze». Il garante precisa ancora che nel carcere di Livorno era già successo un fatto simile, fortunatamente senza morti, e punta il

dito contro l’utilizzo degli sgabelli che per le loro caratteristiche possono essere usati come armi improprie. Tra l’altro - aggiunge - la Toscana è stata senza un provveditore ad hoc per molto tempo. Nulla di nuovo, per noi, potremmo dire. Sono cose che denunciamo da anni e che accomunano ormai tutte le regioni d’Italia. Tanto per fare qualche esempio, manca un provveditore titolare in Calabria e in Emilia Romagna, mancano direttori titolari di sede in tanti istituti, mentre al Dipartimento ce ne sono in esubero, ci sono addirittura istituti dove manca il comandante di reparto. E non ci sono solo gli sgabelli ad essere pericolosi nelle celle; ci sono, per esempio, le bombolette di gas, quelle da campeggio, che i detenuti usano per cucinare e scaldare cibi e bevande. Alcuni di loro, i tossicodipendenti, le usano per inalare il gas come sostitutivo della droga, per provare un po’ di sballo, ma a volte, soprattutto quando infilano la testa nella busta di plastica, per aumentare l’effetto, perdono i sensi e anche la vita. Lo abbiamo denunciato tante volte, ma non interessa a nessuno. Nelle carceri entra droga, ma l’amministrazione non ha ancora provveduto, a ventidue anni di distanza dalla previsione normativa delle unità cinofile (d.P.R. 395/95), ad attivarle almeno in tutte le regioni; i telefoni cellulari si trovano nelle celle come nei negozi di telefonia, nel carcere di Verona ne sono stati trovati 30 in pochissimo tempo, ma nessuno ha mai assunto iniziative concrete per schermare gli istituti, ovvero per acquistare gli strumenti per la ricerca degli stessi. I detenuti evadono e il ministro dichiara che, comunque, la polizia penitenziaria li riprende subito. Quindi, si potrebbe dedurre che l’evasione, dal carcere o dal permesso,

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non sarebbe un grosso problema. Forse è per questo che non si investe in sistemi di sicurezza: videocamere, impianti antintrusione e antiscavalcamento, ecc. Una seria riflessione bisognerebbe farla anche sulle modalità di concessione dei benefici penitenziari e sui soggetti da ammettere a fruirne. Com’è possibile, si sono interrogati molti cittadini, concedere la possibilità a un ergastolano di lasciare il carcere per recarsi tutti i giorni in treno a lavorare presso la Scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte? La legge lo consente, risponderebbero gli addetti ai lavori. Certo, la legge lo consente, ma forse una valutazione più attenta sulla pericolosità del soggetto consentirebbe di escluderlo. Poteva lavorare ugualmente, ma sotto il controllo della Polizia Penitenziaria. A lavorare alla scuola di Cairo Montenotte poteva andarci un detenuto meno pericoloso, magari con pochi anni da scontare. Molto probabilmente non sarebbe scappato. A settembre abbiamo incontrato il Ministro Orlando, insieme a tutte le altre organizzazioni sindacali, il quale ha detto nel suo intervento che si sarebbe impegnato a ripristinare corrette relazioni, anche al fine di capire che cosa non avesse funzionato nell’applicazione, corretta, delle direttive politiche. Il problema, in realtà, non è la corretta applicazione delle direttive politiche, ma le direttive stesse che sono sbagliate. Lo abbiamo detto più volte: rendere le carceri più umane e più vivibili, fare stare meglio i detenuti, non vuol dire smantellare il sistema di sicurezza delle carceri stesse e delegittimare completamente la polizia penitenziaria. Far stare bene i detenuti non vuol dire solo aprire le celle e lasciarli liberi e indisturbati, ma farli lavorare, fargli svolgere attività formative, affinché, una volta usciti dal carcere, possano intraprendere un percorso di vita diverso; laddove è possibile, ovviamente, considerato che alcuni di essi, appartenenti alla criminalità organizzata ed altri, non potranno mai essere recuperati. F


MONDO PENITENZIARIO

La Polizia Penitenziaria nella lotta al terrorismo e alla radicalizzazione jihadista

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a lotta al terrorismo internazionale e alla radicalizzazione jihadista rappresenta una priorità nell’agenda politica nazionale ed internazionale che richiede un’azione coordinata, determinata e ferma, per garantire risposte concrete ad un pericolo che non deve e non può essere in alcun modo sottovalutato. Dal lato normativo sono stati fatti molti passi in avanti, adeguando il nostro impianto sanzionatorio con la previsione di quattro nuove norme incriminatrici ed andando ad ampliare il campo applicativo di quelle che già erano vigenti nel nostro sistema. Una spinta decisiva, in questo senso, è giunta dalle istituzioni comunitarie che, nell’ambito dell’Agenda europea sulla sicurezza per il periodo 20152020, hanno sottolineato come l’esigenza di contrastare ogni forma di proselitismo, finalizzata ad una radicalizzazione verso forme estremistiche di odio e di violenza, debba essere considerata tra le priorità e debba coinvolgere tutti gli Stati membri in un clima di piena cooperazione e condivisione delle informazioni e delle azioni necessarie. La risposta sanzionatoria non è però sufficiente da sola ad evitare il rischio della radicalizzazione, ma deve essere messa in campo una strategia di prevenzione che parta da una approfondita analisi del fenomeno e dalla conoscenza delle forme e dei luoghi dove questo “virus” può nascere e svilupparsi. L’attenzione, che prima era focalizzata quasi esclusivamente sui luoghi di preghiera, si è spostata negli ultimi tempi anche sulle carceri perché, per motivi facilmente intuibili, costituiscono l’ambiente ideale per adescare soggetti più emarginati dalla società e instradarli verso un percorso di indottrinamento che li può portare a coltivare sentimenti di odio, violenza, rabbia e rancore nei confronti di tutto ciò che rappresenta

il nostro modello esistenziale. Il tema della lotta alla radicalizzazione non può che essere affrontato in una visione complessiva che deve coinvolgere, in un ruolo di primo piano, anche la Polizia Penitenziaria che costituisce un baluardo per la sicurezza e per il controllo di tutto ciò che accade, in particolare, all’interno delle strutture di reclusione. Non possiamo non ricordare gli importanti passi in avanti che si sono ottenuti negli anni, anche nell’organizzazione dello stesso Corpo, attraverso l’esperienza acquisita nella lotta a fenomeni di terrorismo interno, come quello delle Brigate Rosse, e di criminalità organizzata, che hanno portato alla creazione di nuove strutture operative altamente professionalizzate, come il Nucleo Investigativo Centrale (NIC) e il Gruppo Operativo Mobile (GOM), che costituiscono oggi, insieme ad altre importanti strutture interne al Corpo stesso, un punto di riferimento fondamentale nella rete di raccolta e analisi di dati e informazioni indispensabili per creare un sistema di prevenzione efficace e dinamico. Dobbiamo sfruttare queste competenze per garantire la sicurezza e valorizzare la professionalità di queste donne e uomini che, quotidianamente, si dedicano alla salvaguardia della sicurezza sociale e della legalità. Secondo i dati emersi nel recente convegno per il decennale del NIC, sono oltre 4.500 i soggetti che sono stati attenzionati e controllati per il rischio di radicalizzazione e, per alcuni, è scattata la misura dell’espulsione dal territorio del nostro Paese. La sicurezza, quale bene fondamentale per i cittadini, passa anche dal costante e continuo lavoro di squadra che viene compiuto da tutte le Forze dell’Ordine, in collaborazione con il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (CASA) e la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Attualmente sono al lavoro le

commissioni per la stesura dei decreti legislativi legati alla riforma dell’Ordinamento Penitenziario, delegata dal Parlamento al Governo, e credo sia questa la sede più adeguata per specificare tutte le misure che possono essere intraprese per migliorare ulteriormente il controllo e la prevenzione nelle attività confessionali, e non solo, all’interno delle strutture detentive. Già nei lavori dei vari tavoli degli Stati generali sull’esecuzione penale era emersa la necessità di intervenire per rispondere alla nuova dimensione multietnica e multiculturale della popolazione carceraria, attraverso il più concreto coinvolgimento di mediatori culturali e di ministri di culto, per garantire, da una parte, l’esercizio della libertà religiosa, e dall’altra, una maggiore conoscenza di coloro che si pongono nella posizione di interpreti delle esigenze di questi soggetti. Il personale che opera all’interno delle strutture penitenziarie deve essere messo nella condizione di poter decodificare ed individuare quegli elementi tipici del comportamento che possono essere sintomi di una radicalizzazione in corso e poter attivare immediatamente tutte le misure che possono essere utili ad interrompere un percorso di indottrinamento. Certamente questo sforzo richiederà, non solo una ulteriore formazione per gli agenti che già sono molto qualificati dal punto di vista professionale, ma anche l’affiancamento di questi con nuovo personale qualificato che dovrà essere individuato nei prossimi concorsi. Le sfide sono davanti a noi, sarà il tempo a giudicare se saremo stati capaci di affrontarle e superarle con successo.F

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Alessandro Torri Praticante avvocato Collaboratore Segreteria Sottosegretario Cosimo Ferri rivista@sappe.it

Nella foto: jihadisti


Gianfranco De Castro Medico legale criminologo Roberto Thomas Docente di criminologia alla Sapienza Università di Roma Magistrato emerito

CRIMINOLOGIA

La criminologia storica e la morte di Benito Mussolini e Clara Petacci

L Nelle foto: sotto l’esposizione dei corpi di Mussolini e della Petacci a destra la copertina del libro postumo di Walter Audisio

a criminologia, in estrema sintesi, è la disciplina multidisciplinare (che comprende materie diverse quale il diritto, la medicina legale, la psicologia, la sociologia ecc.) che tende ad accertare in generale le cause del crimine al fine della prevenzione generale del delitto, mediante l'elaborazione di teorie che riguardano lo studio del profilo criminologico della personalità del suo autore.

La criminologia storica è quella che, attraverso lo studio dei concreti casi criminali del passato, tende a fornire

spiegazioni valide anche per il presente, secondo quanto già notato da Benedetto Croce nel suo libro “La storia come pensiero e come azione”, Bari, Laterza,1966, pag. 11 , secondo cui : “Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce ad ogni storia il carattere di “storia contemporanea” , perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni” . Secondo la versione ufficiale la morte di Benito Mussolini avvenne il 28 aprile 1945 a Giulino, frazione del comune di Tremezzina , in provincia di Como, alle ore 16.20, all’ingresso esterno di villa Belmonte, insieme alla sua amante Claretta Petacci, a seguito di una serie di colpi d’arma da fuoco sparati dal partigiano “colonnello Valerio”, identificato per Walter Audisio (che raccontò tutta l’inquietante vicenda nel suo libro postumo del 1975 “In nome del popolo italiano”, pur lasciando il dubbio che a sparare fosse stato anche Michele Moretti, altro partigiano presente sul luogo in questione). Audisio, dopo la fine della guerra, diventerà parlamentare del partito comunista e sarà soggetto ad un giudizio penale per omicidio, conclusosi con sentenza di assoluzione del 7 luglio 1967 del giudice istruttore perché il fatto si era verificato “nel corso di un’azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica” e pertanto non punibile per la presenza della causa scriminante

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dello stato di necessità. La versione dell’uccisione di Mussolini, mediante colpi di arma da fuoco (a prescindere dalla esatta identità di colui o di coloro che avessero premuto il grilletto dell’arma o delle armi), venne avvalorata dall’esame autoptico eseguito sul cadavere di Mussolini dal prof. Caio Mario Cattabeni, il 30 aprile 1945, alle ore 7.30, che rilevava la presenza di sette fori di entrata di proiettili sul corpo di Mussolini, sottolineando

l’assenza di residui di cibo nello stomaco del predetto. La circostanza di tale assenza indusse a ritenere poco veritiera la tesi ufficiale della fucilazione di Mussolini avvenuta poco dopo le 16 del 28 aprile 1948, spostando l’ora del decesso al mattino di quel giorno, facendo per la prima volta balenare allo storico Alessandro Zanella, nel 1993, (anche grazie allo studio del dott. Aldo Alessiani, medico legale , perito del tribunale di Roma) l’ipotesi di una farsa predisposta ad hoc, consistente in una fucilazione di due persone già cadaveri, avvenuta sulla pubblica via all’altezza dell'ingresso di


CRIMINOLOGIA villa Belmonte (anche se, nel 2005, una nuova perizia del prof. Pierluigi Balma Bollone, ordinario di medicina legale all’università di Torino sulla necroscopia effettuata dal prof. Cattabeni del 1945, faceva concludere il primo sull’irrilevanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini, essendo noto che il predetto soffrisse di ulcera e osservasse una dieta che gli permetteva di evacuare il cibo entro un paio d’ore dalla sua ingestione). A prescindere dal fatto che, a proposito dello stomaco vuoto di Mussolini rilevato in sede di autopsia, la tesi recente del precitato prof. Bollone non esclude l’ipotesi opposta della mancanza di ingestione di cibo da molto tempo e cioè dalla sera del giorno precedente, che porterebbe l’orario della morte di Mussolini al mattino di quel 28 aprile, la circostanza oggettiva che avvalora siffatto orario con sicurezza si ritrova proprio nella relazione autoptica originaria del prof. Cattabeni in cui si cita “una rigidità risolta alla mandibola e persistente agli arti” del cadavere di Mussolini. Invero, sotto un corretto profilo medico legale, il fatto che, sul cadavere di Mussolini, fosse terminata la rigidità della mandibola, mentre permaneva ancora quella degli arti, indica che erano già passate 46-48 ore dal decesso e non le sole 39 (dalle 16.20 del 28 aprile alle 7.30 del 30 aprile, ora di effettuazione dell'autopsia) che erano trascorse secondo quanto dichiarato dai partigiani (che, come si evince dalle foto dell'epoca, assistettero all'autopsia, con una forte pressione psicologica evidente sul prof. Cattabeni, che minimizzò tale circostanza nella sua relazione scritta, e che non permisero l'esame autoptico sul corpo di Claretta Petacci, evidentemente non potendo tollerare che si mettesse in dubbio la loro parola sulla “regolare” esecuzione avvenuta nel pomeriggio del 28 aprile, sulla pubblica via, all'ingresso esterno di villa Belmonte), portando l’orario della morte di Mussolini al mattino e

non al pomeriggio di quel fatidico 28 aprile 1945. Il fatto che la rigidità cadaverica si era risolta alla mandibola, mentre era presente in tutte le altre parti del corpo, è considerabile più di un indizio, ma anzi trattasi di una prova che l’ora del decesso si era verificata almeno 7/8 ore prima di quanto ci è stato fatto sapere. Per essere più precisi sul fenomeno del rigor mortis è bene spendere due parole . Esso consiste in uno stato di contrattura di tutti i muscoli del cadavere e inizia, in linea di massima, 6/7 ore dopo il decesso. Comincia quasi sempre dai

Mussolini fosse avvenuta sette o otto ore dopo quella effettiva mediante un’esecuzione con armi automatiche sulla pubblica via? Sicuramente la spiegazione più verisimile è che i partigiani avessero voluto “fucilare” pubblicamente Mussolini, che era già morto da almeno sette ore, per dare una patina di legalità all'esecuzione ad un nemico della patria che aveva inferto, con la sua dittatura e l'alleanza con gli invasori tedeschi, gravissime sofferenze e lutti ai suoi connazionali, così avvalorando, sotto un profilo istituzionale, la nuova leadership che sarebbe nata sopra le ceneri di una guerra sanguinaria. Però forse vi era anche un'altra lettura dei fatti aggiunta a quella precedente, e cioè quella di coprire le modalità inquietanti e

muscoli masseterini e temporali, poi si estende a quelli del collo e del tronco e infine ai muscoli degli arti superiori e inferiori. La risoluzione totale di siffatta rigidità si ha dopo le 72 ore. La risoluzione del rigor mortis ha luogo nello stesso ordine precitato della sua comparsa, motivo per cui quanto scritto dal prof. Cattabeni in merito alla risoluzione della rigidità dei muscoli della mandibola di Mussolini, ha un significante pregnante in merito all’orario della sua morte. Perché allora sostenere da parte della dirigenza partigiana che la morte di

sadiche che un piccolo gruppo di partigiani, fuori dal controllo dei loro capi, per motivi personali di vendetta dei gravissimi torti e lutti subiti dalla dittatura di Mussolini, aveva inferto ai corpi di Mussolini e della Petacci prima di ucciderli, circostanza che , qualora fosse emersa avrebbe sicuramente offuscato l'immagine di legalità democratica che voleva essere perseguita ad ogni costo dalla direzione partigiana in opposizione eclatante con i crimini della dittatura fascista. Questa è la tesi più probabile che viene avvalorata da Giorgio Pisanò nel suo libro “Gli ultimi cinque secondi

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Nella foto: i cadaveri del Duce e di Claretta Petacci nel riquadro la prima pagina dell’Avanti con la notizia della esecuzione di Benito Mussolini

Á


CRIMINOLOGIA Nelle foto: sotto l’autopsia sul corpo di Mussolini a destra una immagine di Walter Audisio

di Mussolini”, ed. Il Saggiatore, 1996, che elenca alcune testimonianze in tal senso ed in particolare quella di un medico legale (di cui si mantiene riservata l'identità per motivi di sicurezza personale) che avrebbe assistito all'esame autoptico di Mussolini ed anche ispezionato il cadavere della Petacci che

testualmente dichiara : “posso affermare con certezza che la morte dei due non è avvenuta così come l'hanno raccontata, ossia per fucilazione. Premetto che i due al momento del decesso erano nudi, in quanto le ferite (di proiettile) riportate sulla pelle nuda sono differenti da quelle provocate su dei corpi vestiti; inoltre era visibile una vasta zona di ematoma alla base del collo di entrambi; la Petacci presentava varie ferite ano-vaginali; si pensò che le fu introdotto negli orifizi un bastone o un manico di scopa così violentemente da provocarle emorragie interne gravissime. All'interno della zona vaginale e anale, furono trovate tracce di liquido seminale, facendo presumere che si trattò di uno stupro di gruppo. Anche il duce non fu risparmiato, venne violentato e seviziato con l'ausilio di un bastone. Del fatto che i due erano nudi al momento del decesso non vi sono dubbi, in quanto le ferite (di proiettile) su di un corpo nudo sono riconoscibili, poi i fori dei proiettili sui corpi non corrispondevano ai fori dei proiettili sui vestiti. Inoltre era risaputo che Mussolini avesse la gamba sinistra più corta della destra, e negli stivali, al momento dell'esame autoptico non c'era il rialzo di due centimetri che lui usava abitualmente, oltre al fatto che gli stivali non erano della sua

misura. Riguardo alle cause della morte per soffocamento non ci sono dubbi, anche se furono determinanti le emorragie interne causate dalle sevizie” . Da quanto sopra scritto emerge l'importanza storica e criminologica generale dello studio della scena del delitto dell'uccisione di Mussolini e della Petacci, che, per quanto potenzialmente inquinata dal particolare e inquietante frangente storico della lotta partigiana contro l'invasore tedesco e le forze repubblichine di Salò, ci offre ancor oggi uno spaccato dell'importanza della criminologia storica, come già ricordato dal già citato Benedetto Croce, che può essere un'anticipazione dello studio della scena del delitto odierna, assai più sofisticata rispetto a quei tempi e a quelle circostanze (si pensi, per esempio, alle indagini sul DNA, assolutamente sconosciute a quell'epoca) che permette l'accertamento scientifico delle modalità dell'azione delittuosa e l'identificazione genetica del suo autore. F

Rammentiamo la procedura per l’ordinazione dei testi

ATO

PROROG

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L’ordinante deve comunicare (mail f.rocca@latribuna.it) i seguenti dati: · dati di fatturazione (codice fiscale e indirizzo); · dati di spedizione della merce se differenti dall’indirizzo di fatturazione; · un recapito telefonico da comunicare al corriere nel caso vi fossero difficoltà nella consegna. I volumi verranno consegnati con fattura accompagnatoria sulla quale è indicato l’IBAN per il bonifico bancario. Il pagamento solo dopo il ricevimento della merce, indicando in causale il numero della fattura.


GIUSTIZIA MINORILE

Giustizia, il Ministro Orlando annuncia: i Tribunali Minorili non chiuderanno

I

l ministro Orlando annuncia lo stralcio della norma che ne prevedeva il riordino, in attesa di una riflessione più ampia. I Tribunali minorili non chiuderanno, almeno non adesso e non prima di una profonda riflessione sul tema. Fonti qualificate da via Arenula confermano l’intenzione del Ministro della Giustizia Andrea Orlando di stralciare dalla riforma della giustizia civile la norma relativa alla revisione del ruolo delle Corti di Giustizia dedicate ai minorenni. In realtà la decisione di congelare il provvedimento era stata annunciata già a fine luglio, in occasione della visita del Ministro alla Casa famiglia intitolata a Peppino Brancati e gestita dai Salesiani a Torre Annunziata (Napoli). Probabile che sulla decisione del Ministro Orlando abbiano pesato le prime reazioni all’ipotesi di inserire la norma nella riforma, al momento all’esame di Palazzo Madama. Una possibilità che aveva suscitato numerose perplessità da parte di giuristi, Magistrati e associazioni. E provocato polemiche politiche, anche all’interno della maggioranza dove in molti hanno ipotizzato un tentativo da parte del Governo di sopprimere del tutto i Tribunali dei Minori. Circostanza che lo stesso Orlando ha definito «un equivoco», sostenendo che «l’ipotesi non è mai stata di sopprimerli, quanto di portarli all’interno del Tribunale della famiglia in modo che la tematica minorile non sia più trattata in maniera isolata, ma in modo più globale e in un contesto più ampio». Ad ogni modo, l’intenzione di stralciare il provvedimento ha già incassato l’appoggio di diversi esponenti della maggioranza.

La prima ad esultare è stata Maria Elena Boschi, che ha affidato a Twitter il suo commento: «Felice della buona notizia: i Tribunali dei Minori non chiuderanno», ha scritto la sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio. Anche Sandra Zampa, Vicepresidente della commissione Infanzia e adolescenza e responsabile del dipartimento Minori del Pd, ha parlato

riflettere sulla strada da prendere avendo presente che essa deve tutelare e rafforzare una giustizia davvero a misura di minore». Anche in commissione Giustizia del Senato la notizia è stata accolta con entusiasmo. Giuseppe Lumia, ha sottolineato come la scelta rispecchi «l’idea che da mesi, con molti senatori, coltiviamo all’interno della commissione.

di «una decisione saggia», ricordando che «la Giustizia Minorile è un bene preziosissimo che va tutelato anche mettendolo al riparo dal rischio di divisioni e polemiche tra le sue complesse espressioni. Per questo va salutato positivamente il tempo di una riflessione e di approfondimenti ulteriori ferma restando l’esigenza di un intervento riformatore anche alla luce dei richiami che l’Europa sia in sede di Consiglio che di Corte hanno rivolto all’Italia. Insieme ai magistrati minorili, all’ordine degli assistenti sociali e degli avvocati ha continuato Zampa - utilizziamo il tempo che lo stralcio concede per

Le nostre idee finalmente trovano ampio riscontro anche nel governo e questa decisione - conclude - ci mette nelle migliori condizioni per procedere con la riforma e arrivare, anche con questa importante legge, a conclusione certa durante questa legislatura». F

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Ciro Borrelli Dirigente Sappe Scuole e Formazione Minori borrelli@sappe.it

Nelle foto: sopra la visita del Ministro Orlando alla Casa famiglia “P. Brancati” di Torre Annunziata

a fianco Sandra Zampa


DIRITTO E DIRITTI

Giovanni Passaro passaro@sappe.it

L’isola di Pianosa: detenuti nel mare protetto

L’

isola di Pianosa fu abitata sin dall'epoca preistorica, il nome si riferì, sin dall'Antichità classica, alla sua morfologia pianeggiante: Planasia, dall'aggettivo latino planus (piatto). Durante il Medioevo, il nome dell'isola si trasformò in Planosa. Le prime notizie documentate che riguardano Pianosa risalgono all'epoca del secondo triumvirato, (Antonio, Lepido e Ottaviano, 43-34 a.C.), quando Sesto Pompeo invase la maggior parte delle isole italiane, allora importanti per la produzione di grano, impedendo i rifornimenti alla terraferma.

Nelle foto: immagini del carcere di Pianosa

L’isola è stata colonia penale agricola fin dai tempi dell’Unità d’Italia e poi carcere di massima sicurezza che ospitava brigatisti e mafiosi occupando l’intera superficie pianosina. Nel 1856 venne istituita dal Granducato di Toscana "la colonia penale agricola della Pianosa" e furono inviati sull'isola i condannati "al carcere, alla casa di forza, ed all'ergastolo a tempo", tutti destinati ad occuparsi dei lavori nei campi. Nel 1861, al momento della proclamazione dell'unità d'Italia, il totale dei reclusi ammontava a 149. L'anno seguente fu terminato un edificio capace di ospitare 350 detenuti, ma nel 1872 si preferì

dividere l'isola in diversi centri di produzione agricola detti poderi dislocando così i reclusi in piccole comunità. Attorno al 1880 il carcere sull'isola ospitava ben 960 reclusi. Il territorio isolano era quindi diviso in due realtà separate da un grande muro in cemento armato: la zona carceraria, con le diramazioni e i terreni coltivati dai detenuti e la più piccola porzione del paese, nucleo abitato dal personale del carcere e di quanti svolgevano servizi per la comunità. A partire dal 1884, nella Casa Penale di Pianosa vennero trasferiti dalle carceri di tutta Italia i detenuti ammalati di tubercolosi, che si unirono così ad altri già presenti sull'isola, rimanendovi fino al 1965. Il trattamento dei detenuti tubercolosi avveniva in tre strutture: Preventorio (attuale Centrale) dove venivano accolti i supposti malati per le prime visite; il Sanatorio (ex Podere del Cardon, attuale Agrippa) un ospedale ben attrezzato per la cura delle malattie polmonari; il Convalescenziario (Podere del Marchese) dove i detenuti guariti trascorrevano un periodo di convalescenza. Durante il periodo fascista il carcere continuò la sua opera, dal 1931 al 1935 "ospite" della diramazione del Sembolello nel 1932 anche il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, incarcerato per motivi politici. In quegli anni a Pianosa abitavano circa 60 famiglie, forse è il momento di maggior presenza di civili a Pianosa. Negli anni ’80 si comincia a prospettare l’ipotesi di chiusura del carcere e la restituzione di Pianosa alle competenti autorità civili. In seguito all’emergenza dettata dagli attentati ai magistrati Falcone e

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Borsellino, il Governo, su impulso del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, decide la immediata riapertura del carcere di massima sicurezza sull’isola e la rimanente popolazione dell'isola venne evacuata, relegandovi prima detenuti per reati di tipo terroristico ed in seguito pericolosi esponenti delle mafie condannati al 41 bis . Questa nuova situazione trasforma Pianosa in una fortezza, inaccessibile a tutti, con la sezione Agrippa a sua volta separata dal resto dell’isola; Pianosa viene vigilata giorno e notte da Agenti di Custodia, Carabinieri, Polizia di Stato, vengono istituiti rigidissimi divieti di sorvolo e di navigazione nelle

acque circostanti. L’emergenza si protrae fino al luglio 1997, quando l’ultimo detenuto per mafia viene trasferito dall’isola ad altre sedi di reclusione sul continente, e per il carcere di Pianosa si ricomincia a parlare di chiusura. Una chiusura quasi definitiva nell’agosto del 1998, non essendo rimaste sull’isola che poche forze dell’ordine con compiti di vigilanza e di guardia alle strutture. Il 5 novembre 2009, l'allora Ministro Angelino Alfano, annunciò l'intenzione di riattivare pienamente il supercarcere, ma il giorno successivo, l'allora Ministro dell'ambiente Stefania Prestigiacomo annunciò che,


DIRITTO E DIRITTI contrariamente alle dichiarazioni del collega, il carcere non sarebbe stato riaperto. Le attività dell'istituto sono cessate definitivamente nel 2011. Attualmente l'isola di Pianosa riveste un estremo interesse geo-ambientale per il fatto di essere stata soggetta per un lungo periodo di tempo ad un forzato isolamento che ha preservato l'isola dall'impatto antropico, a differenza di quanto avvenuto, invece, nelle altre isole dell'Arcipelago. Il muro, voluto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, taglia l'isola in due: la zona del centro abitato e l'area penitenziaria. Oggi l’isola è quasi completamente disabitata, fatto salvo per ventitré detenuti circa in regime di art. 21 O.P. provenienti dalla Casa di reclusione di Porto Azzurro che sull'isola ha mantenuto un presidio per fare un po’ di manutenzione e coltivare un orto biologico. Un'isola che, malgrado un passato di isolamento e un presente controverso, è sinonimo di libertà.

le strutture sono state abbandonate, e molte lo sono ancora oggi. Le competenze sono ripartite tra Ministero della Cultura, dell'Ambiente, della Giustizia e del Patrimonio; poi, vi è la custodia affidata al parco e le aspettative di riconoscimento degli usi civici da parte del Comune. Tutto questo ha impedito e impedisce di fatto qualunque opera di ristrutturazione necessaria, come la costruzione di un nuovo impianto fognario. Insomma, tanta magnificenza assorta da altrettanta burocrazia. Ma come è possibile che un'isola che ha sacrificato tanti servitori dello Stato, sottratti alla vita comune, e la speranza di migliaia di persone (tra gli ospiti "diversamente illustri" Agrippa Postumo, il nipote di Augusto, primo forse - grande esiliato nell'isola, Sandro Pertini e Renato Curcio) si lasci andare! Inoltre, dal 1999, a seguito della chiusura del carcere, l'isola è stata aperta al turismo. È il Parco Nazionale

I detenuti hanno scontato parte della loro pena e grazie alla buona condotta possono concludere il percorso detentivo partecipando a questo innovativo progetto di rieducazione. Si occupano di lavori di manutenzione nel piccolo hotel “Milena” di sole 11 camere doppie e una singola e della ristorazione nell'unico bar-ristorante, gestiti da una cooperativa sociale. Il resto sono case vuote (occupate provvisoriamente nei periodo estivi dal personale di Polizia Penitenziaria che trascorre qualche giorno di relax con la propria famiglia), decrepite e pericolanti. Il momento difficile è paradossalmente arrivato dopo la chiusura del carcere:

dell'Arcipelago Toscano, sul cui perimetro ricade l'isola, che regola l'affluenza turistica con visite guidate. Altra presenza degna di nota è l’Associazione per la difesa dell’isola di Pianosa, una Onlus di cittadini elbani, è tutto ciò che resta per rallentare la clessidra della storia che sbriciola i ricordi, ogni estate allestisce sull’isola una preziosa mostra fotografica con ingresso libero, i proventi raccolti con la vendita di gadget e altro sono utilizzati per recuperare un pezzo alla volta questo patrimonio di tutti. Pianosa è insomma un paradiso perfettamente conservato e quindi unico nel suo genere. F

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LO SPORT

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Arco, argento per Simonelli e Franchini in Coppa del Mondo

N Nelle foto: sotto Eleonora Sarti a destra Irene Franchini e Alberto Simonelli in basso Elisabetta Mijno

ella prestigiosa cornice dello stadio dei Marmi, che già in passato aveva ospitato il tiro con l’arco (diverse edizioni dei Campionati Italiani, compreso quello del Cinquantenario FITARCO nel 2011 e, recentemente, la finale del Circuito di Youth Cup che ha visto primeggiare gli azzurrini nel 2015) dal 2 al 3 settembre si sono svolte le finali di Coppa del Mondo. Una location fortemente evocativa dello spirito olimpico, che è andata ad aggiungersi al lungo elenco di luoghi simbolo che hanno ospitato la manifestazione a tappe più rilevante del panorama arcieristico

internazionale, come la Torre Eiffel a Parigi, lo Zocalo di Città del Messico e il Bosforo a Istanbul. Tifo alle stelle, appassionato, spalti pieni, con circa 5000 spettatori in due giorni di gare e numerose autorità sedute in tribune a godersi i match dei migliori arcieri del mondo hanno fatto da cornice a una giornata che rimarrà nella storia del tiro con l’arco per la qualità organizzativa della manifestazione a cui il know how del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre ha dato sicuramente un ottimo apporto. Al mattino il programma prevedeva le finali del ricurvo femminile e del

mixed team. Tra gli applausi del Presidente CONI Giovanni Malagò che ha seguito i match insieme al Presidente World Archery e Vicepresidente CIO Ugur Erdener, al Presidente FITARCO Mario Scarzella e al Presidente del CIP Luca Pancalli, anche un altro tifoso a sorpresa, il conduttore televisivo Paolo Bonolis che aveva incontrato gli azzurri al Circolo del Tennis al Foro Italico e aveva promesso che sarebbe tornato a tifarli con la famiglia. Il Circuito di Coppa del Mondo prevede quattro tappe più la finale, alla quale accedono i primi otto atleti di ciascuna delle quattro divisioni in gara: Arco Olimpico maschile e femminile, Compound maschile e femminile. A queste quattro finali si aggiungono i match dedicati al mixed team del ricurvo e del compound che mettono a confronto la Nazionale ospitante (Italia) contro i duetti delle Nazionali che hanno ottenuto il miglior piazzamento in ranking al termine delle quattro tappe. Per l’Italia, in qualità di paese ospitante, era garantita la partecipazione di almeno un atleta in ciascuna delle quattro competizioni, ma gli arcieri azzurri potevano anche qualificarsi in base ai risultati ottenuti nelle precedenti tappe, fino a portare sulla linea di tiro un massimo di due rappresentanti per ogni divisione. Nel mixed team, nella mattinata del 2 settembre, le Fiamme Azzurre hanno messo in campo due campioni del calibro del vicecampione paralimpico a Rio 2016 Alberto Simonelli (questa stagione sempre titolare con la Nazionale “normodotati”) e l’iridata indoor Irene Franchini. I due portacolori della Polizia Penitenziaria sono giunti a giocarsi la finale contro la Danimarca, prima in

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ranking al termine delle quattro tappe di coppa, che schierava il terribile duo tanto giovane quanto vincente composto da Sarah Sonnichsen e Stephan Hansen. E’ stato comunque un ottimo argento. ROMA (2/3 settembre) Finali di Coppa del Mondo Fita – mixed team compound: (1) Danimarca, (2) Italia/ALBERTO SIMONELLIIRENE FRANCHINI (F: S/Danimarca 146-155) Calendario Hyundai Archery World Cup: • FASE 1: SHANGHAI, CINA 16-21 MAGGIO • FASE 2: ANTALYA, TURCHIA 6-11 GIUGNO • FASE 3: SALT LAKE CITY, STATI UNITI D’AMERICA – 20-25 GIUGNO • FASE 4: BERLINO, GERMANIA 8-13 AGOSTO • FINALE: ROMA, ITALIA 2/3 SETTEMBRE

Due ori e un bronzo ai Campionati mondiali di para-archey di Pechino

L’

Italia ha chiuso con un ottimo risultato la rassegna iridata dei Mondiali Para-Archery di Pechino svoltisi dal 12 a 17 settembre: 5° posto del medagliere con 2 ori, 2 bronzi e 2 quarti posti. I due metalli più pesanti portano la firma delle Fiamme Azzurre grazie alle frecce di Alberto Simonelli (compound a squadre) ed Elisabetta Mijno (mixed team). Alberto Simonelli, Giampaolo Cancelli e Matteo Bonacina, nella gara a squadre, sono saliti sul primo gradino del podio dopo una finale molto equilibrata contro l’Iran (Biabiani, Manshaezadeh, Nori)


LO SPORT conclusa 226-225. La vittoria azzurra è arrivata dopo una grande rimonta culminata con gli ultimi sei tiri con ben cinque “10”. Dopo il bronzo di due anni fa una bella soddisfazione personale e per tutto il movimento azzurro. E’ arrivata invece quarta la squadra compound femminile composta dalla nostra Eleonora Sarti, da Giulia Pesci e Maria Andrea Viriglio. Il terzetto si è fermato ai piedi del podio perdendo la finale contro una Russia in forma superlativa. Alekseeva, Andrievskaia e Artakhinova hanno iniziato la gara con sei “10” di fila portandosi subito sul 60-56. L’Italia ha provato a resistere ma le avversarie hanno tenuto un ritmo alto, vincendo tutti i parziali e chiudendo la sfida con il risultato di 229-217. Il mixed team compound azzurro, composto dai due portacolori della Polizia Penitenziaria Eleonora Sarti e Alberto Simonelli si è invece fermato ai piedi del podio: quarto per un solo punto di differenza sul team inglese (Pine, Walker) giunto al bronzo con 152-151. Gli azzurri sono partiti meglio ma nell’ultima serie di tiri è arrivato il vantaggio, seppure di misura, dei britannici: quattro “10” in fila (40-38) hanno condannato Simonelli e Sarti alla medaglia “di legno”. Per le Fiamme Azzurre è arrivato anche il bronzo di Elisabetta Mijno nell’olimpico a squadre. Meno fortuna nelle gare individuali nelle quali i nostri si sono fermati a ridosso del podio, ma le prove sono state comunque di spessore elevato e talvolta a suon di record del mondo. PECHINO (12/17 settembre) Campionati Mondiali di paraarchery – Olimpico Femminile: (1) Zahra Nemati IRI, (2) Merve Nur Eroglu TUR, (3) Wu Chunyan CHN, (7) ELISABETTA MIJNO (3RR626/316+310, 32: V/Ha Sam Suk KOR 6-0/21-19, 28-17, 27-22, 16: V/Zehra Ozbey Torun TUR 6-2/27-25, 24-22, 24-28, 27-27, QF: S/Merve Nur Eroglu TUR 0-6/26-28, 25-26, 26-27); Compound Maschile: (1) Ai Xinliang CHN, (2) Andre Shelby USA, (3) Ben Thompson USA,

(4) ALBERTO SIMONELLI (2RR695/342+353, 96: bye, 48: bye, 32: V/Lance Thornton USA 143-139, 16: V/Lee Ouk Soo KOR 146-144, QF: V/John Walker GBR 147-144, SF: S/Andre Shelby USA 142-147, F3/4: S/Ben Thompson USA 144-146); Compound Femminile: (1) Zhou Jiamin CHN, (2) Tatyana Andreivskaya RUS, (3) Lin Yueshan CHN, (5) ELEONORA SARTI (3RR681/340+341, 48: bye, 32: V/Karina Granitza GER 146-134, 16: V/Li Hui CHN 144-137, QF: S/Maria Andrea Virgilio ITA 143-145); Olimpico squadre Femminile: (1) Cina, (2) Russia, (3) Italia/Veronica FlorenoELISABETTA MIJNO-Annalisa Rosada (2Q/1757, QF: bye, SF: S/Russia 0-6/49-52, 47-51, 47-53, F3/4: V/Iran 5-4/43-45, 49-48, 47-49, 51-48, T/24-18); Olimpico mixed team: (1) Italia/ELISABETTA MIJNOStefano Trevisani (4Q/1234, 16: V/Giappone 6-2/34-35, 36-26, 33-26, 36-33, QF: V/Repubblica Ceca 6-2/3132, 35-32, 35-31, 38-29, SF: V/Iran 5-1/35-35, 38-34, 37-35, F/Brasile 60/33-23, 32-30, 34-29), (2) Brasile, (3) Iran; Compound squadre Maschile: (1) Italia/Matteo BonacinaGiampaolo Cancelli-ALBERTO SIMONELLI (2Q/2060, 16: V/Polonia 231-221, QF: V/India 224-207, SF: V/Russia 231-224, F: V/Iran 226-225), (2) Iran, (3) Usa; Compound squadre Femminile: (1) Iran, (2) Cina, (3) Russia, (4) Italia/Giulia Pesci-ELEONORA SARTIMaria Andrea Virgilio (2Q/2022, 16: bye, QF: V/Corea del Sud 220-208, SF: S/Iran 208-228, F3/4: S/Russia 217229); Compound mixed team: (1) Russia, (2) Iran, (3) Gran Bretagna, (4) italia/ELEONORA SARTIALBERTO SIMONELLI (2Q/1376, 16: V/Spagna 155-148, QF: V/Corea del Sud 158-145, SF: S/Russia 148-154, F3/4: S/Gran Bretagna 151-152). F

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Promozione riservata agli iscritti al Sappe per l’acquisto dell’Opera di Santi Consolo:

“Codice Penitenziario commentato” II edizione – giugno 2017

Una ricca Opera in cui i massimi esperti della materia tra magistrati e funzionari dell’Amministrazione penitenziaria raccolgono il frutto della recente evoluzione normativa e amministrativa di cui il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si e reso interprete e responsabile per fonderlo in un’opera organica il cui filo conduttore e l’applicazione pratica dell’ordinamento penitenziario nel contesto del nuovo modello detentivo configurato dalla Riforma penitenziaria. L’Opera e inoltre sostanziosamente arricchita da numerosi documenti non facilmente reperibili che, sfruttando appieno la tecnologia dei QRcodes, vengono resi consultabili in maniera semplice e veloce. Caratteristiche dell’opera: formato: 15x21 cm; pagine: 352; carta: avoriata da 90 gr.; copertina: patinata lucida da 300 gr; rilegatura: brossura. Prezzo di copertina € 42,00 Sconto del 30% (€ 12,60) riservato agli iscritti al Sappe. Prezzo netto, IVA inclusa, la copia € 29,40. La quotazione di cui sopra si riferisce a ordini cumulativi di minimo 5 copie raccolti dalle singole Segreterie, con spedizione che sara a nostro carico con corriere espresso. Il pagamento potrà avvenire con carta di credito, bonifico bancario o contrassegno. www.laurus.tv


DALLE SEGRETERIE Trapani

Tivoli

Memorial in ricordo Sollevamento pesi: dell’Assistente Capo l'uomo più forte Pietro Sanclemente d'Europa si chiama Carlo Cerignano ra il 17 gennaio 2017 quando dopo una breve ma dolorosa ...ed è un collega malattia si spegneva l’Assistente

E

Capo Pietro Sanclemente. A distanza di sette mesi la Polizia Penitenziaria di Trapani l’ha voluto ricordare con un Memorial di beach volley misto disputato al lido della Polizia Penitenziaria e che si è concluso il 12 agosto 2017.

Nelle foto: sopra la premiazione sotto la consegna della targa commemorativa in basso la squadra della “Francia” sul campo di gara

Sei le squadre partecipanti che hanno preso i nomi di nazioni europee; numerosi gli sponsor (Hard discount, Camomilla moda donna, Ottica Catello, Gelatissimo, Brillante giochi). La squadra della Francia formata da: Domenico Russo, Ivana Schifano, Francesco Margagliotti, Lorenzo, Vito D’aleo, e Jordan Romano si è aggiudicata il torneo dopo aver battuto in finale il Portogallo. La stessa sera durante le premiazioni dei partecipanti e dei vincitori c’è stato un breve, ma intenso, momento di commozione durante il quale il Comandante della Polizia Penitenziaria di Trapani Commissario Capo Giuseppe Romano ha ricordato la figura del collega e ha donato a nome di tutti i poliziotti penitenziari e amici che frequentano il lido, una targa commemorativa. F

C

entosettantadue concorrenti, venti nazioni iscritte a partecipare al Campionato Europeo di questa disciplina sportiva che conta su forza, concentrazione e nervi d’acciaio, che si è disputata in una “tre giorni” di prove ad Amsterdam e uno solo vincitore. Il Re d’Europa di questa disciplina sportiva che prevede una prova di squat, una di panca piana e una di stacco, è di Tivoli e si chiama Carlo Cerignano. Classe 1964, un gigante di muscoli e di potenza, centottantacinque centimetri di altezza per centoventi kg di peso, Carlo Cerignano ha vinto il titolo europeo di Powerlifting dominando le tre prove, kg 267,5 di squat, kg 180 di panca piana e kg 280 di stacco da terra che rappresenta il nuovo record mondiale ed europeo. «Ho iniziato questa attività sportiva – spiega il campione europeo – nel 1985. Da allora non mi sono mai fermato e quello che posso assicurare è che da allora mi sento sempre meglio, mi sento un leone». Quando ha vinto il titolo, stracciando la concorrenza di tedeschi e francesi prima di tutto, Cerignano ha rivolto parole dolci nei riguardi della moglie Milena che lo segue assiduamente in ogni sua gara. «E’ stata dura preparare questo campionato europeo – spiega Carlo Cerignano – perché il mio lavoro è impegnativo e ogni giorno mi sono allenato lo stesso dalle due alle quattro ore. Devo ringraziare il mio allenatore, Carlo Testi. Il nostro è stato un lavoro lungo e minuzioso. Non mi aspettavo di vincere ma mi ero preparato bene. Sono felice per mia moglie e per tutti quelli che hanno sempre creduto in me».

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Ha ricevuto i complimenti sul podio di Amsterdam da parte del Presidente della Federazione e dei tifosi italiani presenti alla rassegna: «E’ stata una grande emozione – spiega Cerignano – che mi ha ripagato di tutti i sacrifici che ho fatto per arrivare fino a lì».

Ora però niente vacanze, per Carlo Cerignano non c’è pausa. Il prossimo 8 ottobre sono in programma i campionati italiani e il 13 novembre c’è un appuntamento imperdibile, il mondiale che si svolgerà a Riva del Garda. Cerignano dopo l’Europa ha voglia di conquistare il Mondo. Gli allenamenti sono al massimo livello, l’obiettivo è il titolo iridato. F Sergio Toraldo


la scheda del film Regia: Ric Roman Waugh Titolo originale: Shot Caller Soggetto e Sceneggiatura: Ric Roman Waugh Fotografia: Dana Gonzales Montaggio: Michelle Tesoro Musiche: Antônio Pinto Scenografia: Guy Barnes Arredamento: Wendy Ozols-Barnes Costumi: Kelli Jones Effetti: Anthony Lupoi Produzione: Bold Films, DirecTV, Participant Media, Relativity Studios Distribuzione: Notorious Pictures Personaggi e interpreti: Jacob Harlon/Money: Nikolaj Coster-Waldau Kate: Lake Bell Frank Costello/Shotgun: Jon Bernthal Bottles: Jeffrey Donovan Tom: Max Greenfield Kutcher: Omari Hardwick Sanchez: Benjamin Bratt Chopper: Evan Jones (II) Jennifer: Jessy Schram La Bestia: Holt McCallany Howie: Emory Cohen Steve: Michael Landes Herman Gomez: Juan Pablo Raba Janie: Sarah Minnich Redwood/Toby Simms: Chris Browning Phil Cole: Matt Gerald Ripper: Keith Jardine Lola: Monique Candelaria Tenente Roberts: Mark Sivertsen Joshua: Jonathon McClendon Capitano Freeman: David House Jason Horvath: Cru Ennis Tony: Andrew Batchelor Lenny: Bobby Lee Osborn Joshua bambino: Derek Dinniene Lopez: Diego Joaquin Lopez Tank: Frankie Lester Jinkins: Justin Webb

CINEMA DIETRO LE SBARRE

a cura di Giovanni Battista de Blasis

La Fratellanza

J

acob Harlon è un affermato broker di Wall Street. Ha una bella famiglia, tanti amici, insomma tutto quello di bello che si può desiderare dalla vita. Ad un certo punto, però, tutto il mondo gli crolla addosso. Complice un bicchiere di troppo, una sera Jacob si distrae alla guida della sua auto e provoca un gravissimo incidente nel quale perde la vita un passeggero. Inevitabile la condanna per omicidio stradale che gli aprirà le porte del carcere. Per sopravvivere alla dura vita carceraria, Jacob è costretto ad affiliarsi alla fratellanza ariana, sottoponendosi ai suoi violenti codici etici e a tutti i riti di passaggio. Ben presto Jacob perde la sua identità e si trasforma in Money, uno spietato gangster carcerario, allontanandosi dalla sua vita precedente, da sua moglie e da suo figlio. L’effetto collaterale a questa trasformazione sarà quello di aumentare a dismisura la sua pena detentiva. Uscirà di prigione dopo ben dieci anni, per essere ammesso alla libertà vigilata. Ma le conseguenze della sua affiliazione alla fratellanza ariana no finiranno con l’uscita di prigione. Infatti, Money sarà costretto ad organizzare, per i suoi vecchi

compagni, la vendita di armi importate illegalmente dall’Iraq a un cartello messicano. In fin dei conti La Fratellanza affronta il tema più classico del filone carcerario, raccontando la trasformazione che la prigione opera su un uomo attraverso un percorso di lotta per la sopravvivenza e redenzione. Per svolgere il compito, però, il regista americano Ric Roman Waugh si affida troppo agli stereotipi, sorvolando sulle caratterizzazioni psicologiche dei personaggi, per concentrarsi sostanzialmente solo sulla trasformazione fisica dei prigionieri. F

Genere: Thriller Durata: 121 minuti, Origine: USA 2017 Polizia Penitenziaria n.253 • settembre 2017 • 23

Nelle foto: la locandina e alcune scene del film


CRIMINI E CRIMINALI

Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

La Rivolta di Porto Azzurro

I

l 25 agosto del 1987, è una tranquilla giornata estiva e l’Elba è piena di turisti che prendono il sole e soprattutto si godono il mare dell’isola dell’arcipelago toscano. Nulla fa presagire che quel giorno sarebbe stato ricordato, per il susseguirsi degli avvenimenti che di li a poco accadranno, come uno dei più infausti della storia dell’isola e che sarebbe rimasto per sempre nella memoria collettiva dell’intera comunità.

Nelle foto sopra: una veduta del penitenziario di Porto Azzurro sotto la targa all’ingresso dell’istituto a destra il momento della liberazione degli ostaggi

Quattro detenuti, ristretti nel carcere di Forte Longone, hanno bloccato e preso in ostaggio, nei pressi del campo sportivo dell’istituto penitenziario, due Agenti di Custodia, Sebastiano De Muro e Antonio Fedele. Poco dopo, due dei sequestratori, si dirigono verso la “Galleria” per ricongiungersi con altri detenuti, che nel frattempo erano nel corridoio in attesa di sostenere un colloquio con il direttore del carcere, Cosimo Giordano. Le intenzioni dei sei reclusi è quella di evadere con un’azione fulminea: volevano raggiungere con un auto blindata il porto della cittadina, per poi continuare la fuga a bordo di un potente motoscafo. La vettura viene così richiesta al direttore Giordano che è accompagnato, nella sala colloqui, dal

maresciallo Stanislao Munno. I sequestratori accettano che il sottufficiale vada a prendere l'auto, ma gli impongono di tornare entro cinque minuti, altrimenti avrebbero ucciso uno degli ostaggi, il brigadiere Matta. Il maresciallo, che si era offerto volontariamente di andare a prendere l’auto, invece di fare ritorno con l’automobile blindata, da l’allarme generale bloccando cosi il piano di fuga ideato dai sequestratori. Nel frattempo arrivano nell’istituto gli uomini delle altre forze di polizia presenti sull’isola. Scaduto abbondantemente l’ultimatum, i reclusi prendono consapevolezza che la macchina non arriverà più e così, dopo aver rilasciato un agente colpito da un malore, l'appuntato Luigi Erme, decidono di trasferire il loro piano d’azione dalla zona del piano terra denominata “Porta Ergastolo” al quarto piano nel settore denominato “Infermeria”. I delinquenti, dopo aver preso in ostaggio anche altre persone (personale medico e paramedico, militari e una giovane assistente sociale), si impossessano delle chiavi di diversi settori del carcere. L'infermeria dunque diventa il nuovo luogo d'azione che si trasforma da un tentativo di evasione in una sorta di rivolta. A capo del gruppo dei rivoltosi c’è un terrorista nero Mario Tuti, condannato al carcere a vita per una serie di reati, tra cui il duplice omicidio del brigadiere Leonardo Falco e dell’appuntato Giovanni Ceravolo, entrambi della pubblica sicurezza; per la strage dell’Italicus avvenuta 4 agosto del 1974, in cui morirono 12 persone e furono ferite altre 48; per gli attentati commessi nel gennaio del 1975 sulla linea ferroviaria Firenze-Roma e per aver strangolato, con la complicità di un altro

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ergastolano (Pierluigi Concutelli), nell’aprile del 1981, nel carcere di Novara, Ermanno Buzzi. Il secondo rivoltoso è Ubaldo Mario Rossi, il cui fine pena è fissato per il 2094, per una serie di innumerevoli reati tra i quali spiccano un rapimento di una bambina di 10 anni e un omicidio avvenuto a Milano nel 1983. Mario Cappai, che deve scontare una condanna a 18 anni di reclusione per un omicidio a scopo di rapina. Gaetano Manca e Mario Marrocu, che hanno accumulato una serie di pene per reati di furto e rapine e che insieme sono stati condannati all’ergastolo per aver ammazzato, il 22 aprile del 1982, nel carcere dell’Asinara, un detenuto tossicodipendente (peraltro il mandante dell’omicidio era Mario Cappai).

Il sesto sequestratore è Mario Tolu, famoso boss sardo che ha una serie di condanne per sfruttamento della prostituzione, rapina, furto, evasione e soprattutto per omicidio: aveva ammazzato un suo compagno di fuga. Questi, dunque, erano i sei balordi che per otto giorni tennero in apprensione lo Stato italiano ed incollati davanti ai televisori milioni di italiani. Nelle mani dei sequestratori ci sono cinque civili, diciassette Agenti di Custodia e anche undici reclusi. Gli ostaggi sono Cosimo, Giordano è che il direttore del penitenziario, Sergio Carlotti, che è il medico del carcere, l'infermiere Lino Colandrea, lo psicologo Carlo Antonelli e l'assistente sociale Rossella Giazzi. Gli Agenti di Custodia sono il brigadiere Antonio Matta e gli agenti Sebastiano De Muro, Valentino


CRIMINI E CRIMINALI Spensatello, Adriano Argiolas, Enrico Vargiù, Luciano Baffoni, Andrea Milani, Luciano Buono, Albano Garramone, Giampaolo Galletti, Pierpaolo Mariani; Carmine Compagnone, Antonio Fedele, Carlo De Miceli, Ugo Roberto Cardia e Salvatore Cipriano. Verso mezzogiorno, arriva nel carcere il Sostituto Procuratore della Repubblica di Livorno, il dottor Arturo Cindolo, che, tramite i telefoni interni, parla con con Tuti e con il direttore Giordano. Dapprima i rivoltosi reiterano la richiesta di ottenere l'auto blindata e una motovedetta, ma, successivamente, consapevoli che l’effetto sorpresa è oramai tramontato, si giocano il tutto per tutto pretendendo dal Magistrato un elicottero da otto posti: la loro idea era quella di portarsi sull’elicottero anche due ostaggi, tra cui il direttore del carcere.

anche se in realtà un blitz dei NOCS (l’acronimo indica il Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza che è un Corpo speciale della Polizia di Stato, dipendente dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione) sembra che era stato predisposto, tanto che la sala operatoria di Portoferraio era già stata allertata per l’alto rischio di morte delle persone. Diversamente dallo Stato è la posizione del sindaco di Porto Azzurro, Maurizio Papi, che si dichiara favorevole alla concessione dell’elicottero ai detenuti ribelli e organizza addirittura dei cortei e delle raccolte firme. Addirittura promuove un movimento di opinione con un proprio simbolo (un elicottero azzurro con due galleggianti gialli) e con una proria sede. Nel frattempo, i sequestratori hanno distrutto armadi e brande e si sono

altro. La storia continua così per tutto il giorno di tutti i giorni, con il sole che complica le cose e aumenta la sofferenza degli uomini dello Stato. Lo scopo dei detenuti è quello di usare i 'crocifissi' come deterrente all'attacco armato, per far rinunciare definitivamente ad un eventuale blitz in programma. I giorni trascorrono con alti e bassi, seppur i rivoltosi liberano alcuni ostaggi per problemi di salute. Il sesto giorno, la vicenda giunge ad una svolta. I Magistrati deputati a trattare formulano delle proposte ai rivoltosi: 1) un trattamento penitenziario non punitivo; 2) la possibilità di applicazione dell'art. 21 della legge penitenziaria e degli altri benefici (permessi premio, libertà condizionale, semilibertà);

La richiesta ha come scadenza le ore 17,00, con comunicazione successiva sarà protratta alle 18,45, ma anche questo ultimatum svanisce in un nulla di fatto. Lo Stato non ha alcuna volontà di accettare le condizioni dei rivoltosi, ma è comunque propenso a portare avanti la trattativa nel pieno rispetto della legalità e affida a due magistrati, Arturo Cindolo e Antonietta Fiorillo, il compito di negoziare con i detenuti dall'interno del carcere. L’unità di crisi, appositamente istituita a Palazzo Chigi, conferma la piena fiducia ai magistrati incaricati della trattativa per dirimere la vicenda con una soluzione pacifica che contemperi la salvaguardia della vita degli ostaggi e degli stessi rivoltosi, nel rispetto del diritto e delle istituzioni. Viene così esclusa ogni azione di forza,

impossessati di una miriade di oggetti, tra i quali bisturi, forbici; ma soprattuto hanno immobilizzato gli Agenti di Custodia, che, a turno, sono legati con le mani dietro e la faccia a terra: due di essi sono appesi, a turno, alle sbarre delle finestre come crocifissi e altri quattro, immobilizzati per i polsi e inzuppati di alcool, sono stesi sul pavimento. Proprio la crocifissione degli agenti è la cosa che maggiormente colpisce di più in tutta la vicenda, che peraltro è visibile anche all'esterno. Con le braccia legate sopra la testa e le gambe incrociate, gli ostaggi vengono legati alle sbarre delle finestre dell'infermeria. I turni sono di due ore e al momento in cui scade il termine, uno dei rivoltosi, rapidissimo, slega e fa scendere l'ostaggio e ne fa salire un

3) disponibilità al riesame di situazioni processuali particolari. I rivoltosi sembrano gradire la proposta, ma chiedono garanzie affinchè lo Stato una volta conclusa la vicenda rispetti gli accordi. La richiesta è quella di nominare dei garanti per seguire gli sviluppi della vicenda. Sono così indicati, da parte dei ribelli: • l’avvocato Raimondo Ricci, più volte Deputato e Senatore della Repubblica, soprannominato “il Ministro della Giustizia del PCI”; • l’avvocato Germano Sangermano di Firenze, da sempre avvocato di fiducia di Mario Tuti; • l’avvocato Adriano Cerquetti, difensore di numerosi imputati di estrema destra; • l’avvocato Bernardo Aste, noto penalista sardo e già difensore di

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Nelle foto: a sinistra il Sindaco Papi con un cartello a favore della concessione dell’elicottero ai detenuti ribelli al centro la liberazione di Rossella Giazzi sopra la folla si accalca all’ingresso del carcere

Á


CRIMINI Nelle foto sotto: la mediazione dell’allora Direttore Generale Nicolò Amato a destra la pagina del Tirreno con la notizia della fine della rivolta

Mario Cappai. I quattro avvocati trattano tutto il pomeriggio del 31 agosto, ma i rivoltosi fanno un ulteriore richiesta a garanzia del negoziato chiedono la presenza anche di un rappresentante di Amnesty International, e così la liberazione è rimandata alle 8:30 del giorno dopo. La mattina succesiva la tensione è altissima seppur i “garanti” cerchino di mantenere i ribelli calmi.

consegnano le armi: due pistole, quattro coltelli e diverse lattine di coca cola riempite di esplosivo. Gli agenti fanno irruzione nei locali, i

Oramai sanno che sono in un vicolo cieco e devono ricapitolare, ma fanno un ulteriore richiesta quella di parlare con il Procuratore della Repubblica di Livorno Arturo Ciindolo. Il Magistrato arriva in breve tempo e con durezza li invita definitivamente ad arrendersi e a non avanzare più richieste. Ormai per i rivoltosi è finita. Alle ore 10:30 sei ergastolani

sei vengono bloccati e gli ostaggi cominciano a scendere dalle scale. Per prima esce Rossella Giazzi, l'unica donna rimasta per una settimana nelle mani dei rivoltosi. Dopo di lei varca la soglia del cancello il direttore del carcere, Cosimo Giordano. Dopo poco la liberazione degli ostaggi, Giuliano Vassalli, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, dichiara: "Non

abbiamo fatto nessuna concessione, abbiamo solo promesso a quei detenuti che essi usufruiranno dei benefici della nuova legge penitenziaria e che saranno trattati come tutti gli altri detenuti". L'uomo della vittoria dello Stato sembra però essere stato Nicolò Amato, Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. E’ stato lui il grande mediatore fra il potere politico centrale e quanto accadeva nel carcere. Anche la stessa stampa, nei giorni successivi, esalta l’opera fondamentale svolta dal Direttore Generale Amato per aver risolto la vicenda, suggerendo ai magistrati che la soluzione da proporre era l'applicazione dei benefici previsti dalla legge "Gozzini". Successivamente, le registrazioni telefoniche avvenute nel corso dei giorni della rivolta, tra i sequestratori, i magistrati e il Direttore del carcerce, Cosimo Giordano, indicano proprio in quest’ultimo l’ideatore della proposta di applicare quanto previsto dalla Legge n. 663 del 10 ottobre 1986. A Cosimo Giordano e a Rossella Giazzi, che ho avuto il piacere di conoscere nel corso degli anni, dedico questo mio piccolo contributo. Alla prossima... F (.) La rivolta del 1987 nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro, Ilaria Masini, 1997.

Rammentiamo la procedura per l’ordinazione dei testi

ATO

PROROG

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L’ordinante deve comunicare (mail f.rocca@latribuna.it) i seguenti dati: · dati di fatturazione (codice fiscale e indirizzo); · dati di spedizione della merce se differenti dall’indirizzo di fatturazione; · un recapito telefonico da comunicare al corriere nel caso vi fossero difficoltà nella consegna. I volumi verranno consegnati con fattura accompagnatoria sulla quale è indicato l’IBAN per il bonifico bancario. Il pagamento solo dopo il ricevimento della merce, indicando in causale il numero della fattura.


SICUREZZA SUL LAVORO

Decreto Legislativo n.81/2008:

Priorità all’ordine e alla disciplina ma senza tralasciare la sicurezza del posto di lavoro

E

ra il settembre del 2016 quando ho iniziato a scrivere sulle pagine di questa nostra rivista, affrontando la delicata tematica relativa alla sicurezza sul luogo di lavoro. Dell’argomento in questione abbiamo toccato numerosi temi, qualcuno dei quali lo abbiamo fatto con maggiore rigore, qualcun altro, invece, complice la difficoltà ed il tecnicismo della materia, con minore dovizia di dettagli. Sta di fatto, però, che molte altre tematiche, di questa complessa materia, dovranno ancora essere affrontate. E’ mio intendimento in questo numero, non entrare nel merito di uno specifico argomento ma, in considerazione anche dell’anno trascorso, esortarvi a fare una riflessione. Cercare di capire cosa, al di là della norma e della conoscenza della stessa, ognuno di noi, lavoratore o datore di lavoro che sia, possa impegnarsi a fare all’interno del nostro ampio e diversificato ambito lavorativo. Occupandomi da tempo della materia in qualità di rappresentante della sicurezza per i lavoratori, ho potuto constatare, infatti, che nei vari settori lavorativi dell’Amministrazione Penitenziaria molte cose debbono essere ancora realizzate per innalzare il livello di sicurezza sul posto di lavoro. Negli ultimi anni, in campo carcerario, ad esempio, si vive, a mio avviso, una situazione molto preoccupante. Ne sono testimoni ogni giorno i nostri colleghi, donne e uomini della Polizia Penitenziaria, che prestano la loro attività lavorativa presso i reparti detentivi di tutta Italia, in particolare dove è stata adottata la cosiddetta vigilanza dinamica. Nei penitenziari, difatti, il concetto di

sicurezza sul posto di lavoro viene identificato da tutti con la sola, così come prescritto dal Ordinamento Penitenziario, necessità di mantenere l’ordine e la disciplina all’interno dell’istituto. Attuare, cioè, quelle norme e regolamenti che hanno prevalentemente l’obiettivo di prevenire i problemi di gestione della popolazione detenuta. Su questo vorrei dire: nulla quaestio. Il problema è che esiste anche un altro tipo di sicurezza, che è evidentemente meno “considerata” dai vertici del DAP: la sicurezza sul posto del lavoro. Il termine, dunque, è lo stesso, ma è la modalità di perseguirla che deve essere diversa. Non vi è dubbio che un luogo di lavoro in cui un agente penitenziario è costretto a svolgere il suo dovere, lasciato spesso solo, ed in alcuni casi a vigilare perfino sezioni dislocate su più piani, per giunta con i ristretti lasciati liberi di “passeggiare” tutto il giorno per la sezione, sia poco, o per nulla, rispondente ai principi sanciti dal D.Lgs. n. 81/2008. Sono sempre più numerosi, infatti, i casi di aggressione che si verificano a danno di poliziotti penitenziari, e che avvalorano la tesi di una precaria sicurezza rivolta a chi presta la sua quotidiana attività lavorativa. Nessuno può più celare questi episodi, così come non si può negare che queste nuove, discusse e discutibili, modalità di custodia hanno compromesso, e non poco, le condizioni lavorative di chi in carcere svolge la sua attività. Questi casi, dunque, debbono far riflettere sulla necessità di mettere in campo più idonei ed efficaci strumenti che consentano a chi opera nei penitenziari di percepire, ed avere, una maggiore tutela della propria incolumità, sia fisica che psichica, così

Luca Ripa Dirigente Sappe Rappresentante dei Lavoratori per la sicurezza rivista@sappe.it

come novellato dalla norma in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. Magari partendo dall’incremento del numero del personale di polizia operante. Incremento, certo, che non può essere realizzato solo con il recupero di qualche decina di unità “distratte” in compiti diversi da quelli d’istituto, ma perseguito con una serio programma di assunzione di nuove e più numerose leve di agenti penitenziari.

Contemporaneamente, destinando concreti ed adeguati fondi volti ad un, oramai improcrastinabile, ammodernamento dei luoghi di lavoro, e, in taluni casi, a realizzare nuovi posti di servizio con una architettura più rispondente alle attuali modalità lavorative. Arrivare, pertanto, a generare nel nostro ambiente lavorativo un vero, reale ed unanime concetto di sicurezza che contemperi da un lato l’indispensabile esigenza di governo e di buona custodia degli istituti penitenziari, più note come “ordine e disciplina”, e dei loro “utenti” detenuti e, dall’altro, l’altrettanto imprescindibile necessità di fare di ogni luogo di lavoro, quindi anche il carcere, un luogo sicuro dove poter lavorare. F

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Nella foto: ristrutturazione di un carcere


MONDO PENITENZIARIO

Federico Olivo Coordinatore area informatica del Sappe olivo@sappe.it

Bicentenario costruito a tavolino per liquidare la Polizia Penitenziaria

L’

Annuale della Polizia Penitenziaria di quest’anno è stata una celebrazione storica, sia per la coincidenza del bicentenario sia perché tutti i Sindacati del Corpo hanno deciso di protestare proprio durante i festeggiamenti a Roma, così come in tutte le altre celebrazioni periferiche, per denunciare le gravissime difficoltà in cui sono costretti a lavorare i Poliziotti penitenziari.

caratterizzato la nostra società accompagnandone anche l’evoluzione normativa. Una lode solo apparente, così com’è stato pretestuoso far coincidere quest’anno con i presunti 200 anni di storia della Polizia Penitenziaria. Una lode che è solo funzionale al prosieguo delle intenzioni del Ministro che sono quelle di procedere alla liquidazione della Forza di Polizia dello Stato che controlla le carceri.

Una protesta clamorosa che è stata letteralmente ignorata dal Ministro e dai vertici dell’Amministrazione penitenziaria i quali, nei loro discorsi durante la cerimonia, hanno continuato a declamare i successi fin qui raggiunti grazie al loro personale impegno. Il discorso del Ministro Orlando inoltre è stato molto indicativo delle reali intenzioni di questo Governo, spalleggiato da un’amministrazione penitenziaria che ormai ha abdicato a qualsiasi ruolo di attività ed indirizzo amministrativo e che invece si è ormai ridotta al ruolo di mero esecutore di scelte altrui. Nel suo intervento, Orlando ha posto l’accento sulle capacità di adattamento dimostrate dalla Polizia Penitenziaria in tutti i cambiamenti che hanno

Il Corpo di Polizia Penitenziaria è nato nel dicembre del 1990 e, non a caso, è nato dalle ceneri del “disciolto” Corpo degli Agenti di Custodia. Un termine, disciolto, che vorrà pur significare qualcosa ...oppure no? Infatti, con quello scioglimento, si era ritenuto necessario dare un segnale forte, smilitarizzando il Corpo e cercando di recidere qualunque legame con il passato annebbiandone la memoria: non è un caso che in tutti i corsi di formazione e aggiornamento, manchi del tutto un riferimento alla storia del Corpo e delle carceri. Non è un caso che non sia mai stato istituito un Museo della Polizia Penitenziaria. E non è un caso che nel 1989 sia stato celebrato il centenario del Corpo degli Agenti di Custodia e quest’anno, 28 anni dopo,

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il bicentenario del Corpo di Polizia Penitenziaria. Ma siccome in quel dicembre del 1990 non si potevano sostituire gli uomini dall’oggi al domani, si sono cambiati i nomi e le etichette e si è introdotto con l’articolo 5 della Legge 395/90 quel “... partecipa, anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati”. Il reale significato di quel “partecipa” non è stato mai chiarito, probabilmente con la speranza che nel giro di una generazione si arrivasse ad un completo ricambio degli Agenti che avrebbero dimenticato le loro origini e la loro storia. E invece no. Qualcosa è rimasto e si è tramandato e anzi, con le nuove generazioni, nonostante tutti gli sforzi durante i corsi di formazione e aggiornamento predisposti dal DAP per amalgamare i Poliziotti penitenziari con la popolazione detenuta (si considerino anche le continue allusioni che detenuti e Poliziotti fanno la stessa vita dei detenuti facendo intendere che ormai sono la stessa cosa), il Corpo di Polizia Penitenziaria ha riconosciuto il proprio compito di prima linea in difesa della legalità, ai confini dello Stato: nelle carceri. “Una Forza di polizia moderna e capace di tenere insieme le esigenze di controllo e di ordine negli Istituti penitenziari, con quelle di sostegno e recupero delle persone detenute” ha detto Orlando. Una ricostruzione a dir poco fantasiosa dei compiti della Polizia Penitenziaria tra i quali non figurano né la parola “sostegno” né “recupero”. Ma al Ministro Orlando certe


MONDO PENITENZIARIO sfumature non interessano e anzi nel suo discorso ha continuato sulla stessa linea espressa più volte anche dal Capo del DAP, dichiarando che anche tutta la Polizia Penitenziaria lo segue convinta: “La Polizia Penitenziaria si è adattata alle nuove prospettive della pena, cogliendo, a partire da un’impareggiabile esperienza e conoscenza diretta, l’esigenza della rieducazione e della riconnessione sociale delle persone detenute” e anche “Nello specifico modello di vigilanza dinamica emerso dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, la Polizia Penitenziaria acquista sempre più il ruolo di osservatore di prossimità. L’idea di una attività diretta esclusivamente alla custodia statica dei detenuti sta infatti lasciando il passo ad un modo più dinamico di realizzare le funzioni di controllo e di sicurezza che sono e saranno anche in futuro indispensabili all’interno del carcere”. E’ andato dritto Orlando, dritto su di un tracciato iniziato anni prima di lui e portato avanti con metodo, con rigore e che forse nemmeno comprende appieno, ma che segue diligentemente. Un tracciato che ha sempre considerato la Polizia Penitenziaria, e soprattutto le sue funzioni di Polizia Giudiziaria, un ostacolo alla auspicata diretta gestione della popolazione detenuta da parte di funzionari meno vincolati da un giuramento solenne e da una storia, una tradizione e svariati esempi di eroi del Corpo caduti in difesa della legalità e della Costituzione. Una Forza di Polizia con funzioni giudiziarie, in carcere, è scomoda. E’ d’intralcio. E va trasformata, disciolta, o almeno convinta ad andarsene, anzi, se possibile, a chiedere di andarsene. E’ ormai evidente che un piano del genere, che ripeto, non è del Ministro Orlando, è arrivato quasi a compimento. Va dritto Orlando. Incurante delle contraddizioni delle sue stesse affermazioni e dei segnali evidenti che provengono dalle carceri: record di suicidi di detenuti, affollamento delle

carceri in costante aumento nonostante l’incessante travaso di detenuti alle misure alternative, tentativi di rivolta moltiplicati, aggressioni quotidiane ai Poliziotti penitenziari... Voltando le spalle a tutti i Sindacati del Corpo che in quello stesso momento manifestavano davanti al Parlamento per rigettare tutti i presunti miglioramenti fino ad ora introdotti e soprattutto la sorveglianza dinamica e le celle aperte. Deve andare dritto Orlando, come se la posta in gioco non gli permettesse di fare altrimenti. Costi quel che costi, dovesse evocarlo allo sfinimento quel progetto. Del resto, una parte del piano lo ha annunciato lui stesso lo scorso anno nel discorso di chiusura degli Stati generali dell’esecuzione penale il 18 aprile del 2016 presso il carcere

romano di Rebibbia intitolato al collega Raffaele Cinotti ucciso dalle Brigate Rosse il 7 aprile del 1981: “Io credo che noi dobbiamo anche fare i conti con il fatto che nuove generazioni di poliziotti penitenziari accedono normalmente con un grado di istruzione molto più alto e quindi, la possibilità anche di intrecciare carriere di dirigenza e carriere di attività di direzione della Polizia Penitenziaria, vanno viste non come un tabù, ma coniugate con adeguati percorsi di carattere formativo. E questo io credo che si debba consentire alla Polizia Penitenziaria di assumere un ruolo più ampio che non è quello del trasformare il carcere e curvarlo verso una dimensione poliziesca, al contrario,

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trasformare la Polizia Penitenziaria verso una dimensione che sia più esplicitamente di polizia del trattamento orientata secondo le indicazioni e le garanzie costituzionali”. Il patto con la Polizia Penitenziaria è tutto qui. Promettere ai futuri dirigenti del Corpo addirittura la direzione delle carceri, ma non in qualità di Poliziotti, ma dopo una necessaria ulteriore trasformazione che ripudi le attuali funzioni “poliziesche”, che vanno convertite verso una nuova Polizia del trattamento. I patti con altri eventuali soggetti, non sono stati ancora dichiarati. Per questo nel 1989 si è celebrato il centenario del Corpo degli Agenti di Custodia. Per questo, nei giorni scorsi si è svolto il bicentenario del Corpo di Polizia Penitenziaria. F

Nelle foto: immagini della Festa del Corpo svoltasi il 19 settembre a Roma alle Terme di Caracalla (www.poliziapeni tenziaria.gov.it)


DISCUSSIONI

Emanuele Ripa Segretario Locale del Sappe ripa@sappe.it

La Penitenziaria non è una “Polizia col camice bianco”. Rafforziamo l’autorevolezza dell’uniforme

I

Nella foto: Francesco Carrer

l 15 dicembre 1990, con la legge n.395, venivano soppressi il Corpo degli Agenti di Custodia e quello delle Vigilatrici Penitenziarie ed entrambe confluivano nel nuovo Corpo della Polizia Penitenziaria. Il Parlamento, allora, in maniera, senza dubbio, ben ponderata e calibrata, e non casualmente, decise di dare vita ad un Corpo di “Polizia”. Dunque, è dal termine “Polizia” che si deve partire se si vogliono comprendere le scelte operate dal legislatore e il processo logico dal quale esse sono scaturite. Il termine polizia deriva etimologicamente da politia, traduzione latina del greco politeia (il cui significato può essere definito come “buon governo”, “organizzazione del bene comune dei cittadini”, “costituzione politica ottimale”) che a sua volta deriva da polis, città. Francesco Carrer, noto criminologo, esperto del Consiglio d’Europa e consulente delle forze di polizia, nel suo libro “Le forze di polizia nel terzo millennio” riporta la definizione di polizia di Bayley, ricavata dal terzo volume de “The Enciclopedia of crime and Justice”, secondo cui “nel mondo moderno questo termine indica generalmente persone impiegate da un governo, autorizzate ad impiegare la forza fisica per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Per il prestigioso vocabolario Treccani la polizia è “parte dell’attività dell’organo esecutivo dello Stato con la quale, in genere, si mira alla rimozione di tutte le cause che possono ostacolare una tranquilla e disciplinata convivenza sociale o offendere i beni e gli interessi legittimi dei singoli”. Il mantenimento dell’ordine, l’applicazione delle leggi, la protezione

della vita e della proprietà dei cittadini sono essenziali al funzionamento di ogni società. È alla polizia che, tradizionalmente, sono affidati questi compiti. Con riguardo alla Polizia Penitenziaria, quanto appena affermato, si traduce nell’articolo 5 della legge 395 del 1990, legge di riforma del Corpo. In esso è sancito che “Il Corpo di Polizia Penitenziaria attende ad assicurare l'esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale; garantisce l'ordine all'interno degli istituti di prevenzione e di pena e ne tutela la sicurezza; partecipa, anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati; espleta il servizio di traduzione dei detenuti ed internati ed il servizio di piantonamento dei detenuti ed internati ricoverati in luoghi esterni di cura, secondo le modalità ed i tempi di cui all'art. 4”. Gli appartenenti al Corpo, inoltre, possono essere impiegati ai sensi dell’articolo 16, secondo e terzo comma, della legge 1 aprile 1981, n. 121, ovvero possono svolgere servizi di ordine e sicurezza pubblica. Dalla comparazione delle definizioni di polizia con quella tassativa dei compiti istituzionali, si comprende come questi ultimi siano propri di un Corpo, per l’appunto di “Polizia”. Invero, tra i compiti istituzionali vi è anche quello di partecipare all’opera di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti che, a parere di alcuni, risulterebbe essere addirittura incompatibile con le funzioni di polizia. Sempre secondo taluni, la Polizia Penitenziaria dovrebbe, via via, perdere i compiti di indagine, di prevenzione e repressione del crimine, di accertamento dei fatti, di tutela della

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sicurezza del cittadino e dell’ordine pubblico per vestire sempre più i “panni” dell’assistente sociale, dell’educatore, dello psicologo. Eppure l’Ordinamento attribuisce chiaramente agli agenti di Polizia Penitenziaria la qualifica di “agenti o ufficiali di pubblica sicurezza” e “agenti o ufficiali di polizia giudiziaria”. L’articolo 55 del codice di procedura penale stabilisce che “la polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale. Svolge ogni indagine e attività disposta o delegata dall’autorità giudiziaria”.

Poliziotti a tutto giro, dunque, non operatori con il “camice bianco”. Poliziotti col precipuo compito di garantire l’ordine e la sicurezza, fuori e dentro l’istituto penitenziario. Poliziotti col precipuo scopo di prevenire e reprime eventuali reati che si concretizzino, fuori e dentro il carcere. È di pochi giorni fa la circolare dipartimentale (n.0268061 del 21 agosto 2017) dove il Capo Dipartimento Vicario esorta (a questo punto anche in maniera contraddittoria) il personale di Polizia Penitenziaria a portare “con sé l’arma di ordinanza anche al di fuori del servizio, poiché un intervento tempestivo nelle circostanze in esame (cioè in caso di un attentato terroristico), potrebbe contribuire alla limitazione del danno”. L’attuale Amministrazione, invece, con continui e sempre più incisivi provvedimenti sta cercando di minare


DISCUSSIONI queste prerogative con conseguenze negative sia per l’ordine e la sicurezza delle carceri sia per la sicurezza della società civile. Gli attuali vertici degli uffici ministeriali e dipartimentali continuano a non rendersi conto che in questo modo stanno facendo venir meno l’imprescindibile autorevolezza del poliziotto penitenziario all’interno della sezione detentiva e conseguentemente stanno mettendo a serio rischio l’ordine e la sicurezza dell’istituto oltre che della intera comunità. L’autorevolezza del poliziotto, e quindi dell’Amministrazione, e quindi dello Stato, deve agire come deterrente all’anarchia che si genera in assenza dell’autodisciplina nella vita carceraria, come nella vita sociale del resto. In nostri omologhi della Polizia di Stato, dei Carabinieri e della Guardia di

Finanza con la loro autorevolezza e con il “timore reverenziale” che discende dalla autorità della “divisa”, assicurano il rispetto delle leggi e della libera convivenza. Questo principio nel penitenziario sta scemando. Il poliziotto penitenziario non è più nelle condizioni di esercitare la propria autorevolezza. Le Autorità dirigenti degli istituti penali non tengono più in debita considerazione neppure la redazione di un rapporto disciplinare (forse ultimo strumento dissuasivo rimasto in mano agli agenti) elevato nei confronti di un detenuto che abbia violato anche le basilari regole penitenziarie. Anzi ogni giorno diversi ristretti, consapevoli della loro impunità, pongono in essere oltraggi, sopraffazioni, minacce nei confronti dei colleghi. La totale assenza del necessario effetto

deterrente dell’agente di sezione provoca oltretutto episodi di prevaricazione fra ristretti, favorisce la circolazione di sostanze stupefacenti, di oggetti non consentiti come cellulari, di utensili atti ad offendere. Ormai la salvaguardia indiscriminata di ciascun diritto dei detenuti sta prendendo totalmente il sopravvento sulla salvaguardia dei diritti di chi ogni giorno, con sacrificio e abnegazione, senza nessuna gratificazione, neppure economica, lavora per adempiere al proprio dovere. Si sta giungendo alla paradossale e assurda situazione per la quale ad un ristretto deve essere assicurato l’adeguato refrigerio nella “camera di pernottamento” (questa è la nuova denominazione data alla cella dalla circolare Dap n.0112426 del 31 marzo 2017) con l’istallazione di ventilatori e frigoriferi (il riferimento è alla nota dipartimentale n. 000914 del 26 luglio 2017) ed all’agente penitenziario vengono negati perfino diritti costituzionalmente garantiti come quello alle ferie estive. Nessuno è contro la tutela dei diritti dei detenuti, ma forse in uno stato di diritto dovrebbero essere assicurati in via prioritaria, o almeno alla pari, i diritti dei cittadini che hanno rispettato, e non trasgredito, le regole del vivere comune. Per essere maggiormente eloquenti, chi tutela il diritto di esigere una “giusta” pena a tutte le persone che sono state private, definitivamente e incolpevolmente, dalla commissione di un delitto, del diritto di essere mogli, madri, figli. Beffati, traditi e danneggiati dallo Stato due volte: la prima per aver perso un familiare, magari per ordine di un boss mafioso (di cui oggi si discute perfino della possibilità di scarcerarlo per garantire il suo “diritto” alla salute o addirittura sull’opportunità o meno di condannarlo all’ennesimo ergastolo); la seconda volta per non aver ottenuto “giustizia”. Oggi l’unico interesse del D.A.P. sembrerebbe essere quello di tenere “aperti” dodici ore al giorno i soggetti detenuti (mettendo in atto quei c.d. “rimedi preventivi” utili solo ad

evitare quelli “compensativi”, ovvero risarcitori), per il timore di incorrere nuovamente nella procedura di infrazione decisa a seguito della sentenza “Torreggiani” e poco importa se i ristretti non sono avviati a nessuna attività lavorativa (attività che, invece, dovrebbe essere obbligatoria e dovrebbe rappresentare il cardine di una possibile rieducazione), se oziano, nella migliore delle ipotesi, all’interno della sezione, se hanno quale predominante pensiero quello di evadere. Queste sono le condizioni “disumane” in cui lavora l’agente di Polizia Penitenziaria. Quest’ultimo si trova, da solo, letteralmente in balia di centinaia di detenuti completamente liberi di circolare all’interno del reparto detentivo (in alcuni turni addirittura con la sorveglianza di due o tre sezioni disposte su piani diversi), a fronteggiare eventi critici di ogni natura con il rischio, anche penalmente rilevante (vedi l’articolo 387 c.p.), di vedersi ricadere sulla propria persona responsabilità che, invece, dovrebbero essere di chi ha disposto simili sconsiderati regimi di sorveglianza (in specie quella definita “sorveglianza dinamica”). Solo nel 2016 (dati forniti alle OO.SS dalla “Sala Situazioni” del Dipartimento) ci sono stati 8.586 atti di autolesionismo, 1.011 tentati suicidi, 6.552 colluttazione, 949 ferimenti e 4 tentati omicidi. Dati a dir poco allarmanti. A questo si aggiunga la cronica carenza di personale appartenente al Corpo Polizia Penitenziaria che oggi supera ben oltre il 20% (le piante organiche fissate dal Ministero prevedono 41.253 agenti a fronte degli attuali 32.336 con una mancanza di quasi 9.000 unità) e il continuo e costante incremento del sovraffollamento che solo nell’ultimo anno (dal 30.6.2016 al 30.6.2017) è stato del 5,3% (si è passati da 54.072 detenuti a 56.919). Appare evidente come l’attuale politica penitenziaria debba essere quantomeno rivista in modo che possano essere contemperati e assicurati i diritti e le esigenze di tutti i cittadini e non solo di una parte. F

Polizia Penitenziaria n.253 • settembre 2017 • 31

Nelle foto: sopra chiavi al centro di Agenti di Custodia e Vigliatrici Penitenziarie riratti in una immagine del 1988


MONDO PENITENZIARIO

Francesco Campobasso Segretario Nazionale del Sappe campobasso@sappe.it

Amministrazione penitenziaria in piena zona retrocessione. Ci vorrebbe Zamparini con i suoi tanti esoneri

D

a tempo, tra gli addetti ai lavori, serpeggia in maniera oltremodo evidente, un chiaro risentimento per i nefasti anni in cui versa la nostra Amministrazione Penitenziaria e principalmente dei colleghi impegnati nel duro compito di garantire il fine istituzionale del Corpo.

Nella foto: Maurizio Zamparini

Molti i cambiamenti che hanno contornato le giornate dei baschi blù, ma, specie negli ultimi tempi, la situazione appare costellata da molteplici difficoltà a cui, sembra, nessuno riesce a dare la giusta sterzata per una auspicata svolta, che sarebbe il preludio ad una nuova era. Così, come nostro solito utilizzare le pagine di questa Rivista per analizzare temi tra fantasia e realtà, abbiamo pensato bene di considerare l’attualità del sistema carcere, considerando il DAP come una società di calcio impegnata nell’affascinante campionato di serie A. Diciamocelo subito: oggi, la squadra dell’Amministrazione Penitenziaria, offre un gioco compassato, senza interpreti in grado di cambiare l’inerzia di alcuna gara, con una classifica deficitaria ed in piena lotta per evitare la retrocessione. Quindi, come spesso avviene in quasi tutte le società del massimo

campionato, stampa e tifosi, rivolgono il dito contro la dirigenza della società, invocando provvedimenti in grado di invertire la rotta di un campionato sicuramente disastroso. La gestione dei detenuti negli istituti penitenziari (divenuta gravosa e di elevata difficoltà), gli organici ridotti all’osso, stabilimenti privi di dirigenti e con numero ridotto di funzionari, provveditori che si occupano contemporaneamente di più regioni, le quotidiane costanti e gravi aggressioni al personale, per non parlare dei disagi dei poliziotti e della necessità di creare punti di ascolto, sono tutti fattori che non possono non determinare una classifica scadente, non avendo, fino ai giorni nostri, trovato contromisure in grado di consentire alla squadra di rilanciarla in graduatoria. Se l’attuale classe dirigente non si dimostra in grado di garantire un trend diverso tanto da far risalire la china, sarebbe il caso di dare mandato ad un presidente duro e tenace l’ingrato comito di individuare soluzioni rapide ed efficienti. L’identikit potrebbe corrispondere a Maurizio Zamparini, l’attuale presidente del Palermo calcio. Eccentrico, originale, sanguigno, passionale, vulcanico e, molto spesso, scontroso ed antipatico. Ma c’è un qualcosa per cui il patron dei rosanero è molto noto. Cosa? Semplice. Gli esoneri!!! Quindi immaginiamo che tutti i dirigenti (del dipartimento e degli istituti penitenziari) pagherebbero con l’esonero le conseguenze della mancanza di stabilità della squadra, che, sempre tra il serio ed il faceto, rischierebbe la retrocessione. La serie B, per l’amata Amministrazione, sarebbe un vero e proprio incubo, una sorta di baratro per una piazza così importante come

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quella che rappresenta il sistema carcere in Italia. Zamparini è noto per aver esonerato 45 tecnici, spesso frutto di iniziative dettate da un ragionamento istintivo, ma che nel nostro caso (e, nella maggior parte dei casi) risulterebbe oltremodo efficiente. Non è stato il primo, nè sarà l'ultimo presidente ad essere ricordato per la pazienza pressoché inesistente nei confronti dei tecnici. Maurizio Zamparini però, più di ogni altro collega, ha dato al personaggio una connotazione personale, il mangiallenatori come modo di essere. Un presidente alla Zamparini, un po' come un gol alla Cesarini per chi segna all'ultimo minuto. Zamparini, nel corso della sua presidenza, ha incarnato una figura 'light' di satrapo, capace di vivere l'attrazione fatale praticamente con tutti o quasi i tecnici avuti per poi liquidarli al primo impaccio. Al capezzale della nostra squadra, visti i gravi problemi che l’affliggono, avrebbe un esteso mandato, esonerando tutti gli addetti ai lavori che, per motivi vari, si dimostrano poco in linea con l’ambiente carcere e sistematicamente lontani dal trovare soluzioni risolutive. Una squadra a cui manca un gioco propositivo, ad oggi eccessivamente difensivistica e sempre in balia degli avversari e con un attacco spuntato. Le annate precedenti, parlano di contesti più blasonati, da centro classifiche, financo da piena zona Europa League. Poi, un po’ la sentenza Torreggiani (e con essa la tanto discussa vigilanza dinamica), dall’altro le criticità degli organici e delle carenze delle figure professionali in esse riscontrate, hanno determinato un evidente ridimensionamento verso piani meno nobili della nostra


MONDO ipotetica classifica. Il gioco è oramai statico, senza giocate di rilievo, poco pressing e con inutili fraseggi a centrocampo (come chi si passa la palla continuamente senza assumersi alcuna responsabilità, pur se pagati per farlo), e senza idonee soluzioni all’orizzonte. Lo scouting (e noi, nel nostro contesto, lo possiamo interpretare come i concorsi di arruolamento) sono lenti e continuamente soggetti a ricorsi amministrativi. Ingiustificati i termini che hanno visto trascorrere almeno un decennio per la definizione del concorso per allievi vice ispettori del Corpo di Polizia Penitenziaria (inizialmente riservato per complessivi 271 posti). Ai detenuti, con il passare degli anni, viene rivolto sempre maggiore attenzione, diversamente da ciò che avviene ai colleghi in divisa. Non che ciò non debba verificarsi per chi sconta una pena, ma, in simile contesto, non possono pagar dazio gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Un Corpo che oltre ad annoverare disagi di organici ridotti e al di sotto delle soglie minime previste dai dati dipartimentali e ministeriali, non riesce a garantire il vestiario a tutti i colleghi, che continuamente mette mano riducendo straordinari e che riscontra in netto ritardo quesiti su indennità varie (annoso quello dell’ordine pubblico, nonostante ci siano sedi che abbiano più volte documentato in materia alquanto chiaramente e senza l’esistenza di altro che possa indurre a considerare il contrario), con aliquote di personale impegnate in strada utilizzando mezzi vetusti e ultrachilometrati. Tutto questo non può non portarci a lottare per la salvezza, sconfitti in tutti i derby (tanto forte appare la distanza con le squadre “cugine”), senza allenatori in grado di far rifiorire un gioco spumeggiante, e con i tifosi (nel nostro caso i colleghi) che, con piena ragione, si allontanano dal fantomatico pallone (inteso come il mondo penitenziario). E quindi, senza ombra di dubbio ci vuole uno Zamparini che, con i suoi esoneri, è in grado di rinverdire i fasti ormai andati. F

L’AGENTE SARA RISPONDE...

Congedo programmato e malattia

C

iao Agente Sara, mi chiamo Roberto, volevo chiederti: "ho preso una settimana di ferie che mi sono state già autorizzate dalla Direzione e come di consueto esposte nel relativo programmato del mese, accade che, oggi, a due giorni dall'inizio del mio periodo di ferie richiesto mi sono ammalato. Il medico mi ha fatto un certificato con prognosi di tre giorni. A questo punto, finita la malattia devo rientrare a lavoro per un giorno o posso andare tranquillamente in ferie passando appunto dalla malattia al congedo programmato grazie mille!" Ag.te Scelto Roberto Ciao Roberto, puoi andare tranquillamente in ferie, nonostante nei tre giorni antecedenti sei stato malato. E' infatti possibile nel tuo caso, proprio perché le ferie sono state già autorizzate dalla tua Direzione. Chiarissima a tal proposito, è la nota PRAP Lazio n. PR09-0006309 del 30.01.2015 che recita quanto segue: "il diritto alle ferie, sancito dall'articolo 36 della Costituzione e ribadito dall'art. 14 D.P.R. 395/1995 è finalizzato a permettere al lavoratore il reintegro delle proprie energie psico-fisiche e a consentirgli lo svolgimento di attività di carattere personale, familiare e sociale. Qualora la richiesta di congedo ordinario sia programmata e l'autorità dirigente conceda il periodo, dopo aver valutato la compatibilità con le esigenze di

servizio il lavoratore ne fruisce senza nessun altro relativo onere. Non vi è infatti la presenza di alcuna norma relativa alla disciplina del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che, preveda il dover rientrare un giorno in servizio prima di poter fruire del congedo ordinario programmato. Anzi al contrario, il principio della programmazione del congedo ordinario non incide in alcun modo su eventuali altre assenze legittime." Un caro saluto. F Agente Sara

Polizia Penitenziaria n.253 • settembre 2017 • 33

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di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2017 caputi@sappe.it

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Giù le mani dalla Polizia Penitenziaria! 34 • Polizia Penitenziaria n.253 • settembre 2017


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