Polizia Penitenziaria - Marzo 2013 - n. 204

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anno XX • n. 204 • marzo 2013

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sommario

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anno XX • numero 204 marzo 2013 Per ulteriori approfondimenti visita il sito

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In copertina: Pietro Mennea

l’editoriale

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Fare presto per il bene del Paese di Donato Capece

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

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il pulpito

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

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Un borghese picccolo piccolo di Giovanni Battista de Blasis

Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

attualità

Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it

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Il nostro ricordo di Pietro Mennea

Redazione cronaca: Umberto Vitale

di Roberto Martinelli

Redazione politica: Giovanni Battista Durante

sappeinforma

Redazione sportiva: Lady Oscar Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director)

Il Sappe in Brasile per un nuovo Corpo di Polizia Penitenziaria

www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2013 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

di Roberto Martinelli e Giovanni Battista Durante

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lo sport

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. • fax 06.39733669

di Lady Oscar

Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di: Polizia Penitenziaria-Società Giustizia & Sicurezza

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Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18.7.1994

crimini e criminali

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Pietro Maso, il parenticidio e gli omicidi in famiglia di Pasquale Salemme

Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma)

società e cultura

Finito di stampare: marzo 2013

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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Carolina Kostener ancora medaglie per le Fiamme Azzurre

e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it

Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

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Fossombrone, un carcere che ha segnato la storia del Paese di Aldo Maturo

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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

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l’editoriale

Fare presto per il bene del Paese

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assate le elezioni politiche e ‘digerito’ l’effetto tzunami legato al clamoroso successo del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo (ma favorito ed alimentato soprattutto dal degrado morale della politica e di molti suoi esponenti), il 15 marzo scorso ha avuto inizio la XVII legislatura con la prima riunione delle nuove Camere. Il Parlamento ha eletto Pietro Grasso e Laura Boldrini rispettivamente presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, personalità che pervengono alle due alte cariche istituzionali dopo percorsi professionali e di impegno civile ad alto profilo. Resta, al momento in cui scrivo queste righe, ancora molta incertezza sulla composizione del Governo: vedremo se l’incarico esplorativo affidato al segretario del PD Luigi Bersani sarà in grado di dare vita ad un Esecutivo credibile ed in grado di avere la maggioranza nel Parlamento. Governo a parte, nelle prossime settimane si dovrà giocare la partita della elezione del Presidente della Repubblica e, quindi, l’Italia avrà un nuovo assetto istituzionale. Al di là dei calcoli politici e degli equilibri parlamentari, il mio auspicio è che si faccia in fretta: il Paese ha davvero bisogno di un Parlamento e di un Governo in grado di lavorare per il bene dell’Italia e degli italiani. Ne ha bisogno il Corpo di Polizia Penitenziaria e l’intero Comparto Sicurezza, che vedono i loro endemici problemi e le costanti criticità del sistema carcere sempre all’ordine del giorno e in cerca di soluzioni. Da parte nostra, una volta insediati Parlamento e Governo faremo come sempre la nostra parte, sollecitando l’attenzione e l’impegno di politici, parlamentari, ministri e sottosegretari sulle tante tematiche che interessano i Baschi Azzurri. Certo una riflessione seria e profonda dovrà riguardare l’Amministrazione Penitenziaria e la necessità di dare una nuova guida al DAP. Gli attuali vertici, segnatamente il Capo Dipartimento Tamburino ed il

Vice Capo Pagano, ci hanno profondamente deluso: sembra che vivano in una dimensione virtuale piuttosto che nella realtà. Il tanto pomposamente propagandato progetto dei circuiti penitenziari, ad esempio, è in realtà un bluff. Il superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e la maggiore apertura per i detenuti deve associarsi alla necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il Personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo ad un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più Agenti, a tutto discapito della sicurezza. Questo progetto elaborato dal Capo DAP Tamburino e dal Vice Capo Pagano in realtà non prevede affatto lavoro per i detenuti e mantiene il reato penale della ‘colpa del custode’. E’ quindi un progetto poggiato su basi di partenza sbagliate e non è certo abdicando al ruolo proprio di sicurezza dello Stato che si rendono le carceri più vivibili (per i detenuti, è ovvio). Torniamo a dire che la situazione penitenziaria è sempre più incandescente e rincorrere la vigilanza dinamica ed i patti di responsabilità con i detenuti, come vorrebbe il DAP, è una chimera: cosa dovrebbero fare tutto il giorno i detenuti: girare a vuoto nelle sezioni? In carcere quello che manca è il lavoro, che dovrebbe coinvolgere tutti i detenuti, dando quindi anche un senso alla pena, ed invece la stragrande maggioranza dei ristretti sta in cella 20 ore al giorno, nell’ozio assoluto. Il progetto che Tamburino e Pagano vorrebbero propinare risponde alla solita logica discendente che “scarica” sui livelli più bassi di governance tutte le responsabilità, tenuto conto, a titolo esemplificativo ma significativo, che la vigilanza dinamica, ritenuta congeniale al nuovo modello, mal si concilia con il regime di vigilanza intensificata nei confronti di quei detenuti ritenuti a rischio di suicidio. In

altri termini, il modello della vigilanza dinamica, che vorrebbe sostituire nelle carceri l’agente di sezione con le pattuglie a cui demandare la sicurezza di un certo ambito detentivo, può essere sintetizzato per dirla in termini prosaici, e quindi scrostandolo dalle diversive teorizzazioni, in “arrangiatevi con le poche risorse a disposizione”: modello che non può di certo assurgere a scriminante del reato contestato dalle Procure della Repubblica nel caso in cui si verifichino eventi critici, né tanto meno può dirsi che meriti l’esborso di soldi pubblici da destinare a momenti di formazione in tal senso che pur sono in atto. Il SAPPe, pertanto, è disposto a sedersi ad un tavolo per discutere possibili soluzioni per mitigare gli effetti negativi del sovraffollamento, purché i vari progetti regionali sui circuiti penitenziari siano ratificati dai vertici del DAP e dalla competente Magistratura di Sorveglianza mediante l’apposizione in calce delle rispettive firme, che diano vita, questo sì, ad un “patto di responsabilità”, o meglio di corresponsabilità davanti ad ogni Autorità Giudiziaria, tra il livello di amministrazione centrale, regionale e periferico. In conclusione, vorrei ricordare due amici del Corpo di Polizia Penitenziaria prematuramente scomparsi dopo aver combattuto tenacemente: Antonio Manganelli e Pietro Menna. Il Capo della Polizia era un onesto e valoroso Uomo delle Istituzioni, sempre molto attento e sensibile alle criticità del Comparto Sicurezza e di quelle penitenziarie. Abbiamo apprezzato ed ammirato nel corso degli anni Antonio Manganelli per la sua serietà, la sua competenza, la sua sensibilità ai problemi dei poliziotti e del Comparto Sicurezza e proprio per questo era anche per noi un autorevole punto di riferimento. Con la scomparsa di Pietro Menna, grande sportivo italiano ed internazionale, salutiamo non solo un esempio di sportività e di lealtà olimpica ma anche il fondatore del gruppo Sportivo della Polizia Penitenziaria, le Fiamme Azzurre. Fu lui, infatti, a crearlo, ricevendo un incarico ministeriale ad hoc. Il SAPPE piange dunque la scomparsa di un grande esponente dello Sport Pulito, un esempio per i giovani e per tutti gli sportivi. Ai loro familiari ed amici va il commosso ricordo e la sincera partecipazione del SAPPE. H


il pulpito opo il Marchese del Grillo, ancora una volta intravedo un’analogia tra il capo Dap Giovanni Tamburino ed un personaggio cinematografico interpretato dal grandissimo attore romano Alberto Sordi. In questo caso, le somiglianze scenografiche sembrano ricadere sul Borghese piccolo piccolo, Giovanni Vivaldi, pellicola del 1977 di Mario Monicelli. In quel film, il personaggio di Giovanni, apparentemente mite e remissivo, si rivela alfine determinato e implacabile nei confronti dell’assassino del figlio, fino alla tortura e all’omicidio. Vivaldi è un impiegato di banca, con i capelli grigi e prossimo alla pensione, che ha sempre vissuto una vita tranquilla in famiglia (appunto borghese) e che sta per coronare l’unico grande sogno della sua vita: far assumere il figlio al posto suo. Purtroppo per lui, però, un tragico destino stravolge la sua esistenza: nel corso di una rapina il figlio rimane ucciso da un proiettile vagante. Da quel momento, il mite e remissivo Giovanni si trasforma in un ostinato investigatore, prima, e in un inesorabile carnefice, poi, quando scopre e rapisce l’assassino del figlio. Dove sono le analogie tra questo film noir di Monicelli e la dirigenza del dap di Giovanni Tamburino ? Innanzitutto la somiglianza fisica del personaggio e poi, indubbiamente, l’evoluzione del protagonista che – pur mantenendo nell’apparenza l’aspetto mite e remissivo – si rivela aggressivo e risoluto nei confronti di chi ha interferito nel tranquillo fluire della sua esistenza. Ovviamente le analogie si limitano agli aspetti fisici e caratteriali senza aver nulla a che vedere con i risvolti e, soprattutto, con i contenuti del film di Monicelli. Del resto, come non cogliere le evidenti somiglianze psicologiche e fisiognomiche dei due Giovanni: i capelli grigi, la mezza età, l’aspetto bonario, i modi e i toni pacati e tolleranti. E, allo stesso tempo, come non

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Un borghese piccolo piccolo cogliere le altrettante somiglianze nelle personalità nascoste dei due Giovanni. Proprio come il Vivaldi di Monicelli, Tamburino tira fuori gli artigli quando si tratta di affrontare chi attenta alla sua vita (professionale), predisposta e preordinata secondo un preciso schema personale. Proprio come il Vivaldi di Monicelli, Tamburino si presenta paziente ed ineffabile anche di fronte a chi lo incalza e lo contesta. Proprio come il Vivaldi di Monicelli, Tamburino affronta gli avversari sul proprio terreno, con i propri tempi ed i propri modi, senza indecisioni e senza esitazioni. Come quando afferma senza tentennamenti che “le riforme passano sulla testa di chi le avversa”, nel replicare alle obiezioni dei sindacati ai suoi progetti. O come quando ignora volutamente, senza degnare nemmeno di una replica, le critiche, le censure o i biasimi rivoltegli da chicchesia lasciando, spesso, con un palmo di naso l’interlocutore chiudendo la riunione senza degnarlo di un cenno di risposta. Giovanni /Giovanni non esita nemmeno ad inviare segnali quando, ad esempio, scrive di sua iniziativa ad una sigla sindacale antagonista in relazione ad un articolo pubblicato su internet mentre al Sappe non risponde nemmeno alle lettere ufficiali e alle diffide. Per quello che mi riguarda, poi, non ho mai dimenticato la vicenda del

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Giovanni Battista de Blasis DirettoreEditoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

professor Vittorino Andreoli , psichiatra di chiara fama, che scrisse un articolo sulla rivista del dap definendo i poliziotti penitenziari “frustrati” e con un “profilo professionale minimo”.

rivista allora diretta proprio da Tamburino e che replicò, sempre sulla rivista del dap, in prima persona alle nostre lamentele difendendo Andreoli e accusando noi di non aver capito quello che aveva scritto lui. Ma questa è un’altra storia, una storia che riguarda la pubblicazione di libri a spese dell’amministrazione ...una storia che racconteremo in un’altra occasione. Tutto sommato, insomma, borghese o no, il Presidente Tamburino, secondo noi, è proprio un capo dipartimento piccolo, piccolo... H

La locandina del film di Monicelli

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6 di Roberto Martinelli martinelli@sappe.it

Nelle foto sopra con il titolo il picchetto della Polizia Penitenziaria nella camera ardente al Coni e Pietro Mennea nella sua caratteristica esultanza

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attualità

Il nostro ricordo di Pietro Mennea

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er quelli della mia generazione, nati quasi alla fine degli anni 60, era il campione per eccellenza, il primo sportivo che ci fece restare incollati al tubo catodico dei mastodontici televisori in bianco e nero di un tempo. Le sue corse, le sue vittorie, il suo dito indice alto verso il cielo: Pietro Mennea ha scolpito pagine indelebili nella storia dell’atletica e dell’Italia, portando il Tricolore a sventolare alto in tutto il mondo. Nel primo giorno di primavera, il 21 marzo scorso, la notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno: Pietro

Mennea, l’indimenticato Pietro, non era più tra noi. La notizia ha colpito tutti: il mondo sportivo in tutte le sue sfaccettature, quello politico ed istituzionale, a dimostrazione di una poliedricità di impegni ed interessi e di un attivismo, anche in campo sociale, contraddistinto da serietà, lealtà e riservatezza. A poche ore dalla triste notizia le agenzie di stampa hanno cominciato a pubblicare una impressionate quantità di dichiarazioni di cordoglio alla famiglia da parte delle più note personalità del sport, dell’imprenditoria e della cultura del Paese. Atleti, parlamentari, imprenditori, in tanti hanno voluto ricordare Mennea. Per noi poliziotti penitenziari, poi, scompare anche il ‘padrino’ del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre, essendo stato il grande Pietro uno dei principali artefici della nascita del Gruppo Sportivo della Polizia Penitenziaria, che nacque con decreto ministeriale del 25 luglio 1983 grazie alla appassionata collaborazione dell’atleta di Barletta con il Dott. Raffaele Condemi, magistrato e dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria scomparso nel 2011. Pietro Mennea ebbe un ruolo decisivo ed importante come attivo promotore di un evento che l’intero staff ed i campioni della Polizia Penitenziaria non potranno mai dimenticare: non a caso, tra i primi messaggi di cordoglio vi è stato quello di Donato Capece a nome dei componenti la Segreteria Generale e degli iscritti al SAPPE, il primo Sindacato dei Baschi Azzurri.

Una rappresentanza d’onore del Corpo di Polizia Penitenziaria e del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre era presente accanto a Pietro, per il suo ultimo viaggio, nel Salone d’Onore del Coni, in cui è stata allestita la camera ardente, e nella Basilica di Santa Sabina a Roma, dove si sono celebrati i funerali. In tanti hanno voluto abbracciare Manuela, la moglie. Le hanno voluto testimoniare affetto e vicinanza, certificandole la grandezza del compagno di una vita. Sportivi, tifosi, dirigenti, rappresentanti delle istituzioni: tra loro, i membri CIO Franco Carraro e Mario Pescante, il vice Presidente del CONI e Presidente della Federgolf Franco Chimenti, Luca Pancalli (Presidente Comitato Italiano Paralimpico) e tanti altri... Ma chi era Pietro Mennea, la ‘Freccia del Sud’ il velocista azzurro morto, dopo una lunga malattia, in una clinica della Capitale all’età di 61 anni? Un record del mondo sui 200 metri imbattuto per 17 anni, un oro ai Giochi olimpici di Mosca 1980, un uomo che con lo spirito di sacrificio e la voglia di migliorarsi è entrato a pieno titolo nella storia. «Pietro Mennea rappresenta qualcosa di più di un simbolo, è una leggenda. Ha caratterizzato un’epoca, in una di quelle rare situazioni in cui un uomo normale, non un superuomo, è riuscito a compiere imprese che hanno scritto la storia. E’ una perdita incolmabile», è stato il commosso ricordo del Presidente del Coni, Giovanni Malagò. Anna Maria Manzone, commissario


attualità

prefettizio del Comune di Barletta, dove era nato il velocista, ha proclamato il lutto cittadino in occasione dei funerali di sabato 23 marzo. «E’ stato e continuerà a essere il simbolo di uno sport pulito e leale, lontano dagli scandali e dalla mondanità», ha aggiunto il ministro per gli Affari Regionali, il Turismo e lo Sport, Piero Gnudi. «Per la Fidal è un giorno tristissimo», ha sottolineato Alfio Giomi, presidente della Federazione Italiana Atletica Leggera, «si fa fatica a fare commenti, perchè non solo era un grande uomo di sport, ma anche un grande amico». Nato a Barletta il 28 giugno 1952, politico, avvocato italiano, atleta, Mennea partecipa alla sua prima olimpiade ai Giochi di Monaco del 1972 dove conquista una insperata medaglia di bronzo nei 200 metri, dietro il russo Borzov e l’americano Black. Ed è qui che comincia la leggenda del campione pugliese. Dopo un annata di problemi fisici, nel 1974 Mennea diventò campione d’Europa nei 200 metri, mentre a Praga ’78 fu campione europeo sia sui 100 che sui 200 metri. A Città del Messico ’79 ottiene il record del mondo dei 200 metri: 19’’72, ma è ai Giochi Olimpici di Mosca ’80 a raggiungere il suo più grande risultato sportivo. A gioire assieme a lui anche Sara Simeoni vincitrice dell’oro nel salto in alto. «Abbiamo passato qualche anno assieme, ad allenarci e sudare sulle stesse piste, abbiamo condiviso le fatiche ma anche i momenti belli - ha ricordato la campionessa - Il fatto che non ci sia più, è un pezzo della mia storia che se ne va». «Oltre a perdere un grande uomo di sport perdo un grande amico», ha

evidenziato un altro atleta indimenticato, Patrizio Oliva, che a Mosca salì sul gradino più alto del podio nel pugilato, categoria superleggeri. «Con lo spirito, il sudore e la fatica ha compiuto imprese impossibili, a Mosca nei 200 metri

all’uscita di quella curva era quarto e riuscì nella rimonta incredibili». A tracciare un efficace profilo del ‘campione introverso’ è stato Daniele Masala, ex azzurro vincitore di due ori olimpici nel pentathlon. «Era un uomo solitario e in controtendenza. Dal punto di vista umano era piuttosto introverso, lui ragionava e valutava. E qualsiasi fossero i suoi obiettivi, sportivi e non, tirava fuori la grinta per raggiungerli. Quando c’era da dire qualcosa lui la diceva. Pietro rappresentava la frase: si può fare. Da lui ho imparato tanto dal punto di vista della determinazione. Non ha mai fatto niente con sufficienza senza mai lasciare nulla al caso». Ma la carriera di Mennea non finì a

Mosca, da ricordare anche il record sui 200 m a livello del mare (19”96) conquistato nella sua Barletta, l’argento (4x100) e bronzo (200 m) ai Mondiali di Helsinki, la 4ª finale olimpica consecutiva a Los Angeles e la 5ª Olimpiade di Seul nella quale

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Nella foto la camera ardente al Coni con la rappresentanza del DAP e degli atleti del Gruppo Sportivo. delle Fiamme Azzurre

Nella foto una immagine sorridente di Pietro Mennea

ebbe l’onore di essere il portabandiera della squadra azzurra. Ciao, Pietro, indimenticato campione azzurro. Alza l’indice e corri, corri verso il paradiso degli Eroi... Sit tibi terra levis. H

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Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nelle foto alcune immagini dell’arrivo in Brasile

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sappeinforma

Il Sappe in Brasile per un nuovo Corpo di Polizia Penitenziaria bbiamo accennato in più occasioni quale e quanta importanza hanno per il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE le relazioni internazionali in materia di operatori della sicurezza penitenziaria ed esecuzione della pena. Il SAPPE, come è noto, aderisce ad un organismo internazionale di estrema importanza quale è il CESI ed ha tenuto nei mesi scorsi diversi incontri nell’ambito del Consiglio d’Europa per approfondire la conoscenza dell’esecuzione della pena nei vari

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con i rappresentati dell’omologo sindacato autonomo penitenziario tedesco, il BSBD, e di quello dello Stato di San Paolo in Brasile, il SINDASP. Conoscere i sistemi di lavoro e le singole realtà del mondo è per il SAPPE importante e fondamentale per apprendere eventuali nuove metodologie di lavoro. In tale contesto si è realizzata la visita di una delegazione primo Sindacato della Polizia Penitenziaria in Brasile, proprio per conoscere il sistema penitenziario di quel Paese (la cui forma di governo

sollecitare una proposta di legge – PEC 308/04 - di modifica costituzionale all’articolo 144 che prevede appunto un Corpo di Polizia penitenziaria strutturato analogamente al nostro. Dal 17 al 24 febbraio scorsi, dunque, una delegazione del SAPPE si è recato in Sudamerica per partecipare al “II Encontro Bilateral de Agentes de Segurança Penitenciária do Estado São Paulo e Polizia Penitenziaria Italiana”. Percorsi i 10mila chilometri che separano Roma da San Paolo,

Stati membri ed il ruolo del personale addetto alla vigilanza ed alla sicurezza. In tale contesto, si sono svolti anche diversi incontri bilaterali

è quella di repubblica federale) e supportare le iniziative del SINDASP finalizzate ad una riorganizzazione penitenziaria in senso nazionale e

abbiamo raggiunto Presidente Prudente, città nella quale ha sede la sede centrale del SINDASP. Lunedì 18 febbraio, proprio nella sede del Sindacato brasiliano, si è tenuta una lunga conferenza stampa alla quale hanno partecipato tantissimi giornalisti dei principali organi di informazione della carta stampata, delle Tv e delle radio nazionali - Tv Globo, Band, SBT e Record, tanto per citarne alcune – nel corso della quale si è diffusamente parlato delle finalità dell’incontro SAPPE – SINDASP, dell’azione sindacale svolta dal nostro Sindacato in Italia ed in Europa e del ruolo del Corpo di Polizia Penitenziaria italiano. I giornalisti hanno incalzato con molte domande


speciale sindasp la delegazione del SAPPE, incuriositi dall’originalità dell’importante ed internazionale iniziativa sindacale e dalla voglia di conoscere il nostro sistema penitenziario. In Brasile non c’è infatti un sistema penitenziario nazionale, ma differente in ogni singolo Stato, così come non c’è un Corpo di Polizia Penitenziaria nazionale. Nello Stato di San Paolo gli istituti penitenziari sono 155 ed ospitano circa 190.000 detenuti. C’è un Sottosegretario, nominato dal Governatore, che è il massimo responsabile nell’ambito dello Stato; il sottosegretario nomina cinque dirigenti, ognuno dei quali è responsabile di circa trenta istituti, compresi in una parte del territorio. Ogni istituto è diretto da un dirigente, direttore generale, e gli agenti di sicurezza sono comandati da un

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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

assolutamente entusiasmanti a livello morale: per tanti colleghi e per molti operatori penitenziari brasiliani “il SAPPE è l’esempio da seguire per avere anche in Brasile una Polizia Penitenziaria professionale, capace, stimata ed apprezzata come quella italiana”.

Giornate davvero intense, dicevamo. Abbiamo visitato la struttura Regime Disciplinar Diferenciado (RDD) di Presidente Bernardes, struttura di massima sicurezza nella quale sono detenuti i 23 peggiori criminali di tutto il Paese, accompagnati dal direttore e coordinatore dello Stato Nelle foto le visite nei penitenziari brasiliani

direttore di sicurezza. Non c’è una vera organizzazione verticistica tra gli appartenenti agli agenti di sicurezza, che sono divisi in otto classi. Nello Stato di San Paolo gli agenti di sicurezza sono circa 30.000, in tutto il Brasile circa 100.000, mentre i detenuti, in tutto il Brasile, sono circa 600.000. Dopo 30 anni di lavoro vanno tutti in pensione, indipendentemente dall’età anagrafica. Gli agenti di sicurezza lavorano 12 ore per ogni turno e poi riposano il giorno successivo, per un totale di circa 40 ore settimanali. Sono state giornate intense dal punto di vista degli impegni ma

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Nelle foto ancora immagini degli stabilimenti di pena carioca e, sotto, nella sede del SINDASP

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Croeste (Coordenadoria de Unidades Prisionais da Região Oeste do Estado), Roberto Medina, un poliziotto che è arrivato al più alto grado dell’Istituzione penitenziaria dello Stato di San Paolo. Lì abbiamo assistito ad una dimostrazione di intervento da parte di una squadra del Grupo de Intervenção Rápida (GIR), che è un po’ l’unità d’elite dei colleghi brasiliani: con grande rapidità, preparazione e professionalità, hanno simulato l’irruzione in una cella con caschi, scudi, manganelli, unità cinofile (impiegate non per accertare presenza di stupefacente…) ed esplodendo una granata per sventare una rivolta in atto.

La visita è proseguita nella struttura della Coordenadoria de Unidades Prisionais (simile nei compiti ai nostri Provveditorati regionali), agli uffici dei Servizi interni di intelligente ed alle postazioni del poligono di tiro, dove è stanziale l’addestramento dei cani impiegati per riportare l’ordine nelle carceri. Anche l’altro carcere visitato, Penitenciária II de Presidente Venceslau, è una struttura destinata alla detenzione dei carcerati appartenenti alle varie realtà organizzate criminali e delinquenziali ed è ad altissima sicurezza. Sostanzialmente, per quanto riguarda l’esecuzione penale il sistema penitenziario brasiliano prevede una

netta differenziazione degli istituti per tipologia di detenuti, nel senso che i detenuti più pericolosi vengono ristretti tutti in istituti di massima sicurezza, gestiti dal GIR (Gruppo di intervento rapido) costituito da circa cento uomini che agiscono a volto coperto e sono armati di fucili e pistole all’interno del carcere, nonché di scudi, manganelli e cani d’assalto.


speciale sindasp Molto interessante vedere lo schieramento d’intervento, quando i detenuti escono per l’ora d’aria, oppure rientrano in cella. Un gruppo di cinque/sei agenti, con scudi e manganelli e un cane d’assalto si avvicinano all’ingresso della cella, controllano l’interno e poi fanno entrare o uscire i detenuti, mentre un gruppo di quindici/venti agenti si schiera con i fucili e gli altri cani, per evitare che ci siano aggressioni. In caso di aggressione sparano. Questo modo di lavorare, calato nella nostra realtà, può sorprendere, ma bisogna contestualizzarlo in quella brasiliana, dove i criminali sono molto aggressivi anche nei confronti degli agenti di sicurezza e della polizia in generale. E’ una criminalità appunto molto aggressiva, predatoria, ma anche organizzata. Il gruppo criminale più noto e potente, il PCC, è molto ramificato anche nelle istituzioni locali. Nel 2012 in Brasile sono state uccise dalla criminalità 50.000 persone, più di 200 erano poliziotti. Uno degli istituti che abbiamo visitato ha una capienza di ventidue posti ed è destinato a coloro che si sono resi responsabili di gravi comportamenti all’interno delle carceri. Ogni detenuto sta da solo in una stanza, dove entra la luce dalla finestra, ma lui non vede l’esterno. Trascorre 22 ore dentro e 2 fuori e

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Nelle foto gli incontri con i colleghi brasiliani e alcune immagini del GIR (Gruppo di Intervento Rapido)

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Nelle foto l’incontro con le Autorità pauliste

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non può parlare con il personale, tranne che per dire buongiorno e buonasera. Ogni volta che deve uscire viene ammanettato attraverso lo spioncino della porta blindata, poi esce, seguito da agenti con scudo e manganelli e un cane d’assalto, passa in un

corridoio, dove, sempre attraverso uno spioncino, gli vengono tolte le manette. Dopo va al campo per le due ore d’aria, dove possono stare al massimo in due. Per rientrare devono seguire la stessa procedura. Questi sono gli istituti a regime chiuso. Ci sono poi istituti a regime semiaperto, dove molti detenuti lavorano. I lavori più diffusi sono quelli artigianali, ricami, assemblaggi e altro e vengono svolti a cottimo. Dopo aver scontato un sesto della pena i detenuti, se si comportano bene, passano dal regime chiuso a quello semiaperto, dopo aver scontato un altro sesto possono uscire dal carcere. Anche chi viene

condannato a 30 anni, che è la pena massima, poiché non esiste l’ergastolo, anche se a causa di vari cumuli di pena c’era gente che aveva accumulato tantissimi anni, dopo 5/6 anni possono uscire dal carcere. È previsto uno sconto di pena di un giorno per ogni tre giorni di lavoro. Chi va a lavorare fuori divide i soldi con chi resta dentro. Arrivano a guadagnare fino a 650 reais al mese che corrispondono a circa 250 euro. I detenuti che lavora fuori portano il braccialetto elettronico. Nello Stato di San Paolo sono circa 4500 coloro che portano il braccialetto. Abbiamo visitato anche il carcere femminile di Tupa Paulista, dove erano recluse 1.060 donne, alcune delle quali avevano i bambini con loro. Il 93% era in carcere per droga. Molte di loro erano straniere. Ci hanno spiegato che fanno da corriere per far entrare la droga in Brasile dagli altri stati del Sudamerica, perché in Brasile non c’è molta produzione di droga. Nei giorni seguenti, ci siamo recati nella Câmara Municipal della città di


memoria storica Presidente Prudente – la delegazione del SAPPE è stata decretata “Ospite d’onore della città di Presidente Prudente” per tutto il periodo della visita ufficiale – ed abbiamo partecipato al Convegno organizzato dal SINDASP nell’ambia Sala convegno della propria sede sociale, consesso al quale hanno partecipato dirigenti sindacali provenienti da tutto lo Stato e appresentanti di Febrasp (Federação Brasileira dos Servidores Penitenciários). La visita è dunque proseguita a San Paolo con gli ultimi due importanti appuntamento in programma, l’incontro con il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Lourival Gomes, la visita alla sede centrale del Grupo de Intervenção Rápida (GIR) e successivamente con il Governatore dello Stato Geraldo Alckmin, che ha ricevuto le delegazioni di SINDASP e SAPPE nella sede governativa Palácio dos Bandeirantes. Il bilancio di questa importante esperienza è assolutamente positivo ed esaltante. Positivo perché aiutare i colleghi del Brasile a rimodulare strutturalmente l’organizzazione penitenziaria brasiliana da un contesto federale ad un assetto nazionale è un implicito riconoscimento alla professionalità ed autorevolezza della Polizia Penitenziaria, raggiunte – è bene ricordarlo - grazie alle costanti sollecitazioni del SAPPE che si è sempre impegnato perché al Corpo venisse riconosciuto il ruolo fondamentale di Corpo di Polizia dello Stato con la sue specificità, le sue specializzazioni, le sue prerogative. Ma il bilancio è anche esaltante perché la storia, l’esperienza e l’attualità degli obiettivi e degli impegni del primo Sindacato dei Baschi Azzurri, il SAPPE, si confermano anche in ambito internazionale un esempio da seguire. E questo, consentiteci il peccato di presunzione, ci riempe di orgoglio e soddisfazione. H

Roma Il dovere della Memoria e le amnesie romane

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a mattina del 18 marzo 1980, mentre su mezzo pubblico si recava dalla propria abitazione al suo lavoro presso la Corte di cassazione, veniva assassinato barbaramente da appartenenti alle Brigate Rosse Girolamo Minervini, una delle espressioni migliori della Magistratura italiana e del suo impegno umanitario e sociale. Tra i vari e prestigiosi incarichi che aveva ricoperto ve ne furono anche nell’Amministrazione Penitenziaria dal settembre 1947 fino alla fine del

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E proprio le condizioni di quella targa quasi illeggibile (usura che ovviamente non è avvenuta dall’oggi al domani e quindi da tempo è in quelle condizioni...) mi inducono ad alcune amare riflessioni: nel nostro Paese continua a mancare una cultura della Memoria. Dopo le commemorazioni ufficiali, con il bacio sulle guance ai sopravvissuti agli attentati o ai familiari dei Caduti, con relativa retorica, che sono spesso serviti alla visibilità e a vantaggi politici per gli oratori, la solidarietà, spesso verbale, si è affievolita. Sembra quasi che si voglia cancellare il passato, ma i familiari dei Caduti, i feriti e gli invalidi, testimoni oggettivi restano lì come un monito. Vengono quindi considerati una memoria fastidiosa e ingombrante perché provocano il ricordo di tragicità e orrori. A sinistra la targa che ricorda il Giudice Minervivi a Roma

1962, praticamente per quindici anni quasi senza interruzione e dal 1954 come direttore dell’allora Ufficio II. Dopo essere stato nominato segretario presso il Consiglio superiore della Magistratura tornò nel 1973 al Ministero di Grazia e Giustizia, per assumervi le funzioni di capo della segreteria per gli istituti di prevenzione e di pena. Minervini fu ucciso a bordo dell’autobus di linea 991, in via Ruggero di Lauria (una traversa di via Andrea Doria), da terroristi della colonna romana delle BR nell’ambito della campagna contro le carceri dure. Oggi una targa ricorda in via Ruggero di Lauria, proprio dove c’è la fermata dell’autobus, l’uccisione di Minervini.

Le Vittime del Dovere sono state troppo spesso dimenticate da questa società distratta, che brucia in fretta il ricordo del dolore di chi è stato colpito negli affetti più cari. Ben pochi coltivano la memoria di quanti sono Caduti e tramandano alle generazioni future il loro patrimonio di valori morali, le loro certezze istituzionali, la loro fedeltà alle strutture democratiche. Sono rimasti i familiari ed i colleghi dei carabinieri, dei magistrati e dei poliziotti trucidati a ricordarLi. E ciò che è accaduto a Roma per la targa del povero Girolamo Minervini sembra proprio esserne la triste e amara conferma. H erremme

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Lady Oscar Redazione Sportiva rivista@sappe.it

lo sport

Carolina Kostner ancora medaglie per le Fiamme Azzurre e si dicesse di un'atleta che l'argento mondiale è arrivato all'unidicesima partecipazione alle competizioni iridate senza indicarne il nome, difficilmente si immaginerebbe che questa atleta ha da poco festeggiato “solo” i ventisei anni e che non è un'attempata gloria sportiva in procinto di smettere con l'agonismo e una vita di gare.

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Nella foto Carolina Kostner

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Se poi a quel punto si facesse il suo nome dicendo che l'atleta in questione è Carolina Kostner, sarebbe tutto immediatamente più chiaro. Carolina, l'araba fenice, la fiamma azzurra dalle mille vite e dalle mille pagine scritte sul ghiaccio, con quella più bella che è sempre pronta a comporre per il domani sportivo più prossimo, ha aggiunto un altro

metallo pesante alla sua personale storia nei campionati internazionali di massimo livello. L’argento conquistato in Canada, in Ontario per la precisione, è la quinta medaglia vinta ad un Mondiale dopo il bronzo di Mosca 2005, l’argento di Goteborg 2008, il bronzo di Mosca 2011 e l’oro di Nizza 2012. Nel suo medagliere anche cinque titoli europei, due argenti ed un bronzo oltre ad una vittoria nella finale del prestigioso Grand Prix. Per l'ultimo successo canadese, conquistato al termine di una stagione agonistica densa di impegni e di soddisfazioni, Carolina ha dovuto tenere a bada le sue terribili avversarie: su tutte una ritrovata YuNa Kim, prima, e Mao Asada terza; ma anche un'improvvisa epistassi che l'ha costretta a pattinare con il naso grondante sangue durante il libero scandito dalle meravigliose note del Bolero di Ravel. Nonostante ciò e nonostante la caduta nel finale nell'atterraggio del Salchow, Carolina è riuscita a ritoccare tutti i precedenti record italiani che aveva fatto registrare nel vittorioso campionato europeo di Zagabria dello scorso gennaio, chiudendo con 131.03 punti (terza nel segmento di gara dopo Yu-Na Kim e la Asada) per un totale di 197.89, dopo il corto pattinato con 66.86 punti. Altissimi il punteggio tecnico (61.34) e quello artistico (70.69), quest'ultimo secondo solo a quello della vincitrice coreana, che ha guadagnato ben sei 10.00 nei components (per Carolina due 9.75 e cinque 9.50). Per Yu-Na Kim un totale di 218. 31 ed un lungo da 148.34 al termine di una funambolica esibizione. Anna Cappellini-Luca Lanotte, alla loro settima esperienza iridata, hanno invece concluso con un 168.4 ed il quarto posto nella danza (a 1.14

punti dal podio). I due ragazzi delle Fiamme Azzurre, al termine di una Carmen suggestiva, tecnicamente ineccepibile, carica di espressività e di emozione, hanno migliorato di due piazze il sesto posto dell'edizione Nizza 2012. L'ordine di discesa in pista non li ha per nulla agevolati, basti pensare che si sono esibiti subito dopo i beniamini di casa, Tessa Virtue-Scott Moir, campioni olimpici e mondiali in carica, eppure la loro bella prova non è uscita per nulla intaccata dagli applausi a scena aperta e dai punteggi elevati dei predecessori. Oltre a ciò sono riusciti a sopravanzare i francesi PechalatBourzat, bronzo continentale due mesi fa a Zagabria, dimostrando dunque di essere ormai maturi per un posto importante, a partire proprio dal vecchio continente. Per ora, anche in prospettiva olimpica Sochi 2014, va benissimo così. L’oro della danza è andato agli statunitensi Meryl Davis-Charlie White primi con 189.56, secondi i canadesi Virtue-Moir dietro con 185.04, bronzo ai russi Ekaterina Bobrova-Dmitri Soloviev, campioni europei a Zagabria con 169.19 punti. Senza podio, ma comunque brave, le altre due Fiamme Azzurre Stefania Berton e Ondrej Hotarek, che si sono allontanati dalla vetta dopo lo storico bronzo conquistato all'europeo di Zagabria nel pattinaggio artistico di coppia sul ghiaccio. Il loro totale è stato di 171,77, più distante dal loro personale di 187,45 punti ma comunque rispettabile e punto fermo da cui ricominciare in vista dell'appuntamento olimpico di Sochi 2014. Non bisogna dimenticare infatti, a margine di qualunque valutazione sulla rassegna iridata che ha incoronato Carolina, che tutti i ragazzi della Polizia Penitenziaria sono già qualificati per la rassegna cinque cerchi del prossimo anno, consentendo ad altri atleti italiani (due coppie e la signolista di artistico Valentina Marchei) di partecipare in aggiunta alla spedizione azzurra che ci rappresenterà in Russia.


lo sport Nota dolente, che molto pesa su uno sport che si affida completamente all'uomo per le valutazioni degli atleti e delle loro prove, è la completa assenza di arbitri italiani nelle gare internazionali. Lo stesso handicap che colpì la nazionale di ritmica delle “farfalle azzurre” in molte gare in cui avrebbero meritato ben altri risultati che finire ai piedi del podio, rischia di continuare ad essere una costante anche negli sport del ghiaccio a svantaggio dei nostri portacolori se non si ovvierà a questo inconveniente con l'inserimento di giudici nazionali

nel panel delle principali competizioni che li vedono come protagonisti. Speriamo che ciò possa avvenire presto per non vanificare il lavoro serio e costante delle Fiamme Azzurre che, dopo un breve periodo di meritato riposo, torneranno presto ad allenarsi in vista della prossima ed importante stagione culminante con l'evento russo, in un Paese - con lo zar Plushenko in testa - che è un autentico santuario della disciplina e che sta già dispiegando impegno e risorse ingenti per arrivare a risultati di prim'ordine con tutti i sui atleti e le sue atlete. Dietro a tutti i risultati dei ragazzi delle Fiamme Azzurre sopra citati, oltre al loro indiscutibile talento e all'apporto del gruppo sportivo della Polizia Penitenziaria, c'è anche una persona che, dalla segreteria al tempo libero, vigila e assiste mentre sul campo si giocano la posta fondamentale dei successi che consacrano una carriera o che al contrario è pronta a consolare quando in agguato c'è la peggiore delle sconfitte: quella persona è Stefania Parrelli segretaria degli sport del ghiaccio.

Pietro Mennea: un grande campione ma, soprattutto, un grande uomo

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on Pietro Mennea non se n'è andata solo una leggenda delle piste di atletica e dell'intero movimento sportivo italiano, ma è scomparso anche un pezzo fondamentale della storia dello sport della Polizia Penitenziaria e delle Fiamme Azzurre di cui è stato ideatore e genitore insieme all'allora Direttore Generale dell'Ufficio del Personale dott. Raffaele Condemi. Fu sua l'iniziativa che portò all'atto costitutivo delle Fiamme Azzurre (con decreto ministeriale del 25 luglio 1983). Ultimo dei gruppi sportivi nati dunque, tenuto a battesimo da uno dei più grandi atleti di tutti i tempi non tanto e non solo per i risultati agonistici raggiunti, ma per aver incarnato con il suo stile di vita la metafora dello sportivo e dell'uomo perfetto. Correva e si allenava - feste incluse - pur non avendo il fisico dei nordafricani che in pista avevano sempre scritto i tempi ed i modi di arrivare per primi al traguardo. Lo diceva spesso nelle interviste Mennea che pur non essendo un predestinato era arrivato dove altri avevano

Lei è quella che al di là di qualunque fuso orario segue e comunica con “i suoi ragazzi” e li sostiene sempre, prima e dopo ogni evento. Le abbiamo chiesto cosa pensa degli ultimi risultati agonistici conseguiti dai suoi fantastici cinque, ma ciò che ci ha dichiarato appare come una risposta anche riguardo a quanto faranno in futuro, podio o no: «Sono orgogliosissima dei piazzamenti degli atleti della mia sezione perchè so per certo che hanno messo in ciò che hanno fatto tutto l'impegno che potevano, perchè hanno contribuito a tenere alto il nome dell'Italia, delle Fiamme Azzurre, della Polizia Penitenziaria e perchè sono tutti dei ragazzi meravigliosi che io stimo al di là di qualunque medaglia o record conquistato». H

fallito mettendoci tanta volontà e 5-6 ore al giorno di allenamenti senza mai fermarsi. Il suo 19,72 fatto registrare tra i mostri della velocità a Città del Messico nel 1979 è restato intatto per ben diciassette anni, fino al 23 giugno del 1996. Nel frattempo Mennea ha conseguito quattro lauree, ha scritto molti libri, ha dato vita ad una fondazione che porta il suo nome con lo scopo primario di effettuare donazioni costanti nel tempo, assistenza sociale ad enti caritatevoli o di ricerca medico-scientifica, associazioni culturali e sportive, attraverso progetti specifici e quello secondario di carattere culturale, consistente nel diffondere lo sport ed i suoi valori, nel promuovere la lotta al doping. E' andato ben oltre le cinque Olimpiadi disputate e la sua personale preoccupazione di lasciare un'impronta nella storia dello sport nazionale ed internazionale. Pur essendo stato il grande campione che ha dimostrato di essere, ha tracciato e saputo indicare un percorso oltre lo sport. In questo Pietro Mennea ha avuto la fortuna del predestinato e la forza di un gigante. La stessa che oggi lascia in eredità anche alle “sue” Fiamme Azzurre ed a tutti gli atleti che ne sono parte. H

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Nelle foto a sinistra Anna Cappellini e Luca Lanotte sotto Stefania Berton e Ondrej Hotarek

Nella foto sopra Pietro Mennea

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diritto e diritti

Congedo ordinario: imposizione d’ufficio e monetizzazione Giovanni Passaro passaro@sappe.it

entilissimo collega, nel ringraziarti per la gentile e preziosa collaborazione, con la presente ti chiedo di valutare con attenzione quanto da me rappresentato ed eventualmente delucidarmi in merito. La normativa vigente in materia e precisamente il D.P.R. 18 giugno 2002, n° 164 statuisce che “ove il dipendente non abbia fruito delle ferie entro l’anno al quale sono riferite, le stesse potranno essere usufruite entro il primo semestre dell’anno successivo o, nell’ipotesi in cui siano occorse indifferibili esigenze di servizio, nell’anno successivo a quello di spettanza”. Orbene, il punto in questione è il seguente: qualora sia inutilmente decorso il termine contemplato dalla norma, il periodo di ferie e riposi non goduti saranno accantoni con conseguente possibilità per il dipendente di ottenerne la corresponsione di un compenso sostitutivo, ovvero legittimerà l’Amministrazione ad una collocazione d’ufficio? L’interpretazione della norma, di tipo restrittivo, è ritenere che il periodo utile per una eventuale collocazione d’ufficio sia rappresentato esclusivamente dai semestri successivi all’anno in cui si riferisce la maturazione del relativo diritto. Diversamente argomentando, imboccando la via della “gestione d’ufficio” dei congedi ordinari, paventando non meglio indicati diritti di disporre in modo pieno ed esclusivo, di diritti soggettivi altrui, a mio parere l’Amministrazione dovrebbe indicare in forma scritta ai sensi dell’art 3 della L.7 agosto 1990 n° 241, le ragioni di fatto e di diritto che giustificherebbero una deroga al quadro normativo vigente, non essendo più sufficiente la generica dicitura “per motivi di servizio”.

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Gentile collega, il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria ha diritto in ogni anno di servizio, ad un periodo di congedo ordinario retribuito, ai sensi del D.P.R. 395/1995: “Il congedo ordinario può essere autorizzato, a richiesta del dipendente, e compatibilmente con le esigenze di servizio, scaglionandolo in quattro periodi entro il 31 dicembre dell’anno in cui il congedo si riferisce, dei quali uno almeno di due settimane nel periodo 1° giugno al 30 settembre. Per il personale con oltre 25 anni di servizio, almeno uno degli scaglioni non può essere inferiore ai 20 giorni”. Nel caso di indifferibili esigenze di servizio o motivate esigenze di carattere personale, che non abbiano reso possibile la completa fruizione del congedo ordinario nel corso dell’anno, il congedo ordinario residuo deve essere fruito entro l’anno successivo (D.P.R. 170/2007). Infatti, eventuali eccezioni non sono ammissibili atteso che, ove si consentisse la fruizione del congedo oltre i termini perentori stabiliti dal legislatore, non potendo tale eventuale possibilità essere estesa a tutto il personale, determinerebbe gravi disparità di trattamento e, per l’effetto, condizioni di precarietà e di violazione dei diritti del personale che, invece, la legge ha disciplinato in modo inconfutabile con la normativa vigente. Pertanto, in caso di assenza di esigenze di servizio dell’amministrazione o motivate esigenze di carattere personale del dipendente, l’amministrazione sollecitando preventivamente mediante formale comunicazione all’interessato, nei limiti temporali indicati dalla normativa di settore, chi non abbia avanzato domanda di congedo ordinario a regolarizzare la propria posizione nel rispetto dei termini, può d’ufficio assegnare

il congedo ordinario residuo. Il congedo ordinario può essere frazionato in 4 scaglioni nel corso dell'anno di riferimento; uno scaglione deve essere articolato in almeno 2 settimane nel periodo 1° giugno 30 settembre. Per i dipendenti che hanno effettuato oltre 25 anni di servizio, uno degli scaglioni non potrà, comunque, essere inferiore a 20 giorni. Sono altresì, attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell’anno solare che devono essere fruite nell’anno solare (senza possibilità di deroghe) e la mancata presentazione della domanda da parte del dipendente comporta la perdita del diritto, ai sensi della legge 23 dicembre 1977, n. 937. Inoltre, l’art. 13 del D.P.R. 395/95 prevede un riposo per la ricorrenza del Santo Patrono che spetta solo se ricade in una giornata feriale atteso che, qualora la festività del Santo Patrono dovesse ricorrere in giorno festivo, il lavoratore non avrebbe diritto, ferma restando l’assegnazione del riposo settimanale o festivo, al recupero del riposo in altra giornata lavorativa. Per quanto concerne la monetizzazione del congedo ordinario si sottolinea che le ferie rappresentano un diritto costituzionalmente garantito, sono finalizzate al recupero delle energie psicofisiche spese durante la prestazione lavorativa, il dipendente non può rinunziarvi e non sono monetizzabili. Riferimenti: • art. 14 D.P.R. 395/95; • art. 18 D.P.R. 254/99; • art. 18 D.P.R. 164/2002; • ex art. 11 D.P.R. 170/2007; • lettera circolare n. 3426/5876 del 27.04.1996; • lettera circolare n. 143083 del 27.10.1997; • lettera circolare n. 0101432 del 21.03.2006; • circolare GDAP-0239739 del 10.07.2008; • circolare GDAP-0480803-2009 del 29.12.2009; • circolare GDAP-0424658-2011. H


giustizia minorile n questo spazio dedicato alla Giustizia Minorile, ho voluto fare una breve ricerca per riportare alla Vostra attenzione le disposizioni più importanti del processo penale minorile. Purtroppo, con triste rammarico ho ancora una volta constatato come la realtà sia diversa da quanto previsto nel codice di procedura penale. Basti pensare all’art.57 del Codice di procedura penale. Detta norma, come è noto a voi tutti, prevede che anche il Corpo di Polizia Penitenziaria svolga funzioni di polizia giudiziaria. Tuttavia, oggi l’impiego di personale presso le sezioni dei Tribunali per Minorenni è quasi inesistente. La speranza è che la specializzazione nel trattamento dei detenuti minorenni porti ad una maggiore considerazione del Corpo di Polizia Penitenziaria che agli occhi dell’autorità giudiziaria minorile non è assolutamente preso in considerazione. Ricordiamo che in ciascuna Procura della Repubblica presso i Tribunali per i Minorenni è istituita una sezione specializzata di polizia giudiziaria, alla quale è assegnato personale dotato di specifiche attitudini e preparazione (ad oggi esclusa la Polizia Penitenziaria che è la più specializzata).

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D.P.R. 22.09.1988, n°448 Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni Principi generali del processo minorile Nel procedimento a carico di minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale. Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne. Il giudice illustra all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni. Organi giudiziari nel procedimento a carico di minorenni Nel procedimento a carico di minorenni esercitano le funzioni

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La Polizia Penitenziaria e il processo penale minorile rispettivamente loro attribuite, secondo le leggi di ordinamento giudiziario: a) il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni; b) il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale per i minorenni; c) il tribunale per i minorenni; d) il procuratore generale presso la corte di appello; e) la sezione di corte di appello per i minorenni; f) il magistrato di sorveglianza per i minorenni. Competenza Il tribunale per i minorenni è competente per i reati commessi dai minori degli anni diciotto. Il tribunale per i minorenni e il magistrato di sorveglianza per i minorenni esercitano le attribuzioni della magistratura di sorveglianza nei confronti di coloro che commisero il reato quando erano minori degli anni diciotto. La competenza cessa al compimento del venticinquesimo anno di età. Provvedimenti in caso di arresto o di fermo del minorenne Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria che hanno eseguito l’arresto o il fermo del minorenne ne danno immediata notizia al pubblico ministero nonché all’esercente la potestà dei genitori e all’eventuale affidatario e informano tempestivamente i servizi minorili dell’amministrazione della giustizia. Quando riceve la notizia dell’arresto o del fermo, il pubblico ministero dispone che il minorenne sia senza ritardo condotto presso un Centro di Prima Accoglienza o presso una comunità pubblica o autorizzata che provvede a indicare. Qualora, tenuto conto delle modalità del fatto, dell’età e della situazione familiare del

minorenne, lo ritenga opportuno, il pubblico ministero può disporre che il minorenne sia condotto presso l’abitazione familiare perché vi rimanga a sua disposizione. Oltre che nei casi previsti dall’articolo 389 del Codice di procedura penale (Casi di immediata liberazione dell’arrestato o del fermato per errore), il pubblico ministero dispone con decreto motivato che il minorenne sia posto immediatamente in libertà quando ritiene di non dovere richiedere l’applicazione di una misura cautelare. Al fine di adottare i provvedimenti di sua competenza, il pubblico ministero può disporre che il minorenne sia condotto davanti a sé. Si applicano in ogni caso le disposizioni degli articoli 390 (Richiesta di convalida dell’arresto o fermo) e 391 (Udienza di convalida) del codice di procedura penale.

Informativa al procuratore della Repubblica per i minorenni Sezioni di polizia giudiziaria per i minorenni In ciascuna procura della Repubblica presso i tribunali per i minorenni è istituita una sezione specializzata di polizia giudiziaria, alla quale è assegnato personale dotato di specifiche attitudini e preparazione. Servizi minorili In ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria si avvale dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia. Si avvale altresì dei servizi di

a cura di Ciro Borrelli Coordinatore Nazionale Sappe Minori per la Formazione borrelli@sappe.it

Nella foto sopra giovani Agenti di Polizia Penitenziaria della giustizia minorile

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minorile assistenza istituiti dagli enti locali. Accertamento sull’età del minorenne Quando vi è incertezza sulla minore età dell’imputato, il giudice dispone, anche di ufficio, perizia al più vicino ospedale. Qualora, anche dopo la perizia, permangano dubbi sulla minore età, questa è presunta ad ogni effetto. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano altresì quando vi è ragione di ritenere che l’imputato sia minore degli anni quattordici.

Nelle foto in alto a sinistra il Ministro ammira una antica porta del Carcere della Vicarìa di Trapani, restaurata dai detenuti sotto, le autorità sul palco della sala teatro

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Casellario giudiziale per i minorenni Presso ciascun tribunale per i minorenni, sotto la vigilanza del procuratore della Repubblica presso il medesimo tribunale, l’ufficio del casellario per i minorenni raccoglie e conserva, oltre alle annotazioni di cui è prevista l’iscrizione da particolari disposizioni di legge, l’estratto dei provvedimenti indicati nell’articolo 686 del codice di procedura penale riguardanti minorenni nati nel distretto. I provvedimenti e le annotazioni riguardanti minorenni nati all’estero o dei quali non si è potuto accertare il luogo di nascita nel territorio dello Stato si conservano nell’ufficio del casellario presso il tribunale per i minorenni di Roma. Le certificazioni relative alle iscrizioni nel casellario per i minorenni possono essere rilasciate soltanto alla persona alla quale si riferiscono o all’autorità giudiziaria. Eliminazione delle iscrizioni Le iscrizioni relative a provvedimenti di condanna a pena detentiva, anche se condizionalmente sospesa, sono trasmesse all’ufficio del casellario giudiziale previsto dall’articolo 685 del codice di procedura penale al compimento del diciottesimo anno della persona alla quale si riferiscono. Le iscrizioni relative alla concessione del perdono giudiziale sono conservate sino al compimento del ventunesimo anno di età della persona alla quale si riferiscono. Tutte le altre iscrizioni sono eliminate al compimento del diciottesimo anno di età. H

dalle segreterie Trapani Il Ministro della Giustizia Severino in visita all’istituto l 26 febbraio il Ministro della Giustizia, Paola Severino ha visitato la Casa Circondariale di Trapani, nell’ambito di un tour previsto nelle carceri siciliane. Il Ministro accompagnato dal Capo del Dipartimento Giovanni Tamburino e dal Provveditore della Sicilia Maurizio Veneziano, ha dapprima incontrato il personale nella sala teatro dell’Istituto e dopo ha fatto un giro per le sezioni detentive. Alla fine del giro il Ministro ha avuto parole di elogio per il Direttore ed il Comandante per come è mantenuta la struttura, nonostante i quasi 50 anni di età, e per l’ordine che regnava all’interno delle sezioni detentive, nonostante la Casa Circondariale di Trapani, comunque risenta di un certo sovraffollamento quantificabile nell’ordine del 30% di detenuti rispetto ad una capienza ottimale di circa 370 detenuti. Se escludiamo l’anno 1965, quando il carcere fu inaugurato dall’allora Ministro Reale, è la prima volta che un Ministro della Giustizia visitava la C.C. di Trapani ed il personale presente all’incontro ne ha tratto una ottima impressione per le parole di elogio che il Ministro ha avuto nei confronti del lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria e per la gentilezza e l’attenzione prestata a

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tutti gli operatori e detenuti che l’hanno più volte fermata durante il suo giro chiedendo di porre attenzione a qualche caso “umano”. E’ davvero un peccato che un Ministro coma la Severino non abbia fatto, all’inizio del suo mandato, questi giri per le carceri a raccogliere le istanze della Polizia Penitenziaria, come ad esempio il riallineamento dei Commissari, il riordino delle carriere con la previsione di un unico ruolo agenti - assistenti - sovrintendenti, l’assunzione degli idonei non vincitori del concorso per allievi Agenti, vista la gravissima carenza di personale, l’installazione di impianti tecnologici al fine di recuperare risorse umane, il taglio degli sprechi che investono anche la nostra amministrazione, e questo tour fatto alla fine del suo mandato ha un sapore un po’ amaro, ora che l’abbiamo conosciuta da vicino ed abbiamo apprezzato le sue parole che ci sono sembrate sincere anche se, purtroppo, tardive. H


dalle segreterie Trapani Intitolata a Giuseppe Montalto l’aula bunker della Casa Circondariale i è svolta il 21 marzo la cerimonia di intitolazione dell’aula bunker della Casa Circondariale di Trapani al nostro compianto collega Giuseppe Montalto, ucciso dalla mafia nel 1995 nella frazione trapanese di Palma. L’evento ha coinciso con la celebrazione della 18ª Giornata della Memoria, dedicata al ricordo delle vittime di tutte le mafie, organizzata dall’Associazione Libera. Presenti le massime Autorità Militari provinciali, scarsa la presenza dei politici a parte il combattivo Sindaco di Erice Giacomo Tranchida (comune su cui ricade la C.C. Trapani) e qualche altra figura di secondo piano; assente il Sindaco di Trapani, ex Generale dei Carabinieri, la cui assenza è stata perfino stigmatizzata pubblicamente dalla vedova Montalto, signora Liliana Riccobene. Per l’Amministrazione Penitenziaria, presenti il Provveditore Regionale per la Sicilia dott. Maurizio Veneziano, il Direttore della C.C. Trapani dott. Renato Persico e il Comandante della Polizia Penitenziaria Trapanese, Giuseppe Romano. Del processo per l’uccisione di Giuseppe Montalto ha parlato il giudice Piero Grillo che ha sottolineato come il potere mafioso sia caratterizzato da «ferocia e viltà» perchè sceglie il sistema dell’agguato per colpire servitori dello Stato che fanno il loro dovere. «Quanta responsabilità abbiamo, come società civile, nella morte di Giuseppe Montalto? - ha chiesto il giudice che ha proseguito - Ogni volta che qualcuno di noi non ha fatto il proprio dovere ha contribuito ad isolare quelle che poi sono diventate vittime della mafia». Commovente l’intervento di Liliana

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Riccobene, vedova di Giuseppe Montalto, che ha ringraziato per la solidarietà mostrata dopo la morte del marito i colleghi della Polizia Penitenziaria. «Lui conosceva i rischi che correva ma ha deciso di stare dalla parte giusta», ha detto la signora Riccobene. Particolarmente intenso è stato anche l’intervento del sostituto procuratore di Trapani Andrea Tarondo, che, insieme a Ignazio De Francisci, rappresentò la pubblica accusa nel processo per l’omicidio di Giuseppe Montalto. «Ci vuole tempo prima che le vittime di mafia vengano riconosciute come tali - ha commentato - e si sviluppi una consapevolezza civile. Sono contento che questo sia avvenuto anche per Giuseppe Montalto». Dopo la sobria cerimonia di scopertura della targa, da parte della figlia Ylenia e della moglie di Peppe Montalto, l’incontro è continuato con la lettura dei nomi delle mille vittime della mafia, dal 1893 ad oggi. L’intitolazione dell’Aula Bunker annessa alla Casa Circondariale di Trapani, è un importante riconoscimento per la memoria del collega ucciso. L’aula Bunker fu costruita circa 15 anni fa per ospitare il primo maxi processo alle cosche mafiose trapanesi

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(processo OMEGA) ma visto che l’utilizzo processuale è andato via via scemando nel tempo, il Sindaco Tranchida ha auspicato un suo utilizzo anche per manifestazioni di vario genere, convegni, dibattiti ecc. in rivista@sappe.it

Nelle foto alcune fasi della cerimonia dell’intolazione dell’aula bunker a Giuseppe Montalto

modo da sfruttare razionalmente e preservarne l’abbandono questa magnifica opera che da oggi porterà per sempre il nome del nostro collega Montalto. H

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segreterie Genova

rivista@sappe.it

Nella foto sopra Martinelli mentre riceve il distindivo d’argento dell’ANA

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Distintivo dell’ANA per l’Alpino Martinelli

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l nostro Capo Redattore Roberto Martinelli, prima di arruolarsi nel Corpo di Polizia Penitenziaria, ha servito la Patria nel Corpo degli Alpini come Sergente della Brigata Taurinense. Ed è rimasto molto legato alle Penne Nere ed ai Sacri Valori che le hanno rese note in Italia e nel mondo (l’amor di Patria, l’amicizia, la solidarietà, il senso del dovere) tanto da iscriversi il giorno stesso del congedo dal servizio di leva all’Associazione Nazionale Alpini, che è appunto l’Associazione d’Arma delle Penne Nere. Per la sua intensa e lunga partecipazione alle attività del Gruppo Alpini Genova Centro, domenica 3 aprile scorso, nel corso di una manifestazione associativa, Roberto è stato insignito nel capoluogo ligure del distintivo d’argento dell’ANA per i (primi) 25 anni di adesione. A consegnare il distintivo, sono stati il Capogruppo Giuseppe Fusco ed il Vice Gino Turchini, ‘controllati a vista’ dal figlio di Martinelli, Stefano. Al Capo Redattore le felicitazioni della “sua” redazione. H

come scrivevamo enti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Cosa Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

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Fiamme Azzurre: Orgoglio sportivo del Corpo di G.B.D.B.

iovedi 9 ottobre alle ore 10.30 il Presidente del C.O.N.I. (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) Mario Pescante accompagnato dal Presidente della Federazione Tiro con l’Arco Vincenzo Romano, ha incontrato a largo Luigi Daga il Direttore Generale Alessandro Margara in qualità di Presidente del G.S. Fiamme Azzurre. In quell’occasione il Presidente Mario Pescante ha espresso tutto l’apprezzamento suo personale e del C.O.N. I. per il prezioso apporto delle Fiamme Azzurre allo sport nazionale. In quell’occasione Pescante ha proposto di aggiornare il protocollo di intesa stipulato nel 1992 tra Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria e C.O.N.I. rivedendone gli accordi sia per quanto attiene le attrezzature che le attività sportive. Con un nuovo protocollo d’intesa potrebbero essere realizzati nuovi impianti sportivi (sia intramurali

G


che esterni) per attività da mettere a disposizione dell’Amministrazione Penitenziaria. Nell’ultima stagione agonistica, il Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre del Corpo di Polizia Penitenziaria ha partecipato alle manifestazioni sportive delle seguenti Federazioni: • Atletica Leggera • Ciclismo • Pentathlon Moderno • Sollevamento Pesi • Tiro a Volo • Tiro Dinamico Sportivo • Triathlon In ogni singola disciplina gli atleti del Corpo si sono segnalati per la loro professionalità, raggiungendo, in alcuni casi, successi e risultati molto lusinghieri. Tra questi sono da sottolineare la medaglia d’oro dell’agente Giovanni Pellielo nella Coppa del Mondo di Tiro a Volo - specialità fossa olimpica - di Montecatini Terme, e la medaglia d’argento negli 800 metri piani dell’agente scelto Giuseppe D’Urso ai Campionati Europei indoor di Stoccolma. Vale, forse, la pena ricordare che ormai gli atleti del Corpo di Polizia Penitenziaria fanno regolarmente parte delle Nazionali Italiane ed hanno rappresentato il nostro Paese sia in manifestazioni Europee che Mondiali. Un esempio su tutti: all’ormai lontana Olimpiade di Barcellona ’92 gli atleti del Corpo furono 7; all’ultima Olimpiade di Atlanta i rappresentanti sono stati 10. Questo dato, a testimonianza della continuità dei risultati, è frutto di un positivo impegno che dura da undici anni e che si confida possa continuare ad avere il determinante supporto dell’Amministrazione Penitenziaria in vista dell’apertura di nuove discipline sportive e del settore femminile. Si è certi, che anche nella prima Olimpiade del Terzo Millennio Sydney 2000 - il Corpo di Polizia Penitenziaria sarà ben rappresentato ed i suoi atleti non mancheranno di ben figurare. H

come scrivevamo

Ricordando Francesco Di Maggio

21 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

di Roberto Martinelli

I

rruento, impulsivo, polemico, lavoratore instancabile, onesto: tutto questo era Francesco Di Maggio, già vice Direttore Generale dell’Amministrazione Penitenziaria negli anni 1993 e 1994. E’ passato più di un anno da quel 7 ottobre del 1996 quando, in una stanza del reparto di terapia intensiva dell’Ospedale S. Martino di Genova, il fisico di Francesco Di Maggio non riuscì più a contrastare l’epatite non diagnosticata che lo aveva colpito al fegato. Ed è nostro dovere ricordarlo, per il rispetto dell’Uomo, al di là della comprensibile conflittualità che c’è stata tra il S.A.P.Pe. da una parte e l’Amministrazione Penitenziaria (nella persona di Francesco Di Maggio, vice Direttore Generale) dall’altra, perchè il Consigliere Di Maggio dimostrò comunque un reale interesse per la Polizia Penitenziaria e per la sua crescita professionale. Arrivò in largo Luigi Daga (allora via Silvestri) da Vienna, dove era consulente giuridico per I’Organizzazione delle Nazioni Unite. Conseguita la laurea in Giurisprudenza, dopo una breve parentesi come avvocato a Monza, fu sostituto procuratore a Milano nei primi anni Ottanta e, successivamente, esponente di punta dell’Alto Commissariato per la lotta alla mafia. Organizzò, nel novembre del 1994, la Conferenza transnazionale sulla criminalità organizzata, che si tenne nel prestigioso Palazzo Reale di Napoli, e Francesco Di Maggio volle che nella segreteria organizzativa

della Conferenza fossero presenti proprio alcune unità di Polizia Penitenziaria, con mansioni di coordinamento e collaborazione. Terminata l’esperienza al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ritornò a Vienna a svolgere alti incarichi presso l’O.N.U . Che Di Maggio avesse lasciato il segno tra i poliziotti penitenziari lo dimostra il fatto che, nei suoi ultimi giorni di vita a Genova, furono diversi i colleghi che, terminato il servizio, si alternarono al suo capezzale, confortando i familiari e testimoniando così un sincero affetto per quello che era stato il loro Vice Direttore Generale. Il S.A.P.Pe. ricorda Francesco Di Maggio come un Uomo, un Funzionario, che ha lasciato un’impronta indelebile nell’Amministrazione e nella memoria dei poliziotti penitenziari. H

Nella foto sopra Francesco Di Maggio al centro il sommario del numero di novembre 1997

Nell’altra pagina la copertina e la vignetta del numero di novembre 1997

Polizia Penitenziaria n.204 marzo 2013


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cinema dietro le sbarre

Il terzo tempo a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nelle foto la locandina e alcune scene del film

Polizia Penitenziaria n.204 marzo 2013

Regia: Enrico Maria Artale Soggetto: Alessandro Guida, Luca Giordano, Enrico M. Artale Sceneggiatura: Francesco Cenni, Luca Giordano, Enrico M. Artale Fotografia: Francesco Di Giacomo Musiche originali: Ronin Montaggio: Paolo Landolfi Scenografia: Laura Boni Costumi: Irene Amantini

pera prima del giovane regista Enrico Maria Artale (coautore anche della sceneggiatura), Il terzo tempo racconta di seconde opportunità, di rinascita e di voglia di ricominciare. Nel rugby il terzo tempo è il tradizionale incontro dopo la gara tra i giocatori delle due squadre. Considerato come momento conviviale, il terzo tempo è un momento di socializzazione tra i giocatori e spesso anche tra le loro famiglie e tra i tifosi.

O

La storia del film di Artale muove intorno alle vicende di Samuel (interpretato da un bravo Lorenzo Richelmy) , un adolescente problematico che, colpevole di furti e piccoli reati, ha trascorso gli ultimi anni della sua vita entrando ed uscendo da un istituto penale per minorenni. Scontata l’ennesima pena, Samuel viene inserito in un programma di riabilitazione dal Magistrato di Sorveglianza, che gli impone di lavorare nell’azienda agricola di un

la scheda del film

Produzione: CSC - Centro Sperimentale di Fotografia Production, Filmauro Distribuzione: Filmauro, Universal Pictures International Italy

paese di provincia. Il controllo del ragazzo viene affidato a Vincenzo, un assistente sociale che cerca di ritrovare una sua dimensione dopo la morte della moglie e che divide la sua vita tra il lavoro, la figlia adolescente e la squadra di rugby del suo paese. L’irrequieto Samuel mal si adatta alle regole e ai ritmi di questa nuova vita e il suo rapporto con Vincenzo si rivela da subito problematico. Sarà proprio Vincenzo, invece, ad offrirgli un’ultima possibilità di redenzione quando, da allenatore della squadra di rugby ed ex giocatore di un certo livello, intuisce le potenzialità sportive del ragazzo e lo convince a entrare nella formazione. Nonostante i primi allenamenti siano un disastro e i rapporti con i compagni molto difficili, tanto che Samuel vorrebbe che tutto finisse il prima possibile, Vincenzo non

Personaggi ed Interpreti: L'allenatore Marcocci: Pier Giorgio Bellocchio Vincenzo: Stefano Cassetti Teresa: Stefania Rocca Samuel: Lorenzo Richelmy Flavia: Margherita Laterza Ringo: Germano Gentile Il capitano: Valerio Lo Sasso Roberto: Edoardo Pesce Il giudice di sorveglianza: Franco Ravera Chicco: Gianluca Vicari Genere: Drammatico Durata: 94 minuti Origine: Italia, 2012 demorde e continua a confidare in lui anche quando il fragile equilibrio raggiunto rischia di rompersi perché scopre il legame sentimentale tra Samuel e sua figlia Flavia. Infatti, nel prosieguo del campionato, tra allenamenti e scontri, dentro e fuori dal campo di gioco, Samuel capisce, alla fine, di aver trovato la sua strada nello sport, il suo riscatto in una palla ovale, nell’affetto dei compagni e nell’amore di Flavia. Con il rugby come metafora di vita e della voglia di tornare a sperare, lo sport fa da sfondo ad una storia di formazione e di sentimenti, con un happy end degno del migliore Frank Capra. H



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mondo penitenziario

Con il contributo unificato giustizia privilegio di pochi Luca Pasqualoni Segretario Nazionale Anfu pasqualoni@sappe.it

Polizia Penitenziaria n.204 marzo 2013

e recenti manovre finanziarie approvate dal Parlamento, sospinte dalla necessità di procedere ad una incisiva razionalizzazione della spesa pubblica nel prioritario obiettivo di addivenire nell’anno 2013 al pareggio di bilancio, non hanno purtroppo brillato per coerenza, organicità ed equità. Tra le novità introdotte dal Decreto legge 6 luglio 2012, n. 98, convertito con modificazioni, nella Legge 15 luglio 2011, n. 111, recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, interessa in particolare quella relativa al contributo unificato che in alcuni casi è stato raddoppiato mentre in altri casi è stato introdotto ex novo, relativamente a materie da sempre esenti, come accaduto nell’ambito della giustizia amministrativa rispetto al pubblico impiego. In particolare, la suddetta fonte normativa ha modificato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introducendo nuove ipotesi in cui è necessario il pagamento del contributo unificato, fra le quali rientra, oltre il processo tributario, il ricorso straordinario davanti al Presidente della Repubblica, a nulla rilevando l’eventuale rinuncia a detto gravame da parte del ricorrente, dal momento che il Consiglio di Stato, a ciò sollecitato, con parere n. 438072011 del 9 novembre 2011, ha rappresentato che il contributo unificato avendo natura di prestazione economica imposta, può essere estinto, laddove si siano concretizzati i presupposti per l’insorgere dell’obbligazione contributiva, unicamente con il pagamento, al pari di ogni altro tributo. Invero, il Giudice di Pace di Rimini ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo

L

10, comma 6-bis del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), introdotto dall’articolo 2, comma 212, lettera b), della Legge 23 dicembre 2009, n. 91, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato” (Legge finanziaria 2010) in quanto, in forza della norma censurata, un cittadino, legittimato alla opposizione avverso un provvedimento ritenuto ingiusto, è costretto al pagamento del contributo unificato determinando una grave disparità di trattamento tra i cittadini, precludendo ai meno abbienti di poter proporre validamente le proprie ragioni in sede giudiziaria e realizzando in tal modo una violazione non soltanto dell’articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma altresì dell’articolo 24 della Costituzione, che garantisce a tutti il diritto di difesa, ovverosia l’effettività della tutela giudiziaria. La questione, tuttavia, è stata dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale, con ordinanza 195/2011, per irrilevanza della medesima, non essendo subordinato il pagamento del contributo unificato alla sanzione procedurale della inammissibilità o della improcedibilità del ricorso, con la conseguenza che l’asserito vulnus ai principi costituzionali invocati sarebbe, in ipotesi, determinato da una norma di cui il rimettente non deve fare applicazione nel giudizio a quo, assumendo rilevanza solo ai fini fiscali. Pertanto, allo stato, assistiamo alla sopravvivenza di un “contributo”, o meglio di un tributo che, unito alle ragguardevoli spese legali a cui potrebbe accompagnarsi la condanna alle spese di giudizio in

caso di soccombenza, sta rendendo la giustizia un privilegio di pochi anche a fronte di querelle di modesta entità. Certo è che l’onere economico del contributo unificato sta determinando l’insinuarsi di una preoccupante ed allarmante concezione della tutela giurisdizionale di stampo “egalitaria” che ha investito, come detto, finanche il ricorso straordinario al Capo dello Stato da sempre apicale baluardo di giustizia per i meno facoltosi, altro che “disposizioni volte a garantire l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie”. L’idea di risolvere l’arretrato giudiziario e, più in generale, la crisi della giustizia, introducendo ed aumentando oneri fiscali connessi alla domanda di giustizia, ancorché non aventi carattere pregiudiziale per la stessa, è un comudus discessus che se può dare effetti deflattivi, nel breve periodo, non rende giustizia ad un Paese definito “la culla del diritto”. Invece, dal 1° gennaio, sono entrati in vigore i rincari per tutte quelle impugnazioni di stampo amministrativo, ivi inclusi i ricorsi presentati direttamente alla Presidenza della Repubblica. Quello che, appena due anni fa, veniva stimato in un versamento di 500 euro, è diventato oggi di 650 euro, per buona pace del diritto di difesa: è di palmare evidenza, ad esempio, che nessun poliziotto penitenziario si determinerà, a seguito del parere del Consiglio di Stato n. 02632 del 2011, a ricorrere, oggi, agli organi giurisdizionali o al Presidente della Repubblica in via straordinaria, avverso la sanzione disciplinare della censura, la quale, ancorché illegittimamente comminata, rimarrà priva di reazione, conferendo all’organo che l’ha inflitta o chiamato ad infliggerla una sorta di impunità. Ma l’articolo 24 della Costituzione non recita che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Per dirla alla Totò: «alla faccia del bicarbonato di sodio!!». H


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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

crimini e criminali

Pietro Maso, il parenticidio e gli omicidi in famiglia

«

Sono in piedi accanto ai loro corpi. Morti. Sono in piedi ma non ho percezione di me. Una linfa gelata mi è entrata dentro, nelle vene, nelle ossa, nel cervello. Vado in bagno. Devo lavarmi. Apro a manetta l’acqua calda, tengo la testa bassa. Fisso le macchie sul dorso delle mani. E’ sangue. E’ il sangue di mio padre. E’ il sangue di mia madre. Ci è’ schizzato sopra, sulle dita. Ma io lo vedo allargarsi sulla pelle, dappertutto. Schiaccio sul dosatore del sapone. Schiaccio, ne voglio tanto.

Nel riquadro accanto al titolo la copertina del libro Il male ero io sopra Pietro Maso al processo

Polizia Penitenziaria n.204 marzo 2013

Devo lavarmi bene. Lavo e lavo e lavo ancora. Non so quanto dura: attimi, minuti, mesi, anni. Alzo gli occhi, punto lo specchio. Mi vedo. Mi vedo. E’ la mia faccia. E non e’ la mia faccia. Sono io. Mi vedo cambiato. Non so. Sembro più vecchio. Il male aveva accelerato improvvisamente la mia vita». Questo passo, tratto dal libro Il male ero io, racconta gli attimi immediatamente successivi del parenticidio perpetrato, nel lontano 17 aprile del 1991, da Pietro Maso, giovane ventenne della provincia di Verona. Pietro Maso (San Bonifacio, 17 luglio 1971) è il protagonista reo confesso di uno dei più clamorosi casi di omicidio a sfondo familiare della cronaca italiana. Aiutato da tre amici, nella sua casa di Montecchia di Crosara, uccide, nella

notte fra il 17 e il 18 aprile 1991, entrambi i suoi genitori, Antonio Maso (52 anni) e Mariarosa Tessari (48 anni), servendosi di un tubo di ferro e di altri corpi contundenti tra cui spranghe e un bloccasterzo. Quella sera Maso, Giorgio Carbognin (18 anni), Paolo Cavazza (18 anni) e Damiano Burato (17 anni) si danno appuntamento nel Bar John di Montecchia, luogo di frequentazione abituale, per discutere gli ultimi dettagli del loro progetto criminale. Un loro amico, Michele, è informato del progetto affinché ne prenda parte, ma crede che i quattro ragazzi stiano scherzando. Quando poi i ragazzi lasciano il bar, Michele li accompagna a casa di Pietro intorno alle 23,00 e si tira indietro; i genitori di Pietro non sono ancora a casa, poiché stanno rientrando da Lonigo (Vi) dove hanno partecipato a una funzione religiosa. Pietro è al corrente di questo in quanto aveva chiesto al padre la sua automobile per recarsi in discoteca. Sa quindi che a minuti, i genitori faranno ritorno a casa; infatti, intorno alle 23:10 l’auto entra nel garage. Il padre accende la luce ma si accorge che manca la corrente, così sale le scale per raggiungere, al primo piano, il contatore. Arrivato in cucina, viene colpito dal figlio, armato di un tubo di ferro; Damiano lo colpisce a sua volta con una pentola. Poco dopo arriva Rosa e viene aggredita da Paolo e Giorgio, armati rispettivamente di un bloccasterzo e un’altra pentola. La madre di Pietro non muore sul colpo, così il figlio interviene e oltre a colpirla lui stesso, cerca di soffocarla mettendole in gola del cotone e chiudendole la faccia in un sacchetto di nylon. Antonio, mentre ancora rantola, è soffocato con una coperta schiacciata

sul volto con un piede da Cavazza. Cinquantatré minuti dopo i primi colpi, le due vittime cessano definitivamente di respirare. A delitto compiuto, i ragazzi si disfano degli oggetti serviti allo scopo, e anche delle tute utilizzate per proteggersi dal sangue. Burato, Carbognin e Cavazza avevano indossato delle maschere di demoni e draghi. Dopo l’omicidio, Paolo e Damiano rientrano a casa; Pietro e Giorgio, invece, per crearsi un alibi, si recano in due discoteche diverse (nella prima non riescono a entrare perché è piena). Alle 2,00 del mattino, Pietro, rientra a casa per inscenare la finta scoperta, riferendo ai vicini, da cui si era recato, di aver visto, salendo le scale, «due gambe». Versione ribadita anche ai Carabinieri, dove Maso si reca subito dopo, ma gli inquirenti si insospettiscono: «il giovane era pronto a collaborare, ma appariva freddo e distaccato rispetto alla tragedia». L’ipotesi di una rapina finita male fu presto abbandonata. Tre giorni di interrogatori e Pietro e suoi amici crollano. Si appurò poi che Maso voleva impossessarsi subito dell’eredità, così da continuare lo stile agiato di vita che aveva sempre sostenuto e per farlo, aveva bisogno di sbarazzarsi per sempre dei genitori. Il piano diabolico prevedeva anche l’eliminazione delle due sorelle del giovane e saranno proprio queste a dare un contributo decisivo agli investigatori scoprendo, qualche


crimini e criminali giorno dopo la tragedia, che dal conto della madre erano stati prelevati 25 milioni di lire con un assegno recante la sua firma contraffatta. Tutti vengono arrestati per omicidio volontario, accusa che a chiusura dell’istruttoria diventerà duplice omicidio volontario premeditato pluriaggravato. Le aggravanti sono infatti la crudeltà, i futili motivi e, per Pietro, anche il vincolo di parentela. Il parenticidio trasforma il giovanissimo Maso nel simbolo di una generazione senza valori: il figlio di una società che, anche in periferia, aveva perso la voglia di “far fatica” e voleva solo i soldi, anche a costo di togliere la vita. Inoltre, ad alimentare l’indignazione pubblica vi è pure l’atteggiamento freddo e distaccato dei tre imputati durante il processo. Oltretutto, per diversi mesi, Maso pretende

insistentemente la propria parte di eredità; solo il sollecito del suo avvocato difensore, al fine di accrescere la possibilità di evitare l’ergastolo in primo grado, lo convincerà a rinunciarvi ufficialmente. Il numero dei parenticidi è aumentato in modo allarmante negli ultimi venti anni: 1.600% in più.Una rabbia covata dentro da tempo che non sfocia in lite, ma in aggressività, fino ad arrivare ad uccidere. Non si tratta più come in passato di delitti da ricollegare a patologie psichiatriche dell’omicida, come schizofrenia o stati depressivi maggiori, ma di gesti efferati, compiuti per lo più da giovani che, escludendo la mediazione della malattia, hanno perso il senso della realtà, perché a questa ne hanno sostituita un’altra, falsa e senza

memoria, fatta soprattutto di violenza (Bruno F., 2001). Il parenticidio è entrato a pieno titolo a far parte di quella casistica di crimini noti con il nome di omicidi in famiglia e costituisce da solo la categoria più rappresentata, tra quelle censite, riguardanti tali omicidi, con il 19,2%; seguono gli omicidi a sfondo passionale che, raggruppando le varie figure degli autori tra ex-partner (16,2%), mariti (15,2%), conviventi (6,1%) e rivali (6,1%), arriva al 48,7% dei casi totali. Il parenticidio ha alcune specifiche peculiarità che lo caratterizzano (Lanza, 1994): a) è un delitto realizzato in nuclei famigliari di modesta composizione quantitativa, da persone in genere non pregiudicate, di bassa scolarità e che fanno uso nella circostanza di attrezzi da lavoro o strumenti di uso comune e casalingo; b) è un delitto che, nonostante la sua gravità, non induce l’accusato a sottrarsi, né a negare la responsabilità materiale nell’esecuzione del fatto; c) è un comportamento nel quale la motivazione ad agire è spesso da attribuire a problemi di insopportabilità relazionale o da comportamenti ingiusti e provocatori della vittima (o comunque ritenuti tali); d) è un crimine che, se realizzato da un minorenne, anche con l’aiuto materiale e/o morale di un adulto, vede il soggetto minore assumersi nel processo l’intera responsabilità e paternità dell’atto e delle sue conseguenze; e) è un reato per il quale il giudice dell’appello è solito infliggere o confermare pene relativamente non elevate, scegliendo sanzioni-base prossime ai minimi edittali, riconoscendo quasi sempre le circostanze attenuanti e, ove possibile, anche la prevalenza delle attenuanti stesse sulle aggravanti; f) è un delitto infine che per la sua realtà, drammaticità e complessità umana, ben si presta ad essere giudicato da un Collegio decisionale misto quale una Corte di Assise. Il processo, celebrato presso la Corte d’Assise di Verona, si apre con la

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richiesta di perizia psichiatrica per tutti gli imputati, da parte del Pubblico Ministero. Viene nominato lo psichiatra e docente Vittorino Andreoli, il quale, dopo aver svolto un’attenta perizia sui tre, dichiara la sanità mentale di tutti e tre gli imputati (Burato, non essendo ancora diciottenne, verrà giudicato dal Tribunale dei Minori che lo condannerà a 13 anni) e quindi la piena capacità di intendere e di volere. Nello specifico caso di Maso, leader del gruppo e soprattutto figlio delle vittime, lo psichiatra parla di disturbo narcisistico della personalità. Alla fine del processo il Pubblico Ministero chiede quindi il massimo della pena per Maso e poco meno di trent’anni per gli altri due. La sentenza viene emessa il 29 febbraio 1992, con la condanna di Pietro Maso a 30 anni e 2 mesi di

reclusione; Cavazza e Carbognin sono condannati a 26 anni ciascuno, nelle motivazioni vi è il riconoscimento di un vizio parziale di mente. In secondo grado, la Corte d’Appello di Venezia conferma la sentenza del primo grado, confermata poi anche dalla Corte di Cassazione. Pietro Maso tornerà libero il prossimo 15 aprile dopo aver scontato 22 anni di carcere, gli sono stati sottratti 8 anni (3 per l’indulto e 1.800 giorni di liberazione anticipata), così il suo conto con la giustizia si chiuderà definitivamente. A Montecchia di Crosara, dove la villetta dell’orrore è stata venduta da tempo, nessuno lo aspetta. «Non è più nostro cittadino - dice il sindaco il paese ha voltato pagina. In tutti i sensi». Alla prossima ...H

Nelle foto sopra Carbognin, Maso e Cavazza nella gabbia del Tribunale a sinistra ancora Maso e suoi complici accompagnati dai Carabinieri

Polizia Penitenziaria n.204 marzo 2013


28 Aldo Maturo Avvocato già dirigente dell’Amministrazione penitenziaria avv.maturo@gmail.com

società e cultura

Fossombrone, un carcere che ha segnato la storia del Paese

Durante la guerra è stato anche carcere femminile con 152 donne condannate dai tribunali di guerra. orse è il mese di luglio quello che da sempre scandisce i trapassi storici del vecchio “carcerone”, come lo chiamano affettuosamente gli abitanti di Fossombrone. Quello del 1977 segnò il passaggio a carcere di massima sicurezza, destinato ad ospitare selezionatissimi detenuti a capo di organizzazioni criminali comuni o terroristiche. In quello del 1932 si passò da Casa di Segregazione Cellulare a Casa di Reclusione per delinquenti abituali, professionali o per tendenza con il fine di dare attuazione al principio, già maturato in quel periodo, di una funzione sociale e pedagogica della pena. L’obiettivo era che il livello di vita nelle prigioni non doveva mai superare quello più basso sofferto dalla popolazione libera. L’abolizione della segregazione cellulare consentì tra l’altro di trascorrere parte della giornata insieme ad altri detenuti o di partecipare alle attività dei laboratori interni di calzoleria e sartoria.

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Polizia Penitenziaria n.204 marzo 2013

Ma gli eventi bellici e la necessità per il fascismo di neutralizzare gli oppositori fecero ben presto accantonare le belle intenzioni e Fossombrone ritornò al rigore di prima con l’arrivo dei detenuti politici, tra cui Mario Vinciguerra, redattore del Resto del Carlino, noto antifascista, come testimonia ancora oggi la lapide che campeggia all’ingresso del portone centrale. La vita all’interno non doveva essere molto serena, come si evince da una ricerca effettuata nel 1980 dalla Dott.ssa Marina Fabbri, con la sua tesi di laurea in sociologia “Il carcere di Fossombrone: storia di un’istituzione totale”. Diverbi tra i compagni, grida, scherzi non consentiti erano infrazioni punite con la cella a pane e acqua per diversi giorni, al pari dello sciopero della fame. La partecipazione a tumulti comportava il trasferimento nelle Case di Rigore e l’ingiuria al Direttore poteva costare anche tre mesi di cella di punizione. Un altro luglio, quello del 1941, segnò la storia del carcere che voltò completamente pagina diventando carcere femminile con 199 detenute. La loro presenza determinò anche il cambio del personale di vigilanza, funzione assunta dalle suore (invero

le suore hanno assolto a tale ruolo in tutte le carceri femminili fino agli anni ’70, quando sono state affiancate e poi sostituite dalle vigilatrici penitenziarie. Il ruolo femminile della Polizia Penitenziaria sarà poi istituito nel 1990, con la legge di Riforma del Corpo). Contrariamente alle aspettative la convivenza tra detenute e personale di custodia religioso non rasserenò il clima all’interno del carcere. Severi controlli, restrizioni, una rigida disciplina contribuivano a creare rapporti conflittuali tra le detenute e il personale. Le punizioni e il frequente ricorso alle celle di isolamento acuiva l’odio che aleggiava nell’aria creando inevitabili contrapposizioni con le suore e la necessità di trovare rifugio e sollievo nell’amore verso una compagna, con scambi di piccoli regali, di un anellino, di un centrino o del dono del già scarso cibo. La gamma dei reati per cui le donne erano lì detenute andava dall’omicidio alla truffa, furto, prostituzione, violenza carnale, parricidio e incesto. Di estrazione molto umile, erano quasi tutte casalinghe, meridionali e con un’età media tra i 20 e i 30 anni. L’enciclica di Pio XI “Casti Connubi” del 1931 aveva esaltato ancor più


società e cultura l’importanza del matrimonio e della vita umana e forse anche per questo nel solo carcere di Fossombrone su 199 presenti ben 71 erano detenute per procurato aborto e infanticidio (in maggior parte del centro Italia) e altre 9 erano indicate come “levatrici”, punite con pene molto lunghe. Gli sviluppi della guerra coinvolsero anche il carcere di Fossombrone. Secondo un memoriale conservato presso il Muzej novejše zgodovine Slovenije (Museo nazionale di storia contemporanea) di Lubiana, nel carcere di Fossombrone furono detenute - tra il 1942 e l’estate del 1943 - 152 donne jugoslave condannate (probabilmente dai Tribunali di guerra) a pene molto severe. Erano partigiane jugoslave accusate di attività antinazionale, propaganda sovversiva, partecipazione ad associazione sovversiva, partecipazione a banda armata, concorso in attentati contro le forze armate dello Stato. Particolarmente interessante, secondo una ricerca effettuata da Andrea Giuseppini nel suo sito “I campi fascisti dalle guerre in Africa alla

Repubblica di Salò”, è l’episodio dello scambio di prigionieri proposto al V Corpo d’ Armata italiano dal Comando Partigiano del territorio Primorsko – Goranski. I partigiani richiesero la restituzione di Danica Loncar, contadina, importante partigiana detenuta nel carcere di Fossombrone, con soldati italiani prigionieri dei partigiani slavi. Agli atti vi è tutta la documentazione ufficiale e lo scambio di lettere tra i due Comandi. Lo scambio non fu accettato perché la Danica era stata già condannata a 14 anni di reclusione per favoreggiamento e una direttiva di Mussolini aveva vietato lo scambio di prigionieri già condannati dai Tribunali di guerra. Le detenute slave resteranno a Fossombrone, a disposizione della Polizia Segreta Tedesca di Firenze e del Comando Militare Tedesco di Lubijana, fino alla loro scarcerazione nel dicembre 1943. Nel vecchio carcere rimarranno detenute italiane, colpevoli di aver collaborato con i tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, condannate per “collaborazionismo col tedesco invasore” o “violazione di

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proclama”. A seguito dell’amnistia dell’aprile ’44, la maggioranza delle detenute lasciò il carcere lasciando il testimone a una trentina che non ne avevano beneficiato. Vi resteranno solo pochi mesi perché il 3 maggio del 1944 iniziarono le incursioni aeree su Fossombrone per distruggere i due ponti sul Metauro ed isolare il paese. A causa del gravissimo pericolo, il Direttore chiese ed ottenne il trasferimento delle detenute e delle suore che vennero tutte spostate nella Casa di Rieducazione Minorile di Via Raffaello ad Urbino dove vi resteranno fino a febbraio del 1946, data del trasferimento al carcere femminile di Perugia. Si chiudeva così definitivamente la parentesi rosa nella storia del carcere forsempronese perché dopo la guerra l’istituto riaprì come Casa di Reclusione ordinaria maschile, avviandosi a lunghi passi a diventare un istituto protagonista nel mondo penitenziario taliano. H Questo articolo è stato pubblicato su IL RESTO DEL CARLINO l’8 febbraio 2013.

Polizia Penitenziaria n.202 gennaio 2013


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penitenziari storici Legislazione carceraria dall’Unità al primo dopoguerra

Aldo Di Giacomo Consigliere Nazionale del Sappe digiacomo@sappe.it

Le riforme carcerarie seguite all’Unità d’Italia aggiunta l’Unità si avvertì in Italia la necessità di raccogliere e uniformare, in maniera organica e sistematica, tutta la legislazione vigente in ogni settore del diritto e anche per il diritto penitenziario fu avvertita la stessa esigenza.

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Nella foto l’interno di un carcere

Polizia Penitenziaria n.204 marzo 2013

Dopo l’estensione del codice penale sardo a tutte le province italiane, il Governo nell’arco di due anni emanò cinque nuovi regolamenti relativi alle diverse tipologie di stabilimenti carcerari, così classificati: • bagni penali (Regio decreto 19 settembre 1860) • carceri giudiziarie (Regio decreto 27 gennaio 1861, n. 4681) • case di pena (regio decreto 13 gennaio 1862, n. 413) • case di relegazione (Regio decreto 28 agosto 1862, n. 813) • case di custodia (Regio decreto 27 novembre 1862, n. 1018). Ogni regolamento disciplinava il funzionamento degli istituti e gli organici del personale di custodia e amministrativo. Le case di pena, di relegazione, di custodia e le carceri giudiziarie dipendevano dal Ministero dell’Interno. I bagni penali, dipendenti dal Ministero della Marina, nei quali, dal 1865, si scontavano quasi esclusivamente pene per i delitti comuni, dal 1° gennaio 1867 passarono anch’essi sotto la dipendenza del Ministero dell’Interno, per effetto del regio decreto del 29

novembre 1866, n. 3411. Le carceri giudiziarie erano destinate alla custodia degli imputati, ai detenuti condannati a pene corporali durante il giudizio di appello e di Cassazione, ai condannati alla pena del carcere fino a sei mesi, ai condannati a pene maggiori di sei mesi di carcere inabili, per motivi di salute, al lavoro nelle case di pena, agli arrestati per disposizione e all’autorità di pubblica sicurezza, per debiti, per i detenuti in transito. Le case di pena comprendevano le case di forza destinate ai condannati alla reclusione; i castelli per i condannati alla relegazione; le case di correzione per i condannati alla custodia e gli stabilimenti penali esistenti nelle province toscane. Alle case di forza erano destinate le donne condannate ai lavori forzati. La pena della relegazione era destinata ai condannati per i crimini contro la sicurezza interna o esterna dello Stato; le case penali di custodia erano destinate ai giovani. Il regolamento adottava il sistema della separazione notturna e del lavoro obbligatorio in comune diurno con l’imposizione continua del silenzio assoluto. Nel 1861 con Regio decreto 9 ottobre 1861, n. 255 fu istituita la Direzione Generale delle Carceri dipendente dal Ministero dell’Interno, in sostituzione dell’Ispettorato Generale delle carceri, vecchia divisione del Ministero, creata nel 1849 dal Regno sardo, al cui vertice era stato posto un Ispettore Generale. Il regolamento del 1891 Nel 1889 venne emanato il codice penale Zanardelli, entrato in vigore il 1° gennaio 1890, che sostituì il Codice penale sardo emanato nel 1859 ed esteso a tutte le province italiane, ad eccezione della Toscana, dopo l’Unità. Al 1889 risale anche la prima legge relativa all’edilizia penitenziaria e agli stanziamenti di bilancio per farvi fronte (legge 14 luglio 1889, n. 6165). Gli

istituti realizzati in questo periodo si ispirarono al modello indicato da Crispi, portando alla formazione di una nuova tipologia carceraria caratterizzata dal sistema cellulare. La riforma penitenziaria del 1889 pose per la prima volta il problema della disponibilità delle strutture. A tal fine si prevedeva di reperire i proventi necessari per l’edilizia penitenziaria dalle lavorazioni carcerarie, dalla vendita di alcuni immobili e da economie realizzate su altri capitoli di bilancio dell’amministrazione carceraria che, all’epoca, gestiva direttamente la sua edilizia disponendo, a tal fine, di un proprio ufficio tecnico che il Direttore Generale Beltrani Scalia aveva organizzato già nel 1888 redigendone apposito ordinamento. Successivamente nel 1931 le competenze tecniche in materia di edilizia penitenziaria vennero concentrate nel Ministero dei Lavori Pubblici, e il personale tecnico trasferito agli uffici del Genio Civile: all’Amministrazione Penitenziaria rimane un solo ingegnere. La legge del 1889 sull’edilizia penitenziaria, unitamente al codice penale Zanardelli, costituì il presupposto per l’emanazione del Regolamento Generale degli Stabilimenti Carcerari e dei Riformatori Giudiziari avvenuta con Regio Decreto 1 febbraio 1891, n. 260. Venne abolita la pena di morte (sostituita con l’ergastolo) ma restarono severissime le pene per i reati contro la proprietà. Il nuovo regolamento, costituito da ben 891 articoli, venne additato come un modello nel suo genere, ma il grave stato di decadenza degli stabilimenti carcerari impedì non solo l’attuazione ma anche la sperimentazione del Regolamento. Presupposto essenziale per l’applicazione del Regolamento del 1891 era infatti l’attuazione della legge del 1889 sull’edilizia penitenziaria, che prevedeva lo stanziamento iniziale di 15 milioni, programmando un periodo


penitenziari storici di dodici anni per il compimento della riforma. A causa di progressive riduzioni di spesa e poi della sospensione totale dei fondi stanziati per l’edilizia penitenziaria, la riforma edilizia non venne attuata. In Italia continuavano a mancare gli stabilimenti necessari per far scontare le pene secondo la normativa dettata dal codice penale e dal regolamento carcerario. Il regolamento prevedeva una minuziosa classificazione dei vari tipi di stabilimenti carcerari che non avrà nessun riscontro pratico, poiché presupponeva un piano di sviluppo edilizio rimasto praticamente inattuato. Anche il problema del sistema carcerario (a segregazione continua o graduale) non assume particolare importanza nel regolamento del 1891, in quanto da un lato la scelta è stata operata precedentemente dal Codice penale Zanardelli del 1889, dall’altro lo stato di grave deficienza degli stabilimenti carcerari impedirà di sperimentare i criteri dell’esecuzione delle pene stabiliti dal Codice penale e ribaditi dal Regolamento. Il Regolamento del 1891 prevedeva un sistema molto ricco e articolato di norme sull’ordinamento del personale dirigenziale e sul Corpo degli Agenti di Custodia. In particolare le guardie carcerarie costituivano un Corpo organizzato militarmente soggetto a gerarchia e disciplina militare rigidissime che quasi li assimilava alla popolazione detenuta. Il Regolamento conteneva disposizioni volte ad instaurare rapporti di rigida subordinazione gerarchica tra i direttori degli stabilimenti e la Direzione Generale e scoraggiare qualsiasi iniziativa autonoma e responsabilizzazione delle autorità locali. Questo sistema si ripercosse negativamente sulla vita dei detenuti costretti a dipendere dalle autorità centrali anche per questioni di poca importanza e attendere per mesi una risposta a istanze elementari. Per quanto riguarda i detenuti il regolamento era incentrato sul sistema delle punizioni e ricompense intorno al quale ruota la vita carceraria. Il regolamento prevedeva alcuni istituti che avrebbero potuto introdurre qualche miglioramento nella vita carceraria, ma non furono istituiti o ebbero ridotta attività. Uno di questi è il

Consiglio delle Carceri, istituito con Regio Decreto 6 marzo 1890, n. 6829, presieduto dal Ministro dell’Interno e composto dal Direttore Generale delle Carceri e da altri sei membri nominati dal Ministro, che rimase inattuato fino al 1897. Riforme e continuità delle strutture carcerarie nell’età giolittiana Nel periodo giolittiano (caratterizzato da governi con indirizzi politici liberali), il regolamento del 1891 subì alcune importanti modifiche tendenti a mitigare le condizioni disumane dei detenuti. Venne soppresso l’uso della catena al piede per i condannati ai lavori forzati e furono introdotte modifiche al rigido sistema delle sanzioni disciplinari, eliminando le punizioni della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura. I ferri saranno di fatto aboliti soltanto nel 1902, con l’articolo unico del Regio Decreto n. 337 del 2 agosto. Il successivo Regio Decreto 14 novembre 1903, n. 484 sancì l’abolizione della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura, mezzi che avevano fallito nella loro funzione di deterrente per i comportamenti indisciplinati dei detenuti. Il terzo filone su cui si indirizza l’attività riformatrice nei primi anni del Novecento riguarda l’impiego dei condannati in lavori di bonifica di terreni incolti o malarici regolato dalla legge 26 giugno 1904, n. 285. Rimase fermo tuttavia il quadro legislativo del periodo crispino: Codice penale, Leggi di Pubblica Sicurezza, Ordinamento Giudiziario non vennero toccati da Giolitti. Gli interventi legislativi prima della guerra mondiale Le strutture legislative e la prassi nella gestione delle istituzioni penitenziarie non subirono sensibili mutamenti nel periodo che intercorre tra le prime riforme giolittiane e la conclusione della 1ª Guerra Mondiale. Si susseguirono modeste innovazioni legislative, progetti di riforma non andati a compimento, scandali e proteste per le deprecabili condizioni degli stabilimenti di pena, interrogazioni parlamentari e risposte governative che non produssero importanti cambiamenti. L’intervento di maggior rilievo fu il

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Regio Decreto 24 marzo 1907 n. 150, che approva il Nuovo Regolamento per gli Agenti di Custodia, pur non recando modifiche sostanziali alla disciplina del 1890. La nuova legge contribuì a mantenere e acuire il clima di tensione e di contrasto esistente tra custodi e custoditi. Sempre nel 1907 con Regio Decreto 14 luglio n. 606 venne attuato un completo riordinamento dei riformatori governativi per minorenni e istituito per i minori un corpo di educatori in luogo delle guardie carcerarie. 1922 - 1923: Riforme al Regolamento carcerario e passaggio dell’Amministrazione carceraria dal Ministero dell’Interno a quello della Giustizia Le tensioni sociali del dopoguerra non investirono la popolazione carceraria: sino al 1920 tutto procede secondo la norma e i detenuti sono una delle pochissime categorie rimaste tranquille. Il principio che i detenuti dovevano essere oggetto di cura più che di repressione, di rieducazione più che di punizione, trovò una applicazione pratica nel 1921 e 1922 in una serie di circolari innovatrici che determinarono alcuni miglioramenti nel trattamento dei detenuti. La maggior parte delle innovazioni introdotte dai diversi provvedimenti ministeriali diverranno parte integrante del regolamento carcerario con la riforma introdotta dal Regio decreto 19 febbraio 1922, n. 393. Le principali modifiche riguardarono: il lavoro svolto in carcere dai detenuti; i colloqui; la corrispondenza; la disciplina delle case di rigore. Con Regio Decreto 31 dicembre 1922 n. 1718 la Direzione Generale delle Carceri e Riformatori venne trasferita a partire dal 15 gennaio 1923, dal Ministero dell’Interno a quello della Giustizia, unitamente a tutti i servizi attribuiti alla sua competenza. Con successivo Regio Decreto 28 giugno 1923 n. 1890 vennero emanate le norme di esecuzione, in base alle quali le competenze in materia penitenziaria, prima attribuite al Ministero dell’Interno, al Prefetto e al Viceprefetto, furono rispettivamente assegnate al Ministro della Giustizia, al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello e al Procuratore del Re. H

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32 a cura di Erremme rivista@sappe.it

le recensioni Stefano Anastasia

METAMORFOSI PENITENZIARIE EDIESSE Edizioni pagg. 154 - euro 12,00

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Autore è persona nota per la sua sensibilità alle tematiche penitenziarie: è stato infatti tra i fondatori dell’associazione Antigone, della quale è attualmente Presidente onorario e Difensore civico dei detenuti. È stato inoltre Direttore dell’Ufficio del Garante delle persone private della libertà del Comune di Roma e presidente della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia nonchè Capo della Segreteria dell’allora Sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi. Nelle oltre 140 pagine di questo agile volume affronta compiutamente i temi del carcere e della pena parallelamente al mutamento sociale. Non a caso, Anastasia scrive che l’accentuazione di politiche securitarie delle politiche neoliberiste che hanno accompagnato il processo di globalizzazione altro non sono che l’esito di un trasferimento di risorse economiche e simboliche dal welfare state a quello che è stato chiamato il prisonfare. L’appassionante lettura, alla quale si accompagnano efficaci tavole statistiche, ruota sostanzialmente su un interrogativo:

continuare a perseguire politiche di sicurezza fondate sulla privazione della libertà o invertire la rotta e riscoprire politiche di sicurezza sociale compatibili con il rispetto dei diritti fondamentali di tutti i cittadini?

Francesca De Carolis

URLA A BASSAVOCE Dal buio del 41 bis al fine pena mai STAMPA ALTERNATIVA Ed. pagg. 191 - euro 15,00 uesto libro raccoglie, a cura dell’Autrice, una serie di racconti scritti da ergastolani e condannati per reati legati alla criminalità organizzata, che hanno scelto di non essere collaboratori di giustizia, per testimoniare la loro vita in carcere. Tolte le solite scontate banalità dei “poliziotti cattivi, magistrati ingiusti, direzioni prevaricatrici, diritti negati”, in taluni racconti si riflette sul senso della pena e sulla necessità di una reale recupero per tutti i detenuti, indipendentemente dalla configurazione dei reati commessi. Ha ragione don Luigi Ciotti, ispiratore e fondatore del Gruppo Abele, che nella prefazione scrive: “Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati. Impedire che la giustizia “chiuda” chi ha sbagliato nel suo errore (e gli neghi le possibilità del cambiamento) è l’altra faccia della stessa medaglia”. Senza però mai dimenticarsi le vittime dei reati, aggiungo io.

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Patrizio Gonnella

LA TORTURA IN ITALIA Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica DERIVE APPRODI Edizioni pagg. 143 - euro 15,00

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uesto saggio di Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, propone spunti di riflessione sullo stato della legalità e delle garanzie nel nostro Paese. Al centro delle oltre 140 pagine la tortura, reato per il quale da anni Antigone e Gonnella sono impegnati affinchè venga introdotto nel codice penale italiano. L’autore in questo libro ne definisce i contorni navigando tra luoghi, circostanze, situazioni, esseri umani, storie. E’ un intreccio, come scrive nella introduzione, di questioni filosofiche, giuridiche, sociali ed etiche. Diverse sono le cose che non mi convincono: in particolare, la ricostruzione delle ragioni per le quali venne creato dall’allora Guardasigilli Oliviero Diliberto l’Ufficio per la Garanzia Penitenziaria (Ugap) e la qualità dei servizi resi dal Gruppo Operativo Mobile (Gom), i cui componenti sono assolutamente convinto agiscano (a differenza di quel che pensa Gonnella) nei binari della legalità. Ciò detto, il saggio si legge agevolmente e con interesse.

GLI SPAZI DELLA PENA Tutela dei diritti umani e circuiti penitenziari ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI PENITENZIARI pagg. 113

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nteressante questo nuovo Quaderno, il n. 10, dell’Istituto Superiore di Studi Penitenziari. Si tratta diffusamente di circuiti penitenziari e consente, come scrive nella presentazione il direttore dell’Issp Massimo de Pascalis, una lettura critica dell’esecuzione penale. Punto di partenza delle riflessioni è il bisogno, dettato dalla realtà penitenziaria, di intraprendere la strada del cambiamento e dell’alternativa al carcere con lo sguardo rivolto persino alla


le recensioni giovane vita” – Dachau, 10 febbraio 1945. Nato a Montella, in provincia di Avellino, il 31 maggio 1909 cresce in una famiglia sana e forte della Bassa Irpinia, tra i boschi verdissimi dei Monti Picentini e le acque chiare e gli affascinanti carsismi del fiume Calore. Ha un cugino e uno zio, entrambi francescani: soprattutto lo zio, divenuto vescovo, negli anni bui delle persecuzioni razziali sarà il suo grande “collaboratore” (fornendo ricovero e ospitalità nella sua diocesi, in provincia di Salerno, a centinaia di ebrei) nella immane opera di salvataggio di tanti sventurati, braccati dai nazisti. Fortissimo si dimostra in lui l’imperativo religioso e morale di essere e di porsi al servizio del Michele Bianco e prossimo: lo ha impresso, A. De Simone Palatucci evidentemente, nel proprio Dna GIOVANNI PALATUCCI biologico e culturale. Oggi la Un Giusto e un Martire Chiesa cattolica riconosce a Giovanni Palatucci il titolo di cristiano “Servo di Dio”, ma già nel 2004 si LA SCUOLA DI PITAGORA è conclusa la prima fase del pagg. 772 - euro 37,00 processo di canonizzazione del martire irpino – soppresso dai li Autori raccontano in oltre nazisti “in odium fidei” – ed i 750 pagine la straordinaria relativi atti sono stati trasmessi figura di questo poliziotto. alla Congregazione Vaticana per le Basterebbe leggere la motivazione Cause dei Santi. Per il suo eroico della Medaglia d’oro al valor civile comportamento, il nome di che l’allora presidente della Giovanni Palatucci è, inoltre, inciso Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli nel memoriale dello Yad Vashem di conferì, alla memoria, nel 1995 Gerusalemme, il Luogo per per comprendere la straordinaria eccellenza della Memoria del umanità di questo Commissario di popolo ebraico. Egli è un Giusto Polizia: “Funzionario di Polizia, fra le Nazioni, ovvero uno dei reggente la Questura di Fiume, si 20mila eroi (gli italiani sono circa prodigava in aiuto di migliaia di trecento) che si sacrificarono per ebrei e di cittadini perseguitati, aiutare gli ebrei nel delirio riuscendo ad impedirne l’arresto e distruttivo della Shoah. Dunque, la deportazione. Fedele due grandi religioni monoteiste all’impegno assunto e pur hanno già riconosciuto consapevole dei gravissimi rischi l’eccezionalità del pensiero e personali, continuava, malgrado dell’azione di Giovanni Palatucci. l’occupazione tedesca e le E questa bella ricerca storiografica, incalzanti incursioni dei partigiani condotta con l’unico obiettivo di slavi, la propria opera di dirigente, far trasparire la Verità su una di patriota e di cristiano, fino figura di elevatissimo spessore all’arresto da parte della Gestapo e umano ed etico, rende giustizia alla sua deportazione in un campo alla Sua umanità ed al Suo di sterminio, ove sacrificava la coraggio. mediazione penale che ha il merito di introdurre nuove procedure sanzionatorie e riparative del danno causato dal reato. Questo nuovo percorso richiede, tuttavia e al contrario di quanto accade oggi, una conoscenza ancor più approfondita di tutti gli attori della vicenda giudiziaria, comprese le vittime del reato. La centralità della persona in questo nuovo processo di esecuzione penale richiede perciò una rinnovata e forte consapevolezza delle dimensioni dello spazio e del tempo che appartengono all’uomo, per definire e distinguere lo spazio e il tempo della detenzione da quelle della mediazione e della riparazione.

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Massimo Cassani

ZONA FRANCA TEA Edizioni pagg. 429 - euro 15,00 uigi Pecchi detto Gigi Sciagura è un ottantenne stralunato che millanta di possedere “un grande tesoro” e predica in giro per Milano la necessità di abbattere il Duomo, perché, dice lui, dagli occhi della Madonnina esce un fumo velenoso. Quando scopre che in un quartiere vicino a via Padova, dove vive fin da bambino, il costruttorefinanziere Ottaviano Ottaviani ha cominciato la costruzione di un grattacielo altissimo, Sciagura trae la sua personale conclusione: stanno per avvelenare anche la periferia. Una notte, dopo aver denunciato ai carabinieri di aver visto vicino al cantiere di Ottaviani il cadavere di un muratore, viene ucciso da tre proiettili. Chi l’ha ucciso? È stato il giovane immigrato addosso al quale hanno trovato l’arma del delitto? O gli scagnozzi di Ottaviani? Oppure il nipote di Sciagura interessato a ereditare la casa dello zio? A tutte queste domande deve dare una risposta Sandro Micuzzi, commissario dal fiuto infallibile ma parcheggiato al commissariato Città Studi. Sarà l’inizio di un’indagine che non darà tregua ai suoi protagonisti, e nemmeno ai suoi lettori... H

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l’ultima pagina Elezione del Pontefice: e la Polizia Penitenziaria?

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o potuto notare che nel grande servizio d’ordine pubblico organizzato per il giorno di elezione di Papa Francesco, sia in quello per l'inaugurazione del suo pontificato, tutte le Forze di Polizia erano in campo, esclusa come sempre la Polizia Penitenziaria. Ho avuto modo di vedere dalle TV che trasmettevano in diretta l'evento mondiale, decine e decine di Forestali, Vigili Urbani, Carabinieri, Finanzieri, Poliziotti e tantissimi volontari della Protezione Civile.

inviate le vostre lettere a rivista@sappe.it

Io capisco che il nostro primo problema è la mancanza di personale, ma possibile che per un tale evento neppure l'ombra di noi? Possibile che noi della Polizia Penitenziaria, che abbiamo un Capo del Personale, il Pres. Riccardo Turrini Vita, che è stato nominato Giudice della Corte di Appello dello Stato del Vaticano il 31 dicembre 2012, non abbiamo avuto "l'onore" di partecipare, anche con un esiguo numero di Agenti, al servizio d’ordine pubblico per un evento così importante? Ma la cosa che ancor più mi ha incuriosito, è che di questa mancanza neppure un sindacato ha avuto qualcosa da dire, compreso il mio sindacato per il quale ho l'onore di scrivere e rendere pubblica questa mia lettera. Io non so a questo punto cosa pensare, forse per qualcuno non era

così prestigioso partecipare ad un evento così importante come quello che si è svolto a Roma, forse qualcuno pensa che l'immagine e il prestigio di un Corpo di Polizia si accresca in eventi meno importanti, o forse è solo colpa mia, che ho osato per un attimo guardare molto avanti, magari ho guardato in avanti e non mi sono reso conto che quello che ho visto è un futuro prossimo, si certo questo potrebbe accadere magari fra vent'anni. Scusate ma lasciatemi dire, con tutta sincerità, che è una grande delusione intervenire per rivendicare una immagine e un prestigio che dovrebbe appartenerci come istituzione, questo purtroppo non riusciamo proprio a farlo emergere e la colpa non è sicuramente la nostra. Paolo Spano Vice segretario Provinciale Sappe

il mondo dell’appuntato Caputo Il provino... di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2013

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Francamente, signor Caputo, non ce la vedo proprio nel ruolo di un Assistente della Polizia Penitenziaria... non c’ha le physique du role!




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