Polizia Penitenziaria - Ottobre 2015 - n. 232

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anno XXII • n. 232 • ottobre 2015

ISSN 2421-2121

www.poliziapenitenziaria.it

La Storia siamo noi, nessuno si senta offeso



sommario

anno XXII numero 232 ottobre 2015

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In copertina: la folla di poliziotti presenti alla manifestazione del 15 ottobre 2015 in Piazza Montecitorio a Roma

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l’editoriale

dalle segreterie

La Storia siamo noi, nessuno si senta offeso

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Roma, Modena

di Donato Capece

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il pulpito Bettino Craxi dunque colpevole

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

dalle segreterie

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Avellino, Benevento, Genova

di Giovanni Battista De Blasis

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sappeinforma

Manifestazione a Roma. Noi del Sappe eravamo presenti. E gli altri?

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il commento

Carceri, calano i detenuti ma non i problemi di Roberto Martinelli

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l’osservatorio

All’esame parlamentare la Legge di stabilità di Giovanni Battista Durante

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criminologia Il minore “maltrattante” di Roberto Thomas

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giustizia minorile

Francesco Cascini è il nuovo Capo DGM di Ciro Borrelli

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lo sport

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, On. Avv. Antonio Di Pietro Donato Capece, Giovanni B. de Blasis, Giovanni B. Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director) www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2015 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

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Pattinaggio: Sara Marangoni è oro mondiale

Cod. ISSN: 2421-1273 web ISSN: 2421-2121

di Lady Oscar

Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma)

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diritto e diritti

Il diritto all’autoderminazione sanitaria di Giovanni Passaro

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

Finito di stampare: ottobre 2015 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

cinema

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La gang di Gridiron a cura di Giovanni Battista De Blasis

crimini e criminali 24 Cesare Serviatti: il sezionatore di Pasquale Salemme

il libro del mese

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Pietro Buffa: Umanizzare il carcere a cura di Roberto Martinelli

come scrivevamo 28 Alle origini del manicomio criminale di Assunta Borzacchiello

sicurezza sul lavoro 30 Videoterminalisti e idraulici di Valter Pierozzi

le recensioni

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Editori: Bonanno, Ugo Mursia, Sanpaolo, Mondadori

ultima pagina

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Vignetta:il mondo dell’Appuntato Caputo di De Blasis & Caputi

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l’editoriale

La Storia siamo noi, nessuno si senta offeso Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Nella foto: Donato Capece e Matteo Salvini

Polizia Penitenziaria n.232 ottobre 2015

redo di poter affermare, senza tema di smentite, che quella vissuta giovedì 15 ottobre scorso a Roma è stata un’altra pagina di storia scritta dal sindacalismo autonomo delle forze di polizia, e dal SAPPE, per la tutela, la valorizzazione e la dignità sociale dell’interno Comparto Sicurezza.

C

Portare in piazza migliaia e migliaia di donne e uomini appartenenti alle Forze di Polizia e di Soccorso Pubblico del Paese per protestare sul mancato rinnovo contrattuale e rivendicare, quindi, lo sblocco dell’ingiusto ed ingiustificato mancato adeguamento delle nostre buste paga al reale costo della vita è stata “cosa buona e giusta”, confortata anche dalla recente deliberazione della Corte Costituzionale che ha sancito l’illegittimità del blocco stipendiale e contrattuale. Ma siamo scesi in piazza anche per rivendicare l’attenzione concreta e reale dell’Esecutivo Renzi rispetto alle tante criticità che contraddistinguono il delicato settore della sicurezza e il nostro Comparto: carenze organiche, inadeguatezza mezzi, precarietà divise e vestiario, problemi che si protraggono da tempo senza soluzione di continuità.

Giovedì 15 ottobre, dunque, migliaia e migliaia di poliziotti, penitenziari, forestali e vigili del fuoco hanno pacificamente invaso piazza Montecitorio e le vie circostanti per una manifestazione di protesta che ha visto in piazza le sigle autonome e indipendenti dei comparti sicurezza e soccorso pubblico, che rappresentano la maggior parte del personale in divisa: SAPPE (l’unico per il Corpo di Polizia Penitenziaria), Sap, Coisp e Consap per la Polizia di Stato, Sapaf e Ugl forestali, Conapo per i Vigili del Fuoco. I manifestanti sono cominciati ad arrivare alla spicciolata da piazza Venezia dove, da tutta Italia, sono giunti centinaia di pullman. Tantissimi i poliziotti penitenziari delle Segreterie SAPPE arrivati da tutte le regioni d’Italia, sobbarcandosi un viaggio per taluni davvero estenuante. A loro va il mio ringraziamento per esserci stati e, per, come ho detto personalmente a molti, di essere stati protagonisti di una pagina di storia sindacale. Sul palco si sono alternati i leader sindacali Gianni Tonelli, chi scrive, Franco Maccari, Giorgio Innocenzi, Marco Moroni, Antonio Brizzi e Danilo Scipio: richiesta unanime quella di chiedere subito l’apertura dei tavoli contrattuali, 100 euro netti di incremento minimo a partire dal ruolo agenti e 1.500 euro a titolo di una tantum. Applausi a scena parte per il leader della Lega Matteo Salvini che è intervenuto a difesa dei poliziotti sul palco montato in piazza Montecitorio. Presenti anche Giorgia Meloni, Maurizio Gasparri, Laura Ravetto, Daniela Santachè, Nunzia De Girolamo, Carlo Giovanardi, Nicola Molteni, Barbara Saltamartini, Gianmarco Centinaio, Paolo Arrigoni e Edmondo Cirielli che sono stati tutti

accolti, più o meno, entusiasticamente, anche se non sono mancate le manifestazione di dissenso e di contestazione verso taluni parlamentari. La nostra protesta è nata anche per rivendicare la specificità del Comparto Sicurezza e lo sganciamento dal pubblico impiego. Quella specificità che taluni sindacalisti confederali – che pure hanno coordinamenti nell’ambito delle Forze di Polizia e della Polizia Penitenziaria nello specifico – hanno contestato in più occasioni (vedi la riforma pensionistica) perché (dicono loro) “nel pubblico impiego non ci sono lavoratori di serie A e di serie B”, ostinandosi a non rendersi conto che il lavoro di poliziotti e carabinieri è diverso da quello del variegato mondo del pubblico impiego... I fatti dicono che per 3 milioni e 200 mila impiegati pubblici l’Esecutivo Renzi ha stanziato 300 milioni di euro per il triennio 2016-2018. Qualcuno ha ipotizzato la possibilità di ricorrere a ulteriori tre miliardi definiti dal Premier “ballerini”, ma lo stesso Presidente del Consiglio, raffreddando ogni speranza, ha già indicato la destinazione di questi nell’ipotesi in cui l’Europa ci concederà il beneficio. Ad oggi, come hanno confermato nei giorni scorsi due autorevoli quotidiani come Sole 24 Ore e Messaggero e come indicato nella legge di stabilità, per i rinnovi contrattuali dei comparti sicurezza, soccorso pubblico e difesa sono a disposizione 74 milioni. Conti alla mano, visto che gli operatori interessati sono 500.000, parliamo di aumenti indicativamente pari a 6 euro netti mensili per un Agente fino a 9 euro netti per un Vice Questore Aggiunto. E qualcuno, anziché svegliarsi dal torpore nel quale da tempo sonnecchia, ha ancora il coraggio di criticare chi è sceso in piazza contro questa vergogna? Qualcuno ha ancora il coraggio di sostenere che le manifestazioni degli impiegati del pubblico impiego sono la stesse di quelle dei poliziotti? “La storia siamo noi, nessuno si senta offeso”, cantava Francesco De Gregori... H


il pulpito

Bettino Craxi dunque colpevole, la storia della persecuzione giudiziaria del Segretario del Partito Socialista secondo Nicolò Amato li antichi Romani credevano che il destino delle cose, del mondo e degli uomini fosse indicato dal nome: Nomen Omen col significato letterale di “Il nome (contiene) il destino” oppure “Il destino (è espresso) dal nome”. Proprio in questo senso sembra andare il titolo del libro “Bettino Craxi dunque colpevole” col quale Nicolò Amato, ex Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ex magistrato e, poi, avvocato difensore dell’ex premier socialista, lascia intendere che forse il destino di Craxi era già nel nome. “Gli altri erano Andreotti, Forlani, Scalfaro, Spadolini, La Malfa, Berlinguer, Occhetto, D’Alema... Lui, invece, era Bettino, semplicemente Bettino”. Alla presentazione del libro, Amato, parafrasando il Marco Antonio di Shakespeare, ha spiegato di essere “...venuto a seppellire Bettino, non a farne l’elogio. Il male che l’uomo fa gli sopravvive; il bene, spesso, resta sepolto con le sue ossa”. Proprio come avvocato difensore di Craxi, Nicolò Amato toccò con mano il livello di disumanità cui era arrivato l’accanimento contro Craxi quando, nel 1993, l’allora candidato sindaco di Roma Francesco Rutelli gli chiese di rinunciare alla difesa per far parte della sua giunta. A quella richiesta, rispose senza esitazioni: “In uno stato di diritto, in un sistema di giustizia giusta e convincente l’impegno politico e l’esercizio di una professione sono cose completamente separate, senza reciproche interferenze”. Il libro di Amato, per sua stessa ammissione, è “un libro dissacratorio” che riflette la “brutale sincerità” di Craxi nei discorsi in Parlamento, quando denunciò “il problema di moralizzazione della

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vita pubblica” e quando disse che: “...non sono stato difeso da una parte di coloro che avevano il dovere di difendermi ... e molti invece hanno seguito la tentazione del capro espiatorio, mito pagano di tradizione antichissima che è sempre equivalso alla illusione temporanea di allontanare da sé una colpa, un male, e di dare in questo modo una soluzione ai problemi posti dalla realtà”. Nicolò Amato contesta l’assunto per cui “Craxi era il capo carismatico di un partito a gestione accentrata e dunque ‘non poteva non sapere’ e ‘non poteva non volere’ i reati commessi dagli uomini di quel partito”, assunto che diventa la tesi processuale della pubblica accusa per la quale Craxi era penalmente responsabile o corresponsabile di tali

reati, “a meno che non avesse dimostrato di esserne innocente”. Secondo Amato, questa tesi, oltre a non essere stata applicata nel caso di altri segretari di partito, ha violato i principi fondamentali della Costituzione, quali il carattere rigorosamente personale della responsabilità penale, la presunzione di non colpevolezza e la sacralità del diritto di difesa. Per non parlare, poi, della clamorosa violazione del principio della irretroattività della legge penale, laddove fu affibbiato il marchio della latitanza a Craxi, quando già si trovava all’estero in maniera assolutamente legittima. Nicolò Amato, come ex magistrato e come avvocato, riesce a smontare tutte le sentenze che inflissero a Craxi, complessivamente, 23 anni e 9 mesi di reclusione e 20 miliardi e 210 milioni di lire di multa. In buona sostanza, a parere di Amato, si è voluta immolare una vittima sacrificale a furor di popolo e per amor di giustizia. E pur tuttavia, sempre secondo Amato, è stato tutto inutile perché, come ha riconosciuto anche Francesco Saverio Borrelli: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Nella prefazione del libro, un atto di contrizione di Vittorio Feltri che chiede scusa per avere “partecipato alla battuta di caccia al Cinghialone” confessando di aver dedicato a Bettino Craxi “i titoli più carogna della vita professionale”. Nella postfazione, infine, una lettera di Giorgio Napolitano ad Anna Craxi nella quale si ammette che il padre fu colpito “con durezza senza eguali” e con procedure che hanno violato il diritto a un processo equo, anche secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. H

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Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

Nelle foto: in alto Bettino Craxi sotto Nicolò Amato

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sappeinforma

Manifestazione a Roma. Noi del Sappe eravamo presenti. E gli altri?

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l 15 ottobre 2015 si è scritta una pagina di storia. Una pagina di democrazia, amicizia ed unione. 10.000 donne e uomini della Polizia Penitenziaria, della PolStato, della Forestale e dei Vigili del Fuoco, arrivati da tutte le Regioni italiane - Nord, Sud, Centro, Isole - hanno pacificamente invaso piazza Montecitorio da un lato, Palazzo Chigi da una parte e le strade circostanti, fino al Pantheon, bloccando il centro di Roma.

Nelle foto: alcune fasi della protesta

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Abbiamo gridato al presidente del Consiglio e al Governo tutta la nostra rabbia per la situazione del comparto sicurezza che sconta tagli e penalizzazioni ormai giunti ad un livello difficile di sopportazione. Abbiamo chiesto loro di non umiliare i poliziotti con 10 euro lordi di aumento mensili dopo 6 anni di blocco contrattuale, perchè queste sono le cifre che emergono dalla legge di stabilità e che sono state purtroppo

confermate proprio il 15 ottobre dal Governo nell’ambito dell’emanazione di quella che una volta era chiamata Finanziaria. Ma giovedì a Roma si e visto molto di piu di una manifestazione di protesta: si è vista finalmente la volonta di cambiare rotta in maniera unita e compatta - “coperti ed allineati”. Una manifestazione che ha avuto anche uno straordinario successo mediatico, con servizi sulle principali Reti Tv

pubbliche e sui quotidiani nazionali. Abbiamo lanciato un discreto segnale ai nostri interlocutori dando dimostrazione con una manifestazione pacifica, ordinata, colorata, spontanea di essere pronti a dare filo da torcere al governo. Noi rappresentiamo la democrazia, perchè noi siamo stati investiti, quella investitura morale di cui ogni poliziotto si sente insignito, alla sua difesa da chiunque la metta in discussione.


la manifestazione

7 Nelle foto: ancora immagini della manifestazione

Non e solamente una questione di soldi, e una questione di rispetto, quel rispetto che ogni giorno ci siamo conquistati e ci guadagniamo indossando con onore questa divisa e che e stato calpestato da questa politica. Comunque come avrete letto e saputo il governo intende rinnovare il contratto ai poliziotti con dieci euro lordi mensili! Noi chiediamo 100 euro netti e 1500 euro una tantum a titolo di risarcimento per il blocco contrattuale

che ormai va avanti da 6 anni. Grazie. Grazie. Grazie alle colleghe ed ai colleghi del SAPPE arrivati da tutta Italia. Tra mille sacrifici, per il maltempo e per la nottata in pullman per raggiungere Roma e poi la strada di casa. Proprio tutta Italia: erano presenti delegazioni e rappresentanze del SAPPE arrivate da tutti- proprio tutte! - le Regioni del Paese! NOI DEL SAPPE C’ERAVAMO. E GLI ALTRI? H

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il commento

Carceri, calano i detenuti ma non diminuiscono i problemi... Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nella foto: l’interno di un istituto penitenziario

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n interessante articolo di Bianca Lucia Mazzei, recentemente pubblicato sul quotidiano Il Sole 24ore, ci aiuta a fare il punto sulla situazione delle carceri italiane anche in relazione agli interventi adottati da Governo, Ministero della Giustizia e Amministrazione Penitenziaria per i recenti pronunciamenti della Cedu finalizzati a migliorare le condizioni detentive.

U

regolamentare (che, sottolinea il Dap, prevede spazi più ampi rispetto alla media europea), un numero che sale a quasi settemila se si considerano i posti non disponibili a causa delle ristrutturazioni in corso. E, soprattutto, la situazione non è omogenea sul territorio nazionale. La Lombardia è la Regione dove la distanza con la capienza regolamentare è più alta: ci sono infatti 1.450 detenuti “di troppo”.

Al 31 dicembre 2010 nelle carceri italiane erano presenti quasi 68mila detenuti di fronte a una capienza regolamentare di 45.022 posti, un triste record che ci valse la condanna della Corte europea del gennaio 2013. L’ultimo censimento effettuato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) al 30 settembre 2015 ne rileva invece 52.294, ossia il 23% in meno. E 17.586 sono i detenuti usciti dal carcere beneficiando della possibilità introdotta dalla legge 199 a fine 2010 di scontare l’ultima parte dalla pena presso la propria abitazione. In cinque anni, quindi, i provvedimenti svuota carceri e l’allargamento delle misure alternative alla detenzione sono riusciti quindi a ridimensionare il problema del sovraffollamento. Ma ci sono comunque ancora 2.709 detenuti in “più” rispetto alla capienza

Situazione critica anche in Puglia (833 reclusi in più), Campania (823), Veneto (548) e Lazio (451). All’opposto, ci sono le Regioni con più posti liberi (in Sardegna se ne contano ben 760), dove spesso vengono spostati detenuti dai luoghi di pena più affollati. È diminuito anche il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Le restrizioni all’utilizzo di questo strumento previste dal Dl 92 del giugno 2014 e poi dalla legge di riforma dello scorso aprile (la 47/2015) hanno portato il numero di detenuti in attesa di primo giudizio da 9.999 (30 giugno 2014) a 8.942 (30 settembre 2015), con un calo di circa il 10%. Se si considerano anche i condannati in attesa dei successivi gradi di giudizio si passa dai 19.984 del 30 giugno 2014 agli 18.015 del 30 settembre scorso. La presenza femminile,

tradizionalmente bassa, rimane estremamente contenuta, mentre gli stranieri rappresentano ormai un terzo (il 32,9%) del totale. Un valore che, nelle Regioni del Nord, sale oltre il 40%: in Emilia Romagna è al 46%, al 45% in Lombardia e Toscana. Percentuali elevate, nonostante la diminuzione causata dalla disapplicazione del reato di inottemperanza all’obbligo di espulsione del questore imposta dalla Corte di giustizia dell’Aja: al 31 dicembre 2010 la media nazionale era infatti del 36,7%. La presenza di stranieri è, inoltre, più alta fra i reclusi in attesa di primo giudizio: 3.787 su 8.942 (oltre il 42%). Le ragioni vanno dal pericolo di fuga all’assenza di un “domicilio” dove attendere il processo. Che sono poi le stesse motivazione che spiegano lo scarso utilizzo delle misure alternative alla detenzione. Al 30 settembre scorso erano in 31.766 a beneficiare delle misure diverse dal carcere: l’affidamento in prova ai servizi sociali è l’istituto più utilizzato (11.802), seguito dalla detenzione domiciliare (9.605). Ma come trascorre il tempo in carcere? Ce lo dice il DAP, con un recente comunicato stampa. A ottobre 2015 il 95% dei detenuti di media sicurezza effettua almeno 8 ore di permanenza fuori dalle camere detentive, con un incremento del 5% rispetto a maggio; in 123 istituti si effettuano i colloqui su prenotazione, con il vantaggio dell’eliminazione delle lunghe ore di attesa, il dato precedente era di 109; le visite pomeridiane si svolgono in 137 istituti a fronte dei 93 precedenti, quelle domenicali 148, 67 in più rispetto a maggio; in 120 istituti è attivo il servizio di telefonate ai familiari tramite la tessera telefonica, a maggio il servizio era attivato in 111 istituti (prossimamente sarà attivato in altri


il commento 16 istituti, il servizio è stato finanziato per ulteriori 49); in 101 istituti (altri 20 progetti sono all’esame del Consiglio di Amministrazione di Cassa Ammende) sono presenti le aree verdi per le visite dei familiari, 4 in più rispetto al dato precedente. Sul delicato tema della tutela della genitorialità, il DAP evidenzia che sono state allestite 172 sale colloquio e di attesa (altre 15 sono in allestimento), a fronte delle 130 rilevate a maggio, specificatamente attrezzate per i bisogni dei bambini; sono state realizzate 66 ludoteche, 8 in più rispetto al dato precedente e altre 14 sono in preparazione. Le ICAM attualmente presenti sono 4 (Milano, Venezia, Torino e Senorbì in provincia di Cagliari) a cui si aggiungeranno le ICAM di Roma, Barcellona Pozzo di Gotto e Lauro. Recentissima la realizzazione della prima Casa famiglia protetta per detenute madri che, a breve, aprirà a Roma ed è stato già firmato il protocollo d’intesa tra il Provveditorato regionale del Piemonte e l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII per facilitare e monitorare il futuro inserimento di detenute madri presso le case famiglia gestite da detta associazione nella regione Piemonte e su tutto il territorio nazionale. Un importante contributo al finanziamento degli interventi per il miglioramento delle condizioni detentive è dato dalla Cassa delle Ammende. In particolare, i progetti finanziati da Cassa Ammende prevedono: il recupero/aumento di 269 posti detentivi; interventi migliorativi di 5.392 camere detentive e l’adeguamento al Regolamento Penitenziario (DPR 230/00) di 784 stanze attraverso l’installazione delle docce nei vani bagno; la realizzazione di 28 campi sportivi, 20 aree verdi, 6 refettori, 13 palestre; il risanamento di 58 sale colloqui e di 559 spazi dedicati alle attività trattamentali; l’acquisto di attrezzatture, che rimangono in dotazione agli istituti, e di dotazioni di sicurezza individuali; lo svolgimento di corsi sulla sicurezza ai sensi del T.U. 81/06 e di corsi di formazione professionale per detenuti riconosciuti

dall’Ente regione. Tutto bene, dunque? No, affatto. Sarà infatti anche vero che in cinque anni i detenuti in carcere sono scesi del 23% ma i problemi restano, eccome. Sempre alta è la tensione nelle carceri: lo dicono i numeri degli atti di autolesionismo, dei suicidi, dei tentati suicidi sventati in tempo, delle risse. Ma ancor di più lo testimoniano le colluttazioni, i ferimenti, le aggressioni contro i poliziotti penitenziari, che sono addirittura in aumento rispetto al passato (come ha dovuto riconoscere in una nota ufficiale lo stesso Capo del DAP). E questo è grave e inaccettabile. E che dire del sistema di ‘vigilanza dinamica’? Ha senso, è rieducativo, da un senso

di chi fruisce di misure alternative e addirittura dell’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. E le espulsioni dei detenuti stranieri? In molte carceri del Nord Italia sono il 50, il 60, persino il 70% dei presenti. Tutti dicono che devono essere espulsi, ma sapete quali sono i numeri reali degli espulsi a titolo di misura alternativa alla detenzione? 811 nel 2014, 955 nel 2013, 920 nel 2012! Una goccia nel mare, insomma... Abbiamo carceri ancora senza un direttore ma c’è chi, avulso dalla realtà, pensa che il problema sia garantire i colloqui ai detenuti al pomeriggio, come se la Polizia Penitenziaria già non facesse i salti mortali per garantire in Italia una carcerazione umana ed attenta pur in

alla pena detentiva far stare molte ore al giorno i detenuti fuori dalle celle senza però fargli fare assolutamente nulla? Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Perché allora Governo e Parlamento non fanno una legge che introduca il lavoro obbligatorio in carcere? La pena detentiva senza far nulla determina una pericolosa apatia e favorisce la tensione. Eppure, chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, contro il 19%

presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative, le gravi carenze di organico di poliziotti –7mila unità! -, le strutture spesso inadeguate. Per comprendere talune sensibilità politiche e istituzionali su questi temi, basti pensare che il nostro Paese – per una legge dello Stato! - paga con i soldi dei cittadini onesti i criminali detenuti che hanno “patito” il sovraffollamento nelle nostre carceri. Come se uno finisse in cella per sua scelta... Altro che gli Stati Generali per l’esecuzione della pena: qui bisognerebbe far emergere le responsabilità di tutti i politici e i burocrati sulla trascuratezza dei temi penitenziari e far pagare le inefficienze e le incapacità loro e dei loro collaboratori. Altro che strizzare l’occhio a Bruxelles, decontestualizzando la realtà italiana... H

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Nella foto: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

l’osservatorio

All’esame del Parlamento la Legge di stabilità a legge di stabilità è stata firmata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ora passa all’esame del Parlamento, cominciando dal Senato. Dalle prime notizie sembrerebbe che il grosso delle coperture dovrebbe arrivare dall’aumento del deficit.

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Nella foto: l’aula parlamentare

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Nel Comparto ministeri è previsto un risparmio di 1,6 miliardi sulla spesa corrente e di 1,4 sugli investimenti. Complessivamente il taglio sui ministeri varrà 3,4 miliardi di euro per il 2016, 2,5 nel 2017 e 1,7 nel 2018. I tagli verranno fatti soprattutto al finanziamento dei progetti. Il Ministero della Giustizia, per esempio, risparmierà sugli onorari dei Giudici di Pace, gli Esteri aumenteranno alcune tariffe consolari. Ci sono poi i risparmi derivanti dal blocco del turn over, cioè delle assunzioni per sostituire coloro che vanno in pensione, nel pubblico impiego. Si tratta di 43 milioni nel 2006, che salgono a 156 nel 2017. La Presidenza del Consiglio subirà tagli per 3 milioni, relativamente all’editoria, 3,4 per il servizio civile, 3,7 per le aree urbane, 2,2 per la famiglia e 2,8 per le pari opportunità. Altri tagli sono previsti per gli enti non territoriali: l’Agenzia delle Entrate subirà tagli per 16 milioni, le Dogane

3,5, il Fondo Universitario 20, il Fondo Ricerca 14, l’Istat 960, la Corte dei Conti 674, il Consiglio di Stato 375. Altri risparmi arriveranno dalla Sanità, dove il fondo, quest’anno pari a 110 miliardi, salirà a 111, anziché 113,2, come previsto. In base a quanto previsto dalla relazione tecnica della Ragioneria dello Stato si otterrà un miglioramento di 1,8 miliardi del deficit pubblico. Un altro contributo arriverà dagli Enti Locali: i comuni potranno spendere 400 milioni in più, le province e città metropolitane 400 in meno, le regioni dovranno risparmiare 1,8 miliardi, dei quali, però, 1,3 gli verranno scontati dalla vecchia manovra. Più di un miliardo di euro, nel 2016, dovrebbe arrivare dai giochi. L’aumento del prelievo dalle slot machines dovrebbe fruttare 600 milioni di euro. Come annunciato è stata cancellata la Tasi sull’abitazione principale ed abrogata anche l’Imu sulle case di lusso, sui terreni agricoli di proprietà di coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali e sui macchinari delle imprese. L’operazione avrà un costo di oltre 4 miliardi. Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha assicurato ai sindaci la copertura integrale del mancato gettito. Inoltre, si è deciso per ora di non fondere più Tasi con Imu, che quindi continueranno a esistere anche nel 2016 sugli immobili diversi dall’abitazione principale. Vengono prorogati per tutto il 2016 gli sgravi Irpef del 50% e del 65% per i lavori di ristrutturazione e risparmio energetico. La struttura delle detrazioni sarà identica a quella attuale: il tetto di spesa su cui calcolare le detrazioni rimane a 96 mila euro, con rimborsi in dieci rate

annuali. Gli incentivi vengono anche estesi agli ex Iacp che potranno usarli per aumentare le prestazioni energetiche delle case popolari; questo costituisce una novità. E’ confermata anche la proroga del bonus mobili e spunta l’ipotesi che possa anche essere esteso alle coppie under 35, senza obbligo di ristrutturazione. Come incentivo alle imprese viene introdotta una deduzione extracontabile del 40%, da ripartire sulla vita utile del bene, per i beni produttivi nuovi acquistati nel 2016 e nell’ultimo trimestre del 2015, a partire dal 15 ottobre. Tale deduzione extra si aggiungerà alle quote ordinarie di ammortamento e corrisponderà al 40% del costo sostenuto per investimenti in beni ammortizzabili. Saranno comprese nell’agevolazione la maggioranza dei beni, dai robot per l’automazione ai pc, escludendo solo gli immobili: fabbricati e capannoni. Il taglio dell’Ires al 24% sarà operativo dal 2017. Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato che la misura sarà anticipata al 2016 se “le regole europee permetteranno di utilizzare la clausola per le misure urgenti sull’emergenza immigratoria”. Comunque, anche nel caso in cui Bruxelles desse il via libera, l’eventuale anticipo al 2016 del taglio dell’Ires potrà avvenire solo in due tappe: 1,5 o 2 punti dal prossimo 1° gennaio e la quota restante nel 2017. Il taglio, per il quale inizialmente era stato immaginato un intervento limitato al Sud, si applicherebbe su tutto il territorio nazionale. Ai quotidiani e ai periodici diffusi elettronicamente si applicherà l’Iva agevolata al 4%. Si tratta, di fatto, di un’estensione della disciplina sugli ebook in vigore dal primo gennaio 2015. Viene ripristinata la detassazione del premio di produttività con una tassazione del 10% fino a 2.500 Euro. Tra i beneficiari ci saranno anche i redditi più alti, compreso coloro che percepiscono fino a 50mila euro lordi annui. Le aziende, inoltre, potranno distribuire ai dipendenti gli utili fino a 2.500


Il libro euro, che saranno tassati sempre al 10%. Importanti novità sono previste per il lavoro autonomo, sia sotto il profilo fiscale che su quello delle tutele. Il regime forfettario introdotto l’anno scorso, con l’aliquota al 15%, dovrebbe diventare più conveniente. Le attuali soglie di ricavi dovrebbero aumentare di 10 mila euro per tutti, per i professionisti di 15.000 euro. La possibilità di accesso al regime dovrebbe essere estesa anche ai lavoratori dipendenti e pensionati che hanno anche un’attività in proprio, a condizione che il loro reddito da lavoro dipendente o da pensione non superi i 30 mila euro. L’imposta sostitutiva dovrebbe scendere al 5% per le start up per i primi cinque anni di attività. Altra misura che ha fatto molto discutere, soprattutto a sinistra e da qualcuno bollata addirittura come iniziativa che favorirebbe gli evasori, è l’innalzamento della soglia del contante a 3.000 euro, la possibilità, cioè, di effettuare pagamenti in contante non più fino a 1.000 euro, come avviene adesso, ma, appunto, a fino 3.000. L’attuale soglia fu stabilita dal decreto Salva Italia (articolo 12 del decreto legge n. 201 del 6 dicembre 2011), con cui è stato ridotto a 999,99 euro il limite per l’utilizzo di denaro contante, l’emissione di assegni privi della clausola di non trasferibilità e il saldo dei libretti di deposito al portatore. Dal 1° gennaio 2017 questi divieti scatteranno per trasferimenti sopra i tremila euro. Nonostante vi siano ancora contrarietà da parte delle società interessate, sembra ormai certo che dal prossimo anno il canone Rai confluirà nella bolletta elettrica e sarà dovuto da tutti coloro che utilizzano nella propria residenza anagrafica apparecchi “atti o adattabili” alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive, compresi per esempio i tablet. L’importo sarà ridotto a 100 euro (contro gli attuali 113,50) per il 2016, e poi - se la misura funzioneràsarà ulteriormente abbassato a 95 Euro dal 2017, con una successiva riduzione per il futuro. Il canone si pagherà a rate, ogni due mesi. H

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Oltre le sbarre, un auspicio che si fa libro Un romanzo autobiografico scritto dall’Agente di Polizia Penitenziaria Dario Esposito e pubblicato dalla Falco Editore pagg. 136 - euro 14,00

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i avvertiva il bisogno di un’altra opera letteraria sugli scaffali? Evidentemente si. Carcere, vita in sezione, grate alle finestre, servizi speciali ed operativi della Penitenziaria, un pugno nello stomaco all’ombra che vuole avvolte nel mistero le giornate del mondo detentivo. Già perché quel che emerge subito è un grido, un appello, un’esortazione: superare le sbarre del pregiudizio per afferrare la verità sfuggente, un obiettivo che l’autore cerca in punta di piedi, attento a non far rumore, mettendo in risalto debolezze, paure e fragilità. Un’occasione unica: un addetto ai lavori che si mette a nudo, svela gioie ed amarezze rincorse- col fiato in golafra evasioni, risse, notizie di cronaca ed un amore finalmente raggiunto. Sfogliando le pagine sembra quasi d’indossare anfibi e mimetica: raggiungere un maxibunker per un processo ad alto rischio, sorvegliare un detenuto che poco prima ha cercato di uccidersi, provare a gestire i sussulti dell’animo che vacilla fra Dentro e Fuori. Il romanzo vede, solo in apparenza, l’autore come protagonista. In realtà non fa che da microfono alle tante vicende simili degli operatori

penitenziari senza dimenticare, qui sta il pregio, di raccontare la varia umanità della popolazione detenuta. Già: non ci sono dita puntate né barricate, è un venir fuori di emozioni e sentimenti propri a tutti gli esseri viventi in quanto tali. Del resto l’ottima prefazione del Dottor Gianfranco De Gesu, Dirigente Generale dell’Amministrazione penitenziaria, è una chiara guida alla lettura, l’uomo è al centro di tutto così come la sua nemesi il pregiudizio. Un pregiudizio che stringe e tortura i pensieri di chi indossa il basco azzurro o di chi, a qualsiasi titolo, si vede crocifisso senza alcuna colpa. C’è questo e molto altro dietro la copertina che ritrae un’immagine gentilmente concessa dal celebre fotografo Raffaele Montepaone. “Oltre le Sbarre - le carceri italiane viste da un giovane agente penitenziario” , un libro da scoprire insieme. H

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risponde al bisogno di raccontare una realtà sconosciuta o trascurata, alla speranza di fornire utili e interessanti strumenti di riflessione sociale e culturale. Oltre le sbarre racchiude momenti di vita e di carcere, con intensità e leggerezza insieme. Nelle dimensioni estreme, tensione, emozione, ironia trovano bizzarre composizioni. H

ario Esposito è nato a Catanzaro il 9 maggio 1984, si arruola nell’Esercito nel 2007; nel 2008 entra nel Corpo della Polizia Penitenziaria. Dopo l’addestramento a Roma e i tirocini pratici a Genova e Vigevano, viene assegnato a Pavia dove svolge servizi in ambito regionale. Successivamente torna in Calabria, prima nell’Istituto penale per minorenni di Catanzaro e poi nella Casa Circondariale di Vibo Valentia dove tuttora lavora. L’idea di un romanzo autobiografico

Nelle foto: la copertina del libro e, sotto, Dario Esposito

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12 Roberto Thomas già Magistrato minorile, docente di criminologia presso l’Università di Roma la Sapienza rivista@sappe.it

Nella foto: le conseguenze del “knockout game”

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criminologia

Il minore “maltrattante” eneralmente siamo abituati a sentire parlare di minori maltrattati e abusati, vittime della violenza fisica e psichica degli adulti; ma esiste anche una tipologia di adolescenti che all'interno della famiglia utilizza comportamenti ribelli, prevaricatori e violenti verso i suoi componenti, soggetti passivi del loro “maltrattamento” .

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convogliando entrambi in un'unica nozione di devianza (che potrebbe transitare poi in quella di criminalità per i comportamenti che violino le norme penali), la quale si contrapporrebbe ad un concetto astratto di normalità, che però, appare impossibile definire in maniera certa, se non con una definizione residuale meramente

Sono questi coloro che definisco minori “maltrattanti”, che sovente, all'esterno dell'ambito familiare , tengono una condotta sufficientemente accettabile, come se calasse su di loro una maschera di perbenismo per la paura di essere “giudicati“, tanto che interrogati da “estranei” su come siano i loro rapporti con i genitori, ripetono quasi ritmicamente “tutto bene, tutto bene”, sviando ulteriori approfondimenti sulla loro reale problematica collocazione intrafamiliare. Nella psicologia attualmente prevalente si tende ad unificare il maltrattamento “interno” (intrafamiliare) assai frequente, al comportamento aggressivo “esterno” (extrafamiliare ),

formale di ricomprendere tutti quei comportamenti che non rientrano nei comportamenti devianti (che violano le norme sociali approvate prevalentemente dalla comunità in un determinato periodo storico) né in quelli criminali (che trasgrediscono ai precetti contenuti nella legge penale). A me, invece, pare utile distinguere una aggressività-maltrattamento minorile interna al gruppo parentale rispetto a “quella esterna”, pur riconoscendo che, talora, i due tipi possono coesistere simultaneamente . La violenza-maltrattamento esterna , invero, si estrinseca con una condotta violenta al di fuori della famiglia nel rapporto con terzi

estranei noti (come i compagni di scuola, i professori o , in genere , i parenti e gli amici) o non conosciuti (e cioè incontrati occasionalmente), e sovente deve essere interpretata come un'azione non solo deviante ma anche criminale in quanto violatrice di una legge penale. Per il primo caso è di tutta evidenza quella che sorge fra i compagni di scuola : le famose “scazzottate” che per futili motivi (spesso di origine “amorosa” nei confronti della bella compagna, cui molti ragazzi agognano di conquistare i favori) tutti noi maschi , di qualsiasi generazione anagrafica, abbiamo fatto, in genere, senza gravi conseguenze fisiche. Oggi però, anche le ragazzine assai emancipate realizzano comportamenti violenti fra loro a scuola per primeggiare sulle altre: è anche questo un segno della parità che faticosamente, nel bene e nel male, la donna giustamente sta tentando di raggiungere con gli uomini. Primeggia negativamente, però, come manifestazione aggressiva, il bullismo scolastico contro i compagni più timidi e indifesi, oggetti di reiterate vessazioni quotidiane che possono rientrano nel campo dei reati di minacce (art. 612 cod. pen.), di atti persecutori (art. 612 bis cod. pen.), di lesioni personali (art. 582 cod. pen.), di violenza privata ( art. 610 cod. pen.) di rapina (art.628 cod. pen.) ecc. Sussistono anche le intimidazioni e violenze commesse, talora, sui professori o direttamente all'interno dell'istituto scolastico (art.341 bis cod. pen.) o, più spesso, indirettamente mediante il danneggiamento delle loro autovetture posteggiate nei pressi della scuola (art. 635 cod. pen.). Anche la violenza esterna contro persone non conosciute si estrinseca in una serie delle precitate fattispecie di reato che fanno transitare il minore “maltrattante” nella categoria specifica di quello criminale. Per quanto concerne le lesioni, in particolare, si deve segnalare, purtroppo , che è attualmente invalsa la “moda” , importata dalle immagini sui social network provenienti dagli


criminologia Stati Uniti , del cosiddetto “knockout game” (letteralmente: gioco del colpo fuori, usato nella terminologia pugilistica internazionale per indicare il violento pugno di un pugile che stende al tappeto l'avversario, che rimane a terra per più di dieci secondi, contati dall'arbitro dell'incontro, cui consegue la vittoria sull'avversario). Esso consiste nel colpire con un forte pugno improvviso alla nuca (e quindi dopo essersi avvicinato alle sue spalle) o in piena faccia, una persona qualsiasi che passeggia tranquillamente in strada, senza alcuna provocazione da parte della vittima assolutamente sconosciuta, che normalmente cade a terra, talora perdendo i sensi . E' un gioco (“game” ) perverso e inquietante, a parte la sua evidente pericolosità (nella caduta a terra, infatti, il soggetto percosso potrebbe sbattere la testa e morire sul colpo ), in quanto non generato da qualsiasi motivazione logica (ira, vendetta, antipatia eccetera), bensì per il solo “gusto sadico” di far del male ad un individuo casuale e completamente all'oscuro di quanto sta per capitargli. Una forma inconscia di affermare, mediante tale “gioco”, la propria potenza, o meglio “onnipotenza”, su tutto e tutti, l'affermazione di una forza bruta che risale alle origine ataviche dell'umanità e che si ripropone in maniera sconcertante nella nostra realtà moderna in quanto operata non certo da autori malati di mente , bensì potenzialmente “normali” . Invece la tipologia peculiare del minore maltrattante (limitata come detto alla sola violenza intrafamiliare) costituisce una forma di ribellione e di aggressività, sovente violenta, indirizzata esclusivamente ai componenti della famiglia, in particolare nei confronti della potestà genitoriale (attualmente sostituita dalla “responsabilità genitoriale”, nel novellato art. 316 del codice civile). Se poniamo mente ai nostri ricordi adolescenziali, l' abbiamo avuta quasi tutti, nessuno escluso, in forma “lieve”, ma certamente non siamo stati per questo solo fatto (che non ha,

in genere, avuto strascichi violenti sia “interni” che “esterni” di grave rilievo) additati come devianti, rientrando invece in un'ottica abbastanza comune e quindi cosiddetta “normale”. Più utile mi sembra, riportare pertanto tale fenomenologia “lieve” al mio concetto di fluidità minorile (definita dalla psicologia prevalente col termine immaturità) , che raccoglie in sé praticamente tutti i minori (ad eccezione di quelli con gravissime anormalità psico-fisiche) per i comuni caratteri di instabilità, fragilità, e imprevedibilità che si riscontrano generalmente negli adolescenti a causa di una loro normalità-maturità incompleta propria di una personalità mutevole continuamente, come l'acqua di un fiume che scorre fluida, prima placidamente, per poi finire fragorosamente in una cascata, quindi ritornare placida fino alla successiva cascata e così via, ad intermittenza, in una maniera instabile e imprevedibile. Il maltrattamento dei familiari conviventi nasce normalmente verso gli undici-tredici anni, in concomitanza con il periodo ormonale della pubertà, e le conseguenti trasformazioni fisiche (cambiamento della voce, comparsa di peli nella zona pubica, e per le fanciulle, l'inizio del ciclo mestruale) . Tali trasformazioni possono causare psicologicamente nell'adolescente sentimenti di ansia e rifiuto e cagionare in generale un disagio - che significa etimologicamente una carenza (dis-) di benessere (agio) che può produrre uno squilibrio nella certezza della sua identità (formata progressivamente dal temperamento e dal carattere), del suo concetto di sé che viene modificato dalla nuova situazione fisica, in una alternanza di conformismo/ribellione e autonomia /dipendenza. Inizialmente egli inizierà a prospettare richieste sempre più pressanti di libertà dai paletti educativi ragionevolmente fissati dai genitori, iniziando con il voler uscire da solo con i compagni di scuola, senza più l'imbarazzante accompagnamento di un adulto, perchè si ritiene già “un

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grande” alla conquista del mondo. Poi la prima sigaretta di tabacco ed, a ruota, purtroppo una “tirata” di spinello, quasi per vincere il tabù dell'infanzia e festeggiare l'ingresso nell'età libera dell'adulto, avviata quasi sempre dalle prime esperienze amorose. I primi litigi sugli orari di uscita e di rientro a casa, la richiesta continua di soldi (la “paghetta” è diventata ormai una cosa da bambini lattanti) e , allo scadere dei quattordici anni, quella martellante di avere un ciclomotore, o un costoso quadriciclo (che sono delle vere e proprie automobili con la targhetta dei ciclomotori). Incomprensioni, litigi , volano parole grosse, anche ricatti e minacce di non voler più andare a scuola: il dialogo familiare si interrompe bruscamente

dando spazio a volti tirati e a lunghi silenzi . Poi improvvise esplosioni di rabbia, gesti di manifestazioni “dimostrative” con rotture di suppellettili condite con urla ed imprecazioni irripetibili, gesti minacciosi a braccia levate con i pugni chiusi e sovente veri tentativi di percosse ad un familiare . La situazione sembra sfuggire di mano ai poveri genitori che corrono ai ripari, cercando l'aiuto del consiglio dei parenti e, spesso, quello di psicologi privati su cui cercano di convogliare il loro figlio. La situazione si aggrava ulteriormente se non vi è un perfetto accordo dei due genitori sulla gestione del loro ex pargoletto, o se esiste la presenza di

Nella foto: discussioni in famiglia

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criminologia fratellini più piccoli che devono essere preservati dai litigi intrafamiliari. Già perchè le tensioni della coppia genitoriale, sopite provvisoriamente dalla preoccupazione della sana crescita del figlio, soprattutto se unico, riemergono immancabilmente quando scatta l'esplosione di libertà del loro adolescente. In questi casi una terapia psicoterapeutica familiare - che coinvolga cioè tutti i membri della casa - appare certamente opportuna

lesione grave, ovvero da sette a quindici anni una lesione gravissima, od, infine da dodici a venti anni , se ne consegue la morte. Come si vede l’articolo citato punisce una serie multipla di fattispecie che hanno la ragione comune nell’essere la vittima un familiare o un convivente che vive insieme al minore “maltrattante”. Si deve sottolineare che spesso, tale reato non emerge, restando nel numero oscuro dei delitti non denunciati, in quanto il familiare, per

per riallacciare il dialogo interrotto (anche quello fra gli stessi genitori che spesso si accusano reciprocamente di non aver saputo ben educare il loro figliolo). In alcuni casi i maltrattamenti del figlio adolescente travalicano il “regime normale”, transitando in atti di vera e propria violenza nei confronti dei parenti conviventi, talora accompagnati da comportamenti di furto di denaro e di oggetti preziosi presenti in casa, e allora il minore “maltrattante” si trasforma inevitabilmente in minore criminale. Invero il maltrattamento reiterato e violento rientra nella fattispecie penale dell'art. 572 cod. pen. intitolato 'Maltrattamenti contro familiari e conviventi’ (“Chiunque... maltratta una persona della famiglia o comunque convivente... è punito con la reclusione da due a sei anni.” ). La reclusione sale da quattro ad otto anni se dal maltrattamento violento deriva per il familiare convivente una

affetto, preferisce non ricorrere all'autorità costituita, tentando di affrontare la violenza che subisce dal minore convivente- che molte volte cerca di minimizzare soprattutto nei rapporti con l'esterno, per evitare di riconoscere il proprio fallimento educativo- con una mediazione di altri parenti o amici volta a “gestire”, in qualche maniera, i ricorrenti litigi motivati, in genere , dalla pressante richiesta di soldi (spesso utilizzata per l’acquisto di droga ) e dalle continue uscite di casa notturne del minore, con interruzione della frequenza scolastica e di un qualsiasi proficuo dialogo fra le parti. E così la situazione di grave tensione violenta si protrae per anni, fra alti e bassi, fino al suo esaurimento per “consunzione” di genitori che, sovente, nei casi più gravi, si rivolgono disperatamente, oltre a psicologi privati e a quelli delle strutture pubbliche, anche ai provvedimenti amministrativi dei Tribunali per i minorenni ex art. 25 della legge minorile che prevede, nei

Nella foto: sottrazione di denaro

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casi più gravi, oltre l'affidamento ai Servizi Sociali, l'allontanamento da casa e la misura coattiva dell'inserimento dell'adolescente in casa famiglia per i minori “irregolari per condotta o per carattere”. Talora i comportamenti aggressivi del minore all’interno della propria famiglia sono una “risposta”, certamente negativa, ai conflitti genitoriali che interferiscono sul suo equilibrio psichico quando vede un genitore urlare contumelie e talora passare a via di fatto contro l’altro. In tal caso egli emula siffatti riprovevoli comportamenti contro entrambi, per affermare, in un certo senso, il disagio e il suo desiderio di “liberazione” , stando il meno possibile in casa . Altre volte le sue reazioni derivano da un’incuria da parte dei familiari, dovuti ai problemi dei medesimi per disturbi psichiatrici, alcolismo, tossicodipendenza, ovvero per povertà o disoccupazione lavorativa: da minore “maltrattato” si converte in uno “maltrattante” quasi per una sua legittima difesa ! Anche l’eccesso di iperprotettività genitoriale può, al pari del fenomeno opposto dell’incuria, creare nei figli minori una grave ribellione nei confronti dei familiari , quando prendono coscienza della loro individualità autonoma che viene compressa dall’affetto fagocitante dei genitori . La legge sul femminicidio (punti a) e d) dell’articolo 2, primo comma, della legge 15 ottobre 2013 n. 119) ha previsto la possibilità dell’allontanamento di urgenza dalla casa familiare del soggetto (che ovviamente può essere anche minore ) che abbia compiuto, nei confronti dei familiari, lesioni personali con prognosi di guarigione superiore ai venti giorni , ovvero atti persecutori (cosiddetto stalking ), previsti nell' articolo 612 bis del codice penale ( e cioè atti reiterati di minaccia o molestia che consistono nel “cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto...” ), che costituiscono una variante psicologica rispetto al reato di maltrattamenti in famiglia che, punito più gravemente , tutela la vittima


giustizia minorile soprattutto nella sua integrità fisica da eventuali lesioni . Siffatta norma ha ampliato enormemente l’importanza dell’ispezione della scena del crimine, costituita dalla casa familiare in cui vive il minore maltrattante e “persecutore” dei suoi familiari. Invero essa ha dato la facoltà all’autorità di polizia di disporre, previa autorizzazione anche resa solamente telefonicamente dal pubblico ministero minorile di turno urgente, l’allontanamento dall’abitazione del minore ed il suo inserimento coattivo in una casa famiglia, ovviamente dopo l’accesso della stessa all’interno dell’abitazione, luogo in cui si è realizzato il delitto di lesioni o di atti persecutori e maltrattamenti, e dopo un’immediata istruttoria con l’ascolto diretto del minore e dei suoi familiari sul verificarsi dei fatti. La disposizione normativa ha finalmente coperto quello iato che, non prevedendo la possibilità di arresto in flagranza del minore violento in famiglia, né un immediato suo inserimento in una casa famiglia, lasciava i genitori sconvolti a dover sopportare, da soli, le ripetute intemperanze dei loro figli, in attesa di un provvedimento amministrativo del tribunale per i minorenni urgente (ai sensi del precitato art. 25 della legge sui minori) che richiedeva sempre alcuni mesi di tempo prima della sua effettiva esecutività . Conclusivamente il minore “maltrattante”, che ho delineato in precedenza, costituisce il frutto della fase critica dello sviluppo adolescenziale, sintomo dell'inevitabile disagio giovanile dominato da multiple situazioni di incertezza. Invero, come hanno ben descritto Vegetti Finzi S., Battistini A. M. nel loro libro “L'età incerta”, Mondadori, 2000 : “L'incertezza è il termine che meglio definisce questo periodo di vita :incerto il modo di agire degli adolescenti, incerti i ruoli genitoriali, incerti i valori di riferimento, incerti i confini temporali dell'adolescenza, incerta anche la chiave di lettura psicologica possibile”. H

Francesco Cascini è il nuovo Capo del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità el mese di Settembre 2015 il dott. Francesco Cascini si è insediato quale Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità. Cascini è entrato in magistratura nell’aprile del 1995 con funzioni di sostituto procuratore a Locri ed è stato Vice Capo di Gabinetto nel 2014. L’esperienza lavorativa vissuta a Locri gli ha consentito di scrivere un romanzo dal titolo: ‘Storia di un giudice. Nel Far West della ‘ndrangheta’. In questo libro, il nostro neo Capo Dipartimento racconta cosa significa vincere, quando si è freschi di laurea, il concorso per entrare in magistratura ed essere assegnati, al primo incarico, a una delle procure più «difficili», se così si può dire, d’Italia: una prassi nel nostro Paese destinata a indebolire ulteriormente lo Stato là dove è meno radicato. Francesco Cascini nel suo romanzo descrive davvero una realtà parallela, in cui sette omicidi in sette giorni sono la norma se è in corso una guerra tra clan; e un Procuratore della Repubblica, per prima cosa, deve abituarsi non alle aule dei Tribunali ma all’odore nauseante dell’obitorio. Questa è la Locride, dice Cascini nel suo libro, il centro della ‘ndrangheta calabrese, che ne controlla il territorio in modo così capillare che a San Luca, il paesino dell’Aspromonte al centro delle cronache degli anni ottanta per i sequestri di persona, la notte di Capodanno si festeggia sempre allo stesso modo: sparando a pallettoni su tutti i simboli dello Stato, caserma dei Carabinieri compresa. Nel raccontare cosa significa essere

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Ciro Borrelli Dirigente Sappe Scuole e Formazione Minorile borrelli@sappe.it

Nella foto: Francesco Cascini

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un rappresentante dello Stato nella terra della ‘ndrangheta Cascini rinuncia ai facili moralismi e alla retorica per privilegiare uno stile asciutto e diretto. E alla fine è impossibile non condividere le sue parole quando scrive: «La sensazione di trovarsi in mezzo a una guerra prendeva sempre più corpo. Una guerra di cui non fregava niente a nessuno». Successivamente a questa esperienza Cascini è stato trasferito a Napoli e nel 2005 è entrato a far parte della Direzione Nazionale Antimafia. Nel 2013 è poi stato nominato Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Oggi Francesco Cascini, come si è detto, si trova a capo del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, un dipartimento rinnovato dal regolamento di organizzazione del Ministero della Giustizia, le cui competenze sono state ampliate con l’assegnazione anche degli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna. H

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Lady Oscar rivista@sappe.it

lo sport

Pattinaggio artistico: Silvia Marangoni è oro mondiale per l’undicesima volta

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opo l’infortunio patito nella scorsa stagione ed il secondo posto mondiale nell’edizione 2014, ai campionati mondiali di pattinaggio artistico su rotelle (specialità inline) che si sono svolti a Calì, in Colombia (17/18 settembre) Silvia Marangoni ha fatto sfoggio di tutta la sua grinta cogliendo un successo storico: il suo 11° titolo mondiale.

A corollario della grande impresa anche una soddisfazione “istituzionale” per la nostra campionessa iridata: le congratulazioni del Presidente del Consiglio Matteo Renzi sulla sua pagina Facebook. “Non c’è solo il calcio”, ha sottolineato il Premier nel suo post celebrativo, ma intanto la scena sportiva la disciplina di Silvia Marangoni, che ha molte affinità con il

pattinaggio artistico sul ghiaccio, non riesce quasi mai a rubarla anche e a fronte di imprese come quella di raggiungere quota undici negli ori vinti in una rassegna iridata. Come se non bastassero i titoli mondiali Silvia nel suo palmares non si è fatta di certo mancare ben 13 titoli continentali. Da applausi a scena aperta, ma nel silenzio generale dei media sportivi. H

Vela: bronzo europeo per Bissaro-Sicouri

Nelle foto: alcune immagini di Silvia Marangoni al centro con l’allenatore Samo Kokorovec a destra Vittorio Bissaro e Silvia Sicouri

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Sulle note di “Bolero” la campionessa trevigiana della Polizia Penitenziaria allenata da Samo Kokorovec ha eseguito una performance ad alto tasso di difficoltà con una buona serie di tripli di ottimo livello insieme alle trottole, suo punto di forza al punto da essere chiamate movimento Marangoni perché è l’unica atleta che riesce a farle sul tacco e la punta per circa 8 giri. La fuoriclasse delle Fiamme Azzurre ha preceduto nella classifica finale le argentine Lucia Kindebaluc e Valentina Escobar, rispettivamente argento e bronzo, con un distacco di ben 40 punti dalla medaglia d’argento di giornata.

ittorio Bissaro e Silvia Sicouri, i due alfieri delle Fiamme Azzurre nella vela - classe Olimpica Nacra 17 - dopo il titolo italiano della stagione in corso e la vittoria in Coppa del Mondo a Miami, si sono aggiudicati la medaglia di bronzo agli Europei di categoria che si sono svolti a Barcellona dal 26 settembre al 3 ottobre. In una gara fortemente condizionata dal meteo, Bissaro e Sicouri si sono classificati terzi in categoria e quarti assoluti in rimonta: dopo le prime quattro regate fuori dai primi dieci, sono arrivati piazzamenti importanti culminati col successo nella sesta regata, il secondo nella settima, ed

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lo sport altri piazzamenti fino al quarto posto nella Medal Race nel pomeriggio di sabato 3 ottobre. I due portacolori della Polizia Penitenziaria, “ingegneri volanti” brillantemente laureati alla Bocconi di Milano, hanno concluso complessivamente al quarto posto della classifica assoluta dietro ai nuovi campioni continentali, i britannici Ben Saxton e Nicola Groves, agli australiani Darren Bundock e Nina Curtis ed ai danesi, medaglia d’argento per gli Europei, Allan Norregaard ed Annette Viborg. Grande soddisfazione per il risultato è stata espressa da parte del tecnico federale della classe Nacra 17 Gabriele Bruni. Il bronzo di Bissaro-Sicouri indica chiaramente che il movimento velistico azzurro è in crescita ed i due campioni, reclutati dalla Polizia Penitenziaria nella classe olimpica, dimostrano di essere in buona forma e sulla buona strada in vista della preparazione ai giochi di Rio 2016. Queste le dichiarazioni di Vittorio Bissaro a commento del bronzo conquistato in coppia con Silvia Sicouri: «Siamo molto soddisfatti dell’esito di questo Europeo, perché se l’inizio non è stato dei migliori, da metà campionato in poi abbiamo iniziato a divertirci e a fare le cose giuste. Credo che la cosa più bella sia stata il modo in cui abbiamo ribaltato questo inizio difficile e la tanta voglia che avevamo di arrivare alla fine con un risultato importante. Siamo contenti, perché rappresenta anche una spinta per continuare a lavorare duro e crescere». BARCELLONA (26 settembre/3 ottobre) Campionati Europeo - Nacra 17 M/F: (1) Saxton-Groves GBR 64, (-) Bundock-Curtis AUS 68, (2) Norregaard-Viborg DEN 71, (3) VITTORIO BISSARO-SILVIA SICOURI 81 (13-13-/18/-12-7-1-2-96-10-8*), (4) Zajac-Frank AUT 85, (5) Echavarri-Pacheco ESP 95, (6) Cenholt-Lubeck DEN 102, seguono altri 36 equipaggi. H

17 Nella foto: Stefano Pressello sul podio

Stefano Pressello è di bronzo al Campionato mondiale di Judo Veterani

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opo l’ottimo quinto posto ai Campionati Europei di Judo, per l’atleta master ed Assistente Capo della Polizia Penitenziaria Stefano Pressello della A.s.d. Mushin Club di Fiumicino, nella stagione 2015 è arrivata anche la sua seconda medaglia più prestigiosa dell’anno, il Bronzo al Campionato del Mondo di Amsterdam. Nella rassegna iridata che ha contato ben oltre le mille presenze di partecipanti dei diversi paesi del mondo, con tanto di presenza del pluricampione Olimpico olandese Mark Huizinga nella kg 90, Stefano Pressello negli m4 90 kg ha dato vita ad una prova molto positiva. Grazie alla preparazione fisica estiva, ha potuto preparare al meglio l’appuntamento al PalaSporthalen Zuid di Amsterdam dal 21 al 24 settembre, che sanciva tra l’altro la sua decima gara di livello mondiale disputata in carriera. Nel primo incontro Stefano Pressello ha vinto grazie a due shido a favore l’ostico belga Philippe De Neubourg, nel secondo ha superato il turno con un bellissimo Ippon di Seoi nage ai danni dell’inglese Kelly Ilain, poi una battuta d’arresto con l’argentino Diego Rebello lo ha costretto a giocarsi il tutto per tutto nei recuperi per il bronzo. Senza però perdersi d’animo Stefano Pressello ha ritrovato le energie giuste, superando infine il

tedesco Robert Endras, e conquistando un preziosissimo Bronzo al Wolrd Championships Veterans 2015, per la gioia sua personale e per l’orgoglio del settore judoistico italiano nel mondo. A fine agosto Pressello aveva conquistato due medaglie (oro di categoria ed argento open) al São Paulo International Open IBJJF, gara internazionale di Brazilian Jiu-Jitsu di altissimo profilo tecnico. Il medagliere Master di Stefano Pressello: • ARGENTO Campionati Europei master della eju (FIJLKAM) Coni (Londra 2005); • ARGENTO Campionati Europei master della eju (FIJLKAM) Coni (Germania 2007); • BRONZO Campionati del Mondo Master della JIF (FIJLKAM) Coni (Budapest 2010); • ORO European Game Master a Squadre (Lignano Sabbiadoro) (2011) - (Olimpiadi dei Master) Italy • ARGENTO European Game Master individuale (Lignano Sabbiadoro) 2011 - (Olimpiadi dei Master) Italy; • BRONZO kg 90 per il settore JUDO ai World Games Master Torino 2013 (Olimpiadi dei Master) Italy; • BRONZO Campionati Europei a Squadre (Parigi 2013); • BRONZO KG 90 Campionati Europei Master 2014 (Praga); • BRONZO A squadre Campionati Europei Master 2014 (Praga); • 5° Classificato ai campionati Europei Polizia Penitenziaria Balatonfured (Ungheria) 2015; • BRONZO 3° classificato ai Campionati deln.232 mondo ottobre di judo (Amsterdam) 2015. H 2015


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Giovanni Passaro Segretario Provinciale Sappe passaro@sappe.it

Polizia Penitenziaria n.232 ottobre 2015

diritto e diritti

Il diritto all’autodeterminazione sanitaria del detenuto al secondo comma dell’art. 32 della Costituzione discende un principio fondamentale nella sfera dei trattamenti sanitari, secondo cui gli stessi non possono prescindere dal consenso del soggetto che ne è destinatario, affermando così, il principio all’autodeterminazione del soggetto in merito alla propria salute e integrità fisica. Tale sfera di autodeterminazione ha una duplice dimensione, una passiva e una attiva.

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costituzionale, non riguarda il pericolo di vita o il grave danno che deriverebbe alla persona non sottoponendosi al trattamento sanitario, bensì l’eventualità che la malattia del singolo possa pregiudicare lo stesso diritto alla salute degli altri consociati. Conforme a tale interpretazione, la Corte costituzionale ha precisato che “la tutela della salute non si esaurisce in situazioni attive di pretesa, giacché implica e

Sotto il primo profilo si configura il cd. diritto a rifiutare i trattamenti sanitari, anche qualora sia a vantaggio del soggetto, e sotto il secondo aspetto è configurabile il diritto a scegliere liberamente il proprio medico, nonché, il tipo di cura e il luogo in cui la stessa deve svolgersi. All’interno del diritto al non sottoporsi ad alcun trattamento sanitario, deve però essere messo in risalto un limite che s’incontra nella stessa Costituzione, nella parte in cui sancisce “il non essere obbligati [...] se non per disposizione di legge”. Questa disposizione va letta e interpretata considerando che, il limite posto alla sfera dell’autodeterminazione, sebbene tutelato dalla stessa disposizione

comprende il dovere dell’individuo di non ledere, né porre a rischio, con il proprio comportamento la salute altrui” (1). E ciò in ossequio al principio generale secondo cui il diritto di ognuno trova un proprio limite nel reciproco riconoscimento e tutela del diritto degli altri. Tra i trattamenti sanitari obbligatori, vi rientra sicuramente l’incapacità del soggetto interessato a un normale uso delle facoltà cognitive come conseguenza della malattia. Quel che la Corte costituzionale però richiede, è che qualsiasi trattamento sanitario obbligatorio, sia svolto nel rispetto assoluto della dignità della persona (2). Ai fini della trattazione in esame, è

opportuno verificare se, e in che modo, l’autodeterminazione del detenuto è riconosciuta nell’ordinamento penitenziario. All’interno del diritto a non subire trattamenti sanitari contrari alla propria volontà, l’amministrazione penitenziaria limita tale diritto nel momento in cui prescrive la visita medica, all’atto dell’ingresso e nel corso della permanenza nell’istituto, indipendentemente dalla richiesta dell’interessato. E’ evidente come tale limitazione non sia in contrasto con quanto finora detto, risultando del tutto conforme al disposto dell’art.32 Cost., in quanto ciò che sembra primeggiare è la tutela degli altri detenuti. Ed è sulla base di ciò che devono essere interpretate norme, quali l’art.11 comma 7, Ord. Pen, che stabilisce che “i detenuti e gli internati sospetti o riconosciuti affetti da malattie contagiose sono immediatamente isolati”. Stessa conclusione attiene alla norma che prescrive l’accertamento di malattie psichiche, proprio in relazione al rischio che ne deriverebbe da comportamenti aggressivi dell’infermo (Art. 11, comma 7, Ord. Pen.); o ancora all’art. 83 comma 2 del Reg. Esec. nella parte in cui prevede che “Il detenuto o l’internato, prima di essere trasferito [...] è visitato dal medico”, sebbene in tal caso risulti essere dubbia la legittimità di fondo di una simile prescrizione, sia per la sua dimensione individualistica, sia per il mancato rispetto della riserva di legge sancito in materia dall’art. 32. Esaminando la dimensione negativa della sfera dell’autodeterminazione non si può non trattare di un particolare problema che domina molto spesso le carceri italiane quale,


19 quello dello sciopero della fame. Si suole definirlo come il rifiuto volontario, totale, dell’assunzione di cibo, senza giustificato motivo medico, che duri per più di tre giorni (3). Ove il detenuto non interrompa spontaneamente lo sciopero, per evitarne il decesso, è evidente che il solo rimedio sarebbe quello del ricorso all’alimentazione coatta ma, così facendo, si ricorrerebbe a un trattamento sanitario obbligatorio sia, per le tecniche da adottare sia per la finalità del trattamento, che presumibilmente sarebbe quello di mantenere in vita il detenuto. Ma il problema che in tale materia si è posto, è proprio quello della legittimità dell’alimentazione forzata, richiedendo ai sensi dell’art.32 Cost. un’apposita previsione legislativa che consenta la limitazione del diritto.

Questo è il problema, la mancanza di una norma che autorizzi il personale ad attivarsi e che si traduce con l’orientamento in dottrina dominante quale il negare la legittimità all’alimentazione forzata. L’unica eccezione che da alcuni è stata avanzata, risiede nella legittimità d’intervento nell’ipotesi d’incapacità di intendere e volere del detenuto. In una prospettiva simile, si configurerebbe non una facoltà, bensì un dovere d’intervento da parte delle autorità sanitarie, sempre qualora sia accertata la mancanza di una scelta libera e consapevole del detenuto (4). In conclusione sembra che proprio la mancanza di una previsione normativa in materia sia la garanzia

del rispetto del diritto a non farsi curare riconosciuto al detenuto, come massima espressione della sua sfera di autodeterminazione, ma vi è un aspetto che la dottrina, nell’avanzare tale tesi non ha valutato, e risiede nel fatto che, la scelta di lasciarsi morire in carcere per fame è libera soltanto in apparenza, essendo, il comportamento del soggetto, influenzato dallo stato detentivo che certamente può portare a distorcere a livello essenziale la percezione della realtà (5). Resta da trattare la seconda dimensione dell’autodeterminazione, quella attiva, che si manifesta con la libertà di scegliere il proprio medico, la tipologia del trattamento e il luogo in cui svolgere la stessa. L’Ordinamento Penitenziario accoglie questo diritto, ma dovendo contemperare le modalità d’esercizio dello stesso con le basilari esigenze organizzative e finanziarie, lo circoscrive attorno a limiti significativi. Dal combinato disposto dell’art. 11 comma 11 Ord. Pen. e dell’art. 17 Reg. Esec. discende che i detenuti e gli internati hanno il diritto di richiedere di essere visitati da un sanitario di loro fiducia, purché lo facciano a proprie spese e all’interno dell’istituto. E’ bene precisare che il provvedimento di autorizzazione o diniego dell’intervento sanitario ai sensi dell’art. 11 comma 11 Ord. Pen., è emesso dal direttore dell’istituto. H Note (1) Corte costituzionale, sentenza del 1994, n.218. (2) Corte Costituzionale, sentenza del 1994, n.218. cit. (3) M.RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, cit. pag. 157. (4) In tal senso V., A. PENNISI, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, cit. pag. 100. (5). M. CANEPA-S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, cit., pag.145.

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Polizia Penitenziaria n.232 ottobre 2015


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dalle segreterie Roma Conferenza stampa il 15 ottobre a Roma

on una conferenza stampa è stata presentata a Roma la Manifestazione di protesta dei poliziotti italiani che si è poi tenuta in Piazza Montecitorio a Roma.

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Insieme ai leader dei sindacati promotori della manifestazione era presente per il Sappe il dott. Donato Capece che ha illustrato i motivi delle richieste presentate al Governo. H

rivista@sappe.it

Nelle foto: l’intervento del Segretario Generale del Sappe Donato Capece e la Sala dove si è tenuta la conferenza stampa (foto di Vincenzo Coraggio)

Nella foto: la protesta degli Agenti davanti al Sant’Anna di Modena

Polizia Penitenziaria n.232 ottobre 2015

Modena Celle aperte in carcere? Un problema di sicurezza Soluzione provvisoria che nel frattempo sembra essere diventata permanente, e da un anno a questa parte è diventata anche un enorme problema.

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alla sentenza Torreggiani, che due anni fa impose all’Italia pesanti sanzioni per le condizioni di vita dei carcerati, anche alla Casa Circondariale di Modena Sant’Anna le cose sono cambiate radicalmente. I nove metri quadrati garantiti per legge ai detenuti, semplicemente, non ci sono, e per reperirli la direzione della struttura ha messo in atto una soluzione provvisoria: celle aperte tutto il giorno, con libertà per i reclusi di circolare nel corridoio. Soluzione provvisoria che nel frattempo sembra essere diventata permanente, e da un

anno a questa parte è diventata anche un enorme problema. Due mesi fa un detenuto nigeriano ha dato in escandescenza mandando all’ospedale quattro agenti; sanzionato a livello disciplinare, l’uomo è ancora lì assieme al problema che rappresenta. Il mese scorso storia simile, con tre poliziotti feriti. Sono più di venti, dall’inizio dell’anno. Sembra davvero necessario l’avvicendamento dei vertici: la direttrice Rosalba Casella e il comandante Mauro Pellegrino, assieme a un’ispezione urgente da parte del Ministero per verificare l’inadeguatezza della situazione. Al Sant’Anna mancano sistemi di videosorveglianza e cicalini per segnalare ai colleghi le aggressioni, gli strumenti minimi per consentire l’apertura diurna delle celle; non c’è il magistrato autorizzato a disporre le misure alternative; il nervosismo cresce e con esso le violenze, gli atti di autolesionismo, gli scioperi della fame. E il paradosso è che con appena 350 detenuti il carcere non è quasi mai stato così vuoto. Il sindacato vorrebbe che i vertici del Sant’Anna prendessero le parti dei lavoratori, richiudendo le celle e costringendo lo Stato a intervenire, ma per ora le posizioni restano lontane. H


dalle segreterie Avellino

Genova

Festa per la pensione di Carmelina Bevilacqua

Meritata pensione per Gioacchino Fiorenza

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rivista@sappe.it

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uguri a Carmelina Bevilacqua, Sovrintendente della Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale di Avellino che attorniata dalle sue colleghe ha festeggiato il suo primo giorno da pensionata. A lei vanno i buoni auspici della Segreteria Generale del Sappe. H

N Benevento Pensionamento del Sostituto Commissario Nicola Soreca

nome del Sappe e di tutta l'Associazione dei pensionati ringrazio Nicola per la bellissima serata trascorsa insieme. Nella foto, Nicola con solini e bustina dell'Anppe, posa con la delegazione ANPPE. Grazie Nicola. H Giuseppe Cimino

A

egli Uffici Giudiziari di Genova non c’era persona magistrato, avvocato, cancelliere, impiegato, fotografo, giornalista appartenente alle Forze di Polizia... insomma, chiunque avesse a che fare, per lavoro, con il Palazzo di Giustizia genovese - che non lo conoscesse. Per tutti era “lo Zio”. Gioacchino Fiorenza, Sovrintendente Capo della Polizia Penitenziaria di Marassi, iscritto storico del SAPPE ed ora socio dell’ANPPE, è stato per più di 15 anni il responsabile delle celle di sicurezza interne al Palazzo di Giustizia di Genova e proprio in virtù del suo incarico, per la sua impeccabile professionalità ma anche per la simpatia e disponibilità, “lo Zio” è stato un punto di riferimento per tanti, colleghi e non. Ed è stato anche un ottimo “uomo immagine” per la Polizia Penitenziaria. E’ grazie a lui se tanti uffici del Palazzo di Giustizia esponevano, in bella vista, il calendario del nostro Corpo, che lui si premurava di consegnare personalmente. Per Gioacchino è arrivato ora il momento del meritato riposo, il momento della pensione. A lui va il nostro affettuoso saluto e il ringraziamento per quanto ha fatto in tanti anni di apprezzato e lodevole servizio. H

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cinema dietro le sbarre

La gang di Gridiron a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

Polizia Penitenziaria n.232 ottobre 2015

a gang di Gridiron (Gridiron Gang) è un film del 2006 diretto da Phil Joanou. Per gridiron si intende la griglia, cioè le righe che compongono il campo di football. Il film è ispirato a fatti realmente accaduti nel riformatorio di Camp Kilpatrick dove nacque la squadra di football dei Kilpatrick Mustangs. Dwayne Johnson interpreta il protagonista della storia, Sean Porter, un assistente sociale che lavora in un riformatorio di San Francisco pieno di ragazzi colpevoli di reati molto gravi, come rapina a mano armata ed omicidio, perlopiù membri di gang metropolitane. Stanco di vedere la maggior parte di questi ragazzi finire morti ammazzati appena usciti di galera, Sean convince il direttore dell’istituto a creare una squadra di football che possa giocare il campionato giovanile. All’inizio, nonostante tutti gli sforzi dell’assistente sociale per far gareggiare la squadra, i primi incontri sono molto deludenti ed i risultati

la scheda del film Regia: Phil Joanou Titolo originale: Gridiron Gang Soggetto: Jac Flanders, Jeff Maguire Sceneggiatura: Jeff Maguire Fotografia: Jeff Cutter Montaggio: Joel Negron Scenografia: Floyd Albe Musica: Trevor Rabin Costumi: Sanja Milkovic Hays Arredamento: Erin Morache

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Produzione: Columbia Pictures Industries, Original Film, Visual Arts Entertainment Inc., Stanhaven Productions Inc., Relativity Media Distribuzione: Warner Bros. Italia altrettanto negativi. Dopo una pesante sconfitta, però, i giovani atleti cominciano a lavorare come una vera squadra e crescono nel rendimento fino ad arrivare ai playoff. Purtroppo, però, l’accesso ai play-off viene messo a repentaglio da un tentativo di omicidio di un membro della squadra. Tuttavia, Sean, grazie all’aiuto di volontari della polizia, riesce ugualmente a far giocare la semifinale dei play-off proprio contro la squadra con la quale i ragazzi avevano perso malamente la prima partita. Dopo un match storico, la squadra riesce a vincere la semifinale, perdendo poi, però, la successiva gara conclusiva. Ciò nonostante, la cosa più importante è che i ragazzi sono diventati dei vincenti. La pellicola fa parte del filone sport e redenzione, molto popolare negli Stati Uniti grazie all’hockey, al baseball, al basket e al football americano. Nel finale del film, Sean racconta la vita di tutti i giocatori della squadra dopo essere usciti dal

Personaggi ed Interpreti: Sean Porter: Dwayne Johnson Malcolm Moore: Xzibit Bobbi Porter: L. Scott Caldwell Paul Higa: Leon Rippy Ted Dexter: Kevin Dunn Willie Weathers: Jade Yorker Kelvin Owens: David Thomas Junior Palaita: Setu Taase Leon Hayes: Mo Donald Madlock: James Earl Kenny Bates: Trever O'Brien Bug Wendal: Brandon Mychal Smith Danyelle Rollins: Jurnee Smollett Roger Weathers: Michael J. Pagan Jamal Evans: Jamal Mixon Genere: Drammatico, Sportivo Durata: 120 minuti, USA, 2006 carcere. La maggior parte va a scuola, tre lavorano a tempo pieno, due giocano a football in un college e solo cinque sono rientrati nelle rispettive bande, due dei quali finiranno per tornare in prigione e uno verrà ucciso in una sparatoria. Tutto sommato la pellicola di Phil Joanou è un bell’esempio di questo genere cinematografico e gli attori, per lo più sconosciuti, rivelano un certo talento. La regia è molto attenta ai dettagli e capace di offrire sequenze epiche e memorabili. La morale è scontata ma viene proposta con modalità meno banali del solito senza scadere nello stereotipo, tra lacrime, spari, sudore, e scontri di gioco. H


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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Nella foto: una valigia simile a quella contenente i resti sezionati delle vittime di CesareServiatti

Polizia Penitenziaria n.232 ottobre 2015

crimini e criminali

Cesare Serviatti: il sezionatore delle Cameriere el sito della Polizia di Stato, nella sezione Internet, tra i tanti consigli dispensati per i naviganti, si parla del rischio delle chat-line che oggigiorno influenzano il modo di incontrarsi e di interagire delle persone. Sempre più utenti di internet – riporta ancora la pagina - si conoscono sulla rete e alcune di queste conoscenze si trasferiscono nel mondo reale con incontri “dal vivo”, a volte con soddisfazione (si moltiplicano i matrimoni tra persone conosciute in chat), a volte con profonde delusioni, altre volte con situazioni pericolose.

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Il riferimento alle situazioni pericolose è senza dubbio attribuito ai casi di violenza sessuale e di sangue che, in alcuni casi, sono stati il triste epilogo degli incontri, ma che per fortuna rimangono circoscritti a percentuali marginali rispetto alle migliaia di interazioni che la rete “procaccia” (chat, facebook etc.). Quello di stringere nuove relazioni con sconosciuti “dal vivo” è un fenomeno preesistente alle chat, che prima dell’avvento della rete veniva soddisfatto mediante apposite rubriche d’incontri presenti sui quotidiani o sui settimanali nazionali, alcuni dei quali specializzati a tale scopo. Io stesso, nel periodo

adolescenziale, rispondevo agli annunci delle mie coetanee sulla rivista settimanale “Ciao 2001”, che rappresentava, a quel tempo, uno dei principali strumenti di aggregazione per gli appassionati di musica, e che ci permetteva, appunto, d’incontrarci ai numerosi raduni e concerti musicali. Utilizzando le chat e gli altri mezzi per conoscersi e incontrarsi, gli uomini hanno provato a trovare una soluzione agli eterni problemi della solitudine e dell’incomunicabilità, cercando nel fenomeno degli incontri “al buio” nuove relazioni sociali che, paradossalmente, mostrano una maggiore autenticità rispetto alla vita reale, in quanto si ha meno pudore, meno inibizione, si è più se stessi, e soprattutto quello che si vorrebbe essere. Oggi, le motivazioni che spingono a cercare “lui o lei”, tramite annunci, possono essere le più disparate: per bisogno, per “passatempo”, per scappare dalla routine o per cercare l’anima gemella, ma ad inizio secolo era del tutto comune trovare, soprattutto sui quotidiani nazionali, annunci matrimoniali. Il 14 dicembre del 1932, uno di questi annunci, riportato da Il Messaggero, recitava: “pensionato 450 lire mensile conoscerebbe scopo matrimonio signorina con mezzi liberi e indipendente”. Uno dei tanti dell’epoca, se non fosse che dietro tale annuncio si nascondeva un adescatore e assassino seriale, che con tale stratagemma massacrò diverse donne, delle quali furono ritrovati solo tre corpi. La mattina del 16 novembre 1932, alla stazione di Napoli, arriva il direttissimo n. 7. In una vettura di seconda classe giacciono due grosse e pesanti valigie abbandonate.

Le valige, di colore marrone, sono trasportate dai militari, che le avevano rinvenute a bordo del treno, nell’ufficio oggetti smarriti della stazione. Mentre uno degli addetti all’ufficio provvede a collocarle sugli appositi scaffali del deposito, la serratura di una di queste scatta, aprendo la valigia e svelandone il terribile contenuto: avvolti in giornali e cosparsi di segatura vi erano il tronco di un cadavere e la testa, interamente staccata dal busto; anche l’altra valigia, aperta subito dopo, ha lo stesso macabro contenuto: gli arti inferiori, amputati per metà, di una donna. Peraltro, il volto si presenta sfigurato, con il naso rotto e un occhio cavato. I resti della donna sono trasportati all’obitorio cittadino, dove il medico legale cerca di assembrarne almeno le parti rinvenute. Il giorno seguente alla stazione di Roma, in una vettura di terza classe del diretto n.5, viene ritrovata un’altra valigia con pezzi dello stesso corpo. Gli investigatori, dopo aver ricomposto gli elementi in loro possesso e soprattutto acquisito utili testimonianze, in particolar modo quelle del capo-assistente della stazione di La Spezia e del controllore in servizio sul treno n. 7, giungono alla conclusione che la città spezzina costituisce il punto di partenza del macabro mistero. Nella predetta città, inoltre, un bambino aveva trovato, nei pressi della stazione ferroviaria, un coltello da cucina con la lama sporca di sangue. Le indagini vengono affidate alla questura di Roma, nella persona del commissario Musco, che già due anni prima, peraltro, si era occupato di un caso analogo: il 3 novembre 1930 era stato ripescato in località Santa Marinella, lungo il litorale romano, il corpo di una donna decapitata, tale Bice Margarucci.


crimini e criminali La grande risonanza mediatica data dai giornali del tempo all’orripilante ritrovamento, invoglia Gino Goretti e Olga Melgradi a recarsi dagli inquirenti per denunciare la scomparsa di Paolina Gorietti, rispettivamente sorella e amica dei due. Dopo aver identificato, da quel che restava del cadavere, Paolina Gorietti, i due raccontano al commissario, in particolar modo l’amica, che la ragazza era cameriera al servizio di una famiglia romana e aveva risposto ad un annuncio matrimoniale su Il Messaggero, dove aveva conosciuto un sedicente ex maresciallo in pensione e mutilato di guerra, che l’aveva indotta a seguirlo a La Spezia, dove si sarebbero dovuti sposare. Il nome del promesso sposo è Cesare Serviatti, cinquantaduenne, nato e residente a Roma, che si spacciava per nobile, facendosi chiamare “Conte”, ma in realtà era individuo losco e, peraltro, pregiudicato: sulla sua fedina penale risultano alcune condanne per furti e rapine. La sera del 14 dicembre, i Reali Carabinieri rintracciano e arrestano il Serviatti nella sua abitazione nel quartiere Esquilino a Roma, mentre era a cena con Barberina Baldelli, sua moglie, e Angela Taborri, sua amante. I tre vivevano insieme e gli inquirenti, sorpresi dall’insolito ménage à trois, decidono di arrestare anche le due donne e di portarle nel carcere romano delle Mantellate. Serviatti invece viene rinchiuso a Regina Coeli, per poi essere trasferito a Sarzana e poi, durante il processo, a La Spezia. Torchiato dalla polizia, dopo estenuanti interrogatori, Serviatti confessa l’omicidio di Paolina Goretti. Nel frattempo la polizia appura che l’assassino, nell’estate del 1930, conobbe anche un’altra cameriera di Roma, Bice Margarucci, della quale nessuno aveva più avuto notizie dall’ottobre di quell’anno. Cesare Serviatti, confesserà anche questo secondo omicidio, nel corso di un interrogatorio lunghissimo e particolarissimo. Grazie alla stanchezza e conoscendo l’altra debolezza, oltre a quelle delle donne, del pluriomicida, il

commissario Errico organizzò un lauto banchetto in suo onore, dal primo al dolce. Al termine del pasto, il Serviatti raccontò, mentre fumava un sigaro, nei minimi dettagli l’uccisione della Margarucci: avvicinata dall’uomo tramite un annuncio matrimoniale su un giornale, Beatrice, anch’essa cameriera, era stata strangolata in una appartamento in via Ricasoli a Roma, nel mentre facevano l’amore. Il corpo era stato fatto a pezzi e gettato nel Tevere, dal ponte Garibaldi. Di quel corpo straziato si erano trovate soltanto due cosce, nel novembre del ’30, in diverse località del litorale romano, presso la foce del Tevere. Durante la confessione affermò, inoltre, di aver ucciso altre sette donne, senza però fornire alcun riscontro: il dubbio che possa aver commesso altri delitti prima dei cinquant’anni è più che legittimo ma non è stato mai provato. L’ultima vittima accertata di Serviatti, viene rinvenuta nel natale del 1932, quando la polizia riesuma dalle fognature un pezzo di mandibola e altre ossa di Pasqua Fababoschi in Bartolini, cameriera, anch’essa misteriosamente scomparsa. Fin qui i crimini sembrerebbero conformarsi attorno ad un progetto finalizzato esclusivamente al guadagno (tutte e tre le donne possedevano dei modesti risparmi), condotto con lucidità criminale e senza alcuna ricaduta sul piano pratico che, come è noto, costituisce l’incipit della maggioranza degli omicidi seriali. In realtà, osservando le accuse mosse al Serviatti, ci si rende conto che dietro la facciata dell’omicidio motivato da interessi materiali, vi era comunque un substrato che restituisce al perverso ed oscuro mondo dei crimini seriali. Il suo modus operandi, infatti, presenta alcune caratteristiche che mettono il guadagno economico su un piano secondario rispetto ad altri interessi legati a varie devianze sessuali. Dopo il contatto determinato dall’annuncio matrimoniale, il criminale riusciva a portare le vittime in casa propria e qui le strangolava durante i rapporti sessuali. Sopraggiunta la morte fisica della

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vittima, il Serviatti aveva altri rapporti con il cadavere che in seguito era dissezionato e fatto sparire. Per Serviatti, quindi, si potrebbe parlare di necrosadismo cioè la mutilazione e lo scempio di cadaveri con cui si sono avuti rapporti sessuali (il DSM-III la definisce come investimento erotico in scene macabre, fino a giungere al congiungimento sessuale con cadaveri. Secondo la teoria del superamento del trauma, ogni comportamento perverso si riferisce a traumi e insicurezze infantili che hanno minato la struttura della personalità e trovano drammatizzazione nella perversione). La facilità con cui sezionava le sue vittime, con molta probabilità, deriva dalla pratica fatta nel corso delle sue precedenti esperienze lavorative, dapprima come infermiere presso il Policlinico dove, con molta probabilità, apprese nozioni di anatomia, ed in seguito come macellaio.

Nel giugno del 1933, innanzi alla Corte di Assise di La Spezia, si apre il processo a Serviatti che è difeso da due principi del foro del tempo, l’avvocato Bruno Cassinelli, del foro di Roma, e l’avvocato Eraldo Bellincioni, del foro di La Spezia. La pubblica accusa, nel corso della requisitoria, lo definì un delinquente eccezionale e ne chiese la condanna all’ergastolo per gli omicidi di Pasqua Bartolini e Beatrice Margarucci e alla pena di morte per l’omicidio, il vilipendio e l’occultamento del cadavere di Paolina Gorietti. La tesi dell’infermità mentale, sostenuta dal collegio difensivo, di «soggetto demente per monoteismo

Nella foto: il coltello utilizzato da Cesre Serviatti

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sessuale con manifestazioni sadiche generate da grave affezione piemitica sofferta da processo tubercolare e dalle lue allo stato quaternario» furono rigettate; come del resto l’incidenza del quadro particolarmente infelice della sua fanciullezza: privo di genitori, fu allevato da una famiglia contadina. «Maledetti tutti coloro che mi hanno condannato, quelli che si sono immischiati nei fatti miei...» esternò platealmente l’imputato verso la fine del processo, quando comprese che la sua vita era oramai giunta al capolinea. Il 7 luglio del 1933, i giudici, dopo 5 ore di camera di consiglio sentenziarono: «In nome di Sua Maestà il Re d’Italia questa Corte, riconosciuta la piena responsabilità di Cesare Serviatti, lo condanna alla pena dell’ergastolo per l’omicidio nella persona di Pasqua Bartolini, alla pena dell’ergastolo per l’omicidio nella persona di Bice Margarucci e alla pena di morte, mediante fucilazione per l’omicidio di Paola Gorietti, consumato dopo la riforma del codice di procedura penale». La notte del 13 ottobre, il direttore del carcere di Sarzana si reca nella cella del Serviatti per informarlo che la sua domanda di grazia era stata respinta: non gli resta che esprimere il suo ultimo desiderio. Dopo poco, alle 6,24, il Serviatti è giustiziato dalla scarica di moschetti del plotone di esecuzione (un reparto speciale della polizia) nel poligono di Chiara Vecchia, a Sarzana. «Giustizia è fatta! » È il titolo riportato in prima pagina da Il Messaggero, il giorno seguente all’esecuzione. Le storie, seppur con atrocità diverse, sembrano ripetersi e, come spesso racconto in questa rubrica, le radici della violenza affondano nel nostro passato, recente e remoto, sempre a ricordarci che gli uomini non cambiano mai. Cambiano, semmai, le modalità di questo o quel delitto ma non cambiano le motivazioni che stanno alla base di ogni azione criminale. Alla prossima... H

I titoli di studio, dell’Università Telematica PEGASO, oltre ad accrescere la cultura personale, sono spendibili per la partecipazione a concorsi riservati a laureati (esempio commissario penitenziario).

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SSD

CFU

1 Principi costituzionali

IUS/08

9

2 Istituzioni di diritto romano

IUS/18

12

3 Istituzioni di diritto privato

IUS/01

18

4 Storia del diritto medievale e moderno

IUS/19

9

5 Teoria generale del diritto e dell’interpretazione

IUS/20

Totale

6 54

Costi e pagamenti in convenzione Class Form: Forze dell’ordine: 1.200 euro anziché euro 1.800 rateizzabili in 3 comode rate Sedi d’esame: Napoli, Torino, Roma, Palermo, Trani, Bologna, Milano, Assisi, Messina, Ariano Irpino, Acireale, Agrigento, Cagliari, Caltanissetta, Campobello di Mazara (TP), Catania, Cosenza, Firenze, Latina, Macerata, Reggio Calabria, Siracusa, Venezia, Vibo Valentia, Vittoria (RG).

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il libro del mese

Diritti, resistenze, contraddizioni ed opportunità per la restituzione della dignità ai detenuti Pietro Buffa

UMANIZZARE IL CARCERE LAURUS ROBUFFO Edizioni pagg. 246 - euro 22,00 ella ricorrenza del quarantennale dell’ordinamento penitenziario, varato con la Legge 26 luglio 1975, n. 354, Pietro Buffa fa un approfondito bilancio della sua lunga esperienza professionale di direttore di carcere, di dirigente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e, oggi, di Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Ma non è, questo, un libro di memorie personali: è invece una lucida e organica analisi dell’esecuzione della pena in carcere oggi in Italia, che non tralascia critiche e proposte. E’ un trattato penitenziario su quel che è e che potrebbe essere, verrebbe da dire, atteso che davvero molti sono gli spunti che l’Autore suggerisce per ‘correggere’, normativamente e strutturalmente, il sistema e, quindi, favorire una compiuta umanizzazione della pena. Prefato dal capo DAP Santi Consolo e introdotto dal magistrato già alla guida del Dipartimento Giovanni Tamburino, l’interessante libro di Buffa non si sottrae, come detto, dall’evidenziare talune incongruenze e contraddizioni rispetto al percorso di miglioramento delle condizioni detentive nelle carceri italiane. Scrivendo della nota sentenza Torreggiani della CEDU, evidenzia ad esempio come sia “duro constatare che è solamente alla luce di questa, e solo di questa, che si sta tentando di umanizzare la pena detentiva” e

N

si addentra in una approfondita disamina della ‘questione penitenziaria’ esaminandone i vari nodi teorici, giuridici e pratici e le considerazioni di autorevoli esperti della materia senza tralasciare gli indirizzi politici. Buffa sottolinea, in più passaggi del suo libro, come una reale dignità penitenziaria passi inevitabilmente attraverso il rispetto e la tutela dei diritti che l’istituzione deve garantire ai detenuti. Quasi non ne avessero a sufficienza, verrebbe da commentare... E anche sul concetto di vigilanza dinamica, che pure l’Autore illustra compiutamente, vanno ribadite le nostre perplessità: al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Interessante, infine, la riflessione secondo cui un approccio diverso ai

temi penitenziari non possa prescindere da una altrettanto importante opera di aggiornamento professionale dei soggetti coinvolti nel complesso sistema dell’esecuzione della pena. Si parla tanto, infatti, di formazione, ma quella che si propina da sessant’anni ai poliziotti penitenziari è vecchia e superata dai cambiamenti socioculturali intervenuto nella popolazione detenuta e nella criminalità. Non tiene conto che la Polizia Penitenziaria è un Corpo di Polizia dello Stato, insomma, la realtà è che da anni i nostri poliziotti non fanno nessun tipo di aggiornamento professionale e di formazione... Con questo libro, dunque, Pietro Buffa ha il pregio di evidenziare quarant’anni di luce e ombre della ‘questione penitenziaria’ sulla scorta di una solida esperienza professionale ‘sul campo’. Ed è per questo meritevole di lettura. H

27 a cura di Roberto Martinelli martinelli@sappe.it

Nella foto: Pietro Buffa in alto, la copertina del suo libro

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28 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Sopra la copertina del numero di gennaio 1995

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come scrivevamo

P

iù di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

Alle origini del manicomio criminale di Assunta Borzacchiello

I

manicomi criminali nacquero per rispondere all’esigenza di separare i pazzi criminali dai detenuti comuni, in quanto i primi rappresentavano un elemento di pericolo e disordine per l’ordine e la sicurezza delle carceri. Un primo esempio di manicomio criminale si ebbe nel 1850 a Dundrem in Irlanda, un secondo nel 1858 a Perth in Scozia ed un terzo nel 1863 a Broadmoor in Inghilterra. Ma già prima che i pazzi delinquenti venissero custoditi in appositi istituti, in Inghilterra era stato posto il problema della punibilità di individui dichiarati folli. L’lnsane offender’s Bill del 28 luglio 1800 fu l’atto formale con il quale il Parlamento inglese riconobbe legalmente la “follia delinquente”, a seguito di tre episodi delittuosi messi in atto da altrettanti individui, riconosciuti insani di mente. Gli episodi vennero ricordati da David Nicolson in uno scritto del 1877 e sono i seguenti: nel 1786 tale Margaret Nilson tentò di assassinare il re Giorgio III, dichiarata folle fu destinata a una cella nell’asilo di Bethlem. Il secondo episodio si verificò quattro anni dopo, nel 1790, quando John Fritz, pazzo conclamato, scagliò una pietra contro il re che passeggiava in carrozza, rinchiuso in prigione per circa due anni l’attentatore fu liberato a condizione che fosse custodito e sorvegliato come malato di mente. Il terzo episodio ricordato dall’autore ebbe luogo nel 1800. Tale Hatfield sparò contro il re nel teatro di Drury Lane. Il dibattimento fu condotto da Lord Kenyon, convinto assertore della pazzia dell’uomo, convincendo il Jury ad emettere un verdetto di non colpevolezza.

Fu questo verdetto ad affermare per la prima volta il riconoscimento legale della follia delinquente, dei pericoli connessi e dei doveri sociali relativi al fenomeno. Il primo Asilo ad accogliere folli criminali fu l’Asilo di Bethlem che accolse 60 internati, seguirono poi altre sezioni per folli criminali all’interno dei tanti altri asili sparsi per il Paese. Negli Stati Uniti il primo manicomio criminale venne istituito ad Auburn nel 1855 e con legge del 12 maggio 1874 entrò in funzione quello di New York. In Canada nel 1877 con atto del 28 aprile del 1877 l’Asilo di Rochvood venne messo alle dipendenze delle carceri di Kingston. In Francia, dove tutti i folli, indistintamente, venivano mandati nel famigerato manicomio di Bicetre, nel 1876 venne istituita una apposita sezione per i pazzi criminali alle dipendenze delle carceri centrali di Gaillon, una revisione della legge fu votata l’11 marzo 1887. In Germania verso il 1870-75 apposite sezioni per folli criminali vennero istituite nelle Case centrali di Bruchsal, Halle e Amburgo. Per quanto riguarda l’Italia l’atto ufficiale di nascita del manicomio criminale ha una sua datazione ben precisa: il 14 aprile 1877, giorno in cui l’On. Righi rivolse interpellanza al Ministro di Grazia e Giustizia, Pasquale Stanislao Mancini, in merito all’esigenza di istituire anche nel nostro Paese i manicomi criminali, ma già l’anno prima, nel 1876, l’allora Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena Martino BeltraniScalia per sopperire al ritardo legislativo in materia di istituzione di


come scrivevamo manicomi per delinquenti folli, (sulla spinta delle teorie del delinquente nato di Lombroso e della distinzione operata da quest’ultimo tra delinquenti correggibili e incorreggibili), trasformò l’antica casa penale per invalidi di Aversa, situata nell’antico convento di S. Francesco, (ad Aversa aveva già sede il manicomio civile), in manicomio criminale intitolandola “Sezione per maniaci”, sperimentando così quegli “stabilimenti speciali per condannati incorreggibili”. La sezione accolse un primo nucleo di 19 pazzi criminali rappresentando l’antefatto di quelli che sarebbero stati i manicomi criminali. Stabilimenti che alla loro origine e per diverso tempo accolsero non già i prosciolti per infermità mentale che presentassero un grado di pericolosità sociale, ma soprattutto soggetti impazziti durante la detenzione o detenuti in attesa di perizia. Torniamo, quindi, alle vicende parlamentari che condussero alla istituzione ufficiale del manicomio criminale. A seguito della interpellanza dell’On. Righi, Agostino Depretis, capo della sinistra storica, presentò un apposito disegno di legge una prima volta il 15 marzo 1881 e una seconda volta il 21 aprile1884. Seguì un quinquennio di continue reiterazioni di tali disegni di legge e in vista dell’approvazione del Codice Zanardelli si pensò di rinviare in quella sede la soluzione del problema, infatti all’art. 46 si stabiliva che “il giudice, ove stimi pericolosa la liberazione dell’imputato prosciolto, ne ordina la consegna all’Autorità competente per i provvedimenti della Legge”. Lasciando, in questo modo, alla categoria dei medici impegnati nel settore la responsabilità di decidere sulle sorti degli alienati. Intanto cambiava anche la denominazione dei manicomi criminali i quali dopo il 1890, a un anno dell’entrata in vigore del codice Zanardelli, saranno denominati “manicomi giudiziari” (una ulteriore ridefinizione si avrà nel 1975, allorquando, a seguito della Riforma penitenziaria, saranno denominati Ospedali Psichiatrici Giudiziari).

29 Nella foto: una veduta dell’OPG di Aversa

Successivamente all’esperimento di Aversa, la Direzione Generale delle Carceri tentò altri esperimenti nel resto dell’Italia, nel 1876 istituì di propria iniziativa, in assenza di disposizioni di legge, un secondo manicomio criminale a Montelupo Fiorentino e nel 1897 un terzo nacque a Reggio Emilia. I nuovi istituti ebbero un assetto provvisorio nel Regolamento carcerario del 1890, agli artt. 469 e 490, il cui contenuto poteva così riassumersi: i manicomi criminali dovevano accogliere gli alienati criminali condannati, giudicabili e prosciolti; che il governo di costoro fosse affidato a medici alienisti col titolo di Direttori sanitari alla dipendenza del Direttore carcerario; che tutto il trattamento dei ricoverati fosse demandato a speciali Regolamenti interni. Con il Direttore Generale Doria i manicomi criminali furono affidati ai medici alienisti, i quali vennero incorporati nel ruolo dei Direttori carcerari. Nel 1930 il codice penale Rocco introdusse le misure di sicurezza stabilendo il cosiddetto sistema del doppio binario, tuttora vigente. AVERSA Fin dal 1813 Aversa ospitò il primo manicomio civile del Regno di Napoli per sopperire ai bisogni di tutte le

province del Regno, arrivando ad ospitare punte di 900 -1.300 ricoverati. Il manicomio civile nacque come emanazione della sezione per maniaci del grande ospedale degli Incurabili di Napoli e per lo difficoltà di collocare i folli respinti dagli ospedali comuni.

La costituzione di questo primo esempio di manicomio rappresenta il riconoscimento ufficiale della follia come malattia da curare accanto a patologie come la tisi, le cardiopatie, ecc... Ma se un primo discorso sulla follia iniziava ad essere affrontato, restava

Nel box: il sommario del numero di gennaio 1995

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come scrivevamo il grande problema dei criminali folli ai quali era ancora più difficile trovare una collocazione tanto più che i manicomi civili facevano a gara per respingerli. Nel 1877, come abbiamo ricordato in

MONTELUPO FIORENTINO Il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino venne istituito a dieci anni di distanza da quello sorto ad Aversa, nell’ex villa granducale Medicea, detta dell’Ambrogiano, sita a Montelupo

Il video terminalista rattiamo la definizione ed ergonomia del videoterminalista. In primis bisogna fare un po’ di chiarezza: il videoterminalista come da artt. 173177-179 del D.lgs 81/08 e successive integrazioni (106/09) è colui che sistematicamente o abitualmente utilizza il video terminale (uffici, colloqui, video conferenze, matricola ecc. ecc.) almeno venti ore settimanali, dedotte le interruzioni

T

Nel box: la vignetta del numero di gennaio 1995 sotto l’ingresso dell’OPG di Barcellona P. G.

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queste pagine, con Beltroni-Sacalia si sperimentò la prima sezione per folli criminali. L’edificio che ospitò il manicomio era un antico convento di Paolotti, circondato da abitazioni private, il quale aveva subito nel corso degli anni numerose modifiche, per la sua destinazione ai più svariati compiti carcerari. Nel 1907, per rendere più umane le condizioni di vita dei ricoverati, si pensò di demolire gli edifici che lo circondavano e di costruire nuovi padiglioni. Per i lavori di ampliamento e di rimodernamento furono utilizzati gli stessi ricoverati. Aversa ospitò anche la prima sezione per donne criminali prosciolte (“illustri” ospiti furono, tra gli anni Trenta e Quaranta Leonarda Cianciulli detta “la saponificatrice” e Rina Fort detta “la bestia di San Gregorio”). Un primo nucleo di 20 ricoverate venne ospitato nella casa succursale di S. Agostino, in seguito affluirono, oltre alle prosciolte, anche le giudicabili. In breve Aversa ebbe l’unica sezione femminile di manicomio criminale su tutto il territorio del Regno.

presso Firenze, già utilizzata come casa di pena per donne e istituto per minorenni corrigendi. REGGIO EMILIA Il terzo manicomio criminale del Regno d’Italia venne istituito a Reggio Emilia, in un antico convento adibito a casa di custodia e situato ai confini della città. Come era già avvenuto ad Aversa, vennero colà inviati, al posto degli invalidi ivi custoditi, i criminali folli che sostituirono totalmente i primi. BARCELLONA POZZO DI GOTTO Il manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto nacque a seguito della legge 15 marzo 1907, a breve distanza dalla linea ferroviaria che collegava Messina a Palermo. La sua costruzione iniziò nel 1908, ma a causa del terremoto che in quell’anno si verificò in Sicilia, i lavori subirono un rallentamento al fine di realizzare i lavori secondo criteri antisismici. H

ovvero 15 minuti ogni due ore sul pc. I 15 minuti non sono da considerarsi pausa caffè, ma cambio di mansione, esempio: alzarsi e fare fotocopie, rispondere al telefono, comunque allo scopo di distogliere l’attenzione dal monitor del pc. Tutti i lavoratori che effettuano 20 ore settimanali e oltre, sono sottoposti a sorveglianza sanitaria dal medico competente del lavoro come da art.176 del D.lgs 81/08. La visita del medico competente consiste in una visita preventiva, dove aprirà un libretto sanitario dove sono annotati i dati anagrafici e di mansione lavorativa, per poi proseguire con la visita specialistica convenzionata con l’amministrazione (visita oculistica). Dopo la visita specialistica, preso atto dei referti, il medico competente comunica al lavoratore se la sua


sicurezza sul lavoro mansione è idonea, parzialmente idonea o con prescrizioni al riguardo. Il tutto viene comunicato in forma privata e anonima al datore di lavoro, ma solo per quanto riguarda l’idoneità all’impiego. Per quanto riguarda gli arredi per le postazioni dei vdt, tutto è scritto in allegato nel supplemento della Gazzetta Ufficiale in merito al D.lgs 81/08 e successive integrazioni. Si parla di come deve essere una sedia ergonomica, del piano di lavoro, dello schermo del pc, della tastiera e della posizione da tenere, alla luce naturale e artificiale, all’angolazione rispetto alla finestra per evitare riflessi sullo schermo ecc. ecc. Per quanto riguarda i pc portatili, la normativa prevede che vi sia una tastiera esterna a quella in uso, per motivi di ergonomia dell’avambraccio. Oltre al punto luce sulla postazione che prevede almeno 300 lux è di vitale importante l’effetto climatico sul posto di lavoro. Essendo una tipologia lavorativa prettamente sedentaria, il lavoratore non deve avere sbalzi notevoli di temperatura, in altre parole non troppo freddo né troppo caldo. Anche in questo caso il tutto è previsto in base al tipo di lavoro rispettando la normativa vigente. Sebbene in un ambiente di lavoro ci siano più postazioni vdt ed è palese che a livello soggettivo uno ha più caldo o più freddo dell’altro e che va tenuto conto delle varie patologie (per esempio, età. obesità), bisogna valutare un giusto compromesso di temperatura tra i lavoratori sul posto di lavoro. Un altro aspetto da tenere in considerazione è la circolazione d’aria in ufficio e cioè aria forzata (climatizzatore) o aria naturale (finestre). Un’aria forzata superiore a quanto previsto dalla normativa comporta problemi di salute ai lavoratori. Un altro tabù da sfatare è che il pc porta cecità: studi fatti in merito dicono che può portare soltanto in alcuni casi stanchezza visiva, probabilmente legata a una cattiva postura. E’ stato costatato che la perdita della vista è dovuta in parte

all’età, al calo fisiologico o alla natura congenita del lavoratore, che aveva già patologie pregresse. Per quanto riguarda i problemi articolari musco-scheletrici, riguardanti l’avambraccio o le gambe, si deve rilevare che per quanto riguarda gli avambracci devono essere posti sul piano di lavoro, la sedia deve essere ergonomica dove si può alzare il pianale in altezza, deve poter essere regolata per la schiena (inclinazione) deve essere stabile (5 razze con ruote) e se il lavoratore o lavoratrice dovesse essere basso di statura, si deve porre sotto i piedi un pianale (appoggia piedi) come previsto dalla normativa vigente.

filtro a carbone che assorba i fumi del piombo cancerogeno. Inoltre l’idraulico ha un rischio biologico derivante da interventi di disostruzione degli scarichi otturati, dei lavabi, colonne di scarico e quant’altro. Come vedete i rischi sono notevoli e soltanto con una prevenzione accurata si possono quantomeno abbassare notevolmente i rischi del lavoratore. In conclusione l’idraulico ha bisogno dei DPI idonei alle sue mansioni: scarpe antinfortunistiche che abbiano la suola antiscivolo e antiperforazione, intersuola d’acciaio, come il puntale, per eventuali cadute di materiale ferroso sul piede.

31 a cura di Vater Pierozzi Dirigente Sappe Esperto di sicurezza sul lavoro rivista@sappe.it

Gli addetti alla manutenzione idraulica ra tratteremo di una categoria di lavoratori facente parte della M.O.F. (manutenzione ordinaria prefabbricato). Nello specifico si tratta del lavoratore idraulico. Questi deve obbligatoriamente ricevere da parte del datore di lavoro un’informazione sui rischi sul proprio posto di lavoro, art 37 del D.lgs 81/08 e successive integrazioni. Il lavoratore idraulico è sottoposto a sorveglianza sanitaria, dal medico competente del lavoro. in merito alla valutazione dei rischi sul posto di lavoro. L’idraulico, a differenza di altri lavoratori, ha in più la problematica del piombo. Ancora oggi, purtroppo, negli Istituti di vecchia costruzione, si trovano scarichi dei lavandini delle celle in piombo, anche se la tecnologia permetterebbe soluzioni come la plastica. Quindi nel frattempo che si possa eliminare il piombo in regresso, bisogna aumentare l’attenzione con i DPI (dispositivi di protezione individuale) come le mascherine monouso con

O

Mascherine filtranti che trattengono i fumi del piombo, guanti in crosta per assemblaggi di tubi di ferro, evitando che liquidi chimici, come grassi e oli vengano a contatto con la cute delle mani. Elmetti anti urto quando si lavora in prossimità di cantieri o locali tecnici, dove c’è la possibilità di urtare con la testa tubi sospesi. Queste protezioni sono regolamentate dalla Comunità Europea e quindi di conseguenza individuati dalla legislazione italiana con norme UNIEN. Vi rammento che il datore di lavoro in merito all’art. 15 del D.lgs 81/08 ha l’obbligo di tutelare l’integrità fisica, biologica e chimica del lavoratore. Sperando di avervi dato indicazioni utili per il vostro mandato, vi ringrazio per l’attenzione e vi rimando al prossimo numero.H

Nelle foto: sopra un idraulico al lavoroe nell’altra pagina un video terminalista davanti al PC

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32 a cura di Erremme rivista@sappe.it

le recensioni M. Albanese, G. Bulli, P. Castelli Gattinara, C. Froio

FASCISTI DI UN ALTRO MILLENNIO? Crisi e partecipazione in Casapound Italia BONANNO Edizioni pagg. 152 - euro 15,00

C

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ase occupate, sale concerti, “spazi non conformi”: luoghi dove far politica, volontariato e praticare il “fascismo sociale” all’insegna di un’ibridazione simbolica che vede coesistere Mussolini e Che Guevara, Ezra Pound e Rino Gaetano, Julius Evola e Corto Maltese. Luoghi anche di autoriconoscimento subculturale fatto di pub, letture selezionate, rock identitario, ma soprattutto opposizione a un’estrema destra partitica descritta come autoreferenziale e stantia. È così che si presenta CasaPound Italia all’interno e all’esterno del proprio universo sociale e valoriale. Attraverso un’inedita retorica del “Fascismo del Terzo Millennio”, CasaPound legge l’attuale crisi economica, politica e di partecipazione attraverso forme di attivismo deliberatamente alternative rispetto alla mobilitazione politica tradizionale della propria area. Categorie ideologiche ispirate al fascismo storico e rivitalizzate

attraverso un connubio di idea-azione a cui non è estraneo l’uso della violenza hanno permesso al gruppo di far breccia tra le generazioni dei più giovani e le categorie sociali più colpite dalla crisi economica. Questo volume analizza i percorsi di militanza, l’attivismo politico e le forme di mobilitazione di CasaPound Italia, ricostruendone le radici ideologiche e gli orizzonti valoriali, approfondendo il progetto identitario subculturale e discutendone le strategie politiche a livello nazionale ed europeo. Un lavoro attento nato da interviste, conversazioni, partecipazione a riti collettivi, manifestazioni politiche del gruppo, che costituisce un contributo alla comprensione della natura politica dei nuovi fenomeni di coinvolgimento al tempo della crisi.

È l’ultima sentenza capitale eseguita a Milano. Come in una cronaca giudiziaria, sulla base di documenti d’archivio, sono ricostruiti i fatti, il contesto, le accuse, la difesa, il processo e il verdetto. Dagli atti giudiziari emerge una pagina di storia che riporta alla luce il clima confuso e convulso che seguì la Liberazione: regolamenti di conti tra partigiani e fascisti, ma anche tra membri della Resistenza, processi sommari, giudici e funzionari pubblici voltagabbana, vittime in cerca di vendetta, carnefici in cerca di capri espiatori. La vicenda del capitano Folchi è fosca e avvincente, piena di personaggi che incarnano vizi e virtù nazionali degli italiani, eternamente sospesi tra eroismo e tirare a campare.

Vittorio Pignoloni Luca Fazzo

L’ULTIMO FUCILATO. Fascisti, partigiani, giudici e voltagabbana nell’Italia della Liberazione

I CAPPPELLANI MILITARI D’ITALIA NELLA GRANDE GUERRA SANPAOLO Edizioni pagg. 990 - euro 43,00

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Adesso è tardi per domandarmi se ero dalla parte giusta. Alla fine potevo scappare e non l’ho fatto. O avrei potuto passare dall’altra parte come il commissario che mi ha fatto arrestare. O il giudice che mi ha condannato. E Fiocchi che poi è venuto ad accusarmi al processo. Adesso sono diventati tutti antifascisti. Questo sono contento di non averlo fatto. Ero dalla parte sbagliata? Può darsi. Ma lo sarò fino alla fine.» Carcere di San Vittore, 7 febbraio 1946. Il capitano Giovanni Folchi, fascista della prima ora, ufficiale del Battaglione Azzurro della RSI, affronta il suo destino: condannato per collaborazionismo dalla Corte d’Assise straordinaria, viene fucilato al poligono della Cagnola.

ai primi mesi dell’anno e sino al 2018 l’Italia e tutti i paesi europei celebreranno i 100 anni del conflitto mondiale con momenti ufficiali e numerose iniziative. Ricordare dopo cento anni l’inizio di quella catastrofe è un dovere collettivo per scongiurare il rischio della dimenticanza, dell’oblio, dell’appiattimento su un presente privo di passato e, in questo percorso, l’analisi storica aiuta a non cadere in retoriche posizioni commemorative. Allo scoppio della Grande Guerra gli uomini di potere scelsero la guerra e non la pace, lo fecero senza obiezioni e ribellioni da parte dei loro governati. Furono settanta milioni i giovani mobilitati e spediti al fronte per un conflitto durato quattro anni, durante i quali si scontrarono le principali potenze mondiali e i piccoli stati di

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le recensioni tutto il mondo. Le conseguenze furono irreversibili e imprevedibili: alla fine si contano quasi 10 milioni di morti e 21 milioni di feriti. Molto del lavoro che le istituzioni culturali stanno svolgendo è finalizzato a rinsaldare la memoria collettiva, attraverso la raccolta e l’archiviazione di testimonianze letterarie e fotografiche, diari, iscrizioni funebri, cercando anche, in quest’opera di ricostruzione, di restituire voce e pensieri a volti di soldati, uomini e donne sconosciuti, protagonisti loro malgrado. E protagonisti lo furono i Cappellani militari d’Italia, di cui si occupa questo bel libro di Vittorio Pignoloni, che ha dedicato la sua vita all’apostolato tra i giovani militari italiani. Il libro rivista proprio la missione e l’opera di 210 Cappellani militari nella Grande Guerra, Martiri e testimoni di una carità senza confini, attraverso le relazioni-testimonianze inviate al Vescovo di campo, Mons. Angelo Bartolomasi. I Cappellani furono 2.048: 93 di essi caddero in guerra, 3 furono le medaglie d’Oro, 137 quelle d’Argento, 299 di Bronzo, 94 le Croci al Valore. Portarono la carità e la presenza di Cristo nelle trincee, che sono state uno dei simboli della Grande Guerra. Quando i vari governi europei decisero di scendere in campo, tutti erano convinti che si sarebbe trattata di una guerra veloce in cui era essenziale sfruttare il fattore temporale. Invece, dopo poche settimane, i diversi fronti europei si stabilizzarono ed iniziarono ad essere scavate centinaia di chilometri di trincee, dal nord della Francia fino all’Europa orientale, nell’attuale Polonia e nei Balcani. Questi lunghi corridoi, profondi poco meno di due metri, comparvero da subito anche sul fronte italiano, in pianura, sull’altopiano carsico e in alta montagna, in mezzo alla neve. Il bel libro di Pignoloni ci aiuta rendersi conto di come molti di quegli uomini, in quelle trincee, nei fronti di combattimento, in quei drammatici anni, sentissero il bisogno

di affidarsi alla religione e alla fede. Lo fecero attraverso la fraterna solidarietà e la vicinanza dei Cappellani militari, che furono coadiuvati da 500 Aiuto-Cappellani, e dei circa 15mila Preti-soldato e Chieri, mobilitati, la maggior parte, nelle Sezioni di Sanità.

Mario Rossetti

IO NON AVEVO L’AVVOCATO MONDADORI Edizioni pagg. 147 - euro 18,00

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Guardia di finanza, apra subito.» Sono le cinque del mattino del 23 febbraio 2010, l’alba di una delle tante giornate di lavoro di un professionista milanese, quando il suono del citofono interrompe bruscamente i suoi ultimi momenti di riposo. L’incredulità, le febbrili perquisizioni, una gigantesca ordinanza di custodia cautelare, il trasferimento in caserma e poi in carcere. Inizia così la vicenda kafkiana di Mario Rossetti, raccontata in prima persona dal protagonista, ex direttore finanziario di Fastweb, coinvolto nell’inchiesta Fastweb - Telecom Italia Sparkle su una maxifrode da due miliardi di euro. Nell’Italia degli scandali infiniti la notizia conquista con clamore le prime pagine dei quotidiani, gli imputati sono additati come sicuri colpevoli, mentre Rossetti, che tre anni prima aveva visto archiviata la sua posizione per la stessa ipotesi di reato ed è ormai lontano dal mondo delle telecomunicazioni, non riesce a comprendere neppure che cosa stia succedendo. Intanto incomincia l’odissea carceraria, tra San Vittore e Rebibbia, le asprezze del penitenziario, temperate dalla solidarietà dei compagni di cella, i «concellini». Un mondo che sconvolge ogni schema, dov’è possibile trovare umanità e conforto in una suora

come in un boss con oltre trent’anni di galera. Una «terra di nessuno», con le tante assurdità che ne scandiscono le giornate, come le celle da sei adattate a nove persone, gli innumerevoli ostacoli per ottenere qualsiasi cosa, anche un colloquio, l’impossibilità di svolgere qualunque lavoro, la preoccupazione dominante di far passare il tempo interminabile, i piccoli rituali, come il caffè, la camomilla, la preparazione del ciambellone offerto ai congiunti in visita. Quattro mesi di carcere tra Milano e Roma, gli arresti domiciliari, tre anni di processo, 147 udienze, il sequestro di ogni bene, persino dei ricordi più cari, che costringe la moglie a bussare alla porta di parenti e amici per poter andare avanti. La disavventura giudiziaria del manager prosegue intrecciandosi con quella umana e familiare, che avrà conseguenze impreviste e drammatiche. Si arriva così alla sentenza di primo grado del 17 ottobre 2013, che, riconoscendo la totale estraneità ai reati contestati, mette fine all’incubo. Un’ingiustizia di cui nessuno risponderà e che per Rossetti non è semplicemente figlia di un terribile errore ma è la conseguenza delle tante anomalie del nostro sistema giudiziario. L’autore invoca così una radicale riforma della giustizia e un profondo ripensamento delle carceri, affinché si trasformino, da gironi infernali, in luoghi di reinserimento sociale degni di un Paese civile. H

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l’ultima pagina il mondo dell’appuntato Caputo in piazza

di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2015

TE L'AVEVO DETTO CHE SCENDENDO IN PIAZZA AVREMMO OTTENUTO QUALCOSA ... E COSA ABBIAMO OTTENUTO? E' VENUTO A PARLARE CON NOI IL PRESIDENTE RENZI...

HA DETTO CHE CI RADDOPPIERANNO LO STIPENDIO... E DOVE STA LA FREGATURA? ...CE LO PAGHERANNO UN MESE SI E UN MESE NO!

Polizia Penitenziaria n.232 ottobre 2015


www.mariocaputi.it

Per ora é uscito il libro! Raccolta antologica delle vignette dell’Appuntato Caputo pubblicate dal 1994 al 2014 sulla Rivista mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza Da che parte é l’uscita? si puo’ acquistare in tutte le librerie laFeltrinelli oppure sui siti www.lafeltrinelli.it e www.ilmiolibro.it

Formato 15 x 23 cm Copertina morbida 240 pagine a colori ISBN: 9788891092052



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