Polizia Penitenziaria - Novembre 2014 - n. 222

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Poste Italiane S.p.A. Sped. in A.P. DL n.353/03 conv. in Legge n.46/04 - art 1 comma 1 - Roma aut. n. 30051250-002

anno XXI • n. 222 • novembre 2014

Il Natale è necessario. Ci deve essere almeno un giorno dell’anno per ricordarci che siamo qui per qualcosa d’altro oltre a noi stessi (Eric Sevareid)

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sommario

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ziaria.it www.poliziapeniten • novembre 2014

Il Natale è necessario. Ci deve essere almeno un giorno dell’anno per ricordarci che siamo qui per qualcosa d’altro oltre a noi stessi

S.p.A. Sped. in Poste Italiane

300512 Roma aut. n. 1 comma 1 n.46/04 - art 3 conv. in Legge A.P. DL n.353/0

50-002

anno XXI • n. 222

anno XXI • numero 222 novembre 2014

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In copertina: Il Natale

(Eric Sevareid)

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l’editoriale

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A testa alta, con un sorriso agli anonimi e ai pavidi... Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

di Donato Capece

il pulpito

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Il Natale è necessario

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

di Giovanni Battista de Blasis

Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

il commento

Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme

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Rispetto per Stefano Cucchi, ma non per i garantisti “a intermittenza” di Roberto Martinelli

Redazione politica: Giovanni Battista Durante

lo sport

Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director)

Domenico Di Guida campione europeo under 23

www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2014 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. • fax 06.39733669

di Lady Oscar

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e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it

crimini e criminali di Pasquale Salemme

il racconto

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Una giornata particolare di Rosa Cirone

Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 00030 S. Cesareo (Roma)

donne in uniforme

Finito di stampare: novembre 2014

I limiti alla carcerazione per genitori con figli minorenni

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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Luciano Lutring: da ladro di polli a gangster col mitra

Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di: Polizia Penitenziaria-Società Giustizia & Sicurezza

Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

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di Marianna Argenio

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Chi vuole ricevere la Rivista direttamente al proprio domicilio, può farlo versando un contributo di spedizione pari a 20,00 euro, se iscritto SAPPE, oppure di 30,00 euro se non iscritto al Sindacato, tramite il c/c postale n. 54789003 intestato a:

POLIZIA PENITENZIARIA - Società Giustizia & Sicurezza

Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma specificando l’indirizzo, completo, dove va spedita la rivista.

Polizia Penitenziaria n.222 novembre 2014


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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Polizia Penitenziaria n.222 novembre 2014

l’editoriale

A testa alta, con un sorriso agli anonimi e ai pavidi... ncora una volta abbiamo subìto le attenzioni di Anonymous. Nella notte di sabato 22 novembre è stato infatti ‘attaccato’ il sito internet del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. Gli hacker di Anonymous hanno ‘defacciato’ il nostro sito internet, inserendo nella home page, al posto dell’originale versione, una lunga lettera aperta contro le ‘morti di Stato’ e quelle in carcere in particolare. Un attacco assurdo e ingiustificato, un lungo sproloquio su eventi drammatici che vengono strumentalizzati per fini tutt’altro che di verità, giustizia e trasparenza. Gli hacker parlano di cose che non sanno, soprattutto senza conoscere i fatti e i dati oggettivi: si guardano bene dal dire che negli ultimi vent’anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato oltre 17mila suicidi di detenuti in carcere e sono intervenuti tempestivamente negli oltre 125mila atti di autolesionismo di altrettanti detenuti... Ma tant’è... Certo non saranno questi attacchi anonimi e vigliacchi a fermare la nostra attività per rendere il carcere una casa di vetro trasparente, perché noi non abbiamo nulla da nascondere. E’ significativo che abbiano colpito noi del SAPPE e non altri. E’ evidente che se ti schieri vai incontro a dei rischi. Noi siamo impegnati da sempre a rivendicare la dignità e la valorizzazione sociale della Polizia Penitenziaria e quindi non ci spaventano questi attacchi informatici... In realtà ce lo aspettavamo di essere l’obiettivo di un possibile attacco informatico condotto dal movimento Anonymous Italia a seguito dei noti avvenimenti riguardanti il caso Cucchi. Per questo sul blog poliziapenitenziaria.it avevamo scritto nei giorni precedenti l’attacco una lettera aperta proprio ad Anonymous.

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“Prima di subire queste “attenzioni” vorremmo, però, avere la possibilità di dire tre cose”, scrivemmo mercoledì 19 novembre nella lettera aperta pubblicata sul blog poliziapenitenziaria.it. “La prima è che i nostri colleghi finiti sul banco degli imputati, prima, e sulla gogna mediatica, poi, sono innocenti sotto qualunque profilo si voglia inquadrare la vicenda: quello giudiziario, quello sociale o quello morale”. “La seconda” proseguiva la lettera “è che siamo consapevoli che prima o poi riuscirete di nuovo a manomettere i nostri siti web e a sospendere temporaneamente la nostra “voce” sul web. Su questa partita ci dichiariamo già “sconfitti”. La terza, infine, è che nessun atto dimostrativo e nessun sabotaggio riuscirà a fiaccare la nostra determinazione a parlare, discutere ed informare di carcere, di società, di giustizia e di sicurezza, in modo obiettivo e al solo fine di rendere l’istituzione penitenziaria una “casa di vetro”, così che la gente riesca davvero a farsi un’opinione senza essere condizionata dai filtri e dalle interpretazioni di chicchessia”. Ribadiamo ancora una volta che il nostro scopo principale è quello di far conoscere a tutti il lavoro di migliaia di persone normali che ogni giorno indossano l’Uniforme della Polizia Penitenziaria e diventano persone speciali disposte al sacrificio personale e delle proprie famiglie pur di compiere il proprio dovere al servizio del Paese. E alla comunità di Anonymous vogliamo dire, ancora una volta: la Vostra è una battaglia che non ci interessa perché, a nostro parere, i problemi dell’esecuzione penale non si risolvono con dimostrazioni tanto eclatanti quanto simboliche, ma con il lavoro quotidiano e determinato, per ora svolto solo dal Corpo di Polizia Penitenziaria e pochi altri. E il nostro impegno è tutelare l’immagine di chi lo svolge. Mettendoci la faccia, non nascondendoci dietro ad una maschera. H


il pulpito

Ci deve essere almeno un giorno dell’anno per ricordarci che siamo qui per qualcos’altro oltre a noi stessi avvero significativo questo aforisma sul Natale, tratto da una citazione di Eric Sevareid. Ci è sembrato talmente significativo da meritare la copertina di questo numero della rivista. Tuttavia, per quello che ci riguarda, oltre a considerarlo un messaggio “universale”, vorremmo indirizzarlo anche a tutti quelli che hanno in mano il destino dell’amministrazione penitenziaria e, quindi, del Corpo di Polizia Penitenziaria. Proprio a costoro, dal Capo Dap (per ora facente funzioni), al suo Vice, dal Direttore Generale del Personale, a quello dei Detenuti e dei Beni e dei Servizi, dal Direttore dell’Ufficio Trasferimenti a quello dell’Avanzamento o delle Assunzioni e a tutti gli altri che detengono una qualche funzione dirigenziale, vorremmo indirizzare l’invito a riflettere e meditare sulla frase di Sevareid, talché realizzino d’esser lì (al Dap) “per qualcosa d’altro oltre a loro stessi”. Il timore che abbiamo è che alcuni personaggi, soprattutto quelli retribuiti con più di 200.000 (duecentomila) euro all’anno, abbiamo “dimenticato” di essere anch’essi pubblici dipendenti incaricati (e per questo stipendiati) di amministrare una cosa pubblica e dirigere decine di migliaia di dipendenti al solo scopo di esercitare la funzione costituzionale di esecuzione della pena, in nome e per conto dello Stato. Non vorremo (ahinoi...) che qualcuno abbia preso un po’ troppo sul serio gli accostamenti a personaggi filmici immortali, qualcun altro abbia frainteso i poteri temporali della Chiesa e molti altri abbiano travisato il significato di pubblica dipendenza a favore di un più proficuo sistema (per loro) di vassallaggio, costituito da

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vassalli, valvassori e valvassini. Probabilmente così non è, ma a noi così sembra e nel “Noi” abbiamo la presunzione di comprendere l’intero Corpo della Polizia Penitenziaria. A proposito ...Eric Sevareid è un giornalista americano che cominciò come corrispondente radiofonico in Europa durante la seconda guerra mondiale per poi diventare famoso giornalista televisivo e conduttore di talk-show. In buona sostanza quello che negli Stati Uniti viene definito un opinion maker. Di Sevareid, oltre questa bellissima citazione sul Natale, apprezziamo anche un’altra affermazione, che ci è sembrata altrettanto pertinente per un accostamento al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria : “La più grande delle industrie negli Stati Uniti non è l’acciaio, né l’automobile, né la tv: è la produzione, la raffinazione e la distribuzione dell’ansia”. Che ne pensate di questa divertente metafora sull’attività dipartimentale: “ ...la produzione, raffinazione e distribuzione dell’ansia” ? Vorrei concludere lanciando una proposta. Individuiamo un giorno dell’anno per festeggiare la Polizia Penitenziaria. Potrebbe essere quello della Sua nascita: l’11 gennaio. Questa Festa ci permetterebbe di parafrasare così Sevareid: “Il Natale della Polizia Penitenziaria e’ necessario. Ci deve essere almeno un giorno dell’anno per ricordare ai dirigenti del Dap che sono lì per qualcosa d’altro oltre a loro stessi”. P.S. Proprio in questi giorni è trapelata la notizia sulle intenzioni dipartimentali di elargire nuove promozioni per meriti eccezionali a personale in servizio al DAP.

In tal caso sarebbe l’ennesima conferma dell’esistenza di due Alberi di Natale della Polizia Penitenziaria: Uno al Ministero, sotto il quale arriva l’oro, l’incenso e la mirra e l’altro, nelle patrie galere, dove arriva sempre e comunque solo il carbone. Ma ’sto Babbo Natale non cambia proprio mai? H

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Giovanni Battista de Blasis DirettoreEditoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

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il commento

Rispetto per Stefano Cucchi, ma non per i garantisti “a intermittenza” Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nella foto Ilaria Cucchi e il “circo” mediatico

Polizia Penitenziaria n.222 novembre 2014

enerdì 31 ottobre la Prima Corte di Assise di Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi, il ragazzo romano di 31 anni arrestato il 15 ottobre del 2009 e deceduto una settimana dopo nel reparto di Medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. In primo grado erano stati condannati cinque medici mentre erano stati assolti tre infermieri e tre agenti della Polizia Penitenziaria.

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durata 5 anni. Poliziotti giudicati da due Corti: 4 Magistrati togati e 12 giudici popolari. E un Magistrato fa solo il suo lavoro: un lavoro difficile. Condanna se deve, assolve in caso contrario. Poliziotti linciati moralmente da coloro che erano convinti di avere la verità in tasca, senza però avere alcuno straccio di prova: la Prima Corte di Assise di Appello di Roma, con la sentenza di venerdì 31 ottobre, ha reso loro giustizia.

La sentenza, pronunciata dopo circa tre ore di camera di consiglio, ha assolto tutti, anche i cinque medici condannati in primo grado per la morte del giovane. La formula adottata dal Tribunale è quella prevista dal secondo comma dell’articolo 530 del Codice Penale che, in sostanza, rispecchia la vecchia formula dell’assoluzione per insufficienza di prove. Come dicevamo in primo grado erano stati condannati cinque medici mentre erano stati assolti tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria. Il processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi ha dunque confermato – per la seconda volta - l’assoluzione dei poliziotti penitenziari coinvolti, loro malgrado, nella triste vicenda

Decine di periti e consulenti nominati dai Pm e dai Giudici hanno concluso che la causa della morte di Stefano Cucchi è stata la mancata somministrazione di cibo e acqua al paziente, escludendo ogni rapporto tra lesioni riscontrate e decesso. A questa conclusione arrivò anche la relazione conclusiva dell’inchiesta al Senato della Repubblica nella XVI Legislatura da parte della Commissione Parlamentare di inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, presieduta dal Sen. Ignazio Marino, sull’efficacia, l’efficienza e l’appropriatezza delle cure prestate al signor Stefano Cucchi, approvata dalla Commissione nella seduta n. 65 del 17 marzo 2010. Stefano era un giovane dal corpo

particolarmente debilitato. Al momento dell’arresto pesava 52 kg ed il peso al decesso, 6 giorni dopo, era di circa 42 kg. Avevamo dunque ragione quando, in assoluta solitudine, sostenemmo che non si dovevano trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. Abbiamo avuto ragione nel confidare nella Magistratura, perché la Polizia Penitenziaria non aveva e non ha nulla da nascondere. Lo abbiamo sempre detto e sostenuto. L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il SAPPE, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una “casa di vetro”, cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci “chiaro”, perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale – ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente – con professionalità, abnegazione e umanità - dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria. Certo, la responsabilità penale è personale, sancisce la giurisprudenza, ma va anche ricordato – come fatto dal SAPPE in più occasioni - che, già nel dicembre 2009, la rigorosa inchiesta amministrativa disposta dall’allora Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta sul decesso di Stefano Cucchi escluse responsabilità da parte del personale di Polizia Penitenziaria, in particolare di quello che opera nelle celle detentive del Palazzo di Giustizia a Roma. Una cosa è importante evidenziare. Come primo Sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria abbiamo sempre preferito tenere un “profilo basso” su questa triste vicenda, alla quale ci siamo sempre approcciati con sincero rispetto. Nessuno si è mai sognato neanche


il commento minimamente di deridere o offendere la famiglia Cucchi. Siamo sempre stati solidali con loro per la perdita di Stefano, esprimendo un sincero e convinto rispetto, ma siamo anche fieri del nostro lavoro quotidiano e della nostra abnegazione al servizio del Paese. Lo ribadiamo, ancora una volta, con forza ed estrema chiarezza: abbiamo sempre confidato, e confidiamo, nella Magistratura. Ma non si può essere garantisti ‘a intermittenza’ o accettare solamente le conclusioni di quelle sentenze che fanno comodo. Ilaria Cucchi, ad esempio. Rispetto assoluto per il grave lutto che ha subìto ma, dopo essersi improvvisata aspirante deputato (aspirazione che tale è rimasta per le scelte elettorali degli italiani) vorrebbe ora vestire i panni di Pubblico Ministero per confezionare una sentenza sulla morte del fratello Stefano che più la soddisfi ma che non è certo la risultanza delle sentenze di primo grado e di appello. E pensare che l’11 febbraio 2010 dichiarò, al Tg3: “Mio fratello era disidratato e malnutrito quando è morto. E’ colpa dei medici”. Per questo, lei e i genitori ottennero dall’Ospedale Pertini di Roma un risarcimento di 1 milione e 340mila euro: e per questo revocarono la costituzione di parte civile, nel processo, nei confronti dei medici mantenendola soltanto nei confronti dei 3 poliziotti penitenziari... Cos’è successo per farla cambiare idea dopo aver ricevuto l’indennizzo? E perché non si dice che nella relazione medico-legale sulla morte del fratello geometra, commissionata dai pubblici ministeri Barba e Loy, risultano ben 17 ricoveri al pronto soccorso? Nei relativi referti, stilati da decine di medici, furono rilevate tra l’altro contusioni multiple, ferite, trauma cranico con ampie ferite da taglio, frattura al metatarso e composta alla costola, coccigodinia, frattura composta alla spina nasale da aggressione, positività per metadone, cocaina ed oppiacei, e nell’ultimo ricovero, 15 giorni prima dell’arresto, risulta soccorso dal personale sanitario davanti al pronto soccorso accasciato per terra con trauma nella

regione zigomatica destra, trauma emicostato destro ed algia nella regione cervicale. C’era la droga, nella vita di Stefano. Droga che consumava, distruggendosi il fisico. E droga che vendeva. Quando, su indicazione della famiglia, venne perquisita l’abitazione del Cucchi furono rinvenuti 2 panetti di hashish del peso di 905 grammi, un involucro di cocaina di 103 grammi, 3 bilancini di precisione, materiale da confezionamento, confezioni di mannite, cellophane e carte di alluminio, altri involucri con hashish sparsi per casa. Probabilmente la droga che cercarono, inutilmente, i Carabinieri quando lo arrestarono. Questo non giustifica nulla, sia chiaro. Ma certo non si può dire che Stefano

iscritta all’Ordine professionale, così come ci fece riflettere e ci sorprese la candidatura (e successiva elezione, seppur non in prima battuta) a Senatore della Repubblica nelle file di Rifondazione comunista di Heidi Giuliani, mamma del Carlo morto nel G8 di Genova del 2001 mentre scagliava un estintore contro un carabiniere, sconoscendo un suo di lei impegno nella politica nazionale e cittadina... Tornando agli esiti processuali sulla morte di Stefano Cucchi, bisogna finirla con l’essere garantisti a intermittenza, rispettando le sentenze solo quando queste fanno comodo. Ognuno è libero di dire quel che vuole, ma poi si corre il rischio di mettere in evidenza la propria ignoranza.

Cucchi, presentato agli occhi della gente da una certa stampa e dalla famiglia come “geometra” (con tutto ciò che di positivo questa professione connota in sé, almeno nell’immaginario collettivo), fosse estraneo ad ambienti delinquenziali e pericolosi, per sé stesso e per gli altri. E fornisce un quadro d’insieme, sul ragazzo romano, sicuramente diverso dall’immagine che se n’è voluta fornire alla pubblica opinione. Nota a margine. Prendiamo atto che la signora Cucchi è stata nominata recentemente ‘inviata speciale’ per il programma di RaiTre Questioni di famiglia... Una scelta che fa riflettere e sorprende, se non altro perché non ci risulta che Ilaria Cucchi sia una giornalista

E’ il caso di Adriano Celentano, che sul profilo del suo blog «Il Mondo di Adriano» ha scritto una lettera immaginaria a Stefano Cucchi, rassicurandolo che dove è ora può “scorrazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti”. Celentano è tanto ignorante da non sapere che in Italia non esistono guardie carcerarie ma, soprattutto, che i poliziotti penitenziari coinvolti nella vicenda giudiziaria sulla morte di Stefano Cucchi, sono stati assolti due volte dalle gravi accuse formulate nei loro confronti. Celentano ci aveva regalato un’altra perla del suo miope garantismo “a intermittenza” qualche tempo fa,

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Nella foto ancora Ilaria Cucchi con il Presidente del Senato Pietro Grasso

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Nella foto Ilaria Cucchi in una trasmissione televisiva

Polizia Penitenziaria n.222 novembre 2014

mondo penitenziario quando chiese la grazia per Fabrizio Corona, che sconta una pena in carcere per essere stato condannato con più sentenze definitive. Certo, meglio Corona di uno dei tanti poveracci che sono oggi in carcere: almeno la visibilità mediatica, con lui, è assicurata. Lo preferiamo come cantante, Celentano. Almeno evita di dire stupidaggini, lui che forse non a caso usa definirsi “il re degli ignoranti”...

l’operazione dei colleghi nell’ennesimo caso di “caccia alle streghe” alla ricerca dei poliziotti violenti e aguzzini. Tanto per capirci, leggendo alcuni articoli di giornale del giorno dopo: “ILARIA CUCCHI: «HO VISTO AGENTI PESTARE UN UOMO E PRENDERLO A CALCI»” (CORRIERE DELLA SERA). IL SECOLO XIX “ILARIA CUCCHI DENUNCIA: HO VISTO GLI AGENTI

Anche sulla querela presentata dal SAPPE verso Ilaria Cucchi s’è detto, scritto e commentato molto. Senza sapere le cose e senza volerle sapere. La querela presentata fa riferimento alle dichiarazioni della signora Cucchi, quando sostenne di aver visto tre poliziotti penitenziari picchiare un uomo per strada a Roma lo scorso 30 luglio. In realtà, i tre colleghi, che transitavano in via Tiburtina per un cambio turno – piantonamento in un ospedale cittadino- erano intervenuti, chiamati da un autista dell’Atac, azienda di mobilità e trasporti della Capitale, per sedare una rissa tra un uomo e due donne (tutti stranieri). Per questo furono costretti a immobilizzare l’uomo, che già presentava vistose ferite al volto prima dell’intervento della Polizia Penitenziaria. In una strada pubblica, in presenza di molte persone. Passava di lì, per caso, Ilaria Cucchi, che ha trasformato mediaticamente

PRENDERE A CALCI QUEL RAGAZZO” “AMMANETTATO E PICCHIATO DAGLI AGENTI”, ILARIA CUCCHI ASSISTE ALLA SCENA E PRESENTA DENUNCIA. (REPUBBLICA) “RAGAZZO PESTATO DAI POLIZIOTTI: LA DENUNCIA CHOC DI ILARIA CUCCHI” (CINQUEQUOTIDIANO.IT) “AMMANETTATO E PESTATO DA TRE AGENTI DI POLIZIA PENITENZIARIA”, la denuncia di Ilaria Cucchi. (ROMATODAY). Ebbene, il SAPPE ha deciso di dire basta agli attacchi strumentali e pretestuosi della signora Cucchi. E per questo l’abbiamo querelata. Rispettiamo il suo dolore, lo abbiamo sempre fatto con sincera e convinta partecipazione. Ma non accettiamo di essere definiti, a ogni piè sospinto o per ogni morte in carcere, assassini senza umanità. Ma si può dire che fu Stefano Cucchi a non voler vedere e parlare con i genitori quand’era ricoverato nella sezione protetta dell’Ospedale Pertini?

Ed è vero o non è vero che, com’è emerso nel dibattimento, Stefano disse a una volontaria dell’ospedale che avrebbe voluto fare una telefonata “al cognato” perché “con mio cognato ho un bel rapporto, è stata l’unica persona che mi è stata vicino quando avevo problemi, quindi voglio parlare con lui”? Ora sentiamo parlare di “riaprire il processo sulla morte di Stefano Cucchi”. Lo abbiamo detto e lo ribadiamo. Noi non abbiamo nulla da nascondere e da subito ci siamo detti fiduciosi nell’operato della magistratura. Ci sorprende sentir parlare di “vera verità”, perché ciò presuppone l’esistenza di una “falsa verità” che, per quello che ci riguarda, non può essere altro che un ossimoro. Una volta qualcuno ha detto che esistono tre verità: “la mia, la tua e la verità”. Io aggiungo che esiste anche la verità processuale, che è quella che si forma nel dibattimento e che è l’unica verità che può interessarci in questo caso. Per quanto riguarda il processo, la sola cosa che potrebbe dare origine a una revisione è l’emergere di nuovi elementi e non certo “la sentenza avversa alla famiglia Cucchi”, come ha detto qualche giornale. Ci mancherebbe solo che in uno Stato di diritto fosse sufficiente l’insoddisfazione di una parte processuale a far riaprire il dibattimento... Ma anche se si arrivasse alla riapertura delle indagini da parte della Procura, lo abbiamo detto e ripetuto, noi non abbiamo nulla da temere perché siamo certi che i nostri colleghi non hanno fatto nulla e nulla hanno a che fare con la morte del povero Cucchi. Siamo onesti servitori dello Stato e non accettiamo accuse false, gratuite e offensive. A prescindere e senza prove. Un inciso: qui non si tratta di difendere alcuni iscritti al Sindacato. Qui si tratta di difendere l’immagine e la dignità della nostra professione. Anche perché, dei tre colleghi coinvolti nel caso, uno solo è iscritto al SAPPE ma non abbiamo mai escluso gli altri due. H


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lo sport

Judo: Domenico Di Guida campione europeo under 23 Lady Oscar rivista@sappe.it

l termine di una finale avvincente Domenico Di Guida sul tatami di Wroclaw (Polonia 14/16 novembre), ha conquistato il titolo europeo U23 di judo nella categoria fino a 100kg. Ben 17 gli azzurri in gara per la rassegna continentale. Oltre a Domenico Di Guida per le Fiamme Azzurre era presente anche Massimiliano Carollo, categoria 81kg.

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Nelle foto sopra Mimmo Di Guida in alto, Massimiliano Carollo sotto Silvia Marangoni in uniforme

Polizia Penitenziaria n.222 novembre 2014

“Mimmo” Di Guida, 22 anni, napoletano, già campione europeo cadetto (2008) e junior (2011), ha ritrovato un titolo importante dopo due stagioni rese intermittenti dagli infortuni.

Pattinaggio a rotelle: argento mondiale per Silvia Marangoni

Il 23enne di Piscinola (NA), ha portato a termine la sua corsa all’oro dopo essersi sbarazzato con un ippon del bielorusso Ilya Asin, dopo aver regolato il campione in carica portoghese Jorge Fonseca: decisivo uno shido in più inflitto al lusitano. In semifinale nuovo ippon all’israeliano Yakov Mamistvalov, prima di dar vita ad una finalissima entusiasmante con il croato Zlatko Kumric, in cui entrambi i contendenti hanno messo a segno un wazari, prima dello yuko decisivo di Di Guida. Rammarico per il podio mancato dall’altro rappresentante della Polizia Penitenziaria negli 81 kg. Massimiliano Carollo si è fermato al quinto posto, ai piedi del podio, perdendo la finale per il bronzo contro il russo Khalmurzayev. La Russia si è dimostrata come sempre fucina di grandi campioni nel corso di tutta la rassegna continentale e ancor di più nella categoria di Carollo: a fermarlo dei quarti di finale è stato infatti l’altro rappresentante russo Lappinagov, secondo al termine della finale contro il greco Moustopulos. Nonostante la giovane età è di tutto rispetto il palmares di Domenico Di Guida: entrato a far parte del Gruppo Sportivo della Polizia Penitenziaria nel 2012. Mimmo vanta una Coppa Europa under 17, l’oro ai campionati

europei under 17 e under 21, l’argento alle olimpiadi giovanili under 17 e ai campionati mondiali under 21, il bronzo ai campionati mondiali under 21, agli europei under 23 e under 21, e otto titoli di campione italiano di categoria. Questo il dettaglio tecnico della manifestazione: 81kg - (1) Roman Moustopoulos GRE, (2) Aslan Lappinagov RUS, (3) Dominici Ressel GER e Khasan Khalmurazyev RUs, (5) MASSIMILIANO CAROLLO (32: V/Milan Koller HUN, 16: V/Abdulhagg Rasullu AZE, QF: S/Aslan Lappinagov RUS, 1R: V/Viktor Makukha UKR, F3/5: S/Khasan Khalmurzayev RUS; 100kg – (1) DOMENICO DI GUIDA (32: bye, 16: V/Ilya Asin BLR, QF: V/Jorge Fonseca POR, SF: V/Yakov Mamistvalov ISR, F: V/Zlatko Kumric CRO), (2) Zlatko Kumric CRO, (3) Jorge Fonseca POR e Yakov Mamistvalov ISR. H ilvia Marangoni, la pluridecorata atleta del pattinaggio a rotelle della Polizia Penitenziaria (specialità inline), dopo otto titoli consecutivi dal 2006 al 2013, è scesa di pochissimo dal tetto del mondo, dovendosi accontentare per una volta della piazza d’onore. Il 9 novembre 2013 a Taipei Silvia aveva conquistato l’ultimo titolo iridato lasciandosi alle spalle la rivale di sempre, l’americana Natalie Motley.

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lo sport Proprio la statunitense, nei giorni 1 e 2 ottobre 2014, sulla pista spagnola del Pavillo Olimpic Municipal di Reus è riuscita nel sorpasso sulla portacolori delle Fiamme Azzurre dopo aver collezionato per ben quattro volte l’argento dietro di lei. Si infrange così il sogno di Silvia di arrivare a superare il record di 11 titoli consecutivi, attualmente appannaggio di Patrick Venerucci: poco più gioco con se stessa, probabilmente per darsi motivazioni ulteriori per vincere oltre a quanto ha già vinto e stravinto in campo internazionale, ma che poco toglie al suo valore. Al termine della prima giornata di gara, poco il distacco tra le due dopo il “corto” (117.400 a 116.300), mentre l’esito del programma lungo è stato più marcato con ben 20 punti di distacco nella classifica finale. Venti come gli anni dell’americana che ha realizzato il suo sogno d’oro ai danni della nostra portacolori. Per nulla scalfita nelle motivazioni da questo passaggio di consegne del mondiale spagnolo, Silvia Marangoni

la quota 11 vittorie è riuscita a toccarla in campo europeo nella rassegna continentale di Luso, in Portogallo (28 ottobre, 1 novembre) nella gara di Coppa Europa che nel pattinaggio a rotelle è valida anche per il titolo di campione d’Europa. Sulla pista del Pavilhao Municipal, in testa dopo il “corto” – con un punteggio di 78.900 – la pattinatrice delle Fiamme Azzurre ha vinto la gara con uno score di 326 punti, staccando la tedesca Claudia Pfeiffer

di ben 59 misure, a 267 punti finali.

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Nella foto Silvia Marangoni

LA CLASSIFICA DI REUS artistico inline Femminile: (1) Natalie Motley USA 487.900, (2) SILVIA MARANGONI 468.500, (3) Hsin Chin-Ling TPE 429.400, (4) Sabrina Gagliano ARG 411.900, (5) Chang Yen-Tzu TPE 405.000, (6) Lucia Kindebaluc ARG 398.000, (7) Isabel McTigue AUS 366.100, (8) Jessica Wynne AUS 358.100 H

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S I T A R G B 100 M

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diritto e diritti

Partecipazione al trattamento penitenziario Giovanni Passaro Segretario Provinciale Sappe passaro@sappe.it

ono un agente scelto assegnato a servizio a turno, trovo sconfortante che a seguito di un rapporto disciplinare redatto a carico di un detenuto ergastolano, a causa di ripetuti rifiuti ad accettare un lavoro come scopino di sezione, il direttore ha archiviato il procedimento perché le informazioni del comandante erano a favore del detenuto che aveva il diritto di rifiutare. Vorrei un Vs. parere. Grazie

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entile collega, è noto come quel generico richiamo che la Carta costituzionale fa del principio rieducativo, venga adottato come criterio orientativo nel descrivere il fine ultimo delle pene da parte del legislatore ordinario. Traspare dalla lettura congiunta degli artt. 3 e 13 della Costituzione, che il tentativo di rieducazione del reo non può essere solo eventuale, né può avere un carattere di semplice emenda, ma al contrario, costituisce “un compito della Repubblica” e deve avere un carattere risocializzante, ma anche come la nostra Carta costituzionale conferisca valore di assoluta supremazia alla libertà personale. Dal quadro costituzionale possiamo, dunque, ricostruire l’ideologia rieducativa seguendo una duplice direzione: individuando gli obiettivi che la stessa opera rieducativa deve perseguire, e la metodologia attraverso la quale può essere intrapresa. L’obiettivo potrà dirsi sicuramente raggiunto, non quando il condannato diventa un cittadino “modello” (nel senso di soggetto che agisce in adesione alla moralità prevalente tra i

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consociati), ma quando il medesimo abbia acquisito la capacità di vivere nella società nel rispetto della legge penale, circoscrivendo l’area di illeciti penali ai soli fatti lesivi di valori legittimamente assumibili a punto di riferimento di un processo rieducativo, cioè, quei valori costituzionalmente rilevanti. Sotto un profilo metodologico, invece, la rieducazione non potrà costituire “un escamotage” attraverso il quale restringere ulteriormente la libertà personale del condannato rispetto a quanto già previsto dalla sentenza di condanna, trovando spazio quella parte della libertà personale che si traduce nella libertà di autodeterminazione e nel correlativo divieto per lo Stato di ricorrere a forme coattive di ri-orientamento della personalità del reo. Qualsiasi forma coattiva sarebbe lesiva della dignità umana e violerebbe quindi il disposto dell’art. 27, comma 2, Cost. che stabilisce il divieto di trattamenti contrari al senso d’umanità, nonché l’art.13, comma 4, Cost. che punisce ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà personale. In conformità a quanto finora detto, si può configurare il diritto del condannato, nascente direttamente dalla Costituzione e ascrivibile tra quei diritti inalienabili, assoluti e indisponibili della personalità. Sulla stessa scia, le norme dell’ordinamento penitenziario e del relativo regolamento d’esecuzione, pongono l’accento in più punti, su come il trattamento rieducativo debba essere attuato con il consenso di chi ne è destinatario. A titolo d’esempio, all’art. 13 Ord. Pen. si ribadisce come “sia favorita la collaborazione dei condannati e internati alle attività di

osservazione e di trattamento”, ma in particolar modo la norma che più di tutte sembra incarnare la consensualità nel trattamento rieducativo è l’art. 1, comma 2, del regolamento di esecuzione DPR 230/2000, ove è descritto il modo in cui deve essere perseguita la finalità di “modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, dei condannati e internati, e delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”: gli operatori penitenziari non sono chiamati a determinare coattivamente la suddetta modificazione, ma solo a promuoverne il processo. Quanto fin qui esaminato, rientra nella dimensione negativa del diritto alla rieducazione, cioè, quella dimensione che identifica le posizioni soggettive del condannato e dell’internato, e che il trattamento rieducativo non può intaccare. Ma vi è anche una dimensione positiva del medesimo diritto, rappresentata dalla pretesa dei condannati a che l’amministrazione penitenziaria offra loro un trattamento rieducativo, cioè, a detta della Suprema Corte, “costituisce da un punto di vista giuridico, un obbligo di fare per l’amministrazione penitenziaria, cui corrisponde un diritto del detenuto”. E da ciò ne discende un corollario importante: in quanto diritto del detenuto, l’amministrazione penitenziaria non potrà escludere un detenuto dalle attività di osservazione e di trattamento, seppure lo ritenga non rieducabile o non bisognoso di rieducazione, e ciò perché, il potere discrezionale riconosciuto alla stessa amministrazione attiene all’organizzazione del singolo trattamento. Cordiali saluti. H


giustizia minorile

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Nella memoria di Giovanni Paolo II Ciro Borrelli Referente Sappe per la Formazione e Scuole G. Minorile borrelli@sappe.it

l 4 novembre 2014 si è tenuta a Nisida un’importante manifestazione che ha voluto ricordare la figura e l’opera di uno dei Pontefici più amati nella storia della Chiesa, il Beato Giovanni Paolo II, i cui messaggi sono sempre attuali anche per chi appartiene alle nuove generazioni. Anche questa volta il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria della Giustizia Minorile ha dato prova delle spiccate capacità organizzative e professionali. Come già in altre occasioni, gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno saputo garantire lo standard della sicurezza, dell’ordine pubblico e di tutto l’aspetto logistico, regolando anche la viabilità e consentendo il regolare svolgimento della manifestazione secondo il cerimoniale previsto per l’occasione.L’obiettivo dell’evento dal profondo significato è quello di aprire i cuori alla solidarietà per abbattere il muro del pregiudizio ed offrire una seconda opportunità ai giovani. L’evento “Nella memoria di Giovanni Paolo II” ha fatto tappa nei giorni scorsi all’Istituto penale per minorenni di Napoli-Nisida nell’ambito del progetto promosso dalla “Life Communication produzioni televisive e grandi eventi” in collaborazione col Ministero della Giustizia - Dipartimento della Giustizia Minorile e patrocinata dalla Conferenza Episcopale Italiana Ufficio delle Comunicazioni Sociali, dall’Arcidiocesi di Napoli, dalla diocesi di Pozzuoli, dalla Regione Campania, dal Comune di Napoli, dalle Camere di Commercio di Napoli e di Catanzaro. Dallo scorso anno l’evento si svolge all’interno degli Istituti Penali Minorili con l’obiettivo di promuovere e favorire il pieno riscatto e reinserimento lavorativo dei giovani provenienti dal circuito penale. La manifestazione - ideata da

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A fianco la locandina dell’evento

Domenico Gareri, autore e conduttore televisivo giunta alla sua decima edizione - oltre a ricordare la figura e l’opera di uno dei Pontefici più amati nella storia della Chiesa e diffondere i suoi messaggi dal profondo significato sociale, culturale ed evangelico alle nuove generazioni, ha rappresentato un momento di grande vicinanza per i giovani ospiti ai quali sono state donate due borse lavoro grazie all’impegno della segreteria nazionale del progetto Policoro promosso dalla Cei e della cooperativa sociale “Il germoglio” della diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi e alla sensibilità dell’associazione Giffas Onlus.A riceverle idealmente sul palco sono stati il Sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, e il Capo Dipartimento per la Giustizia minorile, Annamaria Palma Guarnier, in sinergia con il mondo della chiesa, rappresentato dal vescovo di Pozzuoli, S.E. mons. Gennaro Pascarella, e le istituzioni locali con il presidente della X Municipalità del Comune di Napoli, Giorgio De Francesco. Nel corso della serata, condotta da Domenico Gareri e dall’attrice Tosca D’Aquino, è stato consegnato il premio “Nella memoria di Giovanni Paolo II”, realizzato dal maestro orafo Michele Affidato, ad un artista napoletano doc che da sempre si è distinto per la sensibilità e l’impegno profuso nel campo del sociale: Gigi D’Alessio.

Il noto cantautore ha ritirato il riconoscimento dalle mani del vicepresidente della Vallecchi 1903, Maria Paola Corona, che ha anche donato alcuni volumi alla biblioteca dell’istituto. Serenella Pesarin, del Dipartimento Giustizia Minorile Direzione Generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari, ha consegnato il premio agli “artisti speciali” del Giffas Onlus, presieduto da Armando Profili, realtà operante a Napoli da diversi anni in attività di riabilitazione psico-motoria. Altri riconoscimenti per l’impegno profuso all’insegna dei valori della pace e della solidarietà sono stati consegnati da Giuseppe Centomani, direttore del Centro Giustizia Minorile Campania, all’Associazione italiana maestri cattolici – ha ritirato il premio Maria Marino su delega del presidente nazionale Giuseppe Desideri – e da Gianluca Guida, direttore dell’istituto di Nisida, a Emiliano Abramo, portavoce siciliano della Comunità di S. Egidio. Nel corso della manifestazione hanno offerto la propria testimonianza, intervenendo in video, anche l’Arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe, il cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia, che fu segretario di Giovanni Paolo II. Presente all’evento anche don Antonio Tarzia, direttore del mensile Jesus edito dal gruppo San Paolo, che ha

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dalle segreterie

14 donato i Vangeli e i testi sacri ai ragazzi dell’Istituto in collaborazione con l’Associazione dei Bibliotecari Ecclesiastici Italiani, presieduta da S.E. Mons. Vincenzo Milito, e l’associazione Cassiodoro. Il direttore dell’Istituto “Malaspina” di Palermo, Michelangelo Capitano, ha raccontato l’esperienza vissuta lo scorso anno, mentre il vaticanista Rai, Enzo Romeo, oltre a ricordare il santo Papa, ha letto un estratto della lettera inviata da Andrea Bocelli ai ragazzi protagonisti dell’evento. Presente anche il cav. Camillo Galluccio, presidente del Consiglio regionale Ente Nazionale Sordi Campania.

Nella foto Gigi D’Alessio tra Domenico Gareri e Tosca D’Aquino, conduttori della serata

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Grande emozione hanno suscitato le performance delle aggregazioni sociali e dei gruppi artistici che sono stati ospitati a Napoli grazie anche alla collaborazione dell’AIG (Associazione Italiana Alberghi per la Gioventù): l’Ars Canto “G.Verdi” (coro di voci bianche giovanile del teatro Regio di Parma), l’Orchestra Giovanile di Laureana di Borrello e il Coro dell’Unione Italiana dei Ciechi di Catanzaro. Le coreografie sono state dirette dal maestro Giovanni Calabrò e realizzate dal Centro Studi Artedanza. Anche in questa edizione “Nella memoria di Giovanni Paolo II” ha portato, grazie anche al Corpo di Polizia Penitenziaria, nelle case degli italiani un messaggio dal notevole significato educativo, proponendosi quale momento di incontro tra le diverse voci della società civile, del mondo delle istituzioni laiche e religiose e dell’associazionismo e abbracciando quello che è il vero significato del servizio pubblico. H

Taranto

In ricordo di Carmelo Magli n occasione del ventennale dell’omicidio del 24enne agente di Polizia Penitenziaria Carmelo Magli, ucciso a Taranto durante la guerra di mala il 17 novembre 1994, nella casa circondariale a lui intitolata, si è svolta una “Giornata della memoria e della legalita”. Nella sala convegni dell’istituto, si è tenuto un incontro, dal titolo “Il poliziotto penitenziario - tra giustizia e umanità”, con gli alunni dell’Istituto Comprensivo XXV LuglioBettolò di Taranto e dell’Istituto Comprensivo “De Amicis-San Francesco” di Francavilla Fontana (Brindisi). Alle 11.15 spazio alla tavola rotonda “Il ricordo di Carmelo Magli, vittima della barbarie mafiosa - tra memoria e riflessionì”. Sono intervenuti il procuratore capo della Repubblica di Lecce Cataldo Motta, il procuratore generale della sezione distaccata di Taranto della Corte d’Appello di Lecce Ciro Saltalamacchia, il procuratore aggiunto della Repubblica di Brindisi Nicolangelo Ghizzardi, il sostituto

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procuratore della Repubblica del tribunale di Lecce Guglielmo Cataldi, il gip del tribunale di Taranto Pompeo Carriere. A seguire è stato inaugurato, nell’area della portineria principale, il busto bronzeo dell’agente scelto Carmelo Magli, nativo di Francavilla Fontana. Hanno presenziato alle cerimonie il direttore del carcere Stefania Baldassari, il prefetto di Taranto Umberto Guidato e il prefetto di Brindisi Nicola Prete. Carmelo Magli era un ragazzo di appena 24 anni, sposato e padre di due bambine, quando, la notte tra il 17 e il 18 novembre 1994, venne trucidato da un commando di killer che, a distanza ravvicinata, gli esplosero numerosi colpi di mitraglietta, ponendo così fine alla sua giovane vita. H

Aosta

Davide Serra: una passione per le due ruote

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avide Serra è un vero appassionato delle moto da corsa (nella foto durante un allenamento al circuito Tazio Nuvolari di Cervesina - PV). Il prossimo anno avrebbe intenzione di partecipare al

Trofeo Italiano Interforze, e sta lavorando con il suo meccanico alla preparazione della moto, e vorrebbe farlo con i colori del Corpo di Polizia Penitenziaria. Al collega pilota vanno gli auguri della redazione. H


dalle segreterie

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Bologna Consiglio Regionale Sappe dell’Emilia Romagna

rivista@sappe.it

l 12 novembre si è svolto presso l'Istituto penitenziario di Bologna il Consiglio Regionale del Sappe. Ha presenziato la riunione il Segretario Generale Donato Capece, unitamente al Segretario Generale Aggiunto Giovanni Battista Durante e il Segretario Regionale Francesco Campobasso oltre tutti i delegati della Regione. In mattinata ha fatto visita al Consiglio anche il Provveditore della Regione Emilia Romagna Pietro Buffa. H

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Novara Manifestazione #piazzapermanente ontinua la manifestazione di protesta #piazzapermanente. Il camper della Consulta è arrivato anche in Piazza Martiri a Novara. Le foto. H

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Nelle foto sopra il Consiglio Regionale dell’Emilia Rmagna sotto la manifestazione di Novara

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dalle segreterie Cosenza Nominati gli “Alfieri del Lavoro 2014”

rivista@sappe.it

ntonio Francesco Vita, figlio del segretario provinciale di Cosenza e componente della segreteria regionale del nostro sindacato, Salvatore Vita, ha ricevuto il riconoscimento di “Alfiere del Lavoro 2014” riservato ai 25 migliori studenti d’Italia. Il giovane è stato premiato il 23 ottobre 2014 direttamente dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in una cerimonia tenutasi al Quirinale. Il Premio, istituito nel 1961 dalla Fondazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro, viene attribuito ad un ridotto numero di studenti che ottengono il diploma di maturità con il massimo dei voti ma che devono

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anche avere altri requisiti come la media più alta nei primi quattro anni delle scuole superiori e comunque voti superiore agli 8/10 per ciascuno dei primi quattro anni oltre ad aver conseguito il diploma di licenza media con almeno 10/10. Nel corso della cerimonia sono stati consegnati la medaglia e l’attestato d’onore di “Alfiere del Lavoro 2014”, nonchè la medaglia del Presidente della Repubblica, che rappresentano un prestigioso riconoscimento per

Barletta «Rientro a Barletta, per il Maresciallo AA.CC. Francesco Di Cataldo, gli anni di piombo sono finiti...» Convegno 22 novembre 2014

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ll’alba del 20 aprile 1978, il Maresciallo del Corpo Agenti di Custodia (oggi Polizia Penitenziaria) Francesco Di Cataldo, nato a Barletta il 20 settembre 1926 in servizio presso la Casa Circondariale di Milano, uscito di casa per recarsi in servizio veniva affrontato da due componenti delle Brigate Rosse, che gli esplodono sette colpi d’arma da fuoco uccidendolo all’istante. Il 15 giugno 2004 gli è stata concessa la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla Memoria, l’undicesima Medaglia d’Oro di Barletta. Durante il martellante assedio delle cronache terribili degli “anni

Antonio Francesco Vita arrivato a conclusione del ciclo di studi superiori presso il Liceo Scientifico “G.B. Scorza” di Cosenza. Ad Antonio Francesco, al papà Salvatore ed alla mamma Carmela i complimenti e gli auguri per sempre maggiori successi da parte della grande famiglia del Sappe. H (nella foto Antonio Francesco Vita di fronte al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano)

di piombo”, ci siamo abituati a considerare possibile che dietro l’angolo ci fosse qualcosa di enorme, di estremo. Ora, capire tutto ciò, percepire tutto ciò, è importante in termini di ridefinizione del ruolo del Maresciallo Francesco Di Cataldo un figlio di Barletta assassinato a Milano. Il ricordo, la condivisione del dolore e la testimonianza ci uniscono e ci rafforzano nel percorso difficile di crescita: dal dolore un impegno in difesa della vita, creando una rete di solidarietà e una spinta decisive perchè sia riconosciuta pari dignità a tutte le vittime, per questi motivi il 22 novembre 2014, con il patrocinio del Comune di Barletta, del Comitato Tricolore Italiani nel Mondo e della Associazione Internazionale Vittime del Terrorismo, l’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria, in collaborazione con le realtà associazionistiche barlettane, Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia, Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra e l’Associazione Terra è Vita, ha organizzato un pubblico convegno presso la Sala del Consiglio Comunale, per far conoscere alla città di Barletta la nobile figura del Maresciallo Di Cataldo, undicesima Medaglia d’Oro barlettana, ma soprattutto per riportarlo a Barletta... Filomeno Porcelluzzi


dalle segreterie

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Potenza Le condizioni della mensa di servizio rivista@sappe.it

a Segreteria Regionale, così come lamentato dal personale di Polizia Penitenziaria, negli ultimi anni ha più volte rappresentato all’Amministrazione le pessime condizioni strutturali della Mensa di servizio che insiste presso la Casa Circondariale “A. Santoro” di Potenza, che non rispecchia pienamente i requisiti generali previsti dalla vigente normativa nell’ambito di tutti i settori dedicati (Cucina, Dispensa, Sala Ristorazione, Zona lavaggio, Servizi igienici, Depositi) per poter esercitare l’attività in questione, così come ha più volte rappresentato le pessime modalità di preparazione e somministrazione dei pasti erogati al personale sia di Polizia Penitenziaria che del Comparto Ministeri senza che la stessa Amministrazione abbia preso alcun provvedimento in merito. Oltre alla forma strutturale degli ambienti che non consentono agli addetti di utilizzare gli spazi secondo una distinta logica di preparazione, si precisa che non sono presenti frigoriferi (sia nella dispensa che nel deposito) con scomparti che consentano la suddivisione dei generi alimentari (ad esempio nello stesso

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frigorifero si trovano giacenti: carne, formaggi, salumi, verdure, acqua etc. etc.), pertanto, in assenza di specifiche apparecchiature, la conservazione e la preparazione degli alimenti rischiano di essere costantemente contaminati. Nella cucina non funzionano da anni sia l’impianto di aspirazione dei fumi che quello della lavastoviglie e l’assenza di un banco self-service non permette sia di mantenere gli alimenti ad una temperatura costante e di proteggere le vivande da contaminazioni, che di somministrare i pasti agli aventi diritto nella piena garanzia di igiene e salubrità ; basti pensare che la somministrazione avviene attraverso una “finestra” che si affaccia dalla cucina alla sala ristorazione, con la stessa che poi vengono poi riconsegnati i vassoi sporchi, in quanto non vi è la presenza in sala di un apposito carrello per posizionare i vassoi dopo essere stati utilizzati dagli avventori.

La preparazione e la somministrazione dei primi piatti avviene con la pasta che, dopo essere stata bollita, nel momento in cui deve essere servita viene riposta per qualche secondo sempre nella stessa acqua che era stata utilizzata per la bollitura iniziale, in maniera di ridare alla stessa la sensazione di essere stata appena preparata, ma in realtà la pasta viene solo riscaldata e , naturalmente, ribollita e poi ancora ribollita, per una moltitudine di volte tanto che gli ultimi fruitori sono costretti a consumare la pasta scotta ovvero ridotta completamente in frantumi. Anche la periodica sanificazione degli ambienti non risulta essere stata effettuata. H

Teramo E’ arrivato il momento della meritata pensione per Arturo Bonanni

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e foto pubblicate sono relative alla festa svoltasi il 7 novembre 2014 per il pensionamento del Sovrintendente Arturo Bonanni. La Segreteria di Teramo dopo avergli consegnato il foulard e il cappello dell’Anppe l’ha, quindi, associato. H

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cinema dietro le sbarre

Regia: Woody Allen Titolo originale: Take the Money and Run Soggetto: Mickey Rose, Woody Allen Sceneggiatura: Woody Allen, Mickey Rose Fotografia: Lester Shorr Montaggio: Paul Jordan, Ron Kalish Arredamento: Marvin March Scenografia: Fred Harpman Musica: Marvin Hamlisch Effetti: A.D. Flowers

Prendi i soldi e scappa a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nelle foto la locandina e alcune scene del film

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rendi i soldi e scappa è il film di esordio del grande Woody Allen. La pellicola racconta in chiave finto documentaristica la parabola tragicomica di Virgil Starkwell (interpretato dallo stesso Allen), giovane americano cresciuto a pane e calci nel sedere per le strade di New York. Virgil, dopo aver tentato senza successo di intraprendere la carriera di violoncellista, decide di diventare un malvivente e si dedica completamente al crimine. Purtroppo per lui, è talmente imbranato da finire continuamente in galera. Fra una condanna e l’altra, Virgil tentando uno scippo a Central Park conosce Louise della quale dopo appena un quarto d’ora si innamora perdutamente abbandonando del tutto l’idea di derubarla per diventare suo compagno di vita. Rimarrà per sempre con lei, nonostante i lunghi intervalli di separazione dovuti ai suoi arresti.

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Il film è tutto un susseguirsi di gags surreali e demenziali intramezzate dagli interventi di coloro che hanno visto crescere Virgil: dalla maestra, all’insegnante di violoncello, dagli psicologi, ai poliziotti penitenziari e,

la scheda del film

soprattutto, dai genitori in continuo disaccordo tra loro, perché la mamma lo difende a spada tratta mentre il padre non perde occasione per descriverlo come un ladruncolo da strapazzo. Entrambi i genitori sono camuffati con nasone, baffoni e occhiali alla Groucho Marx. Gli interventi si alternano con le imprese del maldestro furfante: scassinare distributori di caramelle a gettone, gioiellerie o banche, e tutti si concludono inevitabilmente con manette ai polsi e condanne. I piani narrativi intersecati sono tre ed il terzo è quello che racconta la tenera storia d’amore tra Virgil e Louise, a partire dalla scena in cui si prepara a portare a cena la ragazza per la prima volta. Il film è stato apprezzato più che altro per i tanti sketch divenuti dei classici nella filmografia di Allen, come l’evasione con la pistola di sapone (ripresa nel finale) o la sequenza irresistibile con la ricattatrice collega di ufficio che non muore mai o, ancora, l’ennesima fuga dai lavori forzati incatenato ad altri cinque detenuti. Parecchie scene sono ambientate in carcere dove, ovviamente in chiave parodistica, Virgil continua ad apprendere trucchi e trucchetti del mestiere che non gli verranno mai utili a causa della sua irreversibile inettitudine. H

Produzione: American Broadcasting Company, Jack Rollins & Charles, H. Joffe Production, Palomar Pictures Corporation Distribuzione: Deltavideo , Vivivideo, Panarecord Personaggi ed Interpreti: Virgil Stardwell: Woody Allen Louise: Janet Margolin Fritz: Marcel Hillaire Miss Blair: Jacquelyn Hyde Jake: Lonny Chapman Al: Jan Merlin Capo delle guardie: James Anderson Fred: Howard Storm Vince: Mark Gordon Frank: Micil Murphy Joe Agneta: Minnow Moskowitz Il giudice: Nate Jacobson Padrona di casa: Grace Baurer Madre di Virgil: Ethel Sokolow Pscicanalista : Dan Frazer Padre di Virgil: Henry Leff Michael Sullivan: Mike O'Dowd Kay Lewis: Louise Lasser Genere: Commedia Durata: 86 minuti Origine: USA, 1969


funzionari funzionali uella mattina non ci dovevo neppure andare a lavorare perché il mio ufficio era chiuso in occasione della festa del Santo Patrono. Tuttavia, decisi di andarci ugualmente poiché avevo alcune cose da fare e nella tranquillità di un ufficio vuoto avrei sicuramente lavorato meglio. Mentre ero assorto nel mio lavoro, ricevetti una telefonata proveniente dal reparto. Era il preposto il quale mi riferiva che un detenuto si era impiccato e che si stavano eseguendo le manovre di rianimazione per tentare di salvarlo. Quando salii non c’era già più nulla da fare. Ricordo il corpo di questo giovane ragazzo, molto giovane, adagiato sul pavimento. Chiesi subito da quanto tempo si trovasse in carcere, quasi temendo la risposta che stavano per darmi, non avendolo visto prima di quel momento né in un’altra detenzione. Quel ragazzo era entrato da pochi giorni, da incensurato, e quella mattina era stato sottoposto all’udienza di convalida dell’arresto. Chiesi di quale reato fosse accusato e mi fu risposto che non si trattava dei soliti reati di droga o, comunque, legati a comportamenti violenti. Ma in quel momento la cosa aveva poca importanza. Eseguii, in qualità di responsabile del mio ufficio, tutte le attività che il caso prevede ed effettuai tutte le comunicazioni cosiddette “di rito”, almeno quelle immediate. Me ne mancava una, la più importante. Come sempre accade in questi casi, talune cose si verificano quando le persone che dovrebbero occuparsene - per la particolare attitudine della loro professione – sono assenti. A quel punto senti sulla tua persona il peso di una cosa da fare necessariamente. Una cosa che volentieri delegheresti ad un altro. Una cosa della quale, probabilmente, tu non dovresti neppure occuparti ma che, comunque, va fatta perché c’è qualcuno, in una parte del mondo, che ha il diritto di venirne a conoscenza.

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Mario Salzano Commissario di Polizia Penitenziaria rivista@sappe.it

Quella mattina... Entra in ufficio un collega e mi porge un numero di telefono: la persona da avvisare è la madre. Mi è già capitato, in altre occasioni, di dovermi far carico di questo triste compito, ma mai mi era successo di dover cercare una madre per riferirle della morte del proprio figlio. Cosa fare? Cerco di raccogliere tutte le nozioni che, fino a quel preciso momento ho maturato nel corso del mio lavoro, ma nessuna di esse mi sembra sufficiente per affrontare adeguatamente un ostacolo che, lo ammetto, in quel momento sento più grande di me. È una cosa che va fatta e devo farla nel migliore dei modi. Raccolgo le idee, cerco di trovare un inizio da cui partire ed un filo conduttore da seguire nel discorso. Penso che forse sia il caso di tergiversare qualche altro minuto per regalare a quella madre gli ultimi momenti di una vita, forse, ancora normale. Poi penso che abbia diritto a sapere al più presto cosa è successo, perché è giusto. E questo mi dà un pò di forza. Ho una sola domanda nella mia mente: perché non sono restato a casa? Ripeto nella mia testa una sorta di discorso che dovrò fare a questa donna, sforzandomi di essere professionale ma soprattutto umano. So già che il passaggio più difficile sarà quello successivo alle

presentazioni iniziali, quello in cui “Io” getterò per sempre nello sconforto una donna comunicandole la morte del suo caro figlio. Una morte della quale sicuramente, se ne avrà la forza, mi chiederà spiegazione, probabilmente, ritenendomi responsabile per il solo fatto di averla contattata. Alzo il telefono, compongo il numero e spero non mi risponda nessuno, almeno guadagno un po’ di tempo ed ho la possibilità di “aggiustare” qualche punto del mio discorso. Sono pochi i secondi che mi dividono dalla disperazione di un’altra persona ed inizio a pensare a quanto siano assurde talune circostanze in cui, pur dovendo “somministrare” un dolore così lacerante, così intimo, non ci si conosce neppure e, quasi certamente, neppure si avrà la possibilità di incontrarsi mai. Non penso esista un sistema per dare una notizia così devastante facendo in modo che chi la riceve possa accoglierla con alleviata sofferenza. Anzi, ne sono certo. Tante altre volte mi è capitato di ritrovarmi ad affrontare simili situazioni; non so quante altre volte dovrò farlo: sicuramente mi capiterà ancora. Ritengo che a questo genere di emozioni non si faccia mai l’abitudine. E questa cosa, nonostante tutto, la considero una fortuna. H

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crimini e criminali

Luciano Lutring

Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Nelle foto sopra Luciano Lutring acompagnato dai Carabinieri a destra con la moglie Yvonne

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da ladro di polli a gangster col mitra uesto mese, sono stato sino alla fine molto dibattuto se riportare in questa rubrica la storia di Luciano Lutring. Lutring, soprannominato il solista del mitra, ladro e soprattutto rapinatore, negli anni sessanta, fu considerato il “pericolo numero uno” in Italia e in Francia, poiché con le sue razzie, seminava paura e terrore.

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una carriera da violinista per il figlio. Ma il giovane Luciano non ci pensa proprio a fare il musicista, la sua passione sono le macchine di lusso, il desiderio di giocare a fare il criminale e soprattutto le donne. Il primo “lavoretto” per procacciarsi i soldi necessari a fare la bella vita in modo spensierato è quello di andare nei locali in cui erano presenti delle

Le mie titubanze derivavano dal fatto che nonostante si fosse macchiato di una miriadi di crimini, per lo più riguardanti delitti contro il patrimonio, Lutring non aveva mai ucciso: mai prima d’ora ho parlato in questa rubrica di criminali che non si fossero macchiati almeno di un omicidio. Poi, alla fine, mi sono convinto a scrivere, anche grazie al materiale inviatomi da una mia amica che qualche anno fa, per ragioni di lavoro, lo aveva intervistato. Luciano nasce a Milano, alla vigilia del capodanno del 1937, da Elvira Minotti e Ignazio Lutring (di origine ungherese). I genitori gestiscono un bar e, oltre a vendere frutta e verdura, permettono il gioco d’azzardo sul retro del locale. Il bar diventa, così, il punto di riferimento della mala del quartiere ed è del tutto frequente notare persone girare armate per il locale, che ben presto diventano dei miti per il ragazzino. Non erano certamente queste le aspettative dei genitori, soprattutto della madre, che sognavano

slot machine, perdere qualche lira, arrabbiarsi e sfasciarle. Il tutto in comunella con il gestore delle macchinette mangia soldi che avrebbe cosi guadagnato con le riparazioni o con la sostituzione delle stesse. Tutto ciò era possibile anche grazie al fisico asciutto e scattante che Lutring aveva sviluppato nel corso degli anni facendo pugilato a livello dilettantistico. Con i soldi dello stratagemma delle macchinette, oltre a frequentare night e belle donne, Lutring compra una Cadillac 8800 di cilindrata, lunga nove metri. Inizia cosi a fare affari noleggiando l’autovettura per matrimoni, viaggi e soprattutto per alcune importanti produzioni cinematografiche che gli permettono, addirittura, di fare l’autista ad attori famosi dell’epoca come Rock Hudson e Jennifer Jones, impegnati nella provincia milanese nelle riprese del film “Addio alle armi”, tratto dal romanzo di Ernest Hemingway. La sfarzosa autovettura e soprattutto la divisa bianca che indossa per fare l’autista fanno sì che gli amici, del

quartiere milanese di San Siro, gli affibbiano l’appellativo “l’Americano”. Ma se la mattina “l’Americano” va in giro con la Cadillac per la città con i personaggi famosi, la notte si dedica ad una diversa attività: quella di ladro di polli. Lutring, insieme al “Barone”, il ladro più elegante di Milano dell’epoca, la notte va in cerca di pollai nella provincia milanese per fare razzia di pennuti. Sino a quando una notte, un contadino, accortosi della scorreria in corso nel suo pollaio, inizia a sparare e i due “soci” sono costretti a svignarsela a gambe levate. L’esperienza delle schioppettate fa maturare in Lutring la convinzione di girare armato e così si procura una Smith & Wesson a canna lunga. L’arma diventa parte integrante del look di Lutring, tanto che a volte si dimentica di averla addosso ed è ciò che avviene una mattina del 1957: “Mia zia mi mandò a pagare una bolletta della luce, un giorno piovigginoso del mese di novembre. Io andavo in giro con una Smith & Wesson nei pantaloni per fare il bullo di periferia: quando andavo la sera a ballare con le ragazzine volevo far sentire “l’angolare” per essere un guappo. Entrai nell’ufficio, l’impiegato non mi prestava attenzione, aspettai due minuti, tre minuti, lui stava lì a scartabellare le sue bollette. Ho dato una pugno sul banco dicendogli «allora ti muovi o no?» e facendo quel movimento si è spostata la giacca e si è vista la pistola. Questo impiegato, essendo probabilmente già stato derubato in passato, ha immaginato che io fossi li a compiere un gesto criminoso. Lui fa «prenda, prenda, prenda» e io «prenda che cosa?», mi dà un pacco di soldi perché a quell’epoca le mille lire erano grosse come lenzuola, erano dei pezzi di giornale. Mi ha dato tutto «prenda, prenda» e io ho preso tutto e da lì sono caduto”. (www.caniarrabbiati.it). Da quel momento inizia la sua carriera di fuorilegge, fatta di piccoli furti e remunerative rapine in banche e negozi di mezza Italia con il metodo della “spaccata”, di cui in molti attribuiscono a Lutring la paternità.


crimini e criminali D’estate, invece, in spiaggia, insieme alla “banda del Settebello”, rubava i portafogli alle ragazze che si tuffavano per fare il bagno. Una sera, sulla riviera romagnola, la banda ruba le valigie a due ragazze svizzere. Il furto darà inizio ad un lungo sodalizio con una delle due vittime, Elsa Candida Pasini, un’entreneuse, il cui nome d’arte era Yvonne, la quale dopo 40 giorni dal borseggio, diverrà sua moglie e il solo amore della sua vita. Ed è proprio per soddisfare un desiderio di Yvonne che Lutring fa il salto di qualità. La notte della vigilia del Natale del 1962, uscendo dal Duomo di Milano, la sua donna si incanta davanti ad una pelliccia esposta in una vetrina di un negozio del centro. Lutring l’accompagna a casa e torna davanti alla pellicceria; ruba una Giulia e fa la “spaccata”, sfonda la vetrina con l’auto e parte a tutta velocità con tanto di pelliccia e manichino. Nel giro di poco meno di un anno tutti quelli del Settebello finiscono a San Vittore, compreso Lutring. Nel carcere milanese trascorre alcuni mesi, ricoprendosi di tatuaggi sulle braccia: su quello destro un ferro di cavallo con due dadi, una scimitarra e il motto “the lucky for me”, su quello sinistro un cuore trafitto da una freccia, con il nome Yvonne. Mi preme evidenziare che il suo difensore di fiducia era il grande Giuseppe (detto Peppino) Prisco, vicepresidente dell’Inter dal 1963 al 2001. I furti e le rapine si succedono senza sosta con fughe rocambolesche. Paradossalmente, il suo modo di rapinare e soprattutto di non fare vittime, piace ai giornali dell’epoca che lo descrivono come un gangster buono, quasi un “Robin Hood”. Le cronache milanesi fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 parlano in modo martellante di Luciano Lutring, bandito che si distingue per i modi quasi gentili e soprattutto per l’assenza di violenza fisica e di spargimento di sangue. Insieme ad altri due complici, “lo Zio” e il “Professore”, inizia a svaligiare negozi, svolgendo quasi sempre il ruolo del palo, con il cappello calato sugli occhi e mitra Sten nascosto sotto il soprabito.

Per questa particolarità, e per l’abitudine di nascondere il fucile mitragliatore nella custodia di un violino, è soprannominato “il solista del mitra” (l’appellativo sarà coniato dal giornalista del Corriere della Sera, Franco Di Bella). Il sodalizio criminale dopo poco si scioglie e Lutring fa nuove conoscenze oltralpe, tanto da aderire alla scuola dei “duri di Marsiglia”. E’ la fase più eccentrica della sua carriera criminale in quanto, adesso, con la nuova banda italo-francese, inizia a svaligiare le banche con blitz decisi, basati più sull’effetto sorpresa che sull’uso dei mitra e delle pistole e dopo ogni rapina la banda si disperde in diverse città dislocate su un ampio territorio tra l’Italia e la Francia. Ricercato in mezza Europa, la sera del 2 settembre 1965, a Parigi, in rue Miromesnil, dopo un conflitto a fuoco con la Gendarmeria francese, viene ferito ed arrestato. Condotto dapprima in ospedale, dopo 33 giorni di ricovero viene rinchiuso nella famosa prigione della “Maison d’arrêt de la Santé” (per colpa del suo nome, nella malavita francese non si brinda mai alla salute, in quanto nessuno vuole augurare a un altro malfattore “santè”). I capi di imputazione sono numerosi ma, soprattutto, c’è l’accusa di aver ferito diversi poliziotti, tra cui un brigadiere di Moulins rimasto paralizzato. La condanna è esemplare: 22 anni di reclusione e trasferimento nel carcere di Muret, alle pendici dei Pirenei, dove inizia, tra l’altro, a dipingere e a mantenere numerose corrispondenze, tra cui quella con l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che nel corso della fittissima corrispondenza epistolare scrive: “Ricordati che chi ha la libertà nel cuore non sarà mai prigioniero”. Nel penitenziario di Murat il regime carcerario è rigido e i detenuti sono obbligati ad indossare particolari segni distintivi sulle divise, a seconda del grado di pericolosità: rosso per i delinquenti giudicati pericolosi, giallo per quelli in riabilitazione e verde per quelli oramai tranquilli. Le vicende giudiziarie di Lutring lo costringono a tornare in

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Italia per affrontare le malefatte commesse nel territorio italiano. Viene cosi tradotto dal carcere francese a San Vittore. Nel carcere milanese, per protestare contro il regime detentivo francese, tenta addirittura di impiccarsi arrotolando delle lenzuola: l’intervento immediato di un Agente di Custodia gli salva la vita. Grazie a questo gesto e alla pressione mediatica dell’opinione pubblica, nonché di personaggi famosi dell’epoca, Lutring rimane nelle carceri italiane. Nel 1973, mentre era rinchiuso nel carcere di Volterra, gli viene comunicato il provvedimento di grazia concessogli dall’allora Presidente

della Repubblica Francese, Georges Pompidou. Viene cosi trasferito, per avvicinarsi ai suoi famigliari, nel carcere di Brescia dove nel corso della sua detenzione, nel 1977, viene nuovamente raggiunto da un provvedimento di grazia, del Presidente della Repubblica italiano, Giovanni Leone. Nel 1966, con la regia di Carlo Lizzani, esce un film ispirato alla biografia di Lutring, dal titolo “Svegliati e uccidi”, interpretato da Robert Hoffmann, Lisa Gastoni e Gian Maria Volonté. Del 1975 è un altro film, “Lo zingaro” di José Giovanni (tratto dal romanzo Histoire de feu dello stesso regista), nel quale Lutring è interpretato da Alain Delon. Negli ultimi anni Lutring faceva il pittore e lo scrittore a tempo pieno. Ha esposto in numerose mostre, collettive e personali, ricevendo molti premi e riconoscimenti. È scomparso il 13 maggio 2013 all’età di 75 anni, ad Arona, in provincia di Novara. Lutring sarà ricordato soprattutto per due record: centinaia di rapine e due grazie! Alla prossima... H

Nella foto ancora Luciano Lutring

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il libro del mese

salute e sanità

Gerardo Canoro

MANUALE DELL’OPERATORE PENITENZIARIO VII Edizione pagg. 745 con 2 CD ROM- euro 20,00

uova edizione per un Manuale che, da anni, è un punto di riferimento e di consultazione per tutti gli operatori penitenziari per chiarimenti di natura amministrativocontabile e giuridica (come la complessa normativa delle missioni o le assenze dal servizio). Gerardo Canoro è stato un dipendente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in servizio presso la Casa Circondariale di Lucca, con la funzione di capo area amministrativocontabile. Ha pubblicato, in varie edizioni, libri e dispense, numerosi testi in materia di amministrazione e contabilità penitenziaria, partecipando anche a convegni. E’ stato docente in numerosi corsi di formazione e di aggiornamento delle varie categorie del personale penitenziario, ricoprendo anche incarichi presso l’Ente di Assistenza del Dipartimento e presso il Collegio arbitrale di disciplina del Ministero della Giustizia. In questa settima edizione, “il” Canoro (così è chiamato dagli addetti ai lavori il Manuale, tale è l’autorevolezza che gli viene riconosciuta, anche per la sua completezza) offre gli aggiornamenti in ogni materia, arricchita da circolari e sentenze. Spesso usato anche per la preparazione MANUALE ai concorsi DELL’OPERATORE pubblici e PENITENZIARIO interni, tra i 2 CD-ROM temi trattati nel Manuale vi sono

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Nel box la copertina del libro di Gerardo Canoro con i CD Rom

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l’ordinamento penitenziario, quello del Corpo di Polizia e dell’Amministrazione penitenziaria; le attribuzioni, i doveri e le responsabilità del personale penitenziario. Un compiuto ed approfondito esame della contabilità generale dello Stato e della amministrazione e contabilità penitenziaria. Disponibile su Cd-Rom in formato PDF, con allegati anche quesiti e pareri vari, è accompagnato da un secondo Cd-Rom contenente alcuni dispense sulle “Assenze dal servizio” e la “Raccolta leggi sulle missioni”. Il costo complessivo, comprese le spese di spedizione, è di soli 20 euro, che potranno essere versate al ricevimento del materiale previo bollettino postale. Per acquisti, contattare l’Autore: tel. 3 2 9 . 7 8 6 1 9 3 7 email: gerardo.canoro@libero.it

a Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPeonlus) e la Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) hanno presentano il 12 novembre scorso, in un convegno che si è tenuto presso la Biblioteca del Senato della Repubblica “Giovanni Spadolini”, la nuova edizione 2015 de “La Salute non Conosce Confini”, Campagna d’informazione e sensibilizzazione sulle patologie infettive croniche negli istituti penitenziari italiani. Il progetto, sostenuto da quattro anni da un contributo incondizionato di Gilead Sciences Italia, ha permesso infatti la produzione dei dati più recenti ed attualmente disponibili sulla diffusione delle Malattie Infettive all’interno del Sistema Penitenziario Italiano. Dopo il transito delle competenze sulla Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia al S.S.N., le uniche stime oggi a disposizione di chi amministra sulla diffusione di virus epatitici B e C, Tubercolosi, HIV/AIDS, malattie sessualmente trasmesse, Psoriasi e rischio infettivo nelle persone detenute sia italiane che straniere, derivano quasi esclusivamente dai dati prodotti da Esperti iscritti e coordinati dalle due Società. In particolare, l’importante diffusione stimata tra il 30 ed il 40% dei residenti, dell’infezione da HCV e l’epatite cronica attiva con evoluzione in cirrosi epatica che ne consegue, appaiono oggi come la prima emergenza sanitaria da affrontare in questo ambito. Ma i dati dimostrano in modo inoppugnabile come anche per le altre patologie infettive la diffusione risulti preoccupante, con ciò comprendendo anche quali e quanti rischi reali affrontano quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria impegnati a contatto diretto con la popolazione detenuta. Ad esempio, oltre la metà delle persone detenute risulta essere venuta a contatto con il virus dell’epatite B, anche se coloro che risultano portatori attivi di malattia si attestano intorno al 5-6% dei presenti. I test di screening cutanei sulla

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salute e sanità

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Le carceri in Italia e in Europa sono diventati i nuovi lazzaretti? tubercolosi, che non rilevano la malattia attiva ma permettono d’identificare i portatori dell’infezione che, notoriamente, la manifestano solo in caso di riduzione delle difese immunitarie, risultano 15-20 volte superiori alla popolazione generale e, tra i detenuti stranieri, oltre la metà risultano positivi. L’infezione da HIV è ancora oggi ampiamente diffusa tra le persone detenute tossicodipendenti, con prevalenze in questi maggiori del 20% e del 5-7% sulla popolazione generale residente. Le Malattie a trasmissione sessuale appaiono di frequente riscontro in tale ambito e, segnatamente, la Sifilide pur interessando non più del 2-3% dei presenti, mostra un tasso di inconsapevolezza elevatissimo (>85%).

Il convegno di Simspe e Simit è nato dall’auspicio che con la prossima introduzione di nuovi farmaci per il controllo di alcune di queste infezioni si potrebbe permettere una loro cura durante il periodo detentivo, restituendo alla società uomini liberi sia dalla propria pena che da un’infezione oramai non più trasmissibile. Il convegno, nel quale brillava per assenza il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (!!!), è iniziato con i saluti istituzionali del senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri: “saluti imbarazzati”, come ha voluto sottolineare, “perché dopo la frustata del messaggio del Capo dello Stato dell’8 ottobre sulle criticità penitenziarie e sulla inadeguatezza del sistema, nulla di significativo e nessuna misura di carattere strutturale in un anno è stato fatto”. E ha convenuto con le sollecitazioni di Sergio Babudieri

(presidente di Simspe) sulla necessità di istituire un Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria presso l’Istituto superiore di Sanità. Massimo Andreoni, presidente Simit, che pure ha richiamato come sia possibile cambiare il mondo facendo anche le piccole cose, ha sottolineato come la detenzione possa avere una sua positività: “per far comprendere ai detenuti le malattie e per poterli curare”, cosa che forse, in libertà, non succederebbe.

ombre. Ha evidenziato che i dati dei suicidi in carcere registrano una flessione, con il dato più contenuto dal 1992, mentre sono i decessi per cause naturali in cella a segnare un preoccupante dato più elevato degli ultimi vent’anni. Ma ha denunciato che, sul tema della sanità penitenziaria, ogni Regione agisce per conto proprio, senza una reale coordinamento nazionale, così come manca un concreto impegno del Miur (Ministero dell’Università e Ricerca) Nella foto a fianco Giulio Starnini

Tutti di alto livello e interesse gli interventi dei relatori. Merita una segnalazione Giulio Starnini, direttore di Medicina protetta e malattie infettive dell’Ospedale Belcolle di Viterbo, che, come ha detto lui stesso, ha voluto vestire i panni del “cavaliere oscuro” per parlare di un argomento che ha, appunto, luci e

se si pensa che non esiste medico e infermiere che abbia fatto un corso di formazione universitaria in sanità penitenziaria. Ha parlato, con concretezza e supportato da dati oggettivi, di problemi reali, quelli con i quali ogni giorno anche i poliziotti penitenziari hanno a che fare. Interessante, infine, anche l’intervento di Roberto Monarca, che come presidente di HWB – Federazione europea della Società di Medicina Penitenziaria, ha offerto una disamina della situazione sanitaria e detentiva in Europa. La qualità del convegno di Simspe e Simit è stato dunque di alto livello. E proprio per questo l’assenza del DAP ai lavori ci sembra più ingiustificata che incomprensibile… H Roberto Martinelli

Nella foto Sergio Babudieri Presidente del Simspe

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24 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Sopra la copertina del numero di aprile 2000

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come scrivevamo

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iù di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

Al Corpo le mansioni di Polizia Stradale Intervista all’On. Edoardo Bruno di Franz Sperandio

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a quando é stato affidato al Corpo di Polizia Penitenziaria il compito istituzionale delle traduzioni e dei piantonamenti dei detenuti non si fa che discutere di come dovranno comportarsi sulle strade, in servizio, i componenti dei Nuclei TP, nel caso di rilevamento di infrazioni al Codice della Strada o di interventi d’emergenza per incidenti. La logica vorrebbe, dal momento che agli appartenenti al Corpo spetta la qualifica di agenti e ufficiali di PS e di PG, che se assistono a un reato o all’infrazione di una regola da parte dei cittadini dovrebbero “per dovere d’ufficio” intervenire. Sulla strada, però, fino a oggi alla Polizia Penitenziaria é sempre stata negata la partecipazione diretta nel controllo della viabilità e nel rilevamento di infrazioni al Codice, negando in pratica l’effettività operativa alla qualifica di PS, limitata in quei casi a stendere un verbale da presentare ad altra forza di polizia specificamente delegata a far rispettare il Codice della Strada. Già da tempo, alla Commissione Trasporti della Camera dei Deputati é in discussione la riforma del Codice Stradale e, grazie a uno specifico emendamento al testo redatto e presentato dall’on. Eduardo Bruno, dei Comunisti Italiani - é stata approvata la partecipazione del Corpo di Polizia Penitenziaria alle mansioni di polizia stradale. Abbiamo incontrato il deputato comunista nell’ufficio del suo gruppo alla Camera, tra una seduta e l’altra dell’Aula, e gli abbiamo posto alcune domande. D. - Onorevole Bruno, lei é amico e dello stesso partito del ministro della Giustizia Diliberto. E’ stato lui a trasmettere la volontà del Corpo

di Polizia Penitenziaria di poter partecipare ai compiti di polizia stradale? R. - Beh, veramente no, o almeno solo in parte. In Commissione Trasporti partecipo sempre attivamente ai lavori e m’informo molto bene sui provvedimenti in esame. Ben conoscendo i compiti del Corpo di Polizia Penitenziaria - tra cui, appunto, c’é anche quello delle traduzioni e piantonamenti dei detenuti, che vede il personale impiegato sulla strada, all’esterno delle carceri - ho ritenuto indispensabile il fatto che, nell’espletamento del servizio, il Corpo possa fruire dei poteri di polizia stradale nei casi in cui si rendesse necessario. Conosco la grande professionalità della Polizia Penitenziaria, per averla vista all’opera con il Ministro Guardasigilli e ritengo perciò sia un Corpo che non ha nulla da imparare dalle altre forze di polizia. E poi, mi risulta che ai corsi di formazione ed aggiornamento al personale del Corpo vengano insegnate anche nozioni di polizia stradale e, quindi, é già preparato all’adozione di tale nuovo compito. D. - Il suo emendamento in Commissione non é stato approvato all’unanimità: com’é andata la votazione? R. - Nel presentarlo, ho spiegato molto bene ai colleghi commissari come e perché quel provvedimento era necessario, ma non tutti l’hanno recepito, forse per una sorta di pregiudizio sulle capacità del Corpo. Il rappresentante di Forza Italia (Paolo Mammola, n. d. r.), ad esempio, ha votato contro ritenendo che la Polizia Penitenziaria dovesse


come scrivevamo

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prima “imparare e capire” cosa sono i servizi di polizia stradale, ritenendo il suo personale non all’altezza della situazione. Il commissario della Lega Nord (Rinaldo Bosco, n.dr.), invece, ha negato il suo assenso solo perché “ci sarebbero già troppe polizie sulla strada”: un giudizio strumentale e provocatorio che non ha nulla a che vedere con il contenuto dell’emendamento. Il provvedimento, comunque, é passato e ora andrà all’esame dell’Aula. D. - Con il nuovo testo, però, dovrà anche essere previsto che parte degli introiti delle sanzioni comminate per violazioni al Codice della Strada sia destinata al benessere del Corpo. Presenterà un altro emendamento in tal senso? R. - L’ho già fatto e spero che in Aula la modifica non incontri alcuna preclusione alla sua approvazione, nemmeno da parte di chi ha votato contro il primo emendamento in Commissione. Altrimenti, sarebbe una mini-riforma a metà e il Corpo di Polizia Penitenziaria, in definitiva, opererebbe in un nuovo servizio avendone soltanto gli oneri e non i vantaggi conseguenti. La normativa vigente, pealtro, prevede che parte dei proventi delle sanzioni amministrative redatte dalle forze dell’ordine sia impiegata per migliorare i mezzi, la formazione e la professionalità degli appartenenti ai Corpi di polizia che operano sulla strada (Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Arma dei Carabinieri, n.d.r.): é più che giusto, quindi, inserire tra i beneficiari anche la Polizia Penitenziaria. Non vedo come e perché dovrebbe essere negata tale prerogativa. D. - Cosa pensa del lavoro che sta svolgendo a via Arenula il collega di partito Oliviero Diliberto? R. - A prescindere dall’amicizia che mi lega al Ministro, ho sempre considerato Diliberto un uomo preparato, dalle grandi vedute e molto attento ai cambiamenti nelle istituzioni e nella società. Già da capogruppo alla Camera - dopo la scissione da Rifondazione Comunista - l’amico Diliberto ha dimostrato le sue grandi doti umane e

intellettuali e un’innata capacità di mediazione e di diplomazia. Per quello che ha già fatto e sta facendo, averlo a capo del dicastero, per molti versi il più importante e delicato del Governo, é la dimostrazione della giusta scelta del presidente Armando Cossutta che l’ha voluto a un incarico così importante e di grande esponsabilità. Sta facendo benissimo il Guardasigilli, dimostrando a tutti, nei suoi interventi in campo penitenziario e giudiziario, che i Comunisti Italiani possono e sanno governare come e meglio di altri. Mi auguro che la sua fatica e i cambiamenti e benefici che ha apportato al sistema vengano recepiti dall’elettorato, che dovrebbe premiare il grande impegno suo e di tutto il gruppo politico che rappresenta. Il Pdci é una forza viva che ha bisogno di crescere, ma già così risulta essere determinante nel sostegno al Governo D’Alema, e lo

sarà anche nei prossimi eventuali altri governi di centro-sinistra. D. - Per le prossime elezioni regionali qual é il suo auspicio e speranza di successo per il Pdci? R. - Spero che i candidati del centrosinistra ottengano il consenso dei vincitori almeno nelle nove regioni in cui attualmente tale coesione politica é al governo e che il mio partito, il Pdci, eresca fino al 5/6 per cento, per essere ancora più presenti e propositivi nelle istituzioni. Se l’elettorato recepisse in pieno quanto sia davvero importante e necessario dare fiducia al Pdci e, soprattutto, quanto hanno lavorato per il bene del Paese i suoi vertici e rappresentanti parlamentari, in proporzione dovremmo poter raggiungere quel traguardo di consensi. Almeno lo spero. A Firenze, il mio collegio elettorale,

sopra l’On. Edoardo Bruno tra Donato Capece e Giovanni Battista De Blasis sotto la vignetta di aprile 2000

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il racconto

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Una giornata particolare di Rosa Cirone

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Nel riquadro il sommario del numero di aprile 2000

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ma anche in altre parti del Paese, la gente é vicina a noi e sa benissimo, per averci visto all’opera, che i Comunisti Italiani sono una forza democratica e repubblicana, non massimalista né nostalgica, ma semmai attenta ai bisogni ed esigenze della moderna società. Oliviero Diliberto ne é un palese esempio. Dalla Polizia Penitenziaria sento dire continuamente: “Benedetto il giorno che questo Ministro é arrivato alla Giustizia. Speriamo resti ancora per anni!”. Evidentemente, qualcosa di buono ha fatto, ha lasciato un segno più che positivo, e non devo certo essere io a ricordarlo ai lettori di “Polizia Penitenziaria”! Il campanello che indica votazioni in corso in Aula a Montecitorio continua a trillare. L’intervista é al termine: lasciamo l’On. Eduardo Bruno ai suoi doveri di parlamentare e gli facciamo i migliori auguri che le sue speranze di successo elettorale per il Pdci si realizzino. Rafforzando il partito sarà più forte anche Oliviero Diliberto e, in fondo, é quello che la gran parte degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria si augurano. Quantomeno fin che resta in via Arenula. H

REFAZIONE

Ho letto molti scritti della Signora Laura Niro, notaio dell'Aquila e madre della Dr.ssa Antonella Basile, capo area educativa della Casa circondariale di Prato. Le emozioni “estorte” o “donate” attraverso la sua penna emanano un desiderio di uscire dagli abiti del notaio per “calarsi” a raccontare la vita e le sensazioni da lei provate durante un percorso che, è evidente, è stato di grande passione per tutto quello che ha fatto. Donna di enorme cultura, ha trasmesso ai suoi figli ed ai nipoti il “profumo” del sapere e l'arte di “godere” delle immagini sublimi che il sole, il mare, un quadro, una scultura, possono evocare. I temi trattati nella rivista non mi consentono però di proporre molti dei suoi lavori per la particolarità dei contenuti ma questo che leggerete, sono sicura, vi coinvolgerà, poiché è uno scatto fotografico particolare e struggente dei luoghi e delle sofferenze interiori dell'umanità dolente. Buona lettura. Rosa Cirone La Procura Una lettera “Raccomandata” con avviso di ricevimento proveniente da uno studio legale, in genere preannunzia noie. Questa poi viene dalla Sicilia, dal profondo misterioso sud e da un mittente sconosciuto. L’apro con titubanza mi si chiede con molta cortesia di recarmi presso la locale Casa Circondariale per raccogliere la firma di un detenuto, che, in quanto tale, ha bisogno di essere rappresentato in una cerimonia che si svolgerà nel suo paese. La famiglia provvederà attraverso il suo studio, a soddisfare la mia parcella senza limiti di spesa.

L’ingresso in un carcere è sempre complicato da innumerevoli controlli, nonostante la mia qualifica e lo scopo per il quale chiedo l’accesso: documenti, tessera professionale, tutto viene fotocopiato, e poi il contenuto della mia borsa. Chi volesse semplicemente rispondere all’invito del Vangelo che fra le sette opere di misericordia pone “Visitare i carcerati” finirebbe col rinunziarvi o gli sarebbe comunque impedito. Seguo l'Agente di Polizia Penitenziaria addetto per lunghi corridoi nei quali sono in corso pulizie ad opera dei reclusi muniti di scope e secchi. La ripetuta chiusura alle mie spalle di inferriate con grosse chiavi mi provoca un certo disagio. Il direttore mi viene incontro e mi guida in un ambiente piccolo e riservato. Finalmente, accompagnato da una guardia, viene introdotto il mio cliente. Uno sguardo reciproco e forte ci pone di fronte una donna e un ragazzo. Ci scopriamo tali, diversi da quanto entrambi ci aspettavamo: lui non certo una donna, sia pure in severo tailleur, io un ceffo incallito, visto che è ospite del reparto “di alta sicurezza”, cioè di massima pericolosità. Mi trovo invece di fronte un ragazzo,alto, biondo, un ciuffo gli sfiora la fronte, una corporatura snella ma solida, ma soprattutto uno sguardo smarrito. I documenti me li ha mostrati il direttore, ma mi serve anche la professione che non è riportata sulle carte. Che fai? Niente, sto qui, un po’ studio. Sì, ma che cosa fai nella vita? Il pastore. Comincio a leggere il contenuto dell’Atto come predisposto dall’avvocato. “Il giorno quindici del mese di aprile, in …e nei locali della Casa Circondariale di…il Signor Donato… nato a ..il…ha dichiarato di voler contrarre matrimonio con la signorina Rosalia….. e pertanto autorizza il di lei fratello…ad intervenire e ad


il racconto esprimere per suo conto, vece ed interesse il consenso presso..”ecc. Bene, ora lo devi formalmente dichiarare a me, vuoi davvero sposare Rosalia, ecc.ecc- amarla e proteggerla finchè morte non vi separi? Sì. Il volto è contratto, fa un grande sforzo per dissimulare turbamento e commozione. Gli sottopongo il foglio e, dopo una breve esitazione, lo firma. Il mio compito è finito. Raccolgo le carte e mi dispongo ad andarmene. Non mi è facile, lui mi guarda, come volesse dirmi qualcosa, ma c’è l'Agente ed è entrato anche il direttore che vorrebbe offrirmi un caffè. Non accetto, ma ancora incrocio lo sguardo del giovane, che sembra non voglia lasciarmi. Gli porgo la mano per un saluto. Quella stretta mi vorrebbe trasmettere qualcosa oltre tristezza, paura, disperazione, solitudine ma devo andare ed esco malvolentieri e turbata, avverto una richiesta tacita di aiuto. Se posso, torno a trovarti. Non posso e non ho tempo. Una procura, un atto da niente, ma non è proprio così, è un trasferire ad altri un proprio potere. Mi sorprendo a pensarci qualche volta :avrà davvero espresso la sua libera volontà, e poi con quale prospettiva? Lunghi anni in carcere e allora, un matrimonio, che senso ha, mi dicono che lei non è mai andata a trovarlo. Il lavoro mi impegna e finisco per non pensarci più. Ma sono passati solo alcuni mesi e sulla mia scrivania trovo una nuova raccomandata :il solito avvocato mi richiede un nuovo atto di delega. Questa volta al ragazzo si chiede di sottoscrivere un’altra procura con la quale nominare procuratore generale il fratello della giovane moglie e, pertanto, autorizzarlo a gestire interamente il patrimonio di esso mandante Donato senza obbligo di rendiconto, e quindi vendere, acquistare, stipulare mutui ecc. tranne donare, altrimenti ci sarebbero voluti i testimoni. La richiesta mi è stata fatta dallo stesso studio legale in modo cortese ma perentorio con allegato un cospicuo assegno, dovendo tale atto scontare la tassa di Registro. La cosa non mi piace. Restituirò

l’eccedenza fuori tariffa, ma intanto sono di nuovo qui. Il ragazzo mi viene condotto nella solita stanzetta. Sembra da come mi guarda che io sia la sola persona da cui attingere sicurezza e conforto, mi stringe la mano e io ne resto turbata. Ma perché hanno scelto proprio me tra tutti i notai del distretto, me emotiva e sempre tormentata dal dubbio che le cose stiano proprio così, che i fini siano corrispondenti alle dichiarazioni rese; che assurdità credere o pretendere che le svariate vicende umane possano essere rappresentate o contenute in rigidi formulari. Non mi lascia la mano ed io gliela trattengo a mia volta, lo so, è poco professionale, ma sono preoccupata, che cosa posso fare per questo ragazzo, sulle carte un delinquente, per rispondere a questa richiesta di aiuto che senza parole, mi rivolge con gli occhi. Estraggo dalla borsa la nuova procura, insieme, lo so, ancora una volta non professionale, ad un sacchettino di dolci casalinghi, in casa mia non mancano mai, ed a qualche libro, le vite del Tintoretto scritto dalla Mazzucco e di Monet, due grandi pittori, che hanno vissuto amori forti, profondi, tormentati. Ma sarà stata una scelta giusta? Più tormentato del suo ! Un amore? Chi può sapere che c’è davvero dietro. In ogni caso una sposa giovane che vedrà, se la vedrà, tra qualche anno, a pena scontata . Eccolo di nuovo qui di fronte a me, confuso e silenzioso. Sono irritata, alla fine io che ne so, io non so mai niente e mi coglie il dubbio atroce di essermi prestata in questo caso ad un gioco perverso tramato contro questo giovane, spaventato, triste, da cui non esce una sola parola, che sembra assente, immerso nel ricordo degli aperti vasti spazi della sua terra, i “paesi della luna” con la mente – “al profilo della mandorla, al pesce selvaggio – che palpita argentato sulla via delle sorgenti”, alla sua terra, ai giorni felici, e rubo per lui nella memoria, i versi bellissimi di Pablo Neruda, immagini di “pianure fiorite... tra le braccia gialli giacinti e rose lacerate e papaveri insanguinati…e sulle labbra sapori

d’uva… lui che tagliò ghirlande ribelli per il giaciglio selvatico fragrante di sole e di selva e colse giacinti per il letto della sua sposa che ora … attende nella notte stellata sopra le spiagge auree, sopra le bionde aie” Più o meno. Paesaggi e momenti sognati. Tutto questo gli è stato negato Ho ricordato i versi di Neruda ripensando a lui nei giorni seguenti mentre il computer acquisiva il freddo testo della procura per gli adempimenti. Ma sarà poi così, io che ne posso sapere, e se mi avessero usato per assecondare le loro losche macchinazioni ai danni di questo giovane, vittima designata per coprire un delitto che non ha commesso. Per la seconda volta è apparso nelle carte questo tale, fratello della sposa, ad appropriarsi della vita privata e del patrimonio di Donato. Come ho fatto a non capirlo? Avevo provato, tormentata dal dubbio: Vuoi che lasciamo stare, non sei tenuto a firmare, io posso andare. No, mi ferma. C’è un mondo sommerso, torbido, dal quale, una volta messo piede, è difficilissimo uscire, pena la morte, impenetrabile ai “non addetti”, ad una come me che vede scorrere la vita sulle carte bollate. Ancora gli chiedo se capisca che cosa sta firmando, non ti resta più nulla, anche se in apparenza è solo una procura, lo capisci? Non risponde, prende la penna dalle mie dita, si sofferma appena un attimo a sfiorarle e poi sottoscrive “in mia presenza e vista”. Raccolgo i fogli e infilo tutto nella mia borsa. Lo lascio e il suo sguardo mi segue accorato, quasi supplicante. Che cos’è che, potendo, non ho fatto? Ripercorro i corridoi e mi ferisce l’aspro odore di formalina sparso dal detenuto di turno alle pulizie. Tutto si è concluso secondo piani prestabiliti, non ci vorranno altre firme. Sappiamo che non ci rivedremo più. Ancora uno sguardo, ancora un attimo in cui cerca di trattenere la mia mano, ma l'Agente di Polizia Penitenziaria lo prende per un braccio, ed io torno a ripercorrere i lunghi corridoi tra l’odore acre di formalina e lo stridere dei cancelli. H

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Marianna Argenio Commissario Polizia Penitenziaria rivista@sappe.it

mondo penitenziario

I limiti alla carcerazione per genitori con figli minorenni a sentenza della Corte Costituzionale 22 ottobre 2014 n. 239 ben si presta a fornire lo spunto per una riflessione ad ampio raggio in ordine ai limiti alla carcerazione posti in genere dal nostro ordinamento in funzione della tutela del rapporto genitoriale con figli minori, offrendo così il destro anche per una opportuna ricostruzione sistematica della disciplina di questo particolare argomento.

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L’intervento della Consulta, per vero, trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, l. n. 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui estende il divieto di concessione dei benefici penitenziari, stabilito nei confronti dei detenuti e degli internati per taluni gravi delitti che non collaborino con la giustizia, anche alla misura della detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47quinquies della medesima legge a favore delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni. La questione di legittimità era stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze. Ad avviso del rimettente, la norma censurata

violerebbe l’art. 3 della Costituzione, ossia il principio di ragionevolezza, assoggettando la misura considerata al medesimo regime restrittivo stabilito per le altre misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975, senza tener conto dei marcati tratti differenziali che la separano da queste. Infatti, la detenzione domiciliare speciale, a differenza delle altre misure non costituirebbe un beneficio tendente al reinserimento sociale del condannato, ma tutelerebbe il preminente interesse del figlio minore a recuperare al più presto un normale rapporto di convivenza con la madre al di fuori dell’ambiente carcerario. Facendo prevalere su tale interesse la pretesa punitiva dello Stato, la disposizione denunciata riverserebbe, dunque, irragionevolmente «sulle fragili spalle del minore» le conseguenze delle gravi responsabilità penali della madre e della sua scelta di non collaborare con la giustizia, ovvero del fatto che ella non riesca a veder riconosciuta l’inesigibilità, l’impossibilità o l’irrilevanza di detta collaborazione. La norma denunciata violerebbe, altresì, gli artt. 29, 30 e 31 Cost., ponendosi in contrasto con l’imperativo costituzionale di tutela della famiglia come società naturale, con il diritto-dovere dei genitori di educare i figli e con il corrispondente diritto di questi di essere educati dai primi, nonché con l’obbligo di protezione dell’infanzia. Il giudice a quo non contesta, dunque, tout court la legittimità costituzionale del regime di cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, in sé considerato: reputando, anzi, «comprensibile e ragionevole» che nei confronti degli autori di delitti di particolare gravità e allarme sociale il

legislatore stabilisca regole di accesso ai benefici penitenziari più severe di quelle valevoli per la generalità degli altri condannati. Il rimettente si duole, per converso, del fatto che il regime restrittivo risulti esteso anche ad una misura alternativa alla detenzione avente finalità affatto peculiari, che la porrebbero su un piano nettamente distinto rispetto alle altre, rendendo non più valida l’indicata conclusione: quale, in particolare, la detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975. Giova, al riguardo, ricordare come all’epoca dell’entrata in vigore della legge n. 354 del 1975 le uniche norme intese a proteggere il rapporto genitoriale con i figli minori fossero costituite dagli artt. 146 e 147, numero 3), cod. pen., che disciplinavano, rispettivamente, il rinvio obbligatorio (per la donna incinta o con prole di età non superiore a sei mesi) e il rinvio facoltativo (per la madre di prole di età non superiore ad un anno) dell’esecuzione della pena. Il nuovo ordinamento penitenziario varato con la legge n. 354 del 1975, sebbene ispirato ai principi di umanizzazione della pena e della rieducazione del condannato, si era limitato d’altra parte a prevedere, sotto il profilo considerato – oltre alla presenza, presso ogni istituto penitenziario per donne, di servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere – la possibilità per le detenute madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni, con il connesso obbligo dell’amministrazione penitenziaria di organizzare appositi asili nido, per la cura e l’assistenza dei bambini (art. 11, ottavo e nono comma). Appariva evidente, peraltro, come l’ingresso del


mondo penitenziario minore di tre anni in carcere costituisse una soluzione largamente insoddisfacente del problema, giacché, per un verso, si limitava a differire il distacco dalla madre, rendendolo sovente ancor più drammatico; per altro verso, inseriva il bambino in un “contesto punitivo” e povero di stimoli, tutt’altro che idoneo alla creazione di un rapporto affettivo fisiologico con la figura genitoriale. Solo in un momento successivo, con la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), venne introdotto nel sistema l’istituto della detenzione domiciliare (art. 47-ter della legge n. 354 del 1975), identificandone nella madre di prole in tenera età uno dei destinatari tipici. Tale misura – i cui presupposti soggettivi e oggettivi di fruibilità venivano successivamente modificati a più riprese dal legislatore, in senso dilatativo – consentiva al bambino di giovarsi di un’assistenza materna continuativa in ambiente familiare, o comunque extramurario, malgrado lo stato di detenzione della genitrice. Nel testo vigente, il comma 1 del citato art. 47-ter consente, in particolare, alla madre di prole di età inferiore a dieci anni, con lei convivente, di espiare in forma extracarceraria la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto di qualsiasi entità (lettera a). In accordo con i principi affermati da questa Corte (sentenza n. 215 del 1990), analoga possibilità è accordata al padre, nel caso in cui la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata ad assistere la prole (lettera b). Un ulteriore passo in avanti fu compiuto dalla legge 8 marzo 2001, n. 40, intitolata specificamente «Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori». A fianco di altri interventi – tra cui l’ampliamento del rinvio dell’esecuzione della pena, che, nella sua forma facoltativa, giungeva fino ai tre anni di età del bambino (soglia massima consentita per la permanenza in carcere con la madre detenuta: ciò,

nell’ottica di limitare quanto più possibile il fenomeno della “carcerizzazione degli infanti”), e la previsione della possibilità di ammettere le condannate alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli infradecenni (art. 21-bis della legge n. 354 del 1975) – la novella introduceva la misura della detenzione domiciliare speciale (art. 47quinquies della legge n. 354 del 1975). Come si desume dall’incipit della norma («Quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter»), detto istituto assume natura “sussidiaria” e “complementare” rispetto alla detenzione domiciliare “ordinaria” (e segnatamente a quella prevista dal comma 1, lettere a e b, del citato art. 47-ter), trovando applicazione in assenza dei presupposti che legittimano il ricorso a quest’ultima: laddove il riferimento è soprattutto all’ipotesi in cui la pena detentiva da scontare superi il limite dei quattro anni di reclusione. In tale evenienza, le condannate con prole di età non superiore a dieci anni possono essere comunque ammesse ad espiare la pena «nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli», a condizione che abbiano già espiato almeno un terzo della pena o almeno quindici anni, nel caso di condanna all’ergastolo (comma 1 dell’art. 47-quinquies). In aggiunta a ciò, occorre che vi sia «la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli» e che non sussista «un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti»: condizione, quest’ultima, non esplicitamente enunciata in rapporto alla detenzione domiciliare ordinaria. Analogamente a quanto avviene per detenzione domiciliare ordinaria, è inoltre previsto che, se la madre è deceduta o versa in condizioni tali da renderle assolutamente impossibile provvedere alla cura dei figli, e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre, la misura in esame può essere concessa anche al padre detenuto (comma 7 dell’art. 47-

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quinquies). L’ultima tappa dell’evoluzione normativa in esame è costituita dalla legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori). La nuova legge ha aggiunto all’art. 47quinquies della legge n. 354 del 1975 il comma 1-bis, stabilendo che l’espiazione della quota di pena richiesta per la fruizione della detenzione domiciliare speciale possa avvenire «presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo

di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli». Qualora, poi, sia impossibile l’esecuzione nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la quota di pena «può essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite». In questo modo, dunque, la madre di prole di età non superiore a dieci anni, condannata a pena detentiva di lunga durata – o anche all’ergastolo – può essere ammessa ad espiare la frazione iniziale di detta pena in speciali strutture (gli «istituti a custodia attenuata per detenute madri»), dotati di sistemi di sicurezza “non invasivi”, comunque non riconoscibili dai bambini, così da ricreare un’atmosfera prossima a un normale ambiente familiare; o

Nelle foto bambini in carcere

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mondo penitenziario addirittura, se non vi è pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, può evitare sin dall’inizio l’ingresso in carcere.

Nella foto mamma e figlio dietro le sbarre

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Venendo all’odierno thema decidendum, la Corte ha affermato che il compendio normativo sottoposto a valutazione non potesse essere corretto mediante una lettura costituzionalmente orientata, tale da sottrarre la detenzione domiciliare speciale all’operatività del divieto posto dall’art. 4 bis, ord. penit., non solo per l’inequivoco dato testuale, che riconduce anche tale istituto speciale nel novero delle misure alternative alla detenzione cui si applica il regime restrittivo; ma anche per considerazioni di natura sistematica, considerato che altre misure speciali sono state, dal legislatore, espressamente escluse dal divieto in esame (quale la species di detenzione domiciliare per i condannati affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria di cui all’art. 47 quater, comma 9, della legge n. 354 del 1975). Ciò nondimeno – osserva la Corte – è indubbio che nell’economia dell’istituto assuma un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età ad instaurare un rapporto quanto più possibile ‘normale’ con la madre (o,

eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo”. Tale interesse - osserva il Giudice costituzionale - “oltre a chiamare in gioco l’art. 3 Cost., in rapporto all’esigenza di un trattamento differenziato, evoca gli ulteriori parametri costituzionali richiamati dal rimettente (tutela della famiglia, diritto-dovere di educazione dei figli, protezione dell’infanzia: artt. 29, 30 e 31 Cost.)”. L’esigenza che la pretesa punitiva dello Stato non arrechi nocumento al valore costituito dalla tutela del minore trova riconoscimento anche in fonti di livello sopranazionale, che qualificano ‘superiore’ l’interesse del minore, e tale da dover essere considerato ‘preminente’ nell’ambito delle decisioni giurisdizionali (la Corte richiama, al proposito, l’art. 3, comma 1, Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e l’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo). La disciplina restrittiva sottoposta al vaglio di costituzionalità, dettando una disciplina uniforme, tale da valere indistintamente per le misure a esclusiva finalità rieducativa e per quelle che, invece, inseguono anche obiettivi di tutela di altri beni costituzionali, tre le quali appunto la detenzione domiciliare speciale, realizza un trattamento discriminatorio che contrasta con l’art. 3 Cost., e le cui pesanti conseguenze incidono inoltre su quei valori preminenti che i parametri costituzionali di cui agli artt. 29, 30 e 31 Cost., invocati dai rimettenti, ampiamente tutelano. Alla luce delle suesposte osservazioni, la Consulta conclude ritenendo errata l’inclusione anche della detenzione domiciliare speciale al regime “di rigore” sancito dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975.

Così facendo, infatti, il legislatore avrebbe, accomunato fattispecie tra loro profondamente diversificate. Tale omologazione “appare lesiva dei parametri costituzionali evocati”, poiché incide - in nome del contrasto della criminalità organizzata - sul valore preminente rappresentato dalla tutela dell’interesse del minore in tenera età “a fruire delle condizioni per un migliore e più equilibrato sviluppo fisio-psichico”, traslando “su un soggetto terzo, estraneo tanto alle attività delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare”. In tale prospettiva, il corretto bilanciamento tra gli interessi contrapposti - quello di difesa sociale, sotteso al perseguimento del contrasto alla criminalità organizzata, e quello inerente alla tutela del minore - deve operarsi non già in via astratta, sulla base di presunzioni cristallizzate nel dettato normativo, bensì in concreto, nel senso cioè che il giudice deve verificare nel caso di specie la eventuale sussistenza nella specifica situazione sottoposta al proprio vaglio, la concreta sussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte della condannata. Pertanto, i Giudici Costituzionale giungono a dichiarare l’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge. Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nei termini sopra indicati, la Corte ha altresì esteso la declaratoria, in via consequenziale, anche alla misura della detenzione domiciliare ordinaria disciplinata dall’art. 47 ter, comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ad evitare che tale misura “avente finalità identiche alla detenzione domiciliare speciale, ma riservata a soggetti che debbono espiare pene meno elevate, resti soggetta irragionevolmente ad un trattamento deteriore in parte qua”. H


donne in uniforme a situazione dei ristretti che presentano malattie psichiatriche e la loro problematica gestione richiederebbe molto più di queste poche righe. Non sono una specialista in materia, ma una poliziotta penitenziaria che lavora presso la Casa Circondariale di Sollicciano dove, nel 1984, è stata istituita la sezione di Casa di Cura e Custodia Femminile ed ha avuto modo di entrare in contatto con questa realtà in maniera più ravvicinata. Il nostro sistema penale è fondato sul doppio binario: da una parte abbiamo le pene, comminate a seguito di condanna per aver commesso un reato e quindi puniscono il fatto, dall’altra abbiamo le misure di sicurezza che servono a prevenire i comportamenti illeciti e si basano sul giudizio di pericolosità sociale della personalità; un controllo sull’autore del fatto. Nell’ambito delle misure di sicurezza mi interessa parlare di quelle personali detentive e, in special modo, di quelle connesse alle malattie psichiatriche. Se il destinatario della misura di sicurezza è un infermo di mente incapace totale, riconosciuto quindi non imputabile, non è possibile sottoporlo ad una misura di carattere punitivo, ma verrà ricoverato in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario: cura, tutela del malato e allo stesso tempo contenimento e neutralizzazione della sua pericolosità sociale. Se il destinatario è un soggetto imputabile, ma affetto da vizio parziale di mente, è previsto il ricovero in una Casa di Cura e Custodia. In base alla posizione del soggetto nell’iter giuridico, e cioè se questo si sia concluso con una condanna o meno, avremo Internati (art.219 c.p.) o Internati Provvisori (art.206 c.p.), detenuti cui deve essere accertata l’infermità psichiatrica attraverso l’osservazione (art.112 c.2 DPR 230/2000), detenuti condannati con sopraggiunta infermità di mente (art. 148 c.p.), detenuti minorati psichici (art.111 dpr 230/2000). Ma in concreto, tutti questi concetti che rimangono astratti, freddi, in cosa

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La Casa di Cura e custodia femminile La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione Franco Basaglia si traducono nella realtà per coloro a cui vengono applicati e per noi che ci stiamo in contatto? Per noi, il motivo per cui queste donne vengono allocate nella sezione della Casa Cura e Custodia non costituisce un elemento di differenziazione sostanziale. Tuttavia è differente il nostro approccio ed il modus lavorandi rispetto a quello in una sezione ordinaria. Il problema dell’autolesionismo e del suicidio in carcere in verità evidenzia quanto il disturbo mentale e la presenza di patologie psichiatriche siano eventi che non riguardano solo gli internati e i detenuti sottoposti a misura di sicurezza. La presenza di numerosi tossicodipendenti, multiproblematici, ha sicuramente un posto di primo rilievo nella cause che ne hanno determinato l’aumento. La questione diventa quindi riuscire a valutare tali rischi quanto prima, possibilmente all’atto dell’ingresso nel penitenziario, in modo da poter adottare le necessarie misure precauzionali e l’intervento integrato di figure specialistiche di supporto e cura. Ma torniamo alla Casa di Cura e Custodia ed al nostro lavoro. Entrare in contatto con la malattia psichiatrica non è cosa di poco conto. Avverti immediatamente che ti trovi in presenza di qualcosa verso cui un approccio razionale non fornisce adeguate risposte. Nei comportamenti di queste donne si percepisce sofferenza, solitudine, bisogno di affetto e considerazione, richiesta di ascolto, di accoglimento, e la necessità di contenimento in una misura e forma diversa rispetto alle detenute inserite nelle sezioni ordinarie.

I loro gesti, sguardi, pianti, risa ed urla, tutto racconta delle loro storie, della loro vita, delle fragilità, delle assenze di riferimenti esterni istituzionali e familiari. In ricerca continua di contatto, comprensione e riconoscimento del loro essere persone. All’interno di questa sezione varie sono le figure professionali presenti: operatori tecnico-sanitari, psicologi, psichiatri e noi poliziotte penitenziarie che, pur addette alla sicurezza, non siamo esenti da coinvolgimenti. Coinvolgimenti per i quali rispondiamo in maniera personale, sulla base dell’esperienza e della nostra stessa situazione, mancandoci una preparazione psicologicoprofessionale in tal senso. Di fronte ad eventi di criticità sarebbe invece importante acquisire quegli strumenti psicologici adottabili per intervenire in maniera efficace su chi in quel momento sta vivendo un dramma. Un intervento sbagliato rischia infatti di far degenerare quanto già in equilibrio precario. Sarebbero necessari corsi di formazione che ci spiegassero come effettuare un ascolto attivo, come riuscire ad agire in maniera mirata e consapevole senza subire quel coinvolgimento emotivo che deriva proprio dal ‘non conoscere’ e che rischia, demandando al nostro sentire psicologico, una reazione negativa di distacco incosciamente aggressivo a difesa della propria integrità. Detto questo, rimango del parere che la Casa Cura e Custodia, per la sua propria peculiarità istitutiva, non dovrebbe esistere all’interno del circuito penitenziario ma dovrebbe essere gestita totalmente da personale sanitario specializzato. A presto. H

a cura di Laura Pierini Vice Segretaria Provinciale Sappe Firenze rivista@sappe.it

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32 a cura di Erremme rivista@sappe.it

le recensioni Massimo Cassani

SOLTANTO SILENZIO TEA Edizioni pagg. 367 - euro 15,00

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ilano, ottobre 1978. In una domenica pomeriggio qualsiasi, durante una partitella all’oratorio del quartiere di Casoretto, scoppia il finimondo. Il giovanissimo Aristide Mastronardi passione per il calcio e un futuro da carabiniere - viene abbattuto in area. A fischiare il rigore è un ragazzetto del Ticinese: Sandro Micuzzi, capelli rossicci e un futuro da commissario di Polizia. E mentre giocatori, padri e cugini se le danno di santa ragione, non lontano dal Campetto accade un episodio all’apparenza insignificante, ma legato a uno dei fatti più controversi dell’Italia del dopoguerra. L’unico a notarlo è il fratello maggiore di Aristide, Gaetano, coinvolto pure lui nella rissa. A più di trentacinque anni di distanza, in una Milano autunnale e malinconica, il reticolo di misteri legati a quell’episodio riemerge inaspettato a opera di un avvocato americano. E mentre il commissario Micuzzi, trasferito per punizione nel commissariato di via Padova, oltre ad assistere attonito all’ennesima “sorpresa” della sua ex moglie

Margherita, si trova coinvolto in una vicenda dai contorni confusi, complicata dalle ambiguità della Questura e dalla presenza invisibile dei Servizi segreti italiani. E quando tutto sembra essere destinato a risolversi...

Andrea Galli

IL PATRIARCA BUR RIZZOLI Edizioni pagg. 310 - euro 13,00

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a faida di San Luca, la strage di Duisburg del 2007, il traffico di stupefacenti, i sequestri di persona in tutta Italia. E poi le denunce, la difesa affidata allo studio legale del futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone, l’omicidio, la galera, la grazia di Sandro Pertini. Tutte queste vicende sono legate tra loro, in modo sconcertante, attorno a un solo nome: Antonio Pelle, detto ‘Ntoni Gambazza. Ma chi era quest’uomo, sconosciuto ai più e ben noto agli inquirenti? L’eminenza grigia che ha fondato un nuovo clan e per tre decenni ha ricoperto un ruolo centrale nel direttivo della ‘ndrangheta, come sostengono gli investigatori, o l’onesto figlio di pastori di cui parla la sua famiglia, scelto dalla magistratura come capro espiatorio? Andrea Galli ha dedicato anni all’attento studio delle poche carte disponibili e alle estenuanti i ricerche del troppo materiale andato disperso o fatto sparire; ha viaggiato da Nord a Sud e parlato con semplici paesani e alti funzionari delle forze dell’ordine; ha visitato i luoghi in cui s’è svolta la vicenda di Gambazza, ha incontrato la sua gente e si è immerso in quel mondo per descrivercelo senza retorica o preconcetti. Il risultato è assieme il racconto della vita di un uomo misterioso, che dall’ombra ha guidato la più potente organizzazione criminale del nostro Paese, e il ritratto lucido di una realtà sociale troppo spesso relegata ai luoghi comuni.

John Le Carrè

LA SPIA MONDADORI Edizioni pagg. 345 - euro 10,00

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hi è lo sconosciuto avvolto in un cappotto nero, in cui Melik, immigrato turco di seconda generazione nato ad Amburgo, continua a imbattersi? Dopo l’11 settembre la vita del giovane, devoto musulmano e promessa della boxe, è diventata più difficile e lui farebbe di tutto pur di non cacciarsi nei guai. Ma sua madre Leyla, che considera un dovere prestare aiuto a un compagno di fede, decide di dare ospitalità allo straniero. A poco a poco lo strano ragazzo, che dice di chiamarsi Yssa Karpov, rivela di essere un profugo ceceno fuggito da un carcere russo e di essere entrato in Germania clandestinamente per studiare medicina grazie anche all’aiuto di Tommy Brue. Peccato che Brue, proprietario della banca che porta il suo nome, sia all’oscuro di tutto. Il ceceno, però, conosce una misteriosa parola d’ordine capace di suscitare l’interesse del banchiere: “lipizzano”. Era la parola in codice con cui suo padre indicava ingenti e loschi capitali travasati dall’Unione Sovietica nelle casse della sua banca. Ma l’enigmatico Yssa sembra nascondere anche qualcos’altro: a lui, infatti, sono interessati i servizi segreti inglesi e tedeschi, mentre gli americani osservano attentamente... Con questo romanzo pubblicato originariamente da Mondadori con il titolo Yssa il buono - John le Carré ci regala una storia emozionante che affronta questioni decisive nella civiltà globale.Dal 30 ottobre 2014 nelle sale italiane La spia - A Most Wanted Man, l’ultimo adattamento cinematografico tratto da un libro dello scrittore inglese, Yssa il buono. Un film diretto dal regista e fotografo olandese Anton Corbijn, con Robin Wright, Rachel McAdams, Willem Dafoe, Daniel Brühl e che vede protagonista l’ultima magistrale interpretazione di Philip Seymour Hoffman.


le recensioni Aldo Cazzullo

LA GUERRA DEI NOSTRI NONNI MONDADORI Edizioni pagg. 248 - euro 170,00

L

a Grande Guerra non ha eroi. I protagonisti non sono re, imperatori, generali. Sono fanti contadini: i nostri nonni. Aldo Cazzullo racconta il conflitto ‘15-18 sul fronte italiano, alternando storie di uomini e di donne: le storie delle nostre famiglie. Perché la guerra è l’inizio della libertà per le donne, che dimostrano di poter fare le stesse cose degli uomini: lavorare in fabbrica, guidare i tram, laurearsi, insegnare. Le vicende di crocerossine, prostitute, portatrici, spie, inviate di guerra, persino soldatesse in incognito, incrociano quelle di alpini, arditi, prigionieri, poeti in armi, grandi personaggi e altri sconosciuti. Attraverso lettere, diari di guerra, testimonianze anche inedite, “La guerra dei nostri nonni” conduce nell’abisso del dolore. Ma sia le testimonianze di una sofferenza che oggi non riusciamo neppure a immaginare, sia le tante storie a lieto fine, come quelle raccolte dall’autore su Facebook, restituiscono la stessa idea di fondo: la Grande Guerra fu la prima sfida dell’Italia unita; e fu vinta. L’Italia poteva essere spazzata via; dimostrò di non essere più “un nome geografico”, ma una nazione. Questo non toglie nulla alle gravissime responsabilità, che il libro denuncia con forza, di politici, generali, affaristi, intellettuali, a cominciare da D’Annunzio, che trascinarono il Paese nel grande massacro. Ma può aiutarci a ricordare chi erano i nostri nonni, di quale forza morale furono capaci, e quale patrimonio portiamo dentro di noi.

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ostruito come un percorso attraverso la memoria (di persone, fatti e luoghi) “Camerata Neandertal” è forse il romanzo più dolente e personale di Antonio Pennacchi. Un libro popolato da fantasmi: da Ajmone Finestra - il Federale di Latina, motore delle vicende narrate in “Palude” e nel “Fasciocomunista” agli operai che di “Palude” decisero lo svolgimento; da Carlo Alberto Blanc, paleontologo, la cui ossessione e curiosità divengono le stesse dell’autore nelle “Iene del Circeo”, ad Aldo Dapelo padrone della Fulgorcavi narrata in “Mammut”, fino al fratello Gianni, che considerava suo “Canale Mussolini” ma morì senza riuscire a leggerlo. Attraverso i suoi personaggi Pennacchi racconta in realtà sé stesso e la propria formazione come uomo, come intellettuale dal basso e come scrittore. Un romanzo autobiografico dove realtà e finzione si intrecciano e si fondono, coinvolgendo il lettore in un viaggio, spesso esilarante, fra letteratura e vita.

Carlo Petrini

I PALLONARI. Zone grige, fondi neri, luci rosse KAOS Edizioni pagg. 180 - euro 15,00

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istampa per un classico sul malaffare del calcio italiano. Petrini rivela, racconta, indaga fatti e misfatti dello sport più seguito nel nostro Paese. Ma qui non si parla delle passioni dei tifosi, dei sentimento autentici degli appassionati: qui l’Autore rileva i pozzi neri del calcio nostrano. E’ un pugno nello stomaco e, forse proprio per questo, è imperdibile pur non essendo masochisti…

Antonio Pennacchi

Gianpaolo Pansa

CAMERATA NEANDERTAL

EIA EIA ALALA’

BALDINI & CASTOLDI Ediz. pagg. 284 - euro 16,00

RIZZOLI Edizioni pagg. 375 - euro 19,90

Nell’Italia del Duemila può presentarsi l’avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini? Anche oggi siamo un paese strozzato da una crisi pesante, con una casta di partiti imbelli e un possibile conflitto tra ceti diversi. Sono queste assonanze con gli anni Venti del Novecento che hanno spinto Giampaolo Pansa a scrivere “Eia eia alalà”, un antico grido di vittoria riesumato dallo squadrismo fascista. Il racconto inizia con la lotta di classe esplosa tra il 1919 e il 1922, guidata dai socialisti e sconfitta dall’inevitabile reazione della borghesia. Il nero nacque dal rosso: l’estremismo violento delle sinistre non poteva che sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, il primo passo di una dittatura ventennale. La ricostruzione di Pansa ruota attorno a un personaggio esemplare anche se immaginario: Edoardo Magni, un agrario padrone di una tenuta tra il Monferrato e la Lomellina. Coraggioso ufficiale nella Prima guerra mondiale, finanziatore delle squadre in camicia nera, all’inizio convinto della necessità di una rivoluzione fascista ma via via sempre più disincantato. Sino a diventare un sostenitore del leader squadrista dissidente Cesare Forni, ritenuto da Mussolini un nemico da sopprimere. Magni è il protagonista di un dramma a metà tra il romanzo e la rievocazione storica, gremito delle tante figure che attorniano il Duce, una nomenclatura potente descritta con realismo... H

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l’ultima pagina Maurizio Arduino

IL BAMBINO CHE PARLAVA CON LA LUCE Quattro storie di autismo EINAUDI Edizioni pagg. 287 - euro 18,00

S

ilvio guarda il mondo racchiuso in un granello di polvere, Cecilia lo osserva

inviate le vostre lettere a rivista@sappe.it

attraverso il movimento di una corda. Matteo non gioca con gli altri bambini, ma conosce le radici quadrate. Elia, sommerso da voci, odori, suoni e colori, lotta per trovare la calma interiore. Un viaggio unico e commovente nelle vite di quattro pazienti autistici profondamente diversi fra loro, seguiti dall’infanzia all’età adulta. I drammi e le fatiche quotidiane delle loro famiglie. L’impegno, i dubbi, gli errori e i piccoli grandi successi compiuti nel tentativo di aiutarli. H

il mondo dell’appuntato Caputo Traduzioni a carbone... di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2014

QUANDO SI TRATTA DELL’ARTE DI ARRANGIARSI NON ABBIAMO RIVALI. ABBIAMO TROVATO IL MODO DI UTILIZZARE ANCHE IL CARBONE CHE TUTTI GLI ANNI CI PORTA BABBO NATALE DAP...

Polizia Penitenziaria n.222 novembre 2014


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