Polizia Penitenziaria - Dicembre 2014 - n. 223

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anno XXI • n. 223 • dicembre 2014

Mauro Palma Vice Capo www.poliziapenitenziaria.it

Santi Consolo nuovo Capo Dap



sommario

anno XXI • numero 223 dicembre 2014

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In copertina: Il nuovo Capo del DAP Santi Consolo e il suo Vice Mauro Palma

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www.poliziapenitenziaria.it

l’editoriale

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Un salto di qualità per il calendario del Sappe Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

di Donato Capece

il pulpito

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Santi Consolo e Mauro Palma a Capo del Dipartimento di Largo Daga

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

di Giovanni Battista de Blasis

Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

l’osservatorio

Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante

di Giovanni Battista Durante

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il commento

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Il non fare della politica sui temi penitenziari e la cooperazione

www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2014 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

di Roberto Martinelli

lo sport

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. • fax 06.39733669

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Sollevamento pesi: ecco le donne delle Fiamme Azzurre

e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it

di Lady Oscar

Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di: Polizia Penitenziaria-Società Giustizia & Sicurezza

Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 00030 S. Cesareo (Roma)

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La mafia diventa Capitale ed arriva a Roma

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Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director)

Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994

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crimini e criminali 10

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Il poliziotto, il prelato e Girolimoni: la storia del mostro di Roma di Pasquale Salemme

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donne in uniforme

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È il tradimento che permette l’evoluzione della vita

Finito di stampare: dicembre 2014

di Laura Pierini Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

Chi vuole ricevere la Rivista direttamente al proprio domicilio, può farlo versando un contributo di spedizione pari a 20,00 euro, se iscritto SAPPE, oppure di 30,00 euro se non iscritto al Sindacato, tramite il c/c postale n. 54789003 intestato a:

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l’editoriale

Un salto di qualità per il calendario del Sappe Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Nelle foto il calendario Sappe 2015

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014

in dala sua nascita, il SAPPE ha sempre riservato particolare attenzione alla valorizzazione sociale e professionale del ruolo del poliziotto penitenziario. Siamo intervenuti a tutela e difesa del Corpo, della nostra funzione sociale, della nostra specificità di operatori della sicurezza, nei confronti di chiunque ne abbia diffuso una immagine distorta se non addirittura offensiva. Fiction tv, redazioni di periodici e quotidiani, trasmissioni radio, film. Abbiamo sempre preteso rispetto per il lavoro che, in silenzio ma con grande professionalità e umanità, svolgono ogni giorno migliaia e migliaia di donne e uomini della Polizia Penitenziaria. Questa stessa Rivista, autoprodotta anche graficamente da poliziotti e scritta quasi esclusivamente da poliziotti, è spesso stata il veicolo di questa rivendicazione sociale. Quest’anno, per il prossimo 2015, abbiamo scelto di caratterizzare su questi principi anche il nostro Calendario, realizzato sulla falsariga grafica di quelli istituzionali dei Corpi di Polizia e delle Forze Armate del Paese.

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E per realizzarlo, abbiamo fatto un salto nella cinematografia italiana del dopoguerra protagonista nella edizione 2015 del calendario del

Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. Sono infatti i fotogrammi di Accadde al penitenziario, film diretto da Giorgio Bianchi nel 1955, a caratterizzare l’elegante veste grafica del calendario. Al centro di tutto, l’indimenticato Aldo Fabrizi, che nel film ha vestito la divisa dell’Agente di Custodia e che, durante il servizio in carcere, ha raccolto le confessioni umane dei detenuti impersonati dal gotha degli attori italiani: Peppino De Filippo, Alberto Sordi, Walter Chiari e Mario Riva. Accadde al penitenziario, girato 60 anni fa, è probabilmente uno dei pochi se non l’unico film italiano che ha posto al centro del copione il ruolo del poliziotto penitenziario. Lo abbiamo già detto e già scritto ma è utile ripeterlo: se il carcere è, in qualche misura, la frontiera ultima più esposta del sistema della giustizia, all’interno del sistema carcerario il personale di Polizia Penitenziaria è la barriera più estrema. Siamo quelli che stanno in prima linea, quelli che stanno nelle sezioni detentive, quelli che stanno a contatto quotidiano con i detenuti ventiquattro ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni all’anno. L’agente di Polizia Penitenziaria,

questo soldato di prima linea nella frontiera esposta che è il carcere, deve rappresentare in questo avamposto, spesso isolato e dimenticato, la dignità dello Stato, la legalità dello Stato, la Legge.

E’ lì, solo, il più delle volte anche molto giovane, a rappresentare la Legge di fronte a coloro che hanno infranto le regole dello Stato. La rappresenta da solo, con la sua divisa, con la sua coscienza professionale, con il suo coraggio, a suo rischio, con la sua umanità. Al di là delle caricaturali esigenze di copione, l’Agente di Custodia interpretato da Aldo Fabrizi rappresenta, dunque, l’essenza stessa del nostro lavoro: che ci impone di rappresentare legge e sicurezza ma anche di far diventare il nemico un amico. Per questo chiediamo e pretendiamo rispetto per la nostra professione! Auguri a Voi tutti e alla Vostre famiglie di un felice e sereno 2015. H


il pulpito

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Santi Consolo e Mauro Palma a capo del Dipartimento di Largo Luigi Daga

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ul quotidiano Il Manifesto del 21 agosto 2014 Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, scrisse un articolo dedicato alla nomina del nuovo Capo del Dap, posto vacante da metà maggio 2014 allorquando il Ministro Orlando revocò l’incarico a Giovanni Tamburino. Tamburino era stato nominato da un Governo di emergenza nazionale presieduto da Mario Monti e con Paola Severino Ministro della Giustizia. Un Governo di tecnici che, evidentemente, pensò bene di mettere “un tecnico” a capo dell’amministrazione penitenziaria (Tamburino era Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma). Purtroppo, i risultati della gestione Tamburino non furono dei migliori. Per questa e per altre ragioni, Gonnella azzardò la proposta di nominare una persona diversa al posto di Tamburino: “ ...ci piacerebbe che il prossimo capo Dap abbia il coraggio di non essere solo un funzionario pubblico. Vorremmo che sappia di cosa si parla quando si usano termini come sbobba, superiore, domandina, camosci e girachiavi in modo da non iniziare da zero una scalata di conoscenze”. Per motivare questa proposta Gonnella citò il film Brubaker: “...Robert Redford in Brubaker, film di Stuart Rosenberg del lontano 1980, racconta una storia realmente accaduta negli anni sessanta del secolo scorso in Arkansas. Il criminologo Thomas Murton per riformare il sistema carcerario dello Stato si finse detenuto”. Tutto ciò fu argomentato per candidare Mauro Palma a Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nonostante tutte le divergenze che ci sono sempre state con Antigone (in

particolare in questi ultimi tempi), fin da subito abbiamo condiviso i contenuti dell’articolo di Gonnella. Effettivamente, dopo tanta approssimazione, il Dap anche secondo noi avrebbe bisogno della guida di un Manager, di una persona esperta di organizzazione ed amministrazione e, soprattutto, di una persona che conosca bene il carcere.

speranza che prima o poi arrivi un Uomo della Provvidenza che possa restituire dignità al nostro Corpo. Mauro Palma, giustappunto, ha più volte scritto e dichiarato che “...la dignità delle condizioni di detenzione passa innanzitutto attraverso la dignità ed il benessere del personale che in carcere ci lavora.”

E anche secondo noi questa persona non deve essere per forza un Magistrato o un dirigente dell’amministrazione penitenziaria. Per questa ragione abbiamo condiviso l’endorsement di Antigone per Mauro Palma, perché dopo tanti anni di pressappochismo, dopo tanti anni di abbandono per il Corpo di Polizia Penitenziaria, non potevamo che vedere di buon occhio l’arrivo un uomo illuminato come il Professor Mauro Palma. Un uomo illuminato che, pur da una posizione terza di garanzia, ha sempre dimostrato di avere un profondo rispetto, anche per le persone che lavorano nel carcere, in particolar modo per la Polizia Penitenziaria. In effetti non abbiamo mai perso la

Mauro Palma fu chiamato a via Arenula in qualità di Consigliere del Ministro per tematiche sociali e della devianza (successivamente Presidente della Commissione del Ministero della Giustizia italiano per l’elaborazione degli interventi in materia penitenziaria) da Paola Severino (Governo Monti), confermato dalla Ministro Anna Maria Cancellieri (Governo Letta) e confermato ancora, dal Ministro Andrea Orlando (Governo Renzi). Tre Ministri di estrazione professionale diversa e di diversa provenienza politica. Evidentemente qualche cosa vorrà dire. Infatti, Palma vanta un curriculum vitae (on line sul sito del Ministero della Giustizia) di 9 (nove) pagine. Dal curriculum, per limitarci soltanto

Giovanni Battista de Blasis DirettoreEditoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

Nella foto il tappeto d’ingresso al Dap

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Nelle foto sopra Santi Consolo in basso Mauro Palma

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il pulpito

ai titoli più importanti, possiamo estrapolare le qualificazioni essenziali (almeno per quello che ci interessa) . Mauro Palma è un professore universitario di matematica, autore di numerosi e noti testi sulla matematica, l’informatica e la sua didattica. E’ Coordinatore scientifico dell’Area educativa dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. E’ stato Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti (CPT) del Consiglio dell’Europa. Vicepresidente del Consiglio per la Cooperazione penalistica (PC-CP) del Consiglio d’Europa. E’ stato il fondatore e primo Presidente di Antigone, l’Associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, della quale è attualmente Presidente onorario. Ha una laurea in Giurisprudenza honoris causa. E purtuttavia, la nomina di Mauro Palma a capo del dap non è arrivata. Nuovo Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è stato nominato Santi Consolo, Magistrato, Procuratore Generale della Repubblica di Caltanissetta. Santi Consolo ha già avuto un trascorso professionale nel dap come vice capo e, quindi anch’egli “ ... sa di cosa si parla quando si usano termini come sbobba, superiore, domandina, camosci e girachiavi” e

per questo anche lui non deve “...iniziare da zero una scalata di conoscenze”. Salvo ripensamenti, Mauro Palma dovrebbe essere il suo vice. Se così sarà, sono fermamente convinto che, finalmente, potrebbero essere arrivate al vertice del dap due persone serie, capaci e competenti, che hanno voglia di “fare” e che hanno un grande rispetto per il personale che dirigono. Due persone “fuori dal coro”, che non hanno connivenze o complicità con l’estabilishment dell’amministrazione penitenziaria, soprattutto quello che è fossilizzato al dap da decenni o che fa riferimento a questo o a quel dirigente generale (qualcuno addirittura in pensione). Due persone che, finalmente, lavorando in sinergia e con lealtà istituzionale, potrebbero rompere quella deleteria tradizione delle “cordate” che ha sempre contrapposto capo e vice capo a discapito dell’efficienza e della “buona amministrazione”. Anche Santi Consolo, infatti, è un galantuomo. L’ha dimostrato durante la sua, pur breve, permanenza al dap dove, sebbene schiacciato in mezzo all’antagonismo personale e professionale tra Franco Ionta ed Emilio Di somma, ha comunque portato avanti il suo incarico con grande dignità professionale e modi da gentleman. Nonostante contrapposizioni ed avversità, non è stato un vaso di coccio tra vasi di ferro. Si è occupato in prima persona del

censimento della popolazione detenuta in relazione agli spazi occupati ed è stato proprio lui, per primo, ad estimare le metrature delle carceri italiane (fino ad allora il dap non aveva mai avuto dati certi sulla capienza dei penitenziari italiani ed utilizzava stime posti/detenuto secondo i parametri posti/letto ospedalieri). Ha svolto, anche, con grande professionalità e con l’apprezzamento unanime delle organizzazioni sindacali, la funzione di Presidente della Commissione di Garanzia prevista dall’articolo 29 del CCNL. Mi sembra proprio, insomma, che ci siano tutte le premesse per sperare in una proficua dirigenza del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, senza inutili protagonismi e sterili contrapposizioni, con la collaborazione tra due personaggi di alto profilo e provata professionalità, quasi come nel periodo aureo di Nicolò Amato e Edoardo Fazioli. La ciliegina sulla torta sarebbe l’avvicendamento totale del vecchio estabilishment con l’arrivo di nuovi dirigenti che somiglino ai rimpianti Falcone, Condemi, Suraci... Nel frattempo, e perlomeno fino alla registrazione del decreto di riorganizzazione del dap (che ridurrà i Vice Capi a uno) rimarrà in prorogatio anche Luigi Pagano che probabilmente perderà le funzioni vicarie a favore di Mauro Palma quando questi arriverà. Comunque vada a finire, Luigi Pagano ha avuto la soddisfazione di fare il Capo DAP per più di sette mesi. H


l’osservatorio

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La mafia diventa Capitale ed arriva a Roma Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

a bufera che si è scatenata sulla vicenda della cosiddetta mafia romana non dovrebbe stupire più di tanto, considerato che in Italia, da oltre vent’anni, non si fa altro che parlare di inchieste di mafia e corruzione; inchieste che hanno visto quasi sempre coinvolti politici e amministratori. E’ vero quello che dice il Premier Matteo Renzi, e cioè che non tutti i politici sono ladri e corrotti, ma gli italiani fanno davvero fatica a fidarsi ed scegliere tra buoni e cattivi politici. Guardate il caso dell’Emilia Romagna una regione considerata virtuosa, ma solo perché, fino a poco tempo fa, qualche organo di controllo sembra abbia chiuso spesso un occhio e qualche volta anche due – dove tutti i gruppi politici sono indagati. E proprio in quella regione la reazione dei cittadini non si è fatta attendere: alle urne, per le recenti elezioni, si sono recati circa il 30% in meno degli elettori, rispetto a quelle precedenti. Segno evidente della disaffezione ma, soprattutto, della diffidenza, verso la politica ed i politici che si sono appropriati dei nostri soldi, facendo finta di usarli per fare politica. Anche questa cosa è stata davvero vergognosa: il prelievo forzoso agli italiani di soldi per fare politica, ma soprattutto chiederne quattro volte tanto, rispetto a quelli spesi, per poi usarli anche per interessi personali. Ormai non c’è regione italiana che non sia toccata da indagini di corruzione su politici ed amministratori, ed è sempre più difficile distinguere fino a che punto tutto questo non sfoci nell’associazione a delinquere, se non mafiosa. Ciò su cui, invece, il Presidente del Consiglio sbaglia, a nostro avviso, è sulla soluzione prospettata, cioè

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l’inasprimento delle pene. Ancora una volta lo stesso circolo vizioso: appena c’è un fatto di cronaca, che sia di corruzione, di mafia o altro la prima cosa che si pensa di fare è di inasprire le pene. Purtroppo, però, il risultato finale è sempre lo stesso: le pene aumentano, ma aumenta anche l’impunità. Bisogna infatti ricordare che, in Italia, il problema principale è sempre lo stesso: coloro che vengono condannati e scontano la pena, dopo aver commesso un reato, sono poco più del 2/3 %, per ragioni varie, che abbiamo già avuto modo di commentare. Si aggiunga a ciò che la politica della sicurezza e della giustizia in Italia ha subito l’effetto dei vasi comunicanti, dove da una parte sono state inasprite le pene e dell’altra sono stati fatti indulti, svuota carceri e leggi di depenalizzazione che hanno condonato le pene anche a delinquenti definiti comuni, come Massimo Carminati, che ha beneficiato di ben tre indulti, per poi realizzare tutto quello che ha realizzato. In Italia per vedere un politico o un amministratore in carcere bisogna accusarlo di fatti di mafia, altrimenti, se ci va, ci va solo per pochi giorni. Uno dei pochissimi che ha scontato una pena è Totò Cuffaro. Quindi, come spesso avviene, tanto fango per niente. Si veda tangentopoli, tanti indagati, rinviati a giudizio, alcuni si sono anche tolti la vita, ma a parte Sergio Cusani, pochi altri sono stati condannati; e la cosa più grave è che il sistema è ancora più marcio di prima, con l’ulteriore quadro negativo che da allora ad oggi la nostra economia è crollata vertiginosamente. D’altra parte, perché le imprese straniere dovrebbero venire ad investire da noi, con quali garanzie?

La mafia, la corruzione delle istituzioni, processi lunghissimi. A parte i cinesi, ormai in Italia non investe più nessuno, anzi, anche i nostri imprenditori vanno all’estero, magari dopo aver ottenuto lauti finanziamenti dai governi italiani. Certo, il crollo dell’economia ha anche altre ragioni, ma il quadro dell’illegalità diffusa nel nostro Paese evidentemente non aiuta, così come non aiutano le finora inefficaci misure economiche adottate dai vari governi che si sono succeduti in questi anni. Non ci sono soluzioni diverse, neanche nelle iniziative del governo Renzi.

Non bastano le riforme a far riprendere l’economia, c’è bisogno di investimenti e considerato che gli investimenti non li fanno i privati, sarebbe opportuno che li facesse lo Stato, facendo magari crescere il debito pubblico, ma il denaro investito darebbe ampio respiro all’economia del nostro Paese, facendo ripartire le imprese e dando ossigeno, cioè soldi, alle attività ormai asfittiche. H

Nella foto la lupa simbolo di Roma

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Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nella foto detenuto in cella

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il commento

Il non fare della politica sui temi penitenziari e la cooperazione sociale in carcere egli ultimi giorni dell’anno, il quotidiano Corriere della Sera ha pubblicato un interessante articolo della giornalista Claudia Di Pasquale sugli effetti concerti della recente normativa in materia di ordinamento penitenziario e messa in prova. L’articolo decreta il fallimento di quanto propagandato, in pompa magna, dal Governo. Ma andiamo per ordine.

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ben 6.052 domande di messa alla prova. Bisogna però analizzare ogni singolo caso, avviare delle indagini, elaborare un programma di attività. E così oggi le domande già approvate sono solo 267: un ‘flop’. Gli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) hanno infatti un ruolo centrale, si occupano di tutte le misure alternative al carcere, ma soffrono di una carenza cronica e

prevede di destinare all’esecuzione penale esterna nuove risorse. Ma sul fronte di un reale aumento del personale ci sono solo promesse. Di fatto ad oggi il ministero della Giustizia ha solo elaborato uno schema di riorganizzazione degli uffici (trasmesso alla Funzione Pubblica per l’iter legislativo) che tra l’altro prevede l’accorpamento della giustizia minorile con l’ esecuzione penale

Claudia Di Pasquale ha ricordato ai lettori del Corriere che la scorsa primavera il Parlamento ha approvato una nuova legge che cambia il sistema penale: chi è imputato per un reato punito con una pena che non supera i 4 anni di carcere può chiedere la sospensione del processo per la “messa alla prova”. In sostanza, invece di fare il processo l’imputato può fare un lavoro di pubblica utilità non retribuito a favore della collettività e, se la prova ha esito positivo, il reato viene estinto. In pochi mesi gli uffici di esecuzione penale esterna sono stati sommersi da

strutturale di risorse, di mezzi e di personale. Gli Uepe sono la “cenerentola” del sistema penitenziario italiano che in totale costa 2 miliardi e 800 milioni di euro, ma la quasi totalità delle risorse viene destinata al carcere. Oggi più che mai questi uffici chiedono un aumento del personale. La stessa legge sulla messa alla prova dopotutto prevede un possibile “adeguamento numerico e professionale della pianta organica” degli Uepe. Su sollecitazione della commissione Giustizia della Camera, anche la legge di stabilità 2015

esterna. Un’ipotesi questa, com’è noto, avversata dai sindacati per le sue possibili conseguenze, definite “devastanti”. Intanto l’ex direttore generale del trattamento dei detenuti del Dap, Sebastiano Ardita, oggi procuratore aggiunto presso il tribunale di Messina, denuncia la carenza di controlli nel settore delle misure alternative. Mentre la direttrice dell’ufficio di esecuzione penale esterna di Roma, Antonella Di Spena, confessa le difficoltà trovate nel tentativo di avere


il commento il pieno controllo su tutte le associazioni, gli enti e le cooperative che si occupano di misure alternative al carcere. E tra le numerose cooperative romane, dove possono lavorare semiliberi, soggetti sottoposti a una misura alternativa ed ex detenuti, ci sono anche la coop 29 giugno e la cooperativa Formula Sociale, finite sotto sequestro perché nella disponibilità di Salvatore Buzzi, ritenuto il braccio destro dell’ex terrorista Nar Massimo Carminati, leader di mafia capitale. Ma su questo aspetto, in particolare, va fatta chiarezza. Mi sembra infatti importante evidenziare l’importante ruolo che hanno le Cooperative sociali in carcere.

carcere. Il detenuto che in carcere ozia non si rieduca, ma esce anzi ancora più incattivito di quando vi è entrato. Nonostante le statistiche dicano che il condannato che espia la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4% contro il 19% di chi ha fruito misure alternative e addirittura l’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. E moltissimi sono i detenuti che lavorano in carcere grazie alle Cooperative sociali, che non sono tutte da demonizzare. Se i detenuti lavorano, insomma, non stanno nell’ozio e in cella a far nulla, cala la tensione nei penitenziari. Noi che rappresentiamo le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria impegnati 24 ore al giorno nella prima linea dei padiglioni

stressanti condizioni di lavoro, tenuto conto che le tensioni connesse al sovraffollamento determinano quotidianamente moltissimi eventi critici nelle carceri – atti di autolesionismo, tentati suicidi, risse, colluttazioni – che se non fosse per il nostro decisivo e risolutivo intervento avrebbero più gravi conseguenze. Lo abbiamo detto e non ci stanchiamo di ripeterlo: negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2013, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno salvato in Italia la vita ad oltre 18mila detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 118mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Se chi va in tu a parlare e sparlare di carcere, chi organizza convegni e

Le ombre emerse nelle recenti inchieste giudiziarie della stretta mafiosa e criminale su Roma non possono inficiare il fondamentale e quotidiano contributo svolto per rendere la pena in carcere più umana, soprattutto attraverso il lavoro dei detenuti. E i detenuti che lavorano vuol dire meno tensione, a tutto vantaggio anche dell’importante lavoro giornaliero della Polizia Penitenziaria. Non a caso, da tempo diciamo più misure alternative, con impiego in lavori di pubblica utilità, per i detenuti meno pericolosi e più lavoro in

e delle sezioni detentive delle oltre 200 carceri italiane siamo assolutamente d’accordo con i contenuti del noto messaggio che il Signor Presidente della Repubblica ha inviato al Parlamento affinchè si avvii nel nostro amato Paese una indispensabile e decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti e offrendo loro reali opportunità di recupero. Ma anche garantendo ai poliziotti penitenziari più sicure e meno

seminari sul sistema penitenziario e poi neppure invita chi rappresenta coloro che ci lavoro h24 come le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, chi insomma crede di avere la ricetta per risolvere quel che non va tra le sbarre; ebbene, se costoro ascoltassero la nostra voce e le nostre proposte potrebbero (forse) calibrare meglio una concreta ed efficace azione legislativa per migliorare le condizioni detentive nel nostro Paese e quelle dei poliziotti che in esse quotidianamente lavorano con professionalità, competenza e umanità. H

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Nelle foto lavoro in carcere

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Lady Oscar rivista@sappe.it

lo sport

Sollevamento pesi: Ecco le donne delle Fiamme Azzurre no dei settori più promettenti ed in continua crescita in chiave olimpica per le Fiamme Azzurre è senza dubbio quello del sollevamento pesi. Soprattutto in campo femminile, sotto la direzione tecnica del validissimo Giuseppe Alessandro Ficco, si registrano lusinghiere conferme di come il gruppo sportivo della Polizia Penitenziaria sia ormai un punto di riferimento importante per la nazionale azzurra che si contenderà i posti utili per Rio 2016.

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atlete e tre titoli italiani: Jennifer Lombardo nei 58kg, la capitana Giorgia Bordignon si è confermata specialista assoluta dei 63kg, mentre nei + 75 kg oro per Roberta Buttiglieri. Bronzo per Giovanna D’Alessandro nella categoria - 48kg. Dieci giorni prima, da Limassol (23/29 novembre) era arrivato un altro ottimo risultato ai campionati Europei Under 23: Jennifer Lombardo aveva infatti conquistato il bronzo di categoria con un totale di 189kg nelle due alzate, strappando il podio per

Il sollevamento pesi tra leggende di forza ed esigenze di sopravvivenza

Nelle foto sopra in alto da sinistra Giorgia Bordignon e Giovanna D’alessandro

in dalle origini lottatore e velocista per necessità di sopravvivenza, l’uomo ha sempre dovuto affrontare quotidiane sfide contro il freddo, la fame e gli animali feroci. Allo stesso tempo, sebbene atleta per necessità, anche il primate da cui l’umanità è derivata non ha mai smesso di compiacersi per la propria forza tout court, risorsa e arma fino all’avvento della polvere da sparo, esibendosi nelle prove più svariate e stravaganti: dal sollevamento dei tronchi a quello dei macigni, progenitrici dei ben più moderni

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a fianco, Jennifer Lombardo e a destra Roberta Buttiglieri

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014

ragazzi che quotidianamente si allenano e vivono a tempo pieno per il loro sport. Incluso lo Strenght Lab, il laboratorio che valuta postura, forza, propriocettività e gesti tecnici degli atleti. Poco prima dei campionati mondiali del Kazakistan di novembre, nel presentare la squadra partecipante alla rassegna iridata il presidente federale Antonio Urso, alla presenza del Presidente del CONI Giovanni Malagò, ha sottolineato il momento d’oro della cultura sportiva legata alla pratica della pesistica italiana - da dieci anni lontana dai casi di doping e la trasversalità di cui è dotata rispetto a tutte le altre discipline sportive del panorama agonistico nazionale: «Prima ancora del bilanciere e del gesto di sollevare pesi c’è un know how fatto di preparazione fisica e propedeutica, da poter condividere con gli altri sport» ha affermato convinto il numero uno della federpesistica. E’ bene inoltre ricordare che nella storia delle Olimpiadi questa antica disciplina ha permesso all’Italia di conquistare ben 14 medaglie nel suo palmarès (5 ori, 4 argenti e 5 bronzi), l’ultima delle quali con Oberburger a Los Angeles 1984.

Giorgia Bordignon, Jennifer Lombardo e anche la giovanissima Buttiglieri, hanno già dato prova di poter essere molto competitive in campo internazionale nelle rispettive categorie di peso. Ultima conferma del loro potenziale, stavolta in campo nazionale, è giunta dall’edizione 2014 campionati italiani assoluti svoltisi a Valenzano il 13 e 14 dicembre. Per la Polizia Penitenziaria quattro

una sola lunghezza (189kg contro 188kg nel totale rispetto alla romena Loredana Heghis). In terra cipriota buona prova all’insegna del miglioramento personale anche per Roberta Buttiglieri, debuttante nella categoria under 23, che ha totalizzato 202 kg nelle due alzate. La palestra FIPE, presso il Centro di Preparazione Olimpica dell’Acquacetosa, è l’autentica casa dei


lo sport

esercizi specifici nel campo della pesistica in generale. Proprio quando cominciarono ad affrontarsi nelle prime contese sportive, gli uomini compresero che per primeggiare dovevano allenarsi metodicamente. Il padre della medicina scientifica, Ippocrate di Cos (V-IV secolo a.C.), elencò una serie di attività per allenare e mantenere sano il corpo, tra cui la lotta e i sollevamenti (anakinemata). I Greci utilizzarono alteri di pietra o di metallo, anticipatori dei moderni manubri, sotto lo stretto controllo dell’allenatore. Prova di questa dedizione minuziosa all’allenamento volto ad incrementare la forza e la prestanza fisica, è la similitudine di molti esercizi fatti oggi con i manubri con gli allenamenti dell’epoca, praticati soprattutto nel campo della ginnastica medica. Il titano Atlante, sostenitore della volta celeste sulle spalle, il biblico Sansone, che abbatté le colonne del tempio filisteo di Dagon, e soprattutto Ercole, l’invincibile semidio noto per le sue 12 fatiche, sono i simboli del mito perenne della forza, ripetutamente esaltati nella letteratura e nell’arte di tutte le culture.

L’idea dell’uomo grande e forte ha sempre suscitato paura e rispetto. Sempre nell’antica Grecia, eccezionali esibizioni di forza sono testimoniate da tre iscrizioni del VI secolo a.C. su enormi blocchi di pietra: l’iscrizione di Olimpia si riferisce a Bybon, forse dell’Eubea, che con una mano lanciò «al di sopra della testa» un macigno di 143 chili; quella di Epidauro a Ermodikos di Lampsaco, in Asia minore, che trasportò per un centinaio di metri un masso di 334 chili; quella di Tera a Eumastas, capace di sollevare una pietra di 480 chili. Al di là della effettiva consistenza di tutto quel peso decantato dalle iscrizioni, ciò che più viene in rilievo è la percezione della potenza che si voleva trasmettere. Nel mondo greco si ricordano molti altri uomini dotati di grande vigoria, come il gigantesco Glaukos di Caristo (nell’Eubea), celebre pugile, olimpionico nel 520 a.C., che raddrizzò la lama di un aratro martellandola con il suo micidiale pugno destro; il due volte periodonico Theogenes di Taso (V sec. a.C.), esaltato da Pausania e Plutarco; il

bravo pancraziaste tessalo Pulydamas di Scotussa, vincitore olimpico nel 408 a.C., la cui statua (opera di Lisippo) fu ammirata da Pausania. Secondo la tradizione, sul monte Olimpo uccise un leone a mani nude. Milone di Crotone, figlio di Diotimos, era invece celebre per i suoi numerosi successi nella lotta, avendo riportato 6 vittorie ai Giochi Olimpici, 6 ai Pitici, 9 ai Nemei e 10 agli Istmici. Per di più era dotato di una forza straordinaria e su di lui, com’è logico, fiorirono le leggende. Anch’egli tuttavia subì una dura sconfitta in quella che si potrebbe definire come la più antica gara di sollevamento pesi della storia. L’erudito Claudio Eliano, detto il Sofista (nato a Palestrina intorno al 170 d.C.), nel libro XII delle sue Storie varie, scritte in greco, raccontò che Milone, orgogliosissimo della sua

forza fisica, si imbatté un giorno nel pastore Titormo e, vedendo che questi aveva un corpo possente, volle metterlo alla prova. Pur ritenendo di non essere particolarmente robusto, Titormo accettò, scese sulla riva del fiume Eveno e, toltosi il mantello, afferrò un macigno enorme: lo tirò a sé e lo allontanò due o tre volte, quindi lo sollevò fino alle ginocchia e, infine, presolo sulle spalle lo scagliò lontano quasi quindici metri. Milone, invece, riuscì a stento a smuovere quel masso. Così l’atleta più volte olimpionico, da tutti esaltato per la sua eccezionale prestanza, dovette arrendersi ad uno sconosciuto pastore etolico, sfidato con troppa presunzione. H

11 Nelle foto a sinistra il titano Atlante a destra l’iscrizione su di un macigno “da lancio”

sopra Sansone in basso una scultura del mitico Ercole

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Giovanni Passaro Segretario Provinciale Sappe passaro@sappe.it

Nella foto un fumatore

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014

diritto e diritti

Il fumo passivo, quali sono le regole in istituto entile Sappe, vorrei un parere sulla legittimità della concessione di far fumare i detenuti nelle sezioni detentive. Io sono un non fumatore costretto a subire i danni del fumo passivo e ritengo che i reparti detentivi sono luoghi pubblici e vige il divieto di fumo. Grazie

G

nella aule scolastiche, nelle sale d’attesa delle stazioni, nei locali chiusi adibiti a riunioni pubbliche, nei cinema e nelle sale da ballo, successivamente esteso, con la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 14 dicembre 1995, anche ai locali della pubblica amministrazione, delle aziende pubbliche e private destinati al ricevimento del pubblico; la

entile collega, buona norma sarebbe quella di proibire di fumare sigarette negli istituti penitenziari. In realtà fumare in carcere è forse l’ultimo gesto di libertà per un detenuto e allora... L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito il fumo da tabacco la più grande minaccia per la salute pubblica. Uno degli aspetti più inquietanti del fumo da tabacco, sia come assunzione diretta che in forma passiva è il grave danno che arreca in varie forme e modalità all’organismo. In particolare, la legge n. 584 dell’11 novembre 1975 “Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico” stabiliva il divieto di fumo nelle corsie degli ospedali,

successiva legge n. 3 del 2003 estendeva il divieto di fumo a tutti i locali chiusi, compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico, agli esercizi commerciali e di ristorazione, ai luoghi di svago prevedendo la facoltà di predisporre dei locali riservati ai fumatori; da ultimo, il Consiglio dei Ministri del 9 settembre 2013, ha approvato il decreto-legge in materia di scuola e università in cui sono state inserite le disposizioni contenute nel disegno di legge Lorenzin, varato in Consiglio dei ministri il 26 luglio, riguardante il divieto di fumo negli ambienti chiusi e aperti, di pertinenza delle scuole di ogni ordine e grado, ovvero cortili, parcheggi, impianti sportivi; la citata legge n. 3 del 2003, al contrario, non è stata estesa alle carceri italiane

G

(luoghi pubblici chiusi) nelle quali si continua a fumare sia all’interno delle sezioni detentive in cui sono rinchiusi i detenuti sia in tutti gli altri luoghi di pertinenza, nonché sui mezzi adibiti al trasporto dei detenuti medesimi. Tuttavia, il datore di Lavoro deve dare segnali chiari ed univoci di divieto di fumo nei locali chiusi non privati ai sensi dell’art.51 della legge 16 gennaio 2003 n.3, sia posizionando idonea cartellonistica che istituendo la vigilanza del divieto. Il datore di lavoro, in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, deve informare i lavoratori sui danni del fumo attivo e passivo e sulla relazione con i rischi lavorativi. Nella valutazione del rischio il datore di Lavoro deve considerare il fumo passivo come esposizione da agenti chimici (circolare esplicativa Min. Salute)(1) per chi lavora nelle sale fumatori e dato che non è contemplato nell’elenco delle sostanze o preparati cancerogeni, è sua discrezione valutarlo come agente cancerogeno. Tuttavia per gli esposti ad agenti cancerogeni o mutageni presenti nei cicli lavorativi, il D.Lgs. 81/08 e s.m.i. all’ art. 239 punto 1 lett.a) obbliga a fornire ai lavoratori, sulla base delle conoscenze disponibili, informazioni e istruzioni, in particolare per quanto riguarda i rischi supplementari per la salute dovuti al fumare. Deve, inoltre individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione ed elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza. Infine, il 2 agosto 2014 è stato approvato in Commissione Giustizia del Senato un ordine del giorno che invita il Governo ad adottare misure urgenti per rendere immediatamente esecutive le norme che vietano il fumo nei luoghi pubblici anche nelle carceri italiane, e in particolare nelle sezioni detentive e a prevedere norme ad hoc che eliminino i rischi da fumo passivo sia per gli operatori penitenziari che per i detenuti non fumatori.H (1) DCOM 0000705-P-17/06/2010.


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dalle segreterie Novara

rivista@sappe.it

I vertici Regionali del Sappe incontrano il personale del carcere

Per il diritto ad un luogo di lavoro più salubre e decoroso

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iceviamo e volentieri pubblichiamo queste foto che documentano lo stato di degrado dell’istituto molisano. H

elle foto del 9 novembre, l'incontro con il personale iscritto al Sappe di Novara dove, nell’occasione, è stata consegnata una carta prepagata di 8 euro da spendere presso i supermercati Esselunga con gli auguri della Segreteria locale.

Locri Premio internazionale per Giovanni Vescio

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014

Larino

i è svolta a Roma, il 20 settembre 2014, presso il Teatro Don Orione Polo, la premiazione con il concorso internazionale di Poesia e Arte Contemporanea “Apollo dionisiaco”, con la partecipazione di numerosi

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R Nella riunione sono stati distribuiti dei gadget e la tessera di iscritto. H Nicola Sette

artisti italiani e stranieri. Il premio mira a valorizzare le opere edite o inedite di autori e artisti internazionali emergenti, oltre ogni differenza e cultura. I poeti e gli artisti premiati dall’Accademia, sono stati scelti fra le 456 opere partecipanti al concorso da tutto il mondo: Nord Europa, Unione Sovietica, Canada, Brasile, Medio Oriente, tra loro emerge un artista della Polizia Penitenziaria, Giovanni Vescio, Assistente Capo in servizio presso il Nucleo Traduzioni e Piantonamenti della Casa Circondariale di Locri, classificatosi al 4° posto, al quale è stato assegnato l’Alto Riconoscimento al Merito con Diploma e Significazione critica (ex aequo) per la sua opera “Senza titolo numero 2”. Un’importante riconoscimento per Giovanni Vescio, artista amatoriale e rappresentante sindacale Sappe, che tra i molteplici interessi e impegni di lavoro, dedica il tempo libero alla passione per l’arte pittorica.H Michele Ciancio


dalle segreterie Imperia Il carcere in stato di totale abbandono La protesta del Sappe l 27 novembre davanti al carcere di Imperia si sono radunati, sotto le bandiere del Sappe, i colleghi della provincia di Imperia per manifestare pacificamente contro l’indifferenza di chi non ha o non vuole dedicare attenzione alla Polizia Penitenziaria di Imperia. L’estrema decisione proviene da una serie di eventi verificatisi nell’ultimo periodo che ci hanno condotto alla decisione di questa pubblica protesta. Imperia sta vivendo uno stato di abbandono da parte della nostra amministrazione regionale. L’aver spostato il vice comandante in un’altra sede, l’assenza di un direttore, una carenza di organico specialmente nel ruolo femminile e degli ispettori, non hanno trovato la giusta attenzione da parte di chi ha il dovere istituzionale di pensarci, a questo si aggiunge un aumento degli ingressi dei detenuti dovuta alla chiusura del Tribunale di San Remo. Non è tollerabile accettare detenuti durante le ore notturne quando diminuisce ulteriormente l’organico dei poliziotti. La Polizia Penitenziaria di Imperia negli ultimi mesi ha effettivamente vissuto situazioni di criticità estrema, anche se abilmente fronteggiate dal personale hanno comunque determinato un aumento del livello di allerta, già di per se quotidianamente elevato. Non si riesce a spiegare come mai ciò che il Sappe ha continuamente segnalato ai vertici regionali, anche riportato dalle varie testate giornalistiche, non hanno sortito alcun effetto restando inalterato, anzi per alcuni versi peggiorato, l’andamento dell’istituto dal punto di vista dell’organico e dell’organizzazione. Autovetture vecchie e non funzionanti hanno determinato che la Polizia Penitenziaria pur di garantire la propria presenza esterna, abbia utilizzato le proprie autovetture,

carenza delle poliziotte, in alcuni casi si è costretti a richiamare personale femminile dalle ferie per poter assicurare il controllo all’ingresso del carcere, poliziotti penitenziari trasferiti e non rimpiazzati, il verificarsi di eventi

letti con superficialità se pensiamo che si riferiscono ad una popolazione detenuta di circa 90 ristretti. Eppure la storia negativa dell’istituto dovrebbe essere giustificativa per rafforzare invece che indebolire la Polizia Penitenziaria di Imperia. H

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rivista@sappe.it

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critici derivanti dalla popolazione detenuta, mette una serie ipoteca sulla gestione della sicurezza. Basta un ricovero ospedaliero di un detenuto che il sistema sicurezza vacilli. Un istituto che nel 2014 ha registrato 96 eventi critici tra i quali un tentato suicidio salvato dalla tempestività del personale e ben 36 ricoveri ospedalieri urgenti. Dati questi che non possono essere

Teramo

Raccolta fondi per la lotta alla fibrosi cistica

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l 28 novembre, presso la sala conferenze della Casa Circondariale di Teramo, il Presidente dell’ANPPe (Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria) Sezione di Montorio al Vomano sig. Massimo Contasti e le donne e gli uomini del Corpo di Polizia

Penitenziaria di Teramo diretti dal Commissario Osvaldo Vaddinelli, hanno donato alla Lega Italiana Fibrosi Cistica - Abruzzo, presieduta dal sig. Celestino Ricco, un assegno di 600,00 euro frutto di una raccolta tra il personale dell’istituto per contribuire alla lotta contro la fibrosi cistica. H

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014


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dalle segreterie Roma Inaugurata l’Aula didattica a Rebibbia

rivista@sappe.it

l due dicembre alle ore 10 circa alla presenza delle figlie del compianto Aurelio e con la partecipazione del Dott. Mariani, dell’onorevole Aracri e dell’onorevole Palozzi si è tenuta l'inaugurazione dell'Aula Didattica Aurelio Mengarelli nel carcere Nuovo Complesso di

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Bari Ancora un lutto ha colpito la Polizia Penitenziaria di Bari

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014

n caro amico, una persona seria e corretta stimata da tutti ci ha lasciato. In questi casi le parole servono a poco poichè è tanta l’amarezza, il dolore che colpisce tutte le persone

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Rebibbia. Lodevole la decisione del Dott.Mariani di rendere ufficiale l'evento (con disposizione scritta) anche se la cerimonia ha avuto qualche inevitabile lacuna. In primis, ci si aspettava la doverosa partecipazione del provveditore, che invece è risultato assente per motivi a noi sconosciuti. Anche il comandante, purtroppo, è risultato assente per impegni di commissione disciplina al PRAP. Tuttavia, la cerimonia si è svolta egregiamente grazie a tutti i presenti. Purtroppo, sono state troppo poche le persone del personale di polizia intervenute per portare un omaggio al collega scomparso. Sorge il dubbio che possa esserci stato un certo boicottaggio nei nostri confronti da parte di alcuni personaggi ai vertici, forse perchè gli esponenti politici erano di centro destra e non di sinistra. La cerimonia di inaugurazione era stata fissata e resa nota dal direttore fin dal 20 novembre 2014 e comunicata con congruo anticipo anche al comandante. Proprio per questo, l’amministrazione, a mio parere, non si è dimostrata all’altezza della situazione sia nei confronti dei familiari del compianto Mengarelli e sia nei confronti dei politici presenti. A puro titolo di cronaca, le spese per il rinfresco e per la targa commemorativa sono state a carico di tre colleghi (Pierozzi, Maltinti e Lanza) che con grande convinzione hanno voluto farsi carico della cosa. La presenza dei Deputati, anche se solo di centro destra, è stata comunque uno

schiaffo morale a dimostrazione che, al di là delle bandiere e delle idee politiche, nessuno può e deve esimersi dal partecipare ad una commemorazione di una persona che ha dato trent'anni di vita sul lavoro ed è poi scomparso per una malattia bruttissima. Ringraziamo, comunque, tutti gli intervenuti che hanno fatto si che la cerimonia di inaugurazione sia riuscita comunque, nonostante discutibili sabotaggi e boicottaggi. H

che gli hanno voluto bene e continueranno a ricordarlo, a partire dai propri cari. Pasquale Romanelli era una persone semplice e disponibile come semplice è stata la sua breve vita terrena. Siamo convinti che da lassù continuerà a guardarci con il suo sorriso bonario e sincero. Ciao Pasquale il male ti ha vinto, ma continuerai a vivere nei nostri pensieri. Federico Pilagatti


dalle segreterie Acerra - Napoli Motocross Nazionale Area Sud i chiude nel migliore dei modi la stagione 2014 per il motocross nell’Area Sud che dopo le ultime prove di campionato vede ancora in pista tanti piloti grazie alla prima edizione del Trofeo Motul Motocross svolto sul crossdromo Città di Acerra (NA). II moto club Cerbone Moto e Ultracross hanno fortemente voluto questo evento supportato dal dealer Fashion Bike e ovviamente da Motul Italia che ha inviato i suoi massimi rappresentanti tra cui Massimiliano Lunardi (Marketing Manager Motul Italia) sul circuito napoletano, per

presenziare a quello che sarà un connubio anche per la prossima stagione. Centoventinove piloti di tutte le categorie hanno affollato il paddock di Acerra già dal sabato, onorando con la loro presenza il lavoro svolto nelle settimane precedenti dai due

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Prato Si continua a correre in Toscana. 3° Trofeo Kart Gran Prix della Polizia Penitenziaria i conferma l'iniziativa dedicata allo sport. Dopo le edizioni estiva ed autunnale, il 18 gennaio grande appuntamento invernale. L'ampio respiro dell'iniziativa dovuto ad una incisiva divulgazione, ha permesso l'iscrizione di molti colleghi che vogliono

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ripetere l'esperienza. La direzione dell'Istituto di Prato ed il coinvolgimento del PRAP della Toscana ha stimolato numerosi colleghi che, appassionati di gloria e velocità, hanno aderito in massa. Sono stati premiati il primo posto di ogni gara singola, i primi 5 posti della gara finale e il miglior tempo sul giro, e per tutti è stato consegnato l'attestato di partecipazione. La struttura ospitante, è sempre il My Kart di Montecatini Terme Visto l'enorme successo ottenuto, è stato deciso di continuare con il terzo Kart Grand Prix inverno 2015, evento che si terrá il 18 gennaio alle ore 16; è la conferma che lo sport unisce ed

moto club organizzatori e dal nostro Sovrintendente della Polizia Penitenziaria - Ufficiale Nazionale della Federazione Motociclistica Italiana Ciro Borrelli. Tra i nomi più altisonanti Alessio Chicco Chiodi tre volte Campione del mondo, Daniele Bricca e Felice Compagnone (Campioni Italiani) che hanno gareggiato nella categoria Elite sfidando ed esaltando tutti gli altri piloti delle classi MX1 e MX2 Top Class. H Ciro Borrelli

aggrega tutti con spirito competitivo ma di comunque appartenenza. Un grazie a tutti i colleghi per la partecipazione, a gennaio! H

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Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014


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dalle segreterie Genova

rivista@sappe.it

Avellino

Patrizia Costa eletta poliziotta penitenziaria dell’anno 2014

Incontro dei delegati campani del Sappe settore minorile

l 12 dicembre L’istituto di Genova Marassi erge a sua icona la grazie e la bellezza di Patrizia Costa, sovrintendente della Polizia Penitenziaria in servizio a Marassi, nominandola Poliziotta dell’anno 2014.

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Dopo un anno di super lavoro per la Polizia Penitenziaria di Marassi che si può raccontare in ben 332 eventi critici dei quali 9 sventati tentati suicidi e dopo aver egregiamente contrastato l’introduzione di sostanze stupefacenti che, in più riprese, si tentava di far passare attraverso le maglie strette della sicurezza, finalmente arriva un riconoscimento per tale super lavoro.

Teramo Prima Santa Messa e raccolta fondi per Telethon

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Polizia Penitenziaria n.222 novembre 2014

ella giornata del 18 dicembre 2014, presso la sala conferenze della Casa Circondariale di Teramo alla presenza del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, del personale Amministrativo e Sanitario, dell’A.N.P.Pe, dell’AVIS di Pineto, della Fondazione “Ricciconti” di Pineto, degli alunni e insegnanti della classe 3° D dell’Istituto comprensivo statale “Giovanni XXIII” di Pineto, il Frate Passionista Salvatore Frascina del

Alla Sovrintendente Costa si riconosce “uno spiccato senso del dovere e di appartenenza alle istituzioni, raffinate doti morali e umane che, coniugate a quelle professionali, hanno consentito di svolgere al meglio la quotidiana straordinarietà della missione a cui ciascun poliziotto penitenziario è chiamato nell’esercizio delle proprie funzioni”. Patrizia Costa vedrà così, impresso il suo nome sull’albo d’oro che è presente presso l’ingresso dell’istituto. La segreteria regionale del Sappe plaude a tale iniziativa voluta dal Comandante di reparto Commissario Di Bisceglie e avallata dal Direttore Mazzeo ed auspica che tale iniziativa possa essere estesa a tutti gli istituti liguri magari con una fase finale dove possa essere eletto il poliziotto penitenziario della Liguria. H Michele Lorenzo Santuario di San Gabriele dell’Addolorata in occasione del “Sacerdozio” ha celebrato la sua prima Santa Messa. Al termine della celebrazione le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria e del Comparto civile

l 26 novembre 2014 si è svolta presso il ristorante Hermanos di Avella (Av), un incontro con i delegati del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria delle strutture minorili della Campania. I lavori presieduti dal Coordinatore Nazionale Minori Carmine D’Avanzo hanno affrontato le problematiche attuali, nonché discusso le strategie per il rilancio dell’azione sindacale nel settore minorile.H C.B.

hanno devoluto in beneficenza a “Telethon” il raccolto di una colletta interna. Il Direttore e il Comandante del Reparto, si compiacciono con tutti gli operatori della Casa Circondariale di Teramo per la bellissima iniziativa di solidarietà verso il prossimo. H


dalle segreterie Reggio Calabria Alessia Denisi protagonista alla Prima Coppa Italia di danza sportiva 2014-2015 on poteva iniziare che nel migliore dei modi il rientro in pista dell’atleta Alessia Denisi (figlia del nostro Segretario Provinciale Franco Denisi). Dopo una pausa causata da un incidente e con la stessa tenacia con cui aveva affrontato le competizioni precedenti (medaglia d’oro ai campionati regionali Calabria, 2012 e 2013 e successivamente nei mesi di giugno 2012 e luglio 2013 conquista per due anni consecutivi il titolo di Campionessa Italiana nella disciplina Show Dance, dopo aver ottenuto un ottimo risultato ai Campionati Italiani Assoluti di Roma nel mese di Maggio 2014) il 21 dicembre Alessia si è presentata a Foligno per partecipare alla prima Coppa Italia 2014-2015 esibendosi in tre discipline diverse. Allenamento assiduo, volontà e voglia di vincere dopo una gara ad eliminazione diretta, premiano l’atleta nella disciplina di Show Dance portandola al podio con un primo posto di vincitrice di Coppa Italia con Medaglia D’oro.

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Ma non paga della vittoria, l’atleta non molla e continua conquistando ancora un terzo posto con la medaglia di bronzo nella disciplina Jazz Dance. Per completare, l’atleta conquista, al termine della giornata agonistica, anche il quarto posto nella disciplina Modern Contemporary. Con l’augurio di ottenere altrettanti risultati nelle prossime competizioni che si terranno a Rimini, nel mese di Gennaio 2015. H

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rivista@sappe.it

Nelle foto alcune immagini di Alessia Denisi in gara

COMUNICATO Si ricorda a tutti gli iscritti che presso le Segreterie Locali del Sappe sono in distribuzione le agendine, i calendari, le penne e le tessere 2015 del Sindacato.

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cinema dietro le sbarre

Regia: John Frankenheimer

II giardino della violenza a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nelle foto la locandina e alcune scene del film

ratto da un romanzo di Ed McBain (scrittore e sceneggiatore, anche di Hitchcock) il film di Frankenheimer racconta un episodio della guerra fra bande minorili newyorkesi. Proprio nella periferia di New York tre giovani delinquenti che fanno parte di una banda di italo-americani uccidono un giovane portoricano cieco, Robert Escalante. Il caso viene affidato al sostituto procuratore Bell (Burt Lancaster) che intende procedere con l’accusa di omicidio premeditato, che comporta la pena di morte. Tuttavia, il suo senso di giustizia lo porta ad indagare più a fondo nell’ambiente degradato dove sono cresciuti i tre assassini, quello stesso ambiente che egli conosce molto bene perché lì è nato e cresciuto.

la scheda del film

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responsabilità. La sua inchiesta, però, viene ostacolata dalle gang che lo minacciano continuamente. Nel corso delle indagini, Bell scopre che Escalante aveva anch’egli tirato fuori un coltello ed era in realtà uno dei capi della banda portoricana che si era scontrata contro i rivali italiani. La sceneggiatura del film si dipana così alternando scene esterne con

Titolo originale: The young savages Tratto dal Romanzo: Matter of convintion di Ed McBain Soggetto: Evan Hunter Sceneggiatura: Edward Anhalt, James Pinckney Miller Fotografia: Lionel Lindon Montaggio: Eda Warren Costumi: Jack Angel (III), Roselle Novello Scenografia: Burr Smidt Musiche: David Amram Produzione: United Aartist, Contemporary Productions Distribuzione: Dear Personaggi ed Interpreti: Hank Bell: Burt Lancaster Karin Bell: Dina Merrill Dan Cole: Edward Andrews Mrs. Escalante: Vivian Nathan Mary Di Pace: Shelley Winters Randolph: Larry Gates Serg. Gunderson : Terry Savalas Pilar Escalante: Pilar Seurat Angela Rugiello: Jody Fair Jenny Bell: Roberta Shore Walsh: Milton Selzer Giudice: Robert Burton Genere: Drammatico, Sociale Durata: 100 minuti Origine: USA, 1961

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014

Bell decide, così, di investigare sulle ragioni che hanno portato al delitto, sull’ambiente frequentato dai tre colpevoli e sulle loro diverse

quelle carcerarie dei tre giovani arrestati, nel corso dell’inchiesta giudiziaria del procuratore distrettuale.

Il regista americano, in questo suo secondo lungometraggio, si è avvalso di attori non professionisti reclutati nello stesso ambiente che descrive, ad eccezione di Burt Lancaster, nei panni di Bell, della Winters (madre di uno degli imputati) e di Teddy Savalas (tenente di polizia, al suo esordio come attore), ispirandosi palesemente al neorealismo italiano. H


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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

crimini e criminali

Il poliziotto, il prelato e Gino Girolimoni: la storia del mostro di Roma

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Nel riquadro la pagina di un giornale dell’epoca

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014

Italia, in questi giorni, è scossa dalla brutale uccisione del piccolo Loris Stival e dalla maggiore indiziata dell’efferato delitto: la Procura, i familiari e la maggioranza dell’opinione pubblica sono oramai concordi nel ritenere che l’assassina del bambino sia la madre, anche se la stessa continua a professarsi innocente. La vicenda ha turbato l’animo e il sentimento di tutti, genitori e non, perché l’uccisione di un bimbo è sempre un’atrocità intollerabile. Siffatti crimini efferati, come appunto l’uccisione di un bambino, da un lato alimentano la convinzione che ci si trovi in presenza di una mente malata, dall’altro sollecitano una voglia di giustizia che ignori del tutto la possibilità che il criminale sia incapace di intendere e di volere. Ci sarà forse un’altra occasione per parlare della vicenda del piccolo Loris e degli altri deplorevoli crimini perpetrati negli ultimi anni in Italia. L’omicidio del piccolo mi ha spinto ha rispolverare una famosa vicenda accaduta negli anni venti in Italia, durante il periodo fascista. E’ la storia di un serial killer di bambine e di una persona ingiustamente arrestata il cui nome, nonostante la sua completa estraneità ai fatti, ancora oggi è sinonimo di pedofilia. Ciò anche a riprova che quando un marchio d'infamia ti si incolla addosso è difficile poi rimuoverlo. Negli anni venti del secolo scorso, Roma fu sconvolta da una serie di rapimenti, con conseguenti stupri (o presunti tali) ed omicidi, ai danni di bambine di tenera età; tanto che i romani, rimasero traumatizzati dalla ferocia di quei delitti.

Tutto ha inizio il 31 marzo del 1924, Emma Giacobini, una bambina di quattro anni, si trovava nei giardini di Piazza Cavour a giocare con il fratellino minore. Poco distante secondo la successiva ricostruzione della polizia - un uomo era intento ad osservarli, attendendo il momento opportuno per avvicinarli e portarli via con la scusa di comprare loro delle caramelle. I due bambini e “l’orco” si dirigono verso piazza Cola di Rienzo, dove il fratellino di Emma viene lasciato,

Armanda Leonardi, di appena due anni, fu trascinata con violenza in via Paola da uno sconosciuto, descritto con le stesse sembianze del violentatore di Emma, ma l'inaspettata reazione della piccola, con urla e calci, spaventò l'aggressore che decise di fuggire. La fuga fu soltanto momentanea, perché dopo qualche anno si “riprenderà” la bambina direttamente dal suo lettino di casa. Il 4 giugno 1924, in via del Gonfalone (dove ha sede l’attuale Museo

quindi i due proseguono verso la zona di Monte Mario. Il pedofilo portò Emma dietro una siepe, la violentò e la picchiò sul viso, poi con un fazzoletto tentò di strangolarla ma probabilmente, la presenza inaspettata di qualche passante, lo fece fuggire. La bambina fu trovata in stato di shock davanti ad un negozio, con ancora in mano le mutandine sporche di sangue: malgrado tutto, per fortuna, viva. Gli investigatori, interrogando la vittima ed i testimoni, appresero che lo stupratore era anziano, ben vestito, costituzione magra e indossava un abito scuro e un cappello nero. Nel mese di maggio dello stesso anno,

Criminologico MUCRI), la piccola Bianca Carlieri viene vista allontanarsi, mano nella mano, con un distinto signore vestito di grigio. Le ore passano e della piccola si perdono le tracce. La mamma si dispera e con lei tutti i familiari impegnati nelle infruttuose ricerche: il corpo della piccola verrà rinvenuto la mattina successiva nei pressi della basilica di San Paolo: seminuda, giaceva sul prato; “l’orco” l’aveva prima violentata e poi strangolata. Dopo la morte della piccola Bianca i giornali iniziano ad occuparsi dell’assassino in maniera ossessiva e pregnante: anche perché l’evento


crimini e criminali rivestiva una valenza di carattere politico, considerato che l’allora regime faceva dell’ordine e della sicurezza dello Stato e dei cittadini uno dei suoi pilastri. Mussolini, allora capo del Governo, scende direttamente in campo sulla vicende ed ordina di trovare il colpevole ad ogni costo. Trascorrono soli cinque mesi e un’altra terribile violenza sconvolge la città eterna: la piccola Rosina Pelli, di soli quattro anni, il 26 novembre del 1924, viene rapita, violentata e uccisa. Anche lei sarebbe stata avvicinata, nei pressi del colonnato di San Pietro, da un distinto signore vestito di scuro. Il suo corpo esanime sarà ritrovato, il giorno dopo, da un muratore che si stava recando al lavoro, all’interno di una vecchia fornace in località “prataccio della Balduina”. Una strana analogia rispetto al primo delitto: in entrambe le piccole vittime,

sei anni, viene trovata morta e violentata, dopo ventiquattro ore dalla scomparsa presso la fonte Lancisiana, vicino al ponte Gianicolense, priva dei vestiti e con evidenti segni sul collo di strangolamento. A seguito di tale omicidio, la polizia ferma un sagrestano che aveva dei precedenti penali specifici per pedofilia. L’uomo riesce a dimostrare la sua completa estraneità al delitto, ma le voci che si erano susseguite subito dopo il fermo e l’essere additato come il “mostro”, lo portano a togliersi la vita. Intanto il governo, per cercare di accelerare la cattura del “mostro”, fissa una taglia di 10.000 mila lire a favore di chiunque avesse fornito validi elementi alla cattura e una ricompensa di 50.000 mila lire, nonché la promozione al grado superiore per meriti speciali, a favore del personale di polizia che fosse riuscito a prendere il “mostro”.

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accennato, rapisce nel proprio lettino di casa Armanda Leopardi, la piccola che era riuscita a scappare qualche anno prima. Armanda verrà ritrovata il giorno successivo ai piedi dell’Aventino strangolata, dopo essere stata violentata. Lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere della piccola Armanda, le indagini hanno un punto di svolta. Presso la questura di Roma si presenta un oste che asserisce che la sera del rapimento di Armanda, nella sua locanda si era presentato un uomo accompagnato da una bambina che assomiglia alla piccola uccisa. Pochi giorni dopo, la polizia acquisì un ulteriore testimonianza. Un uomo affermò che un “tipo losco”, tale Gino Girolimoni, importunava la sua domestica dodicenne. A questo punto della storia, purtroppo per lui che ne avrà la vita sconvolta, entra in scena il “sor Gino”, che Nelle foto a sinistra la via di Roma dove abitava Rosina Pelli a fianco Gino Girolimoni

il piede destro risultava privo della scarpetta e del calzino. Subito dopo la morte della piccola Rosina, alcuni colleghi del vetturino Amedeo Sterbini, iniziano per scherzo a far circolare, sul conto di questi, delle voci che lo additavano come il “mostro di Roma” e violentatore di bambine, a causa della sua fama di latin lover. La nomea, iniziata per gioco, assunse una valenza talmente sproporzionata tanto da indurre lo Sterbini a togliersi la vita ingerendo una dose notevole di acido solforico. Il 30 maggio del 1925, il maniaco omicida colpisce ancora: Elsa Berni,

Trascorrono pochi mesi e il mostro colpisce nuovamente. Celeste Tagliaferro viene portata via dal letto della propria casa in via dei Corridori. Il giorno seguente verrà trovata, lungo i prati di via Tuscolana, nuda con una ferita alla pancia. Trasportata all’ospedale San Giovanni, spirerà poco dopo. Il 12 febbraio del 1926, la piccola Elvira Coletti, di solo 6 anni, viene adescata da un uomo, lungo le rive del Tevere. Elvira nonostante la tenera età (sei anni) e la violenza subita, riesce a divincolarsi e a scappare. L’ultimo omicidio del “mostro” avviene il 12 marzo del 1927, quando, come già

esattamente dal 2 Maggio del 1927 darà un corpo ed un aspetto a quello che finora era stato un semplice “fantasma”: il Mostro di Roma. Girolimoni venne convocato in Questura e posto a confronto anche con l’oste, questi lo riconobbe nell’accompagnatore della piccola di qualche sera prima. Gino Girolimoni era un uomo alto, capelli castani, leggermente stempiato, di aspetto distinto, classe 1889 e si guadagnava da vivere facendo il mediatore di cause, procurando un avvocato agli operai che erano vittime di infortuni sul lavoro. Dopo una infanzia difficile, segnata dal

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24 marchio del “figlio della colpa” (come si usava dire allora) e dopo aver svolto molteplici mestieri, aveva raggiunto, grazie a questo suo ultimo lavoro, un discreto benessere che gli permetteva di ostentare una certa eleganza. A Girolimoni toccò la sfortuna di suscitare l’attenzione di un ufficiale della Polizia, tale Giampaoli, “segugio dal fine odorato” secondo la

Nelle foto sopra a sinistra Giovanni Giampaoli al centro Ralph Lyonel Brydges a destra il Commissario Giuseppe Dosi

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definizione che ne diedero i giornali dell’epoca. Ad incastrare definitivamente Girolimoni ed a trasformarlo nel “mostro di Roma” contribuirono oltreché alcuni testimoni, i quali affermarono di averlo visto spesso nelle zone in cui vivevano alcune delle bambine rapite e le discutibili affermazioni di suggestionabili bambini, un suo commilitone, tale Giovanni Giampaoli. Il Giampaoli, evidentemente mosso da rancore accumulato durante il servizio militare contro il Girolimoni, e come pretesto per estorcergli la confessione dei delitti, arrivò perfino ad accusarlo dell’omicidio di una bambina trovata morta vicino Udine, dove prestarono servizio militare durante la Prima Guerra Mondiale. Il teorema accusatorio cominciò a scricchiolare quando un operaio friulano, Domenico Maritutti, si riconobbe con assoluta sicurezza nell’uomo che si era recato in compagnia di una bambina (sua figlia!) nell’osteria di Massacesi la sera dell’assassinio della piccola Leonardi. Maritutti in un primo momento non fu considerato attendibile; dal canto suo

l’oste si rifiutò ostentatamente di ritrattare, ancorché messo a confronto con Maritutti. Chi da subito mostrò scetticismo riguardo il fermo del Girolimoni fu il Commissario di polizia Giuseppe Dosi. Il Commissario nutre dei forti dubbi sulle descrizioni del “mostro” riportate dai testimoni, rispetto all'aspetto reale dell'uomo ingiustamente accusato e, con molta pazienza, inizia ad investigare in altre direzione. Concentrando le sue investigazioni nelle zone adiacenti San Pietro, l’epicentro dei delitti, il poliziotto, grazie anche a diverse testimonianze e a piccoli reperti raccolti sui luoghi dei delitti (oggi le chiameremo scene del crimine), riesce a ricostruire un proprio identikit del “mostro”. Secondo il Dosi il vero mostro è un uomo molto più anziano di Girolimoni con uno spiccato accento straniero; raccogliendo elementi interessanti arriva a farsi una propria idea del vero mostro. Alla fine, tutte le informazioni apprese portano ad un solo nome: Ralph Lyonel Brydges, un prete di sessant’anni che serve messa alla Holy Trinity Church, una chiesa anglicana di via Romagna. Il commissario Dosi si concentra sulla vita del reverendo e scopre che ha precedenti penali per molestie su minori. Quando Dosi prova a formulare l’eventuale colpevolezza del prelato ai suoi superiori questi lo iniziano ad ostacolare in tutti i modi. Senza demordere, il commissario riuscì ad incontrare Brydges nel porto di Genova, il 13 aprile del 1928, mentre si trovava su una nave pronto a fuggire. Dosi lo accusò di aver ucciso le bambine di Roma, perquisì la sua cuccetta trovando altre prove inconfutabili della sua colpevolezza: scoprì degli appunti con riferimento ai luoghi dei delitti, ma soprattutto trovò dei fazzoletti identici a quelli trovati attorno al collo delle vittime. Brydges venne portato dalla polizia a Roma per essere interrogato e fu rinchiuso in un istituto psichiatrico per tre mesi, dove sottoposto a perizia ne scaturì un profilo perfettamente

compatibile con quello del “mostro”. Nonostante questo, le continue pressioni della Chiesa Anglicana e del Vaticano per la liberazione di Brydges fecero sì che l'uomo venisse scarcerato e inviato a Toronto (Canada). I superiori di Dosi, per evitare altri dissapori con la Chiesa, lo trasferirono ad Assisi, con l'intimazione di dimenticarsi di quel caso.

Il commissario non si arrende e scrive un memoriale direttamente al Duce, evidenziando i clamorosi errori compiuti contro Girolimoni e delle coperture politiche del reverendo. L'ostinazione e l'ossessione di Dosi lo portano all’ arresto e alla reclusione nel carcere di Regina Coeli e, successivamente, all’internamento per diciassette mesi in un manicomio giudiziario perché “squilibrato e megalomane”. Il 23 ottobre 1929, il reverendo Brydges viene prosciolto in istruttoria con formula piena dalla Corte d'Appello di Roma. L'uomo però aveva già lasciato da tempo l'Italia, per non farvi mai più ritorno. Il commissario Dosi nel 1940, dopo la caduta del fascismo, viene reintegrato nella polizia, diventando anche questore e membro dell'Interpol. La Commissione Internazionale della Polizia Criminale, di cui addirittura coniò il nome. Nel 1956, il commissario è andato finalmente in pensione, ma da buon investigatore, ha indagato a lungo privatamente per ricostruire nei minimi particolari la vita del vero Mostro.


le recensioni Ralph Lyonel Brydges nacque nel 1856, in Inghilterra. Dopo essere diventato diacono per conto della Chiesa Anglicana, si fece trasferire a New York intorno al 1910. In quel periodo venne denunciato dalle autorità locali perché aveva molestato sessualmente diverse bambine, ma il puntuale intervento della Chiesa aveva fatto archiviare anche in quel caso le accuse di pedofilia. Le indagini di Dosi portarono al forte sospetto che, verosimilmente, Brydges avesse ucciso tutte le bambine a Roma e anche in altri paesi ove aveva soggiornato, a Ginevra (un omicidio), in Germania (un altro delitto), Città del Capo e Johannesburg (due omicidi). Tutti i crimini rimasero irrisolti. Oltre alla protezione della Chiesa, Brydges godeva, soprattutto a Roma, dell'amicizia di consoli del governo inglese: era un intoccabile. E’ necessario precisare che la sentenza della Corte d’Appello di Roma dell’8 marzo del 1928 “...assolve Gino Girolimoni... per i reati a lui attribuiti per non aver commesso il fatto...”. Dopo il tanto clamore per il suo arresto, solo un giornale “La Tribuna” riportò la notizia dell’assoluzione: «E' stata depositata presso la cancelleria della Sezione d'Accusa della nostra Corte d'Appello la sentenza della Sezione di Accusa che chiude l'istruttoria a carico di Gino Girolimoni. La sentenza - dopo le richieste del P.M. comm. Mariangeli che già a suo tempo pubblicammo assolve il Girolimoni per i reati a lui attribuiti per non aver commesso il fatto. Egli dovrà rispondere del reato di oltraggio al pudore. Il Girolimoni è stato difeso, durante tutto il periodo istruttorio, dall’Avv. Ottavio Libotte.» Il 20 novembre del 1961, abbandonato da tutti e in assoluta povertà, si spense Gino Girolimoni che, anche dopo essere stato assolto, si era portato dietro per quasi 40 anni l'etichetta di Mostro. Al suo funerale, nella basilica di San Lorenzo fuori le H Mura, c'era solo una

Riccardo Gazzaniga

A VISO COPERTO EINAUDI Edizioni pagg. 532 - euro 19,00 incitore del Premio Calvino 2012. Due schieramenti nemici si sfidano ogni settimana su un terreno di rabbia e violenza: sono gli ultra e i celerini. A Genova un gruppo di tifosi sceglie di non accettare imposizioni e ingaggia uno scontro frontale con la polizia. L’odio per le divise riesce a unire reduci del G8 ed estremisti di destra, adolescenti eccitati dalla guerriglia e uomini perseguitati dai fantasmi di un passato insopportabile. Tra le forze dell’ordine c’è chi è acceso dall’adrenalina e chi non può liberarsi da un tremendo rimorso, chi vuole raccontare in un libro la sua storia e chi potrebbe segnare la propria con un errore fatale. Un libro che si legge d’un fiato, scritto per altro da un Sovrintendente della Polizia di Stato del Reparto Mobile di Genova

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nverno 2012. Uno scrittore cammina tra le rovine di quella che, negli anni

Trenta, è stata una delle più belle ville d’Europa, cuore di infinite serate mondane dell’aristocrazia: il Carinhall, la maestosa costruzione fatta erigere da Hermann Göring in memoria della sua prima moglie, la baronessa Carin von Fock. Hermann e Carin si erano conosciuti durante una tempestosa notte svedese del 1920. La neve che avvolgeva Stoccolma in un manto bianco impediva a Hermann di librarsi in volo. La famiglia von Fock era stata felice di offrire alloggio e ospitalità al giovane aviatore, l’erede del Barone Rosso. Uno sguardo, e tra la principessa delle nevi e l’acrobata dei cieli sbocciò l’amore. Poco importava che Carin fosse sposata, che fosse già madre. Hermann la portò via con sé, sfidando sul suo biplano la tormenta e lo scandalo. Arrivarono in Germania, Carin ottenne il divorzio e poterono sposarsi. Erano innamorati e splendidi come dèi della mitologia scandinava, il loro amore divenne “il romanzo del popolo”. Fino all’incontro che avrebbe cambiato la loro vita: Hitler, al cui fianco tentare il colpo di Stato. Ma il Putsch di Monaco fallì e Hermann fu bandito dai patri confini. Cominciò così il loro esilio europeo, che li tenne lontani dalla Germania fino al 1927. Carin, già malata, si aggravò. Si spense nell’ottobre del 1931, quattro giorni prima del suo quarantunesimo compleanno. Hermann, grasso e morfinomane, l’ombra del giovane che l’aveva fatta innamorare, non era con lei... H

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26 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Sopra la copertina del numero di giugno 2000

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come scrivevamo

P

iù di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

Pasquetta 1971: rivolta alle carceri Nuove di Torino Il ricordo, ventinove anni dopo, di uno che c’era di Carmelo Parente (Maresciallo degli Agenti di Custodia in congedo)

L’

ultima rivolta era accaduta soltanto due anni prima, un lasso di tempo che, più che altro, era servito per arrestare e sistemare le cose e per rendere funzionanti i diversi bracci, che portavano ancora le ferite della rivolta dell'aprile 1969. Mi trovavo in servizio in quell'Istituto da un anno, in sottordine al maresciallo comandante, e lo sostituivo nelle sua assenze. Un giorno accadde l'inevitabile. Era il Lunedì di Pasqua. Tutti a divertirsi in famiglia, compreso il Direttore, l'Ufficiale e il maresciallo titolare. Io ero in servizio, in qualche modo a sostituire tutti i papaveri, con pochissimi sottufficiali e gli agenti che coprivano appena i posti di servizio. Verso le 15:30 tutti i detenuti avrebbero dovuto ritirarsi dai cortili passeggi, ed effettivamente se n'erano andati tutti, ad eccezione di quelli del 2° braccio, che tentennavano. Il Capo sezione era un validissimo sottufficiale, che si prodigava al fine di convincere sia noi che loro. In un primo tempo quei detenuti stavano rientrando nelle sezioni, ma dopo aver confabulato tra loro, iniziarono a correre, e non rientrarono nelle celle, dando inizio alla spaventosa opera di devastazione, rompendo vetri, sradicando la ringhiera e rompendo tutto ciò che loro capitava sottomano. Sentito il fracasso, subito mi recai verso il 2° braccio, assistendo per qualche attimo all'insolita scena. Incominciai a gridare, a chiamare pregando gli scalmanati di calmarsi, ma era come se stessi parlando al muro: continuavano sempre più inferociti ed agguerriti. Visto che le mie suppliche erano vane e intuito che quello era l'inizio di una rivolta, chiesi al brigadiere, di ritirare tutti gli agenti

di servizio, prima che questi cadessero in ostaggio. Dato uno sguardo sommario alla situazione, mi accorsi che mancava un agente. Il brigadiere chiamò in sordina un certo detenuto scopino (che non faceva parte della rivolta) , cui venne chiesto dov'era andato a finire l'agente mancante. Subito dopo il detenuto incaricato tornava proteggendo quel militare, che si era rintanato nello sgabuzzino della spazzatura. Così, chiudendo il cancello d'ingresso alla sezione e con l'aiuto di agenti e sottufficiali, ci demmo da fare per i primi provvedimenti d'urgenza. Telefonicamente vennero informate tutte le forze dell’ordine e la Procura e si diede l'allarme in caserma. Con i primi agenti che scesero si rinforzarono il muro di cinta e i cancelli d'ingresso dell'istituto, mentre i rivoltosi continuavano la loro opera di devastazione. Dal 2° braccio, rompendo una vecchia porticina murata e sbucando nell'atrio della sezione penale, i rivoltosi entrarono nella rotonda portandosi al 3° braccio: qui liberarono ben 230 altri detenuti che erano regolarmente rientrati. Insieme a questi incominciarono a portare brande e materassi al cancello d'ingresso alla rotonda per renderlo inaccessibile. Le prime forze dell'ordine che giunsero Polizia e Carabinieri - erano meno di cinquanta, troppo pochi per avventurarsi in un'eventuale carica, sicchè bisognava attendere altri rinforzi. Giunsero intanto, sia il direttore che il maresciallo titolare, reduci dalla scampagnata di Pasquetta, e il loro arrivo smorzò, almeno parzialmente, le mie grandi preoccupazioni e responsabilità che in quel pomeriggio avevo. Intanto, dalla


come scrivevamo rotonda che i rivoltosi avevano occupato tramite il sottopassaggio si erano portati all'altro lato del 3° braccio ed entrando nell'officina giovinale trovarono tutti gli attrezzi più idonei per la completa devastazione. Misero in azione un potente martinetto, che alcuni già conoscevano per averci lavorato e, pressando sul soffitto, riuscirono a bucare il pavimento del 6° braccio, dove uno di loro armatosi di una potente mazza faceva saltare le serrature di ogni porta, liberando in pochi minuti tutti i 160 detenuti ristretti al braccio. La rivolta era completa, si salvarono appena il centro clinico, perché i detenuti ricoverati si barricarono per evitare che entrassero i rivoltosi, la sezione penale, perchè i detenuti studenti minacciarono chiunque sì fosse avvicinato ad entrare, e la sezione dei lavoranti. Ormai era sera tardi e i detenuti avevano devastato le sezioni, qualche cella era stata distrutta dalle fiamme. Le forze dell'ordine decisero di non intervenire, anche per evitare una carneficina, oltre al fatto che pur riuscendo a domare i detenuti, non si sarebbe potuto rinchiuderli, perché ormai tutto era stato distrutto. Per tutta la notte i rivoltosi bivaccarono nell'interno dell'istituto e uno dei rivoltosi fu ferito alle mani mentre impugnava un badile. Tutta la notte trascorse in quel modo, la mia famiglia attendeva invano il mio arrivo anche se li avevo informati del disastroso evento. Lo stesso valeva per i sottufficiali e per tutto il personale in servizio. Anche le famiglie dei funzionari abitanti in loco erano in stato d'allarme, dovendo chiudere le finestre per l'odore acre della bombe lacrimogene che in quella notte erano state lanciate. Ormai la devastazione era al completo e si aspettava l'alba e poi la mattinata per poter vedere il da farsi. E venne anche l'alba e la mattinata. La direzione, messasi in contatto col Ministero, decise di effettuare alcune centinaia di trasferimenti, disseminando i detenuti in tutte la carceri d'Italia. Questi, sapendo già cosa li aspettava, avevano preparato le proprie cose, così il giorno dopo e poi, di seguito, nel giro di una settimana sparirono tutti i rivoltosi, dopo aver causato centinaia di

27 A fianco una immagine della protesta del 1971

sotto la vignetta di giugno 2000

milioni di danni. Tutti gli agenti che nel corso della rivolta avevano notato atti di vandalismo fecero la denuncia all'autorità giudiziaria e così pure i sottufficiali. I tanti detenuti denunciati che erano ovviamente stati trasferiti furono interrogati dalla magistratura per rogatoria. Si formò, insomma, un processone all'italiana e un po' tutti i magistrati cercavano di evitarlo, finché, dopo averlo rinviato parecchie volte, decisero finalmente di celebrarlo. Il verdetto fu senza precedenti: reati gravi - devastazione furono derubricati in più leggeri danneggiamenti - che finirono poi in prescrizione. Così, dieci anni dopo si concluse il processo e nessuno pagò; la cosa strana e inverosimile di quella rivolta fu che al 3° braccio, la mattina dopo la notte d'inferno, in una cella del secondo piano furono trovati tre detenuti zingari che non avevano voluto partecipare alla rivolta e

nessuno li aveva molestati. Rimasero impassibili per tutta la notte, incuranti del fumo, del baccano e di tutto ciò che aveva scombussolato la loro vita quotidiana. Intanto, dopo la rivolta giunse un ispettore dal Ministero per l'inchiesta, al fine di determinare le cause e i motivi della rivolta. L'interrogatorio comprese tutti, dallo scopino al direttore. Ultimata l'inchiesta, l'ispettore mi chiamò in ufficio e volle salutarmi e complimentarsi con me, dicendo che se non fosse stato per me, poteva verificarsi un'evasione in massa di 700 detenuti. E così, cessata la burrasca, tornò un pizzico di sereno. Terminate le massicce traduzioni, si ricominciò daccapo a restaurare e ristrutturare i bracci, per renderli più sicuri e meglio sorvegliati, con porte corazzate e servizi igienici separati.

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donne in uniforme

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«Meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita» Rita Levi Montalcini

È

Nel box il sommario del numero di giugno 2000

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Mano a mano che si ultimava il lavoro in ogni braccio, arrivavano altri detenuti, aumentando così gradatamente la popolazione degli stessi. A tornare, erano maggiormente proprio gli stessi che dovevano ancora regolare il conto con la giustizia. Il mio collega titolare, in seguito a tutto ciò ch'era successo, un pomeriggio in ufficio si era sentito male. Venne accompagnato a casa e fu chiamato con urgenza il medico che, dopo averlo visitato, ne ordinò l'immediato ricovero. Era stato colpito da infarto e per qualche anno, tra malattia e convalescenza, non lo vidi più in servizio da titolare. Io ero il suo eterno sostituto ed ero passato dalla padella alla brace, e vi rimasi a lungo. Il Ministero in seguito m'investì della titolarità, con l'obbligo di abitare anche con la famiglia nell'alloggio che il collega aveva lasciato. Così il tran-tran carcerario, tra bello e cattivo tempo, per me durò altri sei anni, dopo di che fui costretto mio malgrado a congedarmi anzitempo. E così, da 23 anni, faccio la vita da pensionato. Mi dedico alla famiglia ed al mio hobby preferito, la poesia, seguendo la vita che scorre e scivola in tutti i settori, per tutti. Come ieri, oggi, domani, sempre. H

quanto ci auguriamo in ogni momento della nostra vita, personale e lavorativa. Un desiderio che ci accompagna costantemente, ma che, se non trova attuazione, lascia il campo ad un senso di frustrazione e disincanto e così, giorno dopo giorno il nostro atteggiamento cambia ed il rischio è quello di rimanere intrappolati in un negativo autoalimentante. L’avvicinarsi delle feste e la fine dell’anno porta, volenti o meno, a fare un consuntivo. Improvvisamente fermiamo il tempo, un rewind della mente con pause e riflessioni. E’ uno di quei momenti in cui entriamo in contatto in modo più ravvicinato con i nostri desideri, le nostre aspirazioni ed effettuiamo un bilancio. Tralasciando l’analisi delle questioni personali che lascio alle singole coscienze, vorrei parlare di quel sentimento di frustrazione e disincanto che trovo negli uomini e donne della Polizia Penitenziaria, di quel senso di abbandono e tradimento che oramai da tempo accompagna i giorni della vita lavorativa. Riflessioni e considerazioni senza pretesa alcuna di universalità. L’utilizzo dei social network ha permesso a voci fino a poco tempo fa sconosciute e anonime, di farsi sentire ed anche la Polizia Penitenziaria, in numerosissimi gruppi ha trovato un luogo di espressione, rendendo vicine persone che svolgono il medesimo lavoro ma che operano in realtà talvolta notevolmente diverse. Che sia per un semplice buongiorno, un selfie in uniforme o per confrontarsi su questioni lavorative e fatti accaduti nei singoli istituti, significativa è la necessità di contatto, relazione e scambio: un tentativo per sentirsi meno soli, affermare la propria presenza, trovare conferme, sostegno.

Il gruppo è una sorta di Grande Madre che dà spazio all’individuo facendo sì che si senta protetto, accolto, libero anche nell’espressione dei propri sentimenti, di gioia, di rabbia o disperazione. Di fatto i social network sono un ottimo terreno di studio, per tutta una serie di figure professionali che colgono quella innegabile libertà che viene dallo scrivere immediato. Capita così di trovare veramente di tutto. Scorrendo i vari post, tante, tantissime sono le notizie di cronaca portate all’attenzione ed alla condivisione del gruppo ed è allora che maggiormente si scatenano le reazioni, i commenti. Se soprattutto sono implicati colleghi il gruppo si compatta affermando con forza e decisione la propria identità, il proprio senso di appartenenza, accogliendo o allontanando nei propri commenti quanto accaduto a seconda che abbia una rilevanza positiva o negativa agli occhi del sé collettivo e personale. Ovvio che in tutto questo c’è un forte desiderio di riscatto, di riconoscimento del proprio valore positivo. Un desiderio del singolo per il singolo che poi chiede l’intervento della collettività. Suicidi, Omicidi, reati commessi durante lo svolgimento del proprio lavoro, toccano la sfera delle ombre personali, di quel lato oscuro che ognuno di noi ha e che viene nascosto talvolta anche a se stesso perché non corrisponde all’immagine ed al ruolo che vorrebbe avere. E quando un evento intacca la nostra integrità ci si sente traditi. Tradimento di ideali, aspettative, desideri. Per coloro che ne sono investiti la qualità della propria vita lavorativa cambia in peggio senza ombra di dubbio. Come possiamo interrompere questo loop negativo autoalimentante e


donne in uniforme

“È il tradimento che permette l’evoluzione della vita” riprendere a dare vita ai nostri giorni? Vorrei dare al tradimento un significato diverso, riprendendo quanto detto in proposito da uno psicologo analista junghiano americano (J. Hillman) e condividerlo con voi.

Per natura, noi essere umani, ricerchiamo sempre di instaurare un rapporto di fiducia primaria, vera e indistruttibile, come può esserlo ad esempio la fiducia che il sole sorgerà ogni giorno e che la terra sotto i nostri piedi è solida. Un rapporto perfetto dove non esistono inganni, delusioni, bugie, abbandono, e nel quale ci sentiamo protetti anche dalla nostra stessa ambivalenza. La ricerchiamo ogni volta che si instaura un rapporto stretto. Un bisogno di sicurezza in cui potersi abbandonare senza essere distrutti. Ma la vita non è così. La fiducia che si instaura fra gli uomini è legata alla natura degli uomini ed alla loro debolezza. Fiducia e tradimento sono quindi contenuti l’uno nell’altro. Non è possibile avere fiducia senza accettare la possibilità del tradimento. Più grandi sono l’amore, la lealtà,

l’impegno, l’abbandono e maggiore è il tradimento. Ma è da questa consapevolezza che si riparte. E’ il tradimento che permette l’evoluzione della vita. Secondo Hillman l’uomo ha

incominciato a prendere coscienza di sé al momento della cacciata dall’Eden, dopo aver tradito la fiducia del Padre. E’ tramite il tradimento di Giuda prima e del Padre poi che Gesù crocifisso diviene veramente umano, soffre la tragedia dell’uomo, si apre al sentimento e all’emozione, salvando l’umanità. All’atto del riconoscimento del tradimento varie sono le possibilità che mettiamo in atto come meccanismo di difesa. Si può negare il valore dell’altra persona, vedendo in lei solo le ombre negative o cadere nel cinismo che è un applicare a livello generale il valore delle relazioni e delle persone. Si può infine arrivare a negare se stessi colpevolizzandoci per esserci fatti tradire. Per trasformare il tradimento in un’evoluzione bisogna entrare in contatto con il perdono.

Come la fiducia ha in sé il seme del tradimento, il tradimento ha in sé il seme del perdono. Né fiducia né perdono possono essere compresi fino in fondo senza il tradimento. Il tradimento è il lato oscuro di ambedue, ciò che dà loro significato e li rende possibili. Ciò che rende una relazione una scelta consapevole e non una proiezione di desideri e aspettative, riconoscendo l’umana fragilità, prendendo coscienza di noi stessi e dei nostri lati oscuri. Perdono, non oblio, il ricordo del torto trasformato dentro un contesto più ampio o come dice Jung, il sale dell’amarezza trasformato nel sale della saggezza. Per quanto si possa essere o meno in accordo con quanto sopra scritto, l’intenzione era quella di suscitare una reazione, un dubbio mettendo in discussione quelle certezze e fiducie che riteniamo appunto di avere.

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a cura di Laura Pierini Vice Segretario Provinciale Sappe Firenze rivista@sappe.it

Nella foto Adamo ed Eva espulsi dal Paradiso Terrestre dipinto da Giuseppe Cesari (il Cavalier D’Arpino)

RELATIVO Guardo la luna e nuvole veloci che a tratti la nascondono. Ma se guardo ancora è la luna che veloce si muove, le nuvole aspettano il suo passaggio. E’ così anche la nostra vita, angoli e prospettive senza regole strutturate volando su pensieri mutanti. Tutto è vero e niente lo è per un breve o lungo attimo. I tuoi occhi, la tua mente guarderanno senza giudizio alcuno lasciando te essere luna o nuvola o entrambi, in quella relatività stimolante che rende la tua vita, viva. A presto. H

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mondo penitenziario

Suicidi nella Polizia Penitenziaria: per qualcuno basterebbe curarsi come fanno gli altri

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i recente, altri due colleghi hanno deciso di togliersi la vita a poche ore uno dall’altro. Tragedia nella tragedia, il collega in servizio a Velletri ha anche ucciso sua moglie rendendo orfani due piccoli figli. A cavallo dei due tragici eventi ho avuto modo di leggere un intervento della dottoressa Gemma Brandi, Direttore Salute Mentali Adulti Firenze, che, mi assicurano, è molto vicina alle problematiche della Polizia Penitenziaria.

L'intervento della dottoressa Brandi (riportato integralmente nel box nell’altra pagina) mi ha davvero sconcertato perchè, sostanzialmente, dopo aver collegato le motivazioni dei gesti estremi alle condizioni di sfascio generalizzato, accusa esplicitamente il Sindacato (e quindi in particolare il Sappe che è l’unico Sindacato di Polizia ad essersi occupato dell’argomento) di “piegare i dati alle proprie ipotesi”.

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014

L’ETA’ DEI COLLEGHI La prima argomentazione che tira in ballo la dottoressa Brandi è l’età e la qualifica dei colleghi (assistenti capo): “Vorrei chiedere ai rappresentanti sindacali se non sia vero che, quasi sempre, sia questa la categoria colpita dalla disgrazia, che dunque

testimonia di qualcosa cui non si è ritenuto importante dare un nome”. E’ vero, la maggior parte dei poliziotti penitenziari che hanno scelto di suicidarsi sono Assistenti Capo di un età compresa tra i 35 e 50 anni, ma è anche vero che in questa fascia di età/qualifica rientrano la maggior parte dei poliziotti penitenziari: attualmente su 38.000 unità di Polizia Penitenziaria in servizio, più di 25000 ricoprono la qualifica di assistente capo. Quindi, aritmeticamente parlando, sembra trattarsi di un puro

e semplice calcolo delle probabilità. Ma anche non fosse questo il motivo, quale dovrebbe essere il nesso tra l’età/qualifica e la supposta manipolazione sindacale per piegare i dati alle proprie ipotesi? Dov’è? Ma di cosa stiamo parlando? I COLLEGHI SI CURINO DA SOLI ALL’ESTERNO COME TUTTI Prosegue la dottoressa: “E invece si continuano a evocare soluzioni miracolistiche e non realistiche come l’attivazione di centri di ascolto intra moenia dai quali, a mio avviso, le persone riguardate dalla innominata difficoltà si terrebbero bene alla larga. Gli operatori del carcere sono cittadini a tutti gli effetti, che possono quindi fruire della stessa assistenza

garantita oggi anche al cittadino recluso, là dove si trova.” In effetti, il Sappe chiede da anni l’attivazione di centri d’ascolto specifici per i poliziotti penitenziari, su interesse e a cura dell’Amministrazione penitenziaria e non per questo ubicati per forza nelle carceri. Forse la dottoressa non si rende conto delle difficoltà di tempo, di mobilità, dei turni di lavoro che un poliziotto deve affrontare nella sua quotidianità. Un poliziotto in difficoltà non è un cittadino come tutti gli altri; non lo è almeno nel contesto lavorativo. Un poliziotto in difficoltà si troverà, forse, più a suo agio in una struttura appositamente creata per lui, interna al familiare luogo di lavoro, che gli faccia sentire la vicinanza e la protezione della sua stessa Amministrazione. E’ COLPA DELLA SFASCIO DEL SISTEMA “Lo sfascio istituzionale che mina i luoghi di pena, ormai da qualche anno, anticipa lo sfascio dell’intero sistema pubblico, se non si saprà trarre una lezione da quanto accade nei reclusori del Paese. Ho la presunzione di ritenere che le morti di questi uomini testimonino di tale sfascio.” Eh già ... il sistema, lo sfascio... Non c’è peggior sordo di chi non vuole ascoltare e non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Noi non abbiamo la presunzione di aver trovato la soluzione o il rimedio ai problemi di chi sceglie di togliersi la vita. Ma ci sembra evidente che un gesto del genere risiede troppo in profondità nell’animo umano per poterlo collegare sic et simpliciter ad un generico sfascio del sistema penitenziario. Detto questo, pur leggendo e


mondo penitenziario rileggendo l’intervento della dottoressa, continuo a non trovare nemmeno una parola su come affrontare il problema, leggo solo generiche accuse al Sappe che, almeno, ha tentato di proporre degli interventi all’Amministrazione penitenziaria. Francamente, l’intervento della dottoressa Brandi mi sembra piuttosto una difesa d’ufficio del DAP e dei suoi Dirigenti. Se poi vogliamo davvero affrontare la discussione serenamente, cercando di battere qualunque strada utile, mi permetto di osservare che la stragrande maggioranza dei suicidi dei colleghi della Polizia Penitenziaria è legata o collegata a problemi di separazione tra coniugi. In questo contesto, quindi, assume tutta un’altra luce la condizione di persone di età compresa tra i 35 e 50 anni che spesso lavorano lontano da casa (l’ultimo collega era stato appena trasferito a Velletri da un istituto del nord) e che si ritrovano a gestire relazioni coniugali e ruolo paterno in situazione di precarietà. Ci sono colleghi, mariti, padri, che “compattano” giorni consecutivi di lavoro (e dove lo troverebbero il tempo per andare a cercare un aiuto esterno?) per poi fare minimo 500 km di viaggio per passare qualche giorno in famiglia (non sono rari i casi di incidenti stradali notturni). Sono tanti i colleghi in queste condizioni. Persone che vivono in caserma per risparmiare soldi e che, oltretutto, si trovano a sopportare il peso di tutte le problematiche del carcere. Lo sa la dottoressa Brandi qual’è la qualifica maggiormente presente nelle carceri nelle ore notturne? Sarà forse quella degli Assistenti Capo? Lo sa che affidare la “Sorveglianza Generale” ad un Assistente Capo è la norma in molti Istituti? L’unico modo di affrontare seriamente la questione secondo me è quella di ripartire dalla persona; dalle condizioni in cui lavorano migliaia di Assistenti Capo, lontani da casa, sfruttati dall’Amministrazione penitenziaria e, secondo la Brandi, ora anche “colpevoli” di non curarsi come fanno tutti gli altri! H

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L’intervento della dottoressa Gemma Brandi su Ristretti Orizzonti o scritto già molte volte a Ristretti Orizzonti per non lasciare che scivoli via una notizia importante come la morte per auto soppressione di un agente di Polizia Penitenziaria. L’ho fatto senza pretendere di indicare dei colpevoli presunti, ma per provocare una riflessione diversa da quella che si suppone sia portata avanti in un qualche dove della Repubblica Italiana a fronte della diminuzione percentuale dei suicidi dei reclusi, pure in carceri invivibili e non solo per sovraffollamento, e della crescita parallela dei gesti autolesivi estremi dei poliziotti. Torno a proporre oggi il mio punto di vista. Di nuovo si è ucciso un assistente, capo stavolta, in quell’età che muove tra trentacinque e cinquant’anni. Vorrei che questo aspetto epidemiologico non andasse trascurato, perché non coerente con la diffusione del suicidio nella popolazione che non abita, né lavora nei penitenziari. Vorrei chiedere ai rappresentanti sindacali se non sia vero che, quasi sempre, sia questa la categoria colpita dalla disgrazia, che dunque testimonia di qualcosa cui non si è ritenuto importante dare un nome. Prima di generalizzare o piegare un dato alle proprie ipotesi, occorre partire dalla realtà specifica; occorre adeguarsi all’esame di realtà per affrontare davvero un problema. Perché tanta sofferenza si annida nel cuore e nella mente di assistenti e assistenti capo della Polizia Penitenziaria dell’età indicata? Forse se cominciassimo a interrogarci reciprocamente sul problema e a mostrare una attenzione per la fascia anagrafica e occupazionale indicata, potremmo trovare una via di uscita. E invece si continuano a evocare soluzioni miracolistiche e non

Nella foto Gemma Brandi

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realistiche come l’attivazione di centri di ascolto intra moenia dai quali, a mio avviso, le persone riguardate dalla innominata difficoltà si terrebbero bene alla larga. Gli operatori del carcere sono cittadini a tutti gli effetti, che possono quindi fruire della stessa assistenza garantita oggi anche al cittadino recluso, là dove si trova. L’operatore ha la libertà di uscire dal posto di lavoro e recarsi all’esterno per trovare accoglienza e cure, con la riservatezza di cui difficilmente godrebbe tra le mura della prigione. Quindi smettiamo di reclamare sportelli dedicati dentro i reclusori, anche se a dare questo suggerimento fossero illustri esperti che però di carcere non sanno niente, e componiamo un pensiero sull’argomento che ci sta a cuore. Lo sfascio istituzionale che mina i luoghi di pena, ormai da qualche anno, anticipa lo sfascio dell’intero sistema pubblico, se non si saprà trarre una lezione da quanto accade nei reclusori del Paese. Ho la presunzione di ritenere che le morti di questi uomini testimonino di tale sfascio. Gradirei non poco che il mio punto di vista ne incontrasse altri e che l’amalgama delle diverse prospettive di chi conosce il sistema penitenziario ci aiutasse ad aiutare compagni di cordata che gettano la spugna in maniera clamorosa quanto inavvertita.

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014


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A fianco: 1978 Scuola AA.CC. di Cairo Montenotte (SV) (foto inviata da Francesco Ciccone)

a fianco: 1956 Casa Reclusione di Porto Azzurro (LI) Ufficio Matricola e squadra di calcio (foto inviata da Francesco Perruccio

a fianco: 1973 Casa Reclusione di Porto Azzurro (LI) Picchetto per la Festa del Corpo (foto inviata da Francesco Perruccio

Polizia Penitenziaria n.222 novembre 2014

eravamo cosĂŹ


eravamo cosĂŹ

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In alto:1983 Casa Circondariale di Napoli Poggioreale Foto di gruppo in piazzale San Basilide (foto inviata da Aldo Coviello) Sopra: 1953, Scuola AA.CC. di Portici (NA) (foto inviata da Francesco Perruccio) a sinistra: 1980, Casa Circondariale di Fossano Brindisi di fine anno (foto inviata da Antonio Orsitto)

Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014


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La Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria augura a tutti gli iscritti, ai loro familiari e a tutti gli appartenenti al Corpo un

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2015

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Polizia Penitenziaria n.223 dicembre 2014


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