Polizia Penitenziaria - Settembre 2015 - n. 231

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anno XXII • n. 231 • settembre 2015

ISSN 2421-2121

www.poliziapenitenziaria.it

OT CROSS N O D E N E C S S - CRIME S O R C T O N O D CRIME SCENE

La scena del crimine



sommario

anno XXII numero 231 settembre 2015

Per ulteriori approfondimenti

www.poliziapenitenziaria.it

l’editoriale

dalle segreterie

Caso Cucchi, inchiesta bis

il pulpito La scena del crimine

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

di Giovanni Battista De Blasis

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il commento Morti e suicidi in carcere di Roberto Martinelli

8

l’osservatorio

Le condizioni dei detenuti in carcere di Giovanni Battista Durante

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criminologia

Minori nomadi: scolarizzazione e cittadinanza di Roberto Thomas

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giustizia minorile

Ipotesi e prospettive per il nuovo DGM di Ciro Borrelli

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lo sport

Campionati mondiali di Para Archery di Lady Oscar

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diritto e diritti

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, On. Avv. Antonio Di Pietro Donato Capece, Giovanni B. de Blasis, Giovanni B. Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director) www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2015 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. • fax 06.39733669 e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994

Il diritto al trattameno sanitario

Cod. ISSN: 2421-1273 web ISSN: 2421-2121

di Giovanni Passaro

Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma)

donne in uniforme Carcere: terrra di confine di Laura Pierini

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

19

Sulmona, Lanciano, Torino Roma, Vercelli

di Donato Capece

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In copertina: La scena del crimine al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

visita il sito

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Finito di stampare: settembre 2015 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

dalle segreterie

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Genova Ferrara, Teramo

funzionari

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Polizia Penitenziaria, Polizia di frontiera di Mario Salzano

cinema

24

Hell - Esplode la furia a cura di Giovanni Battista De Blasis

crimini e criminali 26 Il branco di Leno di Pasquale Salemme

come scrivevamo 28 Milano 1879: apre il carcere di S.Vittore di Assunta Borzacchiello

sicurezza sul lavoro 30 I lavoratori addetti alla MOF di Valter Pierozzi

le recensioni

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Editori: Bur Rizzoli, Chiarelettere, Giunti, Einaudi, Pearson Italia

ultima pagina

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Vignetta:il mondo dell’Appuntato Caputo di De Blasis & Caputi

Chi vuole ricevere la Rivista direttamente al proprio domicilio, può farlo versando un contributo di spedizione pari a 25,00 euro, se iscritto SAPPE, oppure di 35,00 euro se non iscritto al Sindacato, tramite il c/c postale n.54789003 intestato a: POLIZIA PENITENZIARIA - Società Giustizia & Sicurezza Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma specificando l’indirizzo, completo, dove va spedita la rivista.

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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

l’editoriale

Caso Cucchi, inchiesta bis. Scuse alla Polizia Penitenziaria? re Carabinieri sono sotto inchiesta per la morte di Stefano Cucchi. E’ quel che emerge dall’avvio di un’inchiesta bis – affidata al PM Giovanni Musarò – sul caso della morte del giovane, avvenuta in seguito all’arresto subito il 15 ottobre del 2009. L’ex vicecomandante della stazione di Tor Sapienza, è indagato per “falsa testimonianza“. La deposizione del maresciallo al processo d’appello contro medici e

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sollecitata in parallelo da un nuovo esposto della famiglia Cucchi e dalle indicazioni sulla falsa testimonianza di Mandolini fornite dal presidente della Corte d’appello”. Il vice comandante di Tor Sapienza sarebbe caduto in contraddizione sulla propria partecipazione alle perquisizioni domiciliari eseguite nei confronti di Cucchi, spiegando – senza convincere – le ragioni del mancato foto-segnalamento. Ed è proprio dal chiarimento di

agenti della Polizia Penitenziaria è risultata in conflitto con i fatti accertati dai PM. L’inchiesta riguarda anche altri due Carabinieri, che rischiano l’iscrizione nel registro degli indagati per lesioni colpose. I giudici d’appello avevano specificato che Cucchi “fu percosso“, invitando ad “indagare sui Carabinieri”. Le motivazioni della sentenza che nell’ottobre scorso ha assolto agenti di Polizia Penitenziaria, medici e infermieri imputati per la morte del giovane detenuto affermano infatti che “non si è trattato solo di una congettura” che la violenza sia stata perpetrata dai militari dell’Arma che lo arrestarono. “La Procura – ha scritto in particolare il Corriere della Sera – si è mossa

questo passaggio che bisognerà partire per provare ad accertare la verità. Noi, che abbiamo assunto – in assoluta solitudine! - una posizione chiara e inequivocabile sulla triste vicenda, seguiamo ora con attenzione gli sviluppi giudiziari dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. Ma credo che saranno in molti a dover chiedere scusa per le accuse formulate al Corpo di Polizia Penitenziaria, linciato mediaticamente ed anche politicamente senza alcuna prova... L’abbiamo detto ed intendo ribadirlo anche in questo editoriale. Siamo sempre stati solidali con la Famiglia Cucchi per la perdita del loro familiare, ma anche fieri del nostro lavoro quotidiano e della

Nella foto: una fase del processo Cucchi

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nostra abnegazione al servizio del Paese. Noi non abbiamo nulla da nascondere e da subito ci siamo detti fiduciosi nell’operato della magistratura. Eppure, in quei giorni, subito vennero formulate accuse gravi, anche da autorevoli politici, contro la Polizia Penitenziaria, senza avere conoscenza dei fatti. Esiste la verità processuale, che è quella che si forma nel dibattimento e che è l’unica verità che può interessarci in questo caso. E la vicenda processuale legata alla morte di Stefano Cucchi ha chiarito un aspetto per noi molto importante. Sia la sentenza di primo grado che quella di appello hanno assolto i poliziotti penitenziari che lavorano a piazzale Clodio, presso il Palazzo di Giustizia di Roma, dalle accuse (non suffragate da alcuna prova!) loro mosse. Lo hanno accertato due Corti, 4 giudici togati, 12 giudici popolari. Già nel dicembre 2009, la rigorosa inchiesta amministrativa disposta dall’allora Capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta sul decesso di Stefano Cucchi escluse responsabilità, da parte del personale di Polizia Penitenziaria, in particolare di quello che opera nelle celle detentive del palazzo di Giustizia a Roma. Ora l’inchiesta bis sul caso della morte del giovane Cucchi profila nuovi scenari. Attendiamo, come sempre con serenità, gli esiti, fermo restando che nessuno è colpevole senza una sentenza passata in giudicato, ma con la consapevolezza che in molti dovranno chiedere scusa per il pubblico linciaggio morale a cui per molti mesi è stato sottoposto il Corpo di Polizia Penitenziaria ed i suoi appartenenti. H


il pulpito

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La scena del crimine n quarto di secolo fa, agli inizi degli anni novanta, la Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e Pena, in via Silvestri 252, diventò una scena del crimine per l’omicidio del Corpo degli Agenti di Custodia. L’arma del delitto fu una Gazzetta Ufficiale, la n. 300 del 27 dicembre 1990, caricata con la legge n. 395 dello stesso anno. Al tempo, pur essendoci molti sospettati, non fu mai individuato un responsabile da poter dichiarare colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Le cronache di allora azzardarono una verosimiglianza col romanzo Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie giacché il Corpo aveva subìto decine di colpi mortali, inferti da autori diversi, così da non poter stabilire con certezza quale fosse stato il colpo letale e chi l’avesse assestato. Oggi, in quel posto, c’è il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a Largo Luigi Daga 2, ma nessuno si lasci ingannare dal cambiamento della toponomastica stradale e della denominazione dell’edificio, perché si tratta del medesimo ufficio che si occupa delle carceri italiane. In buona sostanza: stesso luogo, stesse persone. Esiste una concezione ciclica del tempo, iconicamente rappresentato da una ruota, secondo la quale tutti gli avvenimenti si ripetono, pedissequamente, in un circolo incessante. Gli stoici, addirittura, sostenevano la teoria della “palingenesi”, secondo cui la storia era l’esatta riproduzione degli stessi eventi e delle stesse persone, in ogni ciclo. Dando credito a questa teoria, sembrerebbe che, a distanza di venticinque anni, si stia per concludere un nuovo ciclo e si stiano

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per ripetere gli avvenimenti di allora, probabilmente con le stesse dinamiche e gli stessi protagonisti. Abbiamo già detto del medesimo luogo, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. L’arma del delitto sarà la Gazzetta Ufficiale del 29 giugno 2015, caricata col D.P.C.M. 15 giugno 2015, n. 84. Anche la vittima sarà la stessa, pur se con differente denominazione e diverso colore dell’uniforme: il Corpo di Polizia Penitenziaria. E anche stavolta, pur essendoci molti

poter stabilire con certezza quale sarà il colpo letale e chi lo assesterà. Cicli del tempo ...Corsi e ricorsi.. Palingenesi. Un unico comun denominatore: il Corpo muore e qualcuno beneficerà della sua morte. E tutto quanto sarà avvolto e circoscritto da una striscia di plastica con la dicitura “crime scene – do not cross”. Si potrà accedere di nuovo all’interno del dipartimento soltanto quando tutti quanti si saranno sistemati sulle

sospettati, non sarà possibile individuare un responsabile da dichiarare colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Le cronache azzarderanno di nuovo la verosimiglianza col romanzo Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, prendendo atto che il Corpo subirà decine di colpi mortali, inferti da autori diversi, così da non

migliori poltrone, davanti a lussuose scrivanie, dentro le rinnovate stanze dirigenziali. Qualche mese dopo, una Very Important Person darà l’annuncio della nascita di un nuovo Corpo di Polizia “al servizio del Paese” (e, soprattutto, al servizio di Lor Signori). E avanti con un nuovo ciclo... H

Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

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Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nella foto: Marco Pannella visita un carcere

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il commento

Morti e suicidi in carcere: le amnesie del DAP è un dato che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sistematicamente omette di citare quando si parla di suicidi di detenuti in carcere. E’ il dato riferito ai suicidi sventati dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria. Dati numericamente significativi, eppure sistematicamente e reiteratamente ignorati. Pochi giorni fa ne abbiamo avuto l’ennesima riprova, leggendo il

C’

soli 40 giorni dovrebbero fare riflettere seriamente. Altro che chiacchiere: qui ci vorrebbero soluzioni immediate e concrete, e non “nascondere la testa sotto la sabbia”! La denuncia del SAPPE è stata ‘raccolta’ dai Radicali, che a loro volta hanno lanciato politicamente l’allarme sulla costante emergenza delle carceri italiane. Il DAP, evidentemente nell’intento di fornire una chiave di lettura diversa della realtà oggettiva dei fatti, ha

comunicato stampa che il DAP ha inteso diffondere in risposta alle denunce del SAPPE e dei Radicali sul costate alto numero dei suicidi di detenuti in carcere. Roma Regina Coeli, Terni, Teramo, Pisa, Alba, Carinola, Gela, Como: sono le otto carceri italiane nelle quali, in soli quaranta giorni, tra luglio e agosto, si tolti la vita altrettanti detenuti. E il dato – oggettivo – ha sollevato le nostre legittime perplessità, soprattutto in relazione al fatto che sentiamo sempre più spesso dire che il numero dei detenuti è calato, che “l’emergenza penitenziaria non c’è più” e, quindi, i problemi sarebbero tutti (o quasi) risolti. Otto detenuti che si tolgono la vita in

diffuso un comunicato diffuso alla stampa il 1° settembre scorso che riportiamo di seguito (le parti sottolineate e in grassetto sono nostre elaborazioni): Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rende noto che dal 4 gennaio al 31 agosto 2015 si sono verificati 29 casi di suicidi di persone detenute, 12 casi si sono verificati tra giugno e agosto. Si rileva che il periodo estivo presenta indubbiamente maggiori criticità rispetto agli altri periodi dell’anno, dovute non solo all’aumento della temperatura, particolarmente elevata questa estate, bensì anche agli aspetti organizzativi, sui quali

incide il periodo feriale del personale penitenziario, con la conseguente riduzione delle attività trattamentali. Parimenti, il volontariato, che negli altri periodi dell’anno assicura sempre la sua massima preziosa attenzione, registra una minore presenza. La serie storica dei suicidi di detenuti (a partire dal 1990) dimostra che non può essere attribuito a un unico fattore (sovraffollamento, condizioni climatiche, stato giuridico, fine pena, rapporti con la famiglia, aspettative per il futuro, malattia, nazionalità, ecc.) la causa scatenante del gesto suicidario, quanto piuttosto a un insieme di cause. In riferimento agli articoli di stampa che hanno evidenziato l’intensificarsi del fenomeno suicidario nel periodo estivo, il DAP precisa che ha richiamato l’attenzione delle direzioni degli istituti penitenziari a mettere in atto tutti i necessari interventi per agevolare condizioni detentive meno afflittive a causa delle elevate temperature di questa stagione estiva. In particolare, è stato raccomandato di consentire un più frequente utilizzo delle docce e l’apertura dei blindati anche nelle ore notturne per consentire un maggiore flusso di aria; intensificare il consumo di frutta e verdura; disponibilità di borse termiche e di ghiaccio per raffreddare le bevande e per la conservazione dei cibi; garantire la possibilità di usufruire, come per il resto dell’anno, di colloqui pomeridiani e festivi. Quasi a giustificare il numero dei suicidi in carcere, dunque, il DAP – che nel testo del comunicato stampa mai una volta parla di Polizia Penitenziaria, i cui appartenenti stanno nella prima linea delle sezioni detentive 24 ore al giorno... - in questo comunicato dice che d’estate ci sono pochi volontari


il commento nelle carceri e che per colpa del piano ferie del “personale penitenziario” le attività trattamentali sono drasticamente ridotte... C’è da rabbrividire, seguendo il ragionamento logico di queste considerazioni dipartimentali, ad immaginare quale potrebbe essere la risposta a una domanda, semplice e secca: se i detenuti si suicidano, dunque, di chi è la colpa, se mai ve n’è una? Eppure, sapete – ma soprattutto sanno coloro che hanno voluto quel comunicato e chi l’ha scritto - a quante detenute e a quanti detenuti le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria – che stanno nella prima linea delle sezioni detentive 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno! - hanno salvato la vita in carcere mentre tentavano il suicidio (senza peraltro che questo avesse il

hanno soccorso detenuti dissanguati. E gli atti di autolesionismo, quando, tanto per fare qualche esempio, i detenuti si lesionano il corpo tagliandosi o ingerendo chiodi, pile, lamette? Ebbene, nello stesso arco di tempo (1 gennaio 1992 – 30 giugno 2015) sono stati 133.528! E le aggressioni ed i ferimenti, specie quelli contro i poliziotti: migliaia e migliaia anch’essi, nonostante le omissioni ed i silenzi! Perché questo dati non vengono diffusi dalla burocrazia ministeriale del DAP? Perché si omette di mettere in evidenza la professionalità, l’abnegazione, l’umanità degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria? C’è un’altra cosa che il DAP (ma in questo è ‘in buona compagnia’ di Ministero, Parlamento e Governo) mi sembra abbia difficoltà a

é una scelta assurda e pericolosa. Dovrebbero lavorare, i meno pericolosi anche fuori dalle carceri in progetti di recupero ambientale nelle città, pulendo i greti dei fiumi o i giardini pubblici; gli altri in attività

giusto risalto mediatico)? Dal 1 gennaio 1992 al 30 giugno 2015 le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria hanno sventato 19.524 suicidi. 19.524 -diciannovemilacinquecento ventiquattro - ! Un numero esagerato, pari al numero degli abitanti di tantissime cittadine italiane, inquietante, mai diffuso e neppure noto ai più. Un numero che racconta l’eroismo e la professionalità delle migliaia e migliaia di poliziotte e poliziotte – gli eroi silenziosi dei quali ci si dovrebbe ricordare sempre, tutti i giorni, non solo nelle cerimonie d’ordinanza… - che hanno sciolto e rotto in tempio il cappio rudimentale che tanti detenuti e detenute si erano stretti al collo per farla finita o che

comprendere: bisogna eliminare l’ozio nelle celle. L’Amministrazione Penitenziaria, nonostante i richiami di Bruxelles e la sentenza Torreggiani, non ha affatto migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti. E di quei pochi che lavorano, quasi tutti sono alle dipendenze del DAP in lavori di pulizia o comunque interni al carcere, poche ore a settimana. Eppure chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, contro il 19% di chi fruisce di misure alternative e addirittura dell’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. Tenere i detenuti fuori dalle celle buona parte del giorno a non far nulla

dentro al penitenziario. Quel che manca dunque, a mio avviso, è certamente la volontà politica ma questo è anche il risultato delle politiche penitenziarie sbagliate degli ultimi 30 anni, che hanno lasciato solamente al sacrificio ed alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle sovraffollate carceri italiane. Ed è del tutto evidente che se i detenuti non lavorano, il percorso del loro trattamento rieducativo è assai tortuoso e difficile e gli eventi critici nei penitenziari – in primis i suicidi, sventati o meno, gli atti di autolesionismo e le aggressioni – continueranno a raggiungere cifre, queste sì, da vergogna europea. H

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Nelle foto: a sinistra un suicidio sopra e in alto interni di camere detentive

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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

l’osservatorio

Le condizione dei detenuti ...e degli agenti in servizio a Corte europea dei diritti umani, a seguito dei ricorsi presentati da sette persone detenute nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, dove avevano trascorso molti mesi in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione, ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Il caso riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, definita dagli stessi giudici come “sentenza pilota”. «La carcerazione – hanno affermato i giudici di Strasburgo – non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente … La grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi – costitutiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione –

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sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un’ulteriore sofferenza, benché non costituiscano di per sé un trattamento inumano e degradante». Questa sentenza ha costretto il Governo italiano e l’amministrazione penitenziaria ad adottare misure immediate, volte a fronteggiare il sovraffollamento nelle carceri, al fine di evitare ulteriori condanne dalla Corte. Sono usciti dal carcere circa 14.000 detenuti, attraverso l’ampliamento della possibilità di accesso alla detenzione domiciliare, l’aumento dello sconto di pena per buona condotta e la messa alla prova. In alcune regioni il problema del sovraffollamento è stato completamente eliminato, in altre ridotto drasticamente, ma nonostante ciò ci sono politici che continuano ancora ad invocare l’indulto e l’amnistia, misure assolutamente inutili in questo momento. Il ministro della Giustizia Orlando ha convocato gli stati generali per l’esecuzione della pena, ovvero diciotto tavoli di confronto, per discutere di altrettanti argomenti che attengono, appunto, all’esecuzione della pena e, più in generale, al sistema penitenziario. «La nostra ambiziosa scommessa è che attraverso gli Stati Generali su questi temi si apra un dibattito che coinvolga l’opinione pubblica e la

società italiana nel suo complesso, dal mondo dell’economia, a quello della produzione artistica, culturale, professionale. I lavori degli Stati generali procederanno in parallelo al percorso della legge delega in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio e alla riorganizzazione

dell’amministrazione penitenziaria e dell’esecuzione penale esterna. Una coincidenza che permetterà di arricchire di contenuti la delega e di progetti le nuove articolazioni. La sfida è quella di vedere affermato al termine di questo lavoro comune un modello di esecuzione della pena all’altezza dell’articolo 27 della nostra Costituzione: non solo per una questione di dignità e di diritti ma anche perché ogni detenuto recuperato alla legalità significa maggiore sicurezza per l’intera comunità.» Queste sono le parole del Ministro Orlando, a proposito degli stati generali, parole che non possono non essere condivise, perché tracciano obiettivi che tutti sperano possano essere raggiunti. Molti si chiedono, però, se il metodo scelto sia quello giusto. Discutere di tali argomenti,


l’osservatorio coinvolgendo esperti del settore, è sicuramente azione condivisibile, il problema di fondo, però, rimane la risoluzione dei problemi che oggi sono ancora da affrontare. Abbiamo dimostrato che il problema del sovraffollamento è stato risolto, in un modo non da tutti condiviso: si è scelto di aprire le porte del carcere a molti detenuti, piuttosto che costruire

questo momento, le priorità da affrontare, per l’amministrazione penitenziaria. Per quanto riguarda i detenuti, superato il problema del sovraffollamento, possiamo dire che oggi la questione più rilevante è quella della formazione e del lavoro, in carcere e fuori dal carcere. Oggi, in Italia, lavora stabilmente il 10% dei detenuti, non il 20% come si

vorrebbe far credere. Si arriva al 20% se si considerano quelli che lavorano saltuariamente e per poche ore. Tra i detenuti che lavorano stabilmente pochi fanno un lavoro qualificante, di quelli, cioè, che possano dar loro un futuro diverso quando usciranno dal carcere. Chi sconta una pena dovrebbe essere immediatamente avviato al lavoro e dovrebbe svolgere corsi di studio e di formazione, laddove si rendesse nuove carceri, come si era pensato di necessario, per facilitare l’inserimento fare prima, con il piano carceri. Sono due strade molto diverse tra loro, lavorativo, durante l’esecuzione della pena e dopo, soprattutto. che risentono entrambe di condizionamenti politici ed ideologici, Chi esce dal carcere senza una ma il risultato è stato raggiunto: evitare prospettiva di lavoro è molto facile che torni a delinquere. che la Corte condannasse l’Italia al pagamento di ingenti somme, anche se In Germania, come abbiamo più volte evidenziato, oltre l’80% dei detenuti qualcosa abbiamo dovuto comunque lavora e la recidiva è di circa il 15%, pagare, in termini economici, perché contro il 70% circa dell’Italia. l’ultimo provvedimento del Governo prevede un risarcimento di otto euro al Per creare lavoro è necessario che le giorno ai detenuti che sono stati tenuti aziende investano nel carcere, dove, come sostengono i tedeschi, il lavoro in spazi non adeguati e, per alcuni, in costa di più; per ovviare a questo loro termini di sicurezza sociale, perché molti detenuti sono usciti dal carcere. pagano di meno i detenuti: circa due Qui si aprirebbe un altro discorso che euro l’ora. In Italia è possibile superare le per il momento tralasciamo, ma che barriere ideologiche per poter fare ciò? abbiamo già affrontato altre volte. Sarà molto difficile. Una volta fatto Dicevamo che molti si chiedono se quello degli stati generali sia la strada questo, a nostro avviso bisognerebbe smettere di parlare dei detenuti e giusta per risolvere i problemi. cominciare, da subito e seriamente, a Intanto vediamo quali sono, o quali dovrebbero essere, a nostro avviso, in preoccuparsi del personale di Polizia

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Penitenziaria, delle condizioni in cui lavora, in cui vive durante e dopo il lavoro nelle caserme, delle progressioni di carriera inadeguate e penalizzanti anche rispetto ad altre forze di polizia, della mancanza e dell’inadeguatezza dei mezzi, della penuria di risorse economiche. Di questo nessuno si preoccupa ormai da molti anni. H

Nelle foto: alcune immagini relative alla situazione in cui versano la caserma agenti e alcuni mezzi della Casa Circondariale di Ferrara

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10 Roberto Thomas già Magistrato minorile, docente di criminologia presso l’Università di Roma la Sapienza rivista@sappe.it

Nella foto: carovana di nomadi

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criminologia

Minori nomadi: scolarizzazione e cittadinanza contro la deriva criminale l fenomeno del nomadismo è sempre esistito fin dall'antichità, a iniziare da quello del popolo ebraico - raccontato nella Bibbiauscito dalla schiavitù dell'Egitto e “costretto” a migrare fino alla “Terra Promessa” dal suo Dio.

I

rapporto con un territorio arduo da gestire, che fa nascere una serie di conoscenze pratiche a carattere specialistico necessarie per rendere produttivo ciò che apparentemente non lo è facilmente, a prescindere dalle frontiere dei singoli Stati, sui

Ma forme forse ancor più antiche e radicatesi spontaneamente sono esistite e si ritrovano ancora attualmente situazioni di flusso migratorio proprie delle popolazioni nomadi, quali i beduini della steppa giordana e i tuareg del Sahara centrale che si spostano periodicamente sui loro cammelli, portando con sè le tende con le relative masserizie e i loro allevamenti di ovini . La caratteristica comune di siffatte popolazioni consiste nel vivere in zone impervie, come i deserti, dove la frequenza degli spostamenti è necessitata per poter massimizzare le rare risorse necessarie per vivere offerte da grandissimi distese territoriali in maniera discontinua . La loro identità culturale e la loro spiritualità deriva da questo stretto

quali insistono le diverse ripartizioni di questi vasti territori. Mentre tale problema di “sconfinamento” non si pone per i circa centotrenta mila beduini della Giordania a cui la dinastia haschemita regnante ha riconosciuto il loro diritto di essere e restare nomadi , dopo vari tentativi di renderli stanziali, discorso assai diverso deve farsi per i circa tre milioni di Tuareg , allevatori nomadi abitanti nel deserto del Sahara e nel Sahel africano, territori appartenenti politicamente a ben cinque Stati diversi. Essi sono stati spesso discriminati violentemente dalle singole autorità politiche di pertinenza dei luoghi da essi frequentati per la loro attività prevalente di allevatori nomadi. Ciò ha scatenato la loro reazione alle volte

con una vera e propria resistenza armata in forme di vera e propria guerriglia, come è successo nel Mali e nel Niger . In Europa la più forte concentrazione numerica di popolazione nomade è quella dei Rom, originaria della Romania e dei territori della ex Iugoslavia, con tratti tradizionali di una cultura che era originariamente basata sull'allevamento dei cavalli, la lavorazione del rame (erano esperti calderai di pentole) e i mestieri circensi e collegati (ad esempio i famosi violinisti tzigani). Formalmente di religione cattolica (ma esistono altri gruppi nomadi di religione musulmana come i cinti) che garantisce loro una “protezione” assai forte da parte del Vaticano, hanno tuttora un'aggregazione sociale basata sull'autorità indiscussa del capo famiglia, vero padre-padrone su tutte le femmine e sui maschi giovani del singolo clan. Egli passa il suo tempo a bere e giocare a carte con i suoi pari, all'interno del campo, mandando a “lavorare” i suoi “sottoposti”. Ovviamente i precitati mestieri tradizionali sono stati superati dall'evoluzione storica, mentre al concetto stesso di nomadismo si è progressivamente sostituito, proprio nella stessa mentalità dei Rom, quello di “stanzialità”, fatti significativi che hanno posto il grave problema dell'integrazione dei nomadi nella nostra collettività, soprattutto a fronte di una loro sostanziale analfabetizzazione strutturale. Ciò pone nel massimo risalto la “regolarizzazione”dei minori nomadi , quasi sempre nati e vissuti in Italia e che si sentono ormai più nostri cittadini che rom, ad iniziare dalla loro istruzione scolastica. Sono state avviate, pertanto, delle politiche locali indirizzate a garantire loro il diritto-dovere allo studio con l'ausilio di pulmini che li conducono dal “campo” alle scuole più vicine. Nel frattempo si sono consolidati gli aiuti agli adulti, con sussidi economici e la costruzione di campi nomadi “attrezzati”, destinati a garantire una vita civile dal punto di vista igienico sanitario e sociale. Purtroppo però l'avviata


criminologia scolarizzazione per i minori nomadi non ha intaccato il rigido principio tradizionale di autorità paterna realizzata anche con la violenza fisica sui suoi sottoposti (donne e bambini), avviati, nella migliore ipotesi, a chiedere l'elemosina nei centri cittadini ovvero vendere fiori e suonare la fisarmonica la sera fino a tarda ora. In molti altri casi , purtroppo, i bambini dai cinque anni in su vengono mandati dal loro “stimabile” genitore a rubare o accerchiando i turisti con la tecnica dei “cartoni” contenenti iscrizioni di richiesta di elemosina che li distraggono, permettendo un agevole borseggio, ovvero a rubare dentro le altrui abitazioni, sfondandone le porte d'ingresso con dei grossi “piedi di porco”. Siffatti minori diventano , conseguentemente, autori formali del reato di furto (talora anche di rapina), ma criminologicamente non si possono annoverare tout court nell'ambito delle personalità criminali in quanto, quasi sempre, sono costretti a commettere siffatti reati dall'ordine imperioso del loro padrepadrone, che se non viene eseguito e , per di più, realizzato con il profitto da lui atteso, si tramuta in una violenza spesso cieca e torturatrice sul loro piccolo corpo. Ricordo, tanto per citare un esempio concreto, che alcuni anni fa , come magistrato del pubblico ministero minorile, diressi una approfondita indagine sul più grande campo rom di Roma, utilizzando uno sforzo notevole della polizia giudiziaria che per più di un mese pedinò vari minori rom che invece di prendere il pulmino per andare a scuola si recavano in centro per derubare i turisti con la ricordata tecnica dei “cartoni”. Una volta borseggiato l'ignaro straniero la polizia in borghese che li seguiva bloccava i piccoli rom, restituendo immediatamente il portafogli al malcapitato turista, denunciandoli a “piede libero”, cioè senza arrestarli , permettendone così dopo qualche ora il rientro al loro campo “a mani vuote”. Continuavano però il pedinamento con l'uso di sofisticate telecamere e

macchine fotografiche che permettevano di inquadrare perfettamente quanto avveniva all'interno del campo, pur essendo ad una adeguata distanza di sicurezza e con sicura “copertura”. Ne emerse un quadro terrificante : bambini torturati con lo spegnimento di mozziconi di sigarette sulle braccia e sulle gambe, schiaffi, pugni e calci a ripetizione anche alle madri che, piangendo, tentavano di fermare le belve scatenate dei loro mariti adirati perchè i figlioli in quella giornata di “lavoro” non avevano consegnato né denaro, né gioielli. Quei minori, e sovente quasi tutti i bambini e gli adolescenti nomadi,

coetaneo non nomade che vede per strada e in televisione e che , talora imita nel vestire alla moda , abbandonando i tradizionali abiti multicolori incorniciati da numerosi monili d'oro. Ma il distacco dal loro mondo quotidiano con una completa integrazione nella società “normale” è quasi sempre (salvo rarissime eccezioni ) una lontana chimera, anche per il concetto introiettato nella loro “educazione” che stabilisce la loro vita come una ripetizione generazionale che li costringe all'accattonaggio e al furto da bambini, “attività lavorative” alle quali , a loro volta, una volta diventati

erano diventati per incanto da formali criminali ( per aver rubato, anche se per costrizione del loro padre) a vittime innocenti della violenza degli adulti ! Essi vivono pertanto, con incredibile rassegnazione, un conflitto interiore difficilmente comprensibile : da un lato si sentono ingiustamente maltrattati, dall'altro percepiscono istintivamente , nonostante tutto, un vincolo “protettivo” quasi viscerale che li lega al loro gruppo familiare e in genere alla realtà del campo nomadi, in un contraddittorio di odio e di amore che per la fluidità della loro età evolutiva non sono certo in grado di gestire psicologicamente in maniera adeguata. In loro- soprattutto per le ragazze - è certamente presente il modello del

adulti, costringeranno i loro figli, in una coazione ripetitiva senza fine. Invero è stato ampiamente studiato in criminologia il problema in generale delle sottoculture a carattere criminale, in particolare dalla teoria psicologica-sociale dell'apprendimento sociale ideata da Albert Bandura (in “Social learning through imitation”, in Nebraska Symposium on Motivation, Lincol, Nebraska University Press, 1962, pp. 211-369; Idem “Social Learning Theory”, Englewood Cliffs, N.J., Prentice Hall, 1977) - che mette in risalto l'apprensione da parte dei bambini dei ruoli negativi, nell'ambito della famiglia, attraverso la loro imitazione con il comportamento dei genitori, supportata da un sistema di ricompense offerte dagli adulti.

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Nella foto: un minore chiede l’elemosina

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criminologia Siffatta analisi riprendeva, approfondendola, quella sociologica della trasmissione culturale per apprendimento, già ideata da Edwin H.Sutherland nel suo libro “Principles of criminology” Philadelphia, Lippincott, 1947, denominata “teoria delle associazioni differenziali”, che segnalava l'importanza della

Nella foto: un giovane suonatore di fisarmonica

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comunicazione culturale che può portare sia all'acquisizione di modelli delinquenziali che, differenzialmente, di quelli normali a secondo “di una prevalenza di definizioni favorevoli alla violazione della legge su quelle sfavorevoli alla violazione stessa”. In particolare Sutherland sottolineava i comportamenti antisociali soprattutto all'interno dei microgruppi, dominati da figure di spicco di criminali dotati di un solido carisma negativo che influenzava soprattutto i più giovani. Inoltre Franco Ferracuti e Marwin E. Wolfang elaborarono nel loro volume “Il comportamento violento. Moderni aspetti criminologici”, Giuffrè, Milano 1966, la teoria della sottocultura della violenza che nasce in ambienti chiusi e ristretti (quale ad esempio un campo rom) nei quali vige una generalizzata mentalità che affronta la risoluzione di tutti i conflitti individuali, ed anche spesso sociali, mediante l'uso della forza, soprattutto nei confronti delle donne e dei piccoli nomadi costretti a rubare come abbiamo visto in

precedenza. A questa integrazione non giova certamente anche l'atteggiamento psicologico di netto rifiuto da parte della popolazione cosiddetta civile con le sue manifestazioni di protesta, alle volte anche violenta, quando nei pressi del suo quartiere un comune decide di costruire un campo nomadi “attrezzato”. Tale atteggiamento di disprezzo vero lo “zingaro sfaticato e ladro” e , conseguentemente di chiusura verso ogni forma di apertura di un proficuo e comune dialogo civile, respinge sempre più nel loro ghetto i nomadi, soprattutto quelli minori, i quali ultimi potrebbero, se adeguatamente supportati, fare il salto di qualità , abbandonando il proprio campo e le connesse violenze già citate, rifugiandosi in un ospitale casa famiglia nella quale , su loro richiesta spontanea, dovrebbero essere subito inseriti ai sensi dell'art. 403 del codice civile. Invero essi ricoprono, come già detto, un ruolo assolutamente peculiare e bivalente : da un lato autori di reato, dall’altro, contemporaneamente, vittime degli adulti della loro stessa etnia, proprio di quella violenza, emarginazione e insicurezza, che, quasi per una legge del contrappasso, costituiscono i tre termini usati nel rapporto dell’ottobre 2012 dall’European Association for the Defense of Human Rights ( aedh ), intitolato “Rom people in Europe in the 21° century: violence, exclusion , insecurity” per indicare il precitato atteggiamento di rifiuto da parte della popolazione “normale” con cui i nomadi vengono in contatto. Certamente il predetto processo d'integrazione richiederà dei tempi lunghi: forse ci vorranno ancora alcune generazioni, prima che la precitata percezione sociale negativa nei confronti dei nomadi possa modificarsi in una positiva, o almeno “neutra”, cioè né negativa, né positiva. Inoltre la sempre maggiore istruzione dei giovani nomadi e la penetrazione di modelli culturali simili a quelli dei cittadini normali porterà di conseguenza ad una

maggiore vicinanza e mutua comprensione. A questo processo gioverà sicuramente una nuova legge sulla cittadinanza, da più parti auspicata, che, facendo perno proprio sull'istruzione, riconosca allo straniero nativo in Italia una maggiore facilità nell'acquisto della cittadinanza attualmente ancorato, dall'art. 4. punto 2 della vigente legge 5 febbraio 1992 n. 91, che la prevede per il figlio di stranieri che, nato in Italia, continuamente abbia risieduto sul nostro territorio fino al diciottesimo anno di età - offrendo così pari opportunità lavorative a quelle dei giovani di famiglie consolidate per generazioni nel nostro territorio. In tal senso mi sembra d'approvare il disegno di legge denominato “Ius soli soft” presentato lo scorso 31 luglio alla Commissione Affari Costituzionale della Camera dei Deputati dalla relatrice on. Marilena Fabbri che riunisce tutti i progetti di legge già presentati in passato in materia. In particolare per i minori esso prevede che i bambini nati in Italia figli di stranieri acquisiscono la nazionalità se almeno uno dei due genitori “sia residente legalmente in Italia, senza interruzioni, da almeno cinque anni antecedenti alla nascita”. Invece gli altri nativi e i minori stranieri arrivati in Italia sotto i dodici anni, potranno ottenere la cittadinanza dopo aver frequentato regolarmente per almeno cinque anni scuole del nostro Paese. Per quelli arrivati fra i 12 e i 18 anni, invece, la nazionalità italiana potrà essere concessa dopo aver risieduto legalmente nel nostro Paese per sei anni e aver frequentato “un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo”. L'integrazione mediante la concessione della cittadinanza inciderà sicuramente in maniera favorevole sulla diminuzione dell'elevato tasso di criminalità dei minori nomadi, da considerarsi per notevole difetto, in quanto vi è sicuramente un rilevante numero oscuro derivante dalla mancanza di denunce, soprattutto dei tantissimi casi di borseggio in danno di turisti stranieri. H


giustizia minorile

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Ipotesi e prospettive per il nuovo Dipartimento della Giustizia Minorile Ciro Borrelli Dirigente Sappe Scuole e Formazione Minorile borrelli@sappe.it

n questo articolo parleremo del Documento di sintesi che prevede la riorganizzazione e riduzione complessiva degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche che riguardano la Giustizia Minorile. Da quello che leggiamo sui documenti, si tratta di perseguire essenziali obiettivi di semplificazione strutturale e di ricercare la maggiore efficienza operativa per accrescere la qualità dei servizi dell’amministrazione pubblica, inserendo gli interventi di razionalizzazione necessari per raggiungere l’obiettivo di realizzare riduzioni di spesa del Ministero della Giustizia, così come previsto dall’articolo 16, comma 4, del decreto-legge 24 aprile 2014, n 66, in un più ampio ed organico contesto di riordino complessivo del sistema organizzativo centrale e periferico. Secondo i teorici, l’intervento modificativo troverebbe fondamento sulla considerazione della specificità ed autonomia del trattamento penale esterno rispetto alla detenzione. A tal proposito, va detto che la definizione di un percorso trattamentale che accompagni il reinserimento sociale del detenuto o che dia un’adeguata connotazione ad una sanzione penale diversa dalla detenzione in carcere non può prescindere dallo stretto rapporto con il territorio. Questo al fine di attuare una strategia tendente a modulare il controllo del soggetto e al contempo accompagnare il suo percorso verso la legalità. È infatti la costruzione efficace di tale percorso, per il quale è peraltro necessario l’apporto multidisciplinare e il contributo delle diverse figure professionali operanti nel settore dell’esecuzione penale esterna, a costituire la strategia per la riduzione

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del rischio di recidiva. Il percorso trattamentale esterno dialogherebbe, quindi, necessariamente con il progetto di trattamento realizzato all’interno dell’Istituto penitenziario, rappresentando, per molti casi, l’elemento della sua continuità; così da valorizzare, anche, il ruolo specifico della Polizia Penitenziaria che, sotto questa ottica, va visto non solo in chiave di assicurazione del servizio di sicurezza, ma anche di accompagnamento e partecipazione del programma rieducativo del detenuto. Ciò detto, si è ipotizzata una nuova strutturazione del Dipartimento per la Giustizia Minorile, ponendo attenzione alla funzione di gestione dell’esecuzione penale esterna che non sarebbe solo limitata ai minori, ma anche agli adulti. Il documento di sintesi inoltre prevede di non stravolgere l’organizzazione riguardante la gestione del personale del Dipartimento per la Giustizia Minorile (finora gestita dal Direttore Generale dott. Luigi Di Mauro e dal suo diretto collaboratore dott. Cosimo Dellisanti). Tuttavia, per esigenze oggettive di economicità, appare adeguato far gestire il personale della Giustizia Minorile ad un ufficio dirigenziale di seconda fascia. Pertanto all’interno del D.G.M. verranno soppresse le attuali tre direzioni generali e istituite due direzioni generali con compiti in parte nuovi rispetto alla precedente organizzazione. Il Dipartimento, in questo contesto, assumerebbe la denominazione di: Dipartimento della Giustizia Minorile e dell’Esecuzione Penale Esterna, comprendendo anche le funzioni già spettanti in ambito trattamentale

esterno al D.A.P., dove viene soppressa la corrispondente Direzione Generale. La nuova struttura del Dipartimento per la Giustizia Minorile sarà così determinata: • ridenominazione del Dipartimento della Giustizia minorile in “Dipartimento della Giustizia Minorile e dell’Esecuzione Penale Esterna”; • costituzione di una Direzione generale del personale della giustizia minorile e dell’esecuzione dei provvedimenti giudiziari (dei minori); • costituzione di una Direzione generale per l’esecuzione penale esterna, con competenze anche sulla gestione del personale dei servizi sociali adulti, la cui competenza verrà ceduta dalla Direzione generale del personale e della formazione del DAP. La semplificazione dell’apparato amministrativo centrale persegue certamente la riduzione del personale dirigenziale richiesta dalle leggi, ma si muove comunque nell’ottica della semplificazione e riorganizzazione, nel segno dell’efficienza. H

Nella foto: un corridoio del D.G.M.

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Lady Oscar rivista@sappe.it

lo sport

Campionati mondiali di Para Archery: otto medaglie per le Fiamme Azzurre

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Nella foto: in alto a destra sotto il logo dei Campionati mondiali Elisabetta Mijno

Nelle foto: sopra la coppia Eleonora Sarti e Alberto Simonelli a destra ancora la Sarti

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na prestazione con risultati da record quella degli atleti delle Fiamme Azzurre componenti la Nazionale Para Archery ai mondiali Donaueschingen (Germania). Ben otto medaglie (un oro, un argento e un bronzo individuale, più cinque bronzi a squadre) che sono andate ad arricchire il già ricco bottino di successi iridati dei campioni paralimpici della Polizia Penitenziaria. Eleonora Sarti, Elisabetta Mijno e Alberto Simonelli hanno dato vita ad una prestazione maiuscola, portando a casa anche due primati mondiali di categoria- grazie alla coppia del compound misto formata da Eleonora Sarti e da Alberto Simonelli -

Alberto Simonelli, oltre ai bronzi già citati nel compound maschile e nel mixed team con Eleonora Sarti, si è aggiudicato un argento nella competizione individuale. Grandi soddisfazioni anche nell’arco olimpico con la nostra Elisabetta Mijno e l’azzurro Roberto Airoldi, giunti terzi nel mixed team oltre che nelle rispettive competizioni individuali. Al termine della gara l’Italia si è posizionata 5° nel medagliere dietro Cina, Stati Uniti (i grandi favoriti), Gran Bretagna e Russia, ma davanti ad una Corea del Sud in grande crescita. La notizia più importante è stata, tuttavia, che, grazie alle otto medaglie vinte ed ai numerosi

con un punteggio complessivo di 1374 punti, ed al team del compound maschile composto anche dal nostro super Alberto “Rolly” Simonelli, oltre che dagli azzurri Matteo Bonacina e Giampaolo Cancelli. Il trio in gara ha totalizzato 2062 punti, massimo punteggio mai raggiunto in qualifica di una competizione ufficiale. Eleonora Sarti, si è laureata campionessa del mondo tra le donne (conquistando, così, una carta olimpica in più per l’Italia), oltre ad aver condiviso il gradino più basso del podio con le compagne della formazione femminile nella rispettiva competizione (Ifigenia Neri e Giulia Pesci).

piazzamenti ottenuti, l’Italia si è portata a casa ben sette carte olimpiche sulle tredici disponibili in questa disciplina ad un anno dall’appuntamento olimpico di Rio. DONAUESCHINGEN (23/30 agosto) Campionati Mondiali para-archery compound F: (1) ELEONORA SARTI (2Q-677/340+337; 48: bye, 32: V/Somajeh Abbaspour IRI 139-127, 16: V/Jeong Jin Young KOR 137-135, QF: V/Zhou Jiamin CHN 144-138, SF: V/Mel Clarke GBR 147-143, F: V/Lin Yueshan CHN 139-137), (2) Lin Yueshan CHN, (3) Kim Misoon KOR; compound M: (1) Lee Ouk Soo KOR, (2) ALBERTO SIMONELLI (1Q-

697/346+351; 96: bye, 48: bye, 32: V/Dogan Hanci TUR 144-134, 16: V/Ben Thompson USA 149-142, QF: V/Andrea Shelby USA 140-140/T9*-9, SF: V/John Stubbs 148-145, F: S/Lee Ouk Soo KOR 143-145), (3) John Stubbs GBR; olimpico F: (1) Wu Chunyan CHN, (2) Svetlana Barantseva RUSA, (3) ELISABETTA MIJNO (5Q591/303+288; 48: bye, 32: V/Patricia Layolle FRA 6-0/27-18, 27-18, 29-23, 16: V/Milena Olszewska POL 6-5/2722, 26-29, 26-24, 25-25, 23-26, T/9-8, QF: V/Lee Hwa Sook KOR 6-4/20-25, 27-25, 24-25, 26-20, 28-27, SF: S/Wu Chunyan CHN 2-6/28-25, 19-24, 2529, 25-28, F3/4: V/Irina Rossiyskaya RUS 6-4/26-26, 25-23, 23-21, 24-27, 25-25); olimpico squadre F: (1) Cina, (2) Russia, (3) Corea del Sud, (7) ITALIA/ELISABETTA MIJNO-Veronica Floreno-Kimberly Scudera (4Q/1645, QF: S/Brasile 3-5/45-45, 38-40, 54-43, 49-51); olimpico squadre M/F: (1) Cina, (2) Russia, (3) ITALIA/ELISABETTA MIJNO-Roberto Airoldi (3Q/1223, 16: V/Ucraina 60/33-30, 35-32, 32-29, QF: V/Gran Bretagna 6-2/33-36, 35-28, 37-30, 3329, SF: S/Russia 2-6/36-38, 35-33, 32-34, 30-35), F3/4: V/Corea del Sud 5-4/31-25, 32-35, 34-31, 33-35, T/1915); compound M: (1) Stati Uniti, (2) Turchia, (3) ITALIA/ALBERTO SIMONELLI-Matteo BonacinaGiampaolo Cancelli (1Q/2061, 16: bye, QF: V/Giappone 218-217, SF:


lo sport S/Turchia 224-230, F3/4: V/Repubblica Ceca 223-217); compound squadre F: (1) Russia, (2) Germania, (3) ITALIA/ELEONORA SARTI - Giulia Pesci - Ifigenia Neri (2Q/1947, SF: S/Germania 212-222, F3/4: V/Brasile 206-180); compound squadre M/F: (1) Cina, (2) Gran Bretagna, (3) ITALIA/ELEONORA SARTI-ALBERTO SIMONELLI (1Q/1374, 16: V/Giappone 153-145, QF: V/Canada 153-144, SF: S/Cina 149-151, F3/4: V/Corea del Sud 150140). H

Nuoto: bronzo di Santucci nella 4x100 maschile ai mondiali di Kazan

O

tto, Orsi, Santucci e Magnini a Kazan hanno conquistato per l’Italia una storica medaglia di bronzo nella staffetta 4x100 stile libero. Una vittoria che grazie all’ottimo frazionista in forza alle Fiamme Azzurre Michele Santucci parla un po’ della Polizia Penitenziaria che con i suoi alfieri contribuisce a scrivere le più importanti pagine di sport nazionale. La vittoria è arrivata domenica 2 agosto ai Mondiali di Kazan dopo una gara disputata in 3 minuti, 12 secondi e 53 decimi. Prima degli Azzurri si è classificata la Francia, prima davanti alla Russia. L’aretino delle Fiamme Azzurre è stato autore di un’ottima frazione, fermando il cronometro a 48”48 e passando velocissimo in 22”74 a metà gara, vicinissimo anche ai 22”11 del miglior frazionista azzurro, Capitan Filippo Magnini. Il liberista delle Fiamme Azzurre aveva già dato il suo contributo in batteria, dove la staffetta italiana si era attestata al terzo posto dietro Russia e Brasile. Il terzo posto è arrivato a otto anni di distanza dall’argento di Melboune

2007 ed è la terza medaglia mondiale della specialità nella storia dopo quella australiana in cui Rosolino, Calvi, Galenda, Magnini vinsero l’argento, e quella di Calì in Colombia nel 1975 con Pangaro, Barelli, Zei, Guarducci che salirono sul terzo gradino del podio. Per il resto, l’Italia è stata piuttosto in ombra. L’altra portacolori delle Fiamme Azzurre Ilaria Bianchi è stata purtroppo sottotono rispetto ai suoi abituali ritmi di gara nella semifinale di Sarah Sjoestroem nei 100 farfalla: per la svedese record del mondo in 55”74 la bolognese 58”49, complice il ritardo nella preparazione per i problemi patiti alla spalla all’inizio della stagione, che l’hanno fermata in una poco soddisfacente quindicesima posizione e notevolmente ridimensionato le aspettative in ottica mondiale. Pur se con i numeri per aspirare a pieno titolo all’accesso nella finalissima mondiale, per questione di centesimi il quartetto azzurro della 4x100 mista, con Ilaria Bianchi nella frazione a farfalla (58” 25), ha mancato la possibilità di disputare l’ultima fatica a caccia di una medaglia nella vasca di Kazan. Parziale riscatto per Ilaria è arrivato da Roma, ai Campionati nazionali di categoria (11/13 agosto), con la conquista del titolo tricolore dei 100m farfalla. Ottime notizie sono arrivate anche da Federico Bussolin, l’altro specialista della farfalla in quota alla Polizia Penitenziaria, secondo nei 200m con un tempo inferiore ai due minuti nella distanza a lui più congeniale. KAZAN (2/9 agosto) Campionati Mondiali di nuoto – 4x100m M (2/8): (1) Francia 3’10”74, (2) Russia 3’11”19, (3) ITALIA (Luca Dotto/48”75-Marco Orsi/47”75MICHELE SANTUCCI/48”48-Filippo Magnini/47”55) 3’12”53 (3Q 3’14”44/Luca Dotto-Marco OrsiMICHELE SANTUCCI/48”98-Filippo Magnini); 100m farfalla F (2/8): Sarah Sjostrom SWE 55”74, (15) ILARIA BIANCHI 58”49 (14b 58”37)

KAZAN (1/9 agosto) Campionati Mondiali di nuoto – 4x100m mista F (9/8) – (1) Cina 3’54”41, (2) Svezia 3’55”24, (3) Australia 3’55”56, (9) ITALIA (Elena Gemo-Arianna CastiglioniILARIA BIANCHI/58”25-Erika Ferraioli) 4’00”92 ROMA (11/13 agosto) Campionati Italiani di categoria – 50m farfalla SF (11/8): (1) Elena Gemo 26”59, (2) Lucia Martelli 27”35, (3) ILARIA BIANCHI 27”39 (2b/27”35); 50m farfalla SM (11/8): (1) Matteo Rivolta 24”06, (2) Lorenzo Benatti 24”16, (3) Simone Geni 24”46, (10) FEDERICO BUSSOLIN 25”31 (11b/24”89); 100m farfalla SM (12/8): (1) Matteo Rivolta 51”70, (2) Simone Geni 53”27, (3) Luca Pancari 53”72, (4) FEDERICO BUSSOLIN 54”10; 200m farfalla SM (13/8): (1) Matteo Pelizzari 1’57”57, (2) FEDERICO BUSSOLIN 1’59”19; 400m sl SM (11/8): (1) Gabriele Detti 3’47”05, (2) Samuel Pizzetti 3’52”93, (3) Cesare Sciocchetti 3’54”96, (8) FEDERICO COLBERTALDO 4’05”55; 100m farfalla SF (12/8): (1) ILARIA BIANCHI 58”69 (1b/59”42), (2) Francesca Stoppa 59”98, (3) Giulia Facchini 1’00”48; 100m sl SF (12/8): (13) RENATA SPAGNOLO (6b1) 58”84; 50m sl SF (13/8): (1) Erika Ferraioli 25”13, (2) Aglaia Pezzato 25”73, (3) Miriana Durante 25”92, (4) ILARIA BIANCHI 25”93 (9b/26”50), (14) RENATA SPAGNOLO (7b2) 26”99. H

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Nelle foto: in alto la staffetta con Santucci a seguire, Bianchi, Bussolino, Cobertaldo e Spagnolo

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diritto e diritti

Il diritto al trattamento sanitario L’assistenza sanitaria in carcere e il “riordino” della medicina penitenziaria operato con il d.lgs. n. 230 del 1999. Giovanni Passaro Segretario Provinciale Sappe passaro@sappe.it

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l diritto alla salute, di cui si fa portatore l’art. 32 Cost., tutela e garantisce non solo in termini negativi, la sola conservazione del diritto medesimo, ma altresì, in termini positivi, il diritto a usufruire di trattamenti sanitari. In altri termini, tale “diritto a prestazioni positive” si traduce nella pretesa dell’individuo a cure a carico della collettività o comunque a costi limitati per l’utenza (1). Al fine di garantire la concreta esecuzione del diritto in esame, e ad assicurare standard uniformi per tutto il territorio, la legge n. 833 del 1978, ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale.

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individuali o sociali di ciascuno. Ma ciò che non era stato preso in considerazione era che, proprio per le carenze di personale, di strutture, del sovraffollamento di malati e di ritardi nelle prestazioni, non si guardava all’amministrazione penitenziaria come un soggetto capace di garantire appieno il diritto al trattamento sanitario. A sciogliere il nodo fu la riforma sul riordino della medicina penitenziaria, attuata con il d.lgs. 22 giugno 1999 n. 230, il cui fine fu quello di trasferire al Servizio Sanitario Nazionale le competenze disciplinate dall’art.11 Ordinamento Penitenziario senza però eliminare quel carattere di specialità

All’entrata in vigore della legge, è parso naturale porsi il problema sulle conseguenze che la stessa avrebbe causato sull’assistenza sanitaria penitenziaria, giacché quest’ultima rimase indenne alla riforma in materia sanitaria. Prevalse, infatti, l’orientamento dell’autonomia del Servizio sanitario penitenziario (autonomia contenuta nell’art.11 Ord. Pen che aveva già istituito presso ogni istituto un proprio servizio medico e farmaceutico), a fronte di chi invece, propendeva comunque per l’assoggettamento al Servizio Sanitario Nazionale, rifacendosi all’art.1 della stessa legge istitutiva, che garantiva il servizio a tutti i cittadini, indipendentemente dalle condizioni

della medicina penitenziaria. Per la prima volta si afferma esplicitamente il diritto alla salute dei detenuti e degli internati, come testualmente recita l’art.1 comma 1 della suddetta legge di riforma, che spetta loro “alla pari dei cittadini in stato di libertà”, sia per quel che riguarda la prevenzione sia per quanto riguarda la diagnosi, la cura e la riabilitazione, l’assistenza sanitaria per la gravidanza e la maternità e l’assistenza pediatrica ai bambini che le donne recluse possono tenere durante la primissima infanzia, il tutto sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano Sanitario Nazionale, nei

Piani Sanitari Regionali e in quelli Locali. Il sistema così delineato dalla riforma si basa sulla ripartizione di competenze tra il Ministero della Salute e il Ministero della Giustizia, prevedendo il graduale trasferimento al primo delle funzioni sanitarie in particolare in merito “alla programmazione, indirizzo e coordinamento del Servizio Sanitario Nazionale negli istituti penitenziari”; ripartizione che incide anche sulle Regioni e sulle Aziende Sanitarie Locali (stabilendo per le prime “l’esercizio delle competenze in ordine alle funzioni di organizzazione e programmazione dei servizi sanitari regionali negli istituti penitenziari e il controllo sul funzionamento dei servizi medesimi”, mentre alle seconde “sono affidati la gestione e il controllo dei servizi sanitari negli istituti penitenziari”). Quanto alla tipologia delle prestazioni sanitarie riconosciuta ai detenuti, è stato evidenziato come non sempre siano garantite ogni tipo di prestazione in ogni istituto, e ciò in conseguenza del fatto che le risorse finanziarie e materiali a ciò destinate sono fortemente limitate. Difatti, a prescindere dall’obbligatoria istituzione presso ogni penitenziario di un servizio medico e farmaceutico, nonché la disponibilità di almeno uno specialista in psichiatria (art.11 comma 1 Ordinamento Penitenziario), i restanti reparti clinici e chirurgici sono organizzati con opportune dislocazioni nel territorio nazionale (Art. 17 comma 4 Reg. Esec.). A tal proposito il citato art.11 Ordinamento Penitenziario stabilisce che “ove siano necessarie cure o accertamenti diagnostici che non


17 possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura”. La Legge Finanziaria 2008 ha disposto il definitivo passaggio di tutte le funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in questione. Tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile sono state trasferite al Servizio Sanitario Nazionale, comprese quelle concernenti il rimborso alle comunità terapeutiche sia per i tossicodipendenti e per i minori affetti da disturbi psichici delle spese sostenute per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica dei detenuti di cui all’articolo 96, commi 6 e 6-bis, del testo unico di cui al d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, nonché per il collocamento, disposto dall’autorità giudiziaria, nelle comunità terapeutiche per minorenni e per giovani adulti di cui all’articolo 24 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272. Le Regioni garantiscono l’espletamento delle funzioni trasferite attraverso le Aziende Sanitarie Locali nel cui ambito di competenza sono ubicati gli istituti e servizi penitenziari e i servizi minorili di riferimento. Più articolato, è il riconoscimento di una tutela giurisdizionale attinente al ricovero dei detenuti in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura. La competenza a disporre il ricovero è dell’autorità giudiziaria con decisione emessa de plano e senza uno specifico mezzo d’impugnazione. Si verifica, così, l’ennesimo divario tra il riconoscimento, sul piano sostanziale, di una precisa posizione soggettiva e il mancato riconoscimento, sul piano processuale, di un diritto d’azione. Non possiamo, comunque, terminare l’esame in materia senza aver prima fatto cenno a quelle situazioni d’incompatibilità, con lo stato detentivo, tali da non consentire

neppure un eventuale trasferimento all’esterno presso ospedali civili o luoghi di cura, senza pregiudicarne lo stato di salute. Perciò, nei casi di grave infermità fisica, a seconda che il soggetto interessato sia un imputato o un condannato, sarà necessario disporre o la revoca della custodia cautelare in carcere (art.275 comma 4-bis c.p.p.) o il differimento dell’esecuzione della pena (art.147 comma 1 n. 2 c.p.). In entrambi i casi, al giudice non si pone altra scelta se non quella di disporre verso l’imputato la sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari e nei confronti del condannato la sostituzione con la detenzione domiciliare. Così facendo la detenzione domiciliare diventa un surrogato del differimento della pena, prescindendo il giudice dal vagliare i presupposti propri di tale misura. E’ la stessa Cassazione a definirlo come un diritto al differimento dell’esecuzione della pena, con sentenza del 27 novembre 1987, che a tal proposito, afferma: “l’esecuzione non può incidere sul diritto alla salute, sì che il condannato che non possa essere curato nella struttura sanitaria penitenziaria o, fermo restando la sua sottoposizione al regime penitenziario, in ospedale civile o in altri luoghi esterni di cura, ha il diritto al differimento ove non possa essere ammesso alla detenzione domiciliare. Se così non fosse, l’esecuzione della pena non solo inciderebbe illegittimamente sul diritto alla salute costituzionalmente riconosciuto a tutti, ma si risolverebbe in un trattamento contrario al senso d’umanità cui la stessa deve ispirarsi ai sensi dell’art.27 comma 3, Cost.”. L’incompatibilità inoltre, deve essere anche valutata in relazione al pericolo che l’infermità possa arrecare agli altri detenuti o allo stesso personale penitenziario. H (1) A. PENNISI, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, cit. pag. 88.

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donne in uniforme

Carcere: terra di confine e terra di nessuno! Laura Pierini Vice Segretario Provinciale Sappe Firenze rivista@sappe.it

Nella foto: il muro di cinta crollato recentemente a Sollicciano

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stata un’estate particolarmente calda: dal punto di vista meteorologico, segnata da notevoli criticità legate alla struttura dei penitenziari. La pressoché totalità dei reparti detentivi e delle caserme, dove alloggia il personale, degli istituti penitenziari italiani non è dotata di impianti di raffreddamento: abbiamo vissuto e lavorato in veri e propri forni a ciclo continuo. E non si può continuare a parlare di straordinarietà climatica dal momento che questa situazione sembra oramai puntualmente presentarsi ad ogni estate.

È

Il Dipartimento sembra interessato solo a verificare se sia eseguito alla lettera quello che definisce ‘un percorso di cambiamento del sistema organizzativo e gestionale, strategico ed operativo’ e che in realtà ha il solo scopo di evitare di incorrere in ulteriori sanzioni: gli istituti sono tenuti giornalmente ad aggiornare ed inviare al Dipartimento report riguardanti la situazione delle allocazioni nelle stanze detentive per evitare un possibile soprannumero nelle stesse e ad indicare se la sorveglianza dinamica conseguente

all’apertura delle celle durante il giorno sia attuata. Ma di tutto il resto c’è qualcuno che se ne preoccupa e pensa ad una soluzione concreta? L’apertura delle stanze detentive e la libera circolazione all’interno delle sezioni con l’effettuazione di una sorveglianza dinamica, letteralmente intesa in quanto il poliziotto penitenziario non è più legato alle chiavi che aprono le celle, di per sé non sarebbe una cattiva soluzione. I problemi che invece ricadono su detenuti e personale sono legati innanzi tutto al fatto che l’apertura delle sezioni viene applicata senza troppo tener conto della tipologia dei detenuti ed inoltre alla mancanza di tecnologie che rendano possibile un controllo almeno a distanza. Controllo necessario ad evitare prevaricazioni fra gli stessi ristretti, i cui reati hanno diversi spessori e non incorrere nel rischio che si costituiscano ‘gruppi’ con atteggiamenti pseudo mafiosi. L’apertura regolamentata delle celle e la presenza fissa dell’agente di Polizia Penitenziaria quindi oltre a proteggere le figure più deboli e a dare equità di trattamento applicando a tutti quanto previsto dal regolamento interno permetteva anche quella osservazione della persona necessaria appunto ai fini della valutazione da parte dell’area educativa e del Magistrato poi per l’ottenimento di un beneficio premiale o l’accesso a misure alternative. Non è un caso se, con l’apertura delle sezioni, sono aumentati gli eventi critici: gli atti di autolesionismo, le risse, i tentativi di evasione, il rinvenimento di oggetti e sostanze non consentite. Non è un caso se sono altresì aumentati i casi di aggressione al personale di Polizia Penitenziaria o sanitario. Il carcere è diventato terra di frontiera e terra di nessuno! Si è perso in professionalità e ruolo

perché ciò che vige nelle sezioni è la legge del più forte. La presenza nelle sezioni del personale che effettua giri di controllo durante il giorno o di chiusura delle celle alla sera è esigua perché laddove sono stati effettuati tagli drastici dello straordinario non si è compensato con l’aumento numerico degli agenti. Tanto per dare un’idea, negli Istituti della Regione Toscana la carenza organica supera le 660 unità. Vogliamo anche parlare del timore, neanche tanto velato, per la propria incolumità ad entrare in un reparto lasciato a se stesso e a dinamiche di cui niente oramai più sappiamo e di cui però, si deve ricordare, ne manteniamo la responsabilità di fronte ad un Magistrato oltre che alla propria coscienza? Una politica scellerata, mirata al qui e adesso senza porre uno sguardo al futuro che sta portando il caos. Dov’è quindi quella qualità di vita e di lavoro che lo Stato dovrebbe garantire ai detenuti da una parte, ed alla Polizia Penitenziaria dall’altra? C’è bisogno che la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo intervenga ancora perché l’attenzione sia riportata nuovamente sulle condizioni degli istituti penitenziari? Abbiamo bisogno di riforme vere che prevedano da una parte la creazione di misure alternative alla detenzione su territorio, destinate a chi ha commesso reati minori e ai tossicodipendenti, e dall’altra una ristrutturazione degli Istituti per renderli dignitosi e vivibili per coloro che non possono, per i reati commessi, usufruire di opportunità esterne. Abbiamo bisogno di tecnologie che aiutino a svolgere il nostro lavoro in modo efficiente e proficuo. Abbiamo bisogno di investimenti a lungo termine, fuori da contesti politici di riconoscimenti d’effetto ma effimeri! H Soldati (di Giuseppe Ungaretti) Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.


dalle segreterie

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Sulmona Giuramento degli allievi del 169° Corso a monumentale cornice del Complesso della Santissima Annunziata, risalente al XIII secolo, ha fatto da incantevole proscenio alla cerimonia di Giuramento delle Allievi/e Agenti del 169° Corso della Scuola di Sulmona. Alla presenza del Prefetto dell’Aquila dott. Francesco Alecci, della dott.ssa Maria Claudia Di Paolo, (Provveditore per Abruzzo, Lazio e Molise), del Direttore della Scuola, dott. Massimo Di Rienzo, del C.te Comm. Roberto Rovello e delle autorità civili e militari, nonché delle numerose rappresentanze delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, i giovani Agenti hanno suggellato il ciclo formativo proponendosi in uno schieramento e in serie di formazioni apprezzate dal foltissimo pubblico presente. La calura insistente non ha inficiato

rivista@sappe.it

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l’impeccabilità delle soluzioni di spiegamento del Reparto, il quale ha proposto modalità di disposizione e di impostazione sotto la guida e la direzione del Sostituto Commissario Giuseppe Ninu, conseguendo reiterati apprezzamenti manifestati con scroscianti applausi. Un significativo apporto è stato reso da una qualificata delegazione del Complesso bandistico

dell’ANPPE. La dott.ssa Di Paolo ha voluto sottolineare, in un inatteso saluto fuori programma, con un sentito indirizzo di saluto al Reparto inquadrato in Piazza 20 settembre, sotto lo sguardo interessato del vate della Classicità, il sulmonese Publio Ovidio Nasone, il proprio apprezzamento per la riuscita manifestazione. H

Lanciano Pensionamento per il Sost. C. Elgo Salerno

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Isp. Sup. Sost. Commissario Elgo Antonio Salerno, già Comandante di Reparto della C.C. di Lanciano dal 1997 al 2005, ha mantenuto con professionalità il gravoso incarico di vice Comandante di Reparto e quello di Responsabile del N.T.P. fino al 4 marzo 2015, giorno del suo meritato pensionamento.H Piero Di Campli

Torino XIX Consiglio Regionale del Piemonte l 24 settembre 2015 si è svolto il XIX consiglio Regionale Sappe. Hanno presieduto al Consiglio il Segretario Generale Sappe Dott. Donato Capece, il Segretario Nazionale Nicola Sette e il Segretario Regionale Vicente Santilli. Erano presenti: il Consigliere regionale

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della Lega Nord Alessandro Benvenuto, il Consigliere regionale del Movimento 5 stelle Mauro Campo, il Provveditore regionale Dott. Luigi Pagano e il comandante della C.C. di Torino Dott. Alberotanza, oltre a tutti i Segretari provinciali e locali del Piemonte e della Valle d'Aosta. H

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dalle segreterie Roma

rivista@sappe.it

Primi corsi di difesa personale nella Capitale l 17 Marzo 2015, attesi da anni, sono iniziati corsi di difesa personale riservati a tutti quadri permanenti del Corpo di Polizia Penitenziaria maschili e femminili, sotto la direzione dell’ufficio formazione del Provveditorato del Lazio. Pensati come un lungo ed organico percorso sviluppato in tre livelli, hanno riscosso subito apprezzamento e grande partecipazione.

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Ottimo esordio per il 1° corso di primo livello di Roma, che ha aderito a tale iniziativa presso la palestra della Casa di Reclusione “Rebibbia” I docenti di difesa personale, tutti qualificati e professionalmente formati dalla FIJLKAM , hanno potuto costatare l’entusiasmo dei colleghi partecipanti, distintisi per passione e dedizione nell’acquisire la mobilità necessaria e le tecniche di difesa personale denominata M.G.A- FIJLAKM (Metodo Globale Autodifesa). Gli istruttori, tutti appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria ed in alcuni casi con esperienze sportive nelle arti marziali di tutto rispetto alle spalle, sono stati a disposizione per questo progetto a lungo termine, sotto la guida organizzativa del Comm. Leonardo Chimenti.

I docenti: Ass.Capo Stefano Pressello; Isp. C. Andrea Tocchi; Isp.C Andrea Torre; Ag.te Sc. Claudio Pellino; Ass.te C. Biagio Di Nicola; Ass. C. Mauro Casale; Ass.te C. Vittorio Compagnone, si sono prodigati nel trasmettere le loro esperienze al personale, relazionandosi accrescendone le loro capacità psicomotorie, coordinative e tecniche. Al di là della valenza tecnica per la preparazione ai fini della difesa personale, tale attività si presta ad essere una buona opportunità di contrasto del burnout e dello stress professionale del personale penitenziario costretto ad operare quotidianamente in situazioni operative difficili e mentalmente impegnative. Un elogio, a nostro avviso doppio, per gli istruttori di Difesa Personale, dove hanno operato senza l’utilizzo del tatami nel primo ciclo, in quanto deteriorato dal tempo quindi inutilizzabile. La speranza che nei prossimi corsi i nostri colleghi-istruttori possano operare in condizioni adeguate e in piena sicurezza in particolare il secondo ciclo, dove si affronteranno tecniche particolari e l’utilizzo del tatami sarebbe opportuno e necessario.

Vercelli Solidarietà

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fianco pubblichiamo la lettera del Presidente della Provincia di Vercelli Carlo Riva Vercellotti, con la quale esprime solidarietà al Corpo di Polizia Penitenziaria a seguito di atti di violenza messi in atto da alcuni detenuti della Casa Circondariale di Vercelli contro il personale del Corpo. H

Tali corsi di primo di livello saranno replicati nei prossimi mesi anche in altri istituti del Provveditorato Regionale del Lazio. Si consiglia a tutto il personale penitenziario di aderirvi, sia per provarne i benefici per corpo-mente, sia per cogliere un’ottima opportunità per socializzare tra colleghi diminuendo stress e fatiche lavorative quotidiane. H


dalle segreterie

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Genova XI Consiglio Regionale della Liguria rivista@sappe.it

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l 18 settembre presso la sala conferenze della Casa Circondariale di Genova Marassi si è svolto l’11° Consiglio Regionale della Liguria al quale erano presenti i delegati sindacali di tutta la Regione. Il Consiglio Regionale è stato preceduto da un momento di confronto sull’attuale situazione penitenziaria ligure attualmente contraddistinta da un esponenziale aumento di eventi critici caratterizzati dalla presenza di detenuti psichiatrici i quali non dovrebbero essere in carcere ma in apposita struttura esterna REMS, struttura della quale è sprovvista la Liguria. In questa prima fase d’incontro, presieduta dal Segretario Generale del Sappe Dott. Donato Capece, hanno partecipato l’On. Franco Vazio, Vice Presidente Commissione Giustizia alla Camera, l’On. Sonia Viale, Vice Presidente Regione Liguria ed Assessore Sicurezza e Sanità, i Consiglieri regionali Angelo

Vaccarezza, Capo gruppo Forza Italia, e Andrea Costa, Capo gruppo Nuovo Centro destra - Alleanza popolare e il direttore della Casa Circondariale di marassi Dott. Salvatore Mazzeo. Importanti spunti e suggerimenti sono emersi in fase di discussione circa la gestione di detenuti particolari e l’interessante proposta sollevata dall’on. Sonia Viale di dare supporto agli agenti di Polizia Penitenziaria nell’assistenza ai detenuti sotto osservazione annunciando che è in via di realizzazione un istituto REMS

anche in Liguria, come prevede la legge. Si tratta di una struttura adatta al trattamento ed alla permanenza di 20 detenuti con questo tipo di problematiche. «Per quanto riguarda il medio termine - ha poi aggiunto l’onorevole Sonia Viale - ho visitato il centro clinico e ho ascoltato le problematiche in merito alla traduzione di detenuti in ospedale, con costi e impegno del personale, che potrebbero essere risolti con

l’avvio di un progetto di telemedicina nell’istituto. Questo avrebbe una ricaduta positiva per entrambe le amministrazioni». L’on. Franco Vazio, per quanto riguarda la condizione penitenziaria, dopo aver ampiamente illustrato l’attività svolta dalla Commissione Giustizia non solo ligure ma nazionale, ha assicurato il suo interessamento politico molto apprezzato dai convenuti. H Il Segretario regionale Michele Lorenzo

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dalle segreterie Ferrara Alloggi invivibili

rivista@sappe.it

Nelle foto: il momento del ritrovamento della piccola Katia avvolta nella giacca del socio Anppe Massimiliano Contasti

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iceviamo e volentieri pubblichiamo queste foto che testimoniano la situazione della caserma agenti della Casa Circondariale di Ferrara. Oltretutto, i colleghi alloggiati in caserma, dovrebbero anche pagare l’affitto per vivere in queste condizioni... H

Teramo Lieto fine lla fine del mese di agosto, il Commissario Igor De Amicis, il Sovrintendente Roberto Micacchioni i soci Anppe di Montorio Lorena e Lino Contasti, Albino Valeri, Tristano Piersanti, Osvaldo Guizzetti, coadiuvati dal Magistrato Davide Rosati, hanno partecipato con grande impegno e professionalitĂ , alla ricerca di una bambina dispersa nei boschi di Cusciano (TE) fino al suo ritrovamento dopo quasi 24 ore di ricerche. H

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funzionari funzionali n questi ultimi tempi capita spesso di imbattersi in programmi televisivi che trattano la sicurezza negli aeroporti nel mondo: efficienti poliziotti, sempre molto professionali, passano al setaccio tutti i viaggiatori ed i loro bagagli, riuscendo garantire un controllo continuo e capillare sui bagagli e sulle persone, assicurando il presidio della frontiera dello Stato. Ciò che spesso mi lascia meravigliato è la grande disponibilità di tecnologia di cui dispongono questi Corpi di polizia, senza la quale la loro attività porterebbe a ben pochi risultati. Avere a disposizione, oltre che sofisticati scanner, anche mezzi per la ricerca e l’analisi di sostanze stupefacenti che in tempo reale individuano e catalogano ogni traccia di sostanza non consentita, permette di svolgere al meglio un tipo di attività che non può fare affidamento esclusivamente sulla professionalità e l’intuito del poliziotto. Inevitabile, in questi, casi giunge il parallelismo con l’attività delle nostre forze di polizia e, nello specifico, della polizia penitenziaria che a ben vedere può essere considerata a tutti gli effetti una “polizia di frontiera”. La linea di confine tra il mondo “libero” ed il carcere, infatti, è sempre molto fragile e poco definita ed il controllo delle nostre “frontiere” è di sempre più difficile attuazione. Ciò accade, in primis perché il carcere è, fortunatamente, un luogo aperto al mondo esterno, in cui centinaia di persone quotidianamente accedono, a vario titolo; ma soprattutto perché per il controllo di questi confini i mezzi e gli uomini sono, il più delle volte, insufficienti e/o inadeguati. Il contrasto all’introduzione di oggetti non consentiti ed il controllo, in generale, sugli accessi in istituto non deve limitarsi al contrasto del traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope od agli apparecchi cellulari (certamente tra i problemi principali, se si considerano le conseguenze della loro introduzione nella gestione della popolazione detenuta e la tutela della salute del ristretto) bensì di tutto ciò che potrebbe rappresentare, in generale, un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica.

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Polizia Penitenziaria, Polizia di “frontiera”

Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia è ampiamente utilizzata, naturalmente anche a fini illegali e non sempre chi deve porsi in contrasto con tali attività delittuose è nelle condizioni di poter prevenire, controllare e contrastare adeguatamente questi traffici. A tal proposito, non ci si può non interrogare sull’adeguatezza degli attuali sistemi di sicurezza a nostra disposizione (si pensi alla vigilanza armata ed ai sistemi di videosorveglianza) nell’epoca dei droni: piccoli e silenziosi velivoli,

oramai alla portata di ogni tasca, in grado di sorvolare ampi territori, effettuare registrazioni e “consegnare” qualsivoglia tipo di oggetto senza particolare difficoltà. È recente la notizia di due uomini arrestati in Maryland per aver usato un drone per contrabbandare materiale all’interno di un penitenziario (fra l’altro marijuana sintetica e materiale vietato nell’istituto di pena). La scarsità di unità cinofile della Polizia Penitenziaria, tanto auspicate nel corso degli ultimi anni, almeno in numero di un’aliquota in ogni regione, non ha di certo favorito una seria attività di prevenzione e contrasto all’introduzione di sostanze stupefacenti, né a qualificare il lavoro del poliziotto penitenziario garantendogli uno strumento indispensabile per poter assolvere al meglio un compito che, diversamente, non sarebbe neppure immaginabile. La sicurezza degli istituti penitenziari passa soprattutto attraverso azioni di prevenzione, con controlli qualificati che possono definirsi tali solo quando effettuati con mezzi idonei, soprattutto in contesti – quelli penitenziari – sempre più simili per le difficoltà operative che in essi si ritrovano, agli uffici di frontiera. H

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Mario Salzano Commissario di Polizia Penitenziaria rivista@sappe.it

Nelle foto: posto di blocco della Polizia Penotenziaria in basso un drone

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cinema dietro le sbarre

Hell - Esplode la furia a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

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na prigione russa fa da scenario per l’ennesimo film beat’em up di Jean-Claude Van Damme.In effetti, questa pellicola del 2003 sembra poco più di un Tekken cinematografico dove la trama è niente più che un pretesto per sublimare le doti combattentistiche ed atletiche dell’attore-karateka belga. Kyle Le Blanc è un operaio americano emigrato in Russia per lavoro. Una sera assiste impotente all’omicidio della moglie e inseguendo inutilmente l’assassino, senza riuscire a raggiungerlo, finisce per essere arrestato dalla polizia, che lo crede coinvolto in una rissa. Nel successivo processo, viene condannato e l’assassino della moglie assolto. Non riuscendo ad accettare questa grave iniquità Kyle decide di farsi giustizia da solo e, sottraendo la pistola ad un poliziotto, uccide l’omicida. Per questo crimine viene condannato all’ergastolo e rinchiuso nel carcere di Kravavi. Il penitenziario, ovviamente, è teatro di combattimenti clandestini tra detenuti. Kyle si trova costretto a difendersi dalle prepotenze degli altri

la scheda del film Regia: Ringo Lam Soggetto e Sceneggiatura: Eric James Virgets, Jorge Alvarez Fotografia: John B. Aronson Montaggio: David M. Richardson Scenografia: Bob Toms Musica: Alexander Bubenheim Costumi: Kate Healey Produzione: Millenium Films Distribuzione: Cecchi Gori

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detenuti ed ogni volta che si azzuffa con qualcuno di loro viene trasferito nella fossa, una cella di isolamento dove, dalla stanza accanto, si sentono lamenti e pugni contro la parete ai quali egli risponde prendendo a pugni a sua volta la parete. Stanco di tutti questi soprusi, decide di allenarsi per poter partecipare allo “Sparka”, il torneo di lotta che si svolge nella prigione. I combattimenti si susseguono e Kyle diventa presto il campione della prigione, temuto e rispettato fino a che il generale Hrusckow, direttore del carcere, decide di farlo combattere contro il campione di

Personaggi ed Interpreti: Kyle LeBlanc: Jean-Claude Van Damme 451: Lawrence Taylor Generale Hruschov: Lloyd Battista Tolik: Carlos Gómez Ivan: Manol Manolov Billy Cooper: Chris Moir Cool Hand: Billy Rieck Dima: Kaloian Vodenicharov Malakai: Alan Davidson Sasha: Veselin Kalanovski Marko: Ivo Tonchev Shubka: Juan Fernández Andrei: Raicho Vasilev Boo: Milos Milicevic Valya: Michael Bailey Smith Boltun: Jorge Luis Abreu Grey: Marnie Alton Sergio: Michail Elenov Yuri : Yuri Safchev Genere: Azione, Drammatico Durata: 96 minuti, USA, 2003 un’altra prigione. Ma a questo punto Kyle si rifiuta di continuare trascinando tutti gli altri detenuti con lui. Il Generale, infuriato, lo fa aggredire da un enorme ed orribile detenuto con sembianze animalesche, che però è colui che picchiava i pugni sulla parete nella fossa e finisce anche lui per solidarizzare con Kyle. Alla fine scoppia una rivolta nella quale perdono la vita 8 persone tra cui 7 detenuti e 1 guardia. A questo punto Kyle è costretto ad affrontare Walya, il campione della prigione straniera, sconfiggendolo. Dopo il combattimento viene preso in consegna dalle guardie che vogliono ucciderlo ma gli altri detenuti lo salvano facendolo fuggire e uccidendo il generale Hrusckow. Tre mesi dopo, la prigione di Kravavi verrà chiusa. H



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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Nella foto: da sinistra la locandina del film “Il branco” Giovanni Erra La cascina scena dell’omicidio ora ristrutturata con il nome di cascina Ermengarda

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crimini e criminali

n una sera di agosto di questa estate torrida, ho rivisto un film di qualche anno fa (1994), fin troppo realistico, del regista Marco Risi: Il branco. Il film, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore Andrea Carraro, si ispira ad una storia realmente accaduta nella periferia romana e tratta il tema della violenza sessuale operata da un gruppo di balordi ai danni di due giovani ragazze.

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tornare a casa, convinto che la figlia fosse da qualche parte con il suo fidanzatino, come aveva scritto lei stessa in un sms telefonico ricevuto dal fratello. L’sms, ricevuto la mattina della domenica successiva alla scomparsa, recitava: “so che state in pensiero, ma non preoccupatevi. Sto bene, non torno a casa”. Un messaggio alquanto strano che, se da un lato faceva “tranquillizzare” la famiglia, dall’altro insospettiva gli inquirenti: l’sms, infatti, non era stato inviato dal cellulare della ragazza, ma da una cabina telefonica. I carabinieri riescono a risalire dapprima all’utenza telefonica e scoprono che l’sms proviene da una scheda prepagata smarrita da una

tirato fuori un coltello e che lui si sarebbe difeso. Accompagna, inoltre, gli inquirenti nel luogo dove si trova il cadavere della ragazzina: un vecchio casolare abbandonato chiamato Cascina Ermengarda, a due passi da casa sua e da quella della ragazzina. Il corpo di Desirée è lì, massacrato di coltellate. La scena che si presenta agli occhi dei Carabinieri è agghiacciante. L’assassino si era accanito sul corpo della piccola con una violenza inaudita: era stata accoltellata e la sua agonia, stabilì successivamente l’autopsia, era durata quasi due ore. In un interrogatorio successivo Nicola coinvolge nell’omicidio anche un suo amico quattordicenne, Mattia. Mattia, ascoltato dai Carabinieri fa un

La pellicola descrive con morbosità l’accanimento selvaggio di un gruppo di vitelloni di provincia, del tutto privi di senso morale, che si conclude con la morte di una delle due ragazze. Il film mi ha ricordato una storia di cronaca nera che, per le modalità, per la giovane età dei colpevoli, per i legami di amicizia e soprattutto per le condizioni in cui fu trovato il corpo della vittima, è molto simile. Nel pomeriggio del 28 settembre 2002, a Leno, un importante centro agricolo e industriale della provincia di Brescia, una ragazza di appena 14 anni e dalla bellezza precoce, dopo aver fatto i compiti (frequentava il liceo scientifico), uscì dalla propria abitazione senza farvi più rientro. Da quel pomeriggio nessuno l’aveva più vista in paese: Desirée Piovanelli pare essere scomparsa. La sera del 2 ottobre, qualche giorno dopo, il padre della ragazzina fa un appello in tivù, implorandola di

donna a Jesolo, nell’agosto del 2002, in un camping. Successivamente, grazie all’intuizione di un luogotenente dei Carabinieri e ad una serie di controlli incrociati (le annotazioni riportate nel diario della ragazzina), si arriva ad individuare un sedicenne, vicino di casa di Desirée, Nicola, che per una strana coincidenza, nell’agosto 2002, era proprio in quel camping. Il ragazzino, la notte del 4 ottobre viene prelevato e interrogato dai militari e ammette di aver inviato l’sms, ma dice di non sapere nulla della scomparsa della ragazza. Dopo ore di interrogatorio gli inquirenti lasciano il ragazzo in una stanza con suo padre: un’intercettazione ambientale rivelerà che è l’assassino di Desirée. Lo confessa lui stesso, in uno scatto d’ira. Poi lo ammette anche davanti al magistrato: racconta di aver discusso con la giovane, dice che lei avrebbe

ulteriore nome, quello di Nico, anche lui quindicenne. Il branco, piano piano, si sta formando. Sempre Mattia, durante l’interrogatorio, aggiunge un ulteriore e fondamentale tassello al mosaico, rivelando che quella sera vi era anche un adulto: Giovanni Erra di 35 anni. Inoltre, dalle indagini, gli investigatori ritengono che si tratti di un piano premeditato: la ragazzina è stata attirata nella cascina con il pretesto di farle vedere una cucciolata di gattini, per poi essere violentata a turno ed infine ucciderla con un coltellaccio, acquistato, la mattina della scomparsa, da Nicola. Nicola, inoltre, aveva portato un sacchetto per infilarci i vestiti sporchi di sangue e aveva comprato un caricabatterie che andasse bene per il cellulare di Desirée, così l’ avrebbe usato dopo il delitto per depistare gli inquirenti.

Il branco di Leno


crimini e criminali Desirée conosceva molto bene Nicola, suo vicino di casa, ma soprattutto suo compagno di classe alle scuole elementari. Come conosceva gli altri due ragazzini del branco, che abitavano nella sua stessa strada, e l’adulto per aver fatto da baby sitter al figlio Giovanni di otto anni. Intervengono i RIS di Parma per fare luce sulle dinamiche dell’omicidio che, secondo le ricostruzioni fatte dagli indagati, appaiono poco chiare e contrastanti. Le risultanze del Reparto Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri arrivano nel gennaio del 2003: si tratta di un’analisi molto sofisticata basata sullo studio delle macchie di sangue.

Quando i due arrivano sul posto, ad attenderli ci sono Nico e Mattia. La ragazza viene percossa, insultata, Desirée urla a Nicola: “Mi fai schifo!” Lui si infuria. Poi arriva Erra. Ed è quando sono tutti insieme che inizia il massacro vero e proprio. Dopo il primo colpo lei cerca di fuggire, ma viene bloccata da Erra e da uno dei ragazzini, e colpita ancora da Nicola per due volte alla schiena. Lo dice il sangue di Desirée: sulla scala di legno c’è l’impronta della sua mano ad indicare un tentativo di fuga. Un’altra macchia di sangue sul davanzale della finestra dice che ha provato una seconda volta a scappare. L’ultimo colpo è alla gola, un colpo inutile, di troppo, ma la violenza è cieca. Il branco viene così rinviato a giudizio.

in quanto il Tribunale riconobbe l’aggravante della premeditazione solo per Nicola. A tutti e tre fu riconosciuta l’aggravante dei futili motivi. Tra le motivazioni della sentenza è significativo quanto riportato: «E’ palese la sproporzione tra movente ed azione criminosa, rilevatrice di uno spiccato istinto criminale e sintomatica di una capacità delittuosa concretamente ancorata a fatti che sono espressione di malvagità» (ANSA, 19.06.2003). Nel processo di appello, la Corte confermò le condanne dei tre, ma ridusse la pena di Nicola a 18 anni e quella di Nico a 15 anni e 4 mesi. Nessuno di loro beneficiò della messa alla prova.

Negli Stati Uniti lo chiamano “Bloodstain Pattern Analysis”. E’ lo studio delle proiezioni ematiche che è in grado di valutare principalmente le conseguenze statiche di un dato evento da cui è derivata una perdita di materiale ematico, ossia di sangue. La dispersione (o disseminazione), le caratteristiche della forma, il volume, il pattern (la distribuzione nello spazio), il numero di macchie di sangue e la loro relazione con la scena del crimine sono parte di tali “conseguenze statiche” dell’evento criminale e tutte insieme rappresentano per l’analista una sorta di “finestra sul passato”. I dati scientifici raccolti vengono quindi comparati con le dichiarazioni dei ragazzi; ed è così che gli inquirenti hanno finalmente un quadro di come sono andati i fatti: Nicola invita Desirée alla cascina con il pretesto di mostrarle una cucciolata di gattini.

Nicola, Nico e Mattia vengono giudicati dal Tribunale dei Minori di Brescia. Nel corso del dibattimento non manifestano alcun senso di colpa, nessuna remora, neppure un battito di ciglia. Le accuse formulate nei loro confronti erano: omicidio volontario premeditato, sequestro di persona, violenza sessuale, e, per Nicola e Mattia anche di vilipendio di cadavere, in quanto il giorno dopo l’omicidio avevano tentato di sezionare il corpo della ragazzina. Il Procuratore del Tribunale dei Minori, Emilio Quaranta, formulò richieste di condanne elevatissime per i tre minori: 20 anni per Nicola, 18 anni per Nico e 14 anni per Mattia. Considerato il rito abbreviato e il relativo sconto di pena, le pene richieste erano molto pesanti. Il Tribunale confermò la pena richiesta dall’accusa solo per Nicola, autore materiale del delitto; ridusse invece le condanne a Nico e Mattia rispettivamente a 16 e a 10 anni,

Giovanni Erra, l’adulto del branco, invece, giudicato innanzi alla Corte d’Assise di Brescia, fa sceneggiate, piange ed invoca pietà. Sarà condannato all’ergastolo per l’omicidio, ma senza l’aggravante della premeditazione. Oltre a 7 anni e 8 mesi per la tentata violenza di gruppo. In appello, la Corte d’Assise di Appello di Brescia riduce la condanna a 20 anni, ma la Cassazione “aumenterà” nuovamente la pena a 30 anni. Mattia e Nico sono già in libertà da qualche anno. Nel 2007 la cascina del delitto è stata abbattuta, al suo posto adesso c’è un residence che si chiama «Cascina Desirée», perché nessuno dimentichi mai questa storia di violenza. Il prossimo 28 settembre saranno trascorsi 13 anni da quel maledetto giorno. Desirée era nata il 29 giugno del 1988, oggi avrebbe 27 anni. Alla prossima... H

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Nelle foto: sopra Desirée Piovanelli a sinistra Maurizio Piovanelli il padre di Desirée

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28 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Sopra la copertina del numero di dicembre 1994

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come scrivevamo

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iù di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

Milano 1879: è in funzione il carcere di San Vittore Il complesso, sorto tra lungaggini burocratiche e roventi polemiche, torna oggi a far parlare di sè con Tangentopoli di Assunta Borzacchiello

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l carcere giudiziario di Milano, conosciuto semplicemente come San Vittore, negli ultimi tempi riceve gli “onori” quotidiani della stampa e delle televisioni per gli illustri ospiti che vengono colà inviati direttamente dal Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo. Da qualche tempo “finire” a San Vittore è sinonimo di tangenti, corruzione, cattiva amministrazione della cosa pubblica, vale per ex politici e alti funzionari dello Stato, famosi imprenditori e faccendieri d'assalto travolti da scandali e pratiche disinvolte di malcostume di cui si sono resi protagonisti negli ultimi decenni della storia italiana. San Vittore, però, è anche sovraffollamento, spazi angusti e titanici tentativi di gestire l'emergenza quotidiana che, oltre o riguardare ospiti più o meno famosi arrivati in massa dalle inchieste su Tangentopoli, affronta la "normalità" dei cosiddetti detenuti comuni. San Vittore entrava in funzione più di un secolo fa e, per una strana coincidenza, quasi una nemesi storica, fu al centro di accese polemiche tra il Comune di Milano e il Governo in merito ai problemi sorti sulla responsabilità dei lavori di costruzione, lavori che subirono uno slittamento dei termini di consegna, numerose variazioni al progetto iniziale e ...un rigonfiamento delle spese preventivate all'inizio dell'opera. L'ing. Antonio Cantalupi, direttore dei lavori incaricato dall’Ufficio del Genio Civile, nel 1880 scriveva la relazione conclusiva sui lavori per la costruzione del "Carcere giudiziario in Milano", descrivendo minuziosamente le vicende relative alle numerose varianti, rispetto al progetto originario del

1874, e i motivi che le determinarono fino al completamento dell'opera, nel 1879. Nel periodo antecedente la costruzione del carcere giudiziario di San Vittore, a Milano erano in funzione diverse case di pena risalenti ai secoli precedenti, tra questi il carcere di Porta Nuova, ideato nel 1670 dall’architetto Francesco Croce e costruito nel 1753 secondo i dettami del sistema cellulare, sistema approvato ufficialmente dal Parlamento del Regno d'ltalia con legge del 27 giugno 1857. Già nei primi decenni del XVIII secolo, John Howard, autore di una famosa inchiesta sugli sconci delle carceri in Europa, denunciava lo stato deplorevole in cui versava il vecchio carcere di Milano: celle umide, scure, insalubri che rendevano difficile il controllo e la sicurezza e consentivano l'incentivazione del delitto. A seguito delle numerose lagnanze espresse dalla commissione visitatrice delle carceri, nel 1864 il Governo italiano ordinò all'Ufficio del Genio Civile per i fabbricati demaniali la compilazione di un progetto per la costruzione di un nuovo carcere giudiziario a Milano. La prima stesura del progetto fu presentata il l° novembre 1865 a firma dell'aiutante del Genio Civile Pirolo e controfirmato dall'ing. Cav. Lucca. Il progetto, però, ebbe subito bisogno di alcune modifiche per essere poi approvato definitivamente dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici il 18 maggio 1867; il preventivo di spesa per la costruzione dell'intero edificio ammontava a lire 1.885.370,27. L'area su cui doveva sorgere il carcere venne individuata tra Porta Genova e


come scrivevamo Porta Magenta, alle spalle del pubblico macello, comprendente una superficie di 54.870,37 mq, appositamente acquistata dal Comune di Milano che si impegnava, anche, ad aprire due nuove strade, uno dal macello al bastione fra Porta Genova e Porta Magenta e l'altra, perpendicolare alla prima, fronteggiante il nuovo edificio. Le procedure per l'inizio dei lavori erano quindi già a buon punto, quando il Ministero degli Interni, nel gennaio del 1869, dichiarava che, a causa delle ristrettezze finanziarie dello Stato, non era possibile stanziare i fondi necessari per procedere alla costruzione del nuovo carcere. A questo punto il Comune, avendo a cuore la realizzazione del complesso cellulare, propose agli agenti governativi particolari accordi con i quali si impegnava a farsi carico delle spese per la costruzione di esso, a patto che venissero soppressi momentaneamente i due raggi del fabbricato panottico, così come previsto dal progetto originario. In cambio il Comune chiedeva al Regio demanio l'acquisizione dei locali della Questura e delle carceri contigue, del Palazzo di Giustizia, del convento di S. Antonio e dell'antico convento di S. Michele alla Chiusa. La cessione degli immobili sarebbe stata pagata dal comune 1.572.347,49 lire, quanto occorreva per sostenere la spesa per la costruzione dell'opera, omettendo gli ultimi due raggi. In tal modo veniva a modificarsi il progetto del "panottico" originario dell'Ufficio del Genio Civile, che poteva, però, essere successivamente integrato con lo costruzione dei due raggi. Inoltre, tale somma si doveva considerare "fissa e invariabile", escludendo un aumento dei costi delle opere eventualmente resesi necessarie durante i lavori. Numerose e precise condizioni furono inserite nell'istometro per contenere aumenti di spesa e limitare al minimo indispensabile le modifiche al progetto. Ma già sei mesi dopo l'approvazione da parte del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, la Direzione Generale delle carceri convocava una commissione tecnica ed amministrativa per introdurre sostanziali modifiche

29 Nella foto: una veduta aerea del carcere di San Vittore a Milano

all'intero progetto. Come già detto, la direzione delle opere venne affidata all'ing. Lucca, del soppresso Ufficio speciale del Genio Civile, ed alla morte di Lucca subentrò l'ing. Cantalupi, autore del polemico scritto da cui abbiamo attinto le notizie da noi riportate. In seguito allo soppressione dell'ufficio speciale del Genio Civile per i fabbricati demaniali, le competenze venivano assunte dal servizio generale: questo passaggio determinò notevoli difficoltà nel prosieguo dei lavori e nel contenimento delle spese, in quanto il Comune di Milano dispose di affidare le opere a più imprese in relazione alla diversa natura dei lavori. L'ing. Cantalupi, a tal proposito, commentava nello scritto citato: “...una lunga esperienza ci ha dimostrato che la pubblica Amministrazione non ritrae alcun vantaggio dall’adottare siffatti appalti separati: anzi, nella maggior parte dei casi, più accollatari tornano di danno alla lodevole riuscita dell'opera, ritardandone il compimento ed imbarazzando gravemente la direzione dei lavori”. Vennero stipulati, quindi, i contratti tra il Municipio di Milano e le diverse imprese appaltatrici e apparve subito evidente che le condizioni stabilite con i diversi appaltatori non erano pienamente conformi a quelle risultanti nel contratto stipulato tra il Governo e il Comune stesso. Inoltre la responsabilità degli appalti spettava al Municipio e non già al direttore dei lavori, così come

ritenuto dal Comune. Tale equivoco determinò gravi conseguenze sia in merito al ritardo con cui furono completati i lavori, che per la correzione dei difetti commessi nello loro esecuzione. Il tracciamento dei lavori venne impresso il 22 maggio 1872, ma i lavori veri e propri ebbero inizio il successivo 4 giugno. Scavate le fondamenta iniziarono i primi guai a causa delle acque sorgive che si trovavano a poca profondità dal suolo. Nel box: il sommario del numero di dicembre 1994

l lavori di consolidamento determinarono un notevole aumento delle spese e divergenze nacquero tra il Municipio e il Governo. I lavori, intanto, proseguivano e le spese preventivate aumentavano a causa delle variazioni introdotte rispetto al progetto originario.

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Nel box: la vignetta del numero di dicembre 1994

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come scrivevamo Nuovi accordi con il Comune permisero di procedere alla costruzione degli ultimi due raggi a completamento del sistema panottico inizialmente progettato, lavori che iniziarono nel 1875.

obblighi. Circostanze impreviste, poi, costrinsero il Dicastero interessato a trasferire i detenuti dalle vecchie alle nuove carceri giudiziarie, già a partire dal 24 giugno 1879, ben

Il tutto fece salire il costo dell'intera costruzione a lire 2.296.975,19 ed oltre 200.000 lire occorsero per lavori di consolidamento delle fondazioni. Già ai primi di ottobre del 1877 la direzione dei lavori rilevava numerosi problemi, ad esempio nei serramenti, guasti ai catenacci, fenditure nel legname delle porte e in seguito ulteriori difetti di costruzione vennero rilevati nel sistema di smaltimento dei liquami, infiltrazioni d'acqua, ecc. Ebbe inizio una diatriba tra il Comune che rifiutava di accollarsi le responsabilità di tali guasti e l'ingegnere governativo su cui il Municipio, invece, cercava di scaricare ogni responsabilità. Dal 21 novembre al 3 dicembre 1878 l'ingegnere capo del Genio Civile praticava una visita di collaudo da cui emerse che le condizioni del nuovo carcere erano ben lontane da quelle che ne dovevano consentire l'accettazione da porte del Governo: in particolare si rilevavano irregolarità nella costruzione dei davanzali delle finestre che causavano l’allagamento delle celle in caso di pioggia. Il Ministero dell'Interno, pertanto, intimava al Comune di Milano di farsi carico di ultimare i lavori e di risolvere i difetti rilevati durante il collaudo. Il 13 maggio 1879 l'ingegnere collaudatore procedette a una seconda visita e dichiarava che il Municipio di Milano aveva adempiuto ai propri

prima che venissero definiti i termini della manutenzione ordinaria dell’edificio a carico dell’impresa appaltatrice, sotto il controllo del Comune. L'anticipata presa possesso del carcere produsse la necessità di ulteriori lavori che non erano stati precedentemente previsti, per uno somma di lire 3.782. Infine, al termine dei lunghi lavori di costruzione e delle continue modifiche, il costo definitivo dell'opera risultò di 2.665.323,61 lire a cui si aggiunse l'importo delle migliorie fatte eseguire direttamente dal Governo per un totale di due milioni e ottocentomila lire. Il carcere aveva una capienza di 768 posti, per cui la spesa per ciascun detenuto risultò di 3.645 lire. Il 12 maggio 1880 scadeva il termine del contratto per un anno di manutenzione "obbligatoria" del fabbricato e il Ministero dei Lavori Pubblici nominò allora una commissione di ingegneri del Genio Civile allo scopo di procedere alla ricognizione e collaudo dei lavori eseguiti e di liquidarne il relativo importo. Tale Commissione confermò le eccezioni sollevate precedentemente dal direttore dei lavori circa il modo di esecuzione delle opere, pertanto l'Amministrazione comunale di Milano si doveva ritenere soggetto "unico responsabile" di fronte al Governo per risultati così deludenti. H

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n questo numero parleremo della M.O.F. (manutenzione ordinaria fabbricati) e delle categorie dei lavoratori soggette a sorveglianza sanitaria, da parte del medico competente del lavoro in relazione al documento della valutazione dei rischi di cui all’art.28 del D.lgs 81/08 e successive modifiche. Giardinieri, Idraulici, Muratori, Elettricisti, Falegnami, Fabbri, Cucina, Magazzinieri, tutti i lavoratori (tecnici amministrativi, agenti addetti alla sorveglianza detenuti e i detenuti lavoratori) devono avere in dotazione quei DPI (dispositivi di protezione individuale), consoni alla loro mansione specifica. Detti DPI sono regolati dal D.lgs 475/92 e dal D.P.R. 2001, con l’emanazione delle direttive europee (CE) con riferimento alla buona tecnica EN. Quelli che andremo ad elencare sono DPI diversi, in base alla lavorazione espletate.

Per quanto riguarda le scarpe antinfortunistiche devono essere, in base alle direttive europee su cui si dovrebbero basare, di buon materiale e non come si fa ancora oggi scadenti e non a norma, alla ricerca di un prezzo più basso e uguale per tutti. Le scarpe per gli elettricisti devono avere le seguenti caratteristiche: il puntale deve essere in resina sintetica (CE-EN 347), l’intersuola in poliuretano espanso antistatico, la suola poliuretano espanso antiabrasione, antiscivolo, antiolio, antiacido, la tomaia idrorepellente termosaldata. Per i muratori, il puntale deve essere in acciaio (CE-EN 345), l’intersuola in


sicurezza sul lavoro poliuretano espanso, la suola in acciaio inox antiperforazione, la tomaia idrorepellente termosaldata. Per i fabbri puntale in acciaio (CE.EN.345) con protezione del metatarso, l’intersuola poliuretano espanso, suola acciaio inox antiperforazione. Per la cucina, stivali in pvc (CE-EN- 345-55) con puntale in acciaio, intersuola acciaio inox antiperforazione, suola antiscivolo. Per gli idraulici vale quanto detto per i muratori. Per quanto riguarda anche guanti, elmetti, mascherine, cuffie e tute di lavoro, vanno acquistate in base al loro uso specifico, come nel caso delle cuffie antirumore, per le quali bisogna valutare la soglia di rumore riscontrata nell’attività lavorativa. Il tutto per ricordare alle amministrazioni che fare gare al ribasso, per quanto concerne la sicurezza dei lavoratori sull’acquisto dei DPI, non porta vantaggio, ma infortuni temporanei, permanenti e malattie professionali quali ipocussia, ovvero perdita dell’udito, tumori causati dalla lavorazione del piombo, polveri sottili, scarichi automezzi. Un’altra pecca riguarda gli spogliatoi dei lavoratori, poiché molto spesso si sente che non ci sono locali idonei, non rammentando che con l’avvento del D.lgs 626/94, modificato con il D.lgs 81/08 , i locali idonei per i lavoratori, per potersi cambiare nei posti di lavoro, senza portare agenti biologici, chimici, al rientro nel reparto d’appartenenza, sono tassativamente obbligatori. Questo per richiamare ancora una volta tutte le amministrazioni ad una maggiore sensibilizzazione sulle procedure di sicurezza sul lavoro. Si rammenta ai datori di lavoro che con l’avvento del decreto ministeriale della giustizia, già in vigore da febbraio 2015, sono state inasprite le sanzioni e le pene, rispetto al D.lgs 81/08. Quindi come si dice nel gergo, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e la scusante dei fondi che non coprono gli acquisti pur che minimi e sbagliati, non giustifica incongruenze e ignoranza della materia. Invito i colleghi, e più precisamente i

I lavoratori addetti alla manutenzione ordinaria dei fabbricati Rappresentanti dei lavoratori, a chiedere all’amministrazione in sede di riunione periodica art 35 del D.lgs 81/08, quelle attenzioni che meritano. Si rammentano infine gli obblighi del datore di lavoro, in particolare all’art.15. del D.lgs 81/08 e dal codice civile 2087: “l’imprenditore e tenuto a salvaguardare l’INTEGRITA’ FISICA E MORALE DEL LAVORATORE”. Inutile rammentare che il codice civile risale dal Regio decreto gennaio 1942, quindi di che cosa stiamo parlando?

31 a cura di Vater Pierozzi Dirigente Sappe Esperto di sicurezza sul lavoro rivista@sappe.it

sono i DPI (dispositivi di protezione individuale) idonei allo scopo. E’ importante, nel caso del rumore, individuare idonee cuffie che abbattano la soglia al di sotto degli 85 decibel e non a zero per evitare al lavoratore, in caso di allarme, di non sentire l’ordine di evacuazione. In poche parole, per esempio, se il rumore è di 100 decibel, bisogna che le cuffie abbassino il rumore di 30 decibel. Per quanto riguarda il rischio biologico oltre alla visiera para

Gli addetti alla manutenzione degli spazi verdi (i giardinieri) ra parleremo dei giardinieri, che per la loro complessità meritano un approfondimento. Il lavoratore giardiniere, oltre a ricevere un’adeguata formazione ai sensi dell’art. 37 del D.lgs 81/08, è sottoposto a sorveglianza sanitaria dal medico competente del lavoro. Oltre a rischio biologico, il giardiniere soggiace a rischi dovuti al rumore (decespugliatori, trattori ecc). Inoltre ha un rischio derivante dall’uso di corpi contundenti, per via del sollevamento, durante il taglio di erba con decespugliatore, di sassi, pezzi di legno ecc. Per quanto riguarda il rumore, in base alla valutazione dei rischi art 28 del D.lgs 81/08, si deve stabilire quali

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schizzi, ci vuole un elmetto per evitare corpi contundenti al capo, una tuta intera monouso da togliere, una volta finito il lavoro, per evitare che micro organismi si attacchino sui vestiti da lavoro. Ribadiamo il concetto che i DPI non possono essere non acquistati per mancanza di fondi, oppure comprati a basso costo, a salvaguardia dell’incolumità del lavoratore. Il continuo taglio sulla spesa pubblica, per quanto non condivisibile, non deve essere il pretesto per mandare il lavoratore a rischiare la propria salute. Il datore di lavoro secondo l’art. 15 del D.lgs 81/08 è obbligato a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore. H

Nelle foto: giardiniere al lavoro con il decespugliatore nell’altra pagina: dotazione antinfortunistica

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32 a cura di Erremme rivista@sappe.it

le recensioni Daniele Novara

URLARE NON SERVE A NULLA BUR RIZZOLI Edizioni pagg. 288 - euro 13,00 on è mai stato facile farsi ascoltare dai figli, e lo stress e la mancanza di tempo delle nostre vite acuiscono il problema. Molti genitori si trovano quindi ad alzare sovente la voce, non solo perché troppo aggressivi e impositivi, ma molto spesso per la ragione contraria: il tentativo impossibile di mettersi sullo stesso piano dei figli, tentativo che mostra sempre la propria inefficacia e di conseguenza genera altro stress, frustrazione e, infine, urla. Daniele Novara, uno dei maggiori pedagogisti italiani e massimo esperto di conflitti interpersonali, raccoglie in questo libro riflessioni e indicazioni pratiche per spiegare come imparare a controllare le proprie reazioni emotive e riuscire, con la giusta organizzazione, a farsi ascoltare efficacemente e gestire nel modo migliore i conflitti che quotidianamente si generano con i figli. Partendo dal racconto di storie vere raccolte nel suo lavoro di sostegno ai genitori, dai capricci dei piccoli ai dubbi sull’uso delle punizioni, dalla divisione dei ruoli tra madre e padre alle tipiche discussioni della prima adolescenza, l’autore mostra la strada per un’educazione basata su regole chiare, organizzazione e una buona comunicazione, che mette i genitori in grado di aiutare i figli a crescere, sviluppando tutte le loro risorse.

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Lirio Abbate Marco Lillo

I RE DI ROMA. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale CHIARELETTERE Edizioni pagg. 261 - euro 14,90

Mentre mi rivela i segreti di alcuni clan, ho come l’impressione che si preoccupi di quello che potrebbe accadermi e soprattutto, di ciò che potrebbe accadere a lui se lo scoprissero. Se scoprissero che è lo ‘spione’, quello che racconta tutto al giornalista, ma non agli sbirri, «perchè di loro [degli sbirri] non mi fido» dice. «Di lei mi hanno raccontato cose che portano a fidarmi, e sono sicuro che non mi tradirà.» Non sono sicuro se è un complimento o un messaggio velato di minaccia. I mafiosi quando parlano, lo fanno in modo sibillino e le loro affermazioni sono taglienti. Basta uno sguardo, però, per comprendere che nessuno di noi farà scherzi”. L’inviato de l’Espresso Lirio Abbate narra così nella prefazione de I re di Roma, il libro scritto a quattro mani con Marco Lillo edito da Chiarelettere, ‘il primo ‘contatto’ nel mese di marzo 2012, quando l’inchiesta ‘Mafia Capitale’ era ancora lontana. Il 14 Dicembre dello stesso anno esplode il caso. Cade il velo dell’ipocrisia, crollano tutti gli alibi esce la copertina de L’Espresso. I due giornalisti (Lillo è caporedattore investigativo per Il Fatto Quotidiano) fanno entrare il lettore nei meandri dell’ inchiesta che sta scuotendo la capitale e l’Italia intera. Mettono insieme una sorta di mappa geografica dettagliata sulle connivenza tra criminalità e politica di destra e di sinistra, ma anche tra personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport. Collaborazioni tra “padroni” di cooperative rosse e insospettabili professionisti al di sotto di ogni sospetto. Abbate, in passato impegnato in prima linea con delicati reportage sulla mafia

siciliana, racconta intuizioni e informazioni che lo portarono un paio d’anni fa ad individuare il potere esercitato a Roma da una vecchia conoscenza protagonista di fatti di cronaca, quel Massimo Carminati ‘il cecato’ che già negli anni Settanta venne implicato in indagini sul terreno minato del terrorismo nero e della famigerata Banda della Magliana. Le fonti dentro la “mala” capitolina raccontano al cronista sotto scorta da 7 anni, che la “città eterna” è troppo grande per essere governata da un solo clan, e che una sorta di forzata e previdente pax mafiosa si scatena dal momento dell’ avvento alla guida della Procura romana di un magistrato esperto come Giuseppe Pignatone, reduce da importanti successi a Reggio Calabria nella lotta contro la ‘ndrangheta. Questa mossa - che mostra tutta la scienza analitica delle mafie - non basterà ad evitare che proprio Pignatone, col sostegno fondamentale delle forze dell’ ordine e una menzione particolare va a Renato Cortese, dirigente delle squadra mobile - riesca a scoperchiare il pentolone di un’organizzazione che controlla capillarmente ogni metro del suolo romano, con infiltrazioni profonde nella politica, nel mondo imprenditoriale e in quelle cooperative sociali di cui un protagonista assoluto, Salvatore Buzzi, che appare nel libro come il “rosso” rispetto a Carminati, appunto “il nero”, l’uomo che con le sue gesta fuori dalla legge si è guadagnato la fama di intoccabile ed invincibile. Dai giorni della prima copertina de l’Espresso sui “quattro re di Roma”, Abbate subisce attenzioni ed intimidazioni, dai furti in redazione ai pedinamenti in auto. Ma mafia capitale è di destra o di sinistra? Domandano nel libro i due cronisti. “Carminati - scrivono - è il capo dell’organizzazione ed ex nar, non ex br, poche storie è di destra. Gaber risponderebbe: eh no sembra facile. Il nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che Mafia capitale è di sinistra? L’ex sindaco Alemanno è indagato per associazione mafiosa come


le recensioni Buzzi e Carminati, dunque mafia capitale torna a destra. Si ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di “Mafia capitale”, Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra.....”. Il libro se ne volete saperne di più va letto per intero perchè le sorprese e i nomi eccellenti non mancano. Insomma la morale è se “Mafia Capitale” fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi, e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Solo il lavoro dei Ros ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori dal 2014. Dall’Expo, al Mose, fino a Mafia Capitale, sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e sinistra, la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, dalle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere, l’alleanza, tra coop rosse e bianche per entrare negli appalti maggiori.

Flavio Pagano

SENZA PAURA GIUNTI Edizioni pagg. 188 - euro 13,00

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enza paura è ispirato alla storia di Ciro Esposito, il ragazzo ucciso nei pressi dello Stadio Olimpico di Roma il 3 maggio 2014, prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. È un romanzo che si legge tutto d’un fiato, che scuote e commuove profondamente, nel quale le perverse dinamiche che culminarono in un assassinio e le ombre dell’inchiesta su “Mafia Capitale’’ si fondono in un contesto completamente reinventato. Così la storia di Bruno, il ragazzo protagonista, prende corpo nel pieno della sua tormentata adolescenza, segnata dalla prematura morte della madre e sospesa tra l’amore per la bellissima Na’weh - una giovane

straniera cresciuta in Italia, che si ostina a difendere la purezza dei valori dello sport - e il rapporto controverso che lo lega a suo padre, Antonio - un ultrà, un malato di pallone, un uomo che vive nella sua folle normalità tutto il degrado cui può condurre un’insana passione per il calcio. Ma si andrà ancora oltre e padre e figlio affronteranno chi vive il tifo come un fondamentalismo religioso e odia l’avversario al punto da volerlo morto. Nella ricerca ostinata dell’amore del padre, Bruno e Antonio arriveranno allo scontro aperto, ma, alla fine, nell’ora della verità, si ritroveranno a lottare fianco a fianco, insieme nel momento più difficile. Voce narrante della vicenda è il nonno di Bruno, che ha imparato a odiare il calcio e che nasconde ostinatamente un piccolo ma atroce segreto: ed è lui, forse più degli altri, che sente di essere artefice di un destino al quale è tuttavia impossibile sfuggire.

Raul Montanari

IL REGNO DEGLI AMICI EINAUDI Edizioni pagg. 316 - euro 18,00 uando hai sedici anni e gli amici sono tutto il tuo mondo, l’iniziazione alla vita non può che essere violenta. Come l’amore. O la scoperta del male. È l’estate del 1982. L’Italia ha appena vinto i mondiali di Spagna e Milano è deserta. Demo, Elia e Fabiano trovano una casa abbandonata sul naviglio Martesana e decidono di farne il loro Regno. Un posto segreto dove è possibile fumare, ascoltare i Led Zeppelin, sfogliare i giornaletti porno, scoprire il confine sottile tra complicità e gelosia, tra emulazione e rivalità. Un posto, anche, dove accogliere i nuovi amici, come Ric. Poi incontrano Valli, ed è un’apparizione. Lei è selvatica, ha gli occhi verdi, i capelli lunghi, un corpo esile chiuso in una salopette; vive in un camper con la madre e ogni giorno pesca nel canale. Senza volerlo la ragazza rompe il goffo equilibrio maschile del Regno, insinuando nel

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gruppo quella tensione erotica che è per tutti la grande scoperta e il grande dolore dell’adolescenza. Ma che qui genera un danno capace, in una sola notte, di cambiare il destino dei protagonisti. Mentre la pioggia si porta via l’ultima estate della loro giovinezza. «Vivessi mille anni non dimenticherò mai quell’apparizione, la prima volta che finalmente vedevo da vicino la misteriosa ninfa della Martesana. Ma sí: in tutti quei giorni, quando ero andato alla casa da solo, per prima cosa ero sceso fino al bordo del canale e avevo guardato da tutte le parti. L’avevo cercata senza trovarla. Pensavo che non l’avrei piú veduta, che forse se n’era andata in vacanza, o era partita, scomparsa nel nulla da cui era uscita come una spuma».

Scott Kelby

IL LIBRO DELLA FOTOGRAFIA DIGITALE. Volume 5 PEARSON IT. Edizioni pagg. 222 euro 25,00 uinto volume de Il libro della fotografia digitale, il testo di fotografia digitale più venduto di tutti i tempi. Semplice, privo di termini tecnici, ricco di suggerimenti unici e impreziosito dalla descrizione di 100 dei più popolari trucchi del mestiere, il volume offre le ricette per realizzare in breve tempo scatti da professionista. Con un approccio pratico e graduale, l’autore illustra tutti i passaggi che portano alla creazione delle magnifiche fotografie proposte in queste pagine. H

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l’ultima pagina Carlo Gnocchi

CRISTO CON GLI ALPINI UGO MURSIA Edizioni pagg. 128 - euro 14,00 «Passa ultimo e frettoloso un giovane ufficiale. Riconosce il Cappellano. “Ciao” gli dice sottovoce. “Hai il Signore?” Dammelo da baciare.” Un bacio intenso e poi via animosamente. Verso la battaglia.» Cristo con gli alpini non è un’opera qualunque. Non è, insomma, un diario, un resoconto,

una cronaca, una confessione, ma è un atto di fede gettato nella follia della guerra, un gesto di speranza dedicato a coloro che ormai non ripetevano più questa parola, uno slancio d’amore che replica ai colpi della violenza. Per questo don Carlo porta Cristo al fronte, o meglio lo conduce nella disperazione degli accerchiamenti dove si consumavano le ultime forze. Prosa semplice, piccoli esempi e un cuore immenso fanno di

questo libro un documento prezioso. Le pagine dedicate a Giorgio, il bambino che ha perso tutto e poi muore, sono più eloquenti di tutte le analisi degli storici. Leggendole si capisce perché “tocca alla morte rivelare profonde e arcane somiglianze”. Riproporre Cristo con gli alpini significa conoscere un po’ di più la guerra e la Russia; queste pagine spiegano l’inizio di un miracolo. H

il mondo dell’appuntato Caputo La scena del crimine di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2015

ABBIAMO DUE SOLE IPOTESI: SUICIDIO O EUTANASIA.

Polizia Penitenziaria n.231 settembre 2015


www.mariocaputi.it

Per ora é uscito il libro! Raccolta antologica delle vignette dell’Appuntato Caputo pubblicate dal 1994 al 2014 sulla Rivista mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza Da che parte é l’uscita? si puo’ acquistare in tutte le librerie laFeltrinelli oppure sui siti www.lafeltrinelli.it e www.ilmiolibro.it

Formato 15 x 23 cm Copertina morbida 240 pagine a colori ISBN: 9788891092052



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