Polizia Penitenziaria - Ottobre 2011 - n. 188

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anno XVIII • n.188 • ottobre 2011 www.poliziapenitenziaria.it

Sventolano ancora le bandiere del Sappe



in copertina: Le bandiere del Sappe sventolano in piazza (foto di Andrea Arzilli)

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Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

L’EDITORIALE Anche in piazza la profonda e sostanziale diversità dell’identità sindacale del Sappe di Donato Capece

ANNO XVIII • Numero 188 Ottobre 2011

IL PULPITO Ancora una volta Fini si dimostra vicino alle Forze dll’Ordine di Giovanni Battista De Blasis

Direttore Responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

IL COMMENTO Sicurezza e carcere: realtà e prospettive future

Direttore Editoriale: Giovanni Battista De Blasis deblasis@sappe.it

di Roberto Martinelli

Capo Redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione Cronaca:Umberto Vitale Redazione Politica: Giovanni Battista Durante

L’OSSERVATORIO POLITICO Intervista a Sebastiano Ardita autore del libro “Ricatto allo Stato”

Redazione Sportiva: Lady Oscar Progetto Grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director) www.mariocaputi.it “l’ appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2011 by Caputi & De Blasis (diritti di autore riservati)

di Giovanni Battista Durante

Direzione e Redazione Centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. - fax 06.39733669

MONDO PENITENZIARIO Siamo uomini o caporali!

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di Luca Pasqualoni

Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di:

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CRIMINI & CRIMINALI Il Lupo Luciano Liboni. L’interminabile fuga di un morto che cammina

Finito di stampare: Ottobre 2011

di Pasquale Salemme

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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Anche in piazza la sostanziale e profonda diversità dell’identità sindacale del Sappe

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uesto 2011 che si avvia alla conclusione ha visto scendere in piazza molte volte il SAPPE, che è il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria con una percentuale di rappresentatività nazionale che supera il 30% . Siamo scesi in piazza in più occasioni, a Roma e nelle varie città d’Italia, con gli amici della Consulta Sicurezza e del Comparto, da ultimo il 18 ottobre scorso, per denunciare la miopia di questo Governo ed il fallimento delle sue politiche della sicurezza che avrebbero dovuto caratterizzare, in positivo, l’azione nel corso di questi anni. Siamo stati costretti, viceversa, a chiedere un contributo economico ai cittadini, per la gravissima situazione di collasso del sistema sicurezza, ormai arrivato al paradosso: manca il carburante per rifornire gli auto-

Nelle foto alcuni momenti della manifestazione

mezzi delle Forze di Polizia e dei Vigili del Fuoco; i colleghi sono costretti, per arrestare i latitanti, mafiosi, camorristi, criminali pericolosi e per prestare soccorso alla popolazione, ad anticipare i soldi per le missioni attingendo dal proprio stipendio. Ove non bastasse ci si tassa per l’acquisto di carta, fax, fotocopie e quant’altro, indispensabile per il funzionamento minimo degli Uffici necessario a dare un servizio ai cittadini. Ma il SAPPE, in questo 2011, è sceso in piazza più volte anche per denunziare le gravi condizioni nelle quali ogni giorno lavorano i poliziotti penitenziari.

Abbiamo portato in moltissime piazze delle varie città d’Italia il disagio professionale delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, costretti a lavorare tra mille difficoltà per il costante ed endemico sovraffollamento e per le altrettanto significative carenze organiche. Il Corpo di Polizia Penitenziaria, i cui organici sono carenti di oltre 7mila e 500 unità, ha mantenuto fino ad ora l’ordine e la sicurezza negli oltre duecento Istituti penitenziari a costo di enormi sacrifici personali, mettendo a rischio la propria incolumità fisica, senza perdere il senso del dovere e dello Stato, lavorando ogni giorno nel difficile contesto penitenziario con professionalità, senso del dovere, spirito di abnegazione e, soprattutto, umanità. Ma è evidente a tutti che il sistema carcere ha bisogno di interventi urgenti, interventi che il mondo distratto della politica e dell’Amministrazione penitenziaria non assume. I sintomi di questo crescente disagio professionale sono stati portati negli affollati sit-in che abbiamo tenuto a Roma, l’8 marzo ed il 14 giugno scorsi, davanti al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed il 22 ottobre 2011 davanti al Ministero della Giustizia. Tutti in piazza, sotto le bandiere azzurre del SAPPE, per denunciare il mancato pagamento di migliaia di missioni svolte dal Personale e di decine di migliaia di ore di lavoro straordinario; per denunciare le pessime condizioni di molti posti di servizio nei quali quotidianamente lavorano i Baschi Azzurri, compresi i mezzi del Corpo in uso principalmente ai Nuclei Traduzioni e Piantonamenti; per denunciare quanto il crescente sovraffollamento – e l’assenza di iniziative concrete per ridurlo – incida negativamente sulle condizioni di lavoro dei colleghi. Ma siamo scesi in piazza anche contro quella nomenclatura e quella dirigenza dell’Amministrazione Penitenziaria che da ven-

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t’anni ostacola ogni evoluzione ed accrescimento professionale della Polizia Penitenziaria, che nella drammaticità dell’attuale situazione è incapace di porre in essere provvedimenti concreti e si preoccupa di richiamare il Personale a salutare militarmente le Autorità che accedono alle car-

ceri. Su questo, vi invito a rileggere l’editoriale pubblicato sul quotidiano nazionale Il Secolo XIX. Siamo scesi in piazza contro i burocrati che si sono preoccupati e si preoccupano solamente della propria poltrona, sempre gli stessi, che hanno boicottato e boicottano subdolamente e costantemente una non più rinviabile, adeguata e funzionale organizzazione del Corpo di Polizia Penitenziaria e l’istituzione della Direzione Generale del Corpo, in seno al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, indispensabile e

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Giovanni Battista De Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

necessaria per raggruppare tutte le attività ed i servizi demandati alla quarta Forza di Polizia del Paese. Un Corpo di Polizia dello Stato al quale si vorrebbe smantellare perfino la Banda musicale del Corpo oltre a chiudere alcune delle Scuole di Formazione del Personale per colpa della stessa Amministrazione penitenziaria, che punta poco alla formazione ed all’aggiornamento professionale dei poliziotti. Un Corpo di Polizia che, secondo alcune voci, si vorrebbe addirittura snaturare nella sua stessa imprescindibile identità di Polizia per preferirle quella correlata alla funzione rieducativa della pena, con la previsione di costituire un Operatore Unico attraverso fantomatici ‘ruoli tecnici’ nei quali far confluire tutto il Personale del Comparto Ministeri, contrattualizzato e di diritto pubblico. Contro tutto questo siamo scesi e scenderemo ancora in piazza, fieri della nostra identità di essere il Sindacato autonomo delle poliziotte e dei poliziotti. Altri Sindacati dell’Amministrazione hanno digiunato e manifestato con i radicali a favore dell’amnistia – provvedimento che serve a ben poco, se ad esso non si affianca un complessivo ripensamento del sistema dell’esecuzione della pena: indulto docet – ed hanno affiancato alle proteste dei poliziotti anche quelle dei direttori, dei ragionieri, degli educatori e degli impiegati. Tutto lecito e legittimo, per carità. Ma confermano la sostanziale e profonda diversità dell’identità sindacale del SAPPE, Sindacato autonomo delle poliziotte e dei poliziotti, che rivendichiamo con forza ed orgoglio. Ognuno saprà trarre le proprie conclusioni.

Ancora una volta Fini si dimostra vicino alle Forze dell’Ordine

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prescindere dalla componente politica di riferimento, ancora una volta il Presidente Fini ha dimostrato in maniera tangibile ed inequivocabile la propria vicinanza personale alle forze dell’ordine. Mi ritengo testimone diretto della particolare attenzione e sensibilità di Gianfranco Fini ai problemi del comparto sicurezza ed anche, più direttamente, a noi della Polizia Penitenziaria.

Anche questa volta Gianfranco Fini, nella sua veste istituzionale di Presidente della Camera, ha voluto dimostrare la propria vicinanza alle forze dell’ordine, ricevendo una delegazione dei manifestanti nei propri uffici di Montecitorio. Tra l’altro, in questa occasione, è venuto fuori anche un curioso aneddoto. Per giustificare il suo piccolo ritardo e scusarsi per averci fatto attendere, il Presidente della Camera ci ha informato di essersi doI sindacalisti ricevuti dal Presidente della Camera Gianfranco Fini

Ricordo perfettamente, ad esempio, l’intervento risolutivo di Fini allorquando, da Vice Presidente del Consiglio, fu solo grazie a Lui che riuscimmo ad assumere quei millecinquecento colleghi tenuti a lungo nel limbo. Ci aiutò, anche, pur se dagli scranni dell’opposizione quando si trattò di quegli altri cinquecento colleghi per anni appesi ad un filo, che, dopo innumerevoli inutili tentativi con Roberto Castelli, riuscimmo ad incamerare non appena insediato il Ministro Mastella. Peraltro, mi sia consentito di ricordarlo, abbiamo anche avuto l’onore di ospitare il Presidente Fini sulla copertina di questa Rivista.

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vuto dilungare un po’ più del previsto nell’incontro con il Presidente della Mongolia e, con l’occasione, ci ha raccontato che lo stesso, dopo avergli chiesto notizie sulla manifestazione di protesta antistante Montecitorio, si è molto meravigliato nell’apprendere che c’erano i poliziotti in piazza sottolineando che, nel suo paese, ciò sarebbe stato davvero impossibile. Ad ogni buon conto, anche stavolta Fini ha offerto tutta la propria disponibilità verso il comparto, dichiarandosi disponibile ad appoggiare le nostre richieste emendative rispetto alla legge finanziaria che a breve approderà alla Camera. Tutto ciò, ovviamente, sempre che il Governo non ponga la fiducia sul provvedimento.

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Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Sicurezza e carcere: realtà e prospettive future

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Nella foto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

ssistiamo costantemente a episodi deprecabili, a nuove tipologie di reati, con una frequenza inaspettata che obbliga la collettività, e quindi le Autorità politiche, ad intervenire: non sembra infatti più possibile dilazionare i tempi, attardarsi su fenomeni che tendono alla emulazione; occorre, al contrario, assumere iniziative in grado di offrire e di dare certezze inequivocabili. D’altro canto, pur sussistendo tali premesse, la cui valenza spesso tragica non lascia dubbi, gli interventi legislativi non appaiono all’altezza della situazione, in sostanza in grado di combattere adeguatamente i pericoli che provengono da una delinquenza le cui caratteristiche non sono più tollerabili. E mi riferisco ai contenuti delle ultime manovre finanziarie per alcuni aspetti restrittivi, ad organici carenti che costringono a turni lavorativi particolarmente stressanti, a risorse e a stanziamenti insufficienti, che non consentono il raggiungimento di obiettivi istituzionali, penalizzando quella efficienza ordinamentale che compete a ciascuna Forza di Polizia. Ritengo che sia espressione di serietà e di professionalità far corrispondere effettivamente alle parole i fatti: se si vuole che la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza, la Polizia Penitenziaria e il Corpo Forestale dello Stato adempiano ai propri doveri nel rispetto delle rispettive funzioni, quali demandate dagli appositi ordinamenti, bisogna assolutamente prevedere un potenziamento reale e concreto, in uomini, mezzi, strutture, dispositivi. Se la Sicurezza è un bene essenziale – e non vi sono, credo, perplessità al riguardo – ogni impegno va perseguito per raggiungere il massimo risultato in tema di efficienza, di operatività, di tutela vera del cittadino.

Per quanto attiene al Corpo di polizia penitenziaria, fermi restando i problemi comuni con le altre Forze di Polizia, sono indispensabili un miglioramento della intera organizzazione nonché una distribuzione e una razionalizzazione delle attività e delle risorse, evitando sperequazioni tra una regione e l’altra che non favoriscono certo la crescita. Crediamo in un Corpo di Polizia sempre più autonomo dal punto di vista organizzativo, tanto da indurci a sostenere con forza l’istituzione della Direzione Generale della Polizia Penitenziaria.

Il SAPPe ha svolto e continuerà a svolgere sempre una forte azione propositiva, collaborando con quelle realtà capaci di comprendere le nostre rivendicazioni, dando risposte concrete alle esigenze primarie del personale, con la forza della propria autonomia. E’ con questo spirito che ci accingiamo sempre ad un confronto, a formulare proposte costruttive in ogni settore, e soprattutto in materia di sicurezza. In fondo, la sicurezza è indispensabile e propedeutica a quel concetto di libertà sancito dalla Costituzione, che non può essere

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mai disatteso e tanto meno ignorato. Ciò che la gente chiede è maggiore sicurezza, ma è importante riuscire a gestire questi problemi senza lasciarsi travolgere dall’onda emotiva, senza assumere iniziative che possono, alla fine, risultare poco efficaci. Sicurezza non vuol dire solo carcere, pena detentiva a tutti i costi. Noi riteniamo che non tutti i reati possono e devono essere puniti con la detenzione, non solo per l’incapacità delle nostre strutture di tenere in carcere tutti gli autori dei reati che vengono commessi, ma anche e soprattutto perché la detenzione, a volte, potrebbe non essere significativa così com’è concepita oggi. Nelle recenti comunicazioni sul sistema carcerario che il Ministro della Giustizia ha fatto al Senato della Repubblica, in un’aula peraltro drammaticamente semivuota, il Guardasigilli ha sottolineato che il sovraffollamento delle carceri non sembra imputabile alle norme sulla sicurezza approvate nell’ultimo decennio, anche perché si registra un costante aumento dell’applicazione di misure alternative. La popolazione carceraria cresce in primo luogo a causa della presenza di detenuti stranieri irregolari, che non beneficiano degli arresti domiciliari e per i quali è scarsamente applicata l’espulsione in alternativa alla detenzione, per difficoltà di individuazione del Paese d’origine e scarsa operatività dei patti di riammissione; in secondo luogo a causa dell’uso eccessivo della custodia cautelare. Il ricorso a provvedimenti emergenziali di amnistia e indulto non serve ad affrontare il problema ma solo a rinviarne la riproposizione. Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, recentemente in visita nell’istituto di rieducazione di Nisida, a Napoli, è tornato ad esprimere la propria preoccu-

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pazione per le condizioni insostenibili delle carceri italiane e a ribadire la necessità di intervenire subito per voltare pagina. Ma ha spiegato di non ritenere praticabile in questo momento il ricorso a un provvedimento generale di clemenza, perchè per approvarlo «ci vuole un accordo politico che allo stato non c’è». Si tratta di un tema che sta molto a cuore al presidente della Repubblica, che più volte nei mesi scorsi ha parlato di una situazione ‘drammatica’ , incompatibile con il rispetto della dignità delle persone, sollecitando il Parlamento a intervenire di fronte a una questione di «prepotente urgenza».

sigilli Nitto Francesco Palma, confortato anche dall’esperienza fallimentare dell’indulto del 2006. Quel che concretamente serve oggi al nostro Paese sono riforme strutturali al sistema dell’esecuzione della pena. A cominciare dal lavoro dei detenuti, del quale si è occupato spesso un politico di lungo corso come il liberale Raffale Costa. Una serie di leggi dei decenni scorsi, ma anche degli ultimi anni, individua nel lavoro dei detenuti una forma attiva di rieducazione. Nonostante la buona volontà del legislatore i risultati di chi si prefiggeva di fare lavorare i detenuti sono stati modesti, addirit-

imparare, ma ha svolto un ruolo complementare alla detenzione (scopino, addetto alla distribuzione dei pasti, lavorante). In buona sostanza in pochi, pochissimi hanno lavorato retribuiti contrattualmente; in pochi, pochissimi hanno imparato un mestiere; in pochi, pochissimi saranno pronti al lavoro quando saranno scarcerati. Bisognerebbe invece che tutti i detenuti in carcere lavorassero: e invece oggi a lavorare è una percentuale assolutamente risibile dei presenti. Occorre allora una legge nuova, che tenga conto di quanto si è fatto fino ad oggi anche sotto il profilo legislativo, ma che crei le condizioni affinché dall’esterno del carcere

E davanti ai ragazzi detenuti di Nisida ha scandito: «non sono degne di essere umani le carcere sovraffollate»; per questo servono «passi rapidi» per arrivare a «un cambiamento radicale della situazione». Interventi che non significano per forza, ha spiegato Napolitano, un nuovo provvedimento generale di clemenza, come quello che stanno chiedendo da tempo inutilmente i Radicali con lo sciopero della fame e della sete. Condivido quello che hanno detto il Capo dello Stato Giorgio Napolitano e il Guarda-

tura trascurabili. In carcere si dovrebbe poter lavorare per imparare a farlo bene (in attesa della scarcerazione), per non oziare, per guadagnare un po’ di soldi utili all’interessato, al pagamento delle spese della sua detenzione ma anche alla sua famiglia. I dati relativi ai detenuti-lavoratori sono emblematici. Su poco meno di 70.000 detenuti, 12.110 lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, mentre soltanto 2.064 alle dipendenze di ditte esterne. Il risultato è evidente: la grande maggioranza degli scarcerati non ha lavorato per

vi sia qualcuno disposto ad affidare ai detenuti un compito retribuito e formativo. Soltanto così chi lascerà il carcere (alcune migliaia all’anno) non avrà motivo di delinquere nuovamente. Altro tema ricorrente è quello dell’alta presenza di stranieri tra i detenuti, il 40% circa a livello nazionale che diventa il 60-70% nelle regioni settentrionali. Riteniamo sarebbe opportuno impegnarsi concretamente per favorire l’espulsione dei detenuti stranieri oggi in Italia, per fare scontare loro le pene nelle carceri dei Paesi d’origine. Ma se il carcere deve essere la sanzione da

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Nella foto il Presidente Napolitano con i ragazzi dell’IPM di Nisida


Nella foto Il Presidente Napolitano e il Ministro Palma

applicare a coloro che commettono gravi reati, è altrettanto opportuno che al carcere si trovino delle misure alternative, in aggiunta a quelle che già sono previste nel nostro ordinamento. Se il carcere è, in larga misura, destinato a raccogliere il disagio sociale, è evidente come la società dei reclusi non possa che essere lo specchio della società degli uomini liberi. Non può, infatti, disgiungersi la sicurezza dalla esecuzione della pena, compito precipuo della Polizia Penitenziaria. Servono riforme che garantiscano la certezza della pena, perché il carcere non può essere il solo e unico deterrente; serve limitare il sovraffollamento, mediante il potenziamento dell’area penale esterna, vale a dire incentivando le misure alternative. E’ di assoluto rilievo un’analisi delle prospettive di riforma del sistema delle pene: la stragrande maggioranza dei detenuti sono in custodia cautelare e pochissimi in

esecuzione di pena, recidiva il 46% di coloro che entrano in carcere e solo il 18% di coloro che sono posti agli arresti o in detenzione domiciliare.

Se questi dati vengono valutati congiuntamente al collasso del sistema carcerario, è evidente che la riforma più volte annunciata è ormai urgente e non potrà prescinderne. Si dovrebbe partire anche da questi dati per realizzare un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia, che preveda circuiti penitenziari differenziati ed un maggiore ricorso alle misure alternative attraverso, da

un lato, un carcere invisibile sul territorio cui affidare tutti coloro che commettono un reato che non crea allarme sociale e, dall’altro, un carcere di massima sicurezza, per i 41 bis o comunque riservato ai soggetti che si macchiano di gravissimi reati. Torno a dire che bisognerebbe pensare un carcere che non peggiora chi lo abita, non lo incattivisce, non crea nei suoi abitanti la convinzione di essere una vittima: questi risultati si possono realizzare con il coinvolgimento del sociale ma soprattutto con il lavoro durante la detenzione, anche attraverso progetti concreti per il recupero ambientale del territorio, che abbatta il fenomeno dell’ozio in carcere. In questo contesto si dovrà delineare per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego ed un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale.

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l grande giornalista Indro Montanelli questo libro di Mario Spada si ispira al MAURO SPADA scrisse che gli Alpini hanno infiniti diario di guerra di un Alpino, Agostino Gatorti: parlano poco in un paese di pagliardo. Non sono pochi i battaglioni alUN ALPINO, rolai; ostentano ideali laddove ci si esalta a pini che possono vantare una propria UN BATTAGLIONE non averne; adorano il proprio Paese, pur storia nella Prima Guerra Mondiale. ITINERA PROGETTI vivendo fra gente che lo venderebbe per un A loro volta non sono poche le testimoEdizioni pezzetto di paradiso altrui; non rinunciano nianze scritte di combattenti alpini nel pagg. 130 - euro 20,00 alle tradizioni, pur sapendo che da noi il corso di quel conflitto. conserÈ estremamente raro però poter seguire vare è blasfemo; sono organiz- la storia di un battaglione, documentata in ciascuna delle sue zati e compatti, ma fasi belliche, attraverso gli occhi di uno dei suoi combattenti, provocatoriamente non si ser- soprattutto se si tratta di un alpino semplice. Ciò è tanto più vero vono di questa forza; diffi- quando, come nel libro di Mario Spada, il battaglione in quedano dei politici e si rifiutano stione è prima un battaglione valle”(il Valle Arroscia), destinato di asservire ad essi la loro in teoria a meri compiti di presidio, per poi diventare un reparto potente organizzazione. E a monte (il Monte Saccarello), destinato alle zone e alle battaglie proposito di rispetto e man- più sanguinose. tenimento di tradizioni, che La narrazione delle vicende belliche diviene quindi un dialogo, sono un tratto distintivo tanto serrato quanto avvincente, tra la vicenda personale e la delle mitiche Penne Nere, grande storia collettiva. Erremme

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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

Intervista a Sebastiano Ardita autore del libro “Ricatto allo Stato”

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ottor Ardita, come nasce l’idea di scrivere questo libro?

Sono giunto alla fine di una esperienza che considero unica nel suo genere. Per oltre 9 anni, mentre si sono avvicendati quattro governi, ho diretto l’ufficio detenuti, una delle articolazioni più delicate dello Stato. Ho avuto l’onore di rivestire un ruolo che hanno ricoperto poche altre persone, alcune di esse furono vittime del terrorismo. Mi riferisco ai colleghi GiroNella foto lamo Tartaglione, Girolamo Minervini e Sebastiano Giovanni D’Urso, che hanno avuto la sola Ardita colpa di avere creduto in un carcere moderno e civile: entrarono nel mirino delle Brigate rosse, per avere scritto le norme del nuovo ordinamento penitenziario, ovvero, nel caso di D’Urso, per averle fatte applicare. Loro volevano un carcere che rispettasse la dignità di chi è recluso, ma così sottraevano le masse dei reclusi all’antagonismo sociale ed alla lotta armata. Leggendo quel che hanno insegnato, ho cercato la chiave per affrontare la condizione di sovraffollamento più grave che si ricordi, quanto meno dalla nascita della Repubblica. Volevo lasciare un po’ di memoria, non certo delle cose che ho fatto, ma di quello che mi è stato tramandato da chi mi ha preceduto e che in qualche modo ho rivissuto nella mia esperienza personale. Lei inizia il libro parlando dell’incontro in carcere con Bernardo Provenzano. Se dovesse dare dei suggerimenti alla Polizia Penitenziaria su come relazionarsi con personaggi di questo spessore criminale, cosa consiglierebbe? Ho cercato di raccontare storie e fatti piuttosto curiosi, ed a volte inquietanti e misteriosi, che danno luce alla Polizia Penitenziaria da una angolazione di-

esempio nel rapporto con la famiglia, occorrerà garantirglielo nel pieno rispetto della legge, senza ostacolarlo.

versa rispetto alla letteratura tradizionale. Basterà pensare al fatto che i capi di cosa nostra, per anni liberi o latitanti, adesso sono tutti detenuti. Direi quindi che la penitenziaria è la forza di polizia che ha più di tutte e per più tempo guardato negli occhi cosa nostra, rispetto alla altre polizie che hanno avuto grandi meriti nello svolgere le attività investigative e nella cattura dei latitanti. Per questo con “Ricatto allo Stato” in modo abbastanza romanzato, ho voluto raccontare anche il ruolo eroico della polizia penitenziaria nel contrasto alla mafia e prima ancora al terrorismo. Se dovessi dare un consiglio ai nostri agenti direi loro di stare sempre dalla parte della legge, rifuggendo tanto dagli eccessi quanto dalle debolezze. E’ questa l’unica strada per essere sempre dalla parte giusta, per non ricorrere mai a mediazioni o a compromessi. Del resto la vera missione resta sempre quella di far prevalere la cultura della legalità, in tutte le sue manifestazioni. E’ chiaro dunque che se lo scopo del 41bis è quello di impedire le comunicazioni con l’esterno, occorre concentrarsi innanzitutto su questo obiettivo. Allo stesso modo se un detenuto ha diritto ad uno spazio qualsiasi di trattamento, ad

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Nel libro lei cita anche Falcone e Borsellino. Crede al fatto che la decisione di uccidere Falcone e Borsellino non sia stata presa solo da Cosa Nostra, ma vi abbiano concorso apparati deviati dello Stato? Perchè, secondo lei, fu deciso di uccidere Falcone dopo che era andato via dalla Sicilia? Forse dava più fastidio da consulente del ministro, piuttosto che da magistrato impegnato in prima linea? Sulle stragi di capaci e via d’Amelio stanno lavorando tuttora alcune delle migliori intelligenze delle magistratura italiana, le quali non hanno affatto trascurato questa possibilità che nelle stragi vi possano essere stati apporti esterni a cosa nostra. La logica di quella pista investigativa sta tutta nella oggettiva contrarietà di quegli eventi rispetto all’interesse delle organizzazioni mafiose. Specialmente dopo l’eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta la reazione dello Stato fu molto forte, tant’è che la mafia perdette la sua principale arma: il consenso di larga parte dei territori che allora erano controllati dalla mafia. E’ chiaro che è difficile arrivare a dimostrare processualmente un apporto esterno al terrorismo mafioso, ma comunque bisognerà far di tutto per capire le ragioni vere della scelta stragista degli anni Novanta, così contraria ai concreti interessi di cosa nostra ed al suo tradizionale modo di operare. C’è un ampio passaggio del libro in cui lei scrive del tentativo, da parte di qualcuno, di indurla ad assegnare Provenzano a L’aquila. Scrive, anche,

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della sottrazione di un fascicolo. Considerato che nessuno poteva entrare dall’esterno, è davvero inquietante che possa succedere una cosa del genere. Potrebbe voler dire che all’interno del Dipartimento c’erano persone che non rispondevano del loro operato solo all’Amministrazione di appartenenza? La vicenda dell’assegnazione di Provenzano fu parecchio inquietante, ed in molti al Dap se la ricordano bene. All’epoca fui molto formale nel mettere in luce le ragioni delle scelte che andavano adottate, a beneficio della chiarezza del nostro operato. Anche quando avvenne l’episodio della sottrazione del fascicolo presentammo immediatamente denuncia all’autorità giudiziaria. Ho sempre ritenuto che il compito della direzione detenuti sia quello di assicurare il rispetto di regole certe per garantire tutti: innanzitutto lo Stato-collettività e le sue necessità di giustizia e di prevenzione; ma anche gli agenti che rischiano con l’attività di servizio e le traduzioni, e i detenuti i cui trasferimenti vanno adottati con trasparenza e nel pieno rispetto della legge. Ecco perché ho sempre fatto in modo di impedire che soggetti estranei potessero ingerirsi nelle competenze del nostro ufficio. Ma so bene, per averla studiata, che la storia delle carceri speciali fin dagli anni settanta è stata piena di infiltrazioni e di infedeltà interne ed esterne. Basti pensare a quel che accadde al collega Giovanni D’Urso, il cui rapimento venne organizzato ed eseguito dal capo brigatista prof. Senzani uno dei più assidui frequentatori dell’amministrazione penitenziaria. Chi lo aveva introdotto e chi lo informava di tutto ciò che D’Urso faceva? Nel suo libro lei ripercorre la genesi del 41 bis. L’aver vincolato la decisione finale al parere di più organi (la Procura Nazionale e quelle distrettuali antimafia), pensa che sia stato utile anche a rendere meno vulnerabili (soprattutto agli occhi dei destinatari dei provvedimenti) coloro

che assumono la decisione finale e, quindi, lo stesso provvedimento? In effetti il 41bis continua ad essere una scelta conseguente ad una decisione politica. Il problema è che trattandosi di uno strumento proprio della prevenzione penale, non è possibile rinunciare all’apporto di conoscenze che proviene dalle procure distrettuali e dalla procura nazionale antimafia. Ciò oltre a conferire al provvedimento ministeriale maggiore efficienza e resistenza rispetto a possibili censure dei tribunali di sorveglianza, ne rende più trasparente l’applicazione. E dunque, in una ottica di partecipazione allargata alle scelte di prevenzione, la collaborazione con gli uffici requirenti rappresenta una sinergia a parer mio irrinunciabile. La ricostruzione di ciò che accadde nel 1993, con il venir meno di 334 decreti 41bis in mancanza di adeguate ragioni, rafforza questo mio convincimento. Secondo lei, la corretta gestione del 41 bis e dei mafiosi in generale ha dato anche maggior prestigio all’Amministrazione e, soprattutto, al Corpo di Polizia Penitenziaria?

all’esterno questa professionalità. Venti anni di prevenzione ai massimi livelli nelle sezioni 41bis; il sacrificio eroico di due agenti, Giuseppe Montalto e Luigi Bodenza; una specializzazione che passa attraverso il Gruppo Operativo Mobile: gli ingredienti ci sono tutti per affermare questo ruolo di eccellenza. Come in tutte le cose che ha fatto, che possa piacere o no, la polizia penitenziaria non è seconda a nessuno. Basta guardare come sono crollate le statistiche delle evasioni dalle traduzioni, da quando ha assunto questo servizio. Non so però se questi risultati, frutto di un lavoro serio ma troppo poco conosciuto, hanno avuto il giusto risalto rispetto alla pubblica opinione. Nel libro lei parla in più parti di Nicolò Amato. Era inevitabile farlo, visto il ruolo che Amato ha avuto nell’Amministrazione penitenziaria. Lei lo assolve dalle critiche che negli ultimi tempi gli sono piovute addosso, proprio per quanto riguarda il 41 bis. Qualche dubbio sembra restare, invece, sull’operato del ministro Conso. Lo fa sulla base degli atti in suo pos-

Credo che oggi la polizia penitenziaria possa rivendicare un ruolo di primo piano nella prevenzione antimafia. Tutto sta nella capacità di comunicare SEBASTIANO ARDITA (Catania, 1966) è entrato in magistratura nel1991. È stato Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Catania e componente della Direzione Distrettuale Antimafia. Nel 2000 si è trasferito a Roma come consulente a tempo pieno della Commissione Parlamentare Antimafia. Dal 2002 è a capo della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, nel Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Si è occupato del regime speciale 41 bis, ma anche di assistenza, recupero e reinserimento dei detenuti.

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Nella foto Sebastiano Ardita

Studioso della questione penitenziaria, è il rappresentante italiano nel board della Conférence Permanente Européenne de la Probation, l’istituzione europea che promuove le misure alternative al carcere. È autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto penale, procedura penale e diritto penitenziario.

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sesso, con grande onestà intellettuale. Con altrettanta onestà intellettuale le chiedo: «Con Amato alla guida del Dipartimento le cose andrebbero meglio di come sono andate negli ultimi anni e di come vanno adesso, in particolare?» Amato, al di là delle critiche che gli sono state rivolte, ha rappresentato la continuità rispetto al fermento culturale degli anni Settanta. Si è fatto continuatore di una scuola di pensiero, ha avuto il tempo e gli strumenti per attuare un progetto, e si è circondato di persone competenti e capaci, che avevano conosciuto la stagione degli anni di piombo. Aveva avuto un mandato ampio e lo ha saputo attuare mentre i governi della prima repubblica si alternavano confermandogli la propria fiducia. Era un garantista, e non ne faceva mistero. Ma non abituato a lavorare sottobanco. La verità storica é che negli atti compiuti sotto la sua gestione non si ravvisano né insabbiamenti, né accomodamenti. E questa è la conseguenza della

SEBASTIANO ARDITA

RICATTO ALLO STATO SPERLING & KUPFER Edizioni pagg. 100 - euro 18,60

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i legge d’un fiato l’ultima fatica letteraria di Sebastiano Ardita, magistrato catanese a capo dell’Ufficio detenuti e trattamento del Dap. Ricatto allo Stato, edito per i tipi di Sperling & Kupfer, si caratterizza, oltre che per una gradevole e scorrevole prosa, per una compiuta analisi del carcere duro previsto dal 41bis e del sistema carcere nel suo insieme. Argomenti non facili, trattati da chi conosce professionalmente entrambi molto bene, che ci offre una interessante e diretta testimonianza sull’evoluzione normativa e organizzativa dello strumento del 41bis e anche delle strutture carcerarie ordinarie. Ardita si muove agilmente in un campo minato, in un percorso storico irto di insidie ed ostacoli in cui non sono mancate la di-

presenza accanto a lui di magistrati esperti e coraggiosi. Tutti loro furono licenziati senza ricambio nel 1993. E abbiamo visto cosa accadde subito dopo. Oggi il sistema politico è mutato, i governi sono più stabili, ma non i vertici delle amministrazioni pubbliche che risentono dello spoyl sistem ad ogni cambio di maggioranza. In questo contesto il ruolo del magistrato al DAP rimane profondamente diverso da quello di tutti gli altri. Egli deve garantire giustizia nella esecuzione della pena; trasparenza nei processi decisionali; correttezza nei rapporti con l’attività giudiziaria. In definitiva dalle sue scelte non solo può dipendere il rapporto qualità|quantità della pena, (che non è solo conseguenza del fattore tempo), ma anche la efficienza di alcuni servizi connessi alle attività investigative e processuali. Ecco perché è bene che in questi ruoli ci sia un magistrato. Perché anche se è inserito nella gerarchia ministeriale, la sua carriera in ultima analisi non dipende da quella gerarchia. Egli, in virtù della li-

sinformazione e le inquietanti anomalie. Il racconto muove dall’ingresso in carcere di Bernardo Provenzano alla conclusione dell’ultraquarantennale latitanza e dal biennio 1992/94 - con l’introduzione del 41 bis per i mafiosi, le stragi mafiose in Sicilia e poi nel continente, e l’anomala gestione del carcere duro nel passaggio fra la Prima e la cosiddetta Seconda Repubblica - per poi proseguire con l’esperienza personale di Ardita al Dap. Il merito principale dell’Autore, a mio avviso, è quello di scrollare dal dibattito pubblico su questi temi leggende metropolitane, falsità e mistificazioni che hanno spesso ammorbato l’informazione sulla realtà penitenziaria e sulle più che probabili deviazioni istituzionali che nel secondo semestre del 1993 accompagnarono il rapporto fra Cosa Nostra e il 41bis. Non a caso, proprio nelle pagine del libro dedicate ai primi mesi di carcerazione del boss Provenzano, Ardita racconta le costanti false notizie divulgate a mezzo stampa finalizzate a condizionare la destinazione carceraria del capomafia corleonese per permettergli un contatto con l’altro boss

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bertà che ha di lasciare l’incarico e tornare nel suo ruolo ordinario, può andarsene tutte le volte che ritenga di non essere in grado di svolgere con pienezza il suo delicato ruolo. Piuttosto occorrerà interrogarsi se non sia giusto che il CSM intervenga con valutazioni più pregnanti sulla competenza ed idoneità degli aspiranti a ricoprire ruoli all’interno dell’amministrazione penitenziaria, come avviene per alcuni incarichi internazionali. E sarebbe anche il caso che si interessasse alla persistenza di tutte le condizioni che garantiscano al magistrato del DAP quel quid di indipendenza, che è indispensabile per l’esercizio di una funzione – sia pure amministrativa – che incide sulla libertà personale dei cittadini, a volte più di quanto non accada con le funzioni giudiziarie. Non è dunque solo un problema di persone, ma di passione, di indipendenza, di selezione. A pagina 141 del libro lei scrive: «Fa bene alla giustizia che i magistrati

mafioso, Piddu Madonia di Caltanissetta, in un contesto torbido che non esime il pur prudente Autore a a scrivere: «Qualcuno evidentemente ci stava monitorando o aveva infiltrato degli informatori».

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a cura di Erremme

vedano cosa succede in carcere...» In Germania, i magistrati, all’inizio della loro carriera, vanno a fare i direttori di carcere, poi vanno a fare i magistrati e, dopo alcuni anni, possono tornare a fare definitivamente in direttori. Quindi, i direttori sono ex magistrati. Inoltre, la concessione dei benefici penitenziari è affidata ai direttori penitenziari. Cosa ne pensa? Si potrebbe fare anche in Italia?

In una prospettiva di riorganizzazione dei compiti e delle funzioni, quale potrebbe essere il ruolo futuro della Polizia Penitenziaria, sia nell’Amministrazione penitenziaria, sia nei rapporti con le altre Forze di Polizia.

In Italia vi è un ordinamento diverso, e dunque sono stati istituiti ruoli diversi, oramai calcificati e difficilmente superabili. Ma è chiaro come le scelte amministrative di gestione del carcere e quelle di giustizia finiscano per avere un denominatore comune. Questa funzione di raccordo tra giurisdizione sui diritti e gestione penitenziaria la svolgono, ciascuno per parte propria, i magistrati di sorveglianza e quelli del DAP, che prima del nuovo ordinamento del 1975 avevano le funzioni che oggi svolge la sorveglianza.

Per le ragioni che ho esposto prima, il corpo di polizia penitenziaria merita di essere considerato oggi un presidio di legalità al servizio della giustizia penale nel suo complesso e non solo del carcere. Se la pena evolve verso soluzioni diverse dall’esperienza detentiva, anche la polizia penitenziaria dovrà spostare le sue competenze aldilà delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale. Il futuro dunque è chiaro. Polizia penitenziaria negli UEPE, coinvolgimento nelle attività di esecuzione, e perché no, come avviene in america nella protezione dei testimoni e nella cattura dei latitanti. Occorre che però ci si creda davvero, “laddove si puote...”

Centrale è la ricostruzione, corredata da precise citazioni documentali e circostanze inedite, di quel che avvenne nel 1993, a cavallo delle stragi di Firenze, Milano e Roma e prima della programmata strage allo Stadio Olimpico: in particolare di quel che avvenne al Dap nel 1993, compresa l’inquietante sparizione di delicati fascicoli dal palazzaccio di largo Daga. Quel che qui mi preme sottolineare è il ricorrente apprezzamento che Sebastiano Ardita fa degli uomini e delle donne della Polizia Penitenziaria e del duro e difficile lavoro che quotidianamente sono (siamo) chiamati a svolgere. Cita il caso dell’improvviso e straordinario trasferimento dei detenuti ospiti al carcere dell’Aquila, terrorizzati dallo sciame sismico che precedette il disastroso terremoto del 6 aprile 2009, in quello di Spoleto e con quale professionalità i Baschi Azzurri sanno gestire l’emergenza. Tanto da scrivere: «Questa è la Polizia Penitenziaria, capace di fare miracoli nell’emergenza, senza guardare al tempo, al risparmio, ai sacrifici». O della vita salvata dai Baschi Azzurri a

Totò Riina, colpito da infarto – «quegli agenti avevano dato la più grande lezione di legalità e di coraggio che si potesse immaginare. Avevano sancito il trionfo della cultura della legalità, che appartiene allo Stato, sulla subcultura criminale della vendetta, che è tutta della mafia” -. Mi ha commosso il toccante ricordo che Ardita fa dei nostri valorosi colleghi trucidati dalla mafia, Luigi Bodenza e Giuseppe Montalto. Del tutto condivisibili, infine, le considerazioni dell’Autore sulla quotidianità penitenziaria con le sue problematiche, per risolvere le quali suggerisce quel nuovo ruolo operativo per la Polizia Penitenziaria che da tempo il nostro Sindacato sostiene. E’ dunque un libro da consigliare e da leggere, questo di Ardita, per chi vuole avere memoria del 41bis, delle stragi mafiose, della trattativa tra Cosa Nostra e le istituzioni. Ma anche per chi davvero vuole comprendere la criticità penitenziaria italiana e l’importante ruolo in esso svolto dal Corpo di Polizia Penitenziaria. Roberto Martinelli

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DONATO CARRISI

IL TRIBUNALE DELLE ANIME LONGANESI Edizioni pagg. 445 - euro 18,60

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opo lo straordinario successo de Il Suggeritore, Donato Carrisi torna nelle librerie con Il tribunale delle anime e non è difficile prevede che questo suo nuovo thriller, di sicuro uno dei più attesi titoli italiani del 2011, sarà un best seller. Roma è battuta da una pioggia incessante. In un antico caffè, vicino a piazza Navona, due uomini esaminano lo stesso dossier: una ragazza è scomparsa. Forse è stata rapita, ma se è ancora viva non le resta molto tempo. Uno dei due uomini, Clemente, è la guida; l’al- la copertina tro, Marcus, è un cacciatore del buio, ad- del libro destrato a riconoscere le anomalie, a scovare il male e a svelarne il volto nascosto. Perché c’è un particolare che rende il caso della ragazza scomparsa diverso da ogni altro. Per questo solo lui può salvarla. Ma, sfiorandosi la cicatrice sulla tempia, Marcus è tormentato dai dubbi. Come può riuscire nell’impresa a pochi mesi dall’incidente che gli ha fatto perdere la memoria? Anomalie. Dettagli. Sandra è addestrata a riconoscere i dettagli fuori posto, perché sa che è in essi che si annida la morte. Sandra è una foto rilevatrice della Scientifica e il suo lavoro è fotografare i luoghi in cui è avvenuto un fatto di sangue. Il suo sguardo, filtrato dall’obiettivo, è quello di chi è a caccia di indizi. E di un colpevole. Ma c’è un dettaglio fuori posto anche nella sua vita personale. E la ossessiona. Quando le strade di Marcus e di Sandra si incrociano, portano allo scoperto un mondo segreto e terribile, nascosto nelle pieghe oscure di Roma. Un mondo che risponde a un disegno superiore, tanto perfetto quanto malvagio. Un disegno di morte. Perché quando la giustizia non è più possibile, resta soltanto il perdono. Oppure la vendetta. Questa è la storia di un segreto invisibile eppure sotto gli occhi di tutti. Questa è la storia di un male antico ed eterno e di chi lotta per contrastarlo. Questa è una storia basata su fatti veri, ispirata a eventi reali: la sfida non è crederci, ma accettarlo.

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a cura di Lady Oscar Redazione Sportiva rivista@sappe.it

Matteo Betti: argento e bronzo ai Campionati Mondiali di Catania 2011

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In alto il logo dei Campionati Mondiali di Scherma di Catania 2011 nelle foto a fianco Matteo Betti sotto Marco Cima e Matteo Betti

uello di Catania, svoltosi dal 9 al 16 ottobre, è stato il mondiale dei record con ben 118 nazioni partecipanti (a Parigi nell’edizione dello scorso anno sono state 96), gli atleti, tra olimpici e paralimpici presenti sono stati 1600 ed incredibile è stato anche l’afflusso in città di oltre 30000 persone giunte ad assistere alla massima rassegna internazionale dopo le olimpiadi, accolti in Sicilia nell’ambiente caldo e accogliente di una città da sempre a forte vocazione turistica. Una rassegna iridata che peraltro è stata molto fortunata per i colori azzurri con ben 11 medaglie finali :4 ori, 4 argenti e 4 bronzi, ed un bottino a cui hanno preso parte anche le Fiamme Azzurre grazie al campione paralimpico e schermidore della sezione Matteo Betti. Il nostro atleta non è riuscito a mettersi al collo la medaglia nella prova di fioretto individuale ma si è riscattato alla grande conquistandone due, un bronzo nella spada individuale ed un argento nella prova a squadre. L’inizio della sua gara sulle pedane del Palaghiaccio è stato proprio nella gara che alla fine della rassegna risulterà per lui la più deludente, il fioretto individuale, che non lo ha fatto salire sul podio e che certamente come risultato iniziale non era proprio il massimo per motivare il proseguimento delle prove. Ma orgoglio e carattere fanno parte del suo Dna ed è quindi è riuscito nonostante l’esordio a concludere alla grande. Nella fase a gironi del fioretto ha eliminato prima il britannico Wilson, poi il cinese di Hong Kong Tang Tat, poi il russo Andreev e l’iraqeno Zainulabdeen e l’ostico ungherese Juhasz. Nei trentaduesimi Matteo ha continuato superando l’ucraino Mykhaylo Bazh finché nei quarti è incappato nel cinese Ye Ru Yi (vincitore dell’oro finale) , che ha fermato Matteo con un 15-7 con la consolazione per lui di essere stato nel fioretto, che ha regalato pochi sorrisi a tutti gli azzurri di Catania nelle prove individuali, il migliore della rappresentativa italiana. Matteo Betti non ha tardato però a ri-

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farsi: nella spada è stato bravo a cogliere un bel bronzo alle spalle del polacco Dariusz Pender e del francese Romain Noble. Nella fase eliminatoria ha raccolto tre vittorie su cinque incontri contro il tedesco Nordmann, l’ucraino Bazhukov e l’iracheno Zainulabdeen, cedendo poi all’ungherese Gyula Mato ed il cinese Wong Tang Tat. Dopo aver eliminato il kuwaitiano Al Haddad negli ottavi, il nostro campione ha eliminato il cinese Chang Lei (15-9) e nei quarti si preso la rivincita sull’ungherese che lo aveva fermato nei quarti del fioretto, quel Gyula Mato battuto infine qui per 15-13. Sarà poi il polacco Pender a negargli l’accesso in finale dopo il 4-15 subìto. Però il prezioso bronzo finale è rimasto in ogni caso al suo collo. Nella prova di fioretto a squadre del 14 ottobre, insieme agli altri compagni di squadra Andrea Macrì, Marco Cima e Alessio Sarri, Matteo è arrivato fino all’assalto finale valevole per l’oro contro la Cina. Eliminati senza appello i britannici negli ottavi per 45-15, vinti i francesi di misura con 45-44, con Betti che ha fornito un contributo decisivo mettendo a segno un 7-4 con Alim Latreche, 8-4 con Moez El Assine ed infine il 7-4 con Ludovic Lemoine, la semifinale si è conclusa con 45-39 sugli ungheresi. Nella finalissima per il titolo la prestazione di Betti non è servita agli azzurri per evitare una sconfitta per 29-45 dai fortissimi cinesi. Al termine degli assalti sarà un ottimo argento per il team azzurro con una personale prova molto soddisfacente per Matteo che fa già guardare a Londra 2012 dove, più maturo e più determinato, cercherà di migliorare i piazzamenti di Pechino 2008, quando fu 5° individuale nel fioretto e 7° nella spada. A Catania sono giunte le ultime due medaglie di una lunga serie di successi, nazionali ed internazionali che Matteo ha conquistato nella sua brillante e ancora lunghissima carriera. Senese di nascita ma da lungo tempo a Roma avendola scelta come sede di allenamento, Matteo Betti è uno schermidore disabile del settore paralimpico delle Fiamme Azzurre. E’ entrato a far parte del gruppo spor-

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tivo della Polizia Penitenziaria nell’aprile 2011, dopo aver militato a lungo nel Club Scherma Roma. Nonostante sia stato colpito da emiparesi dopo un’emorragia celebrale in sala parto non ha mai rinunciato a coltivare la sua passione per la scherma sin dall’età di 5 anni. Ha tirato di scherma in piedi dal 1991, poi nel 2005 ha scoperto la versione in carrozzina con «la semplice trasposizione” - a suo dire - delle nozioni acquisite dall’una all’altra» anche se la cosa non è così semplice e scontata. Seguito a Siena dal tecnico Francesco Montalbano ed a Roma dal tecnico nazionale Fabio Giovannini, è un agente di Polizia Penitenziaria dal curriculum di tutto rispetto. Tra i suoi successi figurano l’oro di Montreal nel fioretto, i 3 argenti tra Varsavia (fioretto) e Lonato (fioretto e spada) e l’oro nei fioretto a Bangalore, India, lo scorso novembre, risultato che gli è valso il titolo di campione mondiale di fioretto disabili. In finale a Bangalore ha superato il campione olimpico in carica, il cinese Ruy Ye, che si è dovuto arrendere sul punteggio di 15-11. Tra le sue passioni c’è l’amore per il cinema e soprattutto per i film di fantascienza. E’ studente in Scienze della Comunicazione. Caratterialmente Matteo è una persona ambiziosa, scaramantica e diplomatica.

A Siena è rimasta la sua famiglia ma la lontananza da casa è nulla in confronto alla voglia di raggiungere i suoi obiettivi agonistici. Al di fuori delle competizioni e del suo sport ama il cinema, in particolare i film di fantascienza e le storie futuristiche. In cima alla sua top ten ideale dei film ce ne è uno, “Il Dottor Stranamore di Kubrik, film grottesco e fantapolitico. Ha iniziato con la scherma per divertimento, poi dal 2005, dopo aver vinto inaspettatamente un oro ed un argento ai campionati italiani, il bronzo a squadre agli europei e, nel 2006 l’argento a squadre ai mondiali ha capito che poteva investire sul serio sulle sue enormi potenzialità di schermidore. Tra il fioretto e la spada predilige il primo, che sente più vicino alle sue caratteristiche di tiratore riflessivo. Il 5° posto raggiunto alle paralimpiadi di Pechino gli è andato un po’ stretto. I suoi avversari più temibili sono stati, e sono tutt’ora sulla scena mondiale, i cinesi, ma lo scontro al vertice contro di loro si può stare tranquilli che è solo rimandato. Tra le vittorie che gli sono rimaste particolarmente care c’è stata la prima affermazione individuale agli Europei 2007, quando ha vinto un oro a sorpresa ...sorpresa per gli altri ha affermato Matteo dopo.

il medagliere di Matteo Betti

2005 - Madrid Bronzo Fioretto a squadre; 2007 - Varsavia Oro Fioretto individuale, Argento Fioretto a squadre; 2009 - Varsavia Bronzo Spada individuale.

di Fioretto (Montreal, Lonato, Varsavia, Bangalore); 2009 - 3° classificato nella classifica generale di CdM di Spada (Montreal, Lonato). 2010 - 1° classificato e vincitore della classifica generale di CdM di Fioretto (Montreal, Montreal sq., Lonato,Varsavia, Eger, Eger sq.) 2010 - 3° classificato nella classifica generale di CdM di Spada (Montreal, Varsavia, Eger).

Coppa del Mondo

Giochi Paralimpici Pechino 2008

2006 - 3 medaglie in stagione di CdM di Fioretto (Hong Kong sq., Lonato, Lonato sq.) 2007 - 2° classificato nella classifica generale di CdM di Spada (Valencia, Montreal, Parigi); 2008 - 1° classificato e vincitore della classifica generale di CdM di Fioretto (Montreal, Lonato, Varsavia); 2009 - 1° classificato e vincitore della classifica generale di CdM

5° classificato nel Fioretto; - 7° classificato nella Spada.

Titoli Italiani individuali Fioretto: 2007/2008/2009/2010; Spada: 2005/2006/2007/2008/2009/2010/2011. Campionati Europei

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Campionati del Mondo 2006 Torino - Argento Fioretto a squadre; 2010 Parigi - Bronzo Fioretto individuale; 2010 Parigi - Bronzo Spada individuale, 2011 Catania - Argento Fioretto a squadre, Bronzo Spada,.

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Nelle foto a fianco la squadra di fioretto vincitrice della medaglia d’argento a Catania 2011 sotto ancora una immagine di Matteo Betti


a cura di Ciro Borrelli rappresentante Sappe ICF Roma info@sappe.it

Il Presidente Napolitano visita l’Istituto Minorile di Nisida

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Nella foto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il Cardinale Crescenzio Sepe

l Presidente Giorgio Napolitano ha condannato con vigore la situazione delle prigioni italiane, dal carcere minorile di Nisida, tappa della seconda e ultima giornata di visita a Napoli. Al fianco del ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, il Capo dello Stato ha risposto alle domande dei giovani detenuti, che hanno spaziato dalla Costituzione alle possibilità di ripresa economica del Sud, fino alla domanda sul sovraffollamento a cui Napolitano ha risposto ribadendo la necessità di intervenire, ma sottolineando che l’amnistia non è una soluzione. I ragazzi del carcere hanno organizzato anche uno spettacolo per il Presidente della Repubblica che ha ascoltato le loro esibizioni in napoletano. La visita del Presidente è stata segnata da un’accoglienza calorosa in ogni luogo visitato, dal Rione Sanità alla chiesa di San Gennaro Extra Moenia, dove è avvenuto l’incontro col cardinale Crescenzio Sepe. Il servizio di sicurezza e tutta l’attività logistica che ha interessato l’area è stata curata con estrema professionalità e competenza dal personale del Corpo di Polizia Penitenziaria.

Continua il nostro viaggio tra le strutture del Dipartimento Minorile: Nisida

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eograficamente l’isola di Nisida appartiene all’arcipelago delle Isole Flegree a pochissima distanza da Napoli. E’ la sommità di un piccolo vulcano spento che emerge dal mare per un’altezza di poco superiore ai 100 metri per un’estensione di circa 30 ettari. Attualmente l’isola è collegata alla terraferma da un pontile in pietra e non è visitabile senza autorizzazione, perché presidiata dal Corpo di Polizia Penitenziaria e dalle Forze Armate per la presenza dell’Istituto Penale Minorile e di

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una Base militare a disposizione della NATO. Da un punto di vista storico, nel 1934 sull’isola di Nisida venne insediato un Riformatorio Giudiziario Agricolo, poi trasformato in Casa di Rieducazione. Era, questa, una struttura dove veniva svolta l’opera di recupero dei minori irregolari nella condotta o nel carattere quando il neonato Tribunale dei Minori (Regio Decreto n.1404 del 1934) riteneva opportuno che la rieducazione avvenisse in contesto istituzionale. Nelle case di rieducazione potevano anche essere collocati i minori entrati nel circuito penale, che fossero o meno sottoposti a carcerazione preventiva, oppure minori prosciolti per incapacità di intendere e di volere senza che fosse stata loro applicata una misura di sicurezza detentiva o prosciolti per concessione del perdono giudiziale o sottoposti a pena ma con sospensione condizionale della stessa. L’istituto di Nisida era il prototipo del modello fascista di rieducazione dei minorenni. Nel corso degli anni, sull’isola sono state sperimentate tutte le diverse modalità di intervento in favore dei minori e che hanno scandito, nel tempo, le diverse fasi della politica minorile; così dalla Casa di Rieducazione, che ospitava anche ragazzi sottoposti a misure amministrative, la struttura si è

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Nelle foto Una veduta di Nisida vista da Coroglio nel riquadro sopra una immagine del 1900 dell’isola sotto l’ingresso del Centro Studi Europeo


Roma: Minori in Giustizia Esperienze e proposte per il futuro ICF Roma 20 settembre 2011

I trasformata prima in Istituto di Osservazione Minorile e, dalla fine degli anni ‘80, in Istituto Penale Minorile. Con decreto del 31 marzo 2003, il Ministro della Giustizia ha istituito, nell’ambito del Dipartimento per la Giustizia Minorile, il Centro Europeo di studi sulla devianza e sulla criminalità giovanile, con sede in Nisida, allo scopo di sviluppare insieme ai Paesi dell’Unione Europea, politiche di contrasto alla devianza ed alla criminalità minorile. Attualmente l’isola ospita una pluralità di strutture, gestite e controllate sotto il profilo della sicurezza dal personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, diversamente orientate sia per tipologia di utenza che per progetti educativi. Oltre quindi all’IPM, che accoglie sia un’utenza maschile sia femminile sottoposta a provvedimenti penali, sull’isola è presente una struttura comunitaria dell’amministrazione della Giustizia Minorile e i laboratori del Progetto Nisida: futuro ragazzi (realizzati in partenership con il Comune di Napoli), destinati a minori e giovani sia a rischio che sottoposti a provvedimenti penali.

l Dipartimento per la Giustizia Minorile, in collaborazione con il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, ha organizzato per il giorno 28 settembre 2011 un importante convegno, che si è tenuto presso l’Istituto Centrale di Formazione di Roma. All’evento hanno partecipato, oltre al Presidente Dott. Bruno Brattoli Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile, autorevoli personalità del mondo della Giustizia Minorile e della politica, tra cui l’On.le Livia Turco, Commissione Affari sociali Camera dei Deputati e l’On.le Rita Bernardini, Com-

missione Giustizia Camera dei Deputati. Durante i lavori è stato fatto il punto sulla situazione attuale del settore minorile e si sono indicate le linee guida che la politica dovrà percorrere nel futuro in questo campo. Preposto a coordinare il convegno sotto l’aspetto organizzativo il personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso l’Istituto Centrale di Formazione di Roma, il quale nonostante l’ormai nota carenza di personale ha lavorato con estrema professionalità e competenza. Servizio e foto di Ciro Borrelli

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Reggio Emilia: manifestazione delle Forze di Polizia Il Segretario Generale del SAPPe Donato Capece accompagna i Poliziotti in piazza e dichiara: «Non possiamo garantire la sicurezza dei cittadini, la Polizia Penitenziaria già da mesi soffre di una cronica mancanza di mezzi e di personale»

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Reggio Emilia la manifestazione del 18 ottobre 2011 ha avuto un grande risalto mediatico. Folta partecipazione non solo di agenti, come facile immaginare, ma anche di cittadini che si sono dimostrati sensibili ai motivi della protesta svoltasi in mattinata nella centralissima piazza del Monte.

Alessandria e Reggio Calabria: il Sappe in piazza per manifestare con le altre Forze di Polizia

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l 18 ottobre 2011 anche le rappresentanze del SAPPe di Alessandria e Reggio Calabria erano in piazza con le altre Forze di Polizia manifestando contro i tagli apportati al Comparto. Sopra ad Alessandria e sotto a Reggio Calabria.

Roma: cintura nera per Mauro Casale

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onseguimento della cintura nera di Judo 1° dan dell’Assistente di Polizia Penitenziaria Mauro Casale, il quale attualmente ricopre l’incarico di addetto alla Sorveglianza Generale presso l’Istituto Penale per i Minorenni di Roma. Il collega, tesserato FIJLKAM e appartenente all’A.S. Banzai Cortina di Roma, prima società del Lazio e seconda in Italia in ordine di importanza con a capo il Presidente Cinzia Amici (6° dan), il 3 luglio 2011 presso il Palafijlcam di Ostia è stato promosso al grado di cintura nera 1°dan. La presenza di un collega bene addestrato alla difesa personale, rappresenta una maggiore sicurezza per tutti i colleghi in servizio nei reparti detentivi. Ancora congratulazioni dai colleghi e dalla Redazione.

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Pescara: Abruzzo e Molise contrari alla distribuzione decentrata del Fesi per l’anno corrente

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e Segreterie Regionali dell’Abruzzo e Molise del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPe, esprimono la propria totale contrarietà alle ipotesi di distribuzione prospettata. Si è, infatti, dell’avviso che l’ammontare complessivo riservato stanziato, stante le criticità connesse all’endemico sovraffollamento ed all’altrettanto costante grave carenza di personale di Polizia nei Reparti degli Istituti abruzzesi e molisani, debba essere assegnato a tutto il personale di Polizia Penitenziaria perchè tutte le unità concorrono a fronteggiare l’emergenza. Non ha, infatti, senso, a nostro avviso, incidere per poche decine di centesimi in un posto di servizio piuttosto che in un altro. Oggi, infatti, con la drammatica situazione che si è venuta a creare nelle carceri, il F.E.S.I. deve essere considerato soltanto come un parziale indennizzo per le gravose condizioni di lavoro nelle quali è costretto a prestare servizio TUTTO il personale del Corpo. Queste sono le ragioni per le quali il F.E.S.I. non può più essere più considerato uno strumento per combattere l’assenteismo, perché non è più possibile escludere parte del personale dalla retribuzione accessoria. E’ quindi irrazionale oltre che assurdo ragionare, oggi, su chi debba essere escluso dagli incentivi, perché nella situazione di disagio lavorativo in cui oggi si trovano gli istituti abruzzesi e molisani nessuno dovrebbe essere escluso da parte della retribuzione. Le Segreterie Regionali dell’Abruzzo e Molise coerentemente con la decisione assunta a suo tempo dalla Segreteria Generale di non sottoscrivere l’Accordo Nazionale e per i motivi sopra esposti non firmano l’Accordo di distribuzione in sede decentrata per le Regioni Abruzzo e Molise.

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100 anni per Aniello Botti

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l priore onorario della Confraternita del S.S. Rosario di Sessa Cilento, Aniello Botti, padre dell’ispettore superiore, in congedo, Pasqualino Botti segretario Provinciale A.N.P.Pe., ha compiuto 100 anni il 20 settembre scorso. Hanno coronato il festeggiato i suoi cari, l’intera comunità di Sessa Cilento, suo paese natale, il Sindaco, i rappresentanti del Consiglio comunale e i soci della Confraternità, che hanno omaggiato di una targa ricordo. Don Aniello si è sempre speso per la comunità. Nato il 20 settembre 1911, tra il 35’ e il 36’ partecipa alla Guerra in Africa Orientale come artigliere. Al ritorno in patria conduce una vita esemplare, in cui speciale è la dedizione alla Confraternita. Col priore dell’epoca si adopera per la costruzione della Cappella del cimitero. Per questo duraturo impegno viene nominato, nel 1997 priore onorario. Ora vive con suo figlio ed è sempre circondato dall’affetto della sua famiglia.

Olevano Tusciano (SA): campionato di motocross

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omenica 2 ottobre 2011 sul Crossodromo Arena Bianca di Olevano sul Tusciano (Sa) si è tenuta la quinta prova del Campionato Regionale di Motocross campano. Il tracciato è stato preparato nei dettagli dall’esperto pilota Massimiliano Coda che con il suo staff ha garantito una buona irrigazione consentendo l’intero svolgimento della gara senza polvere e con un adeguato numero di ufficiali di percorso. A garantire il corretto svolgimento della manifestazione c’erano due poliziotti del Sappe, Ufficiali di Gara della Federazione Motociclistica Italiana: l’Assistente Capo Nunzio Sandulli e il Vice Sovrintendente Ciro Borrelli.

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a cura di Giovanni Battista De Blasis

Vanilla Sky

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In alto la locandina sotto alcune scene del film

vento molto raro per il cinema, Vanilla Sky è il remake di un film spagnolo di appena quattro anni prima: Apri gli occhi del regista Alejandro Amenàbar. Trasposto oltre oceano da Cameron Crowe, Vanilla Sky (il titolo è ispirato ad un quadro di Monet esposto nella casa del protagonista), racconta di David Aames (interpretato da Tom Cruise) un ricco ed affascinante giovane proprietario di una casa editrice.L’azienda, lasciatagli in eredità dai genitori morti in un incidente stradale, è controllata da un consiglio di amministrazione, che David chiama I Sette Nani (che a loro volta chiamano lui Quarto Cazzone), che tenta continuamente di estrometterlo dalla società. Il film si svolge in flashback attraverso il racconto che David espone ad uno psichiatra, il dottor Curtis McCabe, nella cella di una prigione. David è in prigione perché accusato di omicidio e McCabe è stato incaricato dal tribunale di tracciare il suo profilo psicologico. Il racconto di David inizia dalla notte della sua festa di compleanno quando un amico gli presenta una ragazza di nome Sofia Serrano, della quale egli si innamorerà a discapito di Julianna Gianni, ragazza con la quale aveva

fino ad allora un rapporto particolare. La mattina dopo la festa David incontra Julianna che lo invita a salire sulla sua auto, per parlare. Lei gli confessa, così, di essere innamorata di lui e infelice per non essere ricambiata lanciandosi da un ponte con la macchina insieme a lui. Julianna muore sul colpo mentre David viene ricoverato in condizioni disperate. Dopo tre settimane e mezzo di coma, si risveglia con una ricostruzione facciale mal riuscita e delle terribili emicranie, a causa delle placche d’acciaio impiantategli dai chirurghi per ricostruire parte del cranio. Fortunatamente i medici scoprono un modo per curare le emicranie e per ricostruire il volto così com’era, e lui e Sofia si potranno metteranno insieme. La felicità, però, non dura a lungo perché David comincia ad avere allucinazioni e si vede nello specchio com’era prima dell’operazione ricostruttiva finquando una notte dopo essersi addormentato assieme a Sofia, si risveglia accanto a Julianna. Questo shock lo convince che Julianna è ancora viva e, in preda a questa allucinazione, soffoca con un cuscino quella che crede essere Julianna, ma che in realtà è Sofia. Finisce qui il suo racconto al dottor McCabe, che decide di dare al giudice un parere di incapacità mentale temporanea. Mentre escono entrambi dalla cella, sul televisore del poliziotto penitenziario, rimasto acceso, compare uno spot di una compagnia chiamata Life Extension che propone di criogenizzare un corpo umano dopo la morte Insieme a McCabe e alla polizia, David va alla Life Extension e scopre che

Regia: Cameron Crowe ispirato al film Apri gli occhi scritto da Alejandro Amenábar e Mateo Gil Soggetto: Mateo Gil, Alejandro Amenábar Sceneggiatura: Cameron Crowe Musiche: Nancy Wilson Fotografia: John Toll Montaggio: Mark Livolsi, Joe Hutshing Scenografia: Catherine Hardwicke Costumi: Betsy Heimann Effetti: Digiscope, K.N.B. Effects Group, Snow Business International, Ranchworks Unlimited, The Orphanage, CFX, Cinesite, Digital Domain Produzione: Cruise-Wagner, Vinyl Films, Summit Entertainment, Artisan Entertainment, Sogecine Distribuzione: UIP - DVD Paramount (2002) Personaggi ed Interpreti: David Aames: Tom Cruise Sofia Serrano: Penélope Cruz Curtis McCabe: Kurt Russell

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nella vita reale, dopo l’incidente d’auto, ha firmato un contratto con quest’agenzia e dopo si è suicidato; il suo corpo è stato preservato e la sua mente è stata sottoposta al programma Lucid Dream, nel quale egli avrebbe potuto vivere la vita dei suoi sogni. Ma i sensi di colpa repressi, o qualcos’altro dentro la sua mente. hanno trasformato il sogno in un incubo e adesso deve fare una scelta: continuare a vivere il suo sogno, senza ricordare nulla dell’incidente, o ricominciare a vivere la vita reale, visto che la medicina (sono passati 150 anni dalla ibernazione) adesso può guarirlo.

Julie Gianni: Cameron Diaz Brian Shelby: Jason Lee Edmund Ventura: Noah Taylor Thomas Tipp: Timothy Spall Rebecca Dearborn: Tilda Swinton Aaron: Michael Shannon Assistente di David: Delaina Mitchell Colleen: Shalom Harlow Lynette: Oona Hart Emma: Ivana Milicevic Peter Brown: Johnny Galecki Jamie Berliner: Jhaemi Willens Dr. Pomeranz: Armand Schultz Barman: W. Earl Brown Libby: Alicia Witt Beatrice: Carolyn Byrne Carlton Kaller: Mark Pinter Raymond Tooley: Jeff Weiss Genere: Drammatico Durata: 136 minuti Origine: USA, 2001

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Giovanni Passaro passaro@sappe.it

Trasformazione dei rapporti di lavoro part-time

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i rivolgo a Voi dirigenti del SAPPe, per avere dei lumi rispetto alla recente normativa che ha innovato in materia di contratti di lavoro part-time. Nello specifico, l’Autorità Dirigente presso cui presto servizio, ha revocato l’autorizzazione a fruire del part-time (richiesto nel 2006 perché mamma di un bimbo invalido in situazione di handicap grave, che necessita di costante e continua assistenza) con la motivazione “esigenze di servizio, ai sensi della Legge 133/08”. Confido in una risposta, nell’attesa invio cordiali saluti. Lettera firmata

Gentile lettrice, a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 133 del 2008, c.d. collegato lavoro, l’art. 16 consente alle pp.aa. la possibilità di sottoporre a nuova valutazione le situazioni di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già realizzatesi alla data di entrata in vigore della normativa, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede. Nel caso in cui fosse necessario rivedere i part-time già in corso, l’Amministrazione dovrebbe far applicazione dei criteri legali e contrattuali, preferendo il ripristino del rapporto a tempo pieno per quei lavoratori la cui posizione non risulta assistita (o più assistita) da una particolare tutela. La norma prevede un potere eccezionale, che consente all’Amministrazione di modificare unilateralmente il rapporto in deroga alla regola generale di determinazione consensuale delle condizioni contrattuali, regola assistita nel caso del part-time da una speciale norma di garanzia contenuta nell’art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000, secondo cui il rifiuto di un lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno non costi-

tuisce giustificato motivo di licenziamento. L’eccezionalità della previsione è evidente nel momento in cui si considera che la normativa di derivazione comunitaria di cui al d.lgs. n. 61 del 2000 (attuazione della Direttiva 97/81/C E relativa all’accordo quadro sul lavoro concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES) prevede per l’ipotesi di modifica unilaterale delle condizioni del rapporto a tempo parziale specifiche garanzie in favore del lavoratore (art. 3 del citato decreto). E pertanto, la “gravosità” del potere accordato dalla legge richiede certamente una particolare attenzione nel momento del suo esercizio. In base alla norma, questa speciale facoltà poteva essere esercitata entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge (24 novembre 2010), scaduti il 23 maggio 2011. Dato il carattere di specialità della disposizione, l’esercizio della facoltà è stato delimitato entro un definito arco temporale. Pertanto, decorso questo termine, secondo il regime generale, un’eventuale modifica del rapporto di lavoro richiede comunque l’accordo tra le parti, salve le ipotesi in cui la legge o i CCNL prevedano un diritto potestativo del lavoratore alla successiva trasformazione del rapporto a tempo pieno e le situazioni di esercizio del potere unilaterale alle condizioni e nei limiti stabiliti dall’art. 3 del d.lgs. n. 61 citato. L’esercizio della facoltà è condizionato al rispetto dei principi di correttezza e buona fede. Nel richiamare l’attenzione su questa circostanza, si segnala che proprio di recente, in tema di part-time nel settore privato, la Corte di Cassazione ha affermato che la decisione di concedere o negare la trasformazione del rapporto a part-time, in presenza di criteri prestabiliti in sede di accordo collettivo, non è più discrezionale, bensì vincolata ai predetti criteri, “ai quali il datore di lavoro deve conformarsi nella regolamentazione dei singoli rapporti, fa-

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cendo applicazione dei criteri di buona fede e correttezza che debbono ispirare l’esecuzione del contratto (ex 1375 cc). Con la conseguenza che l’inosservanza dei criteri preferenziali contrattualmente stabiliti legittima il dipendente che si ritenga leso dalla condotta datoriale ad agire per il risarcimento del danno, anche in forma specifica, per ottenere la trasformazione del rapporto in part-time che gli fosse stata ingiustamente negata sulla base dei descritti criteri, oltre ad eventuali voci di danno collegate allo stesso illecito”. (Cass. sez. lav. 4 maggio 2001, n. 9769).

La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale è un istituto la cui funzione sociale trova particolare riscontro nel frequente caso di lavoratrici alle prese con la cura dei figli e di altri familiari bisognosi di assistenza. Il Dipartimento della Funzione Pubblica, ha diramato la circolare n. 9 del 30 giugno scorso contenente chiarimenti e indicazioni operative in materia, preso atto delle molte segnalazioni pervenute riguardanti errate interpretazione della norma. La legge ha eliminato l’automatismo con cui in precedenza venivano accolte le domande di trasformazione del rapporto di lavoro e le ha assoggettate alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione. L’Amministrazione può accogliere o respingere l’istanza prodotta dall’interessato entro 60 giorni dalla presentazione. La legge prevede espli-

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a cura di Erremme

citamente alcune cause ostative; se non ricorrono, la domanda può essere accolta, purchè la trasformazione del rapporto di lavoro in tempo parziale sia compatibile con la capienza dei contingenti della dotazione organica. Inoltre, l’eventuale attività di lavoro autonomo o privato che conseguentemente il dipendente dichiara di voler svolgere non deve originare con quella di servizio. L’autorizzazione può essere comunque negata nel caso in cui la trasformazione richiesta dovesse arrecare pregiudizio alla funzionalità organizzativa dell’Amministrazione. La circolare ribadisce l’importanza per l’Amministrazione di indicare puntualmente le motivazioni che hanno causato l’esito negativo della domanda, evitando formule generiche, per permettere al dipendente di conoscere le ragioni dell’atto, di ripresentare nuova istanza se lo desidera e, se del caso, consentire l’attivazione del controllo giudiziale. L’istanza può essere accolta anche previa rimodulazione del part-time concordata con il richiedente. La valutazione dell’istanza, una volta verificatane l’accoglibilità dal punto di vista soggettivo e la presenza delle altre condizioni di ammissibilità, si basa su tre elementi: 1. la capienza dei contingenti fissati dalla contrattazione collettiva in riferimento alle posizioni della dotazione organica; 2. l’oggetto dell’attività, di lavoro autonomo o subordinato, che il dipendente intende svolgere a seguito della trasformazione del rapporto; in particolare, lo svolgimento dell’attività non deve comportare una situazione di conflitto di interessi rispetto alla specifica attività di servizio svolta dal dipendente e la trasformazione non è comunque concessa quando l’attività lavorativa di lavoro subordinato debba intercorre con altra amministrazione (a meno che non si tratti di dipendente di ente locale per lo svolgimento di prestazione in favore di altro ente locale); 3. l’impatto organizzativo della trasformazione, che può essere negata quando dall’accoglimento della stessa deriverebbe un pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente.

La normativa prevede che, compatibilmente con l’organizzazione degli uffici e del lavoro, le amministrazioni individuano criteri certi di priorità nell’impiego flessibile del personale, a favore dei dipendenti in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare e di quelli impegnati in attività di volontariato. Sulla base di tali criteri, il dipendente può risultare titolare di un interesse protetto, di un titolo di precedenza o di un vero e proprio diritto alla trasformazione del rapporto. Pertanto, le amministrazioni, nel rispetto delle forme di partecipazione sindacale, debbono stabilire in maniera generale i criteri di priorità e la graduazione tra gli stessi, tenendo conto delle previsioni legali e di contrattazione collettiva, che, intervenendo specificamente in riferimento a determinate fattispecie, hanno accordato rilevanza a particolari situazioni in cui il disagio personale o famigliare è maggiore. Il vero e proprio diritto, che obbliga l’Amministrazione ad autorizzare entro 60 giorni dall’istanza la trasformazione richiesta, è individuato dalla legge nel caso di: lavoratori il cui coniuge, figli o genitori siano affetti da patologie oncologiche; lavoratori che assistono una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa, che abbia connotazione di gravità ai sensi dell’art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992, con riconoscimento di un’invalidità pari al 100% e necessità di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita; lavoratori con figli conviventi di età non superiore a tredici anni; lavoratori con figli conviventi in situazione di handicap grave. Altra situazione meritevole di tutela è poi quella dei famigliari di studenti che presentano la sindrome DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento). Questa sindrome, che si riferisce alle ipotesi di dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia, è stata oggetto di un recente intervento normativo con l’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dai CCNL vigenti in ordine alla flessibilità dell’orario. Nella speranza di aver fugato i dubbi rappresentati porgo cordiali saluti.

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SANDRO ANTONINI

OMICIDI IN APPENNINO Menzogne e verità sul “Mostro di Bargagli”

DE FERRARI Edizioni pagg. 239 -euro 20,00

L

o storico Sandro Antonini torna in libreria con “Omicidi in Appennino – Menzogne e verità sul ‘mostro di Bargagli’ 1939-1989 . La vicenda del mostro di Bargagli ha per sfondo il clima avvelenato dalle ristrettezze imposte dagli eventi bellici e poi dalla guerra civile. Sul giallo di Bargagli sono stati scritti fiumi di parole, fatte decine di inchieste giornalistiche, ci si sono arenate anche cinque inchieste giudiziarie. Sul mostro di Bargagli, sul giallo-nero del piccolo paese nell’entroterra genovese si è scritto a sproposito, si La copertina sono compiute analisi scientifiche e socio- del libro logiche, si è scomodata la genetica, si sono riesumate tare ereditarie in un crescendo che ha dell’ incredibile. Ciascuno dei chiamati in causa si è sentito in obbligo di dire la sua attingendo a fonti certe, a presunte rivelazioni, a fughe di notizie incontrollate. Con il risultato che la maggior parte delle ipotesi ha ricevuto dai fatti regolare smentita e nessuno si è avvicinato alla verità. Perché l’intreccio è complesso, ma qualcosa a ben guardare emerge dal caos: la verità dei giudici, per esempio, che chiunque riesce a cogliere da sé. E si può costatare che dopo l’ ultimo omicidio, avvenuto nel 1983 e riguardante una baronessa capitata a Bargagli sette anni prima quasi per caso, il sangue non scorre più e la sete del mostro risulterebbe finalmente placata. Antonini fa un’attenta cronistoria dei fatti, che parte dal 16 maggio del 1939 quando l’appuntato Carmine Scotti uccide in un conflitto a fuoco un pericoloso latitante e si conclude il 28 settembre 1989 quando il caso Bargagli si chiude senza colpevoli. La ricerca dell’autore si svolge nei lunghi anni disseminati di tragiche morti; non approda a risultati clamorosi, ma offre uno spaccato della misteriosa vita nel paese della val Bisagno ed un quadro dei fatti.

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Luca Pasqualoni Segretario Nazionale ANFU pasqualoni@sappe.it

Siamo uomini o caporali!

I Al centro la locandina del film di Marco Tullio Giordana sotto Tano Badalamenti nell’altra pagina Peppino Impastato

l 9 maggio del 1978, il medesimo giorno in cui a Roma venne ritrovato il cadavere di Aldo Moro ucciso dalle Brigate Rosse, fu recuperato quello che rimaneva di Peppino Impastato, trentenne militante di Lotta Continua in prima linea nella battaglia contro la mafia, fatto saltare in aria sui binari ferroviari con una carica di tritolo legata alla cintura. La notizia passò naturalmente in secondo ordine, liquidata all’epoca dagli inquirenti come un suicidio e relegata dalla stampa locale a qualche trafiletto: solo ora, ad oltre trentanni dall’accaduto, dei pentiti hanno accusano il boss Tano Badalamenti d’essere stato il mandante di quell’omicidio. Il regista Marco Tullio Giordana ricostruisce nei I cento passi il martirio di Impastato con scrupolo, all’insegna di uno sdegno contenuto sotto cui si avverte tuttavia fremere una grande passione civile: l’ambiente chiuso di Cinisi (il paesino vicino a Punta Raisi teatro della vicenda), la diffidenza degli abitanti, la lotta del giovane per spezzare il predominio d’una logica chiusa fino al tanfo, vengono descritti con sensibilità e misura, evitando sottolineature folkloristiche e digressioni didattiche. Il titolo del film prende le mosse dalla distanza che intercorreva tra la sede della radio, nata quale libero mezzo di denuncia, e l’abitazione di zio Tano ossia il boss Badalamenti. Purtroppo, la storia dell’umanità è, viceversa, costellata da figure inclini alla genuflessione, ben lontane dall’impegno sociale di Peppino Impastato. Rammento a tal proposito come alla scuola superiore avessi in classe un certo Salvatore, di cui in verità non ricordo più il cognome, la cui piaggeria nei confronti dei professori raggiunse nel corso degli anni livelli sempre più crescenti: dall’apertura della porta, all’apertura delle bottigliette dell’acqua con relativo versamento nel bicchiere, dal pagamento della colazione, dallo spostamento della sedia, alla pulizia della cattedra, a tutta una serie di similari blandizie. Naturalmente Salvatore era il compagno di banco di Luigi ossia il secchione della classe: posto strategico per i compiti in classe. E’ infatti non era certo l’amicizia a legarlo a Luigi: un giorno in un compito in classe di ma-

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tematica la professoressa si accorse di uno strano movimento sotto il banco, Salvatore non esitò, in maniera sibillina, a lasciare intendere che era lui che stava passando il compito a Luigi poiché in difficoltà. Recentemente incontrando per caso dei vecchi amici di scuola, sono venuto a conoscenza che Salvatore, alla fine del servizio militare ha firmato per la ferma breve, come caporale semplice. Attualmente, grazie al sotterraneo intercedere di leggine, è stato promosso alla qualifica di capitano e dalla sua prima sede di assegnazione al reparto 70° Reggimento Fanteria di Ancona è riuscito a farsi trasferire presso le ovattate stanze dello Stato Maggiore dell’Esercito e segnatamente presso l’ufficio del personale - settore ufficiali inferiori, ove continua ad avere un atteggiamento di spiccata piaggeria nei confronti dei Superiori gerarchici, come riferiscono i suddetti amici che l’hanno incontrato per caso al bar dello Stato Maggiore, ove si sono recati per avere informazioni circa il riscatto dell’anno di leva obbligatorio: nell’occasione versava la bustina dello zucchero nella tazzina di caffè del Generale a due stelle, suo diretto superiore! Tuttavia, nelle ovattate e dorate stanze dello Stato Maggiore dell’Esercito e della Difesa vi sono anche molti figli dei figli dell’68 che hanno salutato la piazza per un più comodo salotto. Si tratta di gente colta che può vantare molteplici titoli accademici, destinati a fulgide carriere, al pari dei loro genitori appartenenti ora alla magistratura, ora alle alte sfere governative, ora alle alte sfere politiche, ora alle alte sfere dirigenziali dei vari dipartimenti statali. La vita è tutta qui, tra chi sceglie di farsi una passeggiata e chi sceglie di camminare e contare cento passi alla fine dei quali c’è la casa di zio Tano, il cui nome non può essere pronunciato invano, pena la morte. Peppino Impastato è morto perché aveva abbracciato la seguente filosofia di vita: «Mio padre, la mia famiglia, il mio paese!Io voglio fottermene! Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Io voglio urlare che mio padre è un leccaculo! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi!

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di Aldo Maturo* avv.maturo@gmail.com

Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgersi più di niente!» Pronunciare il nome di zio Tano, allora altro non significa che difendere i diritti dei lavoratori, le prerogative sindacali, denunciare gli sprechi di denaro pubblico, gli abusi di potere, affermare la meritocrazia, rifiutare la logica della raccomandazione, significa manifestare sotto sedi istituzionali, nelle piazze, nelle strade per rivendicare le proprie ragioni, significa ricorrere al giudice per affermare la lesione di un proprio diritto. In questa ottica appare calzante, in chiosa, richiamare il film Siamo uomini o caporali in cui l’umanità viene divisa in due categorie appunto gli uomini e i caporali: la categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, la minoranza. «Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare per tutta la vita, come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di una esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque dottore ha capito? Caporale si nasce, non si diventa! A qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso, hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera!» In queste parole si racchiudono il senso del film e la ragione di esistenza del sindacato, non a caso nato inizialmente quale forma di associazionismo per sopperire alle carenze dello Stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi un primo apparato di difesa, trasferendo il rischio del verificarsi di eventi dannosi (incidenti sul lavoro, malattia, perdita del posto di lavoro) dal singolo lavoratore all’intero gruppo di lavoratori, realizzando così le prime forme di mutuo soccorso, fino ad arrivare, con alterne vicende, a forme organizzative sempre più strutturate e delineate, corredate da tutta una serie di prerogative la cui consistenza ed esistenza promanano indissolubilmente dalla capacità di rappresentatività del sindacato: nel senso che maggiori sono gli iscritti, maggiore è la rappresentatività, maggiori sono le prerogative sindacali.

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Gli stipendi degli statali Dato che per i dipendenti pubblici gli stipendi dei prossimi tre anni non potranno superare quello di quest’anno, cosa succede se lo stipendio del 2010 era ridotto a causa della richiesta di aspettative? irca un quesito in materia di aspettativa la risposta si evince dal contenuto della Legge 30 Luglio 2010, n. 122 – Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica (pubblicato in G.U. del 30 luglio 2010, n. 176). In effetti, l’articolo 9 Contenimento delle spese in materia di impiego pubblico recita testualmente al punto 1): «Per gli anni 2011, 2012,2013, il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, ivi compreso il trattamento accessorio, previsto dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, non può superare, in ogni caso, il trattamento ordinariamente spettante per l’anno 2010, al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati, conseguimento di funzioni diverse in ogni caso quanto previsto dal comma 21, terzo e quarto periodo, per le progressioni di carriera comunque denominate, maternità, malattia, missioni svolte all’estero, effettiva presenza in servizio, fatto salvo quanto previsto dal comma 17, secondo periodo, e dell’articolo 8, comma 14,» Pertanto, la preoccupazione di quei colleghi che nell’anno 2010, hanno usufruito di aspettativa per motivi di salute (non dipendente da causa di servizio), è certamente fondata. Per i prossimi tre anni – ovvero 2011, 2012,2013, percepiranno al massimo lo stesso reddito che hanno percepito durante il 2010, con un’unica differenza: dovranno lavorare tutti e dodici mesi di ogni anno, sempre che il loro stato di salute si sia ristabilito. Invero, la manovra economica varata dal Governo sembra un atto punitivo con effetti di iniquità ed irragionevolezza, un atto alle retribuzioni, quasi una pugnalata alle spalle degli operatori della Sicurezza. Sembra, quindi che l’ultima manovra economica finanziaria sia caratterizzata da una serie di profili di costituzionalità ed è per

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questo che ne scaturirà una mole di impressionante di ricorsi giurisdizionali, con ulteriore aggravio di spese a carico del famiglie del personale delle Forze dell’Ordine che già rischia la deriva economica.

Il Lupo Luciano Liboni L’interminabile fuga di un morto che cammina

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Nella foto I benpensanti, nel tentativo di risollevare a busta paga tutti i costi l’animo di chi si trova nella par-

ticolare situazione o in situazioni analoghe, aggiungerebbero a questa analisi che lo stesso Governo, autore della manovra economica, ha stanziato due tranches annuali da 80 milioni di euro ciascuna, al fine di calmierare gli effetti di questo genere. Noi siamo certi che i 160 milioni di euro stanziati dal Governo al fine di tenere conto della specificità del comparto sicurezza-difesa e delle peculiari esigenze del comparto del soccorso pubblico, nello stato di previsione del Ministero dell’Economia e delle Finanze è istituito un fondo con una dotazione di 80 milioni di euro annui per ciascuno degli anni 2011 e 2012 destinato al finanziamento di misure perequative per il personale delle Forze armate, delle Forze di Polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco interessato alle disposizioni di cui all’articolo 9, comma 21. – così recita l’art. 11-bisrappresentano una cifra esigua, rispetto alle esigenze delle Amministrazioni beneficiarie oltre che decine di centinaia di operatori del comparto Sicurezza e Difesa e, quindi, dubitiamo che serviranno effettivamente a compensare gli effetti che si teme di dover subire. * Aldo Maturo, Avvocato già Dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria

uesta è la storia di un uomo solo e della sua fuga interminabile, che spara a chiunque si trovi sul suo cammino, senza pietà e senza pentimento. E’ la storia di un uomo che odia le Forze dell’Ordine. Un uomo che convive con la consapevolezza di essere un morto che cammina e che cerca in tutti i modi di prolungare la sua esistenza sparando al mondo. Pereto di Sant’Agata Feltria, allora provincia di Pesaro e Urbino, 22 luglio del 2004, due militari dell’Arma sono impegnati in un normale controllo di documenti nei pressi di un bar. La barista, poco prima, si era insospettita per l’aria trasandata di un uomo ed aveva chiamato i Carabinieri. L’uomo invitato a esibire i documenti,

chiese di poterli recuperare dalla moto parcheggiata all’esterno del bar. Arrivato alla moto, un enduro Yamaha 600, risultata poi rubata a Terni, tirò fuori una pistola e inizio a sparare a bruciapelo all’indirizzo dei militari, due colpi colpirono uno dei Carabinieri che morì all’istante. Il centauro, poi, riuscì a scappare sulla superstrada E45 direzione Cesena, guidando con la mano destra vistosamente fasciata per una precedente caduta, per poi dirigersi verso Roma. Secondo alcuni testimoni si trattava di un uomo tra i 40 e i 50 anni con l’accento dell’Italia centrale. Il Carabiniere ucciso si chiamava Alessandro Giorgioni, aveva 36 anni, ed era in servizio presso la caserma dei Carabinieri di Sant’Agata Feltria.

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Raggiunta Roma, il 24 luglio, veniva riconosciuto da tre poliziotti tra bancarelle di libri usati, a un passo dalla Stazione Termini, anche in questa circostanza e senza alcuna esitazione sparò nuovamente contro degli agenti, scappando tra la folla. Bloccata un’auto che transitava nella zona, con un uomo e due bambini a bordo, e puntando la pistola alla nuca dell’uomo si fece accompagnare ad una stazione della metropolitana. L’uccisione del Carabiniere, oltre a suscitare sgomento e sdegno nell’intera popolazione italiana per l’efferatezza dell’esecuzione, scatenò una vera e propria caccia all’uomo da parte delle forze dell’ordine. I media iniziarono così a diramare un identikit dell’uomo che aveva barbaramente ucciso un fedele servitore dello Stato e aveva sparato a Roma ad altri agenti: alto circa un metro e settantacinque, riconoscibile per una frattura al setto nasale e tre dita della mano destra contuse. Le Forze dell’Ordine, invece, sin da subito concentrano le loro ricerche su Luciano Liboni, un pregiudicato umbro, latitante dal 2002, accusato di tentato omicidio e con numerosi precedenti penali per gravi reati di criminalità comune. Il sospettato era stato individuato dagli investigatori per le modalità efferate dell’omicidio del carabiniere, che ricordavano quelle di una precedente esecuzione attribuita al Liboni. Così l’Italia intera, nel caldo luglio del 2004, veniva posta a conoscenza dell’esistenza di Luciano Liboni, 47 anni, un terzo trascorso in galera, una carriera di rapinatore per lo più solitario in banche e uffici postali di mezza Italia. L’uomo asociale, violento, trasandato, incallito nel crimine, malato e infine disperato assassino riceve nei giorni della sua

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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

fuga anonimi plausi, in iscrizioni apparse sui muri di Pesaro e Roma. Vengono coniati giochi di parole come Un mercoledì da Liboni, e colpiscono attestazioni di stima quali Luciano Liboni, il padre che non ho mai avuto. Nato nel 1957 a Montefalco, celebre per il vino Sagrantino e gli affreschi di Benozzo Gozzoli, vicino a Foligno. Primo di sette figli, cresciuto a fame e botte da un padre alcolizzato e una madre malata. Affetto da epilessia risultò violento fin da piccolo. A 14 anni, fu espulso per un furto dall’Istituto di Beneficenza di Sant’Angelo in Pontano (Macerata), giurando ad un amico che avrebbe ammazzato il direttore. A 15 anni fu spedito in riformatorio: nell’Istituto di Rieducazione maschile di Urbino. A 17 anni, con una banda di amici, ruba una macchina, picchia un vigile e finisce al carcere minorile di Firenze. A 19 anni rapina, armato di un rasoio, un automobilista e si fa consegnare la macchina. Tra i suoi compagni d’avventura ci sono i fratelli Michelangelo e Ivo Fiorani, che emigreranno a Roma e si arruoleranno nella banda della Magliana, micidiale sodalizio criminale. Liboni non è uomo da banda. E resta ben attaccato alla sua terra il Lupo - così chiamato per il carattere scostante e asociale - si specializza in furti di opere d’arte: nel 1990 è sospettato di averne trafugate in Umbria, Toscana e Lazio, non disprezzando però le rapine alle poste. Per sfuggire all’arresto ripara spesso e a lungo in luoghi selvatici che impara a conoscere a palmo a palmo, vivendo di quel che trova: ciò gli merita, oltre all’appellativo di Lupo anche quello Cinghiale. La carriera delinquenziale del Liboni balza alle cronache dell’opinione pubblica italiana già nel 2002, quando spara, ferendolo gravemente, a un benzinaio di Todi di 38 anni, Fausto Gentili.

Il benzinaio aveva notato un uomo a bordo di una Polo bianca, rubata qualche giorno prima a una sua amica. Alla guida della sua autovettura, con a bordo la moglie e la figlia, si mise ad inseguire la Polo. Quando le due auto si trovarono una a fianco all’altra, Liboni sparò un colpo di pistola della sua “Renato Gamba calibro 38 special, copia della più celebre Magnum, sfiorando la donna e il bambino e colpendo alla testa Gentili, che ciò nonostante si salvò. Dopodiché fuggi. Nel marzo dello stesso anno, a distanza di un mese dal tentato omicidio del benzinaio, a Civitavecchia, non fermandosi all’intimazione dell’alt ad un posto di controllo della Guardia di Finanza, comincia a sparare contro di loro, fuggendo sull’Aurelia. Il giorno seguente prende in ostaggio un uomo e lo costringe a portarlo in auto fino a Roma, per poi far perdere ancora una volta le sue tracce. È la fuga senza fine di un disperato. Poi del Lupo si perdono le tracce, finché non viene arrestato, nel dicembre del 2003, a Praga per possesso di documenti falsi. Rimane in carcere quattro mesi, ma quando l’Interpol avverte le autorità italiane dell’arresto, è già tornato in libertà in Italia, latitante s’intende! A luglio del 2004 tra Guidonia e Settecamini, Liboni, ancora una volta, spara due colpi contro un Carabiniere che gli stava chiedendo i documenti. Un proiettile colpisce il cofano dell’autovettura mentre un altro raggiunge di striscio il militare. Nel bagagliaio della moto abbandonata a Roma, qualche giorno dopo, a un passo dal Viminale, i carabinieri trovano traccia di due ricoveri di Liboni in un ospedale dello Sri Lanka, nel 2003. La diagnosi: malaria. La svolta finale della sua interminabile fuga avverrà, quindi, nel luglio 2004 quando, presentando con falsi documenti e con il nome di Franco Franchini, si presenta con una frattura del setto nasale e una vistosa ferita ad una mano all’Ospedale di San Piero in Bagno. Dopo una notte di degenza viene dimesso e fa tappa per Sant’Agata Feltria, sua zona d’origine. Qui si fermerà nel bar Cicconi, per una telefonata a una donna, ed è qui che la sua vita si intreccia con quella dell’Appuntato

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Alessandro Giorgioni, che, come detto, uccide a bruciapelo. Adesso Liboni sa che la sua fuga sta per finire. Ha ucciso un Carabiniere senza alcuna pietà, sa che nessuno avrà più pietà di lui. La caccia all’uomo è aperta, centinaia di agenti sono messi alle calcagna e vengono costituite appositamente delle squadre speciali. La mattina del 31 luglio nei pressi della Bocca della Verità a Roma, una donna si era insospettita per una persona che faceva pensare a Liboni. Avvertiti due vigili urbani, questi riconobbero il sospettato e senza farsi notare iniziarono a seguirlo, chiedendo, nel contempo, ausilio a due Carabinieri motociclisti. Avendo intuito di essere pedinato il Lupo tentò l’ennesima fuga, prendendo in ostaggio una turista francese e puntando la propria pistola alla tempia della donna. «Sono un morto che cammina» gridò prima di sparare alcuni colpi contro i Carabinieri, «voi morirete con me! Vi faccio un buco in testa! Vi faccio un buco in testa!». I Carabinieri rispondendo al fuoco lo ferirono al capo, nell’area del Circo Massimo (tra Via del Circo Massimo e Piazza di Porta Capena). Nonostante fosse ammanettato e ferito il Lupo tentò, ancora una volta, disperatamente di recuperare la pistola, dimenandosi e dando calci nell’aria. Trasportato in ambulanza all’ospedale San Giovanni, vi giungerà morto. «È tanto l’odio di Liboni nei confronti dei Carabinieri - affermò dopo la morte un generale dell’Arma - che anche quando è stato messo sulla lettiga in ambulanza ormai morente, ci dava calci ferocemente. Era tanta la sua ferocia che gli abbiamo dovuto legare i piedi per neutralizzarlo definitivamente». E’ la definitiva fine della fuga del Lupo. Alla prossima...

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Nella foto dell’altra pagina foto segnaletiche di Luciano Liboni sotto la locandia del film su Liboni e la scena (reale) dell’uccisione del killer


a cura di Giovanni Battista De Blasis deblasis@sappe.it

uasi venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Cosa Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato quindici e più anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

Q

Asinara: in prigione nel Parco di G.B. D. B.

L

La copertina e la vignetta del numero del mese di maggio 1995

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'isola dell'Asinara è la terza isola, per estensione, della Sardegna ed è situata a nord-ovest della Regione. Ha una superficie di ca. 52 kmq, una lunghezza di ca. 17 km ed una larghezza che varia dai 260 m ai 6 km e mezzo. L'isola è in massima parte montuosa, con una vetta di ca. 400 m, e soltanto un punto della sua superficie è pianeggiante. La lunghezza delle sue coste è di ca. l00 km. L’Asinara è un isola di proprietà dello Stato ed attualmente sotto la giurisdizione del Ministero di Grazia e Giustizia, mentre il territorio amministrato dalla città di Porto Torres. Anticamente l'isola era chiamata Insula Herculis o Herculia. Nel Medio Evo l'Asinara era molto popolata e lo rimase fino alle guerre marinare tra Pisa e Genova quando anche a seguito delle continue scorrerie Saracene fu quasi completamente abbandonata fino a rimanere, a metà del 1700, con 70 abitanti. Nel 1775 Re Vittorio Amedeo la cedette, per 70.000 lire piemontesi, o Don Antonio Manca; marchese di Mares, che prese il titolo di Duca dell'Asinara, mutato poi in quello di Vallombrosa. Soltanto nel 1800 l'Asinara principiò a ripopolarsi a Cala d'Oliva, a Cala Reale ed a Castellazzo (Fornelli) e nel 1885 fu espropriata dal Governo che ne sfrattò la popolazione per impiantarvi la Stazione Sanitaria Marittima e quindi, nel 1886, anche la Colonia Penale. Quest'ultima fu istituita dapprincipio in località Cala d'Oliva e Fornelli ed aveva una capienza massimo di 300 reclusi. Per arrivare a questo, il 16 giugno 1885, l'allora Presidente del Consiglio dei Ministri, e Ministro dell'Interno, De Pretis, presentò una relazione in Parlamento con la quale sosteneva la necessità di improntare una colonia agricola penale ed un lazzaretto sull'isola dell’Asinara. L'intervento fu il seguente: «Onorevoli Signori, il Governo si è da qualche tempo vivamente preoccupato dell'assoluta necessità di sopprimere i lazzaretti del Varignano e di Nisida, i quali, sia per la loro conformazione, sia per le speciali condizioni della località in cui trovansi situati, prossimi a grandi centri di popolazione, più non rispondono alle esigenze delle leggi sanitarie, e sono condannati dall’unanime verdetto della pubblica opinione. In seguito ad una accurata ispezione della località, la Commissione presentava un motivato rapporto in data 7 maggio u.s. col quale dichiarava aver riconosciuto perfettamente appropriata ed adatta l'isola dell’Asinara all'impianto del lazza-

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retto proposto, facendo soltanto qualche riserva per la quantità dell'acqua potabile, che dalle sommarie investigazioni fatte nell'atto della sua visita, non era accertata in modo assoluto potersi avere in proporzioni corrispondenti ai bisogni. Vi sono ora tre piccoli centri di popolazione a Cala d'Oliva nella parte superiore, alla Reale nella parte centrale, ed ai Fornelli in quella meridionale verso Capo Falcone. La popolazione è in complesso di poco superiore ai quattrocento abitanti, divisa in una cinquantina di famiglie, che vi esercitano l'agricoltura e la pastorizia. L'isola misura una superficie di ettari 5.192, dei quali soltanto ettari 655 circa sono di proprietà demaniale, gli altri di proprietà privata ripartita fra cinquantun proprietari, e così divisi: Bosco selvatico ........ ettari 87 Coltivati .................... " 450 A pascoli naturali ..... " 2.600 Gerbidi o scogliere ... " l.400 totale ettari 4.537 Lo studio compiuto dalla Commissione sui terreni dell'isola escluse affatto la possibilità di sistemare il lazzaretto su quelli demaniali esistenti presso i Fornelli, perchè tutti quasi completamente rocciosi, privi di acqua ed in località, ove confinano col mare, di difficile approdo e con poco ancoraggio. La Commissione ebbe quindi a convincersi che la località da prescegliersi veniva naturalmente indicata dalla pianta topografica dell'isola, ed era quella denominata La Reale nella parte mediana interna dal porto della Labera alla punta del Trabuccato. E la natura piana e leggermente ondulata del terreno, oltre all'essere perfettamente adatta per la costruzione dei vari fabbricati provvisori e definitivi pel lazzareto, ne permette la facile piantagione per renderne più gradevole il soggiorno, mentre più facile in questo punto riuscirebbe la costruzione di scali per le operazioni di sbarco ed imbarco, tanto dei passeggeri che delle merci, parte questo importantissima di servizio in uno stabilimento contumaciale.

In quanto alla località di Diana Marina, la Commissione riconobbe che il porto incompleto ed abbandonato si presta soltanto all’ormeggio di piccoli bastimenti, che, attesa la poca profondità della rada, malgrado la buona qualità del fondo, nella stessa pochi legni potrebbero avervi ricovero all'ancora, che il terreno, roccioso ed a forte pendenze, richiederebbe tempo e spesa notevolissimi per poter essere ridotto a piani sufficientemente sviluppati per costruirvi gli edifici occorrenti ad uno stabilimento contumaciale, cosicchè anche questa località deve assolutamente escludersi siccome quella in cui non sarebbe affatto possibile impiantare

il proposto lazzaretto in via provvisoria, nè punto conveniente stabilirvelo in via definitivo. Accettando pienamente le idee e le proposte della Commissione svolte nelle sue relazioni, il Governo ha riconosciuto quindi conveniente l'impianto del proposto lazzaretto nell'isola dell’Asinara, ma, volendo allontanare pure il semplice dubbio che dallo stesso possa poi derivare danno alla popolazione libera, ed abbiano a ripetersi i dolorosi fatti dello scorso anno, riconobbe necessario che si addivenga anzitutto alla espropriazione della parte dell'isola di privata proprietà, affine di poterne allontanare tutti gli attuali abitanti, ciò che per loro numero limitato è possibile ottenere in breve tempo e senza

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gravissimi sagrifizi, ed assicurarne quindi in ogni eventualità il completo isolamento. Il Ministro dell'Interno ha, quindi fatto procedere ad alcuni studi sommari per stabilire in via approssimativa le spese occorrenti per la intera espropriazione di tutte le proprietà dell'isola e per la sua riduzione in condizioni di potervi impiantare i proposti stabilimenti, e dagli studi stessi, venne a risultare che per l'acquisto dei 4.537 ettari che costituiscono detta privata proprietà tenendo conto anche del valore approssimativo delle due chiese e delle poche case civili esistenti, dei compensi da accordarsi pel loro spostamento alle famiglie le quali dovranno abbandonare l'isolo, delle opere di allacciamento e conduttura di almeno una parte delle acque sorgive esistenti nei pressi della località in cui dovrà sorgere il lazzaretto, delle spese occorrenti pel primo impianto della colonia e, specialmente, per poter provvedere alla viabilità dell'isola, può calcolarsi come necessario una spesa di lire 600.000. Coi lavori preveduti per ciò che si riferisce all'acqua non sarebbe però provveduto che ai primi bisogni del lazzaretto provvisorio, mentre l'intero allacciamento e condutture di tutte le acque potabili esistenti nell'isola, richiederà opera e spesa di gran lunga maggiori a quella di lire 37.000 circa ora preveduta, ma alle stesse potrà graduatamente provvedersi, a seconda dei bisogni, negli anni avvenire. Siccome poi sarebbe di assoluta urgenza il poter occupare senza indugio i terreni dell'isola e, quindi metter mano e condurre alacremente a termine i lavori di costruzione del lazzaretto provvisorio, nè ciò riuscirebbe possibile se, per le espropriazioni, si dovessero compiere tutte le formalità all'uopo stabilite dalla legge sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità, 25 gennaio 1865, n.2359, e, per l'eseguimento delle opere, osservarsi tutte le prescrizioni delle leggi vigenti sulla contabilità dello Stato, così si è riconosciuta l'assoluta necessità di proporre che, in casi di gravi interessi di ordine pubblico

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furono altra volta conseguite. Ed abbiamo quindi l'onore di sottoporre all'approvazione del Parlamento il seguente progetto di legge». A margine dell'intervento fu presentata anche una relazione dell’ lspettore delle Carceri del Circolo di Roma al Ministero dell'Interno che recitava: «Ho l’onore di rassegnare al Ministero un calcolo approssimativo, secondo gli studi fatti dall'ufficio tecnico della direzione generale delle carceri, per la spesa che si presume, nei più stretti limiti, occorrere pel primo impianto di una colonia penale nell'isola dell'Asinara. Ritenuto essere negli intendimenti del Ministero l'addivenire alla occupazione della intiera isola anzichè soltanto di parte di essa, allo scopo di sistemarvi in modo definitivo tanto il lazzaretto che la colonia penale secondo le proposte delle quali fatto cenno nelle note

anzidette, a me parrebbe conveniente che, riservata al primo la zona di terreno chiamata La Reale dell'attuale scalo ossia dal porto della Libera fino al capo del Trabuccato, la colonia principale venisse collocata a Cala d'Oliva con una diramazione alla località detta dei Fornelli occupando coll'una e coll'altra precisamente i fabbricati che attualmente formano questi due centri di popolazione dell'isola. Io sono convinto che, trattandosi di colonia agricola posta in località assolutamente isolata, non debba punto pensarsi alla costruzione di vasti e costosi edifici carcerari, ma meglio convenga mantenere in tutto l'impronta rurale limitando le nuove costruzioni e le opere di sicurezza a quanto si riconosca assolutamente indispensabile nell'interesse dell'ordine e dell'igiene. Questi, per sommi capi, sarebbero i principali e più importanti lavori occorrenti per quanto riguarda gli edifici, notando

Reale, ove dovrà allacciarsi, per mezzo di un tronco di strada trasversale, allo stabilimento contumaciale nella parte destinata alla libera pratica. Se non che, il far sorgere un lazzaretto nell'isola dell'Asinara, lo sgombrarla dalla libera popolazione, abbandonando incolta una vasta superficie per molta parte già ridotta a coltura, sarebbe più che una colpa, un delitto; perchè il clima, che vi è salubre diverrebbe certamente infetto, nuocendo anche alla Sardegna, ma sopra tutto con danno dello stabilimento che ivi si vuole costruire.» Il 28 giugno 1885 fu approvata la seguente legge: UMBERTO I Per grazia di Dio e volontà della Nazione RE D'ITALIA Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:

che, nei tempi normali, in parte dei fabbricati, componenti lo stabilimento contumaciale della Reale dovrebbe alloggiarsi un certo numero di condannati, sia per concorrere in sulle prime alla costruzione dei nuovi edifici che debbono costituire lo stabilimento stesso, sia, questi condotti a termine, per provvede re alla loro manutenzione e, contemporaneamente, alla coltivazione dei terreni che li circondano. Ma, avuto riguardo a che attualmente la viabilità dell'isola si limita a sentieri praticabili dai pedoni ed a poche strade mulattiere, l'opera più importante ed indispensabile sarà quella di una strada rotabile che, dal centro della colonia a Cala d'Oliva, attraversando nel senso longitudinale l'isola giunga alla diramazione dei Fornelli passando in prossimità della

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Art. l E' autorizzata l'iscrizione nella parte straordinaria del bilancio passivo 1885-86 pel Ministero dell'Interno nella somma di lire seicentomila (lire 600.000) da prelevarsi dal fondo delle spese impreviste per le espropriazioni dell'isola dell’Asinara, per la fabbrica dei locali occorrenti all'attivazione di una colonia agricola penale e pel loro arredamento, per la sistemazione delle strade, l'allacciamento di talune sorgenti, la conduttura delle acque e per altre opere simili. Art. 2 E' autorizzato del pari la iscrizione nel bilancio passivo 1885-86 del Ministero della Marina della somma di lire quattrocentomila (lire 400.000) da prelevarsi come sopra per le spese di primo impianto di un lazzaretto nella suddetta isola. Art. 3 Per l'espropriazione dell'isola dell'Asinara

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saranno applicate le norme stabilite dall'articolo 13 dello legge 15 gennaio 1885, n.2892 (serie 39). Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare come legge dello Stato. Data a Roma, addì 28 giugno 1885. UMBERTO luogo del Sigillo V° Il Guardasigilli E. PESSINA - DE PRETIS - A. MAGLIANI Allo stato attuale, o partire dai primi anni novanta, esiste un vasto movimento di pensiero che vuole trasformare l'isola dell’Asinara (e le altre isole sedi di istituti penitenziari) in parco naturale. In verità il progetto avrebbe potuto avere anche successo se non fosse intervenuta nel 1992 la cd. legge Martelli (quello del carcere duro per i mafiosi) all'indomani del barbaro assassinio dei Giudici Falcone e Borsellino. Al riguardo l'Associazione Mediterraneo per l'Avifauna Marina sostiene: «Se nell'Asinara di un Penitenziario strutturato in diramazioni dislocate in varie parti dell'isola rende vano, allo stato attuale, l'ipotesi della istituzione di un Parco Autonomo, per l’indisponibilità del Ministero di Grazia e Giustizia regionale, questo non impedisce tuttavia la possibilità di sperimentare lo coabitazione tra Peniten-

ziario e Parco, grazie alla disponibilità offerta dal Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena del Ministero di Grazia e Giustizia. Da parte di tale Ministero infatti è stata avanzata all'Amministrazione Comunale di Porto Torres una proposta di uno nuova gestione dell'Asinara sintetizzabile nei seguenti punti: • presenza nell'isola di un basso numero di detenuti e a limitata pericolosità ; • edilizia carceraria che dovrà rispecchiare più l'idea di una piccola città che di un carcere con conseguente trasformazione delle celle in piccoli appartamenti per detenuti; • possibilità di formazione di cooperative miste tra detenuti e cittadini liberi per la gestione delle risorse rinnovabili dell'isola; • l'apertura dell'isolo dell'Asinara ad un flusso turistico limitato; • possibilità di costituire centri di ricerca e di formazione in collaborazione con altri Enti ed Amministrazioni pubbliche e private. Tale proposta ha in se vari aspetti positivi sintetizzabili nel seguente modo: • la contemporanea presenza nell'isola di un Carcere e di un Parco costituisce il primo recupero e lo riabilitazione del detenuto avviene anche attraverso la gestione e conservazione delle risorse naturali; • la presenza del carcere garantisce la sorveglianza dell'isola altrimenti difficilmente attuabile con i soli mezzi di un Parco; • l'apertura dell'isola ad un flusso turistico limitato e giornaliero consente da un lato la fruizione di un ambiente così peculiare da parte di migliaia di persone all'anno e dall’altra garantisce la conservazione delle sue risorse rinnovabili; • la possibilità di impiegare i detenuti nella gestione dei servizi del Parco come il rimboschimento dell'isola, la sorveglianza delle Riserve integrali, il monitoraggio delle popolazioni dei Mammiferi selvatici, il servizio di guida turistica, l'Azienda agro-faunistico etc.;

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• lo disponibilità da parte dell’Amministra zione del Ministero di Grazia e Giustizia ad ospitare, in alcuni locali del Penitenziario alcuni Centri di Ricerco e di Formazione nel campo dello gestione ambientale. Da quanto esposto sopra risulta evidente che le indicazioni contenute nella proposta del Ministero di Grazia e Giustizia sono sufficientemente aperte e tali da garantire la fruizione pubblica dell'Asinara eliminando nello stesso tempo i pericoli speculativi che una liberazione affrettata dell'isola comporta. Va infine sottolineato che gli obiettivi del Parco dell’Asinara contenuti nel presente piano sono, a nostro parere, totalmente raggiungibili anche con la contemporanea presenza di un Istituto di Pena nell'isola.»

Peraltro, l'arrivo all’Asinara dei detenuti mafiosi sottoposti al regime 41 bis ha reso necessaria una serie di interventi straordinari sulle strutture che hanno destato non poche perplessità. Infatti mentre da uno parte sono stati stanziati 2.500.000.000 di lire per la ristrutturazione di alloggi e locali destinati al personale dello Polizia Penitenziaria, dall’altra parte sono stati stanziati 23.000.000.000 di lire per analoghi interventi a favore di Polizia di Stato e Carabinieri: come dire che il padrone di casa dorme sul tappeto per cedere il letto all'ospite! Ed infine non posso esimermi dall’esprimere tutto il mio disappunto per lo scempio e per l’inutile spreco di denaro dovuto all’installazione senza senno di un impianto di illuminazione in piena campagna. Come dire: cancelli in mare!

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inviate le vostre foto a: rivista@sappe.it

1987 - Scuola di Portici (NA) distaccamento di Ercolano sulla moto e al Poligono di Tiro (foto inviata da Cosimo Alfredo Cialone)

1968 - Scuola di Cairo Montenotte (SV) Corso Allievi AA.CC. (foto inviata da Mario Chirico)

1980 - Casa di Reclusione di Saluzzo (CN) Festa del Corpo (foto inviata da Alfio Schirripa)

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1983 - Scuola di Cairo Montenotte (SV) Corso Allievi AA.CC. Postino per la Scuola (foto inviata da Dante Antonio Torri)

1975 - Scuola di Cairo Montenotte (SV) 46° Corso Allievi AA.CC. ”Gaeta” (foto inviata da Alessandro Serra)

1988 - Scuola di Portici (NA) 100° Corso Allievi AA.CC. Ercolano foto di gruppo (foto inviata da Giovanni Orrù)

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inviate le vostre lettere a rivistae@sappe.it

Lettera al Direttore

V

orrei esprimere alcune riflessioni sull’ultima circolare, il saluto ai superiori.

Sicuramente giusto per carità di Dio, ma vi racconto cosa mi è successo ieri, smontante dalla notte, durante il controllo notturno. La sorveglianza mi richiamava in quanto non salutavo con saluto militare l’ispettore sostituto commissario, erano le tre di notte 2 detenuti tagliati uno che aveva mal di denti

e gridava nonostante i farmaci somministratogli, 6 a grande sorveglianza con pericolo d’impiccagione, e la sorveglianza si preoccupava di farmi notare che Ionta ha fatto una circolare che farei bene a leggere. Non voglio usare i termini che mi sono stati rivolti, non è giusto e poi mi ritengo un Signore, con 18 anni di servizio, Morale della favola alle sei del mattino smonto nel piazzale del carcere vedo arrivare l’ispettore della notte e subito lo salutavo, con saluto militare. Il bello è che era venuto a chiedermi se potevo fare il pomeriggio di 18.00-24.00 perchè il collega stava poco bene e aveva marcato malattia. Mi riferiva che ero l’unico che poteva garantire il servizio in quanto gli altri smontanti andavano tutti a casa fuori provincia.

Io lo salutavo, con il saluto militare e facevo notare che l’accordo quadro non ammette e non prevede 2 turni nello stesso giorno, chiarendo che visto che al dap si preoccupano di fare una circolare per il saluto ai superiori mentre il sistema carcere sta crollando, i colleghi si ammazzano e altri sono al nord lontano dai loro famigliari, IL CARCERE NON ERA UN PROBLEMA MIO e da oggi dicevo basta a doppi turni e straordinario e nel mio piccolo comincerò a creare tanti problemi così come spero facciano tantissimi altri colleghi. Non possiamo scioperare ma possiamo mettere in atto le normative alla lettera fino a bloccare i carceri. Saluto. Un Signore, con 18 anni di servizio.

il mondo dell’appuntato Caputo© di Mario Caputi & Giovanni Battista De Blasis - © 1992 - 2011

ALL A MANIFESTAZIONE EHI CAPUTO, MA PERCHE’ QUEL COLLEGA SI “MANGANELLA” DA SOLO?

BEH, SAI NON HA CAPITO SE E’ QUI PER MANIFESTARE O PER ORDINE PUBBLICO... NEL DUBBIO STA FACENDO ENTRAMBE LE COSE!

CHI E DIFEND I OR I ? N DIFE S

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