anno XIX • n.198 • settembre 2012
www.poliziapenitenziaria.it
Olimpiadi di Londra 2012
Poste Italiane S.p.A. Sped. in A.P. DL n.353/03 conv. in Legge n.46/04 - art 1 comma 1 - Roma aut. n. 30051250-002
Record di medaglie per le Fiamme Azzurre: due Argenti e tre Bronzi
in copertina: Gli atleti medagliati delle Fiamme Azzure. Da sinistra: Aldo Montano, Elisabetta Mijno, Matteo Betti, Vincenzo Mangiacapre e Clemente Russo
Per ulteriori approfondimenti visita il sito
www.poliziapenitenziaria.it Fotografa questo codice e leggi la rivista sul tuo cellulare
L’EDITORIALE La spending review al contratrio del DAP
Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria
di Donato Capece
IL PULPITO Il Capo del Dap Giovanni Tamburino mi ha convinto
ANNO XIX • Numero 198 Settembre 2012
di Giovanni Battista De Blasis Direttore Responsabile: Donato Capece capece@sappe.it
IL COMMENTO Dieci anni dopo si scoprono i pericoli del fondamentalismo islamico segnalati dal Sappe
Direttore Editoriale: Giovanni Battista De Blasis deblasis@sappe.it Capo Redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it
di Roberto Martinelli
Redazione Cronaca:Umberto Vitale Redazione Politica: Giovanni Battista Durante
L’OSSERVATORIO La “questione FIAT” e il mercato globale
Redazione Sportiva: Lady Oscar Progetto Grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director)
di Giovanni Battista Durante
www.mariocaputi.it “l’ appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2012 by Caputi & De Blasis (diritti di autore riservati)
Direzione e Redazione Centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. - fax 06.39733669
LO SPORT Record di medaglie per le Fiamme Azzurre: due Argenti e tre Bronzi
E-mail:rivista@sappe.it Web: www.poliziapenitenziaria.it Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di:
di Lady Oscar
Polizia Penitenziaria - S G & S Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18.7.1994
CRIMINI & CRIMINALI La mala del Brenta
Stampa:Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma)
di Pasquale Salemme
Finito di stampare: Settembre 2012 Questo Periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana
Chi vuole ricevere la Rivista direttamente al proprio domicilio, può farlo versando un contributo di spedizione pari a 20,00 euro, se iscritto SAPPE, oppure di 30,00 euro se non iscritto al Sindacato, tramite il c/c postale n. 54789003 intestato a:
Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di PoliziaPenitenziaria
Polizia Penitenziaria • SG&S
POLIZIA PENITENZIARIA - Società Giustizia & Sicurezza
Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma specificando l’indirizzo, completo, dove va spedita la rivista.
n. 198 • settembre • pag. 3
Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it
La spending review al contrario del DAP
è
di pochi giorni fa la notizia che in Campania il 90% circa dei mezzi in uso alla Polizia Penitenziaria sono stati bloccati e non fatti uscire dal carcere di Napoli Secondigliano, con grave rischio per lo svolgimento di processi e udienze, dopo la denuncia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria sulla fatiscenza di molti dei mezzi in uso al Corpo di Polizia Penitenziaria, destinati al trasporto di agenti e detenuti ed in circolazione sulle strade del Paese nonostante il loro cattivo stato d’uso e, per taluni, persino del periodico tagliando di controllo ed affidabilità. A testimoniarlo, clamorosamente, il sequestro di un pullman del Corpo qualche settimana fa a Palermo perché, coinvolto in un incidente, è risultato privo del rinnovo del tagliando di controllo. Quello dei mezzi è un problema grave e serio: per la incolumità dei poliziotti e delle persone trasportate, ovviamente. Ma anche perché c’è il serio e fondato rischio che dal prossimo mese di ottobre la Polizia Penitenziaria non sia più in grado di assicurare il servizio istituzionale del trasporto dei detenuti (le cosiddette traduzioni). Già in questi giorni sono saltate diverse udienze in vari Tribunali, presso Magistrature di Sorveglianza e visite ambulatoriali programmate da tempo. Abbiamo in tutta Italia centinaia e centinaia di automezzi del Corpo fermi in attesa di riparazioni che non possono essere eseguite perché mancano i soldi, tanto che è lo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a comunicarlo ufficialmente nelle note di risposta alle lettere delle Direzioni delle carceri che chiedono, appunto, fondi per le riparazioni. Non solo: tanti mezzi hanno oltre 300, 400 e persino 500mila chilometri sulle spalle e persino procedure obbligatorie di sicurezza come i periodici collaudi non vengono osservata proprio perché non ci sono soldi. E’ una situazione catastrofica: questo deve fare seriamente riflettere sui gravi rischi che le
donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria quotidianamente affrontano nel trasportare i detenuti. Denuncio una volta di più le quotidiane difficoltà operative con cui si confrontano quotidianamente le unità di Polizia Penitenziaria in servizio nei Nuclei Traduzioni e Piantonamenti dei penitenziari: agenti che sono sotto organico, non retribuiti degnamente, impiegati in servizi quotidiani ben oltre le 9 ore di servizio, con mezzi di trasporto dei detenuti spessissimo inidonei a circolare per le strade del Paese, fermi nelle officine perché non ci sono soldi per ripararli o con centinaia di migliaia di chilometri già percorsi. E il DAP che fa? Dopo la vergogna delle Maserati e delle Bmw usate per accompagnare gli alti dirigenti del DAP mentre i mezzi dei Nuclei Traduzioni sono fermi nelle officine, dopo le decine di Land Rover costate centomila euro l’una per accompagnare i collaboratori di giustizia ed invece distolte per portare in giro i dirigenti penitenziari, dopo gli uomini ed i mezzi distolti per portare in giro ex Ministri ed ex Sottosegretari, abbiamo saputo che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha pagato undici mila euro all’anno per acquisto di giornali e periodici nonostante la quotidiana rassegna stampa realizzata dal Ministero della Giustizia. Non solo: decine di migliaia di euro vengono spese per una Rivista del DAP, Le Due Città, che negli Istituti quasi nessuno legge e che non vede nessun poliziotto nel Comitato di Redazione. Ed è quasi offensivo il comunicato di presunte giustificazioni diramato dall’ufficio stampa del Dap in risposta alle nostre richieste di chiarimenti sugli sprechi del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Appare pretestuoso e strumentale il tentativo di una inverosimile difesa, a prescindere, dell’attuale capo del Dap. Non corrisponde al vero, infatti, che il capo Dap Giovanni Tamburino avrebbe disposto l’interruzione del servizio di acquisto di quotidiani e periodici
Polizia Penitenziaria • SG&S
per “la necessità di un drastico contenimento della spesa pubblica” perché a noi risulta, invece, che il servizio sia stato stoppato a causa dall’esaurimento dei fondi disponibili sul capitolo di spesa del Centro Amministrativo Giuseppe Altavista di Roma. Peraltro, gli acquisti brevi manu di quotidiani e periodici sono andati avanti fino a qualche giorno fa. La prova di quanto sostenuto dal SAPPE si evidenzia nel credito di 10.000 euro che l’Edicola presso la quale ci si è riforniti per anni, vanta ancora nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. Non ci prenda in giro, quindi, l’ufficio stampa del Dap (tanto solerte in queste improbabili difese d’ufficio quanto latitante quando si tratta di tutelare l’immagine e il prestigio della polizia penitenziaria) raccontandoci certe favolette sulle “prassi risalenti nel tempo e non disposte dall’attuale amministrazione” quando sappiamo tutti che l’attuale capo del Dap si è insediato da più di sei mesi e non può sottrarsi, per questo, dalle proprie responsabilità (anche in vigilando). Infondata risulta, parimenti, l’affermazione secondo la quale “le autovetture sono state dismesse da tempo” giacché sono ancora in dotazione al dap ben 30 Land Rover, dal valore di 100.000 euro ciascuna e dai costi di gestione stratosferici ed un numero imprecisato di automobili ben oltre la cilindrata massima stabilita dalla spendig review. Ci dica, infine, il dott. Tamburino le ragioni per le quali avrebbe concesso auto blu e autista al cappellano della scuola di Roma a spese dell’amministrazione penitenziaria e, quindi, dei contribuenti. Per onestà intellettuale bisognerebbe riconoscere che nella attuale gestione del Dap sono ravvisabili gli stessi sprechi di risorse delle precedenti gestioni. E i mezzi per le traduzioni, con 300/400/500mila chilometri sulle spalle, restano fermi perché non ci sono soldi per ripararli...
n. 198 • settembre • pag. 4
•
Giovanni Battista De Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it
Il Capo del DAP Giovanni Tamburino mi ha convinto
I
l 31 luglio scorso, con una convocazione estemporanea senza oggetto trasmessa soltanto il giorno prima, il Presidente Giovanni Tamburino ha tenuto una riunione con le organizzazioni sindacali sul tema (ad interpretazione) del disagio lavorativo, del burnout e del drammatico fenomeno dei suicidi dei poliziotti penitenziari. Ad onor del vero la convocazione non è stata certo “spontanea” da parte del Capo Dap, ma indotta dalla pressione di una sconcertante sequela di suicidi del personale del Corpo. Peraltro, nei giorni immediatamente precedenti l’incontro, ci sono stati anche alcuni gravi episodi di aggressione ai danni di poliziotti penitenziari, con conseguenze altrettanto gravi e, soltanto per fortuite circostanze, non culminati in tragedia. I tre episodi sono stati, in ordine di gravità: l’aggressione ad un assistente nel carcere di Spoleto che ha riportato gravissime lesioni al volto con una prognosi di settantacinque giorni, l’aggressione di un agente a Pisa da parte di un detenuto che era stato autore solo qualche giorno prima di analogo episodio senza che alcun provvedimento fosse stato adottato nei suoi confronti, l’aggressione di un agente donna nel carcere di Sassari soccorsa e difesa dalle stesse detenute perché in servizio da sola. Proprio sulla spinta di questi gravi episodi il Pres. Tamburino non ha potuto fare a meno di convocare le rappresentanze del personale che, insistentemente, manifestavano da tempo disagio e nervosismo. Purtroppo però, come spesso accade, la cura è stata peggiore della malattia. Le organizzazioni sindacali, da parte loro, hanno lamentato tutte un diffuso senso di abbandono risentito dal personale nelle carceri dove, spesso e volentieri, nessuno ha la sensibilità e l’attenzione per cogliere i segnali di disagio che talvolta provengono da qualche collega in particolare difficoltà. Il Sappe, per bocca mia, ha contestato in-
nanzitutto l’inconsistenza dell’azione dell’amministrazione nei riguardi nel disagio lavorativo. In tal senso, pur consapevoli di non avere titolo a dare consigli a qualcuno, ci siamo permessi di suggerire a coloro che hanno la responsabilità di dirigere la Polizia Penitenziaria di rivolgere la propria attenzione alle strategie delle grandi aziende (soprattutto negli Stati Uniti) che hanno fatto grandi investimenti economici e strutturali per il benessere del personale (asili nido, palestre, centri sportivi, piscine, beauty farm ...) con notevoli benefici sulla serenità e sulla produttività dei dipendenti. Altro che inutili brochure, centri di ascolto e fantomatici numeri verdi.... Stesso invito a rivolgere l’attenzione è stato fatto verso il pericoloso sfaldamento tra le fila della Polizia Penitenziaria dove, purtroppo, nessuno riesce più a cogliere i segnali di disagio provenienti da colleghi in difficoltà. Abbiamo cercato di far capire al Pres. Tamburino che è necessario riflettere sulla preoccupante involuzione dello spirito di corpo nella Polizia Penitenziaria. Lo spirito di corpo, il cameratismo (nella sua accezione positiva), il senso di appartenenza e la solidarietà di corpo sono delle caratteristiche che non si insegnano nei corsi di formazione né si possono imporre dall’alto poiché nascono spontaneamente e si consolidano attraverso la condivisione delle persone. Si tratta di sentimenti ed i sentimenti non si impongono ne si inducono. A margine del nostro intervento, abbiamo voluto rappresentare al Capo Dap tutto il nostro dissenso nei confronti della cosiddetta “vigilanza dinamica” e soprattutto nei confronti del cosiddetto “patto di responsabilità” con i detenuti che, a nostro avviso, portano soltanto al depotenziamento dell’autorità e dell’autorevolezza della Polizia Penitenziaria all’interno delle carceri, con tutto quello che ciò comporta in termini di rischio per l’ordine e la disciplina
Polizia Penitenziaria • SG&S
degli istituti e soprattutto per l’incolumità del personale. Il Capo del Dap, dopo aver impassibilmente ascoltato tutti gli interventi sindacali senza fare una piega, ha preso la parola ed ha esposto le sue ragioni. Dopo aver praticamente sorvolato ogni suggerimento, consiglio o proposta sindacale, il Pres. Tamburino ha ribadito nella sostanza tutte le sue determinazioni in tema di centri di ascolto e numeri verdi e, soprattutto, in materia di sorveglianza dinamica e patti di responsabilità con i detenuti, sui quali ha fermamente riaffermato tutta la propria convinzione in termini di efficacia e funzionalità. In buona sostanza l’incontro è stato deludente ed inconcludente come abbiamo avuto modo di dichiarare alle agenzie lo stesso giorno. Addirittura, due giorni dopo, ancora sulle agenzie di stampa abbiamo dichiarato «Inefficaci le soluzioni Dap su suicidi dei baschi azzurri. La riunione del 31 luglio è servita solo per “scaricarsi la coscienza”». Da parte mia, ho ascoltato molto attentamente la replica del Pres. Tamburino. In relazione al nostro dissenso sulla sorveglianza dinamica, con una protervia degna del miglior Marchese del Grillo, Tamburino ha affermato che «... i cambiamenti passano comunque anche “sulla testa” di chi non li vuole, come ha dimostrato la riforma del ‘75». A tal riguardo, ammesso e non concesso fosse vero quello che ha sostenuto Tamburino, forse sarebbe più opportuno usare le parole “ai danni” in luogo di “sulla testa” come ha detto lui. (Piuttosto, sarebbe davvero indispensabile che qualcuno di buona volontà all’interno del Dap ricordasse al dott. Tamburino che l’universo, con una sola irrilevante eccezione, è composto di altri). Ad ogni buon conto, mi domando se la “sorveglianza dinamica” piace a Tamburino perchè è efficiente e funzionale oppure è efficiente e funzionale perché piace a Tamburino ... Comunque alla fine il Capo Dap mi ha convinto ... ... mi ha convinto che è sempre più urgente la necessità di abbandonare il Ministero della Giustizia per passare alle dipendenze del Ministero dell’Interno!
n. 198 • settembre • pag. 5
•
Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it
Dieci anni dopo si scoprono i pericoli del fondamentalismo islamico segnalati dal Sappe
E
Nelle foto sopra Domenico Quaranta sotto fedeli in preghiera
ra la fine del 2003 quando gli organi di informazione si occupavano di una fino ad allora inedita denuncia del SAPPE: la cella poteva diventare luogo di potenziali conversioni religiose favorendo il fondamentalismo islamico. Scrivemmo, riprendendo un articolo apparso proprio su questa Rivista, che le allora crescenti tensioni tra civiltà islamica e cristiana potevano avere risvolti inquietanti anche all’interno delle carceri italiane, considerato l’alto numero di detenuti di fede islamica (soprattutto – ma non solo – extracomunitari). Da tempo rappresentavamo le nostre preoccupazioni circa le avvenute diverse conversioni, in carcere, di detenuti italiani all’Islam. Per molti diseredati, che a causa delle loro azioni sono stati puniti dalla società in cui vivono e sono nati, può risultare atto di emenda abbracciare un nuovo credo e così
avviare una facile via per la costruzione di una nuova identità sociale, favorita dall’idealizzazione di cui viene a godere tale atto: attribuendo al nuovo credo la capacità di riconoscere un valore a tutto ciò che la società di provenienza sanzione. Così ogni diseredato ben indottrinato può facilmente autoassolversi per il proprio essere deviante per il solo fatto di vedersi riconosciuto un ruolo all’interno della nuova società in cui entra abbracciandone il credo e lottando per Allah. Era già accaduto nel passato: un pregiudicato siciliano, convertitosi all’Islam in carcere dov’era detenuto per reati minori, fece esplodere due bombole di gas nel metrò di Milano (11 maggio 2002) e nei templi della Concordia di Agrigento (5 novembre 2001). Allora, come ora, i nostri istituti di pena ospitavano ed ospitano una popolazione detenuta di origine extracomunitaria estremamente vasta, variegata, rabbiosa e soprattutto sconosciuta. Una successiva interessante ricerca di Mohammed Khalid Rhazzali, dottore di ricerca in Sociologia dei processi comunicativi e interculturali presso l’Università di Padova, ci aiutò ad affrontare (sette anni dopo la nostra denuncia, nel 2010) il tema dell’esperienza religiosa dei musulmani nelle prigioni italiane, concentrandosi in particolar modo sulla ricostruzione dei modi in cui la religione opera nella dimensione soggettiva del detenuto, favorendo una possibilità di ricostituzione di un’autostima e una nuova affermazione identitaria. Lo studio accerterà che nel carcere i musulmani sembrano incontrare la replica esasperata del loro essere in quanto immigrati co-
Polizia Penitenziaria • SG&S
stretti in uno spazio caratterizzato da regole e da logiche estranee alla loro cultura di provenienza e spesso non facilmente mediabili con la spontaneità del loro comportamento. La religione quindi si presenta al musulmano che vive una condizione di avvilimento, di sconfitta esistenziale e di mortificazione nell’istituzione totale come una possibilità di ricostituzione di un’autostima, e come accesso a una ritrovata esperienza d’ordine nell’organizzazione della vita, oltre che ovviamente ma anche problematicamente come affermazione identitaria. Scrivemmo, sempre nel 2005 e possiamo confermarlo anche oggi, che di pochi di questi detenuti stranieri si conoscevano i reali collegamenti con l’esterno: ma non solo, questi soggetti facevano e fanno della comune situazione di detenzione un valido strumento di predicazione verso i soggetti più deboli e diseredati ristretti con loro. Per un musulmano, infatti, è più importante la religione della nazionalità. I musulmani credono di essere legati dalla loro fede comune all’interno di un’unica comunità - la umma - in cui tutti sono fratelli l’uno dell’altro. Questo spiega quella solidarietà particolare che l’Islam crea, al di là dei limiti di frontiera. Ma i fondamentalisti di tutte le religioni hanno caratteristiche comuni: tutti interpretano i simboli alla lettera. Sono altamente selettivi sui fondamenti che scelgono di rispettare e sulle porzioni di modernità da tollerare. Tutti fanno riferimento a testi tradizionali e li usano fuori dal loro contesto. Tutti praticano forme di manicheismo, vedendo se stessi come parte di una battaglia cosmica tra il bene e il male in cui devono
n. 198 • settembre • pag. 6
trovare gli oppositori e demonizzarli. In tale contesto, denunziammo come la cella poteva diventare il luogo in cui, sempre più spesso, piccoli criminali erano tentati da membri di organizzazione terroristiche detenuti. Del resto, già nel nostro recente passato le Brigate Rosse avevano inteso le carceri quali luoghi di lotta e proselitismo. Analogo stratagemma veniva messo in atto dagli esponenti del terrorismo islamico, i quali cercano così di mimetizzare la propria attività infiltrando propri adepti fedeli e non sospetti, in quanto occidentali. Auspicammo, in conclusione, un necessario sforzo formativo dell’Amministrazione penitenziaria teso a dare gli strumenti tecnico-cognitivi alla Polizia Penitenziaria per incrementare la propria professionalità, adattando le competenze e i metodi esistenti con nuovi standard operativi, in modo da trattare tali situazioni senza prescindere dalla diverse culture che si incontrano all’interno del carcere, e rivendicano come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria potevano giocare un ruolo di primaria importanza all’interno dell’opera di prevenzione di tali fenomeni dal fronte delle carceri. Quasi dieci anni dopo quella denuncia, una importante pubblicazione a cura dell’Issp (Istituto superiore di studi penitenziari) torna a denunciare come dietro le sbarre cresca il proselitismo islamico. A evidenziarlo è lo studio La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere, condotto dal magistrato Francesco Cascini, direttore dell’Ufficio per l’attività ispettiva e di controllo presso il DAP e da alcuni vice commissari che hanno partecipato al 2° corso di formazione dell’Issp. Dalla ricerca, emerge una situazione allarmante - descritta dall’Europool e da altri osservatori europei - nel Regno Unito dove la radica-
lizzazione avviene grazie all’influenza di altri detenuti o i colloqui con familiari e visitatori autorizzati per l’assistenza religiosa. Negli istituti di pena londinesi risulta che molti detenuti non musulmani siano stati costretti, con la violenza fisica, a convertirsi all’Islam, a non consumare carne di maiale e a seguire i dettami della sharia. E proprio in un carcere inglese Richard Reid, cittadino britannico, si convertì all’islam e iniziò la sua formazione terroristica che lo portò ad addestrarsi in Afghanistan e in Pakistan e, infine, nel dicembre 2001, a tentare di far esplodere un aereo in rotta verso Miami imbarcandosi con polvere e detonatore nascosti nelle scarpe. Ma anche in Italia, evidenzia il rapporto, esistono casi analoghi, sia pure meno eclatanti, e si cita il già ricordato caso di Domenico Quaranta, convertito all’islam nel penitenziario di Trapani e autore di attentati incendiari ad Agrigento ed all’interno della metrò di Milano, oggi riconosciuto imam dai detenuti accusati di terrorismo internazionale nel carcere dell’Ucciardone dove si trova. Il ‘Quaderno’ documenta anche i risultati di un monitoraggio avviato dall’Ufficio per l’Attività Ispettiva e del Controllo che, dopo aver individuato tre figure ricorrenti tra gli islamici praticanti (i leader e/o conduttori di preghiera, i promotori della creazione nelle carceri locali di incontro tra detenuti di fede islamica; i partecipanti agli incontri), elabora un indice di attenzionabilità e, dallo studio delle ordinanze di custodia cautelare, desume che la maggior parte dei leader appartenevano ai gruppi terroristici Gspc (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento), Gicm (Gruppo Islamico Combattente Marocchino), Al Quaeda e Hamas. L’islamizzazione in senso jihdaista passa prima attraverso la radicalizzazione, il ri-
Polizia Penitenziaria • SG&S
fiuto integrale dell’Occidente, e trova terreno fertile in individui fragili che «cercano nell’Islam una tregua da un passato inquieto e credono che alcune azioni, come ad esempio la partecipazione ad un attentato suicida, possano offrire un’opportunità per la propria salvezza e perdono». Molti detenuti, duqnue, abbracciano l’Islam per essere accettati nella comunità di individui che sono già musulmani e per acquisire/consolidare un’identità. Quasi tutti prima della conversione conoscono poco o affatto la religione islamica. Prevenire il proselitismo significa dunque in primo luogo riconoscere il fenomeno della radicalizzazione violenta, aspetto che pone un problema di formazione specifica del personale europeo, penalizzato dalla barriera linguistica e dalla profonda diversità culturale. Nel ‘Quaderno’ si approfondiscono anche aspetti specifici riguardanti il trattamento e la sicurezza come l’Islam e il ruolo della donna operatrice penitenziaria (Aureliana Calandro), il ruolo del ministro di culto islamico (Nadia Giordano), la gestione della socialità (Giovanni La Sala), la vigilanza della Polizia Penitenziaria sui detenuti di matrice terroristica radical religiosa (Salvatore Parisi), gli strumenti della prevenzione (Melania Quattromani), la gestione penitenziaria e la devianza criminale (Giuseppe Simone), le azioni di contrasto del fanatismo islamico (Pasquale Spampanato). Sarebbe ora auspicabile che la pubblicazione non resti una letture d’elitè ma venga quanto più possibile diffusa tra il personale di Polizia Penitenziaria, favorendo con l’occasione momenti di aggiornamenti professionali sulla delicata materia.
n. 198 • settembre • pag. 7
•
Nelle foto sopra preghiera in carcere a sinistra Richard Reid
A fianco la copertina del Quaderno dell’ ISSP
Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it
La “questione FIAT “ e il mercato globale
A
Ancora una volta il governo italiano è costretto ad affrontare la questione Fiat, l’azienda torinese che, ormai, di italiano comincia ad avere ben poco e da tempo non riesce più ad essere leader del mercato automobilistico in Italia. Ma possiamo ancora parlare di italianità, in un mercato ormai globalizzato, dove il primo problema è la difficoltà di reggere la concorrenza di tanti altri paesi, marchi e prodotti? Prendiamo proprio il caso dell’automobile. Intanto, i dati degli ultimi periodi sono negativi sul mercato europeo e lo sono in modo particolare per l’Italia, considerato che la Fiat continua a perdere quote di mercato. I dati diffusi nei giorni Al centro scorsi dimostrano che ad agosto, nei 27 il logo della paesi UE, il calo è stato dell’8,5%, menFIAT tre a luglio le vendite sono diminuite del 7,5%. Per quanto riguarda l’Italia, invece, le immatricolazioni sono calate del 21% ad agosto e del 20,2% a luglio. Le vendite Fiat, ad agosto, sono calate del 17,7%. Sui cali del mercato dell’auto incide notevolmente la crisi generale che ha investito l’Europa e non solo, ma per quanto riguarda la Fiat, sicuramente, ci sono anche altre cause, considerato che la crisi non è solo di quest’ultimo periodo, ma ha origini più antiche. Intanto c’è un’incapacità di essere concorrenziali rispetto ad altre case automobilistiche, offrendo prodotti che abbiano la stessa qualità a costi più contenuti. I prodotti Fiat, negli ultimi anni, non sono stati assolutamente concorrenziali rispetto ad altre case automobilistiche. Inoltre, i governi italiani che si sono succeduti hanno elargito finanziamenti, ma forse avrebbe fatto meglio ad imporre alle amministrazioni dipendenti l’acquisto di macchine Fiat, piuttosto che quelle straniere, con l’impegno, da parte della stessa azienda, di maggiori investimenti in Italia: ogni tanto un po’ di sano nazionalismo, anche in tempi di globalizzazione, forse non guasterebbe, ma consentirebbe di garantire qual-
che posto di lavoro in più nel nostro Paese. La crisi non riguarda solo l’azienda automobilistica, ma il mondo del lavoro in generale. I posti di lavoro diminuiscono sempre di più, anche se bisogna registrare, negli ultimi anni, la crescita dell’occupazione tra gli immigrati che, ormai, sono un milione coloro che lavorano nel nostro Paese, a fronte dei circa cinque milioni presenti sul territorio, esclusi, ovviamente, i clandestini.
Ciò dimostra un’altra cosa: che molti lavori gli italiani non li vogliono più fare da tanti anni, diversamente da ciò che sostengono in molti, e cioè che gli immigrati toglierebbero lavoro agli italiani. Anche tra i lavoratori regolari, in molti settori, non si trovano italiani disposti a lavorare: nell’agricoltura, nel piccolo commercio, nei lavori domestici e, in buona parte, nel settore manufatturiero. Tale situazione, ormai evidente nella maggior parte delle regioni italiane, è stata sintetizzata molto bene da Dario Di Vico sul Corriere della Sera. Infatti, scrive Di Vico che «In Italia veniamo da un lungo periodo in cui il lavoro manuale è stato schivato, messo da parte, considerato utile tutt’al più per impiegare/stabilizzare i nuovi immigrati. E’ passata l’idea che rifuggire dalla manualità equivalesse di per sé a una
Polizia Penitenziaria • SG&S
sorta di mobilità sociale verso l’alto, che fosse da preferire una laurea qualsiasi a un posto sicuro e ben remunerato nell’agricoltura, nel commercio tradizionale, nell’agricoltura, nel commercio tradizionale, nell’artigianato. Le famiglie hanno generosamente finanziato quest’illusione e per paradosso stiamo assistendo ancora oggi ad esercizi commerciali e piccole imprese che chiudono perché la staffetta generazionale si rivela impossibile. Avviene in Brianza non a Roma ed è tutto dire. I figli rifiutano il lavoro dei loro genitori considerandolo eccessivamente duro e soprattutto socialmente non gratificato». Di Vico ha trascurato di dire che questo spazio lasciato vuoto dagli italiani è stato opportunamente occupato, in larga parte, dagli immigrati, i quali si sono pian piano sostituiti agli italiani rinunciatari. Infatti, nelle regioni del nord Italia molte delle partite iva lasciate dagli italiani per raggiunti limiti di età sono passate agli immigrati, i quali ora gestiscono quelle piccole attività commerciali che, in parte, hanno contribuito ad accrescere il Pil ed il benessere del nostro Paese. La stessa cosa è avvenuta nell’agricoltura e nei lavori manuali in genere. Quindi, quello delle attività intellettuali sembrerebbe un mito ormai al tramonto, per cui, l’operazione da fare, come sostiene lo stesso Di Vico nel suo articolo, sarebbe quella di «accompagnare il rilancio del lavoro manuale con il mutamento della sua immagine». Pertanto, è necessaria anche un’inversione di tendenza sociale e famigliare, nella quale si faccia comprendere ai giovani che un medico, un avvocato e un ingegnere non sono persone migliori e più stimate di un idraulico, un muratore, un macellaio e così via. Operazione complessa, facile a dirsi e difficile da attuare, in una società in cui lo status conta più di ogni altra cosa. Almeno questa è l’idea che ci è stata inculcata negli ultimi quarant’anni; anni in cui le famiglie contadine e operaie hanno, anche giustamente, cercato di migliorare la loro posizione sociale ed economica facendo studiare i propri figli.
n. 198 • settembre • pag. 8
•
Richiedi il tuo indirizzo e-mail di PoliziaPenitenziaria.it:
tuonome@poliziapenitenziaria.it
mariocaputi.it
Un euro al mese per la posta elettronica offerta a tutti gli appartenenti al Corpo, in servizio e in congedo.
FREE euro 0 / anno 50 MB
• Prezzo • Dimensione caselle • Filtri antispam • Pop3 • IMAP • SMTP autenticato • Creazione infiniti alias • Gestione rubrica da web • Webmail • Salvataggio e-mail su server durata illimitata • nessuna sospensione per mancato utilizzo • Pagamento on line carta di credito/PayPal
PRO euro 12 / anno 100 MB
’ A T I NOV Visita il sito www.poliziapenitenziaria.it per scoprire modalità e procedure per attivare il servizio.
a cura di Lady Oscar Redazione Sportiva rivista@sappe.it
Olimpiadi di Londra 2012
Record di medaglie per le Fiamme Azzurre: due Argenti e tre Bronzi
A
settembre si è chiuso il sipario sui giochi olimpici e paralimpici di Londra 2012 e nel consuntivo delle valutazioni che si possono fare al termine dei grandi eventi, le Fiamme Azzurre hanno molto di cui poter gioire ed essere orgogliose in termini di partecipazione e di risultati. Innanzitutto, relativamente al primo aspetto, il gruppo della Polizia Penitenziaria con la trentesima edizione dei giochi ha registrato il maggior numero di presenze di suoi agonisti: sono stati ben 18 contro i 16 di Pechino, con una maggioranza di quote rosa (11 donne e 7 uomini). Per quanto riguarda i podi conquistati invece si è riusciti a superare le due medaglie dell’edizione precedente (il bronzo di Tatiana Guderzo nel ciclismo e l’argento di Giovanni Pellielo nel tiro a volo), grazie alle due medaglie del pugilato - l’argento di Clemente Russo ed il bronzo di Vincenzo Mangiacapre - e al bronzo nella sciabola a squadre conquistato da Aldo Montano con i compagni di nazionale quando a causa di un infortunio all’adduttore occorsogli due mesi prima della partenza era persino in forse la sua presenza ai giochi. Quella di Aldo è stata la prima medaglia per le Fiamme Azzurre a Londra, la dodiceNelle foto a fianco Aldo Montano a destra Clemente Russo
sima della delegazione italiana, conquistata in una gara molto combattuta al termine della finale per il bronzo contro la squadra russa, grande favorita della vigilia e poi superata per 45 a 40 dai nostri azzurri. In semifinale Aldo Montano, Diego Occhiuzzi, Luigi Tarantino e Luigi Samele, si erano dovuti inchinare alla compagine della Corea del sud per 45 a 37 e quella semifinale era stata raggiunta grazie alla personalità e all’esperienza di Montano, autore ed interprete di un’incredibile rimonta contro la Bielorussia nei quarti. L’Italia era infatti sotto 40-36 prima dell’ultimo assalto, quando il portacolori delle Fiamme Azzurre è salito in pedana e ha recuperato fino ad un pericolosissimo 44-40 per il bielorusso Buikevich, che a quel punto aveva quattro match-point, ma Montano ha tirato 5 stoccate di fila portando la squadra a sfidare la Corea per un posto in finale. Nella sfida per il bronzo il primo assalto è stato quello del nostro sciabolatore livornese contro il fortissimo Kovalev campione del mondo in carica, finito 5-3 per il russo. Nel secondo Occhiuzzi contro il russo Yakimenko, con il punteggio finale di 10 a 7 per la Russia . A completare il terzo giro il foggiano Luigi Samele, all’esordio olimpico contro Reschetnikov, che ha fatto recuperare la squadra portandola 15-14 dopo un ottimo assalto. Nel secondo giro pieno di speranze per gli azzurri, Occhiuzzi finisce il suo assalto con l’Italia avanti 20-17, poi di nuovo in pedana Montano, che chiude 25-24. E’ stata poi la volta di Samele che ha riportato avanti gli azzurri sul 30-29. Finale giocata sul filo a tre assalti dalla fine. Ricomincia Occhiuzzi e l’Italia va in vantaggio 35-30. All’ottavo assalto Samele ci tiene davanti 40-36 Ultimo fatica per il bronzo con Montano che contro Yakimenko è stato autore del mi-
Polizia Penitenziaria • SG&S
glior assalto della sua finale e soprattutto della stoccata numero 45 che ha regalato il bronzo all’Italia. Riguardo alle medaglie di Russo e Mangiacapre c’è una considerazione a margine da fare: tra gli ultimi settori entrati nel novero delle discipline ospitate dal gruppo sportivo Fiamme Azzurre, il pugilato sta dando negli ultimi anni ampia prova di essere uno sport vivo e con prospettive di continua crescita nel movimento sportivo nazionale. Seven man for a dream era stato il motto della presentazione della squadra olimpica del 4 luglio 2012 ad Assisi, ed effettivamente, su sette elementi in gara, un bronzo e due argenti (l’altra piazza d’onore è stata quella del Fiamme Oro Roberto Cammarelle) non sono stati certamente poca cosa. A parità di atleti presenti per disciplina ha fatto meglio solo la scherma azzurra ed in assenza di medaglie pesanti dal nuoto, le tre del pugilato hanno consentito di chiudere in positivo il bilancio finale in terra inglese. Diciamo insomma che l’investimento nel settore pugilistico per le Fiamme Azzurre con i due guerrieri campani Tatanka e Murzy, è stato più che buono, e chi aveva pensato che i margini per far bene fossero molti è stato già ampiamente ripagato.
n. 198 • settembre • pag. 10
Clemente Russo è stato autore di una finale generosa, arrivata dopo la vittoria nei quarti contro il cubano Gòmez. Nonostante la sconfitta per 14-11 (3-1, 5-7, 3-6) contro l’ucraino Oleksandr Usyk, non si può non riconoscergli che ha dato tutto quello che aveva contro un avversario venticinquenne ostico, che ha fatto valere sul piano fisico i suoi cinque anni in meno oltre ad un’enorme fame di vittoria. Dopo un primo round di spessore, col nostro ad attaccare sin dall’inizio e l’ucraino più attendista, il parziale di 3-1 di ha premiato i tre minuti intensi ed efficaci di Clemente. Nel secondo round è arrivata la rivalsa dell’ucraino che tra l’altro è giunto a Londra da numero uno del ranking mondiale. Russo ha mandato a segno altri tre colpi incassandone sette, per arrivare poi alla totale parità all’ultima campanella (8-8).
Quella di Vincenzo Mangiacapre è stata invece la 20° medaglia per l’Italia ai Giochi. Il superleggero (64 kg) di Marcianise ha superato i quarti battendo 16-12 il kazako Yeleussinov scontrandosi poi semifinale con il cubano Sotolongo con la certezza matematica di avere già il bronzo in tasca. E’ una boxe agile e imprevedibile quella del campione di Marcianise: bravissimo nelle schivate (che gli consentono di tenere la guardia leggermente più bassa), negli attacchi in controtempo che colgono di sorpresa gli avversari e rapido nei corpo a corpo. Vincenzo a Londra ha dimostrato definitivamente di essere un talento su cui poter contare negli appuntamenti importanti dopo aver portato a casa il bronzo ai mondiali di Ankara e Baku del 2011. Nella corsa all’oro ha ceduto solo al cubano Roniel Iglesias Sotolongo per 15-8 (32, 7-4, 5-2) bravo soprattutto nella prima
ripresa a piazzare a chiudere con il vantaggio minimo di 3 a 2. Nella seconda ripresa Vincenzo torna in sé facendo combattendola da protagonista e portando molti colpi. Meriterebbe il vantaggio ma incredibilmente il parziale è a favore di Sotolongo per 7 a 4, che sommato al 3 a 2 della prima ripresa pesa complessivamente un 10 a 6 all’inizio della terza pressoché irrecuperabile a meno di una prova coraggiosa che poteva essere nelle corde di Mangiacapre. Invece il cubano incrementa il vantaggio imponendosi per 5 a 2 che dà un complessivo di 15 a 8 comunque più bugiardo rispetto ai valori effettivamente espressi in campo. Chiusa la parentesi olimpica dal 29 agosto al 9 settembre è stata la volta delle paralimpiadi di Londra. Chi è amante di sport si è sorpreso ad appassionarsi e commuoversi di fronte ad una seconda spedizione azzurra che curiosamente ha portato a casa 28 medaglie precise come la prima, migliorando di ben dieci metalli i 18 podi di Pechino 2008. Un successo sportivo e di visibilità internazionale, grazie anche a stelle come Pistorius o Alex Zanardi, un vincente delle corse automobilistiche internazionali a 300km/h e poi campione paralimpico della handbike (due ori individuali e l’argento in staffetta), orgoglioso di essere a Londra e di vincere, dichiarando che se tutto quello che gli è capitato non lo avesse portato alle gare paralimpiche forse tante soddisfazioni non le avrebbe mai conosciute, con il rischio di essere un uomo arrabbiato con la vita come oggi invece non si sente di essere. Il presidente del Comitato Italiano Paralimpico Luca Pancalli ha parlato di trionfo al termine dei giochi: «E’ stato un trionfo: Londra segnerà uno spartiacque nella storia delle Paralimpiadi. Si sono affacciati alla ribalta atleti molto giovani, ma abbiamo visto anche straordinari campioni che hanno fatto la nostra storia. Stiamo raccogliendo i frutti del lavoro iniziato ancora prima di Pechino: quattro anni fa le fondamenta erano già state po-
Polizia Penitenziaria • SG&S
sate, ma eravamo all’inizio«. Ed un anno prima di questo inizio, nel luglio 2007, le Fiamme Azzurre, prime tra tutti i gruppi sportivi dei corpi in divisa, ammettevano tra le proprie fila gli atleti paralimpici, grazie alla storica firma del protocollo siglato con il Cip, ponendo la pietra d’angolo per le successive aperture allo sport disabile nel nostro Paese e cogliendo l’opportunità di includere tra i campioni delle Fiamme Azzurre altri campioni di livello assoluto. Tra coloro nei quali si riponevano molte speranze di podio per le paralimpiadi di Londra nelle fila dei portacolori della Polizia Penitenziaria, c’erano Elisabetta Mijno, argento individuale nell’arco in carrozzina nella categoria W 2 e Matteo Betti, medagliato nella scherma con il bronzo individuale nella spada in carrozzina categoria A. Nelle foto a sinistra Vincenzo Mangiacapre a destra Elisabetta Mijno sotto il Commissario Marcello Tolu tra Elisabetta Mijno e Matteo Betti
Elisabetta, impegnata contro la numero uno del mondo, l’iraniana Zahra Nemati, ha ceduto l’oro con un punteggio finale di 131 punti (25, 26, 27, 29, 24) a 137 (25, 28,
n. 198 • settembre • pag. 11
➠
Nella foto 28, 28, 28), per un totale di 3-7.Quello di a destra scontrarsi contro una rappresentante iraMatteo Betti
niana era un desiderio per nulla celato dalla campionessa di Moncalieri alla vigilia della gara: la scuola iraniana infatti è nota per le ottime tradizioni sportive nell’arco e poiché è generalmente poco presente agli appuntamenti internazionali per motivi diplomatici l’occasione per il confronto era da non perdere. Non a caso proprio la rappresentante iraniana, primatista mondiale e paralimpica
Ernesto Morandini Segretario Generale Aggiunto del SAP - Sindacato Autonomo Polizia
in carica, è stata l’unica a tenere testa alla nostra atleta, imponendosi nella finale per 7 a 3. Elisabetta aveva eliminato nelle fasi precedenti la turca Kalay per 6 a 2 e la cinese Li Jinzhi per 6 a 4. Nello stesso giorno in cui nell’arco la sua compagna di club e di nazionale esultava per l’argento, Matteo Betti nel fioretto maschile categoria A, la disciplina in cui è primo al mondo, usciva di gara contro ogni previsione nella fase a gironi. Scrollatosi di dosso la delusione, l’atleta senese in forza alle Fiamme Azzurre ha però trovato riscatto nella competizione di spada individuale, costruendo con intelligenza e calma la sua scalata verso la medaglia di bronzo, la seconda per la spedizione della Polizia
Gruppi Sportivi in divisa i numeri (e i campioni) che fanno la differenza
182
Nella foto del box Jessica Rossi
atleti su circa 300 componenti della delegazione nazionale che ha partecipato alle Olimpiadi Londra provengono dai Gruppi Sportivi delle Forze di Polizia, delle Forze Armate e dei Vigili del Fuoco. La maggior parte delle medaglie e dei record conseguiti durante gli ultimi Giochi è stata ottenuta da campioni in divisa. Basterebbero questi dati per confermare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto siano rilevanti per lo Sport con la “S” maiuscola gli atleti che indossano i colori della Polizia di Stato, della Polizia Penitenziaria e degli altri Corpi dello Stato. In alcune discipline – come nell’atletica, nel judo, nella lotta, nel pugilato, nella scherma e nel tiro a volo – il livello di presenza dei nostri atleti sfiora il cento per cento. Negli altri sport, siamo in ogni caso su percentuali elevatissime. Da questo discendono successi e vittorie che l’Italia olimpica mai avrebbe conquistato senza questi Eroi in divisa. Il merito va anche ai preparatori, agli staff, alle strutture che lavorano tantissimo e con grande dedizione per preparare i campioni dei quali si fregiano poi le nazionali di ca-
tegoria, ma che restano comunque orgogliosamente appartenenti ai Corpi di Polizia. Assieme agli amici del SAPPe, abbiamo condotto nelle rispettive Amministrazioni importanti lotte per i Gruppi Sportivi, finalizzate soprattutto a difendere questi fiori all’occhiello da tagli indiscriminati. Nei mesi che hanno preceduto le Olimpiadi, grazie all’ospitalità di questa rivista, avevo segnalato la delicata situazione che si era creata nel Settore Tiro a Volo delle Fiamme Oro, dove una diminuzione del budget metteva in pericolo il rifornimento di munizioni, col rischio di compromettere le prestazioni sportive olimpiche. Siamo riusciti a evitare tale scempio e i risultati londinesi c’hanno dato ragione: un esempio folgorante viene dalla bravissima Jessica Rossi, per altro iscritta SAP, che ha vinto la Medaglia d’Oro e ha battuto il record del mondo nella fossa olimpica. Un’ultima cosa voglio dire e credo di parlare anche per conto del SAPPe: la battaglia per la difesa dei Gruppi Sportivi, che non è nata certo ieri, va avanti e proseguirà con sempre maggiore forza!
Polizia Penitenziaria • SG&S
Penitenziaria, la prima della scherma azzurra paralimpica. Dopo aver superato l’ungherese Tamas Juhasz, 5-0 e lo statunitense Gary Van Der Wege, l’unico a fermare la sua corsa verso l’oro è stato il francese Romani Noble, per 15 a 9, anche se Matteo ha poi avuto modo di rifarsi nella finale per il bronzo contro il russo Artur Yusupov, superandolo per 15 a 10 e portando a casa una medaglia che ha inseguito in un intero quadriennio fatto di preparazione e duro lavoro, curiosamente vincendo in un’arma a lui meno congeniale rispetto al preferito fioretto: nell’edizione precedente di Pechino nella spada fu solo settimo. Mercoledì 19 settembre c’è stato l’ultimo atto che ha concluso la lunga parentesi olimpica e paralimpica dei campioni azzurri: al Quirinale tutti i medagliati di Londra sono stati ricevuti in udienza dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la riconsegna del tricolore e le congratulazioni di rito. In una delegazione guidata dal capo del Dap Giovanni Tamburino ed il responsabile del gruppo sportivo Marcello Tolu, c’erano anche tutte le nostre Fiamme Azzurre sorridenti, vincenti e disponibili a qualche scatto che in questo numero vi mostriamo. Con l’uniforme del Corpo indossata ed i loro successi sono espressione di quella parte di Polizia Penitenziaria più visibile e fruibile dal grande pubblico e per questo così preziosa da preservare.
n. 198 • settembre • pag. 12
•
di Erremme rivista@sappe.it
Tornano a crescere i reati in Italia: +5,4 per cento, 205mila furti in casa
I
l consuntivo dei reati nel 2011, dopo tre anni di flessioni, evidenzia un aumento del 5,4% e il totale dei delitti ha superato quota 2 milioni 760 mila. È quanto emerge dai dati del ministero dell’Interno e pubblicati recentemente sul quotidiano Il Sole 24 ore, con un’elaborazione provinciale e per tipologia di reato.
Un ritorno spiegabile in parte con la crisi economica tanto è vero che sono proprio i reati predatori a manifestare gli incrementi maggiori. Ed a essere più colpite sono le aree metropolitane e quelle caratterizzate da una struttura economica più florida, come alcune province tosco-emiliane. Le province in classifica in base all’incidenza dei reati totali sulla popolazione (in testa Milano, Rimini, Bologna e Torino), in base alle variazioni 2011/1010 (i maggiori aumenti a Forlì, Livorno, Rimini e Ravenna), e la classifica dei furti nelle abitazioni, reato che nel 2011 è cresciuto del 21% sfiorando i 205 mila casi. Crescita analoga per le rapine (oltre 40 mila) con i negozi che hanno sostituito le banche come bersaglio. Borseggi (134 mila) e scippi (quasi 17.700) sono saliti rispettivamente del 16 e del 24%.
Milano ha la più alta incidenza di reati in rapporto alla popolazione: 7.360 ogni 100 mila abitanti, ed è prima per volumi, seguita da Roma. Napoli è invece al primo posto per le truffe (353 ogni 100 mila abitanti) e per le rapine (270 ogni 100 mila persone); negli scippi è invece seconda solo a Catania (quasi 100 ogni 100 mila persone) che svetta anche per furti di autovetture. La piaga dei borseggi, infine, colpisce soprattutto Genova, Bologna, Milano e Rimini mentre le abitazioni più visitate dai ladri sono a Lucca, Pisa e Pavia. Milano e Roma, ha rilevato Il Sole 24 ore non riescono a scendere dal podio dei reati neppure nel 2011, confermando la difficoltà in cui si trovano da anni sul versante della sicurezza. La provincia lombarda svetta con un carico totale di reati che sfiora i 295 mila casi e una pressione di 7.360 mila denunce ogni 100 mila abitanti. La capitale è invece seconda per volumi con 258 mila denunce, seguita da Torino e Napoli (rispettivamente sopra quota 155 mila e 133 mila). Per incidenza sulla popolazione Roma è solo in quinta posizione (6.138 mila delitti ogni 100 mila abitanti), preceduta da altre aree metropolitane come Bologna e Torino. Particolare il caso di Rimini, in seconda posizione, penalizzata dal calcolo matematico, visto che i pochi residenti, circa 330 mila, devono ripartirsi’23 mila delitti, in gran parte concentrati nei mesi estivi, quando le accresciute presenze determinano un aumento delle occasioni per la criminalità. Molto interessante e condivisibile il commento ai dati che ha fatto, sempre sul quotidiano economico, Giovanni Negri, il quale ha auspicato che l’allarme sociale non freni le riforme penali. Negri ha giustamente sottolineato il rischio che, alla luce dell’aumento dei
Polizia Penitenziaria • SG&S
dei reati, in controtendenza rispetto ai dati dell’ultimo triennio, ciò possa rappresentare un ostacolo sulla via delle riforme. Che in parte sono già delineate e, di certo, non possono ancora slittare. Se l’allarme sociale, che è reazione giusta oltre che comprensibile, sfocia in allarmismo oltranzista, il pericolo di un impasse alla ripresa dei lavori parlamentari è assai concreto. Anche perché a breve saremo all’inizio della volata elettorale che si concluderà in primavera e si sarebbe troppo facili profeti nel ritenere che le forze politiche (tutte) avranno poca o nessuna voglia di spendersi su temi a elevata sensibilità come quelli della criminalità e delle carceri. Si tratterebbe però di un errore grave, dice ancora Negri. Perché un Governo che ha avuto la temerarietà di condurre in porto riforme scomode come quella sulla geografia giudiziaria, ha senz’altro le carte in regola per fare approvare anche misure altrettanto serie come quelle in agenda sulla depenalizzazione e le misure alternative al carcere. Provando in questo modo a coniugare obiettivi di civiltà (le condizioni delle nostre carceri da tempo oltre il limite massimo di tollerabilità, come ben sappiamo e come da tempo denunciamo anche su queste colonne) e risultati di efficienza con una migliore distribuzione e sfruttamento delle (scarse) risorse a disposizione dell’amministrazione della giustizia. Naturalmente, sulla giustizia penale costruire maggioranze robuste è manovra più impervia che sul processo civile o l’organizzazione giudiziaria. E a fare da cartina al tornasole c’è il disegno di legge sull’anticorruzione, oggetto prima di una difficilissima sintesi e ora bloccato al Senato. Una sorte che andrebbe evitata alle misure che tagliano una buona parte dei reati oggi sanzionati con una pena pecuniaria per tra-
n. 198 • settembre • pag. 14
Mario Caputi va in pensione, ma l’appuntato Caputo resta in servizio arrivato il tempo della meritata pensione anche per Mario Caputi, che lascia il Corpo dopo trentacinque anni di onorato servizio. Gli ultimi venti della sua carriera, Caputi li ha passati al mio fianco, intento ad impaginare quasi duecento numeri della nostra Rivista, a creare ed inventare immagini e locandine per i Cinque Congressi del Sappe, per i venticinque Consigli Nazionali e per le decine di Convegni; Li ha passati, con me, ad inventare Calendari, Agendine e decine e decine di pubblicazioni editate dal Sappe, senza nemmeno tralasciare l’Anppe e la sua Rivista. Caputi ha inventato, insieme a me che pure lo sopporto da tutti questi anni, il personaggio dell’Appuntato Caputo che da sempre vive nella vignetta dell’ultima pagina e che è, un po’, il nostro alter ego. Ma nessuno si preoccupi, però, perché pur lasciando il Corpo, Caputi rimane al suo posto nella Redazione della Rivista per continuare il suo lavoro, che poi è anche la sua passione. Nella foto sotto lo vediamo con i risultati dell’unica altra sua passione: il Tai Chi Chuan. Nell’ultimo Campionato Italiano dell’antica Arte Marziale interna, di origine cinese, Caputi si è aggiudicato sei medaglie, sulle sette disponibili, nelle gare che ha disputato, conquistando il diritto a partecipare ai prossimi Campionati Europei che si terranno a Lignano Sabbiadoro (UD) nei primi giorni di dicembre (vi daremo conto anche di quelli). In bocca al lupo a Caputi per la sua carriera sportiva, a condizione, però, che non ci tolga neanche un secondo del suo impegno per la nostra Rivista. GB de Blasis
è sformarli in illeciti amministrativi. Il disegno di legge esclude alcune materie come l’ambiente, la sicurezza sul lavoro, l’immigrazione, ma senza dubbio va nella direzione auspicata sia dai magistrati sia dagli avvocati: restringere l’area del penalmente rilevante per concentrare l’attenzione, anche a livello di repressione, sulle condotte di maggior allarme sociale. Stesso discorso per quanto riguarda il carcere dove, dopo che tutto sommato lo svuota-carceri per chi aveva ancora una pena ridotta da scontare ha dato buona prova con bassissimi tassi di recidiva, l’emergenza non si è certo attenuata. Tanto più cruciali allora diventano le misure, contenute nel medesimo provvedimento sulla depenalizzazione, che sterzano in maniera decisa sul versante della messa alla prova e delle sanzioni alternative al carcere. La prima consiste nella concessione della sospensione del processo, quando si procede per reati puniti al massimo con quattro anni di carcere, per destinare l’imputato a servizi di pubblica utilità, sulla falsariga di quanto avviene da tempo nel processo ai minori; le altre nell’introduzione di due nuove pene detentive non carcerarie: la re-
clusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora. Queste nuove modalità sono destinate a sostituire la detenzione in carcere in caso di condanne per reati puniti con pene non superiori a 4 anni.
Tutte misure che permetterebbero di destinare uomini e mezzi alle situazioni più critiche. Anche a quella criminalità da strada. Senza peraltro pensare subito a interventi più draconiani come l’obbligo di custodia in carcere per i colpevoli di questi reati o l’inasprimento delle pena. Una risposta di questo tenore non farebbe, al minimo, tesoro di quanto avvenuto in questi ultimi anni. A succedersi sono state infatti le misure di più pacchetti sicurezza (con il primo esordì in questa legislatura l’allora Governo Berlusconi): che non hanno però influenzato più di tanto l’andamento della criminalità, quando invece le presunzioni più severe di pericolosità sociale sono state, nel corso dei mesi, bocciate dalla Corte costituzionale. A testimonianza ulteriore, conclude Negri, che la scia dell’emotività è facile da seguire, ma non sempre è quella che produce, anche nel breve, i migliori risultati. Come dar torto al bravo giornalista?
Polizia Penitenziaria • SG&S
•
n. 198 • settembre • pag. 15
•
a cura di Ciro Borrelli Coordinatore Nazionale Sappe Minori per la Formazione borrelli@sappe.it
il Capo del DGM, Caterina Chinnici, incontra i sindacati della Polizia Penitenziaria
A
distanza di circa due mesi dalla sua nomina da parte del Ministro Paola Severino, la dott.ssa Caterina Chinnici, nuovo Capo Dipartimento della Giustizia Minorile, ha convocato il 5 settembre scorso i rappresentanti nazionali delle sigle sindacali di Polizia Penitenziaria per un primo saluto ufficiale. La dott.ssa Caterina Chinnici, affiancata dai tre Direttori Generali, nel suo saluto ha chiarito definitivamente che il Dipartimento per la Giustizia Minorile non subirà alcuna modifica o riconfigurazione e che tutte le voci che circolavano tra gli uffici di una possibile chiusura o accorpamento di detto dipartimento ad altri per il momento non hanno alcun fondamento. Invero la Giustizia Minorile sembra essere attualmente oggetto di interesse diretto da parte del Ministro della Giustizia, che ha Nella foto nominato la dott.ssa Chinnici al Capo del l ‘ICF di Roma DGM proprio per valorizzare e restituire il
ruolo che spetta ad un settore, quale è quello minorile, così delicato per la funzione di recupero e reinserimento di tutti quei minori coinvolti nel circuito penale. La dott.ssa Caterina Chinnici durante l’incontro ha dichiarato di credere fermamente nei valori della giustizia e della trasparenza amministrativa, valori che l’hanno spinta a proseguire un impegno assunto già dal padre, Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, del quale, nella sfera delle funzioni svolte, ha sempre onorato la professionalità. Il nuovo Capo Dipartimento per la verità ha già alle sue spalle una lunga esperienza nel settore minorile, avendo ricoperto per circa quattordici anni le funzioni di Procuratore della Repubblica in Sicilia, presso il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta e in seguito presso quello di Palermo, nonché vari incarichi, quali quello di componente della Commissione per le
Polizia Penitenziaria • SG&S
Adozioni Internazionali e componente della Commissione di studio sul fenomeno della recidiva nei minori autori di reato. I rappresentanti delle sigle sindacali hanno accolto con piacere le parole del nuovo Capo Dipartimento, non mancando tuttavia di lamentarsi della bassa qualità delle Relazioni Sindacali della Giustizia Minorile. In particolare, all’unanimità, tutte le sigle sindacali hanno ancora una volta esternato la carenza di personale esistente negli Istituti Penali Minorili nei Centri di Prima Accoglienza e nei Centri Giustizia Minorile e negli uffici del Dipartimento, carenza che oggi costringe tanti colleghi a lavorare 12 ore al giorno, senza un adeguato compenso delle ore di straordinario e senza risposte certe sull’apertura o chiusura definitiva di alcuni Istituti Penali per Minori attualmente presidiati da personale di Polizia Penitenziaria, ma privi di detenuti. Auguriamo alla dott.ssa Caterina Chinnici di riuscire a dare le risposte giuste a tutte le problematiche esistenti nel settore minorile, trovando nel Sindacato un alleato per raggiungere insieme quei nobili obiettivi, del recupero e reinserimento sociale dei minori, che sono da sempre il fondamento della Giustizia Minorile.
n. 198 • settembre • pag. 16
•
La convenzione Sappe/Studio Legale Guerra Per rispondere ad una richiesta sempre più pressante dei propri iscritti, • assistenza legale nel relativo procedimento amministrativo; il Sappe ha stipulato una convenzione con lo Studio Legale Associato •assistenza nella fase giudiziale contro il relativo provvedimento negativo; Guerra, come partner legale in materia previdenziale. • compenso professionale convenzionato. Lo Studio Legale Associato Guerra è specializzato in materia di diritto pen- in materia di PENSIONE PRIVILEGIATA sionistico pubblico, civile e militare. per il personale cessato dal servizio e/o i superstiti L’assistenza interessa: La convenzione tra il Sappe e lo Studio Legale Associato Guerra comprende • il personale collocato in congedo senza diritto a pensione o con pensione • la causa di servizio e benefici connessi; ordinaria che possa ancora chiedere il riconoscimento della dipendenza • le idoneità al servizio e provvedimenti connessi: da causa di servizio di infermità o lesioni riferibili al servizio stesso e la • i benefici alle vittime del dovere; conseguente pensione privilegiata; • la pensione privilegiata (diretta, indiretta e di riversibilità) e gli assegni • il personale collocato in congedo senza diritto a pensione o con pensione accessori su pensioni direttte e di riversibilità. ordinaria, al quale sia stata negata la pensione privilegiata per non dipendenza da causa di servizio di infermità e lesioni o per non ascrivibilità delle La consulenza si avvale di eccellenti medici esperti di settore, collaboratori stesse; dell Studio Guerra, in grado di assistere l’interessato anche nel corso delle • il personale cessato per inidoneità dal ruolo della Polizia Penitenziaria, visite mediche collegiali in sede amministrativa e giudiziaria. già transitato o che debba transitare ai ruoli civili della stessa amministraIn particolare, attraverso lo Studio Legale Associato Guerra , il Sappe ga- zione o di altre amministrazioni, ai fini della concessione della pensione rantisce ai propri iscritti: privilegiata per il servizio prestato nella polizia Penitenziaria; • il personale deceduto in servizio, ai fini della pensione indiretta privilein materia di CAUSA DI SERVIZIO giata ai superstiti e di ogni altro beneficio previsto a favore degli stessi; • valutazione gratuita, legale e medico legale, del fondamento della do- • il personale già titolare di pensione privilegiata deceduto a causa delle manda per il riconoscimento della causa di servizio anche ai fini dell’equo medesime infermità pensionate, ai fini dei conseguimenti spettanti ai suindennizzo; perstiti. • assistenza legale nella fase amministrativa; L’assistenza comprende: • valutazione gratuita, legale e medico legale, del fondamento del ricorso • esame gratuito, legale e medico legale, del fondamento della domanda contro il provvedimento negativo di riconoscimento della causa di servizio per la concessione della pensione privilegiata anche per i transitati al ruolo e del’equo indennizzo; civile; • assistenza legale nella fase giudiziale dinanzi alle competenti Sedi Giu- • valutazione gratuita, legale e medico legale, del fondamento del ricorso risdizionali; contro il provvedimento negativo della pensione privilegiata; • compenso professionale convenzionato. • valutazione gratuita, legale e medico legale, delle pensioni indirette e di riversibilità ai fini del trattamento privilegiato e dell’importo pensionistico in materia di INIDONEITA’ AL SERVIZIO liquidato; • valutazione legale e medico legale delle infermità oggetto di accerta- • assistenza nella relativa fase amministrativa e nella fase giudiziale contro mento della idoneità al servizio, per la scelta strategica delle azioni da pro- il provvedimento pensionistico negativo; muovere secondo gli obiettivi che intende raggiungere l’interessato; • compenso professionale convenzionato. • assistenza legale nel relativo procedimento amministrativo; •assistenza nella fase giudiziale contro il provvedimento amministrativo; PER BENEFICIARE DELLA CONVENZIONE • assistenza amministrativa e giurisdizionale contro il provvedimento di Gli iscritti al Sappe possono: trensito; • rivolgersi alla Segreterie Sappe di appartenenza; • compenso professionale convenzionato. • rivolgersi agli avvocati Guerra presso le sedi degli studi di Roma (via Magnagrecia n.95, tel. 06.88812297), Palermo (via Marchese di Villabianca in materia di VITTIME DEL DOVERE n.82, tel.091.8601104), Tolentino - MC (Galleria Europa n.14, tel. • valutazione gratuita per l’accertamento della sussistenza delle condizioni 0733.968857) e Ancona (Corso Mazzini n.78, tel. 071.54951); di legge richieste per il diritto ai benefici previsti a favore delle vittime del • visitare il sito www.avvocatoguerra.it dovere;
Giovanni Passaro passaro@sappe.it
Congedo straordinario per esami
C
iao Giovanni, sono un collega in servizio presso la casa circondariale di Trieste. Di recente mi sono diplomato al corso serale del liceo artistico serale Enrico e Umberto Nordio di Trieste.La sessione d’ esame di Stato finale(esame di maturità) si è articolata in più giornate in quanto la prova d’indirizzo di liceo (seconda prova) dura tre giorni,e non uno come negli altri licei. In queste giornate sono stato costretto a usufruire di congedo ordinario e non di straordinario,in quanto l’ufficio servizi mi ha detto di convertire in seguito i giorni di ordinario in straordinario una volta che avrei portato la documentazione riguardante la mia effettiva presenza nelle giornate d’esame. Un collega della segreteria della Polizia Penitenziaria mi ha detto che non mi spettano i giorni di congedo straordinario. Bene i giorni d’esame erano sei in totale. Mi spettano i giorni di congedo straordinario? Tengo a precisare che i permessi studio (25 giorni totali) le famose 150 ore li avevo finiti perché, a differenza dell’università, a scuola ero costretto ad andare ogni giorno. La stessa cosa avvenne durante gli esami di qualifica del terzo anno, articolati su dieci giorni perché in ogni giornata era prevista la prova di una materia,con in seguito i colloqui orali finali. Lì, dovetti prendere anche congedo ordinario e non straordinario per lo stesso motivo che mi dissero che non potevo usufruire di congedo straordinario fatta eccezione per i permessi studio che anche lì avevo finito. Infine, posso recuperare il congedo straordinario negato degli anni passati? Grazie per la delucidazione spero di essere stato chiaro. Un abbraccio e continua così con la tua rubrica sul giornale del Sappe che seguo ed è utilissima!!! Gentilissimo collega, il D.P.R.10 gennaio 1957 n. 3 (testo unico delle disposizioni sullo statuto degli impiegati civili dello Stato), nel disciplinare il congedo straordinario dei pubblici dipendenti, prevedeva, prima della modifica di cui si dirà in seguito, che lo stesso potesse essere concesso fino a una durata massima di 60 giorni nel corso dell’anno (art. 37, III comma) dall’organo competente secondo gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni (art. 37, IV comma). A tale disciplina faceva riscontro l’art. 19 del D.P.R. 3 maggio 1957 n. 686, recante il regolamento di attuazione del testo unico, per il
Polizia Penitenziaria • SG&S
quale la concessione del primo congedo straordinario non può superare di regola, nell’anno, il periodo di un mese. La disciplina del congedo straordinario dei pubblici dipendenti è stata innovata dall’art. 3 della l. 24 dicembre 1993 n. 537, commi 37 e 39. Il comma 37 di tale articolo ha modificato il testo del III comma dell’art.37 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, riducendo il termine di durata massima, nel corso dell’anno, del congedo in esame da 60 a 45 giorni. All’impiegato, oltre il congedo ordinario, possono essere concessi per gravi motivi congedi straordinari. La necessità di sostenere esami è una delle ipotesi in cui il congedo straordinario deve essere, a norma dell’art. 37, co. 2, d.P.R. 3/19571, concesso di diritto. Dà diritto al godimento dei giorni necessari (compresi nel computo dei 45 giorni annui) per sostenere gli esami che rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 78 del dpr 782/85 (diritto allo studio) e successive modificazioni nonché quelli per l’assunzione alle dipendenze d’altre pubbliche amministrazioni o per l’accesso ad altri ruoli nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza. In questo congedo devono rientrare anche i giorni necessari per il raggiungimento della sede d’esame: l’assenza è consentita per il tempo strettamente necessario per sostenere gli esami, a cui possono aggiungersi due giorni per il viaggio (andata/ritorno); per le isole che hanno difficoltà di comunicazione con il continente, si prendono in considerazione i giorni in cui sono previste le partenze dei traghetti immediatamente prima e dopo le prove d’esame2. In merito alla possibilità di recuperare i giorni di congedo straordinario degli anni precedenti, spettanti e non concessi, purtroppo, il diritto si è affievolito, in quanto il congedo straordinario è riferito a ciascun anno solare. Infine, mi permetto di consigliare, per eventuali future richieste, di avanzare sempre domande formali (scritte) all’Autorità Dirigente e non accettare dinieghi verbali degli addetti agli uffici preposti. Questo permetterà di difendere i propri interessi attraverso il ricorso amministrativo. Dal punto di vista della tutela amministrativa, la normativa di riferimento, è ancora oggi, il DPR 24/11/1971, n. 1199, con il quale il legislatore ha dettato una disciplina organica dei ricorsi amministrativi (ricorso gerarchico, ricorso in opposizione e ricorso al Presidente della Repubblica). Cordiali saluti. NOTE 1 Il congedo straordinario compete di diritto quando l’impiegato debba contrarre matrimonio o sostenere esami o, qualora trattasi di mutilato o invalido di guerra o per servizio, debba attendere alle cure richieste dallo stato di invalidità.
•
2
Rif. Circolare DAP n. 3364/5814 dell’11/06/1993.
n. 198 • settembre • pag. 18
Aldo Maturo * avv.maturo@gmail.com
Incendiari, roghi e impunità
L
L’Italia brucia, come sempre, come ogni estate, con un 93% in più d’incendi rispetto allo scorso anno (1 gennaio-31 luglio 2012). Le regioni più esposte sono Sicilia (con un morto), Campania, Calabria, Puglia,Toscana e Lazio. E pensare che il legislatore non è stato indulgente quando ha previsto, per chi incendia i boschi, selve o foreste, la pena della reclusione da quattro a dieci anni (art.423 bis c.p.). Nel 2000, stanco del dilagare degli incendi dolosi, aveva individuato l’incendio boschivo come autonoma figura di reato - delitto contro la pubblica incolumità - e non più come aggravante al reato di incendio. Sembrava una svolta, il segno della speranza verso una particolare evoluzione culturale tesa alla protezione dell’ambiente. L’incendio dei boschi passava da una pena da tre a sette anni (l’incendio generico) ad una da quattro a dieci anni. Ma evidentemente l’effetto deterrente della pena è stato irrilevante. Secondo l’Unione Europea il 95% degli incendi in Italia è attribuibile all’uomo. Ma le carceri italiane di certo non sono piene di detenuti incendiari. La severità legislativa è stata quindi virtuale. Ammesso che si riesca ad arrestare uno di questi personaggi, scattano immediatamente tutte le norme di procedura penale che vincolano il magistrato nell’applicazione della custodia in carcere. Ci rimarrà solo se il magistrato riterrà che il soggetto rimesso in libertà possa darsi alla fuga o dia fuoco ad altri boschi o che possa inquinare le prove a suo carico. Troppi “se” e questo significa che il nostro soggetto dopo pochi giorni, se non ore, ha grosse speranze di ritornare in libertà. A suo carico resta la pendenza del processo e prima o poi dovrà essergli presentato il conto. Purtroppo anche stavolta il sistema penale offre spazio ad altre soluzioni. Il no-
stro incendiario concorderà con il suo avvocato una strategia difensiva e potrà ricorrere ad uno dei riti previsti dai procedimenti speciali (patteggiamento, rito abbreviato), godendo della riduzione di un terzo della pena. Si pensa che almeno quello che resta della pena, già oggetto di sconto, lo porti al carcere. Non è così. Se non ha potuto godere immediatamente dei benefici della condizionale perché ha avuto ad esempio una pena non superiore a due anni, suppliscono i benefici dell’ordinamento penitenziario e quindi, se è stato condannato ad una pena non superiore a tre anni (ipotesi verosimile) potrà sempre richiedere l’affidamento in prova al servizio sociale, che significa restare libero, svolgere il proprio lavoro, la propria vita sociale con l’unico limite di avere periodicamente dei colloqui con un’assistente sociale. Se ha più di 60 anni ed è inabile parzialmente (cosa probabile) potrà sempre richiedere la detenzione domiciliare per le pene fino a 4 anni. Conclusione: il carcere è rimasto solo uno spauracchio dissoltosi nel nulla, il nostro sistema giuridico ha dato l’ennesima prova di schizofrenia con un legislatore che aggrava le pene e un altro che offre il sistema per eluderle mentre l’Italia continua impunemente a bruciare dalle Alpi alla Sicilia. Quando gli incendi non sono riconducibili alla prospettiva di creare occupazione nell’ambito delle attività di vigilanza antincendio o spegnimento degli stessi, spesso derivano dalla previsione errata che le aree boscate distrutte dal fuoco possano essere utilizzate successivamente a vantaggio di interessi specifici, connessi alla speculazione edilizia, al bracconaggio, all’ampliamento della superficie agraria. Previsione errata perché la legge 353/2000, in materia d’incendi boschivi, prevede all’art.10 che i boschi ed i pascoli
Polizia Penitenziaria • SG&S
che siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni. È inoltre vietata per dieci anni, sui predetti suoli, la realizzazione di edifici nonché di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive. Tu mi dai fuoco a zone panoramiche o paesaggistiche con l’intento di poterci poi costruire insediamenti e ville ma io non ti ci faccio costruire per 15 anni (a meno che la licenza non era già stata concessa prima dell’incendio). La legge voleva essere un freno contro le speculazioni edilizie: ottima intenzione, ma la cosa ancora una volta non è così scontata. Per poter scattare i divieti di costruzione sulle aree incendiate è indispensabile che il Comune faccia annualmente il censimento delle aree percorse dal fuoco, - il Catasto Incendi - affinché siano rese note ed ufficiali. In realtà questa mappatura non viene fatta o ne viene iniziato l’iter in poche realtà urbane. I motivi? Mancanza di personale, omissioni, negligenza e non poche volte complicità. Intanto l’industria dell’incendio e il suo indotto va a gonfie vele e può diventare un vero business per quanti sono chiamati ad intervenire e non fanno parte dell’istituzione. I costi ricadono su tutti noi. Basti pensare che il volo di un aereo Canadair costa 14.000 euro all’ora e quello di un grosso elicottero che porta 10.000 litri d’acqua è di circa 6.000 euro l’ora. E’ stato calcolato che mediamente si spendono 500 milioni di euro all’anno pari a circa 968 miliardi di lire. Più di due miliardi e seicentocinquanta milioni al giorno. Senza calcolare gli incalcolabili danni ambientali, la distruzione di milioni di alberi e la devastazione di migliaia di ettari di verde.
n. 198 • settembre • pag. 19
•
Nella foto un incendio
Aldo Maturo avv.maturo@gmail.com
Viaggio nel Porcellum ...a naso chiuso
P
orcellum deriva da porcata, termine usato dal ministro Calderoli, estensore della legge, per definire il sistema elettorale da lui stesso creato. Prima del Porcellum abbiamo avuto il Mattarellum, legge elettorale del 1993 (da Sergio Mattarella, deputato D.C.) e, per le elezioni regionali, la Tatarellum (da Giuseppe Tatarella, deputato di AN): la declinazione latina era stata inventata da Sartori sul Corriere della Sera ed è diventata poi ricorrente denominazione giornalistica per individuare le varie leggi elettorali. Quello che segue è un viaggio fatto in punta di piedi nel sistema elettorale più antidemocratico della nostra storia repubblicana, inventato per assicurare alle segreterie dei partiti il controllo completo del Parlamento, designando parlamentari-peonesyes man con analogie non molto dissimili dalle parodie elettorali che si svolgono nei paesi dittatoriali. Ed allora turiamoci il naso e cominciamo. Per eleggere i deputati l’Italia è stata suddivisa in 26 circoscrizioni che devono esprimere 617 eletti. Altri 12 sono eletti nelle circoscrizioni estere e 1 in Val d’Aosta, per un totale di 630. I 315 senatori, invece,sono eletti in 20 circoscrizioni, una per ogni regione e 6 provengono dalla circoscrizione estera. Ogni regione deve avere almeno 7 senatori ad eccezione del Molise che ne ha 2 e della Valle d’Aosta 1. Del Senato fanno parte poi i senatori a vita e gli ex Presidenti della Repubblica. Per trasformare in seggi i voti attribuiti a un partito/lista i sistemi elettorali più classici erano il proporzionale e il maggioritario. Con il proporzionale i seggi sono attribuiti in proporzione al numero di voti ottenuti dal partito e con il maggioritario vince il partito/lista/coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti. Il Porcellum (L.21.12.2005 n.270) voleva essere una via di mezzo miscelando il sistema proporzionale con un premio di maggioranza. In realtà con il Porcellum l’elettore non esprime preferenze per l’uno o l’altro candidato ma riceve una scheda per la Camera ed una per il Senato e può esprimere il suo
voto su liste bloccate riportate sotto il simbolo del partito prescelto, senza possibilità di indicare preferenze individuali sul singolo candidato. E’ per questo che si dice che con il Porcellum i deputati e i senatori non sono eletti ma sono designati dalle Segreterie dei partiti e all’elettore resta solo una sorta di ratifica. I seggi saranno assegnati ai partiti secondo l’ordine di elencazione dei candidati nelle singole liste (viene eletto il primo, poi il secondo, il terzo e via via a scorrere secondo i voti ottenuti dalla lista) Il Porcellum, voluto dalla coalizione LegaPDL nel loro periodo di massima espansione, ha sbaraccato il Parlamento da tutti i partiti minori prevedendo la soglia di sbarramento, meccanismo con il quale si escludono i mini partiti che non hanno raggiunto un numero di voti minimo predeterminato (il 4% dei voti validi, se da soli, e il 10% se in coalizione, a condizione che almeno uno dei partiti della coalizione abbia ottenuto il 2% dei voti validi in campo nazionale). A elezioni ultimate si calcoleranno, per la Camera, tutti i voti ottenuti nelle 26 circoscrizioni dai singoli partiti e dalle coalizioni che hanno superato la soglia di sbarramento e si verificherà a questo punto se un partito, una coalizione o una lista singola ha ottenuto da sola, per il numero dei voti ottenuti, i 340 seggi previsti dal sistema. Se nessuno ha conseguito tale risultato, alla lista più votata si attribuiranno d’ufficio 340 seggi (in applicazione del famoso Premio di Maggioranza). Le altre coalizioni e gli altri partiti singoli si suddivideranno i rimanenti 277 seggi in proporzione dei voti ottenuti. E’ chiaro che se la coalizione o la lista vincente ha avuto, autonomamente, più di 340 seggi, si terrà tutti quelli che ha eletto e agli altri andranno non 277 seggi ma la differenza tra quelli ottenuti dalla maggioranza e i seggi residui. Grazie al Premio di Maggioranza, quindi, basta un solo voto più delle altre liste per portare a casa 340 parlamentari (che possono essere molti di più di quelli che gli elettori volevano attribuire a quella lista o coalizione). Una volta calcolato che a un partito, a li-
Polizia Penitenziaria • SG&S
vello nazionale, spettano X seggi, si procederà alla suddivisione di questi seggi, sempre in maniera proporzionale ai voti ottenuti, nelle varie sedi circoscrizionali periferiche. Ogni partito quindi saprà quanti deputati ha eletto nella singola circoscrizione ed è chiaro che gli eletti saranno i nominativi indicati per primi nella lista, secondo la collocazione progressiva in lista predisposta dai partiti, senza che a monte vi sia stata alcuna preferenza da parte degli elettori. E’ il partito che decide perché è il partito che, nel formare la lista, ha scelto l’ordine di elencazione dei candidati, che andranno alla Camera non per le singole preferenze ottenute ma per la semplice collocazione nei primi posti della lista voluta dalla segreteria del partito. Per il Senato abbiamo detto che i senatori vengono eletti in 20 circoscrizioni, una per ogni regione. Mentre alla Camera il Premio di maggioranza è su base nazionale, al Senato è attribuito su base regionale. Si verifica se la lista o la coalizione più votata ha conseguito da sola il 55% dei seggi assegnati alla Regione. Se ciò non è avvenuto, le vengono assegnati tanti ulteriori seggi fino a raggiungere il 55% dei seggi della regione e i seggi residui vengono ripartiti fra le altre coalizioni o liste singole. Anche in questo caso vengono eletti i candidati compresi nelle liste secondo l’ordine di elencazione e non per i voti individuali ricevuti. L’attribuzione del 55% dei seggi, fatta d’ufficio, può falsare quella che è stata la volontà degli elettori. Il Premio di maggioranza non è previsto in Molise, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Circoscrizione Estera. Come si è visto è un meccanismo micidiale, completamente gestito dalle Segreterie dei partiti che sono le sole a decidere chi deve essere designato o, meglio, essere cooptato nella schiera della casta. Al cittadino che ancora va a votare non resta che ratificare la scelta fatta dal suo partito. La lotta di questi giorni per un nuovo sistema elettorale fa stare in fibrillazione le Segreterie dei partiti, tutte indistintamente, perché una radicale modifica del Porcellum non consentirà più di designare i parlamentari di loro fiducia. Con un nuovo sistema elettorale - se non s’inventano qualche altro cavillo - potrebbero restare a spasso uomini di partito che fin’ora dormivano sogni tranquilli perché blindati in listini di sicurezza su cui l’elettore non aveva alcun potere decisionale.
n. 198 • settembre • pag. 20
•
Cuneo,Trento e Ancona : le foto dalle Feste regionali del Corpo
N
Roma: inaugurata la nuova gestione del Bar di Regina Coeli
I
l 3 settembre 2012, presso la Casa Circondariale Regina Coeli di Roma, si è svolta l’inaugurazione della nuova gestione del bar/spaccio interno alla presenza del vice Provveditore del Lazio dott.ssa Cristina Di Marzio e del Direttore Dott. Mauro Mariani. L’appalto è stato affidato alla cooperativa GIAMI, diretta da ex sottufficiali dell’Esercito Italiano, che è stata ben accolta dal personale di Polizia Penitenziaria per non aver apportato aumenti ai prezzi e offerto prodotti artigianali di ottima qualità. La Segreteria Provinciale di Roma plaude la scelta operata dall’Amministrazione e porge i migliori auguri ai soci della cooperativa GIAMI. Il Segr. Prov.le Giovanni Passaro
elle immagini, a sinistra il personale della CC di Cuneo. Sopra il personale della Casa Circondariale di Trento e a destra il personale della CR di Fermo che ha partecipato alla Festa Regionale della Polizia Penitenziaria di Ancona.
•
Salerno: soprattutto una squadra di amici
N
ella foto vediamo la squadra di calcio della C.C. di Salerno che tanto stà dando ai vari tornei che si svolgono nella nostra città. Seri, sinceri, compatti ...sopratutto amici. La vittoria più grande resta quella di portare a casa sempre il miglior risultato "la coppa disciplina"...ecco cosa riesce a distinguere un bel gruppo. Giuseppe Gioia
Cairo Montenotte: giurano gli Allievi del 164° Corso
C
on una bella cerimonia tenutasi nella città ligure, sede di una delle Scuole storiche per la formazione del Corpo, hanno prestato giuramento gli Allievi del 164° Corso. Alla cerimonia era presente anche il Segretario Generale del Sappe Donato Capece.
Polizia Penitenziaria • SG&S
•
n. 198 • settembre • pag. 21
Luca Pasqualoni Segretario Nazionale ANFU pasqualoni@sappe.it
Ferrara: la Polizia Penitenziaria in servizio nelle zone terremotate dell’Emilia
R
iceviamo e volentieri pubblichiamo, alcune foto dei nostri colleghi in servizio presso i comuni di Bondeno e Cento, nel ferrarese, per il controllo di sicurezza e del territorio nella zona rossa. Ottimo lavoro ragazzi!
Intercettazione della corrispondenza in carcere
R iscritti SAPPe, Claudio
Reggio Calabria: Fiocco celeste
I
l 10 agosto2012 è nato Gabriele. Una grande emozione per i nostri due colleghi Claudio Cuzzola ed Elisabetta Borgese, entrambi iscritti al Sappe. “La nascita di un figlio è un momento unico e irripetibile. Il primo momento in cui lo tieni tra le braccia e lo stringi, il bene più profondo di un papà e di una mamma come voi. Vi auguriamo di vivere intensamente ogni passo del lungo cammino che la vostra famiglia ha appena iniziato”. La segreteria Sappe di Reggio Calabria
Avellino: Fattorello ancora sul podio
Campione Regionale specialità fossa universale e 2° posto al campionato Regionale Campania del Double Trap
D
opo aver conseguito il 20 luglio scorso il titolo di campione italiano individuale della 1° categoria della specialità di fossa universale ed aver ottenuto anche il titolo di campione italiano a squadra per i Corpi dello Stato della stessa disciplina, Sergio Fattorello, appartenente al Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre del Corpo della Polizia Penitenziaria, il 23 settembre 2012 si è aggiudicato il titolo di Campione Regionale specialità fossa universale, prova culmine delle 4 previste per il conseguimento del titolo di Campione Regionale che ha visto l’atleta irpino aggiudicarsi il 1° posto delle 3 gare su 4. A sorpresa è riuscito anche a conquistare il 2° posto della specialità Double Trop, sfera agonistica questa di non propria pertinenza. Sergio Fattorello in forza amministrativa presso la Casa Circondariale di Avellino aggiunge al suo curriculum altri due prestigiosi titoli conseguiti da tiratore appartenente alle FF.OO., inserito nel Gruppo sportivo delle Fiamme Azzurre, costituisce una speranza del tiro al volo italiano, vanto dello sport irpino che gode del supporto tecnico di Pietro Aloi da anni direttore tecnico della sezione tiro al volo delle Fiamme Azzurre.
Polizia Penitenziaria • SG&S
ammento che, in qualità di Comandante di Reparto, ricevetti dall’Autorità Giudiziaria la delega ad intercettare la corrispondenza epistolare di un ristretto. Era la prima volta che venivo investito di tale attività, in quanto fino a quel momento il controllo sulla corrispondenza dei detenuti, in entrata ed in uscita, veniva disposto mediante il consueto istituto del visto di controllo, tanto che fui pervaso da una serie di perplessità giuridiche che tuttavia in quanto Vice Commissario di Polizia Penitenziaria non mi erano date di poter avere, così in qualità di ufficiale di polizia giudiziaria detti esecuzione a quanto disposto. A distanza di qualche anno quei dubbi sono stati fatti propri dalle Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza RG. 27131/2011, depositata in cancelleria il 18 luglio 2012, con cui è stata dichiarata la illegittimità di siffatta attività investigativa, sconfessando il diverso e permissivo orientamento della V sezione, consacrato con la famosa sentenza Costa. Nella sentenza Costa, infatti, la V sezione penale della Cassazione ebbe ad osservare che il provvedimento del giudice che autorizza il controllo della corrispondenza con eventuale sequestro delle lettere rilevanti per le indagini è parificabile ad un provvedimento di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, disciplinato dagli artt. 266 e seguenti cod. proc. pen., costituendo un mezzo di prova non specificamente ed autonomamente disciplinato dalla legge processuale, utilizzabile sia perché non oggettivamente vietato sia perché la prova è formata in modo da garantire i diritti della persona.
n. 198 • settembre • pag. 22
La sezione penale in parola, dunque, non solo ritenne possibile il ricorso al procedimento analogico della disciplina degli artt. 266 e seguenti del c.p.p., ma rilevava anche la non ostatività dell’articolo 18 ter dell’Ord. Pen. a tale tipo di attività investigativa, per il quale il detenuto deve essere immediatamente informato in caso di trattenimento della corrispondenza, poiché, avendo questo una finalità diversa, ossia di natura preventiva, la sua disciplina risulta incompatibile con la fase delle indagini preliminari, disciplinate dal codice di procedura penale. Nondimeno, in ordine ai poteri di intrusione dell’Autorità Giudiziaria nella corrispondenza epistolare del detenuto ed ai procedimenti utilizzabili, essendosi la giurisprudenza di legittimità pronunciata con decisioni di diverso tenore, che hanno avuto modo di adombrare soluzioni diverse da quelle adottate nella sentenza Costa, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite della Suprema Corte, dal momento che il ricorso all’analogia per superare l’ostacolo letterale del disposto dell’articolo 266 c.p.c. (che fa riferimento alle sole intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche), è stato ritenuto stridere con l’espressa riserva assoluta di legge e di giurisdizione prevista per la compressione di tali diritti dall’articolo 15 Costituzione. Le Sezioni Unite, pertanto, investite della questione, a fronte del contrasto giurisprudenziale in materia determinatosi, hanno avuto modo di affermare preliminarmente che la natura esclusivamente preventiva del visto di controllo della corrispondenza disciplinato dall’articolo 18 ter Ord. Pen. non risulta avere riscontro normativo, posto che tale articolo, incentrato sulle limitazioni e controlli della corrispondenza (dei detenuti o internati negli istituti penitenziari) esordisce, al comma 1, con la espressione “per esigenze attinenti alle indagini o investigative o di prevenzione dei reati ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto”, con ciò evidentemente riferendosi ad ogni finalità che muova l’autorità pubblica, compresa quella di ricerca degli elementi indiziari che orientano l’attività a seguito di una notizia
di reato, che si colloca, appunto, nella fase delle indagini preliminari, regolate dagli artt. 326 e seguenti del c.p.c.. Inoltre, hanno osservato le Sezioni Unite che in materia presidiata dalla riserva di legge e di giurisdizione, non è consentita interpretazione analogica o estensiva di discipline specificamente dettate per singoli settori, quale quella di cui agli artt. 266 e seguenti del c.p.p., tanto è vero che, al fine di rendere possibile la intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche , non espressamente considerate dalla disciplina codicistica, il legislatore ritenne necessaria una specifica innovazione normativa, sfociata nella Legge 23 dicembre 1993, n. 547, introduttiva dell’articolo 266 bis del cp.p.. Infine, le Sezioni Unite hanno rilevato che non può ammettersi il ricorso a forme di intercettazioni interessanti la corrispondenza epistolare, evocandosi la categoria della prova atipica non vietata dalla legge. E’ al contrario proprio questa la situazione ostativa, quella della prova vietata dalla legge, che caratterizza la fattispecie in esame, poiché l’acquisizione della copia della corrispondenza deve ritenersi vietata ove non preceduta dalle formalità e dal rispetto delle competenze stabilite dall’ordi-
Polizia Penitenziaria • SG&S
namento penitenziario per l’apposizione del visto di controllo. Da ultimo, le Sezioni Unite hanno tenuto a precisare che proprio la particolare condizione di detenuto, cui deve essere comunque assicurato il rispetto dei diritti fondamentali compatibili con tale status, fa sì che i poteri di intrusione dell’autorità giudiziaria nella corrispondenza che transita per gli istituti penitenziari debbano ricevere apposita regolamentazione, tra l’altro con previsione di limiti temporali e della facoltà di reclamo ad opera dell’articolo 18 ter Ordinamento Penitenziario. Alla stregua, pertanto, delle suddette considerazioni, le Sezioni Unite della Cassazione hanno ritenuto di enunciare il seguente principio di diritto: “la disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, di cui agli artt. 266 e seguenti del c.p.p., non è applicabile alla corrispondenza, dovendosi per la sottoposizione a controllo e la utilizzazione probatoria del contenuto epistolare seguire le forme del sequestro di corrispondenza di cui agli articolo 254 e 353 del cp.p., e, trattandosi di corrispondenza di detenuti, anche le particolari formalità stabilite dall’articolo 18 ter dell’Ordinamento Penitenziario”.
n. 198 • settembre • pag. 23
•
a cura di Giovanni Battista De Blasis
Il gemello
R
In alto la locandina sotto alcune scene del film
affaele, il protagonista di questo prison movie sottoforma di documentario, ha 29 anni e due fratelli gemelli e per questo il suo soprannome è, appunto, il gemello. E’ entrato in carcere per la prima volta a 15 anni per una rapina in banca e, dopo una breve pausa, da 12 anni consecutivi vive in una cella. La sua cella è nell’istituto penitenziario di Secondigliano, a Napoli, e la condivide con Gennaro, suo coetaneo condannato all’ergastolo. Nello stesso carcere presta servizio l’ispettore capo della Polizia Penitenziaria Domenico detto Niko che cerca, con discreto successo, di instaurare buone relazioni con i detenuti , un rapporto che vada ben oltre lo stereotipo del carceriere/carcerato. Negli ultimi tempi il cinema italiano ha affrontato più volte la realtà carceraria interrogandosi e cercando di rispondersi su come vivono detenuti e operatori penitenziari.
Due esempi recenti, premiati dal pubblico e dalla critica, sono il musical Tutta colpa di Giuda di Davide Ferrario e il teatro shakespeariano rivisitato dietro le sbarre di Cesare deve morire dei fratelli Taviani. In questo film di Vincenzo Marra, prodotto da Gianluca Arcopinto, non vi aspettate, però, un pamphlet sul sovraffollamento delle carceri e sulle condizioni inumane di vita al loro interno. Il regista, infatti, ha affrontato un aspetto diverso, e forse un po’ sorprendente, della situazione carceraria. Marra ci mostra, quasi pedinando il suo protagonista, un aspetto più umano del carcere. Un aspetto che lascia scoprire dissapori quasi coniugali tra due compagni di cella fino al punto che uno dei due chiede di essere trasferito altrove. Ma, soprattutto e fondamentalmente, un aspetto che si pone in una dimensione diversa per osservare il rapporto tra chi detiene e chi è detenuto. Proprio nelle dinamiche del rapporto tra l’ispettore della Polizia Penitenziaria e Raffaele, si evolve un legame nel quale il detenuto, pur consapevole della presenza delle
Regia: Vincenzo Marra
telecamere, si apre a considerazioni su se stesso e sulle sue scelte di vita, tanto da offrire uno scorcio di modello dell’esecuzione penale rieducativa e risocializzante. Ovviamente, non tutti i detenuti hanno la determinazione e la sensibilità di Raffaele, così come non tutti i poliziotti penitenziari hanno la disponibilità di Domenico, ma fa molto effetto sentir parlare il detenuto del bisogno di sesso e di questioni emozionanti come la paternità. In definitiva, un film ottimista che lascia intendere chiaramente che un altro carcere, più umano e meno afflittivo, è ancora possibile.
Personaggi ed Interpreti: Il gemello: Raffaele Costagliola Niko: Domenico Manzi
Altri titoli: The Triplet
Sceneggiatura: Vincenzo Marra Fotografia: Francesca Amitrano Montaggio: Luca Benedetti Suono: Daniele Maraniello
•
Genere: Documentario Durata: 88 minuti Origine: Italia, 2012
Produzione: Gianluca Arcopinto, Marco Ledda, Vincenzo Marra, Angelo Russo Russelli per AXELOTIL, Settembrini Film
• GIRATO A NAPOLI NEL CENTRO PENITENZIARIO DI SECONDIGLIANO. • PRESENTATO ALLA 9ª EDIZIONE DELLE 'GIORNATE DEGLI AUTORI/VENICE DAYS' (VENEZIA, 2012).
Distribuzione: Zaroff - KimeraFilm
Polizia Penitenziaria • SG&S
n. 198 • settembre • pag. 24
Aldo Di Giacomo Segretario Nazionale del Sappe digiacomo@sappe.it
Viaggio nella casa di correzione di Santo Stefano
D
Nelle foto accanto al titolo una veduta dell’isola sotto il carcere dall’ alto
onec sancta Themis scelerum tot monstra catenis victa tenet, stat res, stat tibi tuta domus. Questa è la frase che si può leggere all’ingresso del casa penale di santo stefano, in essa si racchiude tutta la follia illuminista dell’idea di salvaguardia della società. L’arcipelago delle Isole Pontine è composto da due gruppi di isole, disposte per nord-ovest e sud-est, distanti fra loro circa 22 miglia. Quello sud-orientale comprende Ventotene e l’isolotto di S. Stefano. l’arcipelago si trova nel Lazio, in provincia di Latina. L’isolotto di santo stefano ha una superficie di ha 28,76. Le vicende storiche dell’isola di S. Stefano sono state da sempre,legate a Ventotene: così, dalla probabile frequentazione protostorica, si arrivò allo stanziamento romano Ma per S. Stefano si dovrebbe parlare, più giustamente, di uno stanziamento romano sui generis riflesso cioè di quello di Ventotene. Con il crollo della residenza imperiale di Ventotene, anche le poche strutture di S. Stefano dovettero cadere rapidamente in rovina, la natura dell’isola non poteva che consentire sporadiche presenze, forse, di eremiti e forme monastiche embrionali. Nel 1019, l’isolotto, che da tempo doveva essere proprietà dei duchi di Gaeta, viene ceduto, al Nobile Campolo, come il nome Dominus Stefanus. L’isolotto è proprietà della Chiesa gaetana fin dal 1071. Probabilmente, con la realizzazione di un monastero a Ventotene, cessarono le manifestazioni eremitiche a S. Stefano e l’isolotto dovette rimanere in possesso dei monaci come eventuale serbatoio
suppletivo per le risorse agrarie. Per i secoli successivi S. Stefano rimase ai margini delle vicende dell’arcipelago divenendo rifugio occasionale per i pirati. Si deve aspettare il Settecento, con il suo ambiguo procetto illuministico, perchè S. Stefano possa trovare un suo spazio ben definito nel tessuto socio-economico dell’arcipelago. L’isola , per le sue peculiarità naturalistiche e topografiche, venne chiamato a svolgere il ruolo di palcoscenico per la messa in atto di un esperimento che la storia definirà, giustamente, angosciante. S. Stefano fu scelta per la costruzione di un carcere che rispondesse agli, allora, imperanti dettami della salvaguardia della società sana, mediante l’isolamento dei colpevoli ai fini dell’espiazione della giusta pena. La costruzione dell’ergastolo fu l’ultimo atto della sistemazione urbanistica delle isole pontine, voluta da Ferdinando IV di Borbone, egli infatti aveva deciso di fare delle isole pontine floride colonie. Il piano dei lavori pubblici fu affidato alla direzione del Maggiore del Genio Antonio Winspeare, che si avvalse della collaborazione dell’architetto Francesco Carpi. Ma l’artefice materiale della realizzazione del carcere fu il Carpi, il quale seguì tutte le fasi della costruzione sia sul piano strettamente architettonico che su quello riguardante le collaterali questioni amministrative. Il carcere apri il 26 Settembre 1795 con l’invio di un primo contingente di detenuti, circa 200. I lavori furono ultimati nel 1797: solo allora, il penitenziario potè allargare la propria capienza alle 600 persone previste dal progetto ma già in pieno XIX secolo si potevano contare quasi 900 detenuti. La costruzione si presenta, come una struttura a ferro di cavallo, chiusa anteriormente da un grande avancorpo con padiglioni quadrilateri alle estremità, torri cilindriche mediane e cortile interno. Lungo il perimetro del ferro di cavallo si aprono, su tre ordini sovrapposti, 99 celle, rettangolari di: 4,50 x 4,20 m., le quali fu-
Polizia Penitenziaria • SG&S
rono, successivamente, ridotte alla metà per raddoppiarne il numero. Contemporaneamente, dovette essere costruito un anello esterno, ancora più ribassato rispetto al primo piano del corpo originario, in cui vennero ricavate altre celle che, per la loro particolare posizione, erano prive della finestra del lato di fondo, per cui aria e luce erano assicurate da un corridoio antistante munito di finestre che davano sull’esterno. La superficie racchiusa dal perimetro delle celle era originariamente occupata solo dalla cappella esagonale al centro e da due vere da pozzo; successivamente è stato alzato un muro che ha formato un ampio cerchio avente per diametri due lunghi diaframmi in muratura che, correndo affiancati, creano un corridoio contenente i due pozzi, che in realtà sono le due botti di un’unica cisterna alimentata dall’acqua piovana. Mentre l’accesso al corridoio dall’area delle celle è fisicamente libero, i due semicerchi facenti capo alla cappella sono sbarrati da pesanti cancelli, ma solo ai condannati ai ferri che, proprio perchè incatenati, davano sufficiente garanzia di non tentare la fuga. Inserimenti successivi sono pure le due torrette poligonali lungo il corpo delle celle e le garitte delle sentinelle sulla terrazza dell’ingresso. L’isolamento era qui sottolineato dalla voluta compenetrazione della struttura architettonica del carcere con la conformazione naturale dell’isolotto, che faceva sì che il mare circostante s’infrangesse materialmente sulle pareti rocciose di S. Stefano e psicologicamente sulla mai doma volontà di fuga dei carcerati: quant’angoscia questa calcolata sensazione potesse generare nei reclusi è facilmente e tristemente immaginabile. Nella seconda metà del Settecento, in Inghilterra e in Francia, venne maturando una riflessione che, pur investendo più direttamente il regime carcerario, si rivolge globalmente a tutte quelle che potremo chiamare comunità coatte, nelle quali, cioè, molti individui vivono insieme non per libera scelta, ma perchè costretti
n. 198 • settembre • pag. 26
dalla loro comune condizione di sorvegliati.Così la particolare forma del carcere rispondeva alla razionale volontà di chiudere e delimitare lo spazio che potesse consentire, nel contempo, al carceriere di guardare sempre il recluso e a quest’ultimo di sentirsi visivamente, e quindi anche psicologicamente, sempre controllato. L’opera teorica che spiega, illustra e ribadisce con insistenza quasi maniacale questa necessità di sorvegliare, perchè le energie umane non vadano sprecate o non imbocchino sentieri devianti, è panopticon di Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese. Esso è un vero e proprio trattato in forma epistolare mirante a dimostrare, come sia possibile, avvalendosi di un’idea architettonica, «ottenere il dominio della mente sopra un’altra mente...» .
Il panottico è il modello di reclusione che, meglio di qualsiasi altro, segue la trasformazione della prigione da spazio di morte a puro dispositivo disciplinare. Sottolineando la trasformazione di una mentalità punitiva, esso segue il passaggio da una morale di esclusione, di rifiuto, di lutto ad un progetto di recupero sociale degli individui tramite l’ammaestramento, il raddrizzamento: «Una sottomissione forzata conduce poco a poco ad un’obbedienza meccanica». Dunque il potere deve sorvegliare continuamente perchè nulla avvenga di male; il sorvegliato, a sua volta, deve essere continuamente visibile, e sapere di esserlo, perchè così perderà la possibilità e la volontà stessa di fare il male. Quasi a giustificare tanta ansia di controllo, il Carpi fece apporre all’ingresso del carcere questa sintomatica frase: Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis victa tenet, stat res, stat tibi tuta domus. Vale a dire: fintanto che la santa giustizia tiene in catene tanti esemplari di scelleratezza, sta salda la tua proprietà, rimane protetta la tua casa. Ma nel panottico non sono trascurabili anche i riferimenti teologici. La
simbologia del cerchio metaforicamente rappresenta l’occhio divino: Dio è presente ma la sua presenza è inverificabile; Egli vede tutto, ma non può essere visto. Ciò acquista maggior valore nel caso del carcere di S. Stefano in cui il centro del panottico non è semplicemente la torre, ma la Chiesa che, rappresentando materialmente l’occhio di Dio, genera ulteriori suggestioni. In questo senso la cella funziona come luogo della verità: in essa chi è in preda al peccato sarà perseguitato dai fantasmi della colpa, chi abbraccerà la conversione sarà redento e libero. Attraverso il linguaggio asciutto dei dispacci e delle lettere d’ufficio che Carpi scriveva ai suoi superiori a Napoli, trapela ogni tanto qualche scintilla dei drammi che si compivano all’interno dell’ergastolo. Veniamo così a sapere che il 26 Agosto del 1797 c’era stato un tentativo di evasione in massa, seguito da una violenta battaglia, con due morti e numerosi feriti, con le truppe di rinforzo provenute da Napoli; ma Napoli era lontana e il viaggio era durato tre giorni, durante i quali gli evasi avevano assaporato la loro effimera libertà fuori dalle mura dell’ergastolo. Altri violenti tumulti si verificarono ancora fra i detenuti, l’anno successivo, e si ha anche notizia di un’altra evasione di massa nel 1860, e questa volta le redini dell’operazione erano nelle mani di un gruppo di camorristi napoletani facenti capo ad un certo Francesco Venisca. A pochi anni dal termine della sua costruzione l’ergastolo, che inizialmente doveva accogliere solo criminali irriducibili, cominciò ad ospitare sempre più frequentemente detenuti politici: la prima ondata di oltre 500 prigionieri vi fu tradotta subito dopo la rivoluzione napoletana del 1799. Da allora la lunga catena si è trascinata fino alla fine del fascismo. Molte oscure tragedie consumatesi a S. Stefano, e che non avranno mai una chiara spiegazione, hanno avuto come involontari protagonisti detenuti politici; Settembrini racconta con parole commosse la morte Antonio Prioli, sacerdote, condannato a 7 anni di carcere per reati politici, spentosi a 32 anni. Gaetano Bresci, l’anarchico che aveva ucciso Umberto I, fu probabilmente impiccato in cella dai secondini e seppellito di nascosto, in tutta fretta, forse neppure nel cimitero dell’isola; Rocco Pugliese, della prima leva antifascista detenuta a S. Stefano, fece pro-
Polizia Penitenziaria • SG&S
babilmente la stessa fine, anche se la versione ufficiale della sua morte parlò di suicidio. Dal momento dell’ingresso, alle angherie, alle punizioni corporali, sino al penoso ripetuto spettacolo delle morti più o meno naturali è tutto un susseguirsi di cupe sensazioni che neppure il chiarore abbagliante dell’isola riesce a stemperare. Inoltre proprio per la strutturazione a panottico del carcere, i detenuti sono costretti a vedere e a vivere le punizioni degli infelici compagni di sventura. Altra stagione di intensa presenza di detenuti a S. Stefano fu il periodo fascista, soprattutto negli anni successivi ai processi dei Tribunali Speciali del 1928 e 1929. I nomi appartengono alla storia del nostro tempo: Umberto Terracini, Sandro Pertini, Mauro Scoccimarro, Athos Lisa, Emilio Hofmaier, Rocco Pugliese ed altri ancora. Quasi un secolo separa la generazione degli antifascisti da quella di Settembrini e Spaventa, ma dietro le mura dell’ergastolo il tempo è fermo e non è cambiato niente: si possono leggere a questo proposito le pagine famose del Se con il tempo si stemperò il duro scenario delle angherie fisiche non verrà, viceversa, meno il tentativo di affidare al penitenziario di S. Stefano il compito di cercare di soffocare con il confino ogni velleità di libera espressione contrapposta a qualsiasi forma di tirannide. Dopo la seconda guerra mondiale, S. Stefano riprese la sua normale funzione di carcere giudiziario per ergastolani finchè, il 2 Febbraio del 1965, fu definitivamente chiuso. Averlo chiuso è stato, comunque, un atto di civiltà indipendentemente dai motivi per cui si lo si è fatto, ma adesso l’intero complesso, che pure appartiene al demanio dello Stato, è ormai prossimo alla rovina, esposto com’è alle aggressioni del tempo, del clima e, soprattutto, del cieco vandalismo. Nel 1968 un privato aveva preso in affitto l’edificio per un canone annuo si dice, di sei milioni da versare allo Stato: pare che l’intenzione fosse di realizzarvi un grande complesso alberghiero, pur conservando integre le strutture settecentesche. Il progetto non è mai andato in porto, l’affitto è stato revocato, e il processo di disfacimento continua.
n. 198 • settembre • pag. 27
•
Nelle foto sopra la targa che ricorda la detenzione di Sandro Pertini nel penitenziario dell’ isola a sinistra una veduta dell’ area centrale del carcere
Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it
La mala del Brenta
V
Nelle foto sopra il cartello di ingresso di Campolongo Maggiore in alto a destra l’ingresso dellHotel De Bains di Venezia sotto a destra Gilberto Sorgato
isitando più volte, negli ultimi mesi, alcune regioni del nord-est dell’Italia, mi sono domandato come abbia potuto proliferare un’organizzazione criminale in queste terre che, a differenza delle regioni del sud, non hanno avuto tradizioni di organizzazione malavitose a carattere mafioso per il controllo del territorio. La storia delle mafie in Italia: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, anche se quest’ultima non è considerata da taluni magistrati una mafia in senso proprio, è sempre stata caratterizzata dalla radicalizzazione sul territorio e dal forte vincolo familiare. L’associazione a delinquere di matrice mafiosa, che prese vita sul finire degli anni sessanta in Veneto e in seguito sviluppatasi in tutto il nord-est, nacque dal nulla per opera di un piccolo ladruncolo di animali e formaggi, Felice Maniero, originario di Campolongo Maggiore un paesino in provincia di Venezia. A dare impulso alla nascita dell’associazione a delinquere, considerata da alcuni giornalisti la quinta mafia, contribuì anche la presenza di esponenti della mafia siciliana costretti, dalle leggi del tempo, al soggiorno obbligato nelle regioni del nord-est. Tra gli esponenti di spicco presenti nelle province di Venezia e Padova, vi erano Totuccio Contorno, Antonio Fidanzati, Antonino Duca e Rosario Lo Nardo che sul finire degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, predisposero le basi per la nascita di un gruppo paramafioso che potesse fare da ponte tra il Nord e il Sud dell’Italia. All’ombra di questi personaggi crebbero e trovarono maturazione le giovani leve locali di una criminalità dai contorni ancora rurali, che tentava generalmente di mutuarne le gesta, le caratteristiche e le imprese.
In quegli anni il Veneto stava iniziando a trasformare i suoi paesaggi rurali in piccole fabbriche e la povertà che attanagliava la gente della pianura padana stava, seppur lentamente, scomparendo. Il boom economico stava arrivando e di conseguenza le aspettative di chi la legge la calpesta per tradizione. Fu proprio lo sviluppo economico di queste aree che trasformò dei piccoli malavitosi locali da ladri di bestie e salami in un’associazione a delinquere vera e proprio, come fu definita dalla Prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Venezia nella Sentenza emessa il 14 dicembre 1996: «Conclusivamente, può dunque riconoscersi l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro il patrimonio, contro l’incolumità e la libertà individuale, contro le leggi sugli stupefacenti ed all’acquisizione diretta ed indiretta del controllo di attività economiche, sia lecite che illecite. La stessa risulta aver agito avvalendosi della forza intimidatrice promanante dal vicolo associativo e dello stato di assoggettamento e di omertà che ne è derivato per la popolazione del territorio, ove essa ha esercitato il proprio controllo. Appartenenti a tale organizzazione, operante dunque con modalità e protocolli operativi di tipo mafioso, sono risultati soggetti del gruppo cosiddetto della Mafia del Piovese o Mala del Brenta, molti dei quali deceduti per morte violenta conseguente a vicende, interne o esterne, comunque riconducibili alle attività svolte dai medesimi in tale contesto delinquenziale». L’ideatore e capo indiscusso di quest’organizzazione criminale soprannominata Mala del Brenta o Mafia del Piovese, è Felice Maniero, detto Faccia d’angelo o il Giuliano della Valpadana il quale, con Gilberto Sorgato, detto Ca-
Polizia Penitenziaria • SG&S
ruso, Ottavio Andrioli, Sandro Radetich, detto il Guapo, Gianni Barizza, Zeno Bertin, detto Richitina, Stefano Carraro, detto Sauna, Antonio Pandolfo, detto Marietto, e Fausto Donà, diede vita, verso la fine degli anni settanta, al sodalizio criminale più spietato, violento e temuto del Veneto, Emilia Romagna e Friuli-Venezia Giulia, trasformando la gang da ladri di polli in banda organizzata. La banda si concentra nelle rapine ai danni di laboratori orafi, istituti di credito e uffici postali, nei sequestri di persona, nel controllo delle bische clandestine e dei cambisti dei Casinò di Venezia, e nel traffico di sostanze stupefacenti. La vera specialità del gruppo è però le rapine. Famosa fu quella all’Hotel De Bains. L’albergo, situato al Lido di Venezia, è frequentato generalmente da miliardari e dai grandi giocatori del Casinò del Lido. Le sue cassette di sicurezza contengono grandi fortune. Alle 3,30 dell’estate del 1982, sei uomini si affacciarono nella terrazza deserta dell’hotel, tutti armati e a viso coperto. L’ordine fu perentorio: aprire tutte le cassette di sicurezza ma senza spargere sangue. Il commando composto da Felice Maniero, Sandro Radetich, Massimo Rizzi, Stefano Carraro e altri due malavitosi immobilizzò il centralinista, il barista e il portiere. Mentre uno rimase a fare il palo, il portiere, con la canna della pistola sul collo condusse i rapinatori dentro il caveau. Pochi minuti e con un piede di porco furono aperte 53 cassette di sicurezza. Solo alcuni giorni dopo si riuscirà a sapere l’ammontare del bottino: 2 miliardi e 340 milioni, compreso un diamante da 35 carati e un anello
n. 198 • settembre • pag. 28
con brillante che Maniero regalò, in segno di riverenza, alla moglie di un camorrista. Ancora più eclatanti furono le rapine all’aeroporto Marco Polo e al Casinò del Lido di Venezia. Nella prima rapina la banda fu informata di un grosso carico di lingotti d’oro che doveva partire per la Fiera di Francoforte su un Boeing 737 della Lufthansa. Nel pomeriggio di dicembre del 1982, un commando composto da quattro persone, con a capo Maniero, arrivò nei pressi dell’aeroporto con una macchina e un furgone, erano armati di tutto punto: un fucile mitragliatore M16, un M12 e pistole. Il gruppo saltò la recinzione dell’aeroporto e si diresse verso l’edificio che ospitava il caveau con l’oro. C’erano una ventina di persone che lavoravano a quell’ora e che vennero fatte stendere per terra: Maniero si dapprima si fece aprire il magazzino blindato e una volta entrato constatò che non vi erano valigette o contenitori particolari, ma solo scatoloni. Il colpo sembra andato a vuoto. I componenti della banda iniziarono a innervosirsi e il direttore del magazzino per scongiurare che la situazione degenerasse rivelò a Maniero che l’oro vicentino era proprio negli scatoloni. Trasbordati gli scatoli su un furgoncino, la fuga fu rapida e silenziosa. Il furgone peraltro a metà strada fonde il motore. Totale del bottino 5 miliardi. La rapina al casinò si consuma nell’aprile del 1984, intorno alle 2,45 di notte. Un commando della banda entrò nella sede estiva del Casinò del Lido, superò il muretto che divideva il Palazzo del Cinema dal giardino, prese in ostaggio due donne che stavano aspettando l’arrivo dei mariti, entrò nella sala del casinò urlando e mostrando le armi.
Un fattorino, un poliziotto e due controllori di sala furono fatti distendere a terra. In un’altra sala, alcuni giocatori furono strattonati e gettati a terra, mentre i malavitosi aprirono le casseforti. La rapina frutterà un bottino di due miliardi e mezzo in contanti; ma non tutte le rapine finiscono con un successo e senza sangue. La ferocia militare della banda cresce assieme alla loro capacità di far lievitare il denaro. Il 13 dicembre del 1990, l’ultimo grande colpo, che però finì male, la rapina da Far West al treno Bologna - Venezia, dove perse la vita una giovane studentessa di 22 anni di Conegliano, Cristina Pavesi, colpevole di viaggiare sul treno che incrociò a Vigonza il convoglio fatto saltare in aria, con una carica di tritolo, con all’interno un tesoro in titoli di Stato. Il 13 agosto del 1993 Felice Maniero fu arrestato a Capri e rinchiuso nel carcere dei Due Palazzi a Padova. Il primo Maxi Processo contro la Mala del Brenta, soprannominato Rialto, inizia nel 1993. Ci sono 110 imputati tra cui Felice Maniero, Gaetano Fidanzati, Nino Duca, Antonio Pandolfo e Totuccio Contorno, accusati di che devono rispondere di omicidio, rapine, estorsioni, traffico di droga, armi, riciclaggio di denaro e sequestro di persona. L’1 luglio 1994 la Corte d’Assise di Venezia emana 79 condanne. A Maniero infliggono 33 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso più 200 milioni di multa e 750 milioni a titolo di risarcimento; ma durante la lettura della sentenza Maniero non c’è: è evaso pochi giorni prima dal carcere Due Palazzi di Padova. Il 14 Giugno del 1994, sei persone camuffate da carabinieri in borghese con pettorine, palette, una Lancia Thema blu e una Croma dello stesso colore, ma soprattutto pistole, kalashnikov e una bomba a mano entrano dal block-house del carcere Due Palazzi di Padova. Entra senza sparare colpi e lega tutte gli agenti di polizia penitenziaria che incontra davanti al suo cammino. Entrano nei reparti detentivi e liberano Felice Maniero, Sergio Baron, Antonio Pan-
Polizia Penitenziaria • SG&S
dolfo, Carmine di Girolamo (camorrista della Nuova Camorra Organizzata), un ergastolano pugliese Vincenzo Parisi e Nuo Berisa alias Lihan Hepguler, un trafficante di droga turco. Il 12 novembre del 1994, a Torino, la Criminalpol Triveneta diretta dal dott. Francesco Zonno, grazie ai movimenti di carte di credito, telefoni e all’istinto dell’ispettore di polizia Michele Festa riesce ad arrestare Maniero. E’ la fine della banda perché, di lì a pochi giorni, faccia d’angelo inizierà a pentirsi e ha spifferare tutte le malefatte dell’organizzazione. Dopo il 1994, l’organizzazione, a seguito della collaborazione del Maniero, è andata disciogliendosi, a questo hanno contribuito i numerosi arresti e prelievi di beni dei suoi membri. Un tentativo di rinascita era costituito da un complotto volto a uccidere l’ex boss e pentito Felice Maniero. Per riuscire nell’impresa, i nuovi malavitosi prevedevano di usare un lanciarazzi e altre armi pesanti per colpire la caserma che ospitava l’ex boss. Al momento dell’arresto, le autorità identificarono come orditori della cospirazione 33 persone, tra cui noti rapinatori e delinquenti di piccola taglia. Non risulta che i gruppi delinquenziali italiani operanti attualmente nel Nord-Est abbiano più le caratteristiche di una vera associazione a delinquere, ma piuttosto quelle di gruppi disuniti tra loro e dediti alle rapine di portavalori e al traffico di sostanze stupefacenti. Alla prossima...
n. 198 • settembre • pag. 29
•
Nelle foto sopra l ’ingresso del carcere padovano Due Palazzi in alto a sinistra l’ arresto di Felice Maniero
a cura di Giovanni Battista De Blasis deblasis@sappe.it
Q
uasi venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Cosa Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato quindici e più anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.
La Polizia Penitenziaria e il servizio di Polizia Giudiziaria di Enrico Ragosa, Generale del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia Responsabile del Servizio Coordinamento Operativo Polizia Penitenziaria
L’
Sopra la copertina di luglio agosto 1996
attività di polizia giudiziaria degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria ed al ruolo ad esaurimento degli Ufficiali del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia è un argomento di costante attualità verso il quale questo mensile ha già espresso il proprio punto di vista per le notevoli attenzioni ed aspettative sia da parte del personale appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria, sia dalle diverse Autorità giudiziarie dimostratesi attente alla istituzione di apposite Sezioni presso le Procure o di Servizi presso gli Istituti penitenziari. Le ragioni ostative sinora espresse sull’istituzione di uffici destinati allo svolgimento di attività di polizia giudiziaria ad opera della Polizia Penitenziaria sono essenzialmente due: la prima, di natura legislativa, è basata sulle limitazioni che l’attuale normativa prevede in tema di composizione delle Sezioni di polizia giudiziaria presso le Procure; l’altra, prettamente ideologica, è attinente alle ragioni che consigliano di tenere separato l’organo di polizia che indaga dall’organo di polizia che custodisce, evitando commistioni fra i due. Sul primo punto osservo che, se dalla composizione delle Sezioni di polizia giudiziaria presso le Procure (56 c.p.p., 5 e 12 att. c.p.p.) restano esclusi gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, è comunque previsto che tale personale svolga compiti di polizia giudiziaria (55 c.p.p.) in virtù della rispettiva qualifica ad esso attribuita (57
Polizia Penitenziaria • SG&S
c.p.p.). Se è quindi indiscutibile che tale attività sia espletabile dagli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria ed anzi si colloca fra quelle prioritarie dell’area della sicurezza, ferma restando la tipicità dei propri compiti istituzionali e senza quindi sconfinare in competenze di altre Forze di Polizia, non si capiscono le ragioni perchè essa non possa essere esercitata al meglio mediante l’istituzione di Servizi che abbiano il compito di svolgere, in ambito penitenziario, in via prioritaria e continuativa, le funzioni indicate dall’art. 55 del codice di procedura penale. La formulazione dell’art. 12 delle norme di attuazione del c.p.p. lascerebbe prevedere una simile possibilità. Tale interpretazione eliminerebbe qualsiasi equivoca interpretazione dell’assenza, negli artt.l, 3 e 5 della Legge 395/90, di specifici riferimenti ai Servizi di polizia giudiziaria previsti dal codice ed apprezza l’attività medesima svolta all’interno degli Istituti dagli appartenenti al Corpo Polizia Penitenziaria. Preso atto di ciò, ritengo che vi siano margini sufficienti per interventi amministrativi utili ad una programmazione su scala nazionale di tale attività. Le altre motivazioni che, escludendo anche l’eventualità appena indicata, tengono conto della inopportuna commistione fra organo di polizia che indaga ed organo di polizia che custodisce, probabilmente non valutano sufficientemente le altre argomentazioni che, invece. renderebbero utile un simile Servizio.
n. 198 • settembre • pag. 30
Non può infatti ignorarsi quanto numerose siano ormai le richieste e le deleghe che le Autorità giudiziarie folmulano sempre più frequentemente ai vari Istituti penitenziari, consistenti in tutte quelle attività espletabili dalla polizia giudiziaria. E’ il caso, ad esempio, delle sommarie informazioni e dell’interrogatorio dell’imputato che trovasi detenuto non per quella causa, delle perquisizioni e sequestri, delle querele e relative remissioni, delle intercettazioni ambientali e di quant’altro. Alle attività delegate appena enunciate, vanno ad aggiungersi quelle compiute di iniziativa nell’ambito del proprio servizio, alcune delle quali, per la loro complessità, non possono limitarsi alla semplice annotazione o rapporto, meritando, al contrario approfondimenti, acutezza e professionalità, qualità non sempre possedute da tutti gli operatori. I compiti che la Polizia Penitenziaria andrebbe a svolgere nell’ambito dei Servizi di polizia giudiziaria, la cui istituzione è stata proposta da alcune Direzioni, consisterebbero quindi, principalmente, in quelli suindicati, fatta salva ovviamente la discrezionalità delle Autorità giudiziarie. Credo che l’ambito della proposta di costituire Servizi di polizia giudiziaria presso gli Istituti Penitenziari, debba intendersi in quello delineato dal presente appunto, il che potrebbe solamente accrescere il prestigio di questa Amministrazione, soddisfacendo, al contempo, aspettative nutrite da una larga parte del personale. A fronte delle gratificazioni, non andrebbero però trascurati gli oneri relativi ad una adeguata e specifica preparazione professionale del personale della quale dovrebbero però farsi carico le
Polizia Penitenziaria • SG&S
Scuole di Formazione ed Aggiornamento. In merito alla incidenza che tali Servizi avrebbero sull’organico del Corpo, credo che essa sia meramente fittizia; se si considera che le attività anzidette sono attualmente svolte presso i singoli Istituti da personale della Polizia Penitenziaria addetto solitamente agli Uffici comando o matricola, si deduce che esse non comporterebbero alcun aggravio aggiuntivo. Riguardo alla opportunità di evitare commistioni fra il personale addetto a tali Servizi e la popolazione detenuta, di fatto già operante in quasi tutte le realtà, tale divieto potrebbe essere esplicitamente e convenientemente previsto in analogia a quanto già disposto per il personale addetto ai Nuclei per le traduzioni dei detenuti e degli internati. Convengo sull’assenza dei presupposti normativi che legittimano l’istituzione di Sezioni di polizia giudiziaria, composte da personale appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria, presso le Procure. Tuttavia, se presso ciascun Istituto penitenziario venissero costituiti Servizi di polizia giudiziaria competenti, efficienti, composti da personale motivato e professionalmente preparato, le esigenze delle Autorità giudiziarie potrebbero trovare appropriate soluzioni in quelle sedi; dalla riuscita di una simile iniziativa potrebbero inoltre scaturire i presupposti per le modifiche all’attuale impianto normativo che consentirebbero alla Polizia Penitenziaria di entrare a pieno titolo, senza alcuna subalternità, nelle Sezioni di polizia giudiziaria delle Procure. Se i vertici dell’Amministrazione penitenziaria o, più autorevolmente, l’On.le Ministro, ritenessero opportuno affrontare un simile impegno, gli obiettivi che si andrebbero a perseguire non necessariamente sarebbero in antitesi fra loro, completandosi, al contrario, per una migliore realizzazione dei propri fini istituzionali.
•
n. 198 • settembre • pag. 31
in questa pagina la vignetta e il sommario
FEDERICO PERRONE CAPANO
CODICE DELL’ESECUZIONE PENALE E DELL’ O. P. Annotato con dottrina, giurisprudenza e formule
VALERIA DELLA VALLE GIUSEPPE PATOTA
CILIGIE o GILIEGE
e altri 2.406 dubbi della lingua italiana
NEL DIRITTO Edizioni pagg. 832 - euro 80,00
E
28 agosto 2000, n. 274), nell’ordinamento penitenziario (26 luglio 1975, n. 354), nel T.U. Stupefacenti (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), nonché nel T.U. spese di giustizia (D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115). Attento esame è dedicato al più recente indulto, concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241, e alla sospensione condizionata della parte finale della pena detentiva (c.d. ‘indultino’ - L. 1 agosto 2003, n. 207). Contiene, infine, il commento alle recentissime leggi 26 novembre 2010, n. 199 (c.d. ‘svuotacarceri’), che ha introdotto l’esecuzione domiciliare delle pene non superiori ai dodici mesi e 21 aprile 2011, n. 62, recante Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori.
cco un libro davvero importante ed utile che non dovrebbe mancare nella libreria di coloro che, a vario titolo, si occupano di esecuzione penale e carcere. Questo Codice dell’esecuzione penale si rivela uno strumento utile ad orientarsi nella materia dell’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali in materia penale. Strutturato in due parti, nella prima si focalizza l’esecuzione delle statuizioni contenute nei provvedimenti giurisdizionali. L’altra parte è dedicata al delicato ruolo della magistratura di sorveglianza, delle misure alternative alla detenzione e dei principali istituti del trattamento e del regime penitenziario. Ogni articolo è commentato in maniera da offrire uno snello inquadramento dell’istituto e con un vero e proprio archivio delle questioni esaminate dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, esposte sotto forma di domande e risposte. Corredato da un ampio e robusto indice analitico, l’opera analizza le norme contenute nel codice penale e di procedura penale, nelle disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace (D.Lgs.
SPERLING&KUPFER Edizioni pagg. 242 - euro 14,90
C
hi può dire di non aver mai avuto un dubbio, scrivendo un tema, un articolo, o anche solo una mail (o un mail?), di non essersi mai trovato faccia a faccia (o a faccia a faccia?) con una parola dall'accento incerto? Sbagliare non è questione d'ignoranza o della sclèrosi (o scleròsi?) delle nostre arterie, ma dipende spesso dalla complessità della nostra bella lingua. Non è dunque il caso che ci vergognamo (o vergogniamo?) quando ci chiediamo se sia meglio comprare un ananas o un'ananas, consultare due chirurghi o due chirurgi, partire alle tre e mezzo o alle tre e mezza. Capita a tutti. E grazie a questo libro, decidere sarà questione di un attimo!
Polizia Penitenziaria • SG&S
PINO CASAMASSIMA
GLI IRRIDUCIBILI LA TERZA Edizioni pagg. 258 - euro 18,00
«
Che significa essere irriducibile? Secondo il potere significa essere irriducibile alla dissociazione, opporsi al pentimento. Per non esserlo, bisogna quindi diventare un dissociato. Una mostruosità giuridica e storica». In questo libro parla Paolo Maurizio Ferrari, brigatista del primo nucleo storico cresciuto nella comunità dei cristiani di base Nomadelfia, che pur in assenza di reati di sangue ha scontato trent'anni di galera senza mai un permesso perché a questo Stato non si chiede nulla, lo si combatte e una volta fuori, capeggia rivolte e contestazioni salendo anche sui tetti per difendere una casa occupata. Parla Cesare Di Lenardo, anche lui in galera da trent'anni, condannato per il sequestro del generale americano Dozier, che dalla cella ha rivendicato l'omicidio di Marco Biagi e in carcere riferisce di avere subito torture che gli hanno impedito qualsiasi pensiero di pacificazione. Parlano Renato Curcio, Tonino Loris Parali e Prospero Gallinari, tre del nucleo fondativo del partito armato, cui si uniscono (per scelta d'uscita dalla lotta armata seppur con percorsi diversi) Raffaele Fiore, sua moglie Angela. Poi è la volta della storia di Nadia Lioce, una delle ultime terroriste arrestate, di fatto "seppellita" col duro regime del 41 bis nel carcere dell'Aquila. Una storia, quella dell'ultima leader delle Br-Partito comunista Combattente, che inizia sui banchi delle scuole medie di Foggia. Pino Casamassima racconta la lotta armata attraverso le storie di chi non si è mai pentito né dissociato...
n. 198 • settembre • pag. 32
a cura di Erremme
G. M. CHIOCCI- S. DI MEO
DIAZ IMPRIMATUR Edizioni pagg. 155 - euro 14,00 BARBAR A ROMANO
L’
IL CASO LUSI ALIBERTI Edizioni pagg. 190 - euro 14,00
D
agli elementi acquisiti nell’inchiesta sull’ammanco da oltre 25 milioni di euro dalle casse della Margherita «emerge un diffuso e grave contesto di illegalità» nel quale il senatore Luigi Lusi «si muove con allarmante spregiudicatezza, del tutto indifferente alle regole e al sistema di valori su cui si basa la vita democratica del paese». Così hanno affermato nei giorni scorsi i giudici del tribunale del Riesame di Roma che hanno confermato la custodia cautelare in carcere per l’ex tesoriere della Margherita detenuto dal giugno scorso. All’attenzione del collegio il procedimento è arrivato dopo l’annullamento da parte della Cassazione. Nell’ordinanza i magistrati ricordano le dichiarazioni rese dallo stesso Lusi e sottolineano che «nonostante l’apparente collaborazione - l’indagato nei lunghi interrogatori resi dopo la restrizione in carcere, non ha inteso fornire alcun effettivo chiarimento in ordine alla destinazione delle rilevanti somme di cui si è appropriato e non impiegate nell’acquisto di immobili in Italia, limitandosi ad ammettere solo le circostanze che erano state accertate ma inserendole in un contesto politico, nel tentativo di legittimare in qualche modo il proprio operato». La giornalista Barbara Romano ci racconta tutto dall’inizio nell’istant book IL CASO LUSI. Storia di un untore. Un libro inchiesta che ripercorre con attenzione i fatti che hanno portato in carcere il tesoriere e si interroga su quanto ci venga nascosto di questa truffa colossale ai danni dello Stato e dei cittadini. Il volume contiene un’intervista esclusiva a Lusi dal carcere, e analizza il caso soffermandosi sul lato intimo e privato di questa storia, sul rapporto tra Lusi e Rutelli e su quello che rimane di un’amicizia durata 18 anni.
’ex comandante della celere di Roma Vincenzo Canterini, firma un libro sull’irruzione nella scuola del G8 di Genova, dove accusa gli alti vertici della Polizia di Stato di aver cercato di depistare le indagini su quella macelleria scaricando tutte le colpe sui suoi uomini. Vincenzo Canterini, primo dirigente oggi a riposo, all’epoca dei fatti comandante del Primo reparto mobile di Roma ha deciso di raccontare la sua verità su quell’episodio in Diaz, libro scritto con i cronisti del Giornale Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo e pubblicato da Imprimatur. Undici anni dopo i fatti del 2001 e, soprattutto, neppure un mese dopo la condanna definitiva in Cassazione dello stesso Canterini e di altri 24 poliziotti, compresi Fournier e diversi capisquadra del VII. In Diaz, accusa apertamente le alte sfere del Viminale di aver cercato di scaricare sui di lui e sui suoi uomini le responsabilità, anche penali, di quella “macelleria indiscriminata”. Non riuscendoci grazie alla caparbietà dei magistrati genovesi. Che però avrebbero commesso l’errore opposto, cioè di dividere la scena della Diaz in buoni e cattivi, dove buoni erano tutti gli occupanti del dormitorio improvvisato e cattivi tutti i poliziotti intervenuti. La tesi di Canterini, invece, è che all’interno della scuola ci furono gravi atti di resistenza – smentiti quasi del tutto nella ricostruzione proces-
Polizia Penitenziaria • SG&S
suale – e che gli uomini del VII Nuncleo non si siano abbandonati ad alcun pestaggio indiscriminato, a differenza di altri colleghi.
LORENZO DABOVE
EURHOP! La prima guida turistica della birra in Europa PUBLIGiovane Edizioni pagg. 304 - euro 20,00
E
urhop è un compagno di viaggio per l’appassionato di cultura brassicola e per il turista curioso ed assetato, rappresenta anche un piccolo compendio in cui sono raccontate e descritte le birre artigianali d’Europa che potrete trovare anche sotto casa o nel beer-shop di fiducia. Racconta l’Europa attraverso il filo conduttore della cultura birraria, perché si possano cogliere le differenze tra i vari paesi e le unicità che ognuno di questi presenta. La birra, che si differenzia da una città all’altra per lo stile e la tecnica di produzione, ha vissuto storie e tradizioni che hanno influenzato e ancora caratterizzano la vita e lo sviluppo della cultura europea. La vera novità è che Eurhop! rappresenta, nel mondo delle guide, l’unione del lato birrario del viaggio con quello essenzialmente turistico, per vivere un’esperienza a tutto tondo delle città che un appassionato beer-hunter andrà a visitare e scoprire, iniziando a pianificare il suo viaggio e gustare i primi sapori già sfogliando le pagine di questa guida. Un Viaggio in Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Belgio, Danimarca, Svezia, Repubblica Ceca e in Italia accompagnati dall’esperto Lorenzo Dabove in arte Kuaska.
n. 198 • settembre • pag. 33
•
inviate le vostre lettere a rivista@sappe.it
la lettera
S
ono un assistente capo in servizio presso la casa circondariale di Verona dal 1994. Inutile dire che faccio parte di coloro i quali (è il caso di dirlo) sperano in un trasferimento che mi permetta di avvicinarmi a casa. Quest'anno sono stato folgorato dalla celerità con cui il Ministero ha ufficializzato le graduatorie dei trasferimenti. Se, infatti, per l'emanazione della graduatorie provvisorie sono serviti circa 8 mesi (dal 28/11/2011 al 28/06/2012) di lavoro, per l'emanazione di quella definitiva è bastato stornare i nominativi dei colleghi che, avendo perso ogni speranza (come per chi entra nell'inferno dantesco), hanno deciso di revocare le pro-
prie richieste e fare un copia e incolla degli altri nominativi confermando in toto i punteggi in precedenza assegnati e come per magia dopo una settimana (05/07/2012) notificare le graduatorie definitive. Trattasi di miracolo? Di sicuro all'ufficio trasferimenti hanno meritato un bel FESI visto che in una sola settimana hanno vagliato i possibili ricorsi di quasi 18000 potenziali nominativi (701 pagine pdf della graduatoria per i 25 nomi di ciascuna pagina). Io francamente propongo una verifica utile ad evitare che qualcuno ai piani alti del Ministero continui a speculare sulla pelle (espressione più che mai adatta) di chi opera ALL'INTERNO DEGLI ISTITUTI. Lettera firmata La nota del collega valga come lettera aperta indirizzata a chi puo’ e vuole...
l’appuntato Caputo©
il mondo dell’appuntato Caputo© 1992•2012
UNA PACCA E VIA...
di Mario Caputi & Giovanni Battista De Blasis © 1992 - 2012
VENTI ANNI
ALLORA, COME E’ ANDATA?
Polizia Penitenziaria • SG&S
n. 198 • settembre • pag. 34
TUTTO BENE... CI HA DATO UNA BELLA PACCA DI SCORAGGIAMENTO...