anno XX • n. 208 • luglio/agosto 2013
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I nuovi provvedimenti del Governo sulle carceri: svuotare il mare con un secchiello
sommario
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I nuovi provvedimenti del Governo sulle carceri: svuotare il mare con un secchiello
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di Donato Capece e Giovanni Battista de Blasis
Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it
il commento
Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it
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Carceri, qualche riflessione sui provvedimenti del Governo
Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it
di Roberto Martinelli
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Redazione cronaca: Umberto Vitale
l’osservatorio
Redazione politica: Giovanni Battista Durante
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Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro l’Italia
Redazione sportiva: Lady Oscar
di Giovanni Battista Durante
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lo sport
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Un piano di recupero per le strutture sportive di Via di Brava
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mafie e dintorni
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La ’ndrangheta e i sequestri di persona
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di Franco Denisi Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18.7.1994
crimini e criminali
Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma)
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Gli angeli della morte: traghettatori verso un’altra vita
Finito di stampare: luglio 2013
di Pasquale Salemme Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria
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I nuovi provvedimenti svuotare il mare Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it
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l sovraffollamento dei detenuti è un problema che assilla l’Italia da più di venti anni. Il problema può essere risolto soltanto in due modi: costruendo nuove carceri oppure modificando i flussi in entrata e in uscita nell’esecuzione penale. Pur tuttavia, sebbene esista un Piano Carceri per la costruzione di nuovi istituti penitenziari e a tale scopo sia stato nominato un Commissario Straordinario, si è sempre cercato di affrontare il problema ricorrendo a indulti, amnistie e scarcerazioni a vario titolo. Purtroppo, però, tali provvedimenti, che determinano l’uscita di massa dei detenuti (un terzo del totale con l’indulto del 2006) lontano dall’essere risolutivi, si sono rivelati un semplice palliativo. Peraltro, gli ultimi atti di clemenza del 1990 e del 2006 hanno eluso il limite legislativo secondo cui l’amnistia e l’indulto non si applicano ai recidivi, cioè a chi non è alla prima esperienza carceraria. Le statistiche dicono che dopo l’ultimo indulto le rapine in banca sono quasi raddoppiate. Più in generale, varie tipologie di crimine subiscono improvvise impennate nei periodi successivi ai provvedimenti di clemenza. Con costi sociali superiori ai benefici. Ecco perché eventuali nuove misure in tal senso dovrebbero tener conto della necessità di selezionare in modo rigoroso i detenuti da liberare. Ad esempio, i modelli econometrici (età del detenuto, sesso, tipo e numero di crimini commessi in passato ) potrebbero aiutare a definire i criminali abituali per poterli escludere dal beneficio. Queste informazioni potrebbero essere anche utilizzate dal giudice come strumento per scegliere se concedere o meno il beneficio di clemenza. Modelli simili vengono già utilizzati in ambito giudiziario negli Stati Uniti.
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Le statistiche elaborate dall’ISTAT hanno evidenziato che a seguito dei vari atti di clemenza susseguitesi dal 1962 ad oggi i crimini che aumentano maggiormente sono le rapine in banca (0.38 all’anno per ogni detenuto liberato), lo spaccio di stupefacenti (0.61 all’anno per detenuto), le frodi (5 all’anno per detenuto), i furti di autoveicoli (5 all’anno per detenuto), i borseggi (42 all’anno per detenuto) e persino gli omicidi (0.02 all’anno per detenuto). Prima dell’indulto del luglio 2006 la popolazione carceraria italiana era pari a 60mila persone. Grazie all’indulto ne sono state liberate circa 26mila. Ma a giugno 2007, si era già tornati alla capienza regolamentare delle carceri, e cioè 43mila detenuti. Nemmeno un altro anno dopo, siamo nuovamente arrivati a superare i 60mila detenuti. Tanto dovrebbe bastare per dimostrare che amnistia ed indulto non sono, in alcun modo, la soluzione al problema del sovraffollamento. Ciò nondimeno, il Governo italiano, che sia di destra o di sinistra poco importa, finisce per occuparsi della drammatica situazione delle carceri soltanto quando è costretto dal precipitare delle cose. E le motivazioni che spingono i nostri parlamentari ad occuparsi del carcere non sono affatto di natura etica, culturale o umanitaria, sono, indotte da puro e semplice stato di necessità. Nel 2006 furono le pressioni del Sommo Pontefice (prima Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI) a costringere il Governo ad adottare un provvedimento di indulto. Oggi è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha intimato all’Italia di ripristinare la legalità all’interno dei suoi penitenziari. La Corte ha, di fatto, certificato che l’emergenza legata al sovraffollamento delle carceri italiane è insostenibile sia per le condizioni psico-fisiche e igieniche dei detenuti
sia per il conseguente stress del personale di servizio. Molto interessante, sotto ogni punto di vista, quello che ha scritto Pietro Di Muccio de Quattro su L’Opinione del 9 luglio 2013. «Gli Stati Uniti d’America hanno trecento milioni d’abitanti. L’Italia, sessanta milioni. Tre milioni di americani sono in galera. Gli italiani detenuti sono sessantamila. Dunque l’1% contro lo 0,1% della popolazione. Troppo gli Usa? Poco l’Italia? Per capirci, i carcerati americani sono tanti quanti gli abitanti dell’intera città di Roma. Per contro, i carcerati italiani equivalgono a una cittadina di provincia. Mentre, rispettando la percentuale statunitense, dovrebbero ammontare a seicentomila, come Palermo. La differenza è spiegabile in vari modi. Escluso il grado di rispetto della legge. Non è che gli Americani ne sono meno rispettosi di noi e perciò finiscono in galera dieci volte di più. È che, invece, gli italiani considerano la legge dieci volte meno degli Americani. Inoltre, finire in galera in Italia è più facile che in America. Restarci è molto più difficile. I detenuti in attesa di giudizio sono una vergogna nazionale, sia perché, salvo casi eclatanti, non dovrebbero stare in galera, sia perché vi sono mantenuti in promiscuità con i condannati definitivi. Lo Stato non costruisce le carceri indispensabili. Fa un uso intensivo delle celle disponibili. Nega ai carcerati il minimo spazio vitale che riconosce anche agli animali d’allevamento e da macello. Il sovraffollamento delle prigioni non è un male acuto, dipendente da un’occasionale impennata dei crimini. È cronico. Tanto vero che, per sgombrare le galere, da sempre lo Stato elargisce amnistie, condoni, opportunità processuali, benefici carcerari. Agisce da schizofrenico: con la repressione, incarcera; con lo sfollamento, scarcera. L’umanità della pena rappresenta il tratto distintivo
il pulpito & l’editoriale
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del Governo sulle carceri: con un secchiello dello Stato liberale, come la certezza della giustizia costituisce l’altra faccia del garantismo giudiziario. La privazione della libertà è sanzione necessaria e sufficiente, se la violazione della legge penale viene accertata tramite un processo equo. Il condannato resta un essere umano che non deve essere afflitto oltre il dovuto per assicurare l’indispensabile protezione della società. Mai la cella può essere la stia del detenuto. » L’articolo è molto interessante perché affronta alcuni aspetti controversi dell’esecuzione penale italiana. Il primo è quello relativo alla custodia cautelare: troppo utilizzata ed indefinita. Il secondo è quello relativo all’incertezza della pena. L’ultimo è quello della schizofrenia della legge penale italiana. Nel 2009, Ministro Alfano e Capo Dap Ionta, è sembrato che, finalmente, il Governo avesse preso coscienza del fatto che – visto il fallimento dell’indulto – l’unica via percorribile era quella di costruire nuove carceri. Infatti, fu varato un Piano Carceri, affidato ad un Commissario Straordinario con ampi poteri e finanziato con quasi 700 milioni di euro. Il Piano prevedeva la costruzione di circa 40 nuovi padiglioni e 11 nuovi istituti, per un totale di oltre 20mila nuovi posti detentivi. Il Piano Carceri Alfano-Ionta era assolutamente razionale e, probabilmente, risolutivo. La capienza delle carceri italiane sarebbe arrivata a circa 65mila posti regolamentari. Più o meno il numero fisiologico raggiunto dalla carcerazione. Come accade, purtroppo, abbastanza spesso le buone idee finiscono sempre nel cestino e, a 4 anni di distanza, si è praticamente persa ogni traccia di quel Piano. Nel frattempo, però, è stato commissariato il commissario (il magistrato Ionta sostituito dal prefetto
Sinesio) e l’intera direzione generale dei beni e servizi del dap, alla quale è stata sottratta la disponibilità di quasi tutte le risorse economiche. Ma, alla fine, la montagna ha partorito il topolino e il Governo ha varato un decreto legge contenente una serie di misure (a suo dire) deflattive. Secondo il comunicato ufficiale di Palazzo Chigi, il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, ha approvato un decreto legge contenente disposizioni tese a fornire una prima risposta al problema del sovraffollamento penitenziario. Il Ministero della Giustizia ha elaborato una proposta che, pur senza stravolgere l’attuale ordinamento, intende realizzare un significativo alleggerimento del nostro sistema penitenziario. L’intervento riformatore si muove nell’ottica di favorire l’adozione di efficaci meccanismi di decarcerizzazione (alcuni dei quali peraltro già in vigore prima della legge n. 251 del 2005, c.d. legge ex Cirielli) unicamente in relazione a soggetti di non elevata pericolosità; ferma restando, al contrario, la necessità dell’ingresso in carcere dei condannati a pena definitiva che abbiano commesso reati di particolare allarme sociale. Una doppia linea di intervento. Sul versante della deflazione carceraria la proposta si articola su due fronti: A. la previsione di misure dirette ad incidere strutturalmente sui flussi carcerari, agendo in una duplice direzione: quella degli ingressi in carcere e quella delle uscite dalla detenzione. B. il rafforzamento delle opportunità trattamentali per i detenuti meno pericolosi, che costituiscono la maggior parte degli attuali ristretti. a) Flussi carcerari. Si è ritenuto ormai indifferibile
rimuovere alcuni automatismi, ancorati ad astratte presunzioni di pericolosità, che, in maniera scarsamente selettiva e spesso indiscriminata, hanno condotto in carcere, negli ultimi anni, un numero assai elevato di persone, impedendo loro di accedere alle misure alternative alla detenzione subito dopo il passaggio in giudicato della condanna. a1) La modifica dell’art. 656 c.p.p. L’intervento intende riservare l’immediata incarcerazione ai soli condannati in via definitiva nei cui confronti vi sia una particolare necessità del ricorso alla più grave forma detentiva. Tra questi, oltre ai condannati per reati contemplati dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono stati inseriti i delitto di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori di quattordici anni. Nei confronti degli altri condannati si è intervenuti sulla cosiddetta “liberazione anticipata”, istituto che premia con una riduzione di pena, pari a 45 giorni per ciascun semestre, il detenuto che tiene una condotta regolare in carcere e partecipa fattivamente al trattamento rieducativo (v. art. 54 ord. pen). Sarà il pubblico ministero, prima di emettere l’ordine di carcerazione, a verificare se vi siano le condizioni per concedere la liberazione anticipata e investa, in caso di valutazione positiva, il giudice competente della relativa decisione. In questo modo, il condannato potrà attendere “da libero” la decisione del tribunale di sorveglianza sulla sua richiesta di misura alternativa. Inoltre, per le donne madri ed i soggetti portatori di gravi patologie viene ora data l’opportunità di accedere alla detenzione domiciliare nei casi in cui debba essere espiata una pena non superiore ai quattro anni. a2) Il lavoro di pubblica utilità
Giovanni Battista de Blasis DirettoreEditoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it
‡ Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
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editoriale & pulpito Viene, altresì, ampliata la possibilità per il giudice di ricorrere, al momento della condanna, ad una soluzione alternativa al carcere, costituita dal lavoro di pubblica utilità. Tale misura, prevista per i soggetti dipendenti dall’alcol o dagli stupefacenti, potrà essere disposta per tutti reati commessi da tale categoria di soggetti, salvo che si tratti delle violazioni più gravi della legge penale previste dall’art.407, comma 2, lett. a), del codice di procedura penale (si veda l’art. 73, comma 5 ter D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). a3) L’intervento sulle misure alternative (ovvero sui flussi di ingresso e di uscita). Nella duplice prospettiva di ridurre i flussi in entrata ma anche di incrementare le possibilità di uscita dal carcere, si collocano infine le modifiche che prevedono l’estensione degli spazi di applicabilità di alcune misure alternative per determinate categorie di soggetti, che in passato erano invece esclusi, come i recidivi per piccoli reati. b) Le misure incidenti sul trattamento rieducativo. Al fine di alleggerire le tensioni che, in specie nel periodo estivo, possono più facilmente innescarsi sia tra i detenuti che nei confronti del personale penitenziario, il provvedimento estende la possibilità di accesso ai permessi premio per i soggetti recidivi e prevede l’estensione dell’istituto del c.d. lavoro all’esterno (art. 21 dell’ordinamento penitenziario) anche al lavoro di pubblica utilità (v. comma 4 ter del citato art. 21). Tutto ciò, secondo la Ministro Cancellieri ed il Governo del quale fa parte, dovrebbe risolvere il problema del sovraffollamento carcerario. Dal basso della mia esperienza ultratrentennale, permettetemi di nutrire qualche dubbio sull’efficacia del provvedimento. Sempre dal basso della mia esperienza ultratrentennale, continuo a sostenere che se in Italia il numero dei detenuti si è assestato intorno ai 65mila, l’Italia deve disporre di almeno 65mila posti nelle carceri. Le carceri, quindi, vanno costruite … e basta.
Tra l’altro, va anche aggiunto (cosa che si vorrebbe invece nascondere) che almeno una cinquantina delle 200 carceri italiane sono in uno stato disastroso e andrebbero immediatamente chiuse. Ciò significa che abbiamo bisogno di costruire una settantina di nuovi istituti, possibilmente in tempi brevi e secondo concezioni architettoniche adeguate all’esecuzione penale ed equilibrate nella proporzione costi/benefici. (Mi riferisco, ad esempio, al fatto che alcune ricerche scientifiche hanno stabilito che un carcere con meno di 300 detenuti risulta essere antieconomico) Tra l’altro, in un momento di crisi economica come quello attuale, sarebbe molto importante lanciare un grande piano di edilizia penitenziaria (magari in project financing) per la realizzazione di decine e decine di istituti penitenziari. Il sistema per l’esecuzione penale perfetto dovrebbe essere composto da circa 150 istituti, ciascuno da 500 posti detentivi. E, con l’occasione, potremmo anche rivalutare l’opportunità di realizzare carceri prefabbricate, che furono proposte a circa 25 milioni di euro con tempi di consegna di 24 mesi. (Si pensi che le stime fatte dal dap sulle costruzioni tradizionali parlano di 50/60 milioni di euro e tempi di consegna di 5/6 anni) In ogni modo, tradizionali o prefabbricate, modulari o monoblocco, l’importante è costruire, costruire, costruire... Tutti gli altri provvedimenti deflattivi (pur se legittimi sotto il profilo procedurale) continueranno ad avere lo stesso effetto che provava a svuotare il mare con un secchiello. A mio avviso, infine, amnistia ed indulto dovrebbero tornare ad essere puri e semplici atti di clemenza, così come sono stati storicamente concepiti e così come è nella loro natura. In questo senso, e sempre avendo cura di valutare attentamente la pericolosità sociale di ciascun individuo detenuto, non ho alcun genere di preclusione all’adozione di questi provvedimenti, purché siano finalmente svincolati dal sovraffollamento penitenziario. H
ome è noto l’Italia è stata condannata più volte dalla Corte Europea dei diritti umani con riferimento all’esecuzione della pena negli Istituti penitenziari per violazione dei diritti fondamentali, il cui rispetto si esige anche e soprattutto nello stato detentivo. Da ultimo, la Corte è intervenuta condannando l’Italia per aver sottoposto sette detenuti del carcere di Busto Arsizio e di quello di Piacenza a condizioni inumane e degradanti, in quanto tali ristretti si sono trovati a condividere la propria camera detentiva di nove metri quadrati con altri due reclusi, non avendo peraltro talvolta accesso alle docce ove spesso mancava l’acqua calda. Tuttavia, a differenza delle altre sentenze che si sono limitate per così dire a condannare l’Italia al risarcimento del danno, quella emessa l’8 gennaio c.a. ha assunto anche una valenza monitoria. Infatti, è stato dato al Governo un anno di tempo per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri e introdurre nel proprio ordinamento misure cha garantiscano ai detenuti di poter ottenere un immediato miglioramento della loro condizione detentiva. Trascorso inutilmente tale termine la Corte ricomincerà ad esaminare le centinaia di ricorsi per sovraffollamento che potrebbero portare ad un ingente esborso di denaro per lo Stato, o meglio per la collettività, sebbene le responsabilità siano da rinvenirsi nei vertici amministrativi e politici: i quali hanno visto respingersi il ricorso presentato alla suddetta sentenza che, pertanto, nel frattempo è divenuta definitiva. L’importanza della Corte europea merita, aldilà di tale specifico aspetto legato al mondo penitenziario, una breve disamina circa la natura e le competenze della stessa. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 dai 13 Stati al tempo membri del Consiglio d’Europa (Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi,
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mondo penitenziario
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Italia condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani per lo stato delle carceri
Regno Unito, Svezia, Turchia) e ratificata dall’Italia solo il 10 ottobre 1955, costituisce una delle realizzazioni cardine di garanzia e di sviluppo dei diritti e delle libertà dell’uomo, la cui concreta tutela è stata affidata ad un organo giurisdizionale ad hoc le cui decisioni vincolano i 47 Stati firmatari. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, è un tribunale internazionale competente ad esaminare, in determinate circostanze, i ricorsi presentati dagli Stati, da singoli o da gruppi di persone che ritengono che i diritti loro riconosciuti dalla citata Convenzione siano stati violati. Detta Convenzione altro non è che un Trattato internazionale, mediante il quale i 47 Stati europei si sono impegnati a rispettare alcuni diritti fondamentali degli individui. I diritti garantiti sono enumerati nella stessa Convenzione e nei Protocolli addizionali nn. 1, 4, 6, 7 e 13. Aspetto, tuttavia, centrale della Cedu è il ruolo sussidiario della Corte Europea: ciò non vuol dire che la Corte abbia una funzione ridimensionata e subordinata all’interno del sistema, ma piuttosto significa che gli Stati membri debbono per primi rispettare e tutelare in modo effettivo i diritti e le libertà riconosciute ed elencate nella Convenzione mediante strumenti di
diritto nazionale. Infatti, una delle condizioni di ricevibilità affinché un singolo individuo possa adire la Corte è l’esaurimento delle vie di ricorso interne ex articolo 35 CEDU, per cui, ad esempio, nel caso in cui la parte ricorrente lamenti la irragionevole durata del processo, questa dovrà esaurire la via del ricorso introdotta dalla Legge n. 89 del 24 marzo 2001, meglio conosciuta come Legge Pinto, prima di potersi rivolgere alla Corte europea. E’, pertanto, essenziale che, prima di adire la Corte, la parte ricorrente abbia esperito tutte le vie di ricorso interne previste dall’ordinamento delle Stato chiamato in causa che avrebbero potuto porre rimedio alla situazione lamentata: in difetto, il ricorso sarà dichiarato irricevibile, a meno che la parte ricorrente non riesca a provare che tali vie interne di ricorso sarebbero state comunque inefficaci. La Corte europea dei diritti dell’uomo è l’unico organo giurisdizionale previsto ai sensi dell’articolo 32 CEDU che tutela i diritti e le libertà dell’uomo ed alla quale i privati cittadini, oltre che gli Stati, entro sei mesi dalla data della decisione interna definitiva, possono ricorrere qualora ritengano di essere vittime di una violazione riconosciuta dalla Convenzione o dai Protocolli addizionali sopra richiamati: decisioni che hanno dato vita ad una ricca ed
interessante giurisprudenza internazionale, che obbliga tutti gli Stati contraenti ad adeguare l’ordinamento giuridico interno nazionale, vale a dire a modificare prassi e/o normative o colmare vuoti legislativi al fine di prevenire nuove violazioni della Convenzione. Infine, la Corte può essere adita anche in via d’urgenza, per chiedere ed ottenere provvedimenti temporanei, immediati ed urgenti ex articolo 39 del Regolamento della Corte, in applicazione dell’articolo 34 della Convenzione, come è accaduto in materia di espulsione degli stranieri. Invero, la Corte, in forza dell’articolo 3 della Convenzione che proibisce la tortura e le pene o i trattamenti inumani e degradanti, divieto invocato per le condizioni detentive di cui sopra, è intervenuta in più occasioni impedendo agli Stati, anche mediante l’adozione di misure provvisorie sospensive, di poter espellere gli stranieri verso quei Paesi in cui i medesimi potevano correre il rischio della incolumità della vita o di essere sottoposti appunto a tortura o a trattamenti inumani, sottolineando la natura inderogabile di tali divieti che tutelano valori fondamentali delle società democratiche: il ricorso ai provvedimenti d’urgenza, in tali casi, è la diretta conseguenza della necessità di fronteggiare la ordinaria celerità dei provvedimenti di espulsione. Ciò posto, non appare possibile ricorrere alla Corte invocando misure cautelari per ragioni prettamente economiche anche qualora queste assumano una valenza di sussistenza per il singolo o per il gruppo associato. Quindi l’obiettivo che si sono prefissi gli Stati membri di istituire un baluardo a salvaguardia dei diritti fondamentali sembra aver trovato nella Corte in parola un adeguato strumento di soddisfacimento. H
Luca Pasqualoni Segretario Nazionale Anfu pasqualoni@sappe.it
Nella foto La Corte Europea dei Diritti Umani
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Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it
il commento
Carceri, qualche riflessione sui provvedimenti del Governo e del Parlamento al Senato della Repubblica che si potrebbero definire i nuovi orizzonti della politica penitenziaria italiane. Sono infatti iniziati a palazzo Madama i lavori per la conversione in legge del decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78, recante disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena. Ed a palazzo Madama è approdato, dalla Camera dei Deputati, anche il discusso
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Nelle foto sopra Palazzo Madama sede del Senato a destra Montecitorio
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disegno di legge in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. Provvedimenti discussi e discutibili, che hanno alimentato polemiche e tensioni, che contengono sicuramente cose positive ma anche punti oscuri, ma che hanno comunque il merito di affrontate e tentare di risolvere le endemiche criticità penitenziarie del nostro Paese. Esaminiamo i due provvedimenti, partendo dal decreto-legge in corso di conversione in legge. Dal testo emerge evidente che il Ministero della Giustizia ha elaborato una proposta che, pur senza stravolgere l’attuale ordinamento, intende realizzare un significativo alleggerimento del nostro sistema penitenziario. L’intervento riformatore favorisce
efficaci meccanismi di decarcerizzazione (alcuni dei quali peraltro già in vigore prima della legge n. 251 del 2005, c.d. legge ex Cirielli) unicamente in relazione a soggetti di non elevata pericolosità ferma restando, al contrario, la necessità dell’ingresso in carcere dei condannati a pena definitiva che abbiano commesso reati di particolare allarme sociale. Ed agisce con misure dirette ad incidere strutturalmente sui flussi carcerari (nella duplice direzione degli ingressi in carcere e delle uscite dalla detenzione) e sul rafforzamento delle opportunità trattamentali per i detenuti meno pericolosi, che costituiscono la maggior parte degli attuali ristretti. Sui flussi carcerari, l’orientamento è quello indifferibile di rimuovere alcuni automatismi, ancorati ad astratte presunzioni di pericolosità, che, in maniera scarsamente selettiva e spesso indiscriminata, hanno condotto in carcere, negli ultimi anni, un numero assai elevato di persone ed impedendo loro di accedere alle misure alternative alla detenzione subito dopo il passaggio in giudicato della condanna. Con la modifica dell’art. 656 del codice di procedura penale (“Esecuzione delle pene detentive”) il decreto-legge intende riservare l’immediata incarcerazione ai soli condannati in via definitiva nei cui confronti vi sia una particolare necessità del ricorso alla più grave forma detentiva: da un lato i condannati per reati contemplati dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario e dall’altro lato coloro i quali al passaggio in giudicato della sentenza di condanna si trovino ristretti in custodia cautelare in carcere, in quanto dal giudice ritenuti
in concreto pericolosi. Nei confronti degli altri condannati si è intervenuti sulla cosiddetta “liberazione anticipata”, istituto che premia con una riduzione di pena, pari a 45 giorni per ciascun semestre, il detenuto che tiene una condotta regolare in carcere e partecipa fattivamente al trattamento rieducativo. La proposta contenuta nel decreto-
legge prevede la possibilità che il pubblico ministero, prima di emettere l’ordine di carcerazione, verifichi se vi siano le condizioni per concedere la liberazione anticipata e investa, in caso di valutazione positiva, il giudice competente della relativa decisione. In questo modo, il condannato potrà attendere “da libero” la decisione del tribunale di sorveglianza sulla sua richiesta di misura alternativa. P er le donne madri ed i soggetti portatori di gravi patologie, inoltre, viene data l’opportunità di accedere alla detenzione domiciliare, peraltro già prevista dalle norme vigenti, senza dover passare attraverso il carcere, quantomeno nei casi in cui debba essere espiata una pena non superiore ai quattro anni. A regime, dunque, la norma si sostanzierà che, al passaggio in giudicato della sentenza, ove il condannato debba espiare una pena
il commento misure alternative per determinate categorie di soggetti, che in passato erano invece esclusi, come i recidivi per piccoli reati. La relativa preclusione si caratterizzava per una assoluta astrattezza, impedendo l’accesso alle misure, in particolare la detenzione domiciliare c.d. generica (ovvero sotto i due anni di pena), anche nei casi in cui i soggetti avevano commesso reati di modesto allarme sociale e magari in un lontano passato. L’eliminazione di tali automatismi, quindi, consentirà al tribunale (o al magistrato) di sorveglianza di svolgere una valutazione in concreto, sulla base di elementi di giudizio forniti dagli organi di polizia e del servizio sociale del Ministero di giustizia Al contrario, nei confronti dei condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, viene mantenuto il divieto di concessione di questa particolare forma di detenzione domiciliare. Al fine di alleggerire le tensioni che, in specie nel periodo estivo, possono più facilmente innescarsi sia tra i detenuti che nei confronti del personale penitenziario, il decreto-legge estende la possibilità di accesso ai permessi premio per i soggetti recidivi e prevede l’estensione dell’istituto del Un aspetto interessante del decretoc.d. lavoro all’esterno (art. 21 legge del Governo è quello che dell’ordinamento penitenziario) anche concerne l’ammissione al lavoro di pubblica utilità. Viene infatti ampliata al lavoro di pubblica utilità. Il decretola possibilità per il giudice di ricorrere, legge 1° luglio 2013, n. 78, amplia, infine, i compiti assegnati al al momento della condanna, ad una Commissario straordinario per le soluzione alternativa al carcere, costituita dal lavoro di pubblica utilità. infrastrutture carcerarie all’interno del Questa misura, prevista per i soggetti quadro normativo fissato dal decreto del Presidente della Repubblica 3 dipendenti dall’alcol o dagli dicembre 2012. stupefacenti, fino ad oggi poteva essere disposta per i soli delitti meno Altra iniziativa legislativa finalizzata a contrastare l’emergenza del gravi in materia di droga, mentre in sovraffollamento delle carceri, è il prospettiva potrà essere disposta per tutti reati commessi da tale categoria testo unificato delle proposte di legge recanti delega al Governo in materia di soggetti, salvo che si tratti delle di pene detentive non carcerarie e violazioni più gravi della legge disposizioni in materia di sospensione penale. del procedimento con messa alla Sempre nella duplice prospettiva di ridurre i flussi in entrata ma anche di prova e nei confronti degli irreperibili approvato dalla Camera dei Deputati incrementare le possibilità di uscita giovedì 4 luglio, dopo un duplice dal carcere, si collocano anche le modifiche che prevedono l’estensione percorso turbolento in Commissione ed in Aula. degli spazi di applicabilità di alcune non superiore ai due anni (quattro anni se donna incinta o con prole sotto i dieci anni, o se gravemente ammalato) il pubblico ministero sospenderà l’esecuzione della pena dandogli la possibilità di chiedere, dalla libertà, una misura alternativa al carcere, che spetterà al tribunale di sorveglianza eventualmente concedere. Se invece si tratta di autore/i di gravi reati o di soggetti in concreto pericolosi, ovvero sottoposti a custodia cautelare in carcere, questa possibilità non sarà offerta ed il condannato resterà in carcere fino a quando il tribunale di sorveglianza non ritenga, sulla base di una valutazione da svolgere su ogni caso specifico, che egli possa uscire in misura alternativa.
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Con il provvedimento, composto da 15 articoli ed anch’esso all’esame del Senato, il Governo è delegato a introdurre nell’ordinamento pene detentive non carcerarie, viene disciplinata la sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato ed è disciplinata la sospensione del procedimento penale nei confronti degli irreperibili. Con l’articolo 1 si delega il Governo all’introduzione di pene detentive non carcerarie (reclusione e arresto presso il domicilio), di durata continuativa o per singoli giorni settimanali o fasce orarie, sulla base di specifici principi e criteri direttivi. I criteri di delega prevedono che, il giudice, tenuto conto dei criteri di gravità del reato come disciplinato dall’articolo 133 del codice penale,
possa applicare la reclusione domiciliare (presso l’abitazione del condannato o altro domicilio) in misura pari alla pena irrogata per i delitti puniti con la detenzione fino a 6 anni; gli arresti domiciliari da un minimo di 5 giorni ad un massimo di 3 anni, come pena detentiva principale, in via alternativa, per tutte le contravvenzioni punite con la pena dell’arresto (indipendentemente, quindi, dall’entità), sola o congiunta alla pena pecuniaria. Per le detenzioni domiciliari, si prevede il possibile utilizzo di particolari modalità di controllo (braccialetti elettronici). Viene esclusa l’applicazione delle nuove misure detentive ai delinquenti e contravventori abituali, professionali, ed ai delinquenti per tendenza. Si prevede che reclusione ed arresti domiciliari possano essere sostituiti con reclusione o arresto sia
Nelle foto sopra un braccialetto elettronico a sinistra l’aula parlamentare
‡ Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
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il commento nel caso di indisponibilità di un’abitazione o altro domicilio idoneo ad assicurare la custodia del condannato sia nel caso in cui il condannato non rispetti le prescrizioni impartite. L’allontanamento non autorizzato dal domicilio equivale ad evasione. Il provvedimento introduce la sospensione del procedimento penale con messa alla prova. La nuova disciplina si ispira alla probation di origine anglosassone ed estende l’istituto, tipico del processo minorile, anche al processo penale per adulti, in relazione a reati di minor gravità. Sono aggiunti al codice penale alcuni nuovi articoli. Il 168-bis cp. prevede che, nei procedimenti per reati puniti con pena pecuniaria ovvero con reclusione fino a 4 anni (sola,
Nella foto un esempio di lavoro socialmente utile
Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
congiunta o alternativa a pena pecuniaria), nonchè per il catalogo dei reati in relazione ai quali l’art. 550 cpp consente la citazione diretta a giudizio, l’imputato possa chiedere la sospensione del processo con messa alla prova. L’applicazione della misura comporta condotte riparatorie volte all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato e, ove possibile, misure risarcitorie. L’imputato è affidato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma di trattamento che può prevedere anche lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità e attività di volontariato; il programma contiene prescrizioni sui rapporti col servizio sociale o con una struttura sanitaria, oltre a possibili limitazioni della libertà di dimora o di frequentazione di determinati locali. Il lavoro di pubblica utilità è una prestazione non retribuita a favore
della collettività della durata minima di 30 giorni, da svolgere presso lo Stato, regioni, enti locali ed onlus; la sua durata non può essere superiore ad 8 ore giornaliere. La sospensione del processo con messa alla prova non può essere richiesta più di due volte; non più di una volta se si tratta di reato della stessa indole. Con il nuovo articolo 168-ter cp. si introduce la sospensione del corso della prescrizione del reato durante il periodo di stop del processo con messa alla prova. Se la misura si conclude con esito positivo, il giudice dichiara l’estinzione del reato, restando comunque applicabili le eventuali sanzioni amministrative accessorie. L’ articolo 168-quater del codice penale indica come motivo di revoca della messa alla prova la grave e reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte dal giudice. La messa alla prova può essere richiesta dall’imputato (oralmente o in forma scritta), personalmente o a mezzo procuratore speciale, ma entro determinati termini, che la norma specifica sia in relazione alla fase che al tipo di procedimento. Alla richiesta di messa alla prova va allegato un programma di trattamento che l’imputato elabora con gli uffici di esecuzione penale esterna oppure o una richiesta dell’imputato di elaborazione dello stesso programma. Sono previsti limiti massimi di sospensione del procedimento (2 anni, in caso di reati puniti con pena detentiva; 1 anno reati puniti con sola pena pecuniaria). Contro l’ordinanza è ammesso ricorso per cassazione da parte dell’imputato, del PM o della stessa persona offesa (che tuttavia non produce effetti sospensivi). Se la richiesta di messa alla prova è rigettata, potrà essere riproposta nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. In caso di esito negativo della prova che di revoca della misura, questa non è più proponibile. Obblighi di relazione al giudice, almeno
trimestrali, sull’andamento della prova sono posti in capo agli uffici locali per l’esecuzione esterna. Questi, dunque, i provvedimenti posti all’esame del Senato della Repubblica per contrastare l’emergenza penitenziaria. Non so, personalmente, se avranno gli effetti salvifici per il sistema carcere di cui parlano gli entusiasti fautori o le conseguenze nefaste per l’ordine pubblico, i cittadini e la sicurezza sociale che denunciano coloro che hanno contestato e contestano i due provvedimenti. Sono d’accordo con chi sostiene che la discussione deve partire dal sistema penale e non dal carcere. È l’organizzazione della pena che deve essere cambiata. Il principio è quello di individuare la giusta pena e non il “giusto carcere”. Il numero di detenuti dimostra invece che attualmente il carcere non è considerato come residuale al sistema della pena, ma coincide con la pena. Ma è del tutto evidente che il carcere, specie così com’è strutturato oggi, non può essere la panacea di tutti i mali. C’è più sicurezza nell’inventare alternative che puntare sul carcere? Forse sì, se si confrontano i dati che dimostrano una recidività dei detenuti a commettere reati pari al 66% del totale. Ma forse uno sforzo maggiore i nostri legislatori potevano farlo: favorendo l’obbligatorietà del lavoro in carcere, le espulsioni dei condannati stranieri per far scontare loro la pena nei penitenziari dei Paesi di provenienza, accelerando i tempi dei processi e diminuendo i tempi della custodia cautelare in carcere. Ed anche favorendo strutture sociosanitarie per permettere di scontare la pena, in luoghi differenti dai penitenziari; potenziando i posti disponibili per persone affette da disturbi psichici in comunità terapeutiche o a doppia diagnosi e il ricovero diretto, in comunità terapeutiche, per i tossicodipendenti. Garantendo, sempre, il diritto dei cittadini ad avere città sicure e contestualmente la giusta punizione per chi commette reati. H
l’osservatorio a Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza 8 gennaio 2013, ha assegnato allo Stato italiano il termine di un anno per procedere all’adozione delle misure necessarie a porre rimedio alla constatata violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti. L’appello proposto dall’Italia è stato ritenuto inammissimile, per cui il Governo si trova nella situazione di dover risolvere il problema in pochi mesi, pena il dover pagare ingenti somme, a titolo di risarcimento danni. Da ciò discendono i presupposti di necessità e urgenza che hanno indotto il Governo ad adottare misure immediatamente esecutive, attraverso un decreto legge, attualmente in corso di conversione. Il decreto legge in questione, però, non risolve assolutamente il problema, atteso che dalle stime effettuate, dovrebbero uscire o non entrare in carcere circa tremila persone, a fronte di un sovraffollamento di oltre venti mila detenuti. A questo provvedimento si aggiunge quello sulla messa alla prova che è in discussione e si spera venga approvato prima possibile, atteso che si tratta di una misura già applicata nella giustizia minorile, dove ha prodotto buoni risultati. Anche gli effetti di questo provvedimento, però, non invertiranno il giudizio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, cosa che potrebbe avvenire solo con un’iniziativa che consentisse di deflazionare gli istituti di oltre diecimila detenuti. Solo in questo caso, negli istituti pentenziari, si potrebbe creare una situazione per cui la Corte potrebbe rivedere il giudizio precedente. Il ricorso alle misure alternative alla detenzione è sicuramente quello che garantisce maggiori benefici in termine di gestione della pena e di rieducazione del condannato, ma anche di risparmio di risorse da parte dello Stato. Quella che potrebbe produrre i benefici maggiori, complessivamente, in termini di sicurezza e di risparmio è
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Sentenza della Corte Europea contro l’Italia sicuramente la detenzione domiciliare, ma il problema di fondo è la mancanza di domicilio per molti detenuti che potrebbero beneficiarne, com’è successo con la legge 199, c.d. legge Alfano, successivamente modificata dal Ministro Severino. Infatti, con quel provvedimento sarebbero dovuti uscire più di diecimila detenuti, ma la maggior parte di loro, non avendo un domicilio, sono rimasti in carcere. Resta, comunque, un buon provvedimento che avrebbe prodotto buoni risultati se tutti i detenuti che potevano beneficiarne avessero avuto un domicilio. In ogni caso ha consentito di mantenere stabili i numeri, senza quel provvedimento la popolazione detenuta vrebbe superato le settanta mila presenze. Quindi, per ovviare a tale problema, forse, la misura più efficace da adottare sarebbe l’affidamento in prova al servizio sociale, a condizione, però, di potenziare l’area penale esterna, prevedendo adeguati controlli da parte della polizia, che in questo caso potrebbe essere la Polizia Penitenziaria ad effettuare. Questa sarebbe un’adeguata riforma dell’esecuzione penale; riforma che vede il pieno coinvolgimento della Polizia Penitenziaria nell’esecuzione della pena all’esterno. Adeguati controlli potrebbero fornire quella tutela richiamata dall’ordinamento penitenziario che, tra i presupposti per la concessione dell’affidamento, prevede proprio la garanzia che l’affidato non commetta altri reati. Tale misura potrebbe risultare ancora più efficace oggi, dopo l’emanazione del decreto legge 1 luglio 2013, n. 78 che ha previsto la possibilità che i detenuti e gli internati possono essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell’esecuizione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività da
svolgersi presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Nella gestione dell’esecuzione penale all’esterno è importantissima anche la partecipazione degli enti locali e di quanti siano in grado di offrire lavoro, cosa che è spesso mancata in questi anni. Non ci sono altre strade da percorrere per la risoluzone del probelma carcere, se non la costruzione di nuove strutture penitenziarie, cosa che può avvenire esclusivamente se si assume altro personale di Polizia Penitenziaria, iniziativa, questa, che non sembra essere nei programmi del Governo, considerato che i tagli alla spesa pubblica produrranno ulteriore decremento di personale. L’amministrazione penitenziaria sta cercando di ovviare alla carenza di personale attraverso la riorganizzazione dei circuiti e un nuovo modello di vigilanza, la c.d. “vigilanza dinamica”. Mai termine fu più infelice. Come se la vigilanza finora fosse stata statica. La vigilanza è dinamica per definizione. Tale nuovo modello prevederebbe controlli a distanza e di massa, con i detenuti liberi durante il giorno. Se da un lato ciò può allentare le tensioni, in quanto i detenuti non stanno chiusi in cella, dall’altro non produce alcun effetto positivo dal punto di vista della rieducazione, poichè non accompagnata da alcun programma trattamentale, atteso che i detenuti ammessi a tale regime non svolgono alcuna attività. Comunque, se la strada è questa, il futuro che ci attende è molto diverso da quello tracciato dalla legge di riforma dell’Amministrazione penitenziaria, legge n. 395/90 e dallo stesso ordinamento penitenziario. H
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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it
Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
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Lady Oscar Redazione Sportiva rivista@sappe.it
lo sport
Un piano di recupero per le strutture sportive di Via di Brava
Nella foto le condizioni in cui si trovava la piscina di Via di Brava
opo anni di incuria ed abbandono le strutture sportive in dotazione alla Scuola di Via di Brava - piscina, campo di calcio e palestra - sono state finalmente interessate da un piano di recupero teso a riportarle ad una autentica valorizzazione ed un pieno utilizzo a beneficio di tanti appassionati di sport e della dignità di quegli stessi impianti ridotti a stagno per le rane nella zona piscina,
D Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
campo di patate, o al massimo parcheggio auto nella zona di quello che un tempo era il rettangolo di gioco destinato agli allenamenti dell’Astrea e sala fitness attrezzata ma nobile decaduta nell’area palestra. Era il gennaio 2013 quando constatato lo stato di abbandono ed incuria in cui versavano quei gioielli destinati all’attività fisica e allo sport, l’Amministrazione Penitenziaria decise
di portare a nuova vita tutto quanto racchiuso dalle mura di Via di Brava con un progetto di rilancio rigorosamente a costo zero, utilizzando le competenze e le risorse già in dotazione alle Fiamme Azzurre, oltre al comandante del gruppo sportivo, Marcello Tolu, chiamato in tal senso ad assumere quasi il ruolo di “commissario straordinario per l’emergenza”. E così in pochissimo tempo è stato
lo sport
possibile, con impegno e dedizione, recuperare la piscina alle sue funzioni, e lo stesso si sta facendo in questi giorni per riportare la palestra ed il campo di calcio alla piena funzionalità. Per quest’ultimo in particolare sono state previste delle modifiche strutturali importanti necessarie ad omologarlo per le competizioni agonistiche fino alla categoria Allievi. I beneficiari di questo piano, approntato interamente nell’ottica dell’autofinanziamento saranno molti. Gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria ed i loro familiari potranno prendere parte a corsi di attività fisica di vario genere a condizioni molto agevolate: nella palestra attrezzata con buone macchine per la muscolazione si spazierà dall’avviamento allo sport alla ginnastica generale, dal nuoto alle arti marziali per andare a tutti quegli sport di squadra la cui pratica è propiziata dalle dimensioni della struttura, particolarmente idonee, per altezza, lunghezza e larghezza dei locali, a discipline come pallavolo, basket o la ginnastica ritmica, tanto per fare alcuni esempi. Buone condizioni saranno predisposte per appartenenti e familiari delle altre forze dell’ordine, e, ugualmente competitive, saranno quelle riservate a tutti gli esterni che vorranno avvicinarsi al “Centro Sportivo Fiamme Azzurre” - questo il nome del polo di via di Brava - concepito per diventare nel tempo una struttura
di eccellenza sia per gli atleti di alto livello, che tramite la partneship tra il Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre e le varie federazioni sportive nazionali operanti sotto l’egida del Coni potranno farne la loro casa , sia per i settori giovanili di diverse discipline sportive. Tutto questo unito ad una bella appendice di attività di tipo amatoriale per coloro che sono più interessati alla sana attività fisica che alle competizioni, renderà giustizia ad una struttura che per valore sarà in tutto e per tutto equiparabile a quella omologa di Casal del Marmo, recuperata anch’essa all’incuria e al degrado con il restauro ultimato il 10 gennaio 2010, al termine di due anni e mezzo di lavori grazie ai quali discipline come l’atletica leggera (sia nelle gare indoor sia in quelle outdoor) ha potuto disporre di dotazioni tecniche e impiantistiche di assoluto pregio. Aree lanci e salti, un pistino indoor (unico esistente nella capitale), oltre alla predisposizione di nuovi uffici da dedicare al lavoro delle Fiamme Azzurre, magazzini, spogliatoi, un’ampia superficie di parquet riservata a palestra con le migliori macchine e le dotazioni attrezzistiche del momento, le torri-faro, la tribuna omologata per accogliere 2000 spettatori ed una tribuna stampa attrezzata in posizione privilegiata. E pensando alla valorizzazione anche di quest’altro patrimonio esistente, soprattutto dopo gli ultimi importanti piazzamenti conseguiti nei campionati provinciali del settore giovanile nel corso della stagione 2012/2013, l’Astrea ha deciso di investire sul proprio vivaio e sul proprio futuro aprendo alla scuola calcio per i ragazzi di fascia d’età compresa tra i 5 ed i 12 anni. Piccoli amici (5-8 anni), pulcini (8-10 anni), ed esordienti (10-12 anni) potranno usufruire della moderna impiantistica e dell’esperienza dei tecnici dell’Astrea per l’avvio alla pratica sportiva ed agonistica del calcio. Tra l’altro lo stesso referente della scuola, Gianni Diamante, è una
vecchia gloria dell’Astrea che ha vinto molto e ha ben figurato sui campi di tutta Italia, soprattutto ai tempi della militanza in serie C. Per quanto riguarda la scuola calcio anche qui sono previste ottime condizioni per i figli dei dipendenti del Ministero della Giustizia (ben 50% di sconto sulla quota di iscrizione), e altresì saranno agevolati sia i figli dei dipendenti di altre Forze Armate e di Polizia (che beneficeranno di riduzioni pari al 10%), sia coloro che iscriveranno il secondo figlio o successivi (20% di sconto). La quota di iscrizione prevederà la fornitura di un kit abbigliamento completo di vestiario dell’Astrea Calcio, la possibilità di ottenere dopo un’accurata visita il certificato medico agonistico e di beneficiare della consulenza ortopedica e fisioterapica in sede.
A tal fine dal 2 al 14 settembre, in una fascia oraria compresa tra le 17:30 e le 19:30 sono aperti i provini per tutti i ragazzi interessati a vestire la maglia del club biancoazzurro. H
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Nelle foto a sinistra il campo da calcio prima e dopo i lavori
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Giovanni Passaro passaro@sappe.it
diritto e diritti
Riposi giornalieri per “allattamento” al padre lavoratore entile redazione, sono un ispettore del Corpo stanco di subire dei soprusi da parte dei superiori che ostentano presunzione e poca umiltà, per non parlare del senso di umanità. Sono padre di tre meravigliosi figli, di cui l’ultimo di 6 mesi, avrei voluto fruire dei permessi giornalieri per allattamento però, purtroppo, questo diritto mi è stato negato perché mia moglie è casalinga. Per caso, mi sono trovato a parlare con un collega della Polizia di Stato che nella mia stessa condizione fruisce dei permessi. Cortesemente, vorrei sapere se ho diritto al beneficio di legge e nel caso, conoscere le norme che potrei utilizzare a mio sostegno. Spero di ricevere una celere risposta visto il tempo limitato a disposizione. Grazie.
G
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Gentile lettore, la tutela della maternità e della paternità nel mondo del lavoro, prevista dal Decreto Legislativo n. 151 del 2001 (Testo Unico in materia di tutela della maternità e della paternità), consente di poter fruire del congedo di maternità, dell’astensione obbligatoria dal lavoro fino al terzo mese di età del bambino, della possibilità di fruire del congedo parentale (fino a 6 mesi per la madre e fino a 7 per il padre, per complessivi 10 mesi nei primi 8 anni di vita del bambino), e poi, nel primo anno di vita del bambino, la legge consente anche dei piccoli ma quotidiani permessi dal lavoro, si tratta dei riposi orari per allattamento del bambino neonato, mirati a consentire l’importante funzione di nutrimento del neonato nei primi mesi di vita. L’Inps, con la circolare n. 118 del 25 novembre 2009, adeguandosi all’indirizzo interpretativo assunto in
proposito dal Consiglio di Stato (1), ha riconosciuto il diritto del padre lavoratore dipendente ai riposi giornalieri per allattamento anche nell’ipotesi in cui la madre sia casalinga. I riposi in questione sono quelli previsti dall’art. 39 del d.lgs. n. 151/2001 e consistono in 2 periodi giornalieri di un’ora ciascuno, o di uno solo nel caso di orario giornaliero inferiore a 6 ore, di cui la lavoratrice madre ha diritto di fruire dal termine dell’astensione obbligatoria per maternità e fino al compimento del primo anno di vita del bambino, o entro il primo anno dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato. Il successivo art. 40 riconosce anche al padre lavoratore la fruizione di detti riposi al ricorrere delle seguenti condizioni: quando il figlio è affidato al solo padre ; in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga (anche nel caso di lavoratrice dipendente che non si può avvalere dell’astensione facoltativa perché appartenente a categorie non aventi diritto es. lavoratrice domestica e a domicilio ); nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, ma lavoratrice autonoma, libera professionista , ecc. (purché lavoratrice avente diritto ad un trattamento di maternità dall’Inps o da un altro Ente previdenziale) (2); nel caso di madre casalinga senza eccezioni ed indipendentemente dalla sussistenza di comprovate situazioni che determinano l’oggettiva impossibilità della madre stessa di accudire il bambino (3); in caso di morte o di grave infermità della madre indipendentemente dalla sua condizione di lavoratrice o meno (circolari INPS 48/87, 109/2000, 8/2003, 95bis/2006 ). In caso di parto plurimo, qualora la
madre non sia lavoratrice dipendente ( ma lavoratrice avente diritto ad un trattamento di maternità dall’Inps o da un altro Ente previdenziale e anche casalinga circolare INPS 112/2009 ) il padre lavoratore dipendente ha diritto al raddoppio dei periodi di riposo giornaliero. La fruizione dei permessi da parte del padre può avvenire anche durante i 3 mesi dopo il parto e durante l’eventuale congedo parentale della madre ma solo per le ore aggiuntive (1 o 2 secondo l’orario di lavoro ) Circolare INPS 95bis/2006 – Circolare INPS 112/2009. I riposi giornalieri sono retribuiti, non comportano nessuna riduzione di ferie né della tredicesima mensilità. Pertanto, nel caso di madre casalinga, il padre lavoratore dipendente può fruire dei riposi giornalieri, nei limiti di 2 ore o di un’ora al giorno a seconda dell’orario di lavoro, entro il primo anno di vita del bambino o entro il primo anno dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, senza dover dare alcuna dimostrazione dell’impossibilità della madre ad accudire il bambino. Inoltre, il padre lavoratore dipendente che, vigente il precedente orientamento, avesse fruito di ferie o permessi orari entro l’anno di vita del figlio o di ingresso in famiglia del minore, potrà, entro un anno dall’ultimo giorno di assenza, presentare al proprio datore di lavoro e all’istituto previdenziale apposita domanda, intesa a convertire tali assenze in riposi giornalieri per allattamento, la cui relativa indennità è anticipata dal datore di lavoro e successivamente portata a conguaglio con i contributi mensili dovuti. Per giungere a detta conclusione i giudici amministrativi, nella sentenza n. 4293 del 9 settembre 2008, hanno ritenuto di seguire un percorso interpretativo articolato: la locuzione «nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente», cui consegue la spettanza al padre dei permessi in parola, si individua nella facoltà, per il padre lavoratore, di utilizzare i permessi giornalieri c.d. per allattamento in alternativa alla madre, qualora quest’ultima sia
15 impegnata in attività lavorativa di qualsivoglia natura ed ha, pertanto, stabilito che la locuzione in parola debba estensivamente e più appropriatamente intendersi come riferita ai casi in cui la madre sia lavoratrice non dipendente, equiparando, poi, alla madre lavoratrice non dipendente la madre impegnata esclusivamente quale casalinga. Senonchè, ad una corretta opzione interpretativa, l’autorevole organo di giustizia amministrativa fa conseguire, in nome della concretizzazione del principio di tutela della maternità e della famiglia, un’equiparazione fra condizioni oggettivamente diverse che, se analizzata in tutti i suoi possibili riflessi operativi, appare foriera di un difficilmente giustificabile aspetto di discriminazione. È, infatti, comunemente condivisa la considerazione in base alla quale, nella quasi totalità dei casi, la donna impegnata in qualsivoglia attività lavorativa extrafamiliare, sia a carattere autonomo che dipendente, si trovi a dover coniugare detta attività con quella, ulteriore, di cura dell’abitazione e della prole propria della casalinga. Tale considerazione conduce che il Consiglio di Stato abbia, con l’equiparazione della madre casalinga alla madre occupata anche in altre attività al di fuori del contesto familiare, realizzato un equo componimento di tutti gli interessi in gioco. H
CONVENZIONE 2013 RAINBOW MAGICLAND • Nessun limite minimo e massimo di pre acquisto; • Acquisto tramite email, pagamento con bonifico bancario ed invio biglietti in formato elettronico; • Utilizzo immediato senza coda alle casse; • Validità biglietto stagione 2013
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Per informazioni e prenotazioni: passaro@sappe.it
note 1. Sentenza CdS n. 4293 del 9 settembre 2008, ripresa anche dalla lettera circolare del Ministero del Lavoro n. 19605 del 2009. 2. Circolare INPS 95bis/2006. 3. Il numero di ore di riposo spettanti al padre è subordinato al proprio orario giornaliero di lavoro. Inoltre , il padre potrà fruire dei riposi per allattamento dal giorno successivo ai 3 mesi dopo il parto (circolare INPS 112/2009).
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mafie e dintorni
La ’ndrangheta e i sequestri di persona - 4ª parte Franco Denisi Segretario Provinciale del Sappe denisi@sappe.it
Nella foto sopra una veduta dell’Aspromonte a fianco la liberazione di Paul Getty
Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
I
l territorio calabrese ed in particolare la parte ionica che da Reggio Calabria porta a Canolo Nuovo, un paesino a mille metri d’altezza nel bel mezzo dell’Aspromonte, regala la vista di un paesaggio naturale mozzafiato: straordinarie cascate, laghetti naturali, canyon impressionanti, straordinarie distese di pini aguzzi, formazioni miste di faggio e abete bianco e sparse qua e là tra le montagne come grappoli d’uva, piccole abitazioni. Nascosti da questa scenografica natura però sono alcuni tunnel che si inerpicano in mezzo alla boscaglia, degli anfratti, dirupi inviolati, caverne la cui esistenza è conosciuta da pochi. Ebbene, proprio per questa peculiare conformazione geografica la Calabria negli anni ‘70/’80 ha per lungo tempo rappresentato il nascondiglio perfetto per i sequestrati dalla ‘ndrangheta, il cui controllo era affidato rigorosamente a latitanti o giovani affiliati. Dal 1963 al 1990 ventuno persone vennero sequestrate in Calabria; ma dai dati forniti dal Ministero dell’Interno i sequestri gestiti dalla mafia più potente al mondo furono precisamente 207 sui 570 effettuati in ambito nazionale. In Calabria i sequestri di persona iniziarono nel 1963 col sequestro di Ercole Versace, un ricco possidente di Delianova in provincia di Reggio Calabria che riuscì a fuggire. Il sequestro successivo colpì il docente universitario Dott. Renato Caminiti residente in Villa San Giovanni (RC), poi rilasciato dietro un pagamento di oltre 30 milioni delle vecchie lire. Nel 1973 a Roma, ad essere sequestrato fu Paul Getty, nipote di un celebre magnate americano.
I sequestratori per il rilascio dell’ostaggio chiesero ed ottennero dai familiari un miliardo e settecento milioni delle vecchie lire. Venne rilasciato dopo 158 giorni di prigionia. Emanuele Riboli , un diciassettenne rapito nel 1974 a Buggiate (VA) nel ritorno da scuola, per due settimane venne tenuto nel baule di un auto, ucciso subito dopo con del veleno e venne dato in pasto ai maiali, nonostante la famiglia avesse pagato per il suo riscatto una prima trance di duecento milioni di vecchie lire.
Altrettanto brutale fu il sequestro di Cristina Mazzotti, un studentessa di 17 anni rapita a Eupilio (CO) e gettata in una discarica ancora viva vicino a Galliate. I suddetti sequestri furono attribuiti alle cosche operanti nel versante tirrenico. Successivamente a specializzarsi in sequestri di persona furono le cosche operanti sul versante ionico della Calabria, le stesse che in quel periodo operavano nelle città di Locri, Platì, San Luca, Natile di Careri, ed altri paesini limitrofi. Un altro sequestro eclatante fu quello
mafie e dintorni
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di Cesare Casella, il giovane sequestrato a Pavia nel 1988 e rilasciato dopo 743 giorni di prigionia trascorsi in Aspromonte. Con questi sequestri la ‘ndrangata riuscì a crearsi una vera e propria economia interna. La gestione dei proventi ricavati dai
distribuzione della ricchezza tra nord e sud, in quanto gli ostaggi appartenendo a famiglie abbienti potevano permettersi di pagare il riscatto. Considerato che la maggior parte dei sequestri avvennero al nord la pressione mediatica fu
fine dei sequestri in Calabria non coincise con l’invio di numerosi uomini e mezzi ma con la decisione presa dai capi bastone, in virtù dell’entrata in vigore della legge del 1991 sul congelamento dei beni ai familiari dei sequestrati che rese
Nella foto a sinistra la madre di Cesare Casella
riscatti venne suddivisa tra le cosche, in particolare per la fabbricazione di edifici. Con tale strategia economica alcuni potenti boss fecero credere che i sequestri di persona fossero un mezzo per garantire un equa
condizionante per lo Stato, costretto ad inviare in Calabria un nucleo speciale composto da quasi mille uomini con lo scopo “dare la caccia” ai sequestratori. Tale intervento però non sortì l’effetto desiderato. Infatti la
evidente quanto sarebbe stata complicata la gestione di danaro proveniente dai riscatti e con la pace tra le cosche nel 1991 che pose fine alla sanguinosa guerra. H continua...
Nella foto sopra la liberazione di Cesare Casella
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dalle segreterie Rimini
rivista@sappe.it
Medaglia d’Oro nella Danza Sportiva per Alessia Denisi
Nella foto alcune performance di Alessia in gara sotto, la premiazione
Le immagini dei colleghi di Trapani prematuramente scomparsi (in ordine di elencazione) e, nell’altra pagina, le due squadre finaliste e, sotto, la squadra del Comm. Giuseppe Romano
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Trapani 1° Memorial di calcio a 5 “Chicco Brancaleone”
I
l 1° luglio 2013, si è concluso il 1° memorial di calcio a 5 in memoria dell’assistente capo Francesco Brancaleone, al quale hanno partecipato poliziotti penitenziari in servizio all’Istituto di Trapani, unitamente a pensionati del Corpo e dipendenti “civili” dell’Amministrazione Penitenziaria. La particolarità del torneo sta nel nome delle squadre. Infatti, ogni squadra era intestata ad un collega della casa Circondariale di Trapani defunto prematuramente. E così le squadre sono state denominate: Pietro La Pica, Luigi Malato, Giovanni Corbasa, Gaspare Simone, Gaspare
ella gara disputatasi il 15 luglio 2013 a Rimini, valida per il titolo italiano di Danza Sportiva, l’atleta Alessia Denisi, figlia del nostro Segretario di Reggio Calabria Franco Denisi, dopo aver superato tutte e quattro le batterie (eliminazioni, quarti di finale, semifinale e finale) con il massimo del punteggio assegnato - 9 su 9 in tutte e quattro le batterie - sorpassa i 37 atleti in gara e conquista il titolo di Campionessa Nazionale di Danza Sportiva 2013 - classe B solo 12/15 anni, accedendo di diritto alla classe A. I nostri complimenti ad Alessia con l'augurio che l'anno prossimo riconfermi i risultati ottenuti in modo che transiti nella classe AS internazionale e poi ai Mondiali. H
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Pellegrino, Emanuele Pecorella, Salvatore Toscano. In questo modo, oltre a ricordare l’ultimo dei scomparsi, abbiamo anche onorato la memoria di questi giovani e sfortunati colleghi. Il torneo ha visto lo svolgersi delle prime fasi, nel campo di calcio a 5 appositamente realizzato, all’interno del carcere, e inaugurato per l’occasione. Poi, per permettere la partecipazione delle famiglie le partite di semifinale e la finale, sono state disputate all’esterno, in campi in erba sintetica messi a disposizione gratuitamente, dalla Chiesa Madonna di Fatima e dal patron dei campi “La Locomotiva” Tonino Mazzara. In finale sono arrivate le squadre La Pica contro Gaspare Pellegrino. La finale è finita 4 - 2 per la squadra La Pica, capitanata dall’ass. capo Ciccio Napoli. Per l’occasione una piccola folla di colleghi, amici e i
parenti dei defunti si è assiepata sugli spalti del campo in erba, e commovente è stato il momento della premiazione e del ricordo di questi colleghi. La presenza inoltre del Cappellano del Carcere di Trapani, Mons. Gaspare Gruppuso, alla premiazione, ha dato un valore in più grazie ad un intenso momento spirituale. Siamo riusciti a coinvolgere oltre 70 colleghi e molti pensionati e a far riaccendere quello spirito di corpo che da tempo appare affievolito. Il miglior realizzatore del torneo, con 13 reti, è stato proprio un pensionato, Pietro Privitera, ancora in grado di dare lezioni di calcio ai colleghi. Miglior portiere l’ass. capo Nico Del Grosso. E’ stato un memorial over 45, molti partecipanti anche over 50, ma nonostante l’anzianità anagrafica, il Memorial è stato un vero successo, è riuscito a farci stare insieme tutti, e a farci divertire, come quando avevamo venti Giuseppe Romano anni. H
dalle segreterie Ferrara L’Annuale del Corpo ella giornata del 10 luglio si è svolto il 196° Anniversario di Fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria. Presente alla cerimonia avvenuta secondo i criteri di sobrietà ed austerità imposti dall’Amministrazione Penitenziaria, il Comandante Dott. Teducci, che ha illustrato le attività operative compiute dalla Polizia Penitenziaria nell’anno 2012, sottolineando, contestualmente, la grande professionalità è l’alto senso del dovere degli uomini da lui diretti.
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Illustrati inoltre i risultati raggiunti di vera eccellenza anche in materia di Polizia Giudiziaria, nonché, tra le altre, l’attività di anti sciacallaggio successivo al sisma del 2012, operate sul tutto il territorio ferrarese. Presente inoltre, il Direttore reggente dott.ssa De Lorenzo anch’ella gratificata dagli importanti risultati raggiunti dal Reparto di Polizia Penitenziaria. Un ringraziamento particolare all’Ispettore Renda Antonio Fabio che con grande impegno cura l’immagine del Corpo sul territorio ferrarese.
collaboratori di giustizia e 2 detenuti alta sicurezza tradotti presso luoghi esterni di cura; • 557 detenuti comuni; • 17 soggetti sottoposti a piantonamenti presso nosocomio; •165 le multi video conferenze espletate; • 13 soggetti denunciati locale A.G. • 3 arresti eseguiti. H
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rivista@sappe.it
Alcuni dati sull’attività svolta nel 2012 • 260 entrati da libertà; • 359 entrati da altri istituti; • 693 detenuti comuni tradotti presso aule di giustizia, nonchè 45 collaboratori di giustizia tradotti presso altri istituti; • 116 detenuti comuni, 28
1ª La Pica
2ª
Verbania Il Sappe incontra gli Allievi del 166° Corso
ubblichiamo alcune foto dell’incontro tenuto dal Sappe il 17 luglio nella Scuola alla presenza del Segretario Generale Donato Capece. H
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Pellegrino Corbasa
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cinema dietro le sbarre
Educazione Siberiana a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it
Nelle foto la locandina e alcune scene del film
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opo le alterne vicende dei suoi ultimi film, sicuramente non all’altezza dell’Oscar, Gabriele Salvatores decide di adattare al grande schermo il romanzo Educazione siberiana di Nicolai Lilin, autore russo che scrive in lingua italiana. In collaborazione con gli straordinari sceneggiatori Rulli e Petraglia, Salvatores adatta a suo piacere il copione togliendo al romanzo tutto quello che secondo lui non si presta alla cinematografia. In buona sostanza, l’intervento dei due sceneggiatori spersonalizza una comunità criminale siberiana radicata nella tradizione e contaminata dalla modernizzazione globale mischiando, scambiando, omettendo o esaltando personaggi. Salvatores, Rulli e Petraglia, insomma, decontestualizzano i protagonisti riorganizzandoli dentro una storia diversa. Dunque, la storia filmica di Educazione siberiana racconta di una
che prima confronta e poi scontra la tradizione col cambiamento, nascono e crescono Kolima e Gagarin, amici fraterni. I due ragazzi vengono educati dal nonno Kuzja, che gli insegna a rapinare e a condividere la refurtiva con la comunità. Infatti, i siberiani non rubano per arricchirsi ma per sostenere la loro piccola società, premurosa con gli anziani e coi diversamente abili come Xenja, giovane donna affetta da demenza, figlia del medico locale. Kolima è profondamente innamorato della ragazza tanto che, finito in carcere, si farà tatuare il suo volto. Quando Xenja rimane vittima di una
comunità singolare che educa i propri figli al crimine. Buoni e onesti con i più deboli, i malviventi sono spietati con esercito e polizia, pregano Dio e impugnano armi, predicando una violenza regolata da prescrizioni. Il crollo del Muro e del regime sovietico sconvolgerà gli equilibri del loro mondo, che sarà presto corrotto dalla cultura occidentale. Durante questo periodo di transizione,
violenza, nonno Kuzja aiuterà Kolima ad uscire di prigione per permettergli di cercare l’uomo che l’ha violentata e vendicarla. Inizia, così, una lunga caccia che costringerà il ragazzo ad arruolarsi nell’esercito, contro codici e tradizioni siberiane, fino a quando la furia finale di Kolima ristabilirà verità e giustizia (criminale), risarcendo l’innocente ragazza. H
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la scheda del film Regia: Gabriele Salvatores Tratto dal romanzo omonimo di Nicolai Lilin (ed. Einaudi) Soggetto: Nicolai Lilin (romanzo) Sandro Petraglia Sceneggiatura: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Gabriele Salvatores Fotografia: Italo Petriccione Musiche: Mauro Pagani La canzone "Novij Den" (musica e testi di Mauro Pagani) è interpretata da Dariana Koumanova Montaggio: Massimo Fiocchi Scenografia: Rita Rabassini Costumi: Patrizia Chericoni Effetti: Paola Trisoglio, Stefano Marinoni per Visualogie Produzione: Riccardo Tozzi, Marco Chimenz, Giovanni Stabilini per Cattleya con RAI Cinema Distribuzione: 01 Distibuition Personaggi ed Interpreti: Kolima: Arnas Fedaravicius Gagarin: Vilius Tumalavicius Xenja: Eleanor Tomlinson Mel: Jonas Trukanas Vitalic: Vitalij Porsnev Ink: Peter Stormare Nonno Kuzya: John Malkovich Dottore: Arvydas Lebeliunas Zia Katya: Daiva Stubraite Black Seed 1: Jonas Cepulis Dimitry: Vytautas Rumsas Plank: Viktoras Karpusenkovas Meza: Jokubas Bateika Vulture: Dainius Jankauskas Igor: Denisas Kolomyckis Shorty: Zilvinas Tratas Madre: Airida Gintautaite Camionista: Riccardo Zinna Genere: Drammatico Durata: 110 minuti Origine: Italia, 2013
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NB: il laboratorio analisi è attivo tutte le mattine (festivi esclusi) ed è erogabile in convenzione con il Servizio Sanitario Regionale in entrambe le Sedi (Termini e Pisana).
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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it
crimini e criminali
Gli angeli della morte: traghettatori verso un’altra vita eggendo una rivista specializzata di criminologia sono rimasto molto colpito da una particolare categoria di serial killer coniata dai criminologi: “gli angeli della morte”; in questa tipologia rientrano gli assassini seriali che agiscono in un contesto medico e/o ospedaliero. Se da un lato ho appurato che il numero degli assassini di questa particolare categoria, almeno quelli sino ad ora condannati, è, per fortuna, abbastanza esiguo nel contesto mondiale, dall’altro spicca il
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Nelle foto a sinistra Josef Mengele a destra Harold Frederick Shipman
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grande numero di vittime attribuite a costoro che ne fanno dei serial killer per eccellenza. La definizione «angeli della morte» deriva dal soprannome con il quale era tristemente noto il medico nazista Josef Mengele sebbene questi non fosse un serial killer - famoso per la sua freddezza e per il potere di vita e di morte che vantava sugli internati del campo di concentramento di Auschwitz. Gli angeli della morte sono l’unica categoria di assassini seriali le cui vittime non rispecchiano le loro preferenze sessuali e ciò li rende una categoria sui generis in ambito criminologico. Le loro vittime sono i pazienti con i quali entrano in contatto per lavoro e, solitamente, il loro modus operandi prevede la somministrazione di farmaci o sostanze tossiche tramite iniezioni. Tra i serial killer che hanno adottato la tecnica dell’iniezione di sostanze
stupefacenti è tristemente noto Harold Frederick Shipman, soprannominato anche «Dottor Morte», questi è anche l’assassino seriale più famoso per numero di vittime, almeno fino ad oggi, di questa particolare categoria criminale. Shipman era un medico di famiglia, peraltro molto premuroso, che esercitava ad Hyde in un paese vicino a Manchester; proprio tale status ha reso difficile risalire al momento iniziale del suo macabro rituale criminale e a determinare esattamente il numero delle morti per mano sua, soprattutto perché era solito alterare le cartelle cliniche dei suoi pazienti per corroborare le loro cause di morte. Il primo a sospettare del dottor Shipman fu il proprietario di un’agenzia funebre, il quale notò una strana ricorrenza di pazienti del dottore tra i defunti del luogo. I sospetti del necroforo arrivano alla polizia che appura che le morti tra i pazienti di Shipman sono effettivamente troppe, per lo più donne sole, quasi tutte rinvenute sedute in poltrona, completamente vestite. La polizia inizia così ad indagare sul dottore e, con molta discrezione, controlla i registri del medico - ignorando che Shipman li ha accuratamente riscritti molto tempo prima - ma non trova le prove sufficienti per incriminarlo. La follia omicida del medico viene scoperta grazie alla determinazione di Angela Woodruff, la figlia di una delle sue vittime, che rifiuta di accettare le spiegazioni fornite per la morte di sua madre, Kathleen Grundy, una ricca vedova di 81 anni, trovata morta nella sua casa il 24 giugno del 1998 a seguito di una precedente visita di Shipman. Woodruff è informata dallo stesso Shipman che l’autopsia per la madre non era stata richiesta e che la stessa era stata sepolta secondo i suoi
desideri. Woodruff era un avvocato ed aveva sempre gestito gli affari di sua madre, dopo la sua morte scopre, con enorme stupore, che esisteva un ulteriore testamento, oltre a quello di sua conoscenza, che lasciava la maggior parte del patrimonio della madre al dottor Shipman. La cosa insospettì l’avvocato, che era convinta non solo che il documento fosse falso, ma che il dottore aveva ucciso la madre coartando la volontà della vittima. Dopo la denuncia alle autorità di polizia inglesi, la magistratura dispose la riesumazione del corpo di Kathleen Grundy e l’autopsia rivelò che era morta per una overdose di morfina, somministrata tre ore prima del decesso, corrispondente proprio al lasso di tempo della visita del dottore. La polizia, dopo l’autopsia, decide di perquisire l’abitazione del presunto assassino e trova la macchina da scrivere con cui era stato redatto il falso testamento, inoltre sequestra una serie di cartelle cliniche riguardanti altre persone decedute tutte in concomitanza con le visite mediche del dott. Shipman. A seguito di approfondite indagini di polizia, il 7 settembre del 1998, Shipman è accusato di 15 imputazioni di omicidio. Il 29 settembre dello stesso anno gli viene revocata la licenza medica e il successivo 5 ottobre del 1999 si apre il processo, presso la Preston Crown Court. Il Pubblico Ministero, nelle fasi iniziali, dichiara da subito di escludere le ipotesi di eutanasia, richiesta dalla difesa a sostegno delle morti, in quanto nessuno dei pazienti era malato terminale. Dopo cinquantasette giorni di processo, il 31 gennaio 2000, la Corte condanna il dottore a 15 ergastoli, uno per ogni vittima accertata, più quattro anni per contraffazione di
crimini e criminali testamento. Le vittime di Shipman sono tutte morte serenamente, ma nessuno ha ancora capito cosa abbia spinto il Dottor Morte ad agire in quel modo. Alcuni hanno ipotizzato che odiasse le persone anziane e le vedesse come un peso per il servizio sanitario, altri pensano che Shipman abbia voluto ricreare l’ambiente della morte della madre, per soddisfare un bisogno masochistico. Una Commissione del Ministero della Sanità, formata per indagare sul passato del Dottor Morte, ha riconosciuto la responsabilità diretta di Shipman in un numero di decessi che va dai 215 ai 236 nell’arco di 24 anni di professione, ma l’uomo ha sempre negato. Il 13 gennaio 2004, Harold Shipman è stato trovato morto impiccato con un lenzuolo nella propria cella, nel carcere di Wakefield, dove scontava i 15 ergastoli. La moglie e i figli restano tuttavia convinti che il Dottor Morte sia stato ucciso, in quanto quel lenzuolo non faceva parte della dotazione della sua cella. Sembrerebbe, inoltre, che alcuni agenti del penitenziario ove era rinchiuso hanno lasciato il lavoro a causa dello stress psicologico provocato dalla scoperta che le loro anziane madri erano nella lista del Dottor Morte. Ancora oggi, Shipman resta un’anomalia tra i serial killer noti alla criminologia. Egli non sembrava spinto da incontrollabili pulsioni sessuali violente né da altri moventi (se si esclude la frode sul testamento della Grundy). Una buona risposta la diede tempo fa il coroner, John Pollard, all’emittente inglese Bbc news: «l’unica spiegazione valida possibile è che semplicemente egli godesse nel guardare la gente morire. La sensazione di controllare la vita e la morte ti fa sentire superiore». Anche in Italia, abbiamo un assassino seriale catalogato tra «gli angeli della morte», ma a differenza del Dottor Morte è una donna: Sonya Caleffi, un’infermiera originaria di Tavernerio (TV), che alle sue vittime, degenti dell’Ospedale Manzoni di Lecco, praticava letali iniezioni di aria nelle vene. Nel 2003, tra settembre e
novembre, nel reparto di medicina generale dell’Ospedale Sant’Anna di Como vennero rinvenuti morti 8 pazienti in fase terminale. La causa della morte accertata fu embolia, causata da una iniezione di aria. Successivamente si verificarono 18 morti sospette anche nell’Ospedale Manzoni di Lecco e Sonya Caleffi lavorò in entrambe gli ospedali in quei periodi. A seguito della segnalazione della direttrice medica dell’Ospedale di Lecco, la Caleffi viene arrestata il 15 dicembre 2004 e, successivamente, imputata di 18 omicidi. E’ rea confessa, seppur di soli 6 omicidi. Spiegherà all’autorità giudiziaria che il suo intento non fosse quello di uccidere, bensì di provocare una situazione di grave emergenza e poi di risolverla, per mostrare ai colleghi le sue capacità. Di fronte all’accusa di aver iniettato di proposito bolle d’aria alle sue vittime, provocando loro delle embolie letali, la donna risponde: «Mi dispiace molto per quello che è successo,e chiedo perdono, se è possibile. Non volevo che finissero così, quei pazienti. Io praticavo quegli interventi perché mi piaceva che tutti accorressero in tempo a salvare i pazienti». Il procuratore generale incaricato del processo chiese la condanna all’ergastolo per 5 omicidi e 2 tentati omicidi, ma il rito abbreviato portò ad una sentenza di 20 anni di reclusione, emessa il 14 settembre 2007 e riconfermata il 3 marzo 2008 dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano. Nell’ottobre del 2008, la Cassazione ha poi confermato e reso definitiva la condanna a 20 anni di reclusione per i cinque omicidi e anche per i due tentati omicidi. Dopo un periodo di detenzione nel carcere di San Vittore, dove lavorava come telefonista, l’infermiera è attualmente rinchiusa nel penitenziario di Bollate. Prima dell’arresto, Sonya aveva alle spalle un breve matrimonio fallito, da adolescente aveva sofferto di depressione e anoressia e tra il 2002 e 2004 aveva tentato quattro volte il suicidio. L’ultimo caso di «angelo della morte» è quella della presunta serial
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killer brasiliana, Virginia Soares De Souza, una dottoressa di 56 anni, accusata di aver ucciso per asfissia almeno 7 pazienti con un’iniezione di Pavulon, un miorilassante, prima di aver ridotto loro l’ossigeno. L’anestesista brasiliana seppur accusata di aver ucciso 7 pazienti, potrebbe essere responsabile della morte di altri 300 degenti. La dottoressa Soares De Souza è stata arrestata il 19 febbraio scorso, assieme ad altri sette componenti della sua equipe medica, ma è stata scarcerata il 21 marzo in attesa che il giudice formalizzi i capi d’imputazione. La procura il 27 marzo ha chiesto un nuovo ordine di arresto nei confronti dell’anestesista per il rischio di inquinamento delle prove. La dottoressa Soares De Souza era a capo dell’unità di terapia
intensiva dell’Ospedale Evangelico, nello stato di Paraná, dal 2005 e gli ispettori del ministero hanno annunciato che passeranno in rassegna i 1.700 casi di morte avvenuti da allora ad oggi. Ad inchiodare il medico ci sono però le dichiarazioni di un infermiere, Silvio de Almeida, che in televisione ha rivelato: «Lei si sentiva Dio. Faceva quello che voleva e anche altri tre medici agivano come lei». Se gli investigatori proveranno che davvero la Soares de Souza ha ucciso oltre 300 pazienti, la donna diventerà una serial killer da record. Erasmo da Rotterdam espresse il dubbio che non si potesse trovare un solo individuo non affetto da una qualche forma di follia e aggiunse che la differenza tra gli individui sani di mente e i malati consisterebbe soltanto nell’intensità della follia. Alla prossima.. H
Nelle foto sopra a sinistra Sonya Caleffi a destra Virginia Soares De Souza
Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
24 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it
Sopra la copertina e a destra, nell’altra pagina, la vignetta del numero di gennaio 1999
Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
come scrivevamo enti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Cosa Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.
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Nascita dell’istituzione carceraria e sua evoluzione sino ai giorni nostri Aspetti generali della situazione penitenziaria prima del XIX secolo XIX - 1ª parte di Maurizio Renzi
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uesto mio lavoro é destinato a tutti quei colleghi che spesso provano interesse alla conoscenza del nostro passato, cercando di andare oltre una certa letteratura imperniata sul classico binomio carcere/carcerato, sforzandosi di individuare un taglio tematico che non ometta, come di consuetudine nei testi storici di settore l’attività svolta dal personale che storicamente ha portato avanti il lavoro nelle carceri italiane. Le moderne istituzioni penitenziarie costituiscono il punto terminale di un processo che vede il lento passaggio dal concetto di pena corporale ad uno di tipo custodialistico. Questo cammino si lega, sin dall'inizio, alla necessità di una forma di giustizia diretta che svolga una funzione sociale permettendo, agli individui offesi, di vendicare il loro senso di perdita mediante lo spettacolo legato al corpo del suppliziato e alla comunità di identificare al suo interno gli individui molesti. Il perno era il corpo del suppliziato immerso in una dimensione pubblica. Il condannato cessa di essere oggetto di spettacolo e vendetta per le genti per venire rinchiuso all'interno eli una struttura muraria. Questa separatezza è più apparente che reale, perché il carcere non fa che proporre o esasperare modelli di organizzazione sociale o economici che si vogliono imporre o che già sono presenti nella società. E' solo a partire dalla seconda metà del Settecento che si può parlare di vere e proprie strutture internanti,
esclusivamente destinate ad accogliere e punire gli autori di reati; da questo momento, e soprattutto dai primi anni dell'Ottocento, vedono la luce nuove teorie sulla funzione e la funzionalità della pena detentiva e sull'organizzazione degli istituti di pena. Questo sviluppo porta alla creazione di luoghi di custodia pressoché sconosciuti in epoche precedenti. In Italia si rileva la presenza di case d'arresto, durante il periodo feudale, come pena sussidiaria, destinate a coloro che erano stati condannati a una sanzione pecuniaria e non erano stati in condizione di pagarla. Le pene detentive erano generalmente brevi in quanto “il carceriere era sovente proprietario dell'edificio che ospitava le prigioni, oppure lo affittava allo scopo di organizzarvi una istituzione penale. In entrambi i casi, la prigione doveva rendere un profitto e ai detenuti veniva chiesto, se possibile, di pagare i costi della loro incarcerazione. Naturalmente molti detenuti pagavano meno se il loro soggiorno dietro le sbarre si prolungava e c'era quindi un incentivo al ricambio più frequente possibile della popolazione carceraria”. (1) E' stato il diritto canonico, a partire dal V secolo, ad adottare per primo la pena carceraria, sotto forma di reclusione in monastero, generalmente riservata ai chierici che in qualche modo avevano mancato. Nacque così la sanzione della penitenza da espiare in una segreta, fino al momento in cui non fosse sopraggiunto il ravvedimento.
come scrivevamo
La natura terapeutica della pena ecclesiastica fu poi di fatto inglobata, quindi snaturata, dal nuovo carattere vendicativo della pena, ormai sentita socialmente come satisfactio. Venne accentuata la natura pubblica della pena che uscì dal foro interno per assumere le vesti di istituzione sociale. L'esecuzione diviene pubblica, al fine di intimidire e prevenire, mantenendo sempre come scopo di fondo l'eventuale ravvedimento, prodotto dalla separazione dal mondo esterno e dal più stretto contatto con il culto. Storicamente vi era stata la presenza di un'altra struttura coercitiva: i bagni penali, derivati dalla galera, descritta come il più antico dei bastimenti latini. Abbandonata verso la fine del Seicento, questo tipo di nave era divenuto troppo costoso in quanto incapace di resistere al maltempo e alle lunghe navigazioni. La condanna al remo delle galere era un tipo di pena che aveva cominciato a diffondersi tra il quindicesimo ed il sedicesimo secolo. La definizione di bagni penali applicata sia ai bagni marittimi che a quelli di terraferma - non è altro che la conseguenza dell'origine marinara di questa pena. “La situazione dei bagni all'inizio dell'Ottocento non si distingue, quanto a separazione dei condannati, condizioni igieniche, vita dei detenuti ecc. da quella esistente all'interno delle carceri. Con una sola differenza, ma di
rilievo: i condannati al bagno godono in molti casi di una libertà di movimento assai più ampia di quella dei condannati al carcere”. (2) Nel1861la Commissione per il miglioramento dei luoghi penali, presieduta da F. Volpicella suggerì l'abolizione della pena del bagno, giudicata inutile e produttrice di danno a causa dell'ozio che la caratterizza, non esistendo più le galere. Verso la fine del XVII secolo, importanti mutamenti coinvolgono il panorama sociale. L'incremento demografico, il processo di urbanizzazione, il deterioramento del tenore di vita nelle campagne e, più tardi, il sorgere di una classe operaia e di un nuovo pauperismo connesso agli effetti della rivoluzione industriale, si verificò una rivoluzione dei modi di comportamento, delle consuetudini sociali, delle tradizioni e degli atteggiamenti preesistenti, rivoluzione che incise profondamente sui modelli di interazione umana all'interno della società. La stessa si avvia ad una trasformazione del proprio modello di vita, da prevalentemente agricolo, caratterizzato da ampie zone di proprietà comune, a vantaggio di una società ove domina la proprietà latifondista gestita da signori che spesso non risiedono nella comunità rurale. Man mano che le città crescono e sviluppano rapporti economici più intensi con le campagne circostanti, una parte maggiore della popolazione lavoratrice cessa di lavorare sui terreni coltivabili della comunità per dedicarsi a varie attività soprattutto nell'industria tessile. Fu proprio quest'ultima che determinò la comparsa dell'officina, quale luogo organizzato per la lavorazione di più artigiani. Si assiste, nelle città industriali, alla nascita dei primi embrioni di una vera e propria popolazione operaia. Tutto questo processo favorì un elevato afflusso di contadini e altri sbandati che mal si adattano alle mutate situazioni sociali. Il crimine diviene, quindi, una risposta
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significativa dei poveri alle condizioni in cui si ritrovavano nell'ambiente urbano. Esso rappresentava un mezzo di sopravvivenza, ed era anche un metodo di protesta. Questa pressione, accentuata dall'incremento demografico, mina direttamente gli interessi delle classi socialmente agiate, le quali vedevano nella risposta custodialistica un'utile forma di contenimento. In questo periodo ad Amsterdam e a Londra sorgono istituti correttivi, per la prima volta viene applicato il principio del lavoro coatto, come mezzo di rieducazione.
Divengono ben presto oggetto di tali strutture non solo delinquenti, ma anche semplici vagabondi e indigenti di ogni genere. Istituzioni originariamente nate allo scopo di educare e prevenire, generalmente strutturate come fabbriche che producevano in regime monopolistico, divengono il primo nucleo strutturale delle prigioni moderne.
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come scrivevamo Questo in concomitanza della fine del regime monopolistico che rendendo i costi superiori ai benefici, le aveva rese imprese improduttive. Il carcere diviene quindi funzione delle classi sociali destinate a popolarlo. Le stesse strutture penitenziarie si evolvono di riflesso, quasi a sottolineare l'assetto classista, ai vari assetti politici che si susseguono nel tempo. E' importante analizzare le implicazioni sociali dei codici penali per comprendere il rapporto tra crimine e società, ove il contenuto dello stesso è un fondamentale indicatore di quale parte della società deve essere oggetto di maggiore
attenzione, ma soprattutto, esso illustra come l'ideologia del sistema politico europeo utilizzi a sua difesa il ricorso diretto al sistema giudiziale penale. Si assiste al passaggio dalla giustizia penale medioevale, ove prevale una dimensione privata, più preoccupata di mantenere relazioni sociali equilibrate tra parti di rango uguale che punire, ad un sistema che trasforma la giustizia penale, da affare privato ad affare pubblico, riguardante individui anonimi e lo Stato. Si producono, quindi, nel XVIII secolo due cambiamenti procedurali: l'istituzione di un metodo diverso di azione penale e la promulgazione di
giustizia minorile
Il Corso di Specialista nel trattamento di detenuti minorenni a cura di Ciro Borrelli Referente Sappe per la Formazione e Scuole Giustizia Minorile borrelli@sappe.it
Nelle foto i partecipanti al Corso di formazione
Polizia Penitenziaria n.208 luglio/agosto 2013
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al 13 al 25 maggio 2013 si è svolta presso l’Istituto Centrale di Formazione di Roma la sesta edizione del corso di specializzazione. Ad oggi sono circa 250 i poliziotti del Dipartimento Giustizia Minorile ad aver conseguito tale specializzazione, dopo aver partecipato ciascuno di essi ad un corso della durata di due settimane con relativa discussione di tesina finale. E’ chiaro che il periodo feriale impone all’amministrazione una pausa del corso per consentire ai servizi territoriali di garantire la sicurezza nel migliore dei modi. E difatti da informazioni apprese presso il Dipartimento Giustizia Minorile, il Corso di specializzazione nel settore minorile riprenderà ad ottobre 2013. Ricordiamo che a distanza di oltre due anni dalla firma del decreto sulla specializzazione da parte dell’ Onorevole Angelino Alfano, le due Direzioni Generali del Personale e Formazione del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento Giustizia Minorile hanno formato solo un terzo del contingente di Polizia Penitenziaria che opera nel settore minorile (restano circa 550 unità con un’ anzianità di servizio di almeno 5 anni). Con tutta probabilità, facendo una proiezione dei tempi, il corso di specializzazione nel trattamento dei detenuti minorenni si concluderà non prima del 2015. H
nuovi codici penali. L'azione penale non può più essere una faccenda locale, perché il crimine non è più circoscritto. I codici penali dovevano avere una portata più ampia perché le società regolate da tali codici si andavano evolvendo come entità nazionali. H
continua... Note: (1) Michael R. Weisser, Criminalità e repressione nell'Europa moderna, Bologna, Il Mulino 1989, p. 60. (2) Romano Canosa e Isabella Colonello, Storia del Carcere in Italia, Sapere 2000, p. 163.
il punto sul corpo
Liberate la Polizia Penitenziaria
27 di Daniele Papi rivista@sappe.it
3ª parte - I Quadri Dirigenti e Direttivi irca i quadri dirigenti e direttivi, la storia del Corpo, è ricchissima di compromessi e di distorsioni. Dal 1945 al 1990 è stato, infatti, tutto un susseguirsi di soluzioni giuridicamente e sostanzialmente discutibili in quanto a contenimento rispetto al dovuto. In rapida successione, nel 1945, tanto per completare un organismo divenuto strumentalmente militare, fu autorizzato uno sparuto organico di ufficiali, con vertice accuratamente mantenuto in un grado basso, (risibile rispetto alla pomposità della enunciazione funzionale), per vaghe competenze demandate ad un regolamento mai redatto e forse neanche mai pensato. Per circa un ventennio all’organico non fu data alcuna copertura giuridica secondo la legge, essendosi preferito il comodo ricorso al distacco temporaneo, di fatto senza termine, di ufficiali delle Forze Armate, ed in questo l’Amministrazione rispettò alla lettera quelle che sono le linee guida della subcultura Nazionale, ovvero non c’è nulla di più definitivo che il temporaneo o il provvisorio. Questi Ufficiali, in qualità di ospiti, presto assimilati usi e costumi nulla potevano eccepire sulla osservanza di certe regole di sottomissione indispensabili alla tranquilla convivenza. La facciata, però, imponeva un adeguato “lustro”, sicché il vertice basso (raffinatamente sorpassata la norma) era assai onorato da un ufficiale di alto grado, anch'egli esterno ed anch'egli ospite, nel senso appena inteso. Per l'appunto dopo circa un ventennio, con una operazione del tutto aderente alla disinvoltura dell'epoca, anziché dare spazio, come dovuto, al concorso
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pubblico, prevalse lo spirito umanitario nei confronti degli antichi distaccati concretato nella sistemazione permanente legislativa al costo di un amichevole colloquio di benvenuto. Il concorso divenne inevitabile alla fine di quel decennio, venendo alla cronaca, nel 1967.
inflessibilità laddove eventuali contenuti dispensati fossero stati pericolosi allo storico equilibrio. Pertanto, gran favore di parvenza ad una classe dirigente irreprensibile verso l'esterno ignaro purché disattivata in quanto a facoltà di iniziativa e ad esercizio di qualche potere.
Nel 1971 si sanò anche la questione del vertice attraverso la formalizzazione di un grado elevato. Fatta eccezione ad un accenno, relativo alla legge 436/1987, articolo 4-ter, che istituiva già un Ruolo ad Esaurimento, le vicende successive fino al 1990, nel presente contesto, sono ininfluenti. Tutto ciò considerato, la sintesi di principio non avrebbe dovuto permettere, dunque, alcun allontanamento intelligente, troppo distante, dal convincimento dell'esigenza. Solo che il sistema, incorreggibile custode di certe potestà, per quanto benevolmente prono all'offerta di qualche delineazione d'immagine, non aveva alcuna incertezza circa la conservazione della propria
Con la dolosa interpretazione e successiva applicazione della riforma del 1990, quasi a sublimare quella sorta di bizantinismo, un repentino bagliore investì le ansie collettive, facendo luce legislativa a tutti che l'Organismo innovato non necessitava di alcuna propria dirigenza. Ciò con soddisfazione e con plauso generali. Nemmeno il tempo di un respiro e di un assestamento (un paio d'anni) e la grancassa della rivendicazione, battuta forte dagli stessi suonatori che tanto si erano affannati in favore della cancellazione, prese ad assordare con il motivo insistito dell’irrinunciabilità ad una dirigenza naturale. Molteplici sarebbero le formule per classificare un’operazione del genere, ma, rintuzzata ogni insinuazione
Una foto di gruppo di Ufficiali degli AA.CC.
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il punto sul corpo revanscista, sul tema diviene obbligatorio l'esame attento del principio della individuazione ed, ancora, del metodo. La condivisibilità del principio appare subito al di fuori del dubbio più velleitario. Non potrebbe sussistere, infatti, alcuna titubanza su detta classe se l'intendimento non fosse altro che quello della corrispondenza ad esigenze primarie.
Nella foto un Ufficiale degli AA.CC.
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In altri termini, non si dà man forte ad un intervento di cancellazione per poi assecondare pretese di reintroduzione (una sorta di falso rinnovamento), attraverso il ricambio delle persone fisiche ritenute evidentemente non più istituzionalmente idonee, se non si persegue lo scopo di una ulteriore innovazione di grande spessore, di debita garanzia interpretativa del quotidiano e di adeguata funzionalità. Auspicando, questa volta, la non insorgenza dell’impressione della strumentalità della richiesta, fortissima sul trascorso, allorquando le concezioni subculturali e gli annebbiamenti da ebbrezza di potere diedero sepoltura alla coscienza della realtà oscurandone, altresì, la visuale verso soluzioni concrete, più che affascinanti. Condivisa così l'attesa, l’individuazione dovrebbe essere orientata verso figure nuove in ossequio alla coerenza. Ciò per due ragioni conflittuali: o il sistema, vetusto di più di mezzo secolo, regge ancora con sicurezza per mezzo delle proprie tradizionali parti, oppure esso non è più in grado di resistere a fronte di determinati
parametri e di specifiche richieste di prestazione. In mezzo, ovviamente, sta la via, battutissima e polverosa, della approssimazione, priva di controlli e di pressioni, di per sé aberrante. Va da sé che il ricorso costante al rimescolamento, se riduce la profondità di campo all'inventario, così proteggendo la conservazione, alla lunga non assicura nulla, ammesso che alla lunga qualcuno decida la necessità di una verifica. Del resto se attese, proposte e rivendicazioni sono volte ad un progetto di sviluppo, esse non possono, davvero, chetarsi per l'appagamento derivante dalla promessa, magari al momento suffragata da misure di condiscendenza. Dunque, lo spazio disponibile concesso o conquistato dovrebbe essere riservato a figure diverse da quelle abituali ancora in auge e troppo aduse alla tolleranza del conveniente. Figure tratte dal contenitore interno o da quello pubblico o da entrambi, non importa, purché in possesso di requisiti di robustezza culturale e di attitudine alla tecnica oltreché della idoneità alla gestione autonoma e a quella di relazione. Nel decennio della riforma si è continuato a procrastinare tra palleggiamenti di inerzia e resistenze di varia intensità sull'alibi inconsistente della riflessione. Se all'inizio di questo arco non breve di tempo si fosse dato corso a qualche iniziativa, probabilmente oggi sarebbe disponibile una classe di tale fatta, sufficientemente sperimentata, forse necessitante di qualche aggiustamento, ma non certo ancora da inventare. Perché è chiaro che una categoria del genere non si improvvisa per effetto di un bando o di una specializzazione da corso. V'è stato, invece, il sotterfugio del tentativo di insabbiamento delle carenze - molti i complici - dietro veli purtroppo abbastanza trasparenti che non hanno protetto dalla curiosità. L'ordinamento del 1990 aveva
probabilmente illuso i presunti nuovi vertici naturali sulla attribuzione di poteri, di spazi, di prestigio: in effetti, personalizzando quelle qualifiche innovate nient'altro si sono rivelate se non le omologhe di quelle riformate, mutata la denominazione. Ricacciatene decisamente le aspirazioni e le aspettative ad emergere, esse sono state disinvoltamente ricollocate nell'abituale limbo della sottomissione, appena edulcorata dall'enfasi del dettato normativo assai propagandato, mediante tre formidabili mezzi di persuasione • Quello della equiparazione agli altri, ininfluente la valutazione preventiva del danno derivante dalla pretermissione della diversità di stato, di funzione, di organizzazione, d'ambiente e d'esercizio altrui e, quindi, propria. • Quello della carriera, per prassi dissociata dalla concreta esigenza, tacita blandizia volta all'avanzamento non negato su per una scala gerarchica di ben sei gradini. • Quello della progressione stipendiale, secondo la carriera e secondo il tempo della carriera. Una strategia in fin dei conti, comoda soltanto per l'assenso generale, essendo a dir poco perversa a causa della malcurata miopia sulla prevalenza della produttività. Il difetto, a ben vedere, risale all'origine; prima del 1945, nel 1937, anno della promulgazione dell'archiviato regolamento, erano previste in tabella otto qualifiche. Dal 1945, militarizzato l'Organismo, i gradi gerarchici figli di quelle qualifiche divennero sette. Dal 1990, anno della riforma, le qualifiche sono divenute dieci. L'analisi diviene significativa se approfondita con la chiosa sulle funzioni attribuite di norma a ciascuna qualifica (e, prima, a ciascun grado). Ebbene, l'effetto consequenziale è che alla fascia degli agenti sono demandati compiti di mera esecuzione mentre alle fasce sovrastanti, nonostante la formula, sono demandati sostanzialmente
il punto sul corpo compiti di coordinamento, non potendosi riconoscere, con seria adesione, l'attribuzione di alcuna facoltà di autentico esercizio del comando, secondo il concetto. Semmai tutt'altro Così nel 1937, così nel 1945 e così nel 1990. Stando al regolamento, così nel 1999. Dal punto di vista dell'organico una comparazione numerica, inoltre, fa risultare che le fasce sovraordinate ritenute adeguate nell'8 per cento rispetto a quella sottostante nel 1937 vennero potenziate al 14,5 per cento nel 1971, al 16,5 per cento nel 1975, al 18 per cento nel 1981 e nel 1990, come a significare una marcata volontà di corrispondenza ad un onere di servizio vieppiù pressante con il trascorrere del tempo. In effetti, tale progressione sarebbe stata perfettamente plausibile (magari al confronto con altri organismi) se la prova pratica del contesto operativo non l'avesse ridimensionata ad una sorta di benevola equiparazione attentamente aperta a certi sbocchi di carriera. Fatto salvo un diverso indirizzo, peraltro nemmeno adombrato. Insomma una fascia che per principio incontestabile avrebbe dovuto ricevere il riconoscimento di capacità verticali, per dettato normativo scrupolosamente attuato - ottenne e mantenne quello delle modeste attribuzioni di coordinamento e di un esemplare concetto, non meglio chiarito. Con la legge 28 luglio 1999, n. 266, è stato introdotto il ruolo direttivo del Corpo, propagandato quale insigne e meritoria conquista oltreché quale segnale di forte sensibilità verso le aspettative. Con ciò dimenticando, concessane la cultura, che fin dal 1945 (decreto legislativo luogotenenziale 21 agosto 1945, n. 508), il Corpo aveva tale ruolo esattamente eguale a quello testé sancito, e dal 1971 (legge 4 agosto 1971, n. 607) il Corpo aveva anche la dirigenza aperta non solo agli esterni. Con la riforma del 1990 quelle previsioni furono cancellate, come
detto, ed ora di esse soltanto ad una è stato ridato vigore, espressamente vietando l'altra. Sul piano del progresso non v'e che dire: è un bel progresso. Era prima fatto cenno ai due possibili serbatoi di introduzione, quello interno e quello pubblico. Fermo che quest'ultimo è sostanzialmente prodromico, la distinzione ha appena il valore di momento. Essenziale è, invece, il concordato sulla originalità e sulla purezza delle introduzioni, nel senso che se l'Organismo deve possedere una propria classe dirigente, questa, tratta da quadri naturali o altrove reperita, dovrebbe essere comunque costituita da soggetti più che inclini alla funzione, proprio per evitare la ripetizione di un inquinamento di elezione. Riguardo al metodo, da ultimo, esso non può discostarsi di molto da quello supponibile sui docenti, magari avendo accortezza sulla progressione di certi punti. Dovrebbero, dunque, essere studiati: • la individuazione delle esigenze, quelle, cioè, necessitanti di quadri idonei, per capacità tecnica, ad una gestione autonoma, ancorché temperata a seconda dell'indirizzo politico-amministrativo; • la individuazione delle fonti di alimentazione; • la selezione degli aspiranti, su cui, fermi i criteri, l'operato dovrebbe essere illuminato; • la stima della durata del corso, che unitamente alla articolazione di esso è un aspetto di primaria importanza. Questa stima dovrebbe essere effettuata con la massima meticolosità e con largo anticipo sull'avviamento iniziale, magari con sperimentazione su campioni in aggiornamento. Ciò proprio per evitare le approssimazioni normative del tipo tuttora in vigore che, non solo vagheggiano durate bisettimanali, semestrali, annuali o biennali stabilite senza il conforto di alcunché, ma obbligano, invece, all'adattamento ad esse nelle materie, in eccesso o in difetto, con risultati sovente devastanti
• le materie del corso, che dovrebbero essere individuate in un elenco scientifico, per nulla discrezionale o accomodante, garante del successo della istanza. Vale a dire un elenco completo, depurato dal credito sull'implicito e sull'eventuale affinché lo sforzo della divulgazione non venga frastornato da incertezze o da scelte estemporanee. Tra le materie, una collocazione di rilievo dovrebbe essere riconosciuta al governo del personale che, anche se di militaresca estrazione, non ha mai perduto il carattere di assicuratore della conoscenza individuale e di gruppo, della equità del trattamento, della chiarezza nella esposizione, della corretta distribuzione degli incarichi, del controllo, della disciplina e di quanto altro indispensabile al mantenimento della coesione della compagine; • la redazione dei testi di insegnamento, di contenuto ristretto all'essenziale, cioè a quanto si intenda far apprendere prescindendo, pertanto, dalla dottrina, dalle opinioni e dalle teorie di supponenza, da trasferire, semmai, alla discussione; • il reperimento di docenti, secondo una proposta articolata e sviscerata; • la individuazione dei requisiti per l'ammissione, che deve essere di grande approfondimento, vale a dire appropriata, scrupolosa e puntuale in modo da assicurare l'apprendimento e la possibilità di rendimento, molto elevati entrambi, del soggetto selezionato. Quindi, le qualità morali, di carattere, intellettuali, culturali ed anche fisiche non dovrebbero essere minimizzate. Una innovazione importante su tale aspetto dovrebbe essere rappresentata dai selettori del patrimonio complessivo. Rifiutata, subito, la solita commissione il compito dovrebbe essere demandato a figure, preferibilmente esterne, di accertata, solida formazione e di sperimentata attitudine alla analisi e alla sintesi, in una tavola rotonda aperta al candidato, verso una sorta di conclusione partecipata. H continua...
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eravamo così
inviate le vostre foto a rivista@sappe.it
1950 Casa Circondariale di Pordenone (foto inviata da Donato Rosa)
1968 Scuola AA.CC. Cairo Montenotte Coppa vinta dalla 5ª Compagnia (foto inviata da Bachisio Ortu)
Al centro delle pagine 1972 Scuola AA.CC. Cairo Montenotte esercitazione fisica (foto inviata da Michele Lorenzo)
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A fianco 1983 Scuola AA.CC. di Cassino Giuramento 26° Corso Ausiliario (foto inviata da Giuseppe Trabucco)
eravamo cosĂŹ
31 A sinistra 1983 Scuola AA.CC. Cairo Montenotte Giuramento 77° Corso (foto inviata da Giovanni Schirripa)
A fianco 1962 Casa di Reclusione di Mamone (foto inviata da Mariano Pergola)
1976 Casa Circondariale di Camerino Festa del Corpo AA.CC. (foto inviata da Giuseppe Paccone)
1989 Casa Circondariale di Alba Festa del Corpo AA.CC. (foto inviata da Leonardo Salerno
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32 a cura di Erremme rivista@sappe.it
le recensioni Cristiano Bettini
Sonia Raimondi
LA FORMAZIONE ETICA Guida per Ufficiali e Funzionari
LE MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE
LAURUS ROBUFFO Edizioni pagg. 208 - euro 24,00
GIUFFRE’ Edizioni pagg. 267 - euro 30,00
uesto interessante libro nasce principalmente per gli educatori, Ufficiali, Funzionari e Docenti che contribuiscono alla formazione etica di giovani nei primi anni del loro percorso accademico e professionale nelle Forze Armate o nei Corpi armati dello Stato, per prepararli a diventare uomini e donne più consapevoli e motivati. Tuttavia il possesso dei valori fondamentali, necessari ad un esercizio responsabile della professione, non comporta un’automatica capacità di trasmetterli; la trasmissione dei valori etici è complessa, sofisticata, perché investe il colloquio tra generazioni e la parola e l’esempio sono ancora gli strumenti più efficaci,unitamente alla disciplina in senso lato. Gli argomenti contenuti in questo libro intendono contribuire a migliorare la conoscenza e rendere così più agevole la trasmissione degli elementi fondamentali che caratterizzano l’etica di chi opera al servizio delle Istituzioni.
Q
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E
cco un testo che, a mio avviso, dovrebbe essere impiegato e studiato nei percorsi di formazione ed aggiornamento professionale della Polizia Penitenziaria e, più in generale, di tutti gli operatori del carcere. Ben scritto, chiaro, integrato con note giurisprudenziali che offrono una disamina completa di ogni singola misura, il testo si compone di ventuno scenari, ciascuno dei quali propone al lettore l’analisi di una questione fra le più frequenti o problematiche per l’operatore penitenziario o l’avvocato penalista che deve difendere il suo assistito allorché condannato alla pena della reclusione. L’opera è divisa in due parti e contempla casi davanti sia al tribunale che al magistrato di sorveglianza, nelle diverse ipotesi in cui la richiesta provenga da un condannato libero o detenuto. Conclude il volume una pratica tabella di tutte le misure alternative; per ciascuna di esse sono individuati con immediatezza requisiti oggettivi e soggettivi, preclusioni e motivi di revoca. Di rapida consultazione, è a mio avviso tra i libri che non può mancare nella libreria di chi si occupa di carcere e questioni penitenziarie più in generale.
R. Cantagalli, T. Baglione, U. Nannucci, M. Ancillotti
MANUALE PRATICO DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA LAURUS ROBUFFO Edizioni pagg. 736 - euro 52,00
V
entunesima edizione dello storico manuale di Polizia Giudiziaria della Laurus Robuffo, la cui prima edizione risale al 1975. Anche questa nuovissimo libro, che tiene conto delle modifiche normative nel frattempo intervenute, si conferma un prezioso e valido ausilio per tutti coloro che svolgono attività di Polizia Giudiziario: un ‘faro guida’ che consente di operare con un’eccellente preparazione. In questa edizione una particolare attenzione è stata posta nell’aggiornamento della modulistica, ulteriormente arricchita di altri modelli e resa completamente in linea con le più recenti innovazioni normative. Scopo del manuale è proprio quello di proporre agli operatori di polizia giudiziaria uno strumento indispensabile per la soluzione del problema operativo, analizzato sia dal punto di vista dei riferimenti normativi e teorici sia da quello pratico ed operativo. Indispensabile.
Francesco Barresi e Michele Nigretti
FENOMENO HACKING IRIS 4 Edizioni pagg. 176 - euro 19,50 uesto interessante saggio scritto a quattro mani da un sociologo e da un ispettore di Polizia Penitenziaria, tra i realizzatori della Rete Dapnet e stabilmente impegnato presso una Centrale Operativa Regionale, è un vero e proprio viaggio nella criminalità informatica, che con la diffusione di internet assume aspetti di rilevanza fondamentali. Scritto per fornire una nuova visione dell’hacker seguendo una indagine accurata, teorica, legislativa ed empirica sin dentro un hacklab, la sua uscita in libreria coincide con due fatti di cronaca collegati proprio alla criminalità informatica.
Q
le recensioni Da un lato, in Italia, una vasta operazione di Polizia ha portato a sgominare una delle colonne di Anonymus, il famoso gruppo di hacker che ha defacciato numerosi siti istituzionali (tra i quali proprio quello del SAPPE); dall’altra, lo scandalo americano ‘Datagate’, che ha fatto emergere a quali e quanti controlli tantissimi americani sono a loro insaputa sottoposti ogni momento del giorno. Nelle coincidenze della storia va registrato che il data-gate dell’amministrazione Obama, che ha fatto scoprire all’America di essere sotto l’occhio del Grande Fratello, è scoppiato nell’anniversario della pubblicazione di 1984, il romanzo di George Orwell che descrive una società totalitaria in cui ciascun individuo è tenuto costantemente sotto controllo dall’occhio vigile di Big Brother. La distopia di Orwell arrivò in libreria a Londra l’8 giugno 1949 - cinque giorni dopo a New York - e fu un successo immediato: 50mila volumi venduti in 12 mesi in Gran Bretagna e 250mila negli Usa. E allora, viste le analogie, auguriamo egual fortuna ai due Autori di questo interessante e prezioso libro...
Antonio Petrillo
DENTRO LE BR - PCC LAURUS ROBUFFO Edizioni pagg. 367 - euro 18,00
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ice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, l’Autore racconta (come recita il sottotitolo del libro) la “storia delle ‘nuove’ Brigate Rosse raccontata con le parole dei terroristi”. Una storia drammatica, “raccontata” dai militanti delle BR-PCC con i loro documenti di organizzazione, con i volantini di rivendicazione, con i comunicati redatti dopo gli arresti; un mosaico al quale sono stati aggiunti estratti di atti processuali e sentenze. Un’opera realizzata solo grazie all’immensa mole di documenti
sequestrati nel corso delle indagini. Petrillo, con il suo certosino lavoro, ci offre un saggio di sicuro interesse che aiuta a capire la follia ideologica e criminale delle nuove Brigate Rosse, i deliri della loro ortodossia rivoluzionaria, l’humus socio-culturale nel quale certe idee nascono e dove possono essere recepite e metabolizzate con un impegno concreto nella lotta armata. Racconti di pedinamenti, di scelte di ‘obiettivi’, di reclutamento e persino, nella maniacale cura dei dettagli che caratterizza sistematicamente l’attività delle nuove Br-Pcc, dei comportamenti da tenere in caso di arresto e detenzione. Agghiaccianti i resoconti delle rapine per l’autofinanziamento e, soprattutto, la ricostruzione degli omicidi di Massimo d’Antona e Marco Biagi.
Fabio Pozzo e Roberto Centazzo
SIGNOR GIUDICE, BASTA UN PAREGGIO TEA Narrativa pagg. 336 - euro 14,00
uanto mi è piaciuto questo romanzo... Sarà che è ambientato nella ‘mia’ Liguria o che uno degli Autori (che nella vita quotidiana è un Ispettore Capo della Polizia di Stato) è il ‘padre’ di una serie di romanzi con un protagonista a me molto simpatico, ma questa è davvero una storia di mare e cemento sullo sfondo di una terra dolente e bellissima. C’è una partita di droga molto pericolosa in arrivo dal mare e destinata a finanziare speculazioni edilizie e campagne elettorali. C’è il Grigio, che dall’ombra muove il traffico di stupefacenti e di denaro sporco. C’è Pedro, un sudamericano ex galeotto, ex spacciatore, che sussurra qualcosa all’orecchio degli inquirenti e poi sparisce. C’è una catena di morti che non possono essere accidentali.
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Di chi è la mano dietro questi delitti? E poi ci sono tre uomini che hanno scelto tre strade molto diverse, ma tutte al servizio della verità, della Legge: il procuratore capo Lorenzo Toccalossi, appena trasferito a Genova a dirigere la Direzione distrettuale antimafia; il suo braccio destro, il maresciallo dei carabinieri Luigi Centofanti; e un amico, Bartolomeo Bussi, giornalista di punta di un noto quotidiano nazionale. E tutti e tre si ritrovano a indagare su una pista che puzza di marcio da fare schifo, tra appalti truccati, speculazioni edilizie, traffico di stupefacenti, corruzione, morte. Sullo sfondo la Liguria, terra bellissima sotto scacco. H
Si avvisano i lettori che questo mese tornerà in distribuzione il periodico dell’ANPPe “il Poliziotto Penitenziario in congedo”.
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il mondo dell’appuntato Caputo La differenza tra un Capo del DAP ed un Comandante del Corpo di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis Š 1992-2013
un Capo del DAP...
un Comandante del Corpo...
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