anno XX • n. 209 • settembre 2013
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Riforma degli Agenti di Custodia: forse abbiamo sbagliato qualcosa...
sommario
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anno XX • numero 209 settembre 2013 Per ulteriori approfondimenti visita il sito In copertina: Ufficiali del Corpo degli Agenti di Custodia in una foto del 1984. Al centro il Capo del Personale Adalberto Capriotti
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l’editoriale
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Impegni futuri e fallimenti attuali di Donato Capece
Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it
il pulpito
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Riforma degli Agenti di Custodia: forse abbiamo sbagliato qualcosa... di Giovanni Battista de Blasis
Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it
il commento
Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it
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Carcere, punto di non ritorno Redazione cronaca: Umberto Vitale
di Roberto Martinelli
Redazione politica: Giovanni Battista Durante Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director)
l’osservatorio
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Prima e seconda guerra di mafia a Reggio Calabria di Franco Denisi
crimini e criminali
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Donne che uccidono per difendersi di Pasquale Salemme
Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 00030 S. Cesareo (Roma)
il punto sul corpo
Finito di stampare: settembre 2013
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di Giovanni Battista Durante
mafie e dintorni
Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di: Polizia Penitenziaria-Società Giustizia & Sicurezza
Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana
Esame di costituzionalità per la norma che blocca i contratti dei dipendenti pubblici
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Liberate la Polizia Penitenziaria
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4ª parte - di Daniele Papi
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l’editoriale
Impegni futuri e fallimenti attuali Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it
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elle ultime settimane si sono registrate significative garanzie a tutela della specificità professionale degli appartenenti ai Comparti Sicurezza, Difesa e Soccorso pubblico. Ci riferiamo, ad esempio, al riconoscimento della specificità della nostra professione in materia di tassazione Imu, all’annullamento dei previsti tagli per le nostre assunzioni e – negli ultimi giorni – alla definitiva esclusione dei Comparti Sicurezza, Difesa e Soccorso pubblico dal Regolamento di armonizzazione pensionistica.
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leggere on line su www.sappe.it) con la firma del SAP, del SAPPe, del SAPAF e delle principali Organizzazioni Sindacali della Polizia di Stato, della Polizia Penitenziaria e del Corpo Forestale. Lo sblocco del tetto stipendiale e il finanziamento dell’assegno una tantum, che va reso anche liquidabile e pensionabile, sono due obiettivi che ci prefiggiamo in maniera prioritaria. Il nodo risorse è il vero scoglio da superare e per questo è fondamentale l’intervento del Presidente del Consiglio che può dare una soluzione politica alla questione.
Risultati seri e concreti, che rafforzano l’impegno corale a mantenere la mobilitazione della Categoria per risolvere e definire altri importanti appuntamenti quali il riordino delle carriere, il tetto stipendiale e il contratto, il finanziamento dell’assegno una tantum e la previdenza complementare. Temi che sono stati posti al tavolo della Funzione Pubblica e che hanno portato il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, a convocare il 19 settembre scorso una riunione con i Ministri competenti per le Amministrazioni di riferimento del nostro Comparto. Al Presidente Letta abbiamo anche consegnato una lettera (che potete
Da qui possiamo e dobbiamo ripartire per intavolare, alla Funzione Pubblica, una trattativa seria relativa al contratto perché è inaccettabile avere stipendi fermi da quattro anni, senza neppure il piccolo beneficio della vacanza contrattuale. C’è poi l’impegno dell’attuale Governo, assunto questa estate, sul riordino delle carriere. E su questo il SAPPe non mollerà la presa. Guardando ai fatti di casa nostra, non possiamo non constatare la veridicità dell’antico adagio il tempo è galantuomo. Avevamo infatti detto tempo fa che la legge cosiddetta svuota carceri non avrebbe in realtà svuotato alcunchè:
oggi constatiamo non solo che i detenuti non sono affatto diminuiti ma, anzi, sono addirittura aumentati, superando quota 65mila. Avevamo anche detto che rincorrere la vigilanza dinamica nelle carceri ed i patti di responsabilità con i detenuti, come invece vuole il Capo del DAP Giovanni Tamburino, sarebbe stato una chimera: ebbene, dal 16 settembre la Sezione detentiva A2 del carcere di Aosta, dove era stata introdotta la vigilanza dinamica voluta dal DAP, ha abolito la vigilanza dinamica per i troppi pestaggi avvenuti tra detenuti. E allora l’Amministrazione Penitenziaria con Tamburino alla guida sembra davvero vivere in una realtà virtuale che non si rende evidentemente conto della drammaticità del momento, che costringe le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria a condizioni di lavoro sempre più difficili. Ma anche il provvedimento governativo cosiddetto svuota carceri, convertito in legge dal Parlamento, non sta cambiando proprio nulla nelle carceri italiane. Pensare di risolvere i problemi del sovraffollamento delle carceri con una legge che darà la possibilità a chi si è reso responsabile di un reato di non entrare in carcere, è sbagliato, profondamente sbagliato ed ingiusto. Le soluzioni potevano e possono essere diverse: nuovi interventi strutturali sull’edilizia penitenziaria, l’aumento di personale e di risorse, espulsione dei detenuti stranieri, introduzione del lavoro obbligatorio durante la detenzione, anche modifiche normative sulle disposizioni penale, riservando il carcere ai casi che lo meritano davvero. Ma intaccare la certezza della pena per coprire le inefficienze e le inadempienze dello Stato è sbagliato. Certo, il dato oggettivo è che il carcere, così come è strutturato e concepito oggi, non funziona. Lo sanno bene i poliziotti che stanno nella prima linea delle sezioni detentive 24 ore al giorno. Se ci avessero ascoltato...H
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Riforma degli Agenti di Custodia: forse abbiamo sbagliato qualcosa...
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ontrariamente ad ogni teoria darwiniana sull’evoluzione, il dap è l’habitat della Polizia Penitenziaria nel quale anziché evolvere, si regredisce verso la preistoria. Il Poliziotto Penitenziario, infatti, si è già involuto in Agente di Custodia, sta mutando in Guardiacarcere ed è destinato a tornare allo stato primitivo di Secondino. E come tutte le trasformazioni che si rispettino, ciò accade grazie all’ambiente favorevole, all’humus prodotto apposta per lui dalla nomenclatura del dap e, soprattutto, grazie alle amorevoli cure taumaturgiche delle divinità olimpiche Giovanni Tamburino e Luigi Pagano. E proprio grazie a questa perfetta miscela di scienza e religione, il Poliziotto Penitenziario, come un araba fenice, rinascerà dalle proprie ceneri reincarnandosi nel Secondino. E pur tuttavia, io che prima di Poliziotto Penitenziario sono stato Agente di Custodia (e un po’ Guardia carcere), ricordo perfettamente di essere vissuto in un habitat naturale (la direzione generale degli istituti di prevenzione e pena) sicuramente più agevole e confortevole di quello attuale. A quei tempi, quando interveniva un evento esterno che metteva in pericolo lo status quo del Corpo o, addirittura, metteva a repentaglio qualche diritto acquisito, la dirigenza del dap (allora composta soltanto da magistrati ed ufficiali) si raccoglieva in formazione difensiva e cercava, ad ogni costo, di difendere il proprio territorio. Il proprio territorio perché, a parte pochi ed eccellenti magistrati, quella dirigenza era composta perlopiù da uomini in divisa. A quei tempi, si guardava sempre con attenzione alla Polizia di Stato e alle altre forze dell’ordine, sempre pronti
a chiedere l’estensione di qualsiasi beneficio ottenuto da loro. Oggi, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel frattempo evoluto in un vero e proprio Ministero, la dirigenza, composta quasi interamente da magistrati, direttori, educatori, ragionieri e assistenti sociali, se ne infischia di chiedere l’estensione di qualsiasi beneficio altrui (a meno che non riguardi anche i direttori per effetto del famigerato art. 40 shakerato con l’altrettanto famosa legge Meduri). Al contrario, quella stessa dirigenza è molto attenta
ammettere qualche macroscopico errore nella legge di riforma del 1991. Forse è arrivato il momento di ammettere che era meglio tenerci gli Ufficiali. Certo, senza in questo modo sollevarli dalla responsabilità di come sono andate le cose: perchè sono stati proprio loro a volersene andare. Pur tuttavia, il senno del poi ci ha fatto capire che allora si trattò soltanto di un problema di uomini e, quindi, probabilmente avremmo potuto lasciare tutte le opportunità previste dall’art. 25 senza, però,
(attentissima) ad imporre immediatamente l’estensione di qualsiasi restrizione, limitazione o svantaggio subito da altre forze di polizia. Nemmeno il caso di ricordare il pagamento delle caserme, le ritenute per la previdenza, il blocco delle graduatorie degli idonei non vincitori, la soppressione delle navette, la limitazione degli straordinari, la tassazione del trattamento di missione, la limitazione dei mezzi, la chiusura degli impianti sportivi e ricreativi e chi più ne ha più ne metta… (…tanto io mica mi chiamo Pasquale). Forse è arrivato il momento di
sopprimere il ruolo degli ufficiali. In tal modo, oggi, non esisterebbe la legge Meduri, non dipenderemmo dai direttori, dagli educatori, dai ragionieri e dagli assistenti sociali e saremmo comandati soltanto da uomini che indossano la nostra stessa uniforme. Magari, avremmo anche ottenuto il Comandante Generale del Corpo. I Commissari avrebbero avuto un punto di riferimento e una carriera già delineata con un adeguato numero di posti da dirigente. Il senno del poi insegna tante cose... Il senno del poi ci insegna anche che tutto è possibile quando si uniscono le forze e si stabilisce un obiettivo. A buon intenditor poche parole. H
Giovanni Battista de Blasis DirettoreEditoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it
Metà anni ’80 foto di gruppo degli Ufficiali: Al centro il Capo del Personale Adalberto Capriotti
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il commento
Carcere, punto di non ritorno. Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it
I programmi rieducativi non funzionano e calano i fondi per il lavoro dei detenuti opo l’approvazione con 195 voti favorevoli, 57 contrari e nessun astenuto il Senato, nella seduta antimeridiana di giovedì 8 agosto 2013, il disegno di legge di conversione del Decreto Legge 1° luglio 2013, n. 78, recante disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena, cosiddetto decreto “svuota carceri”, è stato pubblicato il 19 agosto scorso in Gazzetta Ufficiale (Legge 9 agosto 2013, n. 94).
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Nelle foto sopra celle vuote a destra detenuti al lavoro
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Le principali novità apportate in sede di conversione sono la possibilità di disporre la custodia cautelare in carcere per delitti per cui è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti; l’inasprimento della pena per il reato di atti persecutori ex art. 612bis c.p., punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni; l’ampliamento delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità per i detenuti e gli internati, i quali possono svolgere la loro attività anche a sostegno delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi. Esclusi da tali previsioni i condannati per il delitto ex art. 416bis c.p. e per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso
articolo oppure al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste. La legge eleva a 30 giorni la durata dei permessi premio per i detenuti minori di età, durata che in ciascun anno di espiazione non può eccedere i 100 giorni (contro i 60 del passato), ed amplia la possibilità di accesso ai permessi premio mentre prevede la revoca della detenzione domiciliare per il detenuto che sia condannato per evasione e misure per favorire l’attività lavorativa di
detenuti ed internati, attraverso la concessione di sgravi contributivi e crediti d’imposta a cooperative sociali ed imprese. Un provvedimento avverso il quale in Parlamento si sono schierati Lega Nord, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia, che non ha convinto molti italiani, anche addetti ai lavori e tra essi chi scrive. Il provvedimento non ci mi convinceva e non mi convince. Pensare di risolvere i problemi del
il commento sovraffollamento delle carceri con un provvedimento che, di fatto, darà la possibilità a chi si è reso responsabile di un reato di non entrare in carcere, è sbagliato, profondamente sbagliato ed ingiusto. Le soluzioni potevano e possono essere diverse: nuovi interventi strutturali sull’edilizia penitenziaria, l’aumento di personale e di risorse, anche modifiche normative sulle disposizioni penale, riservando il carcere ai casi che lo meritano davvero. Ma intaccare la certezza della pena per coprire le inefficienze e le inadempienze dello Stato è sbagliato. Certo, il dato oggettivo è che il carcere, così come è strutturato e concepito oggi, non funziona. Una delle ultime, impietose, denunce in ordine di tempo è arrivata dalla Corte dei Conti, che ha bocciato l’efficacia dei programmi di rieducazione dei
Il responso, contenuto in oltre 100 pagine, è stato negativo. L’indagine ha infatti evidenziato come i cosiddetti “programmi trattamentali”, in concreto, “abbiano avuto una difficile e faticosa attuazione, nonostante siano apparsi in grado di produrre sia benefici diretti sui destinatari degli interventi, che vantaggi indiretti sulla società nel suo insieme (che fruirebbe di un progressivo decremento dei pertinenti costi economici)”. In particolare, dall’indagine è emerso come “attraverso l’attivazione di laboratori e pratiche riformatrici si possano offrire mezzi, risorse e strumenti per abilitare o riabilitare socialmente e professionalmente il detenuto fuori dall’universo carcerario, ma sono emerse però delle carenze a livello pianificatorio caratterizzate dall’inadeguatezza di validi percorsi scolastici e formativi oltre che
“sul piano dei monitoraggi e degli indicatori, con conseguente difficoltà di verificare compiutamente gli effetti conseguiti a seguito delle condotte attività di rieducazione carceraria”. Dal punto di vista finanziario, ha affermato la Corte dei Conti, “il sistema carcerario è tutt’oggi caratterizzato dall’estrema esiguità delle risorse assegnate, che, unitamente al sovraffollamento all’interno degli istituti penitenziari, ha finito per pesare negativamente e in modo incisivo sulle varie iniziative connesse ai trattamenti rieducativi”. Ma “i non soddisfacenti risultati raggiunti sono stati sicuramente determinati – ha affermato ancora la magistratura contabile - anche da molteplici ulteriori fattori, tra i quali vanno annoverati: la complessità dell’organizzazione; l’esigenza sovente non soddisfatta - di disporre
detenuti, sottolineando, in una sua indagine, “carenze a livello pianificatorio caratterizzate dall’inadeguatezza di validi percorsi scolastici e formativi oltre che dall’insufficiente coordinamento sul territorio dei diversi soggetti istituzionali preposti”. L’indagine della Sezione centrale del controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato aveva lo scopo di verificare “se e in che modo la finalità di assistenza e di rieducazione dei detenuti sia stata effettivamente assicurata, anche riguardo alla necessità di garantire al meglio la sicurezza sociale e di mitigare, se non eliminare del tutto, il problema del sovraffollamento degli istituti di pena”.
dall’insufficiente coordinamento sul territorio dei diversi soggetti istituzionali preposti”. Soltanto da pochi mesi, ha sottolineato la Corte dei Conti, “è stato sottoscritto un protocollo di intesa con il Ministero dell’Istruzione nel quale sono stati previsti percorsi modulari e flessibili (anche con l’utilizzo di modalità digitali e del libretto scolastico) con i quali l’Amministrazione pensa di poter risolvere il succitato problema”. E “sulla stessa lunghezza d’onda si colloca il cosiddetto ‘piano carceri’, che è in via di perfezionamento, soprattutto per la parte riguardante l’organizzazione di spazi adeguati per l’istruzione all’interno delle carceri stesse”. Carenze sono state evidenziate anche
di una pluralità di figure professionali; i tagli degli organici e la limitata possibilità di copertura dei medesimi a causa della vigente disciplina del turn over; i tagli lineari sullo specifico capitolo di bilancio”. Non funzionano i programmi finalizzati alla rieducazione del detenuto e calano persino i fondi destinati al lavoro in carcere, come è emerso dall’ultima relazione del ministero della Giustizia sull’attuazione delle disposizioni relative al lavoro dei detenuti trasmessa al Parlamento. “Nell’attuale situazione di grave sovraffollamento e di carenza di risorse umane e finanziarie, garantire opportunità lavorative ai detenuti osserva la relazione - è
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Nelle foto lavoro in carcere
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Nelle foto lavoro in carcere oggi ...e ieri
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il commento strategicamente fondamentale anche per contenere e gestire i disagi, le tensioni e le proteste conseguenti alle criticità esistenti. Queste attività , pur non garantendo l’acquisizione di specifiche professionalità spendibili sul mercato, rappresentano una fonte di sostentamento per la maggior parte della popolazione detenuta”. Ma la realtà è che il taglio ai fondi per le retribuzioni in generale e in particolare per le strutture produttive presenti all’interno degli istituti penitenziari (falegnamerie, tessitorie,
dell’istituto è passato dai 10.050 del dicembre 2010 e dai 9.922 del dicembre 2011 ai 9.773 della fine del 2012, “anche se le direzioni degli istituti, per mantenere un sufficiente livello occupazionale, hanno ridotto l’orario di lavoro pro capite ed effettuato la turnazione sulle posizioni lavorative. I servizi di istituto assicurano il mantenimento di condizioni di igiene e pulizia all’interno delle zone detentive, comprese le aree destinate alle attività in comune, le cucine detenuti,
tipografie ecc.) ha determinato una diminuzione della forza lavoro: al dicembre 2012 risultavano 13.808 detenuti lavoranti, contro i 14.061 di un anno prima e i 14.174 del dicembre 2010, con un calo di 366 unità e un ulteriore elemento di aggravio della situazione legata al sovraffollamento. “Il budget largamente insufficiente assegnato per la remunerazione dei detenuti lavoranti -afferma ancora la relazione ministeriale- ha condizionato in modo particolare le attività lavorative necessarie per la gestione quotidiana dell’istituto penitenziario (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato) incidendo negativamente sulla qualità della vita all’interno dei penitenziari”. Così il numero di detenuti occupati e destinati alla gestione quotidiana
le infermerie ed il servizio di preparazione e distribuzione dei pasti”. Perciò “un decremento nel numero dei detenuti lavoranti - e delle ore lavorate - alle dipendenze dell’amministrazione, ha comportato una forte riduzione dei livelli dei servizi in aspetti essenziali della stessa vivibilità quotidiana delle strutture penitenziarie, con inevitabili ricadute negative anche e soprattutto in materia di igiene e sicurezza”. Altro che far lavorare tutti i detenuti. Altro che un carcere che rieduca, come prevede la Costituzione. Altro che sicurezza sociale e certezza della pena. Il carcere, questo carcere, si sta pericolosamente avvicinando ad un punto di non ritorno... Ma non è lasciando liberi i delinquenti che si risolvono i problemi: tutt’altro! H
e, come sembra, la Corte Costituzionale dovesse dichiarare l’incostituzionalità della norma che ha determinato il blocco contrattuale per tutti i dipendenti pubblici, si tratterebbe di una importante vittoria non solo per chi ha proposto il ricorso, ma per tutti coloro che sono interessati al problema, in modo particolare le Forze di polizia e le Forze armate, maggiormente legate a quegli automatismi che determinano variazione di trattamenti economici, anche in assenza di rinnovi contrattuali. Ricordiamo che la norma stabilisce che il trattamento economico dei dipendenti pubblici, relativamente al 2011, non poteva essere superiore a quello del 2010. Tale norma, in prima attuazione, aveva una validità di tre anni, successivamente è stata prorogata anche per il 2014. Tale disposizone normativa ha creato gravi sperequazioni tra i destinatari, poiché tutti coloro che, a partire dal 2011, hanno maturato trattamenti economici accessori o strutturali, che hanno determinato una maggiorazione stipendiale o, comunque, un aumento del trattamento economico individuale, rispetto a quello percepito nel 2010, non hanno potuto beneficiare di tale aumento. Per fare qualche esempio: se un commissario è stato promosso commissario capo nel 2010 ha percepito il trattamento economico da commissario capo, se, invece, è
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All’esame della Corte Costituzionale la norma che blocca i contratti dei dipendenti pubblici stato promosso dopo il primo gennaio 2011 non ha percepito il trattamento economico, pur svolgendo le funzioni da commissario capo. Quindi, a parità di qualifiche e funzioni i trattamenti economici sono diversi. Lo stesso dicasi per coloro che hanno maturato o matureranno l’assegno di funzione nel periodo 2011/2014. Tale blocco incide anche sul trattamento economico accessorio, quindi, anche coloro che hanno cambiato incarico o funzioni, per le quali dovrebbero percepire indennità che prima non percepivano, il blocco impedisce che possano ottenere il trattamento economico superiore. Dovrebbe bastare questo per capire che la norma è incostituzionale e che chi l’ha varata, nella migliore delle ipotesi, non ha usato le competenze giuridiche di cui sicuramente disponeva; nell’ipotesi peggiore l’ha fatto consapevolmente, sapendo che, comunque, avrebbe raggiunto l’obiettivo di tagliare risorse destinate alla spesa pubblica, anche creando sperequazioni a danno dei lavoratori più deboli, quelli, cioè, che percepiscono stipendi più bassi.
E’ quindi auspicabile che la Corte costituzionale si pronunci dichiarandone l’incostituzionalità e
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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it
Paradossalmente, coloro che sono andati in pensione dopo diciannove anni, sei mesi ed un Nelle foto a fianco una seduta della Corte Costituzionale in basso il Palazzo della Consulta a Roma sede della Corte Costituzionale
restituendo a tutti i dipendenti pubblici le competenze economiche spettanti, senza più alcun ricorso all’una tantum che, tra l’altro, non copre tutto il dovuto e non è pensionabile; problema, questo, di non poco conto, considerato che, con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione verrà calcolata sulla base delle somme versate. Il problema delle pensioni è un’altra questione rilevante. Siamo riusciti per ora a bloccare il decreto che omogenizzava anche le Forze di polizia al resto del pubblico impiego, nonostante la norma sulla specificità, anche se il probema maggiore riguarda il passaggio al sistema contributivo che determinerà una decurtazione delle pensioni di oltre il venti per cento rispetto al passato.
giorno di servizio, con il sistema retributivo, percepiscono una pensione che, all’incirca, è pari a quella di coloro che andranno in pensione col sistema contributivo, dopo oltre quarant’anni di contributi. E’ questa la beffa determinata dalla cattiva gestione politica degli ultimi quarant’anni. Piuttosto che preoccuparsi delle generazioni future tutti hanno pensato a gestire i consensi del momento. A tale critica non possono sottrarsi neanche alcuni sindacati che oggi si indignano per le riforme fatte in questi ultimi tempi, ma hanno taciuto quando, negli anni passati, si è consentito ai lavoratori di andare in pensione con delle regole che si sapeva che avrebbero fatto saltare tutto il sistema. H
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Giovanni Passaro passaro@sappe.it
diritto e diritti
Uso prolungato del PC dell’amministrazione e uso privato di internet
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pett.le redazione, nell’istituto dove svolgo servizio sono adibito a mansioni d’ufficio che comportano l’uso prolungato del computer. Vorrei sapere se ho diritto ad una pausa per riposare la vista e se l’utilizzo della connessione internet dell’amministrazione per motivi privati comporta reato. Ringrazio anticipatamente per l’attenzione prestata. Cordiali saluti
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Gentile collega, avviene che sempre un maggior numero di persone, che si trova ad operare per ragioni di lavoro davanti ad un computer, utilizza questa condizione per usare il pc anche per fini che nulla hanno a che fare con la propria attività lavorativa per cui sono pagati. Quid juris di questo comportamento, oltre che essere moralmente condannabile e suscettibile di conseguenze civilistiche sul piano del rapporto lavorativo, può integrare illecito penale. Sicuramente le due fattispecie individuabili sono, senza dubbio, il peculato ordinario e quello d’uso. Come è noto, l’art. 314 c.p. (peculato – fattispecie delittuosa compresa tra i reati contro la Pubblica Amministrazione) prescrive che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di
pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare un uso momentaneo della cosa e questa, dopo l’uso momentaneo è stata immediatamente restituita”. Dunque il soggetto che (in qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) abbia il possesso o la disponibilità (o il potere di disporre), per ragione del suo ufficio o servizio, di qualsiasi cosa o valore anche non appartenente alla P.A., commette il reato di peculato qualora se ne appropri. Sia la dottrina che la giurisprudenza della Cassazione sono concordi nel ritenere che detta appropriazione si realizza con il comportamento uti dominus nel senso di utilizzo della cosa come se fosse propria attraverso la sua alienazione, distruzione tramite o meno il suo impiego ovvero ritenzione definitiva. Pertanto, presupposto del peculato è il possesso o comunque la disponibilità della cosa da parte del soggetto agente, inteso sia quale materiale detenzione sia quale disponibilità giuridica dei beni materialmente detenuti da altri, dei quali l’agente possa disporne mediante atti o fatti rientranti nella competenza dell’ufficio di cui è rivestito. Si tratta, pertanto, di una connotazione del possesso diversa da quella prettamente civilistica. Condizione ineliminabile è, inoltre, che tale possesso o disponibilità debba sussistere per ragione dell’ufficio o del servizio, ossia in conseguenza delle specifiche competenze o funzioni svolte, derivanti sia da norma che da prassi e consuetudini.
Infatti, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha più volte evidenziato che la “ragione d’ufficio” di cui all’articolo 314 C.P. va intesa come titolo del possesso in senso lato e, pertanto, comprende anche il possesso derivante da prassi e consuetudini invalse in un determinato ufficio (ex plurimis, Cass. Pen., Sez. 6, 9 novembre 2010, n. 39363; Cass. Pen., Sez. 6, 10 luglio 2000, Vergine, in Cass. Pen., 2001, 2382; Cass. Pen., Sez. 6, 10 aprile 2001, La Torre, in CED Cass., 220642). In tale contesto, non rileva neppure la circostanza che il soggetto si trovi a svolgere mansioni superiori a quelle che in astratto avrebbe dovuto esercitare (Cass. Pen., Sez. 6, 9 novembre 2010, n. 39363; Cass. Pen., Sez. 6, 11 ottobre 2001, n. 41114, Paonessa), avendosi possesso “in ragione dell’ufficio”, tanto se il possesso deriva da un corretto esercizio delle funzioni esercitate quanto se deriva da un esercizio arbitrario e di fatto delle stesse (Cass. Pen., Sez. 6, 9 novembre 2010, n. 39363; Cass. Pen, Sez. 6, 21 febbraio 2003, n. 11417, Sannia). Il peculato va però escluso se il possesso è meramente occasionale, cioè qualora sia dipendente da un evento fortuito (Cass. Pen., Sez. 6, 11 marzo 2003, n. 17920, De Matteis) o dal fatto di un terzo che ne investa altro soggetto non in relazione alle sue mansioni di pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio ma in conseguenza di una determinazione, lecita o illecita, di natura privata (Cass. Pen., Sez. 6, 9 novembre 2010, n. 39363). In simile situazione, infatti, in cui la disponibilità della cosa deriva da un mero potere di fatto, potrebbe invece ritenersi sussistente il reato di furto. Si tratta di un reato di danno, di mera condotta e a forma libera che ha natura istantanea, infatti, si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica l’appropriazione del denaro o della cosa mobile. Il peculato, inoltre, costituisce un reato proprio plurioffensivo, in quanto tutela non soltanto il regolare
diritto e diritti funzionamento ed il prestigio della Pubblica Amministrazione, ma anche gli interessi patrimoniali della stessa. Secondo la Cassazione, l’art.314 c.p. oltre a tutelare il patrimonio della P.A. tende ad assicurare altresì il corretto andamento degli uffici della stessa Pubblica Amministrazione, basato su un rapporto di fiducia e di lealtà col personale dipendente: la natura plurioffensiva del reato di peculato implica che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente alla appropriazione non esclude la sussistenza del reato, considerando che rimane pur sempre leso dalla condotta dell’agente l’altro interesse, diverso da quello patrimoniale, protetto dall’art.314 c.p., cioè quello del buon andamento della P.A. (tra le altre Cass. pen., sez. VI, 4 ottobre 2004, n.2963). Quanto al profilo soggettivo, il reato è punito a titolo di dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di far proprie somme di denaro o cose di cui il pubblico ufficiale abbia il possesso per ragioni del suo ufficio, a nulla rilevando la dichiarata intenzione di restituirle.
Nessuna efficacia scriminante è peraltro riconosciuta all’errore del pubblico ufficiale in merito alle proprie facoltà di disposizione del denaro pubblico, in quanto pur essendo la destinazione delle somme determinata da una norma di diritto amministrativo, tale norma deve intendersi richiamata da quella penale, di cui ne integra il contenuto. Il peculato d’uso si differenzia per la temporaneità dell’appropriazione (la condotta, dell’agente, non implica l’irreversibilità dell’appropriazione stessa) e nella restituzione immediata della cosa oggetto della condotta. Il Testo Unico Sicurezza, accanto alle norme generali di tutela che si applicano in via ordinaria in ogni luogo di lavoro, prevede disposizioni specifiche quando l’attività lavorativa è svolta con l’ausilio di attrezzature munite di videoterminali (l’attrezzature più comune e ricorrente è il computer). La variabile fondamentale è l’intensità di utilizzo dei videoterminali: l’applicazione delle norme specifiche, infatti, riguarda i lavoratori che utilizzano un’attrezzatura munita di
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videoterminali, in modo sistematico o abituale, per 20 ore settimanali nette (cioè dedotte le interruzioni previste e di cui si dice appresso). Questo limite è calcolato al netto delle pause cui ha diritto il lavoratore: quest’ultimo, infatti, ha titolo a un’interruzione dell’attività mediante pause ovvero cambiamento di attività. Le modalità delle predette interruzioni, in mancanza di un disposizione contrattuale specifica, danno diritto al lavoratore ad una pausa di 15 minuti ogni 120 minuti di applicazione continuativa al videoterminale. Tuttavia, è esclusa la cumulabilità delle interruzioni all’inizio e al termine dell’orario di lavoro. La pausa è considerata a tutti gli effetti parte integrante dell’orario di lavoro e, come tale, non è riassorbibile all’interno di accordi che prevedono la riduzione dell’orario complessivo di lavoro. In generale, qualora i lavoratori svolgono la propria attività per almeno quattro ore consecutive, a questi spetta di diritto una interruzione che può essere esplicata tramite pause o mediante cambiamento di attività. H
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a cura di Ciro Borrelli Referente Sappe per la Formazione e Scuole Giustizia Minorile borrelli@sappe.it
Nelle foto la targa e l’ingresso del Dipartimento per la Giustizia Minorile a Roma
Polizia Penitenziaria n.209 settembre 2013
giustizia minorile
A breve anche nei penitenziari minorili arriveranno i Commissari n questo articolo parleremo della oramai concreta possibilità dell’inserimento dei Commissari del Corpo di Polizia Penitenziaria nel settore minorile.
I
E’ doveroso a questo proposito ricordare che il Decreto Legislativo 21 maggio 2000, n. 146 riguardante l’ istituzione dei ruoli direttivi ordinario e speciale del Corpo di Polizia Penitenziaria - a norma dell’articolo 12 della legge 28 luglio 1999, n. 266 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 132 dell’ 8 giugno 2000(Rettifica G.U. n. 183 del
7 agosto 2000) - è arrivato a circa dieci anni dopo l’istituzione del Corpo, determinando una serie di difficoltà, forse dovute anche al blocco delle assunzioni. A parere di alcuni sembrerebbe che il numero dei Commissari non è stato mai sufficiente a coprire tutte le sedi e i servizi dell’Amministrazione Penitenziaria. Tuttavia, è noto a tutti come il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria appartenente ai ruoli direttivi non ha avuto fino ad oggi alcuna possibilità concreta di transitare dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria alle dipendenze del Dipartimento per la Giustizia Minorile. Secondo alcuni l’inserimento di Funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria in ambito minorile risulterebbe uno spreco di risorse, se si considera che la maggior parte dei direttori degli Istituti Penali per Minori provengono dall’area pedagogico-trattamentale, ovvero sono ex educatori.
In ogni caso si rammenta che il DGM è stato istituito nel 2000 ed è l’evoluzione dell’ex Ufficio Centrale Giustizia Minorile del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Attualmente dipendono dal Dipartimento Giustizia Minorile circa novecento unità appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria (ad esclusione dei Commissari perché non ancora esistenti a quel tempo), assegnate in pianta organica alla Giustizia Minorile con D.P.C.M. 08 febbraio 2001. Di questi, circa cinquanta sono in servizio presso la sede centrale di Roma e sono preposti alla sicurezza della struttura centrale e alla tutela del Capo Dipartimento, Presidente Caterina Chinnici. Il Dipartimento per la giustizia minorile, costituito da una articolazione amministrativa centrale e territoriale, provvede ad assicurare l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile, garantendo la certezza della pena, la tutela dei diritti soggettivi, la
13 promozione dei processi evolutivi adolescenziali in atto e perseguendo la finalità del reinserimento sociale e lavorativo dei minori entrati nel circuito penale. Si occupa della tutela dei diritti dei minori e dei giovani-adulti, dai 14 ai 21 anni, sottoposti a misure penali, mediante interventi di tipo preventivo, educativo e di reinserimento sociale. Altra finalità è quella di attivare programmi educativi, di studio e di formazione-lavoro, di tempo libero e di animazione, per assicurare una effettiva integrazione di detti minori e giovani-adulti con la comunità esterna. L’istruzione, insieme alla formazione professionale e il lavoro, è uno degli strumenti principali del trattamento sia per il valore intrinseco e sia in quanto mezzo di espressione e realizzazione delle singole capacità e potenzialità. Ritornando di nuovo sull’argomento, si fa presente che il 31 luglio 2013 presso il Dipartimento Giustizia Minorile di Roma si è svolta una riunione avente oggetto tra l’altro proprio l’inserimento dei Commissari nei servizi minorili. A conferma della fondatezza delle informazioni, il Dipartimento del’Amministrazione Penitenziaria dopo alcuni giorni ha emanato un interpello nazionale per la mobilità del ruolo direttivo del Corpo di Polizia Penitenziaria, prevedendo la scelta di tre sedi operative comprensive di tutte le sedi di Istituto Penale Minorile presenti sul territorio nazionale. A questo punto il processo di inserimento dei Commissari del Corpo di Polizia Penitenziaria nella Giustizia Minorile sembra essere stato riconosciuto anche ad un livello abbastanza avanzato. Tuttavia da fonti interne al Ministero della Giustizia, risulta che dal Dipartimento Giustizia Minorile sia partita una richiesta di revisione dell’interpello per individuare criteri e titoli che i Commissari devono avere per il passaggio al settore minorile. H
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mafie e dintorni
Prima e seconda Guerra di Mafia a Reggio Calabria - 5ª parte Franco Denisi Segretario Provinciale del Sappe denisi@sappe.it
Nelle foto i boss Paolo De Stefano e Antonio Macrì
Polizia Penitenziaria n.209 settembre 2013
L
a storia della ‘ndrangata è ricca di faide e conflitti tra famiglie che contano migliaia di morti. L’esempio eclatante è la prima guerra di ‘ndrangata scoppiata a metà degli anni settanta con l’arrivo del danaro della Cassa del Mezzogiorno destinato alla realizzazione del centro siderurgico di Gioia Tauro, della Liquichimica di Saline Ioniche, del lungomare di Reggio Calabria e del raddoppio della linea ferroviaria fra Lazzaro e Reggio Calabria, la gestione ed il controllo degli appalti e subappalti, la gestione dei nuovi profitti legati al narcotraffico. Fu quest’ultimo a scatenare un conflitto generazionale tra i boss della vecchia guardia e intraprendenti trentenni guidati dai De Stefano, boss emergente nel rione Archi di Reggio Calabria. La resa dei conti tra la vecchia e la nuova ‘ndrangheta arrivò il 5 agosto 1993 alle porte di San Martino di Taurianova, quando venne ucciso l’ultimo patriarca della ‘ndrangata agropastorale Peppe Zappia il boss che a Montalto in una riunione aveva invocato l’unità delle ‘ndrine. Macrì il boss dei boss, di lui i giudici della Corte d’Assise di Locri in una
sentenza contro 41 imputati di Siderno (RC) scrivono “.. mentre altrove le controversie agrarie si discutono davanti al tribunale, in Siderno e Locri si ricorre all’occulata potenza di Macrì per imporre la volontà dei padroni a contadini mezzadri.” , indicato da un collaboratore di giustizia come “il capo dei capi” colui che aveva conosciuto Totò Riina e Bernardo Provenzano, colui che aveva saputo sfruttare il contrabbando di sigarette, vero affare delle cosche degli anni Cinquanta. Oltre al contrabbando di sigarette nell’obiettivo della ‘ndrangata in quegli anni entrò anche la distribuzione clientelare degli appalti pubblici che andò ad affiancarsi al “pizzo”, al controllo del marcato del lavoro ed al cosiddetto caporalato. Nacquero così le prime imprese edilizie gestite dalla ‘ndrangata, grazie soprattutto ai proventi ricavati dal traffico delle sigarette, dei sequestri di persona, quasi subito sostituiti con il traffico di droga. L’iniziativa è appoggiata dal boss di Gioia Tauro Mommo Piromalli, subito affiancato dall’ ambizioso boss di archi (RC) Paolo De Stefano, dai Mammoliti di Castellace, dagli Strangio di San Luca, dai Barbaro di
Platì, e gli Ietto di Natile di Careri. Arriviamo al 20 gennaio 1975 quando in un agguato venne eliminato il boss dei boss Antonio Macrì. Sul luogo del delitto furono trovati 32 bossoli; quattro le armi da cui secondo i periti partirono i colpi. Un anno dopo, esattamente nel dicembre del 1976 un testimone ferito anch’esso nell’ agguato riferisce al Giudice istruttore che a sparare furono due persone a volto coperto, una delle quali diede il colpo di grazia al Macrì con altri due colpi di mitra al petto e alla testa. La stessa sorte venne riservata ad un altro boss della ‘ndrangheta agropastorale di nome Domenico Tripodo, ucciso il 26 agosto del 1976 nell’infermeria del carcere di Poggioreale. Sorpreso durante il sonno, venne accoltellato nella cella da due sicari, ma il Tripodo se pur ferito ebbe la forza di alzarsi dal proprio letto e chiudere la cella intrappolando cosi i suoi assassini. La morte di Tripodo fu attribuita da un pentito di ‘ndrangata a due uomini del boss Raffaele Cutolo, un uomo di Ottaviano (NA) detenuto presso il carcere di Poggioreale. La morte dei due boss segna la vittoria del nuovo gruppo emergente guidato dalla famiglia De Stefano. La goccia che farà traboccare il vaso causando l’inizio della grande faida sarà l’uccisione di Giovanni De Stefano, venne trucidato a colpi di pistola all’interno di uno dei locali più famosi di Reggio Calabria il Bar “Roof Garden” dove rimase ferito anche il fratello Giorgio De Stefano successivamente ucciso in località Acqua del Gallo (una località sita nel comune di Sant’Stefano in Aspromonte). Venne ammazzato il 7 novembre del 1977, mentre in sordina rientrava da una riunione alla quale parteciparono i principali
mafie e dintorni esponenti delle consorterie mafiose della zona per raggiungere un accordo per limitare i sequestri di persona, gli omicidi, gli attentati dinamitardi, in modo tale che lo stato allentasse la presenza delle Forze dell’Ordine nel territorio aspromontano. Nel solo 1975 la città di Reggio Calabria contò più di 93 morti con un aumento a 101 nell’anno successivo. La morte di Giorgio De Stefano fu messa a tacere per volontà della stessa famiglia fino alla metà degli anni ottanta quando all’interno dell’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria fu ucciso don Ciccio Serraino conosciuto come “boss della montagna” alleato con la famiglia dei Piromalli e dei Mammoliti. Se la prima guerra di mafia fu uno scontro tra famiglie del Reggino la seconda, che scoppiò nell’ottobre del 1985 con l’autobomba fatta esplodere a Villa San Giovanni destinata ad eliminare Antonino Imerti ex braccio destro di Paolo De Stefano,fu un eccidio. Si contarono più di settecento morti. Fallito l’attentato, Imerti reagì e due giorni dopo fece uccidere il boss di Archi. Con la morte di De Stefano nella ‘ndrangata reggina si creò un grossa frattura con la relativa divisione delle famiglie: con i De Stefano rimasero i Libri, i Tegano, i Latella, i Barreca, i Paviglianiti, e gli Zito. Con la famiglia Imerti rimasero i Condello, i Saraceno, i Fontana, i Serraino, i Rosmini e i Lo Giudice. In quegli anni di piombo lo Stato, che aveva sottovalutato la ‘ndrangata non potè fare altro che contare i morti per le vie di Reggio Calabria dove il profumo di zagara e di bergamotto veniva offuscato dalla puzza della polvere da sparo. Le vittime di eccellenza di quegli anni furono l’Onorevole Ludovico Ligato ex presidente delle Ferrovie dello Stato ucciso presso la sua villa di Bocale (RC) il 27 agosto 1989. Le lancette dell’orologio hanno da poco superato l’una di notte, quando tre persone si avvicinano ridendo amabilmente al cancello d’uscita di una villetta estiva a Bocale, zona balneare a sud di Reggio Calabria.
15 Nelle foto Lodovico Ligato e Antonio Scopelliti
Uno dei tre è Lodovico Ligato che in quel periodo è sicuramente il politico reggino più noto. Da buon padrone di casa, Ligato accompagna due amici, ospiti a cena in quella sera di fine estate. Come spesso accade, i metri che separano dall’uscita sono l’occasione per le ultime chiacchiere e degli ultimi sorrisi. Dopo i saluti, però, i due ospiti non fanno neanche in tempo a scomparire nel buio nella notte che dalla stessa oscurità fuoriescono le sagome di due uomini. Due uomini armati. Ligato è un facile bersaglio e viene investito da una raffica di colpi, da cui cerca invano di salvarsi, ritornando verso casa. La sua corsa si ferma sul pianerottolo dove si accascia privo di vita, in un lago di sangue. Così viene trucidato, sull’ingresso della propria residenza estiva, il politico più in vista della città, con un passato da Presidente delle Ferrovie dello Stato e da deputato della Democrazia Cristiana. Al termine dei rilievi, saranno trentacinque i proiettili, provenienti da tre diverse armi, che gli investigatori, accorsi in massa nei minuti successivi al delitto, riusciranno a repertare. Ben ventisei colpi raggiungeranno la vittima. Una pioggia di piombo per eliminare Ligato: “Un impressionante volume di fuoco impiegato, assolutamente spropositato per l’omicidio di una sola persona, ad eloquente riprova della perentoria spietatezza dell’esecuzione” scriveranno i giudici. E l’integerrimo magistrato che in
cassazione avrebbe dovuto rappresentare l’accusa al maxi processo istruito dal Pool antimafia di Palermo contro le famiglie di Cosa Nostra il Dott. Antonio Scopelliti sostituto procuratore presso la Procura Generale della Corte di Cassazione.
Lo stesso fu ucciso il 9 agosto 1991 questo omicidio è stato un collante tra la ‘ndrangata calabrese e la mafia siciliane tant’è che quest’ultima dopo la strage di Capaci e l’omicidio del giudice Scopelliti cercò di convincere la ‘ndrangata calabrese a seguirla nello scontro frontale con lo Stato. Tale invito però fu respinto dalla ‘ndrangata nel 1992. Subito dopo le morti eccellenti e senza vinti né vincitori, con una volontà unanime, si strinse in un patto di non belligeranza mettendo così da parte le armi e dedicandosi ai grandi traffici di droga dividendo i guadagni. La ‘ndrangata scelse così di agire di nuovo sotto traccia, imboccando la via che illo tempore le aveva permesso di esercitare un pesante controllo del territorio senza che il suo potere fosse a tutti evidente. H continua...
Nella foto sopra La scena dell’attentato di Capaci
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dalle segreterie Ferrara
rivista@sappe.it
I bambini alla scoperta della Polizia Penitenziaria
domande riguardo il lavoro del poliziotto penitenziario, le funzioni, i servizi e le specialità del Corpo, stabilendo con i piccoli un forte senso di legalità.
L’iniziativa, che ha riscosso un grande interesse, prevede altri incontri con le Forze di Polizia che operano sul territorio. H La segreteria Provinciale di Ferrara
Capo di Polizia Penitenziaria, Walter Pozzato, deceduto prematuramente. Giovane appartenente alla Polizia Penitenziaria, che nei suoi brevi 40 anni si è distinto nel suo compito istituzionale per la sua umanità; colpì molto il gesto di solidarietà effettuato dalla popolazione detenuta di Santa Maria Maggiore, che volle devolvere alla famiglia una piccola somma, gesto che va oltre le sbarre. Un quadrangolare di calcetto per ricordare la sua passione per il calcio, dopo il ricordo di rito da parte delle autorità presenti, prendeva il via l'evento calcistico, che vedeva ancora una volta protagonista la squadra veneziana "Vecchie Ossa Calcio Venexia", realtà calcistica nata per volontà di un gruppo di amici provenienti dalle formazioni giovanili veneziane degli anni 80/90. Tutti i partecipanti hanno fatto di tutto per portare al massimo livello
l'agonismo sportivo, alla fine della sfida calcistica il trofeo veniva assegnato alle Vecchie Ossa. Il Team della Polizia Penitenziaria di Venezia si aggiudicava il terzo posto (2° classificati Anta Club, 4° posto assegnato alla squadra locale gli Acqua Corrente ). L'Assessore allo Sport della Provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, offriva le targhe commemorative, il trofeo del torneo veniva offerto dall'Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria per ricordare il caro collega scomparso. Una targa dell'Assessorato allo sport della Provincia di Venezia veniva donata alla famiglia dello sfortunato Assistente da parte della locale sezione dell'Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria, la targa veniva consegnata dal locale Comandante di Reparto. H Filomeno Porcelluzzi - Venezia
ncora un'altra iniziativa del Comando di Polizia Penitenziaria di Ferrara. Infatti il 24 agosto, raccogliendo l’invito di un gruppo di bambini di Vigarano Pieve, il vice Comandante Comm. Conti e L'ispettore Renda hanno risposto alle numerose
A
Nelle foto alcuni momenti dell’incontro con i bambini ferraresi
Venezia 1° Memorial calcio a 5 “Walter Pozzato”
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uattro le gare in programma sul campo di calcetto di Crea Polizia Penitenziaria (Spinea ) nel 1° Memorial n.209 dedicato alla memoria dell'Assistente settembre 2013
dalle segreterie Venezia
Avellino
E...sport...iamo Sergio Fattorello solidarietà e fairplay conquista la categoria Eccellenza nel tiro n evento dove lo sport, non
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solo il calcio, ha cercato di aiutare chi ne ha bisogno, chi il calcio lo gioca con una gamba sola e corre con una stampella. La segreteria provinciale veneziana del Sappe, con i responsabili Michele Di Noia e Filomeno Porcelluzzi, si è fatta coinvolgere per raccogliere indumenti da calcio, usati e nuovi, e fondi per la Sierra Leone da devolvere all'Associazione Maniverso che lavora con i suoi volontari in Africa. Il Sappe di Venezia, insieme al team sportivo "Vecchie Ossa Venexia", raccoglieva e consegnava il 3 settembre scorso il materiale calcistico pervenuto. L'associazione promotrice, ha portato a destinazione tutto il materiale e ci ha fatto pervenire questa foto con la quale intende ringraziare tutti coloro che hanno collaborato all'iniziativa. H Filomeno Porcelluzzi
agente scelto Sergio Fattorello, atleta del gruppo sportivo Fiamme Azzurre della Polizia Penitenziaria, conquista la categoria di eccellenza del tiro al volo italiano nella disciplina olimpica del Trap. Sui campi della società di tiro al volo “Belvedere” di Uboldo, nella provincia di Varese, si è svolta la gara finale del campionato FITAV di Prima Categoria valevole per il passaggio alla categoria superiore di Eccellenza, la serie “A” del tiro al volo italiano. Centocinquanta tra i migliori tiratori italiani finalisti del campionato di Prima Categoria si sono cimentati in questa difficile disciplina della Fossa Olimpica portando a termine la gara finale disputata su cinque serie di 25 bersagli ognuna per un totale di 125 piattelli. L’atleta avellinese giunto in finale con un percorso esemplare nel campionato FITAV con diverse gare svolte in giro per l’Italia, ha effettuato un ottimo risultato tecnico di 116/25 con una sequenza di centri di tutto rispetto: 25/25 – 23/25 – 23/25 – 23/25 – 23/25 nella gara finale che gli hanno consentito di qualificarsi
L’
Milano Bollate Il nostro saluto per la prematura scomparsa di Francesco Di Monaco un giovane agente in servizio a Milano Bollate, figlio di un collega che presta servizio a S. Maria C.V. Ciao Francesco ...nessuno avrebbe immaginato che saresti volato via così prematuramente. La notizia ha profondamente colpito tutti noi, orgogliosi di aver potuto avere tra le nostre fila un amico, un collega così sincero e professionale. Francesco, impotenti a quanto accaduto, non ci resta che salutarti con queste poche righe, ma tu sai già che racchiudono tutto l’affetto e la stima che avevamo per TE. Siamo vicini alla tua famiglia, alla quale vogliamo far giungere il nostro Sentito Cordoglio. Francesco AMICO caro, Riposa in pace. La segreteria Sappe di Bollate
per l’ambita categoria. Il giovane Sergio Fattorello dopo un percorso sportivo nel tiro al volo nazionale pieno di ottimi risultati e pluricampione italiano nelle diverse categorie, conquista la massima categoria del tiro al volo quale quello di eccellenza. L’atleta delle Fiamme Azzurre entra a far parte di quella top ten dei migliori tiratori italiani di fossa Olimpica, di interesse nazionale, come altri
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rivista@sappe.it
atleti della sezione tiro al volo delle Fiamme Azzurre che annovera tra le proprie fila grandi campioni della disciplina tra cui basta citare per tutti il campione dei campioni, il plurimedagliato olimpico, numero uno del tiro al volo italiano Johnny Pellielo. Il gruppo sportivo Fiamme Azzurre del tiro al volo nel tempo ha vinto tutto quello che c’era da vincere sotto la guida tecnica del mister Pietro Aloi Ispettore Superiore del Corpo della Polizia Penitenziaria e dell’insuperabile Commissario Capo Marcello Tolu. H
Alessandria Un grave lutto ha colpito il personale di Polizia Penitenziaria degli Istituti Alessandrini, il 12 settembre 2013 ci ha lasciato il Sovrintendente Roberto Cabella di 49 anni vittima di un incidente stradale in moto a Dego (SV), la segreteria e tutti i colleghi ancora increduli dell'accaduto si stringono alla famiglia, a cui va tutto il nostro cordoglio. Roberto... Con il sorriso ci hai dato forza per tutti questi anni e siamo sicuri che con un sorriso vorrai essere ricordato ...Ciao Kubo!
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cinema dietro le sbarre
The Hurricane a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it
Nelle foto la locandina e alcune scene del film
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ubin Carter detto Hurricane è un pugile di colore di belle speranze che si sta preparando a disputare il match valido per il titolo statunitense dei pesi medi. Disgraziatamente, rimane coinvolto in una rissa da bar nella quale rimangono uccise tre persone e viene arrestato con l’accusa di omicidio. Al termine di un processo poco più che sommario una giuria composta da soli bianchi ritiene Carter ed un suo amico colpevoli di omicidio e li condanna all’ergastolo. Travolto dalla vicenda e pressoché impotente a reagire Carter, in carcere, decide di scrivere un libro nel quale raccontare la sua storia disgraziata. Ironia della sorte nel 1974, in
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concomitanza con l’uscita del libro, due testimoni del processo contro di lui, ritrattano le accuse formulate in tribunale. Qualche anno dopo, un ragazzo canadese di nome Lesra Martin legge il libro di Carter e rimane profondamente colpito dalla sua storia convincendosi della sua innocenza.
Il ragazzo decide, così, di promuovere una grande battaglia civile a favore della scarcerazione del pugile di colore, coinvolgendo numerose persone a partecipare. Lo stesso Carter, pur se all’inizio molto scettico, finisce per collaborare nella lotta civile, conquistato dalla
passione e dal fervore del ragazzo. Finalmente, nel 1985, un Giudice annulla i verdetti di colpevolezza contro Carter per “gravi violazioni costituzionali”. Occorre, tuttavia, attendere altri tre anni di appelli prima che - nel 1988 un nuovo procedimento porti al proscioglimento di Hurricane a ventidue anni di distanza dalla prima condanna, interamente vissuti dentro un penitenziario. H
la scheda del film Regia: Norman Jewison Tratto dai romanzi "The 16th Round" di Rubin "Hurricane" Carter e "Lazarus and the Hurricane" di San Chaiton e Terry Swinton Soggetto: Sam Chaiton, Terry Swinton, Rubin "Hurricane" Carter Sceneggiatura: Dan Gordon, Armyan Bernstein Fotografia: Roger Deakins Musiche: Christopher Young, Ray Charles, Common, Bob Dylan, Gil Scott-Heron Montaggio: Stephen E. Rivkin Scenografia: Philip Rosenberg Costumi: Aggie Guerard Rodgers Effetti: Global Effects Inc., Jason Board, Kaz Kobielski, Dean Stewart Produzione: Azoff Entertainment, Beacon Communications LLC, Universal Pictures Distribuzione: Buenavista International Italia (2000), Beacon Pictures - DVD: Buenavista Home Entertainment Personaggi ed Interpreti: Rubin Carter: Denzel Washington Lesra Martin: Vicellous R. Shannon Lisa Peters: Deborah Kara Unger Liev Schreiber Sam Chaiton Terry Swinton: John Hannah Detective Della Pesca: Dan Hedaya Mae Thelma: Debbi Morgan Mobutu: Badja Djola Alfred Bello, Testimone Spergiuro: Vincent Pastore John Artis: Garland Whitt Giudice Sarokin: Rod Steiger Leon Friedman: Harris Yulin Myron Beldock: David Paymer Tenente Jimmy Williams: Clancy Brown Genere: Drammatico Durata: 145 minuti Origine: USA, 1999
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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it
Nelle foto sopra Angela Nichel durante il processo a destra l’arma del delitto
Polizia Penitenziaria n.209 settembre 2013
crimini e criminali
Donne che uccidono per difendersi o già avuto modo di parlare in questa rubrica del dramma che vivono tante donne nel subire violenze di ogni genere dai propri partners, siano essi mariti, conviventi o amanti, ma sono rimasto particolarmente colpito dalle vicende di tre donne, diverse tra loro, ma con un comune denominatore: hanno ucciso i loro ex-mariti violenti e sono state assolte dalle originarie accuse di omicidio.
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paura o per timore di non poter sostenere economicamente i propri figli, così diventa una catena che costringe la donna a rimanere nella violenza e, soltanto quando sono i figli stessi ad interporsi tra la madre e il violento nel tentativo di difenderla o quando vengono direttamente coinvolti nelle azioni violente, trovano la motivazione e il coraggio di rischiare e quindi fuggire. Per stalking, invece, si è soliti
Sentenze senz’altro coraggiose e importanti che aprono scenari nuovi nel contesto della legittima difesa e dell’imputabilità, ma che non trovano la piena condivisione di una parte dell’opinione pubblica. Tutti e tre i casi hanno visto consumarsi le violenze dapprima all’interno delle mura domestiche e, successivamente quando le donne, due su tre, hanno deciso di abbandonare il partner, con persecuzioni e vessazioni nel luogo dove si erano rifugiate (stalking). Per violenza domestica si intende comunemente quella che si compie all’interno del rapporto di coppia e che ha come caratteristica prevalente la violenza verbale e psicologica, accompagnata quasi sempre da percosse, minacce e imposizione del rapporto sessuale. Tale fenomeno è spesso sottaciuto perché le vittime sopportano e non denunciano per
qualificare comportamenti reiterati di tipo persecutorio, realizzati dal soggetto persecutore nei confronti della sua vittima: si tratta di un insieme di condotte vessatorie, sotto forma di minaccia, molestia, atti lesivi continuati, tali da indurre nella persona che le subisce un disagio psichico e fisico e un ragionevole senso di timore. In genere si parla anche di «sindrome del molestatore assillante», sottolineandone quale aspetto caratterizzante la relazione «forzata» e «controllante» che si stabilisce tra persecutore e vittima; relazione, quest’ultima, che finisce per condizionare il normale svolgimento della vita quotidiana della vittima, ingenerando nella stessa continui stati di ansia e paura. Il primo caso dei tre è quello di Angela Nichele, che nella notte tra il 13 e il 14 marzo del 2008, nella casa di campagna della famiglia a Rossano
Veneto (Vicenza), uccide il proprio marito: Matteo Zanetti. Nel tardo pomeriggio del 13 il marito, commerciante ambulante di ortofrutta, rincasa dal lavoro e litiga per l’ennesima volta con la moglie. L’uomo, poco dopo, esce da casa e va al bar per rientrare nella tarda serata ubriaco. Scoppia un nuovo e violento litigio con la moglie, concluso solo prima di mezzanotte, quando và a dormire. La donna, stanca di questa situazione, si reca nella legnaia, prende una mannaia, risale in camera e sferra tre colpi alla testa dell’uomo mentre è steso a letto. Quindi, avvisa i quattro figli dell’accaduto, due dei quali si recano di persona a chiamare i carabinieri della stazione di Rosà. Quando i carabinieri arrivano nella casa, la donna immediatamente confessa, raccontando che il marito la costringeva a una vita infernale: a provocare la tragedia non sarebbe stata infatti solo l’esasperazione della donna per la dipendenza dall’alcol del marito. Dopo le prime indagini, emerge il quadro di un rapporto familiare particolarmente teso: lui si ubriacava, la picchiava e maltrattava anche i figli. La donna viene arrestata e accusata di omicidio volontario aggravato e condotta in carcere fino a quando non le sono concessi i domiciliari in casa dei genitori, a Santa Croce Bigolina. Al termine del processo, condotto col rito abbreviato, il primo colpo di scena: il Pm chiede l’assoluzione della donna, ritenendola non imputabile, perché incapace di intendere e di volere al momento dell’omicidio. Il tribunale di Bassano del Grappa (Vicenza) va ben oltre e scavalca l’accusa sulla strada della clemenza: assolve addirittura Angela Nichele perché il fatto non costituisce reato.
crimini e criminali Luciana Cristallo, invece, nel febbraio del 2004 ammazza il suo ex-marito Domenico Bruno, imprenditore 45enne - sposato vent’anni prima e con il quale aveva avuto quattro figli - con 12 coltellate. Dopo anni di violenze, nel 2001 decide di lasciarlo e, successivamente, nel 2002, inizia una nuova relazione con un altro uomo, il commercialista romano Fabrizio Rubini. La donna, nel pomeriggio del 27 febbraio 2004, aprendo la porta della sua casa romana trova il suo ex marito, ma non è entusiasta di vederlo. Da mesi, sosterrà durante il processo, le sta rendendo la vita impossibile, tra botte, pedinamenti, minacce e richieste insistenti di ritornare insieme; ha pure tentato di
soffocarla, tanto da farla ricoverare per «schiacciamento delle vertebre cervicali anteriori». Luciana lo fa entrare ed ascolta la richiesta di questi: vuole che lei ritiri l’ultima denuncia per lesioni e percosse. Già in passato la donna alla fine si è tirata indietro, questa volta non vuole farlo. Inizia l’ennesima discussione; parole grosse, insulti e poi le mani. La Cristallo afferra un coltello e colpisce l’ex-marito che la stava strozzando durante l’ennesima aggressione. Alla fine il corpo di Domenico Bruno
giace a terra con 12 coltellate su tutto il corpo; non sapendo cosa fare, la donna chiama l’attuale compagno Fabrizio Rubini. Il suo cadavere sarà ritrovato solo un mese dopo, su una spiaggia di Ostia, dove il mare restituì il suo corpo trafitto dalle numerose coltellate. La corte di Assise di Roma ha assolto nell’ottobre dello scorso anno Luciana Cristallo e l’amante Fabrizio Rubini, che rispondevano delle accuse di concorso in omicidio volontario premeditato e occultamento di cadavere, reato, quest’ultimo caduto in prescrizione. Secondo i magistrati, l’imputata, il 27 febbraio del 2004, assassinò il marito al culmine di un litigio scoppiato dopo una serie di atti persecutori messi in atto dall’uomo e lo colpì per difendersi legittimamente. «I giudici hanno dato un peso non fondamentale all’attività di stalking dell’uomo. Si sono concentrati sull’aggressione di quella sera, stabilendo che la difesa della donna (l’accoltellamento) fu proporzionata all’offesa (il tentativo di strangolamento)». Philomene Cambarau, dopo una vita di percosse e violenza rivolte non solo contro di lei, ma anche contro i figli, matura l’idea di uccidere il marito, Vito Paladino. Il 16 maggio del 2008, ad Alpignano nel torinese, la Cambarau uccide il marito con sei colpi di pistola perché, le persecuzioni a cui lui l’aveva sottoposta, l’avevano distrutta psicologicamente tanto da farle perdere la ragione e portarla a uccidere chi la faceva vivere nel terrore, come si legge nella motivazione della sentenza di assoluzione dei giudici della Corte di Assise d’appello di Torino. Per i giudici la donna «non è imputabile perché incapace di intendere e di volere al momento del fatto». In primo grado le erano stati inflitti 14 anni di carcere. Il 13 settembre scorso la Cassazione ha confermato la sentenza di appello restituendogli definitivamente la libertà. Tre storie diverse, accomunate dalle violenze subite per anni e
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dall’esasperazione, culminate in un tragico epilogo: la morte dell’uomo che per anni era stato al loro fianco e padre dei loro figli. Purtroppo, la violenza domestica non è facilmente individuabile in quanto chi la compie cerca di tenerla celata all’esterno e mantiene, con la cerchia degli amici, un comportamento irreprensibile o, comunque, normale per cui non è raro che la donna sia presa per visionaria e, molto spesso, la sua reazione sarà valutata come sproporzionata o esagerata. Anche quando trova la forza di separarsi la donna viene messa in difficoltà dall’uomo che, pur di non perdere il potere su di lei, fa di tutto per renderle la vita difficile, anche con cavilli burocratici che altro scopo non
hanno che continuare ad esercitare il proprio dominio. Nell’ambito familiare la violenza psichica non patologica è originata sovente da un reflusso di tensione o insoddisfazione dei coniugi, ma caratterizzata da una situazione di parità dialettica e di violenza tra i partners con insulti reciproci e lancio di oggetti; invece, nei casi patologici, può essere caratterizzata da una sottile e perversa violenza, per lo più psichica, attuata generalmente dall’uomo, la cui patologia, per le peculiarità del manifestarsi della stessa, non è ravvisabile dall’esterno e non è individuabile nella gran parte dei casi, neanche dalla vittima che spesso solo dopo diversi anni si rende conto che «qualcosa non va» (Violenza in famiglia e disturbi psichici, ed. Giuffrè editore, di D. Chindemi e V. Cardile). Alla prossima... H
Nelle foto sopra Philomene Cambarau a sinistra Luciana Cristallo sotto il ritrovamento del corpo di Domenico Bruno sulla spiaggia di Ostia
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22 di Lara Liotta rivista@sappe.it
Nelle foto sopra l’Assistente Capo Carlo Savini sotto il “Palazzaccio” di Roma sede della Suprema Corte di Cassazione
Polizia Penitenziaria n.209 settembre 2013
storie di polizia penitenziaria
Quando l’eroe veste la divisa della Polizia Penitenziaria
ulla in quella mattina dell’undici dicembre faceva presagire qualcosa di insolito rispetto a qualsiasi altra giornata lavorativa. In Cassazione, al nucleo varchi in cui opera un presidio fisso di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, il servizio era iniziato come sempre alle sette in punto. I primi ingressi, i primi controlli ed il tempo che era scivolato via fino alle nove e mezza circa, il momento in cui si concentra l’affluenza per le udienze che di lì a poco iniziano a svolgersi. In quel momento di quel giorno, come ogni mattina, l’Assistente Capo Carlo Savini si trovava in servizio presso la Suprema Corte assieme ad altri colleghi. Trovandosi a passare in prossimità dell’Unicredit interna al palazzaccio ebbe però modo di accorgersi che qualcosa di diverso stava accadendo rispetto al solito: la sua attenzione cadde sul fumo copioso che fuoriusciva da un portaombrelli interno alla filiale.
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Da fumatore Savini pensò a qualcuno che, incautamente e frettolosamente, aveva nascosto il misfatto di aver fatto entrare una sigaretta in un luogo proibito gettando il mozzicone ancora acceso nel primo posto utile a nasconderlo; in ogni caso volle accertarsi come stavano davvero le cose ispezionando il portaombrelli. Guardandovi all’interno dovette constatare poco dopo che il contenuto era ben altro che una bionda gettata lì di corsa: il fumo proveniva infatti dallo stoppino di una bottiglia molotov che - si scoprì dopo- era stata confezionata con il 75% di alcol purissimo, di quello usato per preparare i liquori, insieme ad altri additivi idonei a farne un ordigno pronto ad esplodere in breve tempo. Nello stesso istante, accanto a quel pericolo incombente, transitava una donna incinta intenta a spingere un passeggino con dentro un bimbetto vispo. Tutto ciò non lasciò spazio a tanti pensieri o ad altre valutazioni: senza riflettere oltre l’Assistente Savini decise di prendere in mano la bottiglia e portarla verso i vicini locali del bagno per spegnerne la fiamma. In quel breve tragitto nessuna esitazione, solo l’idea fugace di rischiare di perdere per sempre l’uso
di quella mano con cui portava quell’oggetto lontano da tanta gente ...o forse peggio. Fortunatamente le cose sono andate diversamente ed il preciso disegno di sventare il pericolo gli riuscì con successo. Poco dopo Savini è stato ricevuto dall’allora Primo Presidente della Cassazione Ernesto Lupo raccogliendo i complimenti per il gesto eroico portato a termine ed il giorno successivo è stata la volta del Ministro della Giustizia Paola Severino, lieta di potersi congratulare con lui di persona. A distanza di mesi l’auspicio è che anche da parte dell’Amministrazione Penitenziaria arrivi il segno di un doveroso riconoscimento per quanto compiuto quel giorno tra le mura del palazzaccio. Carlo Savini, originario di Roma, sposato con due figli, è in Polizia Penitenziaria dal 1989: diciotto anni trascorsi tra la sezione del G8 di Rebibbia ed il nucleo, una lode in servizio, diverse specializzazioni conseguite e dal 2008 al nucleo varchi. Qualora gli fosse concesso l’avanzamento di grado per il quale è stato proposto, crediamo che non sarebbe certamente un qualcosa regalato o inopportuno. La definizione di eroe più comune descrive le caratteristiche di colui che antepone il bene collettivo al proprio, non preoccupandosi di qualsiasi altra conseguenza: quel giorno di dicembre in Cassazione, l’eroe in questione vestiva la divisa della Polizia Penitenziaria. H
lo sport
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Stefano Pressello ...Mondiale
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ennesimo successo internazionale di Stefano Pressello, Assistente Capo di Polizia Penitenziaria ed ex atleta della sezione judoistica delle Fiamme Azzurre è arrivato dal Brasile, da Sau Paulo, nel Campionato Mondiale di Brazilian Jiu-jitsu che dal 18 al 22 luglio è stato ospitato nella patria in cui la disciplina è nata e si è evoluta. Stefano, originario di Ostia Lido (RM) e atleta di punta delle discipline marziali del litorale laziale in cui tra l’altro opera in prima linea nell’insegnamento del judo nella sua scuola, della a.s.d. Mushin Club di Fiumicino, in Brasile ha conquistato sia l’oro assoluto, sia il bronzo di categoria dei 94.3 kg, mettendosi abilmente al collo due medaglie pesantissime che vanno ad aggiungersi ad un curriculum agonistico già ricco e di tutto rispetto. Basti pensare, a proposito di risultati, come queste due medaglie siano arrivate al termine di un periodo di impegni che temporalmente si è aperto con il bronzo al Mondiale master di judo vinto a Budapest nel 2010, e che è proseguito con l’oro conquistato agli European Games Master team nel 2011, e Argento negli individuali, per poi proseguire con la vittoria al Trofeo Internazionale di Vittorio Veneto nel febbraio 2013.
A questo si deve aggiungere il terzo posto a squadre nei Campionati Europei di judo di Parigi nel giugno 2013 ed il buon bronzo individuale nella categoria 90 kg alle recentissime Olimpiadi dei Master (World Games Master di Torino), tenutesi ad agosto. Per non lasciare nulla al caso e prepararsi al meglio, Stefano Pressello per l’evento di Sau Paulo si è trasferito in Brasile trenta giorni prima di scendere sul tatami, in direzione della prestigiosa accademia del Maestro Marco Antonio Barbosa, utile guida e preziosa fucina di insegnamenti nel brasilian jiu jitsu. Il Campionato Mondiale è stato organizzato nel Palasport Mauro
Pinheiro di Sau Paulo con 15 aree tatami ed un enorme palco per le finalissime mandate in diretta tv, riservando loro un’importanza da partita di calcio. Ad ogni primo classificato, trofeo e medaglia, ma ancor di più per Stefano, la soddisfazione di aver battuto in finale il rappresentante della nazionale peruviana e di aver relegato alla terza piazza entrambi gli atleti brasiliani, sconfitti in casa loro e costretti a cedere il passo all’atleta lidense che incornicia questa stagione con l’ennesima vittoria. Il prossimo appuntamento che lo vedrà impegnato sarà nel mese di novembre con il Campionato del Mondo di Judo della JIF in Abu Dhabi negli Emirati Arabi. H L. L. Nelle foto la locandina del Mondiale Stefano Pressello con il trofeo La coppa
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attualità
A Carcare (SV) un Convegno sulla funzione sociale dello sport
Nelle foto immagini dell’evento (foto di Bruno Oliveri)
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integrazione tra sport e territorio, lo sport utile strumento per combattere il disagio giovanile: questi i temi di un importante ed interessante Convegno che si è tenuto lo scorso 12 settembre a Carcare nell’ambito della quinta edizione del Torneo internazionale di pallavolo femminile che si è svolto
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nella cittadina della Valbormida dal 13 al 15 settembre. Il Convegno, fortemente voluto dalla società Pallavolo Carcare, si è tenuto nell’affollata Aula Magna del Liceo “Calasanzio”, istituzione che con il Comune di Carcare ha offerto una preziosa collaborazione per l’ottima riuscita dell’evento. Fare gli onori di casa è stato compito della Professoressa Paola Salmoiraghi, dirigente scolastico del Liceo Calasanzio, premiato per l’occasione con la medaglia inviata direttamente
dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e consegnata dalle mani del Prefetto di Savona, Gerardina Basilicata. Dopo gli indirizzi di saluto di Claudio Balestra, presidente della Pallavolo Carcare, di Franco Bologna, sindaco di Carcare, e Sara Foscolo, assessore allo Sport per la Provincia di Savona, ha preso la
parola il “nostro” Atleta del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre Marco Panizza, giovane emergente del Tiro a Volo, alessandrino, classe 1985, che vanta già un ricco palmares. Nel suo discorso, Marco ha tra l’altro sottolineato l’importanza del sacrificio nello sport, soprattutto nella capacità di saper trovare stimoli anche nelle sconfitte. Paola Salmoiraghi nel suo intervento ha sottolineato l’importanza del binomio scuola e sport mentre Vittorio Ottonello, presidente regionale ligure del Coni, ha puntato sull’educazione sportiva nei giovani tra i 6 e gli 11 anni. Matteo Rossi, assessore regionale allo sport, ha approfondito l’importanza educativa sociale ed economica dello sport mentre Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del SAPPE si è intrattenuto sulle interconnessioni tra sport e giustizia, in particolare - ma non solo - per quanto concerne i detenuti minorenni. Ha sottolineato l’importanza che può avere lo sport nella fase adolescenziale, perchè educa al rispetto delle regole e quindi ad uno stile di vita sano anche sotto il profilo comportamentale, ma anche
mondo penitenziario
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Vigilanza dinamica? No grazie, preferisco più personale... durante un percorso detentivo in carcere. Diventa importante trovare una alternativa ad una carcerazione che, allo stato attuale, senza l’obbligatorietà del lavoro, fa stare decine di migliaia di persone venti ore su ventiquattro sdraiati su una branda in cella per mesi o anni. Tenersi allora occupati durante il giorno, organizzarsi in maniera attiva la giornata anche con lo sport diventa un vero e proprio stile di vita, rigenerano le coscienze e gli stili di vita. Molto apprezzato anche l’intervento di Francesca Vitali, psicologa dello sport e docente di Scienze Motorie dell’Università degli Studi di Verona, che ha sottolineato come lo sport può essere un contesto educativo importante durante l’età evolutiva, che può dare un contributo significativo allo sviluppo psicofisico e indirizzare verso uno stile di vita sano e attivo. L’abbandono sportivo e la condizione di disagio che può precederlo (burnout) possono essere condizionati da combinazioni di fattori diversi, sia personali (percezione di competenza, stati emozionali) che situazionali (clima motivazionale generato dagli adulti) e vengono in genere collegati ai processi motivazionali, considerati il fattore determinante per un calo o la perdita di interesse nello sport. Ha quindi sottolineato come il fattore di contrasto più forte all’abbandono è un clima motivazionale orientato sul compito e sullo sviluppo di competenze, che viene creato da quegli allenatori che nei propri contesti sportivi valorizzano i progressi individuali, premiano soprattutto l’impegno dimostrato ed il fair-play, coinvolgono tutti e non solo i migliori, accettano gli errori come parte dell’apprendimento e stimolano la collaborazione fra compagni. H erremme
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rescere, vuol dire affrontare nuove strade, ma, allo stesso tempo, fermarsi a riflettere, e chiedersi, se quella, sia realmente la strada giusta. La vigilanza dinamica, arriva anche alla Casa Circondariale Femminile di Rebibbia! Come previsto, viene sperimentata all’interno di un Reparto, ove sono ristrette detenute con condanna definitiva. E purtroppo, ad oggi, dato l’inevitabile sovraffollamento, si può arrivare a sfiorare anche le 130 detenute. E’ inutile a dirsi, ma si può ben comprendere come l’elevato numero non consente di far lavorare tutte! Tale tipologia di servizio, prevede almeno tre unità, di cui una in qualità di Capoposto al piano terra e due unità dinamiche, quest’ultime vigilano su tre piani, ciascuno con una capienza tra le 30 e le 40 detenute. Per ottimizzare il servizio, al piano terra troviamo un microfono per le comunicazioni generali, come l’inizio delle attività quali scuola, passeggi, sartoria ecc., un citofono, molto simile ad un telefono posto all’ingresso di ciascun piano, il tutto per comunicare con le detenute nel pieno rispetto della privacy di ciascuna. Inoltre, i blindi d’ingresso ai singoli piani sono visibili da una telecamera, e l’apertura/chiusura di fatto è automatizzata da un comando apposito. Si potrebbe ancora parlare di come tutta l’organizzazione, effettivamente, da un punto di vista strutturale risulta essere funzionale!
Dov’è il problema allora? La vigilanza dinamica, a mio modesto parere, rischia di far “disperdere” quella “staticità” ovvero lo “stare fissi” su un solo piano detentivo, per l’intero turno di servizio. Quanto di più indispensabile e prezioso per il “vigilare al fine della sicurezza”! Dove, inevitabilmente il poliziotto penitenziario riesce ad “apprendere” il vivere quotidiano di ciascun detenuto all’interno della sezione, maturando, quella maggiore consapevolezza, nel “captare” quei piccoli campanelli d’allarme che
silenziosi possono far prevenire con maggior prontezza eventuali eventi critici, come discussioni verbali, risse, manifestazioni di sopraffazione, fenomeni autolesionistici ecc. Perché vigilare significa proprio questo! E a tal proposito, riporto una frase, a voce di Henry Ford, imprenditore statunitense: “Se esiste un segreto per il successo, esso risiede nella nostra capacità di capire il pensiero di un’altra persona e vedere le cose dal suo punto di vista altrettanto chiaramente che dal nostro” ...e lascio ad ognuno la propria riflessione. H Agente scelto Rita Argento
Il nostro “dinamico” appuntato Caputo
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26 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it
Sopra la copertina e, nell’altra pagina, il sommario e la vignetta del numero di febbraio 1999
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come scrivevamo enti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Cosa Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.
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Nascita dell’istituzione carceraria e sua evoluzione sino ai giorni nostri Aspetti generali della situazione penitenziaria prima del XIX secolo - 2ª parte di Maurizio Renzi
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on l’emergere dello Stato, come unica fonte dell’azione penale, l’atto criminoso non può più essere considerato l’aggressione di una persona contro un’altra, ma diviene un crimine commesso contro la società in generale. Il divario tra la posizione sociale di coloro che giudicano e coloro che vengono giudicati, sottolinea fin da subito l’assetto classista, dove la classe agiata fa proprio questo strumento di controllo. Prolifera in tutta Europa la legislazione sui poveri, consci dell’inadeguatezza della carità clericale, i legislatori intervengono mediante un tentativo positivo, teso a cercare di affrontare i problemi sociali. Con le prime leggi sui poveri, si abolirono le distinzioni tra poveri meritevoli e non meritevoli, affrontando il problema solamente in termini di movimento delle masse. Dal momento che l’incremento demografico superava di gran lunga la capacità dei centri urbani di assorbire le eccedenze, la mendicità viene equiparata al vagabondaggio, divenendo uno dei principali reati. Il povero è tale per sua colpa. «La legge sui poveri era in sostanza una parte importante della legislazione di classe, e la sua motivazione essenziale era sviluppare un metodo efficace per far fronte alle classi inferiori con uno strumento generale di controllo sociale». (1) Il diritto penale diventa così uno strumento pubblico per il controllo sociale, la tortura diviene un elemento comune a quasi tutta la procedura
penale. L’uso di pene corporali assume il compito di supplire alla mancanza di forze di polizia. Lo spettacolo della dimensione pubblica della pena diventa un mezzo per controllare il crimine, mediante l’uso della brutalità, in funzione dell’educazione pubblica della plebe. Tale imbarbarimento della società venne attaccato in tutta Europa dai “riformatori”, per i quali il principale bersaglio era rappresentato dall’abuso della tortura nella procedura penale. Il funzionamento di quest’ultima aveva nel segreto il suo perno; non era necessario che l’imputato fosse al corrente delle accuse poste dalla denuncia. Il segreto, implicava che si dovesse definire un modello rigoroso di dimostrazione penale, al fine di avallare la procedura. Diventano, così, fondamentali le pubbliche ammissioni dell’imputato, al fine di attestare la veridicità dell’istruttoria. Il supplizio ha quindi la funzione di far prorompere la verità. La confessione scarica l’accusatore dalla preoccupazione di fornire altre prove. La dichiarazione o la denuncia, assume un peso, una rilevanza a seconda dello status di chi l’afferma. Ma improvvisamente il supplizio diviene intollerabile. “Abituato a veder sgorgare il sangue, il popolo impara presto che non può vendicarsi che col sangue” , lo spettacolo non incute timore ed esempio, ma diventa una forma di piacere macabro.
come scrivevamo La punizione tenderà quindi a divenire la parte più nascosta del processo penale. Il castigo non deve cercare una relazione qualitativa tra il delitto e la sua punizione, un’equivalenza di orrore, ma incidere sull’anima. Solo un sistema di giustizia penale umano ed efficiente poteva garantire l’armonia in una società fondata su concrete differenze di status. L’Illuminismo, con Montesquiet e Voltaire in Francia e Beccaria in Italia,
apre una nuova frontiera nella concezione della pena. Quest’ultimo, infatti, con la pubblicazione nel 1764 di Dei delitti e delle pene, diede una vigorosa sferzata alla giustizia penale. Sostenendo che la legge non doveva servire a proibire certi comportamenti, ma era solo un mezzo della società per regolamentare le sue attività interne; mentre la procedura penale doveva insistere sull’innocenza dell’accusato finché non se ne provava la colpevolezza. Gli argomenti rivoluzionari introdotti da Beccaria legano all’idea del delitto la certezza di incorrere in uno svantaggio un po’ più grande, tale da renderlo poco desiderabile. Solo la sua certezza supera l’effetto della pena capitale. La carcerazione
diviene più spaventevole dell’idea della morte, permettendo allo stesso tempo di quantificare esattamente la pena secondo la variabile del tempo. Perché la pena ottenga il suo effetto basta che il male da essa cagionato ecceda il bene che nasce dal delitto ed è in questo eccesso di male che deve essere calcolata l’infallibilità della pena. Le leggi che definiscono i delitti e prescrivono le pene siano perfettamente chiare, pubblicate, per renderle accessibili a tutti i cittadini. Ma è anche necessario che le procedure non restino segrete, che le ragioni per le quali un accusato è stato condannato o assolto siano conosciute da tutti. L’inchiesta, esercizio della ragione comune, si spoglia dell’antico modello inquisitoriale per accogliere quello assai più utile della ricerca empirica. Si assiste, verso la fine del XVIII secolo , alla graduale diminuzione dell’uso della tortura e allo sviluppo della legge moderna basata sulla prova. Le prove vengono finalmente esaminate tenendo in considerazione la possibilità che colui che commette un reato possa trovarsi in una situazione ove non sia capace né di intendere, né di volere. Quindi, l’imputato invece di essere punito va curato. Sorgono, nella procedura penale, nuove figure quali i periti, che hanno il compito di stabilire l’effettiva infermità di mente dell’imputato. Il giudice non è più colui che castiga; il suo giudizio viene espresso ora sulla base di perizie. In quest’ottica, diviene necessario che tutte le infrazioni siano qualificate, classificate, riunite in specie, senza !asciarne sfuggire alcuna. Il codice penale deve essere sufficientemente preciso, perché ogni tipo di infrazione possa esservi presente in modo chiaro. Nel silenzio della legge non deve nascere la speranza dell’impunità. H continua...
Note: (1) Michael R. Weisser, Criminalità e repressione nell ‘Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 1989, pag.94.
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28 di Daniele Papi rivista@sappe.it
il punto sul corpo
Liberate la Polizia Penitenziaria 4ª parte - Il Capo del DAP
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erminata l’analisi riferita ai quadri dirigenti e direttivi del Corpo, appare cogente dover intervenire sulla figura del Capo Dipartimento. Il Capo Dipartimento, già Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, è a norma di legge il Capo dell’Amministrazione.
chiarezza chi è il Capo della Polizia Penitenziaria, cosa che invece non sfugge alla legge 121/1981, la quale indica all’articolo 2 che al Dipartimento della Pubblica Sicurezza è preposto il Capo della Polizia – direttore generale della pubblica sicurezza. A tal riguardo, è importante tornare alla lettura della legge nella completezza e di tutti i suoi articoli, infatti, a ben leggere la legge non parla neanche di “Capo Dipartimento”, ma di “direttore generale dell’Amministrazione Penitenziaria”. L’articolo 9 della legge, indica le figure nei confronti delle quali esistono doveri di subordinazione gerarchica: • lettera c) direttore generale dell’Amministrazione Penitenziaria.
Il logo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria
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La legge 395/1990, articolo 30, comma 2, indica che al Dipartimento è preposto il direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria, ed indica tra quali figure egli è scelto. La lettura dell’articolo 30 non dovrebbe far sfuggire che il Capo del Dipartimento è il direttore generale dell’Amministrazione Penitenziaria e nulla indica che il medesimo abbia, altresì, il titolo di Capo della Polizia Penitenziaria. L’Amministrazione Penitenziaria, da sempre, ove convenga ai propri vertici, interpreta ed agisce per mutazione di norme, al riguardo è facile comprendere che i Capo Dipartimento si auto investono del titolo di Capo della Polizia Penitenziaria in virtù del disposto di cui all’articolo 5 commi 2 e 3, della legge 121/1981, agendo appunto in analogia, in aderenza alla mera circostanza, in quanto ai medesimi spetta una assimilabile indennità economica. La legge 395/1990 non indica con
• lettera d) direttore dell’Ufficio del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, anche in tal caso, non indica quali di queste figure abbiano il titolo di Capo della Polizia Penitenziaria. E’ ovvio, che siamo al cospetto di una aberrazione legislativa, garantita dalla disinvoltura dell’epoca, che poi altro non è che quella attuale. La figura del Capo Dipartimento è individuata in seguito con il decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 2001 n. 55, articolo 7, “Regolamento di riorganizzazione del Ministero della Giustizia”. Detto articolo, cita testualmente: Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria 1. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria esercita le funzioni e i compiti inerenti le aree funzionali individuate dall'articolo 16, comma 3, lettera c) del decreto legislativo. 2. Per l'espletamento delle funzioni del Dipartimento
dell'Amministrazione Penitenziaria sono istituiti i seguenti uffici dirigenziali generali con le competenze per ciascuno di seguito indicate: a. Direzione generale del personale e della formazione: assunzione e gestione amministrativa del personale, anche dirigenziale, amministrativo e tecnico; gestione amministrativa del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria; relazioni sindacali; disciplina, formazione e aggiornamento del personale dell'amministrazione penitenziaria ed organizzazione delle relative strutture, salve le competenze dell'Istituto superiore di studi penitenziari; b. Direzione generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi: gestione dei beni demaniali e patrimoniali, dei beni immobili, dei beni mobili e dei servizi; procedure contrattuali; edilizia penitenziaria e residenziale di servizio; c. Direzione generale per il bilancio e della contabilità: adempimenti connessi alla formazione del bilancio di previsione e del conto consuntivo, della legge finanziaria e della legge di assestamento del bilancio; adempimenti contabili; d. Direzione generale dei detenuti e del trattamento: assegnazione e trasferimento dei detenuti e degli internati all'esterno dei Provveditorati regionali; gestione dei detenuti sottoposti ai regimi speciali; servizio sanitario; attività trattamentali intramurali; e. Direzione generale dell'esecuzione penale esterna: indirizzo e coordinamento delle attività degli uffici territoriali competenti in materia di esecuzione penale esterna; rapporti con la magistratura di sorveglianza, con gli enti locali e gli altri enti
il punto sul corpo pubblici, con gli enti privati, le organizzazioni del volontariato, del lavoro e delle imprese, finalizzati al trattamento dei soggetti in esecuzione penale esterna. 3. Il Capo del Dipartimento svolge altresì i compiti inerenti l'attività ispettiva ed il contenzioso relativo ai rapporti di lavoro ed alle altre materie di competenza del Dipartimento. Anche in questo caso, il legislatore stranamente dimentica di indicare chiaramente se e in quali termini il Capo del Dipartimento assuma anche il titolo di Capo della Polizia Penitenziaria. Ancora più grave è che gli estensori abbiano omesso di indicare anche le modalità della gestione operativa dell’organismo militarmente organizzato, di cui viene indicata solo la gestione amministrativa, nonostante il dettato dell’articolo 16 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n.300. A questo punto, anche volendo mantenere da parte lo stimolo revanscista è inevitabile alzare gli scudi ed invocare una correzione. Con R.D. 31 dicembre 1922, n. 1718, la Direzione Generale delle Carceri e dei Riformatori viene trasferita, a partire dal 15 gennaio 1923, dal ministero dell'Interno a quello della Giustizia e degli Affari di Culto. Tutti i servizi prima attribuiti al ministro dell'Interno, al prefetto ed al vice prefetto, sono rispettivamente assegnati al ministro della Giustizia, al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello ed al Procuratore del Re. La direzione generale degli istituti di prevenzione e pena, nasce nel 1928, Regio Decreto, 5 aprile 1928, n. 828, il quale conferisce tale nuova denominazione alla Direzione Generale delle Carceri. La lettura integrale della legge 395/1990 dovrebbe far riflettere anche sulle categorie tra quali individuare il direttore generale dell’Amministrazione Penitenziaria; l’articolo 30 comma 2, recita che al dipartimento, è preposto il direttore generale dell’Amministrazione Penitenziaria, scelto tra i magistrati di
cassazione con funzioni direttive superiori o tra i dirigenti generali dell’Amministrazione Penitenziaria. La scelta a rigor di logica ricadeva sui magistrati di cassazione nel passato, quando la precedente normativa delegava al procuratore generale della Repubblica e al procuratore della Repubblica funzioni
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una struttura obsoleta, la quale pone ancora al proprio vertice figure che sono niente altro che espressione della gerontocrazia nazionale, è ovvio che per cambiare ed innovare è indispensabile riformare tutto il sistema penitenziario e questa necessità dovrebbe essere da tutti ben condivisa. Nella foto l’ingresso del DAP
amministrative concernenti il personale, gli istituti e servizi penitenziari, funzioni che l’articolo 32 trasferisce ai provveditorati regionali. Se si fosse optato di agire nel senso letterario della innovazione, prospettata con la legge 395/1990, il dopo Nicolò Amato (la cui permanenza in qualità di direttore generale era garantita dalla prima parte del comma 2 del citato articolo 30) avrebbe dovuto far ricadere le successive scelte dei direttori generali dell’Amministrazione Penitenziaria Capi Dipartimento, solo nei confronti dei Dirigenti Generali dell’Amministrazione Penitenziaria stessa, analogo indirizzo dovrebbe indicare la via per scegliere il vice direttore generale con funzioni di Vicario. Insomma, ci troviamo al cospetto di
Quanto sopra, dimostra indiscutibilmente che la mancata indicazione circa quale figura è il Capo della Polizia Penitenziaria, è voluta e reiterata nel tempo per motivi strategici. Indicare la figura del Capo dell’Organismo, comporterebbe inevitabilmente, la necessità di individuare il Capo della Polizia Penitenziaria tra le figure autoctone all’organismo stesso, come peraltro è avvenuto inevitabilmente nel 1971. Significherebbe, fatalmente dover dar luce al ruolo di Dirigenza Generale propria della Polizia Penitenziaria, che in virtù della consistenza numerica della categoria rappresentata, diverrebbe inevitabilmente la Dirigenza più forte sia a livello funzionale che politico.H continua...
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inviate le vostre foto a rivista@sappe.it
A fianco 1989 Scuola AA.CC. Cairo Montenotte 47° Corso Aus. Cresima (foto inviata da Giovanni Frisina)
sopra 1951 C.C. Brindisi Festa del Corpo (foto inviata da Donato Rosa) a fianco 1974 Scuola AA.CC. Cairo Montenotte 43° Corso “Gran Sasso” (foto inviata da Virgilio Di Iorio)
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eravamo così
eravamo così
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Sopra 1980 Casa Circondariale Roma Rebibbia (foto inviata da Aldo Coviello)
in alto a sinistra 1991 Scuola AA.CC. Parma Giuramento 52° Corso Aus. (foto inviata da Massimiliano Sida)
A fianco anni ‘60 circa Casa di Reclusione di Pianosa (foto inviata da Rosa Cirone)
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le recensioni Luisa Mazzocchi
PUOI CHIAMARMI LUCA ITALIC Pequod Edizioni pagg. 186 - euro 16,00 a storia ‘noir’ di questo bel libro dell’anconetana Luisa Mazzocchi pone al centro delle oltre 180 pagine la professione della Polizia Penitenziaria. Un lavoro difficile che richiede impegno, alto senso del dovere, spirito di dedizione ed assoluta fedeltà al giuramento prestato alle istituzioni democratiche; un servizio che non ammette ritardi o prassi ispirate e dominate dalla burocrazia, nella consapevolezza che l’Amministrazione Penitenziaria non si occupa di pratiche o di fascicoli, ma invece di uomini e dei loro problemi, dei loro bisogni, delle loro esigenze, delle loro necessità, che spesso sono disagi, tensioni, dolori e sofferenze, anche molto grandi e capaci di incidere sensibilmente sulla vita delle persona e delle relative famiglie. E in questo contesto tanto duro e difficile opera il personale di Polizia Penitenziaria che a volte sopperisce all’inadeguatezza degli organici, alla fatiscenza delle strutture, alla mancanza di supporti esterni solo con il suo impegno e il suo spirito di dedizione. Un lavoro che Luisa Mazzocchi
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conosce bene, essendo nella quotidianità la moglie di un collega in servizio nel carcere Ancona, nostro iscritto SAPPE. Proprio il lavoro del marito e la costante consultazione dei documenti pubblicati sul nostro sito internet www.sappe.it (“vera miniera di informazioni e spunti di riflessione sul mondo carcerario”) sono al centro di questo “noir” dal quale si vuole far emergere la reale importanza di un mestiere tanto delicato e impegnativo. Guiomar De Marco Silva è un camionista portoghese che finisce in un carcere (d’invenzione, non a caso nelle vicinanze di Loreto, e del Santuario mariano) in seguito al ritrovamento sul suo camion di tre bambini afgani e del cadavere di un giornalista greco. Soltanto l’agente di polizia penitenziaria Luca De Feudis non crede alle accuse rivolte contro il portoghese, che nel frattempo ha subito un pestaggio, e tra i due nasce un legame dato dalla sensazione quasi inspiegabile di essere in qualche modo simili. Privatamente, Luca decide di indagare su quanto accaduto, arrivando a scoprire evidenti collegamenti con alcuni criminali rumeni rinchiusi nello stesso carcere e capeggiati dal terribile Dragan, che gestiva i traffici clandestini del porto di Patrasso. Aiutato dall’affascinante Paola Petrolati, avvocato difensore di Guiomar, Luca si ritrova però coinvolto in una serie di pericolose e rocambolesche vicende, nel tentativo di sfuggire all’ira dei rumeni, ormai consapevoli del suo coinvolgimento e dunque decisi ad ucciderlo.
Rosalia Colella
IL CARCERE: NON SOLO MURI GRIGI CHE GUARDANO IL CIELO BOOK SPRINT Edizioni pagg. 113 - euro 12,80
È
stato detto spesso che tutto ciò che attiene alle carceri é rimosso dalle menti della
popolazione e dell’opinione pubblica, che vive la detenzione come altro da sé, che fa notizia solo nei momenti patologici per evasioni, aggressioni, tragici casi - come suicidi - o per detenuti e inchieste eccellenti. Il lavoro in carcere é un tema più difficile di altri da affrontare, anche perché oggi sul carcere si scaricano interamente tutte le principali contraddizioni della nostra società. Basta vedere la composizione della popolazione carceraria, in larga parte fatta da immigrati, da tossicodipendenti - quando non affetti da HIV - espressione del disagio e della marginalità sociale. E se il carcere è, in qualche misura, la frontiera ultima più esposta del sistema della giustizia, all’interno del sistema carcerario il personale di Polizia Penitenziaria è la barriera più estrema. In più occasioni abbiamo detto che il Corpo di Polizia Penitenziaria ha bisogno di cerimonie allargate alla partecipazione dell’opinione pubblica perchè si deve conoscere quali e quante difficoltà operative incontrano le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria nel quotidiano lavoro nelle carceri. Nelle oltre 100 pagine di questo volumetto l’Autrice (ispettore del Corpo di Polizia penitenziaria in pensione da molti anni dedita all’attività letteraria) racconta proprio la quotidianità dal carcere ed il ruolo delle donne e degli uomini con il Basco Azzurro.
Simonetta Santamaria
IO VI VEDO TRE60 Edizioni pagg. 365 - euro 9,90
S
imonetta Santamaria, giornalista e autrice di thriller e horror, è stata definita lo ‘Stephen King napoletano’ in onore alla sue radici partenopee. E la definizione è proprio azzeccata, come conferma la lettura di questo bel libro che racconta il rinvenimento, nel novembre 2011, del cadavere
le recensioni della giovane Lucia Campobasso sul ciglio di una strada di periferia. È stata uccisa in modo brutale: per gli inquirenti, si tratta di un’esecuzione. Ma i responsabili rimangono ombre inafferrabili, ombre che tormentano il padre della vittima, un poliziotto. Tre mesi dopo, nel febbraio 2012, Maurizio Campobasso, capo del reparto investigativo anticrimine di Napoli, ha ricevuto una soffiata «sicura»: in una cascina abbandonata sono rinchiusi dei clandestini, in attesa di essere mandati per le strade a rubare o a prostituirsi. Dopo aver circondato l’edificio, però, la squadra viene assalita alle spalle da un commando armato. Nell’agguato muoiono quattro agenti e Campobasso perde un occhio. Era una trappola. Maggio 2012. Menomato nel fisico e stravolto dal dolore e dal rimorso per la perdita della figlia e dei colleghi, Campobasso si dimette dalla polizia. Le indagini non hanno portato a nulla e lui ha perso ogni fiducia nelle istituzioni. Ma il suo animo è tormentato dall’oscura sensazione che tutte quelle morti siano collegate e che sia proprio lui, Maurizio Campobasso, la chiave di un piano criminale più vasto e sanguinario di quanto si possa immaginare. È ora di mettere da parte la Legge e di agire, nell’ombra, come un feroce giustiziere solitario. È ora di scatenare una spietata caccia all’uomo – o agli uomini – che non risparmierà niente e nessuno. Perché quando il desiderio di vendetta prende il sopravvento, nulla può fermarlo...
Pasqule Saggese e Paolo Montemurro
IL CHIRURGO PLASTICO LA GRU Edizioni pagg. 286 - euro 17,00
I
l Chirurgo Plastico è un thriller che ruota attorno la figura di Paolo Cini, un chirurgo plastico italiano residente a Stoccolma. La sua storia si intreccia con quella di un serial killer, il quale rapisce ed
uccide alcune sue ex pazienti torturandole con modalità che richiamano gli interventi estetici a cui Paolo le aveva sottoposte. Del caso si occuperà Paske Klokberg: un poliziotto volgare, aggressivo e trasandato, medico mancato, la cui vita privata presto si intreccerà a quella del chirurgo plastico. Il romanzo si fregia della prefazione del Dottor Danilo Gagliardi, Questore di Varese. Pasquale Saggese è un biologo varesino appassionato di scrittura. Ha pubblicato (e in parte illustrato) un saggio naturalistico sulla zoologia degli animali misteriosi (All’Ombra dei Falsi Mostri, 2009), nonché diversi studi e articoli sullo stesso argomento. Da sempre appassionato di thriller, è alla sua seconda fatica come scrittore di romanzi. Paolo Montemurro è un chirurgo estetico varesino che esercita a Stoccolma. Grande divoratore di libri, è l'ideatore del romanzo, nonché revisore dei suoi aspetti scientifici e stilistici.
Massimo Prado
LE MIE “SCAMPATE PRIGIONI” SANTOCONO Edizioni pagg. 360 - euro 14,00 uesto libro racconta una storia incredibile. Racconta cioè di undici procedimenti penali notificati in meno di un anno all’Autore, già ispettore della Polizia di Stato pluripremiato per meriti di servizio, dalla procura della Repubblica di Siracusa. Procedimenti penali, uno dei quali è tutt’ora pendente innanzi al tribunale di Messina sezione penale, che si sono conclusi senza alcuna condanna o con sentenza di non luogo a procedere da parte del giudice per le indagini preliminari o con sentenza di assoluzione emessa al dibattimento o con richiesta di archiviazione. Una odissea che ha dell’incredibile, alla quale non sono mancati altrettanti numerosi procedimenti disciplinari. Una storia, che è pure una storia di
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mobbing e per questo patrocinata dall’autorevole Osservatorio Nazionale sul Mobbing dell’Università “La Sapienza” di Roma, che tutti devono leggere.
Pietro Buffa
PRIGIONI. Amministrare la sofferenza GRUPPO ABELE Edizioni pagg. 295 - euro 18,00 uesto non è il ‘solito’ libro sul carcere, scritto magari chi un penitenziario lo conosce solo per averlo visto in foto o in tv, ma una puntuale ed attenta analisi della nostra realtà penitenziaria vista da chi il carcere lo conosce davvero. Lo ha scritto Pietro Buffa, provveditore regionale dell’Emilia Romagna e per molti anni (dodici) direttore del carcere di Torino e, in precedenza, di quelli piemontesi di Asti, Alessandria e Saluzzo. Racconta, dunque, le sue esperienze in un lungo viaggio nelle carceri e mette in luce le intrinseche complicazioni, le contraddizioni e le rigidità, non solo legislative. Ma fa emergenze anche l’umanità, la sensibilità e la professionalità degli operatori penitenziari, nei vari livelli, che spesso non emergono in tanti scritti sul e del carcere. Molte delle considerazioni di Buffa sono condivisibili, altre meno. Ma sono soggettive, e quindi lascio al lettore quali sono. Il libro merita davvero di essere letto. H
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l’ultima pagina il mondo dell’appuntato Caputo La pulizia della Polizia...
di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis Š 1992-2013
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