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anno XVIII • n.184 • maggio 2011
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Annuale 2011: no agenti, no party
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in copertina: Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il Ministro della Giustizia Angelino Alfano all’Annuale del Corpo 2011 (foto: www.quirinale.it)
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L’EDITORIALE Il Governo battuto in Parlamento fa più notizia della grave situazione penitenziaria di Donato Capece
IL PULPITO No Agenti, No Party.
ANNO XVIII • Numero 184 Maggio 2011
di Giovanni Battista De Blasis
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IL COMMENTO Carcere e Polizia Penitenziaria: opinioni, fatti e pregiudizi
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di Roberto Martinelli
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IN PRIMO PIANO 1974, la rivolta nel carcere di Alessandria
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L’OSSERVATORIO POLITICO La giustizia italiana raccontata ad un alieno
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LO SPORT Matteo Betti, un nuovo talento della scherma per il “GS Fiamme Azzurre” di Lady Oscar
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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it
Il Governo battuto in Parlamento fa più notizia della grave situazione penitenziaria
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l 18 maggio scorso, alla Camera dei Deputati, sono state approvate diversi mozioni di (quasi) tutti i gruppi politici sulle criticità penitenziarie. Eppure a fare notizia è stato non già il contenuto delle mozioni ma il fatto che il Governo è stato battuto in Aula. Le significative criticità penitenziarie meritano attenzione ed interventi concreti. In Parlamento sono state approvate importanti dichiarazioni di impegno per mettere mano alla loro risoluzione: da ora in avanti sarà importante vigilare affinchè questi impegni si traducono in iniziative reali, e cioè leggi e risorse, umane e finanziarie. Da parte nostra esprimiamo l’apprezzamento per l’impegno del Parlamento a predisporre sul piano normativo un complesso di riforme - dalla depenalizzazione dei reati minori, a una più ampia e più certa accessibilità delle misure alternative alla detenzione, dalla definizione di parametri più accessibili per la conversione delle pene detentive in pene pecuniarie, a una più severa limitazione del ricorso alla custodia cautelare in carcere - che avrebbero, nel complesso, un effetto strutturalmente deflattivo, concorrendo a migliorare le condizioni di detenzione e a rendere servibili quegli strumenti di trattamento che perseguono le finalità rieducative costituzionalmente connesse alla pena. Importante è anche la previsione di assicurare risorse idonee a conseguire un adeguamento dell’attuale pianta organica del Personale di Polizia e dell’Amministrazione Penitenziaria e, in particolare per i Baschi Azzurri, concrete iniziative volte alla formazione ed all’aggiornamento professionale. L’auspicio è dunque quello di arrivare a definire, come sosteniamo da tempo, circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità o che necessitano di un percorso carcerario differenziato (come i detenuti con problemi sanitari e psichiatrici), specifici circuiti di custodia attenuata anche potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale. Il sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane è certamente un problema storico ed è un problema comune a molti Paesi europei, che hanno risolto il problema in maniera diversa. Caratteristiche uniche del nostro Paese sono il flusso e i periodi di permanenza in carcere. Ogni giorno entrano ed escono centinaia di persone dal carcere, un movimento che comporta uno stress enorme del sistema soprattutto in una fase, quella dell’accoglienza, che è la più delicata e la più difficile da gestire: questo quadro complesso è reso ancora più difficile dalle caratteristiche della popolazione ristretta, in gran parte costituita da stranieri, tossicodipendenti e da persone con problemi mentali.
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L’osservazione della tipologia dei detenuti che fanno ingresso in carcere e dei reati di cui sono accusati consente di affermare come il sistema della repressione penale colpisca prevalentemente la criminalità organizzata e le fasce deboli della popolazione: in effetti, il carcere è lo strumento che si usa per affrontare problemi che la società non è in grado di risolvere altrimenti. Fino a qualche decennio fa si era riusciti a portare al centro dei problemi della sicurezza e della giustizia il mondo delle carceri, avviando un profondo processo di riforma, coniugando sicurezza con ragionevolezza, con trattamento, con umanità. E’ giunta l’ora di ripensare la repressione penale mettendo da un lato i fatti ritenuti di un disvalore sociale di tale gravità da imporre una reazione dello Stato con la misura estrema che è il carcere: e dall’altro, anche mantenendo la rilevanza penale, indicare le condotte per le quali non è necessario il carcere: una opzione di questo tipo dovrebbe ridisegnare il sistema a partire dalle storture determinate dal doppio binario per i recidivi, dalle norme in materia di immigrazione e dalla individuazione delle risorse per affrontare il tema delle dipendenze e dei disturbi mentali fuori dal carcere. Si potrebbe quindi ipotizzare un nuovo sistema penitenziario articolato su tre livelli. • Il primo, per i reati meno gravi con una pena detentiva non superiore ai 3 anni, caratterizzato da pene alternative al carcere, quale è l’istituto della messa alla prova. In proposito, non può sottacersi che la recente Legge 199\2010 non ha dato i risultati sperati, dal momento che ha interessato circa 1.000 detenuti. • ll secondo livello è quello che riguarda le pene detentive superiori ai 3 anni, che inevitabilmente dovranno essere espiate in carcere, ma in istituti molto meno affollati per lo sgravio conseguente all’operatività del primo livello e per una notevole riduzione dell’utilizzo della custodia cautelare. • Il terzo livello, infine, è quello della massima sicurezza, in cui il contenimento in carcere è l’obiettivo prioritario. Nell’ambito delle prospettive future occorre dunque che lo Stato, pur mantenendo la rilevanza penale, indichi le condotte per le quali non è necessario il carcere, ipotizzando sanzioni diverse, ridisegnando in un certo senso l’intero sistema. E la Polizia penitenziaria che riteniamo debba connotarsi sempre più come Polizia dell’esecuzione penale, oltrechè di prevenzione e di sicurezza per i compiti istituzionali ad essa affidati dall’ordinamento, è sicuramente quella propriamente deputata al controllo dei soggetti ammessi alle misure alternative. Dopo l’approvazione delle mozioni in Parlamento il 18 maggio scorso, è auspicabile che in tempi brevi si vedano conseguenti fatti concreti.
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Giovanni Battista De Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it
Annuale 2011: no agenti, no party.
“E
anche quest’anno abbiamo celebrato l’Annuale della Polizia Penitenziaria. di Costantino, monumento l’Arco Sotto alla glorificazione dei grandi condottieri romani, si è consumata davanti alle telecamere della RAI la cerimonia del 194° compleanno del Corpo. TANTI AUGURI A TUTTI I COLLEGHI E VIVA LA POLIZIA PENITENZIARIA ! ...” Cominciava così l’articolo scritto sul blog da qualcuno che si firma con lo pseudonimo L’Agente Furioso, appena spente le luci della ribalta sulla Festa annuale del Corpo. Ma l’inizio non inganni, l’articolo del collega furioso non era assolutamente positivo nei confronti della cerimonia e di chi l’ha organizzata. Anzi, direi che L’Agente Furioso era davvero furioso, oserei definirlo incazzato. Nello specifico, Furioso lamentava di non sentirsi rappresentato nello schieramento dei reparti, laddove “Schierate sotto il palco delle autorità, a fianco dell’arco trionfale, tre compagnie in uniforme: due di vice commissari (in sciarpa e sciabola) ed una del GOM (in uniforme tattica).” Secondo lui, infatti, c’era da chiedersi “...dov’era rappresentato il collega che lavora in sezione, quello che traduce il detenuto o che lo piantona all’ospedale? Dov’era la guardiacarcere ?” (guardiacarcere è il termine con il quale ci si definisce tra colleghi, con particolare riferimento a coloro che fanno servizio all’interno degli istituti N.d.A.). Francamente, trovo difficile, se non impossibile, non condividere quello che ha affermato il collega Agente Furioso. In effetti, mi sembra molto infelice la scelta di non schierare almeno un reparto di agenti, considerato che, nelle scuole di formazione sono presenti circa ottocento allievi agenti. Nulla quaestio sulla presenza di un intero
reparto in rappresentanza del GOM, in considerazione del fatto che veniva consegnata la Bandiera dal Presidente della Repubblica; d’accordo su piccole rappresentanze delle specialità e passi pure una eventuale rappresentanza dei funzionari, ma, francamente, la scelta dei soli vice commissari è stata davvero infelice.
Ha, senz’altro, ragione Furioso a non sentirsi rappresentato da una cerimonia così. Per altro verso, sembrano altrettanto condivisibili le considerazioni del collega sulle motivazioni che avrebbero indotto certe scelte organizzative. “Sotto la solita regia del Vice Capo Vicario (dirigente generale penitenziario) l’organizzazione, la pianificazione, la gestione e l’amministrazione della Festa del Corpo della Polizia Penitenziaria è stata affidata ad un dirigente penitenziario e a un dirigente educatore. Questi sono coloro che hanno deciso chi, come, dove, quando e perché, doveva partecipare alla Festa della Polizia Penitenziaria.” Anche qui, mi sembrano abbastanza pertinenti le osservazioni del collega incazzato; come non rilevare, infatti, il paradosso che nell’organizzazione, nella pianificazione, nella gestione e nell’amministrazione della Festa del Corpo non partecipi alcun appartenente alla Polizia Penitenziaria, nessun Uomo in Divisa? Anche nella mente ingenua di un ragazzino
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balena quella famosa domanda che sorge spontanea: «Ma che c’azzeccano certe persone con la Festa del Corpo?». Sfido chiunque, e dico chiunque, a trovare un solo uomo senza divisa negli staff organizzativi delle Feste annuali dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Polizia di Stato o della Guardia Forestale. Ma mi voglio rovinare... sfido chiunque a trovare un solo uomo senza divisa negli staff organizzativi delle Feste annuali della Polizia Municipale, dei Guardiapesca o di qualsiasi Istituto di Vigilanza Privata. Invece da noi (dal paradosso all’assurdo...) prendiamo un generale (aggregazione dell’ultima ora) e gli facciamo fare il contabile, il ragioniere. Ma il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, si sa, è un mondo a parte. Un mondo dove chi riveste incarichi di vertice ritiene di aver ottenuto un diritto reale di proprietà, quello cioè che: assicura un potere immediato ed assoluto sulla cosa (e la cosa, purtroppo, siamo noi). Eppure, vi garantisco che non c’è alcun incarico nell’amministrazione penitenziaria eseguito da qualsiasi persona (educatore, ragioniere, tecnico, dirigente, dirigente generale, vice capo dipartimento, ecc., ecc...) che non possa essere assunto in egual misura da un Poliziotto Penitenziario, che lo farà certamente meglio e con risultati migliori! E’ forse questo che fa paura ? Insomma, come ebbi già a dire qualche anno addietro, l’Annuale del Corpo 2011, così come è stato organizzato, è stata una Festa senza il festeggiato. In altre parole, la stragrande maggioranza dei poliziotti penitenziari ha festeggiato “per procura”, ha delegato, cioè, educatori, dirigenti e tutti gli altri ruoli dell’amministrazione penitenziaria, a fare baldoria per lui... No Agenti. No Party. Ah... a proposito. L’articolo pubblicato da L’Agente Furioso sul blog era intitolato: “Festa del Corpo 2011: La città brucia, la nobiltà balla.”
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Al centro l’avatar dell’Agente Furioso
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Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it
Carcere e Polizia Penitenziaria: opinioni, fatti e pregiudizi
I
dati recentemente elaborati dalla Sezione Statistica dell’Ufficio per la Gestione e lo Sviluppo del Sistema Informativo Automatizzato dell’Amministrazione Penitenziaria, relativi agli eventi critici accaduti nelle carceri italiane nel corso dell’anno 2010, devono fare seriamente riflettere sulle evidente problematiche del sistema, rispetto alle quali è assolutamente necessaria una riforma organica e strutturale. Sono importanti, questi dati, anche
Nella foto per far conoscere – specie all’opinione una sezione di pubblica, che poco o nulla sa del carcere un carcere Nell’altra pagina proteste e agenti del nucleo traduzioni
il duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità. E’ infatti importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti. Ma è un oggettivo dato di fatto che l’opinione pubblica si interessa di carcere quando accadono episodi gravi che pure in esso avvengono, come i suicidi, le risse, le evasioni. E, se non fosse per i comunicati
stampa che il SAPPE ed altri Sindacati del Corpo regolarmente fanno per sottolineare il ruolo delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria nella critica e difficile situazione carceraria, i giornali di noi si occupano prevalentemente poco e talvolta con sconcertante superficialità. Lo abbiamo già detto da queste colonne ma è opportuno ribadirlo: non possiamo accettare una falsa rappresentazione delle carceri italiane come luogo fuori dalle regole democratiche e dal rispetto dei diritti umani in cui quotidianamente e sistematicamente avverrebbero violenze in danno dei detenuti ed ogni decesso è quindi sospetto, come insinuano spesso talune corrispondenze giornalistiche. Non accettiamo che al duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità vengano associati i terribili vocaboli di violenza, indifferenza, cinismo e omertà. Nessuno può dare giudizi superficiali o attribuire frettolosamente responsabilità senza alcuna prova: è la Magistratura che deve accertare – e lo fa come sempre con serenità, equilibrio e pieno rispetto dei valori costituzionali - gli elementi di cui è in possesso quando si verificano in carcere questi tragici eventi critici. Ma è invece importante per il Paese conoscere il lavoro svolto dai poliziotti penitenziari, un Corpo di Polizia dello Stato costituito da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità perché nessuno perda la vita,
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sventando ogni anno centinaia e centinaia di suicidi di detenuti (oltre mille all’anno!). Leggiamoli allora, questi dati sugli eventi critici in carcere nel 2010 che valgono più di mille parole. Nel 2010, nelle sovraffollate carceri italiane, i detenuti hanno posto in essere 5.703 atti di autolesionismo (263 dei quali da donne ristrette) e 1.137 tentativi di suicidio. Le morti per cause naturali in carcere sono state 108 e 55 i suicidi. 3.039 sono stati i ferimenti. La manifestazioni di protesta individuali hanno visto 6.626 detenuti fare nel corso dell’anno lo sciopero della fame, 1.553 rifiutare il vitto, 1.289 detenuti coinvolti in proteste violente con danneggiamento o incendio di beni dell’Amministrazione penitenziaria. 15 sono state le evasioni da penitenziari, 41 a seguito di mancato rientro in carcere dopo aver fruito di permessi di necessità e di permessi premio, 3 i detenuti che non sono rientrati da lavoro all’esterno e 12 dalla semilibertà: più alto il numero degli internati evasi, 68. Capitolo a parte lo hanno le manifestazioni di protesta collettive sulla situazione di sovraffollamento delle carceri e sulle critiche condizioni intramurarie che si sono tenute nel 2010: 27 le proteste a seguito delle quali 550 soggetti hanno fatto lo sciopero della fame, 125 quelle con rifiuto del vitto cui hanno partecipato 14.632 ristretti, ben 180 la percussione rumorosa sui cancelli e le inferriate delle celle (la cosiddetta battitura) con 36.641 detenuti coinvolti. Questo dovrebbe già, di per sé, far capire e comprendere le difficoltà operative con le quali quotidianamente opera il Personale di Polizia Penitenziaria. Se il carcere è, in qualche misura, la fron-
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a cura di Erremme
GIOVANNI B. DE BLASIS
tiera ultima più esposta del sistema della giustizia, all’interno del sistema carcerario le donne e gli uomini del Corpo, i Baschi Azzurri, ne sono la barriera più estrema. Siamo quelli che stanno in prima linea, quelli che stanno nelle sezioni detentive, quelli che stanno a contatto quotidiano con i detenuti ventiquattro ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni all’anno, quelli a cui il nostro sistema giuridico affida un compito indubbiamente più complesso e specifico rispetto a quelli delle altre Forze di Polizia, senza naturalmente nulla togliere al loro importante lavoro. La battaglia che il SAPPE combatte per la rivendicazione del ruolo, del significato, del prestigio, dell’importanza del Corpo di Polizia Penitenziaria, di una sua professionalità crescente, di una sua dignità sempre più alta, deve partire dalla considerazione della specificità dei nostri compiti istituzionali. Quando l’agente della Polizia di Stato, il Carabiniere o il Finanziere, che svolgono un compito fondamentale per la difesa dello Stato e delle sue Istituzioni, nel corso della loro giornata lavorativa ha un incontro con il nemico dello Stato, con il criminale, si tratta di un incontro che è, per un verso, eventuale e, per altro verso, quando si verifica, limitato nel tempo. Si riduce al tempo dell’arresto, della perquisizione, dell’interrogatorio. Viceversa, il compito dell’agente di Polizia Penitenziaria - in confronto anche e soprattutto fisico con chi rappresenta, in un modo o nell’altro, il nemico dello Stato, colui che ne ha violato le leggi - viene eseguito giorno dopo giorno, anche a Natale, Capodanno, Pasqua e Ferragosto, di notte, minuto dopo minuto.
Questa è già, di per sé, la ragione di una difficoltà, di una complessità, di una tensione, la ragione anche di un rischio che non ha confronti. Mentre all’agente della Polizia di Stato, al Carabiniere o al Finanziere, lo Stato chiede, ed è un compito estremamente difficile, di catturare il violatore delle leggi e di rinchiuderlo dentro le prigioni - gli affida cioè principalmente un compito di sicurezza e di legalità - all’agente di Polizia Penitenziaria - ecco la difficoltà e la specificità - affida compiti che talvolta sembrano in contraddizione l’uno con l’altro. L’agente di Polizia Penitenziaria, nella prima linea nella frontiera esposta del carcere, deve rappresentare, spesso isolato se non dimenticato, la dignità dello Stato, la legalità dello Stato, la Legge. Noi, che rappresentiamo il primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria, siamo i primi a chiedere e volere che il carcere sia una casa di vetro, trasparente, proprio perché non abbiamo nulla da nascondere. Non è infatti accettabile il latente e continuo gioco al massacro dell’onorabilità della Polizia penitenziaria e dei suoi appartenenti. Come non lo sono le ripetute sollecitazioni a fare piena luce sulle morti che purtroppo, periodicamente, avvengono in carcere quasi a instillare il dubbio (a gente che nulla sa di carcere e delle reali dinamiche penitenziarie) che questi tragici eventi vengano seguiti e gestiti con leggerezza e disinteresse o, peggio ancora, con omertà. Ne va dell’onorabilità di una Istituzione fondamentale dello Stato, come è la Polizia Penitenziaria, e dei suoi appartenenti.
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CONTINUIAMO COSI’ FACCIAMOCI DEL MALE... Le più belle battute del cinema italiano
Libreria FELTRINELLI pagg. 200 - euro 16,00
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on è semplice recensire il libro scritto da un amico. Il rischio è quello di essere troppo: troppo esigente o troppo indulgente, per non correre il rischio di essere o apparire condizionati nel giudizio complessivo dal sentimento dell’amicizia che ti lega all’Autore. Ma questo libro, stampato e venduto nel circuito di un colosso editoriale quale sono le edizioni Feltrinelli – e già questa è, dir per sé, ragione di orgoglio e soddisfazione, non solo sua -, è davvero una lettura unica nel suo genere e svela un tratto di Gianni de Blasis ai più sconosciuto. Caratterizzato da una poliedrica vivacità intellettuale, in questo libro Gianni – che ha a casa una raccolta di film in vhs e dvd capace di far impallidire il più fornito negozio di film a noleggio... - mette in luce la sua vena cinefila e raccoglie settecento citazioni da ben trecentoquaranta film dei grandi classici del cinema che, a suo giudizio, hanno segnato la storia, la vita, la mutazione e l’evoluzione sociale del nostro Paese. Nel raccontare della sua adolescenziale passione per il cinema, fa venire in mente un’altra passione per il grande schermo, quella di Salvatore in Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, magistralmente interpretato da un bambino dotato di una straordinaria carica espressiva, Salvatore Cascio. E la costante annotazione delle più efficaci citazioni e battute dai moltissimi film visti dall’Autore e, in parte ridotta, da tanti di noi hanno dato vita a questo libro, che si fa leggere tutto d’un fiato perché coinvolgente e foriero di ricordi, immagini, situazioni, storie, particolari momenti della nostra stessa vita individuale. Spesso sono proprio le citazioni quelle che più si ricordano in un film: quante volte è capitato di citarne proprio qualcuna, senza magari rammentare la trama della pellicola da cui essa è stata estrapolata? Gianni de Blasis, con questo libro al quale non ha fatto mancare il suo importante contributo il grafico amico di una vita, Mario Caputi, ci porta per mano in un ideale e virtuale viaggio nel mondo del cinema italiano. E, dopo aver letto le 200 pagine del volume, risulterà anche a Voi un simpatico e competente compagno di viaggio.
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N. 184 • maggio 2011 • pag. 7
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1974, la Rivolta nel carcere di Alessandria
R In alto la cerimonia di commemorazione e la locandina sotto alcune immagini dei feriti durante la rivolta
icordare i morti di due giorni di follia e cercare, a distanza di trentasette anni, di dare risposta ad alcuni interrogativi rimasti ancora tali. L’Amministrazione Comunale di Alessandria, in collaborazione con l’Anppe (l’Associazione Nazionale della Polizia Penitenziaria) ha commemorato i caduti nella rivolta carceraria del 1974 e la data del 9 maggio ha coinciso con la giornata che lo Stato italiano ha voluto dedicare, con specifica legge, alle vittime del terrorismo e per cause di servizio nell’adempimento del dovere. La deposizione della corona d’ alloro presso la lapide, fatta murare nel 2009 dal Comune di Alessandria presso l’istituto detentivo di piazza Don Soria, ha preceduto la cerimonia svoltasi nella Sala della Giunta, la stessa che aveva funto da camera ardente ospitando i feretri di quattro delle cinque vittime della strage in carcere. Alla commemorazione sono intervenuti il
Sindaco Piercarlo Fabbio, i Consiglieri Comunali Mario Bocchio e Maurizio Sciaudone, Nicola Sette (Presidente regionale Anppe), Antonio Aloia (Presidente cittadino Anppe), i Comandanti della Polizia Penitenziaria degli istituti Don Soria e San Michele, le Organizzazioni Sindacali della Polizia Penitenziaria e soprattutto i familiari dei caduti durante quei tragici eventi. Le testimonianze dirette sono state affidate ai ricordi di due noti giornalisti alessandrini, Franco Marchiaro ed Emma Camagna, che furono coinvolti in prima persona anche in qualità di parlamentari e ostaggi dei rivoltosi. «Le vittime di quel tragico episodio che sconvolse i sentimenti e le coscienze non solo di un’intera città ma di tutta l’Italia - ha sottolineato il Sindaco Fabbio - in realtà furono sette, perché sono compresi anche due dei tre detenuti che attuarono la rivolta, ma noi oggi, mi sia permesso dirlo senza esitazione, vogliamo ricordare la parte buona ed onesta, coloro che morirono compiendo il proprio mestiere e come conseguenza del proprio altruismo. Quando i ribelli fecero conoscere il loro ricatto, lasciateci uscire dal carcere, se no ammazziamo tutti gli ostaggi, ci furono i toni più duri, quelli più pacati, il vocabolario italiano era a disposizione con migliaia di aggettivi di deprecazione e di pietà, e fu usato».
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«Ora, da bravi, tiriamo fuori un commento, cerchiamo di dire agli altri ciò che è giusto, ciò che è necessario - ha aggiunto - cerchiamo di spiegare se sia giusto dire no ai ricatti, di dimostrare perché non si può barattare la vita di uno, due, cinque uomini con la credibilità, con la fermezza di uno Stato democratico. Eppure ancora oggi, a distanza di così tanti anni, non riusciamo a concentrarci sul rispettabilissimo dramma pubblico dello Stato, continuiamo a pensare al dramma privato delle famiglie
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delle cinque vittime. Abbiamo sentito dire: è ora di finirla, un’Italia che ha in seno criminali come quelli di Alessandria avrà un futuro cupo, se non si affida a mani forti e bene armate. Ma si dovrebbe dire alla rovescia: un’Italia che ospita eroi silenziosi, deboli e disarmati come fu l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, che si offrì volontaria come ostaggio nell’estremo tentativo di risuscitare un gesto umano nelle belve, ha invece un lungo futuro civile. La volontà di aiutare gli uomini e la speranza di renderli migliori non possono essere uccise: neppure dalla pistola di un uomo impazzito di odio, come avvenne nel carcere della nostra città». I giornalisti Emma Camagna e Franco Marchiaro hanno ripercorso la tragedia. «Vi confesso che è la prima volta che ho accettato di parlare in pubblico di quanto accadde - ha volto precisare Emma Camagna - perché sono fatti che mi hanno profondamente toccata e segnata. Era noto che nel carcere ci fosse aria di rivolta da un mese buono. Tutti erano stati avvertiti, ma nessuno ha preso le necessarie precauzioni. Da tempo ero in contatto con Concu, ci eravamo visti e parlati anche il giorno prima della rivolta, ma mai più avrei immaginato cosa stesse macchinando proprio lui». «Una grande folla prese ad accorrere attorno al carcere - ha ricordato Franco Marchiaro - tutti attendevano angosciati. Fianco a fianco si trovavano i parenti degli ostaggi e quelli dei banditi. Ambulanze a carri funebri posteggiati in attesa, appesantivano l’atmosfera. Noi giornalisti, io, Emma e Giuseppe Zerbino, oggi scomparso, accompagnati dal Procuratore di Alessandria Dott. Buzio e dal suo Vice Dott. Parola, cercammo di par-
lamentare per ben tre volte. Confesso, le gambe mi tremavano. Anni fa, quando finì di scontare la sua pena, l’ unico sopravvissuto tra i rivoltosi, Levrero, mi contattò con l’intento di voler rilasciare un’intervista. Dissi di sì solo a patto che mi rivelasse chi avesse fatto avere loro le armi. Non mi rispose, quindi l’intervista non incominciò mai». Nel carcere di Alessandria, tre detenuti armati di due pistole presero in ostaggio sei insegnanti, il medico Dott. Gandolfi, i Bri-
miliari di due dei tre detenuti (Di Bona e Concu) nel tentativo di una mediazione che evitasse ulteriore spargimento di sangue, ma i colloqui con i parenti vennero interrotti bruscamente dal Concu, mentre Di Bona non volle ricevere la mamma e la cognata . Fu così che nel tardo pomeriggio
gadieri Allegrini, Cantiello, Barbato, gli Appuntati Aprà, Caporaso, Tula e Gaeta e cinque detenuti che si trovavano nei locali della scuola e dell’infermeria. Asserragliati all’interno dell’infermeria insieme agli ostaggi, iniziarono una lunga ed estenuante trattativa con le autorità giunte sul posto, tra cui il procuratore generale ed il direttore dell’istituto. Dopo diverse ore di infruttuosi tentativi per instaurare un dialogo con i sequestratori, si udirono alcuni spari provenienti dall’infermeria. Temendo il peggio le autorità decisero di fare irruzione nell’infermeria sfondando la porta. Sotto una violenta sparatoria tra le Forze dell’Ordine e i rivoltosi, furono trascinati fuori, feriti gravemente, il Dott. Gandolfi ed il Prof. Campi. Nella confusione il Brigadiere Allegrini e il Vicebrigadiere Capuano riuscirono a trarsi in salvo allontanandosi dall’infermeria. I rivoltosi, nel caos generale, facendosi scudo con gli ostaggi, riuscirono a nascondersi in uno stanzino in fondo al corridoio rendendo impossibile la prosecuzione dell’azione. Il giorno seguente vennero convocati i fa-
venne deciso di intraprendere nuovamente l’azione di forza interrotta il giorno precedente. Purtroppo l’epilogo fu tragico. Oltre all’uccisione del Dott. Roberto Gandolfi, deceduto il giorno dell’irruzione, persero la vita l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, che si era spontaneamente offerta di dialogare con i detenuti, il Brigadiere Gennaro Cantiello, che, nonostante avesse le mani legate, portò in salvo il Prof. Campi durante la sparatoria nell’infermeria. Cantiello, però, tornò volontariamente indietro, tra gli ostaggi, per impedire che i rivoltosi uccidessero altre persone se non fosse rientrato nei locali dell’infermeria. L’appuntato Sebastiano Gaeta restò ucciso nel tentativo di fare scudo, con il proprio corpo, agli altri ostaggi. Dei tre detenuti che avevano inscenato la rivolta rimasero uccisi Domenico Di Bona e Cesare Concu (decisamente impegnato sulle posizioni di Lotta Continua), sopravvisse Everardo Levrero. «Non desideriamo considerare le cinque vittime del dovere degli eroi - ha detto il Consigliere Mario Bocchio - ma meditarle ancora oggi come esseri simboleggianti una grande umanità, esseri che hanno
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Nelle foto le vittime sopra il Brigadiere Gennaro Cantiello sotto l’Appuntato sebastiano Gaeta al centro il trasporto in ambulanza
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Nella foto ancora una immagine della rivolta del 1974 ad Alessandria
fatto scoprire, seppure in maniera tragica, il loro costruttivo e silenzioso lavoro. Sono trascorsi trentasette anni da quel drammatico e luttuoso evento ma la vicenda riserva ancora lati oscuri, a cominciare dalle domande: chi introdusse le armi in carcere, due rivoltelle a tamburo ed un coltello? I rivoltosi erano sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, come la methedrina, visto che il rivoltoso Concu, prima di morire all’ospedale, aveva gli occhi spalancati e un’espressione da esaltato? Calando la vicenda nel contesto storico, quello che maggiormente salta agli occhi è proprio la facilità con la quale le armi abbiano potuto entrare in carcere. Allora, nel 1974, si rendeva necessaria una drastica sorveglianza in proposito, possibile solo col potenziamento del personale di custodia e tutto questo rientrava nel programma più che mai irrimandabile di rinnovamento e di ammodernamento dei metodi e delle strutture carcerarie. Ancora oggi sono in molti a chiedersi: la strage avrebbe po-
tuto essere evitata? Attorno agli assediati si ponderavano i pro ed i contro: gli alterchi tra magistrati, funzionari e militari erano violentissimi. Crediamo siano ormai maturi i tempi per cercare di capire realmente se da parte dell’allora Procuratore Generale della Repubblica in Piemonte, Carlo Reviglio Della Veneria, e del Generale dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, fu fatto tutto il possibile per scongiurare la tragedia». La commemorazione si è chiusa con i due interventi di Enrico D’Ambola e di Salvatore Casula, entrambi del Sindacato Sappe, che si sono soffermati sul ricordo del Brigadiere Gennaro Cantiello, insignito della Medaglia d’Oro alla memoria, e dell’ Appuntato Sebastiano Gaeta, insignito della Medaglia d’Argento alla memoria: Di Bona, il vero carnefice del gruppo, si avvicinò al povero Sebastiano Gaeta e, prima di finirlo con un colpo alla testa, gli disse: «Brigadiere, ci vediamo tra poco in paradiso”. Subito dopo, ha rivolto l’arma contro sé stesso, uccidendosi».
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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it
La giustizia italiana raccontata ad un alieno Un giornalista e un magistrato a confronto
U
n giornalista, Francesco Badolati, e un magistrato, Francesco Minisci, raccontano una giustizia definita complessa, contraddittoria e inapplicabile, tanto da intitolare il loro libro La giustizia italiana raccontata a un alieno. Francesco Badolati è giornalista professionista, laureato in giurisprudenza, caposervizio del quotidiano Gazzetta del Sud. Già autore di numerose pubblicazioni sulle devianze criminali e i misteri calabresi. Negli ultimi anni ha seguito i più importanti processi celebrati in Calabria. E’ componente del centro di documentazione e ricerca sul fenomeno mafioso dell’Università della Calabria ed ha collaborato con Il Tempo, L’indipendente e l’Agi. E’ già autore di numerosi libri, tra i quali I segreti dei boss, Malandrini, Sette casi per sette delitti, il Mig delle bugie, Il Mammasantissima, Crimini, ‘Ndrangheta eversiva, I segreti dei boss 2, Faide, Banditi e schiave. Francesco Minisci è sostituto procuratore della repubblica a Roma. Per dieci anni ha lavorato in Calabria, come pubblico ministero antimafia. E’ membro della commissione Potere e procedimento disciplinare dell’Associazione nazionale magistrati. Nella Prefazione di Luca Palamara, Presidente dell’associazione nazionale magistrati, si legge che il libro «ha il merito di costituire un apprezzabile tentativo di avvicinare la giustizia al cittadino… In questo libro gli autori seguono un ottimo metodo rappresentato dall’elaborazione di domande che il giornalista sottopone al magistrato; domande che per noi operatori del diritto possono sembrare scontate ma che, per i cittadini che fruiscono del servizio giustizia, possono non esserlo affatto. Bisogna purtroppo constatare che la giustizia in Italia è malata da decenni, ma i “colpevoli” cambiano: ora,
come nei primi anni ’70 e a metà degli ’80, i sospetti si addensano sulla magistratura. Il sistema giudiziario italiano versa in una gravissima crisi di efficienza e di funzionalità, che si sta trasformando in crisi di credibilità della giustizia. Ed è per questo motivo che la priorità degli interventi sulla giustizia deve essere quella di intervenire sulla durata dei processi. Presiedo l’Associazione nazionale magistrati da due anni e non credo che la magistratura non abbia colpe e responsabilità per la crisi della giustizia. Ma non posso accettare che si descriva, falsamente, una corporazione di fannulloni superpagati, impegnata a proteggere i propri interessi e gli aderenti all’associazione nazionale magistrati, anche colpevoli delle peggiori nefandezze.»
Nell’introduzione di Giuseppe Maria Berruti, magistrato di Cassazione e membro del Consiglio superiore della magistratura, si legge che «Gli autori immaginano, ancora una volta, una sorta di marziano a
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roma, ovvero in viaggio nei nostri mali. Ma, a differenza di Ennio Flaiano, essi lo immaginano come venuto da un mondo perfetto dal punto di vista giudiziario e, direi ingenerale, civile. L’alieno dei nostri due autori è in realtà la coscienza critica che con candore non comprende, che chiede spiegazioni e tenta qualche suggerimento. Questo nella prima parte del lavoro, soprattutto. Poi la vena professionale, o la passione civile dei due autori, ha il sopravvento. E l’alieno, meravigliato e inconsapevole, lascia il posto a un mentore. Che tenta una funzione di guida e di consiglio. Suggerendo rimedi semplici, che affrontano l’irrazionalità con la razionalità. E l’inefficacia della giustizia con la logica di un sistema compiuto. A ben vedere quelle che gli autori chiamano le contraddizioni del sistema italiano, al quale contrappongono la meditazione dell’alieno che le visita e Nel riquadro le percorre nella sua astrocapsula fatta la copertina di principi semplici e di esperienze anti- del libro che, sono invece le conferme assolute della nostra difficoltà di rispettare la funzione delle istituzioni.» Penso che il titolo di questo libro possa essere preso in prestito per suggerire, a chi ne avesse la voglia e la capacità, di scriverne uno sull’Amministrazione penitenziaria italiana raccontata a un alieno: quel metantropo che nel quinto millennio dell’era di Andromeda, in missione speciale, esplora lo spazio e sbarca sulla terra, imbattendosi subito sul nostro sistema non solo giudiziario, ma anche penitenziario. Lui che viene da un sistema perfetto, cosa potrebbe dire del nostro? Riteniamo che il primo suggerimento che darebbe ai governanti sarebbe quello di cambiare immediatamente buona parte della classe dirigente: coloro che governano il sistema e fanno di tutto per farlo andar male.
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a cura di Lady Oscar Redazione Sportiva rivista@sappe.it
Matteo Betti: un nuovo talento della scherma per il GS Fiamme Azzurre
L Nelle foto Matteo Betti in gara sotto un primo piano di Matteo Betti
e Fiamme Azzurre, nella sua prova di debutto con i colori della Polizia Penitenziaria, hanno scoperto un autentico talento arruolato nel settore della scherma paralimpica nell’aprile 2011: Matteo Betti, senese e classe 1985 è riuscito a conquistare due bronzi nella prova di Coppa del Mondo disputatasi dal 29 aprile al 1° maggio scorso nella trasferta canadese del Quebec, al Complexe Sportif Claude Robillard. Il Nostro atleta, li ha capitalizzati nella categoria “A” del fioretto e della spada. Nel fioretto l’oro è andato al cinese Chan Wing-Kin che ha trionfato sul francese Moez El Assine. Nella spada il nostro Matteo ha conquistato il bronzo dopo essere stato battuto in semifinale dal francese Robert Citerne, a sua volta sconfitto dal polacco Darius Pender. Un ottimo biglietto da visita per la new entry 2011 delle Fiamme Azzurre, un risultato importante che conferma come Matteo sia candidato a buon diritto alla partecipazione di Londra 2012, nei giochi paralimpici delle sue discipline preferite, cosa che gli farebbe superare la delusione dell’ultima paralimpiade, nella quale ha impattato contro un cinese, ovviamente sostenuto da tutto il pubblico di casa, già battuto in altre occasioni agonistiche precedenti, quindi alla sua portata. Al di là dei successi d’esordio, vale la pena saperne un po’ di più del giovanissimo campione toscano in forza al nostro gruppo sportivo perché la sua è una di quelle storie che, se diffuse, rendono bene l’idea di coloro che nascono come combattenti di razza, indipendentemente dall’attività che decidono di intraprendere nella vita o se per sport impugnano un’arma. Matteo, per inciso, sin dalla nascita si è dimostrato essere un imponente guerriero. Da una delle sue ultime interviste si possono apprendere alcune note biografiche che lo dimostrano pienamente. Un’emorragia cerebrale subita alla nascita, sopravvenuta dopo complicazioni in sala parto, gli ha causato un’emiparesi permanente, che gli impedisce l’uso della mano e della gamba destra: da bambino ha iniziato a tirare di scherma in piedi, nel 1991, sco-
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prendo poi nel 2005 la versione in carrozzina. «Ho sempre fatto solo scherma, racconta Matteo, all’inizio per divertimento puro e semplice dal 2005, invece, in modo più organico e strutturato, prendendola come un impegno serio». Continua Matteo: «Grazie a questo sport ho imparato l’impegno che serve tutti i giorni per raggiungere il risultato: una lezione che mi sono ritrovato in tutti i campi, e che mi è servita anche nella vita personale». Alla paralimpiadi di Pechino ha conquistato un 5° ed un 7° posto che non lo hanno soddisfatto per nulla: Matteo è un perfezionista, un ragazzo che non conosce mezze misure e che quando insegue le vittorie difficilmente possono sfuggirgli di mano senza che lui corra a riprendersele. E’ questo un buon motivo per vederlo crescere ancora, in occasione dell’edizione londinese 2012 magari, nella quale sarà più grande, più esperto e più motivato. Matteo in passato si è lamentato del pregiudizio che esiste riguardo all’attività svolta dagli atleti paralimpici, ritenendo che le paralimpiadi sono viste nel nostro Paese quasi come un evento folkloristico e non come una manifestazione sportiva di alto profilo. Essendo lui stesso un atleta di alto profilo giustamente non può comprendere le ragioni di tale disparità di considerazione tra gare sportive a cinque cerchi di pari dignità. Non a caso Matteo si allena anche con la Nazionale di scherma dei normodotati e dice che: «Non è che quelli facciano beneficienza: se non trovassero utile allenarsi con me mi lascerebbero a casa». La scherma dei normodotati sarà pure sopraffina, ma Matteo non torna a casa con le pive nel sacco, si difende e si allena bene con chiunque, non sentendosi fuori luogo nel confrontarsi con nessuno. Il nostro campione gareggia da anni con i ragazzi del Circolo Scherma Uisp Siena, allenati dal maestro Ruggero D’Argenio, in un gruppo d’amici veri. Ha raccontato l’atleta delle Fiamme Azzurre: «Siamo cresciuti assieme e, a seconda di chi è in prossimità di una gara, ci si allena. Quando tocca a me ci alle-
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niamo seduti, se è sotto gara qualcun altro, ci alleniamo in piedi». Nel 2009 è stata sua la Coppa del Mondo di scherma in carrozzina, vittoria conquistata assieme ad altri tre argenti tra Varsavia (fioretto) e Lonato (fioretto e spada), sempre in Coppa del Mondo. La sua vita Matteo la divide fra Roma, dove si è unito al Club Scherma Roma del ct Fabio Giovannini, e Siena, dove per l’Uisp si allena con Francesco Montalbano, a sua volta entrato nello staff azzurro. La scherma l’ha scelta a soli 5 anni ed era ancora la scherma tradizionale, quella in piedi che la disabilità non gli ha mai interdetto. Tirava di scherma in piedi dal 1991, poi nel 2005 è arrivata la scoperta della versione in carrozzina, e “la semplice trasposizione”, secondo lui, che semplice in realtà non è, “delle nozioni acquisite dall’una all’altra”. In realtà la versione seduta comporta il possesso di qualche dote in più di quella in piedi. Ad esempio, sono fondamentali dosi più massicce di concentrazione, prontezza di riflessi e reazione, oltre ad una non comune forza di braccia, che fanno il lavoro grosso. L’idea di cambiare il modo di praticare la scherma è arrivata dopo che lo hanno convinto di essere si un campione, ma necessariamente destinato a traguardi non troppo ambiziosi, per lo più condannato a restare entro i primi 100 in Italia, senza possibilità di crescere oltre. Per un ragazzo tenace e mai domo come lui era troppo grande da sostenere tale prospettiva. Così un giorno si lasciò persuadere dall’istruttore nazionale Fabrizio Di Rosa, capace di trovare le parole giuste e convincenti per farlo tentare a provare in carrozzina. Le parole giuste furono quelle che gli ricordavano che alla fine di ogni prova lui poteva comunque avere la fortuna di alzarsi dalla carrozzina, cosa che tanti ragazzi con un problema simile al suo di nascita non riescono a fare. Il campione senese iniziò da quel momento la sua avventura a caccia di medaglie e successi prestigiosi che puntualmente porta a casa. Matteo, oltre ad essere un bel ragazzo, è scaramantico e super diplomatico. Si allena cinque giorni a settimana su sette. Dopo gli allenamenti e lo studio (è iscritto a Scienze della Comunicazione), resta tempo solo per il cinema, i film di fantascienza e le storie futuristiche che sono la sua passione. In cima alla sua top ten ideale dei film c’è Il Dottor Stranamore, di Kubrik. Come abbiamo detto ha iniziato a praticare la scherma da piccolo, per gioco. Poi il talento è venuto fuori precocemente e subito sono giunte le prime medaglie, a sorpresa. Prima un oro ed un argento ai Campionati Italiani, poi subito dopo è arrivato il bronzo a squadre agli europei e nel 2006 anche il secondo poso a squadre ai mondiali. Proprio allora capì che il gioco poteva farsi duro, più complesso e pieno di impegno oltre che di soddisfazioni. Ritiene di essere, tra le due armi praticate (il fioretto e la spada), un fiorettista puro. Il fioretto secondo lui è più difficile perché richiede due doti che lui riconosce di possedere: il saper cambiare tattica in una frazione di secondo e capire nello stesso tempo dove e come piazzare la stoccata vincente dopo essere stato toccato dall’avversario.
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Matteo in futuro, quando si stancherà di vincere medaglie in giro per il globo, potrebbe diventare un validissimo giornalista sportivo, chissà, potrebbe magari scrivere anche lui tra le pagine della nostra rivista. E’ laureando in Scienze della Comunicazione, facoltà scelta dopo aver provato la positiva frequentazione di una redazione giornalistica locale di Siena. Che sia un ragazzo con le idee chiare non si può eccepire. Londra 2012 è già alle porte e a Matteo, oltre al benvenuto in casa Fiamme Azzurre, va l’augurio di continuare il suo percorso togliendosi tutte le soddisfazioni sportive e non che sono nelle sue corde per tenacia e forza di volontà.
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curriculum sportivo di Matteo Betti Titoli Italiani individuali Fioretto: 2007/2008/2009/2010; Spada: 2005/2006/2007/2008/2009/2010 Campionati Europei 2005 Madrid: Bronzo Fioretto a squadre; 2007 Varsavia: Oro Fioretto individuale, Argento Fioretto a squadre; 2009 Varsavia: Bronzo Spada individuale. Coppa del Mondo 2006: 3 medaglie in stagione di CdM di Fioretto (Hong Kong sq. , Lonato, Lonato sq.) 2007: 2° classificato nella classifica generale di CdM di Spada (Valencia, Montreal, Parigi); 2008: 1° classificato e vincitore della classifica generale di CdM di Fioretto (Montreal, Lonato, Varsavia); 2009: 1° classificato e vincitore della classifica generale di CdM di Fioretto (Montreal, Lonato, Varsavia, Bangalore); 2009: 3° classificato nella classifica generale di CdM di Spada (Montreal, Lonato). 2010: 1° classificato e vincitore della classifica generale di CdM di Fioretto (Montreal, Montreal sq., Lonato ,Varsavia, Eger, Eger sq.). 2010: 3° classificato nella classifica generale di CdM di Spada (Montreal, Varsavia, Eger). Campionati del Mondo 2006: Torino Argento Fioretto a squadre; 2010: Parigi Bronzo Fioretto individuale; 2010: Parigi Bronzo Spada individuale. Giochi Paralimpici Pechino 2008 5° classificato nel Fioretto; 7° classificato nella Spada.
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a cura di Ciro Borrelli* e Carmine D’Avanzo* rivista@sappe.it
L’Istituto Centrale di Formazione del Personale Minorile
L Nella foto l’ingresso del ICF di Castiglione dellle Stiviere (MN). La palazzina degli alloggi dell’ICF e l’aula De Leo a Roma nell’altra pagina la tenso struttura
’Istituto Centrale di Formazione (ICF) ha la finalità di programmare, progettare, realizzare e valutare le attività formative rivolte a tutto il personale appartenente alla qualifiche dirigenziali, alle qualifiche funzionali e al contingente di Polizia Penitenziaria in servizio presso il Dipartimento della Giustizia Minorile. Tale finalità si realizza in stretta interconnessione con gli obiettivi, le esigenze dell’organizzazione e si attua sulla base degli orientamenti programmatici del Dipartimento per la Giustizia Minorile relativi sia alle strategie di sviluppo delle risorse umane sia all’organizzazione del sistema degli interventi a favore dei minorenni con procedimento penale.
Attività e competenze • formazione di primo ingresso e formazione permanente di tutto il personale del Dipartimento Giustizia Minorile • formazione congiunta con gli operatori di enti ed agenzie istituzionali che compongono la rete dei servizi rivolti ai minori, ai sensi del d.lgs 272/89, della legge 285/97, della legge 328/2000 • formazione dei dirigenti e dei quadri direttivi, anche in collaborazione con la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione • monitoraggio, valutazione e verifica dei risultati delle attività formative erogate • attività di studio, ricerca e sperimentazione di indirizzi e metodi in materia di formazione, aggiornamento e qualificazione professionale • realizzazione di convegni, incontri e giornate di studio, a carattere nazionale ed internazionale in materia formativa • cura e valorizzazione del patrimonio documentale delle biblioteche e dei centri di documentazione anche attraverso l’utilizzo di strumenti e modalità di diffusione telematica presso il personale • promozione di accordi ed intese nell’ambito della collaborazione europea ed internazionale in materia formativa • collaborazione con università, istituti di ricerca, agenzie formative, enti pubblici e
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privati, anche attraverso la stipula di convenzioni quadro, per la realizzazione di un sistema di accreditamento formativo e l’attivazione di tirocini professionali post-universitari. Obiettivi dell’attività di formazione • assicurare un adeguato livello di specializzazione al personale interessato all’aggiornamento e alla riqualificazione • garantire l’adeguatezza dei contenuti proposti alle funzioni e ai livelli di responsabilità rivestiti affinare e rafforzare le capacità di intervento nei confronti delle nuove esigenze dell’utenza elaborare modalità organizzative più adeguate alla complessità dei fenomeni sociali ed alle problematiche dell’utenza minorile lavorare alla necessaria interazione con enti di formazione pubblici, privati, Università ed agenzie specializzate al fine di creare “reticoli progettuali” di ampio respiro. La storia dell’Istituto Centrale di Formazione La Scuola di formazione - sede di Roma viene istituita con decreto ministeriale n. 248562 del 15 giugno 1956 ed è operativa nell’anno 1959; dal 1965 diviene servizio autonomo anche dal punto di vista amministrativo. Nel corso degli anni, parallelamente ai mutamenti del sistema giustizia minorile, cambia più volte denominazione: inizialmente Scuola di formazione per la rieducazione dei minorenni, poi Scuola di formazione del personale per i minorenni,
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quindi Scuola di formazione del personale della giustizia minorile, sino all’attuale denominazione di Istituto Centrale di Formazione del Personale. Fino agli inizi degli anni ’90 il personale assegnato stabilmente alla sede della Scuola non comprende figure tecniche addette alla formazione: per la realizzazione dei corsi vengono infatti impegnate, con funzione di monitori, delle unità di personale a chiamata provenienti dai Servizi della Giustizia Minorile. Tale organizzazione, che consentiva ai formatori di dedicare uno spazio ristretto alle attività di formazione solitamente limitato alle giornate d’aula viene successivamente superata con l’assegnazione a tempo pieno, presso la sede formativa, di figure professionali (educatori, assistenti sociali, psicologi e Polizia Penitenziaria) che vanno a costituire un’équipe stabile, dedita alla cura dei progetti di formazione in tutte le fasi di svolgimento. L’Istituto Centrale di Formazione, così come da provvedimento istitutivo dell’aprile 2006, successivamente modificato con D.M. del maggio 2007, dipende funzionalmente dalla Direzione Generale del Personale e della Formazione, ha sede in Roma e consta di due sedi decentrate a Castiglione delle Stiviere (Mn) e Messina. L’attuale assetto dell’ I.C.F. comprende sei unità organizzative - formazione e staff di progetto, segreteria generale, segreteria e accoglienza, contabilità, biblioteca, sicurezza e logistica - che, ciascuna nel proprio specifico, concorrono alla realizzazione dei fini istituzionali. * Ciro Borrelli Rappresentante Sappe - ICF Roma * Carmine D’Avanzo Coordinatore Nazionale Sappe Minori
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Una festa senza il festeggiato
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l Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione dell’annuale Festa del Corpo di Polizia Penitenziaria che si è tenuta il 13 maggio 2011 a Roma, sito archeologico Arco di Costantino, ha inviato al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, un messaggio in cui esprime «a nome di tutta la Nazione e mio personale, i più vivi sentimenti di gratitudine agli uomini e alle donne della Polizia Penitenziaria che adempiono quotidianamente alle loro funzioni istituzionali sia garantendo la sicurezza negli istituti sia contribuendo fattivamente - in attuazione del dettato costituzionale - al trattamento rieducativo dei soggetti detenuti. Anche in un momento reso più difficile e faticoso dal sovraffollamento carcerario, la Polizia Penitenziaria assolve in silenzio alle sue complesse e delicate funzioni con dedizione, coraggio, competenza e umanità. Un continuativo sforzo di formazione, aggiornamento e specializzazione degli appartenenti al Corpo ha portato anche ad affinarne le capacità investigative e a rendere perciò più efficace il rapporto con le autorità giudiziarie inquirenti, che ad essi si rivolgono con sempre maggiore fiducia nella loro specifica professionalità. Con l’auspicio che le iniziative assunte per contrastare la situazione di emergenza del sistema carcerario conseguano il risultato di un progressivo miglioramento delle condizioni generali degli istituti e nel commosso ricordo di coloro che hanno portato sino all’estremo sacrificio l’attaccamento al dovere, giungano a tutti voi, ai colleghi non più in servizio e alle vostre famiglie i più fervidi voti augurali». Anche il Ministro della Giustizia Angelino Alfano e il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta hanno, in una nota congiunta, espresso la più alta considerazione per la professionalità e la fedeltà alle Istituzioni della Repubblica, che gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria dimostrano, ogni giorno, durante lo svolgimento dei compiti loro assegnati. «Nell’anno del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia e a pochi giorni dalla commemorazione del Giorno della memoria delle vittime del terrorismo, ri-
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tengo doveroso ribadire che la Polizia Penitenziaria è un Corpo moderno, rispettoso dei valori e del giuramento di fedeltà alle Istituzioni democratiche, che ha pagato un drammatico tributo di sangue per la lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata». Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, aggiungendo che «La Polizia Penitenziaria, garante della sicurezza e della legalità nella gestione delle persone private della libertà, opera a garanzia della sicurezza dei cittadini. E’ grazie, dunque, alla sua attività che è possibile operare per l’attuazione degli interventi di risocializzazione che consentono una riduzione della recidiva. Il rilancio dell’azione penitenziaria a favore della stabilizzazione e della modernizzazione del sistema – ha precisato Franco Ionta – sta dando segnali importanti di ripresa. La Polizia Penitenziaria ha bisogno di risposte chiare e di indirizzo, che valorizzino le attività, le professionalità, gli uomini e le donne che ne fanno parte. Ho appena emanato il provvedimento dell’assetto organizzativo delle attività di polizia stradale, così come è allo studio la stabilizzazione del funzionamento del NIC e il modello organizzativo del servizio traduzioni. Di concerto con il Ministro Alfano – ha proseguito Ionta – la Polizia Penitenziaria è destinataria di attenzione costante e di interventi che doverosamente ripagano il suo grande sacrificio e il suo prezioso lavoro».
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Nelle foto Il Presidente della Repubblica Napolitano, con il Ministro Alfano e il Capo del DAP Ionta all’Annuale 2011
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Lionello Pascone • Coordinatore Nazionale Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria info@anppe.it
La riforma delle pensioni Iniziato alla Camera l’esame delle numerose proposte in materia
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Nelle foto l’ on. Massimiliano Fedriga e, sopra pensionati
l 16 febbraio scorso, presso la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, è iniziato l’esame delle proposte di legge in materia di trattamenti in favore dei superstiti. Aprendo i lavori, il relatore On. Fedriga (LNP), osservando l’elevato numero di provvedimenti (oltre 10 proposte di legge) e la vastità degli argomenti da trattare, ha evidenziato l’opportunità di elaborare un testo unificato che sia efficace e concretamente applicabile, considerando che le stesse affrontano temi quali l’attribuzione dell’indennità integrativa speciale per le pensioni maturate dal dante causa prima del 1995, la modifica delle norme in materia di limiti di cumulabilità tra redditi di lavoro e pensione; la disciplina delle pensioni nei casi di scioglimento di matrimonio; la possibilità di un trattamento transitorio al fine di assicurare, sin dal momento della presentazione della domanda; una fonte di reddito, l’aumento generalizzato dei vari importi. Dopo successivi interventi, la Commissione per la prosecuzione dei lavori ha, quindi, deliberato la costituzione di un Comitato ristretto, al fine di coordinare le varie richieste soprattutto per chiarire e valutare gli indubbi oneri finanziari.
CONGUAGLIO FISCALE 2010 SULLE PENSIONI Dopo che, nel mese di febbraio 2011, l’INPDAP ha inviato ai propri pensionati la certificazione CUD 2011, con un prospetto informativo e l’eventuale indicazione del credito o debito d’imposta risultante dal conguaglio fiscale dell’anno 2010, nel mese di marzo, l’eventuale debito fiscale (nel prospetto indicato come importo positivo) ha comportato per i pensionati una trattenuta sulla rata di pensione. Nella circostanza, l’Istituto ha previsto che, in caso d’incapienza, la parte eccedente sarà trattenuta nelle rate successive, fino a estinzione del debito e, comunque, fino alla data di dicembre 2011. Qualora in tale data non fosse stato recuperato il pagamento del saldo, dovrà essere versato direttamente dal pensionato, mediante il modello F24, entro il 15 gennaio 2012. Affinché gli effetti del conguaglio non siano particolarmente penalizzanti, è stabilito che: • per i pensionati con un trattamento mensile (al netto di tutte le ritenute e le
Venezia: l’ ANPPe tra i cadetti della Marina
addizionali regionali e comunali) uguale o inferiore a euro 1.168,57 il debito sarà recuperato entro il limite della trattenuta di un quinto della pensione, fino a estinzione del debito e, comunque, fino alla rata di dicembre, utilizzando anche l’importo della tredicesima; • per i pensionati con un importo maggiore di euro 1.168,57 dalla rata di marzo sarà assicurato il pagamento di un importo mensile di euro 934,86 ( il doppio del trattamento minimo INPS) fino ad estinzione del debito e comunque fino alla rata di dicembre, utilizzando anche l’importo della tredicesima eccedente euro 934,86. Nel caso, invece, di credito vantato dal pensionato ( nel prospetto indicato come negativo) se questo è inferiore a euro 1500,00 l’importo è stato restituito già nel mese di marzo nella rata di pensione, mentre importi di credito maggiore, saranno rimborsati direttamente dalla competente sede INPDAP.
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l 7 maggio 2011 in un ampia area della storica Scuola Navale militare di Venezia si è svolta la solenne cerimonia del giuramento degli allievi del Corso Oceanus, alla presenza delle massime Autorità militari, civili e religiose. La cerimonia ha assunto momenti toccanti, in alcuni passaggi dei discorsi tenuti dagli oratori che si sono alternati sul podio: in particolare per la vita militare, i valori della stessa, la convinzione di servire la patria con onore. Al termine della cerimonia i reparti e le associazioni, tra cui l’A.N.P.Pe., hanno lasciato il luogo della cerimonia sfilando, alla presenza delle Autorità e familiari degli allievi, a passo di musica del complesso della Marina Militare.
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Alessandria: l’ ANPPe Reggio Calabria: Reggio Calabria: alla cerimonia per l’ ANPPe alla Festa l’ANPPe ospita gli le vittime della della Polizia Stato allievi on the job rivolta del 1974 resso la Sezione Locale dell’Associa-
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Il 9 maggio 2011 si è svolta la commemorazione in memoria delle vittime della strage del 9 e 10 maggio 1974 nel carcere di Alessandria. La sezione locale dell’Associazione ha partecipato con una sua delegazione. Cav. Antonio Aloia
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a sezione ANPPe di Reggio Calabria, su invito del Questore del capoluogo calabrese, ha partecipato al 159° Annuale della Polizia di Stato. La cerimonia si è svolta nella splendida località di Scilla, all’interno del castello medioevale dei Ruffo di Calabria. Nelle foto i nostri rappresentanti durante la manifestazione. Franco Denisi
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zione Nazionale Polizia Penitenziaria di Reggio Calabria, gli allievi del 163° corso, nella fase on the job , accompagnati dal proprio trainer, l’Ispettore capo Daniele Piras, hanno incontrato alcuni soci insieme al Segretario Locale Franco Denisi, il quale ha illustrato agli allievi provenienti dalla scuola di San Pietro di Clarenza di Catania la composizione, l’organizzazione e le attribuzioni dell’Associazione, con i quali hanno condiviso con interesse le diverse esperienze storiche. Alla presenza del Vice Direttore dell’Istituto reggino, Dott.ssa Chirico, che ha curato le presentazioni, si è sviluppato un confronto fra tre generazioni che ha evidenziato l’evoluzione del Corpo di Polizia Penitenziaria, anche attraverso divertenti aneddoti, suscitando curiosità, interesse e partecipazione da parte dei futuri Agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria.
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Giulianova: vigilanza in centro
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olontari dell’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria, unitamente all’Associazione Nazionale Carabinieri vigilano sul centro storico di Gulianova. L’iniziativa è stata adottata per incrementare la sicurezza per i cittadini e dare un punto di riferimento a cui rivolgersi in caso di necessità. Il servizio dei membri dell’Associazione, molto apprezzato dai giuliesi, servono per segnalare gli eventuali disservizi ed atti illeciti che hanno luogo nel centro storico. Claudio Amatucci
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Venezia: l’ ANPPe ai festeggiamenti Reggio Calabria: n ricco calendario di eventi e ceper i 150 anni della Precetto Pasquale lebrazioni per i 150 anni dell’Unità ella foto la delegazione ANPPe di d’Italia, quello messo a punto dal Unità d’Italia Reggio Calabria che ha partecipato Comune di Venezia.
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i è svolta a Venezia il 17 marzo 2011, la celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Per l’occasione, in una Piazza San Marco gremita da una folla di circa tremila persone, tra turisti incuriositi, cittadini italiani e veneziani in particolare; tutti accorsi per essere partecipi del grande evento, erano presenti, inoltre, tutte le più alte Autorità civili e militari della città. Un picchetto interforze (Esercito, Marina Militare e Carabinieri), con il fantastico supporto della Fanfara dei Bersaglieri, è stato passato in rassegna dal Prefetto di Venezia Dott.ssa. Luciana Lamorgese, accompagnato dal Comandante del Presidio Militare Veneziano Generale di Brigata Stefano Orti. Subito dopo, gli stessi, passavano in rassegna lo schieramento dell’AssoArma composto da molteplici associazioni d’Arma e combattentistiche tra le quali figurava la nostra Associazione, tutte con il rispettivo Labaro. Dopo l’alzabandiera e l’inno nazionale italiano, cantato da tutti presenti davanti al palco delle Autorità, si è esibita la Fanfara dei Bersaglieri suonando alcuni brani del Corpo ed infine, l’inno di Mameli. All’atto della loro uscita dalla piazza, al termine della cerimonia, sono sfilati tra due festanti ali di folla che tra gli sventolii di tricolori e gridando Italia! Italia!, li acclamavano per il loro caratteristico celere passo, suonando la prescritta marcetta. Filomeno Porcelluzzi
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Un cartellone degno della città che ha dato i natali a Daniele Manin. Nel contesto delle celebrazioni, l’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria - Sezione di Venezia - mercoledì 16 presso l’Hotel Ambasciatori di Mestre si univa con degna cerimonia al ricco programma già previsto. Eugenio Montale chiude una poesia delle occasioni con il verso: Occorrono troppe vite per farne una, con questo spirito l’ANPPe, festeggiava il 150° Anniversario dell’Unità Nazionale, perchè solo guardando al passato, scopriremo quanto sia grande l’eredità etica di coraggio e fiducia alla quale possiamo ancora attingere. La serata era anche l’occasione per raccogliere fondi per aiutare Niccolò, figlio di un poliziotto, che deve recarsi in America per un’intervento al cervello per il quale occorrono 100.000 euro; l’iniziativa, partita su scala nazionale, è promossa dalla Fondazione Cielo Stellato, presieduta da Lorenzo Conti, figlio del Sindaco di Firenze, vittima delle B.R. Durante la cerimonia sono state consegnate delle medaglie commemorative. Tra i premiati la famiglia Vanzan (in memoria di Matteo, il lagunare caduto in Iraq) e l’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria - Sezione Venezia - per il proficuo impegno nel sociale. La medaglia veniva ritirata dal locale Presidente Cav. Vitantonio Petrelli, presenti alla serata l’Avv. Bruno Canelle e l’ Onorevole Giorgio Conte. Presenti anche rappresentanti di altre Associazioni d’Arma. Filomeno Porcelluzzi
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al Precetto Pasquale.
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Roma: l’ ANNPe al giuramento dei nuovi Commissari del Corpo
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l giorno 29 aprile, presso l’Istituto Superiore di Studi penitenziari di Roma, si è svolto il giuramento dei nuovi Commissari del Corpo di Polizia Penitenziaria. Alla manifestazione, erano presenti Ministro della Giustizia Angelino Alfano, il Capo del DAP Franco Ionta e il direttore dell’ISSP Massimo De Pascalis, unitamente ad altri rappresentanti dell’Amministrazione. Durante la cerimonia sono stati resi gli onori al Gonfalone dell’Associazione, accompagnato dal socio Silvano Di Poto.
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Benevento: il Coordinatore Nazionale Pascone incontra i soci
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l 9 aprile 2011, ha avuto luogo presso la Casa Circondariale di Benevento una riunione con gli iscritti all’A.N.P.Pe. della provincia. E’ intervenuto il Coordinatore Nazionale Lionello Pascone, unitamente al Delegato Nazionale Giuseppe Cimino. Molto sentita è stata la partecipazione e significativo il confronto dialettico. Attualmente, nella città campana, l’Associazione ha una sede esterna all’istituto.
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Rovigo: accordo con l’amm.ne penitenziaria per l’attività di volontariato nell’istituto
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seguito del D.M. del 25 Febbraio 2010 riguardo l’art.5 (Impiego e disponibilità) la Sezione di Rovigo, nelle persone del Presidente Tramacere e del Vice Presidente Meloni, in data 21 Aprile 2011 hanno avuto un incontro presso la C.C. di Rovigo con il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto dott. Bocchino. Il colloquio, molto cordiale, ha trattato l’impiego di alcuni Soci della Sezione per lo svolgimento di attività e incarichi di volontariato nell’istituto rodigino, per l’assistenza e il sostegno dell’Amministrazione Penitenziaria. Al termine del confronto, lo
stesso dott. Bocchino ha voluto visitare la sede della Sezione e l’adiacente Sala Congressi Marco Frezza complimentandosi con i Soci per la notevole attività svolta. La Sezione di Rovigo ha voluto ricordare la visita donando al Provveditore il gagliardetto della Associazione. Alla Cerimonia hanno assistito la Direttrice della C.C. di Rovigo dott.ssa Paolini, il Comandante f.f. Zannarini, il Commissario DAP dott.ssa Marinucci i Soci Garavello, Sessa, Frezza ed altri. Si ringraziano il Segretario Cav. Olianas e il Vice Presidente Meloni. Cav. Roberto Tramacere
Ragusa: L’ ANPPe in servizio d’ordine per la visita del • Ministro Alfano Rovigo: L’ ANPPe alla Festa della Polizia alla città
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’ANPPe (Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria) sotto la tutela e il coordinamento del Ministero della Giustizia della Sezione Provinciale di Ragusa che collabora, con i suoi soci pensionati e simpatizzanti, con la omonima Associazione di Volontariato, ha collaborato in ausilio alla Polizia Municipale in occasione della visita nella nostra città il 29 Aprile u.s. , del Ministro della Giustizia On. Angelino Alfano che mi ha espresso nei momenti concitati mentre andava via (scusate per la foto ma è stata scattata proprio in quei momenti) il suo apprezzamento per il nostro impegno a tenere sempre, anche in quiescenza, alto lo spirito di Corpo che ci unisce ai colleghi in servizio. Giovanni La Magra
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n occasione della celebrazione del 159° Anniversario della Polizia di Stato di Rovigo, una ampia delegazione della Sezione A.N.P.Pe. del Capoluogo Polesano è stata invitata alla Cerimonia tenutasi in Piazza Vittorio Emanuele. Presenti tutte le più alte cariche Istituzionali e Civili con tutte le Forze d’Arma e Combattentistiche. Spettacolare la discesa di due Agenti della Polizia di Stato del Reparto Scalatori dal campanile attiguo alla Piazza con corde e funi per la distesa di un ampio cartellone recante l’effige del Corpo. Un ringraziamento al Questore di Rovigo Luigi De Matteo per l’invito alla spettacolare manifestazione. Cav. Roberto Tramacere
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inviate i vostri articoli a rivista@sappe.it
In memoria di Giuseppe Ledda
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eppe Ledda era un ragazzo allegro, spensierato, con tanta voglia di vivere. Io l’ho conosciuto così, tanti anni fa, quando arrivò all’ufficio disciplina del dipartimento. Prima di lui ho conosciuto il padre, anche lui agente di custodia, anche lui bravissima persona. Non ho conosciuto, invece, il fratello Fausto, terzo Ledda nella Polizia Penitenziaria, in servizio come Peppe al carcere di Viterbo e che, posso presumere, è persona ammodo anche lui. Una sera, una domenica di maggio, la breve telefonata che ti da una notizia incredibile, che ti informa di una cosa assurda da immaginare, un evento irreale. Peppe Ledda non c’è più, Peppe Ledda ha deciso di togliersi la vita. In servizio, in caserma, in uniforme. Con la pistola di ordinanza, Peppe Ledda ha messo fine alla sua carriera e alla sua vita, contestualmente. In una famiglia dove tre persone, padre e due figli, vestono la divisa della Polizia Penitenziaria, la scelta di Peppe di morire in uniforme, non può essere casuale. Ma come è possibile che Peppe Ledda, quel Peppe Ledda allegro, scanzonato e
irriverente, quel Peppe Ledda che parlava sempre di calcio, di pesca e di caccia, possa aver fatto un cosa del genere ? Evidentemente, quel Peppe Ledda allegro e spensierato, nascondeva invece un profondo senso di disagio, reprimeva dentro di se il mal di vivere, quel mal di vivere che ti fa sentire insopportabile anche un solo giorno di vita in più, quel mal di vivere che ti fa decidere di farla finita. Io ti ricordo sul campo di calcetto, quando mi facevi arrabbiare perché non passavi mai la palla; ti ricordo quando mi insegnavi qualche trucco di pesca e mi raccontavi delle tue imprese al lago di Corbara. Io ti ricordo in divisa, alla scuola di via di Brava. Io ti ricordo quando portavi le castagne. Io ti ricordo alle riunioni dei quadri sindacali, soprattutto quelle che finivano coi piedi sotto al tavolo... Io ti ricordo. E per questo tu per me non morirai mai. Ciao Peppe.
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Roma: attività di formazione per il personale degli istituti minorili
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ell’ambito dell’attività formativa avviata fin dal 2008, e destinata al personale di Polizia Penitenziaria prescelto per approfondire le proprie abilità comunicative e restituire poi le competenze acquisite nell’ambito degli Istituti Penali Minorili e Centri di Prima Accoglienza, di tutta Italia, nei giorni 11, 12 e 13 aprile 2011 si è svolto, presso l’Istituto Centrale di Formazione del Personale Minorile di Roma, il seminario Competenze per una comunicazione costruttiva, guidato dall’esperto olandese Robert Suvaal.
L’occasione si è rivelata proficua per rivedere insieme ai corsisti il percorso svolto fino ad ora ed affinare alcuni aspetti in vista del completamento negli ultimi 5 Istituti Penali d’ Italia. Il docente si è complimentato con il gruppo di formatori del Corpo di Polizia Penitenziaria per l’alto livello professionale dimostrato e per l’eccellente profilo formativo gene-
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ralmente raggiunto dall’Italia rispetto, secondo la sua esperienza, agli altri paesi frequentati. Ciro Borrelli
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Roma: Cerimonia per il giuramento del II Corso Funzionari della Polizia Penitenziaria
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foto: Mario Caputi
el cortile dell’istituto superiore di Sudi Penitenziari di Roma, si è tenuto il giuramento di fine corso dei nuovi Commissari del Corpo di Polizia Penitenziaria. Alla manifestazione ha partecipato il Ministro della Giustizia Angelino Alfano, unitamente al Sottosegretario Caliendo, al Capo del DAP Franco Ionta, al direttore dell’ISSP Massimo De Pascalis e altri dirigenti dell’Amministrazione. Folta la rappresentanza dei parenti, visibilmente commossi, assiepati ai margini della piazza d’armi. Suggestiva anche la Cerimonia del giuramento, declamata da tre rappresentanti dei nuovi funzionari che si è conclusa con la sfilata dei Commissari sulle note della Banda del Corpo. Nelle foto alcune fasi della manifestazione.
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Giovanni Passaro passaro@sappe.it
Decorrenza dell’aumento dei giorni di congedo ordinario in relazione all’anzianità di servizio
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arissimi del SAPPe, vi scrivo sia per farvi i complimenti, sia per segnalare un fatto che penso interessi molti che, come me, hanno diritto alle ferie. Nel mese di marzo 2011 ho maturato 15 anni di servizio, contavo di fruire durante l’anno di 37 giorni di congedo ordinario, come previsto dalla norma. Però, mi sono accorto di non avere fatto i conti con l’interpretazione, del personale addetto presso l’ufficio servizi, che mi riconosce la maggiorazione del periodo di ferie solo a decorrere dal 2012, poiché ho maturato l’anzianità di servizio durante l’anno solare. Che ne pensate? Distinti saluti. Lettera firmata
Caro collega, la questione sottoposta ha dell’assurdo, rimango stupito dall’errata interpretazione posta da un addetto ai lavori che “dovrebbe” essere ferrato in materia. Il diritto alle ferie è regolato da diverse fonti a livello costituzionale, comunitario e nazionale. I lavoratori hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per un periodo di ferie annue retribuite la cui durata è stabilita dai contratti collettivi. L’irrinunciabilità del diritto alle ferie sancita dall’art. 36 della Costituzione è funzionale al recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore ed è strettamente connesso al più ampio diritto/dovere di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro. La ragione si chiarisce appena si collega detta previsione con l’art. 32 Cost. (diritto fondamentale alla salute), e con l’art. 35 Cost.(“la Repubblica tutela il lavoro”): il riposo annuale è, infatti, preposto al recupero psicofisico delle energie lavorative del prestatore di lavoro, allo sviluppo delle relazioni sociali, culturali e della personalità dell’individuo, così come garantito dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, nell’interesse dello stesso datore di lavoro a che il proprio personale si ristori dallo stress lavorativo per una migliore resa produttiva successiva. La previsione costituzionale incide direttamente sul rapporto di lavoro, limitando i poteri del datore di lavoro, senza peraltro fissare una durata temporale del congedo annuale garantito.
L’art. 2109 c.c. arricchisce e specifica il dettato costituzionale: la determinazione della durata delle ferie viene lasciata alla legge, alle norme corporative , agli usi ed equità. L’art. 10 del D. lgs. 66/2003 – novellato dal D. lgs. 213/2004 - si colloca come modello rafforzato della precedente normativa nazionale: recependo la direttiva 93/104/CE, esso dà attuazione organica alla previsione comunitaria, in modo da assicurare una applicazione uniforme della disciplina relativa all’organizzazione dell’orario di lavoro su tutto il territorio nazionale. Invero, la nuova disciplina delle ferie ha portata generale: le disposizioni ivi contenute si estendono a tutti i lavoratori, a prescindere da settori e qualifiche, travolgendo le varie disposizioni speciali che ancora sopravvivevano nel nostro ordinamento. Per quanto riguarda il diritto alle ferie si precisa che ogni lavoratore ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane e non sostituibile dalla relativa indennità, salvo il caso di cessazione del rapporto di lavoro. La legge determina il periodo minimo inderogabile di ferie ma è comunque fatta salva l’autonomia negoziale dei contratti collettivi, laddove stabiliscano condizioni di miglior favore per i lavoratori. La legge ovvero il contratto collettivo stabiliscono il periodo di ferie che deve essere riconosciuto al lavoratore per ogni anno di servizio prestato. L’anno di servizio valevole ai fini delle ferie (cd periodo di maturazione) può essere fatto coincidere con l’anno civile (1° gennaio/31 dicembre) ovvero con un periodo di 12 mesi diversamente decorrente. La Corte costituzionale con sentenza n. 66 del 1963 ha peraltro dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2109 c.c. nella parte in cui risulterebbe subordinare il diritto alle ferie (ovvero all’indennità sostitutiva) al compimento di un anno di ininterrotto servizio. Ai fini della maturazione del diritto alle ferie devono essere computati tutti i periodi di servizio, ivi compresi (convenzione OIL) i periodi di assenza dal lavoro per motivi indipendenti dalla volontà del lavoratore (ad esempio le assenze per malattia o infortunio). In particolare, sono da computare i periodi di congedo per maternità e paternità, i periodi di assenza per l’adempimento di fun-
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zioni presso i seggi elettorali, i periodi di richiamo alle armi, i periodi di congedo straordinario per matrimonio concessi all’impiegato a norma del R.D.L. n. 1334 del 1937). Durante il periodo di ferie al dipendente spetta la normale retribuzione, con esclusione dei compensi per prestazioni di lavoro straordinario e delle indennità che non siano corrisposte per dodici mensilità. Il congedo ordinario è di n.32 giorni lavorativi, con elevazione rispettivamente a n.37 e a n.45 giorni per il personale con oltre 15 e 25 anni di servizio (comprensivi in tutti e tre i casi dei due giorni già attribuiti a tale titolo dalla legge 23.12.1977, n.937. Resta confermata, per tutti i dipendenti, l’attribuzione delle 4 giornate di riposo secondo le modalità di cui alla già richiamata legge 937/77. In caso di distribuzione dell’orario settimanale di lavoro su cinque giorni, il sabato è considerato, di norma, non lavorativo ed i giorni di congedo ordinario sopra citati sono ridotti rispettivamente a 28, 32, 39 giorni lavorativi ed a 26 giorni lavorativi per i dipendenti nei primi tre anni di servizio. Al personale di Polizia Penitenziaria, le giornate di congedo ordinario aggiuntivo previste dall’art. 14, c. 2, del D.P.R, 395/1995, sono attribuite, per intero, nell’anno in cui è maturata la prevista anzianità (15° e /o 25° anno) di servizio nel Corpo, compreso il servizio prestato in qualità di agente ausiliario in servizio di leva, a prescindere dal mese in cui il suddetto requisito è stato raggiunto. Cordialmente. Riferimenti normativi: art. 14 D.P.R. 395/95; circolare DAP 3426/5876 del 27/04/1996; lettera circola DAP 0101432-2006 del 21/03/2006. Giurisprudenza: sentenza Corte Costituzionale n. 66/1963; sentenza Corte Costituzionale n. 189 del 22/12/1980; sentenza Corte Costituzionale n. 543/1990; sentenza Corte di Cassazione sezioni unite n. 1947 del 23/02/1998; sentenza Corte di Cassazione n. 13860 del 19/10/2000; sentenza Corte di Cassazione n. 13980 del 24/10/2000; sentenza Corte di Cassazione n. 2569 del 21/02/2001; sentenza Corte di Cassazione n. 14020 del 12/11/2001; sentenza Corte di Cassazione sezione lavoro n. 15627 del 11/12/2001; sentenza Corte di Cassazione n. 7451 del 21/05/2002; sentenza Corte di Cassazione n. 15776 del 9/11/2002; sentenza Corte di Cassazione n. 20662/2005; sentenza Corte di Giustizia C-124/05; sentenza Corte di Cassazione n. 10856 del 2006; sentenza Corte di Cassazione n. 2016/2006.
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a cura di Giovanni Battista De Blasis
The next three days
J In alto la locandina sotto alcune scene del film nel riquadro Russel Crowe e Olivia Wilde
ohn e Laura Brennan (Russell Crowe ed Elizabeth Banks) sono una felice coppia della borghesia nordameri-
cana. La bella favola familiare si infrange quando la donna viene condannata improvvisamente a vent’anni per omicidio. La dinamica del delitto non lascia alcuno spiraglio per dimostrare l’innocenza della donna, le frequenti visite in carcere del marito e del figlio piccolo sembrano solo agevolare un progressivo allontanamento dei tre, logorando l’unione dei rapporti con l’altro. John si rende conto allora che soltanto un’azione disperata potrebbe salvare almeno in parte la situazione. Remake del meno noto Pour elle, il film si segnala subito per il gradito ritorno alla regia di Paul Haggis, esploso al fianco di Clint Eastwood come sceneggiatore di Mil-
lion Dollar Baby e della convincente doppia versione su Iwo Jima - e si è consacrato poi anche dietro la macchina da presa col pluripremiato Crash. Quest’ultimo film di Haggis è forse il più simile all’ultima fatica del regista canadese, anche se sentimentalmente meno intenso, pur mantenendo un profilo drammatico e ricco di azione inaspettata ma mai esagerata, sia nel ritmo che nella frequenza. Lo stile continua a vivere d’exploit improvvisi e colpi di scena oltremodo numerosi, con l’obiettivo dichiarato di stupire e divertire lo spettatore nello sviluppo piuttosto lineare della trama. Nonostante l’inizio sia piuttosto sotto tono, si percepisce subito il progressivo aumento della tensione. La pazienza dello spettatore è premiata nel secondo tempo, quando il coinvolgimento arriva ad alti livelli senza inseguimenti all’ultimo respiro o melodrammi. Non si può non fare il tifo per chi è disposto a barattare l’ultimo barlume di moralità per un po’ di felicità, così come è impossibile prevedere chi la spunterà alla fine.
The nex three days ricorda molto Match Point al quale strizza gli occhi più di una volta. Nel complesso non si rimarrà delusi e gli ultimi trenta minuti bastano a passar sopra alle prime due ore (davvero eccessive), alla noiosità della prima parte e ai troppi prestiti attinti un po’ a destra e a manca da opere precedenti. Per fortuna divertimento e imprevedibilità sono garantiti alla fine e questi due elementi, specialmente quando il pubblico dimentica in fretta e non guarda troppo indietro, bastano e avanzano affinchè il fine giustifichi i mezzi.
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Regia: Paul Haggis Soggetto: Fred Cavayé, Guillaume Lemans Sceneggiatura: Paul Haggis Fotografia: Stéphane Fontaine Montaggio: Jo Francis Scenografia: Laurence Bennett Arredamento: Linda Lee Sutton Costumi: Abigail Murray Musiche: Danny Elfman Effetti: Drew Jiritano, Mike Uguccioni, Asylum VFX, Furious FX, RotoFactory, Proof Produzione: Olivier Delbosc, Paul Haggis, Marc Missonier, Michael Nozik e Eugénie Grandval per Fidélité Films, HWY61, Lionsgate Distribuzione: Medusa Personaggi ed Interpreti: John Brennan: Russell Crowe Laura Brennan: Elizabeth Banks George Brennan: Brian Dennehy
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Tenente Nabulsi: Lennie James Nicole: Olivia Wilde Luke: Ty Simpkins Grace Brennan: Helen Carey Damon Pennington: Liam Neeson Mick Brennan: Michael Buie Erit: Moran Atias Jenna: Remy Nozik David: Jonathan Tucker Mouss: RZA Detective Quinn: Jason Beghe Mike: Tyrone Giordano Barney: Sean Huze Elaine: Nazanin Boniadi Alex: Kevin Corrigan Lyla: Lauren Haggis Elizabeth Gesas: Leslie Merrill Genere: Fantathriller Durata: 122 minuti Origine: USA, 2010
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di Freddy S.B. rivista@sappe.it
LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO E’ STATA PUBBLICATA SUL NUMERO 183 4/2011 • PAGG.24-25
Una visita al Corrections Museum •2• Kook Kao: la vecchia prigione di Bangkok
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Nelle foto gli allestimenti delle stanze del museo e, nell’altra pagina, antichi metodi di punizione
na successiva scorsa alle fotografie storiche della prigione (e della cronaca di una sanguinosa fuga, finita male di un manipolo di prigionieri birmani...) ci permette di introdurci più consapevolmente alle tre stanze superiori, dove si fa abbondante uso di verosimili statue di cera; sono esibiti reperti e varie armi da taglio e da fuoco; vi sono agghiaccianti, emblematiche fotografie esplicative delle ‘procedure’ seguite, nelle quali si descrive la disciplina della esecuzione della pena capitale in Tailandia in tre diversi periodi cronologici. Nel periodo più antico (illustrato nella prima stanza), terminato con la introduzione del codice penale del 1934, la pena di morte veniva eseguita mediante decapitazione del condannato, seduto a terra e legato ad una sorte di croce di legno; con l’intervento di tre incaricati addetti all’ opera e l’uso a loro scelta di certe armi specializzate da taglio di vario tipo e fattura (e dai nomi piuttosto esotici, quali Daab Hua Pla Lai, o Daab Pla Lam, o ancora Daab Tudd). Questo, non prima di aver irrogato al poveretto una terribile scarica di frustate, o meglio bastonate, di ben novanta colpi con canne, bastoni o fruste di rattan... Il Re Prajadhipok (Rama VII), più o meno obtorto collo –tenendo conto dei cambiamenti politici e sociali seguiti ai moti rivoluzionari del 1932- iniziò un periodo di aperture e riforme di cui sostanzialmente la Tailandia odierna è diretta discendente e fra l’altro dispose la sostituzione della ‘morte per decapitazione’, con quella più moderna ed accettabile ‘per fucilazione’... La seconda stanza è dedicata alla spiegazione delle metodiche di irrogazione di questa seconda tipologia di pena assoluta, cioè per fucilazione, che dai dettagli riportati si può agevolmente capire venisse praticata con una certa umanità e pudore. Una comprensione non comune sia dei (probabili...) sentimenti del condannato che di quelli dell’esecutore permea infatti
la scena dell’esecuzione, pur nel rispetto per le altre esigenze pubblicistiche, sempre necessariamente presenti in tale triste circostanza. In effetti, seguendo pedissequamente un decalogo ben precisato e descritto nel museo, scritto, formale, se vogliamo anche garantista (per esempio, con la necessità di prendere le impronte digitali prima e dopo l’esecuzione); alla presenza di dottori, magistrati e funzionari, la fucilazione veniva effettuata con un fucile mitragliatore impiantato ad una postazione fissa ed il singolo esecutore mirava ad un bersaglio da tiro a segno affisso ad una tenda, dietro la quale veniva fatto sedere il condannato bendato, di spalle e col cuore perfettamente in linea con il percorso di tiro.
Non manca l’angolo, ancorchè lungi dal risultare apologetico, dedicato all’ultimo boia della prigione (the last gun executioner: in senso tecnico, si capisce, senza nulla di etico-morale): Mr Chawalate Jarubun, che ci guarda un pò triste da una immagine a colori su un lato della stanza, non lontano dall’arma che probabilmente usava per lavoro quando il dovere lo chiamava... Nella terza camera, veniamo portati al periodo attuale, iniziato nella specie a dicembre 2003, nel quale la pena capitale viene eseguita mediante iniezione letale, con tutti i crismi, metodiche e garanzie comuni ai Paesi moderni che la prevedono e la praticano.
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Oltre alle solite descrizioni della procedura da seguirsi nella pratica, vi sono varie foto a colori che rappresentano la cronaca di un’esecuzione. Per probabili ragioni di privacy, protezione, attualità e se vogliamo anche pudore, le fotografie sono - per così dire - mascherate con l’utilizzo di tecniche ed effetti digitali, ma si conservano sufficientemente adatte alla narrazione del triste momento. Oltre a ciò, quasi a simboleggiare l’inutilità di ulteriori esposizioni, nella stanza vi è un unico articolo: il lettino speciale a cui è legato il condannato al momento dell’esecuzione, che con le sue cinghie penzolanti ed i bracci metallici di sostegno aperti, da soli rendono l’atmosfera particolarmente emblematica e significativa. Uscendo dal primo edificio, si può passare immediatamente a dare un’occhiata alla vicina esposizione e vendita di vari articoli di artigianato che i detenuti tuttora producono, principalmente oggetti di arredamento di bamboo e rattan; oppure passare direttamente alla visita di quello che era uno dei padiglioni restrittivi veri e propri.
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Attualmente, la palazzina recentemente dipinta e ben conservata, che insiste ai margini del parco, al lato della strada sempre troppo frequentata dal traffico motorizzato di Bangkok, nella sua apparente modernità ed asetticità non risulta particolarmente suggestiva e se non fosse per tutta una serie di grosse sbarre che coprono tutte le aperture, dall’esterno si direbbe piuttosto un piccolo condominio residenziale. L’aspetto interessante del padiglione è comunque la visita all’interno, ai suoi due piani di celle, con la possibilità d’essere accompagnati da una delle guide museali che in precedenza avevano prestato servizio come agenti, nella speranza che vi sia con loro una qualche occasione di interazione linguistica e quindi maggior comprensione delle evidenze esposte. Ad ogni modo, all’esterno di ogni vano ci sono delle placche d’ottone bilingui (thai/inglese), che fungono egregiamente allo scopo d’illustrazione dell’ambiente carcerario delle varie epoche, che con l’aiuto di molte statue di cera e di vari reperti viene ricostruito in ogni cella. Così, la rappresentazione della vita d’istituto (si badi però bene, sostanzialmente solo dal punto di vista del trattamento del detenuto) è ben resa, con l’esposizione di molti degli articoli già visti nel primo edificio, in foto e pitture. Gli antichi metodi di punizione e i vari metodi di costrizione in generale, con l’ausilio dei manichini e dei vari artefatti, nell’ambiente nel quale venivano concretamente praticati, risorgono quasi ad una sorta di nuova vita. Delle varie scene proposte, che rappresentano metodiche che nella nostra epoca non avremmo difficoltà a catalogare quali vere e proprie torture, alcune colpiscono maggiormente la nostra attenzione e meritano una breve descrizione. Il primo da menzionare è probabilmente il Bed Lek: un tremendo strumento usato sin dal XV secolo, un grosso uncino posizionato sotto il collo del punito, il quale veniva sollevato fino a che egli rimaneva con tutto il peso del corpo sulle sue dita dei piedi, abolito col codice penale del 1908. Qualcosa di più leggero era invece la pratica del Mai Kha Yang, che, ancorché praticata con metodo diverso (dove qui il soggetto emerge con la testa da una gab-
bia) era sostanzialmente la gogna in pubblico, la cui memoria non è del tutto scomparsa nemmeno nel nostro Paese... Si torna a qualcosa di molto più doloroso, quando si capisce che per secoli (sempre dal periodo della legge marziale dell’era di Ayudthaya, dall’inizio del ‘400, con successiva abolizione nel 1908), veniva praticata la punizione di infilare a mazzate dei chiodi di legno duro nelle dita delle mani, proprio sotto le unghie, per un dolore perpetuo, incredibile ma non letale (abbiamo comunque imparato, da una visita al War Remnants Museum di Saigon, noto anche come museo dei crimini di guerra cinesi ed americani, che tale ‘pratica’ pare fosse ampiamente usata anche in Vietnam, al campo di concentramento sull’isola di Phu Quoc, che deteneva migliaia di Vietcong, non molto tempo fa...).
Semplice, forse anche un po’ ingegnoso ma sicuramente doloroso e persuasivo (termine appropriato, visto che era usato per convincere qualcuno a confessare) era un peculiare strumento di pressione delle tempie, certamente degno di quelli usati dagli organismi inquirenti medievali (e non solo dell’Inquisizione per antonomasia) in Europa: una sorta di compasso di legno, nel quale veniva infilata la testa del soggetto, poi stretta progressivamente nei due bracci dello strumento, in prossimità delle tempie... Ma il supplizio per noi più esotico, certo il più singolare ed anche significativo, arriva col nome di Takrow: uno strano strumento, una grande palla di fasci di rattan, con molti chiodi acuminati all’interno, nella quale il poveretto veniva rinchiuso alla stregua di un contorsionista. Il pallone veniva poi sbattuto violentemente di qua e di là da un elefante...
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Una sorta di crudele e penoso zorbing (sport estremo, inventato in Nuova Zelanda, che prevede la discesa da una altura, chiusi in una palla, trasparente ed ammortizzata, ovviamente senza chiodi e con tutte le garanzie), ante-litteram… Nel padiglione, poi, a soddisfare esigenze uguali a quelle attuali d’istituto, intelligente ed interessante appare la soluzione meccanica incentrata su un sistema di leveraggi, che consentiva l’apertura delle celle dieci alla volta; ingegnoso, funzionale ed economico... Alla fine della visita, quindi, che dire: che questo museo, che non vuole avere pretese d’ambizione particolare, pur mancando di toccare le corde più profonde della sensibilità estetica, probabilmente per la scelta di presentarlo più nei suoi obiettivi pedagogici e memorialistici, che di ricostruzione d’ambiente della realtà, nella sua profonda essenza ed atmosfera (aspetto d’ambiente che si ritrova invece maggiormente in altri musei omologhi, quale per esempio nella ex prigione del Kgb a Vilnius, Lituania), assolve bene ai suoi compiti di testimonianza della storia e riesce invero a provocare ed istruire, far riflettere e dimostrare... In definitiva, il tour è comunque istruttivo ed il commento usuale che si rintraccia sul libro dei visitatori è... «prometto di comportarmi bene...». Quanto basta, secondo continua noi...
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Vito Fazio rivista@sappe.it
Ospedali Psichiatrici Giudiziari L’attuale situazione italiana
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on riferimento alla periodica divulgazione, attraverso i mass media, di immagini e commenti relativi agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani (occasioni in cui, per altro, del tutto assente rimane la voce di chi vi lavora da anni fra straordinarie difficoltà e nell’assoluto oblìo da parte della cosiddetta società civile) sia consentito l’esercizio di un modesto, ma fermo, diritto di tribuna, onde poter formulare alcune doverose considerazioni. Gli O.P.G. che insistono sui territori di Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Barcellona PG vivono da anni una fase particolarmente difficile e di assoluta precarietà. Ciò essenzialmente per le seguenti ragioni; • L’aumento drammatico, ed apparentemente inarrestabile, del numero dei ricoverati (sia dei prosciolti per incapacità di intendere e volere sia dei detenuti trasferiti dal carcere in OPG per disturbi psichiatrici sopravvenuti nel corso della pena detentiva) che ha raggiunto la cifra complessiva di 1540 presenze contro i 1250 di alcuni anni addietro; • la sincronica, rilevante riduzione del personale, che ha compromesso, soprattutto, lo svolgimento delle attività trattamentali intramoeniali (attività alcuni anni addietro particolarmente numerose e significative e che, per altro, si giovavano dell’apporto di un volontariato folto e motivato) creando ulteriori problemi nella gestione quotidiana dei pazienti. • il ritardo (colpevole e foriero di notevoli scompensi nel trattamento dei soggetti ricoverati e -quindi- nell’allestimento dei progetti di dimissione individualizzati) della Regione Sicilia nel recepire il DPCM del 1 aprile 2008 che prevede il passaggio della sanità penitenziaria al SSN. La perdurante difficoltà nel rendere effettivi i bacini d’utenza, stabiliti in seno alla Conferenza Stato - Regioni, i quali, di fatto, dovrebbero accogliere i ricoverati degli O.P.G. secondo provenienza geografica (territorializzazione delle pene e delle misure di sicurezza!); • la davvero frustrante difficoltà a dimettere i soggetti che si trovano nella condizione di proroga della misura di sicurezza. Avviene, di fatto, che a misura di sicurezza ultimata manchi, per molti dei pazienti, la ricettività da parte dei presidi sanitari territoriali competenti, situazione che induce la Magistratura di Sorveglianza a prorogare la durata della permanenza in O.P.G. anche per diversi anni (e si tenga,inoltre, conto del fatto che una percentuale prossima al 50% dei soggetti che si è riusciti, pur tuttavia, a dimettere tornano inesorabilmente in O.P.G. nel giro di pochi mesi); • la presenza, impropria ed inquietante, di moltissimi ricoverati
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sottoposti al regime di misura di sicurezza provvisoria che, potenzialmente, potrebbero essere innocenti e che, invece, rimangono svariati anni in O.P.G. in attesa che la giustizia (?!) faccia, finalmente, il suo corso; • la scarsa osservanza delle indicazioni e delle sollecitazioni della Corte Costituzionale del 2003 e del 2004 che invitano, soprattutto la Magistratura, a considerare la malattia mentale come fenomeno da curare adeguatamente e non già da rinchiudere e da tenere x prolungatamente emarginata; • l’ingravescente (per molti aspetti annichilente) scarsità di risorse economiche su tutti i capitoli di bilancio (fino al 60% in meno delle disponibilità a fronte del menzionato massivo aumento dei ricoverati) che impedisce l’espletamento di pulizie adeguate da parte dei detenuti/internati lavoranti (non v’ è possibilità, negli istituti penitenziari, di fare ricorso a ditte esterne), la manutenzione degli ambienti di degenza, l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione che sarebbero necessari,l’adeguamento delle risorse (professionali, farmacologiche, strumentali) di novero sanitario che dovrebbero essere rese congrue con la mission istituzionale la quale dovrebbe,a sua volta, tendere alla realizzazione di standards prossimi a quelli ospedalieri(!). Tutto quanto sopra argomentato non trova in alcun modo cittadinanza nel discorso,fin qui unidirezionale e meramente scandalistico, sugli O.P.G. dei quali continua ad ignorarsi,di fatto, la storia, l’organizzazione, il loro essere parte integrante del sistema penale di questo Paese, i tanti progetti che (nati dalla collaborazione fra Amministrazione Penitenziaria, le organizzazioni della società civili e del volontariato, le Istituzioni locali) ambiscono a superare nel concreto, attraverso prassi virtuose, questi contenitori vieppiù drammaticamente affollati e di difficilissima conduzione a cagione della richiamata povertà di risorse, per approdare ad una modalità di affrontamento della questione psichiatrico-giudiziaria davvero alternativa laddove tarda da anni, e non certo per responsabilità di chi dirige od opera a vario titolo all’interno di queste realtà, a concepirsi un condiviso iter di radicale riforma che appare quanto mai urgente e necessario. E’, in definitiva, tutto il personale, che da anni - per altro - formula attraverso i propri dirigenti proposte di forte innovazione del sistema delle misure di sicurezza detentive, a chiedere un confronto a più voci rivendicando chiarezza circa il futuro delle controverse strutture asilari psichiatrico-giudiziarie ed un’attenzione da parte dell’interlocutore politico, nazionale e regionale, che è sempre sostanzialmente mancato finchè situazioni da molti anni in precario equilibrio sono (come tante volte segnalato in termini di rischio crescente da parte dei dirigenti degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ) fatalmente implose nella morsa inesorabile della crisi avvilente di tutte le risorse disponibili e dell’iperaffollamento delle strutture suscitando il classico clamore mediatico che speriamo si possa (e si sappia) tradurre in occasione di autentico cambiamento.
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Luca Pasqualoni Segretario Nazionale ANFU info@sappe.it
Il potere giudiziario Primus inter pares?
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a notizia di alcuni colleghi raggiunti da provvedimenti cautelari personali in relazione a presunti reati strumentalmente connessi, offre lo spunto per alcune riflessioni di carattere più generale sull’Autorità Giudiziaria. Nell’invocare per i colleghi il principio della presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva, si deve constatare come tale supremo principio non impedisca alla stampa di effettuare veri e propri linciaggi mediatici per chi, non solo sia raggiunto da misure cautelari, ma anche più semplicemente per chi riceva un avviso di garanzia, gettandolo in pasto al pubblico ludibrio: il segreto istruttorio continua, evidentemente, ad essere ridotto a mero simulacro. Eppure, i tanti ed eclatanti errori giudiziari dovrebbero ammonire ed arginare le spinte massimaliste e giustizialiste. Emblematica, senza scomodare il caso Tortora e senza andare troppo a ritroso negli anni, è la notizia di qualche mese or sono di una straniera rumena condannata in primo grado per omicidio e scarcerata in appello, per non aver commesso il fatto, dopo tre anni di carcere, a seguito di una nuova perizia medico-legale che ha sconfessato quella esperita in primo grado. Parimenti, è notizia di qualche settimana fa di un ragazzo assolto dalla Corte di Appello di Torino, per non aver commesso il fatto, per il delitto salito alle cronache giornalistiche come il delitto del ferro da stiro, dopo quattro anni e mezzo di carcere. La notizia è stata talmente sconcertante che i giornali gli hanno dedicato appena un trafiletto: la stessa laconicità non fu profusa quando fu arrestato. Oggi, il nostro codice di procedura penale prevede, per fortuna, l’istituto della ingiusta detenzione che consente a chi sia stato indebitamente condannato di richiedere allo Stato, e non al magistrato che ha errato, il risarcimento del danno: non credo, tuttavia, che anche solo un giorno di ingiusta detenzione vissuto quindi da innocente, possa essere compensato unicamente con il metro della pecunia. All’uopo, forse, occorrerebbe valutare l’introduzione, a titolo di colpa, di una auto-
noma fattispecie di reato proprio, in cui la rilevanza penale consegua, in ragione del grado assunto dalla colpa, all’ingiusta detenzione ove questa risulti correlata ad errori eziologicamente riconducibili all’attività del magistrato, ancorché mediata da pareri a competenza tecnico-specialistica, rimanendo lo stesso magistrato, anche in questo caso, ludex peritus peritorum, senza che ciò appaia come una invereconda empietà. Del resto, l’istituto della responsabilità civile dei magistrati, disciplinato organicamente dalla legge del 13 aprile 1988, n. 117 che, passando attraverso il referendum dell’8 e 9 novembre 1987, nasceva da profonde tensioni e da un iter parlamentare alquanto complesso, non ha dato i frutti sperati. La suddetta normativa mirava a porre rimedio, non soltanto ad alcune carenze oggettive ed aspetti patologici del sistema giudiziario (casi di denegata giustizia, iniziative giudiziarie spesso avventate, protagonismo di alcuni magistrati, forme di accanimento giudiziario, narcisismo personale e finanche di onnipotenza) quanto, forse e per lo più, in una strategia che coinvolse tutte le forze politiche del tempo, con l’obiettivo primario di definire il ruolo del giudice, specialmente nei rapporti con gli altri poteri. Tuttavia, a distanza di più di venti anni, quella legge è rimasta pressoché lettera morta esigendo una negligenza tanto macroscopica quanto inescusabile da rimanere confinata nell’ambito dei buoni propositi, per questo oggi si sollecita, da più parti, una riforma in tal senso, che renda effettiva la responsabilità civile dei magistrati, saldando la stessa anche, o soltanto, all’ipotesi di manifesta violazione del diritto. Se da un lato, l’intento perseguito è condivisibile perché la responsabilità di un magistrato che incorra in un’evidente violazione del diritto, non è diversa da quella del chirurgo che lasci il bisturi nell’addome del paziente, o dell’ingegnere che ometta gli adempimenti antisismici, dall’altro lato è pressoché inutile, visto che l’unico caso in cui si possa immaginare
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una violazione evidente del diritto da parte di un magistrato non riconducibile alla sua colpa grave, è quello in cui il giudice l’abbia commessa con dolo. Nondimeno, sia il dolo che la colpa grave sono già contemplati dall’attuale assetto normativo che, dunque, non verrebbe affatto modificato dalla nuova norma. Siamo di fronte, pertanto, ad un potere irresponsabile nell’accezione tecnica del termine, che rasenta il paradosso, dal momento che coloro che sono chiamati istituzionalmente ad accertare ed affermare la responsabilità penale, civile, amministrativa e tributaria dei cittadini, si sottraggono a forme di responsabilità reale, se non fosse per quella disciplinare che trova tuttavia il suo limite nel carattere autoreferenziale del giudizio, trattandosi di una forma partico-
lare di autodichia affidata, per l’appunto, al Consiglio Superiore della Magistratura. Parimenti, la tanto invocata responsabilità civile del giudice rischia di essere annacquata da una giurisdizione pur sempre domestica, dal momento che ad affermare la responsabilità dei giudici saranno chiamati altri giudici, senza considerare che non vi sarà magistrato che non sottoscriverà, al riguardo, una polizza assicurativa che lo mallevi economicamente da una eventuale, quanto remota, condanna in tal senso. Pertanto, appare davvero difficile che il potere giudiziario, e segnatamente la Corte di Cassazione, delinei, con gli stessi celeri tempi, una impalcatura giuridica analoga a quella enucleata per la responsabilità professionale del medico, dal momento che tale opera di progressiva definizione potrebbe incontrare un attrito di tipo corporativo connaturale ad ogni categoria strutturalmente organizzata e costituzionalmente presidiata, come è l’ordine giudiziario.
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E’ appena il caso di sottolineare che, in quanto suddetto, non vi è alcuna intenzione di delegittimare il potere giudiziario, del quale il sottoscritto ha fatto parte, anche se in forma onoraria, e verso cui ha ambito, si tratta semmai di affermare un principio giuridico che connota o che dovrebbe connotare uno Stato di diritto, poiché non possono essere tollerate forme più o meno velate e, in alcuni casi, ingiustificate di impunità in senso lato, sia a livello politico che giurisdizionale, dissimulandone la validità, da un lato, dietro alla strumentalità dell’azione penale allorquando assuma connotazioni esprimibili e riassumibili con la locuzione latina del fumus persecutionis e, dall’altro, dietro alle speciose argomentazioni legate all’intrinseca controvertibilità del materiale probatorio o dalla ineliminabile esegesi delle norme: lontana è l’utopia di Montesquieu del giudice ridotto alla mera bocca della Legge. Non a caso la recente proposta di legge prevede l’abolizione del secondo comma dell’articolo 2 della Legge 117/1988, ai sensi del quale l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove posta in essere dal magistrato nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può a dar luogo a responsabilità. Analogamente, se la custodia cautelare in carcere deve essere l’extrema ratio, non si comprende come mai una parte tutt’altro che irrilevante della popolazione ristretta è detenuta a tale titolo: sarà, e il dubitativo è d’obbligo, che tale misura non venga percepita come tale da una parte dell’Autorità Giudiziaria, che in costanza del tirocinio, propedeutico all’effettivo esercizio delle funzioni di giudicante o di inquirente, non svolge, come dovrebbe invece essere, alcun periodo on the job presso gli Istituti penitenziari. Eppure, sarebbe sufficiente appena una settimana per apprezzare il lavoro della Polizia Penitenziaria, per comprendere a fondo il soffocante senso della privazione della libertà, le intricate dinamiche del carcere e il perché il legislatore assegni alla custodia cautelare, nell’ambito delle misure cautelari personali, il carattere residuale o piuttosto eccezionale. Concludiamo questo breve intervento, richiamando, per così dire, l’aforisma di un Direttore che, a torto o a ragione, ricorda sagacemente che oggi non vi è più l’avviso di garanzia ma la garanzia dell’avviso.
Il fenomeno criminale
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bbiamo ritenuto, considerata l’escalation di spettacolarizzazione dei fatti criminosi degli ultimi tempi, di riesumare una nostra vecchia rubrica di qualche anno fa. Rimodellandola, s’intende, e adeguandola ai giorni nostri con il proposito di offrire ai nostri lettori una cronistoria dei crimini più efferati e dei criminali maggiormente pericolosi che hanno lasciato traccia, in negativo, nella cronaca nera e nelle patrie galere. Riproponendoci, al contempo, di non sostituirci, perché sicuramente non all’altezza del compito, a chi per professione e/o per accademia studia questi fenomeni da un punto di vista scientifico. Questo, però, non vuol dire nemmeno affrontare l’argomento in modo frivolo, come a volte è stato fatto negli ultimi anni da qualche mass-media che, per fare audience, e quindi per vendere pubblicità, ha impiantato negli studi televisivi veri e propri Tribunali alternativi; riportando per settimane la propria ricostruzione dei crimini - connotati da estrema efferatezza - fino alla noia proprio perché, in mancanza di elementi nuovi, debbono comunque fare spettacolo, dimenticando spesso che dietro un crimine c’è sempre una vittima. Senza parlare delle miriade di fiction televisive, a volte anche stravaganti, che trattano di crimini e che si prefiggono solo di tenere viva l’immaginazione degli spettatori e che solo marginalmente rispecchiano la realtà.
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Tuttavia è innegabile che, l’attenzione e il fascino di conoscere chi abbia commesso un crimine o di scoprire i cold case sono argomenti che oggi trovano enorme interesse tra la gente. Nelle pagine dei giornali affiorano, oramai ciclicamente, sempre più crimini a prima vista inspiegabili portati a compimento con efferatezza spesso inaudita e che provocano, più che disapprovazione sociale, enorme curiosità; ciò tramuta le persone a seconda delle situazioni, in investigatori, criminologi e psicologi che immancabilmente individuano, a seconda delle simpatie o antipatie, chi è colpevole e chi è innocente. Oramai gli italiani, grazie anche i mass-media, sono diventati un popolo di opinionisti del crimine. Ma perché affascina così tanto il crimine? Sociologi, psicologi e psichiatri hanno cercato di spiegare che vi è una sorta d’immedesimazione con i personaggi che vivono sotto pressione, in pericolo, in ansia, circondati da disgrazie di tutti i tipi. Pare che la vita di tutti i giorni, fatta di abitudini, monotonia e del solito trantran, produca la voglia di evadere. Alcuni sfogano questo bisogno in un hobby. Altri, invece, osservano in televisione, apprendono dai giornali o da internet le vite fasulle di protagonisti della cronaca. Solo che, in questo essere spettatori, provano emozioni reali: «Allora è proprio vero - urlò il Duca - che il crimine, di per sé, può dare piacere, indipendentemente da ogni altra voluttà, un piacere sufficiente a gettarci nel delirio quanto le azioni lussuriose!» (François De Sade). Ma cos’è il crimine e chi è il criminale? E’ una domanda che a prima vista potrebbe trovare una semplice e banale risposta riprendendo una delle tante definizioni contenute in un testo giuridico o se vogliamo in un manuale di psicologia forense. Ma il crimine e i criminali rappresentano le due sfaccettature della stessa medaglia? Nel corso della storia sono state elaborate diverse teorie per spiegare la delinquenza e, quindi, i crimini e i criminali.
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Pascquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappet.it
Non si può, pertanto, prescindere da queste teorie per meglio comprendere la scienza criminologica. Secondo il periodo storico le teorie hanno cercato di identificare particolari tratti individuali e/o neuropsicologici come fattori principali della delinquenza, ma mai prescindendo dal fatto che il criminale è pur sempre un uomo e quindi è possibile capire perché ha commesso un crimine, le circostanze e le dinamiche. Nel corso del XIX secolo si sviluppò, dapprima nel Regno Unito, la criminologia come scienza autonoma che distinse due filoni: quello antropologico e quello sociologico. Il primo finalizzato allo studio della personalità del soggetto delinquente attraverso l’analisi dei fattori organici e ambientali. Il secondo analizzando il crimine come fenomeno sociale, osservando l’episodio criminoso in relazione alle dinamiche dell’intera società in cui il criminale si trovava a compiere i delitti. E’ grazie all’italiano Cesare Lombroso, considerato da molti il padre della criminologia, che prende piede la teoria dell’uomo delinquente nato o atavico, individuo che reca nella struttura fisica i caratteri degenerativi che lo differenziano dall’uomo normale e socialmente inserito. Lombroso sostenne che le condotte atipiche del delinquente o del genio sono condizionate, oltre che da elementi ambientali socioeconomici, da fattori indipendenti dalla volontà, come l’ereditarietà e le malattie nervose, che diminuiscono la responsabilità del criminale giacché questi è in primo luogo un malato. In particolare nell’opera L’uomo delinquente, Lombroso, sostenne la tesi secondo cui i comportamenti criminali sarebbero determinati da predisposizioni di natura fisiologica, i quali spesso si rivelano anche esteriormente nella configurazione anatomica del cranio. L’idea che la criminalità sia connessa a particolari caratteristiche fisiche di una persona è molto antica: la si trova già, ad esempio, nell’Iliade di Omero, nel cui libro II la devianza di Tersite è direttamente legata alla sua bruttezza fisica; le stesse leggi del Medioevo sancivano che se due persone
fossero state sospettate di un reato, delle due si sarebbe dovuta considerare colpevole la più deforme. Memore di questa tradizione, Lombroso era convinto che la costituzione fisica era la più potente causa di criminalità: e, nella sua analisi, attribuì particolare importanza al cranio. Nel novembre 1872 Lombroso sottopose ad autopsia il cadavere di Giuseppe Villella, un brigante calabrese di 70 anni condannato tre volte per furto e incendio di un mulino, ostentatore di pratiche religiose, di cute oscura, tutto stortillato, morto per tisi, scorbuto e tifo nel carcere di Vigevano. Dall’esame autoptico condotto sul cranio di Villella (esposto al museo di antropologia criminale di Torino), rilevò un’anomalia nella struttura cranica, una concavità a fondo liscio localizzata nella zona dell’occipite definita fossetta occipitale interna: «Alla vista di quella fossetta mi apparve d’un tratto come una larga pianura
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sotto un infinito orizzonte, illuminato il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù giù sino ai carnivori». La scoperta della fossetta convinse lo studioso che l’anomalia non era presente negli individui normali, ma solo nel cranio di pazzi e criminali ed era la prova che delinquenti si nasce: pazzi, delinquenti, selvaggi, ominidi e specie estinte, comportamenti devianti, criminali o psichiatrici avevano quindi un’unica causa atavica (www.museounito.it). Lombroso considerò quindi questo cranio «il totem, il feticcio dell’antropologia criminale». Successivamente, Lombroso modificò in parte l’originaria e originale tesi dell’uomo delinquente. Oggigiorno nessuno potrebbe sostenere la validità scientifica delle teorie lombrosiane, ma era doveroso, per iniziare questa nuova rubrica, mostrare lo sforzo e la novità del lavoro di Lombroso che, partendo dal dato bio-antropologico, ha aperto la strada ad un approccio multifattoriale della criminologia che comprende anche aspetti sociali. L’opera di Lombroso, sia che la si guardi secondo una prospettiva rigorosamente storica, o la si percepisca ancora presente nell’implicita sensibilità contemporanea dei media e dello scientismo divulgato, si attesta quale momento indicativo per chi voglia comprendere alcuni fra i più decisivi nodi ideologici della cosiddetta modernità che ancora ci tocca. Arrivederci al prossimo numero allorquando cominceremo ad affrontare singoli crimini e singoli criminali.
Nella foto Cesare Lombroso nell’altra pagina la locandina di una famosa serie televisiva
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Il cranio del brigante Giuseppe Villella esposto nel museo di antropologia criminale di Torino
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di Aldo Maturo* avv.maturo@gmail.com
Vittime delle strada: Risarcimenti difficili e dispendiosi
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n’apparizione improvvisa, la sterzata, le gomme che stridono sull’asfalto e poi l’impatto. Una scena ricorrente, a volte illuminata dai fari che si stagliano nella notte. Un animale giace sulla strada o nella cunetta, inerte. Superata la paura, rincuorati per non aver subito danni alla persona, si scende per vedere bene cosa è successo. Gli occhi osservano impietositi la vittima innocente ma subito dopo lo sguardo va all’auto. Cofano ammaccato, paraurti divelto, targa penzoloni, faro frantumato, mascherina spaccata. Sono tante le ipotesi e il pensiero è immediato. Chi ci ripaga i danni? Se è un animale domestico il pensiero corre al proprietario, ammesso che lo individuiamo. E se è un animale selvatico? Un capriolo, un cervo, una volpe? E se è un cane randagio? Questo tipo di infortunio non è raro e rappresenta il 3% degli incidenti stradali, spesso con un bilancio di morti e feriti (stavolta mi riferisco agli automobilisti). Avviene in una fascia oraria del primo mattino o dopo il calar del sole. La frequenza e la tipologia è in relazione alla zona che si attraversa in auto e alla fauna residente, domestica o selvatica. Altro elemento è la velocità dell’auto in relazione al tipo di strada percorsa. Le strade statali in genere consentono velocità maggiori, le comunali hanno una manutenzione generalmente meno curata e consentono perciò velocità minori, le autostrade – per essere recintate – dovrebbero fornire maggiori garanzie. In tutti i casi la richiesta di risarcimento è difficile, onerosa, dispendiosa ed aleatoria. Non è facile per il danneggiato dimostrare che la collisione non è imputabile a lui e in ogni caso dovrà dimostrare che i danni all’auto sono stati cagionati dall’animale investito.
Per gli animali domestici (cani,gatti) per quelli da allevamento (bovini, ovini, pollame) e da lavoro (cavalli, asini) la responsabilità ricade sui proprietari ai sensi dell’art.2052 del codice civile, perché avendoli in uso sono responsabili dei danni da loro causati, anche se si tratta di animali smarriti o fuggiti e a meno che il proprietario non provi di aver adottato tutte le misure di custodia possibili, vanificate da un caso fortuito. Per tutte le altre tipologie di animali la strada del risarcimento è lunga e controversa. Di norma il risarcimento va richiesto all’ente gestore della strada (Stato, Regione, Provincia, Comune, Società Autostrade) in un palleggiamento di responsabilità che porta ad un contenzioso imprevedibile. E’ da dire che non è responsabile l’ente gestore della strada che abbia provveduto ad installare ai bordi della carreggiata, in numero sufficiente e visibile, i cartelli segnaletici di pericolo (quello triangolare bianco con bordi rossi che raffigura un capriolo che salta). Più certa dovrebbe essere la richiesta di risarcimento alla Società Autostrade che, attraverso il pagamento del pedaggio,deve assicurare agli automobilisti la massima garanzia di sicurezza e se non dimostra di aver recintato tutto la sede stradale che ha in concessione incorre in evidente responsabilità.
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Per la fauna selvatica le leggi 968/1977 e L.152/1992 hanno stabilito che la fauna selvatica è entrata nel patrimonio indisponibile dello Stato. Gli automobilisti danneggiati dovrebbero perciò individuare nello Stato il soggetto responsabile dei sinistri. Ma non è così, perché la competenza sulla caccia è passata alle Regioni che a loro volta possono delegarla alle Province. Dove tale delega è presente, la richiesta va fatta alla Provincia del luogo del sinistro. La Cassazione di recente ha stabilito che spetta alle regioni il compito di predisporre le misure idonee ad evitare che la fauna selvatica arrechi danni a cose e persone, per cui la regione ne risponderebbe ai sensi dell’art.2043 del codice civile. Risolto (?!) il problema del destinatario della richiesta di danni bisognerà provare che l’ente è responsabile e che alla sua condotta omissiva è riconducibile l’incidente. La solita Cassazione, dopo una serie di giudicati dei giudici di merito,ha stabilito che sussiste la responsabilità degli Enti preposti alla cura della fauna selvatica qualora non abbiano adottato misure idonee ad evitare danni. Non è quindi l’automobilista che deve dimostrare la responsabilità dell’Ente ma è l’Ente che deve dimostrare di non aver colpa avendo adottato tutte le cautele necessarie. In questo modo la palla è rimbalzata al singolo giudice di merito che di volta in volta, in base alla dinamica dei fatti ed alle prove prodotte dalle parti, valuterà la sussistenza o meno della responsabilità ed il consequenziale risarcimento danni. Per cautelarsi non resta che pagare qualche euro in più ed estendere la R.C.A. auto ai danni causati dalla fauna selvatica e, quando è possibile e la richiesta trova accoglimento in relazione all’entità dell’infortunio, telefonare alle forze dell’ordine per i rilievi e quant’altro di loro competenza.
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* Avvocato, già Dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria
N. 184 • maggio 2011 • pag. 32
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a cura di Erremme
JAMES PATTERSON MAXINE PAETRO
VALERIA DELLA VALLE GIUSEPPE PATOTA
PRIVATE
VIVA LA GRAMMATICA!
LONGANESI Edizioni pagg. 308 - euro 18,60
La guida più facile e divertente per imparare il buon italiano
“S
ono Jack Morgan, ex pilota dei Marines sopravvissuto per miracolo a una missione in Afghanistan dalla quale molti dei miei commilitoni e amici non sono tornati. Vivo a Los Angeles, dove dirigo la sede centrale della Private Investigations, forse la migliore agenzia di investigazioni del mondo, quella alla quale ci si rivolge quando servono il massimo della decisione e della discrezione. Giochiamo fuori dalle regole, abbiamo a che fare ogni giorno con i segreti dei personaggi più influenti del pianeta e ci avvaliamo dei più moderni strumenti dell’indagine scientifica. E in questo modo abbiamo sempre vinto. Finora. Perché non bastava indagare su un caso di corruzione ai massimi livelli e su un assassino seriale che a Los Angeles ha già ucciso dodici ragazzine e non intende fermarsi... C’è stato anche il barbaro omicidio della moglie del mio miglior amico, la dolce e adorabile Shelby Cushman: un’esecuzione in stile mafioso, assolutamente incomprensibile per una ragazza solare che non aveva nulla da nascondere. Forse. Sono Jack Morgan, ex pilota dei Marines e porterò a casa la pelle anche questa volta.”
SPERLING & KUPFER Ediz. pagg. 266 - euro 16,00
G
rammatica: ecco la parola innominabile e antipatica, che evoca pagine polverose e noiose, fìtte di regole ferree, a volte inutili, a volte incomprensibili, che sembrano inventate apposta per far passare la voglia di studiare. Sarà per questo che i ragazzi continuano a infarcire di errori ortografici i temi di maturità, che adulti laureati costellano di svarioni i test dei concorsi, che i politici scivolano sui congiuntivi nei discorsi pubblici? E se è così, bisogna allora rassegnarsi a un linguaggio sempre più approssimativo e trascurato? Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, da tempo impegnati a smantellare il modello di una lingua inappuntabile ma astratta e inespressiva, proposto per molto tempo dalla scuola, presentano una grammatica tutta nuova: un percorso fra articoli, preposizioni, nomi e verbi che, mettendo da parte schemi, prescrizioni e divieti, racconta e spiega il perché delle regole e insegna i semplici principi che permettono di sciogliere i dubbi ed evitare le trappole più insidiose. Una guida amichevole, basata su esempi tratti dalla comunicazione quotidiana, dalle espressioni usate nei giornali, in televisione, nei romanzi, nelle canzoni, nei film. Un’occasione per avvicinarsi all’appassionante, avventurosa storia dell’italiano e per scoprire - una rivelazione davvero inaspettata! - il lato divertente della grammatica.
Polizia Penitenziaria • SG&S
LUCA RAMACCI
REATI E INDAGINI DI POLIZIA GIUDIZIARIA MAGGIOLI Edizioni X edizione con CD Rom pagg. 364 - euro 40,00
L’
opera si articola in tre parti: • la prima inquadra il ruolo della Polizia Giudiziaria nel contesto delle norme del vigente codice di procedura penale; • la seconda procede ad una generale disamina dell’attività di Polizia Giudiziaria nell’ambito del procedimento penale; • la terza riguarda in modo specifico l’applicazione degli istituti processuali, in precedenza esaminati, al campo delle indagini mirate in materia ambientale. Al tempo stesso, però, si passano in rassegna, oltre alle principali discipline vigenti, tutte le innovazioni legislative, fino alle più recenti. L’opera, arricchita da un utilissimo formulario dei principali atti di Polizia Giudiziaria ed un considerevole numero di indicazioni pratiche, fornisce quindi un supporto necessario per quanti, già addetti ai lavori o chiamati a coordinare la stessa attività di Polizia Giudiziaria, vogliono far fronte all’esigenza di continuo aggiornamento posta dalle incessanti modifiche del quadro normativo esistente. Questa decima edizione è stata completamente aggiornata, anche nella sezione sulle indagini tenendo conto degli importanti interventi correttivi che hanno modificato il D.Lgs. 1526 (T.U. ambientale) nelle parti riguardanti le acque, i rifiuti e l’inquinamento atmosferico e con le nuove diposizioni introdotte dalla Legge 201/2010 in tema di protezione degli animali da compagnia.
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il mondo dell’appuntato Caputo©
di Mario Caputi & Giovanni Battista De Blasis - © 1992 - 2011
Berlusconi: «trasferirò i Dipartimenti dei Ministeri a Milano»
(Se non riesci a spostare i Dirigenti dal DAP... sposta il Dipartimento da Roma) Polizia Penitenziaria • SG&S
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