Polizia Penitenziaria - Dicembre 2012 - n. 201

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anno XIX • n. 201 • dicembre 2012 www.poliziapenitenziaria.it

(...e come siamo diventa ti )

Come eravamo



sommario

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anno XIX • numero 201 dicembre 2012 Per ulteriori approfondimenti visita il sito

In copertina: L’Agente di Custodia Vincenzo Genualdi in una vecchia foto

www.poliziapenitenziaria.it

l’editoriale

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Anche quest’anno si rischia di perdere il FESI Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

di Donato Capece

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il pulpito

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

Come eravamo (...e come siamo diventati) di Giovanni Battista de Blasis

Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it

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storia del corpo 8

Redazione cronaca: Umberto Vitale

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Redazione politica: Giovanni Battista Durante

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Agenti di Custodia nobili antenati della Polizia Penitenziaria di Giuseppe Romano

il commento

Redazione sportiva: Lady Oscar Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director)

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Un nuovo carcere è possibile? di Roberto Martinelli

www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2012 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. • fax 06.39733669

osservatorio politico

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Presentato a Roma il nuovo magazine Delitti & Misteri

e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it

di Giovanni Battista Durante

Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di: Polizia Penitenziaria-Società Giustizia & Sicurezza Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18.7.1994 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma) Finito di stampare: dicembre 2012

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lo sport 24

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I Campionati italiani di judo a squadre, nell’Arena di Pesaro di Lady Oscar

crimini e criminali

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Luigi Chiatti il mostro di Foligno di Pasquale Salemme

Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

Chi vuole ricevere la Rivista direttamente al proprio domicilio, può farlo versando un contributo di spedizione pari a 20,00 euro, se iscritto SAPPE, oppure di 30,00 euro se non iscritto al Sindacato, tramite il c/c postale n. 54789003 intestato a:

POLIZIA PENITENZIARIA - Società Giustizia & Sicurezza

Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma specificando l’indirizzo, completo, dove va spedita la rivista.

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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

l’editoriale

Anche quest’anno per colpa di bandiere e bandierine si rischia di perdere il FESI

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Polizia Penitenziaria n.201 dicembre 2012

elle scorse settimane si è tenuta al DAP una ulteriore, e forse purtroppo non ancora conclusiva, riunione sul FESI 2012. L’incontro ha avuto un aspetto positivo ed un aspetto negativo. L’ aspetto positivo è stato che tutte le organizzazioni sindacali si sono sedute allo stesso tavolo. L’aspetto negativo è stato, invece, la mancata disponibilità delle stesse organizzazioni sindacali a trovare una convergenza, anche mediata, su una stessa ipotesi di accordo per l’utilizzazione del FESI. Il tavolo di trattativa, infatti, si è spaccato in due: da una parte CIGL, CISL, UGL, OSAPP e SINAPPe, arroccati caparbiamente a difesa dello stesso accordo del 2010 e del 2011 senza cambiare una virgola; dall’altra parte SAPPe, FSA e UIL che, pur con posizioni in qualche modo differenziate, hanno condiviso la nuova bozza presentata dall’Amministrazione. (In verità la UIL ha assunto una posizione francamente incomprensibile secondo la quale ha dichiarato di non voler firmare alcun accordo). Il SAPPe e l’FSA, per conto proprio, hanno dichiarato la propria disponibilità a firmare la proposta del DAP con una sola richiesta di modifica circa il numero dei giorni previsti per maturare il diritto al bonus annuale da diminuire a 220 in luogo dei 250, ovvero prevedere l’inclusione del congedo ordinario nel calcolo, in ragione del fatto che il limite prestabilito è quasi impossibile da raggiungere. Purtroppo, la contrapposizione ha causato una impasse sul perfezionamento dell’accordo in quanto non è stato possibile stabilire, in quella sede, da quale parte si concretizzava la maggioranza percentuale delle rappresentanze. In effetti, SAPPe, FSA e UIL avrebbero senza dubbio la

maggioranza percentuale e, pur tuttavia, da parte loro le altre Organizzazioni rivendicano una maggioranza risalente a tre anni prima la quale - secondo loro - va presa come punto di riferimento. Al di là dell’assurdità della pretesa, seppure motivata con improbabili argomenti, resta il fatto che l’Amministrazione, colta come al solito alla sprovvista nonostante fosse nata da mesi la diatriba, ha sospeso ogni decisione, in attesa di sciogliere il nodo. Ad ogni buon conto, ha contribuito poi la UIL a rendere la situazione ancora più ingarbugliata, allorquando ha dichiarato di non voler firmare alcun accordo. Si pensi, però, che nonostante una evidente apertura del SAPPe e dell’FSA, circa la possibilità di apportare un’unica modifica alla bozza di accordo limitatamente al bonus annuale, a nostro avviso per evidenti ed esclusive ragioni politiche, le altre cinque organizzazioni sindacali non hanno voluto addivenire ad alcuna mediazione. In realtà, va anche detto che è apparsa inconsistente e strumentale la questione di principio invocata a giustificazione dell’arroccamento, laddove il SAPPe e l’FSA hanno evidenziato, più volte, come la sola aggiunta del bonus annuale non avrebbe in alcun modo modificato la sostanza dell’accordo ma, semmai, aggiunto qualcosa di qualificante. Nonostante tutto, però, si è dovuta registrare una nuova fase di stallo del FESI che rischia di subire un ulteriore evitabile rinvio. Il SAPPe e l’FSA, da parte loro, devono registrare ancora una volta le difficoltà di realizzazione del bonus annuale da attribuire al personale che garantisce un minimo di presenza, che a nostro avviso, potrebbe costituire una valida alternativa alla quattordicesima

mensilità percepita da altri comparti. In conclusione, Cgil, Cisl, Sinappe, Osapp e Ugl hanno siglato l’accordo riproposto identico a quello del 2010 e 2011 ed hanno chiesto di dare corso alle procedure per l’applicazione. Di conseguenza il Sappe, per dovere istituzionale, ha dovuto evidenziare ancora una volta all’amministrazione il rischio che un simile accordo, siglato con una minoranza percentuale dei sindacati, non abbia i requisiti per essere valido ed efficace. Tutto ciò va ad aggravare ancor di più la situazione del Fesi 2012 che già, per innegabili colpe e responsabilità del Dap, subirà il riassorbimento dei fondi da parte del Ministero dell’Economia che non potranno, poi, essere riaccreditati prima del mese di aprile 2013 e che, quindi, non potranno essere distribuiti prima di giugno 2013. Ciò significa che, a causa della chiusura da parte di Cgil, Cisl, Ugl, Sinappe e Osapp ad ogni tentativo di mediazione e dell’irragionevole rifiuto della Uil a siglare qualsiasi accordo, si sta correndo anche il rischio di mandare avanti un’intesa che potrebbe essere successivamente dichiarata nulla o illegittima a discapito di tutti i colleghi che vedranno allungarsi ancor di più i tempi di retribuzione del fondo. Va, quindi, sottolineato l’irragionevole e incomprensibile rifiuto di Cgil, Ugl, Osapp, Cisl e Sinappe, ma anche della Uil, alla retribuzione di un bonus annuale per le presenze che potrebbe rappresentare per tutti i colleghi una valida alternativa alla quattordicesima percepita in altri comparti. In definitiva dobbiamo prendere atto, ancora una volta, del sacrificio dei colleghi all’altare della incomprensibile politica sindacale di chi vuole solo dimostrare di “essere”


il pulpito maggioranza. Cosa che, peraltro, non corrisponde nemmeno più al vero considerato che Cisl, Cgil, Osapp, Ugl e Sinappe raggiungono soltanto il 49 per cento. E crediamo, pure, che tale percentuale è destinata a scendere nel 2013... Purtroppo, dopo la movimentata contrattazione del 27 novembre, conclusasi con la divergenza delle organizzazioni sindacali sui criteri di applicazione, si sono perse le tracce dell’accordo sul Fondo di Efficienza per i Servizi Istituzionali. Probabilmente, l’Amministrazione sta ancora valutando la sussistenza delle eccezioni di legittimità sollevate dal Sappe con ulteriore allungamento dei tempi di definizione degli accordi. Purtroppo, dobbiamo registrare, ancora una volta colpevoli ritardi sui contratti collettivi nazionali di secondo livello per negligenza di una Amministrazione che non riesce proprio a garantire i diritti del personale. Tuttavia, ha notevolmente influito anche l’indisponibilità di quanti – per non aver voluto accettare nemmeno una delle rivendicazioni degli altri sindacati (peraltro paradossalmente maggioritari) hanno messo a rischio, per l’ennesima volta, il pagamento del Fesi al personale. Purtroppo, constatate le incomprensibili politiche sindacali e gestionali del DAP - sempre e comunque a discapito del personale del Corpo -, non possiamo che attendere la definizione della vicenda, riservandoci di porre in essere ogni utile iniziativa finalizzata al rispetto dei diritti dei poliziotti. H

Come eravamo (...e come siamo diventati)

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nostri lettori più attenti avranno sicuramente notato che la rubrica dedicata alle foto storiche del Corpo è intitolata Eravamo così, piuttosto che il più naturale Come eravamo, di più comune utilizzo. Ovviamente, come è facile immaginare, la scelta non è affatto casuale. Infatti, da qualche tempo la rivista ufficiale del Dap (dal nome impronunciabile) ha aperto anch’essa una rubrica analoga intitolata, giustappunto, Come eravamo. Ordunque, per evidenti motivi di dignità professionale, abbiamo preferito evitare ogni possibile commistione con la patinata rivista aziendale, adottando Eravamo così come titolo della nostra rubrica. Pur tuttavia, per dovere di cronaca (e non solo) voglio ricordare a tutti i nostri lettori (e non solo) che avremmo anche potuto rivendicare la primogenitura dell’idea, della rubrica e del titolo. Infatti, nel giugno del 1999 (quattordici anni fa), sulla copertina di questa Rivista ospitammo una bellissima foto storica del collega Giuseppe Coviello, nonno materno di Roberto Martinelli, scattata nella Scuola di Portici negli anni quaranta, titolando proprio Come eravamo e inaugurando una specifica rubrica all’interno di quel numero dedicata ai Documenti della memoria storica del Corpo. Peraltro, anche sul sito internet

nche per l’anno duemilatredici, così come è nostra tradizione da quasi venti anni, abbiamo realizzato un calendario da parete, da regalare a tutti gli iscritti, per celebrare il Corpo della Polizia Penitenziaria. Quest’anno il calendario, ideato e realizzato come sempre dall’eccezionale Mario Caputi, ha ospitato le foto storiche della nostra memoria acquisite dalla splendida iniziativa editoriale del blog che ha ricevuto, a tutt’oggi, quasi millecinquecento immagini inviate dai colleghi di tutta Italia.

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della nostra rivista (www.poliziapenitenziaria.it), ben prima della rubrica del rotocalco dipartimentale, è stata ideata e realizzata una sezione foto-storica del Corpo, che come tutti possono constatare, ha avuto un’enorme successo. Ad ogni modo, onde rassicurare chiunque sulle intenzioni di questo articolo, non c’è alcuna volontà da parte nostra di rivendicare ipotetici copyright e/o diritti d’autore ma, soltanto, la soddisfazione di affermare l’originalità e l’indipendenza di questa testata che rivendica, orgogliosamente, la propria leadership come riferimento editoriale del Corpo di Polizia Penitenziaria (e non solo) e che tiene, in particolar modo, ad evidenziare di essere sempre precorritrice rispetto ai tempi dell’amministrazione, e non solo per essere nata otto (lunghissimi) anni prima. In buona sostanza, Come eravamo o Eravamo così, poco importa per il merito della questione, quello che teniamo a rappresentare ai nostri lettori (e non solo a loro) è che il Sappe e la redazione della sua Rivista Ufficiale, anche in questo caso (come in tutti gli altri), sono arrivati prima. Questione di lana caprina ? Non direi. Come diceva il buon Massimo Buscemi: “Tutto questo, per la precisione. Per essere tassonomici e non nozionistici”. Per altro verso, siamo comunque orgogliosi di documentare “Come eravamo” ; Purtroppo, lo siamo molto meno nel prendere atto di “Come siamo diventati” grazie a questa classe dirigente inadatta, inadeguata e in tutte altre faccende affaccendata. H

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Giovanni Battista de Blasis DirettoreEditoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

Sopra la copertina del numero di giugno 1999 Nel box la cover del calendario Sappe 2013

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Giuseppe Romano Comandante della C.C. di Trapani rivista@sappe.it

storia del corpo

Agenti di Custodia nobili antenati della Polizia Penitenziaria Se non conosciamo le nostre origini e la nostra storia non avremo mai consapevolezza di chi siamo veramente. Giuseppe Romano, Comandante della Casa Circondariale di Trapani e grande appassionato di storia penitenziaria ha scritto per noi una breve ricostruzione storica delle origini del Corpo degli Agenti di Custodia che pubblichiamo a puntate.

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la storia della copertina

A fianco una foto del 1955 che ritrae la famiglia Canoro: padre (al centro) e fratelli del ragioniere Gerardo Canoro (per gentile concessione)

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li Agenti di Custodia, non godettero mai di grande considerazione da parte della società cosiddetta civile. Erano considerati rozzi ed ignoranti, aguzzini che godevano nel maltrattare i detenuti. La vita degli agenti di custodia era una vita “letteralmente” venduta alla Stato - che fosse il Regno Piemontese o quello Borbonico o il successivo Regno d’Italia poco cambiava – in virtù di turni

massacranti, e dell’esercizio di una disciplina feroce attuata dai superiori gerarchici (che oggi definiremmo, senza alcun dubbio: “mobbing”). La maggior parte degli Agenti era dotata di un grande spirito di sacrificio e abnegazione; erano di modesta estrazione sociale, culturalmente sapevano appena leggere e scrivere ed erano molto piccoli di statura: dei nani cattivi o per meglio dire, incattiviti ed abbrutiti dal servizio. Ma chi furono gli Agenti di Custodia, ovvero, nel tempo, i custodi delle prigioni? Sicuramente persone di

La carriera della Guardia Penitenziaria Vincenzo Genualdi raccontata dall’omonimo bisnipote incenzo Genualdi, nasce a Palermo il 2 Dicembre 1839, (figlio di Antonio nato a Palermo nel 1811 anch’egli Guardia Carceraria a Palermo) ed arruolato nel Corpo intorno al 1861-62 quando aveva già compiuto 21 anni. Il mio bisnonno ha lavorato presso molte carceri o bagni penali del neonato Regno d’Italia fra le quali: • Alghero (SS) Bagno Penale (dal 1867 al 1871) • Cagliari (1873 – 1874) • Catania (1876) • Nicosia (Enna) (1879 – 1882) • Taranto (1886 – 1889) • Palermo ? (1890 ? – 1894 ) (sicuramente non all’Ucciardone: forse

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all’Arsenale Borbonico?) Tali dati sono ricavati dai certificati di nascita dei suoi 10 figli per cui i periodi di tempo vanno da una nascita all’altra, la prima nel 1867 l’ultima nel 1889: è possibile che i periodi di servizio che ho indicato fra parentesi si possano quindi “dilatare” di uno, massimo due anni. Ho trovato nell’Archivio di Stato di Palermo un documento del 1894 in cui il figlio Antonio chiede di arruolarsi anch’egli nel Corpo delle Guardie Carcerarie, per poi ritirare la domanda, in cui dichiara che il padre si è da poco “ritirato dal servizio col grado di Capo Guardia”.

bassissima estrazione sociale, analfabeti, con difetti fisici, dediti al vino, nel cui sangue scorreva una vena di crudeltà, forse, necessaria per i tempi e le situazioni dell’epoca. Poche sono le testimonianze , nel corso dei secoli, che descrivono i custodi dei detenuti; alcune sono di addetti ai lavori: ispettori delle carceri, capitani giustizieri. Altre testimonianze vengono direttamente da chi fu imprigionato per reati politici che, essendo persone istruite, poterono descrivere anche fisicamente questi uomini duri, lasciando ai posteri delle testimonianze vere (anche se influenzate dal loro punto di vista di detenuti) e quasi sempre impietose. In un rapporto del 22 maggio 1820 il Procuratore Generale presso la Gran Corte Civile di Palermo parlando dei custodi delle prigioni denunciava che “sinora uomini scurissimi ed inalfabeti sono stati adoperati per carcerieri. Che costoro con tantissimi soldi han ben vissuto a spese della libertà individuale, a forza di arbitrii ed estorsioni. Che i doveri attaccati all’impiego di custode delle prigioni dalle nuove leggi richiedono persone probe e che sappiano almeno leggere e scrivere” In occasione delle fuga di tre detenuti (servi di pena) dall’Arsenale di Non ho la certezza che il mio bisnonno Vincenzo Genualdi abbia lavorato dal 1884 a Palermo (anno di nascita di un altro figlio a Palermo) ma il fatto che viveva a due passi dal Carcere dell’Ucciardone e dal Bagno Penale all’Arsenale, mi fa ritenere la cosa molto probabile. Vincenzo Genualdi morì a Palermo il 2 settembre 1912. Tutti i suoi figli, tranne mio nonno Carlo, emigrarono negli Stati Uniti. Ho effettuato ricerche direttamente all’archivio di Stato di Palermo dove non ho trovato null’altro (il mio bisnonno non risulta un effettivo al carcere dell’Ucciardone). Ho anche richiesto informazioni presso l’Archivio di Stato di Roma, Direzione delle Carceri, ma da quest’ultima, causa allagamento, non posso avere riscontri in quanto le fonti di ricerca sono andate distrutte. Vincenzo Genualdi


Palermo, registratasi il 25 marzo 1822, il Procuratore Generale presso la Gran Corte Civile di Palermo, scriveva al Principe di Cutò: “...il Comandante d’Arme Simineschi (...) mi ha fatto conoscere di essersi recato a vedere il luogo dell’evasione, ed ha osservato, che per venire eseguita, i detenuti hanno avuto bisogno almeno di circa 6 ore di tempo, in cui le guardie interne o han dormito oppure sono stati conniventi. Ha aggiunto che tranne pochissimi, tutti i custodi, ed altri impiegati nella Casa di Correzione ed Arsenale sono assolutamente inutili all’impiego, che esercitano, essendo della classe dei vecchi cronici, imbecilli, ed oltremodo bisognevoli, non solo pel misero soldo che ricevono, ma ancora perché questo vien loro con attrasso corrisposto: le circostanze

anzidette, e molto più la miseria, può esser causa di qualche terribile disguido nei due descritti importanti stabilimenti, se non si destineranno uomini energici, attivi, di fiducia e ben pagati”. Il Generale Guglielmo Pepe incarcerato dai Borboni nella fossa di Marettimo prima, e nell’Ergastolo di Santa Caterina a Favignana dopo, nelle sue memorie ci descrive un’evasione da lui ideata e riuscita grazie alla perfetta conoscenza del vizio del bere sia del comandante del Forte che della sua truppa, che una sera vengono fatti ubriacare al fine di ridurli all’impotenza e di fare evadere un gruppo di detenuti. Ma il generale non scapperà dal Forte, e grazie al suo comportamento tenuto durante l’evasione, verrà in un certo senso

storia del corpo

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premiato, venendo trasferito alla Fortezza della Colombaia a Trapani: “il Comandante del Castello era un povero alfiere nativo della Favignana, carico di famiglia che egli stesso alimentava col suo meschinissimo soldo; Il comandante del Forte della Favignana era ancor egli, come quello del Marettimo, un povero alfiere con famiglia, e di animo non cattivo quando non era brillo, e poco, colla profferta d’una mercede mensuale, ottenemmo da lui immensi sollievi al nostro stato infelice. Il comandante del Castello, dedito al vino , e propenso a ricever doni da chi gliene poteva fare, permetteva a tutti i trenta detenuti, tra forzati e rei di Stato, di girare per l’intero Castello. Ora un giorno sul far della sera si fece in modo che i soldati del presidio, favignanesi ed ordinati a forma di milizie, si riducessero tutti in un corridoio a bere vino che era stato ad essi regalato; e quivi furono tostamente da noi chiusi.” Da quell’episodio scaturì una clamorosa evasione. H continua...

A sinistra una Guardia Penitenziaria del Regno delle Due Sicilie del 1806

Giuseppe Manniello non è più con noi l caro Giuseppe Manniello, Segretario Regionale della Basilicata, Consigliere Nazionale e storico dirigente del Sappe, ci ha lasciato. Il povero Peppe è stato sconfitto da una terribile malattia che pure ha affrontato con coraggio e con grande dignità. Al momento non abbiamo parole per descrivere la tristezza ed il dolore che ci hanno pervaso. Un pensiero di conforto e di vicinanza vanno alla moglie ed ai figli per la perdita incolmabile di un grande uomo, un grande marito, un grande padre. Eccolo nella foto sopra alla guida della delegazione della Segreteria Regionale della Basilicata al Quinto Congresso Nazionale del Sappe, gennaio 2011, a Milano. La Segreteria Generale

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Giuseppe Manniello Nato il 23 novembre 1961 ad Oppido Lucano (PZ). Arruolato nel Corpo degli Agenti di Custodia il 10 settembre 1981 Sedi di servizio: C.R. Volterra; C.C. Napoli Poggioreale; dal 21 agosto 1989 C.C. Melfi. Dal 1992 al 1996 Segretario Provinciale Sappe Potenza; dal 1996 ad oggi Segretario Regionale Sappe Basilicata; dal 1996 ad oggi Consigliere Nazionale Sappe.

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Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

il commento

Un nuovo carcere è possibile? e ultime settimane del trascorso mese di novembre hanno visto il carcere e le sue criticità al centro del dibattito politico. Dall’ennesimo appello del Capo dello Stato a quello del Presidente del Senato sull’emergenza penitenziaria, dalla mobilitazione delle Camere Penali contro il sovraffollamento alle Conferenza dei Capi Dipartimento europei, dalla presentazione dell’annuale Rapporto di Antigone al tortuoso percorso parlamentare del Ddl Severino ed alle conclusioni della relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza. Andiamo con ordine. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione della 17ª Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni Penitenziarie, promossa dal Consiglio d’Europa di concerto con il DAP e dedicata alla presenza nelle carceri di detenuti stranieri, ha infatti auspicato «fortemente, come in numerose precedenti occasioni, la ricerca di soluzioni normative e organizzative differenziate e flessibili affinchè la pena non superi il punto oltre il quale la sua afflittività si pone in contrasto con il senso di umanità e la funzione di reinserimento sociale dei detenuti». Si è quindi detto «certo che dal dibattito e dal confronto tra i vertici delle amministrazioni che nei Paesi membri presiedono alla fase esecutiva delle varie tipologie sanzionatorie emergeranno spunti e proposte interessanti per individuare le criticità e i fattori di rischio e per suggerire iniziative organizzative e trattamentali efficaci». Per il Capo dello Stato «il continuo aumento della popolazione carceraria e la massiccia presenza di reclusi di diverse etnie rendono estremamente

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Nella foto accanto al titolo il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

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complesso e spesso vanificano il perseguimento delle finalità rieducative della pena delineate dall’art. 27 della Costituzione. In tale allarmante contesto si rende indispensabile fronteggiare - in stretta collaborazione con tutti gli operatori del settore e anche con le istituzioni territoriali e il volontariato sociale - le situazioni di disagio, sofferenza e grave rischio che tale realtà carceraria comporta». All’ennesimo autorevole appello del Presidente della Repubblica si è affiancato anche quello del presidente del Senato Renato Schifani, che parlando al Congresso nazionale forense a Bari, ha sottolineato come «il problema del sovraffollamento delle carceri e della giustizia va affrontato con grande urgenza e nello spirito di coesione nazionale che è indispensabile per ogni processo di riforme. La detenzione non può e non deve significare scontare la pena in condizioni non umane», condizioni che rendono particolarmente stressanti e gravose le condizioni di lavoro delle donne e degli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Quello di affrontare l’emergenza carceri è stato, come ricorderete, un impegno assunto con forza dal ministro della Giustizia, Paola Severino, fin dal suo insediamento, un anno fa. E martedì 4 dicembre scorso, con 348 sì e 57 no e 21 astenuti, la Camera ha approvato il provvedimento sulle misure di pena non carcerarie. Il disegno di legge sulle misure alternative vuol far sì il carcere diventi davvero, il più possibile, solo l’extrema ratio. Due sono i punti importanti contenuti nel ddl: l’utilizzo degli arresti domiciliari come pena che il giudice può irrogare direttamente, per

determinati reati, già al momento della sentenza, allo stesso modo della carcerazione o della sanzione amministrativa; e la ‘messa in prova’, senza l’ingresso in carcere, istituto utilizzato con buoni risultati per la giustizia minorile, che può dare luogo alla sospensione del processo e all’estinzione del resto. La sospensione del processo è rimessa a una richiesta dell’imputato, che non può andare oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Consiste in una serie di prestazioni, tra le quali un’attività lavorativa di pubblica utilità (presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato), il cui esito positivo determina l’estinzione del reato. Le due novità sono previste per delitti che non destano allarme sociale, con pene edittali fino a 4 anni di reclusione. Il ddl contiene anche la misura della sospensione del processo per gli irreperibili. E mentre in Parlamento si discute, la situazione carceraria è sempre più drammatica, tra suicidi e scioperi della fame dei detenuti, ed un tasso di affollamento al 140%, nonostante gli interventi di legge, che anzi si aggrava per la carenza di risorse. Lo ha denunciato l’Associazione Antigone presentando il rapporto annuale sullo stato degli istituti di pena dell’associazione Antigone: i fondi a bilancio del Dap sono il 10% in meno dal 2007, a fronte di un aumento della popolazione carceraria del 50%. Il piano di edilizia penitenziaria, che prevede 11 mila posti letti in più entro il prossimo anno va a rilento. Tra l’altro circa 5 mila posti letto rispetto ai numeri della capienza regolamentare non sono al momento


il commento disponibili perchè sono in padiglioni inagibili o in fase di ristrutturazione. Quindi i detenuti sono ammassati nelle sezioni aperte peggiorandone ulteriormente la vivibilità. Inoltre, la legge sulla detenzione domiciliare nell’ultimo periodo di pena, chiamata prima svuota-carceri, poi salvacarceri, guardando ai numeri ha lasciato la situazione immutata. Dalla dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento carcerario del 13 gennaio 2010, i detenuti sono perfino aumentati: si è passati dai 64.791 (dato di fine 2009) agli attuali 66.685, quindi 1.894 in più. Solo 8.267, di cui 539 donne (il 6,5%) e 2.283 stranieri (il 26,7%), sono usciti beneficiando della detenzione domiciliare. Il dato spiega Antigone - non va messo in relazione con il numero dei detenuti presenti ma con il totale di usciti, oltre 140.000: «Una piccola cosa dunque». Chi sono i 66.685 detenuti? Sono quasi tutti uomini, le donne sono solo il 4,2% della popolazione carceraria; uno su tre è straniero e quattro su dieci hanno meno di 35 anni e i reati più comuni sono quelli contro il patrimonio, e subito dopo quelli legati agli stupefacenti. Gli ergastolani sono 1.567, mentre a fine 2005 erano 1.224. Sono aumentati anche i detenuti sottoposto al 41 bis, dieci anni fa erano 645, a inizio 2012 erano 678. Dieci persone in più dell’anno scorso si sono tolte la vita in carcere: sono 53 in tutto, di cui tre nelle camere di sicurezza dopo l’arresto. E tutto questo determina, ricordiamolo una volta di più, pesanti condizioni di lavoro per i poliziotti penitenziari che, giusto per cronaca, dal 1 gennaio 1992 al 30 giugno 2012 hanno sventato 16.388 tentativi di suicidio di detenuti. Eppure, se si rimuovessero gli “sbarramenti’’ che impediscono l’accesso alle misure alternative al carcere e si incentivassero gli interventi per il reinserimento sociale; se si usasse sempre come extrema ratio la custodia cautelare (visto che quasi metà della popolazione penitenziaria è costituita da persone

in attesa di giudizio); se si procedesse a “bonificare’’ l’ordinamento penitenziario dagli automatismi preclusivi e si desse maggiore margine di manovra alla magistratura di sorveglianza, le presenze stabili di detenuti all’interno delle carceri potrebbero scendere dalle 5mila alle 10mila unità nel giro di un anno. E si avrebbe un calo del flusso annuale di detenuti stimabile tra le 15mila e le 20mila unità, con un consistente aumento delle misure alternative alla detenzione in oltre 10mila casi in un anno. Così come risultati importanti si potrebbero ottenere garantendo ai tossicodipendenti un più facile accesso all’affidamento terapeutico, tenuto conto che le detenzioni per stupefacenti riguardano oggi 26.615 persone, il 40% della popolazione carceraria. O prevedendo l’espulsione per gli stranieri detenuti in Italia che devono scontare meno di tre anni di carcere. Sono infatti queste le conclusioni a cui è giunta la relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, coordinata dal professor Glauco Giostra, membro del Csm, e composta da tre esponenti del Csm, 3 magistrati designati dal Guardasigilli e 6 magistrati di sorveglianza. Per la Commissione le ragioni del sovraffollamento penitenziario sono la sintesi di una “sinergia perversa’’ tra fattori di carattere organizzativo, strutturale e normativo. E certo non hanno aiutato la “continua introduzione di nuove fattispecie di reato’’ (dalla ex Cirielli al pacchetto sicurezza); la “codificazione di ipotesi ‘obbligatorie’ di custodia cautelare’’; il ricorso alla custodia cautelare per “neutralizzare la pericolosità sociale degli imputati’’ e rispondere alla “diffusa percezione collettiva di insicurezza’’. E neppure il “patologico fenomeno’’ delle cosiddette porte girevoli, con il passaggio in carcere spesso per pochi giorni di persone arrestate e sottoposte a custodia precautelare. Ostacoli e preclusioni all’accesso alle misure alternative hanno fatto il resto. La direzione da prendere - segnala invece la commissione - è quella opposta,

evitando automatismi che sbarrano la strada alle misure alternative e agendo su alcuni punti critici delle leggi vigenti. Una proposta di modifica, per esempio, è quella di riportare ai soli condannati per delitti di matrice mafiosa e terroristica il divieto ad accedere ai benefici penitenziari, prevedendo da una parte maggiore spazio interpretativo per il magistrato di sorveglianza, dall’altra maggiore coinvolgimento delle direzioni distrettuali antimafia: se la preclusione assoluta cadesse per i condannati in via definitiva per i reati di traffico di droga e violenza sessuale, oltre 3mila detenuti potrebbero avere accesso ai benefici. Un altro intervento riguarda l’art. 656 del codice di procedura penale sull’esecuzione delle pene detentive: l’invito è di introdurre una valutazione del magistrato di sorveglianza preliminare all’emissione dell’ordinanza di carcerazione, per calcolare eventuali riduzioni di pena legate a semestri di detenzione già presofferti e verificare se al netto di questi la carcerazione si possa evitare. Risultati possono venire anche da un’azione sul testo unico sulla droga, attenuando la severità delle sanzioni per i reati lievi e favorendo l’accesso terapeuti. Per valutare fino in fondo l’impatto di tali misure, bisogna considerare che “il condannato che espia la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4% contro il 19% di chi ha fruito misure alternative e addirittura l’1% di chi è inserito nel circuito produttivo’’. Inoltre, diminuire la popolazione carceraria significa anche ridurre i costi (circa 130 euro al giorno per detenuto) e quindi liberare ‘’risorse da reinvestire nel sistema per sopperire alle carenze di personale di strutture’’. Un nuovo carcere potrebbe dunque essere possibile: e con esso, un nuovo ruolo operativo e nuovi orizzonti professionale per la Polizia Penitenziaria. Quel che manca è la volontà... H

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Sopra l’immagine della 17ª Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni Penitenziarie

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osservatorio politico

Presentato a Roma il nuovo magazine Delitti & Misteri Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

Nella foto Francesca Scopelliti, Roberta Bruzzone, Giovanni B. Durante e Francesco Mura Sotto la copertina del primo numero del magazine Delitti & Misteri a destra Mura e Durante

Polizia Penitenziaria n.201 dicembre 2012

M

ercoledì 12 dicembre 2012 è stato presentato a Roma il magazine noir Delitti & Misteri. Il primo numero della rivista, interamente dedicato al delitto di Perugia (omicidio Meredith), verrà distribuito presso le migliori librerie proprio a pochi giorni dall’anniversario dell’uccisione della povera Meredith Kercher.

«Una scelta - come sostiene Francesco Mura - dettata dalla voglia di ricordare quella giovane donna ancora senza giustizia e senza verità». E’ proprio questa la vera sfida di Delitti & Misteri: la ricerca della verità al servizio della Giustizia. Una a presentazione del nuovo magazine noir Delitti & Misteri, avvenuta presso la Sala Concorsi della Questura di Roma di via Statilia n. 30, ha ospitato, tra gli altri, la criminologa Roberta Bruzzone, il Segretario Nazionale Aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Giovanni Battista Durante, il presidente della Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora, Francesca Scoppelliti, il perito fonico Mariano Pitzianti e la biologa genetista Marina Baldi.

L

Giustizia che dovrebbe avere davvero la G maiuscola, ma che in realtà è sempre più minuscola. La nostra è una giustizia malata che non riesce a dare risposte alle vittime dei reati, con i suoi 5 milioni di processi che rischiano di andare in prescrizione, come sostengono da tempo i radicali, con il 95, 96 % di persone che commettono reati che non vengono condannati e, quindi, restano impuniti, e con i casi come quello di Enzo Tortora, ricordato dalla compagna Francesca Scopelliti, nel corso della presentazione del Magazine. Una giustizia, quindi, che ha sempre più bisogno di essere migliorata, attraverso riforme adeguate, che garantiscano processi tempestivi, non come quello a carico di Raniero Busco, condannato in primo grado e poi assolto, per fortuna, ha detto Francesca Scopelliti, perché non si può condannare una persona dopo diciassette anni, quando si è costruito una famiglia. Se pensiamo al fatto che la pena deve avere una funzione prevalentemente rieducativa, l’affermazione della dottoressa Scopelliti è assolutamente

Il primo numero, interamente dedicato al delitto di Perugia, verrà distribuito presso le migliori librerie proprio a pochi giorni dall’anniversario dell’uccisione della povera Meredith Kercher. Una scelta dettata dalla voglia di ricordare, a quattro anni di distanza, quella giovane donna ancora senza giustizia e senza verità. E’ proprio questa la vera sfida di Delitti & Misteri: la ricerca della verità al servizio della Giustizia. Una voce nuova, unica nel suo genere perché l’argomento è il crimine, che intende non riproporre quel giornalismo investigativo che ha scritto le pagine più belle del giornalismo noir ma anche aprire un dibattito serio e costruttivo su un argomento delicato e fin

condivisibile e lo è ancora di più se sulla colpevolezza della persona può esserci il minimo dubbio. Oggi le tecniche investigative sono migliorate moltissimo; con le tecniche attuali molti delitti del passato non sarebbero rimasti irrisolti, ma c’è ancora molto da fare, sia sul piano della formazione degli operatori, sia per quanto riguarda i mezzi a disposizione. Per esempio, l’Italia, insieme a Irlanda, Grecia, Cipro e Malta è il Paese che in Europa non ha ancora la Banca dati del DNA. Eppure abbiamo aderito al trattato di Prum, conclusosi nel 2005 tra alcuni paesi dell’Unione Europea, con la legge 85/2009. Il trattato prevede proprio l’impegno fra le parti contraenti a creare schedari nazionali di analisi del DNA. E’ prevista, quindi, l’istituzione della Banca dati del DNA e del laboratorio centrale: la prima gestita dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza e il secondo dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. A tutt’oggi, a distanza di tre anni, l’Amministrazione penitenziaria continua a tergiversare ed a perdere tempo nel decidere quali figure professionali inserire tra i tecnici che devono gestire il laboratorio. Eppure si tratta di una questione rilevantissima, che darebbe sicuramente prestigio all’Amministrazione e al Corpo: altri Corpi di Polizia, come si suol dire, farebbero carte false per essere al nostro posto. H

troppo spinoso qual è la Giustizia. Analizzando i piccoli e grandi casi giudiziari che hanno tenuto con il fiato sospeso il nostro Paese, dividendo su opposte barricate milioni di persone ma che hanno anche modificato il modo di fare comunicazione. Una sfida importante, di quelle che vanno giocate con la forza e la potenza dei portatori di palla ma anche con il tocco dolce e vellutato dei fuoriclasse. Come la criminologa Roberta Bruzzone la quale, con grande entusiasmo, ha accettato di condividere questa nuova avventura editoriale nel difficile ma affascinante ruolo di direttore scientifico. Roberta Bruzzone, insieme al direttore responsabile

Francesco Mura, saranno i tasselli più importanti di quello che vuole essere non solo il magazine di tutti gli appassionati del noir ma anche e soprattutto il magazine al servizio della verità. Francesco Mura

Il mensile Delitti & Misteri, sarà edito da Libera Informazione Cooperativa di Giano dell’Umbria. Alla guida del giornale Francesco Mura nella veste di direttore responsabile e la criminologa Roberta Bruzzone come direttore scientifico.


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lo sport

I Campionati italiani di judo a squadre, nell’Arena di Pesaro Lady Oscar Redazione Sportiva rivista@sappe.it

Nella foto sotto Francesco Bruyere

1 e 2 dicembre scorso, all’Adriatic Arena di Pesaro si sono svolte le finali dei Campionati Italiani a squadre di Judo organizzati da Confcommercio di Pesaro, dal suo Tour Operator Riviera Incoming e dalla Fazi Judo Pesaro del M° Guy Ruelle, cintura nera V° dan ed arbitro Mondiale. Sono stati allestiti nel maestoso impianto sportivo di Pesaro 600 metri quadri di tatami con 4 aree di combattimento che hanno ospitato nelle due giornate di gara 400 atleti di 63 squadre. Un’organizzazione che aveva replicato quanto portato a Pesaro nello stesso impianto nel 2006 in occasione dei Campionati Italiani Assoluti, e alla quale la FIJLKAM, la Federazione Italiana di Judo, ha affidato la gara più affascinante del calendario federale.

Polizia Penitenziaria n.201 dicembre 2012

Presenti alla loro ultima gara della loro carriera due Campioni olimpionici del calibro di Ylenia Scapin, Roberto Meloni e un altro che l’olimpiade l’ha più volte sfiorata e sognata, senza purtroppo avere l’occasione di disputarla: Francesco Bruyere, l’atleta della Polizia Penitenziaria che ha chiuso un’epoca e ha contribuito a scrivere la storia del judo azzurro oltre che delle Fiamme Azzurre. Già con la Green Hill World Cup di Roma, tre mesi fa, il fuoriclasse torinese aveva detto addio alle gare

L’

internazionali, lasciando i tatami con un ottimo secondo posto ed il tributo del pubblico che lo ha saltato con una lunghissima standing ovation. Francesco ha avuto una carriera ricca di soddisfazioni di pregio, un po’ frenata nel momento migliore da problemi fisici ma anche da parecchia sfortuna talvolta, che ne hanno limitato le prestazioni e minato le possibilità di ulteriori ascese, soprattutto in chiave olimpica. “L’Airone”, soprannome che nasce dalla caratteristica e personalissima postura d’inizio combattimento è stato Argento mondiale nel 2005 (73 kg) e non ha partecipato alle Olimpiadi di Londra pur chiudendo in zona qualificazione per aver perso la sfida tutta italiana con Antonio Ciano. Oltre ai moltissimi podi nelle gare ufficiali però, ciò che più brilla nel curriculum agonistico di Francesco è stato l’oro conquistato nella Jigoro Kano Cup del 2006, il torneo ad inviti che si disputa in Giappone, nel sancta sanctorum della disciplina giapponese, e che lui è stato il primo italiano della storia a vincere al termine di una finale vinta per Ippon, che nel judo corrisponde al ko tecnico del pugilato. Anche alcuni protagonisti di Londra

2012 in questa edizione tricolore sono scesi sul tatami: tra di essi Elio Verde a cui alle olimpiadi è sfuggito il bronzo per un soffio ed i due portacolori delle Fiamme Azzurre a Londra, Francesco Faraldo e Elena Moretti. Il regolamento prevedeva squadre formate da 5 atleti con la possibilità di due prestiti anche stranieri: nella squadra del Judo Camerano che ha rappresentato le Marche conquistando un prestigioso 5° posto, è così sceso in gara un olimpionico cubano, ora naturalizzato italiano, Oreydi Despaigne, che a Londra 2012 ha vissuto un giorno “alla Mike Tyson” ed è stato eliminato negli ottavi di finale del torneo della categoria fino a 100 kg. L’atleta aveva infatti perso per squalifica, contro l’uzbeko Ramziddin Sayidov, per avergli morso il dito di una mano durante la loro sfida. Tabelloni ad eliminazione diretta, e doppio ripescaggio tra Società che sono arrivate alla finale di Pesaro dopo aver superato le varie fasi di qualificazioni regionali, hanno caratterizzato questo scenario di judo ad alto livello. Sabato mattina è stato assegnato il titolo femminile Seniores che è andato al Gruppo Sportivo Fiamme Gialle della Guardia di Finanza in una finale mozzafiato proprio contro la squadra delle Fiamme Azzurre Roma che, pur patendo l’assenza di Sharon Dinasta e di una competitor nella categoria 63 kg, ha centrato l’argento, il secondo dopo Frosinone 2010, trascinata da una Giulia cantoni in grande spolvero, capace di rifilare sconfitte a tutte le avversarie della sua categoria, i +70 kg. Ha esordito con i colori delle Fiamme Azzurre il nuovo arrivo Diana Ballabio nei 57 kg, che si è bene comportata, ma il coraggio e la tenacia delle nostre nulla hanno potuto nella finale


lo sport contro la formazione della Guardia di Finanza, persa di misura per 2 a 3. La formazione vincitrice, guidata da Michele Monti, aveva superato in precedenza il Kodokan Vittorio Veneto, l’Isao Okano Club 97. Sul podio sono salite anche l’Isao Okano Club, che per il bronzo ha avuto la meglio sulle

Fiamme Oro e l’Akiyama Settimo, che ha superato invece il Kodokan Vittorio Veneto. Il team guidato da Enrica Cattai ha avuto l’onore di schierare per la sua ultima gara un’Ylenia Scapin che ha incantato, danzando sul tatami, guizzando in tai otoshi e de ashi barai, le sue tecniche preferite. Con Francesco Bruyere si è chiusa un’epoca fatta di successi e podi. Sarà dura per le Fiamme Azzurre fare a meno di un talento come il suo, ed è stata dura constatare, dopo nove anni di piazzamenti e quattro titoli italiani, che le Fiamme Azzurre della squadra maschile a Pesaro sono scese dal podio tricolore. Per il capitano c’è stata la soddisfazione dell’ultimo Ippon, nella finale per il bronzo di

domenica, nel match contro l’amico e collega della Forestale Emidio Centracchio, tuttavia la vittoria non compensa la delusione per il quinto posto finale, arrivato dopo l’altro brillante Ippon di Domenico Di Guida che ha chiuso la serie dei combattimenti nei +90kg. La manifestazione, in diretta su Rai Sport, ha visto il trionfo della squadra del Centro Sportivo Carabinieri contro un fortissimo Akijama Torino che ha ceduto all’ultimo incontro per 3 vittorie contro 2: finale al cardiopalma che ha appassionato tutto il pubblico presente per l’equilibrio tra due squadre che hanno dato vita ad incontri tecnicamente ed agonisticamente spettacolari. Anche per i rossoblù dell’Arma un addio eccellente allo sport agonistico: un fortissimo Roberto Meloni ha festeggiato la sua ultima gara con lo splendido ippon in finale su Mungai nei 90kg. E’ calato così il sipario su una gara che ha portato a sui tatami un judo di altissimo livello. Le squadre maschile e femminile delle Fiamme Azzurre sono state graditi ospiti nel dojo del Judo Club Pesaro nei giorni immediatamente precedenti alle gare. I nostri atleti si sono allenati nei pomeriggi di giovedì e di venerdì per raffinare la preparazione, ma c’è stato tempo anche per un simpatico scambio di doni e soprattutto dei simpatici momenti di judo con i bambini. Campioni del calibro di Francesco Bruyere, Francesco Faraldo ed Elena Moretti, dopo aver allietato gli intenditori con un allenamento agonistico, hanno offerto divertenti scambi di tecniche con gli allievi più piccoli del Judo Club, che hanno avuto l’onore ed il piacere di “fare Ippon” a dei campioni affermati. Atleti e dirigenti delle Fiamme Azzurre, nel ringraziare i maestri del Club della città si sono impegnati a cercare qualche altra data disponibile, fra i tanti impegni agonistici dell’anno, per organizzare qualche altro momento di incontro all’insegna del bel judo, magari sotto forma di stage tecnico aperto però anche ai meno esperti. H

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Uomini Finale 1° posto Carabinieri – Akiyama Settimo 3-2 (25-15) 66: Andreoli – Basile 10-0 73: Carnebianca – Tosolini 0-10 81: Carollo – Cszoknyai 0-5 90: Meloni – Mungai 10-0 +90: Mascetti – Ver 5-0 Finali 3° posto Camerano - Fiamme Oro 1-4 (7-40) 66: Ramirez – Verde 7-0 73: Gonzalez – Meloni 0-10 81: Montanari – Poeta 0-10 90: Montanari – Tomasetti 0-10 +90: Despaigne – Capezzuto 0-10 Forestale – Fiamme Azzurre 3-2 (20-20) 66: Galbiati – Caudana 5-0 73: Scollo – Faraldo 5-0 81: Centracchio – Bruyere 0-10 90: Miranda – Carollo 10-0 +90: Ardizio – Di Guida 0-10

Nelle foto a sinistra Elena Moretti in gara

sotto Le Fiamme Azzure nel dojo del Judo Club Pesaro

Donne Finale 1° posto Fiamme Azzurre-Fiamme Gialle 2-3 (20-30) 52: Moretti - //// 10-0 57: Ballabio – Boccanera 0-10 63: //// - Gwend 0-10 70: Celletti – Pitzanti 0-10 +70: Cantoni – Ferrari 10-0 Finale 3° posto Fiamme Oro - Isao Okano 2-3 (10-20) 52: Moscatt – Merelli 5-0 57: //// - Raimondi 0-10 63: Iadeluca-Chioso 0-5 70: Truglia-Aragozzini 5-0 +70: Tangorre-Giambelli 0-5 Finale 3° posto Kodokan Vittorio Veneto - Akiyama Settimo 2-3 (20-30) 52: Posocco – Mongiello 0-10 57: Centracchio – Savina 10-0 63: Valle – Bonfante 0-10 70: Scapin – Busto 10-0 +70: Vendrame – Ferrera 0-10

a sinistra Francesco Faraldo

Polizia Penitenziaria n.201 dicembre 2012


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a cura di Ciro Borrelli Coordinatore Nazionale Sappe Minori per la Formazione borrelli@sappe.it

giustizia minorile

Il Dipartimento della Giustizia Minorile in partnership con il Dipartimento Pubblica Sicurezza per il calendario 2013 della Polizia di Stato

L’

idea del Calendario 2013 della Polizia di Stato è nata nel mese di agosto 2012 quando la dottoressa Isabella Mastropasqua in servizio presso il Dipartimento Giustizia Minorile, contattata dal Ministero dell’Interno, ha invitato la Direzione dell’I.P.M. di Nisida ad incontrarsi a Roma presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, in Piazza del Viminale.

Nelle foto in alto la cover del calendario sopra lo staff della Polizia di Stato a Nisida a destra l’ingresso dell’Istituto Minorile

Polizia Penitenziaria n.201 dicembre 2012

Alla base del progetto, l’idea di coinvolgere alcuni minori, detenuti a Nisida, che è anche la sede del Centro Europeo di Studi sulla devianza minorile, nella realizzazione di vari disegni dai quali sarebbero scaturite le dodici tavole grafiche per il calendario 2013 della Polizia di Stato. Ed è per questo motivo che nel mese di settembre, il dott. Maurizio Masciopinto - Dirigente Superiore della Polizia di Stato - si è recato a Nisida insieme alla dott.ssa Annalisa Magliuolo - Vice Questore Aggiunto e allo staff del Settore CineTV dell’ufficio Relazioni Esterne e Cerimoniale della Polizia di Stato per completare una serie di scatti fotografici che hanno interessato varie zone d’Italia. All’istituto di Nisida, i lavori sono stati seguiti con professionalità e competenza dal personale di Polizia Penitenziaria ed in particolare dall’

Ispettore Paolo Fiorenzano, dal Vice Sovrintendente Antonio Balestrieri e nella parte finale dal Vice Sovrintendente Ciro Borrelli, oltre che in alcune fasi dalla dott.ssa Barbara Fedele e dalla dott.ssa Giuseppina Canonico, Funzionari della

Professionalità Pedagogica, in servizio presso Nisida. I lavori di sviluppo grafico sono poi proseguiti a Roma presso la Scuola Internazionale di Comics, Accademia delle Arti Figurative e Digitali, per essere successivamente rivisti insieme al personale di Polizia Penitenziaria, all’Istituto Penale Minorile di Nisida, prima di passare all’attenzione del Ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. Sicurezza, solidarietà e progetti innovativi. Sono queste le basi sulle

quali è stato realizzato il calendario della Polizia di Stato per il 2013, con l’usuale finalità benefica: finanziare il progetto Unicef per la Tanzania con il ricavato delle vendite. Per acquistare il calendario è importante sapere che sono disponibili tre formati: la versione da parete, con dimensioni 40x40, al costo di 8 euro, quella da tavolo e il planning, al costo di 6 euro. Per acquistarlo si deve scegliere il formato preferito e il quantitativo desiderato; calcolare la spesa complessiva sommando il costo di ogni copia del calendario che si vuole acquistare; compilare un bollettino postale con il numero di conto corrente 745000, intestato a “Unicef comitato italiano”; nella causale scrivere “Calendario Polizia di Stato 2013 progetto Unicef Tanzania” e poi presentate la ricevuta del versamento all’Ufficio relazioni con il pubblico della Questura, specificando la tipologia dei calendari ordinati (ad esempio n.2 planning, n.1 da parete). A questo punto si deve solo aspettare che la Questura comunichi l’inizio della distribuzione dei calendari per andar a ritirare le copie scelte. Lo scorso anno, la vendita dei calendari della Polizia di Stato ha permesso di devolvere all’Unicef 240 mila euro che hanno finanziato il progetto Camerun per contrastare la malnutrizione infantile. H



16 Aldo Maturo Avvocato già dirigente dell’Amministrazione penitenziaria avv.maturo@gmail.com

società e cultura

Essere italiani nella terra di Goethe

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egli anni ’50 e ’60 in molti licei scientifici del sud Italia la lingua straniera era il tedesco e quegli amici che lo studiavano mi facevano sentire parole interminabili, incomprensibili, foneticamente dure e aspirate come si sentiva solo nei film delle SS. A confronto, la dolcezza del mio greco riscattava tutte le sue difficoltà. Lo studio del tedesco era forse funzionale al fenomeno dell’emigrazione verso la Germania, che in quegli anni era caratterizzato da un grosso flusso migratorio verso la terra di Goethe.

Nella foto migranti

Polizia Penitenziaria n.201 dicembre 2012

Il Sud, allora più che oggi, era un serbatoio di disoccupati e in quegli anni oltre 4 milioni di italiani scelsero la Germania per partecipare alla ricostruzione di un Paese devastato dalla guerra. Erano considerati lavoratori “ospiti”, in soggiorno temporaneo in attesa di ritornare in Italia. La maggioranza si fermò nel sud della Germania e, non avendo una qualificazione, fu impiegata in lavori agricoli, minerari, edili e, in parte, nelle industrie dell’acciaio. L’eco di una sistemazione lavorativa più soddisfacente di quella lasciata in Italia portò ad un esodo di altri meridionali, spesso disperati, ancor meno qualificati, totalmente ignari della lingua tedesca che dovettero adattarsi a condizioni abitative degradate nei sobborghi delle grandi città. Il cinema rappresentò il dramma umano degli emigranti in terre di lingua tedesca con il favoloso film “Pane e cioccolata”, uno dei capolavori di Nino Manfredi. All’inizio degli anni ’70 però la Germania frenò questo tipo di emigrazione

incentivando anzi il rientro in Italia ma furono ben pochi quelli che lo accettarono. La caduta del muro di Berlino (1989) creò le condizioni di nuovi posti di lavoro per ricostruire la parte ovest della città e si assistette così ad un’altra ondata di emigrazione di forze lavoro dall’Italia e da quei Paesi dove il tasso di disoccupazione continuava a restare altissimo. Attualmente vivono nella terra di Angela Merkel circa 700.000 italiani, la terza comunità straniera dopo quella turca e balcanica, ma è da dire che 200.000 di loro sono nati in Germania. Una forte presenza di italiani si ritrova a Stoccarda, Francoforte, Colonia, Monaco di Baviera. Più di 170.000 connazionali lavorano nelle grandi industrie come la Bosch, la Mercedes, la Lufthansa e imperante per gli italiani è il mondo della ristorazione, con oltre 25.000 piccole imprese a conduzione familiare che hanno ristoranti, pizzerie, gelaterie etc. Sono proprio queste piccole attività che rappresentano la prima zattera di salvataggio per tanti italiani che sbarcano in Germania senza lavoro e senza particolari punti di riferimento. La crisi economica che dal 2008 attanaglia l’Europa ha rilanciato la Germania come Terra Promessa e si sta riproponendo la necessità di conoscere il tedesco per lavorare nel Paese economicamente più forte d’Europa, grande partner economico dell’Italia. Ma questa volta il timone verso la Germania non è puntato solo dalle classi dequalificate ma da giovani ingegneri, medici, esperti d’informatica, gente altamente professionalizzata che lascia la terra dei limoni per entrare nel motore d’Europa. I nostri giovani, però, non devono farsi molte illusioni e devono sapere che in Germania dovranno scontrarsi con molti pregiudizi – non sempre gratuiti, a dire il vero - e riscattare altri luoghi comuni che da decenni penalizzano chi li ha preceduti.

Secondo una ricerca fatta da Alessandra Simonti per il Ministero Affari Esteri, e per la Conferenza dei Rettori delle Universita Italiane presso l’Ambasciata d’Italia a Berlino, intitolata: “Come viene percepito l’Italiano residente in Germania dal tedesco medio?”, essere italiano in Germania rappresenta un pessimo biglietto da visita. Vecchi stereotipi e pregiudizi limitano l’inclusione dei vecchi emigrati nel contesto sociale e questo li porta a vivere generalmente in comunità chiuse che sono il maggior ostacolo ad una completa integrazione sociale. Per i ragazzi e i più giovani altro motivo di esclusione è la difficoltà d’inserimento scolastico dovuto alla lingua e alla severità degli studi. La scelta cade così sulla frequenza di scuole che offrono poche opportunità professionali o di carriera cui si aggiungono scarsi stimoli da parte delle famiglie che, di fronte all’insuccesso scolastico dei figli, invece di stimolarli per superare le inevitabili difficoltà di apprendimento – spesso dovute anche al fatto che in famiglia si continua a parlare soltanto la lingua italiana - scelgono di avviarli a lavori scarsamente qualificati ma immediatamente remunerativi. Gli scarsi risultati in campo scolastico creano però un circolo vizioso perchè diventa difficile elevarsi da classi sociali medio basse ereditate dai genitori. Quando la famiglia di origine non riesce ad integrarsi si chiude in se stessa in un guscio fatto solo di italiani. Questa condizione si ripercuote sui figli a livello scolastico tanto che riescono a conseguire risultati modesti e poco qualificanti, quando non decidono di abbandonare gli studi. La mancanza di titoli scolastici qualificanti li porta a dover fare soltanto lavori modesti e il circolo del disagio si chiude riportandoli a subire le stesse umiliazioni dei genitori. Ma, nonostante tutto, se non è azzardato dire che i tedeschi amano gli italiani è altrettanto vero che non li stimano. Ne apprezzano la spontaneità, l’allegria, la spensieratezza, la vitalità, la simpatia e l’estro artistico ma li considerano anche inaffidabili, ritardatari, imbroglioni, scansafatiche, mammoni


libro del mese e un po’ “mafiosi”. Non ci perdonano poi di urlare al ristorante e di gesticolare troppo. Insomma la maggioranza degli italiani non ha vita facile anche se la situazione varia da regione a regione, diventando ottimale a Berlino e molto meno soddisfacente in Baviera. L’isolamento sociale caratterizza anche altre comunità straniere (turchi, albanesi, balcanici ) che, come le nostre, continuano a vivere nei propri spazi etnici, con propri negozi, propri spazi ricreativi, mantenendo rapporti solo con i propri connazionali. La Merkel sta cercando di risolvere il problema coinvolgendo enti, associazioni sportive, religiose, sindacati e ha minacciato di limitare gli ingressi solo a quelli che conoscono o che imparano la lingua, ostacolo principale ad una completa integrazione. Ma comunque vadano le cose sarà difficile recuperare il dislivello che caratterizza le due culture. Basti pensare che lo stesso Mario Draghi è stato fortemente osteggiato da tutti i giornali tedeschi prima di essere nominato al vertice della Banca Centrale Europea perché il suo brillante curriculum era penalizzato da una sole voce: “nazionalità”. La sua provenienza italiana, Paese in pessime condizioni finanziarie, indisciplinato, con un alto debito pubblico ed un’evasione incontrollata, lo rendeva ai loro occhi inidoneo a guidare la BCE, perché “per gli italiani l’inflazione è come la salsa di pomodoro sulla pasta”. La nostra reputazione, prima dell’intervento di Monti, era ulteriormente scaduta per le note vicende erotico-sentimentali che hanno caratterizzato l’ultimo governo “politico” e siamo stati identificati come la patria dei vizi. E’ un’etichetta che ci portiamo dietro, insieme a tutti gli altri pregiudizi che ho elencato. Chi sta in Germania sa che è un conto giornaliero che gli abitanti d’oltr’alpe ci presentano e che rende molto difficile integrarci in una società rigida come la loro. La speranza è che la professionalità che caratterizza i nuovi flussi migratori possa contribuire a ridisegnare un profilo diverso del nostro Paese. H

Alessandro Pugi

THE SPANNERS Italian University Press pagg. 204 - euro 16,00

The Spanners” (edizione Italian University Press) è il titolo del romanzo scritto da Alessandro Pugi, trentottenne autore portoferraiese alla sua prima esperienza letteraria, che nei prossimi giorni sarà disponibile in tutte le librerie. Una storia misteriosa, avvincente che catturerà il lettore fin dalle prime pagine - questo va riconosciuto allo "scrittore" elbano diplomato in Ragioneria – scritta con il piglio del talentuoso romanziere che ben conosce l'arte di saper calare nelle vicende narrate le persone che si avvicinano alle sue pagine. Tutto quanto l'impianto del libro si muove attorno a un’apparentemente inspiegabile sparizione: siamo in Canada, precisamente su una piccola isola di questa sterminato Paese, Rowe Island, dove il tempo appare essersi fermato e le cose lasciate anni addietro non subire alcun mutamento, tre ragazzi spariscono come inghiottiti dalle tenebre. Di loro si è persa ogni traccia. E' questo che scopre Allyson Percen, la protagonista, quando torna, dopo quattro anni d’assenza, sull'Isola. Mistero, appunto: ecco l'atmosfera che si respira in questo romanzo dove l'autore dimostra di possedere una buona e convincente sagacia nell’accompagnare per mano il lettore al "dispiegamento" dell'intreccio e a "scoprire" la verità (non per nulla il

titolo del romanzo è “spanners", cioè 'chiavi', lo strumento comunemente usato per aprire le porte del tempio, sul limitare del bosco, dove è custodito il segreto secolare dell'uomo) intorno a questo caso che è stato affidato al detective di Boston, Nathan Rob. Non mancano i colpi di scena, le apparizioni di personaggi "incredibili" che affollano le nostre menti durante le notti insonni e che incarnano il Male. Perché, è questa è l'ossatura principale dell'intero impiantito, il romanzo di Pugi d’altro non parla se non dell'eterna lotta del Bene contro il Male, le due entità superiori che si contendono la podestà su questa Terra. Forze malefiche, diaboliche contro le potenze del Bene, lungo il paradigma dei secoli fino alla nostra contemporaneità. Presenze che sono riconducibili ai nostri giorni e che avvertiamo nella nostra quotidianità. E' chiaro che nelle ultime pagine il velo che ha tenuto avvolta la narrazione sarà "squarciato" e il lettore potrà capire l'intera storia. Infine, una parola sull'ambientazione: che c'incastra Rowe Island con il mondo mediterraneo? Potrebbe apparire il luogo lontano mille miglia dalla nostra visione: in verità, se pure gli ambienti appaiono esotici, un'isola, il continente, il traghetto sul quale occorre imbarcarsi per raggiungerla, il bosco e tante altre situazioni non sono poi così lontane dal nostro modo di vedere il mondo perché, per dirla con lo stesso autore «la vita non sempre è quella che ci è data da vedere e le creature del bosco possono rivelarsi implacabili guardiani di un segreto millenario». H Il Tirreno (Cignoni)

17 a cura di Piesse rivista@sappe.it

La copertina del libro di Alessandro Pugi

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diritto e diritti

La dipendenza della malattia dalle cause di servizio Giovanni Passaro passaro@sappe.it

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regiato dott. Passaro, a scrivere è una ex collega neo pensionata, la quale spera (nonostante cessata dal servizio) di ricevere il suo parere sulla seguente questione: con domanda di riconoscimento del 10/09/2007 la scrivente avanzava, all’Amministrazione penitenziaria, richiesta di dipendenza di malattia da causa di servizio per le infermità “sinusite mascellare bilaterale”, “ipertrofia turbinati bilaterale” e “pseudo cisti mascellare dx” riconoscendo le menomazione all’integrità fisica ascrivibile: (Inf. 1) alla Tabella B, inf. 2 e 3 non classificabili annessa al D.P.R. 30/12/1981, n. 834). Successivamente, il Comitato di verifica per le cause di servizio ha emesso un parere negativo sulla dipendenza dell’infermità richiesta, facendo decadere il diritto ai relativi benefici. Vorrei conoscere eventuali motivi per ricorrere contro tale ingiustizia, dopo avere onorato per 40 anni l’Amministrazione penitenziaria. Invio congiuntamente i documenti necessari per la ricostruzione del caso. Grazie. Distinti saluti. Lettera firmata

P

Distinta collega, il provvedimento con il quale è stato stabilito che l’infermità, da cui è stata riconosciuta affetta, non sono dipendenti da causa di servizio, a mio parere, potrebbe essere impugnato per i seguenti motivi: • violazione e/o falsa applicazione L. 395 del 15/12/1990 e D.P.R. 461 del 29/10/2001 - Motivazione carente o perplessa. L’Amministrazione sostiene che le patologie riscontrate non possono riconoscersi dipendenti da fatti di servizio. Ma osservando la documentazione medica, prodotta in sede di istanza nonché in sede di accertamento, non è possibile non notare che le gravi condizioni dell’istante sono certamente ascrivibili a nessi patologici con l’attività di polizia espletata nel corso degli anni. Infatti, la scienza medica individua che le cause delle sinusiti possono avere un’origine virale, la più frequente, batterica o fungina. Inoltre, Le Sinusiti croniche sono invece stati infiammatori,

legati per esempio a condizioni ambientali. Pertanto, è facile evidenziare come il carcere, dove è stata prestata l’attività lavorativa, non è un ambiente salubre, perché l’incremento della popolazione detenuta determina condizioni di vita insopportabili, con carenza delle condizioni minime di igiene e sicurezza e rendono il lavoro della polizia penitenziaria faticoso e logorante. Inoltre, non si è tenuto conto dei turni di servizio svolti, che consistono nello svolgimento costante di turni notturni, dove le condizioni climatiche non sono favorevoli (es. umidità, freddo, caldo eccessivo….ecc.). Ci sono chiari segnali clinici di disagio fisico riscontrabili nelle certificazioni sanitarie.. In merito alle infermità “ipertrofia turbinati bilaterale” e “pseudo cisti mascellare dx”, devono riconoscersi dipendenti da causa di servizio, in quanto le prestazioni di lavoro rese risultano disagiate e ne conseguono sforzi eccessivi di particolare intensità e elementi di eccezionale gravità, che hanno prevalso sui fattori individuali, almeno sotto il profilo concausale, tenuto conto della peculiare natura delle patologie di cui trattasi. Difatti il sovraffollamento e la carenza di organico hanno determinato un eccesivo carico di lavoro riconosciuto con la dichiarazione dello stato di emergenza. Le certificazioni mediche fanno presumere la stretta dipendenza con il tipo di lavoro espletato, e non si comprende come sia stato possibile negare la dipendenza in sede di comitato di verifica per le cause di servizio, pur sussistendo le causali e i nessi eziologici con le patologia in essere. Peraltro anche alla stregua del concetto di malattia desumibile dall’art. 32 Cost. la malattia considerata dall’art. 2110 c.c. va intesa non come stato che comporti l’assoluta impossibilità di svolgere qualsiasi lavoro, ma come stato impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente (in tal senso anche 86/4957). Il caso di malattia professionale che necessita il riconoscimento come causa di servizio va inteso quindi, anche alla stregua dei precetti costituzionali in tema di diritto alla salute, in senso non limitato alla malattia a carattere unitario e

continuativo, ma comprensivo dell’ipotesi di un succedersi di malattie a carattere intermittente o reiterato, ancorché frequenti e discontinue in relazione ad uno stato di salute malferma, acclarandosi il principio della cosiddetta eccessiva morbilità (anche in tal senso 88/382). Per quanto sopra, si desume chiaro sindacato di legittimità ed evidenti e macroscopici vizi logici desumibili dalla motivazione degli atti (Consiglio di Stato, Sez. I, 30/06/2004, n. 7756); • Eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria e di motivazione, travisamento e/o erronea valutazione dei fatti, sviamento di potere – Ingiustizia manifesta – Assenza di partecipazione dell’interessato e violazione del principio del giusto procedimento ex L. 241/1990. L’Amministrazione avvia una procedura di decadenza sulla base di generici accertamenti espletati non si sa bene ad opera di chi e quando, ovvero senza che ad essa sia seguito alcun accertamento tecnico nei modi e nei termini prescritti dalla legge. Da quanto sopra è evidente che nessun accertamento sia stato effettuato sulla persona dalle figure professionali previste dalla legge con il necessario ausilio del consulente di parte, che ben avrebbe dovuto e potuto interloquire con i sanitari per agevolarne il favorevole giudizio prognostico. Ricorre altresì “ingiustizia manifesta” nel momento in cui l’interesse privato risulti, come nel caso di specie, compresso o sacrificato non sussistendo peraltro sufficienti ragioni di pubblico interesse. Senza contare che è palese la cd. “violazione del principio del giusto procedimento” sancito dalla legge n. 241/1990 atteso che si evidenzia un mancato rispetto del fondamentale principio di partecipazione. Il rispetto delle regole partecipative, infatti, non si sostanzia meramente nella comunicazione dell’avvio di un procedimento, ma nella predisposizione di misure di garanzia per i soggetti interessati di partecipare attivamente all’esplicazione dell’“iter” procedurale, il che non è avvenuto per mancata partecipazione agli accertamenti espletati. Da ciò si evince che il provvedimento non solo è illegittimo, ma anche abnorme rispetto alla situazione “concreta” (cfr. TAR Umbria sentenza 21/05/2008). Tanto premesso, si devono considerare i seguenti rilievi: 1) “l’essere stata sottoposta a gravosi disagi di ordine fisico, climatico, atmosferico e che, indubbiamente, per lungo tempo ai ripetuti fattori psicotensivi


quotidiani micro stress” e che “pur essendo le infermità, sulla cui insorgenza giocano fattori connessi con i normali processi evolutivi condizionati dall’età, pur tuttavia si può ritienere che nel caso in esame, i suddetti disagi e fattori patematici e psico stressanti, agendo ripetutamente durante numerosi anni di servizio abbiano svolto un ruolo di preponderante importanza concausale...”. Analizzando compiutamente l’attività lavorativa svolta, si riscontra che la stessa ha comportato una forte esposizione dello stesso a fattori di rischio, quali lo stress per prestazioni lavorative spesso effettuate con condizioni climatiche avverse. Pertanto, nel caso in esame, vi è una discordanza non tanto riguardo la valutazione della dipendenza da causa di servizio delle patologie effettuata dai diversi organi, quanto sulla valutazione delle circostanze di fatto alla base della richiesta (CdS Sentenza sez. I TAR Marche n. REG.SEN. 00853/2009 del 05/08/2009); 2) le patologie in questione secondo, dunque, la valutazione operata dalla CMO sono state contratte a causa di servizio; 3) le modalità d’impiego al lavoro “con elevata probabilità” hanno costituito fattore “concausale” (anche di rilevante entità temporale) che, giustappunto, va valutato tanto per la sua efficienza lesiva (in raccordo biunivoco col contesto ambientale del lavoro e le patologie che ne sono conseguite) quanto per (l’obiettiva) insussistenza di un qualche (ulteriore e diverso) fattore di rischio (congenito o acquisito in contesto estraneo all’impiego al lavoro) corso di causa che, - in piena coerenza ai quesiti posti, e con elaborato del tutto logicamente svolto, all’accertamento di un nesso di concausalità, efficiente e determinate, - ad una puntuale ricognizione dell’anamnesi lavorativa in raccordo alle clinicamente documentate patologie; 4) il parere del Comitato sarebbe espresso in termini generici, invero piuttosto sintetico, non contiene alcuna disamina in concreto della posizione dell’istante; 5) l’Amministrazione è tenuta a verificare se il Comitato di Verifica per le Cause di Servizio, nell’esprimere le proprie valutazioni, abbia tenuto conto delle considerazioni svolte dagli altri organi e, in caso di disaccordo, se le ha confutate (CdS sez. IV 3.9.2008 n. 4120); Orbene, è del tutto evidente “ictu oculi” che il provvedimento in questione, secondo il mio modesto parere, debba essere annullato. Cordiali saluti. H

dalle segreterie Nisida Visita del Segretario Generale Donato Capece a Nisida

per una visita di cortesia anche alla Base Navale NATO di Nisida, dove tra le navi militari sono attraccate anche le imbarcazioni in uso alla Polizia Penitenziaria per il pattugliamento delle aree circostanti l’isola. H Ciro Borrelli

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rivista@sappe.it

Il 28 Novembre 2012, nonostante le avverse condizioni meteo, il Segretario Generale del Sappe, dott. Donato Capece, accompagnato dal Segretario Regionale della Campania Emilio Fattorello ha trascorso alcune ore, del suo lungo tour campano, a Nisida. La visita si è svolta in due fasi. Dapprima il dott. Capece ha incontrato i colleghi del settore minorile compresi i rappresentanti locali dell’I.P.M. di Airola, poi i colleghi del Reparto Navale della Polizia Penitenziaria. Durante la visita una delegazione del Sappe è entrata

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Roma

Campionato Europeo di Tai Chi Chuan ome promesso nello scorso numero ecco il resoconto della partecipazione di Mario Caputi al VI Campionato Europeo di Tai Chi Chuan tenutesi a Lignano (UD) dal 7 al 9 dicembre 2012. Cinque medaglie, tre d’argento e due di bronzo (su sei gare disputate) il risultato. L’oro è sfumato di poco, ma con le sue medaglie e quelle degli altri atleti della sua società (ASIA acsd Latina) ha contribuito a far sì che la Coppa per il Primo Team classificato andasse alla Federazione Italiana Wudang. H

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Saluti dagli Agenti del 165° Corso

Nelle foto sopra: la visita al Comando NATO della delegazione del Sappe a sinistra: Mario Caputi con la Coppa del Team classificatosi primo al VI Campionato Europeo di Tai Chi Chuan sotto: la foto degli Agenti del 165° Corso di Verbania, inviata dai Segr. Prov. Sappe Domenico Buonafina e Francesco Capodici

Verbania

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dalle segreterie Catanzaro

Messina

Assemblea Regionale dei Quadri Sappe della Calabria

Assemblea Provinciale del Sappe a Messina

rivista@sappe.it

l 20 novembre presso la sala conferenze della Casa Circondariale di Catanzaro, alla presenza del Segretario Generale Dott. Donato Capece e del Segretario Generale Aggiunto Dott. Giovanni Battista Durante, si è tenuta, come di consueto, l’affollatissima assemblea regionale dei quadri del Sappe della Calabria alla quale hanno partecipato i rappresentanti Regionali, Provinciali e Locali. L’incontro è stato aperto dal Segretario Regionale Damiano Bellucci, che ha evidenziato i problemi in cui si trova la nostra Regione: dal sovraffollamento delle carceri, alla carenza di personale, nonché alla mancanza di mezzi per trasportare i detenuti nelle aule di giustizia.

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Nelle foto alcune fasi delle assemblee tenute dal Sappe a Catanzaro e Messina

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Il Segretario Generale Aggiunto Giovanni Battista Durante, oltre a confermare le problematiche espresse da Bellucci, ha rafforzato la tesi di rivedere a livello centrale le piante organiche e portare a conoscenza dei vertici dell’amministrazione quanto dovuto per la tutela del personale. Il Segretario Generale del Sappe Dott. Donato Capece, nel corso del suo intervento ha trattato vari argomenti: sovraffollamento carceri, carenza endemica del personale di Polizia Penitenziaria e amministrativo, braccialetto elettronico, misure alternative alla detenzione, riforma delle pensioni attuata dal governo, assunzione di nuovi allievi Agenti con lo “sblocco” del turn over, ingresso del Corpo di Polizia Penitenziaria a partire dal 2013 nella DIA e, infine, ha concluso con la contrattazione annuale del “Fesi”. La riunione si è conclusa con vari interventi propositivi dei Quadri al Segretario Generale. H Giuseppe Cosenza

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ubblichiamo le foto relative allo svolgimento della Assemblea Provinciale che si è tenuta a Messina il 12 dicembre. H



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mondo penitenziario

Riflessioni sull’uso legittimo delle armi Luca Pasqualoni Segretario Nazionale Anfu pasqualoni@sappe.it

(articolo 53 c.p.)

L’

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uso legittimo delle armi è un istituto previsto e disciplinato dall’articolo 53 del codice penale, così come integrato dall’articolo 14 della legge 22 maggio 1975, n. 152 in materia di ordine pubblico. Per effetto della predetta modifica l’attuale testo risulta essere: “…non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso o ordina di fare uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, di sommersione, di disastro aviatorio, di disastro ferroviario, di omicidio volontario, di rapina a mano armata, e di sequestro di persona. La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica”. La causa di giustificazione dell’uso legittimo delle armi è stata introdotta nell’ordinamento penale italiano nel 1930, al fine di rimuovere la situazione di incertezza giuridica che si era determinata in costanza del previgente codice Zanardelli del 1889 a causa del silenzio serbato da quest’ultimo sull’uso delle armi e, più in generale, sull’uso della coazione da parte degli agenti ed ufficiali della forza pubblica, dal momento che gli istituti ad effetto scriminante della legittima difesa, dello stato di necessità o dell’adempimento del dovere non apparivano sufficienti a coprire tutti i casi in cui il pubblico ufficiale poteva, o meglio doveva, far ricorso all’uso della coazione fisica. La norma, di natura eminentemente politica, è uno dei precipitati del regime fascista, come dimostra la non menzione tra i requisiti strutturali dell’elemento della “proporzionalità”,

atteso che lo stesso avrebbe esatto il bilanciamento degli interessi contrapposti nella situazione data. La previsione di tale autonoma causa di giustificazione, ulteriore rispetto alla legittima difesa, all’adempimento di un dovere e allo stato di necessità, è stata correlata alla opportunità, particolarmente sentita appunto in epoca fascista, di difendere il prestigio della pubblica autorità, ma anche con il superiore interesse dell’ordinamento ad interrompere con qualsiasi mezzo il momento di consumazione dei reati più gravi e più violenti non appena possibile, onde impedire che fossero portati a conseguenze ancora più gravi. In questo senso lo Stato, mediante la forza pubblica (l’esimente è, infatti, limitata alla sola figura del pubblico ufficiale), rafforza le previsioni ordinamentali con un’azione fisica decisa, repressiva di quanto illecitamente in corso ma anche preventiva rispetto al comportamento della consumazione, affidando tale azione alla forza pubblica. Si tratta, quindi, di esimente da considerarsi propria, nel senso che può essere invocata solo dai soggetti in essa indicati. In effetti l’esimente può essere invocata solo dai pubblici ufficiali che, per motivi d’ufficio, possono portare armi senza licenza, vale a dire solo dagli appartenenti alle Forze dell’ordine. L’esimente in esame è poi applicabile anche a tutti i soggetti che, su legale richiesta del pubblico ufficiale, gli prestano assistenza nell’ambito dei casi e dei limiti precisati dall’articolo 652 c.p.. In ogni caso la richiesta deve essere formulata espressamente dal pubblico ufficiale e deve intervenire prima dell’uso delle armi, non essendo contemplato e sufficiente un consenso postumo. Discusso in dottrina è altresì se l’uso legittimo delle armi costituisca un’autonoma esimente o sia piuttosto una figura particolare dell’adempimento del dovere.

La dottrina prevalente ritiene che l’uso legittimo delle armi vada tenuto distinto tanto dall’esercizio di un diritto quanto dall’adempimento di un dovere, poiché svolge una funzione integrativa e specificativa. Del resto, anche il legislatore ha considerato autonomamente tale figura, non solo facendo salve le ipotesi previste dagli articoli 51 e 52 c.p., ma richiedendo autonomi presupposti per la sussistenza dell’esimente. Inoltre, la clausola di riserva posta all’inizio dell’articolo 53 c.p. “ferme restando le disposizioni contenute nei due articoli precedenti…”, certifica la natura sussidiaria della disposizione in oggetto rispetto alla legittima difesa e all’adempimento di un dovere. Affinché sia configurabile l’esimente in questione occorre quindi: • che si debba respingere una violenza o superare una resistenza attiva; • che non vi sia altro mezzo possibile; • che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo; • che l’uso di tale mezzo venga graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del fondamentale principio di proporzionalità; • impedire la consumazione dei seguenti delitti di: - strage; - naufragio; - sommersione; - disastro aviatorio; - disastro ferroviario; - omicidio volontario; - rapina a mano armata; - sequestro di persona. Nondimeno, in sede di interpretazione e soprattutto di applicazione, tale esimente non ha avuto il successo sperato, non tanto e non solo per la sua natura spiccatamente sussidiaria, ma perché ha visto la luce in ordinamento antitetico a quello attuale che, viceversa, ha abbracciato la forma repubblicana a cui è consustanziale il bilanciamento degli interessi contrapposti. Non a caso la Commissione Grosso, deputata a riformare il codice penale del 1930, ha sostenuto la necessità di mutare la rubrica dell’articolo 53 c.p. da “uso legittimo delle armi” in “uso legittimo della coazione” allo scopo di sottolineare fin dalla intestazione della norma che l’uso delle armi deve costituire l’extrema ratio, per cui le armi possono essere utilizzate soltanto quando la violenza o la resistenza


all’autorità non può essere vinta con mezzi meno pericolosi. Parimenti, è stato proposto di cambiare l’espressione “pubblico ufficiale” con quella di “forza pubblica” allo scopo di delimitare l’ambito soggettivo delle persone a cui è consentito l’uso della coazione, ed eventualmente delle armi. Del pari, è stato proposto di sostituire alla espressione “al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio” quella “al fine di adempiere un dovere del suo ufficio” per chiarire che non è sufficiente il fine di adempimento, ma occorre una situazione oggettiva in atto di adempimento di un dovere di ufficio. Inoltre, è stato proposto di aggiungere all’uso legittimo delle armi o di altro mezzo di coazione le seguenti locuzioni: “il fatto sia proporzionato alla situazione” e che esso “non determini un concreto pericolo per la vita o per l’incolumità fisica di persona estranee”. Infine, è stato proposto di eliminare la parte introdotta dalla Legge di emergenza n. 152/1975 in quanto i casi ivi considerati manterrebbero comunque rilievo in quanto riconducibili alla esimente della legittima difesa. In effetti il concetto di “violenza da respingere”, integra di per sé i vari delitti specificati espressamente dal legislatore, per cui il pubblico ufficiale avrebbe potuto invocare tale scriminante in caso di strage, disastro ferroviario etc., anche prima dell’introduzione di detta normativa, non potendosi aderire alla tesi che vorrebbe assegnare un funzione autonoma alla esimente in parola anche prima della configurazione della idoneità e univocità degli atti, propri del tentativo, dal momento che ciò farebbe retroagire la soglia della punibilità e, quindi dell’intervento del pubblico ufficiale, finanche agli atti preparatori in contrasto con il principio di stretta legalità accolto dal nostro ordinamento. Da ultimo, è stato proposto di eliminare il secondo comma dell’articolo 53 c.p. perché ritenuto ultroneo, secondo cui la stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che legalmente richiesta dal pubblico ufficiale gli presti assistenza. Certo è che la norma in questione ripropone quel latente conflitto tra chi è chiamato ex post a valutare, su un comodo scranno, la sussistenza di tutti gli elementi della causa di giustificazione e chi si trova ad intervenire nella contingenza operativa, dovendo valutare la percezione del pericolo, ancorché putativo, sotto l’influenza di fattori di concitazione o comunque di perturbazione della capacità di intendere e di volere nella situazione data. H

La convenzione Sappe/Studio Legale Guerra Per rispondere ad una richiesta sempre più pressante dei propri iscritti, il Sappe ha stipulato una convenzione con lo Studio Legale Associato Guerra, come partner legale in materia previdenziale. Lo Studio Legale Associato Guerra è specializzato in materia di diritto pensionistico pubblico, civile e militare. La convenzione tra il Sappe e lo Studio Legale Associato Guerra comprende • la causa di servizio e benefici connessi; • le idoneità al servizio e provvedimenti connessi: • i benefici alle vittime del dovere; • la pensione privilegiata (diretta, indiretta e di riversibilità) e gli assegni accessori su pensioni direttte e di riversibilità. La consulenza si avvale di eccellenti medici esperti di settore, collaboratori dell Studio Guerra, in grado di assistere l’interessato anche nel corso delle visite mediche collegiali in sede amministrativa e giudiziaria. In particolare, attraverso lo Studio Legale Associato Guerra , il Sappe garantisce ai propri iscritti: in materia di CAUSA DI SERVIZIO • valutazione gratuita, legale e medico legale, del fondamento della domanda per il riconoscimento della causa di servizio anche ai fini dell’equo indennizzo; • assistenza legale nella fase amministrativa; • valutazione gratuita, legale e medico legale, del fondamento del ricorso contro il provvedimento negativo di riconoscimento della causa di servizio e del’equo indennizzo; • assistenza legale nella fase giudiziale dinanzi alle competenti Sedi Giurisdizionali; • compenso professionale convenzionato. in materia di INIDONEITA’ AL SERVIZIO • valutazione legale e medico legale delle infermità oggetto di accertamento della idoneità al servizio, per la scelta strategica delle azioni da promuovere secondo gli obiettivi che intende raggiungere l’interessato; • assistenza legale nel relativo procedimento amministrativo; •assistenza nella fase giudiziale contro il provvedimento amministrativo; • assistenza amministrativa e giurisdizionale contro il provvedimento di trensito; • compenso professionale convenzionato. in materia di VITTIME DEL DOVERE • valutazione gratuita per l’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge richieste per il diritto ai benefici previsti a favore delle vittime del dovere; • assistenza legale nel relativo procedimento amministrativo; •assistenza nella fase giudiziale contro il relativo

provvedimento negativo; • compenso professionale convenzionato. in materia di PENSIONE PRIVILEGIATA per il personale cessato dal servizio e/o i superstiti L’assistenza interessa: • il personale collocato in congedo senza diritto a pensione o con pensione ordinaria che possa ancora chiedere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di infermità o lesioni riferibili al servizio stesso e la conseguente pensione privilegiata; • il personale collocato in congedo senza diritto a pensione o con pensione ordinaria, al quale sia stata negata la pensione privilegiata per non dipendenza da causa di servizio di infermità e lesioni o per non ascrivibilità delle stesse; • il personale cessato per inidoneità dal ruolo della Polizia Penitenziaria, già transitato o che debba transitare ai ruoli civili della stessa amministrazione o di altre amministrazioni, ai fini della concessione della pensione privilegiata per il servizio prestato nella polizia Penitenziaria; • il personale deceduto in servizio, ai fini della pensione indiretta privilegiata ai superstiti e di ogni altro beneficio previsto a favore degli stessi; • il personale già titolare di pensione privilegiata deceduto a causa delle medesime infermità pensionate, ai fini dei conseguimenti spettanti ai superstiti. L’assistenza comprende: • esame gratuito, legale e medico legale, del fondamento della domanda per la concessione della pensione privilegiata anche per i transitati al ruolo civile; • valutazione gratuita, legale e medico legale, del fondamento del ricorso contro il provvedimento negativo della pensione privilegiata; • valutazione gratuita, legale e medico legale, delle pensioni indirette e di riversibilità ai fini del trattamento privilegiato e dell’importo pensionistico liquidato; • assistenza nella relativa fase amministrativa e nella fase giudiziale contro il provvedimento pensionistico negativo; • compenso professionale convenzionato. PER BENEFICIARE DELLA CONVENZIONE Gli iscritti al Sappe possono: • rivolgersi alla Segreterie Sappe di appartenenza; • rivolgersi agli avvocati Guerra presso le sedi degli studi di Roma (via Magnagrecia n.95, tel. 06.88812297), Palermo (via Marchese di Villabianca n.82, tel.091.8601104), Tolentino MC (Galleria Europa n.14, tel. 0733.968857) e Ancona (Corso Mazzini n.78, tel. 071.54951); • visitare il sito www.avvocatoguerra.it


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crimini e criminali

Luigi Chiatti, il mostro di Foligno Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Nelle foto sopra Luigi Chiatti a destra i genitori di Lorenzo Paolucci in Tribunale

Polizia Penitenziaria n.201 dicembre 2012

el lontano 1996, al termine del corso di formazione per allievo agente, fui assegnato al Nuovo Complesso Penitenziario di Firenze-Sollicciano. Due cose, in quel periodo, mi rimasero particolarmente impresse: di notte la struttura del carcere mi sembrava una nave aliena pronta a decollare da un momento all’altro e la presenza di un detenuto che negli anni precedenti aveva riempito la cronaca nera italiana per due delitti che avevano suscitato grande indignazione popolare. Ricordo che era ubicato nella sezione protetta del carcere, precisamente al quarto piano del reparto giudiziale. La prima volta che lo vidi mi colpi molto il timore e la paura che aveva

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nell’interloquire con gli agenti, sembrava un bambino, con le sembianze di un adulto, nonostante fosse quasi mio coetaneo. La mia poca esperienza, accompagnata alla scarsa professionalità, mi portò ad avere una comunicazione di stile aggressivo dovuta principalmente a ciò che aveva fatto, disinteressandomi, come tutti del resto, dal prendere coscienza del sentimento altrui e facendo ricorso solo alla mia emotività, si arriva così, in modo semplice, a distinguere quanto, di quel fuoco, non ci appartenga, pur provandone un senso di commiserazione. Luigi Chiatti nasce il 27 Febbraio del 1968 e trascorre i primi anni della

sua esistenza in un brefotrofio di religiose vicino Narni, dove lo aveva portato il giorno stesso della sua nascita Marisa Rossi, ragazza madre di 24 anni, cameriera in un ristorante che non sapeva come mantenere quel figlio inaspettato. Chiatti non conoscerà mai l’identità di suo padre. Luigi (che all’epoca si chiamava Antonio) rimase nell’orfanotrofio fino all’età di sei anni, fino a quando non venne adottato da una coppia di anziani coniugi: i Chiatti. Il padre, Ermanno Chiatti, faceva il medico, la madre Giacoma Ponti, era una ex insegnante elementare. Quando l’adozione divenne ufficiale (13 giugno 1975), il nome gli fu cambiato in Luigi Chiatti. Degli anni passati nel brefotrofio Luigi Chiatti pare non ne abbia mai voluto parlare con nessuno: dice di non ricordare nulla, è come se la sua vita fosse cominciata nel momento dell’adozione. Pare comunque che il bambino abbia manifestato nell’orfanotrofio un comportamento aggressivo e ribelle, soprattutto nei confronti delle figure femminili. Quando aveva appena 10 anni, i genitori decisero di mandarlo da una psicologa, Beatrice Li Donnici, che lo seguì per qualche tempo, senza che la terapia ebbe effetto alcuno, formulò una diagnosi di «marginalità e di iposocializzazione». Rilevava un “Io” debole, una certa anaffettività , uno scarso controllo degli impulsi e dispersione dell’identità . Tuttavia, poiché le analisi a quell’età risultarono particolarmente mobili e dinamiche, si orientò verso un disturbo di personalità borderline. Questa diagnosi ha suscitato, successivamente, soprattutto nei periti processuali, una serie di reazioni negative. Chiatti, nel crescere, diventò sempre più metodico e preciso fino all’esagerazione: per tutte le scuole superiori è entrato in classe alle 8,02

esatte: Chiatti è diventato grande restando infantile, un bambino in un corpo di adulto. Il 13 Dicembre 1989, partì per il servizio militare, durante il quale ebbe le sue prime esperienze omosessuali. La vita gli cambiò completamente quando incontrò casualmente Simone Allegretti per strada, da quel momento finì la storia di Luigi Chiatti e cominciò quella del «Mostro di Foligno». Il piccolo Simone Allegretti, quattro anni, figlio del gestore di un distributore di benzina, scompare a Maceratola, nella campagna tra Foligno e Bevagna, in Umbria il 4 ottobre del 1992. Comincia una disperata ricerca che si concluderà con il ritrovamento, in una scarpata, del cadavere di Simone, nudo, coperto di sangue, soffocato e poi accoltellato alla gola. Poco prima, venne rinvenuto il seguente messaggio, anonimo e senza data, scritto con un normografo su un

foglio di carta quadrettata: «Aiuto, aiutatemi per favore!! Il 4 Ottobre ho commesso un omicidio. Sono pentito ora, anche se non mi fermerò qui. Il corpo di Simone si trova vicino alla strada che collega Casale e Scopoli. E’ nudo e non ha l’orologio con il cinturino nero e il quadrante bianco. PS: non cercate le impronte sul foglio, non sono stupido fino a questo punto. Ho usato dei guanti. Saluti al prossimo omicidio, Il Mostro». Il 7 ottobre i primi risultati dell’autopsia rilevano che Simone è morto per «asfissia da soffocamento», non ha subito atti di violenza carnale, ma atti di libidine, sul collo ci sono sei ferite provocate con un oggetto da punta. L’omicidio di Simone Allegretti


crimini e criminali rischia di finire nell’immenso archivio italiano dei delitti insoluti, se Chiatti non decidesse di farsi catturare: dieci mesi dopo il primo omicidio, ne commette un altro. E’ un delitto fatto in fretta, quello di un altro bambino: Lorenzo Paolucci di 13 anni. Il suo cadavere, pugnalato al collo, viene trovato in una boscaglia vicina alla villetta dove abita Luigi Chiatti. Lorenzo scompare dalla casa dei nonni la mattina del 7 agosto del 1993. La polizia si mobilitò subito. Mosso dall’ombra del terribile omicidio di Simone Allegretti, tutto il paese partì alla ricerca del bambino. Gruppi di volontari organizzati in squadre esploravano i dintorni e tra questi, offrì il suo aiuto anche Luigi Chiatti che si trovava in paese, per trascorrere qualche giorno nella seconda casa posseduta dai genitori adottivi che erano soliti trascorrervi il fine settimana. In quel periodo egli vi si trovava da solo, perché i genitori erano a Foligno.

In veste di volontario e, quindi, di uomo preoccupato delle sorti del piccolo scomparso, Chiatti accompagnò il nonno della vittima, Feliciano Sebastiani, alla ricerca di Lorenzo. Questi si diressero verso il laghetto dove gli disse di voler controllare se ci fossero tracce del bambino. Durante il tragitto il serial killer ne approfittò per sbarazzarsi di alcune buste di plastica dove, in seguito, vennero trovati dei vestiti sporchi di sangue e la foto del piccolo Simone Allegretti, trafugata quattro mesi prima dal cimitero. Il cadavere venne in breve ritrovato dal nonno della vittima, vicino al ciglio di una strada, da dove evidenti scie di sangue fresco

e tracce di trascinamento del corpo conducevano proprio ad una finestra dell’abitazione di Chiatti. Chiatti viene arrestato e inizialmente è restio ad ammettere le proprie colpe, solo successivamente racconterà ai magistrati di provare una forte attrazione per i bambini e anche un’invidia nei loro confronti. Il 1 dicembre 1994 comincia il processo a suo carico con l’accusa dell’omicidio di Simone Allegretti e di Lorenzo Paolucci. Il 28 dicembre dello stesso anno, Luigi Chiatti venne condannato a due ergastoli. L’11 aprile 1996 la corte d’Assise d’Appello di Perugia riformò la sentenza di primo grado, dichiarando Luigi Chiatti semi-infermo di mente e condannandolo a 30 anni di reclusione. Particolarmente interessanti appaiono le argomentazioni dei giudici a sostegno del riconoscimento del vizio parziale di mente con conseguente riduzione della pena. Per quanto concerne i due omicidi, ad avviso dei periti della Corte d’Assise d’Appello di Perugia, non si può parlare di «deragliamento psicotico» della personalità borderline, perché le «rotture psicotiche» tipiche di questa patologia durano nel tempo e sono così eclatanti da rendere necessario il ricovero ospedaliero; per contro, in occasione di entrambi gli omicidi, la riorganizzazione di Chiatti, dopo l’iniziale cedimento, fu immediata, totale, lucida e questo è sufficiente a escludere il vizio totale di mente. In conclusione, affermano i giudici che l’imputato non era nella pienezza delle sue facoltà mentali, in quanto affetto da una complessa sindrome psicopatologica, caratterizzata da un conclamato disturbo narcisistico di personalità e da una costellazione di tratti di numerose altre abnormità psichiche. Inoltre precisa che tali disturbi vanno a innestarsi su una condizione di profonda immaturità affettiva ed etica, strettamente connessa con una spiccata tendenza alla pedofilia. Questo complesso quadro patologico configura una vera e propria infermità psichica, idonea a

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pregiudicare in maniera rilevante, anche se non del tutto, il comportamento dell’imputato, non solo sul piano cognitivo e affettivo, ma anche e soprattutto sul piano del funzionamento interpersonale e del controllo degli impulsi. Questo risulta in indissolubile rapporto causale con i due omicidi. Da qui il riconoscimento del vizio parziale di mente. La prima sezione penale della Corte di Cassazione il 4 Marzo 1997 ha confermato in pieno la decisione della suddetta Corte, ritenendo pertanto Chiatti seminfermo di mente e mettendo la parola fine alla vicenda del «mostro di Foligno». Chiatti era perfettamente consapevole di quel che ha fatto e della gravità della sua posizione giudiziaria, però il suo principale interesse non si concentrò sui delitti o sugli anni di carcere, ma solo sui suoi problemi psicologici, chiedendo gli venissero risolti dai periti, dall’amministrazione penitenziaria o dalla società.

È un po’ questa la chiave di volta di tutta la sua organizzazione difensiva e non solo processuale. Chiatti si presenta come un individuo che ha dei problemi che sono così gravi da averlo «costretto» ad uccidere, quindi moralmente assolto. Egli dunque non si sente responsabile e, come tale, in credito verso il mondo essendo i suoi problemi psicologici i veri responsabili dei suoi delitti. Il suo interesse è concentrato solo in questa prospettiva: ha questi disturbi e tutti si devono far carico di risolverglieli, dirà ai periti della Corte d’Assise d’Appello: «voi siete obbligati a risolvere i miei problemi». Luigi Chiatti si trova tuttora nel carcere di Prato. Alla prossima... H

Nelle foto sopra il luogo dove è stato scoperto il cadavere di Simone Allegretti a sinistra i genitori di Simone al funerale

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penitenziari storici

Le carceri dell’arcipelago toscano: Gorgona Aldo Di Giacomo Consigliere Nazionale del Sappe digiacomo@sappe.it

erso la fine dell’ottocento il giovane Governo italiano fu chiamato a risolvere il dilagante fenomeno del brigantaggio che costituiva una fra le piaghe più gravi di quei tempi. A tal fine fu approvata la cosiddetta Legge Fica, contenenti misure repressive per combattere e circoscrivere la piaga dilagante. Fu proprio a seguito di questa legge che Gorgona, per il suo naturale isolamento geografico, venne indicata quale sede fra le più adatte ad accogliere un istituto di pena. Nel 1869, dopo un breve periodo di sistemazioni infrastrutturali e di lavori edilizi per adattare l'esistente alle nuove esigenze penitenziarie, furono inviati sull'isola i primi detenuti ed il personale addetto alla loro custodia. Nell’anno 1871 con l'avvenuto distacco amministrativo della colonia penale di Gorgona da quella di Pianosa, dalla quale appunto dipendeva in precedenza, arrivò sull'isola il primo direttore, Angelo Biagio Biamonti, uomo di grande ingegno e dotato di una non comune attitudine organizzativa che dovette affrontare le numerose difficoltà che gli si presentarono giorno dopo giorno. Il direttore Biamonti si adoperò sin dall'inizio per rendere compatibile l'attività della comunità carceraria con quella preesistente; fece, infatti, tutto il possibile per evitare e stemperare sul nascere ogni emergente situazione di probabile scontro e di conflittualità fra le parti. L’anno successivo, a distanza di quasi due anni dalla sua venuta, il Biamonti scrisse un piccolo ma importante libretto dal titolo "Cenni storici, geologici e botanici sull'isola di Gorgona" che oggi costituisce un importante riferimento per

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Nella foto una torre sull’isola

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comprendere come l'isola sia andata trasformandosi ed adattandosi gradatamente a luogo di pena. Oltre ad indubbie capacità di comando e di persuasione nei confronti dei detenuti, il direttore fu anche uomo di cultura e di scienza. Dalla lettura del suo libretto, infatti, si può facilmente dedurre che questa persona ebbe anche conoscenze in campo agronomico, storico, geologico, archeologico e naturalistico. Tornando all'opuscoletto cosi come lo definì l'autore, in esso riferisce essere 250 i detenuti della colonia che, sommati ai circa 100, fra civili e personale addetto alla custodia, portarono ad un totale di circa 350 le persone presenti sull’isola. Ma veniamo ad alcuni interessanti aspetti di carattere agronomico, di coltivazione ed uso del suolo contenuti nel testo. Tenendo conto delle caratteristiche agropedologiche del terreno, delle varie possibilità di esposizione e della dotazione idrica che fu ritenuta sufficiente a coprire nuovi fabbisogni, il direttore seppe individuare i siti più idonei per la coltivazione di alcune specie arboree

che pertanto ebbero buone possibilità di attecchimento. La valle dello scalo, in località denominata "Le Capanne", fu ritenuta adatta alla crescita dei vari tipi di agrumi che, sempre secondo Biamonti, avrebbero sicuramente trovato un mercato favorevole nella città di Livorno i cui abitanti li andavano ad acquistare in Corsica e Liguria. Il sito cosi individuato, a sua volta al riparo dai venti freddi di tramontana e da quelli impetuosi di libeccio, si rivelò idoneo anche alla piantumazione ed alla crescita dell'olivo, di alberi da frutto ed anche alla coltivazione di una vasta gamma di ortaggi ed erbe aromatiche; anche l'apicoltura ebbe in questo impluvio naturale uno sviluppo redditizio. Oggi, seppure spostata più in alto in località "Ferro di cavallo", questo tipo di attività è ancora praticata dai detenuti che si avvalgono di consulenti esterni. Per quanto riguarda, invece, la valle di Cala Martina che è situata più a sud, la consistenza calcarea del suolo e la sua elevata permeabilità, congiuntamente alla migliore esposizione della medesima, orientarono il direttore ad utilizzarla con successo per la coltura della vite. Furono cosi messe a dimora circa tremila piante. Sempre in Cala Martina, presso la Villa Margherita, in una casa attribuita ai certosini e tuttora esistente venne attivata la concia delle pelli, mentre il fabbricato attiguo fu destinato all’allevamento di circa 200 fra galline e tacchini. Allo scopo di assicurare derrate alimentari alla comunità, e più che mai convinto della necessità di rendere il penitenziario autosufficiente in virtù dei difficoltosi collegamenti via mare, il direttore fece introdurre anche alcuni bovini e suini, rimandando ad un secondo momento l'idea di impiegare anche gli ovini. Per lo stesso motivo egli fece costruire anche una conigliera che poteva contenere fino a mille conigli. La nuova necessità di usufruire di


penitenziari storici terre da adibire a pascolo e foraggio non distolse il Biamonti dall'opportunità di mantenere intatta la macchia e di salvaguardare le zone boschive per i numerosi vantaggi che derivavano dalla loro presenza. Egli sapeva infatti che la flora spontanea avrebbe permesso una maggiore stabilità dei versanti e che gli alberi di alto fusto rappresentavano una valida barriera ai venti inclementi ed impetuosi che venivano da ogni direzione. Il fitto sottobosco consentiva, inoltre, l'assorbimento di buona parte delle acque meteoriche che altrimenti sarebbero ritornate al mare dilavando e portando via ogni cosa. Si pensi inoltre alla condensa e ad "altri molti benefizi" come lui stesso ebbe ad affermare. A lui dobbiamo anche la realizzazione di circa quindici chilometri di sentieri sterrati che permisero spostamenti più rapidi all'interno dell'isola ed un più agevole e comodo trasporto di quanto si rendeva necessario. Nel 1875 per gli indigeni preesistenti all'arrivo della comunità penitenziaria non tutto il male venne per nuocere. Anche se dovettero sopportare la presenza di persone sgradite e subirne le conseguenze che avevano prodotto un radicale cambiamento delle loro abitudini e del loro tenore di vita, i gorgonesi godettero anche di indiscutibili vantaggi. La nuova realtà che si era consolidata era infatti tale da sopperire, sia pure in parte, a quasi ogni loro necessità ed esigenza. Esaminiamo alcuni di questi aspetti che, sia pure in modo non esaustivo, furono tali da mitigare molte sofferenze che avevano caratterizzato la loro permanenza negli anni precedenti: • I generi alimentari: i detenuti furono messi in grado di produrre in loco farinacei, latticini, ortaggi, vino, olio, miele, frutta e soprattutto prodotti carnei di vario tipo che, presumibilmente venduti a buon prezzo, impedirono ai gorgonesi di doversi recare periodicamente sulla terraferma per farne rifornimento;

• I servizi: dal momento del suo insediamento, la comunità penitenziaria garantì in modo continuo tutta una vasta gamma di interventi e di servizi che prima di allora erano stati saltuari, scadenti, onerosi e comunque tali da non soddisfare appieno i numerosi bisogni della popolazione. Venne assicurata ad esempio la presenza di un medico che, oltre a dedicarsi alla cura dei detenuti e agli agenti di custodia, estese le proprie prestazioni anche ai pochi gorgonesi rimasti. Può oggi sembrare assurdo ma all’epoca alla quale si fa riferimento, e più che mai nel passato remoto, anche un banale malessere costituiva motivo di preoccupazione poiché era difficoltoso acquistare i farmaci necessari in tempi ragionevolmente brevi. Si pensi inoltre ai vari servizi che oggi si sono concretizzati a completa cura del Ministero di Grazia e Giustizia: rete acquedottistica, elettrificazione, rete telefonica, antincendio etc. È ragionevole pensare che le famiglie gorgonesi non sarebbero riuscite da sole a garantirsi tutto ciò e soprattutto a mantenere ogni cosa in piena efficienza. • La manutenzione degli immobili: gran parte dei fabbricati esistenti ebbero ben presto bisogno di interventi di manutenzione. Quali erano i motivi per cui si era venuta a determinare questa situazione di crescente e diffuso degrado edilizio? Vediamo di rispondere a questa domanda: • Problemi di vetustà. Molti immobili erano stati costruiti in epoca remota e pertanto, più degli altri, abbisognavano di interventi di consolidamento e di restauro; • Lo stato di abbandono. Alcune abitazioni erano state abbandonate da diversi anni per il trasferimento altrove dei nuclei familiari che vi avevano risieduto. Erano cioè venuti meno anche quei lavori di ordinaria manutenzione che abitualmente si fanno all' interno delle nostre case.

• La proprietà. Alle case affittate ai pescatori non vennero eseguiti sostanziali interventi migliorativi poiché essi, non essendone i proprietari non si sentirono obbligati a farlo. La loro modestia economica e la scarsità di mezzi tecnici e operativi non avrebbe comunque permesso loro di far fronte a tutte le necessità. Oggi il carcere ospita un cinquantina di detenuti ed altrettanto personale tra Polizia Penitenziaria e civili. H continua...

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Nelle foto immagini dell’isola di Gorgona

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28 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nella foto la copertina e la vignetta del numero di dicembre 1996

come scrivevamo uasi venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Cosa Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato quindici e più anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

Q

Chiudiamo le carceri minorili. Si! No! Forse.

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bbiamo seguito con grande attenzione il dibattito che si è tenuto nella rubrica della posta del quotidiano "la Repubblica" in merito alla detenzione minorile ed agli istituti di rieducazione per minorenni. Al dibattito, avviato dagli avvocati Alessandro Battisti, Giuseppe Montanini, Monica Usai e Marco Corrodi hanno preso parte le più rappresentative figure istituzionali della "Giustiza Minorile" come il Cons. Giuseppe Magno, Direttore dell'Ufficio per la Giustizia Minorile, l'On. Franco Corleone, Sottosegretario di Stato del Ministero di Grazia e Giustizia delegato alla Giustizia Minorile, il Cons. Luigi Fadiga Pres. del Tribunale per Minorenni di Roma ed, infine, l'On. Giuliano Pisapia, Presidente della Commissione Giustizia della Camera. Per rendere più completo il servizio abbiamo pensato di riproporre parte di un reportage apparso sul settimanale "Panorama" che ha fotografato la realtà delle carceri minorili attraverso una inchiesta giornalistica sull'I.O.M. "Cesare Beccaria" di Milano. Chiudiamo le carceri minorili Siamo un gruppo di avvocati convinti dell'assoluta inutilità e disumanità del carcere minorile e chiediamo ospitalità per esporre le nostre ragioni. Abbiamo scritto l'appello che inviamo e di cui chiederemo l'adesione al maggior numero possibile di persone. La nostra iniziativa parte da un dato: la disumanità nel vedere un adolescente chiuso in carcere, l'impressione che suscita vedere dei giocattoli in una cella, la insensatezza

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nel pensare quanto stupida, prima che crudele, sia una norma che impone a un ragazzo di interrompere i propri legami affettivi, di eliminare i contatti sociali. Chiunque abbia avuto un minimo di esperienza con degli adolescenti sa quanto difficile e delicata sia quell'età, sa quanto in quel periodo si creino e si distruggano delicati equilibri. E allora siamo partiti dalla nostra Costituzione che affida alla pena una funzione rieducativa ed è stato inevitabile chiedersi quale rieducazione possa mai favorire il carcere per un quasi-bambino. Siamo convinti che il binomio minore-carcere è, in assoluto, un modello negativo per i guasti che certamente crea nel minore e per il pessimo risultato che può produrre per la società. Così come siamo convinti che provvedimenti dettati da un eccessivo buonismo, si pensi ad esempio alla concessione del perdono giudiziale, hanno la sola funzione di deresponsabilizzare ulteriormente il minore che per la prima volta si scontra con la giustizia. Il problema non può essere risolto semplicemente con l'abolizione del carcere minorile senza che questo sia sostituito con strutture adeguate alla minore età Quella che va mutata da subito è una cultura, probabilmente molto radicata, che una risposta solo repressiva sia risposta proficua, civile e umana. E' necessario aprire quelle gabbie e con esse aprire e scoprire i tanti problemi che nascondono. Si tratterà poi di trovare la terapia adatta a un male così grave che tenga conto però di quei principi di umanità e di recupero sociale ormai, sulla carta, universalmente riconosciuti ma spesso dimenticati nella realtà. Alessandro Battisti, Giuseppe Montanini, Monica Usai, Marco Corrodi, Roma Il recupero dei ragazzi detenuti Bene hanno fatto alcuni avvocati romani a chiedere la chiusura delle carceri minorili e a proporre soluzioni diverse dal carcere per quei ragazzi che debbono essere sottratti dal mondo della piccola e della grande criminalità.


come scrivevamo Ho avuto l'esperienza di lavorare in un carcere minorile, quello di Milano, il Beccaria, dove ho fatto l'educatore. I miei ricordi di quel periodo sono quelli di un periodo fecondo, ricco e interessante. Ma ho ancora dentro di me un'angoscia che non ho rimosso: il ricordo di quando, alla sera - dopo aver trascorso ore e ore con i ragazzi detenuti, dopo aver studiato e giocato con loro - ero costretto a chiudere le porte delle celle, a chiuderli dietro le sbarre, isolati dal mondo, prigionieri dentro una gabbia che li rendeva anche fisicamente lontani da quella società che ha il dovere di accoglierli. Quando una porta d'acciaio ci divideva, sentivo svanire buona parte di quella fiducia, di quella solidarietà che serviva, a loro e a me, per comprendere quanto fosse importante costruire - o ricostruire - un rapporto con la famiglia, con la scuola, con la società. Ecco, questa esperienza personale, oltre alla sensibilità giuridica, è ciò che mi fa essere completamente d'accordo con la lettera pubblicata da «Repubblica». La pena, secondo la costituzione, deve servire non solo per punire, ma anche per rieducare. E tanto più questa funzione è fondamentale nei confronti dei minori. Le carceri minorili, invece, sono anche, talvolta, palestra di violenza e sopraffazione: i detenuti non sono, infatti, solo minorenni ma anche coloro che, dopo la sentenza definitiva, scontano da adulti condanne per reati commessi quand'erano ragazzi. La strada da percorrere è quindi quella di offrire ai minori la possibilità concreta di rientrare nella società. No alla chiusura in un carcere, si invece alle comunità aperte dove sia possibile studiare, imparare un lavoro e vivere quei valori, di speranza e di solidarietà, sui quali si deve fondare la vita di chi crede in una società senza violenza. E’ di questi giorni la notizia di quel ragazzino dell'Aquila, sorpreso a rubare libri antichi arrestato e condannato, per quel furto, a leggere quattro libri di narrativa. Gli assistenti sociali che lo hanno seguito hanno testimoniato che si è reso conto dell'azione compiuta e si è impegnato seriamente nelle prescrizioni imposte dal magistrato. Hanno fatto certamente molto di più quei libri, e gli assistenti sociali che non quello che avrebbe potuto fare il carcere. E per questo che come cittadino, come avvocato, come

parlamentare farò tutto quanto possibile per aprire nuove prospettive di speranza a chi, da minore, ha violato la legge. Giuliano Pisapia, Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati Le 24 carceri per gli adolescenti "la Repubblica" del 5 novembre ha pubblicato l'appello di alcuni avvocati sulle presunte condizioni del "carcere minorile" e ha annunciato una campagna di stampa per "aprire le gabbie" e "recuperare a tutti i costi" i "ragazzi da salvare". La realtà è del tutto diversa da quella descritta: i 24 istituti attualmente operanti in Italia sono organizzati in modo da fornire a tutti gli ospiti effettive possibilità di recupero tramite lo studio, la formazione professionale e il collegamento con i servizi sociali territoriali, in conformità ai canoni più moderni della strategia di rete e di collegamento con i servizi esistenti sul territorio. Al 15 ottobre scorso erano ospiti degli istituti 492 persone, di cui 444 maschi e 48 femmine; 339 italiani e 153 stranieri; ben 232 erano i maggiorenni fra i 18 e i 21 anni (i cosiddetti "giovani adulti"), pari al 47 per cento del totale degli ospiti. L’indicazione dei reati commessi fa apparire evidenti i motivi che rendono necessario il trattamento negli istituti penali minorili e per giovani adulti: 64 persone sono responsabili di furto aggravato; 1 di rapina e 19 di rapina aggravata; 5 di omicidio volontario e 4 di tentato omicidio; 3 di violenze nella sfera sessuale, 29 di traffico illecito di stupefacenti e 2 di possesso di armi. Giuseppe Magno Direttore dell'Ufficio per la Giustizia Minorile Ministero della Giustizia Si trasformi in "casa" il carcere minorile Ogni ospite di carcere minorile “costa” alla collettività 254.733 lire al giorno; non si tratta però di risparmiare, ma di spendere di più e meglio, per offrire una nuova prospettiva di vita, promuovendo pene alternative alla detenzione carceraria. Nessuna persona di buon senso, credo, sarebbe disposta a riconoscere una funzione repressiva e retributiva della pena nel confronti di un minore. In questo bisogna riconoscere che la cultura del Paese, e

con essa gli strumenti normativi è molto cambiata. Non sempre, però, ai mutamenti culturali e normativi corrispondono azioni concrete adeguate alla complessità del problemi, rna, anzi, questi mutamenti vengono in alcuni casi contraddetti da una legislazione che, come nel caso delle droghe, ha contribuito a incentivare il ricorso al carcere. Succede allora, che gli istituti Penali Minorili siano ancora, dal punto di vista delle strutture, delle vere e proprie “Carceri”, mentre dovremmo immaginare delle strutture radicalmente diverse (senza sbarre e porte d'acciaio appunto) che facciano pensare ad una “casa comune” con valori di convivialità e solidarietà che si contrappongano ai miti del potere della violenza e della ricchezza: dovremmo

insomma immaginare, per i minori devianti un “dentro” che sia mille volte meglio di quel “fuori” di degrado e di emarginazione che è alla base della devianza. Ma, come spesso accade sulla questione minorile si è “ricchi” solo di parole. Il dibattito ospitato in questi giorni da “la Repubblica” dovrebbe allora diventare una campagna per far destinare ingenti investimenti in questo settore per costruire strutture adeguate e nuove occasioni di lavoro, con progetti innovativi anche a partire dal settore della tutela ambientale, per

29 Nel riquadro il sommario del numero di dicembre 1996

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come scrivevamo esempio cominciando dalla prospettiva dell'economia dei parchi. Occorre inoltre, riflettere su cosa c'è dietro ai “numeri” della detenzione minorile. Ci si accorgerà che il “carcere minorile” è molto cambiato negli ultimi anni. Una quota rilevante dei minori ristretti è rappresentata da stranieri. In molti di questi casi la detenzione in istituto è legata non alla gravità del reato o alla pericolosità del minore, ma alla assoluta mancanza di alternative di trattamento all'esterno. La questione, è evidente, rimanda al più generale problema della immigrazione in Italia. Altro “tipo” di presenza negli istituti, quantitativamente inferiore, ma qualitativamente significativa, è data da minori condannati o imputati per delitti gravissimi (associazione di stampo mafioso, violenza carnale, omicidio). In questi casi il dato più allarmante è la mancanza di efficaci strumenti di prevenzione “a monte”. L'assenza o l'insufficienza dell'azione della comunità scuola, attività sociali, servizi sociali territoriali è la causa principale di queste forme di devianza. E anche In questo caso non servono parole, ma investimenti ingenti sulle strutture e sui servizi che devono intervenire molto prima (e per evitare) che del minore si occupi l'autorità giudiziaria. Eduardo De Filippo, Senatore a vita, impiegò la sua umanità per il riscatto del giovani del Filangieri di Napoli. In condizioni inedite e ancora più difficili occorre oggi fantasia e coraggio. Voglio garantire che il governo accetterà questa sfida. Franco Corleone Sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia

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Manca una legge per i reati dei minori Sarebbe molto bello che le tesi enunciate dall'on.le Franco Corleone, Sottosegretario di Stato per la giustizia, potessero rapidamente divenire realtà. Sarebbe molto bello che i minorenni che hanno violato la legge penale potessero essere accolti "non in vere e proprie carceri" ma, come prosegue il Sottosegretario, in "strutture radicalmente diverse, senza sbarre e porte d'acciaio". Sarebbe molto bello, ma non è. E questo non perché i minorenni italiani siano più cattivi dei loro coetanei

stranieri, ad esempio anglosassoni o francesi: ché anzi, dati alla mano, sono molto più buoni. Ma perché più "cattivi" sono stati finora nei loro confronti Governo e Parlamento, che da più di vent’anni avrebbero dovuto provvedere alla modifica della legge penitenziaria. e ancora non hanno trovato il tempo di farlo. Forse non sono in molti a sapere che le carceri minorili sono ancora oggi governate dall'ordinamento penitenziario degli adulti con la legge 26 luglio 1975 n. 354. L'art. 79 di questa legge stabiliva infatti in via provvisoria l'applicabilità di quelle norme anche ai minorenni, "fino a quando non sarà provveduto con apposita legge". Sono passati da allora ventuno anni, e nulla è stato fatto. Eppure, la Corte Costituzionale nella sentenza n. 125 del 16 marzo 1992 ha dichiarato che la situazione attuale è «ai limiti della incostituzionalità», e certamente è ai limiti della decenza. Non si può quindi affermare che in questi anni vi sono stati mutamenti normativi ai quali non hanno fatto seguito adeguati investimenti. In realtà, per le carceri minorili nulla è successo dal 1975, per cui oggi appare strano e poco realistico immaginarne addirittura l'abolizione. Basterebbe di meno, basterebbe evitare che ad un quindicenne si debba applicare la stessa disciplina carceraria che vale per un incallito camorrista. Ma se è così, perché il Sottosegretario alla Giustizia non si impegna espressamente a presentare al più presto un progetto di legge che ponga rimedio a questa assurda situazione? La sensibilità mostrata dal Presidente della Commissione Giustizia della Camera on.le Giuliano Pisapia, anch'egli intervenuto nel dibattito, potrebbe garantire un sollecito iter parlamentare. E forse in questo modo i ragazzi che hanno commesso un reato potrebbero vedere più rispettati i loro diritti: compreso quello di ricevere non solo un doveroso aiuto prima che si renda necessario l'intervento di un Tribunale, ma anche - quando questo intervento divenisse necessario -una giusta punizione a "misura di minore". H Luigi Fadiga Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma

Sopra: 1951 Federico Battiloro in servizio presso la Casa Circondariale di Vercelli foto inviata da Alessandrino Battiloro

Sopra: 1981, C.C. di Pavia foto inviata da Mario Gasperini

Sotto: 1982, Scuola Allievi AA.CC. di Parma servizio di portineria/centralino della Scuola foto inviata da Francesco Domenico Salerno


eravamo così

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A sinistra: 1977 Scuola Allievi AA.CC. di Parma foto inviata da Bruno Butera

In alto a sinistra: 1974 Scuola Allievi AA.CC. di Cairo Montenotte (SV) 43° Corso “Gran Sasso” foto inviata da Pietro Milazzo

A sinistra: 1978 C.C. di Benevento “San Felice” Agenti in portineria foto inviata da Antonio Minicozzi

Sotto: 1981 Scuola Allievi AA.CC. di Portici (NA) foto inviata da Severino Loi

A sinistra: 1970-1971 C.R. l’Asinara l’appuntato Amedeo Cristofaro, un collega e il cane da guardia Flick foto inviata da Francesco Cristofaro

A sinistra: 1981 Scuola Allievi AA.CC. Cassino (FR) foto inviata da Francesco Paolo Genovese

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cinema dietro le sbarre

Amanda Knox a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nelle foto in alto la locandina a lato alcune scene del film

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manda Knox è una studentessa universitaria americana che arriva a Perugia nel settembre 2007 per studiare le lingue straniere. Trova sistemazione in un appartamento in coabitazione con la studentessa inglese Meredith Kercher e due ragazze italiane, Filomena e Laura. Nel mese di ottobre, ad un concerto, Amanda conosce Raffaele Sollecito, un italiano che studia ingegneria informatica, ed inizia una relazione sentimentale con lui. Il 2 novembre 2007 Meredith Kercher viene assassinata nell’appartamento condiviso con le altre studentesse. Le indagini della polizia si orientano già da subito verso Amanda e Raffaele anche perché Amanda durante il primo interrogatorio ammette di aver fumato erba a casa insieme a Raffaele e, dopo aver visto un film sul pc, essere andata a dormire. Amanda, in una ridda di dichiarazioni e smentite, coinvolge inizialmente nella vicenda il gestore di un pub perugino, Lumumba, indicandolo come possibile assassino di Meredith. Lumumba, a seguito delle accuse di Amanda, viene arrestato e, successivamente, liberato e scagionato solo grazie ad alcune

A

testimonianze che lo segnalavano altrove all’ora del delitto. A questo punto, gli sviluppi delle indagini della polizia scientifica, attraverso esami del dna e rilevamenti con il luminol, portano all’arresto di Amanda e Raffaele e di un ragazzo di colore, Rudy Guede, tirato in ballo dagli stessi fidanzati, tutti accusati dell’omicidio di Meredith in concorso tra loro. Rudy Guede viene immediatamente processato per direttissima e condannato per omicidio. Amanda e Raffaele vengono rinviati a giudizio per omicidio, violenza sessuale, depistaggio delle indagini e porto abusivo di armi. A dicembre del 2009, i giudici riconoscono la colpevolezza dei due ragazzi. Amanda è condannata a 26 anni e Raffaele a 25. Il film si conclude a questo punto

la scheda del film Regia: Robert Dornhelm Titolo originale: Amanda Knox: Murder on Trial in Italy Sceneggiatura:Wendy Battles Fotografia: Giovanni Gabriele Musiche: Zack Ryan Costumi: Maurizio Basile Scenografia: Dimitri Capuani Produzione: Craig Anderson Productions Distribuzione: Lifetime Television Personaggi ed Interpreti: Amanda Knox: Hayden Panettiere Giuliano Mignini: Vincent Riotta Raffaele Sollecito: Paolo Romio Edda Mellas: Marcia Gay Harden Meredith Kercher: Amanda Fernando Stevens Deanna Knox: Heather Cave Rudy Guede: Djibril Kébé Patrick Lumbana: Timothy Martin Curt Knox: Clive Walton Arlene Kercher: Shoboo Kapoor Filomena Romanelli: Mimosa Campironi Detective Navarra: Simonetta Solder Detective Alicastro: Fausto Maria Sciarappa Dr. Patrizia Stefanoni: Valentina Carnelutti Ispettore Battistelli: Francesco De Vito Genere: Drammatico/ Crimine Durata: 87 minuti Origine: USA, 2011 lasciando fuori i successivi sviluppi processuali che, come è noto, porteranno alla assoluzione dei due ragazzi in Corte d’Appello. H


a cura di Erremme rivista@sappe.it

Andy McNab

FERITA LETALE LONGANESI Edizioni pagg. 378 - euro 18,80

L

incoln, 14 aprile 2009: la cattedrale della città inglese è gremita di ex militari, riuniti per dare l’ultimo saluto a Tenny, uomo e soldato eccezionale, caduto in azione. Non manca proprio nessuno al funerale, neppure Nick Stone, l’ex SAS britannico in genere refrattario a raduni e rimpatriate, che cerca in quella folla i due amici più cari, Ken il Rosso e Dex. Con loro e con Tenny ha affrontato una missione pericolosa nella Germania dell’Est poco prima del crollo del Muro. Ora che si sono ritrovati, i suoi due vecchi compagni, Ken il Rosso e Dex, gli propongono di tornare in azione insieme, e Nick Stone non sa dire di no. Il piano, per i suoi due amici, è semplice: in un magazzino a Dubai si trovano, praticamente incustodite, due porte d’oro che Saddam Hussein si è fatto costruire prima della seconda guerra del Golfo. Si tratta di rubarle e consegnarle su una pista d’atterraggio al misterioso committente del furto. Un’azione rischiosa, minata da troppe variabili, come Stone sa fin troppo bene. Infatti, qualcosa va storto e i suoi due amici ci rimettono la vita. Solo Stone si salva e decide di vendicarli, sperando così di placare il senso di colpa per non aver saputo proteggerli. Ma le cose si complicano ulteriormente quando gli viene affidata una missione pericolosissima, che lo porterà nel cuore di una cospirazione internazionale, aiutato solo da una un’avvenente giornalista russa...

Antonio G. D’Errico

SEGNALI DI DISTENSIONE. Marco Pannella si racconta e ci commuove ANORDEST Edizioni pagg. 192 - euro 15,00

I

n questo libro D'Errico raccoglie una serie di incontri con lo storico leader dei Radicali, Marco

le recensioni Pannella, che racconta il suo impegno di mezzo secolo nella vita politica italiana. Lo fa percorrendo la storia del Paese e raccontando il suo impegno politico, che sui temi dei diritti civili lo ha visto spesso in posizioni solitarie ma coraggiose, in netta controtendenza con la politica degli anni Settanta ed Ottanta. Parla anche del suo impegno per i temi della giustizia del carcere e, con toni distesi, narra di tutta una stagione della politica degli scandali: in modo inedito e sincero parla del suo rapporto con Moro, con Berlinguer e con Bettino Craxi. Corredano le oltre 180 pagine del libro una serie di storiche ed inedite fotografie.

UCPI

PRIGIONI D’ITALIA Viaggio nella realtà delle carceri PACINI Edizioni pagg. 95 - euro 12,00

V

iaggio nell’inferno delle carceri italiane, per raccontare la quotidianità dei detenuti da un capo all’altro della penisola, fatta di celle asfittiche e sovraffollamento, di privazione dei più elementari diritti come quello all’igiene e alla salute. Un inferno che macina suicidi e morti dentro le celle in crescita esponenziale, raccontato in un libro prodotto dall’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane, dal titolo “Prigioni d’Italia”. Il libro è anche un video che è stato proiettato nelle aule dei tribunali italiani su iniziativa delle Camere penali nella giornata di astensione nazionale dei penalisti. Il libro descrive le giornate dei detenuti in celle dalle mura scrostate, di tre metri per tre, quelli a cui ciascun singolo carcerato avrebbe diritto: celle ingombre di letti a castello sui quali i carcerati trascorrono fino a venti ore al giorno, mettendosi in piedi a turno, dove l’intimità è un bagno senza porte e la dignità un lusso perduto.

Alessandro Pugi

IL COLORE DEL CIELO ASS. CULTURALE IL FOGLIO pagg. 290 - euro 15,00

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I

l ventiquattrenne Raphaël Lewonsky è alla ricerca della connessione tra le misteriose donazioni in denaro che arrivano alla sua famiglia residente a Bologna, da parte di un generoso benefattore americano, e la morte di Max, suo padre, ex prigioniero dei nazisti nel campo di concentramento di Majdanek, avvenuta dieci anni prima. Per arrivare alla verità dovrà compiere un viaggio a ritroso nel tempo, accompagnato da Daniel, il suo migliore amico, e Paola, la ragazza che ama. Nella Manhattan degli anni Ottanta i tre ragazzi incontreranno un uomo sconosciuto e misterioso che gli aprirà le porte della memoria descrivendogli i sentimenti vissuti e gli orrori provati in una guerra dominata dalla follia nazista e dalla spasmodica ricerca della "soluzione finale": il completo sterminio della razza ebrea. Un romanzo coraggioso e penetrante, che affronta uno dei periodi più bui della recente storia europea e mondiale. L'autore compie un viaggio nella memoria, attraverso una scrittura veloce e appassionata che trasporterà il lettore in un susseguirsi di situazioni e di emozioni vissute a cavallo di due distinti periodi storici, alla scoperta di un oggetto misterioso, venuto a contatto con il sangue di Cristo e in grado di cambiare le sorti della guerra, di un amore senza confini e senza tempo, e di un'amicizia più forte delle differenze razziali. H

Polizia Penitenziaria n.200 novembre 2012


34 l’appuntato Caputo©

l’ultima pagina

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il mondo dell’appuntato Caputo Comandanti D.O.C.

1992•2012 VE N TI A NNI di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2012

ALLORA, COMANDANTE COME CI REGOLIAMO CON L’ORA D’ARIA?

SE LA MATTINA PIOVE L’ORA D’ARIA SI FA IL POMERIGGIO. SE PIOVE IL POMERIGGIO L’ORA D’ARIA SI FA LA MATTINA!

Polizia Penitenziaria n.201 dicembre 2012

MA QUANTE VOLTE TE LO DEVO RIPETERE?

!??!




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