Alla scoperta di Firenze capitale nella città di oggi

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Storyboard – Alla scoperta di Firenze capitale nella città di oggi Itinerario: Piazza della Signoria > via dei Calzaiuoli > Piazza San Giovanni > via de’ Pecori > via de’ Brunelleschi > Piazza della Repubblica Topos: 21 luglio 1858: accordi di Plombières • 27 aprile 1859: la rivoluzione pacifica toscana • 15 marzo 1860: plebiscito per l’annessione al Regno • 15 settembre 1864: convenzione di settembre sulla questione romana • 1 giugno 1865: trasferimento della capitale a Firenze • il palazzo delle Assicurazioni Generali: pecunia non olet • edifici pubblici sedi del parlamento e dei ministeri • necessità di costruire abitazioni per gli impiegati della macchina statale • il restyling dell’assetto urbano • vecchi progetti realizzati (nuova facciata di Santa Maria del Fiore) • dal fiaccheraio e dall’omnibus al tram a cavalli • il risanamento del Centro cittadino • le nuove abitudini dei fiorentini: i caffè e le vetrine dei negozi

[l’attività inizia nella Loggia della Signoria] Gli accordi segreti di Plombières fra Napoleone III e Cavour prevedevano la cacciata degli austriaci dall’Italia, la spartizione della Penisola fra quattro regni fra loro confederati (Alta Italia ai Savoia, Italia Centrale ai Lorena, Due Sicilie ai Borbone e Roma al Papa), la cessione della Savoia alla Francia. L’accordo verbale fra lo statista piemontese e l’imperatore francese prevedeva anche che la Francia sarebbe entrata in guerra a fianco del Regno di Sardegna contro l’Austria solo – come ricordò lo stesso Cavour - “a patto che la guerra avvenisse per una causa non rivoluzionaria e potesse trovare giustificazione dinanzi alla diplomazia e più ancora all’opinione pubblica di Francia e d’Europa” 1 . Gli accordi di Plombières furono tradotti in un trattato firmato dai due sovrani nel gennaio 1859; nel trattato però sparì la parte relativa alla futura spartizione dell’Italia e si precisò che l’intervento francese sarebbe stato garantito solo in caso di aggressione austriaca al Piemonte. Per provocare il casus belli Cavour fece ammassare truppe piemontesi ai confini del Lombardo Veneto; l’Austria, considerando tale fatto un gesto belligerante, rispose con un ultimatum il 23 aprile 1859, vigilia di Pasqua, ingiungendo al Piemonte di ritirare le truppe dai confini entro tre giorni. Nello stesso giorno fu stampato a Firenze un “Indirizzo dei soldati toscani ai loro concittadini” che propugnava lo schieramento a fianco delle truppe piemontesi per “combattere fino all’ultimo sangue per l’indipendenza d’Italia, nostra patria”2 e rifiutando quindi la neutralità proclamata dal granduca Leopoldo II. Il giorno dopo, quando il Granduca uscì in carrozza da Palazzo Pitti per recarsi alla messa, alcuni dei soldati della guardia non presentarono le armi. 1

Alfredo Panzini, Il 1859, da Plombières a Villafranca, Milano 1929, p. 132 Archivio di note diplomatiche: proclami, manifesti, circolari, notificazioni, discorsi, ed altri documenti autentici riferibili all’attuale guerra contro l’Austria per l’indipendenza italiana, Milano 1859, p. 64 2


Il 26 aprile, scaduto il termine dell’ultimatum, l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna e la Francia si schierò con l’esercito piemontese: aveva inizio la seconda guerra d’indipendenza. Il giorno dopo a Firenze la popolazione scese in strada per manifestare il suo appoggio alla guerra di liberazione e il Granduca, paventando una rivolta e nonostante fosse cugino dell’imperatore Francesco Giuseppe, decise di cedere alle pressioni popolari – abilmente sostenute dall’ambasciatore piemontese Boncompagni –accettando di dichiarare guerra all’Austria, concedendo una costituzione e consentendo alle truppe granducali di adottare il tricolore al posto della bandiera lorenese. A questo punto però i liberali toscani chiesero l’abdicazione del granduca che, vista la mala parata, abbandonò precipitosamente con la famiglia Firenze e la Toscana. Il pittore Enrico Fanfani (1824-85) dedicò ai festeggiamenti popolari per la fine del granducato il suo quadro intitolato “27 aprile 1859”, oggi conservato nella Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.

[l’attività continua sotto la gradinata di Palazzo Vecchio, davanti alla targa che ricorda i risultati del Plebiscito] La stessa sera del 27 aprile fu nominato un governo provvisorio toscano che il giorno dopo offrì la dittatura a Vittorio Emanuele II che rifiutò, ma nominò l’ambasciatore Boncompagni commissario straordinario di Toscana. Il Boncompagni formò un governo composto di liberali toscani, quali Bettino Ricasoli, Enrico Poggi e Cosimo Ridolfi. Nel maggio truppe francesi entrarono in Toscana per difenderla da eventuali attacchi austriaci e alla fine del mese la Toscana entrò in guerra a fianco del Piemonte e della Francia. Nel luglio, dopo la sconfitta austriaca sancita dall’armistizio di Villafranca, Leopoldo II abdicò a favore del figlio Ferdinando, che però non pose mai piede in Toscana. Il 1 agosto il commissario Boncompagni si dimise per consentire la nascita di un governo toscano presieduto dal Ricasoli. La pace di Zurigo, stipulata fra Napoleone e Francesco Giuseppe che chiuse la guerra, concedeva poco al Piemonte vincitore: la sola Lombardia, mentre i sovrani di Modena, Parma e Toscana – cacciati da rivolte popolari – dovevano essere reintegrati sul trono. Ma Cavour, ricordando alla Francia come il trattato in realtà consentisse la permanenza egemonica dell’Austria in Italia e potesse suscitare rivolte repubblicane nelle province italiane, convinse l’alleato transalpino alla politica dei plebisciti, richiedendo alle stesse popolazioni se volessero l’annessione al Regno di Sardegna. In Toscana il plebiscito si svolse l’11 e il 12 marzo 1860. Lo spoglio delle quasi quattrocentomila schede procedette a rilento e terminò in tarda serata di giovedì 15. Il ministro della Giustizia, Enrico Poggi, recatosi in Palazzo Vecchio per la proclamazione dei risultati apprese che la Corte d’Appello era ancora impegnata nella stesura del verbale; ritenendo che proclamare l’annessione di venerdì fosse un segno di malaugurio, come lui stesso ricorda, decise di ritardare l’arrivo della mezzanotte: “appressandosi intanto le dodici della notte, e non piacendoci che l'orologio della Signoria posto in mezzo alla gran torre come regolatore del tempo officiale di Firenze, suonasse le dodici, cioè il principio del venerdì prima della promulgazione del plebiscito, mandammo ordini al campanaio di condannare la campana al silenzio.” 3 Come ricorda la targa sulla facciata di Palazzo Vecchio, ufficialmente mancano ancora cinque minuti alla mezzanotte quando dal Poggi vengono resi noti i risultati alla folla 3

Enrico Poggi, Memorie storiche del governo della Toscana nel 1859 – 60, Pisa 1867, vol II, p. 243-4

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riunita in Piazza della Signoria: votanti 386.445; voti per l’unione alla monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele 366.571; voti per il Regno separato (per sicurezza si era evitato di prospettare il ritorno al Granducato, preferendo questa formulazione generica) 14.925; voti nulli 4.949. L’annessione fu sancita ufficialmente quasi un anno dopo, il 14 febbraio 1861, e non più al Regno di Sardegna, ma al neonato Regno d’Italia che, dopo l’impresa dei Mille, riuniva ormai gran parte della penisola, con l’esclusione di Veneto, Trentino, Friuli e di Roma. La posizione del governo italiano sulla questione romana, cioè l’aspirazione del nuovo Regno ad avere la città come propria capitale naturale, venne ribadita dal Cavour in una delle prime sedute del nuovo parlamento, il 27 marzo 1861, nel famoso discorso sulla “libera Chiesa in libero Stato” ; il capo del governo in quell’occasione affermò che “Roma è la capitale necessaria d’Italia.”4 L’ostacolo maggiore alla soluzione della questione romana non era però la presenza del Papa, ma la protezione a lui accordata dalla Francia, che aveva mandato sue truppe a Roma a difendere il potere temporale del papa. Tre anni dopo, con la Convenzione di settembre fra Francia e Italia, quest’ultima si impegnò a non attaccare Roma e a difenderla da eventuali attacchi esterni, mentre la Francia avrebbe ritirato le proprie truppe entro due anni. Nella convenzione, la Francia richiese anche che l’Italia, come segno di buona volontà e per sancire ufficialmente la rinuncia a Roma, acconsentisse al trasferimento della capitale a Firenze. Se nelle intenzioni francesi la convenzione doveva sancire il definitivo abbandono di eleggere Roma capitale del Regno d’Italia, a tutti gli italiani era ben chiaro che si trattava di una soluzione provvisoria. Bettino Ricasoli si augurava che il destino allontanasse presto da Firenze l’amaro calice: “Tocca ora a quella Provvidenza, cui ella presta poca fede, a torre dalla nostra città nativa questa tazza di veleno, che si chiama Capitale provvisoria.”5 Il deputato milanese Giuseppe Ferrari chiosa la decisione con parole sarcastiche: “l'Italia d' altronde si propone di tenere Firenze come un albergo, la Toscana come una villeggiatura, la sala dei cinquecento come un convegno, i futuri dicasteri come un disimpegno ridotto all'ultima sua semplificazione.”6 La decisione dunque di trasferire la capitale del nuovo Regno provoca tumulti a Torino e malumore a Firenze, bruscamente scossa dalla sua vita provinciale; come ricorda ancora il Ferrari, la “Toscana non ha tradizioni se non antiquate, non antecedenti se non lorenesi, e la sua stessa mitezza, la stessa sua eleganza sembrano escludere l' energia del comando.”7 Il trasferimento comporta trovare collocazione per l’apparato statale: il governo, il parlamento, i ministeri; inoltre la città vede aumentare vertiginosamente la propria popolazione: in pochi mesi giungono in città oltre trentamila persone. Poco più della metà (15-20mila) sono i quadri dell’apparato statale: si tratta di funzionari e impiegati statali con le loro famiglie, ma gli altri sono professionisti, artigiani e negozianti fornitori della corte e del governo, manovali attirati dalle opportunità di lavoro nei cantieri edili, banchieri e speculatori. La popolazione fiorentina aveva superato le centomila unità solo all’inizio del XIX secolo e ancora nel 1864 “la città di Firenze è popolata da 114,363 abitanti (…) È minore per popolazione a Torino, che conta 294.715 abitanti; a Milano, che senza i Corpi Santi ne ha 196.109; a Napoli, che ne novera 447.065; a Palermo, che ha una popolazione di 194.463, ed a Genova, che giunge ai 127.986.”8 In pochi mesi si ritrova con 150.000 abitanti e la necessità di procurare alloggi ai nuovi arrivati: inizia una drastica espulsione verso le periferie dei ceti meno abbienti, rimpiazzati nelle zone centrali dai nuovi cittadini. L’amministrazione comunale costruisce abitazioni prefabbricate in legno e ferro nei quartieri del Maglio, della Mattonaia e del Pignone in Oltrarno, mentre la Società Edificatrice Fiorentina costruisce oltre tremila nuove stanze a nord del nuovo quartiere di Barbano, fra piazza Maria Antonia - ribattezzata dell’Indipendenza italiana – e la fortezza da Basso.

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Atti del Parlamento Italiano. Sessione del 1861. Dal 18 febbraio al 13 luglio, Torino 1861, p. 330 Aurelio Gotti, Vita del barone Bettino Ricasoli, Firenze 1895, p. 329 6 Giuseppe Ferrari, Il governo a Firenze, Firenze 1865, p. 69 7 ibidem, p. 68-9 8 Almanacco statistico del Regno d’Italia comparato con la Francia, Inghilterra ed Austria, vol. III – 1865, Milano 1865, p. 5

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Nello stesso anno e in soli due mesi, Giuseppe Poggi elabora il piano di ampliamento della città, con l’abbattimento della cinta muraria, il conseguente allargamento della cinta daziaria, il già previsto risanamento della zona del Mercato Vecchio, l’espansione della città verso la pianura, la realizzazione delle rampe di piazzale Michelangelo.

[si mostra l’immagine della Piazza della Signoria nell’Ottocento, non riscontrando – a parte l’assenza dei turisti – grandi differenze con l’oggi. Poi si mostra la ricostruzione ottocentesca del lato occidentale della piazza, con la chiesa di Santa Cecilia e la Loggia dei Pisani] Il trasferimento della capitale comporta che molti edifici pubblici cittadini sono destinati a ospitare organi del nuovo Stato. Così il Re e la corte eleggono a residenza la Reggia granducale di Pitti; la Camera dei Deputati si riunisce nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, dove aveva anche sede il Ministero della Guerra; il Senato è invece destinato al Teatro mediceo negli Uffizi, dopo che inizialmente si era pensato di ospitarlo nella Sala dei Dugento; il Ministero degli Interni va a occupare Palazzo Medici, già prima sede della Cassa di Risparmio, che si trasferisce nel vicino Palazzo Pucci; il Ministero dell’Istruzione risiede nel convento di San Firenze; quello della Marina in Oltrarno all’imbocco del ponte Santa Trinita, nel convento dei Padri delle Missioni; mentre la Tesoreria generale trova collocazione nella Badia fiorentina. Di fronte al Palazzo della Signoria sorgeva ancora la chiesa di Santa Cecilia – che Gualtieri di Brienne non aveva potuto abbattere - e la loggia dei Pisani, così detta perché costruita da prigionieri della cinquecentesca guerra contro Pisa. Nel 1870 entrambi gli antichi edifici vennero abbattuti per far posto a Palazzo Lavisan, sede delle Assicurazioni Generali di Trieste,. Da notare come la compagnia assicurativa fosse straniera e soggetta a un Paese nemico come l’Austria; eppure partecipa assieme alle altre banche e assicurazioni francesi e italiane al grande affare della ricostruzione della nuova capitale italiana. Nel 1872 nel Palazzo aprì il Caffè Rivoire. Il torinese Enrico Rivoire, cioccolatiere di corte, nella sua fabbrica a vapore di cioccolato con annesso negozio, fece scoprire ai fiorentini il gusto del cioccolate in tazza e del gianduiotto.

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[si imbocca via dei Calzaiuoli e si mostra l’aspetto che la strada aveva prima dell’allargamento del 1844. Si può simulare l’ampiezza del corso Adimari quando era appena larga a sufficienza per far passare un carro, ponendo due ragazzi sui due angoli virtuali della strada] Il riassetto urbano del centro cittadino era iniziato già nella prima metà del XIX secolo. Come ricorda Giovanni Fanelli “i primi interventi urbani, in gran parte giustificati con la pretesa necessità di collegamenti più agevoli e veloci, sono comunque riferibili a quel gusto per la regolarità e la razionalizzazione delle strutture e per il loro ammodernamento, che era già stato sviluppato alla fine del secolo precedente, e trova un nuovo impulso in coincidenza con l'affermarsi del gusto 'neoclassico'.”9 L’allargamento di via dei Calzaiuoli, sia nel tratto fra la Piazza e le chiese di Orsanmichele e di San Carlo dei Lombardi (l’antico corso San Bartolo o dei Pittori), che su quello verso la cattedrale (già corso degli Adimari), viene effettuato fra il 1840 e il 1844, abbattendo edifici soprattutto sul lato occidentale della via. Le antiche abitazioni e le botteghe aperte fin dal Trecento sulla strada vengono sostituite da anonimi palazzoni neorinascimentali, caffè e negozi con vetrine cui affacciarsi nel passeggio domenicale.

[passata la Loggia del Bigello, ci si volge indietro e si mostra anche da questo punto di vista l’allargamento di via Calzaiuoli] Se la torre degli Adimari sull’angolo di via de’ Tosinghi viene preservata, altrettanto non accade per altri importanti edifici medievali dell’antico corso, come la Loggia degli Adimari o della Neghittosa all’angolo con via delle Oche, la casa-torre di fronte alla loggia del Bigallo, la chiesa di Santa Maria Nepotecosa.

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Giovanni Fanelli, Firenze, architettura e città, Firenze 1973, p. 393

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[in piazza San Giovanni ci si ferma davanti al campanile, per mostrare l’aspetto della facciata del Duomo prima del 1887, con i resti delle decorazioni pittoriche del 1588, opera di Bartolomeo Ammannati] Anche la cattedrale di Santa Maria del Fiore è interessata dai lavori di ammodernamento del secondo Ottocento. La facciata marmorea bicroma, che richiama la decorazione romanica del vicino Battistero, può forse ingannare il turista distratto, ma uno sguardo più attento non può non far notare le caratteristiche moderne, neogotiche, della decorazione e delle statue. Da decenni si discuteva di completare la decorazione della facciata, sulla cui superficie ammattonata rimanevano poche tracce delle decorazione pittorica che Francesco I aveva commissionato a Bartolomeo Ammannati, dopo che era stata rimossa l’incompiuta decorazione marmorea arnolfiana. Nel 1859, poche settimane prima della fine del Granducato, Leopoldo II aveva indetto un concorso per la realizzazione della nuova facciata. Il bando fu ripreso nel 1860 dal nuovo governo, ma – dopo numerosi rinvii e altrettanti concorsi banditi – la nuova facciata, su disegno di Emilio de Fabris, fu iniziata nel 1871 e ultimata, dopo la morte del suo progettista, da Luigi del Moro nel 1887. In occasione dei festeggiamenti peril suo completamento le vicine vie de’ Calzaiuoli e de’ Cerretani furono dotate per la prima volta dell’illuminazione elettrica.

[ci si volta verso il Battistero e si mostra come nell’Ottocento la Piazza San Giovanni fosse attraversata da rare carrozze e qualche pedone] Non era ancora un’isola pedonale, ma - come oggi - in piazza San Giovanni i pedoni erano la grande maggioranza. Pochi potevano permettersi di avere una carrozza o di noleggiarne una da un fiaccheraio. Le nuove esigenze dettate dalla presenza in città di un numero consistente di funzionari e impiegati dell’amministrazione centrale resero però necessaria anche una migliore organizzazione dei trasporti pubblici, fino ad allora affidati a vetturini privati che con grandi carrozze, capaci di una decina di posti, effettuavano un servizio paragonabile a quello oggi offerto dai taxi, facendo tappa in Piazza del Granduca (poi della Signoria) e in Piazza del Duomo. 6


Il primo giugno 1865, allora, per far fronte alle nuove necessità, l’amministrazione comunale inaugurò le prime quattro linee di omnibus a cavalli che collegavano Piazza della Signoria, cuore della capitale, ai quattro punti cardinali della città: Porta al Prato, Porta Romana, Porta S. Gallo e Porta alla Croce. Il costo del biglietto, 10 centesimi, molto più basso rispetto a quello adottato dai vetturini privati rese pertanto accessibile a molti fiorentini tale forma di circolazione che di fatto aprì la via al trasporto collettivo e di massa. Nei mesi successivi furono aperte anche altre tre linee e in pochi anni Firenze si dotò di una rete di trasporti ragguardevole rispetto alle altre città del regno. Tutte le carrozze cittadine erano di colore verde ma ogni linea era contraddistinta da un proprio colore esposto su un cartello appeso tra i due cavalli, così da renderne fruibile l’utilizzo anche agli analfabeti. In seguito allo sviluppo e al successo di tali linee di comunicazione, già nel 1868 si cominciò a parlare di trasporto su rotaia, sempre con il traino animale.

[ci si sposta in via de’ Pecori per mostrare dov’era il capolinea del tramway a cavalli] Solo il 5 aprile 1879, però, fu avviata in città una linea di tram a cavalli su rotaia che univa Firenze – oramai non più capitale – a Peretola. Dalla fine degli anni ’70 in avanti, poi, le tramvie – anche su linee extraurbane – s’imposero nel panorama non solo toscano come infrastruttura privilegiata per il trasporto di massa integrando in modo decisivo la rete ferroviaria. La gestione delle tramvie di Firenze, inizialmente affidata ai bolognesi Cesare e Celestino Monari, fu presto attribuita in esclusiva alla Societé Anonime des Tramways Florentines, rivelandosi anche uno strumento importante d’integrazione dei capitali stranieri con quelli della borghesia cittadina.

[passando per via Brunelleschi, si giunge in piazza della Repubblica, fermandosi di fronte all’Arcone del Micheli, sul lato della libreria Edison. Si mostra prima lo scorcio su via Strozzi e la fotografia della strada quando era ancora via dei Ferrivecchi] Anche il tratto della via dei Ferrivecchi, così detta per la presenza di numerose botteghe di rigattieri e ferravecchio, tra il Mercato Vecchio e la piazza Strozzi – allora denominata delle Cipolle per le bancarelle che vi vendevano questo ortaggio – viene allargata nei lavori di 7


risanamento. Viene così abbattuta, fra gli altri edifici medievali, l’antica chiesa di San Pier Buonconsiglio.

Il cuore di Firenze era l’antico Foro romano, poi divenuto in epoca medievale e moderna il Mercato Vecchio, con gli edifici al centro che ospitavano le taverne e le botteghe dei beccai, mentre sui lati della piazza – e nelle vie circostanti – si affollavano le bancarelle degli ortolani, dei fruttivendoli, dei civaioli, dei rigattieri. Nel 1570 il duca Cosimo I de’ Medici vi aveva realizzato, sul lato che dava sull’Arcivescovato, il Ghetto degli ebrei. Il mercato era cresciuto in modo disordinato e in precarie condizioni igieniche: i due pozzi presenti nella piazza non erano sufficienti per pulire le strade dopo la chiusura delle botteghe. L’affollamento delle misere abitazioni che si affacciano sulla piazza rendeva ancora più acuto il degrado, che si estendeva dalla zona del mercato al vicino ghetto degli ebrei. Nel corso del Settecento gli ebrei riacquistarono il loro diritto di abitare in qualsiasi parte della città, e le misere casupole del ghetto diventarono le abitazioni della povera gente, ma anche di “precettati, ladri e di tutta la feccia della città”10. La gente viveva “fra sgrondi e scoli d’acqua putrida, su pavimenti melmosi, in mezzo a pareti nericanti, fra un brulicare d’insetti” 11 . Le precarie condizioni igieniche della zona fecero sì che questa diventasse uno dei focolai della violenta epidemia di colera che colpì Firenze nel 1835. Ambienti malsani, vicoli luridi, abitanti dalla dubbia moralità spinsero gli amministratori della città a cercare un rimedio alle precarie condizioni igieniche e morali del centro cittadino. L’ultimo ventennio del XIX secolo vide così l’avvio di un grande progetto di risanamento, con l’abbattimento del ghetto e di gran parte degli edifici del Mercato vecchio, anche se spesso si trattava di antiche chiese, palazzi o torri, certo fatiscenti, ma testimonianza viva del passato di Firenze. La maggior parte delle tracce del passato cittadino furono cancellate dalla frenesia del piccone, dal desiderio di dare un decoro e un prestigio borghese al centro storico. Poche furono le voci contrarie. Fra queste, quella di Guido Carocci che così stigmatizzò gli eccessi dell’opera di risanamento: “Era opera doverosa e dignitosa che tutti riconoscevano, apprezzavano, desideravano, perché Firenze non avesse, proprio nel cuore, un centro di sozzura ed infezione, impraticabile e ripugnante. Ma non bisognava dimenticare che frammezzo a tutte queste brutture rimanevano tante cose buone da far sentire il dovere di procedere con circospezione, con uno studio più accurato nell’opera di scegliere e separare il buono dal cattivo”.12 Carrocci fece la sua parte per salvare qualcosa, raccogliendo le opere di scultura e gli elementi di architettura più importanti, come i pezzi della vasariana Loggia del pesce, malamente smontata per far posto al grande arco che incornicia la piazza, oggi della Repubblica, e ponendoli in salvo nel cortile del convento di San Marco. Grazie a questo salvataggio, si è potuto in tempi recenti – negli anni Sessanta del secolo scorso – ricostruire la loggia nella piazzetta de’ Ciompi.

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Giuseppe Conti, Firenze vecchia: storia, cronaca aneddotica, costumi (1799-1859), Firenze 1899, p. 438 11 Giulio Piccini (Jarro), Firenze sotterranea: appunti, ricordi, descrizioni, bozzetti, Firenze 1900, p. 4 12 Guido Carocci, Firenze scomparsa; ricordi storico-artistici, Firenze 1898

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Altre persone, coinvolte nel progetto di risanamento, ci hanno consegnato una preziosa testimonianza di quanto è andato perduto per far posto all’edilizia ottocentesca. Si tratta, in particolare, di Corinto Corinti, l'architetto che fu a capo della commissione comunale per il rilievo di ciò che stava emergendo dal rinnovamento del centro urbano, e di Giuseppe Baccani, autore di una campagna fotografica sulla zona del Mercato Vecchio prima e durante i lavori. Le cartoline con gli appunti e le ricostruzioni che il Corinti pubblicò trent’anni dopo e le lastre fotografiche del Baccani restituiscono in modo evidente il degrado della zona alla fine dell’Ottocento, ma anche la scarsa attenzione per le testimonianze del passato da parte degli urbanisti fiorentini, tutti tesi a dare un’impronta borghese al centro cittadino.

[rivolti verso il centro della Piazza si mostra come la chiesa di San Tommaso sia stata distrutta per far posto all’Hotel Savoia, al cui angolo su via degli Speziali c’era allora la pasticceria Gilli, oggi sul fronte opposto della via Roma] Sulla nuova Piazza Vittorio Emanuele II si affacciavano imponenti edifici come il Palazzo della Fondiaria a nord, dove apriranno il Caffè Concerto Paszkowski e il Caffè Gilli (prima in via de’ Calzaiuoli con la denominazione Bottega dei pani dolci, poi in via degli Speziali, all’angolo con l’attuale via Roma); a sud l’edificio che ospita un altro rinomato caffè cittadino, il Gran Caffè Giubbe Rosse fondato come birreria nel 1897 dai fratelli Reininghaus e così chiamato – vista la difficoltà a pronunciare il nome tedesco - per il colore delle giacche dei camerieri che vi servivano; a est l’allargata via degli Speziali, racchiuso fra l’Albergo Savoia e i grandi magazzini Alle città d’Italia, che nel 1917 Gabriele D’Annunzio ribattezzerà La Rinascente

[la piazza viene inaugurata il 20 settembre 1890 – quando i lavori di demolizione, non ancora completati, furono nascosti alla folla da scenografie rivestite da teli e stendardi – e assume il nome di Piazza Vittorio Emanuele II, denominazione che manterrà fino alla fine del secondo dopoguerra: i fiorentini più anziani ricordano ancora Piazza della Repubblica come Piazza Vittorio] Nel 1890 nella Piazza, liberata dalle taverne e dalle macellerie, viene posta la statua di re Vittorio Emanuele II, oggi ricollocata nel Piazzale delle Cascine. Poiché si era appena posto 9


mano alla demolizione degli edifici che si affacciavano sulla piazza, si decide di celarne la vista al pubblico con alti parapetti, festoni e bandiere alle pareti, scudi riproducenti antichi stemmi e una grande parata di gonfaloni.

[a cura di Massimo Marcolin – ottobre 2010]

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