NGUYỄN THÁI TUẤN
Black Painting & Heritage
NGUYỄN THÁI TUẤN Black Painting & Heritage critical essay Demetrio Paparoni
Primo Marella Gallery
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IL PESO DELLA MEMORIA OSCURATA. NGUYỄN THÁI TUẤN. Demetrio Paparoni
Park, 2011 oil on canvas, 150 x 130 cm
Interior 5, 2013 oil on canvas, 170 x 150 cm
Sullo sfondo dei dipinti di Nguyễn Thái Tuấn c’è sempre il Vietnam, con i suoi luoghi simbolici e la sua storia. La narrazione di questi quadri trae spunto da fatti realmente accaduti, da immagini di cronaca e di vita quotidiana perlopiù filtrate attraverso fotografie, giornali, televisione o Internet. Per quanto faccia sempre riferimento a eventi storici e vicende reali, il soggetto del quadro non è l’evento in quanto tale, ma le sue ripercussioni che generano delle zone d’ombra nella psiche dell’individuo, condizionandone la vita di ogni giorno. L’interesse di Nguyễn Thái Tuấn è pertanto rivolto ai comportamenti e alle dinamiche esistenziali sia di chi gli accadimenti li determina, sia di chi li subisce. Rimarcando che la condizione attuale è l’esito della sedimentazione di eventi e processi storici, Nguyễn Thái Tuấn sovrappone passato e presente, facendo del dipinto uno spazio critico in cui le sue riflessioni diventano forma. Nei quadri della serie Black Painting, per esempio, ritroviamo scene che si riferiscono all’arresto o al processo di attivisti e intellettuali accusati di aver fomentato agitazioni popolari contro lo Stato. Il codice penale vietnamita considera agitatore anche chi rivendica il diritto di libertà religiosa o il rispetto dei diritti civili. Nelle tele di questo ciclo, prive di un titolo esplicativo e numerate come se fossero immagini d’archivio, Nguyễn Thái Tuấn ha annerito o eliminato tutte le parti del corpo non coperte dai vestiti. In alcune di esse ha annerito invece l’intera figura, riducendola a una sagoma appena percettibile su un fondo scuro. Il riferimento è alla censura governativa, che affida ai media il compito di oscurare o alterare le notizie che possono alimentare il dissenso. Non si possono però oscurare le vittime senza oscurare contestualmente i carnefici. A essere privati della loro identità non sono solo coloro che subiscono gli abusi del potere, ma anche gli esecutori materiali della repressione. Uomini alla sbarra e poliziotti, carcerati e carcerieri, coloni e colonizzati, militari pluridecorati e soldati semplici, eleganti donne della ricca classe agiata e contadine finiscono così per essere indistintamente tutti attori di una tragedia che se non rispondesse a fatti reali sarebbe percepita come una sorta di teatro dell’assurdo. L’espediente di annerire volto, collo, polsi e caviglie dei soggetti per sottolineare la perdita d’identità trova un riscontro nella recente storia del Vietnam che, riunificato nel 1975 dopo una guerra ventennale che si concluse con la presa di Saigon da parte delle truppe del Nord, divenne Repubblica Socialista del Vietnam. Per proteggersi da rappresaglie, i parenti dei soldati del Sud ritagliavano dalle foto di famiglia i volti di padri, figli, fratelli e mariti in uniforme. Qualche decennio prima, nell’unione Sovietica di Stalin, la censura politica aveva cancellato nelle fotografie di eventi ufficiali i volti dei politici e dei militari caduti in 5
Alexsander Ustinov, il Presidente Supremo Michael Kalimin si incontra con i comandanti dell’Armata Rossa. Mosca 1947. I volti dei comandanti dell’Armata rossa sono stati cancellati dalla fotografia quando questi sono stati soggetti alla repressione.
Ivan Shagin, Giuseppe Stalin e i membri del goverso sovietico ad una parata dell’aviazione. L’ufficiale a sinistra con il volto cancellato fu soggetto alla reprssione. 1936. Foto Soyuz Archives.
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disgrazia, fino a farli diventare una macchia informe nera, contornata da graffi. Nella logica dei Soviet cancellare il volto di un comandante dell’Armata Rossa non rispondeva all’obiettivo di annullarne la personalità. Lo si voleva espellere dalla Storia. Nello stesso tempo, poiché non era possibile scrivere la Storia senza registrarne le tappe, piuttosto che distruggere del tutto la stampa si preferiva oscurare i volti di quanti smettevano di essere graditi al regime. In quel che resta di una nota fotografia del 1937 di Alexander Ustinov, il Presidente del Soviet Supremo Mikhail Kalinin è ritratto a Mosca, in piedi dietro un tavolo, accanto ai comandanti dell’Armata Rossa, tutti con il volto ridotto a un’informe macchia nera contornata di graffi: le facce dei militari caduti in disgrazia nel periodo delle Grandi purghe staliniane erano state cancellate. La censura non copriva i volti con cura, ma si accaniva sulla foto graffiandola violentemente in prossimità dei volti. La violenza del gesto censorio doveva essere evidente a chiunque guardasse la fotografia. In tal modo la documentazione dell’avvenuto incontro di Kalinin con i comandanti dell’Armata rossa registrava tanto lo storico evento di Mosca del 1937 quanto la sua successiva ridefinizione, a dimostrazione che la Storia trascende il destino dei singoli. La censura dei Soviet e l’autocensura delle famiglie dei vietnamiti del Sud rispondevano all’esigenza del potere di affermare la propria supremazia sui singoli, al punto da potere ridurre il soggetto a un corpo senza identità. Questa curiosa ma non casuale similitudine mette in luce il fatto che, al pari delle foto soggette a censura, i dipinti di Nguyễn Thái Tuấn non hanno nessun tratto in comune con il Surrealismo. Non rimandano al mondo dei sogni, ma a quello reale. Il Surrealismo si proponeva di esplorare l’inconscio e suscitare stupore, poneva al centro della figurazione il meraviglioso che si annida nei sogni, nelle emozioni, negli incubi, negli stati allucinatori o nel soprannaturale. In Nguyễn Thái Tuấn non c’è nulla di tutto questo, non c’è nulla che rimandi al mondo irreale o fantasioso dei personaggi senza volto di Magritte o alle tetre foreste pietrificate di Ernst. Tutt’altro che desiderosi di suscitare stupore e meraviglia, i dipinti di Nguyễn Thái Tuấn catturano e danno immagine al dolore fisico e all’angoscia esistenziale del popolo vietnamita, che in questi dipinti incarna la condizione di chiunque venga schiacciato dal potere. Paradossalmente, nel momento in cui l’assenza di corpo priva i soggetti di identità, vincitori e vinti diventano attori di una scena in cui, qualunque sia il loro ruolo, subiscono la volontà di un potere esso stesso acefalo. Questo non equivale ad assolvere i carnefici, al contrario equivale a collocare i loro macabri riti in uno scenario in cui essi svolgono l’assurdo e insieme tragico ruolo di comparsa, ruolo reso evidente dalla struttura narrativa dei singoli dipinti. Nel relazionarsi gli uni agli altri i soggetti mantengono infatti una differenza di status che rimarca la differenza tra aguzzino e vittima. Questa differenza non viene meno neppure quando i soggetti sono raffigurati in solitudine, all’interno di una ricca dimora o di una stanza spoglia, di una villa un tempo abitata
Black Painting No.69, 2008 oil on canvas, 110 x 130 cm
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Black Painting No.2, 2007 oil on canvas, 100 x 81 cm
Black Painting No.1, 2007 oil on canvas, 116 x 81 cm
dall’aristocrazia o di una casa semidiroccata, luoghi che rendono identificabili vecchie e nuove gerarchie sociali. Ricostruire la genesi del ciclo Black Paintings ci è di aiuto per comprenderne il senso e la poetica, ma anche le dinamiche formali, che caratterizzano l’intero lavoro di Nguyễn Thái Tuấn. Il dipinto che ha dato l’avvio a questa serie, Black Painting No 1, è un ritratto dell’anziana nonna dell’artista. Questo è il primo quadro nel quale Nguyễn Thái Tuấn ha utilizzato una fotografia come fonte diretta. In quel periodo la nonna aveva perso completamente la memoria e nel ritrarla seduta, a piedi nudi e con le dita delle mani intrecciate su un ginocchio, con lo sguardo perso nel vuoto, in un ambiente disadorno, Nguyễn Thái Tuấn l’aveva immaginata come un corpo vuoto dentro un vestito, o come un corpo avvolto dall’oscurità. La luce che illumina la donna mette in risalto il buio attorno a lei e nel contempo, accentuando le ombre, rende l’insieme spettrale. Si ha la percezione di trovarsi dinanzi a una persona che ha perso ogni punto di riferimento, che vive in un mondo che non le è familiare, un mondo che non riconosce più. Come sempre avviene nei quadri di Nguyễn Thái Tuấn, il soggetto dell’opera non è tanto ciò che riconosciamo nell’immagine, quanto ciò che la sottende, ciò che le sta dietro. Il soggetto di questo dipinto è la perdita della memoria collettiva per effetto della propaganda, l’incapacità di pensare e agire che ne consegue. Termini come «storia», «sapere», «cultura», «informazione», «scienza», «coscienza» sono sinonimi di memoria. La memoria illumina l’esistenza, in sua assenza la nostra vita è solo oscurità. A partire da quel dipinto il buio è diventato una costante nella poetica di Nguyễn Thái Tuấn, un’ossessione carica di implicazioni esistenziali, politiche e psicologiche, concretamente legate al vivere quotidiano. La semioscurità che avvolge la scena del quadro, la luce che si concentra su un dettaglio, i contrasti accentuati che rimarcano le ombre sono caratteristiche comuni a molti dipinti di Nguyễn Thái Tuấn. Queste caratteristiche rispondono alla doppia esigenza di caricare l’opera di valenze simboliche e metaforiche e di costringere lo spettatore a uno sforzo di attenzione. La nostra esperienza ottica ci dice che quando entriamo in una stanza buia inizialmente non vediamo nulla. Con il passare dei minuti l’occhio comincia però lentamente ad adattarsi a quella condizione, consentendoci di percepire prima delle differenze di tono, poi delle sagome messe a fuoco quanto basta per permettere al nostro cervello di ricostruire una visione complessiva della stanza. Cogliere un’immagine in assenza di luce ci costringe a prestare attenzione a ciò che vediamo appena, a concentrarci. Qualcosa di simile accade quando ci troviamo dinanzi ai dipinti di Nguyễn Thái Tuấn. Avvertiamo subito che non basta un colpo d’occhio per afferrarli e siamo costretti a dedicare loro attenzione. È come se l’artista volesse costringerci a ripetere l’esperienza dolorosa della nonna che cerca di delineare i contorni dei ricordi perduti. Al ritratto della nonna è seguito Black painting No. 02, primo piano del volto del reverendo dissidente Thadeus Nguyen Van Ly, parzialmente 9
Gerhard Richter, Onkel Rudi, 1965 oil on canvas, 87 x 50 cm
Luc Tuymans, Milch, 1978 oil on canvas, 100 x 80 cm
Black Painting No.36, 2008 oil on canvas, 130 x 100 cm Private collection
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coperto da una mano che gli tappa la bocca. Si tratta del primo dipinto in cui l’artista utilizza la fotografia di un evento. L’immagine è ripresa da una foto scattata da un giornalista su uno schermo del tribunale durante il processo subito dal religioso nel 2007 e conclusosi con una condanna a otto anni. Si tratta dunque di un’immagine rubata e fatta circolare sulla rete per denunciare il reale andamento del processo, in contrapposizione alle fasi del dibattimento trasmesse in differita in tv, censurate e montate in modo da rendere note solamente le accuse e la condanna. Nel fotogramma del processo circolato sulla rete, il sacerdote alla sbarra è affiancato da due uomini in divisa, mentre un terzo uomo in abiti borghesi, con camicia bianca, gli impedisce di parlare coprendogli la bocca con le mani. Le vicende di Thadeus Nguyen Van Ly, prete cattolico vietnamita, membro di un movimento per la democrazia, sono state rese note in Occidente a partire dal Duemila grazie ad Amnesty International. Dissidente dichiarato dagli inizi degli anni settanta, Thadeus Nguyen Van Ly è stato arrestato, processato e incarcerato più volte per la sua opposizione alla Rivoluzione e per aver attentato all’unità del popolo. Il dipinto si concentra sul volto del prete nel momento in cui l’agente di sicurezza in borghese gli impedisce di dichiarare il suo dissenso. Per rendere la drammaticità del momento, Nguyễn Thái Tuấn ha virato l’immagine al bianco e nero e accentuato i contrasti indirizzando un fascio di luce sulla mano della guardia in borghese e sugli occhi del prete. Come negli altri suoi dipinti, l’immagine ha un leggero fuori fuoco, espediente cui ha fatto ricorso Gerhard Richter nei dipinti realizzati tra il 1962 e il 1971. Lo stesso Nguyễn Thái Tuấn sostiene che il modo in cui fa riferimento alle vicende socio-politiche del proprio paese è stato influenzato da Luc Tuymans, a sua volta influenzato da Gerhard Richter. Sono questi artisti che gli hanno suggerito come mettere in relazione la figura umana con eventi sociali e argomenti storici, e come usare oggetti normali o soggetti innocui per trasmettere il peso della Storia. Un cenno ai dipinti realizzati da Richter tra il 1962 e il 1971 è dunque d’obbligo. In questi dipinti Richter ha ripreso, in bianco e nero o in color ocra, fotografie di famiglia e ritagli di libri e giornali legati alla storia recente della Germania. Queste immagini sono state riportate da Richter sulla tela leggermente sfocate, come se fossero frutto di un errore del fotografo. Lo stesso Richter ha affermato che realizzare una copia di una fotografia costituisce il tentativo di cogliere qualcosa d’inaspettato che si insinua nell’opera indipendentemente dalla propria volontà. La sfocatura elimina dall’immagine le informazioni in eccesso, toglie immediatezza alla sua narrazione e le conferisce un che di assurdo. Usare una fotografia come fonte affranca inoltre il dipinto dall’idea di stile e dalla costruzione compositiva. Riferendosi ai dipinti di quel periodo, legati agli anni della guerra, lo stesso Richter ha precisato che mentre la fotografia provoca orrore, la trasposizione pittorica di quella stessa fotografia mette in luce qualcosa che è più vicino al dolore.
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Luc Tuymans, The Walk, 1993 oil on canvas, 37 x 48 cm
Black Painting No.47, 2008 oil on canvas, 150 x 110 cm Private collection 12
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Black Painting No.100, 2011 oil on canvas, 130 x 150 cm
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Mausoleum, 2010 oil on canvas, 130 x 150 cm
Black Painting No.57, 2008 oil on canvas, 130 x 100 cm
Torniamo alla genesi del ciclo Balck Painting. Il terzo quadro della serie raffigura il Mausoleo di Ho Chi Minh immerso nel buio. Il dipinto successivo, il primo in cui Nguyễn Thái Tuấn ha annerito le parti del corpo non coperte da vestiti, raffigura due eleganti abiti femminili. Non si tratta di abiti vuoti, ma di abiti indossati da persone prive di identità. Le tele successive si muovono nel solco tracciato da queste prime quattro, estendendo l’area d’indagine a pestaggi della polizia, arresti, processi, ma anche a banali scene di vita quotidiana. Nel 2009 compaiono in queste tele anche aerei, elicotteri e carri armati americani conquistati in battaglia dalle truppe del Nord e conservati ed esposti per mantenere vivo il ricordo della vittoria. In alcuni dipinti i carri armati, adagiati su una pedana come fossero sculture, mostrano la propria natura di espedienti retorici usati dal governo per esaltare in chiave propagandistica la Guerra di liberazione. Lo stesso artista sottolinea che con l’esposizione di questi cimeli di guerra si vogliono rinfocolare orgoglio e odio, sentimenti cui egli reagisce avvolgendo la scena dei quadri con un’atmosfera tetra che trasmette un senso di perdita e di dolore che si rinnova nel presente. In Black Painting No 100 si riconoscono, in uno scenario buio, sei sagome scure di militari in divisa, armati di bastoni che picchiano un uomo con viso, mani e piedi coperti di nero. La luce illumina solo il centro della scena, mettendo in risalto l’uomo per terra. Il riflesso della luce porta nel contempo in primo piano i bastoni impugnati dai militari e le scarpe, eleganti e lucide. Una sintesi dell’intera serie di Black Painting ci viene dal quadro No 57, che raffigura un individuo di spalle con testa, mani e piedi anneriti, mentre osserva una grande scultura commemorativa, in marmo bianco, di Le Duan, uno dei fondatori del Partito comunista indocinese e poi segretario del Partito comunista vietnamita. Sostenitore dell’unificazione del Vietnam, Le Duan è considerato il leader che lanciò gli attacchi contro il Sud nel 1968, nel 1972 e nel 1975. La differenza di scala tra la statua e l’uomo, la dimensione ieratica del simulacro del leader e il silenzio metafisico che la scena genera suggeriscono che l’uomo non si ponga domande, ma che, guardando la statua, riconosca in essa un soggetto da idolatrare. Il fondo scuro che azzera l’ambiente circostante suggerisce infine che, filtrando la realtà con la lente dell’ideologia, l’uomo vede solo quello che gli si vuol far vedere. Il dipinto mostra come la perdita di memoria collettiva non consenta, per effetto della manipolazione propagandistica, di avere una visione ampia e lucida della Storia. A questo dipinto fa da contraltare Black Painting No 70, del 2008, che raffigura il primo piano di una donna che urla il suo dissenso contro il governo cinese. Così come l’assenza di volto indica la perdita di memoria, e con essa la perdita di identità, la sua presenza denota che solo chi continua a porsi delle domande e a pensare senza lasciarsi indottrinare mantiene la sua fisionomia. Soggetti dall’identità cancellata li ritroviamo anche nel ciclo Heritage, iniziato nel 2010, nel quale Nguyễn Thái Tuấn affronta il tema del passaggio di proprietà ai «nuovi acquirenti»1 di edifici storici e simbolici 15
Black Painting No.70 (9-12-2007), 2008 oil on canvas, 130 x 100 cm
Black Painting No.04, 2007 oil on canvas, 130 x 97 cm
Untitled, 2013-2014 oil on canvas, 180 x 150 cm 16
che negli anni del protettorato francese furono le dimore dell’imperatore e della sua famiglia, dei presidenti del Sud e delle first lady. Nguyễn Thái Tuấn raffigura gli esterni e gli interni lussuosi di questi edifici abitati dai dirigenti comunisti che, di fatto, hanno preso il posto e le abitudini dell’antica aristocrazia spodestata dalle forze rivoluzionarie che promettevano l’abolizione delle classi sociali e parità di diritti. La scena di questi dipinti, carica di simbologie, è sempre immersa in un’atmosfera che denota esistenze segnate dalla precarietà nonostante il lusso che le circonda. Non si comprende se la rappresentazione attenga al passato o al presente, non si comprende perché i soggetti raffigurati si trovino in quel luogo, non si comprende quale sia la loro posizione sociale. Potrebbero essere i vecchi proprietari oppure i nuovi. Si ha la sensazione che quella calma apparente possa essere sconvolta da un momento all’altro da nuovi eventi. In uno di questi dipinti, Interior 2, una donna in abiti tradizionali siede su una poltrona mentre un uomo vestito come un dirigente comunista le volta le spalle. Non si comprende se si tratta di una coppia, se la proprietaria è la donna e l’uomo l’ospite, se lui è il nuovo proprietario e lei rappresenta solo un passato scomparso. Non si capisce se è accaduto qualcosa di terribile o se sta per accadere. L’impossibilità di definire con chiarezza la scena è la strategia che consente a Nguyễn Thái Tuấn di togliere ogni certezza alle parole di quanti danno una lettura univoca della Storia. In altri dipinti dello stesso ciclo Nguyễn Thái Tuấn dà immagine anche a quel che resta di chiese cattoliche, ridotte a rovine, avvolte dal buio o da una nebbia che riporta alla mente i paesaggi con rovine di Caspar Friedrich e William Turner. Tuttavia, al di là di alcune analogie formali e linguistiche con l’arte occidentale dei secoli scorsi, la poetica di Nguyễn Thái Tuấn è molto lontana da quella che ha caratterizzato il Romanticismo. A differenza di quelli dei romantici, i suoi paesaggi con rovine, le chiese diroccate, gli interni lussuosi o decadenti non vogliono dare immagine al sublime, non vogliono attrarre e insieme turbare, tantomeno si propongono di mostrare tracce di un passato idealizzato e guardato con struggimento e nostalgia. Le rovine che Nguyễn Thái Tuấn ci mostra sono ferite ancora aperte perché legate al racconto della guerra del Vietnam, dunque a un vissuto che non può ancora essere considerato con il distacco dello storico. L’artista non può del resto avere distacco dalle scene che rappresenta, avendo assistito da bambino a bombardamenti, sparatorie e devastazioni. Cresciuto in un piccolo villaggio nella provincia di Quang Tri, non distante da una zona di confine tra le due parti del Paese in conflitto tra loro, Nguyễn Thái Tuấn ha vissuto con la sua famiglia anche l’esperienza di profugo. Di quei momenti terribili attraversati dalla gente del suo villaggio, e delle ripercussioni che quei momenti hanno ancora oggi sulla sua gente, l’arte di Nguyễn Thái Tuấn ci dà una testimonianza lucida, cruda, intensa, dalla quale traspare un profondo senso di dolore. Non potrebbe essere diversamente: evocare il passato significa per Nguyễn Thái Tuấn affidare un ruolo costruttivo alla memoria. La sua pittura non vuole alimentare sentimenti di astio
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Black Painting No.103 , from Heritage series 2009-2011 oil on canvas, 120 x 150 cm
Untitled, 2012 oil on canvas, 150 x 220 cm Private collection 19
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Church, 2011 oil on canvas, 150 x 130 cm
Untitled, 2013 oil on canvas, 175 x 150 cm
Untitled, 2012 oil on canvas, 180 x 150 cm Private collection
o di vendetta le cui conseguenze porterebbero inevitabilmente a nuovi conflitti. Ciò spiega perché in questi dipinti, come accade in quelli già citati di Richter, il dolore prevale sull’orrore. Tra i luoghi simbolo raffigurati in questo ciclo troviamo così la scuola diroccata e la chiesa semidistrutta di Quang Tri, entrambe vicine al villaggio natale dell’artista, entrambe distrutte nel 1972 durante un attacco dell’esercito del Nord. Nguyễn Thái Tuấn ha dipinto la chiesa come appare oggi, ancora in rovina perché considerata un cimelio di guerra che testimonia la lotta eroica per l’unificazione. Paradossalmente, così come accade per la chiesa di Quang Binh, soggetto di un altro quadro, l’edificio non è propagandato come testimonianza dell’orrore della guerra, ma come monumento al nuovo corso della storia vietnamita. Mosso dall’intento di aprire una riflessione sulla contrapposizione tra ateismo e fede, comunismo e cattolicesimo, nel 2012 Nguyễn Thái Tuấn ha raffigurato un vecchio comunista in uniforme all’interno della chiesa di Quang Tri ridotta a rudere. Nel dipinto l’uomo, con il capo chino, è rivolto verso la zona della chiesa dove una volta si trovava l’altare maggiore. Per quanto l’edificio sembri essere stato ripulito dai detriti, Nguyễn Thái Tuấn ha inteso mostrare un luogo considerato sacro pesantemente colpito dai bombardamenti, che conserva ancora le tracce del sangue versato. Il dipinto non vuole suscitare un sentimento religioso, non è questa l’intenzione dell’artista. È tuttavia innegabile che qui la dimensione spirituale emerga attraverso una simbologia tipica dell’arte religiosa occidentale. Come nella maggior parte di questi dipinti, la scena è in penombra e la luce, mai omogenea, converge su un preciso punto del quadro. In questo caso la luce crea un alone là dove una volta sorgeva l’altare maggiore. La parete alle spalle dell’altare, verso cui l’anziano è rivolto e dove probabilmente si trovava un crocifisso, diventa, per via delle ferite subite durante il bombardamento, una finestra aperta sull’infinito. Non si comprende se l’uomo è lì per ricordare le gloriose gesta dell’esercito nordvietnamita oppure per un’esigenza spirituale. L’ambiguità cui la scena si presta è voluta dall’artista per suscitare domande sulle conseguenze della guerra, sul diritto ad abbracciare una fede, sulla memoria, sul ricordo delle persone scomparse, sul senso di perdita, sul lutto non ancora elaborato. Oltre ai luoghi legati alla infanzia dell’artista, nelle tele del ciclo Heritage troviamo luoghi visti con gli occhi di oggi. Tra i soggetti di questo ciclo vi è l’ultima sede del potere coloniale, il Palazzo d’Estate dell’Imperatore, a Da Lat, la città dove Nguyễn Thái Tuấn vive oggi. E ancora, resti di chiese cattoliche di Nam Dinh, sede della diocesi della Chiesa cattolica Romana di Bui Chu, abbandonate tra il 1954 e il 1955 dai cattolici in fuga verso il Sud per paura delle truppe comuniste che assediavano Hanoi. Il degrado e la distruzione degli edifici religiosi o delle residenze della vecchia aristocrazia creano nell’opera di Nguyễn Thái Tuấn un effetto ridondanza sul tema della perdita di memoria e di identità, ponendo in primo piano l’incidenza che la limitazione delle libertà personali ha sulle scelte religiose. In quest’ottica le chiese distrutte e il 21
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Untitled (The church in Quang Tri II) 2012, oil on canvas 150 x 200 cm Private collection 23
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Gate, 2011 oil on canvas, 150 x 130 cm
Untitled, 2014 oil on canvas, 150 x 130 cm
Mausoleo di Ho Chi Minh ben tenuto, le stanze decadenti del Palazzo del Principe e l’imponente, candida statua dedicata a Le Duan rispondono, sul piano propagandistico, allo stesso imperativo di un potere che decide quali punti di riferimento l’individuo debba assumere. In questi dipinti il passato permane nel presente, fino a sovrapporsi a esso, con l’obiettivo di produrre un coinvolgimento emotivo. A stimolare in noi sentimenti empatici non è però quel che riconosciamo nel dipinto, ma ciò che va oltre il visibile. Per farci presagire cosa sarebbe di noi se entrassimo nella spirale di violenza fisica e psicologica che echeggia nella sua figurazione, Nguyễn Thái Tuấn lega la sua narrazione all’identità storica e politica del suo Paese, facendo nel contempo proprie le domande fondamentali dell’esistenzialismo europeo che, da Kierkegaard a Camus e Sartre, si è interrogato sulla fragilità della condizione umana. Questa fragilità, ha spiegato Sartre, si manifesta tanto nell’uomo libero quanto in quello sottoposto ai controlli più asfissianti. Va da sé che l’angoscia cui dà immagine Nguyễn Thái Tuấn non è quella sartriana dell’individuo che, posto dinanzi all’infinita possibilità delle scelte può sentirsi smarrito, ma quella di chi non può decidere il proprio destino perché sottoposto a controlli e limitazioni oppressivi. Non è una differenza da poco: gli individui problematici che incontriamo nelle pagine di Sartre hanno un volto segnato dall’angoscia perché condannati alla libertà, i corpi anonimi che occupano i dipinti da Nguyễn Thái Tuấn esprimono angoscia perché la loro possibilità di scegliere è fortemente inibita. Lottano entrambi: i primi contro se stessi, gli altri contro un potere che non consente di esprimere la propria autonomia. In questo Nguyễn Thái Tuấn esprime appieno il sentimento di Kierkegaard che, pur sntendo la possibilità come una «spina nella carne», vedeva nella totale assenza di possibilità l’esperienza peggiore che l’uomo possa vivere. Uno degli interrogativi che l’arte di Nguyễn Thái Tuấn pone riguarda la nostra capacità di autodeterminazione. Davanti a questi quadri viene da chiedersi cosa può fare l’arte per difendere l’uomo dai condizionamenti della Storia e da se stesso. Come fa l’artista a mantenere la sua autonomia rispetto a un sistema organizzato gerarchicamente? Sappiamo tutti che nella Storia l’agire umano e le leggi generali che lo trascendono s’intrecciano. Queste leggi della Storia, il cui corso è governato da pochi, determinano il divenire. Sarte ha sostenuto che io posso decidere se andare in guerra o ubriacarmi, ma di fatto non sono io ad aver determinato lo scatenarsi della guerra. Tuttavia, nel momento in cui io accetto di andare in guerra, continua Sarte, se non diserto o non mi spingo a rifiutarla finanche con il suicidio, questa guerra sarà comunque la mia guerra. Se accettiamo questo ragionamento, chi decide e chi subisce le decisioni condividono le stesse responsabilità? Prima di Sartre, alla fine della seconda Guerra mondiale, Karl Jaspers aveva affrontato il tema della colpa. Jaspers aveva individuato quattro diversi tipi di colpa: criminale, politica, morale e metafisica. La colpa criminale è quella di chi trasgredisce le leggi; la colpa politica è quel25
Untitled (The school in Quang Tri), 2013 oil on canvas, 150 x 200 cm
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Foto di Nguyễn Thái Tuấn al Museo della Rivoluzione di Khe Sanh, distretto di Quang Tri. Foto Nguyễn Thái Tuấn
Untitled (diptych), 2010 oil on canvas, 40 x 40 cm (each)
la che deriva dalle azioni degli uomini di Stato, ma ricade anche sui cittadini in quanto sottoposti all’autorità di quello Stato e in quanto devono la loro esistenza come cittadini al suo ordinamento; la colpa morale nasce dalle azioni che l’uomo compie come individuo; la colpa metafisica è quella che si deve al venir meno della solidarietà dell’uomo verso i suoi simili. Secondo Jaspers quest’ultimo tipo di colpa, quella metafisica, ci rende in un certo qual modo corresponsabili di tutte le ingiustizie che gli altri uomini compiono nel mondo.2 Ogni guerra comporta sempre la sconfitta di tutti, qualunque sia la motivazione che la determina. È sconfitto chi aggredisce ed è sconfitto chi è costretto a impugnare un’arma per difendersi. La questione della colpa, posta da filosofi e artisti in Occidente nel Dopoguerra, trova la sua ragion d’essere nell’aggressione militare della Germania ad altri paesi dell’Europa per annetterli, nel criminale sterminio degli ebrei, degli zingari e di chiunque manifestasse diversità dalle norme stabilite dai nazisti. Ma sarebbe riduttivo far ruotare la questione della colpa attorno alla storia della Germania nazista. Come l’arte di Nguyễn Thái Tuấn testimonia, questo tema riguarda indistintamente tutte le guerre, ovunque esse siano combattute e qualunque sia la motivazione che le ha generate. La posizione dei filosofi e degli artisti occidentali sull’argomento ci aiuta a comprendere perché l’assenza di volto che azzera l’identità degli individui raffigurati da Nguyễn Thái Tuấn pone interrogativi sulle colpe criminali, politiche, morali e metafisiche di ognuno. Nei suoi dipinti il tema della colpa si intreccia con quello della perdita di valori umani per effetto del potere politico, che trasforma i soggetti in automi privi di passato. Sarà dunque solo a partire dal recupero della memoria individuale e collettiva che si potrà elaborare la colpa e guardare con occhi nuovi al futuro. Nel suscitare domande sull’importanza che la memoria riveste nel determinare una visione del mondo, Nguyễn Thái Tuấn ci dice che il futuro di un popolo si può immaginare e progettare solo a partire dalle memoria dei fatti del passato. Con questo presupposto nel 2010 egli ha realizzato due piccoli quadri da esporre accostati uno sull’altro, raffiguranti due diversi tipi di calzature utilizzate negli anni della guerra civile. Il dipinto che sta sopra raffigura dei consumati sandali di gomma, ottenuti da pneumatici, usati dai soldati del Nord. Quello in basso raffigura una scarpa rotta, un elmetto e un frammento di cinghia in dotazione ai soldati del Sud. L’idea di dipingere questo dittico è stata suggerita all’artista da una visita al museo di Khe Sanh, a Quang Tri, uno dei tanti musei della Rivoluzione allestiti in Vietnam per tenere viva la memoria delle gesta gloriose di un esercito che con pochi mezzi ha ottenuto una grande vittoria su un esercito ben più potente. Per le scarpe dei soldati del Sud l’artista si è riferito al dettaglio di una fotografia che egli stesso ha scattato, per quelle dei soldati del Nord ha preso a modello una fotografia trovata in Internet di un paio di sandali adagiati su velluto rosso e racchiusi in una teca di vetro, come si addice a una reliquia. Queste 27
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Luc Tuymans, Ice II, 1992 olio su tela, 52 x 37 cm
diverse calzature simboleggiano il Nord e il Sud del Vietnam prima del 1975, i soldati dei diversi schieramenti che si sono fronteggiati per vent’anni, chi ha vinto e chi ha perso. Il rosso che fa da sfondo ai sandali dei soldati del Nord è il colore della vittoria, il nero che fa da sfondo alle scarpe dei soldati del Sud è quello della sconfitta. Nella narrazione di Nguyễn Thái Tuấn però questi stessi colori evocano anche il sangue, la morte, tutto ciò che è andato perduto. Le numerose rappresentazioni di scarpe realizzate da artisti diversi tra loro come Van Gogh e Andy Warhol dimostrano che le scarpe sono la parte del vestiario che più si presta a esprimere povertà o ricchezza. Non va dimenticato che in particolare sulle scarpe si concentra l’attenzione delle cosiddette fashion victim che, come testimonia l’opera di Warhol, attribuiscono proprio alle scarpe l’indicatore del proprio status. Quelle dipinte da Nguyễn Thái Tuấn evocano la condizione esistenziale di chi vede negli oggetti del passato l’espressione di una retorica propagandistica che, per contrasto, fa emergere le tante promesse non mantenute. Più che di un periodo eroico queste scarpe sono l’espressione di una sconfitta umana ed esistenziale di tutti. Osservando le foto scattate dallo stesso Nguyễn Thái Tuấn al museo della rivoluzione di Khe Sanh, a Quang Tri, non si può che far propria una riflessione di Jacqueline Lichtenstein espressa dopo aver visitato il museo di Auschwitz. Nelle vetrine contenenti valigie, protesi o giocattoli appartenuti a ebrei e zingari deportati dai nazisti la filosofa e storica dell’arte francese ha riconosciuto una tipologia espressiva tipica dell’arte contemporanea, trovandola però in questo caso «assolutamente terrificante». «Non sono rimasta raggelata», ha dichiarato, «non sono rimasta prostrata. Non sono rimasta sconvolta come lo ero quando camminavo nel campo, no, nel museo ho avuto l’impressione di essere in un museo di arte contemporanea. Ho ripreso il treno dicendomi “Hanno vinto!”. Hanno vinto perché hanno prodotto delle forme di percezione che vanno totalmente nella continuità del modo di distruzione che è stato il loro».3 Nel commentare queste parole Paul Virilio si è chiesto se il terrore nazista sconfitto in guerra non sia poi risultato vincitore in epoca di pace.4 Immancabilmente, davanti alle scarpe dipinte di Nguyễn Thái Tuấn ci chiediamo se il dolore che accompagna ogni conflitto si esaurisca con la fine della guerra.
Untitled, 2010 oil on canvas, 81 x 60 cm
Espressione utilizzata dall’artista. Karl Jaspers, Die Schuldfrage, 1965, trad. it. La questione della colpa/sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina editore, Milano, pp. 21-27. 3 Jacqueline Lichtenstein, conversazione con François Rouan, in Paul Virilio, La procédure silence, 2000, trad. it La procedura del silenzio, Asterios Editore, Trieste 2001, pp. 13-14. Il corsivo è dell’autore. 4 Ibid. 1 2
Untitled I, 2009 oil on canvas, 81 x 60 cm
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Black Painting
Black Painting No.07, 2008 oil on canvas, 130 x 110 cm Collection of Sherman Contemporary Art Foundation, Sydney 32
Black Painting No.22, 2008 oil on canvas, 130 x 110 cm Private collection 33
Black Painting No.64, 2008 oil on canvas, 130 x 110 cm 34
Black Painting No.68, 2009 oil on canvas, 130 x 100 cm 35
Black Painting No.37, 2008 oil on canvas, 110 x 130 cm Private collection 36
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L’oscurità contiene sempre sia misteri che rischi. Essa ci spinge a guardare dentro noi stessi per scoprire verità nascoste. Allo stesso tempo, comunque, provoca ansie, inquietudine… Nguyễn Thái Tuấn
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Black Painting No.67, 2008 oil on canvas, 110 x 120 cm 39
Black Painting No.40 (1955), 2008 oil on canvas, 130 x 90 cm 40
Black Painting No.33, 2008 oil on canvas, 130 x 100 cm Private collection 41
Black Painting No.45, 2008 oil on canvas, 130 x 100 cm Collection of Queensland Art Gallery, Brisbane 42
Black Painting No.101, 2011 oil on canvas, 130 x 100 cm 43
I Black Paintings di Nguyễn Thái Tuấn sono ritratti in cui la persona umana è assente. Il volto che ci parla dell’individualità e dell’umanità della persona è privo di lineamenti. Il volto è oscurato come se l’individualità fosse stata censurata o repressa. In questa serie di ritratti le persone sono raffigurate come tipi. Tutto ciò che conosciamo di esse è il loro ruolo, sono uomini e donne del Vietnam, monaci buddisti o prigionieri, spose di stranieri abbigliate in modo vistoso o una persona anziana che ha perso la memoria. I Black Paintings di Nguyễn Thái Tuấn sfidano l’idea, propria dell’immaginario convenzionale, che identità e memoria siano trasparenti. Attraverso la cancellazione della persona, le figure sono ridotte a pupazzi o fantasmi, attori inconsapevoli di una sciarada teatrale di ruoli accettabili per lo Stato. Annette Van den Bosch
Estratto da Annette Van den Bosch, Signs of Grief, Memory of Violence and the Suppression of Freedom of Expression in the Work of three Vietnamese Artist, testo presentato alla diciassettesima conferenza della Asian Studies Association of Australia, Is This the Asian Century?, Monash Asia Institute, Melbourne, 2008. 44
Black Painting No.49, 2008 oil on canvas, 81 x 60 cm 45
Black Painting No.38, No.78, No.77, 2008-2009 oil on canvas, 50 x 40 cm, 55 x 40 cm, 50 x 40 cm 46
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Black Painting No.108, 2014 oil on canvas, 150 x 130 cm 48
Black Painting No.106, 2013 oil on canvas, 150 x 120 cm 49
Black Painting No.97, 2010-2014 oil on canvas, 130 x 110 cm 50
Black Painting No.98, 2010-2014 oil on canvas, 130 x 110 cm 51
Black Painting No.109, 2014 oil on canvas, 150 x 130 cm 52
Black Painting No.107, 2013 oil on canvas, 150 x 130 cm 53
Black Painting No.30, 2008 oil on canvas, 130 x 110 cm Private collection 54
Black Painting No.105, 2013 oil on canvas, 130 x 110 cm 55
Black Painting No.79, 2009 oil on canvas, 100 x 130 cm 56
Black Painting No.81, 2009 oil on canvas, 110 x 130 cm 57
Black Painting No.104, 2013 oil on canvas, 130 x 100 cm
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Black Painting No.20, 2008 oil on canvas, 100 x 81 cm Private collection 59
Black Painting No.80, 2009 oil on canvas, 130 x 100 cm Collection of Queensland Art Gallery, Brisbane 60
Black Painting No.87, 2009 oil on canvas, 81 x 60 cm 61
Black Painting No.83, 2009 oil on canvas, 130 x 110 cm 62
Black Painting No.59, 2008 oil on canvas, 150 x 130 cm 63
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Black Painting No.88 , from Heritage series 2009-2010 oil on canvas 100 x 150 cm 65
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Heritage 67
La densità melanconica dei dipinti di Nguyễn Thái Tuấn nasce proprio dalla mancanza di corporalità dei loro protagonisti. La nostra percezione di questo iato è incerta. Vediamo le figure abbigliate, vediamo le sfumature del linguaggio del loro corpo, percepiamo il peso della loro presenza all’interno della composizione. Ma la sensazione che essi si trovino lì senza esserci ci spinge a chiederci quando si è verificata la loro sparizione. Quale è stato il momento di transizione in cui sono svaniti? Quando la sostanza del loro essere è stata oscurata dalle tenebre? C’è qualcosa di abbietto in questo rifiuto artistico. Tale rifiuto non si manifesta solo nella negazione del corpo, ma anche nelle accurate ambientazioni dalle quali queste figure traggono il loro significato. La tavolozza di Tuấn sfuma e offusca interni e paesaggi per suggerire un’infausta premonizione, mentre proprio l’invisibilità del corpo indica un ritirarsi nell’oblio. Pamela Nguyen Corey
Extract from Pamela Nguyen Corey, Nguyen Thai Tuan’s Abject Frames, in: Choregraphies Suspendues, Carré d’Art-contemporain de Nîmes, Nîmes, Francia. Febbraio-Aprile 2014, p. 71 68
Portrait, 2010-2011 oil on canvas, 100 x 100 cm 69
Interior 1, 2011 oil on canvas, 120 x 150 cm Private collection 70
Interior 2, 2011 oil on canvas, 120 x 150 cm Private collection 71
Interior 3, 2011 oil on canvas, 110 x 150 cm Private collection 72
Interior 4, 2012-2013 oil on canvas, 150 x 130 cm 73
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Interior 6, 2013 oil on canvas, 150 x 200 cm 75
Interior 7, 2014 oil on canvas, 150 x 180 cm 76
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Untitled, 2012 oil on canvas, 150 x 120 cm 78
Untitled, 2012 oil on canvas, 170 x 150 cm Private Collection 79
Evening, 2011 oil on canvas, 130 x 150 cm Private collection
Afternoon, 2012 oil on canvas, 150 x 200 cm Private Collection
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Villa, 2013 oil on canvas, 150 x 190 cm 83
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Ruin, 2013 oil on canvas, 150 x 220 cm 85
Villa of the King, 2013 oil on canvas, 180 x 150 cm
Window, 2013 oil on canvas, 150 x 130 cm
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Appendix
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THE WEIGHT OF DARKENED MEMORY. NGUYỄN THÁI TUẤN. Demetrio Paparoni (translation: Natalia Iacovelli) Against the backdrop of Nguyễn Thái Tuấn’s paintings there is always Vietnam, with its symbolic places and its history. The stories in these pictures draw upon real events, news images and images of daily life that are normally filtered through photographs, newspapers, television or the Internet. While always referring to historical events and real occurrences, the subject of his works is not the event as such, but rather its repercussions that generate shadowy areas in the psyche of the individual while influencing that individual’s everyday life. Accordingly, Nguyễn Thái Tuấn’s interest is directed towards the behaviors and the existential dynamics of both those who induce these events and those who endure them. In remarking that the current condition is the result of the sedimentation of historical events and happenings, Nguyễn Thái Tuấn intermingles the past and the present, rendering the painting a critical space in which his reflections take shape. In the works of the series Black Paintings, for instance, we find scenes that refer to the arrest or the trials of activists and intellectuals accused of fomenting populist uproars against the State. Vietnamese penal code considers even those who lay claim to the right to religious freedom or to the respect of civil rights to be agitators. On the canvases of this cycle, which are devoid of explanatory titles and numbered as if they were archival images, Nguyễn Thái Tuấn has has blackened or eliminated all portions of the body that are not covered by clothes. In some he has instead blackened the entire figure, reducing it to a silhouette that is just barely visible upon a dark background. The reference here is to governmental censorship, which assigns to the media the task of obscuring or altering news stories that could foster dissent. Yet, victims cannot be obscured without simultaneously obscuring the perpetrators. Not only those who endure the abuse of power, but also the actual instigator of repression, are deprived of their identity. Men behind bars and police officers, prisoners and prison wardens, colonizers and the colonized, pluridecorated military men and simple soldiers, elegant women from the well-to-do upper class and peasants alike all indiscriminately end up being players of a tragedy that, were it not to respond to actual events, would be perceived as a sort of theater of the absurd. The technique of blackening the faces, necks, wrists and ankles of the subjects in order to underscore the loss of identity finds its validation in the recent history of Vietnam, which, reunited in 1975 after a vicennial war that concluded with the capture of Saigon by Northern troops, became the Socialist Republic of Vietnam. In order to protect themselves from retaliation, relatives of the Southern troops would cut out from family photographs the faces of fathers, sons, brothers and husbands in uniform. A few decades earlier, in Stalin’s Soviet Union, due to political censorship the faces of politicians and military men who had fallen into disgrace were eliminated from photographs of official events, turned into black muddled 90
blots and surrounded by scratches. According to the logic of the Soviets, eliminating the face of a Red Army commander was not meant to erase his character; the idea was to expel him from history. At the same time, since it is not possible to write history without recording its milestones, rather than destroying the entire image, the press preferred to obscure the faces of those who were no longer well-accepted by the regime. In what remains of a well-known photograph by Alexander Ustinov from 1937, the President of the Soviet Supreme, Mikhail Kalinin, is pictured in Moscow, standing behind a table, beside Red Army commanders, whose faces have all been reduced to black muddled blots surrounded by scratches: the faces of military men who had fallen into disgrace during the period of Stalin’s Great purges had been eliminated. Censorship did not cover the faces carefully, but rather it hammered away at the photographs, violently scratching them in the vicinity of the faces. The violence of the censorious gesture was to be evident to whomever looked at the photograph. In this way, the documentation of the meeting that had taken place between Kalinin and the Red Army commanders recorded both the historical event that occurred in Moscow in 1937 and its subsequent redefinition, demonstrating that history transcends individual destiny. The censorship by the Soviets and the autocensorship by the families of the Southern Vietnamese responded to the need for power to assert its very supremacy over individuals, to the point of being able to reduce a subject to a body without an identity. This curious, yet not accidental, similitude highlights the fact that, just as the photographs subjected to censorship, the paintings by Nguyễn Thái Tuấn share no features with Surrealism. They do not refer to the world of dreams, but to the real world. Surrealism set out to explore the unconscious and to cause astonishment. At the heart of surrealist depictions is the marvelous, nestled within dreams, emotions, nightmares and hallucinatory states or the supernatural. In Nguyễn Thái Tuấn we have none of this, nothing that refers to the fictional or imaginary world of the faceless figures of Magritte or to the gloomy petrified forests of Ernst. Far from wishing to cause astonishment and marvel, Nguyễn Thái Tuấn’s paintings capture and illustrate the physical pain and existential anguish of the Vietnamese people, who in these paintings embody the condition of all those oppressed by power. Paradoxically, at the moment in which the absence of a body deprives a subject of its identity, both the victors and the vanquished become the players of a scene in which, whatever their role, they are subjected to the will of a power that is itself acephalous. This does not equate to acquitting the perpetrators, but rather it amounts to situating their macabre practices within a scenario in which they carry out the absurd, as well as tragic, role of a bit player; a role that is made evident by the narrative structure of the individual paintin-
gs. In fact, when engaging with one another the subjects maintain a difference in status that emphasizes the distinction between tyrant and victim. This difference does not falter even when the subjects are depicted alone, whether in a wealthy abode or in a bare room, in a villa that was once inhabited by aristocrats or in a semi-rundown home; places that make old and new social hierarchies identifiable. By recreating the genesis of the cycle Black Paintings we may better understand the meaning and the poetics, but also the formal dynamics, which characterize the works of Nguyễn Thái Tuấn as a whole. The painting that launched this series, Black Painting No. 1, is a portrait of the artist’s elderly grandmother. This is the first work in which Nguyễn Thái Tuấn uses a photograph as a direct source. At the time the artist’s grandmother had completely lost her memory and by depicting her seated, barefoot and with her fingers intertwined over one knee, with her gaze lost in emptiness, in an austere environment, Nguyễn Thái Tuấn envisioned her as an empty body in clothing, or as a body bound by darkness. The light that illuminates the woman gives prominence to the darkness that surrounds her and at the same time, by accentuating the shadows, makes the whole bit spectral. We get the impression that we are standing before a person who has lost all points of reference, who lives in a world that is unfamiliar to her, a world that she no longer recognizes. As is always the case in the paintings of Nguyễn Thái Tuấn, the subject of the work is not what we recognize in the image, but rather what underlies it, what is behind it. The subject of this painting is the loss of collective memory as a result of propaganda; the inability to think and act that derives from it. Terms such as “history”, “knowledge”, “culture”, “information”, “science”, and “conscience” are synonyms of memory. Memory enlightens existence; in its absence our life is only darkness. Starting with this painting, darkness has become a constant in the poetics of Nguyễn Thái Tuấn, an obsession that is charged with existential, political and psychological implications, all concretely bound to daily life. Semidarkness that envelops a scene, a light focused on one detail, accentuated contrasts that emphasize shadows; these are all common features in many of Nguyễn Thái Tuấn’s paintings. These characteristics comply with the twofold need to charge the work with symbolic and metaphorical value as well as to compel the observer to lend his undivided attention. Our optical experience tells us that when we enter a dark room we initially see nothing. Yet, as the minutes pass, our eyes begin to slowly adapt to this condition, allowing us to first perceive differences in tone, and later silhouettes that are brought into focus just enough to allow our brain to reconstruct a comprehensive view of the room. Distinguishing an image in the absence of light compels us to pay attention to what we can just barely see—it compels us to concentrate. Something similar takes place when we find ourselves before the paintings of Nguyễn
Thái Tuấn. We immediately understand that a simple glance is not enough to comprehend them and we are compelled to consider them with great care. It is as if the artist wishes for us to recreate the painful experience of his grandmother as she attempts to trace the contours of memories lost. Subsequent to his grandmother’s portrait is Black Painting No. 02, a close-up of the face of the dissident Reverend Thadeus Nguyen Van Ly, partially covered by a hand that occludes his mouth. This is the first painting in which the artist uses a photograph of an event. The image is taken from a photograph shot by a journalist as it was projected on a screen in court during the priest’s trail in 2007, which concluded with an eight-year sentence. It is an image that was stolen and spread throughout the Internet in order to condemn the actual course of the trial, in contrast to the hearing phase that was pre-recorded, censored and edited in such a way as to broadcast on television only the charges and conviction. The still frame of the trial that circulated the web shows the condemned priest flanked by two men in uniform, while a third man in plain clothes, wearing a white shirt, stops him from speaking by covering his mouth with his hands. The events of Thadeus Nguyen Van Ly, a Vietnamese Catholic priest and member of a pro-democracy movement, were broadcasted in the Western world beginning in the year two thousand, thanks to Amnesty International. Declared a dissident from the early nineteen-seventies, Thadeus Nguyen Van Ly was arrested, tried and incarcerated multiple times due to his opposition to the Revolution and for threatening the unity of the people. The painting focuses on the priest’s face at the moment in which the security guard in plain clothes prevents him from declaring his dissent. In order to convey the dramatic nature of the moment, Nguyễn Thái Tuấn changes the colors of the image to black and white and accentuates the contrasts by placing a ray of light on the hand of the guard in plain clothes and on the eyes of the priest. As in his other paintings, the image is slightly out of focus, a technique used by Gerhard Richter in his paintings from 1962 to 1971. Nguyễn Thái Tuấn himself affirms that the way in which he makes reference to the socio-political events of his country has been influenced by Luc Tuymans, who in turn was influenced by Gerhard Richter. These are the artists who have taught him how to relate a human figure to social events and historical matters, and how to use normal objects or innocuous subjects in order to convey the heaviness of history. It was practically obligatory for him to acknowledge Richter’s paintings completed between 1962 and 1971. In these paintings, which are black and white or ochre-colored, Richter uses family photographs and clippings from books and newspapers related to recent German history. The images are shown on the canvas in a slightly blurry state, as if they were a mistake on 91
the photographer’s part. Richter himself asserted that creating a copy of a photograph amounts to attempting to capture something unexpected that is insinuated in the work independently from one’s own will. The blurriness eliminates excess information from the image, it dismisses the immediacy of its narration and it gives it a touch of absurdity. Moreover, by utilizing a photograph as a source the painting is freed from the idea of style and from compositional construction. In reference to paintings from that time period, which were associated with war, Richter himself pointed out that while a photograph provokes horror, the pictorial transposition of that same photograph brings out something that is more akin to pain. Let us return to the creation of the cycle, Black Paintings. The third work in the series portrays the Mausoleum of Ho Chi Minh buried in darkness. The subsequent painting, the first in which Nguyễn Thái Tuấn blackens the parts of the body that are not covered by clothes, portrays two elegant female garments. These are not empty garments, but rather garments worn by individuals bereft of identity. The subsequent works follow in the footsteps of these first four paintings, extending their subject matter to police beatings, arrests and trials, as well also to ordinary scenes of daily life. In the paintings from 2009 we also see the presence of airplanes, helicopters and American army tanks conquered by the Northern troops and preserved and exhibited in order to keep the memory of victory alive. In some paintings the army tanks, which are placed on a platform as if they were sculptures, illustrate the very nature of rhetorical devices used by the government in order to propagandistically exalt the War of liberation. The artist himself stresses that by displaying these war relics he wishes to rekindle pride and hate, sentiments that he responds to by enveloping his scenes in a gloomy atmosphere that transmits a sense of loss and pain that is renewed in the present. In Black Painting No. 100 we can discern, against a backdrop of darkness, six dark silhouettes of military men in uniform, armed with clubs, battering a man whose face, hands and feet are covered in black. Only the center of the scene is illuminated by light, giving prominence to the man on the ground. All the while, the reflection of light brings to the forefront the clubs that are grasped by the military men, as well as their elegant and shiny shoes. We find a summary of the entire series, Black Paintings, in painting No. 87, which portrays an individual from behind, whose head, hands and feet are blackened, while he observes a large commemorative sculpture in white marble of Le Duan, one of the founders of the Indochinese Communist Party and later the secretary for the Vietnamese Communist Party. A supporter of the unification of Vietnam, Le Duan is considered to be the leader who launched the attacks against the South in 1968, 1972 and 1975. The difference in scale between the statue and the man, the hieratic dimension of the leader’s simula92
crum and the metaphysical silence generated by the scene all suggest that the man is not in a state of curiosity, but rather, as he looks at the statue, he recognizes in it a subject that is to be idolized. The dark background that nullifies the surrounding environment ultimately indicates that, by filtering reality through an ideological lens, the man only sees what the artist wants him to see. The painting illustrates how, due to propagandistic manipulation, collective memory loss does not allow one to have a broad and lucid view of history. Acting as a counterpart to this painting is Black Painting No. 70, from 2008, which features a close-up of a woman who cries out her dissent against the government. Just as the absence of a face suggests the loss of memory—and with it the loss of identity—its presence denotes that only those who continue to question and to think without being indoctrinated will preserve their physiognomy. Subjects whose identities have been eliminated can also be found in the cycle, Heritage, begun in 2010, in which Nguyễn Thái Tuấn addresses the topic of the transferal of property to the “new purchasers”1 of historic and symbolic buildings, which, during the years of the French protectorate, served as the residences of the emperor and his family, of the Southern presidents and of the first ladies. Nguyễn Thái Tuấn depicts the luxurious exteriors and interiors of these buildings that were inhabited by communist rulers who had, de facto, taken over the position and the habits of the old aristocracy that was overthrown by revolutionary forces promising the abolition of social classes and equality of rights. Loaded with symbology, the scenes in these paintings are always immersed in an atmosphere that denotes existences marked by precarity, despite the luxury by which they are surrounded. It is unclear if the representation pertains to the past or to the present, it is unclear why the depicted subjects are in such a place and it is unclear what their social position may be; they could be the old owners or the new ones. We get the feeling that what is an apparent calmness could be disturbed from one moment to the next by new events. In one of these paintings, Interior 2, a woman with traditional clothing sits in an armchair while a man dressed as a communist ruler turns his back to her. It is unclear if they are a couple, if the woman is the owner and the man a guest or if he is the new owner and she simply represents a lost past. It is unclear if something terrible has happened or if it is about to take place. The impossibility to describe the scene with clarity is the strategy that permits Nguyễn Thái Tuấn to take away all certainty from those who have a univocal interpretation of history. In other paintings from the same cycle Nguyễn Thái Tuấn gives shape to what remains of Catholic churches, which have been reduced to ruins and are enveloped by darkness or by a fog that is reminiscent of the landscapes of Caspar Friedrich and William Turner, dotted with ruins. Nevertheless, beyond a few formal and linguistic similarities to Western art from the last century, the poetics
of Nguyễn Thái Tuấn is far from what characterized Romanticism. Unlike Romantic landscapes, his landscapes with ruins, dilapidated churches and luxurious or crumbling interiors are not intended to give form to the sublime, they are not intended to allure and at the same time unsettle, much less do they wish to showcase traces of a past that is idealized and regarded with misery and nostalgia. The ruins revealed to us by Nguyễn Thái Tuấn are still open wounds as they relate to the story of the Vietnam war, and thus to a past that cannot yet be considered with the detachment of an historian. After all, having witnessed bombardments, shootings and devastation as a child, the artist cannot be detached from the scenes that he depicts. Raised in a small village in the province of Quang Tri, not far from the frontier between the two parts of the country in discord, Nguyễn Thái Tuấn even experienced being a refugee with his family. The art of Nguyễn Thái Tuấn offers us lucid, raw and intense testimony, from which a profound sense of pain shines through, of those terrible moments undergone by the people of his village, as well as the repercussions that those moments still have for its people today. It could not be any other way: for Nguyễn Thái Tuấn to evoke the past means to entrust a constructive role to memory. His paintings are not intended to fuel sentiments of rancor or revenge, whose consequences would inevitably lead to new conflicts. This explains why in his paintings, just as in the aforementioned paintings by Richter, pain triumphs over horror. Among the distinctive settings depicted in this cycle are the dilapidated school and the partly destroyed church of Quang Tri, both near the artist’s native village, both destroyed in 1972 during an attack by the Northern army. Nguyễn Thái Tuấn has painted the church as it appears today, still in ruins as it is considered a relic of war that gives testimony to the heroic struggle for unification. Paradoxically, as is the case for the church of Quang Binh, the subject of another work, the structure is not propagandized as a testimony to the horror of war, but rather as a monument to the new course of Vietnamese history. Motivated by his intent to initiate a reflection on the contrasts between atheism and faith, communism and Catholicism, in 2012 Nguyễn Thái Tuấn depicted an elderly communist in uniform inside of the church of Quang Tri, in its ruined state. The man in the painting, with his head bent, is turned towards the part of the church where the main altar once stood. Though the church seems to have been cleaned of debris, Nguyễn Thái Tuấn intended to depict what is considered to be a sacred place, heavily stricken by bombardments, that still preserves traces of bloodshed. The painting is not meant to arouse religious sentiment; this is not the artist’s intention. However, it is undeniable that the spiritual dimension emerges through a symbology typical of Western religious art. As in the majority of these paintings, the scene is set in semi-darkness and the light, which is never homogeneous, converges
at an exact point in the composition. In this case the light creates a halo right where the main altar once rose. The wall behind the altar, towards which the elderly man is turned and where a cross most likely once stood, becomes, by way of the suffering endured during the bombardment, a window opened onto infinity. It is unclear if the man is there to remember the glorious achievements of the North Vietnamese army or for spiritual purposes. The ambiguity that is innate to the scene is intended by the artist to raise questions about the consequences of war, about the right to embrace a faith, about memory, about the memory of those who have perished, about the meaning of loss and about mourning that has yet to be experienced. Beyond the settings related to the artist’s childhood, in the paintings of the Heritage cycle we find places that are viewed from a present-day perspective. Among the subjects of this cycle is the last seat of the colonial government, the Emperor’s summer home in Da Lat, the city where Nguyễn Thái Tuấn resides today. And, once again, ruins of the Catholic churches of Nam Dinh, the seat of the diocese of the Roman Catholic Church of Bui Chu, which were abandoned between 1954 and 1955 by Catholics as they fled towards the South due to their fear of the communist troops that besieged Hanoi. In Nguyễn Thái Tuấn’s work the decay and destruction of religious buildings and of the residences of the old aristocracy create a redundancy effect regarding the theme of the loss of memory and identity, placing emphasis on the effect of the restriction of personal liberties on religious choices. From this perspective the destroyed churches and the well-kept Ho Chi Minh Mausoleum, the decadent rooms of the Prince’s Palace and the imponent, candid statue dedicated to Le Duan all respond, on the propagandistic level, to the same imperative of a power that decides what reference points are to be assumed by an individual. In these paintings the past lingers in the present, ultimately intermingling, with the objective of generating emotional engagement. Yet, what inspires feelings of empathy in us is not that which we recognize in the painting, but that which transcends the visible. In order to allow us to foresee what would become of us if we were to enter the spiral of physical and psychological violence that reverberates in his representations, Nguyễn Thái Tuấn relates his narrations to the historical and political identity of his country, all the while embracing the fundamental questions of European existentialism which, from Kierkegaard to Camus and Sartre, has inquired into the fragility of the human condition. As Sartre explained it, this fragility is manifest both in the free man and in he who endures the most asphyxiating repression. It goes without saying that the anguish portrayed by Nguyễn Thái Tuấn is not the same Sartrean anguish of the individual who finds himself dismayed as he is confronted with the infinite possibilities of choice, but rather it is that of he who cannot decide his own fate as he is subject to oppres93
sive suppressions and limitations. This difference is by no means insignificant: the problematic individuals we find in Sartre are marked by anguish because they are condemned to freedom, while the anonymous bodies that occupy the paintings of Nguyễn Thái Tuấn express anguish because their possibility to choose is deeply inhibited. Both parties struggle: the former struggle with themselves, the latter with a power that denies them the opportunity to express their very autonomy. In this case, Nguyễn Thái Tuấn fully expresses Kierkegaard’s sentiment that, while possibility may feel like a “thorn in the flesh”, the worst experience that man can endure is the total absence of possibility. One of the questions posed by the art of Nguyễn Thái Tuấn regards our capacity for self-determination. As we face these paintings we find ourselves wondering what art can do in order to defend man from the influences of history and from himself. How might an artist preserve his autonomy with respect to a hierarchically organized system? We are all aware that in history human behavior and the general laws that transcend it are intertwined. These laws of history, whose course is governed by a chosen few, determine what is to come. Sartre asserted that I can decide whether to go to war or to get drunk, but in fact I am not the one to determine that war should erupt. Nevertheless, says Sartre, the moment I accept to go to war, if I do not abandon or reject it, even to the point of resorting to suicide, this war will always be my war. If we accept this logic, do those who decide and those who are subjected to decisions share the same responsibilities? Prior to Sartre, at the end of the Second World War, Karl Jaspers had addressed the topic of guilt. Jaspers identified four different types of guilt: criminal, political, moral and metaphysical. Criminal guilt belongs to those who transgress the law; political guilt is that which derives from the actions of statesmen, though it also includes citizens insofar as they are subject to the authority of that state and insofar as they owe their existence as citizens to its policymaking; moral guilt arises from the actions man takes as an individual; metaphysical guilt derives from the lack of man’s solidarity towards others. According to Jaspers this last type of guilt—metaphysical guilt—makes us in some way jointly reliable for all of the injustices committed by others in the world.2 Every war, whatever its cause, always involves defeat for everyone. The aggressor is defeated just as much as he who is forced to grasp a weapon in order to defend himself. The question of guilt posed post-war by Western philosophers and artists finds its raison d’être in the attacks made by the German military on other European countries in order to annex them, in the criminal extermination of Jews, Gypsies and whomever else exhibited differences from the norms established by the Nazis. Yet, it would be reductive to have the question of guilt revolve around the history of Nazi Germany. 94
As testified by the art of Nguyễn Thái Tuấn, this topic indiscriminately concerns all wars, wherever they may have been fought, whatever the motivation that may have generated them. The position of Western philosophers and artists on this matter helps us understand why the absence of a face that nullifies the identity of the individuals depicted by Nguyễn Thái Tuấn raises questions about the criminal, political, moral and metaphysical guilt of each of us. In his paintings the theme of guilt is intertwined with that of the loss of human values as a result of political power, which transforms the subjects into robots devoid of a past. It is only once individual and collective memory have been retrieved that guilt can be determined, and the future regarded with new eyes. In raising questions about the importance that memory takes on in defining a view of the world, Nguyễn Thái Tuấn shows us that the future of a population can only be conceived and planned based on the memory of past events. With this premise in mind, in 2010 he completed two small works that were to be displayed together, one on top of the other, depicting two different types of footwear used during the years of the civil war. The top painting depicts a pair of worn-out rubber sandals made from tires, used by Northern soldiers. The bottom painting depicts a broken shoe, a helmet and a piece of a belt used by Southern soldiers. The artist was inspired to paint this diptych after a visit to the Khe Sanh museum, in Quang Tri, one of the many museums of the Revolution built in Vietnam in order to keep alive the memory of the glorious achievements of an army that, in just a few months, was able to obtain a great victory over a much more powerful army. In the case of the shoes of the Southern soldiers, the artist referred to the detail of a photograph that he himself took, while for of the shoes of the Northern soldiers he used as his model a photograph found on the Internet of a pair of sandals placed on red velvet and enclosed in a glass case, as we would expect to find a relic. These different forms of footwear symbolize the North and the South of Vietnam before 1975, soldiers belonging to different orders that were in opposition for twenty years, those who won and those who lost. The red that serves as the background for the shoes of the Northern soldiers is the color of victory, while the black that serves as the background for the shoes of the Southern soldiers is that of defeat. In Nguyễn Thái Tuấn’s narration these very colors go as far as evoking blood, death and all that was lost. The numerous representations of shoes that have been realized by different artists, including Van Gogh and Andy Warhol, reveal that shoes are the most suited part of one’s wardrobe to express poverty or wealth. We mustn’t forget that so-called fashion victims are particularly attracted to shoes and, as attested by Warhol’s work, they count on their shoes to mark their status. The shoes painted by Nguyễn Thái Tuấn evoke the existential condition of those who find
in objects from the past the expression of a propagandistic rhetoric that, by contrast, brings out many unkept promises. More than the portrayal of an heroic period, these shoes are the expression of the human and existential defeat of all. While observing the photographs shot by Nguyễn Thái Tuấn himself at the Khe Sanh museum of the revolution, in Quang Tri, one cannot help but identify with a reflection expressed by Jacqueline Lichtenstein after having visited the museum at Auschwitz. In the showcases containing suitcases, prosthetics and toys belonging to the Jews and Gypsies who were deported by the Nazis the French philosopher and art historian identified an expressive typology that is typical of contemporary art, though in this case she found it to be “absolutely terrifying”. “I didn’t feel frightened,” she declared, “I didn’t collapse. I wasn’t completely overcome the way I had been walking around the camp. No. In the Museum, I suddenly had the impression I was in a museum of contemporary art. I took the train back, telling myself that they had won! They had won since they’d produced forms of perception that are all of a piece with the mode of destruction they made their own.”3 In analyzing these words Paul Virilio asks himself if the Nazi terror that was defeated in war was not, in the end, victorious in the age of peace.4 Undeniably, faced with the shoes painted by Nguyễn Thái Tuấn, we ask ourselves if the pain that accompanies every conflict is depleted with the end of war.
An expression used by the artist. Karl Jaspers, Die Schuldfrage, 2001, Engl. trans. The Question of German Guilt, Fordham University Press, New York, pp. 65-67. 3 Jacqueline Lichtenstein, Conversation with François Rouan, in Paul Virilio, La procédure Silence, 2000, Engl. trans. Art and Fear, Continuum, London, New York, 2004, pp. 27-28. Author’s italic emphasis. 4 Ibid
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Nguyễn Thái Tuấn p. 32 Darkness always contains both mysteries and risks. It draws us into itself so that we can find out hidden truths. At the same time, however, it always brings about anxieties, uneasiness... Nguyễn Thái Tuấn
Annette Van den Bosch p. 44 Nguyễn Thái Tuấn’s Black Paintings are portraits in which the human person is absent. The face which tells us about a person’s individuality and humanity is blank. The face is blacked out as if their individuality is censored or repressed. In this portrait series people are depicted as types. All that we know about them is their role, they are men or women of Vietnam, they are Buddhist monks or prisoners, they are gaudy brides of foreigners, or they are an old person who has lost their memory. The Black Paintings of Nguyễn Thái Tuấn challenge conventional imagery of identity and memory as transparent, by the erasure of the personae, the figures are reduced to puppets or ghosts, mindless actors in a theatrical charade of roles acceptable to the state. Annette Van den Bosch
Extract from Annette Van den Bosch, Signs of Grief, Memory of Violence and the Suppression of Freedom of Expression in the Work of three Vietnamese Artists, 17th Asian Studies Association of Australia Conference, Is This the Asian Century?, Monash Asia Institute, Melbourne, 2008.
Pamela Nguyen Corey p. 68 The melancholy density of Nguyễn Thái Tuấn’s paintings is produced by the very absence of their protagonists’ corporeality. As such, our perception of this disjuncture is situated uneasily. We see the garbed figures, we see the nuances of their body language, we sense the weight of their presence within the composition. But our recognition of their being there but not being there provokes us to wonder when the moment of disappearance occurred. When was the moment of transition, of this vanishing? When was the substance of their being obscured into darkness? There is something of the abject in this artistic refusal. It presents itself not only in the denial of the body, but also through the carefully depicted settings through which these figures glean their signification. Tuấn’s color palette mutes and dims selected interiors or landscapes to signal an ominous foreshadowing, but the very invisibility of the body gestures towards its retreat into oblivion. Pamela Nguyen Corey
Extract from Pamela Nguyen Corey, Nguyen Thai Tuan’s Abject Frames, in: Choregraphies Suspendues, Carré d’Art-contemporain de Nîmes, Nîmes, February-April 2014, pp. 71 95
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NGUYỄN THÁI TUẤN
1965 1987
Born in Quang Tri, Vietnam Graduated from Hue Fine Arts College Lives and works in Da Lat, Vietnam
SOLO EXHIBITION 2014 2011 2008
“Heritage”, Primo Marella Gallery, Milan, Italy “Fullness of Absence”, Sàn Art, Ho Chi Minh City, Vietnam “Black Painting”, Sàn Art, Ho Chi Minh City, Vietnam “Black Painting”, New Discovery, Shanghai Art Fair, China
SELECTED GROUP EXHIBITION 2014 “Choregraphies Suspendues”, Carre d’Art, Nimes, France 2012 “7th Asia-Pacific Triennial of Contemporary Art”, Queensland Gallery of Modern Art, Brisbane, Australia “Deep S.E.A”, Primo Marella Gallery, Milan, Italy “Four Rising Talents from South East Asia”, 10 Chancery Lane Gallery, Hong Kong 2011 “1,2,3,4,5,6,7,8”, Bui Gallery, Hanoi, Vietnam 2010 “Within Emptiness”, 10 Chancery Lane Gallery, Hong Kong 2009 “Time Ligaments”, 10 Chancery Lane Gallery, (co-organized by Sàn Art, Vietnam), Hong Kong 2007 “Voices of Minorities”, Chrissie Cotter Gallery, Sydney, Australia 2005 “New Figuration in Vietnamese Painting and Sculpture“, Faculty Gallery, Monash University, Melbourne, Australia “Convergence 2005”, Workshop and Exhibition with International and Local Artists, Fine Arts Museum, Ho Chi Minh City, Vietnam 2002 “Introspections of the Soul“, Gallery Viet Nam, New York, USA, and Blue Space Gallery, Ho Chi Minh City, Vietnam 2001 “Liquid“, Workshop and Exhibition with International and Local Artists, Blue Space Gallery, Ho Chi Minh City, Vietnam 1998 “Meeting Point“, Workshop and Exhibition with Thai and Local Artists, Fine Arts Museum, Ho Chi Minh City and University of Fine Arts, Ha Noi, Vietnam 1995 “National Fine Arts Exhibition”, Exhibition House, Ha Noi, Vietnam 1990 “National Fine Arts Exhibition”, Exhibition House, Ha Noi, Vietnam “Two Artists”, Exhibition House, Da Lat, Vietnam
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Nguyễn Thái Tuấn and Primo Marella, Da Lat, Vietnam, July 2014.
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NGUYỄN THÁI TUẤN Black Painting & Heritage © 2014 The artist for the artworks © Gli autori per i loro testi / The authors for their texts © Primo Marella Gallery, Milano © photos by NTTN © critical essay: Demetrio Paparoni Translation: Natalia Iacobelli Ginevra Paparoni Đỗ Tư Nghĩa Design and layout: Elisa Tumminello Copy editor: Vincenzo Gangone Pre-press: Digital Project Primo Marella Gallery Milan: Livia Facchetti Elena Micheletti Elisa Tumminello Vincenzo Gangone Ruggero Ruggieri Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore No part of this book may be reproduced or utilized in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or any information storage and retrieval system, without permission in writing from the publisher. All rights reserved under international copyright conventions. Printed in December 2014, Milan, Italy ISBN 978-88-940601-0-2
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