Liceo classico “A. Oriani” - Corato
LABORATORIO didattico I.R.C. prof. Antonio de Palma
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Dalla
Globalizzazione al Pluralismo religioso Obiettivo del laboratorio mettere in luce le interconnessioni tra fenomeni spesso analizzati separatamente, ma che insieme producono alcune delle più significative trasformazioni in atto nel paesaggio sociale e culturale dell’occidente. I fenomeni presi in esame sono • • • •
GLOBALIZZAZIONE, delle MIGRAZIONI, e, in particolare, della CONVIVENZA MULTICULTURALE CULTURALE e del conseguente PLURALISMO religioso nella nostra società. quelli della
1. LA GLOBALIZZAZIONE CHE COSA È La parola “globalizzazione” è entrata nel vocabolario quotidiano negli ultimi trent’anni, ma l’”idea” circolava già tra alcuni intellettuali dell’Ottocento e di inizio Novecento. • È un grande mercato senza frontiere nel quale vengono confezionati e distribuiti beni materiali, soldi, ma anche mode e stili di vita e messi in circolazione su scala mondiale “in tempo reale”. • I registi della circolazione mondiale dei prodotti sono gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa. • Gli operatori esecutivi sono le multinazionali industriali, alimentari, farmaceutiche, le banche, le aziende della new economy che, con il loro fatturato, superano sovente il Prodotto Interno Lordo (PIL) degli Stati stessi. Ma anche le società finanziarie, il G8, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione mondiale per il Commercio (WTO), Organizzazione per lo sviluppo Economico (OCSE). • L’espansione di questa “rete” a livello planetario è avvenuta sotto la spinta del progresso delle tecnologie, dei mezzi di comunicazione, di produzione e di trasporto: essi hanno azzerato le distanze, ridotto i costi di produzione, favorito lo scambio dei progetti, degli ordini, delle transazioni bancarie e delle merci; e con il contributo dell’inglese come lingua franca.
TANTE GLOBALIZZAZIONI
LA GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA è la più diffusa e visibile. Ma anche la più antica. Riguarda il movimento di persone, merci, mezzi di trasporto tra terre diverse. • Fu avviata al tempo dei Fenici, Cartaginesi e Greci ed ebbe un’impennata decisa nella seconda metà del 1200; • venne potenziata con le imprese dei grandi esploratori del 1440-1600 ( Vasco de Gama, Magellano, Marco Polo, Cristoforo Colombo …). • si estese su larga scala nella seconda metà del 1800 tra il nord Europa e il Nuovo Mondo (USA, Canada, Argentina, Brasile, Australia); • si è universalizzata con la colonizzazione ed europeizzazione della Terra (1942), con il passaggio dalla civiltà agricola quella industriale, e con la costituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO); • si è consolidata all’indomani della caduta del muro di Berlino (1989) e del blocco sovietico; dal bipolarismo USA-URSS si è passati alla triade: USA – Giappone – Europa
I VANTAGGI: • ha favorito il miracolo economico in alcuni Paesi dell’Asia Orientale e dell’America dei primi anni ’90, • la povertà è diminuita a livello mondiale più negli ultimi 50 anni che durante gli ultimi 500, • le condizioni di vita negli decenni sono migliorate in qualità in quasi tutte le regioni del mondo (rapporto ONU 1997) La Corea del sud è diventata membro dell’OCSE, un tempo club privato dei soli Paesi occidentali, • stimola il progresso tecnologico e la conoscenza tra i colossi industriali, • assicura maggiori risparmi e guadagni per le aziende, • facilita il movimento dei capitali tra “piazze finanziarie” anche molto distanti fra loro.
I PERICOLI: • è un meccanismo fragile. Le previsioni ottimistiche dei primi tempi che parlavano della distribuzione della ricchezza generale non si sono avverate: lo conferma la crisi di fine secolo (Russi, America Latina, Asia, Africa); • è cresciuto il divario tra le economie dei Paesi ricchi e quelle dei poveri (rapporto ONU 1999); • favorisce gli interessi delle multinazionali e la speculazione finanziaria, soffocando le piccole e medi industrie; • è una forma di neo-colonialismo o imperialismo; • la concentrazione dell’economia in poche mani limitala concorrenza con probabile diminuzione della qualità dei prodotti; • lo spostamento delle fabbriche nei Paesi in via di sviluppo sovente si traduce in sfruttamento selvaggio delle loro risorse senza un miglioramento della loro vita, anzi espandendo il lavoro nero e lo sfruttamento minorile; • la crisi economica di uno Stato può coinvolgere con “effetto domino” tutti gli Stati collegati; • i sindacati vedono limitato il loro potere contrattuale;
• i costi più ridotti fanno crescere i consumi nei Paesi del Nord e in quelli in cui potenziare il consumismo (Europa Est, Asia, Cina, America Latina), con conseguente aggravamento dell’inquinamento e dell’effetto serra; • nei Paesi del Sud in cui vengono impiantate le fabbriche occidentali si allarga il lavoro e lo sfruttamento minorile (cf. palloni, scarpe e tappeti fatti dai bambini); • cresce la micro - delinquenza minorile quella “ufficiale” delle mafie internazionali (Yakutza giapponese, Cartelli colombiani, Mafia cinese e russa…) con traffico di narcotici, commercializzazione di imitazioni di marchi famosi, trasporto di immigrati clandestini, turismo sessuale, diffusione di materiale pornografico, vendita di organi, riciclaggio di denaro, subappalto delle commesse delle multinazionali (giocattoli, palloni, tappeti, scarpe …); • molti Paesi del Sud impoveriscono sempre di più e vengono esclusi dal giro (è il caso dell’Africa) perché non possono produrre beni a minor costo (come avviene con gli asiatici), e non sono buoni consumatori perché non hanno i soldi per comperare; • le risorse e le materie prime della Terra sono diventate bene privato in mano al capitalismo selvaggio.
I “NO GLOBAL” Nemico numero uno della globalizzazione è la variopinta galassia del popolo di Seattle, ribattezzato recentemente no global. È un insieme di gruppi, movimenti, associazioni, centri sociali, congregazioni missionarie che contestano in maniera pacifica o violenta i summit dei capi di Stato e dei responsabili dell’economia mondiale. • La prima “uscita” di forte contestazione è stata inscenata a Seattle (1999) durante il Milennium round dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. • Altra spettacolare esibizione degli antiglobalizzatori si è ripetuta durante il G8 a Genova (luglio 2001), caratterizzato da scontri violenti (in cui è morto il giovane Giuliani), centinaia di feriti, arresti e danni per decine di miliardi, provocati dall’ala estremista dei black blok (blocco nero). Protagonisti di queste manifestazioni di piazza sono: • il cellulare, ideale per comunicare la strategia migliore a seconda della situazione; • internet, ottimo per mettere in contatto Paesi e continenti. diversi, creare mentatlità e programmi strategici, mobilitare le masse. Proprio alla rete si ispirano i vari protagonisti: Rete di Lilliput e Rete Contro G8. N.B. Piccolo controsenso: i no-global utilizzano alla perfezione dei mezzi tipici della globalizzazione che vogliono contestare (telefonino e internet). Gli interessati replicano che la loro ribellione non è controlla tecnologia ma i suoi risvolti economici. PER CAPIRE MEGLIO
I “PORTAVOCE” DEL NO GLOBAL Sono entrati in scena, in questi ultimi tempi, personaggi-portavoce dei gruppi antiglobalizzatori: • In Italia: Vittorio Agnoletto, Franco Gesualdi e Luca Casarini • In Francia: José Bovè • Papa Giovanni Paolo II ha più volte criticato la globalizzazione selvaggia e messo in guardia contro i pericoli del capitalismo. Altrettanto fanno diverse associazioni cristiane. • Il libro cult: No logo di Noemi Klein. Da leggere con spirito critico ponendo attenzione alle ipocrisie e contraddizioni del movimento. • Slogan no-global: A Genova 2001: “Un altro mondo è possibile”; a Porto Alegre, Brasile (sede del Forum sociale dal 31 gennaio-5 febbraio 2002, in opposizione al summit dei Grandi a New York): “Un altro mondo è in costruzione”. • Il cantante: Manu Chao
2. La CULTURA DEL CONSUMO in occidente L'evoluzione tecnologica delle telecomunicazioni, l'espansione della tv via satellite e della rete telematica hanno accelerato il processo di globalizzazione culturale, ovvero la diffusione e uniformazione su scala mondiale dei modi di comportamento e di pensiero delle persone. Si tratta della cultura internazionale del consumo, basata sull'attrazione per i prodotti di massa - abbigliamento, elettrodomestici, cellulari - e per il mondo dello spettacolo e dello sport, condivisa ormai da miliardi di uomini, donne e giovani sulla Terra. Le opinioni, i gusti, i programmi televisivi, gli sport, i film, le star dello spettacolo tipici della civiltà occidentale sono, infatti, veicolati in tutti e cinque i continenti tramite i grandi mass-media tv, cinema, videocassette, dvd, videogiochi, internet, pubblicità -, controllati dalle grandi multinazionali della comunicazione audiovisiva. ► Nel 1983 negli Usa 50 grandi compagnie controllavano il 90% di stampa, cinema, tv e radio. Oggi sono solo 5 i giganti (majors) del settore dei media: Time-Warner, Viacom, Walt Disney, New Corporation - di Murdoch, proprietario di Sky in Italia - e Bertelsmann (Germania) controllano la quasi totalità del mercato dei media statunitense e la maggioranza del mercato mondiale. Una decina di società multinazionali producono oggi il 90% dei programmi tv, dei film, dei cartoni animati e dispongono delle principali stazioni televisive, delle maggiori catene di giornali, delle più importanti case discografiche e cinematografiche. Per il resto l'India è il maggiore produttore mondiale di film (1000 all'anno), che vengono girati a Bombay, ribattezzata Hollywood. Si tratta però di uno specifico genere cinematografico indù, caratterizzato da storie d'amore accompagnate da canzoni e musica indiane, distribuito oltre che in India solo nel Sudest asiatico. Numerosi film e programmi televisivi vengono prodotti anche in Cina, paesi arabi del Golfo Persico e Brasile, ma la loro commercializzazione interessa pochi paesi. Il cinema europeo, fino agli anni settanta piuttosto florido e sviluppato anche in Italia, negli ultimi anni si è trovato sempre più in difficoltà. ► Il processo di globalizzazione culturale coinvolge pressoché tutta la popolazione nei paesi occidentali, in Giappone e in Australia, mentre in quelli economicamente più arretrati interessa soprattutto le classi sociali a reddito medio-alto, che hanno accesso ai mass media principali (tv satellite, videoregistratore, internet). Restano per ora escluse le moltitudini di persone che nei paesi in via di sviluppo vivono con meno di 2 € al giorno. L'uniformazione delle idee e de comportamenti coinvolge quindi le classi medie di tutti i paesi del mondo - da Milano a Mumbai a Buenos Aires -, che cercano di imitare lo stile di vita proposto dai grandi mass media internazionali e lanciarsi nell'acquisto dei prodotti d consumo maggiormente in voga (abiti firmati cellulari, auto potenti, sigarette americane, ali menti francesi o italiani). Tuttavia il trionfo del le forme di consumo occidentali viene spesso ri elaborato e modificato a livello locale dall'in flusso delle diverse culture locali. ► Il processo di diffusione della cultura internazionale del consumo cominciò nell'Ottocento quando la Gran Bretagna era la maggiore potenza economica mondiale. Fu allora che iniziò 1; diffusione globale degli sport europei, soprattutto del calcio, destinato a diventare il più importante del globo. Molto popolare in Gran Bretagna, ebbe regole codificate dal 1845 e squadri di professionisti a partire dal 1870, diffondendo si ben presto in Europa e in tutto il mondo. A Buenos Aires il primo club di football fu fondato da gli inglesi nel 1867: entro la fine del secolo leghe nazionali di squadre di calcio operavano anche in Cile, Brasile e Uruguay. ► In Italia le prime squadre di football nacque ro con l'apporto di cittadini britannici (Genoa Milan, Inter). Già all'inizio del Novecento la Coppa del Mondo di calcio era divenuta l'eventi sportivo più seguito a livello mondiale. ► Il decollo dell'industria cinematografica dall'affermazione, negli anni della Prima guerra, mondiale, di Hollywood (Los Angeles) come maggiore centro di produzione mondiale del cinema rappresentò un'altra tappa nella globalizzazione culturale. Le majors statunitensi realizzano film in grado di richiamare un pubblico di ma; sa e per decenni influenzarono l'immaginario internazionale della bellezza e dei buoni sent: menti. Sempre gli Usa furono l'epicentro dello sviluppo di altri prodotti mediatici molto pope lari come i cartoni animati, i fumetti e soprattutto la televisione. In pochi decenni i prodotti de: l'industria dei media statunitense invasero buona parte del globo e nel 1970 costituivano dopi gli aeroplani la seconda voce delle esportazioni statunitensi. ► Negli anni sessanta nacquero le prime catene internazionali di fast food: era l'inizio della globalizzazione dello stile alimentare statunitense A McDonald's, prima catena in assoluto ad acquisire notorietà internazionale, se ne sono affiancate altre basate su varie tradizioni alimentari dalla pizza, al kebab turco, al take away cinese.
La globalizzazione in tv: il
format
Il format è un progetto o modello di programma televisivo I (quiz, talk show, telefilm, reality show] che viene ideato da stazioni tv o da società specializzate e che poi viene venduto a diverse emittenti tv in tutto il mondo. Esso definisce non solo il genere e i contenuti del programma, ma anche le caratteristiche fisiche del conduttore o conduttrice, degli attori, la fascia oraria in cui sarà trasmesso, la scenografia dello studio televisivo, i costumi ecc. Accade quindi che reti televisive situate in paesi assai distanti tra loro per posizione geografica, lingua, cultura trasmettano, per esempio, lo stesso quiz presentato da conduttori che, pur parlando lingue diverse, si assomigliano tutti tra loro, come fossero dei cloni umani. Il format tv è quindi come la Coca Cola o l'hamburger dei fast food, la ricetta è sempre la stessa: in Italia, come a Taiwan o in Australia. I singoli paesi vi contribuiscono solo con ingredienti locali: i concorrenti, i presentatori, gli attori ecc. Sono format televisivi alcuni dei programmi di maggiore successo degli ultimi anni, come il quiz Chi vuole essere milionario? o il reality show // grande fratello. Per rendersi conto di questo fenomeno è sufficiente fare zapping sui canali satellitari europei e sarà sorprendente vedere come, per esempio, nella stessa fascia oraria serale, lo stesso programma con la stessa scenografia e con gli stessi personaggi venga trasmesso contemporaneamente in diverse lingue. Un po' più complesso è invece il caso delle fiction, telefilm o telenovela a puntate. Le società di produzione dei format si limitano a ideare e proporre le principali caratteristiche psicologiche dei personaggi e le linee portanti della trama; una volta «venduti» questi pochi elementi, è compito degli sceneggiatori delle diverse TV locali sviluppare le singole puntate adattandole alla cultura e alla mentalità dei vari paesi. La nota fiction Un posto al sole ambientata a Napoli è, per esempio, un format australiano che è stato esportato con successo in 25 paesi.
La globalizzazione della cultura giovanile Il processo di globalizzazione culturale è in fase I avanzata nel mondo dei teenager, più influenzabili rispetto agli adulti, maggiormente disposti ad accogliere i messaggi dei mass media internazionali, anche perché conoscono l'inglese e sono meno legati alle proprie tradizioni culturali. Negli ultimi decenni le grandi case discografiche della musica pop, le tv musicali, i maghi della pubblicità, i colossi dell'informatica e dei giochi elettronici hanno abilmente costruito una cultura giovanile globale intessuta di brani musicali, film, divi dello spettacolo, videoclip, mode - abiti, tatuaggi, orecchini -, programmi informatici e videogiochi pressoché identici in tutto il globo. Si tratta di una cultura assai scintillante, a prima vista alternativa e trasgressiva nei confronti del mondo degli adulti. L'intero sistema di comunicazione - trasmissioni tv, videoclip, concerti, film, dvd -della cultura giovanile globale è sostenuto dagli ingenti investimenti pubblicitari di grandi multinazionali dell'abbigliamento, dell'alimentazione e dell'elettronica - Nike, Coca Cola, Heineken, Sony, Benetton -, che hanno trasformato i prodotti pubblicizzati - scarpe da jogging, cellulari, jeans, t-shirt, walkman, lettori musicali mp3 - in altrettanti oggetti di culto, sognati e acquistati in tutto il mondo dai giovani che possono permetterselo. La globalizzazione culturale giovanile interessa infatti i giovani dei 5 continenti appartenenti alle classi a reddito medio, che frequentano le scuole superiori e conoscono anche in modo approssimato l'inglese, la lingua privilegiata dalla cultura giovanile mondiale. Come scrive il "Washington Post": «Quando inizia un qualunque giorno di scuola, in tutto il mondo comincia la tipica giornata degli adolescenti della classe media. Il teenager statunitense si infila i suoi jeans e la cilena rovista nei suoi cassetti cercando la t-shirt giusta. La taiwanese si allaccia le scarpe da ginnastica, mentre l'italiano si butta sulle spalle lo zainetto carico di libri». Da un sondaggio di una società di New York, che ha intervistato 25 000 teenager delle classi medie di tutto il mondo, emerge che i giovani dei 5 continenti appaiono più simili che diversi tra loro. Sono modellati dai film occidentali, dalla musica pop, dalla pubblicità, da un'istruzione elevata: condividono gli stessi gusti e gli stessi valori, come il successo economico, l'inquietudine per il futuro, l'attaccamento alla famiglia, il desiderio di amore, l'ostilità alle guerre e agli atti di terrorismo.
3. LE MULTINAZIONALI CHE COSA SONO Le multinazionali (in inglese holdings) holdings sono delle imprese di produzione con: • un enorme giro d’affari (il loro fatturato supera sovente quelli degli Stati che le ospitano); • processi produttivi, commerciali e finanziari presenti in uno Stato e dislocati in più nazioni, soprattutto nel Sud del mondo. In questi Paesi trovano enormi vantaggi economici (materie, terreni e mano d’opera a basso o costo, esenzioni fiscali e acquisto di terreni ed energia a condizioni di favore…). Le multinazionali sono state “inventate” negli USA (anni ’50) per contrastare l’espansione sovietica con una presenza americana in Europa.
LA CLASSIFICA ATTUALMENTE LE MULTINAZIONALI: • Sono 40 mila e controllano i due terzi del traffico commerciale mondiale. Dietro il nome di una comune acqua minerale o di una marca di caffè si nascondono i grandi nomi (Nestlé, Unilever, Philip Morris…). • Le prime 100 multinazionali sono no concentrate: 26 negli USA, 17 in Giappone, 12 in Francia e Germania, 10 nel Regno Unito, 5 in Olanda, 4 in Italia, Svezia, Svizzera, 3 in Australia e Canada, 1 in Finlandia, Spagna e Venezuela. • Tra le prime 200 multinazionali al mondo ci sono le italiane itali FIAT, ENI, ASSICURAZIONI GENERALI, TELECOM.
TANTE MULTINAZIONALI
A. I PRINCIPALI SETTORI COMMERCIALI sotto il controllo delle multinazionali riguardano:
• l’informatica/telecomunicazione: l’informatica/telecomunicazione è il più grande business degli anni 2000. L’informazione che ha collegato il mondo come un immenso villaggio globale, è controllato da società che possiedono i Mass Media e “pilotano” anche le notizie. • le medicine: alcune case farmaceutiche detengono il monopolio dei farmaci. • gli armamenti: la caduta dei regimi comunisti e le guerre in corso hanno potenziato la circolazione di armi. Le aziende coinvolte si presentano come qualsiasi S.p.A. e offrono servizi dietro pagamento (computer, laser, soldati…). La società anglo-sudafricana sudafricana Executives Outcomes,, ufficialmente disciolta nel 1999, mette a disposizione 2.000 soldati (mercenari) dietro favoritismi e concessioni sospette. • gli alimenti: diverse industrie producono all’estero latte, frutta, verdura, caffè… per poi rivenderli maggiorati nel prezzo. Sotto accusa i metodi con cui vengono allevati gli animali, l’uso di pesticidi e di organismi geneticamente modificati). • il tabacco: tabacco è uno dei problemi più “inquisiti”. Le ditte produttrici, le “sei streghe”, sono potentissime lobby, costrette a pagare somme astronomiche per i danni provocati dal fume attivo e passivo. • le banche: le prime 10 fatturano quanto un terzo del PIL del mondo mond intero. Inoltre sono coinvolte nell’esportazione delle armi. • traffici illegali: il denaro “sporco” “rende” in proporzione molto più del commercio legale in mano alla criminalità e alle mafie: (droghe, rifiuti tossici, turismo sessuale, appalti, criminalità…). crimina • prodotti vari: alcune holdings occidentali hanno il monopolio dei prodotti a largo consumo: computer, bevande, benzine… Molti di questi prodotti inquinano i Paesi che li fabbricano.
B. PROBLEMI E LIMITI • Il popolo degli anti-multinazionali ha preso di mira McDonald’s, Nestlé, Nike, Philip Morris… Ne svelano i traffici poco chiari e i disastri ecologici ed etnici compiuti con il benestare dei governi locali. • La presenza di una grande azienda, dovrebbe garantire lo sviluppo economico e sociale al Paese ospitante. In concreto non è sempre così. Lo documentano i casi di sfruttamento selvaggio dell’ambiente, l’abbattimento “guidato” dei prezzi delle materie prime. • Inoltre, il ricavato della vendita di un determinato prodotto (benzina ad es.) finisce per finanziare dittature spietate; il 60% dell’eroina foraggia le proprie spese militari e distrugge le ultime riserve del pregiato legno tek. (fonte: “Extra terrestre, nuova scienza nuova coscienza”, 10 marzo 2000).
ALCUNI CASI • Negli anni ’70, in alcuni Paesi dell’America Latina si sono affermate le cosiddette dittature delle banane, sotto il governo dei militari. In Salvador, Honduras, Guatemala, il potere locale terrorizzava la popolazione e distruggeva l’ambiente per tutelare gli interessi delle compagnie americane. • La anglo-olandese, uno dei più rilevanti gruppi petroliferi del mondo, possiede pozzi di petrolio in Nigeria che hanno inquinato i fiumi e portato malattie ai pescatori. Le rivolte della popolazione sono state soffocate nel sangue dal governo. • La notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984 è esplosa la fabbrica americana di pesticidi a Bhopal (India) e ha disperso nell’aria gas tossici che hanno ucciso da 16 a 30 mila persone e ferite altre 500 mila (cf. Dominique Lapiere e Javier Moro, Mezzanotte e cinque a Bhopal, Mondadori). • Strani “matrimoni” in corso: la Ciba-geigy, dei farmaci, si è unita con la Sandoz, la più grande azienda di pesticidi del mondo.
C. IN CONTROTENDENZA Alcune campagna contro le multinazionali hanno fruttato bene: • la Chiquita, accusata di sfruttamento delle popolazioni del Centroamerica, nel settembre 2001 ha stilato un documento per la tutela del salario e della vita dei lavoratori delle aziende e dell’ambiente; • la Del Monte ha licenziato il direttore delle piantagioni in Kenya e si è impegnata a regolarizzare le assunzioni, a innalzare i salari, a salvaguardare la salute dei dipendenti; • la Nike ha portato da 14 a 18 anni l’età minima dei fabbricanti di scarpe e a 16 quella degli addetti all’abbigliamento .
PER CAPIRE MEGLIO CITAZIONI • “Credi che siano i governi a governare il controllo del mondo? Adesso si canta “Dio salvi le multinazionali”, lo sai?” (Da: John Le Carrè, Il giardiniere tenace, Mondadori). • “Le imprese multinazionali […] possono applicare strategie autonome in gran parte indipendenti dai poteri politici nazionali, e perciò senza controllo, dal punto di vista del bene comune. Estendendo la loro attività questi organismi privati possono condurre una nuova forma abusiva di dominio economico, sul piano sociale, culturale e anche politico”. (Papa Paolo VI, enciclica Octogesima adveniens).
4. IL DEBITO INTERNAZIONALE
CHE COS’È È la somma di denaro (con interessi) che i Paesi del Sud del mondo devono restituire ai governi, al Fondo Monetario Internazionale, alla Borsa Mondiale e agli Istituti di Credito. • La cifra complessiva da restituire è sui 2.300 miliardi di dollari. • Il debito internazionale (DI) è un sistema-capestro che imbottiglia i debitori in una specie d’usura legalizzata. Per azzerare il deficit contratto ad avere nuovi prestiti, essi devono destinare ogni anno fino a 40% del loro bilanciio al pagamento del debito, peggiorando la già precaria situazione generale con: • enormi talgi alle spese per salute, istruzione, trasporti…; • crollo fino al 90% dei salari; • impennata dei prezzi; • aumento di oltre il 50% della disoccupazione; • incremento della mortalità infantile (ogni anno muoiono 500.000 bambini in più dell’anno precedente). • I principali Paesiche che rientrano nella “lista nera” dei debiti sono: Angola, Burkina Faso, Bolivia, Burundi, Camerun, Ciad, Congo-Zaire, Costa d’Avorio, Etiopia, Guinea Bissau, Mali, Mozambico, Nicaragua, Sierra Leone, Tanzania, Sao Tomé e Principe, Yemen, Sudan Somalia, Malawi, Niger, Nigeria, Ruanda.
UN PO’ DI STORIA • 1973-’74: scoppia la prima crisi energetica e inizia il fenomeno del DI. L’OPEC (Paesi produttori di petrolio) aumenta del 400% il prezzo del greggio e riversa un fiume di “petroldollari” nelle banche europee. I Paesi in via di sviluppo (PVS) trovano poco costoso indebitarsi a motivo dei tassi di interesse bassissimi. Alla scadenza della restituzione, però, gli interessi lievitano da un anno all’altro di oltre il 20%, per cui molti Paesi non riescono a saldarli con il loro PIL (Prodotto Interno Lordo) innescando la spirale dell’indebitamento; • 1978: James Tobin, premio Nobel per l’economia 1981, propone di “gettare un po’ di sabbia negli ingranaggi dei nostri troppo efficienti mercati internazionali” attraverso una tassa sulle conversioni di una valuta in un’altra. Questa imposta, detta Tobin Tax, tende a diminuire la convenienza dei movimenti di capitale a breve termine, quelli tipicamente speculativi; • 1979: seconda crisi petrolifera e rialzo di prezzi. Per combattere l’inflazione vengono aumentati i tassi di interesse, per cui i Paesi debitori in un anno vedono salire il debito del 30%. L’America Latina complessivamente accumula un debito estero sui 285 miliardi di dollari (nel 1990 420 miliardi di dollari, cioè circa 140 miliardi di dollari in più; oggi ha superato i 600 miliardi di dollari); • agosto 1982: il Messico dichiara di non poter pagare il proprio debito estero scatenando il panico nei mercati finanziari ed è crisi generale; • 1985: viene presentato il Piano Baker. È inefficace, serve solo a riaprire l’interesse per il problema; • aprile 1996: in Gran Bretagna nasce l’associazione Jubilee 2000, attiva in 50 nazioni, e lancia l’appello per un millennio senza debiti; anche la Chiesa e le associazioni cattoliche si mobilitano con la slogan “Come noi rimettiamo ai nostri debitori”;
• 1999: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale avviano la procedurta del ”debito sostenibile” applicata a 41 Paesi poveri gravemente indebitati (in inglese: HIPC). Di questi, però, solo una piccola minoranza rientra nei criteri stabiliti e solo a tre è concessa la riduzione dei debiti; • giugno 1999: all’incontro dei G7 di Colonia, il governo tedesco propone un programma di condono dei Paesi più poveri; • febbraio 2000: dal palco di Sanremo Jovanotti e Bono degli U2, al grido di “Cancella il Debito”, rilanciano il problema del DI. Il Parlamento italiano, il 13 luglio, approva una legge innovativa la quale stabilisce che i crediti vanno annullati entro tre anni, il valore delle operazioni di cancellazione sale da 3 mila miliardi previsti in origine a 12 mila, i Paesi interessati passano da 18 a 66; • 2001-2002: il Governo italiano annuncia la cancellazione al 100% dei crediti italiani per 22 tra i “Paesi HIPC”.
LE CAUSE I principali fattori che hanno portato dal DI: • la corruzione delle classi dirigenti con i soldi finiti nelle tasche di dittatori, politici, industriali; • la fuga di capitali all’estereo; • le spese militari volute dai regimi al potere; • investimenti economici sbagliati (sul modello di quelli occidentali); • le politiche monetarie di USA (con Ronald Reagan) e Gran Bretagna (Margaret Thatcher) e delle Banche mondiali che hanno contenuto l’offerta della moneta e alzato i tassi di interesse.
I GESTORI DEL DEBITO Gli organismi che gestiscono il DI sono: • il Fondo Monetario Internazionale: è l’organizzazione internazionale di 183 Paesi. Promuove la cooperazione monetaria internazionale, la crescita economica e fornisce assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà. Fondato nel 1946, ha sede a Washington; • la Banca Mondiale: è uno dei più grandi istituti, formato da 180 nazioni, che fa credito ai Paesi in via di sviluppo (PSV). Nel 2001 ha erogato 17,3 miliardi di dollari, collabora attualmente con circa 100 PSV per migliorare il loro livello di vita. Fondata nel 1944, risiede a Washington; • il Club di Parigi: è stato fondato nel 1956, per far fronte ad una crisi finanziario-debitoria dell’Argentina. Ne fanno parte dalle 20 alle 30 nazioni creditrici, tra cui l’Italia. Coordina le azioni di cancellazione, recupero dei crediti nei confronti dei Governi dei Paesi debitori.
PER CAPIRE MEGLIO CITAZIONI • “Quelli che ci hanno prestato il denaro sono gli stessi che ci hanno colonizzati, sono gli stessi che hanno per tanto
tempo gestito i nostri Stati e le nostre economie. Noi siamo estranei alla creazione di questo debito, dunque non dobbiamo pagarlo. Il debito, inoltre, è anche legato a meccanismi neocoloniali; i colonizzatori si sono trasformati in assistenti tecnici… Non possiamo rimborsare il debito, né dobbiamo, non essendone responsabili. Non possiamo pagare il debito perché sono gli altri che hanno nei nostri confronti un debito che le più grandi ricchezze non potrebbero mai pagare, cioè il debito di sangue, il nostro sangue che è stato versato” (Thomas Sankara, presidente del Burkin Faso, assassinato nel 1987). • “Dobbiamo, forse, far morire di fame i nostri figli per ripagare il debito?” (Julius Nyerere, ex-presidente della Tanzania). • “…farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Grande Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l’altro, ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono del debito internazionale, che pesa sul destino di molte nazioni” (Giovanni Paolo II, Tertio Millewnnio Adveniente).
UN PORTAVOCE • La rockstar irlandese Bono da anni è impagnata sul fronte anti-debito ottenendo alcune cancellazioni. Recentemente ha “costretto” il presidente americano Bush ad inviare il suo ministro del Tesoro in Africa per esplorare i risultati degli aiuti internazionali.
5. IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE CHE COSA E' È una nuova forma di mercato, alternativa a quello tradizionale. Il Commercio Equo e Solidale (CE&S) è stato riconosciuto dalla Carta Europea e si fonda su criteri poco …commerciali, ma onesti: la trasparenza dei costi e dei ricavi, nel rispetto dei produttori e dei consumatori. Alla base c’è l’applicazione attenta e rigorosa dei due aggettivi: equo (il prezzo e la ripartizione della torta dei guadagni) e solidale (= sostegno ai lavoratori e produttori dei Paesi più poveri). In concreto, il CE&S: • rispetta le persone che lavorano e l’ambiente; • sostiene le economie più penalizzate del Su del mondo; • importai prodotti direttamente dalle cooperative di contadini e artigiane li paga in anticipo, saltando gli intermediari affaristi; • migliora le condizioni di vita dei lavoratori sottopagati e sfruttati; • ridistribuisce in maniera giusta i guadagni (assegnando alle cooperative di produzione il 30-50% in più delle multinazionali); • denuncia i meccanismi perfidi dello sfruttamento del lavoro minorile; • collega direttamente gli importatori ai produttori; • promuove lo sviluppo sostenibile; • coinvolge gli Organismi nazionali e internazionali per la difesa e il sostegno dei piccoli produttori e la tutela dell’ambiente, • destina il surplus dei ricavi alla costruzione di ambulatori, case, scuole dei lavoratori e incrementa le coltivazioni biologiche (senza l’utilizzo di fertilizzanti chimici).
UN PO’ DI STORIA • Il CS&S inizia alla fine degli anni ’50 contro le nuove forme del colonialismo economico, imposto dai Paesi ricchi a quelli del Sud del mondo e applicato dalle multinazionali. • Prende avvio in Olanda, Germania e Regno Unito. • Negli anni ’60 e ’70 l’idea si diffonde in quasi tutte le nazioni europee e sbarca anche in Giappone e negli Stati Uniti, • Nel 1964, a Ginevra, viene lanciato lo slogan “Trade not aid” (= commercio, non aiuto) per un maggior equilibrio nella distribuzione della ricchezza mondiale, tramite il miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi economicamente meno sviluppati. Fino ad allora le nazioni più industrializzate detenevano l’esclusiva del commercio ed escludevano dal mercato i produttori minori.
ALCUNI DATI
A. IL CE&S IN EUROPA (Dicembre 2000): • 100 importatori – 3000 Botteghe del Mondo – 1.250 occupati • 100.000 volontari – 45.000 supermarket coinvolti. La Germania è la nazione con un fatturato più alto dei prodotti del CE&S (circa il 39% del totale), seguita da Olanda (16%), Svizzera (15%), e Gran Bretagna (12%).
B. IL CE&S IN ITALIA: • Negli anni ’70 compaiono i primi prodotti su iniziativa di gruppi e terzomondisti. Su queste piccole esperienze, cresce l’interesse per il CE&S e spuntano diverse organizzazioni non governative (ONG) che si affermano alla fine degli anni ’80. • Nel 1974, la cooperativa Sir John di Morbegno (Sondrio) inizia l’importazione di prodotti dal Bangladesh. • Oggi i maggiori centri di importazione sono: il CTM (Cooperativa Terzo Mondo, gestione le Botteghe del Mondo, fondata nel 1988), il Commercio Alternativo , il RAM (Robe dell’Altro Mondo) e la Sir John Ltd, Transfair Italia. • La Transfair, fondata nel 1994, è un marchio internazionale che certifica i prodotti equi e ne stabilisce la commercializzazione. Devono essere rispettati sia dagli importatori che dai distributori con la licenza del marchio. Applica in pieno i criteri del CE&S. La “filiale” italiana è formata da importatori, associazioni (Acli, Agesci, Pax Christi...) e ONG (ManiTese, Focsiv, Cospe...). Il primo prodotto, simbolo dello sfruttamento economico, lanciato sul mercato con il TrasFair Italia, è il caffè (1995), seguito da Thè, miele, cacao, cioccolato, succo d’arancia e banane (nel 2000).
PER CAPIRE MEGLIO CITAZIONI • “In Honduras il caffè, prima di essere esportato, viene comprato e rivenduto da ben 5 diversi intermediari: quello del villaggio, quello del comune, poi quello del distretto, della regione e infine quello nazionale. Anche dopo aver lasciato il Paese, la catena di intermediazione continua, dall’importatore fino al consumatore finale. Grazie al Commercio Equo abbiamo ridotto il numero degli intermediari, e adesso l’intero prezzo del caffè viene pagato ai produttori. […] I benefici complementari: le scuole, le strade, i negozi e i depositi costruiti dalla cooperativa per l’intera comunità, lo sviluppo economico e sociale, il pre-finanziamento che permette di evitare gli speculatori finanziari, l’accesso alle informazioni e maggiore autonomia sul mercato internazionale”. (Dagoberto Suazo Zeleya, presidente Unione Cooperative Produttori Caffè, Honduras). • “La disperazione dei piccoli coltivatori, la caduta del prezzo del caffè e l’assenza di alternative, sono le cause che hanno portato alla rivolta. Noi chiediamo ai cittadini dei Paesi sviluppati di pagare dei prezzi più equi per i nostri prodotti”.(Associazione Produttori Caffè ISMAM, Messico).
6. L'IMMIGRAZIONE CHI SONO gli EMIGRANTI ? L'ONU, "sponsor" ufficiale dei senza-terra, definisce emigranti: • le persone che si trasferiscono in un altro Paese alla ricerca di un lavoro e di una vita migliore; • coloro che, per ragioni di sicurezza personale, chiedono asilo politico ad un altro Stato; • i rifugiati e i profughi che hanno dovuto abbandonare la propria terra per timore di persecuzioni a motivo della loro razza, religione o credo politico. La definizione fa soltanto intuire il dramma vissuto da persone, intere famiglie, tribù e gruppi che sborsano cifre astronomiche per approdare in una nazione libera. Con il rischio, una volta raggiunta la destinazione di fortuna, di essere respinti al punto di partenza. DALLE ORIGINI AD OGGI I più famosi “via vai” della storia: • Gli uomini primitivi si sono mossi in cerca di terreni fertili, ricchi di vegetazione e di animali. Oppure cacciati dai disastri • • • • • •
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naturali, dai conflitti con altre tribù. Il primo grande flusso di emigranti è partito dalla Rift Valley, nel cuore della savana africana, diretto in Asia, Europa e perfino in America. Il continente europeo ha ricevuto le prime visite delle popolazioni asiatiche e africane verso la fine del periodo glaciale. Gruppi indoeuropei giunsero nell’Europa centrale 2000 anni a.C. fondendosi con gli abitanti locali. Verso il 1200 a.C. avvenne la travagliata fuga degli ebrei dall’Egitto di Rames II verso la Palestina, raccontata nel libro dell’Esodo (= uscita). Dal 350 d.C., le ondate dei “barbari” (Ostrogoti, Visigoti, Unni, Ostrogoti, Svevi) e le incursioni degli arabi (dopo la morte di Maometto, 632) rivoluzionarono la geopolitica europea, mescolando le etnie già presenti sul territorio. Nel 1700, a sua volta, l'Europa incominciò ad esportare i suoi cittadini verso l’America, sulla scia di grandi esploratori (Colombo, Magellano, Vespucci): circa 40 milioni da 1820 al 1914, di cui 7 milioni italiani (questi numeri andrebbero ricordati ai moderni movimenti xenofobi). La città di Sydney è nata nel 1788 sulla base di una colonia di pericolosi carcerati, deportati dagli inglesi nella baia australiana. Lo sviluppo industriale del secolo scorso, le due guerre mondiali, la caduta del muro di Berlino (1989) hanno favorito i flussi migratori dalla campagna alla città. Gli anni ’70 hanno registrato il boom dei rifugiati (da 5 a 15 milioni): 2 milioni di cambogiani, vietnamiti e laotiani diventarono boat people (il popolo delle barche). I regimi dittatoriali, la fame, i disastri ecologici, i genocidi, la mancanza di lavoro, movimentano i moderni esodi da diversi punti del Pianeta.
DOVE VANNO… E VENGONO • I due maggiori centri di raccolta sono gli Stati Uniti (26 milioni di immigrati) e l'Europa (20 milioni). • L’Italia con 1 immigrato ogni 35 persone, è al quarto posto tra le nazioni che superano il milione di residenti stranieri, • •
dopo la Gran Bretagna, Francia e Germania (quest’ultima con 7 milioni). Il primo gennaio 2008 i cittadini stranieri in Italia risultano 3 milioni e 600 mila. Il gruppo più numeroso è quello dei rumeni (circa 560 mila). Seguono gli immigrati marocchini e albanesi (con poco meno di 200.000 unità), seguiti da ucraini, cinesi e filippini. La città “più araba” d’Italia è Mazzara del Vallo: 3 mila immigrati (in maggioranza tunisini) su 52 mila abitanti.
ALCUNI CASI …ITALIANI • l’Italia, con i suoi novemila km di coste, è una delle mete preferite dai …"tour operator" • • •
degli emigrati. Hanno iniziato a sbarcare nel nostro Paese prima i marocchini, tunisini, algerini, imitati dagli albanesi (dal 1991: in quell’anno giunsero oltre 20 mila profughi) e. successivamente, dagli abitanti dell’est europeo, dai cinesi, filippini. africani… Negli ultimi tempi si sono intensificate le presenze dei curdi, perseguitati a morte. Fuggono dal Kurdistan, nazione “fantasma” politicamente contesa da Siria, Turchia, Iran e Iraq. Una delle rotte della disperazione parte dallo Sri Lanka, passa per l’Egitto o la Turchia: un viaggio massacrante che dura due mesi al limite della sopravvivenza. I Cingalesi pagano alle organizzazioni anche l’equivalente di 5 mila euro pur di fuggire dal loro Paese.
PER CAPIRE MEGLIO CITAZIONI “Quando un uomo decide di voltare le spalle alla terra in cui è nato, vuol dire che la disperazione ha messo le radici nel suo cuore. E in nessun Paese del mondo sarà mai piùlo stesso uomo” (Martin Luther King, leader nero assassinato nel 1968) “Perdonami, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l’ospitalità della soglia. […] Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della Terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha… il colore delle tua pelle” (Don Tonino Bello, vescovo, Alla finestra la speranza, ed. Paoline).
7.
IL RAZZISMO e XENOFOBIA
CHE COS’E’ IL RAZZISMO 1. Per una definizione Il termine razzismo indica le dottrine o credenze sulla superiorità razziale ed include la convinzione che caratteristiche culturali, qualità morali e capacità intellettive siano legate alla razza di appartenenza. Secondo tale ideologia, dunque, tutta l’umanità sarebbe classificata secondo una scala di razze biologicamente differenti, partendo dal gradino più basso delle razze “primitive”, “deboli”, “istintive”, fino ad arrivare ai gradini superiori delle razze “civilizzate”, “forti”, “razionali” e quindi dominanti. Questa concezione presuppone un pregiudizio di base e comporta un discriminazione. Molti studiosi hanno adottato poi la terminologia razzismo istituzionalizzato per indicare quelle forme di razzismo, per così dire, socio-strutturali in cui l’ideologia razzista è incorporata nei sistemi giuridici, amministrativi e sociali. Dunque, il razzismo istituzionalizzato è il risultato di interessi di classe a livello nazionale o un prodotto del colonialismo e dell’imperialismo, a livello internazionale. In questi termini, l’ideologia razzista serve per giustificare e mantenere in rapporto di subordinazione e sfruttamento popolazioni assoggettate, “in virtù della loro inferiorità biologica”. Il razzismo istituzionalizzato ha raggiunto anche forme estreme; ne sono un esempio lo schiavismo perpetrato in Africa, nel “Nuovo Mondo”, in Asia ed Europa, l’antisemitismo nazista, e l’apartheid praticato nella Repubblica Sudafricana, mediante il quale la popolazione minoritaria bianca manteneva il controllo politico ed economico della popolazione maggioritaria di neri, asiatici e meticci, esclusi da tutte le fasi dell’interazione sociale, attraverso la repressione politica e l’uso della forza. In ogni caso, oggi, quando parliamo di razzismo, istintivamente pensiamo al razzismo del bianco contro il nero o di una razza contro un’altra razza, il che è etimologicamente corretto; ma razzismo va inteso in senso lato, come intolleranza e discriminazione dell’altro perché “diverso”, “estraneo”, “straniero”, da cui deriva il termine xenofobia (da greco xenòs = straniero). Dunque, possiamo avere discriminazioni nei confronti degli handicappati, degli extracomunitari, dei malati di mente, degli ebrei, dei neri, dei meridionali, degli zingari, dei drogati, degli anziani, delle donne, ecc. In ogni caso, il razzismo è l’enfatizzazione, in negativo, della differenza, a vantaggio di chi esprime il giudizio, e a danno di chi lo subisce. Comunque, il pregiudizio, la discriminazione di mentalità razzista e xenofoba derivano da profondi conflitti collettivi in ambito sociologico o individuali in ambito psicologico. Sociologicamente, come abbiamo detto, i processi di conflitto tra gruppi derivano dalla competizione per le risorse, per il territorio, per le opportunità di lavoro, per l’accumulo delle ricchezze; pertanto, un gruppo che si sente minacciato dalla presenza di un altro gruppo in questo senso rafforza e giustifica la propria posizione aggressiva e di prevaricazione con una supposta superiorità che dà ad esso diritto e legittimazione ad un’azione di forza. Dal punto di vista psicologico, invece, il pregiudizio e la discriminazione sono, secondo gli esperti, il sintomo di profondi conflitti di personalità.. 2. In Italia Per quanto riguarda il nostro Paese, in Italia l’ideologia razzista è arrivata con un certo ritardo storico rispetto agli altri paesi; ma si è comunque manifestata in virtù di una presunta superiorità biologica, culturale e morale sulle popolazioni colonizzate dell’Africa (Etiopia, Libia) tra l’800 e il ‘900, e sugli ebrei, al partire ad 1943, durante gli anni di attiva collaborazione con il nazismo. Successivamente, poi, il razzismo è riemerso dopo la Seconda Guerra Mondiale durante le immigrazioni dalle diverse regioni italiane e, ancor più recentemente, contro gli immigrati dai Paesi extracomunitari.
COSA POSSIAMO FARE 1. Il razzismo esiste Purtroppo, sebbene oggi, in moltissimi paesi del mondo si parli della “cultura dell’intercultura”, e di società multiculturali e multirazziali in cui sarebbero garantite la libertà di espressione e la tutela dei diritti umani, di fatto tali auspicabili obiettivi non sono ancora stati raggiunti proprio a causa di insistenti o rinnovati fenomeni di razzismo e xenofobia che creano esclusione e producono sentimenti di alienazione in chi li subisce. Non è un caso che il razzismo trionfi maggiormente nei Paesi Ricchi, Paesi, cioè, in cui la spinta all’individualismo e alla competitività sono maggiori, dove mancano uno spiccato senso della solidarietà ed una comunione di mezzi e di attività finalizzate al benessere di tutta la comunità, intesa come co-operazione di tutti gli individui che ne fanno parte con uguali diritti di accesso alle risorse e di beneficio dei prodotti ottenuti. Se, dunque, il problema di fondo è la mancanza di senso della solidarietà e dell’intercultura, questo vuol dire mancanza di rispetto per gli altri, chiunque essi siano, e per i loro diritti. Non dimentichiamo poi che la dicotomia razzista noi-altri è fortemente paradossale perché se attraverso di essa noi identifichiamo gli “ALTRI”, in senso negativo e dispregiativo, rispetto al “NOI”, non solo anche noi per gli altri potremmo essere “altri” ma, soprattutto, dobbiamo l’esistenza di un NOI, positiva o negativa che sia, proprio alla presenza di “ALTRI”: è la presenza degli altri che rende possibile un noi e, quindi, paradossalmente potremmo dire che gli altri fanno parte di noi, che gli altri siamo noi. Ma, a parte queste disquisizioni di pura logica, è chiaro che non possiamo ignorare che esistano delle differenze a volte anche profonde tra gruppi e che non dobbiamo combatterle, ma difenderle e legittimarle nella stessa maniera e convinzione con cui tendiamo a legittimare la nostra presenza nel mondo. Il razzismo e la xenofobia sono forti cause di conflitto e nel passato anche recente sono stati all’origine di scontri violenti tra gruppi; noi tutti possiamo e dobbiamo fare qualcosa perché i tragici eventi del passato e i recenti fenomeni di razzismo siano combattuti più efficacemente con nuove e concrete strategie. Innanzi tutto è indispensabile informare, sensibilizzare ed educare l’opinione pubblica, a partire dalle giovani generazioni affinché siano strumento di promozione di una nuova era, di una nuova società globale in cui siano rispettati i diritti umani di tutti, senza distinzioni di razza, sesso o religione. La difficoltà principale nell’affrontare il tema del razzismo è quella di rendere evidente il problema poiché è purtroppo una realtà diffusa la mancanza di consapevolezza; c’è infatti una sorta di rifiuto di vedere e di affrontare il problema. Addirittura, molte persone che affermano di non essere razziste, spesso, più o meno inconsapevolmente, evidenziano poi atteggiamenti di razzismo e intolleranza molto forti. Pertanto, un primo passo è quello di far emergere il problema, renderlo noto informando e studiando la storia del passato perché tenere viva la memoria dei tragici avvenimenti vissuti e comprenderne le cause profonde sarà di insegnamento e di monito per il futuro. Educare, poi, significa conoscere, conoscere le diverse realtà che ci circondano, scoprirle ed apprezzarle proprio in virtù della loro diversità e della possibilità di un reciproco arricchimento. Un metodo didattico in questo senso può essere quello di puntare molto sull’insegnamento della storia per comprendere a fondo le reciproche influenze tra Paesi, con le loro culture, religioni e sistemi di idee; puntare su una educazione multiculturale, e su una lettura multiculturale degli autori di tutto il mondo per ascoltare la voce di coloro che sono gli “altri”. E quindi, a tal fine, possono essere pensati vari mezzi e strumenti di sensibilizzazione e di informazione, come video, riviste, dibattiti e campagne che coinvolgano direttamente sia le generazioni di giovani che quelle di adulti. Nel 2001, in Sud Africa si terrà la Conferenza Mondiale Contro il Razzismo, la discriminazione e l’intolleranza; la scelta della sede è certamente appropriata poiché ci riporta direttamente a Nelson Mandela, esempio di trionfo del perdono sull’odio e di riconciliazione. Questa data è importante a livello internazionale ed istituzionale perché in essa confluiranno rappresentanti di tutti i Paesi del mondo per pianificare progetti efficaci per contrastare il fenomeno del razzismo, ma è uno stimolo di riflessione per tutti noi, affinché fin da ora ci prepariamo a tale appuntamento creando i presupposti di una coscientizzazione della realtà del razzismo ed iniziando ad attuare una politica di destrutturazione dello schema “NOI-ALTRI”. 2. Alcuni suggerimenti Tutto questo vuol dire educarci ad una inversione di tendenza attraverso una serie di possibili azioni: dare prova di umanità e solidarietà nei confronti di coloro che, in fuga da un pericolo o da gravi situazioni di povertà, necessitano di accoglienza e sostegno; adottare a tal fine misure meno restrittive nei confronti di coloro che chiedono asilo e degli stranieri in generale; promuovere iniziative atte a favorire la conoscenza, la convivenza e l’eventuale inserimento degli “altri” nella nostra cultura e società; impegnarsi affinché autorità e organi di informazione si facciano promotori di campagne di sensibilizzazione della popolazione; rendere la diversità culturale parte integrante dei palinsesti radiofonici e televisivi attraverso una programmazione multiculturale che screditi il binomio noi-loro. adottare una politica di pari opportunità che contrasti in maniera attiva e diretta il razzismo e la xenofobia; promuovere il rispetto dei diritti umani anche attraverso le attività di formazione e le campagne di Organismi governativi e non governativi impegnati nel campo dei diritti umani; educare contro l’uso di una terminologia offensiva e fuorviante, che descriva le diversità culturali in maniera denigrante; educare contro l’uso di stereotipi e metri di giudizio degli individui sulla base della loro appartenenza etnica, razziale o religiosa; evitare di associare alle diversità i modelli esotici spesso pubblicizzati dai mass media; non limitarsi a denunciare gli atti di razzismo e xenofobia, ma impegnarsi per creare nuovi modi di combattere il razzismo e la xenofobia.
8. L’ETNOCENTRISMO Ma che cos’è l’etnocentrismo? L’etnocentrismo è la tendenza a giudicare le altre culture e a interpretarle in base ai criteri della propria e a proiettare su di esse il nostro concetto di evoluzione, di progresso, di sviluppo, di benessere; tendenza, questa, che può essere più o meno consapevole. L’etnocentrismo comporta pertanto una prospettiva secondo cui tutte le società vengono collocate lungo una scala evolutiva in cui le società occidentali, civilizzate, sviluppate e modernizzate occupano il gradino più alto, mentre le società “primitive”, tradizionali e sottosviluppate occupano il gradino più basso e non hanno ancora subito le necessarie trasformazioni che, attraverso uguali processi evolutivi, le innalzino al rango di società progredite, soprattutto nella direzione di una crescita economica. Questo approccio, in pratica, si fonda sulla contrapposizione tra società moderne e società tradizionali sulla base di ciò di cui queste ultime difettano rispetto al modello delle società occidentali avanzate e presenta un quadro del sottosviluppo attraverso il calcolo di indici come quello del reddito pro-capite, della produzione, dell’esportazione, dell’alfabetizzazione, del tasso della natalità e della mortalità, etc…, dando per scontato che le ipotesi elaborate per spiegare il processo di industrializzazione delle società occidentali possano valere anche per quello di sviluppo nei Paesi del Terzo Mondo. L’etnocentrismo concepisce dunque il progresso come un processo rettilineo, sulla base della nozione di sviluppo così come è inteso nel mondo occidentale: lo sviluppo è positivo, desiderabile, universale e necessario. Di conseguenza, il mutamento delle società economicamente arretrate è ipotizzato come un fenomeno progressivo, inevitabile ed indolore. Ma non dimentichiamo che la tendenza ad universalizzare i propri modelli culturali costituisce un ostacolo insormontabile alla comprensione dei modelli delle altre culture e che finché non riusciremo a superare le remore rappresentate dalla nostra cultura, dal nostro modo di percepire il vissuto, dai nostri modelli culturali, non riusciremo mai ad avvicinarci e a comprendere la complessità, le caratteristiche e le necessità di queste società. Finché il nostro sguardo sarà quello dell’osservatore occidentale che giudica l’alterità e la diversità come sinonimo di inferiorità, sarà impossibile qualsiasi tipo di comunicazione e di contatto che non siano prevaricatori e distruttivi. E spesso, come dicevamo in principio, in virtù di questa errata impostazione che comporta una eccessiva fiducia nei propri modelli evolutivi e un disconoscimento della validità di quelli altrui, in nome di una nostra supposta superiorità sulle altre culture, sono state compiute azioni non sempre eticamente accettabili, a volte palesemente predatorie, in altre celate da intenti di modernizzazione. L'etnocentrismo può nelle peggiori delle conseguenze assumere comportamenti patologici. Ciò si verifica quando vi è un eccessivo rifiuto verso gli altri fino a sfociare in una vera e propria intolleranza o in forme mentali complesse dirette o indirette in genere dannose per chi non faccia parte del noi. Quando l'etnocentrismo si traduce nella sua forma mentale, sociale e culturale più esasperata diviene razzismo, tendenzialmente orientato non solo al rifiuto ma alla distruzione dell'altro. Come categoria del pensiero, la dilatata concezione di sé appartiene a numerosi contesti culturali. È questo il caso - ma si tratta solo di esempi, che potrebbero moltiplicarsi fino a coinvolgere praticamente ogni cultura umana - del mondo giapponese, di quello cinese, arabo, persiano, turco o dei nativi americani, in cui il "diverso da Sé" è sistematicamente svilito e disprezzato, quando addirittura non venga negata l'appartenenza all'umanità di una cultura diversa. È stato questo il caso dei Cinesi che chiamarono Miao il gruppo dei Hmong, attribuendogli persino una loro natura "bestiale" (nel caso in esame "felina"). Il maggior fenomeno di stampo razzista nella storia si è verificato con il nazismo in Germania tra il 1933 e il 1945, periodo in cui l'attitudine etnocentrica è riuscita a tradursi patologicamente nell'autorità dello Stato, dando luogo ad un tragico episodio di pulizia etnica (la Shoa).
9. LA GLOBALIZZAZIONE culturale e sociale GLOBALIZZAZIONE CULTURALE: • normalmente uno Stato forte con un’economia forte impone anche la sua cultura. È il caso del USA, la più grande potenza economica con le maggiori industri e banche. Una simile leadership economica diventa egemonia culturale. • Si esprime con la cosiddetta American way of life (= americanizzazione degli stili di vita), la diffusione dell’inglese come la lingua più parlata, il predominio dei film telefilm made in USA.
I PERICOLI: • possibile perdita delle singole identità culturali; • affievolimento della memoria storica che livella tutti; • gli avvenimenti vengono letti e interpretati sotto l’influsso dei mezzi di comunicazione più potenti; • nascita di movimenti leghisti e secessionisti per difendere i privilegi di ogni comunità.
LA GLOBALIZZAZIONE SOCIALE •
il vicino di “pianerottolo” oggi non è soltanto chi abita di fronte al nostro appartamento, ma anche chi esce di casa a Manhattan o a Parigi. È questa una della “magie” compiute a livello planetario dai moderni mezzi d’informazione. Il “tempo reale” in cui “informano” il mondo su usi, costumi e idee, costituisce un vero “villaggio globale”.
• Però i veri collegamenti di interesse vengono costruiti tra comunità distanti ma ritenute importanti dal punto di vista economico, con esclusione delle altre, abitualmente più povere. Per cui queste ultime restano tagliate fuori da qualsiasi beneficio.
I PERICOLI: • livellamento dei bisogni sociali, • emarginazione dei ceti più deboli, • perdita delle originalità di ogni popolo e nazione.
10. MULTICULTURA e INTERCULTURA Dalla comunicazione all'educazione INTERCULTURALE E’ importante portare avanti una comunicazione interculturale che avviene face-to-face con l'altro diverso da noi. Ma questo comporta la necessità di ripensare un modello educativo che abbia gli strumenti idonei per fronteggiare e risolvere i problemi dell’uomo che agisce in una società globalizzata. La risposta educativa, che sembri soddisfare queste esigenze dettate da una multiculturalità crescente, è l’interculturalità, intesa come riscoperta dell’alterità e del rapporto identità- alterità attraverso l’educazione al dialogo e alla differenza, volta al tentativo di allontanare la paura dello straniero dai cuori dei cittadini del mondo e all’instaurazione di una urgente e non sempre facile integrazione. Fatta questa premessa scendiamo nello specifico.. Cosa si intende per educazione interculturale o più semplicemente educare all'interculturalità? Si intende un'educazione DINAMICA e RELAZIONALE. • Il primo termine si riferisce ad un approccio dinamico della scuola che sia capace di muoversi su un percorso che comprenda non solo la trasmissione dei saperi, la conoscenza delle culture altre e dei rispettivi costumi e valori, ma anche l’approfondimento e l’analisi della complessità, del pluralismo e del rapporto io-tu inserito in questo contesto, secondo una continua rielaborazione e un modello di educazione personalizzato e pensato su misura per ogni singolo allievo, in nome della diversità e del rispetto per essa. •
Il secondo si riferisce, invece, all’interscambio tra gli allievi, al dialogo e alla cooperazione in compiti di gruppo, volti non solo a promuovere il rispetto altrui, ma anche la consapevolezza che lavorando insieme si può giungere a scopi comuni con un maggiore profitto, indipendentemente dalla razza, dalla lingua o dalla cultura. Dinamicità e relazionalità sono essenziali, dunque, per un’adeguata attività educativa volta alla formazione del cittadino nella sua completezza. Qual'è dunque lo scopo dell'educazione interculturale? “ L’attività educativa, non ha soltanto lo scopo di affrontare e rimuovere ostacoli e incomprensioni dovute alle differenze linguistiche, culturali, ma anche quello di promuovere la realizzazione delle potenzialità educative e umane di ciascuno” ( F. Gobbo, Pedagogia interculturale. Il progetto educativo nelle società complesse, Carocci. Roma, 2000, p. 90) Un educazione intesa in questo senso può... “contribuire a far sì che individui diversi nelle loro radici linguistiche, religiose ed etniche possano convivere senza conflitti all’interno della stessa società, in modo da salvaguardare il pluralismo delle culture” ( S. Ulivieri, L’educazione e i marginali. Storia, teoria, luoghi e tipologia dell’emarginazione, La Nuova Italia, Firenze,1997, p. 319.)
Cosa intendiamo per
Multicultura e Intercultura? Oggi in ambiente scolastico quando si parla di alunni non italofoni si sentono nominare molto spesso termini come “multicultura” e “intercultura”. Per la definizione dei due termini adottiamo la distinzione di ordine concettuale e terminologico proposta dal Consiglio d’Europa. • Il termine “multiculturale” indica una situazione e una condizione, ha carattere descrittivo e definisce una realtà in cui sono presenti individui e gruppi di etnie e culture diverse; la parola “interculturale” si riferisce invece alla stessa realtà, ma ha carattere dinamico e prende in considerazione le relazioni che vengono a determinarsi tra diversi individui o gruppi. Infatti "chi dice interculturale dice necessariamente - se dà tutto il suo senso al prefisso inter-interazione - scambio, apertura, reciprocità, solidarietà obiettiva. Dice anche, dando il pieno senso al termine cultura, riconoscimento dei valori, dei modi di vita, delle rappresentazioni simboliche alle quali si riferiscono gli esseri umani, individui e società, nelle loro relazioni con l'altro e nella loro comprensione del mondo, riconoscimento delle loro diversità, riconoscimento delle interazioni che intervengono di volta in volta tra i molteplici registri di una stessa cultura e fra differenti culture, nello spazio e nel tempo"
11. LE MINORANZE CHE COSA SONO Sono gruppi di persone che, all’interno di una nazione o ai margini di essa, si distinguono fortemente per alcune “caratteristiche” particolari di: • razza o etnia (es.: indigeni, tribù africane, indiani d’America, curdi…); • religione (es.: Valdesi nel Pinerolese, greci ortodossi nella Piana di Puglia…); • politica (es.: baschi, tibetani sotto regime cinese, minoranze partitiche…); • lingua (es.: ladini, sudtirolesi…);• condizione sociale (es.: immigrati, rom…). Determinante è il numero: più è piccolo, più essi trovano difficile affermare i propri diritti. Per questo motivo sono quasi sempre tagliati fuori della vita comune. In troppi casi vengono emarginati socialmente ed economicamente o addirittura perseguitati.
A. ALCUNI CASI “CLAMOROSI” • Gli ebrei (un popolo “chiuso”, disperso nel mondo ma anche isolato in ragione della propria religione rigorosamente monoteistica); • i palestinesi (popolazione di origine araba che vuole esistere come un vero Stato); • i negri d’America o del Sud Africa (ghettizzati per ragioni sociali e economiche). Le minoranze, a loro volta, tendono a isolarsi sempre più su se stesse per sopravvivere e conservare le proprie identità, tradizioni, leggi, costumi. Non sempre, però, il “numero” è determinante e si traduce in disagio o emarginazione. Nel Sudafrica dell’apartheid, una piccola minoranza di bianchi, i boeri, aveva il controllo qausi assoluto del potere e delle ricchezze del Paese a scapito della maggioranza nera, esclusa da ogni forma di partecipazione economica, politica e sociale.
IN ITALIA E NEL MONDO A. IN ITALIA Nel nostro Paese le minoranze linguistiche più consistenti si trovano in alcune regioni a statuto speciale come l’Alto Adige, la Valle d’Aosta, il Friuli Venezia Giulia. Sono quasi 3 milioni di cittadini, suddivisi in: valdostani, sudtirolesi, friulani, ladini, sardi, greganici, catalani, sloveni, albanesi, croati, cimbri, occitani, sinti, rom, greci.
B. NEL MONDO Difficile fare il censimento delle minoranze diffuse nei vari continenti. Soltanto nella Comunità Europea sono oltre 40 milioni le persone che parlano una lingua diversa da quella ufficiale della nazione a cui appartengono. Registriamo, allora, due situazioni che confermano la vita impossibile a cui questi gruppi sono sottoposti: • i curdi: di origine asiatica, sopravvivono in 4 Stati: Turchia, Iran, Iraq e Siria. A loro viene negato il diritto alla propria patria. Cercano disperatamente la salvezza in altre nazioni. Due milioni vivono già in Germania; • i tutsi e gli hutu: popolazioni africane, presenti in Burundi e in Ruanda. Prima dell’epoca coloniale, il Burundi era un Paese feudale diviso in caste, dove una piccola minoranza dominava la maggioranza della popolazione contadina e di etnia hutu (85% della popolazione). Con l’indipendenza nel 1962, gli hutu vollero contare di più e diedero inizio alle violenze. Nel 1972 gli hutu si ribellarono ai tutsi. Il governo, tutso, reagì con durezza: furono uccisi circa 100-200 mila hutu. • Stessa storia, ma a parti invertite, si verificò nel vicino Ruanda. Nel 1994 fu compiuto uno dei peggiori massacri della storia: nel giro di 100 giorni gli hutu sterminarono circa 800 mila tra tutsi e hutu moderati. È un agghiacciante esempio di intolleranza della maggioranza nei confronti della minoranza. I DIRITTI • In Italia, le diverse minoranze sono tutelate dalla Costituzione e da alcune leggi speciali nei loro diritti civili, nelle libertà di culto, nella lingua, nelle tradizioni …; • nel mondo, questi gruppi sono stati riconosciuti non molti anni fa, dall’Assemblea dell’Onu (16/08/1966): “Le persone appartenenti a queste minoranze non possono essere private del diritto di vivere, in comune con gli altri membri del loro gruppo, la propria vita culturale, di professare i praticare la propria religione, o di usare la propria lingua” (dal “Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici”).
PER MEGLIO CAPIRE CITAZIONI • “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propia persona” (Art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ONU, 10 dicembre 1948); • “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionmali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo” (Legge di tutela delle minoranze linguistiche, 15 dicembre 1999, n° 482): • “Senza sottovalutare le dimensioni sociali, demografiche e culturali, molto preoccupanti, l’istruzione rimane fondamentale: sarà l’istruzione a risolvere il problema a lungo termine, entro due o tre generazioni” (Pavol Hamzik, vice primo ministro slovacco, a proposito dei rom che non riescono ad integrarsi nel Paese).
12. GLOBALIZZAZIONE e pluralismo etico - religioso L’unica forma di globalizzazione priva di rischi è quella dell’umanità vista come “una sola famiglia”. È quanto propone la Chiesa: al centro sia messo l’uomo e non il profitto, ci siano tolleranza, libertà e giustizia tra le nazioni senza discriminazione economica, culturale e sociale. Una civiltà basata sul rispetto e sull’amore come annuncia il vangelo di Cristo.
I PERICOLI: • sincretismo religioso (un “fai-da-te” tra le diverse fedi, es: New Age), religiosità troppo soggettivistica, slegata dalla comunità di appartenenza.
Il Pluralismo: problema o risorsa? Il PLURALISMO RELIGIOSO è una categoria concettuale moderna, introdotta dalla sociologia delle religioni per descrivere ciò che avviene nelle società occidentali, come conseguenza dei crescenti flussi migratori indotti dai processi di globalizzazione. •
Si parla infatti di pluralismo religioso per indicare la situazione che si viene a creare quando religioni diverse si trovano a vivere in uno stesso territorio, a condividere uno spazio comune. Pluralismo religioso significa che nella società attuale non soltanto ci sono molte religioni "di fatto", ma ci sono e possono esserci molte religioni "di diritto", il che vuol dire che di fronte alla legge hanno tutte il diritto di esistere, di predicare le proprie dottrine, di praticare i propri riti.. È importante distinguere il concetto di pluralità, cioè la coesistenza in una determinata situazione storica di più religioni che non hanno relazioni reciproche, non chiedono riconoscimenti giuridici ma restano un fatto privato di ciascun cittadino, dal pluralismo, che si determina quando invece le religioni pretendono di avere un ruolo pubblico e di veder salvaguardati diritti il cui riconoscimento può creare conflitti con le altre religioni e gli altri gruppi sociali e con le leggi dello Stato. Viviamo oggi in una società multietnica e multiculturale, destinata a diventarlo sempre di più. I nuovi immigrati sono portatori di un bagaglio particolare. I loro vestiti, le loro abitudini, i loro usi e le loro pratiche, sono espressione di quell'abito impalpabile, ma essenziale, che è la loro cultura. Ora, un elemento fondamentale della cultura che gli immigrati recano con sé dai Paesi d'origine è costituito dalla religione di appartenenza. Essi provengono spesso da Paesi in cui l'appartenenza religiosa costituisce una componente essenziale della propria identità individuale e di gruppo. Immigrando in Paesi stranieri, a prevalenza cristiana o caratterizzati da agnosticismo e indifferenza religiosa e abituati a considerare la religione come un fatto essenzialmente privato, molti degli immigrati riscoprono la funzione identitaria della religione di appartenenza che permette loro di mantenere vivi i legami di gruppo e di conservare un'identità pericolosamente minacciata dalla cultura secolarizzata occidentale in cui si trovano a vivere. • Il pluralismo religioso è una realtà di cui ciascuno di noi fa quotidianamente esperienza; una realtà di problemi, certo, ma anche di grandi opportunità, sulla quale è importante riflettere per risolvere i conflitti e costruire un futuro di vita comune, a partire anche dall'esperienza di convivenza nel mondo della scuola. •
Origine e cause Il pluralismo religioso è il prodotto di un fenomeno capitale nella storia religiosa moderna: la secolarizzazione (dal latino saeculum, "secolo" e cioè mondo). Una caratteristica peculiare della storia dell'Occidente cristiano (che coincide in sostanza con la storia dell'Europa cristiana), consiste infatti nei processi di razionalizzazione, che stanno alla base sia del sorgere della scienza moderna sia, più in generale, di una concezione della ragione umana come realtà autonoma, libera da ogni dipendenza nei confronti dei vincoli della Rivelazione.
Nel passato le religioni sono state a lungo e prevalentemente etniche, cioè religioni legate a un determinato popolo. Esse nascevano, vivevano e morivano con il popolo di cui costituivano un potente fattore d'identità. Così è stato per la maggior parte delle religioni antiche: dalla religione degli Egizi a quella dei Greci, dalla religione dei Fenici a quella degli Assiri. Si nasceva in una religione e vi si moriva senza porsi il problema di aderirvi o, tanto meno, quello di abbandonarla. La religione era, in un certo senso, come l'aria che si respirava: essa permeava tutti gli aspetti della vita, senza costituire una sfera separata e facilmente individuabile, come avviene invece in epoca moderna. In questa situazione non esisteva una concorrenza tra religioni: il fenomeno della conversione, del passaggio cioè, consapevole e volontario, da una religione a un'altra, era ignoto. Le religioni coesistevano, si confrontavano, si combattevano in funzione della storia dei singoli popoli di cui erano espressione. o Il sorgere di Imperi universali mutò in parte questa situazione. Popoli diversi, che si ignoravano, furono costretti a coesistere sotto il dominio di un sovrano. Questo fu il caso della Persia, con Alessandro Magno e di Roma in Occidente. Gli Imperi a vocazione universalista hanno favorito il sorgere di una situazione più dinamica e complessa anche dal punto di vista delle religioni: esse potevano ora coesistere in una situazione di pluralità, che in casi determinati facilitava il sorgere di un pluralismo religioso e cioè di una situazione di confronto e di concorrenza tra culti e tradizioni religiose di varia natura. o Il cristianesimo antico, in questo senso, si è potuto diffondere in una vera e propria situazione di pluralismo religioso, tipica dell'Impero romano. Nel mondo moderno, dicevamo, il pluralismo religioso è il prodotto della secolarizzazione o Esso fu usato a partire dal Seicento, in particolare dopo la pace di Westfalia (1648), che pose fine a un terribile periodo di guerre di religione che dilaniarono i vari Paesi cristiani ormai divisi in cattolici e protestanti, per indicare i processi di riduzione allo Stato secolare di ordini e istituti religiosi portati avanti dallo Stato moderno nel suo tentativo di incamerare beni di vario tipo tradizionalmente appartenenti a chiese e ordini religiosi. o Esso fu poi usato per indicare il processo generale, di autonomia delle differenti sfere della vita sociale e culturale, da ogni tutela religiosa. La svolta decisiva di questo processo è rappresentata dalla Rivoluzione francese, che ha promosso una politica di radicale secolarizzazione nei confronti delle differenti religioni, inaugurando un regime di rigida separazione tra Stato e differenti confessioni religiose, che lo Stato tutela nei loro diritti, purché essi si esprimano su di un piano puramente privato. o Nell'epoca della secolarizzazione, che ha contraddistinto il periodo che va dalla Rivoluzione francese alla fine del Novecento, nei vari Paesi europei la linea dominante è stata, di conseguenza, quella di intendere la religione essenzialmente come una dimensione appartenente alla sfera privata e non più, come nelle società dell'Ancien Regime pre-rivoluzionarie, una realtà che condizionava ogni aspetto della vita pubblica, dal diritto alla politica, dall'educazione alla morale. Nel secondo dopoguerra, nei vari Paesi europei di tradizione cristiana, sia a dominanza cattolica come l'Italia, la Francia e la Spagna sia di tradizione protestante (dalla Germania ai Paesi scandinavi), si assiste a un lento, ma inesorabile, duplice fenomeno: o da un lato i processi di secolarizzazione interni alle Chiese cristiane continuano ad agire; o
dall'altro, per contrasto, cresce l'interesse per nuovi culti e nuove spiritualità, in particolare presso i giovani.
A partire, infine, dagli anni Ottanta del Novecento, il territorio religioso, fino ad allora a prevalenza cristiano, conosce la presenza, più o meno stabile, di tradizioni religiose non cristiane. o
Queste molteplici tradizioni religiose non vivono in una semplice situazione di pluralità, ma si vengono a trovare inevitabilmente in una situazione di concorrenza, che le costringe, per non scomparire, a rinforzare internamente i vincoli identitari anche attraverso un confronto serrato con le altre tradizioni religiose.
13. Le religioni in Italia Il pluralismo religioso italiano nel contesto postmoderno Tentare l’avventura di una rassegna di carattere enciclopedico delle religioni (e delle vie spirituali che, benché non religiose, rientrano tuttavia in una fenomenologia degli accostamenti contemporanei al sacro) presenti in Italia, nell’attuale contesto postmoderno, costituisce insieme una sfida affascinante e un rischio. Il contesto, infatti, è di continua mutazione del quadro religioso, il che rende impossibile – nonostante ogni cura – una trattazione esaustiva. Alcuni dati cambiano con frequenza, letteralmente, quotidiana. Mentre siamo fin da ora grati a chi volesse segnalarci omissioni e integrazioni, siamo intenzionati a dare conto delle modifiche tramite il sito Internet del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, che ha ideato e promosso questa iniziativa (www.cesnur.org).
Giovanni Paolo II (1920-2005), nell’enciclica Fides et ratio del 1998, al n. 91 rilevava come: “La nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come l’epoca della ‘post-modernità’. Questo termine, utilizzato non di rado in contesti fra loro molto distanti, designa l’emergere di un insieme di fattori nuovi, che quanto a estensione ed efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli”.
L’enciclica Fides et ratio – dopo avere sottolineato la necessità che l’uomo utilizzi entrambe le sue “ali”, la fede e la ragione, per rispondere alle domande cruciali sulla sua origine e sul suo destino – descrive una lunga stagione, iniziata con la crisi del Medioevo, in cui la ragione ha dapprima cercato di inglobare la fede, quindi ha preteso di farne a meno, infine l’ha combattuta in modo esplicito (dalla ragione senza la fede alla ragione contro la fede). Cattolici e non cattolici potranno trovarsi d’accordo con Giovanni Paolo II nel constatare che, in effetti, con il passaggio all’epoca cosiddetta postmoderna si sono determinati “cambiamenti significativi e durevoli” anche nel settore della religiosità. •
Negli anni 1970 – e nella prima parte degli anni 1980 – il tema dominante era quello della crisi della religione. La tesi della secolarizzazione, nella sua versione quantitativa, postulava che, mentre progrediva la mentalità scientifica, nelle società industriali avanzate c’era sempre meno religione; non mancava chi prospettava come futuro evolutivo della religione addirittura l’estinzione. Uno strumento interpretativo importante rimaneva in quegli anni l’opera del teologo battista americano Harvey G. Cox The Secular City (Macmillan, New York 1965; trad. it.: La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968), in cui – come lo stesso Cox ha scritto più recentemente – il teologo di Harvard cercava di elaborare una teologia per l’epoca “postreligiosa” il cui avvento molti ritenevano imminente.
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Le cose, oggi, sono certamente cambiate. Testi importanti fanno riferimento al “ritorno del religioso”, alla “rivincita di Dio” o alla “fine” della secolarizzazione. Lo stesso Cox – a trent’anni da La città secolare – scrive nel 1995 in Fire from Heaven. The Rise of Pentecostal Spirituality and the Reshaping of Religion in the Twenty-First Century (AddisonWesley, Reading [Massachusetts] 1995) che “oggi è la secolarità (secularity), non la spiritualità, che può essere vicina all’estinzione”, e che è diventato “ovvio che al posto della ‘morte di Dio’ che alcuni teologi avevano dichiarato non molti anni fa, o del declino della religione che i sociologi avevano previsto, è avvenuto qualcosa di veramente diverso”.
Uno dei più noti specialisti di indagini sociologiche quantitative in tema di religione, Laurence R. Iannaccone, scriveva nel settembre 1998 che i dati mostrano ormai con evidenza come la tesi secondo cui “la religione deve inevitabilmente declinare quando la scienza e la tecnologia avanzano” è stata “dimostrata falsa”, e che “a mano a mano che i sondaggi, le statistiche e i dati storici si sono accumulati, la continua vitalità della religione è diventata evidente” (“Introduction to the Economics of Religion”, Journal of Economic Literature, vol. XXXVI [settembre 1998], pp. 1465-1496 [p. 1468]). Mentre il numero delle persone che si dichiarano atee e agnostiche declina pressoché ovunque, in quasi tutti i Paesi del mondo – con l’eccezione di alcuni Paesi europei a lungo sottoposti a propaganda antireligiosa da parte di regimi comunisti – il numero di coloro che dichiarano di credere in una qualche forma di potere superiore alla persona umana, o a una vita dopo la morte, o affermano di consacrare qualche tempo durante la settimana a forme di preghiera o di meditazione, si attesta intorno all’ottanta per cento della popolazione, con punte in Paesi non secondari – Stati Uniti compresi – oltre il novanta per cento.
Il fenomeno del “ritorno del religioso” è dunque così evidente da non potere essere ignorato.
Per comprendere chi veramente beneficia del contemporaneo ritorno del sacro occorre superare – forse, ora, con l’aiuto di questa ricerca – alcuni pregiudizi tanto diffusi quanto infondati. Anzitutto, non è del tutto vero che il ritorno del sacro si verifichi completamente al di fuori delle religioni maggioritarie e delle Chiese storiche. Certo, mentre le statistiche sul numero di persone che si dicono interessate alla religione o al sacro sono notevolmente simili da Paese a Paese, le statistiche sul numero dei praticanti sono molto diverse. Tuttavia, esistono elementi per ritenere che il declino della pratica religiosa in Occidente sia stato in qualche modo sopravvalutato, e che si sia diffuso un “mito della chiesa vuota”, come lo chiamava già nel 1993 Robin Gill (The Myth of the Empty Church, SPCK, Londra 1993). Nel dettaglio – e con le precisazioni che seguiranno – la composizione del 2,12% di cittadini italiani che appartengono a minoranze religiose è la seguente: Tav. 1 - Minoranze religiose fra i cittadini italiani Cattolici “di frangia” e dissidenti 20.000 Ortodossi 57.500 Protestanti 409.000 Ebrei 29.000 Testimoni di Geova (e assimilati) 400.000 Altri gruppi di origine cristiana 26.000 Musulmani 40.000 Bahá’í e altri gruppi di matrice islamica 3.000 Induisti e neo-induisti 18.000 Buddhisti 107.000 Gruppi di Osho e derivati 4.000 Sikh, radhasoami e derivazioni 2.500 Altri gruppi di origine orientale 1.000 Nuove religioni giapponesi 2.500 Area esoterica e della “antica sapienza” 13.500 Movimenti del potenziale umano 20.000 Movimenti organizzati New Age e Next Age 20.000 Altri 5.000 Totale 1.178.000 I dati Caritas/Migrantes sono certamente un punto di riferimento ineludibile per chiunque si interessi all’immigrazione in Italia, ma quanto alla religione sono fondati sull’ipotesi di partenza – se del caso corretta quando i flussi migratori da un Paese appaiono palesemente alimentati soprattutto dai seguaci di una specifica religione – che gli stranieri presenti in Italia abbiano la stessa ripartizione religiosa dei Paesi di origine. Questa ipotesi si basa su manuali e dati governativi che, soprattutto nel caso delle Chiese cristiane, spesso non chiariscono se si tratti di “membri” attivi ovvero soltanto “battezzati” o “nominali”, e in molti casi sottovalutano l’area del “credere senza appartenere”. Appartenenza religiosa degli immigrati (stima Caritas/Migrantes – Dossier 2008) Cattolici 775.626 Ortodossi 1.129.630 Protestanti 138.825 Altri cristiani 52.181 Musulmani 1.253.704 Ebrei 7.165 Induisti 90.931 Buddhisti 55.861 Animisti 44.674 Altri 435.013 Totale 3.983.610
Principali minoranze religiose di immigrati in Italia (stima CESNUR 2008) Musulmani 1.153.400 Ortodossi 836.000 Protestanti 180.000 Buddhisti 37.000 Induisti 45.000 Sikh e radhasoami 15.000 Altri di origine orientale e africana 30.000 Ebrei 7.000 Testimoni di Geova 15.000 Altri 3.500 Totale 2.321.900
14. ECUMENISMO Che cos’è l’Ecumenismo? ■ E’ il movimento che tende all’unità dei cristiani e che comprende “attività e iniziative che, a seconda delle varie necessità della Chiesa e opportunità dei tempi, sono suscitate e ordinate a promuovere l’unità dei Cristiani” (UR 4). La ricerca dell’unità dei cristiani è un compito sempre più urgente della Chiesa cattolica. L’ecumenismo – da distinguere dal dialogo interreligioso – trova il suo fondamento nel testamento lasciatoci da Gesù stesso la vigilia della sua morte: “Ut unum sint” (Gv 17,21). Il Concilio Vaticano II ha descritto l’impegno a favore dell’unità dei cristiani come uno dei suoi principali intenti (UR 1) e come un impulso dello Spirito Santo (UR 1, 4). Papa GIOVANNI PAOLO II ha più volte sottolineato l’“irreversibilità della scelta ecumenica”(Ut unum sint, 3). E il Santo Padre BENEDETTO XVI, fin dai primi giorni del suo Pontificato, ha assicurato di impegnarsi a fondo per la ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. In questo compito, il criterio prioritario è l’unità della Fede. Il punto di partenza dell'ecumenismo è il Battesimo, quello di arrivo è la celebrazione comune dell'Eucaristia. ■ Il dialogo ecumenico è basato sul diritto-dovere di esprimere ciascuno, con serenità ed obbiettività, la propria identità, evidenziando ciò che si è, ciò che unisce e ciò che divide. Esporre con chiarezza le proprie posizioni non limita il dialogo ecumenico ma lo favorisce.
Perché esiste l’Ecumenismo? Perché esistono, fra i cristiani, divisioni, che sono contrarie alla volontà di Cristo, il quale ha pregato «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21), così da giungere all’unità di tutti i cristiani in “un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10, 16), affinchè “il popolo di Dio pervenga nella gioia a tutta la pienezza della gloria eterna nella celeste Gerusalemme” (UR 3).
Che tipo di male causano le divisioni tra i cristiani? ■ Causano vari tipi di male, sia all’interno della Chiesa sia al suo esterno. Infatti: • Sono uno scandalo, che indebolisce la voce del Vangelo. • «Le divisioni dei cristiani impediscono che la Chiesa stessa attui la pienezza della cattolicità ad essa propria in quei figli, che le sono bensì uniti col Battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione. Anzi, alla Chiesa stessa diventa più difficile esprimere sotto ogni aspetto la pienezza della cattolicità proprio nella realtà della vita» (UR 4). • “L‘universalità propria della Chiesa, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia” (CDF, Lett. Communionis notio, 17.3). ■ Questa non-unità fra i cristiani reca grave danno anche alla testimonianza, che i cristiani sono impegnati a proporre ai non-cristiani: costituisce una contro-testimonianza. “È doloroso che in questa situazione i cristiani perdano parte della loro spinta missionaria ed evangelizzatrice a causa delle divisioni che minano la loro vita interna e riducono la loro credibilità apostolica” (PONT. CONSIGLIO UNITÀ CRISTIANI, Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo, Presentazione).
Perché bisogna distinguere tra unità della Chiesa e unità dei cristiani? ■ Perché l’unità della Chiesa esiste già. L’unità, «che Cristo ha donato alla sua Chiesa fin dall’inizio, [...] noi crediamo che sussista, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica e speriamo che crescerà ogni giorno di più sino alla fine dei secoli» (UR 4). Per questo noi nel Credo proclamiamo: “Credo la Chiesa una…”, e questa Chiesa una sussiste nella Chiesa cattolica (cfr. LG 8). ■ Quella che manca è l’unità dei cristiani. Di fatto, «in questa Chiesa di Dio una e unica sono sorte fino dai primissimi tempi alcune scissioni, che l’Apostolo riprova con gravi parole come degne di condanna; ma nei secoli posteriori sono nati dissensi più ampi e comunità non piccole si sono staccate dalla piena comunione della Chiesa cattolica, talora non senza colpa di uomini d’entrambe le parti» (UR 3). ■ “L’unità dell’unica Chiesa, che già esiste nella Chiesa cattolica senza possibilità di essere perduta, ci garantisce che un giorno anche l’unità di tutti i cristiani diventerà realtà” (GIOVANNI PAOLO II, Discorso,13 novembre 2004). ■ E tuttavia i cristiani separati dalla piena comunione con la Chiesa cattolica hanno con essa, già fin d’ora, molti elementi in comune.
Quali sono gli elementi che le Chiese e le Comunità cristiane non-cattoliche non hanno in comune con la Chiesa cattolica? ■ I membri di queste Chiese e comunità comunit cristiane non-cattoliche: • “giustificati nel Battesimo dalla Fede, sono incorporati a Cristo e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della Chiesa cattolica cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore” (UR ( 3); • hanno “parecchi elementi di santificazione e di verità, come la Parola di Dio scritta, la vita della grazia, la Fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili” (UR 3). ■ “Lo Spirito di Cristo si serve di queste Chiese e comunità comunità ecclesiali come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla pienezza di grazia e di verità che Cristo ha dato alla Chiesa cattolica. Tutti questi beni provengono da Cristo e a lui conducono” (UR 3); e “spingono verso l’unità cattolica” ( LG 8). ■ “Con coloro che, battezzati, sono sì sì insigniti del nome cristiano, ma non professano la Fede integrale o non conservano l’unità della comunione sotto il Successore Successore di Pietro, la Chiesa sa di essere per più ragioni unita” (LG ( 15). ■ Nello stesso tempo la Chiesa Cattolica riconosce che le Chiese ortodosse sono a lei più pi vicine rispetto alle comunità cristiane non-cattoliche, cattoliche, in quanto esiste non poca differenza tra quest’ultime e le Chiese Ortodosse.
Qual è la differenza tra le Chiese ortodosse e le Comunità ecclesiali non-cattoliche? non ■ Le Chiese ortodosse, nate a partire dall’anno 1054: • “hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, apostoli il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora uniti con noi da strettissimi vincoli” (UR UR 15.3); • quindi “una certa comunicazione nelle cose sacre, presentandosi opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo è possibile, ma anche consigliabile” (UR 15); • meritano il titolo di “Chiese particolari o locali”, e sono chiamate “Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche” (UR ( 14.1); • per la celebrazione dell’Eucaristia dell’Eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce; • hanno una comunione con la Chiesa cattolica, così profonda «che le manca ben poco per raggiungere la pienezza che autorizzi una celebrazione comune della Eucaristia del Signore» (PAOLO VI, Discorso nella ella Cappella Sistina nella ricorrenza del decimo anniversario della mutua cancellazione delle scomuniche fra le Chiese di Roma e di Costantinopoli, Costantinopoli 14 dicembre 1975); • non sono tuttavia in piena comunione con la Chiesa cattolica, in quanto esse non sono in comunione con il capo visibile dell’unica Chiesa cattolica che è il Papa, successore di Pietro. E questo non è un fatto accessorio, ma uno dei principi costitutivi interni di ogni Chiesa particolare. Pertanto, siccome “la comunione con la Chiesa cattolica, ca, il cui Capo visibile è il Vescovo di Roma e Successore di Pietro, non è un qualche complemento esterno alla Chiesa particolare, ma uno dei suoi principi costitutivi interni, la condizione di Chiesa particolare, di cui godono quelle venerabili Comunità cristiane, risente tuttavia di una carenza” (CDF, Responsa ad quaestiones,, 4). ■ Le Comunità ecclesiali non-cattoliche: cattoliche: • sono soprattutto quelle nate dalla riforma del 16° secolo: protestanti (ispirate al pensiero e all’o pera di Martin Lutero:1483-1546), anglicana (nata con l’Atto di Supremazia del re inglese Enrico VIII del 1534)… Oltre a queste, esiste anche una moltiplicazione di sempre nuove denominazioni cristiane, che sono nate e nascono in continuazione; • non hanno la successione apostolica nel sacramento sac del-l’Ordine, l’Ordine, e perciò sono prive di un elemento costitutivo essenziale dell’essere Chiesa; • specialmente a causa della mancanza del sacerdozio ministeriale, non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico (cfr. UR 22.3); • “per questo motivo, non è possibile, per la Chiesa cattolica, l’intercomunione eucaristica con queste comunità” (CCC ( 1400); • tuttavia, “mentre nella santa Cena fanno memoria della morte e della risurrezione del Signore, professano che nella Comunione di Cristo è significata la vita e aspettano la sua venuta gloriosa” (UR ( 22); • non possono, secondo la dottrina cattolica, essere chiamate “Chiese” in senso proprio (cfr. CDF, Dominus Iesus, 17.2), in quanto mancano dei sacramenti dell’Ordine e dell’Eucaristia; • in esse si trovano tuttavia “numerosi elementi di santificazione e di verità”, “che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica” (LG 8), come ad esempio la Sacra Scrittura, il Battesimo, la carità….
Quale principio rincipio è importante nel dialogo ecumenico? Nel dialogo ecumenico “vale sempre il principio dell’amore fraterno e della ricerca di comprensione e di avvicinamenti reciproci; ma anche la difesa della Fede del nostro popolo, confermandolo nella gioiosa certezza cert che l’«unica Christi Ecclesia… subsistit in Ecclesia catholica, a successore Petri et Episcopis in eius communione gubernata» («l’unica Chiesa di Cristo… sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui» (LG 8)” (BENEDETTO XVI, Omelia, 12-5-07).
15. IL FONDAMENTALISMO CHE COS’È Nel 1800, alcuni protestanti tradizionalisti americani contestano la troppa libertà con cui alcuni interpretano la Bibbia. Ricordano che essa è intoccabile e va presa alla lettera perché è infallibile e non contiene errori in nessun campo (storico, scientifico, religioso…). È nata così la figura del fondamentalista: • è colui che si ritiene unico possessore della verità, • rifiuta ogni dialogo, • ricorre anche a metodi violenti per combattere chi non la pensa come lui.
TANTI FONDAMENTALISMI A – IL FONDAMENTALISMO RELIGIOSO: E' il più pericoloso perché coinvolge Dio. Lo “usa” per dare più dare più peso alle proprie affermazioni. Nonostante questo aggancio importante sovente degenera in fanatismo e nel terrorismo. “Sfrutta” a suo uso e consumo alcuni Libri religiosi fondamentali (la Bibbia, il Corano…), per legittimare le “proprie” idee e scelte. • In pratica, pretende che la realtà sia interpretata attraverso un’unica religione (la propria). • In molti casi, la religione è solo un pretesto per giustificare fondamentalismo culturali, finanziari ed economici.
B – IL FONDAMENTALISMO ECONOMICO: è l’imposizione di un modello potente su altri più deboli. È il caso delle o multinazionali che monopolizzano il mercato e impongono i loro prodotti “griffati” a danno dei più poveri. Esempio: i prodotti transgenici o altri beni di consumo (banane, caffè…) imposti con forza e pagati poco o niente ai coltivatori. o banche che applicano tassi ai limiti dell’usura.
C – IL FONDAMENTALISMO POLITICO: è l’affermazione esclusivista dell’ideologia di un partito. Esempio: il leghismo…
D – IL FONDAMENTALISMO TERRITORIALE: è l’accaparramento di un territorio. Esempio: gli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi.
E – IL FONDAMENTALISMO CULTURALE: è una cultura che si considera superiore alle altre. Esempio: ’affermazione della superiorità della cultura occidentale su quella araba (Silvio Berlusconi).
L’INTEGRALISMO Il fondamentalismo può degenerare nell’integralismo, un atteggiamento estremista che impone la propria fede, in cui Dio viene usato come “pezza d’appoggio” per giustificare persecuzioni, attentati e massacri.
ESEMPI DI INTEGRALISMO RELIGIOSO: •
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l’integralismo islamico. Alcuni gruppi, comandanti da guide spirituali estremiste (come i mullah = signore, tutore) pongono la religione al servizio della politica. Dichiarano la “guerra santa” (jihad) contro i nemici interni ed esterni della propria religione. I sunniti (la maggioranza degli islamici), però, contestano il loro estremismo. L’Iran dell’ayatollah Khomeini: con la Rivoluzione del 1979 il clero sciita ha organizzato la società sulla base del Corano. Dalla sua interpretazione letterale, il nuovo regime ha preso ispirazione per la sua politica e ha proibito ogni dissenso (anche con la morte). L’Arabia Saudita (e la maggioranza dei Paesi del Golfo Persico) nega alle donne i diritti elementari: uscire in strada da sole, guidare l’auto, scegliersi il marito…
La storia ricorda altri esempi molto tristi: • Primi secoli d.C.: le persecuzioni dei romani contro ebrei e cristiani con l’accusa di sovversione; • Medioevo: le crociate massacrarono migliaia di persone. La religione era solo un pretesto per guerrieri affamati di terre e di ricchezza; • Oggi: i massacri in Algeria, compiuti dai mussulmani integralisti contro altri mussulmani che non voglio una religione di Stato; • il martirio di missionari e fedeli cristiani in Pakistan, India, Africa… colpevoli di non essere musulmani; • I rabbini sionisti secondo cui “gli ebrei sono i solo proprietari della terra d’Israele”, e non i Palestinesi; • i talebani (= studenti del Corano) che imponevano il burqa, proibivano la musica, la tivù, il taglio della barba…
conclusione:
La geografia religiosa attuale
Dell'attuale società multietnica e multiculturale i numerosi immigrati che, in modo talora drammatico, sono approdati dai Paesi più diversi in Europa e in particolare in Italia, non stanno soltanto cambiando la geografia sociale e lavorativa, ma anche quella religiosa Nel mondo moderno, diventato un gigantesco "villaggio globale", accanto alle grandi religioni tradizionali continuano a sorgere movimenti e fenomeni religiosi dalle caratteristiche nuove e non facilmente definibili perciò costruire una mappa attendibile dell'attuale territorio religioso presenta non poche difficoltà. Per orientarci in una situazione in continuo mutamento è importante fotografare, con l'aiuto delle statistiche e della collocazione geografica, la presenza e la diffusione delle maggiori religioni. Nel suo insieme,
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il cristianesimo, con circa due miliardi di seguaci, raggiunge un terzo della popolazione mondiale. Segue l'islam, con circa un miliardo e 200 milioni di seguaci, che costituiscono il 20% della popolazione. L'induismo, pur essendo presente prevalentemente nel subcontinente indiano (e dunque, non essendo, a rigore, una religione universale, anche se oggi l'emigrazione ha portato molti induisti nei Paesi occidentali), con i suoi
circa 900 milioni di aderenti rappresenta il 14% della popolazione mondiale. •
Quanto
al
buddhismo, con 360 milioni ioni di fedeli, rappresenta rappre il 6% della popolazione. Le altre tradizioni religiose hanno in genere, a differenza del cristianesimo, dell'islam e del buddhismo, presenti ormai nei vari continenti, una presenza senza locale geograficamente delimitata: così, il confucianesimo, con circa 225 milioni di aderenti (il 4%), è la religione religione tradizionale di molti Cinesi e dei Paesi dell'Estremo Oriente influenzati dalla Cina; il sikhismo,, con 23 milioni di membri, è per lo più presente in India (0,4%); lo stesso discorso o vale per il mondo in profonda trasformazione delle religioni tradizionali africane (si calcolano circa 95 milioni di aderenti, l'I,6%) e più in generale generale delle cosiddette religioni indigene presenti in vari continenti, in genere religioni etniche legate a un popolo e a un territorio determinati, determinati, come le religioni tradizionali degli aborigeni australiani (circa 150 milioni di appartenenti, il 2,6%). • Un discorso a parte merita l'ebraismo 'ebraismo, nonostante il numero relativamente piccolo di aderenti (circa 14 milioni, ilioni, lo 0,2%), anche a causa del duro colpo infertole dalla Shoah, oggi presente soprattutto, oltre che in Israele, negli Stati Uniti, per la straordinaria importanza della sua storia e le peculiarità che lo caratterizzano. Stando a queste ste statistiche, infine, circa il 15% della popolazione mondiale sarebbe sa costituita da atei, agnostici, indifferenti.
Mutamenti della geografia religiosa: religiosa
cause interne
La staticità di queste cifre non deve trarre in inganno. Esse non ci permettono,, ad esempio, di cogliere la dinamica interna alle varie religioni: religioni
così, mentre verso la metà del Novecento i primi tre Paesi cattolici erano l'Italia, la Francia e la Germania (tre Paesi europei), oggi il loro posto è stato preso dal Brasile, dal Messico e dalle Filippine: un mutamento impensabile cinquant'anni fa e che si spiega sia con il fatto che i processi di secolarizzazione hanno agito soprattutto in Europa sia con i tassi di natalità più elevati nei Paesi in questione sia, sia infine, con la natura particolare lare dei cattolicesimi diffusi in questi q Paesi, in genere più popolari lari e disposti a mediazioni e mescolanze con altre tradizioni religiose indigene impensabili in Europa. Ugualmente, è cambiata profondamente la geografia religiosa interna al variegato variegat mondo protestante. Oggi, dopo gli Stati Uniti, il secondo Paese protestante è la Nigeria e non più la Germania, patria della Riforma. Anche l'anglicanesimo, la confessione cristiana propria dell'Inghilterra, diffusa in varie parti del mondo in conseguenza del dominio coloniale niale inglese, oggi vede una prevalenza prevalenza di anglicani rieri, inconcepibile inconce un tempo per una confessione cristiana sorta e radicata sul suolo inglese.
cause
esterne
La globalizzazione non ha fatto che accelerare questi mutamenti,, contribuendo a rendere molto più mobile e frastagliato il panorama precedentemente disegnato. Anche le religioni infatti, seguendo i giganteschi processi di immigrazione dai Paesi poveri verso l'Europa e gli Stati Uniti, Uniti, si spostano e si modificano sia perché, come sta capitando in Italia da qualche anno, attecchiscono sul suolo occidentale piante religiose come il sikhismo o le religioni tradizionali africane, finora sconosciute, sia perché la compresenza nei vari Paesi europei di immigrazione di fedi diversissime facilita mescolanze e ibridazioni un tempo impensabili. Mentre le divisioni interne sono in genere l'esito di complessi processi storici che, come la Riforma protestante per il cristianesimo, simo, ne hanno, a partire dal Cinquecento, rotto l'unità confessionale, o che, come lo sciismo per l'islam, risalgono alle fasi più antiche della storia di questa religione, i mutamenti, invece, indotti dai processi di globalizzazione fanno parte di un processo più generale, caratteristico dell'attuale del territorio religioso: il pluralismo.
"Chiunque tu sia, se porti sembianze umane, sei tu pure un membro di questa grande comunità; [...] nessuno, purché porti nel volto l'impronta della ragione, sia pure un'espressione rozza e primitiva, esiste invano per me [...] tanto è sicuro, [...] il mio cuore sarà legato anche al tuo con il più bello dei vincoli, quello del libero e reciproco scambio di bene." J.G.Fichte, La missione del dotto Classe ________
Obiettivo del laboratorio didattico mettere in luce le interconnessioni tra fenomeni spesso analizzati separatamente, ma che insieme producono alcune delle più significative trasformazioni in atto nel paesaggio sociale e culturale dell’occidente.
TEMATICHE
sviluppi
GLOBALIZZAZION
1. GLOBALIZZAZIONE economica 2. CULTURA del CONSUMO 3. MULTINAZIONALI (Holding) 4. DEBITO internazionale 5. COMMERCIO Equo solidale
MIGRAZIONI
6. L’IMMIGRAZIONE 7. RAZZISMO e XENOFOBIA
multiculturale
8. ETNOCENTRISMO
RELIGIOSO
PLURALISMO CONVIVENZA
e ..
9. GLOBALIZZAZIONE culturale e sociale 10. INTERCULTURA 11. MINORANZE 12. GLOBALIZZAZIONE e PLURALISMO etico-religioso
13. RELIGIONI. in ITALIA 14. ECUMENISMO 15. FONDAMENTALISMI
Gruppi di lavoro
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