RACCONTARE AUSCHWITZ#70anni

Page 1

progettoCologno organizza

martedĂŹ 27 gennaio 2015

Raccontare Auschwitz Un percorso con i libri e attraverso i libri che raccontano la deportazione

per non dimenticare

70 anni 27 gennaio 1945 - 27 gennaio 2015


L’incontro è tenuto dalla Professoressa Gabriella Cremaschi e si inserisce in un percorso sulla memoria che prevede un altro appuntamento nel mese di aprile e una visita a maggio/giugno in uno dei luoghi della memoria

per ulteriori informazioni info@progettocologno.it


IL GHETTO Janina Baumann, Inverno nel mattino, Il Mulino, pag. 75-76 L’estate passò e tornammo ai nostri studi. il lavoro principale al Toporol era terminato, i prodotti erano stati raccolti e consegnati al Consiglio ebraico. Solo Renata continuava a lavorare nel suo fiorente allevamento di polli e spesso perdeva qualche lezione. Ricordo il mio secondo inverno nel ghetto come un periodo di sinistra “stabilità”. Imparai in qualche modo a convivere col male che reclamava le sue vittime tutto intorno a me, e con la marea della miseria che lambiva la mia porta. Li davo per scontati, come il calore estivo o il gelo invernale. Non ero la sola a vivere in quel modo. Ma se biasimo gli altri, dovrei in primo luogo biasimare me stessa. La mia famiglia riusciva ancora a vivere di quanto ci era rimasto dai tempi migliori. Zia Maria aveva portato via tutti gli oggetti di valore dal nostro appartamento di via Border e custodiva l’argenteria antica e i preziosi dipinti della collezione del nonno. Furono questi oggetti a tenerci in vita nel ghetto e dopo. Zia Maria li vendette uno per uno nella parte “ariana” e trovò tutti i modi possibili per farci pervenire i soldi. Dall’ottobre 1941, entrare o uscire dal ghetto senza un permesso speciale significava morte per chiunque tentasse di farlo e venisse sorpreso. Pure, nonostante il terribile periodo, i legami col mondo esterno non erano interrotti. C’erano buchi nelle mura, passaggi segreti attraverso case confinanti con la parte “ariana”; c’erano guardie da corrompere – tedesche, oltreché polacche ed ebree – agli ingressi del ghetto. Molti polacchi che lavoravano per l’azienda elettrica o per l’acquedotto erano autorizzati a entrare nel ghetto per i loro interventi. Tutte queste vie erano usate giornalmente da ebrei e non ebrei per rifornire il ghetto di cibo e altri generi. Alcuni di questi coraggiosi, fra cui dei bambini, lottavano semplicemente per tenere in vita le loro famiglie; altri si arricchirono; altri ancora ci lasciarono la vita, uccisi da una pallottola o dalle botte.

1


IL RASTRELLAMENTO Yitzhak Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, Giuntina, pag. 101-107 XII Via Mila C’è una strada a Varsavia, Via Mila. Strappatevi il cuore dal petto e al suo posto metteteci delle pietre. strappatevi dalle orbite gli occhi bagnatie al loro posto metteteci dei cocci: così non avrete visto nulla, non avrete saputo nulla. Tappatevi le orecchie per non sentire – sordi! Sto per raccontare la storia di via Mila. C’è una strada a Varsavia, via Mila. Chi è che piange in silenzio? No, non sono io. Via Mila sta al di là di tutte le lacrime, nessun ebreo piange. I goyìm, se avessero visto quelle scene, sarebbero scoppiati in un terribile pianto, ma nel ghetto non c’erano goyìm quel giorno, il giorno di via Mila. Soltanto ebrei e tedeschi…ebrei! ebrei! ebrei! Senza fine. Hanno già massacrato trecentocinquantamila ebrei di Varsavia – i vecchi fucilati nel cimitero, gli altri portati a Treblinka. Ma via Mila è ancora piena, zeppa come i vagoni! Come mai? Non sono già stati tutti massacrati? Non sono stati fucilati e impiccati? Sono gli ebrei degli shops su quel pezzetto di via Nowolipie e via Lesz gli ebrei con i numerini, gli ebrei fortunati! Quelli che sono riusciti a entrare in uno shop. Gli ultimi ebrei. Si, il resto! Il resto… Gli ebrei degli shops e gli ebrei di via Gesia, gli ebrei della Kehile, quelli con le patacche sul petto e le scope in mano, gli ebrei chiamati plazuvke, che ogni mattina escono cantando dal ghetto, e gli ebrei dei nascondigli…Ci sono ancora ebrei a Varsavia! E io non lo sapevo. Magari non ci fossero! Che non fossero mai venuti al mondo! ma visto che ci sono, meglio sarebbe se fossero morti prima di aver visto 2


via Mila…questa strada di Varsavia. Ascoltate, ascoltate tutti: è bene che un Dio non esista…anche se fa così male stare senza di Lui! Ma se ci fosse, sarebbe ancora peggio! Dio e via Mila…che coppia! Tirate fuori i vostri bimbi nascosti nelle valigie e schiacciateli contro il muro!Accendete un grande rogo e saltateci dentro; strappatevi i capelli: c’è un Dio! Che ingiustizia! Che beffa! Che vergogna! All’alba, prima ancora che si levasse un altro giorno malvagio e ingiusto, si è saputo nelle cantine, nelle soffitte e negli altri rifugi: “Tutti gli ebrei entro le ore dieci, e non un secondo più tardi, dovranno trovarsi in via Mila. E’ permesso portare una sola valigia…e se qualcuno resta in casa, sarà ucciso sul posto”. All’alba, cominciarono ad affluire da ogni dove. Alcuni uscirono dalle cantine, altri scesero dalle soffitte; si capiva subito dove si erano nascosti…malati giù dai letti, come se fossero sani! E tu non aiutarsi a camminare, non li sorreggere, non li rialzare se cadono. Tutti andiamo in via Mila, e fra un’ora non ci sarà più un ebreo vivo né in Dzielna né in via Pawia – sono già le nove! Fra un’ora Varsavia avrà l’aspetto di tutte le grandi città ebraiche, di tutti i villaggi di Polonia e di Lituania, di ogni luogo dove sono arrivati i tedeschi. Manca un’ora – il sole si è spento sopra Varsavia ed è venuto con noi in via Mila, con gli ultimi centomila ebrei di via Mila. No, non è il sole! Un terrore venuto dal cielo ci ha crudelmente accompagnato, un grande terrore che il pallore dei volti di quei centomila riflette. Terrore! Via Mila ne è colma, com’è colma di ebrei – è sospeso nell’aria. E anche noi, anche noi non apparteniamo più alla terra, che ci manca sotto i piedi.Vedo amici, conoscenti…ho dimenticato i loro nomi, ho dimenticato come si chiamano, sono tutti come morti…Chi è questo? E quest’altro? Chi è questa donna col bimbo? 3


Mi sono nascosto in una casa e sono rimasto sdraiato per terra con mio figlio tutto un giorno e una notte. All’alba ci siamo intrufolati nella fila del mio shop – in file di cinque, pronti per la selezione, pronti per mettersi sulla bilancia tedesca per essere uccisi subito o più tardi…Sono passato davanti a loro a testa alta. Allora ho visto come hanno strappato un sacco dalle magre spalle di un ebreo, e il sacco si è messo a piangere…un bimbo! Un bimbo ebreo! Il gendarme s’infuria: cerca il padre…urla al bambino: qual è tuo padre! Il bambino guarda il padre, lo guarda e non piange…lo guarda e non lo tradisce. Che bambino! Allora il tedesco ha trascinato fuori dalla fila un altro ebreo, un “innocente” – Tu! e li ha messi entrambi fra i condannati a morte – che spasso! Ho visto…Lasciatemi, non fate domande, non domandatemi cosa, né come, né dove! Vi supplico: non cercate di sapere ciò che avvenne in via Mila. 24-26 dicembre 1943

4


LA PARTENZA Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, pag. 149 A Christine van Nooten (presso Glimmen, 7 settembre 1943) Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto”. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Misha sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Misha. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro Etty Etty Hillesum morì a Auschwitz il 30 novembre 1943

Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, pag. 13 E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare? 5


IL VIAGGIO Elie Wiesel, La notte, Giuntina, pag. 31-34 C’era fra noi una certa signora Schachter, di una cinquantina d’anni, con il figlio, di dieci anni, accovacciato nel suo angolo. Suo marito e i suoi due figli maggiori erano stati deportati con il primo trasporto, per errore. Questa separazione l’aveva completamente distrutta. Io la conoscevo bene. Era venuta spesso da noi: una donna tranquilla, dagli occhi ardenti e acuti. Suo marito era un uomo pio e passava i giorni e le notti nella casa degli studi, mentre era lei che lavorava per sfamare i suoi. La signora Schachter aveva perduto la ragione. Il primo giorno del nostro viaggio aveva già cominciato a gemere, a domandare perché l’avevano separata dai suoi; poi le sue grida divennero isteriche. La terza notte, mentre dormivamo seduti l’uno contro l’altro e qualcuno in piedi, un grido acuto squarciò il silenzio: - Un fuoco! Vedo un fuoco! Vedo un fuoco! Seguì un istante di panico. Chi aveva gridato? Era stata la signora Schachter. In mezzo al carro, al pallido chiarore che proveniva dalle finestre, assomigliava a un albero secco in un campo di grano. col braccio indicava la finestra, urlando: - Guardate! Oh, guardate! Quel fuoco! Un fuoco terribile! Abbiate pietà di me! Quel fuoco! Degli uomini si attaccarono alle sbarre. Non c’era nulla, eccetto la notte. Restammo per un lungo momento sotto il colpo di questo risveglio terribile. Ne tremavamo ancora. A ogni cigolio delle ruote sulle rotaie ci sembrava che un abisso si stesse per aprire sotto i nostri corpi. Incapaci di addormentare la nostra angoscia, cercavamo di consolarci: “E’ pazza, poveretta…”. Le era stato messo un cencio bagnato sulla fronte per calmarla, ma lei continuava a urlare: “Quel fuoco! Quell’incendio!...”. Il suo figlioletto piangeva, afferrandosi alla gonna, cercando le sue mani: “Non è nulla, mamma! Non è nulla…Siediti!”. Lui mi faceva più male delle grida di sua madre. Alcune donne tentavano di calmarla: “Ritroverete vostro marito e i vostri figli…Fra qualche giorno…”. Le continuava a gridare, ansante, la voce rotta dai singhiozzi: “Ebrei, ascoltatemi: vedo un fuoco! Che fiamme! Che rogo!” Come se un’anima 6


maledetta fosse entrata in lei e parlasse dal fondo del suo essere. Noi cercavamo di spiegarci il fatto, per tranquillizzarci, per riprender fiato piuttosto che per consolarla: “Deve avere così sete, poveretta! E’ per questo che parla del fuoco che la divora…”. Ma tutto era inutile. Il nostro terrore avrebbe fatto scoppiare le pareti del carro, i nostri nervi stavano per cedere, la pelle ci faceva male: era come se la follia stesse per impadronirsi anche di noi. Non ne potevamo più. Alcuni giovanotti la fecero sedere di forza, la legarono e le misero un bavaglio. Era tornato il silenzio. Il bambino era seduto accanto alla mamma e piangeva. Io avevo ricominciato a respirare normalmente. Sentivamo le ruote scandire sulle rotaie il ritmo monotono del treno attraverso la notte. Ci si poteva rimettere a dormicchiare, a riposare, a sognare… Un’ora o due passarono così, quando un nuovo grido ci tagliò il respiro. La donna si era liberata e urlava più forte di prima: - Guardate quel fuoco! Fiamme, fiamme dappertutto… Di nuovo i giovanotti la legarono e la imbavagliarono. Le diedero anche qualche colpo. La gente li incoraggiava: - Che stia zitta, quella pazza! che chiuda il becco! Non è sola! Che la faccia finita! Le diedero parecchi colpi sulla testa, colpi da ammazzarla. Il figlioletto le si aggrappava addosso, senza gridare, senza dire una parola. Non piangeva più. Una notte che non finiva mai. Verso l’alba, la signora Schachter si era calmata. Accovacciata nel suo angolo, lo sguardo inebetito che scrutava il vuoto, non ci vedeva più. Per tutto il giorno restò così, muta, assente, isolata in mezzo a noi. Al cadere della notte si rimise a urlare: “L’incendio, là”. Indicava un punto nello spazio, sempre lo stesso. Erano stanchi di picchiarla. Il caldo, la sete, gli odori pestilenziali, la mancanza d’aria ci soffocavano, ma tutto ciò non era nulla in confronto a quelle grida che ci straziavano. Ancora qualche giorno e ci saremmo messi a urlare anche noi. Ma si arrivò in una stazione. chi si trovava vicino alle finestre ce ne disse il nome: - Auschwitz. Nessuno l’aveva mai sentito dire. Il treno non ripartiva. Il pomeriggio passò lentamente. Poi le porte del carro vennero aperte. Due uomini potevano scendere per cercare dell’acqua. 7


Quando tornarono, raccontarono che avevano potuto sapere, in cambio di un orologio d’oro, che era la stazione di arrivo. Ci avrebbero fatto scendere. Lì c’era un campo di lavoro. Buone condizioni. Le famiglie non sarebbero state divise. Soltanto i giovani sarebbero andati a lavorare nelle fabbriche. I vecchi e i malati sarebbero stati impiegati nei campi. Il barometro della fiducia fece un balzo. Era l’improvvisa liberazione da tutti i terrori delle notti precedenti. Si rese grazie a Dio. La signora Schachter restava nel suo angolo, rannicchiata, muta, indifferente alla fiducia generale. Il piccolo le carezzava la mano. Il crepuscolo cominciò a riempire il carro. Ci mettemmo a mangiare le nostre ultime provviste. Alle dieci di sera ognuno cercava una posizione adatta per dormicchiare un po’, e poco dopo tutti dormivamo. Ma improvvisamente: - Il fuoco! L’incendio! Guardate, là! Risvegliati di soprassalto, ci precipitammo alla finestra. Le avevamo creduto, ancora una volta, non fosse che per un istante. Ma fuori non c’era che la notte oscura. La vergogna nell’anima, tornammo ai nostri posti, rosi dalla paura, nostro malgrado. Siccome continuava a urlare, ci rimettemmo a picchiarla e a fatica riuscimmo a farla tacere. Il responsabile del nostro carro chiamò un ufficiale tedesco che passeggiava sul marciapiede, chiedendogli di poter trasportare la nostra malata al vagone-ospedale. - Abbiate pazienza, rispose quello, abbiate pazienza; lo faremo presto.

8


Verso le undici il treno si rimise in movimento. Ci si affollava alle finestre. Il convoglio rotolava lentamente. Un quarto d’ora dopo rallentò ancora. Dalle finestre si scorgevano dei reticolati: capimmo che doveva trattarsi del campo. Avevamo dimenticato l’esistenza della signora Schachter, quando improvvisamente sentimmo un urlo terribile: - Ebrei, guardate! Guardate il fuoco! Le fiamme, guardate! E mentre il treno si era fermato noi vedemmo questa volta delle vere fiamme salire da un alto camino, nel cielo nero. La signora Schachter aveva smesso da sé di urlare; era ritornata muta, indifferente, assente, nel suo angolo. Noi guardavamo le fiamme nella notte. Un odore abominevole aleggiava nell’aria. Improvvisamente le porte si aprirono. Dei curiosi personaggi, con delle giacche a righe e dei pantaloni neri, saltarono sul carro. In mano una lampada elettrica e un bastone. Si misero a picchiare a destra e a sinistra, prima di gridare: - Scendere tutti! Lasciate tutto sul carro! Presto! Noi saltammo giù. Diedi un ultimo sguardo alla signora Schachter. Il suo bambino la teneva per mano. Davanti a noi, quelle fiamme. Nell’aria, quell’odore di carne bruciata. Doveva essere mezzanotte. Eravamo arrivati a Birkenau

9


L’ARRIVO AL CAMPO Jorge Semprun, Il grande viaggio, Einaudi, pag. 202-203 - Capolinea, si scende! – ha gridato qualcuno, al centro del vagone. Ma nessuno ride. Siamo immersi in un chiarore violento e decine di cani abbaiano rabbiosamente. - Che cos’è questa fiera? – sussurra alla mia sinistra quello che, poco fa, aveva preso la situazione in mano. Mi volto verso l’apertura, per tentare di vedere. Il ragazzo di Semur è sempre più pesante. Di fronte a noi, su un marciapiede abbastanza largo illuminato dai riflettori, a cinque o sei metri dal treno, c’è una lunga fila di SS in attesa. Sono immobili come statue, i visi sono nascosti nell’ombra degli elmetti che la luce elettrica fa brillare. Sono a gambe larghe, col fucile appoggiato allo stivale della gamba destra, tenuto dal calcio col braccio teso. Alcuni non hanno un fucile, ma un mitra appeso sul petto per mezzo di una cinghia. Questi ultimi tengono al guinzaglio i cani, cani lupi che abbaiano verso di noi, verso il treno. Sono cani che sanno come comportarsi, di sicuro. Sanno che i loro padroni stanno per mollarli verso quelle ombre che usciranno dai vagoni chiusi e silenziosi. Abbaiano rabbiosamente alle future prede. Ma le SS sono immobili come statue. Il tempo passa. I cani smettono di abbaiare e si accucciano, ringhiando, col pelo ritto, ai piedi delle SS. Dietro di loro, nella zona di luce dei riflettori, fremono sotto la neve alberi imponenti. Il silenzio ricade su tutta la scena immobile e mi chiedo quanto tempo durerà. Nel vagone, nessuno si muove, nessuno dice niente. Un ordine conciso ha risuonato, in qualche punto, e spuntano suoni di fischietti, un po’ dappertutto. i cani sono di nuovo in piedi, abbaiano. La fila delle SS, con un solo movimento meccanico, si è avvicinata al vagone. E le SS si mettono a urlare, anche loro. E’ un frastuono assordante. Vedo le SS afferrare il fucile della canna, tenendo il calcio in aria. Allora, le porte del vagone scorrono brutalmente, la luce ci colpisce in viso, ci acceca. Come un ritornello gutturale, sgorga il grido che già conosciamo e che serve alle SS per la formulazione praticamente di tutti i loro ordini: - Los, los, los. I ragazzi cominciano a saltare sul marciapiede, a grappoli di cinque o sei per volta, spingendosi e urtandosi. Spesso, non misurano bene lo slancio, oppure s’intralciano a vicenda, e finiscono a pancia sotto 10


la neve fangosa del marciapiede. A volte, inciampano sotto i colpi che le SS distribuiscono a caso, col calcio del fucile, respirando rumorosamente, come boscaioli al lavoro. I cani si lanciano verso i corpi, a fauci spalancate. E sempre quel grido, che domina il frastuono, schioccando secco sopra al turbine disordinato: - Los, los, los! Si fa il vuoto intorno a me, e io reggo sempre sotto le ascelle il ragazzo di Semur. Bisognerà che lo lasci. Devo saltare sul marciapiede, nella confusione, se aspetto troppo e salto da solo, tutti i colpi saranno per me. So già che alle SS non piacciono i ritardatari. E’ finita, questo viaggio è finito, sto per lasciare il mio amico di Semur. Cioè, è stato lui che mi ha lasciato, sono solo. Stendo il suo cadavere sul pavimento del vagone ed è come se abbandonassi la mia stessa vita passata, tutti i ricordi che mi legano ancora al mondo di prima. Tutto quel che gli avevo raccontato, in questi giorni, in queste interminabili notti, la storia dei fratelli Hortieux, la vita nella prigione di Auxerre, e Michel e Hans, e il ragazzo della foresta della foresta di Othe, tutto questo che era la mia vita sta per svanire, dato che lui non c’è più. Il ragazzo di Semur è morto e io sono solo. Penso che aveva detto: - Non mi lasciare, amico, - e mi dirigo alla porta, per saltare sul marciapiede. Non ricordo più se aveva detto così: - Non mi lasciare, amico, - o se mi aveva chiamato per nome, cioè, col nome che mi conosceva. Forse aveva detto: - Non mi lasciare, Gérard, - e Gérard salta sul marciapiede, nella luce accecante.

11


AL CAMPO Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, pag. 100-103 ...il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest'ora già non è più un'ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. ...chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l'Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato: Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi mormorando, Pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando Come fosse la lingua che parlasse Mise fuori la voce, e disse: Quando... Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l'esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”. E dopo “Quando?” Il nulla. Un buco nella memoria. “Prima che sì Enea la nominasse. Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: “…la pièta Del vecchio padre, né’l debito amore Che doveva Penelope far lieta…” sarà poi esatto? …Ma misi me per l’alto mare aperto. Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “misi me” non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci deve essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della 12


trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare. “Mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto”: “…quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto”, ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: …Acciò che l’uomo più oltre non si metta. “Si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, “e misi me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: Fatti non foste per viver come bruti, Ma per seguir virtute e canoscenza Come se anch'io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. Li miei compagni fec’io sì acuti… …e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. “…Lo lume era di sotto della luna” o qualcosa di simile; ma prima?...Nessuna idea, “keine Ahnung” come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine. - Ca ne fait rien, vas-y tout de meme. 13


…Quando mi apparve una montagna, bruna Per la distanza, e parsemi alta tanto Che mai veduta non ne avevo alcuna. Sì, sì, “alta tanto”, non “molto alta”, proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano…le montagne…oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino! Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: “…la terra lacrimosa diede vento…” no, è un’altra cosa. E’ tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere: Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, Alla quarta levar la poppa in suso E la prora ire in giù, come altrui piacque… Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo esser morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli il Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell'intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui... Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. - Kraut und Ruben? - Kraut und Ruben. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et navets. Kaposzta es repak. Infin che'l mar fu sopra noi richiuso.

14


Liana Millu, Il fumo di Birkenau, Giuntina, pag. 95-96 Si cominciò a camminare in fretta perché stava per piovere e i Posten cercavano di arrivare in lager senza bagnarsi. Nessuno di noi parlava; le ragazze marciavano a testa bassa pensando allo Strafkommando, all’ignoto domani, e il duro snervante lavoro della fabbrica si coloriva già, nel nostro rimpianto, delle tinte meravigliose di un paradiso perduto. Piovigginava: terra e cielo incupivano nella nebbia. Come facevo spesso, marciavo tenendo gli occhi chiusi, contavo i passi scanditi dalla colonna ingaggiando con me stessa piccole scommesse. Ma, a un tratto, mi trovai a sbattere contro la schiena della mia vicina. Le file avevano perso il passo, si erano fermate; cosa succedeva? Aprii gli occhi e mi accorsi che eravamo già arrivati davanti al Quarantanelager. Nello stesso momento sentii gridare e vidi Bruna correre verso la rete dell'alta tensione. Dall'altra parte il figlio stava a guardarla. dalla tua mamma, Pinin! Corri! Il ragazzo ebbe un attimo di esitazione. Ma la madre seguitò a chiamarlo, e allora si precipitò verso la rete invocando: “Mamma!mamma!”. Raggiunse i fili, e nell'istante in cui le piccole braccia si saldavano a quelle della madre, ci fu uno scoppiettio di fiamme violette, un ronzio si propagò sui fili violentemente urtati, infine si sparse intorno un acre odor di bruciato. - Cosa succede, cosa succede? Banda di maledette, cosa succede? – gridavano i Posten accorrendo. Ma ormai non c’era più nulla da fare. Rimasero un po’ lì, gridando e bestemmiando, poi si accorsero che veniva tardi; c’era l’appello, e dovevano tornare al lager. Rabbiosamente ci ordinarono di riprendere il cammino. - Presto, presto, avanti! – gridavano irritati mentre la pioggia cominciava a cadere fitta. Le file si ricomposero ed Termine cominciò a segnare il passo. Prima di allontanarmi mi voltai: Bruna e Pinin erano ancora là strettamente abbracciati e la testa della madre posava su quella del figlio come volesse proteggerne il sonno.

15


LA LIBERAZIONE Primo Levi, La Tregua, Einaudi, pag. 157-158 La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fosse comune il corpo di Somogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla nece corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su non pochi vivi. A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di consolazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.

16


Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempigli animi, ad un tempo, di gioia e di doloroso senso del pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. E’ stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.

17


IL RITORNO Primo Levi, La tregua, Einaudi, pag. 324-325 Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l'abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. E' un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un'angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l'angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero al di fuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E' il comando dell'alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawac”. Imre Kertész, Essere senza destino, Feltrinelli, pag. 219-220 Dabbasso mi ha accolto la strada. Per andare da mia madre dovevo prendere il tram. Ma questa volta mi è subito venuto in mente: giusto, non ho soldi, e così ho deciso di andare a piedi. Per raccogliere le forse mi sono fermato ancora un momento sulla piazza, accanto alla panchina di poco prima. Là davanti, dove poi sarei dovuto andare e dove la strada 18


sembrava allungarsi, allargarsi, perdersi all’infinito, le nuvole a pecorelle sopra le colline azzurre erano già diventate viola e il cielo si era tinto di porpora. Inoltre era come se intorno a me qualcosa fosse cambiato: il traffico si era calmato, i passi della gente si erano fatti più lenti, le voci più sommesse, gli sguardi più miti, e sembrava che si guardassero in faccia. Era quella certa ora - persino adesso, persino qui la riconoscevo – che al campo era la mia ora preferita, e sentivo che una sensazione tagliente, dolorosa, vana si impossessava di me: la nostalgia. All’improvviso tutto era di nuovo presente, si animava, riaffiorava dentro di me, venivo travolto dagli stati d’animo più strani, scosso da ricordi piccolissimi. Sì, in un certo senso la vita là era più pura, più frugale. Mi tornava in mente tutto, passavo in rassegna tutti quanti, uno dopo l’altro, tanto quelli che non mi interessavano quanto quelli che avevano un loro motivo d’essere anche soltanto per questa reminiscenza, per la mia mera esistenza: Bandi Citrom, Pjetka, Bohusch, il dottore e tutti gli altri. E per la prima volta, adesso pensai a loro con un piccolo rimprovero, con una specie di affettuoso rancore. Però non esageriamo, perché il problema è proprio questo: io ci sono e so bene che, pur di poter vivere, il prezzo che pago è di accettare qualunque punto di vista: E mentre lascio vagare il mio sguardo sulla piazza che riposa tranquilla nella luce del tramonto, sulla strada provata dal temporale eppure piena di mille promesse, già avverto crescere e lievitare in me questa disponibilità: proseguirò la mia vita che non è più proseguibile. Mia madre mi sta aspettando e probabilmente sarà molto felice di rivedermi, la poveretta. Ricordo che un tempo aveva in mente che io diventassi un giorno un ingegnere, un medico o qualcosa del genere. Probabilmente succederà proprio come lei desidera; non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d'ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell'intervallo fra i tormenti c'era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l'esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno. Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l'avrò dimenticata. 19



per non dimenticare


www.progettocologno.it


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.