Egidio Guidolin
con la prefazione di
Ermanno Olmi e il contributo di
Edoardo Pittalis
Egidio Guidolin
con la prefazione di
Ermanno Olmi e il contributo di
Edoardo Pittalis
© 2015 Publileo e Egidio Guidolin Progetto grafico ed impaginazione Publileo - Mira VE Foto Egidio Guidolin Stampa Europrint srl - Quinto di Treviso Finito di stampare: maggio 2015 È proibita la riproduzione anche parziale dei materiali senza esplicito permesso dell’editore.
a mio papà e mia mamma che “vissero” questi oggetti
Ricordo bene quando, qualche decina di anni fa, cominciai a raccogliere questi cimeli. Fu forse per un disappunto nei confronti dei collezionisti di “militaria” di allora. Proponevo loro questi oggetti interessanti, curiosi, talvolta straordinari, ma ricevevo risposte tiepide. Solo ciò che parlava di morte e sacrificio pareva essere degno di una raccolta: tutto il resto, per usare una metafora calcistica, sembrava loro di “serie B” o anche meno. Io invece ho sempre ritenuto molto più interessante l’oggetto che, inizialmente plasmato al servizio della morte, venne poi trasformato e riutilizzato per contribuire alla rinascita. Mi ha sempre dato un piacere diverso pensare che una baionetta, tramutata con fatica e perizia in un falcetto, non mietesse più vittime ma il grano o che un elmo, trasformato in scaldino, non servisse più a proteggere dalle pallottole ma dal freddo. Punti di vista diversi, come diversa e unica nel suo genere è la mia collezione: amo più pensare alla pace che alla guerra. Egidio Guidolin
L’arte povera che fa rivivere le cose Ermanno Olmi
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“La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai”, diceva Toni Lunardi, ispiratore e protagonista del mio film “I recuperanti”. Lo chiamavano “Toni matto”, aveva fatto il pastore, sapeva trovare i sentieri di notte. Per questo l’avevano coinvolto nella guerra, perché non si perdeva mai. Anche nel buio più profondo. Sapeva sì e no leggere e scrivere ma aveva una capacità omerica di raccontare. Storie straordinarie… Autentiche epopee. Quando aveva ottantaquattro anni, e posso assicurare che erano ottantaquattro anni portati da galantuomo, mi diceva: “Non mi dispiacerebbe morire, perché sono stufo di sentir balle”. E la menzogna più grande, aveva ragione, fu la Grande Guerra. Una menzogna che gettò gli uni contro gli altri centinaia di migliaia di ragazzi e ragazzini. Mandati a scannarsi fra di loro nelle trincee mentre i generali, come dice la canzone “O Gorizia tu sei maledetta”, se ne stavano sui letti di lana. Diceva Giovanni XXIII che solo i poveri capiscono i poveri. È vero. C’erano trincee, su a Monte Zebio, separate da otto metri. Otto metri! Da qua a là. I soldati si parlavano: “Come siete messi a legna?” E stabilivano delle tregue perché dall’una e dall’altra parte potessero andare a “far fagaro”, cioè a rifornirsi di faggio e altro legname, per scaldarsi e alleviare le pene della trincea. Era la vita che interrompeva la morte. E anticipava il ritorno alla vita. È così: dopo ogni guerra, anche la più menzognera e spaventosa, torna la pace. La voglia di ricominciare. La vita. Ricordo le parole di quello che il cardinale Giancarlo Ravasi considera “il Dante della poesia ebraica e vertice dei profeti d’Israele”, cioè il profeta Isaia: “Spezzeranno le loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci”. Lo ripeteva sempre anche Giorgio La Pira. Le spade aratri. È commovente vedere questi pezzi raccolti per la mostra “La vita dopo la Grande Guerra”. I bossoli d’artiglieria lavorati dai battirame per farne dei portafiori da mettere nel capitello con la madonnina o sopra il camino in cucina. L’elmetto rovesciato che con la saldatura di un tubo diventa un imbuto. Il piatto di una gavetta bucherellata per farne una grattugia. Lo scovolo dello spazzacamino calato dal comignolo con la
spazzola attaccata al fondello di un proiettile. La cintura di cuoio austriaca usata per reggere il campanaccio al collo delle vacche… Era un’arte, recuperare. C’erano due fratelli, qui ad Asiago, che dopo la guerra ebbero l’incarico dal Comune di tenere in ordine le strade e tappare le buche. Avevano un soprannome: “i Hani”. E così tutti li chiamavano. Giravano con una moto Guzzi che dava uno scoppio di motore qua e uno venti metri più avanti. Bruum! Bruum! Il sedile dietro era rialzato così quando venivano avanti vedevi tutte due le teste, una sopra l’altra, il fratello alla guida e quello dietro. Scoprirono nella zona che era stata controllata dagli austriaci una villa bellissima, costruita per gli ufficiali, completamente di legno. Pezzo per pezzo riuscirono a smontarla tutta e a rimontarla in contrada Rodighiero. Erano formidabili, “i Hani”. Quando arrivarono i primi turisti adocchiavano qualche bella fanciulla e andavano a farle la serenata con un grammofono. Appoggiavano la scala sotto la finestra, si passavano su su l’apparecchio e lassù in equilibrio instabile uno reggeva il grammofono e l’altro girava la manovella. Era un’Italia povera che aveva una straordinaria capacità artigianale. Nell’aggiustamento di questi pezzi vedi una fantasia, una pazienza e soprattutto una abilità manuale che oggi sono andate perdute. Ci voleva una grande perizia tecnica per piegare, arrotondare, limare e trasformare una baionetta francese in un falcetto. Chi lo saprebbe fare, oggi? Questa cultura antica di non buttare via le cose ma di usarle con un’altra funzione è venuta completamente a mancare. Chi la farebbe tutta quella fatica per riciclare la canna di un fucile e trarne, con la biforcazione finale, un soffione per ravvivare il fuoco? Il pezzo più bello, però, è quell’elmetto appeso col filo di ferro a un picchetto sul muro e trasformato in un vaso di fiori. C’è un buco, in quell’elmetto. Forse di una pallottola o della scheggia di una granata che ferì o uccise il soldatino che lo indossava. E quel buco, attraverso il quale passò forse la morte, consente oggi all’acqua in eccesso di andarsene. E aiuta a vivere quelle bellissime stelle alpine. È vita. Arte. Poesia.
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Nel nome della Patria italiana e veneta Edoardo Pittalis
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Su tre milioni di cartoline precetto spedite nella primavera del 1915 dal Regno d’Italia agli italiani emigrati, rispondono appena in trecentomila e quasi tutti dieci, vent’anni prima sono partiti dal Veneto. Non vogliono essere considerati disertori, ma non c’è autorità che li possa costringere, tornare è vero amor di patria. È anche consapevolezza che la guerra che sta per coinvolgere l’Italia si combatterà interamente in quello che oggi chiamiamo il Nordest, che quelle che devono difendere a ogni costo sono le loro case, è la loro gente. È la loro terra. C’è un detto popolare dove la pianura veneta si stempera e incomincia quella friulana: “Tut te pol comprarme ma la me tera mai. La se me mare”. Nemmeno il più povero venderà la sua terra, è come la madre. I veneti rientrano soprattutto dal Brasile e dall’Argentina. A ognuno di loro il Regno offre un biglietto su un nuovo piroscafo, due fumaioli, seconda classe. Quando erano partiti avevano viaggiato su vecchie navi e accatastati nella stiva dove non c’erano cabine e non c’erano letti, una latrina da dividere in troppi. Adesso paga il re. In quella primavera rientrano quasi tutti insieme dal Sud America 192 mila emigrati. Ancora non sanno cosa li attenderà. L’Italia è cresciuta nel primo decennio del Novecento. Il Veneto che ritrovano è diventato nella loro assenza la terza regione industriale, dopo la Lombardia e il Piemonte. I lavoratori dipendenti, operai e contadini, rappresentano la quasi totalità della popolazione. Gran parte del guadagno se ne va per mangiare, l’80% del salario di un lavoratore avventizio, il 70% di un colono di Belluno. Dal 1901 quasi un milione e mezzo di veneti e friulani sono espatriati per cercare lavoro. Il Veneto è più grande di quello di oggi, ha la provincia di Udine in più col Friuli. Il 1914 era stato terribile, quasi volesse annunciare tempi ancora più duri. L’inverno dell’anno prima è stato freddissimo, ha gelato la Laguna di Venezia. L’autunno è stato caldissimo di scioperi. Nell’estate del 1914 è morto il Papa veneto, Giuseppe Sarto, Pio X. Da parroco e poi da Patriarca di Venezia ha girato la regione. C’è una foto diventata popolare che lo fa vedere a dorso di mulo sulla cima del Grappa nel 1901 per
benedire la statua della Madonna. Muore con l’Europa già infiammata dalla guerra, mormora: “L’Onnipotente nella sua immensa bontà non ha voluto che assistessi agli orrori”. La leggenda dirà che è stata la guerra a uccidere il Papa quasi ottantenne. E il 1915 si annuncia agli italiani ancora più disastroso. A metà gennaio un terremoto rade al suolo la Marsica, distrugge Avezzano e tutti i paesi attorno, più di trentamila morti, un abitante della regione su quattro. I soccorsi arrivano con enorme ritardo. “E volevano fare la guerra”, gridano i pacifisti. Pochi mesi dopo quelle case abbattute rendono credibile la distruzione del fronte nel primo film di propaganda destinati alle famiglie e alle truppe. S’intitola “Sempre nel cor la patria”, regia di Carmine Gallone, interprete la diva Leda Gys. Nome esotico che trasforma il molto meno nobile Giselda. È la storia di un’eroina italiana sposata a un austriaco che torna a casa e muore sventando una missione affidata al marito. Il rimpatrio degli emigranti fa dilagare la disoccupazione in un Veneto già preoccupato. Molti sono rientrati con donne e bambini. Nella sola zona di Bassano rimpatriano 5.137 persone. Nella regione sono così tanti che a San Donà di Piave provocano agitazioni e la chiusura dei lavori di bonifica. Un operaio disoccupato si uccide gettandosi dal ponte della ferrovia. E un contadino muore calpestato dagli zoccoli dei cavalli dei carabinieri che hanno caricato il corteo di protesta contro l’aumento del prezzo del grano. Il 24 maggio l’Italia entra in guerra. “Per piantare il tricolore sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria”, proclama re Vittorio Emanuele III. E da quel momento il Veneto è coinvolto, investito, bruciato, spogliato. Il fronte è una gigantesca “S” rovesciata lunga quanto il fiume Po che corre interamente nella regione. Per tre anni si combatte sempre e solo da queste parti. Una guerra orribile, nelle trincee. I fanti muoiono come mosche in avanzate per conquistare pochi metri di collina che il giorno dopo non servirà più alla strategia e che diventano “terra di nessuno” dove crescono fili spinati e croci. Le campagne diventano più povere, migliaia di famiglie sono condannate alla fame perché manca chi lavori la terra. Dice un canto popolare: “E
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anche ar mi marito tocca andare/ a fa’ la barriera contro l’invasor/ ma se va a fa’la guerra e poi ci more/ io resto sola con quattro creature”. Sono le donne a occuparsi della casa, degli affari, della terra. Ma chi è al fronte non dimentica mai il legame con la campagna, il lavoro dei campi con i riti e le sue credenze. Sono in gran parte fanti-contadini. Dopo Caporetto quasi settecentomila tra veneti e friulani vengono strappati alle loro case nelle province invase e sparsi per tutta Italia, spesso nel Sud più profondo. Vanno poveri tra gente ancora più povera, incapaci di capirsi perché parlano dialetti diversi, esattamente come i fanti in rotta. Sono diversi per come parlano, ma anche per quello che mangiano e perfino per come pregano. Quando la guerra termina, lascia il Veneto distrutto e più povero. Le tracce della grande fame sono visibili, nelle zone occupate ci sono stati trentamila morti per denutrizione. Nell’esercito sono caduti 62 mila veneti e 15 mila friulani, 105 soldati ogni mille richiamati. I reduci trovano macerie, la ricostruzione è lenta. Ci sono 32 milioni di metri cubi di macerie da rimuovere e in gran parte da utilizzare per la ricostruzione. Il patrimonio agricolo e quello zootecnico sono usciti devastati dalla guerra. L’intera zona litoranea è allagata. In ogni paese c’è un monumento ai Caduti. C’era un tempo in cui ogni domenica le donne prendevano una seggiola e andavano a sedersi al cimitero davanti a una tomba. A padri, figli, mariti morti in guerra raccontavano i fatti della settimana. In quello che oggi chiamiamo Nordest ci sono anche Sacrari che raccolgono i resti di centinaia di migliaia di soldati morti nella guerra. Metà di quei corpi non sono mai stati identificati: corpi dilaniati dalle granate, sventrati, sfigurati, abbandonati. Il vero eroe ha finito per diventare il Milite Ignoto. Tutti i paesi coinvolti nel conflitto hanno inventato nel dopoguerra la figura del soldato uomo comune: l’uomo comune in divisa che al fronte fa quel che deve, quel che può. Al grande scrittore Kipling, che perse l’unico figlio partito volontario, va il merito di aver trovato la definizione da incidere sulle tombe dei soldati inglesi senza nome: “Un soldato della Grande Guerra noto a Dio”.
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Il Grappa di fuoco e il ferro della rinascita Egidio Guidolin
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“Sembrava che il Grappa avesse preso fuoco. Tutto un tuono, tutto tremava. Pensavo fosse la fine del mondo”. Questo è il ricordo vivo che ho della prima guerra mondiale tramandatomi oralmente da mia madre, che era del 1910 e all’epoca della fase finale della Grande Guerra e della riscossa, nel ’18, aveva l’età sufficiente per ricordare quegli sconvolgimenti. La mia famiglia e quella dei miei nonni abitava (e abita ancora oggi) nella Pedemontana del Grappa. Quando usciamo di casa, d’inverno, alziamo gli occhi per guardare il massiccio e vedere se effettivamente ha messo il cappello di neve. È così vicino che nelle giornate limpide si distingue l’Ossario e si nota il luccichio della Madonnina. Le montagne, anche se non sono stato un loro assiduo frequentatore, mi hanno sempre affascinato. Ho girato abbastanza il Trentino, l’Alto Adige e infine l’Agordino: una vera scoperta, per me. L’alto Agordino in particolare, il Fodom, era ancora una zona abbastanza fuori dal turismo di massa e non c’erano molte attività stagionali. Il che mi spinse a provare ad aprirne una. Eravamo a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo. Mi stavo spostando con la mia attività in una nuova sede e già si sentivano chiari segni di crisi. Pensai, ridendo: “se le montagne non vengono a me, andrò io alle montagne”. E fu così che una sera di primavera, consigliato da una persona del luogo, scoprii l’Agordino. Ad agosto avevo già aperto l’attività a Caprile, dove sarei rimasto diversi anni. Fu una scelta indovinata che mi permise di lavorare e superare il momento iniziale di crisi, ed inoltre di conoscere persone e famiglie dove poter recuperare materiali, a volte straordinari, per la mia attività di antiquario. Erano ancora anni, anche se non molto lontani, in cui certi paesi ospitavano ancora, una volta al mese, la raccolta di ferro, legno e materiale ingombrante “all’aperto”. Una vera pacchia perché non era raro trovare oggetti interessanti o rari, inoltre potevi conoscere anziani del luogo ben contenti di spiegarti ogni dettaglio sull’uso di questa o quella cosa.
Una miniera di informazioni diventata preziosa nel tempo. Ancora oggi, nei momenti di bisogno, ho i miei punti di riferimento. Molti degli oggetti da me recuperati ed esposti provengono da case o tabià (le vecchie stalle di pietra col soprastante fienile di legno) del posto, che conosco uno ad uno. Non ho mai praticato il recupero da scavo e tantomeno acquistato materiale di quel genere. Molti oggetti smaltati esposti nella mostra, infatti, sono quasi integri. Segno evidente della cura e dell’amore con cui venivano conservati quei beni un tempo preziosi. Al ritorno nelle proprie case, appena finita la guerra, molti di questi abitanti le trovarono distrutte o, i più fortunati, saccheggiate e svuotate di tutto. Possiamo dunque immaginare quanto utili fossero i materiali abbandonati dagli eserciti in conflitto. Tutto era importante, tutto era vitale. Nella zona dominavano la pietra e il legno: l’improvvisa abbondanza di utensili e di ferro, indispensabile per la costruzione di attrezzi, fu un non piccolo sollievo. Classificare tutti i materiali raccolti con precisione scientifica o almeno per nazionalità, sarebbe impresa ardua. È evidente che dopo la conquista di una posizione veniva subito utilizzato quello che era rimasto dei vinti. Se fossi incorso in qualche imprecisione, dato l’argomento piuttosto anomalo e la carenza di libri sul tema, sarei anzi grato ai lettori per ogni segnalazione. Ho scelto come immagine-manifesto un elmetto. Uno delle migliaia e migliaia abbandonati sui campi di battaglia da soldati morti o feriti. I nostri nonni li riciclarono come imbuti e come recipienti per raccogliere il liquame, come “scaldin” da riempire di braci e da infilare nella “monega” sotto le coperte e come contenitori buoni per mille altri usi. Il nostro è stato riempito di stelle alpine. E tocca oggi il cuore di tutti i figli e i nipoti di quegli italiani e austriaci, croati e ungheresi, che si ammazzarono per motivi che oggi ci appaiono del tutto insensati.
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Coltelleria da cucina. La prima in alto ricavata da una sciabola. Le successive tre da baionette. Osservando la pi첫 piccola viene da pensare quanto sia stata sfruttata considerando la lunghezza media delle altre lame.
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Bel servizio da tavola da sei in alpacca usato principalmente dagli ufficiali, con impresso lo stemma sabaudo. Su una forchetta e un coltello vi sono i numeri 37 e 15 che servivano a distinguerne il reparto d’appartenenza.
Vari tipi di forchette. Le prime tre austroungariche, l’ultima a destra italiana. Tutte rinvenute assieme all’interno del cassetto di un vecchio tavolo da cucina.
Piatti austroungarici diametri 24 e 21 cm in uso nelle mense ufficiali e nelle infermerie.
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Cavatappi austriaco richiudibile. In sottofondo, pagina originale del catalogo dell’epoca, da cui poteva essere ordinato.
Apriscatole in vendita ai militari: il primo in alto austriaco, quello sotto italiano. Nonostante questi fossero piĂš indicati ad aprire la grande quantitĂ di scatolette che arrivavano al fronte spedite dai familiari, i soldati in genere preferivano utilizzare la baionetta.
Grattugia per formaggio di area austriaca.
Piccolo bossolo da 30 mm, prima utilizzato come tappo e poi come candeliere (bugia).
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Candelieri in fusione di ferro, usati frequentemente nei baraccamenti e nelle prime linee. Ne sono stati recuperati diversi da scavo.
Classici lumini a petrolio usati nei baraccamenti o nelle cavernette.
Coperchio di gavetta italiana riutilizzata per miscelare colori.
Coperchio di gavetta italiana riutilizzata come grattugia con ancora incastrati residui di resina.
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Gavetta italiana utilizzata da muratori e operai per il trasporto del pranzo che consumavano quando si trovavano a lavorare lontani da casa. Veniva riscaldata a “bagnomaria� in una specie di pentola bassa a volte ricavata dal fondo di un bidone. Qualcuno, per distinguerla dalle altre, incideva il proprio nome all’esterno di essa oppure faceva delle tacche nei bordi.
Gavettone italiano, detto anche “degli alpini�, con manico riattato e contenente ancora sul fondo rimasugli di resina.
Coppia di bidoncini utilizzati per la lubrificazione di armi e macchinari.
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Elmo italiano mod. Adrian a cui è stato saldato sul fondo un pezzo di tubo per essere utilizzato come imbuto per il travaso di liquidi, in particolare gasolio.
Bidone per il trasporto del carburo, essenziale per il funzionamento di molte lampade ad acetilene, in particolare nelle gallerie, e poi riutilizzato per olii esausti.
Alpenstock austriaco, riutilizzato dagli scout di Marostica (VI), con incisa la sigla “ASCI” che significa appunto: “Associazione Scoutistica Cattolica Italiana”.
Alpenstock austriaco conservato ottimamente. Il modello di bastone più lungo era comodo dopo le grandi nevicate. Infatti la neve raggiungeva in quota altezze notevoli e quindi si poteva meglio ispezionare il terreno.
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Alpenstock italiani.
Picozza italiana e due bastoni in dotazione alle truppe inglesi.
Borraccia italiana Guglielminetti in legno di salice quasi integra. Il tappo a vite si è così consunto da necessitare di un pezzo di tela per la tenuta. Anche il piccolo “tapino” sopra il grande tappo, che serviva per bere a zampillo è stato cambiato. Mantiene ancora la cinghia originale, considerando l’oggetto molto fragile e deperibile è stato per decenni conservato con cura.
Borraccia in latta italiana a cui è stata sostituita la cinghia.
Fronte e retro di borraccia austriaca da mezzo litro. Su di essa è inciso il nome del proprietario, Roilo Giuseppe, Standschützen di Pieve di Livinallongo (BL), che vediamo in una foto da reduce.
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Un doveroso e sentito ringraziamento di cuore al regista Ermanno Olmi, allo scrittore editorialista Edoardo Pittalis, a Gian Antonio Stella per i suoi preziosi consigli e a tutto lo staff Publileo. Inoltre ringrazio per il loro contributo materiale Marisa Fanna, Valentino Morello, Massimo Pozzobon, Giampietro Zen, Massimo Pasquinucci, Mario Pernechele, Carlo Lorenzato, Paolo Mantesso, Sandra Pontarollo, Fiorenzo Silvestri, Dino Bernardi, Fabrizio Sansoni, Ivano Pasquali, Stefano Figagne, Mosè Temperato, Stefano Favero, Vincenzo Serraglio ... e a tutti quelli che involontariamente posso aver dimenticato. Egidio Guidolin
25,00