Luciano Nardelli
I Cavalieri della Quinta Luna Un racconto al tempo del Medioevo
Luciano Nardelli Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi racconti, soprattutto di fantascienza, ottenendo diversi riconoscimenti e premi. Ha collaborato con la RAI nella realizzazione di un radioprogramma di fantascienza.
Fra castelli e monasteri, feudatari e vassalli, vescovi-conti e abati, si muovono quattro ragazzi: “I Cavalieri della Quinta Luna”. In un mondo di faide per il potere, Fiammetta, Nuccio, Ossobuco e Guapo lottano per la giustizia. Il barone Mastino vuole impadronirsi con un inganno della terra dell’abbazia benedettina confinante con il suo castello e si circonda di loschi individui per far sparire un testamento importante che gli toglierebbe il titolo nobiliare. Con essi, trama contro i nostri eroi, che si trovano a dover risolvere ingarbugliate situazioni.
Un romanzo avvincente, per conoscere gli aspetti più importanti di un periodo storico fondamentale per la nascita della società moderna.
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Il libro è dotato di approfondimenti e schede didattiche on line
Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n°633, art. 2 lett. d).
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I Cavalieri della Quinta Luna
Pasqua del 963, Alto Medioevo
STORIA E STORIE
La storia raccontata da grandi storie per ragazzi
Luciano Nardelli
STORIA E STORIE
Un racconto al tempo del Medioevo
Completano la lettura: Approfondimenti finali F ascicolo di comprensione del testo S chede interattive su www.raffaellodigitale.it
Collana di narrativa per ragazzi
Editor: Paola Valente Coordinamento di redazione: Emanuele Ramini Team grafico: Claudio Ciarmatori, Benedetta Boccadoro Approfondimenti: Elena Frontaloni Schede didattiche: Elena Frontaloni Ufficio stampa: Salvatore Passaretta
II Edizione 2017 Ristampa
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Luciano Nardelli
I Cavalieri della Quinta Luna
Capitolo
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Un bosco in pericolo
Si era vicini alla Pasqua del 963.
Quella primavera la gente della valle non si sarebbe annoiata. C’erano tante di quelle novità da saziare la più intrigante delle comari. C’era il clima, per esempio, come non lo si vedeva da anni: temperatura mite, sole a volontà e pioggia al momento giusto. Una vera benedizione! E la valle fertile era un brulicare di vita con le sue campagne e i suoi boschi, con le fronti sudate e le schiene curve, piegate sotto il peso di mille mestieri. Nuccio osservava tutto questo in groppa a Ciupo, il suo asinello. Ma la notizia più interessante riguardava il barone Mastino, il feudatario, che aveva deciso di fortificare con una cinta di pietre il castello. I contadini, servi1, coloni o proprietari che fossero, si erano divisi in due fazioni: chi considerava l’evento una fortuna, perché il barone sarebbe stato tanto impegnato nell’impresa da lasciare in pace la gente, e chi, al contrario, profetizzava che, per risparmiare, Mastino avrebbe trasformato i contadini in muratori. E i campi sarebbero andati alla malora! Nuccio scosse la testa. Quelli non erano crucci adatti a un contadinello dodicenne. Lui era lì, nel bosco dell’Abbazia benedettina, per far legna e per godere di quel sole e di quel paesaggio. 1– Servi: la schiavitù, in Europa, scomparve con l’età carolingia, ma rimasero talune forme, come quella dei servi della gleba.
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Capitolo 1
Saltò a terra con una piroetta, lasciando che Ciupo sfornasse un raglio di protesta, e si accomodò in testa il galero2 di feltro. Faceva già caldo sotto il sole, così allentò il soggolo3 e fece cadere il cappello dietro la schiena. Scosse la testa, lasciando fluttuare i lunghi capelli castani che incorniciavano il suo volto ancora paffutello ma con tratti marcati. Aveva un naso bello diritto e grandi occhi color del miele scuro. Si lisciò la camiciola bianca infilata nelle brache verdi e accarezzò il manico del coltello tenuto su dalla cintola di corda. Controllò che le gerle di giunchi fossero ben strette ai fianchi di Ciupo e si avviò verso il ciglio della collina. Fiammetta sarebbe arrivata? Sarebbe stata puntuale? E subito alle sue spalle echeggiò una voce ben nota: – Nuccio! Si voltò sorpreso e la vide arrivare allegramente fra l’erba, dondolando un grosso cesto. Fiammetta, lunghi capelli neri, un visetto affilato con grandi occhi scuri, era la sua compagna di confidenze. La graziosa figlia del mugnaio sapeva metterlo a suo agio come pochi altri. Indossava un abito simile a un saio grigio, stretto in vita da una cinghia di cuoio, e pianelle con suola di legno molto alta. Grazie a quel tacco artificiale sembrava che fossero quasi della stessa altezza, mentre in realtà Nuccio superava l’amica di una mezza testa. – Perché hai fatto tardi? – Scusami, Nuccio. Ho dovuto fare il giro più lungo per andare a far provvista di uova dal Bepo. Servono a mio padre. Sai, in questi giorni non farà solo pane, ma anche molti dolci da portare su, al maniero. – Uuh! – fischiò Nuccio. – Visite importanti? Qualche festa? 2–Galero: a Roma e nell’Alto Medio Evo, cappello rotondo usato anche dai contadini. Il
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galero è poi divenuto il cappello cardinalizio di panno rosso. 3–Soggolo: nastro o striscia di cuoio che passava sotto la gola e assicurava al capo certi cappelli, anche a larghe tese.
Un bosco in pericolo
Fiammetta gli si avvicinò. – Forse – ammise sbattendo le lunghe ciglia. – E non me lo vuoi dire? – Non adesso – rispose Fiammetta, schioccandogli a sorpresa una bacio su una guancia. Nuccio arrossì e si consolò pensando che erano soli. Fiammetta era così. Spontanea ed esuberante. Un tesoro di ragazza, ma a volte un po’ troppo espansiva, specie quand’erano in compagnia. – Be’ – commentò Nuccio riprendendosi – prima o poi lo verrò a sapere. Qui i segreti durano poco. – Oh, questo è vero – confermò Fiammetta, giuliva. – A proposito, lo sai che Rosalba, la figlia del falegname, ha messo gli occhi addosso a… – Fiammetta, ti prego! – la bloccò, ostentando indifferenza. – Riusciresti a raccontare pettegolezzi anche a un sordo! Lei s’imbronciò. Mollò il cesto a terra e incrociò le braccia sul petto. – Se non ti interessa la mia compagnia, signorino, non hai che da dirlo! – Ma no, ma no! Lo sai che ti aspettavo, Fiammetta. È solo che stavo pensando ad altre cose. – Più importanti? – Diverse. Nuccio la invitò a sedersi fra l’erba del ciglio lasciando penzolare le gambe nel vuoto. Fiammetta raccattò la cesta e si sedette accanto a lui. Nuccio tese il braccio destro e tracciò un arco immaginario nell’aria, partendo dalla mole dell’Abbazia, alla loro sinistra, per proseguire sui campi e sul borgo che sorgeva a metà strada dal castello di Mastino. – Ecco, pensavo a tutto questo – spiegò. – Un bel paesaggio, ma lo conosco a memoria. 7
Capitolo 1
– Sbagli, perché a ogni raggio di sole cambia aspetto. Non te ne sei mai accorta? Adesso però imprimitelo bene nella mente, finché rimane così com’è. – Perché? Dovrebbe cambiare? Nuccio annuì. – Non hai sentito le voci che circolano? – No – ammise la giovane sgranando gli occhioni. – Guarda il castello, allora. Fiammetta obbedì e seguì il braccio di Nuccio. Il maniero del barone Mastino, in realtà, non era molto grande. La collina che lo ospitava era bassa e larga, facile da salire, ma sul cocuzzolo si elevava la motta4 di terra che sorreggeva le strutture del castello. Era una piattaforma artificiale realizzata con la terra di riporto ricavata dagli scavi del fossato. Il castello si componeva di un’alta torre a tre piani, con base di pietra, terra e fango, e di una palizzata di cinta con cinque torri di legno. – Ebbene? Che c’è di nuovo? – domandò Fiammetta. – Adesso niente, ma fra poco potresti non vederlo più così. – Perché? – Perché il barone Mastino vuole abbattere la cinta e rifarla di pietra, e anche le torri. – Non gli va bene così? – si sorprese la fanciulla. – Non più – spiegò Nuccio. – Sai, su all’Abbazia l’abate Leone mi ha parlato di certe invasioni di Ungari, al Nord. L’esercito dell’Imperatore Ottone5 parecchi anni fa li ha respinti in una terra chiamata Sassonia. Ma il pericolo esiste e così i feudatari stanno fortificando i loro castelli per sé e per la popolazione. – Bene – commentò Fiammetta. – Vuol dire che i signori si preoccupano per noi.
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4– Motta: lieve rialzo collinare. 5– Ottone: Ottone I il Grande (912-973), re di Germania dal 936. Nel 962, a Roma, si fece incoronare Imperatore da Papa Giovanni XII, facendo riconoscere così la supremazia dell’Impero sul Papato, e fondò il Sacro Romano Impero Germanico.
Un bosco in pericolo
– Macché! Pensano solo alle loro pance. – Che dici, Nuccio? – Rifletti, Fiammetta. Se i contadini fossero trucidati dai barbari, chi penserebbe più alla cucina dei nobili? E chi farebbe fruttare le loro terre? Ad ogni modo non è questo il punto. Il fatto è che si temono grandi sconvolgimenti nella valle. – Cioè? – Be’, il barone avrà bisogno di manovali e siccome non può distogliere troppi contadini dai campi, farà arrivare degli stranieri. Con tutti i guai che i forestieri portano. – Forse non sarà così – azzardò Fiammetta. – Beato il tuo ottimismo. Per bene che vada ci sarà un andirivieni di gente. Lavoratori, fornitori di materiali, carri, buoi e cavalli. Tutta la valle sarà una bolgia. – Be’, non sempre le novità portano male. Tutta questa gente dovrà pur mangiare, dormire e vestirsi. E se noi sapremo darci da fare, arriveranno anche i soldi: denari d’argento, magari. Nuccio si strinse nelle spalle. – È difficile che la miseria porti ricchezza. Ad ogni modo è inutile discuterne adesso. Volevo solo raccontarti le novità. Che cos’hai di bello lì dentro? – domandò additando la cesta. – Hai qualcosa da mangiare? – Sì, pane e formaggio! Nuccio, però, cambiò la sua richiesta. – Mangeremo più tardi. L’abate Leone mi ha chiesto di portare all’Abbazia almeno quattro fascine di legna. Mi aiuti? – Certo. Cominciarono a raccogliere i rami sparsi al suolo e a riporli nelle gerle. Continuarono di buona lena per una mezz’ora o più e non si sarebbero fermati se a un certo punto Nuccio non avesse avvertito un rombo sordo in lontananza. 9
Capitolo 1
– Che c’è? – chiese Fiammetta. Lui si portò un dito al naso e sussurrò: – Cavalli… e vengono qui. Presto, dietro quei cespugli. Non ci vedranno. – Ma… è proprio necessario nascondersi? – chiese Fiammetta. – Certo. Stanno arrivando nobili o soldati o, peggio ancora, banditi. È meglio non farsi vedere. A quella gente basta un pretesto anche futile per prendersela con i poveri. Nuccio scelse una radura fra alti pini e folti cespugli. Non dovettero aspettare molto, perché dal bosco sbucarono due cavalieri. Uno, alto e possente, montava un morello e indossava un giaco6 di cuoio coperto di piastre metalliche. Al fianco gli pendeva un lungo spadone. Nuccio lo riconobbe subito: era Nerone, il grosso tirapiedi del barone Mastino. L’altro cavaliere, su un baio, indossava brache larghe e una giubba di velluto. In testa portava un cappello verde a punta con piuma rossa. Era Tazio, il capomastro del castello, l’uomo che badava a tenere in ordine tutte le strutture, di pietra e di legno. E fu proprio Tazio che si fece sentire, con voce alta. – Fermatevi, messer Nerone. – Che c’è? – fece l’altro, trattenendo il focoso morello, che nitrì scalpitando. – Questo mi sembra il posto migliore. Guardate, quegli alberi sono adatti a diventare capriate e travi di sostegno e la pietra di questa collina mi sembra un ottimo materiale da costruzione. Ne verrà fuori un capolavoro, credetemi. – Ne sono sicuro – annuì Nerone, – e sono lieto che il posto vi soddisfi, Tazio. – C’è solo un problema, però. Mi risulta che questa collina appartenga all’Abbazia. 10
6–Giaco: casacca di maglia di ferro o altro che si portava a protezione del torso e delle braccia.
Un bosco in pericolo
Una risata animò il faccione barbuto di Nerone e dilagò nel bosco, zittendo uccelli, scoiattoli, rane e persino insetti. – Quello non è un problema! – Ma che dite? – si stupì Tazio. Nerone lo squadrò con un’occhiataccia. – Mio bravo capomastro, voi pensate al vostro lavoro. Ai frati ci penso io. Accarezzò l’impugnatura della spada, voltò lo stallone e comandò: – Al castello, al castello! Il barone deve saperlo subito. E partì al galoppo. Tazio si affrettò a seguirlo. Quando l’eco degli zoccoli svanì, Nuccio e Fiammetta uscirono dai cespugli e si guardarono, attoniti e spaventati. – Avevi proprio ragione, Nuccio – ansimò lei. – Cominciano i guai. – Già – riconobbe Nuccio. – E questo è pane per i denti dei Cavalieri della Quinta Luna!
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Capitolo
2 Fra le pergamene di Leone
C
– he cosa facciamo, Nuccio? – domandò Fiammetta guardandolo con occhi smarriti. – Be’ – sospirò lui, – le cose da fare sono due. Anzitutto bisogna avvertire l’abate Leone delle intenzioni del barone. Quello è capace di buttare all’aria tutta la collina! Poi prese Ciupo, cominciando a tirarlo verso la radura. – E la seconda? – domandò Fiammetta alzandosi. Nuccio rispose senza voltarsi. – Convocherò il Consiglio dei Cavalieri della Quinta Luna. Fiammetta sospirò. – Nuccio, ti prego, torna con i piedi per terra. Son cose grosse, queste. È meglio non immischiarsi. Siamo solo quattro ragazzi. – Qualcosa si può sempre fare – borbottò lui a mezza voce. – Sì, sfidare tutti i soldati del barone! E infilzarli con le nostre gloriose spade! – scherzò Fiammetta. Nuccio non se la prese e proseguì verso la radura con l’asinello. – Non metterla così, Fiammetta. Siamo ragazzi, d’accordo, ma siamo pur capaci di ragionare. E quando abbiamo deciso di fondare la Compagnia dei Cavalieri della Quinta Luna non pensavamo certo di andare a caccia di draghi fantasma. – Ma di ostacolare i prepotenti sì. Solo che con le spade di legno non mi ci vedo proprio, io, insieme a te, a Ossobuco e a Guapo, a mettere a tacere le velleità del barone! – ribatté Fiammetta. 12
Fra le pergamene di Leone
– Certo che no, ma qualcosa si può fare. Ricordi l’inverno appena trascorso? Siamo riusciti a trovare le capre di sora Clotilde disperse nella neve. – Già, a trovar capre siamo maestri! Nuccio sbuffò, poi disse: – Pensala come vuoi, ma io qualche idea ce l’ho già. – E non me ne parli? – si arrabbiò Fiammetta. – Te l’ho già detto, no? Vado da padre Leone. – A quest’ora sarà certamente impegnato con i salmi in chiesa. – E allora tornerò più tardi. Tanto oggi è giorno di lezione, per me. Poi, notando che Fiammetta stava per sedersi di nuovo, chiese: – Vieni con me all’Abbazia? – No. Devo tornare a casa prima di pranzo. Papà aspetta le uova. – Ah già, l’ospite misterioso del barone. – Non è poi tanto misterioso. Pare che si tratti di un Legato7 imperiale che arriva in visita. – Com’è che adesso me lo puoi dire e prima no? – domandò Nuccio, ironico. – Scherzavo, non l’avevi capito? – E che ci viene a fare, qui? Fiammetta fece spallucce, scuotendo graziosamente i capelli neri. – Non lo so con precisione, ma mio padre dice che forse vuole controllare come vanno certe cose: la raccolta dei tributi, l’amministrazione della giustizia e altre ancora. – Uuh – ridacchiò Nuccio. – Se indaga a fondo ne scoverà delle belle! E il barone avrà di che scusarsi. – Non crederlo – ribatté Fiammetta. – Quell’uomo è bravo a nascondere le sue marachelle. Lo dicono tutti. 7–Legato: nell’antichità e nel periodo rinascimentale, funzionario inviato per incarico temporaneo a rappresentare uno Stato o un sovrano.
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Capitolo 2
– E non sempre i funzionari imperiali sono luminosi esempi di onestà, come sostiene mio padre. – Chiacchiere, chiacchiere – sbuffò Fiammetta. – Pensiamo al sodo. Ora vuoi mangiare qualcosa, sì o no? – Be’, un languorino lo sento – confermò Nuccio. – Poi mi dai una mano a finire di riempire le gerle? Neanche io voglio far tardi. – D’accordo. Allora vado a prendere il cesto sul ciglione. E s’incamminò svelta. Pochi secondi dopo tornò, si sedette, tolse la tovaglia dalla cesta e la stese a terra. Nuccio le si sedette accanto. Fiammetta prese un grosso pezzo di formaggio dalla crosta color ocra e ne tagliò una fetta che porse a Nuccio. Poi ne tagliò una per sé, assieme ad alcune fette di pane. Mangiarono in silenzio e velocemente, poi bevvero un po’ d’acqua da un piccolo otre. Al termine si dedicarono con rinnovata energia alla raccolta della legna. – Credo che sia sufficiente così – affermò Nuccio, infilando l’ultimo ramo nella seconda gerla. Uscirono dal bosco che il sole era alto. E in lontananza sentirono la campana della chiesa del borgo. Subito si fecero udire anche quelle dell’Abbazia, dalla voce più robusta. – Ciao, ci rivedremo presto – lo salutò Fiammetta. – Sì, sì, domani sera, ti va bene? Alla solita ora del Vespro8, qui, alla Tavola del Bosco delle Sette Querce. – Va bene. – Io avverto Ossobuco – si impegnò Nuccio. – E io avverto Guapo. Abito abbastanza vicino al castello. – D’accordo. Allora, a domani. il ragazzo davanti e l’asinello dietro, curvo sotto il peso delle gerle. Non c’era molta strada da lì all’Abbazia, ma bisognava aggirare il costone, scendere più a valle e risalire l’altro colle. 14
8–Vespro: penultima delle ore canoniche. L’ora del tramonto.
Fra le pergamene di Leone
*** Una mezz’oretta dopo Nuccio si trovò davanti lo spettacolo dell’Abbazia benedettina che, baciata dal sole, appariva in tutto il suo splendore. A valle scorreva il torrente dove i monelli del villaggio si tuffavano, d’estate, in cerca di refrigerio. Un ponte portava direttamente all’ingresso dell’Abbazia. Il fiume aggirava anche la collina delle Sette Querce, spingendosi ben oltre, dove c’era un secondo ponte prima della salita del castello. L’ingresso dell’Abbazia era presidiato da un’alta torre, o forse sarebbe stato meglio dire un campanile senza campane! Nuccio accelerò il passo. Come sempre, a quell’ora il portone era spalancato per consentire l’accesso ai poveri che avevano bisogno di un pasto. Entrò, trascinandosi dietro Ciupo, e si ritrovò nell’ampio piazzale di terra battuta che separava gli edifici del dormitorio e del refettorio dei fratelli laici, dagli altri: la panetteria, la macelleria, le dispense, la cucina dei monaci, le celle; e anche dalla chiesa abbaziale in stile romanico9. C’era molto movimento, nel cortile, ma Nuccio riconobbe subito l’alta figura di fra’ Fosco che avanzava a grandi passi verso di lui. Fra’ Fosco era robusto e una barbetta ben curata gli incorniciava un volto dai lineamenti severi, addolciti da grandi e profondi occhi neri. Indossava il saio dei benedettini, ma non era un frate e nemmeno un novizio: era un laico che essendo stato allevato dai monaci vestiva come loro. A fra’ Fosco era affidata la gestione della foresteria. Non appena vide il ragazzo, fra’ Fosco agitò in aria la mano destra. – Hai portato la legna? 9–Romanico: stile architettonico diffuso in Europa tra i secoli X e XII, prima del Gotico.
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Capitolo 2
Nuccio inarcò le sopracciglia. – Io l’ho portata, ma per frate Leone. Non so se te la cederà. – E allora andiamo a chiederglielo subito. Lo troveremo in biblioteca, credo. Ti secca, Nuccio? – O no! Anzi, devo parlargli anch’io. – Cose importanti? – Credo proprio di sì. – Lega pure l’asino – disse fra’ Fosco indicando la solita palizzata di fronte alle cucine. Nuccio obbedì e seguì il frate, per lui un amico nonostante la differenza di età. Entrarono in chiesa e, dopo la genuflessione e il segno di Croce, uscirono dalla parte del chiostro. Lo attraversarono e salirono le scale dell’edifico che portava alla Biblioteca. Trovarono frate Leone seduto a un tavolo, intento a sfogliare un grande libro. Nonostante la non più giovane età, frate Leone emanava una tale impressione di forza e saggezza da lasciare interdetti i suoi interlocutori. Alto e ascetico, volto squadrato, colpivano soprattutto la fronte spaziosa e gli occhi neri, indagatori. All’entrare di fra’ Fosco e Nuccio, l’abate si alzò e sfoderò un gran sorriso. Nuccio lo abbracciò. – Ecco il mio bravo allievo! Qual buon vento ti porta, Nuccio? Non è ancora l’ora della lezione. Mezzo soffocato contro il ruvido saio, il ragazzo non poté rispondere. Al suo posto lo fece fra’ Fosco. – La legna. Nuccio ha portato la legna, abate. Me ne servirebbe un po’ per la foresteria. Frate Leone annuì con un sorriso. – Prendine quanta ne vuoi. Ma tu, Nuccio, non sei più capace di parlare? – Oh, sì, abate – rispose alla fine, – e ho tante cose da raccontarvi. Ma una è… spaventevole, ecco! 16
Fra le pergamene di Leone
– Cosa può esserci di così terribile da inquietare uno che va su e giù per i boschi come te? – scherzò il frate. – Proprio il bosco! C’è un grave pericolo che lo minaccia. – E che sarà mai di così tremendo? – Il barone. Il barone Mastino… Frate Leone lo fermò con un gesto. – Che vuol combinare ancora quel ribaldo? E Nuccio, senza prendere quasi fiato, raccontò l’intera scena alla quale aveva assistito. Frate Leone si accigliava a mano a mano che lui parlava. Alla fine non commentò, ma prese per mano Nuccio e disse: – Vieni. E anche tu, Fosco. Adesso vi voglio mostrare una cosa. Si avvicinò a uno scaffale zeppo di libri e rotoli di pergamena impolverati. Lì accanto un frate rotondetto stava scrivendo su un gran libro e nemmeno alzò il capo: era frate Bon, il bibliotecario. Frate Leone prese una pergamena10, la srotolò e disse: – Guarda, Nuccio, guarda. Il ragazzo obbedì. – Sono parole, lo vedo bene, ma non le capisco. Che lingua è? – Ma quella che parliamo noi in questo momento, Nuccio! – La nostra lingua? Si può anche scrivere? Ma allora perché mi insegnate a leggere e a scrivere solo in latino, frate Leone? – Perché quella è la lingua dei dotti, figliolo, e i libri sono ancora scritti in latino. – E questa… questa nostra lingua? – Oh, per il momento è solo parlata. Ma come vedi si comincia ad usarla anche in qualche documento. E frate Leone lesse: 10–Pergamena: pelle di agnello o di pecora, lavorata e usata anticamente per scrivere. La carta, infatti, arrivò in Europa verso la metà del XIII secolo.
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Capitolo 2
“Ne lo detto anno 930 del mese di luglio Messer Grancane di Valbruna dona la terra ch’à nome Sette Querce, per kelle fini que ki contene, a parte Sancti Benedicti… ”11 – Credo di aver capito – fece Nuccio. – Certo che hai capito. È l’atto di donazione delle terre che circondano l’Abbazia ed è firmato dal padre di Mastino. Come vedi, il barone ha le mani legate. Può fare ben poco. – E voi credete che un pezzo di carta lo fermerà? Frate Leone abbassò la testa e apparve improvvisamente invecchiato. – No, non lo credo. E non so come potremo cavarcela. – Io vi aiuterò – promise Nuccio. Frate Leone gli accarezzò i capelli. – Tu stai lontano da questa faccenda, figliolo. È pericolosa. Vedrai, sapremo uscirne da soli e con onore. Resti a pranzo con noi? Nuccio scosse il capo. – No, grazie. I miei genitori mi aspettano. – Qui sei sempre il benvenuto – sorrise frate Leone. – Vai, figliolo, e non preoccuparti. A proposito, sei in casa, domani? – Sì, padre. È domenica, non ricordate? L’abate sorrise. – Sbadato che sono! Allora riferisci a tuo padre che manderò fra’ Fosco da voi dopo la Messa. E digli che prepari il farro che mi serve. Lui sa già. Non hai che da ricordarglielo. Va’, figliolo, va’! E ripose al suo posto la pergamena. Frate Bon alzò il capo dal suo lavoro e lo guardò con occhi assenti.
11– la frase è in parte tratta dal Placito di Capua, un atto notarile del 960. Nel testo del
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Placito, scritto in latino, risalta la frase in volgare, pronunciata da un testimone, e che per tradizione è considerata l’atto di nascita della lingua italiana (Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti).