N. 89 • LUGLIO 2016 • 4,50 E
ALTAMIRA
IL MUSEO NASCOSTO DI VENTIMILA ANNI FA
DA ZIMBELLO A IMPERATORE
LA NOTTE DI SAN BARTOLOMEO IL MASSACRO DEGLI UGONOTTI
LORENZO DE’ MEDICI
772035 878008 9
IL MESSIA RIVOLUZIONARIO CHE SPAVENTÒ ROMA
60089
GESÙ
periodicità mensile
LA COSTRUZIONE DELL’IMMAGINE DI UN LEADER
germania
- poste italiane s.p.a spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1, ne/vr 11,00 € - svizzera c. ticino CHF. 9,50- svizzera CHF. 9,90
CLAUDIO
ERICH LESSING / ALBUM
EDITORIALE
È azzardato dire,
forse, che i romani compresero subito i contenuti rivoluzionari di quella piccola religione monoteista nata in Palestina. Anche se l’astio nei suoi confronti, come la condanna a morte di Gesù Cristo e più tardi le persecuzioni, mostrano che, fin dall’inizio, l’Impero vide nei cristiani una minaccia all’integrità dello Stato. Questa religione non si occupava solo del rapporto tra divinità e uomo, ma del conforto durante la vita terrena (un aspetto molto diverso dalla protezione degli dei invocata dalla religione romana), del comportamento da tenere con i propri simili e non solo in relazione con lo Stato, e soprattutto della redenzione nell’esistenza ultraterrena. Tutti concetti che all’epoca erano sostanzialmente sconosciuti. E difatti la forza del Cristianesimo, al di là dei contenuti trascendenti, fu nell’aver introdotto nella romanità il concetto di welfare, vale a dire il mutuo supporto sociale per i membri della sua comunità. Inoltre predicava l’uguaglianza fra gli uomini, senza distinzione di etnia, sesso, stato sociale; cosa inconsueta in una società, quella romana, fortemente gerarchizzata. Avrebbe detto più tardi l’imperatore Giuliano, il quale tentò inutilmente di restaurare il paganesimo, che l’affermazione dei cristiani doveva attribuirsi «alla loro filantropia nei confronti degli estranei, all’austerità nel loro tenore di vita». GIORGIO RIVIECCIO Direttore
Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION
N. 89 • LUGLIO 2016 • 4,50 E
ALTAMIRA
Pubblicazione periodica mensile - Anno VII - n. 89
IL MUSEO NASCOSTO DI VENTIMILA ANNI FA
CLAUDIO
PRESIDENTE
RICARDO RODRIGO
DA ZIMBELLO A IMPERATORE
CONSEJERO DELEGADO
EDITORE: RBA ITALIA SRL
LA NOTTE DI SAN BARTOLOMEO
ENRIQUE IGLESIAS
Via Roberto Lepetit 8/10 20124 Milano Direttore generale: STEFANO BISATTI
IL MASSACRO DEGLI UGONOTTI
LORENZO DE’ MEDICI
LA COSTRUZIONE DELL’IMMAGINE DI UN LEADER
GESÙ
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Direttore responsabile: GIORGIO RIVIECCIO
IL MESSIA RIVOLUZIONARIO CHE SPAVENTÒ ROMA
MOSAICO DI CRISTO. BASILICA DI SANTA SOFIA, ISTANBUL, TURCHIA. FOTOGRAFIA: SCALA, FIRENZE
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MARINA MONTESANO Professore di Storia medievale, Università di Messina e VitaSalute San Raffaele, Milano; membro fondatore della International Society for Cultural History Autrice di: Da Figline a Gerusalemme. Viaggio del prete Michele in Egitto e in Terrasanta (1489-1490), Viella Editore Caccia alle streghe, Salerno Editrice
4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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NUOVA LUCE PER I BISONTI
Oggi, chi raggiunge Altamira può esplorare la grotta visitando una splendida e fedele riproduzione della Sala dei policromi, dipinta con la stessa tecnica dell’originale.
Grandi storie
Rubriche
22 Altamira, il gioiello dell’arte paleolitica La grotta di Altamira ci tramanda la testimonianza dell’intima comunione tra la natura e l’uomo di trentamila anni fa. DI J. A. LASHERAS
38 I banchetti dei greci Nell’antichità, le cene nelle case più ricche comportavano musiche e danze, ma anche conversazioni su temi importanti. DI F. J. MURCIA
48 Gesù, profeta o ribelle? I suoi seguaci riconobbero in lui il messia; i romani temettero le sue idee e lo condannarono come rivoluzionario. DI ANTONIO PIÑERO
60 Claudio, da zimbello a imperatore Appartato e disprezzato dai familiari, asceso inaspettatamente al trono imperiale, diede prova di saper governare. DI F. GARCÍA JURADO
70 Lorenzo il Magnifico Il più celebrato dei Medici seppe diffondere a fini politici l’immagine della sua magnificenza e della sua città. DI LAURA FEDI
82 La notte di San Bartolomeo La spirale di violenza scatenata dalle guerre di religione in Francia culminò con una strage di protestanti. DI J. J. RUIZ IBÁÑEZ
94 Indiani d’America I nativi americani ebbero un ruolo decisivo nelle guerre tra i coloni francesi e britannici. DI V. H. BEONIO BROCCHIERI
7 ATTUALITÀ 10 PERSONAGGI STRAORDINARI
Diogene, il filosofo scomodo per la società
Il pensatore cinico avversò con parole e atti la società ateniese, che considerava corrotta.
14 L’EVENTO STORICO
La Marsigliese, colonna sonora della Rivoluzione Scritto come canto di guerra, adottato dai giacobini, è infine divenuto l’inno nazionale francese
18 VITA QUOTIDIANA
La pasta, cibo che livella nobili e popolani
Origini e vicissitudini di uno degli emblemi della cucina italiana, che abbatté le differenze di classe
106 GRANDI SCOPERTE
Begram, un tesoro nel cuore della Via della Seta
La scoperta di una preziosa collezione di oggetti in avorio, vasi e statue romani, egizi e cinesi
110 LIBRI E MOSTRE 112 ITINERARI 114 PROSSIMO NUMERO
LIUTO DEL XVI SECOLO. CASTELLO SFORZESCO, MILANO. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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campagna di PicNic
LE GUERRE MONDIALI Le ambizioni nazionaliste, il progresso industriale e lo sviluppo tecnologico posero fine alla Belle Époque con la Grande Guerra (1914-1918), che causò 20 milioni di vittime. Nell’Europa che emerse dalla tragedia, le rimostranze territoriali, le lotte di classe e la crisi economica indebolirono la democrazia liberale a vantaggio di regimi totalitari, quali il fascismo, il nazismo e il comunismo. Con i loro atteggiamenti guerrafondai, insieme alle politiche aggressive dell’impero giapponese, innescarono la Seconda guerra mondiale (1939-1945), conclusasi con la raggelante cifra di oltre 60 milioni di morti.
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NARIMAN EL-MOFTY / AP IMAGES / GTRES
STRINGER / EFE
AT T UA L I T À
SECONDO L’EGITTOLOGO Nicholas Reeves (al centro), la regina Nefertiti fu la prima ospite della tomba KV62, ma, a causa della morte prematura e inaspettata del faraone Tutankhamon, la tomba fu riaperta e modificata per includere una nuova stanza che ne potesse ospitare la mummia.
INTERNO DELLA CAMERA FUNERARIA DELLA TOMBA DI TUTANKHAMON. I SUOI MURI CELEREBBERO ALTRI AMBIENTI.
ANTICO EGITTO
BPK / SCALA, FIRENZE
I tesori celati nella tomba di Tutankhamon Nuove indagini scientifiche realizzate con radar e infrarossi indicano l’esistenza di stanze nascoste nella tomba del faraone
LA SCOPERTA della
sepoltura della misteriosa regina Nefertiti è una delle grandi sfide che, con la localizzazione delle tombe di Cleopatra e Alessandro Magno, sono state sollevate dall’egittologia. Sopra, busto di Nefertiti che Ludwig Borchardt trovò ad Amarna nel 1912, e che oggi si trova nel Museo Egizio di Berlino.
E
sistono altissime probabilità che una o varie stanze siano celate oltre i muri della tomba di Tutankhamon nella Valle dei Re. È questa la notizia diffusa dal Ministero delle Antichità d’Egitto dopo che si sono resi disponibili i risultati preliminari di un’indagine effettuata con tecniche di scansione sulla tomba del faraone, condotta dal ricercatore giapponese Hirokatsu Watanabe, dell’Università di Waseda, a Tokyo.
Le analisi hanno registrato differenti temperature in alcune zone delle pareti nord e ovest della tomba del faraone bambino, e questo potrebbe indicare l’esistenza di un corridoio che porterebbe a un’altra camera funeraria; forse la tomba della schiva regina Nefertiti, consorte del faraone ereditario Akhenaton, come ipotizza l’eminente egittologo inglese Nicholas Reeves, secondo il quale nelle pareti ovest e nord della camera funebre di Tutankhamon esistono resti
di porte che furono murate all’epoca e che avrebbero potuto condurre a una stanza di immagazzinamento e alla camera di sepoltura intatta della regina Nefertiti. I dati saranno studiati e analizzati meticolosamente in Giappone, e se i risultati lo autorizzeranno gli archeologi potranno realizzare una piccola perforazione in una delle pareti prive di affreschi e introdurre una microcamera per scoprire quale mistero si nasconde dall’altra parte. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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AT T UA L I T À
ASSAF PERETZ, COURTESY OF THE ISRAEL ANTIQUITIES AUTHORITY
ARCHEOLOGI DELL’AUTORITÀ ISRAELIANA PER LE ANTICHITÀ PULISCONO UNA PARTE DEL MOSAICO APPENA SCOPERTO.
RITROVAMENTI
Scoperto un prezioso mosaico romano in Israele In un sito a Lod, vicino a Tel Aviv, gli archeologi hanno rinvenuto un mosaico che si aggiunge a un altro trovato nel 1996
G
li archeologi dell’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) hanno scoperto uno splendido mosaico di circa 1700 anni fa in una villa romana della località di Lod, a sudest di Tel Aviv. La scoperta è stata fatta mentre si stava preparando il terreno per costruire un centro archeologico destinato a ospitare il celebre mosaico di Lod, una magnifica opera rinvenuta nella sala dei ricevimenti della stessa
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villa romana nel 1996 e che è stata esposta nei principali musei del mondo.
Solo animali Il mosaico recentemente portato alla luce – molto più grande e più colorato del precedente – ornava il portico dell’abitazione. Misura circa undici per tredici metri ed è decorato con scene di animali e di caccia. Presenta una particolarità: non vi è raffigurato nessun essere umano, forse per via dell’origine giudaica del pro-
prietario, che rispettava il divieto biblico a proposito dell’idolatria. Alcuni degli animali che compaiono in queste scene, fra cui vengono rappresentati colombe, pesci, tori, leoni e cervi, non sono originari del Vicino Oriente, e questo porta gli archeologi a ritenere che gli autori di entrambi i mosaici provenissero dal nord dell’Africa. Quando il restauro verrà completato, anche questo mosaico sarà ospitato nel progettato centro archeologico del sito.
IL MOSAICO trovato
nel portico centrale della villa romana di Lod offre informazioni a proposito della ricchezza della famiglia che la abitava. Un simbolo della sua opulenza sarebbe il frammento in cui due colombe bevono vino da un’anfora (nell’immagine), scena che rappresenterebbe il caldo benvenuto riservato ai visitatori.
"Il mondo esterno è qualcosa d’indipendente dall'uomo, qualcosa di assoluto, e la ricerca delle leggi che regolano questo assoluto mi appare come un sublime impegno della vita". (Max Planck)
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PERSONAGGI STRAORDINARI
Diogene, il filosofo scomodo per la società Giunto ad Atene da esule, Diogene aderì al gruppo filosofico dei cinici, di cui divenne la figura di spicco, e con i suoi atti si ribellò contro tutti i valori di una civiltà che considerava corrotta
Ribelle in un’epoca di crisi 410 a.C Diogene nasce nella città di Sinope, sulle rive del Mar Nero. È figlio di un banchiere chiamato Icesia.
340 a.C. Esiliato da Sinope per aver falsificato denaro della città, si dirige ad Atene per studiare con il filosofo Antistene.
338 a.C. Dopo la battaglia di Cheronea, le città-Stato greche si sottomettono alla Macedonia e perdono parte della loro autonomia.
335 a.C. Alessandro Magno visita Diogene a Corinto, dove si svolge l’aneddoto secondo cui il filosofo gli chiede di non oscurargli il sole.
323 a.C. Fedele fino all’ultimo momento ai princìpi della scuola cinica, Diogene muore in età avanzata a Corinto. SCALA, FIRENZE
10 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
P
er tutta la sua vita il filosofo Diogene fu una figura stravagante e amante dei gesti scandalosi, un rappresentante unico della “controcultura” dell’antica Grecia, che con grande sfacciataggine si scagliava contro tutti, re o schiavi che fossero. Visse ad Atene e a Corinto e fece qualche soggiorno a Sparta, anche se in realtà era un uomo senza un focolare, come molti greci dell’epoca. La sottomissione ai re macedoni e i continui rovesci politici avevano reso l’esilio una sorte comune per i molti che, come Diogene, ne fecero esperienza nel corso della vita. Lo si potrebbe considerare il primo apolide che si autoproclamò con orgoglio «cittadino del mondo» e usò la sua indole faceta per attentare contro l’etichetta e quella società “farisaica” che aveva reso ricca una minoranza a costo della rovina della maggioranza. Diogene nacque a Sinope, una città situata sulla costa turca del Mar Nero, ed ebbe una gioventù felice e agiata, poiché era figlio di un banchiere. Tuttavia fu esiliato da Sinope con l’accusa di aver falsificato denaro. Diogene sostenne di averlo fatto soltanto per obbedire a un
mandato dell’oracolo di Delfi che gli ordinava di «invalidare la moneta in corso» e che solamente in seguito aveva compreso il vero significato di quelle parole: rifiutare la falsa moneta della sapienza convenzionale, dimostrando la superiorità della natura sul costume e l’abitudine. Questa idea divenne successivamente la pietra angolare della sua attività filosofica, e fece sì che sapesse mostrarsi audace e pronto a parare qualsiasi colpo del caso.
La lezione di un topo Diogene approdò ad Atene, dove cercò di seguire gli insegnamenti del filosofo Antistene, un discepolo di Socrate che aveva fondato la scuola dei cinici, così chiamata per la sua insistenza nel denunciare i vizi della città, «abbaiando» contro di essi da una tribuna (kynikós significa “canino” ). Mise tanto impegno nel seguire Antistene che quando questi lo allontanava agitando il bastone Diogene gli gridava: «Batti pure: non troverai un legno così duro col quale tenermi in disparte!» La caratteristica fondamentale dei cinici era la totale rinuncia ai beni materiali e ai piaceri sensuali, e Diogene portò all’estremo questo atteggiamento, come narrano i numerosi aneddoti che
Diogene il cinico ridicolizzava le idee di Platone perché le considerava inutili per l’uomo BUSTO DI PLATONE, OPPOSITORE FILOSOFICO DI DIOGENE.
DIOGENE CERCA L’UOMO più conosciute riguardo a Diogene è quella che narra di quando si fece vedere in giro per Atene in pieno giorno con una lanterna in mano e si presentò nell’agorà gremita dicendo che cercava un essere umano. Quando esclamò: «Uomini, venite a me!», ne accorsero diversi, ma Diogene li scacciò con il bastone, dicendo: «Sto cercando uomini, non macerie!». Dal Rinascimento in poi furono molti i pittori che rappresentarono nelle loro opere questo episodio relativo al più famoso filosofo della scuola cinica. UNA DELLE STORIE
DIOGENE ALLA RICERCA DI UN UOMO, SECONDO IL PITTORE PETER VAN MOL, XVI SECOLO, MUSEO DI BELLE ARTI, ORLÉANS.
ALBUM
Diogene Laerzio raccolse nelle sue Vite dei filosofi, e altri narrati da Plutarco. Quest’ultimo, per esempio, racconta di un giorno in cui ad Atene c’era una grande festa, con spettacoli, parate, sontuose cerimonie nei templi e nelle case; Diogene se ne stava appartato in un angolo, pronto ad andare a dormire, e un poco amareggiato per il fatto di essere emarginato dall’atmosfera festosa. In quel momento vide un topo che mangiava con gusto le briciole cadute dalla pagnotta che era stata la sua cena. Egli allora si rimproverò: «Che hai da dire, Diogene? Ecco che un topo si nutre con
gioia dei tuoi resti, mentre tu, con la tua nobiltà di spirito, ti lamenti e rimpiangi di non poterti unire agli altri che si ubriacano sdraiati su morbidi tappeti». Rivolse allora lo sguardo verso la città e, sebbene non avesse una casa, si diede conforto pensando che le vie per le quali passavano le processioni erano state addobbate in quel modo dagli ateniesi perché egli ne facesse la propria dimora. Fu così che, come un povero che non cercava né beni né fortuna, si stabilì nell’agorà, centro della vita politica di Atene, per osservare il trambusto della città e le futili occupazioni con cui gli
ateniesi riempivano le loro vite. La gente gli gridava: «Cane!», al che egli replicava: «Cani siete voi che mi state intorno mentre faccio colazione!». Poiché nessuno gli faceva mai l’elemosina, Diogene denunciava il fatto che la gente fosse disposta a fare la carità ai poveri e agli invalidi, ma non ai filosofi, perché ammetteva che si potesse essere ciechi e zoppi, ma non dedicarsi a pensare, soprattutto nel caso di una filosofia che risultava tanto scomoda per la società. «Soleva dire – narra Diogene Laerzio – che gli uomini gareggiano nello scavare sabbia e tirarsi STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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P. ERIK FORSBERG / AGE FOTOSTOCK
PERSONAGGI STRAORDINARI
L’AGORÀ DI ATENE. Nel cuore della città, Diogene impartiva la sua particolare saggezza. Sullo sfondo, il Tempio di Efesto, a nord-ovest dell’agorà.
dei calci, e che invece nessuno gareggia nel diventare uomo dabbene. Si stupiva assai che i musicisti accordino le corde della lira e che lascino invece discordanti i loro stati d’animo; che i retori dicano di industriarsi per le cose giuste senza attuarne assolutamente nessuna, tant’è che denigrano gli avari mentre amano il denaro alla follia».
Nelle sue peregrinazioni per la Grecia, Diogene si abituò a usare qualsiasi luogo per qualsiasi fine, che fosse mangiare, dormire o lanciare le sue invettive. La botte per il vino che gli servì talvolta da casa era una chiara dichiarazione di princìpi: l’uomo doveva tornare alla natura attraverso una rigorosa sobrietà per conquistare la propria libertà. Dio-
VIVERE CON IL MINIMO DIOGENE AMAVA la frugalità: viveva in una botte
aperta, portava i pochi averi e le provviste in una bisaccia e usava gli abiti per coprirsi quando dormiva. Vedendo un ragazzo bere acqua dall’incavo delle mani, gettò via la sua ciotola dicendo: «Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità». DIOGENE E I CANI. DIPINTO DI JEAN-LEÓN GÉRÔME. 1860. BRIDGEMAN / ACI
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gene preferiva criticare il mondo da una condizione di povertà che vivere in una società abbrutita dal denaro.
L’esibizionista Questo stile di vita gli valse il disprezzo degli altri filosofi, ma non sembra che la cosa lo preoccupasse. In effetti, Diogene rifiutò sempre di prendere sul serio i dibattiti che accendevano gli animi nella sua epoca; lui continuava a sostenere la pratica di pochi e semplici princìpi etici davanti ai quali i grandi sistemi filosofici diventavano inutili. Anche a questo proposito gli aneddoti sono numerosi. Un giorno passò dall’Accademia e udendo Platone sostenere davanti agli allievi che l’uomo era un animale bipede e implume, prese un gallo, lo spennò e lo gettò nella sala gridando: «Questo è l’uomo di Platone!». In effetti, Diogene doveva apparire paz-
IMPUDENZA SENZA LIMITI SI NARRA CHE UNA VOLTA Ales-
PIATTO DECORATO CON PESCI. V SECOLO A.C.MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
zo a coloro che lo vedevano in estate rotolarsi per l’agorà arroventata dal sole e in inverno abbracciato alle fredde stature di marmo, ricoperte di neve. Emetteva peti rumorosi in luoghi affollati (anche durante le sue teatrali tirate pubbliche), orinava in modo impudente come avrebbe fatto un cane e arrivava persino a masturbarsi in pubblico per suscitare scandalo tra i passanti, replicando così alle esclamazioni oltraggiate: «Magari fosse possibile non avere più fame semplicemente sfregandosi il ventre!». In tutte queste provocazioni, però, c’era un fondo etico molto serio: limitare i desideri alle autentiche necessità che la natura impone, poiché è condizione degli dei non desiderare nulla (neppure i sacrifici con i quali si celebra il loro culto), comportamento che coloro che desiderano essere simili alle divinità dovrebbero imitare. Una volta che la città si trovò assediata e tutti correvano per le strade per
ALESSANDRO E DIOGENE IN UN DIPINTO DI THOMAS CHRISTIAN WINK REALIZZATO NEL 1780. MUSEO GEORG SCHÄFER, SCHWEINFURT.
AKG / ALBLBUM
DEA / ALBUM
sandro Magno si avvicinò a Diogene e gli disse: «Chiedimi quello che vuoi»; Diogene, che stava prendendo il sole, ribatté: «Spostati e non farmi ombra ». Il condottiero macedone, impressionato, se ne andò commentando tra sé: «Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene».
prepararsi, Diogene iniziò a far rotolare la sua botte da una parte e dall’altra per non stonare in mezzo a tutto quel putiferio che riteneva inutile: erano assurdi tanta attività e tanto impegno in un momento in cui le libertà democratiche erano un mero ricordo.
dell’olio e la bisaccia / e il vestito consunto, il mio bagaglio; / e anche l’obolo per pagarmi il viaggio / sopra il fiume dei morti. / Questo che avevo in vita porto all’Ade, / proprio nulla io lascio sotto il sole». Se alcuni cercano di nascondere dietro un insolente orgoglio un cuore feVivere e morire senza bagagli rito, Diogene era l’esatto contrario: la Quando Diogene era ormai anziano, sua apparente follia era una maschera uno dei suoi amici gli consigliò di am- che celava una grande conoscenza delmorbidire un poco i rigori a cui si sot- la natura umana, e il suo stile di vita era tometteva, ma il filosofo rispose: «È un modo provocatorio per denunciare come se, in piena corsa e quando sono i vizi della sua epoca. sul punto di raggiungere la meta, mi JUAN PABLO SÁNCHEZ consigliassi di fermarmi». DOTTORE IN FILOLOGIA CLASSICA Morì, dunque, nella stessa condizione di povertà in cui era vissuto, come SAGGI Per e dottrine dei più sembra rivelare questa preghiera al trasaperne Vite celebri filosofi. ghettatore infernale, Caronte, contenuta Diogene Laerzio. Bompiani, di più Milano, 2005. in un epigramma di Leonida da Taranto: Mito e società nell’antica «anche se la tua barca spaventosa / è Grecia Jean-Pierre Vernant. Einaudi, oppressa dal carico del morti, / accogli Torino, 1981. pure me, Diogene il cane: / la bottiglia STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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La Marsigliese, colonna sonora della Rivoluzione Questa canzone di guerra fu composta nel 1792 per incitare le truppe francesi in conflitto contro l’Austria. Si trasformò poi nell’inno della Rivoluzione e, dal 1879, di Francia
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ella Francia del 1789, la metà degli uomini e più del settanta per cento delle donne non sapevano leggere. Perciò, uno dei mezzi più efficaci per diffondere le nuove idee rivoluzionarie furono le canzoni. Fra il 1789 e il 1800, gli specialisti hanno contato quasi 200 inni e più di 2000 canzoni popolari di contenuto politico. Mentre gli inni erano di solito commissionati dalle autorità per le cerimonie ufficiali (cori, canti funebri, odi), le canzoni avevano carattere
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popolare. Circolavano su volantini o negli opuscoli e negli almanacchi, venivano riprodotte sui periodici e infine raccolte nei canzonieri. Vi erano degli autori, gli chansonniers, che cantavano e vendevano le loro composizioni (o quelle di altri) nei punti più affollati di Parigi, come il Pont Neuf, il Palais Royal o gli Champs-Élysées. Ma molti altri si limitavano a pensare un testo che potesse essere cantato su una melodia già nota (di un’operetta, un vaudeville o una canzone folclorica). Questi paroliers erano quasi sempre anonimi.
I cittadini cantavano ovunque: nei teatri, nei caffè, nelle strade. I leader rivoluzionari riconoscevano l’utilità delle canzoni patriottiche. Nel 1793, un deputato di nome Dubouchet dichiarava: «Nulla è più adatto di inni e canzoni per accendere gli animi repubblicani». Nell’assemblea, un pubblico di entusiasti intonava canti che arrivavano al punto di interrompere le sessioni, provocando i reclami dei deputati, tra cui Danton. Fra le numerose canzoni politiche di questi anni alcune raggiunsero una grande popolarità,
BRIDGEMAN / ACI
L’EVENTO STORICO
MUSICA RADICALIZZATA ROUGET DE LISLE, autore della Marsigliese, canta la sua creazione a casa del sindaco di Strasburgo, barone di Dietrich. Opera di I. Pils (1849). Museo Storico, Strasburgo.
ATTRAVERSO LE CANZONI si può vedere la rapida radicalizzazione che vissero Parigi e la Francia durante la Rivoluzione. Per esempio, una delle composizioni più popolari di quel periodo, Ah! Ça ira (“Tutto andrà bene”), fu scritta del 1790 per incoraggiare il popolo contro gli avversari del nuovo regime. Presto però venne aggiunta una strofa che ne incitava l’impiccagione: «Ah!, ça ira, ça ira, ça ira, / les aristocrates on les pendra!».
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come Ah! Ça ira, scritta nel 1790, La Carmagnole, del 1792, o il Canto della partenza. Ma fu La Marsigliese quella che finì per diventare il vessillo sonoro della Rivoluzione.
«Alle armi, cittadini!» Tutto iniziò il 24 aprile del 1792 con una cena in casa del sindaco della città frontaliera di Strasburgo, il barone di Dietrich, che incaricò un ufficiale del genio militare e compositore per diletto, Claude-Joseph Rouget de Lisle, di comporre
un nuovo inno militare, considerando che Ah! Ça ira non fosse adatta per questa funzione. L’iniziativa non era di tipo personale. In quei giorni la Rivoluzione stava attraversando una fase drammatica. La crescente ostilità dei partiti contro Luigi XVI aveva allarmato le monarchie assolutiste europee, a tal punto che nell’agosto del 1791 l’imperatore Leopoldo II e il re di Prussia avevano lanciato un ultimatum all’Assemblea Nazionale: se non fossero stati rispettati i diritti di Luigi XVI sarebbero intervenuti militarmente. Fu l’inizio di una serie di dichiarazioni e mobilitazioni di truppe che sfociò inevi-
L’inno La Marsigliese chiama i cittadini francesi a combattere contro l’invasore straniero PARTITURA DE LA MARSIGLIESE. MUSEO CARNAVALET, PARIGI.
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tabilmente in una guerra. Il 20 aprile del 1792, l’Assemblea Nazionale approvò, praticamente all’unanimità, la dichiarazione di guerra all’Austria e richiamò tutti i francesi affinché si unissero all’esercito che avrebbe dovuto affrontare l’invasore. Il sindaco di Strasburgo, commissionando l’inno quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra, desiderava sostenere il morale dei volontari che sarebbero andati a formare il nuovo esercito. Da qui appunto il nome iniziale dell’inno composto da Rouget de Lisle, Canto di guerra per l’armata del Reno, che riprendeva il richiamo: «Alle armi, cittadini!» dei bandi affissi ai muri della città che obbligavano all’arruolamento i maschi adulti. Tutto il testo della canzone fa riferimento a questo drammatico periodo. Già dalla prima strofa (Allons, enfants de la Patrie), i francesi sono chiamati a lottare contro gli invasori, «i feroci soldati» che vengono «per sgozzare STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’EVENTO STORICO
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SETTEMBRE 1792, la Guardia Nazionale parte da Parigi, fra le acclamazioni del popolo, per unirsi all’esercito. La tela di Léon Cogniet, dipinta nel 1833-1836, rievoca quel momento. Museo del Palazzo di Versailles.
i nostri figli e i nostri compagni». Le strofe seguenti ripropongono la stessa immagine: «Che vuole quest’orda di schiavi, / di traditori, di re congiurati?/ Siamo noi che osano pensare / di ridurre all’antica schiavitù! [...] Queste corti straniere / detterebbero legge a casa nostra! / Queste falangi mercenarie / abbatterebbero i nostri fieri guerrieri! [...] Ignobili despoti
diventerebbero / i padroni del nostro destino!». La melodia preannuncia un futuro funesto, paventando l’avvento di un’epoca terribile se non sarà contrastata dalla chiamata alle armi invocata dal coro: «Alle armi, cittadini! / Formate i vostri battaglioni! / Andiamo! Andiamo! Che un sangue impuro / bagni i nostri campi!», alludendo al sangue del nemico che avrebbe intriso
RUE DES ARCHIVES / ALBUM
SALVO PER MIRACOLO
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NONOSTANTE IL SUCCESSO del suo inno di guerra, Rouget de Lisle era un uomo dagli ideali politici moderati e non vide di buon occhio il rovesciamento della monarchia nel 1792. Perciò, nel 1793 le autorità giacobine lo destituirono dall’incarico di ufficiale e in due occasioni lo incarcerarono.
il suolo della nazione quando l’esercito francese lo avesse sconfitto. Nonostante la sua durezza, vi è un istante di compassione per i soldati nemici – «risparmiate queste tristi vittime, / che malvolentieri si armano contro di noi» –, un’indulgenza che è invece negata ai «despoti sanguinari» che «lacerano il seno della loro madre». La conclusione è una chiamata a oltranza alla lotta: «Quando i nostri padri non ci saranno più […] Molto meno gelosi di sopravvivere loro / che di dividere la loro bara, / noi avremo il sublime orgoglio / di vendicarli o di seguirli».
Inno nazionale di Francia L’inno di Rouget de Lisle ebbe un successo folgorante. Le sue note vibranti e il testo pugnace si diffusero fra i soldati che marciavano lungo la frontiera e, attraverso di loro, nelle città e nei villaggi. Inevitabilmente, l’inno raggiunse la capitale. Nel giugno 1792, i
«In marcia, figli della patria»
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DOPO LA RIVOLUZIONE del 1830, l’arco di
Place de l’Étoile, a Parigi, fu decorato con un rilievo di François Rude che ricordava La partenza dei volontari nel 1792, anche se oggi è conosciuto come La Marsigliese. coperto da un elmo 3, che serra rabbioso il pugno destro. Dietro di loro, un uomo anziano 4 è sul punto di sguainare la spada e un anziano 5 sembra dare consigli al capitano. Alla sua destra, un altro giovane, a torso nudo 6 , tende il suo arco, e vicino a lui un altro uomo con la cotta di maglia 7 chiama alle armi i compagni suonando la sua tromba.
partiti rivoluzionari decisero di riunire a Parigi una forza armata di 20.000 uomini per difendere la capitale in caso di invasione straniera, quelli che venivano chiamati“federati”, che avrebbero dovuto essere pronti per il 14 luglio, festa della rivoluzione. Un deputato di nome Barbaroux scrisse alle autorità della sua città natale, Marsiglia, affinché inviassero 600 uomini. Provvisti di una copia stampata del canto di Rouget de Lisle, i marsigliesi, nel corso del loro viaggio verso Parigi, che durò dal 3 al 29 luglio, andarono cantando l’inno in ogni villaggio che attraversavano. Una gazzetta dell’epoca racconta: «cantano l’inno con grande forza, e il momento in cui agitano i loro cappelli e le loro spade, gridando tutti insieme “Alle armi, cittadini!”, è davvero emozionante. Dicono di aver sentito questo inno di guerra in tutti i villaggi che hanno attraversato, e questi nuovi bardi
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hanno ispirato così sul campo sentimenti civili e militari». I marsigliesi si fermarono a Parigi, e non cessarono di cantare l’inno. «Lo cantano nel PalaisRoyal, e a volte durante gli spettacoli fra due opere». Fu allora che i parigini scoprirono questa canzone, che iniziarono a chiamare Inno dei marsigliesi, e poi, semplicemente, La Marsigliese. L’inno accompagnò le truppe per tutta la Rivoluzione. Nel settembre del 1792, durante la battaglia di Valmy, la prima grande vittoria degli eserciti rivoluzionari, pare che il generale Kellerman abbia gridato: «Vive la Nation!», e che i suoi uomini abbiano risposto intonando La Marsigliese. Per i soldati, questa canzone era una sorta di talismano. Un generale scrisse al suo ministro: «Ho vinto la battaglia, La Marsigliese combatteva al mio fianco», mentre un altro richiese un rinforzo di mille uomini e un’edizione della canzone per incoraggiare i suoi soldati.
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Sulla sommità del monumento, una giovane che simboleggia il genio della guerra, con le ali aperte 1, lancia il grido di allarme e guida i volontari con la sua spada verso il luogo della battaglia. Al di sotto si vedono i soldati vestiti come eroi greco-romani. Un capitano 2, con cotta di maglia, corazza e schinieri, agita il suo elmo per incitare gli uomini. Lo segue un efebo nudo con il capo
La Marsigliese intraprese così il suo cammino per trasformarsi in inno nazionale di Francia, o, come venne designata il 14 luglio del 1795, «canzone nazionale». Il successo non fu immediato. Il carattere violentemente antimonarchico del testo fece sì che l’inno venisse vietato da Napoleone e durante la Restaurazione borbonica. Tornò brevemente con la Rivoluzione del 1830, per poi essere nuovamente vietato da Napoleone III. Dopo un successivo momento di gloria nei giorni della Comune di Parigi, come canzone simbolo degli insorti, nel 1879 la Terza Repubblica le conferì infine il titolo di“inno nazionale”di Francia. LAURA MANZANERA STORICA
Per saperne di più
Gli inni nazionali del mondo Paolo Petronio. Zecchini Editore., Varese, 2015.
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V I TA Q U OT I D I A N A
NAPOLETANI CHE MANGIANO MACCHERONI.
Acquerello di Saverio della Gatta, inizio del XIX secolo.
La pasta, cibo che livella nobili e popolani
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a pasta, come prodotto a base di farina di qualche cereale e acqua, è consumata da millenni in tutto il mondo o quasi, vista la semplicità della preparazione e l’abbondanza dei due ingredienti. I greci usavano una pasta (da passein, impastare) a base di farina e salsa, mentre i romani, come testimonia Orazio nelle Satire, mangiavano le laganae, larghe strisce di pasta fresca formata da acqua e farina e cotte al forno, dalle quali si sono poi sviluppate le nostre lasagne: «quindi me ne torno a casa, alla mia scodella di porri, lagane e ceci». La pasta vera e propria, invece, è prodotta con il grano duro, un cereale che ha caratteristiche diverse da quelle del grano tenero, che si utilizza per il pane comune. Il grano duro macinato fornisce una semola che si impasta e si modella in diverse forme. La lavorazione si conclude con una fase di essiccazione che permette la conser-
vazione della pasta per molto tempo. La cultura della pasta di grano duro si sviluppò nel mondo islamico medievale, anche se potrebbe anche essere arrivata dalla Persia. La testimonianza più significativa della diffusione della pasta nel Medioevo è offerta dal geografo arabo Muhammad al-Idrisi, il quale visse per 18 anni alla corte di Ruggero di Sicilia e narra che a metà del XII secolo, in una zona della Sicilia, esistevano mulini che producevano pasta in grandi quantità. È probabile che il grano arrivasse dal nord dell’Africa e che dalla Sicilia, dominata dagli arabi fino al 1072, raggiungesse l’Europa continentale.
Non arrivò dalla Cina
CHRISTIE’S IMAGES / SCALA, FIRENZE
Maccheroni e vermicelli, usati dalla gente comune nel Sud, erano invece appannaggio dell’aristocrazia nel resto del Paese
Quando Marco Polo tornò dalla Cina nel 1269, quindi, la pasta era una realtà in Italia da secoli: oltre ai “vermicelli” (il termine“spaghetti”è settecentesco) erano nati anche i“macarruni”(termi- schiacciare, comprimere un impasto) ne di etimologia incerta che potrebbe che indicavano genericamente la pasta derivare dal tardo latino macare, cioè corta. In un’opera del più noto poeta tedesco altomedievale, Walther von del Vogelweide (1165 circa -1230 circa), amico di Federico II di Svevia, si afferma che i siciliani erano soliti mangiare i «maccheroni dal sugo dolce». In ogni LA MINIATURA mostra due fasi della prepacaso, a partire dal XIII secolo i riferirazione della pasta intorno al XV secolo. menti a piatti di pasta sono sempre La donna a destra è intenta a preparare l’impasto, più frequenti in Italia. mentre la fanciulla sulla sinistra sta disponendo Della popolarità della pasta parla su una sorta di griglia i vermicelli precedenteGiovanni Boccaccio, che nel Decamerone mente tagliati, per farli asciugare all’aria. ambienta una storia su una montagna TACUINUM SANITATIS. BIBLIOTECA NAZIONALE D’AUSTRIA, VIENNA. fatta di parmigiano, sulla cui cima alcuni cuochi si dedicano alla preparazione di
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PRODUZIONE CASALINGA
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maccheroni e ravioli cuocendoli nel brodo di cappone e poi gettandoli verso il basso, affinché i golosi se ne sazino. Nel XIV secolo lo scrittore Franco Sacchetti racconta di come due amici si fossero incontrati per mangiare dei maccheroni. Erano stati serviti in un piatto comune, come era consuetudine all’epoca, ma uno aveva mostrato di avere più appetito dell’altro. «Noddo comincia a raguazzare i maccheroni, avviluppa, e caccia giù; e n’avea già mandati sei bocconi giù, che Giovanni avea ancora il primo boccone su la forchetta, e non ardiva, veggendolo molto fumicare, appressarlosi alla bocca».
Un piatto di pasta per leccarsi le dita NEL VIAGGIO che intraprese in Italia nel 1786-1788, Wolfgang Goe-
the notò il grande amore dei napoletani per la pasta. «Si trova ovunque – scrisse –, e a poco. Si cucina di solito in modo semplice, in acqua pura, e vi si grattugia del formaggio al di sopra, che serve sia come grasso sia come condimento». Mentre si trovava in Sicilia, visitò con degli amici AGRIGENTO , dove presero alloggio presso una famiglia che offrì loro un piatto di maccheroni «della pasta più sottile e più bianca». Seduti a tavola, gli anfitrioni spiegarono loro come
facevano quel tipo di pasta, con il grano migliore e più duro, preparandola a mano a forma di TUBETTI che prendevano la forma di una conchiglia. «Ci servirono dei maccheroni squisiti [...] La pasta che assaporammo mi sembrò, per il suo biancore e la delicatezza del gusto, senza paragoni».
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IL PASTO DEI POVERI
Nel Medioevo, e anche oltre nel XVI secolo, questi piatti di pasta avevano caratteristiche diverse da quelli di oggi. Non solo i tempi di cottura erano più lunghi , ma la pasta era anche accompagnata con ingredienti che oggi sembrerebbero sorprendenti, poiché si mescolavano sapori dolci e piccanti delle spezie. La pasta era comunque considerata un piatto da ricchi. Già nel 1279, il notaio genovese Ugolino Scarpa redasse il testamento di un soldato, Ponzio Bastone, il quale lasciava ai suoi eredi tra le altre cose
AKG / ALBUM
DEA / ALBUM
NEL DETTAGLIO della tela a olio di Micco Spadaro (Domenico Gargiulo), risalente alla seconda metà del XVII secolo, sono raffigurati tre mendicanti napoletani, i cosiddetti “lazzaroni”, intenti a mangiare in mezzo alla strada un piatto di “maccheroni”, afferrandoli direttamente da un piatto.
VENDITORI DI PASTA A NAPOLI, FINE DEL XIX SECOLO. STAMPA A COLORI.
una «bariscella (vaschetta) plena de macaronis». Più o meno nella stessa epoca si trova la prima ricetta relativa alla pasta, contenuta nel Liber de Coquina, trattato anonimo apparso alla corte di Carlo II d’Angiò a Napoli tra il 1285 e il 1309, e dedicata alle lasagne, mentre per le ricette con la pasta secca vera e propria bisognerà aspettare il Quattrocento, con il Libro de Arte Coquinaria di Maestro Martino da Como, considerato il cuoco più importante del XV secolo, che lavorò al servizio di altri prelati e della famiglia Sforza. Bartolomeo Scappi, cuoco papale a metà del XVI secolo, inventò un piatto per
Dal XVII secolo, i napoletani sono conosciuti con l’epiteto di «mangiamaccheroni» UOMO CHE MANGIA MACCHERONI. PIATTO DEL SUDITALIA. XVII SECOLO. D
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un banchetto che era composto da un pollo bollito accompagnato da ravioli ripieni di un impasto di interiora di maiale bollito, mammella di vitello da latte, arrosto di maiale, parmigiano, formaggio fresco, zucchero, erbe, spezie e uvetta. La ricetta dei maccheroni alla romana (maccheroni alla romanesca) dello stesso Scappi è ancora più azzardata. Si preparava un impasto di farina e mollica legate con latte di capra e tuorlo, si stendeva fino a formare una sfoglia che poi veniva tagliata a strisce sottili con un rullo (bussolo), per formare i maccheroni – non necessariamente tubolari, poiché il termine era allora molto variabile. Dopo averli lasciati seccare, i maccheroni venivano bolliti in acqua per mezz’ora, poi scolati e coperti di formaggio, pezzi di burro, zucchero, cannella e fette di provatura (provola), un formaggio locale di latte di bufala. Infine si mettevano mezz’ora
La fiorente industria della pasta L’INCISIONE fa parte di un libro pubblicato nel 1767 da Paul-Jacques Malouin, un panificatore francese
che introdusse a Parigi il mestiere di vermicellier. Malouin adottò le tecniche di produzione industriale che aveva potuto osservare a Napoli, fra queste la gramola e la trafilatrice. Trafilazione. L’impasto è collocato in un cilindro e premuto dall’alto con un torchio c. Questo ruota attraverso un sistema di palanche e corde, mosso da un operaio d. La pasta esce dalla parte inferiore e.
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CNUM - CONSERVATOIRE NUMÉRIQUE DES ARTS ET MÉTIERS - CNUM.CNAM.FR
Gramolatura. Un operaio seduto su una barra A sale e scende per impastare gli ingredienti B. L’operazione durava un paio d’ore.
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in forno con un po’ di acqua di rose, affinché il formaggio si fondesse e i maccheroni si impregnassero del sapore delle spezie. Non stupisce che un autore del XVI secolo, Giulio Cesare Croce, collocasse i maccheroni fra i piatti che facevano ingrassare di più.
giorni di magro, quando era proibito mangiare carne. Ma forse la ragione principale della diffusione della pasta fu che a partire dal XVII secolo se ne sviluppò la produzione industriale attraverso macchinari come un torchio e una trafilatrice meccanica che permetteva di preparare pasta lunga e In attesa del pomodoro pasta corta come i vermicelli. Appena un secolo più tardi il panorama Questo non impedì alla pasta di era notevolmente cambiato, almeno a finire per conquistare il palato delle Napoli. Qui la pasta si trasformò in un classi più alte. Lo stesso re di Napopiatto diffuso, alla base dell’alimenta- li, Ferdinando IV, divorava con somzione comune. mo piacere piatti di maccheroni: «Li Sono state date varie spiegazioni prendeva con le dita, avvolgendoli e di questo fenomeno. Una considera il stirandoli, e se li portava voracemente peggioramento del livello di vita della alla bocca, disdegnando con grande gente comune, che avrebbe avuto un magnanimità l’utilizzo di coltello, forminore accesso alla carne, mentre i chetta o cucchiaio». grandi latifondi di cereali del Regno di Ciò che cambiò definitivamente fu Napoli e della Sicilia offrivano grano il condimento della pasta. Il pomodoro a un prezzo relativamente contenuto. arrivò probabilmente prima a Siviglia, Influivano anche motivazioni religiose: centro principale di scambio internala pasta costituiva il pasto ideale dei zionale soprattutto con l’Italia. Nel
1544, l’erborista italiano Pietro Andrea Mattioli definì i frutti gialli della pianta del pomodoro «mala aurea», cioè mela d’oro, e più tardi, nel 1554, parlò di una varietà rossa. Nel 1554 un erborista olandese, Dodoens, ne fece una descrizione dettagliata e il frutto si guadagnò la reputazione di afrodisiaco. Questa fama spiega i termini “pomme d’amour” in francese e “love apple”in inglese con i quali si definisce il pomodoro. Solo a partire dal XVIII secolo il pomodoro fu gradualmente utilizzato come ingrediente da cucina. La ricetta napoletana più antica di cui si è a conoscenza è la “salsa di pomodoro alla spagnola” e risale al 1692. ALFONSO LÓPEZ STORICO
Per saperne di più
Pasta. Storia e cultura di un cibo universale Silvano Serventi, Françoise Sabban. Laterza, Roma-Bari, 2004.
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I primi artisti della storia
ALTAMIRA Da 35 a 20.000 anni fa, le genti del Paleolitico lasciarono nella grotta di Altamira l’impressionante testimonianza della loro intima comunione con la natura dell’Era glaciale JOSÉ ANTONIO LASHERAS CORRUCHAGA DIRETTORE DEL MUSEO NAZIONALE E CENTRO DI RICERCA DI ALTAMIRA
NUOVA LUCE PER I BISONTI
Oggi, chi raggiunge Altamira può esplorare la grotta visitando una splendida e fedele riproduzione della Sala dei policromi, dipinta con la stessa tecnica dell’originale. TINO SORIANO / NGS
SANTILLANA DEL MAR, SULLA COSTA SETTENTRIONALE DELLA SPAGNA, IN CUI SI TROVA LA GROTTA DI ALTAMIRA. DAVID R. FRAZIER / AGE FOTOSTOCK
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ra troppo incredibile per essere vero: «Nella tecnica del pittore di Altamira rientrano questi elementi: prospettiva lineare, prospettiva aerea, colore diluito in acqua o grasso, pennello». Le genti del Paleolitico potevano aver dipinto quei bisonti? Assolutamente no. «Non si riscontrano in alcuna arte ai suoi esordi pitture simili a quelle di Altamira». Ecco che cosa scrivevano Francisco Quiroga e Rafael Torres, professori della Institución Libre de Enseñanza, (Istituto Libero di Insegnamento) dopo aver visitato la grotta di Altamira nel 1880. Come molti, gli studiosi ritenevano che le pitture fossero un falso, e non sorprende. Marcelino Sanz de Sautuola le aveva scoperte l’anno prima, e allora nessuno poteva immaginare che l’uomo «primitivo» ne potesse essere l’autore. Ma nell’ultimo decennio del Diciannovesimo secolo furono rinvenute pitture e incisioni rupestri in diverse grotte francesi, e ciò costrinse gli scettici ad accettarne l’autenticità. Oggi, Altamira è inserita nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco. Quelle immagini identificano in modo universale i primi esseri della nostra specie, Homo sapiens, e la nostra prima forma d’arte.
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La grotta di Altamira è lunga 270 metri. È una galleria con varie appendici, in una delle quali, vicino all’imboccatura, si trova il famoso insieme dei bisonti policromi. Le ramificazioni hanno sezioni di forma rettangolare, di un’altezza compresa tra due e dodici metri e una larghezza dai sei ai venti metri; tutte sono costellate di figure di animali e segni disegnati o incisi. Il tratto finale è un angusto tunnel di un metro e mezzo di altezza per uno e mezzo di larghezza pieno di segni e figure tra i quali vi sono alcune strane maschere. Circa 15.500 anni fa il soffitto dei primi metri del vestibolo crollò, e la grotta rimase chiusa e nascosta fino al XIX secolo.
L’epoca di Altamira Altamira si trova vicino alla piccola località di Santillana del Mar, sulla cima di una collina, alta 156 metri. Da lì si domina un territorio vario e dolcemente ondulato attraverso il quale scorre il fiume Saja. Prati, siepi e alberete sparse formano un mosaico verde costellato di case e capanne tra la costa, a cinque chilometri di distanza, e le catene montuose litoranee, a dieci chilometri da lì. Un paesaggio completamente diverso da quello del Paleolitico superiore, l’epoca di Altamira.
UOMO LEONE. SCULTURA IN AVORIO DI MAMMUT RINVENUTA NELLA GROTTA DI HOHLENSTEINSTADEL, RISALENTE A 34.000 ANNI FA. MUSEO DI ULM. FINE ART / AGE FOTOSTOCK
PR ESE NTE
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Ventimila anni di arte rupestre
BISONTE. SCULTURA IN CORNO DI RENNA DAL SITO ABRI DE LA MADELEINE, RISALENTE A CIRCA 14.000 ANNI FA. MUSEO DI LES EYZIESDE-TAYAC.
IN TUTTI I PERIODI del Paleolitico vi furono persone che lasciarono una loro traccia nella sala più conosciuta di Altamira. Lì è stata localizzata la pittura più antica della grotta: un segno fatto risalire a oltre 35.600 anni fa. Sempre lì si trovano gli splendidi bisonti dipinti prima che un crollo ostruisse l’entrata di Altamira e che valsero alla sala l’appellativo di «Cappella Sistina dell’arte del quaternario», che fu dato nel 1908 dall’archeologo Joseph Déchelette.
ERICH LESSING / ALBUM
PEDRO SAURA
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La straordinaria rappresentazione naturalistica dei bisonti sulla volta della Sala dei policromi risale al Magdaleniano.
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MAGDALENIANO
13.500 anni fa
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anni fa PEDRO SAURA
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dell’ingresso della grotta
20.000 anni fa
Stambecco. Con le sue grandi corna e la coda eretta, fu dipinto sulla volta della Sala dei policromi tra il Solutreano e il Gravettiano.
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24.500 anni fa
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AURIGNAZIANO
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33.500 anni fa
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Pittura più antica di Altamira
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Segni claviformi. Così chiamati per la forma che ricorda una clava o una mazza, furono dipinti tra l’Aurignaziano e il Solutreano.
CREAZIONISMO CONTRO EVOLUZIONISMO MARCELINO SANZ DE SAUTUOLA scoprì Altamira quando non si conosce-
LO SCOPRITORE DELLE GROTTE
ORONOZ / ALBUM
va nulla di simile, e nel 1880 pubblicò il risultato delle sue ricerche: era arte del paleolitico. I suoi dati e le sue argomentazioni scientifiche erano impeccabili, ma per gli studiosi di preistoria era inaccettabile che l’arte più antica fosse di tale magnificenza e qualità, poiché appariva incompatibile con l’evoluzione umana, delle cui tappe si sapeva davvero poco. Al contrario, i creazionisti, per i quali la narrazione biblica della Creazione era un dogma indiscutibile, accettarono senza dubbi l’antichità di Altamira come presunta prova che Dio avesse creato l’uomo pochi millenni addietro, già dotato di capacità intellettuale e artistica. Fu necessaria la scoperta di varie grotte con arte del Paleolitico in Francia affinché Altamira e Sautuola avessero un riconoscimento universale.
FUNDACIÓN MARCELINO BOTÍN
FUNDACIÓN MARCELINO BOTÍN
della grotta, vicino all’imboccatura, fu abitato per buona parte del Paleolitico superiore, e i gruppi che vi si installarono incisero, disegnarono e dipinsero animali e segni verso la parte interna della grotta. Per tutto quel tempo, quelle comunità intagliarono e utilizzarono utensili di selce, osso e corno simili a quelli impiegati nel resto d’Europa, con alcune creazioni di carattere locale come le scapole di cervo nelle quali incisero figure di cerve durante il periodo Magdaleniano.
Arte sottoterra Più di 35.000 anni fa, qualcuno si addentrò nella penombra con ocra e acqua, e con le dita tracciò varie curve parallele per formare un segno di sessanta centimetri sul soffitto della Sala dei policromi, mille anni prima che altre mani vi dipingessero i bisonti. Durante quello stesso periodo, l’Aurignaziano, in varie grotte della Germania si intagliavano animali
María Justina Sanz de Sautuola y Escalante (1870-1946), che aveva scoperto la presenza dei bisonti di Altamira, ricevette nel 1902 la visita del professore francese di preistoria Émile Cartailhac, che desiderava scusarsi per aver negato l’autenticità delle pitture, una posizione condivisa dalla maggior parte della comunità scientifica.
TUTTE LE FOTO: PEDRO SAURA
Quell’epoca inizia quarantamila anni fa con l’arrivo dell’Homo sapiens in Europa, e si conclude diecimila anni fa con la fine delle glaciazioni e il passaggio al periodo attuale, l’Olocene. Il clima in Cantabria era più freddo e umido rispetto a oggi; il paesaggio della fascia costiera era caratterizzato da una prateria alternata a bosco a seconda del rilievo, dell’orientamento e dei fiumi. La vegetazione era il cibo di animali che non esistono più, come il mammut e l’uro, simile a un grosso toro, di alcuni che sopravvivono in regioni molto lontane, come renne e bisonti, e di altri che vi troviamo ancora oggi, come il cervo, il cavallo e la capra. Clima, rilievo, flora e fauna formavano un ambiente adeguato per quei gruppi umani che si alimentavano cacciando, pescando frutti di mare e raccogliendo vegetali di ogni tipo. Il vestibolo
Sanz de Sautuola (a sinistra) morì nel 1888, prima che lo studioso di preistoria Émile Cartailhac riconoscesse nel 1902 l’autenticità delle pitture rupestri di Altamira.
Papà, guarda! TRA L’ESTATE E L’AUTUNNO del 1879, Marcelino Sanz de Sautuola entrò nella grotta di Altamira accompagnato dalla figlia María, di otto anni e mezzo. Proprietario terriero e laureato in Diritto, era un grande appassionato di scienze naturali e archeologia, e già nel 1876 aveva visitato Altamira, dove aveva eseguito degli scavi in cerca di reperti archeologici. Questa volta, mentre lui esplorava il suolo cercando tracce di un’antica occupazione umana, la bambina, che reggeva una lampada, illuminò per caso la volta della grotta in cui si trovava. Quando osservò il soffitto, esclamò: «Papà, guarda! Dei buoi dipinti!». Era la prima persona da oltre quindicimila anni a osservare i bisonti raffigurati sulla volta della Sala dei policromi.
LO STUDIOSO TEDESCO DI PREISTORIA HUGO OBERMAIER NELLA SALA DEI POLICROMI, NEL 1925. AL CENTRO SI VEDE IL LIVELLO ORIGINALE DEL PAVIMENTO, POI ABBASSATO PER FACILITARE LA VISIONE DELLE PITTURE.
Un atelier-santuario della preistoria L’imboccatura della grotta era orientata a nord; era larga 15 metri e alta al massimo tre. Verso l’interno si trovava un ampio vestibolo lungo dai 20 ai 25 metri. La vita quotidiana delle genti di Altamira si sviluppava in questo spazio, illuminato dalla luce del giorno ma riparato dai rigori del clima. Più avanti, la grotta veniva utilizzata soltanto per disegnare, dipingere e incidere animali e segni, e per celebrare i riti associati alla realizzazione di queste immagini o che necessitavano della loro presenza. ANIMALI NELLA “FOSSA”
Nella galleria IV, conosciuta come La Hoya (la fossa), furono raffigurati diversi animali: cerve, capre e questo grande bisonte lungo quasi un metro, un maschio con il sesso in evidenza. Tutte le figure, in nero, furono realizzate con carbone vegetale.
SALA DEI POLICROMI
Misura 11 metri di larghezza per 23 di lunghezza, e sul soffitto vi sono 25 grandi figure, in gran parte bisonti lunghi da 1,25 a 1,7 metri, e una cerva gravida lunga 2 metri. Le figure furono create incidendone il contorno e disegnando la forma con una linea nera di carbone, poi furono riempite con la pittura.
ENTRATA
BISONTE INCISO
SEGNI NERI
Sulle pareti e sul soffitto della Coda di Cavallo furono incisi o dipinti con carbone cervi, bisonti, cavalli, le cosiddette «maschere» (alcune con aspetto umano) e segni di vario tipo. Tra le figure incise in questa parte della grotta si può ammirare questo splendido bisonte.
Sono chiamati «tettiformi» perché somigliano a tetti di capanne in rami. Hugo Obermaier li interpretò come trappole per spiriti o animali, e il francese André Leroi-Gourhan come allusioni al sesso femminile. In essi sono stati visti anche piante di capanne e (per la distribuzione geografica di vari tipi di tettiformi) emblemi territoriali, di gruppo.
DIVERTICOLO ROSSO LA GALLERIA FINALE
Larga da 1 a 2 metri, inizia a 200 m dall’entrata e si prolunga per altri 70, stringendosi e abbassandosi fino a 50 cm. Questo luogo doveva avere un’importanza particolare, poiché raggiungerlo era un’impresa ardua, che probabilmente costringeva ad attraversare zone allora inondate, quasi senza spazio per la testa dell’artista e la luce che portava con sé; inoltre, muoversi al suo interno era difficile, tanto che oggi il pavimento è stato ribassato.
DISEGNO E TUTTE LE FOTO: PEDRO SAURA
In questa galleria, larga meno di un metro, vi sono segni tettiformi e scalariformi (a forma di scala) dipinti in rosso. Da qui in avanti, tutte le rappresentazioni artistiche sono realizzate con carbone o sono incisioni.
QUANDO SI OSSERVA IL SOFFITTO DELLA SALA DEI POLICROMI IN CONTROLUCE, LE IMMAGINI DIPINTE NON SI VEDONO; SI SCORGONO SOLO LE PROTUBERANZE DELLA ROCCIA SU CUI FURONO ESEGUITE.
Ubicazione degli elementi fotografati 30 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
e lunga cinque metri ricoperta di segni rossi; nella parte alta si trova un segno composto da quattro ovali suddivisi in comparti. A un metro di altezza, sul lato inferiore di una sporgenza della parete, è stato dipinto un segno rosso lungo tre metri e largo circa mezzo metro, formato da lunghe linee parallele intersecate da altre linee trasversali. È necessario abbassarsi o stendersi a terra per vederlo nella sua interezza, anche se per via dello spazio ristretto non possono ammirarlo più di due persone per volta.
L’era dei bisonti Durante il Magdaleniano, tra 20.000 e 15.500 anni fa, tutta la grotta si riempì di cervi incisi; i maschi sfoggiano grossi palchi di corna a più punte, hanno la testa sollevata e la bocca aperta: stanno bramendo o sono nella stagione degli amori, in autunno. Nella galleria finale furono tracciati grandi segni ovali con reticolati,
L’ingegnere francese Édouard Harlé, inviato ad Altamira dal IX Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia Preistoriche, tenutosi nel 1880, visitò la grotta e nel 1881 pubblicò una relazione in cui negava l’autenticità delle pitture, il che contribuì al loro oblio e al discredito di Marcelino de Sautuola.
TUTTE LE FOTO: PEDRO SAURA
in avorio di mammut e si suonava musica con flauti realizzati in ossa di uccello; nella grotta Chauvet, in Francia, si dipingevano con carbone leoni e altri animali, e in una grotta di Sulawesi (Indonesia), a 12.000 chilometri di distanza, si dipingevano animali, mani e segni con ocra rossa. L’arte più antica che conosciamo, dunque, si manifesta come qualcosa di completo, sviluppato, con grande diversità tecnica, tematica, stilistica e concettuale. Ad Altamira, dopo quel segno rosso e diverse incisioni, durante i periodi Gravettiano e Solutreano – tra 22.000 e 26.000 anni fa – si dipinsero mani e serie di punti, e il soffitto si popolò di cavalli rossi. Alcuni sono rampanti, con le zampe anteriori sollevate; due sono raffigurati uno di fronte all’altro, come impegnati in una lotta di gelosia tra maschi. I pittori di quell’epoca ci hanno lasciato un’eredità ancora più enigmatica. Verso l’interno della grotta c’è una cavità larga un metro
3D preistorico: l’arte del volume
Sanz de Sautuola spiegava così perché non si fosse accorto prima delle pitture sul soffitto della Sala dei policromi: «Per scorgerle bisogna cercare tutti i punti di vista, soprattutto se la luce è scarsa; è successo che persone che sapevano della loro esistenza non le abbiano viste perché si erano messe esattamente sotto di esse». Ciò significa che si vedono a seconda della luce e della posizione dello spettatore. La fotografia in alto permette di apprezzare appieno il cromatismo del bisonte; la fotografia in basso, della stessa figura, mostra il modo in cui l’autore utilizzò il rilievo della roccia per dare volume alla sua opera.
DALLA CONSERVAZIONE ALLA REPLICA
Foto 1 - 10 Ubicazione degli elementi fotografati 32 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Pedro Saura (a sinistra) e Matilde Múzquiz hanno realizzato la riproduzione della volta della Sala dei policromi per la Neogrotta utilizzando i metodi dei pittori preistorici.
artistica del pittore, ma il risultato del deterioramento naturale. È stata dunque l’acqua a trasformare in figure policrome quelle che all’inizio erano figure dicrome, in rosso e nero.
Un’evocazione della fecondità? I bisonti sono fermi, accovacciati a terra mentre ruminano o si rotolano e volgono la testa; sono maschi e femmine adulti, tutti insieme. È una mandria? È una scena? Come il cervo, il bisonte europeo, che oggi sopravvive solo nei boschi della Polonia e della Russia, si riunisce in mandrie soltanto nel periodo degli amori e della riproduzione. Forse queste figure rappresentano la fecondità o la maturità. Ricordiamo che il passaggio all’età matura e la nostra stessa riproduzione danno luogo ad alcuni dei riti più celebrati in qualsiasi epoca e luogo; pensiamo a tutti i rituali sacri e profani con i quali ancora oggi celebriamo il raggiungimento della maggiore età e le nozze.
L’archeologo francese Gabriel de Mortillet influì sul rifiuto di Émile Cartailhac di riconoscere l’autenticità delle pitture di Altamira: sarebbero state frutto di una manovra escogitata dai gesuiti spagnoli «affinché tutti ridessero dei creduli paleontologi», ovvero per rendere evidente la mancanza di rigore degli studiosi di preistoria.
TUTTE LE FOTO: PEDRO SAURA
e vennero create le maschere: sulle spigolose forme naturali si disegnarono con il carbone semplici tratti come occhi, naso o bocca. Successivamente, il soffitto fu riempito con i bisonti policromi. Parecchi sono stati realizzati partendo dai grossi rigonfiamenti naturali che furono incorporati alla figura per dare volume al corpo o a una parte di esso (il petto o la testa). Furono dipinti in nero e rosso con pezzi di carbone e ocra usati a mo’ di matita o gessetto, o riducendo in polvere il minerale e diluendolo con acqua. La pittura rossa copre interamente la roccia salvo qualche zona non colorata che lascia visibile una linea di roccia per separare e rendere distinguibili le zampe dal corpo, dando profondità e volume alle figure. L’infiltrazione e la condensazione dell’acqua sulla pittura hanno dissolto il pigmento facendolo cadere a terra, e ciò permette di intravedere la roccia sotto il colore dei dipinti, sfumato e ridotto a velature, che non sono una tecnica
PITTURE DELLA NEOGROTTA
ORONOZ / ALBUM
NEL 1978, IL MINISTERO SPAGNOLO DELLA CULTURA acquisì Altamira, la chiuse, vietò lo sfruttamento turistico e creò un museo per la sua conservazione e la sua gestione. Per tutelare le pitture venne fissato un limite alle visite. Nel 1985, la conservazione di Altamira sembrava una questione risolta e il sito fu dichiarato Patrimonio dell’Umanità . Nel 2001 fu inaugurato il museo attuale; per divulgare e rendere accessibile la conoscenza di Altamira la grotta fu riprodotta con un concetto museale e una tecnologia innovativi. La Neogrotta è accessibile a tutti, come un libro aperto in cui si può entrare per conoscere Altamira. La grotta preistorica, però, è molto fragile: dovette essere chiusa di nuovo e dal 2013 solo cinque persone, estratte a sorte e in un solo giorno della settimana, possono entrare nella grotta e provare la profonda emozione che trasmettono le sue pitture.
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Gli animali di Altamira: il mondo di 25-15.000 anni fa
Il bestiario rappresentato nella Sala dei policromi fu dipinto utilizzando solo i colori rosso e nero; in altri punti della grotta sono visibili anche incisioni di animali. 1. 2. 3.
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Cavallo dicromo. Bisonte in nero. Cavallo rosso e testa di bisonte in nero. Bisonte dicromo. Bisonte dicromo. Cerva gravida dicroma. Bisonte che corre. Bisonte femmina dicromo. Testa di bisonte in nero. Bisonte dicromo. Testa di cerva incisa.
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SEGNO TETTIFORME NERO DISEGNATO CON CARBONE NELLA CODA DI CAVALLO, LA GALLERIA FINALE DI ALTAMIRA.
Ubicazione degli elementi fotografati 34 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
senza questo riferimento: segni astratti, allungati o reticolati. Dobbiamo supporre che quelle comunità condividessero ciò che tali figure rappresentavano, i pensieri o le idee che le accompagnavano, i racconti a cui si associavano.
Le ragioni di un’arte Per quale motivo o finalità furono realizzate le pitture rupestri? Non possiamo ovviamente chiederlo agli autori, ma possiamo contare su un indizio di straordinaria importanza: l’uso della roccia su cui si dipinge, della sua forma, dei rilievi o delle fenditure, di questo o quel dettaglio della parete o della volta. Questa fusione tra roccia e pittura è più di un dettaglio caratteristico dell’arte del Paleolitico: è un gesto premeditato che unisce intimamente natura e creazione plastica, simbolica. Questo accade con i bisonti di Altamira, dipinti su sporgenze naturali e per i quali si usarono le crepe della roccia come linee di contorno.
Tra il 1890 e il 1901 furono scoperte in Francia le grotte di La Mouthe, Pair-non-Pair, Les Combarelles, Mas d’Azil e Font-de-Gaume. Tutte custodivano arte del Paleolitico, il che confermava in modo inconfutabile l’esistenza di genti che millenni addietro, come ad Altamira, furono in grado di lasciare una vivida testimonianza artistica dell’Era glaciale.
TUTTE LE FOTO: PEDRO SAURA. ILLUSTRAZIONE: PEDRO SAURA / JUAN DE MATA
Insieme ai bisonti, e con la stessa bicromia, sono rappresentati due cavalli e una cerva nella quale un rigonfiamento naturale del soffitto roccioso è stato fatto coincidere con il suo ventre, come se fosse incinta. È ancora il tema della fecondità che ritorna? Gli ultimi bisonti furono disegnati con il carbone, premendolo per tracciare linee nere nel contorno e nelle zampe o in dettagli come gli occhi e il muso, e usandolo in tratti più leggeri o sfumandolo per creare toni grigi sul petto e la groppa, per dare volume alla figura. Si tratta di disegno a carboncino, una tecnica che dopo Altamira sembra scomparire fino ai disegni e ai bozzetti del Rinascimento. Chi dipinse usò la sua abilità tecnica per rappresentare fedelmente gli animali nelle loro forme e nei loro atteggiamenti, quindi è appropriato definire naturalistica l’arte del Paleolitico. Assieme alle figure legate in modo evidente al mondo naturale ne troviamo altre
Luce con il midollo COME FACEVANO I PITTORI preistorici a illuminare
l’interno di Altamira? Pedro Saura e Matilde Múzquiz, specialisti in arte preistorica e pittori della Neogrotta, hanno seguito indizi archeologici per fare luce come 15.000 anni fa: come combustibile hanno usato il midollo di ossa animali, e come stoppino fibre di erba secca ritorte. In alto, un’immagine digitale creata mediante varie fotografie permette di apprezzare il lavoro del pittore nella Sala dei policromi, con il pavimento della grotta ancora al livello originario e la dimensione reale di uno dei bisonti dipinti.
ESTRAZIONE DEL MIDOLLO DA UN FEMORE BOVINO PER USARLO COME COMBUSTIBILE IN UNA LANTERNA, COME HANNO FATTO MATILDE MÚZQUIZ E PEDRO SAURA. IL MIDOLLO, MOLTO GRASSO, FA LUCE SENZA EMETTERE FUMO.
GROTTA CHAUVET (FRANCIA). L’ARTE DEL PALEOLITICO ERA OPERA DI SOCIETÀ CHE SI BASAVANO SULLA CACCIA PER IL SOSTENTAMENTO.
Nell’arte rupestre, dunque, possiamo vedere l’unione tra vita e roccia inerte, il vincolo tra le figure create e il loro referente naturale, tra l’arte (espressione del pensiero) e la natura. Possiamo anche mettere in relazione quest’arte con l’animismo delle società di cacciatori-raccoglitori, ovvero con la personificazione degli elementi della natura, dotati di intelligenza e volontà come le persone.
Il codice perduto In opposizione alla conoscenza razionale o scientifica, l’arte è una forma di conoscenza emozionale e di espressione sociale che forse fu utilizzata per comprendere e spiegare la natura e il ruolo che in essa occupano gli esseri umani. Chi realizzò le maschere nella parte più celata di Altamira raffigurò i volti di coloro che stavano lì, seminascosti nella realtà, in quella parte di natura che le comunità di cacciatori-raccoglitori sapevano esistere perché la pensavano, la immaginavano o la sognavano. Le persone che scoprivano quegli esseri nella roccia o i bisonti sul soffitto, che creavano quelle immagini, potevano essere gli intermediari tra la comunità e gli altri esseri della natura. Intermediari come gli sciamani siberiani: è stato ipotizzato che l’arte del Paleolitico sia 36 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
la creazione dell’immaginario nato dallo stato di trance dello sciamano, durante il quale entra in contatto con il mondo soprannaturale degli spiriti. Intermediari come i sacerdoti di qualsiasi epoca o luogo, persone che godevano di grande riconoscimento, i custodi del pensiero mitico della loro comunità. L’arte del Paleolitico ha un bestiario particolare, un repertorio di immagini che doveva essere legato a una tradizione orale, a racconti comuni di carattere mitico: questo spiegherebbe la sua coerenza e la sua presenza nel paesaggio europeo per millenni. È come se di un codice conservassimo le icone, ma nessuna delle parole che le accompagnavano, manca la chiave. Diecimila anni fa, il cambiamento climatico dell’Olocene modificò la vita dei cacciatori-raccoglitori e rese inutile l’arte delle caverne. Le grotte dell’Europa paleolitica cessarono di essere lo spazio di antichi miti e riti e tornarono a essere solo grotte.
Per saperne di più
SAGGI
La grotta preistorica di Altamira Antonio Beltran (a cura di), Jaca Book, Milano, 1998. INTERNET
http://museodealtamira.mcu.es
TUTTE LE FOTO: PEDRO SAURA
JEFF PACHOUD / GETTY IMAGES
Volti nella roccia NELLA PARTE FINALE DELLA GROTTA di Altamira, nella Coda di Cavallo, alcuni rilievi naturali della roccia si trasformano in musi di animali se sono allungati o, se sono più corti, in volti umani. Sono le cosiddette «maschere». Basta solo qualche tocco di nero e che la lanterna separi luci e ombre per suggerire occhi, sopracciglia o un muso, e affinché emergano volti confusi dove prima non c’era nulla. Il carbone e la luce – un artificio abilmente controllato dall’uomo – sono sufficienti per
rendere visibile ciò che era nascosto nella roccia, per entrare in contatto con altri esseri e altre realtà al di là dell’immediato e del tangibile. Questa capacità di rendere visibile ciò che non si vede permette di qualificare coloro che dipingevano e incidevano Altamira come sacerdoti – sciamani, intercessori, intermediari (insomma, officianti) – che per svolgere il loro ruolo dovevano avere un certo dominio delle tecniche artistiche. In questo modo trasformarono la materia inerte in materia viva. LA LUCE PROIETTATA SULLE ROCCE CREA EFFETTI DI CHIAROSCURO CHE RIVELANO ALLO SPETTATORE GLI ESSERI CHE L’ARTISTA PERCEPÌ NELLA ROCCIA.
BEVANDE E CONVERSAZIONE
Kylix attica raffigurante i partecipanti a un simposio mentre bevono vino da uno skyphos. V secolo a.C. Musei Statali, Berlino. BPK / SCALA, FIRENZE
IL DIO CHE INVENTÒ IL VINO
Tetradracma con l’effigie di Dioniso, V secolo a.C. Secondo il mito, il dio del vino insegnò agli uomini a mescolarlo all’acqua per evitare la follia. BRIDGEMAN / ACI
I BANCHETTI DEI GRECI Nelle città dell’antica Grecia, alla cena a casa di un ricco anfitrione seguiva, nella seconda parte della serata, il simposio, con vino, musica, giochi, danzatrici e, soprattutto, conversazioni su questioni umane e divine FRANCISCO JAVIER MURCIA DOTTORE IN FILOLOGIA CLASSICA
N
el suo Simposio Senofonte narra che un giorno Socrate stava passeggiando con quattro amici quando furono avvicinati da Callia, un ricco ateniese, che annunciò loro che aveva intenzione di dare un banchetto e che sarebbe stato onorato se avesse potuto avere tra i suoi ospiti uomini di spirito nobile ed elevato come loro. Socrate pensò che Callia si stesse prendendo gioco della loro povertà ma, davanti alla sua insistenza, lo ringraziarono per l’invito, senza tuttavia promettergli di partecipare. Alla fine, vedendo che Callia era molto dispiaciuto, accettarono di seguirlo a casa. Trascorsero la serata mangiando e bevendo, ascoltando musica e, soprattutto, conversando, in quello che costituiva una delle istituzioni più caratteristiche dello stile di vita degli antichi greci: il banchetto o simposio.
ERICH LESSING / ALBUM
MUSICA E DANZATRICI
Flautista a un simposio. IV secolo a.C. Louvre, Parigi. I banchetti più informali erano allietati da ballerine e suonatrici di flauto, che potevano offrire anche favori sessuali.
Come abbiamo visto nell’aneddoto di Senofonte, invitare qualcuno a un banchetto non era una questione troppo formale. L’anfitrione poteva provvedere incontrando casualmente gli amici per la via o nell’agorà. Sembra anche che non costituisse un problema il fatto che qualche invitato portasse con sé un altro amico, come vediamo fare a Socrate nel Simposio di Platone. Ben presto comparve anche la figura del buffone (akletos) che interveniva senza essere invitato e mangiava e beveva gratis purché portasse un tocco di ilarità al simposio. Qualsiasi occasione festiva poteva giustificare un banchetto: il trionfo di un atleta o di un autore tragico, una celebrazione familiare, la partenza o l’arrivo di un amico. In generale, le spese erano del tutto a carico dell’anfitrione, ma talvolta ogni invitato si portava le proprie provviste; il vino, però, era sempre offerto dal padrone di casa.
L’etichetta imponeva un bagno e la cura del corpo prima di un banchetto; secondo Aristotele era indecoroso presentarsi sudati e impolverati. Socrate si preparava con molta cura per queste occasioni e si metteva i sandali, due cose che faceva raramente.
L’arrivo degli invitati Quando gli invitati giungevano alla casa dove si teneva il simposio, uno schiavo li accompagnava nella stanza riservata a queste riunioni: l’androne, la «sala degli uomini», termine che indica chiaramente che il banchetto era
C R O N O LO G I A
LA STORIA DEL SIMPOSIO 40 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Risale a quest’epoca la coppa geometrica rodia rinvenuta in una tomba sull’isola di Pithecusa (Ischia), recante un’iscrizione in lettere greche che richiama le tipiche iscrizioni su coppe da convito.
VIII-FINE VII SEC. a.C.
ERICH LESSING / ALBUM
VIII SECOLO a.C.
Nell’Iliade, Omero descrive i sontuosi banchetti celebrati dai governanti achei. Un secolo dopo, il simposio si diffonde come un’istituzione aristocratica in tutta la Grecia.
IL FILOSOFO SOCRATE. V SECOLO A.C. BRITISH MUSEUM.
LUSSO E COMODITÀ
LA SALA DEI BANCHETTI
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a stanza della casa nella quale aveva luogo il simposio era l’androne (da andròs, uomo), riservato agli uomini, dipinto a colori vivaci e, in generale, con pavimenti a mosaico. I letti e i tavolini erano preparati con grande cura. I divani (kliné), con il loro corredo di cuscini e coperte, sui quali gli invitati stavano coricati per tutta la serata, venivano collocati lungo le pareti su una pedana leggermente rialzata, larga circa un metro. Questi letti erano lunghi circa 1,80 m e larghi 80 centimetri ciascuno. Nelle sale normali ne venivano collocati sette, undici o quindici; poiché su ogni letto potevano reclinarsi due invitati, al simposio partecipavano da quattordici a trenta uomini. Sono stati rinvenuti androni in alcune case non lontane dall’Acropoli di Atene e in altri centri minori come Olinto. In questa stessa località, in una casa ellenistica, fu scoperto il lussuoso androne con magnifiche decorazioni a mosaico che è stato riprodotto nell’immagine.
AKG / ALBUM
IV SECOLO a.C.
Alessandro Magno e i suoi successori trasformano l’informale simposio in un banchetto opulento e con molti ospiti in cui si ostenta il proprio potere.
TOC K
Filippo II di Macedonia viene sepolto nella necropoli di Vergina; nella sua tomba vengono posti vari elementi da simposio (vasi e crateri), il che dimostra la diffusione di questa consuetudine.
Uno schiavo trasporta sulle spalle un divano che sarà collocato nell’androne in cui avrà luogo un simposio. Pelike (recipiente per il vino) attica a figure rosse. V secolo a.C.
OT OS
Il simposio cessa di essere un’istituzione esclusiva dell’aristocrazia e si diffonde tra le altre classi sociali, come dimostrano gli androni rinvenuti nelle antiche case di Atene e del Pireo.
336 a.C.
I PREPARATIVI DELL’EVENTO
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450 a.C. CIRCA
essendo in uso forchette e coltelli, tutto veniva preso con le mani. Non vi erano neppure i tovaglioli: ci si pulivano le dita con pezzetti di pane che poi si gettavano a terra perché li mangiassero i cani di casa che sonnecchiavano sotto i letti. Come dessert, in generale si servivano frutti, come uva e fichi, oppure dolci preparati con il miele. Durante la cena agli invitati si versava anche il vino. Al termine della cena, gli schiavi sparecchiavano i tavoli e pulivano la sala. Era allora che iniziava il symposion o simposio, la «bevuta in comune». Era il momento di indulgere al vino, secondo il detto «O bevi o vai
AG
riservato agli uomini e proibito alle donne libere. Gli invitati si accomodavano quindi su un letto e uno schiavo si occupava di lavare loro le mani e togliere loro i sandali prima che si reclinassero. La buona educazione esigeva che si dedicasse un certo tempo alla contemplazione del luogo, lodando le decorazioni o i paramenti della stanza. La prima parte della riunione era dedicata alla cena (deîpnon). I cibi dell’Atene classica erano semplici e frugali. Formaggio, cipolle, olive, fichi e aglio erano essenziali in cucina. Si consumava anche una sorta di purè di fagioli e lenticchie, mentre la carne veniva servita tagliata a tocchetti piccoli perché, non
DUE GIOVANI SI SERVONO VINO MESCOLATO AD ACQUA DA UN CRATERE. VI SECOLO A.C. ASHMOLEAN MUSEUM, OXFORD.
BRIDGEMAN / ACI
LE PIETANZE SULLA TAVOLA GRECA Nell’antica Grecia si consumava più pesce che carne, perché era molto più economico; la carne che compariva più spesso in tavola era quella di maiale, la meno costosa. Piatto di ceramica decorato con pesci. IV secolo a.C.
B R I D G E M A N / AC I
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via». Gli invitati si profumavano e si mettevano sul capo ghirlande, di mirto o di fiori, che non erano solo un ornamento raffinato, ma a quanto pare attenuavano anche il mal di testa dovuto all’eccesso di vino. In seguito effettuavano una libagione di vino puro in onore del Buon Genio. Offrivano anche libagioni a Zeus e agli dèi dell’Olimpo, a Zeus salvatore e agli eroi, e cantavano un peana o inno ad Apollo. La libagione consisteva nel bere una piccola quantità di vino puro e versarne alcune gocce invocando il nome della divinità. Queste pratiche, obbligatorie in ogni simposio, ci ricordano che il banchetto ha un’origine religiosa, poiché in tempi più antichi la cena o deîpnon era preceduta da un sacrificio nel quale si uccidevano gli animali che si sarebbero mangiati. Dopo di che, veniva designato, in genere per sorteggio, colui che avrebbe presieduto il simposio, il simposiarca. Era lui a decidere la miscela di vino e acqua che doveva essere preparata e quante coppe doveva bere ciascun invitato. Chi disobbediva al simposiarca doveva scontare una pena: ballare completamente nudo o fare dei giri per la sala portando in spalla la flautista. I greci non bevevano il vino puro, ma lo mescolavano con acqua in uno speciale recipiente di ceramica, il cratere, l’elemento chiave di ogni simposio. Secondo la regola generale, la miscela era di due parti di vino per cinque
parti d’acqua, oppure una parte di vino e tre di acqua. In questo modo, il piacere della serata si allungava, perché soltanto al termine della notte gli invitati erano davvero ubriachi. In molte occasioni si approfittava della miscela per raffreddare la bevanda: in questo caso si usava un vaso apposito, chiamato psykter, nel quale si versava acqua fredda e persino neve. In generale, una sola coppa circolava tra gli invitati da sinistra a destra, e un giovane schiavo era incaricato di riempirla di volta in volta dal cratere. Inoltre, per risvegliare la sete durante il simposio, gli invitati mangiucchiavano frutti secchi, fave o ceci tostati, stuzzichini che si chiamavano tragemata.
Giochi e divertimenti Oltre a bere, gli invitati si divertivano in vari modi: proponevano indovinelli o realizzavano ritratti dei presenti, perlopiù sotto forma di caricature. Lo svago più consueto, tuttavia, era cantare, accompagnati dalla lira, gli skolia, brevi e semplici canzoni tradizionali conviviali che parlavano dell’amicizia e dei piaceri del vino,
IL PARTENONE , TEMPIO DI ATENA
In occasione di alcune feste religiose di Atene, come le Tesmoforie, che si celebravano in autunno in onore delle dee Demetra e Persefone, si tenevano anche banchetti riservati esclusivamente alle donne. STEVE WEINIK / GETTY IMAGES
UN SEGNO DI CIVILTÀ
IL VINO, MEGLIO MESCOLATO
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ALCUNI SILENI, COMPAGNI DEL DIO DIONISO, SI DEDICANO ALLA PRODUZIONE DEL VINO. IV SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO, LECCE.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
BRIDGEMAN / ACI
n Grecia, l’invecchiamento del vino avveniva in recipienti di cuoio e creta, e ciò gli conferiva un sapore acido e ne aumentava la gradazione tra i 16 e i 20 gradi. Mescolandolo con l’acqua si attenuava il gusto amaro e se ne riduceva la forza; secondo il mito, fu lo stesso Dioniso a insegnare al re Anfizione di Atene a miscelare il vino. Inoltre, il vino era giovane e di scarsa qualità, ragione per cui si tentava di migliorarne il sapore aggiungendovi sostanze aromatiche o resina. Per i greci, consumare vino senza mescolarlo era proprio dei barbari e incompatibile con la civiltà, tanto che usavano l’espressione «bere alla scita». Credevano anche che bere vino puro conducesse alla follia. Molti degli eccessi di cui si rese responsabile Alessandro Magno furono attribuiti al suo modo poco civile di bere.
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L’AGORÀ DI ATENE VERSO IL 400 A.C. CON I NUMEROSI MERCATI PRESSO CUI SI RIFORNIVA CHI INTENDEVA ORGANIZZARE UN BANCHETTO.
AKG / ALBUM
SCALA, FIRENZE
VASI COME VERE OPERE D’A RTE Cantaro su cui sono riprodotti i lineamenti di una donna di razza nera. Museo di Villa Giulia, Roma. Uno dei recipienti usati per bere il vino mescolato con l’acqua nei simposi era il cantaro (kantharos), un tipo di vaso con due grandi anse e il piede alto.
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o che esponevano fatti storici o ancora esaltavano i valori sociali dell’aristocrazia. La parola skolion, che in greco significa «obliquo», indicava l’ordine che si seguiva nell’esecuzione del canto: i convitati cantavano a turno con cambi di direzione, passandosi un ramo di mirto. Uno dei giochi più popolari era il cottabo (kóttabos). Dopo aver vuotato la propria coppa, l’invitato la prendeva per l’ansa con un dito e la faceva girare allo scopo di lanciare i residui di vino verso un bersaglio prestabilito, in genere un’altra coppa. Mentre compiva questa manovra, pronunciava il nome della persona amata; centrare il bersaglio era considerato un presagio favorevole per le sue vicende amorose. Il gioco aveva anche varianti più elaborate: una di queste prevedeva l’affondamento di piccoli recipienti di creta che galleggiavano in un vaso più grande; nella versione più diffusa bisognava colpire con le gocce di vino un piattello collocato in equilibrio su un’asta di metallo. Nell’anno 404 a.C., un aristocratico condannato a morte, Teramene, dimostrò il proprio sangue freddo giocando a cottabo con la coppa di cicuta mentre esclamava «Alla salute del bel Crizia», il politico che l’aveva condannato. Per allietare il simposio non poteva mancare una flautista (aulêtris). Nelle raffigurazioni su ceramica del simposio la vediamo mentre si
muove seminuda tra i presenti che, con un braccio dietro la testa, sembrano rapiti dalla musica. Data la condizione servile delle flautiste, è molto probabile che offrissero anche servizi di carattere sessuale. A quanto pare, la consuetudine era quella di mettere all’asta la flautista al termine del banchetto, e ciò dava adito a discussioni e liti tra i partecipanti, che a quel punto della serata erano già piuttosto alticci. Secondo Aristotele, una delle funzioni dei magistrati incaricati della polizia urbana (astynómos) era vigilare sulle flautiste, sulle suonatrici di lira e sulle citariste affinché non guadagnassero più di due dracme come salario. Si tratta dell’unico esempio noto di regolazione dei prezzi nell’Atene classica.
I nottambuli tornano a casa Spesso l’anfitrione assumeva per la serata ballerine, acrobati e mimi per allietare gli ospiti. Nel Simposio di Senofonte, il ricco Callia ingaggia un impresario che offre un’intera squadra di animatori: una flautista, una danzatrice esperta in acrobazie e un bellissi-
LA GIUSTA QUANTITÀ DI VINO
NON PIÙ DI TRE COPPE
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on in tutte le riunioni ci si dava agli eccessi. Platone, che era a favore di simposi seri e composti, scrive nel Protagora: «In un simposio di uomini di valore e di cultura, non vedrai né flautiste né danzatrici né suonatrici di cetra. Parlano e si ascoltano reciprocamente a turno, con ordine, anche se hanno bevuto molto vino». Infatti, nel suo Simposio i partecipanti si accordano per bere con moderazione e allontanano la flautista per poter conversare in tutta tranquillità. Era riconosciuto e stabilito che tre coppe di vino fossero sufficienti; oltre quelle si sarebbero manifestati gli effetti perniciosi del vino, come ricorda Eubulo in una sua opera: «Tre coppe di vino, non di più, stabilisco per i bevitori assennati. La prima per la salute di chi beve; la seconda risveglia l’amore ed il piacere: la terza invita al sonno. Bevuta questa, chi vuol essere saggio, se ne torna a casa. La quarta coppa non è più nostra, è fuori misura; la quinta urla; sei significa ormai schiamazzi; sette occhi pesti».
BRIDGEMAN / ACI
mo ragazzo che suona la lira e danza. Al termine della serata, i ballerini eseguono una specie di danza erotica, una pantomima che rappresenta le nozze di Arianna e Dioniso, il dio del vino, e che finisce per eccitare enormemente tutti gli invitati al simposio. Altre donne che presenziavano spesso al simposio erano le etere, cortigiane di lusso che diventavano le accompagnatrici abituali di uomini facoltosi in grado di pagare i loro servigi. Le etere erano di una bellezza abbagliante e intrattenevano gli uomini con la loro intelligenza e la loro raffinata conversazione. Il simposio offriva loro la possibilità di dimostrare le loro doti e di trovare generosi protettori. Nessuno si faceva illusioni sul loro ruolo nel simposio; narra Ateneo che quando alcuni giovani si litigarono i favori di un’etera di nome Gnatena, costei consolò lo sconfitto dicendo: «Coraggio, ragazzo, la contesa non è per una corona, ma per pagare». Quando il simposio si concludeva, i partecipanti, ancora adornati con le ghirlande, uscivano per le vie e formavano un’allegra
processione di ubriachi, chiamata kómos. Ballavano, gridavano e insultavano tutti quelli che incontravano, addirittura danneggiavano la proprietà altrui. Il loro atteggiamento era un’aperta sfida alle norme sociali, perché non dobbiamo dimenticare che il simposio era proprio dell’aristocrazia. Per questo, in alcune città vennero promulgate leggi tese a evitare condotte sprezzanti verso altri cittadini e distruttive verso i loro beni. A Mitilene, per esempio, la pena veniva raddoppiata nel caso il delitto fosse commesso sotto l’effetto dell’alcol. L’istituzione del banchetto, però, non fu mai messa in discussione e, nonostante i suoi eccessi e la sua origine aristocratica, continuò a occupare un posto centrale nelle relazioni sociali fino all’epoca romana. Per saperne di più
UN BANCHETTO MISTO
Il cratere nella foto raffigura un’animata scena di un simposio: una flautista suona per uno degli invitati, che si porta la mano dietro la testa; accanto, un’etera intrattiene un altro partecipante. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.
SAGGI
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle R. Flacelière, Rizzoli, Milano, 1997. TESTI
Simposio Platone. Einaudi, Torino, 2009.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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ANFORE
NOTA: Le illustrazioni rispettano
in modo approssimativo le dimensioni relative dei pezzi. L’altezza va dai circa 74 cm del cratere ai 12,5 cm della kylix.
I greci utilizzavano vari tipi
HYDRIA CON SCENA DI DONNE CHE VANNO A PRENDERE ACQUA. VI SECOLO A.C. MUSEO DI VILLA GIULIA, ROMA. DEA / SCALA, FIRENZE
CRATERE A VOLUTE CON SCENA DI ATTORI E MUSICI. V SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI. BRIDGEMAN / ACI
1 Cratere
1
Era un grande recipiente nel quale si mescolavano l’acqua e il vino. Ne esistevano quattro tipi: a volute, a calice, a campana e a colonnette.
2 2 Hydria
Era un vaso in ceramica usato per trasportare e immagazzinare l’acqua. Aveva tre anse, due ai lati e una centrale per versare l’acqua.
DA BANCHETTO di recipienti per miscelare, servire e bere il vino
OLPE CON FIGURA DI UN CACCIATORE CON DUE PREDE ACCOMPAGNATO DAL CANE. VI SECOLO A.C. BRITISH MUSEUM. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
4
PSYKTER SU CUI SONO RAFFIGURATI SATIRI CHE BEVONO VINO DALLE ANFORE. BRITISH MUSEUM. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
5 3
KYLIX CON UN UOMO CHE TIENE IN EQUILIBRIO UNA KYLIX. VI SECOLO A.C. ALLEN MEMORIAL ART MUSEUM, OHIO. BRIDGEMAN / ACI
3 Psykter
5 Kylix
4 Olpe
6 Skyphos
Si riconosce dal corpo bulboso su una base alta e stretta. Serviva per raffreddare il vino con acqua fredda e talvolta con ghiaccio.
È molto simile all’oinochoe, ma a imboccatura circolare. Si usava sia per contenere il vino, sia per servire il vino con l’acqua nei vasi.
Era uno dei tipi di coppa usata per bere la miscela di acqua e vino. È larga e poco profonda, con piede alto e due grandi anse laterali.
È un altro dei vasi usati per bere durante i banchetti. Si tratta di una coppa profonda, di grande capacità, con due anse sui lati.
6
SKYPHOS CON UNA GIOVANE IN ALTALENA SPINTA DA UN SILENO. IV SECOLO A.C. MUSEI STATALI, BERLINO. BPK / SCALA, FIRENZE
Profeta o ribelle?
GESÙ Annunciava la venuta del regno di Dio e i suoi seguaci videro in lui il messia; i romani, invece, temevano la pericolosità delle sue idee e lo condannarono come rivoluzionario ANTONIO PIÑERO UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID
gni anno si pubblicano circa cento libri importanti su Gesù di Nazareth, libri nei quali ogni autore espone la propria idea su questo personaggio. Non deve sorprendere che ancora oggi si discuta tanto di lui, considerando le fonti di cui disponiamo. I quattro Vangeli approvati dalla Chiesa – quelli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni – non sono del tutto affidabili: contengono, certo, dati storici, ma al contempo sono libri di propaganda di una fede. E dai vangeli noti come «apocrifi» (quelli rifiutati dalla Chiesa) non possiamo trarre praticamente nessuna notizia degna di credito. Molti studiosi sostengono che se si domandasse a Gesù come definirebbe se stesso, risponderebbe «un profeta che annunciava l’imminente venuta del regno di Dio». In questo concorderebbe con coloro che, assistendo alle sue prediche, esclamavano: «Elia [profeta del IX secolo a.C.] è apparso», o «È risuscitato uno degli antichi profeti» (Luca 9, 8). Ma possiamo sapere chi fosse stato in realtà Gesù?
CRISTO IN GLORIA
Mosaico del XII secolo nel duomo di Monreale, in Sicilia. La Chiesa convertĂŹ il messaggio messianico di GesĂš, rivolto agli ebrei del suo tempo, in un messaggio universale di salvezza. MEL LONGHURST / ALBUM
C R O N O LO G I A
Una vita per l’eternità 6/4 a.C.
Nasce Gesù, sicuramente a Nazareth, in una famiglia molto religiosa. È figlio di un artigiano il cui lavoro è legato alle costruzioni.
28/29 d.C.
Gesù inizia la sua vita pubblica dopo essere stato battezzato da Giovanni Battista, di cui all’inizio è discepolo e che ritiene profeta e un nuovo Elia.
28/33 d.C.
Nelle zone rurali della Galilea Gesù predica l’imminente venuta del regno di Dio. Si considera un profeta; i suoi seguaci vedono in lui il messia.
30/33 d.C.
Gesù entra a Gerusalemme, acclamato come il messia. Il governatore romano in Giudea, Ponzio Pilato, lo condanna alla crocifissione come ribelle.
I secolo d.C.
Stesura dei Vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, gli unici inclusi nel Nuovo Testamento (i testi biblici scritti dopo la vita di Gesù).
PRESENTAZIONE DI GESÙ
Secondo prescrizione della Legge, i genitori di Gesù presentano il figlio al Tempio. Maestro de la Sisla. 1500 circa. Museo del Prado, Madrid. ORONOZ / ALBUM
In questo secolo compaiono i primi vangeli apocrifi; attualmente se ne conoscono all’incirca cinquanta.
Ante 170 d.C.
Si compie la prima stesura del canone dei libri sacri cristiani, dal quale rimangono esclusi i vangeli apocrifi.
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LOREM IPSUM
II secolo d.C.
Possiamo affermare con certezza che Gesù fu un maestro dal successo controverso in Galilea e a Gerusalemme. Luca afferma che commentò le Scritture nella sinagoga di Nazareth e che la gente montò in collera quando attribuì a se stesso il titolo di profeta; Marco, invece, sostiene che tutti erano ammirati dalla sua sapienza. Esattamente come la gente umile che lo ascoltava in Galilea, Gesù era un artigiano figlio di artigiano. La parola greca usata da Marco per indicare Gesù, e da Matteo per suo padre, è tékton, il cui significato era abbastanza ampio, anche se normalmente si riferiva ad artigiani che lavoravano con legno e pietra per costruire case. Fatto curioso, tuttavia, Gesù appare più un contadino che un artigiano, perché nelle sue parabole fa quasi sempre riferimento al mondo dell’agricoltura, con le metafore del seminatore, del grano e della zizzania, del campo che contiene un tesoro, del piccolo seme che diventa un albero, ma mai a quello della lavorazione del legno.
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UNA STELLA NELLA BASILICA DELLA NATIVITÀ A BETLEMME SEGNA IL LUOGO IN CUI, SECONDO LA TRADIZIONE, NACQUE GESÙ.
BETLEMME O NAZARETH? Gesù raffigurato nella bottega del padre. 1849. Dipinto di John Everett Millais. Tate Gallery, Londra.
Da ciò si potrebbe dedurre che la famiglia di Gesù, che era numerosa, possedesse qualche campo e che si sostentasse almeno in parte con la coltivazione della terra. Gesù, però, non era un artigiano analfabeta: nel Vangelo di Giovanni si dice che non aveva frequentato alcuna scuola dei dottori della Legge di Mosè, ma che nelle sue prediche e nei suoi discorsi faceva un ottimo uso dei testi delle Scritture. Che un profeta e addirittura un maestro della Legge fosse di estrazione tanto umile non doveva sorprendere, poiché uno dei grandi rabbini d’Israele, il fariseo Hillel, vissuto qualche anno prima di Gesù, era calzolaio e nelle ore di riposo studiava la Torah, la Legge che regolava la vita degli ebrei.
Il profeta di Galilea Secondo quanto riporta il Vangelo di Marco sui fratelli di Gesù, sappiamo che la sua famiglia doveva essere molto religiosa, poiché tutti i figli maschi portavano nomi di patriarchi dell’antico Israele. Gesù probabilmente mostrò interessi religiosi sin dalla più tenera età.
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IL FIGLIO DEL CARPENTIERE
SECONDO GLI EVANGELISTI Marco e Giovanni, Gesù nacque a Nazareth. In effetti era conosciuto come Gesù di Nazareth, e Giovanni (7, 41) narra che alcuni dubitavano che fosse il messia perché non era nato a Betlemme, come indicavano le profezie e le Scritture. Il racconto della sua nascita a Betlemme, riportato da Matteo e Luca, sarebbe un tentativo di adattarsi alle profezie messianiche.
Luca descrive una famiglia osservante della Legge: visite al Tempio, purificazione di Maria, sacrifici secondo le norme e visite a Gerusalemme per la Pasqua, quindi è molto probabile che la famiglia gli abbia dato i fondamenti di una profonda educazione religiosa. Gesù seguiva con attenzione le letture delle funzioni del sabato nella sinagoga, dove si leggevano e si commentavano brani scelti delle Scritture, e fu così che apprese quel che gli servì poi nella sua vita di predicatore. Che Gesù considerasse se stesso un profeta sembra deducibile dal fatto che cominciò la propria missione come discepolo di Giovanni Battista. Gesù si era fatto battezzare da lui e rimase al suo fianco per mesi poiché era convinto che Giovanni fosse il profeta della fine dei tempi. Marco e Matteo affermano che quando il Battista fu ucciso da Erode Antipa, tetrarca o governatore di Galilea, Gesù iniziò la sua vita pubblica proclamando esattamente le stesse cose del suo maestro. Al-
ELIA E L’ANGELO IN CIELO
Altare di Verdun. XII secolo. Monastero di Klosterneuburg, Vienna. Elia fu un importante profeta del IX secolo a.C.; la venuta di Elia prima del giorno del Signore o del Giudizio entrò a far parte della tradizione giudaica. ERICH LESSING / ALBUM
LA FORTEZZA DI MACHERONTE
Erode Antipa, re di Galilea, imprigionò e fece decapitare Giovanni Battista in questa imponente fortezza sulle rive del Mar Morto, nell’odierna Giordania.
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IL RITO DELLA SALVEZZA
Lapide con il battesimo di Gesù officiato da Giovanni. III secolo. Museo della Civiltà Romana, Roma. I battesimi celebrati da Giovanni nel fiume Giordano, senza precedenti nell’ebraismo, offrivano la speranza della salvezza. DEA / ALBUM
«Il Signore Dio nostro susciterà per voi tra i vostri fratelli un profeta simile a me: voi l’ascolterete in tutto quello che vi dirà; e chi non ascolterà questo profeta sarà sterminato dal popolo» (Atti 3, 22-23). E Paolo sosteneva la stessa cosa: Gesù era discendente di Davide, ma divenne messia – cioè «Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione» – soltanto «mediante la risurrezione dai morti» (Romani 1,3-4). Il regno di Dio proclamato da Gesù si ispirava a ciò che lo stesso Gesù aveva udito o letto dei profeti d’Israele: il suo simbolo era un grande banchetto, al quale tutti gli ebrei puri di cuore erano invitati. Ciò indicava che il regno non doveva essere fatto soltanto di beni spirituali – pace universale, tranquillità di coscienza, giustizia –, ma anche, o forse prima di tutto, di beni materiali. La divinità, soddisfatta del suo popolo eletto, Israele, avrebbe fatto confluire verso di esso le ricchezze delle nazioni, che si
LOREM IPSUM
cune persone identificarono il Battista come il messia e, viceversa, molti consideravano Gesù un profeta e non il messia (Luca 9, 8). Come profeta rurale, Gesù predicò sempre – eccettuata la tappa a Gerusalemme – in villaggi o piccole città, forse perché, da contadino, era convinto che gli abitanti di città popolose come Zippori o Tiberiade si preoccupassero più delle ricchezze o della politica che della religione e dei suoi precetti. Anche la teologia giudaico-cristiana primitiva vedeva in Gesù un profeta, e solamente dopo la sua resurrezione lo considerò il messia. Secondo gli Atti degli Apostoli, Pietro sosteneva che: «Gesù […], uomo a cui Dio ha reso testimonianza […] Dio lo ha risuscitato», «or dunque, esaltato», ossia risuscitato, ricevette dal Padre «lo Spirito Santo» (2, 22-33), cioè fu fatto messia. In un altro discorso, Pietro affermava espressamente che Gesù era un profeta e che ciò era stato predetto da Mosè:
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DECAPITAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA. DIPINTO DI NICOLA VACCARO (1634-1709).
LA FINE DEL MAESTRO DI GESÙ DUBY TAL / ALBATROSS / AGE FOTOSTOCK
ERODE ANTIPA ordinò di giustiziare il Battista per il timore che la sua
sarebbero concentrate nel tesoro del Tempio; la terra, fecondata da una pioggia benefica e da un sole adatto, avrebbe prodotto tutti i beni necessari per una buona vita. Il Gesù del Vangelo di Marco lo afferma con estrema chiarezza; quando Pietro gli dice: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito», Gesù risponde: «In verità vi dico: Non c’è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre o figli, o campi per me o per il vangelo, che non riceva il centuplo, in questo tempo, in case, fratelli, sorelle, madre, figli, campi, insieme a persecuzioni, e nel secolo futuro la vita eterna» (10, 28-30). Dunque, per avere accesso al regno erano indispensabili la penitenza e la conversione a una vita di devozione, così come avevano predicato il Battista e i profeti dell’antichità. All’inizio della missione di Gesù in Galilea, grandi folle si sentirono toccate dalla predicazione del nuovo profeta e lo seguirono con fervore. È molto probabile, però, che tale successo non sia durato a lungo o che Gesù l’abbia considerato insufficiente, giacché alla
predicazione desse origine a una rivoluzione, come indicò Flavio Giuseppe nelle sue Antichità giudaiche (XVIII, 116-119). Questa versione è molto più plausibile di quella del Vangelo di Marco, secondo cui il re di Galilea uccise Giovanni perché questi aveva condannato il suo matrimonio con Erodiade, in precedenza moglie di suo fratello (6, 27).
fine della sua vita pubblica lasciò la Galilea e decise di predicare in Giudea, soprattutto nella capitale, Gerusalemme. E questo cambiò la percezione che le autorità avevano di Gesù.
Figlio dell’uomo Nonostante quanto è stato detto in precedenza, è molto probabile che la figura di profeta non contempli tutta l’attività di Gesù. I Vangeli sostengono con chiarezza che egli fu qualcosa più di un profeta: era il messia di Israele, anche se, a quanto sembra, egli non definì mai se stesso come il messia. È per questo che la critica incontra qualche difficoltà a caratterizzarlo come tale.
Il regno di Dio proclamato da Gesù si ispirava a ciò che egli stesso aveva imparato dagli antichi profeti di Israele
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LE LEGIONI ROMANE SACCHEGGIANO E DISTRUGGONO IL TEMPIO DI GERUSALEMME NEL 70 D.C. F. HAYEZ. XIX SECOLO. GALLERIE DELL’ACCADEMIA, VENEZIA.
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GESÙ NON FU l’unico messia del I
secolo in Giudea e Galilea, come si apprende leggendo La guerra giudaica, dello storico giudeo-romano Flavio Giuseppe, che parla della rivolta giudaica degli anni 66-73 d.C. Senza contare Giovanni Battista e Gesù, tra il 4 a.C. e il 66 d.C. vi furono almeno nove figure messianiche: Simone, che incendiò il palazzo di Gerico; Atronge, un pastore che si proclamò re appoggiato da quattro suoi fra-
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LAPIDE CON IL NOME DELLA LEGIONE X FRETENSIS, CHE INTERVENNE A GERUSALEMME E MASADA.
telli e che fece insorgere la Giudea contro i romani; Giuda il Galileo; un capo zelota morto nel 44 d.C.; Teuda, di cui parlano gli Atti degli Apostoli (5, 36); un «profeta egizio»; Eleazaro ben Dinai, «un bandito» (ossia, un ribelle o pretendente messianico) che visse per 20 anni sui monti; Menahem, proclamato re e sommo sacerdote prima della caduta del Tempio nel 70 d.C., e Simone bar Giora, capo carismatico degli zeloti che fu catturato vivo dai romani dopo la distruzione del Tempio. Tutto ciò senza contare altri personaggi anonimi che Flavio Giuseppe cita senza descriverne concretamente le azioni, poiché ritenuti di importanza minore.
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Israele nel I secolo. L’epoca dei messia
RILIEVO DELL’ARCO DI TITO, A ROMA, CHE MOSTRA IL TRASPORTO DELLA MENORAH, IL CANDELABRO SACRO, DOPO IL SACCHEGGIO DEL TEMPIO.
LA QUESTIONE DEL TRIBUTO A CESARE
FAI / ALBUM
N
el Vangelo di Marco, quando gli viene chiesto se si debba pagare il tributo a Roma, Gesù risponde: «Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (12, 17). Ciò non significa che fosse a favore del pagamento delle imposte a Roma. La frase potrebbe significare il contrario: bisogna dare a Dio ciò che è di Dio; Israele è di Dio; se si pagasse il tributo all’imperatore, si darebbe al sovrano di Roma ciò che è di Yahweh. Pertanto, il tributo non va dato a Cesare. Probabilmente era questa la posizione di Gesù, seppur espressa in modo ambiguo per non avere problemi con le autorità. Questo è chiaro nelle accuse contro Gesù raccolte nel Vangelo di Luca: «Abbiamo trovato costui che incitava la nostra gente alla rivolta, proibiva di pagare il tributo a Cesare e affermava ch’egli è il Cristo Re» (23, 2).
TRIBUTO DELLA MONETA. DIPINTO DI VALENTIN DE BOULOGNE. 1624 CIRCA. REGGIA DI VERSAILLES.
I Vangeli ricorrono a determinati titoli per dire che Gesù era il messia, come «Figlio di Davide», «Figlio di Dio» o «Figlio dell’uomo». Ma tutte queste espressioni che sembrano tanto chiare, in realtà non lo sono affatto. «Figlio di Davide» è un titolo che viene dato a Gesù già nelle lettere di San Paolo, precedenti ai Vangeli, ma sono sempre gli altri che così si riferiscono a Gesù, mai lui in prima persona, anzi, egli dubita addirittura che sia appropriato (Marco 12, 35). Il secondo titolo, «Figlio di Dio», a quell’epoca veniva sempre usato per indicare qualcuno particolarmente favorito dalla grazia divina, come il re, il sommo sacerdote o un profeta. E sembra molto improbabile che Gesù si considerasse «Figlio di Dio» nel senso di figlio fisico, reale. Il terzo titolo, «Figlio dell’uomo», è oggetto di molti dibattiti. Gesù fece ricorso a questa enigmatica frase per riferirsi in maniera modesta a se stesso, fatto testimoniato in più occasioni dai Vangeli, secondo un uso proprio della lingua aramaica della sua epoca. Non è per nulla chiaro, al contrario, se Gesù l’abbia
usata anche per definire se stesso «messia». Dopo molte ricerche, oggi pare essersi imposta la convinzione secondo cui la formula «Figlio dell’uomo» non fosse affatto corrente come titolo messianico nell’ebraismo dei tempi di Gesù, neppure in quelli che vengono chiamati apocrifi dell’Antico Testamento. È molto probabile che sia stato l’evangelista Marco il primo a dare questo titolo a Gesù intendendolo in senso stretto come messia.
Il ribelle messianico Due fatti provano che, almeno alla fine della sua vita, Gesù si presentò davanti al popolo con tale veste messianica. Uno è l’entrata trionfale a Gerusalemme (Marco 11, 7-10); l’altro la sua condanna a morte da parte dei romani, crocifisso come aspirante al trono di Israele: sulla croce fu inchiodato un cartello con l’iscrizione «Il Re dei Giudei» (Marco 15, 26).
L’IMPERATORE AI TEMPI DI GESÙ
Asse di bronzo coniato da Tiberio nel 31. La vita pubblica di Gesù si svolse sotto Tiberio, successore di Augusto, che fu imperatore tra gli anni 14 e 37. Ponzio Pilato era il suo rappresentante in Giudea. ASF / ALBUM
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L’ENTRATA DI GESÙ A GERUSALEMME. URNA DI SAN FELICE. XI SECOLO. MONASTERO DI YUSO, SAN MILLÁN DE LA COGOLLA.
La condanna a morte Gesù fu condannato a morte dai romani dopo il suo ingresso trionfale a Gerusalemme, quando fu accolto dalla folla che lo acclamava come il messia («Sia benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno del nostro padre David, che viene!», Marco 11, 9-10), e dopo l’espulsione dei mercanti dal Tempio.
Se Gesù non si fosse presentato come messia, rimarrebbero senza spiegazione alcuni fatti fondamentali della parte finale della sua vita. Secondo molti ricercatori, Gesù non fu condannato a morte dai giudei, ma solo dai romani e come ribelle contro l’Impero, poiché la sua proclamazione del regno di Dio aveva grandi implicazioni politiche. In quel regno non ci sarebbe stato posto per Tiberio, per Pilato, per Anna e per Caifa (i sommi sacerdoti), né per la dinastia di Erode, se non si fossero convertiti e pentiti per i loro peccati.
Proposte radicali Secondo Gesù, il regno di Dio che sarebbe giunto presto presupponeva un ordine sociale diverso per la Giudea e la Galilea, come indica, per esempio, il suo insegnamento sulla ricchezza e la povertà. In diverse occasioni Gesù attacca i ricchi. È quel che accade quando chiede a un giovane ricco di vendere tutti i suoi beni in favore dei poveri: «È più facile che una gomena passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Luca 18, 22-25). Gli attacchi 56 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
IL MESSIA CROCIFISSO
Il reliquiario di papa Pasquale II, risalente al 1100, conteneva un frammento della Vera Croce, ritrovata a Gerusalemme da sant’Elena. Ai piedi di Gesù in croce vi sono la madre Maria e il discepolo Giovanni. Basilica di Santa Fe di Conques. E. LESSING / ALBUM
di Gesù ai ricchi e il suo disprezzo per le ricchezze in generale sono dovuti al fatto che esse impediscono all’uomo di entrare nel regno di Dio. I ricchi sono così attaccati ai loro beni che non si aprono ai doveri imposti dal regno che si avvicina: non sono solidali con il prossimo, sono insensibili alla sofferenza altrui, sono oppressori ed egoisti. Anzi, la difesa dei poveri implica l’ostilità da parte di Gesù verso la dominazione sociale delle classi elevate su quelle inferiori, uno squilibrio che sarà corretto da Dio nel suo regno: «Beati voi, che siete poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati» (Luca 6, 20-23).
Il re crocifisso Il nuovo regno implicava una posizione radicale contro l’oppressione politica e sociale dei romani e dei loro subalterni, i ricchi del Paese, grandi commercianti e latifondisti. Gesù annuncia un vero programma: «Annunziare ai prigionieri la libertà [...], mettere in libertà gli oppressi, proclamare l’anno di grazia del Signore» (Luca 4, 16-19). Questo significava
la purificazione del tempio In un cortile del Tempio di Gerusalemme si concentravano i venditori di animali destinati al sacrificio e i cambiavalute che fornivano monete giudaiche, le sole ammesse per acquistarli. Gesù cacciò con veemenza cambiavalute e venditori di animali, fatto che è stato interpretato come un atto profetico. Gesù probabilmente condivideva l’opinione della gente semplice, che riteneva che il Tempio fosse guidato da sacerdoti corrotti, collaborazionisti con gli invasori romani e amanti del denaro –i sadducei–, e li attaccò in quel che più importava loro: il ricco commercio montato attorno al santuario, che recava loro enormi benefici economici. Questa azione violenta si collocherebbe nel quadro generale del pentimento necessario alla venuta del regno di Dio: doveva suscitare un movimento di conversione verso un atteggiamento più puro. Era un invito a Dio affinché accelerasse l’instaurazione del suo regno sulla terra. L’ESPULSIONE DEI MERCANTI DAL TEMPIO. DIPINTO DI JACOB JORDAENS. XVII SECOLO. MUSEO DEL LOUVRE, PARIGI. L’USO DI UNA FRUSTA DA PARTE DI GESÙ È MENZIONATO SOLO NEL VANGELO DI GIOVANNI.
ERICH LESSING / ALBUM
un’inversione di valori: i ricchi, i primi, sarebbero stati gli ultimi, e i poveri sarebbero diventati i primi. Era un progetto rivoluzionario agli occhi delle autorità della Galilea, governata da Erode Antipa sotto la guida di Roma, e della provincia romana di Giudea. Questa predicazione di Gesù e le sue azioni alla fine della sua vita significavano che si era impegnato politicamente, lo volesse o no. Non abbiamo notizie sul fatto che il Gesù storico condannasse la violenza, o che sfuggisse il contatto con persone impegnate nell’attività politica antiromana; tra i suoi seguaci vi era Simone, uno zelota, ovvero un sostenitore della ribellione contro Roma. Di fatto, i più intimi dei suoi dodici discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, erano persone piuttosto violente. È quel che dice Luca: quando un villaggio di samaritani rifiutò di dare ospitalità a Gesù durante il viaggio verso Gerusalemme, Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo al fuoco di scendere dal cielo e di distruggerli?» (9, 52-54). In questo ambiente si spiega anche che alcuni sostenitori intendessero «rapirlo per
farlo re» messianico (se la notizia è veritiera, da Giovanni 6, 15). Per il governatore, dunque, Gesù era un pericolosissimo elemento destabilizzante, e l’insieme della sua dottrina e del suo comportamento poteva essere considerato un grave delitto di lesa maestà, di autentica sedizione contro il potere di Tiberio. In definitiva, dai Vangeli sembra possibile desumere che Gesù, durante la maggior parte della sua vita pubblica, considerò se stesso un profeta, come i più antichi o addirittura di categoria superiore (Matteo 12, 41). E che alla fine della sua vita – forse spinto dai suoi seguaci più ardenti – accettò il titolo di messia e si fece carico delle conseguenze di tale accettazione fino a morire sulla croce, la punizione inflitta dai romani ai ribelli contro l’Impero. Per saperne di più
SAGGI
Seguendo Gesù. Testi Cristiani delle origini a cura di Emanuela Prinzivalli e Manlio Simonetti, Fondazione Valla/Mondadori, 2011-2015 RIVISTE
La storia di Gesù e la nascita del Cristianesimo Speciale Storica National Geographic n. 7
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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UN REGNO SULLA TERRA PER I GIUDEI Il tema più importante della predicazione di Gesù è il regno di Dio, ma egli non ne spiega mai chiaramente le caratteristiche perché dà per scontato che chi lo ascolta sappia di che cosa parla. Attraverso alcuni passi dei Vangeli e altri testi sacri, tuttavia, è possibile desumere alcuni di quelli che sono i suoi tratti principali.
1
La sua venuta è imminente
L’attività di Gesù come esorcista è un segno dell’approssimarsi del regno. Satana, nemico di Dio, inizia già a essere sconfitto: «Se io scaccio i demoni con il potere di Dio, dunque il regno di Dio è giunto in mezzo a voi» (Luca 11, 20). La venuta del regno è imminente: «In verità vi dico: Non passerà questa generazione prima che tutto ciò avvenga» (Matteo 24, 34), e le beatitudini del Discorso della Montagna (Matteo 5, 3-11) annunciano la futura felicità.
2
Arriverà tra grandi tribolazioni
Sarà preceduto da guerre, catastrofi cosmiche e dalla venuta del Figlio dell’uomo come giudice universale: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, ci saranno terremoti in vari luoghi e vi saranno carestie. Questo è il principio dei dolori [...] Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti» (Marco 13, 8-27).
3
Vi sarà abbondanza di beni materiali
Prima di tutto, vi sarà da mangiare e da bere a volontà; come annunciano le Beatitudini, chi ha fame e sete sarà saziato (Luca 6, 20-21). Il simbolo del regno è il «banchetto messianico» descritto in un testo dei secoli V-IV a.C. riportato nel Libro di Isaia: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (25, 6).
4
Sarà terreno, non celeste
Il regno di Dio e il compimento dei vaticini dei profeti dell’Antico Testamento coincidono: Israele sarà una specie di isola felice. Si avvererà quanto predetto da Isaia: la natura sarà placida, gli animali non combatteranno tra loro. La divinità ricostruirà il Tempio, che diventerà il centro dell’adorazione di Dio in una terra rinnovata. In definitiva, il regno di Dio sarà la restaurazione politica, economica e sociale di Israele sulla terra.
GIUDIZIO UNIVERSALE. OLIO SU TAVOLA DI HIERONYMUS BOSCH. 1482 CIRCA. MUSEO DI GRONINGA. IL DIPINTO È ISPIRATO AL LIBRO DELL’APOCALISSE, SCRITTO ALLA FINE DEL I SECOLO, CHE DESCRIVE L’AVVENTO DEL REGNO DI DIO PREDICATO DA GESÙ.
XXXXXXXX JOSEPH MARTIN / ALBUM
5
Sarà governato da Dio
Per gli ebrei dell’epoca di Gesù, il regno di Dio era incompatibile con il fatto che il popolo eletto da Yahweh fosse dominato da un governante che non fosse il signore naturale: Dio. Il regno predicato da Gesù sarebbe stato retto dalla Legge di Mosè, e non ci sarebbe stato posto per chi non la seguiva: romani, erodiani (la dinastia di Erode il Grande, che governava la Galilea). Potremmo definirlo un regime teocratico, con più potere per il sommo sacerdote che per il re.
6
Sarà per il popolo dei giudei
Gesù affermava che nel regno futuro i Dodici (gli apostoli), i suoi seguaci più intimi, si sarebbero seduti su dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele (Matteo 19, 28). Pertanto, Israele verrebbe restaurato secondo gli oracoli dei profeti, e le tribù perdute da secoli (dalla distruzione di Israele nel 721 a.C. da parte dell’assiro Salmanassar) sarebbero di nuovo riunite miracolosamente da Dio nella terra di Israele.
I DUE VOLTI DEL CESARE
Busto di Claudio. Se i ritratti ufficiali davano di Claudio un’immagine idealizzata, secondo i contemporanei sorprendevano «la sua smemorataggine e la sua incoscienza». Museo del Louvre, Parigi. PIERRE PHILIBERT / RMN-GRAND PALAIS
L’IMPERATORE DIVINIZZATO
L’aquila imperiale compare sul rovescio di un cammeo che commemora l’apoteosi di Claudio, ovvero la sua trasformazione in divinità dopo la morte. Kunsthistorisches Museum, Vienna. ERICH LESSING / ALBUM
DA ZIMBELLO A IMPERATORE
LA GIOVINEZZA DI CLAUDIO Disprezzato dalla famiglia per i suoi difetti fisici, Claudio fu emarginato dal potere da Tiberio e subì a lungo le crudeltà di Caligola. Ma dopo l’assassinio di quest’ultimo, con grande sorpresa di tutti, i pretoriani lo innalzarono al trono imperiale
FRANCISCO GARCÍA JURADO UNIVERSITÀ COMPLUTENSE (MADRID)
Q
uando nel 41 d.C. una congiura di Palazzo a Roma portò all’assassinio dell’imperatore Caligola da parte dei pretoriani, pochi immaginavano che a quel giovane instabile e sanguinario sarebbe succeduto sul trono imperiale un cinquantenne zoppo, balbuziente e che alcuni ritenevano addirittura ritardato, nonostante fosse il primo nella linea di successione della dinastia Giulio-Claudia. La storia di Claudio affascina perché è atipica, così come la sua persona, e perché sul suo carattere sfaccettato poniamo ancora oggi interrogativi cui non possiamo rispondere facilmente. Lo storico francese Pierre Grimal lo considerava un autentico Giano, un personaggio dai due volti. Ed è proprio questa ambiguità ad aver fatto di Claudio un soggetto così attraente tanto per gli storici dell’antichità, come Svetonio o Cassio Dione, quanto per i romanzieri moderni, tra i quali spicca Robert Graves, autore di Io, Claudio.
Un’infanzia sfortunata Tiberio Claudio Druso nacque a Lugdunum (l’attuale Lione), in Gallia, nell’anno 10 a.C. Era figlio di un valoroso generale, Druso maggiore, figlio di Livia, la moglie di Augusto, e morto quando Claudio era ancora molto piccolo. Druso e la moglie Antonia Minore avevano altri due figli, Germanico e Livilla, entrambi perfettamente sani, il che non fece che mettere ancor più in risalto i difetti fisici di Claudio. Nell’antichità vi erano molte resistenze ad accettare la disabilità fisica, e Claudio fu vittima di questi pregiudizi sin dall’infanzia. Sua
PRISMA / AL
BUM
Zio di Caligola e nipote di Tiberio, Claudio aveva per nonna Livia, la moglie dell’imperatore Augusto, ma fino ad allora era vissuto ai margini della famiglia imperiale, dedito ai suoi studi e ai banchetti e, soprattutto, vittima del disprezzo e dello scherno dell’alta società romana. La causa di questo dileggio erano i suoi difetti fisici, causati forse da una poliomielite o da una sclerosi multipla che gli provocava tremori della testa e balbuzie e gli rendeva difficoltosa la deambulazione; tutto questo, a sua volta, faceva pensare che anche le sue capacità mentali fossero compromesse. In realtà, dietro questi evidenti limiti fisici si nascondeva un uomo intelligente e abile, capace di sopravvivere alla furia del nipote Caligola e che, salito al potere, l’avrebbe esercitato con notevole vigore per tredici anni. Claudio, infatti, fu un imperatore capace, che conquistò la Britannia, impresa che nessuno aveva tentato dopo Cesare, e a Roma portò avanti importanti opere pubbliche e riforme amministrative.
C R O N O LO G I A
PRINCIPE DIETRO LE QUINTE
10 A.C.
7 D.C.
Tiberio Claudio Druso Germanico nasce in un accampamento militare a Lione. È il terzo figlio di Druso maggiore e Antonia.
Quando Claudio ha 17 anni, la famiglia assume lo storico Tito Livio come suo tutore, e ciò farà nascere nel giovane la passione per la storia.
STATUA DI LIVIA, SPOSA DI AUGUSTO E NONNA CLAUDIO. MUSEO ARQUEOLÓGICO NACIONAL, MADRID.
TEATRO ROMANO DI LIONE
La madre di Claudio, Antonia, accompagnava sempre il marito Druso nelle sue campagne militari e diede alla luce il futuro imperatore a Lugdunum, l’attuale Lione, quando Druso si recò nella città della Gallia per riunirsi con Augusto e il fratello Tiberio. BERTRAND RIEGER / GTRES
14 D.C.
37 D.C.
41 D.C.
54 D.C.
Muore l’imperatore Augusto; gli succede Tiberio, zio di Claudio, che nega al nipote l’accesso a qualsiasi carica pubblicca.
L’imperatore Caligola, nipote di Claudio, lo nomina senatore e collega di consolato, ma allo stesso tempo lo disprezza.
Caligola è assassinato dai pretoriani e Claudio si nasconde per salvarsi la vita, ma viene scoperto e nominato imperatore.
Dopo aver sposato la nipote Agrippina Minore e averne adottato il figlio, Nerone, Claudio muore, probabilmente avvelenato.
L’imperatore che inventava le lettere
D
IVENUTO IMPERATORE, Claudio decise di introdurre tre nuove
lettere nell’alfabeto latino, le cosiddette «lettere claudiane», con le quali si volevano rappresentare suoni della lingua latina che non erano indicati da una lettera specifica. Le tre lettere in questione erano: l’antisigma, , a rappresentare i suoni ps e bs; la digamma inversa, , per marcare la consonante v (mentre la u si scriveva con v), e il sonus medius, , per indicare un suono intermedio tra u e i (come nell’attuale u francese) prima di una consonante labiale; per esempio, MAXIMUS si dovrebbe scrivere MAX MUS). Alla morte di Claudio, questa riforma cadde nell’oblio.
interesse che il giovane nutriva per le discipline liberali, cioè quelle cui potevano accedere solo coloro che godevano della condizione sociale di uomini liberi, come la grammatica o la retorica. Dopo essere stato allievo di Tito Livio, si dedicò con zelo alla storia, e compose una storia delle guerre civili di Roma che avevano condotto alla dittatura di Giulio Cesare e all’instaurazione dell’Impero. Nell’opera espresse liberamente le proprie simpatie (derivategli da Livio) per l’antico regime repubblicano di Roma e addirittura criticò Augusto. Si interessò anche alla storia di altri popoli, come gli etruschi e i cartaginesi.
Lo zimbello della famiglia
PLACCA DI BRONZO CON IL DISCORSO DI CLAUDIO IN FAVORE DEI GALLI. MUSEO DELLA CIVILTÀ ROMANA, ROMA. BRIDGEMAN / ACI
DISPREZZATO DALLO ZIO
Busto di Tiberio. Come Augusto prima di lui, l’imperatore Tiberio aveva scarsa stima di Claudio, e nel suo testamento, relegò il nipote a erede «di terza categoria». Musei Vaticani. SCALA, FIRENZE
madre lo considerava un mostro (portentum era la parola latina), e sua nonna, Livia, non gli rivolgeva neppure la parola, ritenendo il nipote degno di tutto il suo disprezzo. Augusto si mostrava forse un poco più condiscendente con il povero ragazzino, anche se non si azzardava a mostrarlo in pubblico per timore di esporlo – ed esporsi – al ridicolo. In seguito, la sorella di Claudio, avendo udito che egli avrebbe potuto, in futuro, diventare imperatore, espresse pubblicamente la sua speranza che qualcosa di così indegno per Roma non accadesse mai. Nonostante la sua precaria condizione fisica, Claudio fu sottoposto a una severa formazione per mano di un rigido pedagogo, uno stalliere di origine barbara che non esitava a trattarlo male. Questo non gli impedì di mostrare una spiccata inclinazione per l’erudizione e lo studio. Svetonio parla del grande
Se Claudio trovò negli studi un intrattenimento e un modo per fuggire all’ostracismo impostogli dalla sua famiglia, per questa stessa ragione si diede a intemperanze le quali non fecero che aumentare la cattiva fama che già gli aveva provocato la sua natura. Ciononostante, come membro della famiglia imperiale godeva di una posizione privilegiata di cui qualcuno cercò di approfittare. Per esempio, alla morte di Augusto, l’ordine equestre – gruppo dell’aristocrazia romana immediatamente inferiore ai senatori – gli chiese di essere suo patrono e di intercedere affinché i cavalieri o equites potessero portare a spalla il corpo del defunto imperatore. Sotto il principato di Tiberio, Claudio tentò di iniziare una carriera politica a Roma e volle presentarsi per ottenere la carica di questore, ma l’imperatore rifiutò. Anni dopo, durante il principato del nipote Caligola, riuscì a essere nominato console insieme all’imperatore, ma esercitò la sua carica soltanto per due mesi. E fu proprio in questo periodo che un’aquila si posò sulla sua spalla destra, chiara premonizione del suo futuro destino come imperatore. Successivamente, ottenne un altro consolato. Negli anni di governo di Caligola, a Claudio furono affidate alcune missioni politiche non esenti da rischi. Questo avvenne per esempio dopo la congiura di Lepido e Getulico, che avevano tramato, insieme ad Agrippina Minore, sorella di Caligola, di uccidere l’imperatore. Caligola era in Germania, e fu deciso di inviare Claudio a dargli notizia dell’accaduto. Quando l’imperatore vide arrivare lo zio,
LA VIA SACRA DI ROMA
Il lungo viale, che attraversava il Foro, era l’asse principale di Roma, e lungo il suo percorso sorgevano i monumenti e i templi più importanti dell’Urbe. Conduceva al Palatino, dove sorgeva la residenza imperiale. Sullo sfondo, l’Arco di Tito. ANDREAS STRAUSS / AGE FOTOSTOCK
I peccati della prima moglie
U
RGULANILLA, moglie di Claudio prima che egli diventasse
imperatore, apparteneva a una nobile famiglia di ascendenza etrusca ed era figlia di un’amica intima dell’imperatrice Livia. Da questo matrimonio, che durò nove anni, nacquero un figlio, Claudio Druso, che morì asfissiato da adolescente, e una figlia, Claudia, che Claudio ripudiò dopo il divorzio perché sospettava che fosse figlia del suo liberto Botero. All’accusa di adulterio si aggiunse quella dell’assassinio di Apronia, cognata di Urgulanilla. Come narra Svetonio: «da Urgulanilla si divise perché si era disonorata con le sue dissolutezze [adulteri], e la si sospettava di omicidio».
il terzo matrimonio con Valeria Messalina, le cui dissolutezze furono commentate dai poeti. Nulla, quindi, faceva presagire la repentina ascesa di Claudio al trono imperiale nell’anno 41. Come narra Svetonio, fu un’incredibile casualità che il timido figlio di Druso si trovasse tra le persone che i centurioni allontanarono dalle sale del palazzo prima di assassinare Caligola. Senza ben sapere quel che stava accadendo, Claudio si rifugiò in una stanza vicina e, udendo il trambusto, si nascose dietro i tendaggi. Non ebbe, però, l’accortezza di nascondere anche i piedi, che rimasero in vista. Un soldato che passava di lì lo vide e scoprì un Claudio così terrorizzato da cadere in ginocchio. Il soldato lo salutò come il nuovo imperatore e lo trascinò nella stanza dove si trovavano gli altri militari, ancora esaltati per l’accaduto e per il sangue appena versato.
Imperatore suo malgrado
SARCOFAGO ROMANO CON UNA SCENA CHE RAFFIGURA UN RITO NUZIALE. III SECOLO. SAN LORENZO FUORI LE MURA, ROMA. DEA / AGE FOTOSTOCK
L’ IMPERATORE E IL SENATO
Cammeo con effigie dell’imperatore. A inizio mandato, Claudio si impegnò a guadagnarsi il consenso del Senato. Kunsthistorisches Museum, Vienna. BRIDGEMAN / ACI
lo considerò un atto umiliante verso la sua persona e lo gettò nel fiume. Il gesto di Caligola illustra molto bene il ruolo che Claudio aveva nella famiglia imperiale, ossia quello dello zimbello di tutti. E questa non fu la sola umiliazione che subì. Erano feroci le burle di cui era oggetto anche ai banchetti, come narra Svetonio: «ogni volta che sonnecchiava dopo il pasto, cosa che gli accadeva quasi sempre, veniva bersagliato con i noccioli delle olive». La sua vita coniugale non aiutò la sua reputazione. Era promesso a Livia Medullina, che morì improvvisamente il giorno delle nozze. In seguito divorziò dalla prima moglie, Plauzia Urgulanilla, per sospetti di adulterio e omicidio, e ciò mise in dubbio la paternità dei due figli avuti con lei. Si sposò poi con Elia Petina, sorella di Seiano, uomo di fiducia dell’imperatore Tiberio, ma il matrimonio ebbe breve durata. Ancor più sfortunato, se possibile, fu
Dopo la sua grottesca proclamazione, Claudio fu condotto in lettiga dai centurioni all’accampamento. Al suo passaggio, la folla credeva che sarebbe stato giustiziato nonostante non avesse alcuna colpa. Il giorno seguente, davanti alla pressione del popolo, che reclamava un nuovo imperatore, e all’inerzia del Senato, Claudio accettò la proclamazione, offrendo ai soldati 15.000 sesterzi a testa come ricompensa per la loro fedeltà. Cominciava così un principato che sarebbe durato fino alla sua morte, nel 54. Le canzonature, che segnarono la vita di Claudio quanto le sue mancanze fisiche, non ebbero fine neppure dopo la sua morte. Seneca, che per suo ordine era stato condannato all’esilio, si burlò crudelmente – e per l’eternità – dell’imperatore defunto in un’opera satirica, l’Apokolokýntosis, nella quale Claudio, invece di trasformarsi gloriosamente in un dio nell’apoteosi, diventa una grottesca zucca (emblema di stupidità, uno zuccone) alla mercé dei suoi liberti e delle sue spose infedeli.
Per saperne di più
SAGGIO
Claudio, l’imperatore balbuziente Dimitri Landeschi. Edizioni Saecula, Zermeghedo, 2014. ROMANZO
Io, Claudio Robert Graves. Corbaccio, Milano, 2010. TESTO
Vita dei Cesari. Claudio Svetonio. Garzanti, Milano, 2007.
L’ACQUEDOTTO DI CLAUDIO
Una delle opere pubbliche più importanti realizzate da Claudio fu la conclusione, nel 52 d.C., dei lavori dell’Aqua Claudia, l’acquedotto iniziato da Caligola e che portava acqua a Roma da una fonte situata a 68 chilometri di distanza. RICCARDO AUCI / VISIVALAB
CALIGOLA È MORTO, VIVA
Nel 1867, il pittore inglese Alma-Tadema ricreò in un dipinto oleografico la scena 3
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1 Il popolo osserva
2 Il saluto dei soldati
3 La battaglia di Azio
4 Caligola senza vita
In un angolo, alcune donne del popolo si sono intrufolate nel palazzo imperiale per osservare la scena.
I soldati che hanno preso parte all’omicidio di Caligola alzano le armi per salutare il nuovo imperatore.
Sullo sfondo si vede un frammento di un dipinto sulla battaglia che vide Ottaviano sconfiggere Antonio.
L’imperatore giace al suolo. Le calzature verdi ricordano il soprannome datogli da bambino: «Piccola caliga».
L’IMPERATORE CLAUDIO!
della proclamazione di Claudio da parte dei pretoriani che avevano ucciso Caligola
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5 Il busto di Augusto
6 Claudio scoperto
7 Il pretoriano Gratus
8 Altare familiare
La scena si svolge in una sala del palazzo chiamata Ermeo, nella quale si trova anche un busto di Augusto.
Un terrorizzato Claudio viene scoperto da un pretoriano per via delle calzature rosse che spuntano da sotto la tenda.
Il soldato tira la cortina che nasconde Claudio e lo saluta ironicamente come nuovo imperatore di Roma.
Caligola viene ucciso davanti all’altare domestico della famiglia imperiale, con i suoi antenati piÚ illustri.
AKG / ALBUM
8
LA COSTRUZIONE DI UN LEADER
LORENZO DE’ MEDICI Il Magnifico per antonomasia costruì il suo personaggio con grande abilità e con una cura sistematica, per diffondere a fini politici l’immagine della sua magnificenza e quella della sua città, strettamente intrecciate LAURA FEDI ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL RINASCIMENTO
orenzo de’ Medici è passato alla storia come “il Magnifico”e già come tale era riconosciuto dai suoi contemporanei. A tal punto la magnificenza fu il suo tratto distintivo che egli è il Magnifico per antonomasia, l’unico. Legata all’onore e alla liberalità, la magnificenza costituisce una delle virtù civili esaltate da Cicerone e riprese dagli umanisti fiorentini del Tre-Quattrocento.“Magnifico messere”era il titolo onorifico che spettava al Gonfaloniere di giustizia, la massima carica delle istituzioni cittadine. Eppure, l’uomo al quale quel titolo aderirà fino all’identificazione, gonfaloniere non lo fu mai: investito di fatto del potere appena ventenne, la morte lo colse a 43 anni, prima di raggiungere l’età necessaria per ascendere ufficialmente alla carica che era stata del nonno Cosimo il Vecchio e del padre Piero il Gottoso. In cosa consistette allora la sua unicità? A che è dovuta la magnificenza di cui «risplendono le cose sue»?
LORENZO DE’ MEDICI
Un pensieroso Lorenzo il Magnífico è raffigurato nel ritratto eseguito dal Bronzino tra il 1565 e il 1569. Galleria degli Uffizi, Firenze. SCALA, FIRENZE
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LA CAPITALE DEL RINASCIMENTO
Veduta di Firenze con il palazzo della Signoria al centro e la cattedrale di Santa Maria del Fiore sulla destra. Sotto il governo dei Medici, la città raggiunse il massimo splendore artistico e culturale.
«La grandezza di questo uomo fu grandissima, che mai Firenze ebbe un cittadino pari a lui, e la fama sua molto amplissima e doppo la morte e mentre visse». Sono le parole di Francesco Guicciardini, che nelle Storie fiorentine, rimaste inedite, a neanche vent’anni di distanza dalla morte di Lorenzo ne offre un ritratto lontano dall’adulazione di amici e clienti o di storici filomedicei posteriori. Sotto Lorenzo, scrive Guicciardini, Firenze fu «libera in nome, in fatto ed in verità tiranneggiata da uno suo cittadino». «Nondimeno», ammette, «sarebbe impossibile avessi avuto un tiranno migliore e più piacevo-
le». Certo, la smisurata ambizione e la brama di primeggiare in ogni campo lo portarono a far insediare nelle magistrature e nelle cariche pubbliche non i migliori fra i suoi pari bensì coloro che riteneva dipendessero unicamente dal suo appoggio. Però seppe anche aumentare come nessun altro la propria gloria e quella della sua città. E non con le vittorie militari, come avveniva nell’antichità, ma promuovendo le lettere e tutte le arti. Col suo ritratto pieno di ombre, sembra che nemmeno Guicciardini abbia potuto evitare il mito di Lorenzo. Senza riuscire a demolirlo o a scoprirne la sorgente analizzando i vizi
1469
C R O N O LO G I A
PRINCIPE, POLITICO, MECENATE
A Firenze nasce Lorenzo de’ Medici, figlio primogenito di Piero di Cosimo de’ Medici, “signore” di Firenze, e della poetessa Lucrezia Tornabuoni. Riceverà un’ottima istruzione.
PIERO DE’ MEDICI, PADRE DI LORENZO. BRONZINO. NATIONAL GALLERY, LONDRA.
SCALA, FIRENZE
1449
Muore a 53 anni Piero de’ Medici, erede di Cosimo il Vecchio, cui si deve la posizione elevata raggiunta dalla famiglia. Lascia ai figli Lorenzo e Giuliano una prospera banca e il potere acquisito nelle istituzioni fiorentine.
SYLVAIN SONNET / GETTY IMAGES
SYLVAIN SONNET / GETTY IMAGES
a Napoli, a Milano… Al tavolo dei capi di Stato, Lorenzo era il più debole. Eppure riuscì ad essere l’“ago della bilancia d’Italia”, ad accreditarsi presso principi e potenti come arbitro e consigliere, come indispensabile intermediario di benefici e favori. E forte di questa reputazione ne acquistò nella sua città. Le sue lettere attestano la cura con cui perseguì il suo scopo: dalle raccomandazioni agli ambasciatori affinché il potente di turno sapesse che era grazie a lui che era stato accontentato, all’accoglienza delle richieste dei suoi uffici come occasioni per aumentare in prestigio, fino all’attenzione per le apparenze, dove ogni dettaglio – l’eleganza
Giuliano, fratello minore di Lorenzo, viene assassinato nella cattedrale di Santa Maria del Fiore nell’ambito di una congiura ordita dai membri della famiglia dei Pazzi, acerrimi nemici dei Medici.
Lorenzo rafforza il suo controllo su Firenze e istituisce il Consiglio dei Settanta, il massimo organo di governo, composto da membri della cerchia più intima della famiglia Medici.
1492 Muore Lorenzo, detto il Magnifico, che il domenicano Savonarola critica ferocemente. Nel 1494, i francesi cacciano da Firenze Piero, il suo erede.
ZE
1480
Medaglia in bronzo realizzata nel 1478 dallo scultore Bertoldo in memoria della congiura ordita dalla famiglia dei Pazzi, nel corso della quale venne ucciso Giuliano de’ Medici. Museo del Bargello, Firenze.
EN
1478
PADRONE DI FIRENZE
FIR
e le virtù dell’uomo, fra cui, la prima, l’«ingegno grandissimo e singulare». Una cosa è certa: Lorenzo è indistinguibile dal suo mito. Anche perché egli stesso fu all’origine della sua costruzione. E forse proprio qui risiede la“chiave”. Nella cura sistematica con cui creò e diffuse l’immagine della sua magnificenza e quella della sua città, unite in un unico nodo. Lorenzo ebbe una profonda consapevolezza dell’importanza dell’immagine pubblica a fini politici. Che per lui rispondeva a una necessità reale, dettata sia dal carattere non ufficiale del suo dominio interno, sia dalla debolezza dello Stato fiorentino rispetto al papato, alla Francia,
SC
AL
A,
I CANTI CARNASCIALESCHI
L’USO POLITICO DEL CARNEVALE
O
uando Lorenzo di fatto governa a Firenze, i festeggiamenti di carnevale acquistano grande spazio e importanza. Questo avviene a scapito delle giostre e delle parate di cavalieri di origine medievale, divenute da tempo per le famiglie più in vista occasione di pubblica ostentazione di potenza e ricchezza. Ben consapevole della pericolosità della concorrenza, Lorenzo vi pone un freno e favorisce per contro il più popolare carnevale, dove le brigate dei giovani rampolli dell’oligarchia sfilano mascherate e non più in spettacolari cortei circondate da schiere di fedeli in livrea. In occasione del carnevale vengono composti canti comico-burleschi, giocati sul doppio senso osceno. Molti di questi sono frutto di una produzione corale, ma sempre sotto la regia di Lo-
renzo. A lui si devono invece senz’altro la Canzona di Bacco e Arianna e la Canzona de’ sette pianeti, per il carnevale del 1490. I celebri versi della prima, «Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia: / chi vuol essere lieto, sia, / di doman non c’è certezza», spesso assunti a emblema di un edonismo spensierato, mostrano in filigrana riferimenti scritturistici ed eco stoiche, in particolare dal De brevitate vitae di Seneca.
DEA / SCALA, FIRENZE
LORENZO, IL POETA
Manoscritto originale, finemente decorato, dell’egloga Apollo e Pan. Biblioteca Laurenziana, Firenze. Verso la fine della sua vita, Lorenzo compose alcune opere d’ispirazione classica.
delle vesti dei figli, le livree, i doni – era studiato per suscitare ammirazione e lode. La promozione di Firenze come massimo centro culturale nel mondo, ebbe, da questo punto di vista, un formidabile valore politico. Lorenzo «si ingegnò» – scrive ancora Guicciardini – «che a’tempi sua fussino tutte le arte e le virtù più eccellente in Firenze che in altra città di Italia». Consigliava i“suoi”artisti ai committenti “esteri”, come nel caso di Filippino Lippi suggerito al cardinale Carafa per affrescare la sua cappella in Santa Maria sopra Minerva a Roma. Non badò a spese per il nuovo Studio fiorentino-pisano, dove i salari dei professori erano fra i più alti dell’epoca. La filosofia splendeva con
Nello stile di Petrarca, Lorenzo visse un amore cortese con la bella Lucrezia Donati, alla quale dedicò molti poemi
74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola. Gli studi“di umanità”e di greco fiorivano grazie a maestri illustri come Demetrio Calcondila, Giano Lascaris, Cristoforo Landino e l’amico Angelo Poliziano, il grande filologo e umanista che nella famosa prolusione su Omero tenuta allo Studio nel 1486-1487 poteva celebrare Firenze come «nuova Atene».
Un’eredità difficile Firenze aveva una storia di tradizione repubblicana, di cultura e di arte di cui andava orgogliosa. Era la patria letteraria di Dante, Petrarca e Boccaccio. Era la culla dell’Umanesimo civile, nella grande stagione dei cancellieri umanisti Coluccio Salutati – che aveva esaltato la città come erede dell’antica Roma repubblicana –, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini. Numi tutelari di questa “rinascita” erano Cicerone e l’Aristotele delle opere etiche e politiche. Che venivano lette nelle nuove traduzioni dal greco, riscoperto e coltivato grazie alla presenza dei dotti bizantini nella città, loro sede eletta per il Concilio e poi in conseguenza della ca-
CORTILE INTERNO DEL PALAZZO MEDICI-RICCARDI, A FIRENZE, RESIDENZA CITTADINA DELLA FAMIGLIA MEDICI. OTTO STADLER / FOTOTECA 9X12
duta di Costantinopoli. E con i greci si riscopre Platone, di cui Ficino inizia, nella seconda metà del Quattrocento, la traduzione di tutte le opere. Nel frattempo, molte cose sono cambiate. Nel 1449, anno della nascita di Lorenzo, il potere effettivo è detenuto da suo nonno, il banchiere Cosimo il Vecchio, e non dalle istituzioni cittadine. Cosimo aveva instaurato il predominio politico dei Medici sulle altre ricche e potenti famiglie che da sempre si contendevano le cariche più alte delle istituzioni. Questi ottimati continuarono comunque a essere attivi, sia sul piano politico sia su quello culturale: se Cosimo primeggiò nel patronato di grandi opere di architettura che ornavano la Firenze rinascimentale, ve ne furono anche altri, come Giovanni Rucellai, principale committente di Leon Battista Alberti. Nel 1469, quando muore il padre Piero e a cinque anni dalla scomparsa di Cosimo, la situazione con cui Lorenzo si deve misurare è estremamente critica: l’erede ventenne della casa Medici è circondato da esponenti
POETI E FILOSOFI A CORTE Da sinistra, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola e Agnolo Poliziano in un affresco di Cosimo Rosselli nella chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze. SCALA, FIRENZE
dell’oligarchia fiorentina che, sotto apparenti dichiarazioni di fedeltà, mirano ad assumere il controllo politico. Ma, «benché rimanessi tanto giovane e quasi in cura» dei «vecchi dello stato, nondimeno in brieve tempo prese tanto piede e tanta riputazione, che governava a suo modo la città» (Guicciardini). Le tensioni antimedicee troveranno uno sbocco fatale nella congiura dei Pazzi del 1478, l’agguato in chiesa in cui il fratello Giuliano viene ammazzato mentre Lorenzo riesce a scampare tornando poi, contro ogni aspettativa, più forte di prima. L’evento segna una cesura profonda: seguito da una lunga scia di uccisioni che decimano le fila degli avversari in Firenze, dovranno passare dieci anni prima che le manifestazioni pubbliche e il carnevale tornino a essere celebrati.
Lorenzo e il volgare Nel ventennio in cui di fatto governò Firenze Lorenzo fu non solo promotore, ma protagonista e“regista”dell’attività letteSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Storia di Furio Camillo. La scena decora un pannello in legno, realizzato verso il 1465, che si ritiene facesse parte di uno scrigno nuziale. Forse si ispirava ai fatti contemporanei di Firenze, poiché sappiamo che sotto Lorenzo il Magnifico si tenne in città una parata che rievocava un trionfo di Paolo Emilio, e all’inizio del XVI secolo se ne celebrò un altro di cui era protagonista Furio Camillo. Museo di Belle Arti, Tours.
76 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
ALA , FIRE
NZE
PATRONO E MUSICO Liuto del XVI secolo. Museo del Castello Sforzesco, Milano. Sappiamo che Lorenzo de’ Medici suonava vari strumenti, tra i quali il liuto.
DEA / SC
raria. Alcuni suoi scritti rimandano a un’origine “corale”: dove è difficile distinguerlo da Luigi Pulci, che animava coi suoi versi espressivi e comici la“brigata”capeggiata dal giovane Medici; o da Poliziano, collaboratore nelle canzoni a ballo; o ancora da Ficino. La divergenza fra questi autori rende ben conto dell’incredibile varietà di stili e registri toccati dal principe poeta, che scrisse componimenti ludici di contenuto osceno, versi sotto la cui veste popolare sono celate allegorie filosofiche, liriche di intonazione stilnovistica e petrarchesca, poesie intrise di platonismo e rappresentazioni sacre. In un intreccio di fasi distinte e di sovrapposizioni che coinvolgono le cerchie di intellettuali e artisti di cui amò sempre circondarsi. La sua attività letteraria – come autore e come regista – ha un legame essenziale con l’attività politica, concretizzandosi in scelte programmatiche di politica culturale. A cominciare dalla scelta del volgare, in cui fin da giovanissimo compone le sue poesie. Una scelta, questa, che usciva dal solco del tradizionale legame mediceo – di Cosimo e poi di Piero
– con la cultura ufficiale, in latino, rispondendo piuttosto alla crescente affermazione dell’autocoscienza che i fiorentini, soprattutto di parte oligarchica, avevano della propria letteratura e della propria lingua e che Lorenzo, ormai a capo dello Stato, farà propria. I tempi d’altronde erano maturi perché il volgare venisse accolto nella cultura “alta”. Nel 1466-1467 Ficino traduce la Monarchia di Dante in volgare e Cristoforo Landino tiene presso lo Studio fiorentino un corso sul canzoniere di Petrarca, dopo quelli su Cicerone, Orazio e Virgilio. Negli stessi anni Lorenzo inizia a comporre un canzoniere come quello petrarchesco, opera aperta di tutta una vita cui affiancherà, sulla falsariga della Vita nuova di Dante, un Comento in prosa ad alcuni suoi sonetti. Qui, nel proemio al Comento, è svolta un’appassionata difesa del volgare: la «degnità della lingua nostra» – scrive – nella quale si può esprimere, come avviene per tutte le lingue eccellenti, «ogni senso» e «qualunque concetto della nostra mente», è attestata dai «nostri poeti fiorentini». E se Dante è all’altezza dei greci e dei latini e Petrarca pari ai poeti latini
BRIDGEMAN / ACI
d’amore, Boccaccio ha saputo dimostrare con la sua invenzione ed eloquenza che nessuna lingua è più adatta a esprimere «tutte le nature e passioni degli uomini». Un contributo al successo promesso alla lingua ancora“adolescente” intende essere la“Raccolta aragonese”, la voluminosa silloge di poesia, per lo più toscana, che nel 1476-1477 Lorenzo fa allestire ad Angelo Poliziano come dono per Federigo d’Aragona, figlio del re di Napoli. Raccolta nella quale non teme di sfigurare proponendosi a coronamento del suo secolo, «nello estremo del libro» che si sviluppa da Dante al presente, con ben sedici componimenti fra sonetti e canzoni.
In compagnia dei filosofi A partire indicativamente dal 1473 la poesia di Lorenzo inizia a lasciare l’espressionismo popolareggiante di Pulci per vestirsi di platonismo ficiniano. Risale a quell’anno infatti l’apertura al filosofo che aveva fatto della rinascita della tradizione platonica, intesa come depositaria della verità rivelata agli antichissimi poeti-teologi e fulcro del messaggio cristiano,
la propria missione. Una missione alla quale, con la morte di Cosimo il Vecchio, era venuto meno quell’appoggio che verrà in seguito presentato da Ficino come totale adesione al suo programma filosofico. Fino al 1473 tra Ficino e Lorenzo non ci furono rapporti stretti. Anzi, nel Convivio, una parodia nello spirito comico e irriverente di Pulci, Lorenzo aveva deriso la dottrina ficiniana dell’amore. Non è un caso che il giovane Medici non compaia nella redazione primitiva della Theologia platonica, la grande opera che poi Ficino gli dedicherà. Nel 1473 avviene invece un avvicinamento tra i due, una sorta di alleanza pubblica promossa attraverso la circolazione dei primi tre capito-
TORNEI A FIRENZE
Lorenzo de’ Medici prese parte a numerose giostre cavalleresche a Firenze, come quella raffigurata nel dipinto, che ripropone un tema della storia dell’antica Roma.
Alla morte del padre, nel 1469, Lorenzo, insieme con il fratello minore Giuliano, ereditò il potere su Firenze
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IL TESORO DEI MEDICI
L’ARTE PER L’ARTE E PER ESIBIZIONE
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orenzo è stato uno dei più grandi mecenati di tutti i tempi o un influente arbitro del gusto e un raffinato collezionista? I veli della leggenda e della critica demistificatrice sono ispessiti dalla rarità dei documenti e dalla cancellazione delle tracce architettoniche in seguito alla cacciata dei Medici da Firenze, pochi anni dopo la sua morte. Una morte prematura che gli impedì di affermare appieno il suo gusto innovativo e insieme amante dell’antico. Come si può ammirare nella monumentale villa di Poggio a Caiano, disegnata da Giuliano da Sangallo e al cui progetto dovette partecipare lo stesso Lorenzo, profondo estimatore di Leon Battista Alberti. Educato all’arte e al bello, ebbe un ruolo influente nell’Opera del Duomo, finanziò molte opere pubbliche e si circondò di artisti. Molti di
questi, incluso il giovane Michelangelo, frequentavano il suo “giardino delle sculture” in piazza San Marco, custodito dallo scultore Bertoldo. Celeberrima è la sua collezione, esibita agli ospiti illustri: un tesoro che comprendeva gemme, cammei, monete antiche, libri, porcellane cinesi, antichità. Sugli oggetti più preziosi, come la Tazza Farnese, di fattura ellenistica, fece incidere a lettere capitali “LAU.R.MED.”.
SCALA, FIRENZE
NEL GABINETTO DI LORENZO
Il dipinto di Amos Cassioli, eseguito nel 1863, raffigura Lorenzo de’ Medici mentre mostra la sua collezione di gioielli e opere d’arte a Gian Galeazzo Sforza, duca di Milano.
li del poema De summo bono di Lorenzo (poi pubblicato col titolo apocrifo Altercazione) e dell’epistola De felicitate di Ficino, testi paralleli in cui l’uno mette in versi in volgare e l’altro in prosa latina il resoconto della sfida che si sarebbe tenuta fra loro per celebrare il sommo bene. Dettata anche da una ricerca strategica di consenso attraverso la propaganda letteraria, la“conversione”platonica di Lorenzo imprime una svolta alla cultura fiorentina. Molteplici sono le direttrici insite nel platonismo ficiniano: al primato della contemplazione del vero sulla vita attiva è unita una profonda istanza educativa volta a presentare la ricerca e la contemplazione dell’unica verità
Girolamo Savonarola denunciò la corruzione del regime dei Medici SAVONAROLA IN UNA MEDAGLIA DEL 1502. BARGELLO, FIRENZE. AKG / ALBUM
come la dottrina seguendo la quale soltanto si può essere sapienti governanti, buoni cittadini e veri cristiani. Una verità che è velata e insieme rivelata dalla molteplicità delle apparenze corporee. La poesia diventa veicolo privilegiato dei contenuti filosofici, che amano ammantarsi di forme mitologiche, come la verità si occulta e si manifesta nelle belle apparenze. L’eredità ficiniana sull’arte e la letteratura perdura oltre il fragile patto tra il principe e il filosofo, nutrito di reciproca diffidenza. La distanza è aggravata dal profilo ambiguo tenuto da Ficino durante la crisi del 1478. In seguito le cose si ricompongono, ma è indicativo che Lorenzo non si assuma le spese della stampa delle opere che Ficino gli dedica. Fatta eccezione per la traduzione e il commento di Plotino, uscito nel 1492. A riavvicinarlo al vecchio filosofo è anche la presenza a Firenze, soprattutto dal 1488, del conte Giovanni Pico della Mirandola. Di solida formazione aristotelica, Pico concepisce le varie filosofie e tradizioni sapienziali, che studia avidamente, in una prospettiva di concordia comune. Ricerca l’unità del sapere e
DEA / SCALA, FIRENZE
vede nel sapere la via per unire gli uomini in un cammino di ascesa e di liberazione culminante nella rivelazione cristiana. Risponde a questa profonda ispirazione il suo progetto di un convegno di dotti di ogni provenienza da tenersi a Roma il 6 gennaio 1487, per il quale appronta 900 tesi pubblicate nel dicembre 1486 col titolo Conclusiones philosophicae, cabbalisticae et theologicae. Per difendersi dalle reazioni della Chiesa subito scatenatesi contro di lui il giovane pensatore scrive un’Apologia che contiene la celebre orazione sulla dignità dell’uomo, vero e proprio manifesto dell’Umanesimo. Costretto a fuggire in seguito alla condanna papale e al mandato di cattura, viene arrestato in Francia nel gennaio 1488. Lorenzo, legato a lui da affetto e ammirazione, riesce a fargli ottenere la libertà e lo ospita a Firenze, dove Pico è uno dei protagonisti della nuova svolta impressa dal Magnifico alla vita culturale. Una svolta nella quale i contenuti filosofici e spirituali non sono più poeticamente velati e che è connessa senz’altro anche al suo avvicinamento al papa in vista della nomina del figlio Giovanni, appena tredicenne,
a cardinale: ma senza implicare, per questo, la rinuncia alla libertà della ricerca. Deluso dalla reazione della Curia contro l’Heptaplus, il commento ai primi versetti della Genesi in cui Pico profonde i suoi studi di esegesi cabalistica, Lorenzo scrive amareggiato: «Sono certo, se costui dicessi el Credo, cotesti spiriti maligni direbbono che fussi una heresia». In pochi anni scompaiono tutti: Lorenzo nel 1492, a 43 anni, e nel 1494 Poliziano, a 40, e Pico, a 31. E Ficino, più sazio di anni, nel 1499. Con loro si chiude una stagione che già agli occhi di Guicciardini apparve il tramonto degli ideali e delle istituzioni repubblicane. Certo, uno splendido tramonto. Come ha scritto Eugenio Garin, che all’umanesimo civile fiorentino ha dedicato studi indimenticabili, «forse il più bello che una città possa augurarsi». Per saperne di più
UNA VILLA PER I MEDICI
Nel 1480, Lorenzo de’ Medici incaricò l’architetto Giuliano da Sangallo di costruire una residenza estiva nella località di Poggio a Caiano. Di particolare rilievo sono la galleria e i due bracci della scalinata.
SAGGI
Il Magnifico. Vita di Lorenzo de’ Medici Jack Lang. Mondadori, Milano, 2003. L’umanesimo italiano Eugenio Garin. Laterza, Roma-Bari, 2000.
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LA BELLEZZA NATA DALLE ACQUE Commissionato forse in occasione del matrimonio di un membro della famiglia Medici, il celebre dipinto di Sandro Botticelli è un buon esempio del gusto rinascimentale per i temi mitologici. In questo caso si tratta di Venere Anadiomene, la dea della bellezza nata nel mare dagli organi genitali del dio Urano, che era stato castrato dal titano Crono, suo figlio.
VENERE
Dopo una lunga traversata su una grande conchiglia, Venere si appresta a mettere piede sulla sponda di Pafo, a Cipro.
ZEFIRO E CLORI
Ovidio nei Fasti narra che la ninfa rapita dal dio del vento d’occidente è la dea che i romani chiamarono Flora. La coppia mitologica, che compare anche nel celebre quadro della Primavera coi medesimi contrassegni – i fiori di Clori, l’alito fecondo di Zefiro –, simboleggia la vita della natura che rinasce.
UN’ALLEGORIA FILOSOFICA Probabilmente gli intellettuali fiorentini interpretavano questo dipinto secondo i princìpi della filosofia neoplatonica, vedendo in Venere un simbolo della bellezza spirituale. In una delle sue opere, Marsilio Ficino scrisse: «Lo spirito divino si riversa nell’anima (il mare), che, fecondata, crea la Bellezza in sé [...] Questa conversione nella bellezza e la sua nascita a partire dall’anima si chiama Venere».
NINFA
SCALA, FIRENZE
Nell’impianto allegorico neoplatonizzante che domina il quadro la ninfa raffigurata sulla riva nell’atto di coprire la nudità della dea con un manto fiorito potrebbe rappresentare la natura che veste la purezza dell’anima nel suo approdo alla vita.
L’UCCISIONE DI COLIGNY
L’attentato ai danni del leader ugonotto Coligny e il successivo assassinio nel suo letto durante la notte di San Bartolomeo. Incisione di Franz Hogenberg. Biblioteca Universitaria, Ginevra. DEA / SCALA, FIRENZE
1572
PARIGI Il massacro della notte di San Bartolomeo La spirale di violenza scatenata dalle guerre di religione in Francia culminò con la terribile strage di protestanti nella capitale del regno, per la quale venne ritenuta responsabile la regina madre, la cattolica Caterina de’ Medici JOSÉ JAVIER RUIZ IBÁÑEZ UNIVERSITÀ DI MURCIA
PALAZZO DEL LOUVRE
Il Padiglione dell’Orologio risale all’inizio del XVII secolo. Sotto Caterina de’ Medici l’edificio del Louvre iniziò a trasformarsi in un raffinato palazzo articolato attorno a un grande cortile quadrato. BRIAN JANNSEN / AGE FOTOSTOCK
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Furono molti gli episodi sanguinosi di questo tipo che scandirono le guerre di religione, il lungo conflitto in cui tra il 1562 e il 1598 si scontrarono in Francia due comunità religiose, i cattolici e i protestanti (che in Francia chiamavano ugonotti). La strage della Notte di San Bartolomeo, però, fu il più grave e quello di maggior impatto, tanto da diventare un’icona del fanatismo e della violenza che una comunità può scatenare contro una minoranza religiosa, un esempio di come una società possa spaccarsi in due, avviare processi di sterminio e convincersi che l’eliminazione fisica dei rivali sia l’unico modo per garantire la propria sopravvivenza. Le guerre di religione in Francia furono una conseguenza della divisione religiosa che toccava tutta l’Europa dopo l’irruzione della Riforma protestante a partire dal 1517. Inizialmente, la monarchia di Francesco I non esitò ad appoggiare i protestanti tedeschi nella loro ribellione contro l’imperatore Carlo V, grande nemico dei francesi, ma non per questo era disposta a permettere alla nuova dottrina di espandersi nei suoi domini. Prova di questo fu la violenta repressione scatenatasi nel 1534, dopo lo scandalo dei placards, ma-
C R O N O LO G I A
GUERRA TRA DUE FEDI
nifesti anticattolici che i protestanti affissero sui muri di Parigi e persino sulla porta della camera del re nel suo palazzo ad Amboise. Tuttavia, tra il 1550 e il 1560 il protestantesimo, nella variante calvinista guidata da Ginevra da un riformatore di origine francese, Giovanni Calvino, si diffuse rapidamente tra le fila della nobiltà francese, in parte delle élite urbane e nel mondo contadino, fino a diventare una vera e propria minaccia per la monarchia.
Una situazione sempre più tesa Nel 1559, la morte di Enrico II, figlio di Francesco I, in un torneo – un avversario gli trafisse un occhio con una lancia ed Enrico morì dopo tre giorni di agonia – debilitò improvvisamente il potere della monarchia. A un re forte succedettero due bambini – il quindicenne Delfino Francesco II di 15 anni e un anno dopo, in seguito alla morte di questi, suo fratello Carlo IX di 10 anni – sotto la reggenza della madre Caterina de’ Medici. In tali circostanze si formarono due partiti nobiliari, ciascuno di essi determinato a governare, e che fecero della religione la loro bandiera: da una parte la fazione cattolica guidata dalla potente famiglia dei Guisa, decisa a liberare il
1562
1572
1589
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Scoppia la prima guerra di religione in cui si scontrano nobili cattolici e protestanti.
Massacro della Notte di San Bartolomeo, in francese la Saint-Barthélemy, a Parigi.
Con l’omicidio di Enrico III, ultimo figlio di Caterina de’ Medici, si estingue la dinastia dei Valois.
Enrico IV pone fine all’ottava e ultima guerra di religione.
CATERINA DE’ MEDICI. RITRATTO DI SANTI DI TITO. GALLERIA DEGLI UFFIZI, FIRENZE. SCALA, FIRENZE
E . L E S S I N G / A L B UM
omenica 24 agosto 1572, giorno consacrato a San Bartolomeo, Parigi si svegliò – ammesso che qualcuno dei suoi abitanti avesse potuto dormire – in un bagno di sangue. Durante la notte aveva infatti preso avvio una terribile carneficina che sarebbe continuata per i tre giorni seguenti e che in breve tempo si sarebbe estesa ad altre città del regno di Francia. MEDAGLIONE DEI VALOIS
Le lettere intrecciate sono le iniziali di Caterina e di suo figlio, Carlo IX, sul quale la regina madre esercitò un forte ascendente per tutta la vita. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
CASTELLO DI CHENONCEAU
Nella residenza situata nella Valle della Loira, nel marzo del 1572, Caterina de’ Medici incontrò Jeanne d’Albret per concordare il matrimonio tra i loro figli: Enrico di Navarra e Margherita di Valois. BRIAN JANNSEN / AGE FOTOSTOCK
DEA / SCALA, FIRENZE
regno dal protestantesimo; sul fronte opposto, lo schieramento calvinista che si riuniva attorno ad Antonio di Borbone-Vendôme e all’ammiraglio Gaspard de Coligny. A partire dal 1561, quella che fino ad allora era stata una disputa per il favore reale nella corte divenne uno scontro armato, un’autentica guerra civile nella quale ben presto le regole cavalleresche cedettero il passo alla pura barbarie, con esecuzioni di prigionieri e omicidi politici. In quest’atmosfera di violenza sfrenata, Caterina de’Medici voleva evitare, più di ogni altra cosa, di diventare un semplice strumento nelle mani della nobiltà, cattolica o protestante che fosse. A questo scopo mise in pratica politiche diverse e contrastanti, dalla guida dei cattolici favorevoli all’annientamento dei protestanti, alla ricerca di qualche forma di tolleranza che permettesse la convivenza dei due gruppi; tentativo, questo, portato avanti dal cancelliere Michel de L’Hospital mediante diversi editti di pacificazione e tolleranza. Tuttavia, la guerra si protrasse con diversi rovesciamenti di fronte, senza che nessuno dei due schieramenti riportasse un’affermazione decisiva.
GLI ALTRI MASSACRI L’INIZIO DELLE GUERRE di religione nel 1562 fu accompagnato da violenti scontri
tra cattolici e protestanti in diverse città della Francia. Se nei luoghi in cui costituivano la maggioranza della popolazione gli ugonotti assaltavano le chiese cattoliche e aggredivano preti e monaci, umiliandoli, cacciandoli dalla città o uccidendoli, i cattolici, dal canto loro, si resero responsabili di eccidi del tutto simili a quello della Notte di San Bartolomeo in luoghi come Sens o Tours (in alto).
Una notte di sangue
IL RE E L’AMMIRAGLIO
CAL
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Ritratto di Gaspard de Coligny. Museo del Protestantesimo, Poët-Laval. Dopo l’attentato, Carlo IX giurò a Coligny che l’avrebbe vendicato.
E/S
ugonotti, fatto che creò una tensione palpabile con la popolazione della capitale del regno, in maggioranza cattolica. In questo clima teso, il 22 agosto Coligny fu vittima di un attentato: mentre tornava da una riunione del Consiglio del re, qualcuno gli sparò da una finestra, e sebbene l’ammiraglio avesse avuto salva la vita per essersi abbassato proprio in quel momento per allacciarsi una scarpa, riportò una grave ferita a un braccio e a una mano e fu trasportato con urgenza al suo alloggio. Carlo IX si affrettò a fargli visita, per promettergli giustizia e tranquillizzare i suoi sostenitori, ma si scontrò con l’ira dei protestanti che attribuivano la responsabilità del tentato omicidio all’ambiente reale, in particolare a Caterina de’Medici e ai Guisa. La regina madre e il suo consiglio videro in questa mobilitazione e nella rabbia degli ugonotti
J OS S
Quando, nel 1570, le forze protestanti guidate dall’ammiraglio Gaspard de Coligny si avvicinarono a Parigi e costrinsero il governo ad accettare una nuova pace, quella di SaintGermain-en-Laye, Caterina tentò una nuova mossa: concordò il matrimonio di sua figlia Margherita di Valois con il giovane protestante Enrico di Borbone, re di Navarra. In questo modo, la regina sperava di riportare la concordia nell’alta nobiltà e di dare stabilità alla Corona. Coligny, però, acquisì una crescente influenza sul re Carlo IX, e si sparse la voce che il suo obiettivo fosse quello di avviare un intervento militare nei Paesi Bassi in aiuto ai protestanti che si erano ribellati al dominio di Filippo II di Spagna. La possibilità di una guerra su vasta scala tra Francia e Spagna era per molti fonte di preoccupazione. Il matrimonio di Enrico di Borbone e Margherita di Valois fu celebrato il 18 agosto 1572 a Parigi. Per l’occasione giunse nella capitale francese un numero considerevole di nobili
CATERINA DE’ MEDICI INDUCE IL FIGLIO CARLO IX A FIRMARE L’ORDINE DEL MASSACRO DEGLI UGONOTTI DEL 1572. DIPINTO DI ALESSANDRO FOCOSI. 1866. PINACOTECA DI BRERA, MILANO.
Le responsabilità
sulla decisione del massacro Gli storici si sono interrogati a lungo sulle responsabilità di Caterina de’ Medici e del re Carlo IX nell’attentato a Coligny e poi nella strage di San Bartolomeo. Che i sovrani alla fine fossero consenzienti è indubbio; resta invece ancora da chiarire a fondo la responsabilità che avrebbero avuto nell’organizzazione del massacro. Sotto, una cronaca che si rifà a cronache dell’epoca. BRIDGEMAN / ACI
una notte insonne, riceve nelle sue stanze il figlio, duca d’Anjou (futuro Enrico III). Insieme decidono che è necessario «eliminare l’ammiraglio con qualsiasi mezzo» e che bisogna convincere di questo Carlo IX. o
ve l’ordine di riunire la milizia urbana presso il Municipio. o
durante la cena a palazzo, un ugo-
notto esclama che vendicheranno a ogni costo l’attentato contro Coligny, il che convince definitivamente la regina della necessità di agire subito.
nel pomeriggio, Caterina riunisce i
o
suoi servitori più fedeli in un «consiglio di guerra» nei giardini delle Tuileries. Viene deciso che «sarebbe conveniente provocare una battaglia a Parigi» e uccidere tutti i nobili e i capitani protestanti che alloggiano in città.
a notte fonda, Caterina, il duca
o
all’imbrunire, le autorità municipali
fanno una ronda nelle locande e nelle pensioni e prendono nota di quelle in cui alloggiano degli ugonotti. Il sindaco di Parigi (prêvot des marchands) rice-
d’Anjou e tre nobili si recano nella camera da letto di Carlo IX per convincerlo a dare il consenso al massacro. All’inizio il re oppone resistenza, assicurando che Coligny «mi ama come un figlio e mai mi arrecherebbe danno», ma alla fine si lascia persuadere dalla madre. Quando gli mostrano la lista degli ugonotti che bisogna eliminare, la approva ed esclama: «Dunque uccideteli tutti! Uccideteli tutti!».
HERITAGE / SCALA, FIRENZE
la mattina, Caterina, dopo
GLI ESECUTORI DEL MASSACRO PORTAVANO UN BRACCIALETTO BIANCO O UNA CROCE RICAMATA SUL CAPPELLO. DIPINTO DI KARL GUN.
JOSSE / SCALA, FIRENZE
un’aggressione intollerabile contro l’autorità e la dignità reale, e la notte seguente, nel corso di una riunione con il re, riuscirono a convincerlo che era necessario prendere misure drastiche: eliminare tutti gli esponenti del movimento protestante riuniti a Parigi prima che questi organizzassero un attacco alla corte. L’operazione – che la storica Arlette Jouanna ha definito un’ablazione chirurgica preventiva – fu condotta quella stessa notte. Dopo aver fatto chiudere le porte della città e convocato la milizia municipale, alle tre del mattino i rintocchi delle campane della chiesa di Saint-Germain-l’Auxerrois diedero il segnale di inizio della strage. Il giovane duca Enrico di Guisa si incaricò di recarsi nella casa in cui giaceva Coligny, che accusava di aver messo a morte suo padre nel 1563, per ucciderlo assieme al suo seguito. Gli assassini entrarono nel cortile e l’ammiraglio, dal letto, incitò i suoi a fuggire da una finestra. Il ferito si rivolse a un ufficiale tedesco del duca di Guisa: «Giovanotto, abbiate rispetto per i miei capelli grigi e la mia età», ma il soldato non ebbe esitazioni e affondò la lama nel petto dell’ammiraglio protestante, che venne poi finito da altri soldati. Il suo cadavere fu lanciato dalla finestra, decapitato, e trascinato per la strada.
LA CACCIA ALL’UGONOTTO NELLA NOTTE di San Bartolomeo, Margherita di Valois era chiusa nella sua camera da letto quando qualcuno bussò disperatamente alla porta. Pensando che fosse il marito, Enrico di Navarra, Margherita ordinò di aprire, ma a entrare nella stanza fu un cavaliere ugonotto, con ferite da spada e alabarda, che si aggrappò a lei in cerca di protezione dalle guardie reali che lo inseguivano, come raffigurato nel dipinto di Fragonard.
Voglia il Signore ispirare i loro cuori affinché continuino come hanno cominciato!». Nel palazzo del Louvre, le guardie reali tiraroIl pomeriggio del 24 agosto, Carlo IX, inorno fuori dai letti gli ugonotti per ucciderli sen- ridito, tentò di fermare un’azione che gli era za che potessero difendersi. Molti, cercando di chiaramente sfuggita di mano, ma invano. Non scappare, furono catturati nel grande cortile, soltanto gli omicidi si protrassero a Parigi, ma dove furono uccisi dagli alabardieri svizzeri. si diffusero in altre città della Francia. In tutto il In tutta Parigi, i cittadini armati si lanciarono regno, furono assassinate in totale circa alla caccia dei protestanti, facilmente iden- diecimila persone, duemila delle quali tificabili per gli abiti neri che indossavano. solo nella capitale, anche se le cifre non Convinti di obbedire a un mandato divino, sono facilmente verificabili. assassinarono uomini, donne e bambini con Quando passò la tormenta, ogni una brutalità estrema. schieramento diede la propria lettura L’ambasciatore spagnolo, Diego de Zúñiga, dei fatti. Per i protestanti, la strage era si espresse così in una lettera a Filippo II: il risultato di una cospirazione ordita da «Mentre scrivo, li stanno uccidendo tutti, li lungo tempo dalla sinistra regina“italiana” spogliano delle vesti, li trascinano per le vie, e dal non meno oscuro re di Spagna, Filipsaccheggiano le abitazioni e non perdonano po II; fu per questo che molti ruppero con neppure i bambini. Sia benedetto Dio, che ha la monarchia dei Valois e difesero il convertito i principi francesi alla Sua causa! diritto del popolo a resistere con-
Notte di terrore
VENDETTA PER LE OFFESE A DIO
Calice in oro di SaintQuiriace, Provins. La distruzione di immagini e oggetti sacri da parte dei calvinisti contribuì a scatenare la violenza nelle guerre di religione. BRIDGEMAN / ACI
CAPPELLA DEL PALAZZO D’ANET
Lo splendido palazzo nella Valle della Loira fu progettato per l’amante di Enrico II, Diana di Poitiers, da Philibert Delorme, l’architetto preferito di Caterina de’ Medici. ARNAUD CHICUREL / GTRES
tro un re tiranno. Per il papato, invece, l’evento fu un trionfo spettacolare, una nuova prova del favore di Dio nei confronti della Chiesa cattolica, un anno dopo la grande vittoria riportata dalla Cristianità sull’Impero ottomano nella battaglia di Lepanto. Per il re di Spagna e il suo governatore nelle Fiandre, il duca d’Alba, era semplicemente un alleggerimento che permetteva loro di concentrare gli sforzi nella repressione dei ribelli nei Paesi Bassi.
La grande popolarità della strage di Parigi non può essere messa in dubbio. Naturalmente, quello di San Bartolomeo non fu il primo né sarebbe stato l’ultimo dei massacri compiuti in nome della religione da cattolici e protestanti. Prima e dopo il 1572 ebbero luogo episodi simili non soltanto in Francia, ma anche in altre parti d’Europa come Fiandre, Irlanda, Scozia, Inghilterra o Germania. In tutti questi casi, la violenza venne intesa come un modo per purgare il corpo sociale dagli elementi che erano visti come una minaccia, come una pestilenza. L’eccidio acquistava dunque, nell’immaginario di coloro che lo perpetravano, una funzione urgente, preventiva e terapeutica. In questo modo si spiega l’accanimento feroce dei cattolici parigini contro i cadaveri degli ugonotti, sventrati per poi mostrarne le viscere, appese a lunghe aste, come simbolo del loro peccato. Questo tipo di disumanizzazione delle vittime da parte dei carnefici fu una costante delle guerre di religione. Dall’altro lato, la mobilitazione del popolo cattolico di Parigi fu anche espressione della sua cultura urbana, una risposta a quella che considerava una minaccia alle sue tradizioni, incarnata dai nobili protestanti che in quei giorni si aggiravano armati. L’inizio della strage al Louvre fu interpretato come un’autorizzazione regia affinché la comunità locale si attivasse, prendesse il mano il proprio destino ed eliminasse ciò che vedeva come un’aggressione. Sterminare i capi del protestantesimo militare non fece scomparire gli ugonotti, che seguitarono a combattere ostinatamente e valorosamente per difendere il loro diritto a esistere. Infatti, fu proprio un sopravvissuto della Notte di San Bar-
SCALA, FIRENZE
Violenza purificatrice
UCCIDERE NEL NOME DI DIO NEL 1569, PAPA PIO V scrisse a Caterina de’ Medici: «In nessun caso si debbono
perdonare i nemici di Dio. Soltanto con l’annientamento degli eretici il sovrano potrà restituire a questo nobile regno il rispetto che si deve alla religione cattolica». Non sorprende, dunque, che nel 1572 il massacro della Notte di San Bartolomeo fosse celebrato a Roma con messe solenni, salve di cannone e opere d’arte come il dipinto di Vasari dell’immagine sopra queste righe.
tolomeo, Enrico di Navarra, che alla fine di una guerra che sembrava interminabile fece il suo ingresso trionfale a Parigi, nel 1594, come Enrico IV di Francia, non senza essersi prima convertito al cattolicesimo. Quattro anni dopo, il monarca promulgò l’Editto di Nantes, la legge sulla tolleranza religiosa che, mediante la riaffermazione del potere assoluto della monarchia, aveva come obiettivo impedire che in futuro si verificasse nuovamente un’esplosione di violenza come quella che insanguinò Parigi nel 1572. Per saperne di più
SAGGI
La strage della notte di San Bartolomeo A. Gollino. De Vecchi, Milano, 1973. Caterina de’ Medici. Un’italiana sul trono di Francia Jean Orieux. Mondadori, Milano, 1988. ROMANZI
La regina Margot Alexandre Dumas. Rizzoli, Milano, 2006.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IL MASSACRO VISTO DA UNA VITTIMA Il pittore François Dubois, protestante, scampò all’eccidio di San Bartolomeo ed esiliatosi in Svizzera dipinse la più nota raffigurazione degli eventi del 24 agosto 1572. Il quadro insiste sui particolari più macabri del massacro e raffigura, tra l’altro, tre volte la regina Caterina de’ Medici, che in realtà non era presente in quei luoghi: un chiaro riferimento alle responsabilità della sovrana nell’uccisione degli ugonotti.
Cattolici in armi fuoriescono dal Louvre
La regina contempla le pile di cadaveri
La regina è nuovamente ritratta qui Ragazzi trascinano un neonato
Ugonotti gettati nella Senna
Un ugonotto sta per essere pugnalato
Anche qui si vede la regina
Cadaveri abbandonati Cadavere trascinato al fiume
Patibolo di Montfaucon
Un ugonotto fugge sui tetti
Coligny defenestrato
Il giovane duca di Guisa con la testa di Coligny
Cadavere di Coligny portato a Montfaucon
Saccheggiatori
Un anziano chiede pietĂ
Cadavere di Coligny decapitato
Saccheggiatore Infante ucciso
Pattuglia della Guardia Reale
Capitani cattolici ORONOZ / ALBUM
BATTAGLIA DI BUSHY RUN
Combattuta il 5 e 6 agosto del 1763, vide una coalizione di tribù locali scontrarsi con le forze britanniche in seno alla ribellione di Pontiac. COLLEZIONE PRIVATA / BRIDGEMAN / ACI
LA CULTURA NATIVA
In legno, la maschera proviene dai territori della costa nord occidentale dell’America. È conservata nel Museum of the North American Indian di New York. BRIDGEMAN / ACI
PROTAGONISTI DELLE GUERRE ANGLO-FRANCESI
INDIANI D’AMERICA
Nel Settecento, la disputa tra britannici e francesi dei territori nordamericani vide come protagoniste le tribù dei nativi, che sfruttarono tali rivalità con abili alleanze, rappresentando anche uno dei fattori che spinsero i coloni inglesi all’indipendenza VITTORIO H. BEONIO BROCCHIERI PROFESSORE DI STORIA MODERNA - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA CALABRIA
C R O N O LO G I A
Il duello per la conquista dell’America Metà XVII secolo In Nord America scoppiano le “guerre dei castori” per il controllo del commercio delle pelli: gli irochesi sconfiggono gli algonchini alleati ai francesi.
1701 Con la Pace di Montréal, che segna la fine dei conflitti tra nativi e francesi, gli irochesi si ritagliano un nuovo ruolo negli scontri tra Francia e Inghilterra.
1755 I francesi battono gli inglesi nella battaglia di Monongahela: nella prima fase di scontri la strategia francese di alleanze con i nativi sembra prevalere.
1756
Nella battaglia della piana di Abraham, nei pressi di Québec, i francesi soccombono agli inglesi: è l’inizio della fine della Nuova Francia.
1763 Con i trattati di Parigi e di Hubertusburg le potenze europee firmano la pace che decreta la fine della guerra dei Sette Anni.
1763-1766 Con la guerra di Pontiac le tribù native tentano di cacciare gli inglesi. Ottengono solo una modifica delle politiche coloniali.
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Jackson Square, nello storico quartiere francese di New Orleans (all’epoca Nouvelle Orléans). Dalla valle del San Lorenzo, i francesi ampliarono il loro controllo al golfo del Messico fino a fondare questa città.
AN / ACI
1759
L’AMERICA DEI FRANCESI
BRIDGEM
Inizia la guerra franco-indiana. Inglesi e francesi si battono per il controllo territoriale in uno scontro che coinvolge anche le tribù native alleate.
MOCASSINI IROCHESI. 1830 CA. DETROIT INSTITUTE OF ARTS, USA.
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er giustificare il suo nome, la cosiddetta Guerra dei Sette Anni dovrebbe essere cominciata nel 1756, poiché i trattati di Parigi e di Hubertsburg, che vi hanno posto fine, sono stati siglati nel febbraio del 1763. E apparentemente è così, dato che la dichiarazione di guerra della Francia alla Gran Bretagna fu presentata il 17 maggio di quell’anno. Una formalità che invece il re di Prussia, Federico II, considerò, come suo solito, superflua, attaccando senza preavviso l’Austria in agosto. Ma al di fuori dell’Europa, nelle Americhe e in Asia, le ostilità erano ufficiosamente in corso da tempo. Anzi, si può dire che non fossero mai cessate dalla Guerra di Successione austriaca (17401748) se non da quella di Successione spagnola (1701-1714). La Guerra dei Sette Anni non è stata infatti che un episodio nel lungo duello fra Francia e Gran Bretagna nel quale la posta in palio era l’egemonia politica ed economica in un mondo che nei due secoli precedenti era diventato sempre più integrato e interdipendente. Per
RUSSELLKORD.COM / AGE FOTOSTOCK
questo alcuni storici hanno proposto di considerarla la vera prima guerra mondiale del mondo moderno. Questo processo di “mondializzazione”può sembrare una storia a senso unico: che la si interpreti come una marcia trionfale della civiltà verso i popoli selvaggi o civiltà arretrate o che si condanni l’aggressione e lo sfruttamento di questi popoli, i protagonisti indiscussi sono gli europei. Tutti gli altri, i nativi americani, gli africani, gli indiani, i cinesi, sembrano comprimari, oggetti passivi – se non vittime – della storia scritta dagli europei. Questa prospettiva globale, osservata dallo storico dall’alto con il vantaggio di sapere già come è poi andata a finire, ovvero con il “trionfo dell’Occidente”, è però ingannevole. Vista dal basso, la storia è stata più complicata.
Imperi e indiani
BRIDGEMAN / ACI
Guardiamo quanto accadde nelle immense foreste e lungo i fiumi dell’America del Nord, terreno di scontro fra i due colonialismi rivali. Stando agli atlanti storici, a metà Settecento, la parte settentrionale del
CACCIA E CERIMONIE Copricapo cerimoniale di castoro. Cacciato e usato come merce di scambio con gli europei, il castoro permeava la vita dei nativi.
Nuovo Mondo era divisa fra una sfera d’influenza inglese, una francese e una spagnola, anche se si tende a dimenticare la presenza russa in Alaska. Quella inglese era la presenza territorialmente più ridotta: si trattava delle tredici colonie disposte lungo la costa atlantica, dalla Georgia al Massachusetts, oltre che la zona della baia di Hudson e la Nuova Scozia in Canada. L’America francese si estendeva invece dalla valle del San Lorenzo, in Canada, scendendo lungo la valle del Mississippi, fino al golfo del Messico, dove i francesi avevano fondato Nouvelle Orléans, futura New Orleans. La Spagna da parte sua avanzava pretese sulla parte meridionale degli attuali Stati Uniti, dalla Florida alla California. Questo è il quadro complessivo, visto dall’alto e in una prospettiva “eurocentrica”. È l’America del tempo come la pensavano gli europei. Dal basso, sul terreno, le cose stavano diversamente. Perché l’America era ancora innanzitutto dei nativi americani, quelli che siamo soliti chiamare“indiani”, divisi in una moltitudine di tribù ed etnie con culture e STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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UN ESORDIO SFORTUNATO
WASHINGTON
I
l giovane maggiore George Washington, futuro comandante dell’esercito rivoluzionario e primo presidente degli Stati Uniti, ebbe una parte importante, anche se poco gloriosa, negli eventi a preludio della Guerra dei Sette Anni. A lui infatti, nel dicembre del 1753, Robert Dinwiddie, governatore della Virginia, aveva dato l’incarico di riaffermare i diritti della Corona inglese nella valle dell’Ohio. In questa occasione, un gruppo di ufficiali e soldati francesi, guidato da uno dei più esperti ufficiali nel Nuovo Mondo, Joseph de Jumonville, inviato a parlamentare, venne trucidato in un’imboscata. La reazione francese fu immediata e venne inviata una colonna di qualche centinaio di uomini, in parte regolari in parte alleati indiani. Trovandosi in condizioni di inferiorità nu-
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merica, il giovane George Washington si rinchiuse con duecento fra volontari della Virginia e regolari e circa cento guerrieri seneca, irochesi tradizionali alleati degli inglesi, a Forte Necessity. Il forte, poco più di una palizzata, non resse all’attacco dei francesi e Washington fu presto costretto ad arrendersi. Era il 4 luglio del 1754. In Europa nessuno forse se ne rese immediatamente conto, ma la Guerra dei Sette Anni era iniziata.
organizzazione sociale molto diverse fra loro. E con gli indiani gli europei dovevano fare i conti, da tutti i punti di vista. Da quello economico, perché gli indiani erano partner essenziali per uno dei“settori trainanti”dell’economia coloniale del Nord America e della Nouvelle France in particolare, vale a dire il commercio di pellicce, soprattutto di castoro. Erano i cacciatori indiani a procurarle agli europei, in cambio di attrezzi di ferro, armi da fuoco, capi di abbigliamento e alcolici. I rapporti sempre più intensi fra indiani ed europei trasformarono le parti ed ebbero ripercussioni profonde. Gli indiani si impadronirono, adattandole alle proprie necessità, di tecniche e strumenti europei e gli europei a loro volta appresero le conoscenze che gli indiani avevano dell’ambiente nel quale vivevano da millenni.
Le “guerre dei castori” e gli irochesi Alcune delle conseguenze di questi contatti furono senz’altro negative. Per esempio la diffusione fra i nativi di malattie contagiose di origine europea, prima sconosciute, come il
TERRANCE KLASSEN / AGE FOTOSTOCK COLLEZIONE PRIVATA / BRIDGEMAN / ACI
IL PASSATO DELL’EROE Il giovane George Washington con l’uniforme di colonnello della milizia della Virginia, parte del sistema militare inglese, durante la guerra francoindiana.
poggio degli olandesi, e poi degli inglesi, gli irochesi sconfissero i loro vicini uroni – appoggiati dai francesi – e le tribù degli algonchini, creando un vasto dominio nella regione dei Grandi Laghi e minacciando la colonia francese che si stava sviluppando intorno a Montréal e Quebéc. I conflitti fra le popolazioni indiane si sovrapposero a quelle delle potenze europee, e le alleanze mutarono a seconda delle opportunità. Dopo decenni di guerra, i francesi si resero conto di non essere in grado di annientare la Confederazione degli irochesi i quali, a loro volta, cominciarono a sentirsi minacciati dall’espansione delle colonie inglesi di New York e della Pennsylvania. Il risultato fu che nel 1701 francesi e irochesi stipularono la Grande Pace di Montréal, che da una parte garantì la sicurezza dei francesi e dei loro alleati tradizionali, uroni e algonchini, dall’altro conferì agli irochesi il ruolo di ago della bilancia nella sempre più accanita competizione fra francesi e inglesi per il predominio.
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vaiolo. Inoltre la domanda europea di pellicce inasprì i rapporti fra le varie tribù indiane delle foreste, aggiungendo la competizione per i territori di caccia agli altri motivi di conflitto. All’inizio del Seicento infatti la regione dei Grandi Laghi fu funestata da una serie di scontri sanguinosi fra tribù indiane, le“guerre dei castori”, per assicurarsi il monopolio degli scambi con gli europei, che avrebbero procurato più armi, e quindi maggior prestigio e potere, ai capi. A uscire vincitrice da questi conflitti fu la cosiddetta Lega delle Cinque Nazioni Irochesi, formata da seneca, cayuga, onondaga, oneida e mohawk (mohicani) alla quale si aggiunsero in seguito i tuscarora. Per lo più si pensa agli indiani d’America come a popoli divisi in piccoli villaggi autonomi di poche centinaia di abitanti. Talvolta però queste popolazioni potevano dar vita a strutture politiche ampie e complesse, in grado di opporsi efficacemente agli europei e di intraprendere in proprio una vera politica “imperialistica”. Grazie anche all’ap-
IL GRANDE NORD UNO DEGLI SPETTACOLARI SCENARI NATURALI CHE IL NUOVO MONDO OFFRÌ AGLI EUROPEI IN QUÉBEC.
BRIDGEMAN
CACCIA E COMMERCIO ERANO I CACCIATORI INDIANI A PROCURARE AI COMMERCIANTI EUROPEI LE PELLI DI CASTORO.
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LA CITTÀ SUL SAN LORENZO
Cuore un tempo della Nouvelle France, come nel XVII secolo, Montréal rappresenta ancora oggi uno dei maggiori centri francofoni del Nord America.
LA LETTERATURA DI FRONTIERA
L’ULTIMO DEI MOHICANI
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er il grande pubblico, l’immagine delle guerre fra francesi, indiani e inglesi nelle foreste americane è indissolubilmente legata a uno dei romanzi di maggior successo della letteratura moderna: L’Ultimo dei Mohicani, pubblicato nel 1826 dallo scrittore americano James Fenimore Cooper. Quest’opera può essere
considerata l’iniziatrice del mito della frontiera e della letteratura western. Il libro ha anche avuto numerose riduzioni cinematografiche, dal 1911 all’ultima versione girata nel 1992 da Michael Mann. Il libro racconta le vicende del cacciatore bianco Natty Bumpoo, detto Occhio di Falco o Lunga Carabina, e di due guerrieri mohicani, Chingachgook e il figlio Uncas, appunto l’ultimo dei mohicani puri, sullo sfondo dell’assedio di
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Fort William Henry da parte del marchese di Montcalm, svoltosi nel 1757 e terminato con la caduta del forte e il massacro di molti inglesi da parte degli indiani alleati dei francesi. La figura del comandante inglese George Munro è ripresa nel romanzo come padre delle due eroine, Cora e Alice, che sono frutto della fantasia dell’autore, come pure quella del guerriero urone Magua, il malvagio della storia.
Come si vede, lungi dall’essere pedine o vittime degli europei, gli indiani si dimostrarono in grado di sfruttare sul piano politico e diplomatico le rivalità delle potenze coloniali.
Padri e figli Durante il Settecento il ruolo dei francesi fu fondamentale nel riorganizzare i resti delle varie tribù ricacciate dagli irochesi nella valle dell’Ohio, oltre i monti Appalachi. Gli indiani riconoscevano l’autorità di colui che chiamavano Onontio, la“Grande Montagna”, ovvero il governatore francese che risiedeva a Montréal: «Tu sei uno degli spiriti potenti, perché tu usi il ferro. Tu hai l’autorità di governare e di proteggere tutti gli uomini. Sia benedetto il Sole, che ti ha dato il sapere e ti ha inviato nel nostro paese». Ma questa autorità veniva descritta come quella che un buon padre esercita verso i figli, non come quella di un padrone verso dei servi. Più che di potere, quindi, si trattava di responsabilità: quella di nutrire e proteggere. Una relazione complessa, quindi, che doveva essere continuamente confermata. Lo scam-
CHICAGO HISTORY MUSEUM, USA / BRIDGEMAN / ACI
CHRIS CHEADLE / AGE FOTOSTOCK
FALCO NERO, CAPO DELLA TRIBÙ SAUK, NEL 1832 SFIDÒ GLI STATI UNITI IN UNA LOTTA PER IL CONTROLLO TERRITORIALE.
CULTURE A CONFRONTO
BRIDGEMAN IMAGES
bio di pellicce, che gli europei consideravano sotto l’aspetto economico e commerciale, per gli indiani era invece innanzitutto uno scambio di doni, con lo scopo di rinnovare e rinsaldare questo rapporto tra “padre” e “figli”. Gli indiani dovevano quindi essere conquistati con la generosità, perché né i francesi né gli inglesi disponevano di un vero potere coercitivo nei loro confronti. In questo complesso gioco, i francesi si dimostrarono più abili degli inglesi, anche perché la caccia e il commercio portavano i coureurs des bois francesi a vivere fianco a fianco con gli indiani, e spesso a inserirsi, per mezzo di matrimoni, nelle loro comunità. Le autorità francesi favorivano del resto i matrimoni misti proprio per consolidare la loro influenza tra gli indiani e anche perché, fino a inizio Settecento, nella Nouvelle France di donne europee quasi non ce n’erano. Il fatto che la società indiana fosse meno gerarchica di quella francese aveva una forte attrattiva, nonostante i rischi e la durezza della vita nella foresta. «Qui siamo tutti selvaggi», affermava con un certo compiacimento
Sonaglio rituale in legno di uno sciamano del Nord America. L’incontro con la cultura dei nativi americani suscitò negli europei talvolta fascino e attrazione, altre volte repulsione.
uno dei francesi conquistati dal modo di vivere indiano. Un’altra carta importante per i francesi era costituita dalle missioni dei gesuiti, la cui strategia di evangelizzazione, in America come in Asia, si fondava sulla conoscenza della lingua e delle culture indigene. «Uomini di spirito, di grandi capacità e conoscitori del mondo», li definì un osservatore inglese, consapevole che i britannici non potevano competere su questo terreno.
La Guerra dei Sette Anni I francesi avevano d’altra parte più bisogno della collaborazione degli indiani di quanto non ne avessero gli inglesi per compensare la loro inferiorità numerica. A metà Settecento la popolazione di origine europea delle colonie francesi non arrivava alle centomila persone. In quelle inglesi vivevano per contro oltre un milione di uomini e donne di origine europea. Tuttavia nei primi anni del conflitto, grazie appunto all’appoggio di molte tribù indiane e a una maggiore conoscenza delle tattiche della guerra non convenzionale che si STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’ATTACCO A FORT DUQUESNE
Guidato dal generale britannico Braddock si tradusse in una battaglia che vide i francesi e gli alleati indiani sbaragliare le truppe inglesi.
GLI ALBORI DEI CORPI SPECIALI
I RANGER DI ROGERS
A
ll’inizio delle ostilità in America gli inglesi, che impiegavano le tattiche in uso nelle guerre europee, si trovarono in difficoltà di fronte ai francesi e ai loro alleati indiani, abilissimi nella guerriglia e perfetti conoscitori del territorio. Il maggiore Robert Rogers pensò allora di dar vita a un’unità speciale, formata da volontari nati in America ed esperti della vita della frontiera e della foresta, per effettuare ricognizioni e incursioni a lungo raggio. I Ranger di Rogers divennero una delle unità più famose e temute e sono all’origine delle attuali unità speciali dell’esercito americano, come i Berretti Verdi. Le loro imprese hanno ispirato, tra l’altro, il film Passaggio a Nord-ovest (1940). Dopo la fine delle ostilità contro i francesi, la parabola personale e professionale
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di Rogers fu tuttavia molto travagliata. Ebbe problemi economici, giudiziari e di alcolismo ed entrò in conflitto con le autorità coloniali. Durante la rivoluzione americana fu arrestato dalle autorità rivoluzionarie come possibile spia inglese e, dopo essere stato rilasciato, si unì effettivamente alle forze britanniche formando unità di ranger lealisti, i Queens’ Rangers e i Kings Rangers. Morì nel 1795 a Londra, povero e completamente screditato.
combatteva nelle foreste, i francesi ottennero dei successi importanti. Il 9 luglio 1755, per esempio, a Monongahela, nella valle dell’Ohio, la colonna di regolari inglesi comandata dal generale Edward Braddock e forte di circa mille e cinquecento uomini venne circondata e annientata da una forza di duecentocinquanta francesi e circa ottocento alleati indiani. Il destino dell’America francese era comunque segnato, soprattutto a causa delle scelte strategiche del governo, che considerò sempre secondario il teatro delle operazioni americano rispetto a quello europeo. Gli inglesi, invece, e in particolare il ministro della guerra e in seguito primo ministro William Pitt, avevano decisamente privilegiato gli interessi coloniali e navali, e la loro superiorità marittima impedì ai francesi di inviare rifornimenti e rinforzi in Canada e in Louisiana. Nel settembre 1759 gli inglesi conquistarono quindi Québec, dopo che nella battaglia dei Piani di Abraham erano rimasti uccisi sia il comandante francese, marchese di Montclam, sia quello inglese, James Wolfe. Un anno più
JOSE FUSTE RAGA / AGE FOTOSTOCK
STATE HISTORICAL SOCIETY OF WISCONSIN / BRIDGEMAN / ACI
IL CASTELLO FRONTENAC A QUÉBEC È DEDICATO AL GOVERNATORE DELLA NUOVA FRANCIA, CONTE DI FRONTENAC (1662-1698).
tardi l’ultimo governatore francese, il marchese di Vaudreuil, si arrese, e il trattato di Parigi riconobbe il passaggio del Canada agli inglesi, ormai padroni incontrastati del nord America.
Verso la rivoluzione americana Questa nuova situazione ridusse tuttavia il potere di contrattazione degli indiani, che ora non potevano più trarre profitto dalla rivalità fra gli imperi europei. Gli inglesi non avevano più bisogno – o almeno credevano di non aver più bisogno – degli indiani. Come disse sprezzantemente Jeffrey Amherst, comandante delle forze inglesi e poi governatore della Virginia, alle prime notizie di resistenza da parte degli indigeni, «la cosa non mi preoccupa per niente, perché so che sono del tutto incapaci di intraprendere alcunché di serio». Si sbagliava. La cosiddetta guerra di Pontiac, dal nome del più prestigioso capo indiano che la guidava, fu una faccenda molto seria. La rivolta di gran parte delle tribù della regione dei Grandi Laghi non riuscì a scacciare gli inglesi, ma indusse il governo di Londra a un cambiamento di politica
verso gli indiani. Amherst venne sostituito da Thomas Gage, fautore di un approccio diplomatico verso gli indiani, per trattare con i quali «era necessaria una lunga dimestichezza, uno studio attento delle loro disposizioni, la capacità di lusingarne la vanità». Una visione indubbiamente paternalistica, ma comunque più dialogante di quella di Amherst. Per il governo di Londra non era tuttavia facile conciliare gli interessi e le aspettative degli indiani con quelle dei coloni che sempre più numerosi attraversavano i monti Appalachi alla ricerca di terre da coltivare. La proibizione da parte del governo di Londra ai coloni di stabilirsi a ovest, oltre le montagne, per non compromettere i rapporti con gli indiani, fu una delle cause che portarono alla dichiarazione d’indipendenza delle tredici colonie.
Per saperne di più
SAGGI
La guerra dei sette anni Marian Füssel. Il Mulino, 2013. I grandi capi indiani Piero Pieroni. Mursia, Milano, 1989.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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I RAPPORTI TRA INDIANI ED EUROPEI Il dipinto raffigura la prima celebrazione in Nordamerica del Giorno del Ringraziamento, il Thanksgiving Day, avvenuto nel 1621. Si tratta di una delle prime testimonianze dei contatti tra popolazioni locali del Nord America e coloni europei che, in quel giorno, resero grazie al Signore per l’abbondante raccolto, frutto in realtà dei saggi consigli delle tribù locali che insegnarono ai nuovi arrivati quali prodotti coltivare e quali animali allevare nel Nuovo Mondo. L’idillica scena dipinta, tuttavia, non è certo esemplificativa dei tanti risvolti, anche non pacifici, che caratterizzarono i rapporti tra europei e nativi americani.
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CSP_JJVALLEE / AGE FOTOSTOCK
Il caso Mary Jemison L’irlandese Mary Jemison venne catturata insieme a gran parte della sua famiglia durante un attacco di francesi e indiani alla sua fattoria. Mary imparò rapidamente la lingua e le usanze degli indiani e sposò un guerriero seneca. Quando, anni dopo, gli inglesi offrirono del denaro per riscattare i prigionieri, Mary si rifiutò di tornare fra i bianchi e, per evitare di essere riconsegnata dai francesi, interessati al riscatto, si nascose nei boschi e in seguito trascorse tutto il resto della sua vita presso i seneca. STATUA DEDICATA A MARY JEMISON LA DONNA DI FRONTIERA ADOTTATA DALLA TRIBÙ SENECA. UPSTATE NEW YORK.
IL PRIMO THANKSGIVING DAY
Il primo giorno del Ringraziamento celebrato nel 1621. Olio su tela di Jean Leon Gerome Ferris, autore della serie The Pageant of a Nation, ciclo sulla storia americana. COLLEZIONE PRIVATA / BRIDGEMAN / ACI
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Vivere tra gli indiani
Tra gli aspetti piÚ interessanti della complessità delle relazioni fra indiani ed europei in America settentrionale è il destino dei numerosi europei catturati dagli indiani nel corso di combattimenti.
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Tempi di guerra
La sorte peggiore fu certamente quella riservata agli europei che, catturati durante una scorreria, vennero successivamente uccisi, spesso dopo aver subito torture atroci.
Scambi e adozioni
Molti europei, tuttavia, vennero liberati in seguito a scambi di prigionieri oppure inseriti nella tribĂš con una cerimonia di adozione per sostituire i guerrieri caduti.
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GRANDI SCOPERTE
Begram, un tesoro nel cuore dellaVia della Seta Nel 1937, un archeologo francese scoprì in Afghanistan una splendida collezione di avori, vasi e statue giunti da Roma, Egitto e Cina
1830
AFGHANISTAN
Begram
K A BU L
PAKISTAN
MAR ARABICO
INDIA
della gente del luogo, che a causa dell’interesse dello straniero per le monete gli vendevano tutte quelle che riuscivano a trovare. «Raccolsi 60.000 monete di rame – scrisse nel 1837 –, un risultato che mi compiacque molto». Attraverso questi pezzi poteva seguire il declino dell’influenza greca nella regione e il parallelo incremento della presenza della cultura indiana. Di certo, non fu che nel decennio del 1920 che cominciarono gli scavi archeologici nel sito, sotto
Charles Masson giunge nella pianura di Begram, dove raccoglie un cospicuo numero di monete antiche.
1922
la direzione del francese Alfred Foucher. Questi era sicuro che non si trattasse di Alessandria del Caucaso, ma dell’antica Kapisa, la capitale estiva dell’Impero kushana, uno Stato sorto in quella che era un’area di confluenza delle rotte commerciali della Via della Seta e che dominò il nord di India e Afghanistan fra gli anni 30 e 370 d.C. Per la sua identificazione, Foucher si basò sui testi del monaco buddhista ed esploratore Xuanzang, che aveva visitato la zona nel VII secolo d.C.
Tesoro o magazzino? Fra il 1937 e il 1939, l’archeologo francese Joseph Hackin e sua moglie Ria effettuarono scavi in una zona di Begram che chiamarono Nuova Città Reale, e vi realizzarono una scoperta che avrebbe portato all’inclu-
Alfred Foucher dà il via agli scavi e riconosce in Begram la città di Kapisa, capitale dell’Impero kushana.
1937-1939
Joseph Hackin scopre a Begram un tesoro all’interno di due stanze sigillate da un muro in laterizio.
CIOTOLA IN VETRO COLORATO, TESORO DI BEGRAM. I SECOLO D.C. MUSEO GUIMET, PARIGI. E . L E S S I N G / A L B UM
GLI SPLENDIDI AVORI
KENNETH GARRETT / NGS
N
el 1830, Charles Masson, un esploratore inglese che percorreva l’Asia Centrale seguendo le tracce della rotta compiuta da Alessandro Magno, si addentrò nell’Afghanistan fino ad arrivare a una fertile valle situata a sud della cordigliera dell’Hindu Kush, circa 80 chilometri a nord di Kabul, dove si trovava la città di Begram. Intento alla ricerca di monete di epoca ellenistica, Masson individuò le vestigia di un’antica città protetta da un complesso fortificato risalente al IV secolo a.C. L’esploratore inglese la identificò come Alessandria del Caucaso, che era una delle numerose fondazioni del conquistatore macedone. Masson trascorse diversi anni a guadagnarsi la fiducia
di Begram rappresentano ballerine, creature della mitologia indù, scene di caccia, piante e animali. Museo di Kabul.
sione di Begram nella mappa dell’archeologia mondiale. In due stanze contigue – da loro numerate come 10 e 13 – che erano state sigillate nell’antichità con pareti di laterizio, comparvero cen-
2004
Il Museo di Kabul riapre le sue porte dopo la guerra esponendo le collezioni del sito di Begram.
EROE DELLA GUERRA
za della lavorazione le lastre d’avorio, che dovettero decorare lussuosi banchi, sedie e archi in legno. Alcuni ricercatori hanno avanzato l’ipotesi che questi elementi in avorio fossero prodotti in India, ma le iscrizioni sul retro suggeriscono che potrebbero essere stati realizzati in Afghanistan o in Pakistan, forse da artigiani itineranti che potevano aver fatto parte di una rete di distribuzione di avorio. Così indicano scoperte analoghe
T. OLLIVIER / MUSÉE GUIMET / RMN-GRAND PALAIS
tinaia di lastre intagliate in avorio e osso, vasi di vetro, bronzi, medaglioni di gesso e frammenti di lacca cinese della dinasta Han, del I secolo d.C. In origine si pensò che questi oggetti di origine romana, cinese e indiana facessero parte di un tesoro dei re kushan, ma recenti ricerche suggeriscono che si tratti più probabilmente del magazzino di un commerciante della Via della Seta. Fra le scoperte di Begram si distinguono per la finez-
ACCANTO A SUA MOGLIE RIA, Joseph Hackin (qui in un’immagine del 1937) si dedicò per 16 anni al recupero di siti dell’antichità afghana, fino alla scoperta del tesoro di Begram. Hackin e sua moglie morirono nel 1941, quando i tedeschi affondarono la nave su cui viaggiavano nel corso di una missione per la Resistenza francese.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI SCOPERTE
Il tesoro multiculturale di Begram PER 150 ANNI, A BEGRAM andarono accumulandosi manufatti provenienti dalle regioni più lontane:
Sileno, creatura semiselvaggia della mitologia greca. Scultura grecoromana in bronzo. Museo Archeologico, Torino.
Coppa romana in vetro dipinto. L’analisi del materiale ha rivelato che proviene da Alessandria. Museo di Kabul.
in località lungo la Via della Seta, anche in luoghi molto lontani come Pompei. Sono stati anche scoperti eccezionali recipienti in vetro – probabilmente fabbricati ad Alessandria e in Siria – tra cui varie coppe decorate, che presentano analogie con alcuni vetri provenienti dall’Egitto romano. Diverse statue di bronzo, raffiguranti divinità egizio-ellenistiche come Horus bambino o Serapide, confermano la connessione con l’Egitto. In ultimo, fu rinvenuta una raccolta di medaglioni di gesso con scene in basso e altorilievo raffiguranti episodi ben noti della mitologia gre108 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Tavola in avorio in stile indiano che mostra due apsara o ballerine celesti. Museo di Kabul.
co-romana. Forse servirono come modello per copie in bronzo, poiché presentano imperfezioni come impronte di dita; forse si trattava di riproduzioni di originali in metallo associati ad Alessandria, la capitale dell’Egitto tolemaico.
Guerre e saccheggi Parte di questi tesori fu inviata al Museo Guimet, a Parigi, mentre il resto andò ad aggiungersi alle collezioni del Museo Nazionale di Kabul. Dal 1978, la collezione afghana fu vittima di un drammatico destino: saccheggiata durante l’occupazione sovietica, nel dopo-
guerra soffrì la mancanza di interesse del governo. Alcuni pezzi in avorio, trafugati nel 1992, furono intercettati dal British Museum, conservati e riportati al Museo di Kabul, che dopo essere stato saccheggiato e devastato sotto il regime talebano ha riaperto le sue porte nel 2004 per ospitare questi e molti altri oggetti giunti da tutto l’Afghanistan. La scoperta di Begram, se anche non è stata identificata con sicurezza né come Alessandria del Caucaso né come Kapisa, ha comunque confermato che l’Impero kushana era un eterogeneo insieme multiculturale in cui
confluivano costumi e tradizioni iraniane, indiane, greche e persiane. I governanti di Begram dominarono un vasto spazio territoriale, che occupava gran parte dell’Asia Centrale, e rinsaldarono le relazioni economiche con India e Cina. L’arte divenne il riflesso di questo eclettismo culturale sviluppandosi e raggiungendo il suo apice con quella che viene chiamata arte di Gandhara. ALEJANDRO GALLEGO LÓPEZ UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID
SAGGI Le civiltà dell’Oriente. L’arte del Gandhara Mario Bussagli. Utet, Torino, 1984.
COPPA: GETTY IMAGES. TAVOLA: DEA / GETTY IMAGES. SILENO: RICHARD BARNES / NGS
cristalli importati da Siria ed Egitto, oggetti di bronzo del Mediterraneo, lacche cinesi, vasellame greco-latino e avori di finissima qualità provenienti dall’India.
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L I B R I E A P P U N TA M E N T I
GRANDI CIVILTÀ MEDITERRANEE
Gli antichi greci in venti secoli di storia
A Edith Hall
GLI ANTICHI GRECI Einaudi, 2016, 352 pp., 30 ¤
loro corre la nostra mente quando pensiamo alle origini della democrazia, della filosofia, della letteratura e del teatro, agli antichi greci pensiamo come a coloro che hanno forgiato la nostra cultura, millenni fa e, di nuovo, durante il Rinascimento. Nella loro epocale parabola storica, alcuni studiosi hanno riconosciuto un fenomeno prodigioso e miracoloso, mentre altri vi hanno invece letto il frutto di uno proficuo scambio con altre culture. Se in-
dubbi sono i contatti e i rapporti che essi ebbero con altre grandi civiltà del Mediterraneo, l’autrice – docente di Lettere classiche al King’s College e specialista di cultura dell’antica Grecia – si allontana dall’annosa diatriba tra chi sostiene la loro unicità e chi ne ridimensiona i successi inserendoli in un più ampio e multiculturale Mediterraneo, trovando un interessante punto di vista: quello che vede gli antichi greci sì debitori di altre culture, ma che li vede anche
eccellere nella capacità di assorbire, mediare, sviluppare ed esportare quanto elaborato, nel Mediterraneo e oltre. Sono dieci in particolare le «brillanti qualità» che l’autrice individua negli antichi greci, associando ciascuna ad altrettanti periodi della loro storia e ambientandole in dieci diverse aree geografiche. Vivacità d’intelletto, curiosità e competitività furono tra le peculiarità – «difficili a riscontrarsi nel medesimo amalgama e in tale concentrazione» – di un popolo la cui parabola coprì ben due millenni. Il volume si propone come un viaggio nella storia che diviene un viaggio per mare, in quel Mediterraneo che tanta parte ebbe nella vita quotidiana e culturale dell’antica Grecia. (A.G.)
SAGGI
IL PITTORE E L’IMPERATORE: L’ARTE E LA STORIA LA DISTRUZIONE, avvenuta nel 1943, degli affreschi e
dei Fasti napoleonici che a Milano decoravano Palazzo Reale ha di certo rallentato e reso più difficoltoso il recupero - in seno alla storia dell’arte - della figura di Andrea Appiani, un pittore che, come si legge in apertura del volume, fu «uno dei maggiori artisti europei di età napoleonica». Grazie a un certosino e imponente lavoro di analisi documentale, il volume colma quindi un vuoto e, con l’intento di presentare l’artista, segue la sua vita e le sue opere su base cronologica. Il testo, che comprende oltre cento tra tavole e figure, getta una nuova e doverosa luce su un artista che creò la sua arte nella Milano cisalpina e nelle grazie di Napoleone. Francesco Leone
ANDREA APPIANI PITTORE DI NAPOLEONE
Skira Editore, 2015, 368 pp., 42 ¤
110 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
COSTANTINO IL VINCITORE Alessandro Barbero Salerno Editrice, 2016, 852 pp., 49 ¤
ANDARE PER L’ITALIA ETRUSCA Valerio Massimo Manfredi Il Mulino, 2016, 160 pp., 12 ¤
AUGUSTO dell’impero
SULL’ORIGINE degli etruschi,
romano dal 306, Costantino è passato alla storia come colui che pose fine alle persecuzioni contro i cristiani. A una tradizionale immagine positiva, l’autore ribatte con un volume che vuole invece offrire un nuovo ritratto, storicamente più fedele, di un Costantino meno “grande”.
già Erodoto e Dionigi di Alicarnasso proponevano teorie contrastanti, ma se i misteri non sono ancora del tutto svelati, l’autore ci illustra invece l’eredità di un antico popolo da riscoprire lungo un itinerario che va da Bologna fino a Roma, passando per Volterra, Vulci e Tarquinia.
CIVILTÀ DELL’ASIA
Musicanti e guerrieri dello Stato di Chu MUSEO PROVINCIALE DEL HUBEI IN WUHAN, CINA / STUDIO ESSECI
U
DOU IN LEGNO LACCATO, PERIODO 475-221 A.C., MUSEO PROVINCIALE DEL HUBEI, CINA.
n filo lega le terre venete bagnate dal Po e dall’Adige al lontano Stato di Chu, nell’attuale Cina centro-orientale: una raffinata produzione artistica e manifatturiera di epoca precristiana. Ed è per celebrare un lontano quanto parallelo momento di grande creatività artistica che Italia e Cina hanno stretto un accordo di scambio culturale: è così che nella terra dei veneti – nelle tre sedi museali di Este, Adria e Venezia – si può ammirare l’arte del potente Stato di Chu,
un’arte prodotta nel periodo delle Primavere e degli Autunni (VIII-V secolo a.C.) e che nella provincia cinese di Hubei, si potrà poi ammirare quella prodotta dagli antichi veneti. Per la prima volta in Europa, il Museo Nazionale Atesino di Este e il Museo Archeologico Nazionale di Adria espongono reperti unici, di grande impatto visivo e conservatisi in ottimo stato tra cui oggetti in legno laccato, bronzi rituali ding e dui, preziose giade, corredi funerari e raffinati strumenti mu-
sicali. Ma accanto agli oggetti che testimoniano della vita civile e religiosa, di pari livello artistico risultano anche quegli oggetti legati alla grande tradizione guerriera, tanto importante nella società di allora e per la formazione dello Stato stesso, ammirabile oggi grazie all’esposizione di armi e armature. La terza sede, il museo d’Arte Orientale Ca’ Pesaro di Venezia, ospita infine reperti provenienti dalla medesima regione nonché manufatti cinesi di epoca successiva. (A.G.) Meraviglie dello Stato di Chu LUOGO Museo Nazionale Atesino - Este (PD), Museo Archeologico Nazionale - Adria (RO), Museo d’Arte Orientale - Venezia TELEFONO 392 9048069 WEB http://mostra-chu.it DATE Fino al 25 settembre 2016
SCULTURA DIPINTA DEL QUATTROCENTO
Forma e colore nell’arte fiorentina tutti il Tondo Doni). Nate dalla collaborazione artistica di scultori e pittori, non è certo un caso che tali opere siano nate nella città che oggi le espone, quella stessa Firenze dove le botteghe un tempo si susseguivano le une alle altre e in cui i maestri della forma e del colore, in un fervido scambio, fusero le loro arti per crearne una nuova. (A.G.) “Fece di scoltura di legname e colorì” LUOGO Galleria delle Statue e delle Pitture, Gallerie degli Uffizi, Firenze WEB www.gallerieuffizimostre.it DATE Fino al 28 agosto 2016
GALLERIA DELLE STATUE E DELLE PITTURE, GALLERIE DEGLI UFFIZI, FIRENZE
C
ome riemersa dall’oscurità di antiche cappelle, la scultura in legno dipinto del Quattrocento fiorentino appare in tutto il suo splendore nella Galleria delle Statue e delle Pitture degli Uffizi di Firenze. Un sapiente allestimento ha infatti permesso di esporre un nucleo di circa cinquanta opere che testimoniano della maestria degli artisti del XV secolo fiorentino. Accanto ai crocifissi, statue dedicate alla Madonna e busti destinati all’arredo liturgico che, nelle mani di artisti quali Donatello e Michelangelo, divennero veri capolavori (citiamo su
SACRA FAMIGLIA CON SAN GIOVANNINO (TONDO DONI), MICHELANGELO BUONARROTI E FRANCESCO DEL TASSO, 1507, GALLERIA DELLE STATUE E DELLE PITTURE DEGLI UFFIZI, FIRENZE.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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ITINERARI Parigi
1 MUSEO DI ALTAMIRA Santillana del Mar, Cantabria, Spagna; www.museodealtamira. mcu.es
I percorsi di Storica
Cerveteri
4 CHIESA DI SAINTGERMAIN-L’AUXERROIS
Place du Louvre, Parigi, Francia; www.saintgermainauxerrois.fr
Nel cuore di Parigi, le campane della chiesa che, suonate a martello e forse per errore, scatenarono il massacro degli ugonotti.
degli studi che l’hanno seguita. Un’altra sezione della struttura è poi dedicata alla vita e alla cultura dei cacciatoriraccoglitori che qui vissero 15.000 anni fa attraverso l’esposizione di 400 reperti – la più grande collezione archeologica del periodo – provenienti anche da altre istituzioni. pagina 22
altamira
112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Firenze
Si narra che, dopo aver visitato le grotte, Picasso abbia commentato: «Dopo Altamira, tutto è decadenza».
Dove e come visitare i luoghi storici e i musei legati ai servizi e ai personaggi di questo numero di Storica
Un remoto comune della Cantabria, nel nord della Spagna, conserva una delle opere d’arte più importanti della preistoria, le pitture rupestri di Altamira 1 . Solo pochi fortunati hanno ancora la possibilità di ammirare una delle più antiche espressioni artistiche della storia dell’umanità. Come è già avvenuto per le grotte di Lascaux in Francia, anche qui il sito originario è sostanzialmente chiuso al pubblico per evitare il deterioramento delle pitture, già messe a rischio; i visitatori possono però ammirare una fedele ricostruzione delle grotte e dei loro dipinti, realizzati con le stesse tecniche degli uomini di 20.000 anni fa. Ci si può addentrare nei cunicoli della Neogrotta, realizzata in tre dimensioni su modello esatto dell’originaria, con le splendide forme e i vivaci colori dei bisonti, dei cervi e dei cavalli dipinti, mentre nelle sale adiacenti, il museo consente di scoprire le tappe della scoperta della grotta e
Altamira
etrusca di Cerveteri. Tra essi, ve ne è uno in particolare di grande pregio, il cratere di Eufronio 2 o di Sarpedonte, realizzato dal ceramista Euxitheos e dipinto da Eufronio risalente al VI secolo a.C. Alto 45 cm e dal diametro di 55, il cratere a calice è stato realizzato secondo la classica tecnica a figure rosse. Non solo vi si ammirano scene tratte dall’Iliade, ma riporta anche un’iscrizione che ne attesta la paternità. Dopo un lungo peregrinare, compreso l’annoso problema del trafugamento, il cratere ha finalmente trovato la sua giusta sede ed è oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale di Cerveteri.
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i banchetti dei greci Non c’era banchetto e soprattutto non c’era simposio senza cratere, il grande vaso nel quale acqua e vino, nelle dovute proporzioni, veniva mescolato prima di essere servito agli invitati. Gli artisti greci ne hanno prodotti di ogni tipo, foggia e colore, fino a farne diventare uno degli emblemi della loro maestria artistica. Sono sparsi in tutto il mondo, dalla Grecia all’Inghilterra, dalla Francia agli Stati Uniti, ma c’è un luogo, vicino a noi, che ne ha conservati molti e per molto tempo: la tomba dei vasi greci nel tumolo II della necropoli
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claudio Ottavo acquedotto romano, l’Aqua Claudia prende il nome dal quarto imperatore della sua dinastia anche se i lavori di costruzione iniziarono per volere di Caligola, suo predecessore. Non fu l’unica imponente e importante
3 PALAZZO MEDICI RICCARDI
Via Cavour, Firenze; www.palazzo-medici.it
Un gioiello architettonico che Lorenzo de’ Medici trasformò in uno scrigno di tesori e che oggi ancora svela tutto il fascino e la magnificenza di Firenze.
2 MUSEO
NAZIONALE CERITE
P.zza Santa Maria, Cerveteri; www.tarquinia-cerveteri.it
Nei tumuli della necropoli etrusca della Banditaccia si celava un ricco tesoro: vasi greci a profusione tra cui un immancabile cratere a figure rosse.
opera pubblica che Claudio promosse a Roma, ma di certo, assieme a l’Anio Novus, una delle più spettacolari, capaci ancora oggi di affascinare chi ne ammira i resti. Con una lunghezza di quasi 70 chilometri (oltre 46.000 miglia romane), l’acquedotto nasceva nell’alta valle dell’Aniene e, per giungere all’Urbe, si snodava in viadotti su arcuazioni e ponti. Tra le sezioni ancora visibili, quelle nei pressi di Vicovaro e soprattutto quelle nei pressi di Capannelle, dove i resti delle arcate dell’Aqua Claudia e dell’Anio Novus sono visibili nel Parco degli Acquedotti. Con una portata giornaliera di 190.000 m3 d’acqua, questa realizzazione fu vitale per la crescente Roma.
di tesori. Ma a Firenze, un edificio in particolare è stato testimone della lunga storia cittadina e della famiglia che la città ha dominato, il palazzo Medici Riccardi 3 . Eretto a metà XV secolo per volere del capostipite della famiglia, quel Cosimo il Vecchio che fu nonno di Lorenzo, l’edificio progettato da Michelozzo divenne il prototipo stesso dell’architettura civile rinascimentale. La struttura, che ai tempi di Lorenzo si presentava come sobria e austera, subì interventi postumi per opera dei Riccardi, tanto che oggi il palazzo può definirsi un testimone di quattro secoli di arte fiorentina. La visita prende avvio dal pianterreno, il cui cuore è rappresentato dal suggestivo cortile porticato di Michelozzo, per proseguire, lungo lo scalone d’onore, nella Cappella dei Magi: qui il pavimento in marmi intarsiati, il soffitto ligneo intagliato, dorato e dipinto e gli affreschi di Benozzo Gozzoli alle pareti trascinano il visitatore nell’atmosfera originaria della struttura. Secentesca è invece la luminosa sala che si affaccia sui giardini, chiamata Galleria, in cui a trionfare è il gusto tardobarocco. Anche se il palazzo non accoglie più i capolavori che componevano la ricca collezione di Lorenzo, palazzo Medici Riccardi è esso stesso un capolavoro.
pagina 82 pagina 70
lorenzo de’ medici Per colui che incarnò la magnificenza stessa è quasi un peccato scegliere un unico itinerario, soprattutto quando la sua città, Firenze, è un tale scrigno
la notte di san bartolomeo Un rintocco di campana e fu strage. E le campane che diedero il via al massacro furono quelle della chiesa di Saint-Germain-l’Auxerrois 4 di Parigi. La chiesa, al tempo parrocchia
dei reali di Francia, si trova infatti a poca distanza dal palazzo del Louvre, dove i Valois avevano stabilito la loro residenza. Costruita a partire dal XIII secolo su una precedente chiesa – anch’essa testimone di una pagina storica, essendo stata distrutta durante l’assedio vichingo di Parigi dell’885-886 – la chiesa si presenta oggi in stile gotico fiammeggiante affacciandosi su place du Louvre con una facciata dove troneggiano un grande rosone e un portico a cinque arcate. Proprio accanto al transetto si trova il piccolo campanile del XIII secolo le cui campane, nel cuore della notte, segnarono l’inizio del massacro.
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indiani d’america Fu nell’attuale contea di Fayette, in Pennsylvania, che nel luglio del 1754 le truppe francesi e quelle inglesi si affrontarono in una battaglia che segnò l’inizio della guerra franco-indiana, fronte nordamericano di quella dei Sette Anni. Lo scenario degli scontri fu Fort Necessity, allestito dall’allora giovane George Washington per difendersi da un attacco francese. Del forte originario, già allora decisamente precario, non resta nulla, ma in località Great Meadows è stato allestito il Fort Necessity National Battlefield, un sito che commemora il valore storico della zona e all’interno del quale è stata ricostruita la palizzata di difesa eretta dagli inglesi. Nel sito si trovano inoltre il Jumonville Glen, il luogo esatto in cui i francesi subirono l’imboscata inglese e la tomba che accoglie i resti del generale Edward Braddock. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Prossimo numero FAVOLOSI TESORI SOTTO IL MARE UN PROVERBIO spagnolo
ARNE HODALIC / CORBIS / GETTY IMAGES
del XVI secolo avvertiva dei pericoli cui si poteva incorrere navigando sull’Oceano Atlantico: «Il mare è delizioso alla vista, ma molto pericoloso da attraversare». In realtà, non furono molti i galeoni che naufragarono per via delle tempeste o degli attacchi dei corsari o dei nemici. Ma i relitti affondati nell’oceano divennero i protagonisti di leggende sull’esistenza di splendidi tesori.
RITRATTI DEL FAYYUM, UNO SGUARDO SULL’ETERNITÀ IN EPOCA GRECO-ROMANA, la
mummificazione dei cadaveri continuava a essere una pratica comune nell’antico Egitto, anche se la tecnica aveva subito alcune modifiche, che riguardavano in particolare il bendaggio del defunto. Nell’oasi del Fayyum gli archeologi hanno portato alla luce un migliaio di mummie di persone che vissero in questo periodo sul cui volto si trovano maschere funebri che sono il ritratto fedele dei defunti. Uomini, donne, bambini e anziani osservano così lo spettatore contemporaneo dall’abisso di due millenni di storia. SANDRO VANNINI / CORBIS / GETTY IMAGES
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Il figlio di Alessandro Magno Alessandro IV, figlio del grande conquistatore macedone, fu vittima della lotta tra fazioni e fu assassinato per ordine di Cassandro, che fu sovrano dal 302 al 297 a.C.
Le catacombe di Roma I cimiteri cristiani scavati nel sottosuolo di Roma, e talvolta utilizzati come luoghi segreti di raduno, costituiscono un suggestivo mondo ipogeo.
La guerra di Chioggia La città lagunare, con le sue ricche saline, fu al centro del conflitto (1378-1381) tra Venezia e Genova, acme della lotta tra le due città per il predominio nel Mediterraneo.
Le sei mogli di Enrico VIII Nel 1540, un vecchio e malato re d’Inghilterra sposò Catherine Howard. La giovane fu la quinta moglie del sovrano, e come le precedenti ebbe un avverso destino.
Carlo III di Borbone Re di Napoli dal 1734 e successore di Ferdinando VI sul trono di Spagna, fu un abile amministratore e riformatore sia nella città partenopea sia a Madrid.
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A Roma anche la plebe senza fissa dimora vive senza produrre nulla, mantenuta dalle elargizioni dello Stato. Ecco, ancora di Ammiano Marcellino, una vivida descrizione di questi imitatori di bassa lega dell’otium aristocratico:
Nella folla più bassa e povera, alcuni passano tutta la notte nelle osterie, altri vanno a dormire sotto i tendoni del teatro che Catulo... quando era edile, fece stendere sopra gli spettatori. Oppure giocano con accanimento a dadi e fanno suoni volgari richiamando rumorosamente l’aria nelle narici; infine, ed è la loro massima passione, dall’alba al tramonto, che ci sia sole o pioggia, se ne stanno a p rimarcarne pregi e difetti. Ed è davvero stupefaceng e cavalli per osservare aurighi a ta dalle corse dei cocchi. Questa rapita a a e rapi entusiasmat a a, entusiasmata smisurat lla smisurata, ffolla v dere una fo ve te vedere ia nulla di serio.12 faccia permettono che a Romaa si facc enere non permett d l ggenere e altre cose del
Molti produttori fuggono dall e loro sedi per sotttrar rarsi alla ll schi hiavitù, che è abituale per i debitori insolven ti, ma la maggior parte dei terr itori è oramai presidiata da aristocrazie dom inanti... La procedura corretta e statu ita nei trattati è di restituire i fuggiaschi, ma ciò non sempre avviene perc hé via via che i produttori si riducono di mero diventano più preziosi - nue le aristocrazie sono sempre più interessate a rein ei teg tegr grare are il proprio settore produttiv o. Nel crollo miceneo gli arch eologi hanno rilevato una inte ressante stranezza: dopo le distruzioni viol ente dei grandi palazzi che dom inavano da secoli la società e la scompars a dei wanax, i potenti signori in essi residenti, per due o tre generazioni inte rviene una sorta di recup pero in n cui i palazzi vengono in parte rip ripr ip priistin istin nati. aati ti. Ora, in una società ideologizzata in senso aristocratico ma in cui è anco ra presente una classe media legata ad antiche tradizioni nomadico-egu alitarie, come appunto il damos, e non sottomessa, se il settore produttiv o via via si indebolisce questa finisce in sofferenza e, arrivati al primo punt o di crisi – quello delle «sedizioni e sommosse» – può essere in grado di rimuovere violentemente la classe dominante. Ciò sgrava il settore produttivo di un grosso peso e migliora la situa zione. Ma i vittoriosi esponenti delle classi medie, trovandosi ora al verti ce della società e ancora ispirati dai mod elli aristocratici, prendono subito a scimmiottare i vecchi grandi signo ri, continuano a spremere “troppo” il settore produttivo, producendo il secondo e definitivo tracollo. E a Tirinto gli archeologi hanno appu nto reperito le tracce dell’ascesa al potere sociale di una classe alta nuov a ma inclinata a replicare i vecch i modelli in n Fo Forest of o Ki Kin K ng , di Lin ng Li d studiosi sempre lod da SSch helle e Daavid vid Fre F ide evolmente tesi a id l,l d due sinto anti toniizzarsi sulla me tichi M Maya: ntalità degli All’in izio del periodo cla ssico [la nobiltà] comprendeva un mente piccola del a parte relativala popolazione, ma [già poco dopo] velocemente nei essa stava crescend numeri e nei privil o egi . Più alti in media del resto della po di dieci centimetr polazione, [i nobil i i] usufruivano dei quota maggiore del cibi migliori e di le risorse economi una che, per cui avevan bilità di avere figli o maggiori probache raggiungessero l’età adulta. Dato nascevano in una che tutti coloro che famiglia nobile po tev ano esercitare prerogati ci vollero troppi sec ve da élite, non oli di prosperità per ché si formasse un mensioni sufficie ’aristocrazia di dinti per essere un problema per i gov per i contadini.18 erni e un n peso notev evo ole o le
seta per Ma per l’economia complessiva l’incremento dell’industria della comul’aristocrazia non compensa il crollo di quella della lana per l’uomo omogenea ne: stiamo assistendo alla transizione da una società più ricca e di stracci a una più povera e differenziata, in cui una maggioranza vestita convive con una minoranza abbigliata in modo raffinato. con la E il decorso successivo dell’economia presenta ulteriori analogie e, in decadenza romana: spopolamento, crescita oppressiva della fiscalità a certe regioni, diffusione di agri deserti e penuria colonorum:
nel corso di Nel 1675 il veneziano Mocenigo giungeva alla conclusione che popolazione, quarant’anni gli stati pontifici avevano perso un terzo della loro incolti per mentre le tasse nel contempo erano raddoppiate. I campi restavano 39 mancanza di contadini, di animali da tiro e di denaro.
Che cosa succede in una società in cui le classi alte acquistano un dominio tanto forte sul settore produttivo da poterlo spremere impunemente fino, addirittura, a “consumarlo”? Logicamente si verifica un tracollo, e questo spiega in modo semplice i modi della decadenza e scomparsa di molte antiche civiltà e, più di recente, il grave impoverimento di Italia e Spagna nel Seicento Ma come mai nel Seicento, mentre Italia e Spagna decadono, l’Olanda prospera e l’Inghilterra comincia la sua spettacolare ascesa verso la rivoluzione industriale? Qui l’indagine porta a conclusioni nuove e politicamente scorrette, confermando, tra molte altre cose, l’intuizione di Luciano De Crescenzo: «In Italia gli Inglesi sono i Milanesi» È così che il latino humilis, “umile”, arrivato nell’inglese attraverso il franco-normanno, risolve l’indebolimento della seconda sillaba con il glide b: humilis > humb(i)lis > humble. Nel nostro caso il glide è g, ma la dinamica è identica e il passaggio e > a non è problematico...: em matico : *enili matico...: enili > ang(i)li ang n (i)li > angli. ang ngli. i