N. 95 • GENNAIO 2017 • 4,50 E
NAUMACHIE A ROMA LE CROCIATE VISTE DAGLI ARABI LA GUERRA SANTA CONTRO I CRISTIANI
WALLENSTEIN
ASCESA E FINE DEL GENERALE IMPERIALE
LA REPUBBLICA ROMANA
772035 878008 9
PRIGIONIA, PROCESSO ED ESECUZIONE DELLA REGINA DI FRANCIA
70095
MARIA ANTONIETTA
periodicità mensile
UN EPISODIO CHIAVE DEL RISORGIMENTO
germania
- esce il 22/12/2016 - poste italiane s.p.a spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1, ne/vr 11,00 € - svizzera c. ticino CHF. 9,50- svizzera CHF. 9,90
LE GRANDIOSE BATTAGLIE NAVALI
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Un percorso completo attraverso la mitologia classica, dalla cosmogonia fino alle imprese dei grandi eroi. Tutti i miti, in una suggestiva versione romanzata, con illustrazioni originali ispirate all’arte classica.
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PRIMA USCITA Dal 14 gennaio in edicola
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EDITORIALE
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Molti storici
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si sono interrogati sulle conseguenze nel tempo del fenomeno delle crociate, specie nei rapporti conflittuali tra Occidente e Oriente, tra Cristianità e Islam. Come sottolineava il grande medievista francese Jacques Le Goff, «di fronte alla conquista latina, i Turchi ritrovarono il fanatismo musulmano del jihàd, la guerra santa»; anche se altri studiosi ricordano che il jihàd ebbe inizio con l’espansione islamica nel Mediterraneo tra VII e X secolo. Storicamente, molti musulmani non hanno guardato alle crociate, nelle quali a ogni modo si ritengono vittoriosi, come a un evento isolato. L’Islam è stato in conflitto con la Cristianità fin dalla conquista musulmana del VII secolo, e il movimento crociato fu una successione di episodi in un continuum di ostilità tra le due religioni. Calandole nella loro prospettiva e genesi storica, secondo alcuni autori, le crociate sembrano quasi ridimensionarsi nel loro ruolo tradizionalmente tramandato di scontro epico di civiltà. Da parte dell’Occidente, né un’epopea “santa” ma neppure un atto di cui scusarsi a posteriori a nome del mondo cristiano, bensì una delle tante guerre tra cristiani e musulmani, e non di “buoni” contro “cattivi” quali che fossero i due schieramenti. Questa la storia. Ogni tentativo di trasporre la situazione di allora a quella di oggi, tuttavia, sarebbe del tutto impensabile e fuori luogo. GIORGIO RIVIECCIO Direttore
Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION
N. 95 • GENNAIO 2017 • 4,50 E
NAUMACHIE A ROMA
LA GUERRA SANTA CONTRO I CRISTIANI
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ASCESA E FINE DEL GENERALE IMPERIALE
LA REPUBBLICA ROMANA
70095 772035 878008
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LE GRANDIOSE BATTAGLIE NAVALI
LE CROCIATE VISTE DAGLI ARABI
REGGIA DI VERSAILLES, SALA DEGLI SPECCHI. YVELINES, FRANCIA FOTO: ARNAUD CHICUREL / GTRES
Pubblicazione periodica mensile - Anno VII - n. 95
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4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PETRA La città dei nabatei prosperò come luogo di sosta delle carovane.
Grandi storie
20 Petra, la città perduta Nel 1812 l’orientalista svizzero Johann Ludwig Burckhardt localizzò in Siria la mitica capitale del regno nabateo scavata nella roccia. DI CRUZ SÁNCHEZ
34 Naumachie a Roma La ricostruzione delle grandiose e combattute battaglie navali negli anfiteatri e nei bacini artificiali della capitale. DI M. ENGRACIA MUÑOZ-SANTOS
44 Il Giappone imperiale Durante il periodo Heian, la città di Kyoto fu il centro di una corte dedita all’arte e a uno stile di vita raffinato. DI IRENE SECO SERRA
56 Le crociate viste dagli arabi Nel 1099 la conquista di Gerusalemme spinse i musulmani a indire il jihad contro l’invasore. DI J. ALBARRÁN
70 Ascesa e fine di Wallenstein Generalissimo dell’esercito asburgico, per contrasti con l’imperatore finì assassinato. DI VITTORIO H. BEONIO-BROCCHIERI
82 Il processo a Maria Antonietta La prigionia, il processo e l’esecuzione nel 1793 della regina, divenuta “la vedova Capeto”. DI V. LÓPEZ ALCAÑIZ
94 La Repubblica Romana L’esperienza repubblicana rappresentò un momento chiave della storia risorgimentale. DI ENRICO FRANCIA L’IMPERATORE KAMMU, IL PRIMO DEL PERIODO HEIAN (781-806).
Rubriche
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ATTUALITÀ PERSONAGGI STRAORDINARI
Erzsébet Báthory, la “contessa Dracula” L’aristocratica transilvana fu arrestata nel 1610 per aver torturato e ucciso decine di fanciulle.
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L’EVENTO STORICO
Il guano, un affare redditizio e crudele Fra il 1840 e il 1870, le deiezioni degli uccelli divennero una delle risorse più ambite del pianeta.
16 VITA QUOTIDIANA
Il tempo libero nell’antica Mesopotamia Giochi da tavola, musica e spettacoli sportivi erano alcuni dei divertimenti nella pianura fertile.
106 GRANDI SCOPERTE
La tomba di Meketre Nel 1920 fu riportatata alla luce un’eccezionale raccolta di statuine di vita quotidiana.
110 LIBRI E MOSTRE 112 ITINERARI 114 PROSSIMO NUMERO
AT T UA L I T À
RAN FEINSTEIN / IAA
UN ARCHEOLOGO sostiene la statuina in bronzo del dio del Sole, recuperata dal naufragio di una nave romana a Cesarea Marittima.
RITROVAMENTI
Riportato alla luce il carico di una nave romana CLARA AMIT, COURTESY OF THE ISRAEL ANTIQUITIES AUTHORITY
La scoperta è avvenuta nelle acque del porto di Cesarea Marittima, in Israele, nel relitto di una nave romana che fece naufragio nel IV secolo
UNA LUCERNA
in bronzo che rappresenta la testa di uno schiavo africano. L’elemento faceva parte di un gruppo di pezzi e frammenti di bronzo che dovevano essere riciclati. Il naufragio della nave che la trasportava la salvò dalla sua fine e l’ha conservata per quasi due millenni.
6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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ue subacquei che compivano immersioni nelle acque del Parco Archeologico Sottomarino di Cesarea Marittima, a nord di Tel Aviv, hanno casualmente scoperto lo straordinario carico di una nave romana che affondò in quel luogo 1600 anni fa. I sub hanno immediatamente avvisato l’Autorità Israeliana per le Antichità che, dopo aver analizzato la scoperta, ha dichiarato che si tratta della collezione di
oggetti archeologici sottomarini più importante rinvenuta in Israele negli ultimi trent’anni.
Un tesoro di statue Gli archeologi israeliani Jacob Sharvit e Dror Planer hanno raggiunto il punto indicato e hanno osservato, adagiato sul fondo marino, il relitto di quella che sembrava una nave mercantile destinata al riciclaggio dei metalli: ancore di ferro, frammenti di ancore di le-
gno e altri manufatti legati al funzionamento della nave. La distribuzione di questi oggetti indica che la nave fu sorpresa da una tempesta all’ingresso del porto, finì alla deriva e alla fine affondò. Uno studio preliminare delle ancore ha dimostrato che i marinai tentarono di bloccare la nave gettando le ancore, ma che queste si ruppero per via della potenza dei marosi e del vento. Gli oggetti recuperati sono di grande interesse ar-
CESAREA MARITTIMA, LA CITTÀ DI ERODE
CLARA AMIT, COURTESY OF THE ISRAEL ANTIQUITIES AUTHORITY
ERODE IL GRANDE, che fondò Cesarea su di un antico insediamento fenicio e greco, le diede questo nome in onore di Cesare Ottaviano Augusto. Nell’anno 6 d.C., la città si trasformò nella capitale della provincia romana di Giudea, e nei secoli II e III raggiunse una grande importanza politica ed economica. Nel 231, ricevette la visita dell’imperatore Alessandro Severo. Cesarea poteva contare su di un importante porto commerciale dove arrivavano merci da ogni angolo dell’Impero. È nelle sue acque che ha avuto luogo questa importante scoperta.
IAA
AGE FOTOSTOCK-DUBY TAL / ALBATROSS
LA STATUINA IN BRONZO della dea Luna è uno dei pezzi migliori del carico della nave mercantile romana affondata milleseicento anni fa. Sotto, gli scopritori del relitto mostrano alcuni degli oggetti recuperati dal naufragio: fra questi, le piccole sculture che raffigurano le divinità del Sole e della Luna.
cheologico: comprendono una lampada di bronzo che raffigura il dio Sole, statuine della dea Luna e del dio del vino Bacco, una lucerna che riproduce il volto di uno schiavo africano, frammen-
ti di tre statue di bronzo in dimensioni reali. Inoltre, sono stati trovati diversi oggetti a forma di animale, tra cui una balena e un rubinetto di bronzo a forma di cinghiale con un
cigno sulla testa, frammenti di grandi vasi destinati al trasporto di acqua potabile e a diversi altri impieghi e migliaia di monete recanti l’effigie di due imperatori, Costantino I (306-337) e Licinio (308-324). Le monete risultano molto ben conservate perché erano custodite in due borse inserite in un vaso. Sui frammenti delle statue di bronzo recuperati, Jacob Sharvit ha affermato che, anche se negli ultimi anni sono state scoperte a
Cesarea sculture di bronzo, nulla può essere paragonato alle statue che sono state recuperate da questo naufragio, che si trovano in un magnifico stato di conservazione e costituiscono un autentico tesoro. Secondo quanto riportato dall’archeologo Dror Planer, la quantità e varietà degli oggetti scoperti nel relitto rendono conto del grande volume di commerci che accoglieva il porto di Cesarea e della sua importanza al principio del IV secolo. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
Erzsébet Báthory, la “contessa Dracula” Erede di un’importante famiglia ungherese, la contessa transilvana fu arrestata nel 1610 con l’accusa di aver torturato a morte decine di fanciulle al suo servizio
Principessa e assassina seriale 1560 Nasce Erzsébet Báthory a Nyírbátor (Ungheria), figlia del conte Giorgio Báthory di Ecsed e Anna Báthory di Somlyó.
1575 Si sposa con il conte Ferenc Nádasdy, un militare che diverrà famoso con il soprannome di Cavaliere Nero.
1604 Alla morte del marito esercita il governo dei suoi estesi possedimenti dal suo castello di Cachtice, nell’attuale Slovacchia.
1610 Erzsébet viene rinchiusa nel suo castello da un inviato del re Mattia II d’Ungheria e giudicata per decine di assassini.
1614 Dopo quattro anni di isolamento in una stanza del suo castello, la contessa viene rinvenuta morta.
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uando il 30 dicembre del 1610, per ordine di Mattia II, re d’Ungheria, il conte György Thurzó giunse al castello di Cachtice in Slovacchia, si ritrovò in quello che sembrava un girone dantesco. Una serva giaceva nel giardino, con evidenti segni di percosse, e il cadavere di una giovane dissanguata era abbandonato nel vestibolo, mentre nei sotterranei agonizzava una dozzina di fanciulle. Un acre odore di sangue e putrefazione impregnava l’aria. Ancora più stupefacente era che nulla di tutto questo sembrava importare alla signora del castello, la contessa Erzsébet (Elisabetta) Báthory di Ecsed, che ricevette il conte e il suo seguito senza alcun imbarazzo. L’ambasciata era stata inviata dal sovrano ungherese per verificare se vi fosse qualcosa di vero nelle voci che accusavano la contessa di aver commesso dei crimini orrendi. Tuttavia, i suoi sodali non potevano sospettare che la loro ospite sarebbe passata alla storia come la “contessa sanguinaria” o la “contessa
Dracula” e che, secondo le dichiarazioni deposte da molti testimoni durante il processo a cui venne sottoposta con i suoi complici, avesse alle spalle dozzine, se non centinaia, di assassini.
Una famiglia potente Erzsébet discendeva da una delle famiglie più antiche e potenti della nobiltà protestante transilvana. Era nipote di Stefano I Báthory, principe di Transilvania ed effimero re di Polonia fra il 1575 e il 1586, e fra i suoi familiari più stretti si trovavano numerosi eroi di guerra e alcuni prelati. I suoi genitori, i conti Anna e George Báthory, vivevano nel loro castello di Cachtice, situato nell’attuale Slovacchia, circondati da una ristretta corte locale. Fu qui che la loro unica figlia ricevette un’educazione completa – che includeva lo studio di lingue come l’ungherese, il latino e il tedesco – e, soprattutto, adeguate cure per la sua infermità, che alcuni autori hanno identificato come una forma di epilessia, malattia di cui numerosi membri della famiglia soffrivano. Aveva solo undici anni quando il padre la promise in matrimonio a un lontano cugino, il conte Ferenc Nádasdy, di cinque anni più grande di
Data l’importanza della famiglia di Erzsébet, il marito ne acquisì il cognome FERENC NÁDASDY, MARITO DI ERZSÉBET BÁTHORY.
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
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UNA MORTALE OSSESIONE PER LA BELLEZZA NEL CORSO della sua vita, Erzsé-
bet Báthory commissionò solo un ritratto, di cui attualmente si conserva una copia. Allora aveva solo 25 anni ed era nel fiore della sua leggendaria bellezza. La stessa che, secondo quanto si racconta, ebbe l’ossessione di preservare da quando, essendosi burlata di un’anziana decrepita e deforme, questa la maledisse assicurandole che presto sarebbe diventata come lei. Per evitarlo, seguendo i consigli di una fattucchiera del luogo, si lavava con il sangue di fanciulle, convinta che così avrebbe potuto conservare lo splendore della sua pelle. ERZSÉBET BÁTHORY PRIMA DEL PROCESSO. RITRATTO DI PITTORE ANONIMO DI SCUOLA UNGHERESE. COLLEZIONE PRIVATA.
BRIDGEMAN / ACI
lei, e fu così che una volta raggiunta la pubertà, come era usuale all’epoca, partì per l’Ungheria per andare a vivere con la sua futura famiglia. Dopo breve tempo fu coinvolta in un grosso scandalo rimanendo incinta di uno dei servi del castello. Furioso a causa di tale oltraggio, ma deciso a contrarre un matrimonio che potesse assicurargli potere e ricchezza, Ferenc ordinò che il giovane fosse castrato e giustiziato, mentre la sua promessa sposa partoriva in segreto. L’8 maggio del 1575 Ferenc e Erzsébet contrassero il matrimonio a Varanno,
nell’attuale Slovacchia. Data l’importanza dei Báthory, dopo il matrimonio Ferenc acquisì il nome di sua moglie e unitamente a buona parte della sua famiglia si trasferì a Cachtice dove, anni più tardi, sarebbero nati i suoi quattro figli: Anna, Katharina, Ursula e Paul. I doveri militari allontanarono Ferenc dalla sua dimora in diverse occasioni. Combatté con successo i turchi e la sua fama di guerriero fiero e inclemente gli valse il nome di Cavaliere Nero d’Ungheria. Sembrava invincibile, ma il 4 gennaio del 1604, nel corso di un’ennesima campagna contro gli ottomani,
morì inaspettatamente e per cause mai chiarite. A partire da quel momento, mito e storia si intrecciarono a tal punto che a oggi è ancora impossibile distinguere l’uno dall’altra.
Vita del Cavaliere Nero Il sospetto che Mattia II d’Ungheria fosse coinvolto nella morte del Cavaliere Nero risale alla minaccia implicita rappresentata dai Báthory per la Corona ungherese e nell’ampiezza del territorio che essi dominavano da Cachtice, sul quale si volgevano le mire del sovrano. Scomparso Ferenc, alla STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
IL CASTELLO DEGLI ORRORI
VERGINE DI FERRO, STRUMENTO DI TORTURA E MORTE.
CSP_TOMAS / AGE FOTOSTOCK
AL PROCESSO, un testimone dichiarò che la contessa aveva obbligato una bambina di 12 anni, vestita con una lunga camicia bianca, a entrare in una stretta gabbia. Una volta dentro, la bambina fu sollevata attraverso una puleggia. La gabbia aveva al suo interno dozzine di paletti appuntiti. La bambina cercò di evitare i paletti, ma la gabbia venne fatta oscillare tramite delle corde e così fu dilaniata. IL CASTELLO DI CACHTICE, IN SLOVACCHIA. ABBANDONATO NEL 1708, ATTUALMENTE È IN ROVINA.
GRANGER / ALBUM
guida di questi possedimenti rimaneva una vedova di 44 anni che, a prima vista, sembrava possibile manovrare. I fatti dimostrarono il contrario: non appena rimase vedova, la contessa prese le redini del feudo e non esitò ad allearsi con il nipote Gábor I, principe di Transilvania, per combattere al fianco dei tedeschi contro Mattia
II d’Ungheria. È molto probabile che se il sovrano si decise ad avviare un processo contro un casato nobile come quello dei Báthory avesse in proposito di acquisirne i possedimenti alla Corona. Se le prime voci sulle efferatezze della principessa risalgono al 1604, la crudeltà di Erzsébet era ben nota
UN PROCESSO POLITICO VI SONO INDIZI che connoterebbero il processo contro Erszébet Báthory come parte di una lotta politica fra due dinastie: gli Asburgo e i Báthory. Non sembra un caso che proprio nel 1610, quando Erzsébet fu imprigionata, il cancelliere di Mattia II d’Ungheria tramasse l’assassinio di Gábor Báthory, nipote e alleato della controversa contessa. MATTIA II. RITRATTO DI JOSEF KISS E FRIEDRICH MAYRHOFER. DEA / SCALA, FIRENZE
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già prima che essa diventasse vedova, come lo era peraltro quella del marito: ne dà prova scritta un epistolario in cui i coniugi si consigliano reciprocamente sui metodi di tortura più adeguati per mantenere l’ordine e sugli abusi a cui venivano sottoposti i loro servitori. Ma non fu che alla morte di Ferenc che iniziò a circolare la notizia che la contessa praticasse la stregoneria. Una diceria che si accordava con la misteriosa scomparsa di molte giovani del luogo. Furono appunto tali voci che convinsero Mattia II a ordinare la spedizione di György Thurzó.
Un processo complesso Durante la detenzione, Erzsébet rimase sotto la custodia di Thurzó, che si fece carico del feudo dei Báthory. Nel giro di due anni venne avviato il processo, tenuto a Bytca, nel nordovest
LA CONTESSA
TIBOR MESTER / MUSEUM OF FINE ARTS, BUDAPEST
Báthory assiste alla tortura di alcune fanciulle. Olio di István Csók. 1896. Museo di Belle Arti, Budapest.
della Slovacchia, e i cui atti (conservati negli Archivi Nazionali d’Ungheria) descrivono scene agghiaccianti. La “contessa sanguinaria”rifiutò di sottoporsi al giudizio di una corte, sfruttando i privilegi legati al suo status di nobile. La sua testimonianza non fu comunque necessaria. Al suo posto furono chiamati a deporre i suoi collaboratori più stretti – le dame di compagnia e l’amministratore del castello –, che spiegarono come, seguendo gli ordini della contessa, avevano reclutato numerose fanciulle, per la maggior parte adolescenti, affinché lavorassero come cameriere o facessero parte del seguito di Erzsébet, a seconda della loro appartenenza sociale. Una volta richiuse nel castello, venivano torturate con i procedimenti più diversi: con percosse e frustate, con tenaglie, paletti, ferri incandescenti. Alla fine venivano sepolte nel parco che circondava la fortezza o nelle se-
grete del castello. Intanto, la contessa si bagnava nel loro sangue, convinta di procurarsi così l’eterna giovinezza. Secondo la leggenda, lo faceva su consiglio di una fattucchiera che viveva in un edificio annesso al castello. Le ipotesi sul numero delle vittime furono diverse: si parlò di 36, di più di 80 e addirittura di 640. La sentenza non si fece aspettare. Tutti i collaboratori diretti di Erzsébet furono dichiarati colpevoli di stregoneria e di assassinio e vennero giustiziati. Dopo averne bruciato i cadaveri, le ceneri furono sparse affinché le loro anime non trovassero mai pace.
Rinchiusa a vita Erszébet riuscì a evitare di essere processata grazie alla sua condizione di nobile, ma non poté sottrarsi alla giustizia. Il tribunale stabilì che fosse rinchiusa a vita in una stanza del suo castello senza ventilazione né spiragli
da dove potesse entrare la luce del sole. Poteva comunicare con l’esterno solo da una piccola apertura attraverso cui riceveva pane e acqua. Nel luglio del 1614, sentendo che le forze la abbandonavano, Erzsébet fece testamento di fronte ai suoi carcerieri. Morì qualche settimana dopo, il 21 agosto dello stesso anno. Pretendeva di essere sotterrata nella chiesa di Cachtice, ma gli abitanti del villaggio si opposero a una sepoltura in terra sacra. Il villaggio di Ecsed, dominio della famiglia nel nordest dell’Ungheria, acconsentì a che fosse inumata nel camposanto. Tutto il suo patrimonio passò nelle mani della Corona. MARÍA PILAR QUERALT DEL HIERRO STORICA
Per saperne di più
La contessa Dracula. La vita e i delitti di Erzsébet Bathory Tony Thorne, Mondadori, Milano, 1997.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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ISOLE CHINCHA. Da queste tre piccole isole peruviane nel corso del XIX secolo giunsero in Europa milioni di tonnellate di guano utilizzato come fertilizzante.
L’era del guano: un affare redditizio e crudele Fra il 1840 e il 1870, gli escrementi essiccati dei volatili marini si trasformarono in una delle risorse più ambite del pianeta, ma coloro che lo raccoglievano vivevano in condizioni terribili
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uando sulle banchine della città inglese di Southampton iniziarono a scaricare il primo bastimento di guano proveniente dal Perú, l’afrore che sprigionava era tale che molti abitanti della città fuggirono sulle colline. Era l’anno 1841, e quell’odore pestilenziale segnò l’inizio della meravigliosa era del guano, come vengono chiamati gli escrementi essiccati dei volatili marini. Questo fertilizzante avrebbe dato nuovo vigore agli sfibrati
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terreni coltivabili dell’Europa e degli Stati Uniti, dove l’agricoltura doveva sfamare una popolazione urbana che non smetteva di crescere a fronte delle esigenze di manodopera dell’industria.
Concime pagato a peso d’oro Il guano contiene azoto, fosforo e potassio, i nutrienti di cui i vegetali hanno bisogno per crescere. Fu il naturalista Alexander von Humboldt che nel 1803, durante un viaggio nell’America del Sud, si rese conto che sulle desertiche aree costiere del Perú le piante
concimate con il guano crescevano lussureggianti. Il suo utilizzo era il risultato di secoli di esperienza: già lo usavano le civiltà precolombiane mochica e inca, dalla cui lingua, il quechua, proviene il nome wanu, “concime”. Il guano che utilizzavano proveniva dalle isole Chincha, a 21 chilometri dalle coste peruviane. Le isole del Pacifico peruviano erano eccezionalmente ricche di guano poiché su di esse nidificavano milioni di gabbiani, pellicani, cormorani guanay, sule e altri volatili marini che si concedevano veri e pro-
AKG / ALBUM
L’EVENTO STORICO
UNA FORTUNA VENUTA DAL CIELO PER MILLENNI, gli uccelli marini hanno depositato i loro escrementi – circa 45 grammi al giorno per esemplare – sulle isole e gli isolotti del Perú. Lì, il clima secco li ha preservati in una concrezione fetida, giallognola e ricca di nutrienti: il guano di uccello contiene dall’11 al 16 per cento di azoto, dall’8 al 12 per cento di acido fosforico e il 2-3 per cento di potassio. Sopra, marinai su un’isola di guano del Perú, in un’incisione del 1880.
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pri festini con gli enormi banchi di acciughe cilene che popolavano quelle acque grazie alla presenza della fredda corrente di Humboldt. Questo guano era il migliore di tutto il mondo, perché in quella regione desertica le piogge erano rare, e la pioggia impoverisce il guano consumandone l’azoto.
Ricchezza e orrore Gli esperimenti che furono realizzati nel 1840 in Gran Bretagna dimostrarono che il guano del Perú era di qualità molto superiore rispetto allo sterco utilizzato tradizio-
nalmente come concime, e lo Stato peruviano, proprietario di questa risorsa, ne cedette l’utilizzo e il commercio a imprese britanniche, peruviane e francesi in cambio di parte dei loro introiti. Questi lo compravano per dodici sterline a tonnellata e lo vendevano al doppio, trasformando il guano in oro: un bastimento fruttava ai venditori 100.000 sterline di guadagno, una fortuna per l’epoca. Negli anni dal 1840 al 1870 ne vennero esportati quasi undici milioni di tonnellate, per un valore di oltre cento milioni di sterline. Il guano si trasformò nella base economica del Perú: se fra il 1846 e il 1847 costituiva
La vendita di guano comportava enormi benefici per i commercianti
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WILLIAM GIBBS, IL MAGGIOR ESPORTATORE BRITANNICO DI GUANO. OLIO. 1850.
il 5 per cento delle entrate fiscali, fra il 1869 e il 1875 era già l’80 per cento. In epoca coloniale il Paese aveva prosperato grazie all’argento di Potosí, e ora viveva degli escrementi di uccello. L’estrazione del guano era però un lavoro terribile. La principale fonte erano le isole Chincha, dove ai tempi di Humboldt il guano raggiungeva uno spessore di trenta metri. Raccogliere le feci di uccello solidificate era un supplizio, e non solo per via del fetore e del calore. I manovali che con picco e pala creavano trincee nel guano per estrarlo si esponevano al grave rischio di inalare la polvere giallastra che da esse si sollevava. Gli agenti patogeni contenuti in questa materia organica penetravano nel corpo dei lavoratori, provocando dissenteria e malattie respiratorie come istoplasmosi e asma. Nessuno in Perú voleva lavorare sulle isole del guano, e non vi era nessuno che si sarebbe potuto costringere a farlo perché il Paese aveva abolito
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L’EVENTO STORICO
ESTRAZIONE di guano sulle isole
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Chincha. Erano frequenti i suicidi di operai esasperati dal lavoro sfiancante e dalle malattie.
la schiavitù nel 1854, utilizzando i guadagni del guano per indennizzare i proprietari di schiavi. Perciò per estrarre il guano si contrattava in Cina in modo ingannevole con coolies che erano impiegati come manodopera quasi servile. Fu anche organizzata una tratta di schiavi dalle isole del Pacifico, come accadde per esempio sull’Isola di Pasqua.
Il valore del guano innescò una ricerca frenetica degli escrementi di uccelli marini. I britannici, per esempio, ricavarono cinquemila tonnellate di guano dall’Isola di Sant’Elena. Nel marzo del 1842, alcuni commercianti britannici ne individuarono uno strato dello spessore di otto metri sull’isola di Ichaboe, di fronte alla costa della Namibia, dove i“cacciatori”di guano accorsero come
LE MANI SUL GUANO CON IL Guano Islands Act (1856), gli Stati Uniti si arrogarono diritti sulle Islas del Cisne (oggi appartenenti all’Honduras), che negli anni Sessanta del Novecento ospitarono l’emittente anticastrista Radio Swan, e negli anni Settanta i contras nicaraguensi. ANNUNCIO SUL GUANO DEL PERÚ PUBBLICATO NEGLI STATI UNITI. ALAMY / ACI
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mosche sul miele. All’inizio del 1845 450 navi e seimila uomini lottavano per impadronirsi delle ultimi porzioni di guano che la coprivano. Nel mese di maggio, caricato l’ultimo sacco, l’isola venne infine abbandonata.
Guano e impero Anche gli Stati Uniti avevano bisogno di guano, ma il monopolio peruviano favoriva i britannici. Poiché gli agricoltori nordamericani erano un gruppo elettorale di peso rilevante (a quel tempo, otto nordamericani su dieci vivevano in aziende agricole), non desta molta sorpresa che lo stesso presidente, Millard Fillmore, menzionasse il guano nel suo discorso agli Stati dell’Unione del 1850, promettendo che avrebbe fatto ricorso a tutti i mezzi possibili per importarlo dal Perú «a un prezzo ragionevole».
LA DISTRUZIONE DI UNA CULTURA
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otto navi peruviane arrivarono a Pasqua e sequestrarono 349 isolani. In totale, sarebbero stati fatte schiave fra le 1600 e le 1700 persone. Le denunce della Francia, che perseguiva la tratta degli schiavi, contribuirono a porre fine a questi soprusi. I pasquensi che sopravvissero furono riportati sull’isola, dove ne arrivarono in vita solo una dozzina, malati di vaiolo; l’epidemia si propagò e causò una strage. L’isola passò dai circa 3000 abitanti del 1860 a contarne 111 nel 1877. I MEMBRI DELLA SPEDIZIONE DI JEAN-FRANÇOIS DE LA PÉROUSE SULL’ISOLA DI PASQUA, NEL 1786.
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el novembre del 1862 raggiunse l’Isola di Pasqua la Bella Margarita, una delle navi schiaviste peruviane che percorrevano la Polinesia in cerca di manodopera per le piantagioni di canna da zucchero e per l’estrazione di guano; ritornò in Perú con 154 pasquensi. Fu la prima di diverse spedizioni. Secondo il console cileno nel porto peruviano di Callao, i pasquensi non comprendevano la lingua in cui erano scritti i contratti e “firmavano” con una croce documenti che li obbligavano a lavorare per otto anni. In dicembre, durante la spedizione peggiore,
Ma non fu sufficiente, e nel 1856 il Congresso statunitense approvò il Guano Islands Act, che autorizzava i cittadini statunitensi a prendere possesso di qualsiasi isola con depositi di guano che non fosse sotto la giurisdizione di un altro Stato. La legge stabiliva altresì che gli Stati Uniti non erano obbligati a conservare il possesso di questi territori una volta che le riserve di guano si fossero esaurite, introducendo così il concetto di area insulare, un territorio che veniva governato dagli Stati Uniti ma non entrava a farne parte. Così, spinta dal guano, iniziò l’espansione imperiale degli Stati Uniti: quarant’anni prima di impadronirsi di ciò che restava dei possedimenti spagnoli nei Caraibi e nel Pacifico, acquisì i suoi primi possedimenti in queste acque, come gli atolli Midway e Johnston e l’isola Howland nel Pacifico, e le Islas del Cisne e Navassa nei Caraibi.
Ad ogni modo, gli Stati Uniti non avevano nulla da invidiare al Perú per quanto riguardava la gestione del guano, come dimostrò la ribellione dei lavoratori neri dell’isola di Navassa che, trattati crudelmente dai loro sorveglianti bianchi, nel 1889 ne uccisero quindici. La marina statunitense soffocò la rivolta e molti furono condannati a morte. Però, in quella che fu una delle prime dimostrazioni di mobilitazione della comunità nera statunitense, due confraternite afroamericane denunciarono lo stato di semischiavitù in cui vivevano gli operai e raccolsero fondi per la loro difesa; alla fine, il presidente Harrison commutò la pena di morte in ergastolo.
Le guerre dell’azoto Il guano era tanto prezioso che la Spagna occupò le isole Chincha nel 1864 come ipoteca per il pagamen-
to di crediti che reclamava dal Perú dall’indipendenza; ne scaturì una guerra che ebbe fine soltanto nel 1871. Ma il guano delle Chincha diminuiva e iniziò l’estrazione del salnitro, un nitrato di cui erano ricche le desertiche terre di confine di Perú, Bolivia e Cile; questo lottò contro gli altri due Paesi nella guerra del Pacifico (1879-1884) e riuscì a impadronirsene, privando la Bolivia di uno sbocco sul mare. Dopo il declino della produzione nelle Chincha e la concorrenza del salnitro, fu la chimica ad assestare al guano il colpo di grazia quando, nel 1905, iniziò in Norvegia la produzione di fertilizzante azotato artificiale. La facile ricchezza del guano abbandonò il Perú dopo aver contribuito allo sviluppo dell’economia mondiale globale alimentando l’Europa. ENRIQUE MESEGUER STORICO
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V I TA Q U OT I D I A N A
Il tempo libero nell’antica Mesopotamia Giochi da tavola, musica e spettacoli sportivi erano alcuni dei divertimenti degli antichi popoli della pianura fertile
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n passo dell’ Enuma Elish, il mito della creazione di Babilonia, racconta come Anu, il dio del cielo, «creò i Quattro Venti» e li regalò a Marduk, dicendogli: «Affinché mio figlio si diverta!». Se gli dei dell’antica Mesopotamia trovavano momenti per divertirsi e giocare, lo stesso accadeva al di sotto della sfera celeste, nel mondo terreno, fra uomini e donne ansiosi di sfuggire alla routine e alle fatiche del lavoro quotidiano. Vediamo che cosa accadeva in una famiglia normale, composta da una coppia con alcuni figli di età diversa, che viveva, per esempio, a Ninive, nel IX secolo a.C. Una giornata qualsiasi sarebbe iniziata con il rumore dei giochi dei bambini. La madre cerca di calmare il pianto del suo piccino con un sonaglio, una pallina d’argilla con
un seme di mango e pietruzze al suo interno. Se il dio Marduk giocava con i Quattro Venti che gli aveva regalato suo padre, anche i bambini giocavano, ma con gli oggetti in miniatura fatti di argilla o legno, che potevano essere armi (fionde, archi e frecce, boomerang), carri o barche, oggetti domestici come letti, tavoli e utensili, pupazzi raffiguranti persone o animali. Non mancavano trottole, corde per saltare, cerchi, palle.
Giochi da tavolo
UNA PROCESSIONE
LOTTA A DUE
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Un intrattenimento molto diffuso fra di musici, che pizzicano arpe giovani e adulti era il gioco dei dadi. e suonano flauti, è raffigurata Questo gioco derivava da un’antica nel rilievo, proveniente da Ninive. VII secolo a.C. pratica divinatoria e magica che conBritish Museum, Londra. sisteva nel lanciare tessere o astragali di animali per vedere da che lato sarebbero caduti. Durante la prima metà del III millennio a.C., questi oggetti si trasformarono fino a diventare dei ampiamente utilizzati nel contesto dadi e, senza smettere di essere usati a ludico. Venivano preparati con diversi scopo divinatorio, iniziarono a essere materiali – argilla, pietra, legno, avorio, osso – e presentavano diverse forme – disco, cubo, tetraedro, triangolo –, a seconda del gioco e delle sue regole. Se i genitori riuscivano a tenere impegnati i bambini, potevano dedicarsi FIGURINA in rame di dieci centimetri, forse parte di un a un gioco da tavolo molto popolare. Si corredo liturgico, che proviene dal tempio della dea faceva con un tavoliere in legno suddiNintu a Khafajah. Rappresenta due combattenti che viso in caselle quadrate, usando tessere si afferrano per una cintura legata ai fianchi, forse con e dadi. Alcune modalità di gioco potel’obiettivo di far cadere il liquido della grande anfora vano variare in base al numero di caselche reggono sulla testa. le o di fori del tavoliere. Così, esisteva LOTTATORI, FIGURINA IN BRONZO. MUSEO NAZIONALE IRACHENO, BAGHDAD. il gioco del serpente (conosciuto in Egitto come mehen), quello delle venti
caselle (conosciuto attualmente come il“gioco di Ur”), quello delle trenta caselle (conosciuto in Egitto come senet) e quello dei 58 fori. In Mesopotamia, il più popolare fu il gioco delle venti caselle, documentato sin dalla I dinastia di Ur (2600-2400 a.C.). Anche se sono conservate immagini di coppie che giocano, non sappiamo esattamente come si svolgesse la partita. Solo una tavoletta cuneiforme frammentata del periodo seleucide (177 a.C.), conservata al British Museum, spiega che il gioco delle venti caselle consisteva in una corsa a cui partecipavano i giocatori con cinque tessere
Un banchetto reale per festeggiare la capitale UNA STELE rinvenuta nel palazzo di Assurnasirpal II (883-859 a.C.) a Nimrud racconta di un magnifico banchetto che il monarca diede per celebrare la ristrutturazione della nuova capitale dell’Impero assiro. I fortunati che assistettero all’evento
godettero degli intrattenimenti scelti dal sovrano per l’occasione e degli SQUISITI PIATTI che vennero offerti: migliaia di animali furono sacrificati per l’occasione e vennero serviti anche in gran quantità pesci, pani, uova, brocche di birra, otri di vino, oltre a migliaia di ceste di legumi, olio,
frutta, olive... Assurnasirpal afferma: «Ho dato da mangiare in questo modo per dieci giorni [...] in totale a 69.574 invitati che ho nutrito e dissetato e a cui ho fornito il necessario per la loro pulizia. Così li ho onorati prima di mandarli nelle proprie case in BUONA ARMONIA e allegria!».
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V I TA Q U OT I D I A N A
UN BICCHIERE A FINE GIORNATA
SERVITORI carichi di gabbie
conducono grossi cani a caccia. Rilievo del palazzo di Assurbanipal a Ninive. British Museum, Londra.
BEVITORI A UN BANCHETTO.STENDARDO DI UR, LATO DELLA PACE. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
ciascuno: l’obiettivo era raggiungere la fine del tabellone avanzando con lanci di dadi, mentre l’avversario cercava di bloccare l’avanzata. Sulla tavoletta vengono specificati i nomi e il numero delle tessere ed è indicato che le cinque caselle decorate con un rosone davano, a quanto pare, buona fortuna nel caso in cui la tessera cadesse in una di esse. Tuttavia, le regole del gioco sono sconosciute, quindi non possiamo sapere come si muovevano le tessere. Forse somigliava al backgammon, uno dei giochi attualmente più popolari in tutto il Vicino Oriente e che
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«FARÒ CHE SIANO VICINI coppieri, facchini e birrai, mentre mescolo abbondante birra, mentre mi sento magnificamente bevendo birra in un clima gioioso, versando bevande, sentendomi allegro con la gioia nel cuore e il fegato felice». Così questa canzone sumera descrive una consuetudine molto amata: bere birra.
senza dubbio è il discendente diretto dei giochi da tavolo mesopotamici.
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a quello che si sarebbe potuto tenere durante un rito religioso e anche nel corso di un funerale: solo il contesto e Musica, danza e lotta il tipo di musica segnano la differenza. Anche fuori casa vi erano molte oppor- Continuando a passeggiare, la nostra tunità di divertimento, seppure della famiglia ha l’occasione di attraversare maggior parte di essi non sia pervenuta una soglia che introduce al cortile di alcuna prova archeologica o testuale. una casa, dove due uomini si colpiscoPasseggiando per la città, la nostra no e afferrano, nel tentativo di atterrare famiglia incappa in un capannello di l’avversario. La lotta, tanto sotto forma persone che attira la sua attenzione. di pugilato quanto di lotta libera, era Al centro, alcuni acrobati danno prova fra le discipline sportive più popolari della loro abilità, mentre delle danza- in Mesopotamia, come è provato dal trici si muovono al ritmo di una musica ritrovamento di numerose placche creata con lire, arpe, tamburi e flauti. Si di argilla e piccole statue di bronzo di tratta di uno spettacolo molto simile figurine intente a praticarla. I nostri protagonisti proseguono la loro passeggiata fino a raggiungere una delle porte di Ninive, situata al di Per strada, alcune danzatrici sotto del palazzo. Da lì, possono ossi muovevano alla musica servare i divertimenti, più sofisticati di lire, arpe, tamburi e flauti e costosi dei loro, con cui si intrattiene la famiglia reale. Molti avvengono in MUSICI, ACROBATI E CANTANTI. TERRACOTTA, MUSEO NAZIONALE IRACHENO. un ambiente privilegiato, quello dei
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Il senet dei mesopotamici TABELLONE di un gioco simile al senet egizio, scoperto nel 1922 da Leonard Woolley in una tomba del cimitero
reale di Ur, in Iraq, è stato datato fra il 2600 e il 2400 a.C. È in legno con intarsi in madreperla, calcare rosso e lapislazzuli; le tessere provengono da un’altra tomba. Tutti i pezzi sono conservati al British Museum. È formato da venti caselle.
Misura 30,1 cm di lunghezza per 2,4 cm di altezza, e fra i 5,7 e gli 11 cm di larghezza.
L’interno del bordo è cavo e serviva per conservare le tessere.
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Tre pezzi tetraedici senza iscrizioni né simboli.
Sette tessere bianche discoidali con cinque punti incisi.
giardini reali, un autentico paradiso per il divertimento reale, popolato di specie vegetali esotiche e animali che hanno importato dai loro viaggi. Tiglatpileser I, artefice nel XII-XI secolo a.C. dell’espansione dell’Impero assiro, scrive: «Ho colto i cedri, il bosso e la quercia di Kanesh [Kültepe, in Turchia], del paese che ho vinto; nessuno dei sovrani precedenti aveva piantato questi alberi; io li ho piantati nei giardini del mio paese. Ho colto gli strani frutti dei giardini che non esistevano nel mio paese e li ho seminati in tutti i giardini di Assiria». E Sennacherib (VIII-VII secolo a.C.) narra: «Ho creato una palude dove ho piantato canne e ho portato aironi, maiali selvatici e bufali. le canne crescono bene e gli uccelli del cielo e gli aironi giungono da lontano per costruire il loro nido; anche i maiali selvatici e i bufali vi si riproducono». Superata la porta, la nostra famiglia si dirige in una zona non molto lontana,
Sette tessere nere uguali a quelle bianche.
vicino al Tigri, dove abbondano germani reali, cervi e altri animali. Lì il padre e i due figli maggiori si dedicheranno per qualche ora a uno dei passatempi preferiti dei mesopotamici: la caccia.
Cacciagione di ogni tipo Nella cultura mesopotamica, la caccia poteva assumere un carattere magico-simbolico ed era molto legata alla casa reale: in particolare lo era la caccia ai leoni. È certo che gran parte della popolazione praticasse l’attività venatoria per passatempo. I testi parlano di battute di caccia in campo aperto verso ogni tipo di animale, come racconta il re Assurnasirpal II: «In quella occasione uccisi cinquanta tori selvatici oltre l’Eufrate e ne catturai otto vivi. Uccisi anche venti struzzi e ne catturai altri venti». Anche se testi e rilievi non menzionano la pesca, è probabile che costituisse un’altra attività per passare il tempo.
Mentre gli uomini cacciano, la madre e i più piccoli ritornano a casa, dove potranno tuttavia godere di un ultimo svago prima di dormire: il racconto di un mito o di un’epopea su dei ed eroi, o delle epiche avventure di antichi sovrani. La madre li racconterà dopo averli ascoltati recitare dai giullari, cantori e cantastorie che animavano le strade intorno a un falò aspettando di catturare l’attenzione degli spettatori affinché, per qualche istante, dimenticassero le faccende quotidiane e potessero godere di un momento di evasione sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate. FELIP MASÓ ARCHEOLOGO
Per saperne di più
SAGGI
L’antica Mesopotamia. Ritratto di una civiltà scomparsa A. Leo Oppenheim. Newton Compton, Roma, 1997.
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LA CITTÀ CAROVANIERA
Petra prosperò come importante luogo di sosta delle carovane. Di fronte allo stretto passaggio che dà accesso alla città si staglia l’imponente facciata del Tesoro, probabilmente la tomba del re Areta IV. ALFONS RODRÍGUEZ
ARCHEOLOGIA
LA CITTÀ PERDUTA DEI NABATEI
PETRA Nel 1812, nel deserto della Siria, un orientalista svizzero localizzò la mitica capitale perduta del regno nabateo scavata nella roccia. Questo articolo racconta la sua storia, accompagnata da ricostruzioni tratte dalla nuova collana National Geographic CRUZ SÁNCHEZ ARCHEOLOGA E SPECIALISTA DEL VICINO ORIENTE
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UN “MONASTERO” DELLA ROCCIA
Si ritiene che l’edificio, chiamato ed-Deir, “il Monastero”, fosse un tempio dedicato al culto del re Obodas I, trasformato in chiesa in epoca bizantina.
C R O N O LO G I A
DALLO SPLENDORE ALL’OBLIO 22 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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i è addentrato nel deserto della Siria, fino a un luogo in cui le sabbie si infrangono contro montagne scoscese, percorse da profonde gole. Seguendo la sua guida beduina penetra in un antico wadi che serpeggia tra due altissime pareti di roccia. Dopo un’ultima curva, ai suoi occhi si presenta una visione straordinaria: scolpita nella pietra rosata, appare una maestosa facciata alta quaranta metri. Stupefatto, soffoca qualsiasi esclamazione, poiché potrebbe mettere in pericolo la propria vita. Johann Ludwig Burckhardt si è appena imbattuto nella misteriosa città perduta della quale aveva
sentito parlare durante il suo soggiorno in Oriente. L’entusiasmo subentra alla meraviglia mentre segue il Wadi Musa, il fiume di Mosè, e dinanzi ai suoi occhi si succedono facciate, capitelli e decorazioni scolpite nella pietra arenaria. Ma non può esternare la sua gioia. Per la sua guida, è lo sceicco Ibrahim ibn Abdallah, un pio studioso del Corano giunto sino a questo luogo per mantenere una promessa.
La città delle leggende Se il sito era stupefacente, le storie che su di esso circolavano nella regione non erano meno straordinarie. Uno dei racconti che contribuivano
64 a.C.
363 d.C.
Pompeo Magno obbliga il regno nabateo a riconoscere l’autorità di Roma. Nei decenni seguenti Petra raggiunge il massimo splendore. Nel 106 d.C., Traiano annette i domini nabatei all’Impero romano.
Petra, divenuta città dell’Impero romano d’Oriente, viene colpita da un forte terremoto che causa gravi danni alla città e ai monumenti, che non sono ricostruiti. La città viene lentamente abbandonata.
700-1096 Dopo la conquista islamica, Petra diventa un semplice villaggio, e lo rimarrà per vari secoli. Ai tempi della prima crociata è occupata da Baldovino di Boulogne, e farà parte della baronia di al-Karak.
a dare un’aura magica alla città sconosciuta si riferiva all’impressionante monumento che aveva dato il benvenuto all’orientalista svizzero. Gli arabi lo chiamavano al-Khazneh, «il Tesoro», a causa di una leggenda secondo la quale dei ladri vi nascosero il tesoro di un faraone. Questo spiega perché alcuni beduini avessero cercato di distruggere parecchi dei coronamenti che adornano l’edificio per tentare di impossessarsi delle ricchezze custodite all’interno. Oggi sappiamo che probabilmente fu la tomba di un re del I secolo d.C., forse del nabateo Areta IV. L’interno è costituito da una sala funeraria a pianta quadrata, priva di
Con il trionfo di Saladino sui crociati, nel 1187, Petra torna nelle mani dell’Islam. Un pellegrino tedesco di nome Thetmar dice di essere passato vicino alla città, e il sultano Baybars l’attraversa in una delle sue campagne contro i turchi.
LA CITTÀ CRISTIANA
Mosaico che raffigura l’autunno. Dal 330, Petra entrò a far parte dell’Impero romano d’Oriente e nella città vennero erette chiese decorate con mosaici, nello stile romano.
1812 Dopo secoli di oblio, Petra viene riscoperta dall’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt, che nel suo viaggio nella regione aveva sentito parlare di rovine meravigliose e, travestito da musulmano, visita l’antica capitale nabatea.
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decorazione. Forse Burckhardt poté ascoltare anche la storia del Qasr al-Bint Faroun, il palazzo della figlia del faraone, una principessa che promise di sposare colui che fosse riuscito a portare l’acqua fino al suo palazzo. In realtà, questa costruzione nabatea – l’unica ancora in piedi di quelle non scolpite nella roccia – è un grande tempio tetrastilo (con quattro colonne sulla facciata), probabilmente dedicato al culto delle divinità locali Dushara e Al Uzza. Le leggende dei nativi conservavano la patina di mistero che avvolgeva la città rosa, le cui radici affondano nel
IL CROCEVIA DEL DESERTO Ed-Deir, il Monastero
Triclinio del Leone Tempio dei Leoni Alati
È l’edificio più antico di Petra e anche il più grande: misura 48 m in altezza e 46 in larghezza; la cupola è alta 9 m. Risale al III secolo a.C.
Via colonnata
Qasr al-Bint È considerato il principale santuario di Petra, costruito tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Forse era dedicato a Dushara, il principale dio dei nabatei.
Tomba del Soldato Romano Prende il nome dalla statua che domina la facciata, che l’armatura fa sembrare un ufficiale d’alto rango. Di stile romano, è del II secolo.
Teatro Scavato nella roccia dai nabatei verso il I secolo a.C., fu ampliato dai romani. Poteva ospitare dai 6000 agli 8000 spettatori.
Tomba Rinascimentale
Tomba del Giardino Non sappiamo se il piccolo edificio fosse una tomba o un triclinio. Il portico, non molto elaborato, è adornato da due colonne.
Altare dei sacrifici
La leggendaria Petra fu la fastosa capitale del regno dei nabatei. La città prosperò soprattutto durante il I secolo a.C. grazie alla sua posizione privilegiata all’incrocio delle rotte carovaniere più importanti del Vicino Oriente, e alla grandissima abilità dei nabatei nell’arte di captare e distribuire l’acqua. La straordinaria ricchezza di Petra permise ai suoi abitanti di costruire edifici magnifici e tombe monumentali.
Tomba di Seta
Tomba dell’Urna È la prima di quelle che sono note come Tombe Reali e luogo di sepoltura del re Malichus II. Ha una maestosa facciata e ampie sale interne.
Tomba di Sextus Florentinus
Tomba Corinzia La sua facciata ricorda quella del Tesoro, anche se è più deteriorata. Prende il nome dall’ordine dei capitelli delle colonne che la adornano.
Tomba di Uneishu
Tomba degli Obelischi Prende il nome dai quattro obelischi che la coronano. Fu costruita sopra un triclinio, o luogo nel quale si tenevano i banchetti funebri.
Tomba del Palazzo È la tomba più monumentale di Petra, alta 45 m e larga 49, ed è a tre piani. Il piano più alto è composto da diciotto colonne.
al-Khazneh, il Tesoro Forse il re Areta IV fu sepolto in questa tomba monumentale risalente al I secolo d.C. È alta 40 m e larga 28, ed è coronata da un’enorme urna.
ACUARELA DE JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE. © ÉDITIONS ERRANCE
Tiro
Mar Mediterraneo
Damasco
Lago di Tiberiade
LA META DELLE CAROVANE
Gerasa
Giaffa
Giordano
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Gerusalemme Gaza
Mar Morto
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IL GRANDE EMPORIO DEL VICINO ORIENTE
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a prosperità del regno nabateo, che aveva in Petra la sua capitale, si basava sugli ingenti profitti del commercio, in particolare di piante aromatiche (mirra, incenso, aloe) usate in profumeria e in medicina e provenienti dallo Yemen, di spezie, giunte dall’India o da ancor più lontano, e del bitume estratto dal Mar Morto, indispensabile per calafatare le imbarcazioni (ossia per impermeabilizzare lo scafo). A Petra tutti questi prodotti affluivano in lunghe carovane e da lì partivano per raggiungere i grandi mercati del bacino del Mediterraneo, come Roma o Alessandria d’Egitto. La ricchezza dei nabatei risvegliò la cupidigia dei loro vicini più prossimi: i seleucidi, la dinastia greca che alla fine del III secolo a.C. era succeduta ad Alessandro Magno nel governo del Vicino Oriente. Le truppe dei seleucidi attaccarono
in diverse occasioni il regno nabateo, che sopravvisse a queste incursioni e addirittura sconfisse i nemici; nell’84 a.C., il re seleucide Antioco XII morì combattendo contro i nabatei. In quell’epoca, approfittando dell’indebolimento dei seleucidi (impegnati in guerre civili e tormentati dai re del Ponto e dell’Armenia, oltre che dai giudei), i sovrani nabatei ampliarono i loro domini e portarono il regno alla sua massima espansione.
CARTOGRAFÍA: EOSGIS.COM
BURCKHARDT, ALIAS SCEICCO IBRAHIM
ART ARCHIVE
L’incisione ritrae lo scopritore di Petra, profondo conoscitore dell’Islam, travestito da devoto musulmano per compiere il suo viaggio. Museo della Marina, Parigi.
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tempo sino al 9000 a.C., data della prima occupazione del luogo. La Bibbia chiama Edom la regione in cui sorse Petra; lì si dice che gli edomiti erano discendenti di Esaù. Probabilmente appartenevano a popolazioni semitiche che, verso il XIII secolo a.C., irruppero da nord-est nell’area del Mar Morto e del golfo di Aqaba, vicino al quale si trova Petra, e forse si organizzarono in una confederazione di città in costante conflitto con gli ebrei. Molto più tardi giunsero i nabatei, secondo la Bibbia discendenti da Nebaioth, primogenito di Ismaele. Dall’Arabia, questi nomadi e commercianti arrivarono a Petra verso il IV secolo a.C., attirati dall’abbondanza d’acqua. Lì iniziarono una vita stanziale. Da esperti di ingegneria idraulica, crearono un sofisticato sistema di bacini artificiali e canalizzazioni. In questo modo, raccoglievano l’acqua piovana e di varie sorgenti e la ridistribuivano. Non è strano che la tradizione locale collochi a Petra il brano della Bibbia nel quale Mosè fa sgorgare acqua da una roccia, toccandola con il suo bastone (Esodo 17,
1-7); a quanto si diceva, l’angusta gola del Siq, attraverso la quale Burckhardt era arrivato a Petra, si formò quando Mosè colpì la roccia e nella montagna si aprì una gigantesca fenditura. Il regno nabateo prosperò con lo sviluppo delle rotte commerciali che univano l’India, la Persia e l’Arabia con la Mesopotamia, l’Egitto e la Fenicia. Questo carattere di crocevia commerciale favorì Petra e ne fece il centro dei territori nabatei per cinque secoli. File interminabili di dromedari carichi di spezie, sete e incenso attraversavano la Siria e il regno nabateo, che aveva in Petra la sua capitale e una fortezza inespugnabile. La posizione strategica della città permetteva ai nabatei di dominare la regione: in cambio di un pedaggio offrivano protezione e alloggio ai commercianti, che lì trovavano rifugio, cibo e, soprattutto, acqua, il bene più prezioso nelle regioni desertiche e che Petra possedeva in abbondanza.
Decadenza e oblio L’apogeo del regno dei nabatei corrispose agli inizi dell’Impero romano, all’epoca del re Areta IV, tra gli anni 9 a.C. e 40 d.C. Sembra molto
GONZALO AZUMENDI
probabile che durante questo periodo sia stata costruita la maggior parte dei monumenti di Petra. La città visse anni di incredibile prosperità come centro carovaniero e luogo di collegamento tra Oriente e Occidente, fino a quando Roma non si annetté i domini nabatei all’epoca dell’imperatore Traiano, nel 106 d.C., trasformandoli nella provincia romana dell’Arabia Petrea. L’importanza politica di Petra diminuì, giacché la capitale della nuova provincia era Bosra, e al contempo le rotte carovaniere si spostarono più a nord, verso la stessa Bosra, Gerasa e Palmira. Petra perse la sua egemonia nella regione e si avviò verso un lento declino. L’antica città nabatea oppose una tenace resistenza all’oblio, e fu anche capitale di una delle province dell’Impero bizantino, che in Oriente succedette all’Impero romano. Quando, però, questo cadde per mano dei musulmani, nel VII secolo, Petra scomparve come città. Il luogo – che vari terremoti avevano trasformato in un paesaggio di rovine – divenne noto come Wadi Musa nei testi dei crociati, dove è anche menzionato il monastero di Sant’Aronne, si-
tuato sul monte che gli arabi chiamavano Jebel Harun, dove si diceva che si trovasse la tomba di Aronne, il fratello di Mosè. Nel XII secolo, il sultano Saladino strappò ai cristiani la maggior parte della Terrasanta. Wadi Musa fu abbandonato e Jebel Harun divenne un remoto luogo di pellegrinaggio musulmano. Tuttavia, vi fu qualcuno che rimase fedele a Petra: i beduini. Re e signori della regione, essi usavano la città come rifugio e vietavano l’ingresso a qualsiasi straniero; fu in questo modo che riuscirono a mantenere praticamente segreta la sua esistenza. E continuò così fino al XIX secolo, quando l’espansione coloniale europea si diede la mano con la ricerca di ambienti esotici propria del romanticismo, e le fantasmagoriche rovine delle civiltà perdute risvegliarono l’entusiasmo di studiosi e viaggiatori. Fu allora che entrò in scena Burckhardt. Nato nel 1784 a Losanna, in una famiglia agiata, nel 1806 si trasferì in Inghilterra per ampliare le sue conoscenze. Studiò arabo all’Università di Cambridge, poiché aveva intenzione di dedicarsi all’esplorazione dell’Africa, e a Londra
UNA METROPOLI FATTA DI PIETRA
A Petra si trovano tombe, templi e abitazioni, che sorgono gli uni accanto agli altri. L’aumento della popolazione spinse a scavare le case accanto a tombe più antiche.
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Tomba degli Obelischi
LA CITTÀ ALL’APOGEO Tombe reali
Tomba del Palazzo
Via Colonnata
Tempio dei Leoni Alati
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Al-Khazneh
Morti e vivi condividevano lo spazio a Petra, la capitale del regno dei nabatei. Situata su un terreno arido e ondulato, la città era ricca di grandi templi e edifici pubblici situati su ambo i lati di una grande via colonnata che divideva in due il cuore dell’insediamento. I nabatei scavarono le loro tombe nella roccia e fecero della loro capitale, circondata da montagne di pietra in pieno deserto, una città sontuosa.
Teatro principale El-Siq Viale delle Facciate Tomba del Soldato
Mercato superiore
Giardini con piscina (Petra Pool Complex) Grande tempio del Sud
Qasr al-Bint Farun
Ed-Deir Wadi Musa
LA TOMBA DEGLI OBELISCHI, A PETRA, COSÌ COME LA POSSIAMO VEDERE OGGI.
UN REGNO PER I DEFUNTI
UN LUOGO DI MILLE SEPOLTURE
Q
uando Burckhardt giunse a Petra nell’agosto del 1812, notò che gran parte delle costruzioni che vedeva era legata al mondo funerario. Si rese conto anche dell’importante influenza greca che le caratterizzava; non per nulla, Petra si trovava nell’ambito culturale delle monarchie ellenistiche, come i seleucidi o i tolomei dell’Egitto. Data la vicinanza di questo Paese, non sorprende che avesse notato che «in altri mausolei si scorgono obelischi, apparentemente di stile egizio». È il caso di quella che è nota come Tomba degli Obelischi e triclinio di Bab al-Siq, il primo grande complesso funerario che si scorge prima di entrare nella città di pietra. A differenza di altre tombe, in essa si fondono tomba e triclinio (luogo in cui si celebravano i banchetti funebri). Petra ospita più di seicento
tombe scavate nelle pareti rocciose, che vanno dalle camere funerarie senza alcuna decorazione all’esterno, con loculi o nicchie destinate a custodire al loro interno i corpi dei defunti, alle cosiddette “tombe a facciata” splendidamente scolpite, il cui interno era rivestito da uno strato di stucco o gesso. Inoltre, vi sono venticinque tombe a torre e centinaia di sepolcri più semplici scavati nel terreno, a fossa e a pozzo.
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LA MODA NABATEA
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Testa di figura nabatea, con un berretto frigio e barba e capelli a riccioli, che presenta influenze orientali nell’abbigliamento. Museo di Amman.
entrò a far parte dell’African Association, che si dedicava all’esplorazione dell’occidente africano. Questo era anche l’obiettivo di Burckhardt, al quale venne affidato il compito di trovare le sorgenti del fiume Niger, partendo dal Cairo. Prima di portare a termine la sua missione doveva completare i suoi studi sulla religione islamica e la lingua araba, e gli fu concesso uno stanziamento che gli permise di recarsi in Siria a questo scopo. Giunto in Oriente nel 1809, assunse la falsa identità di Ibrahim ibn Abdallah, un commerciante musulmano proveniente dall’India, il che gli avrebbe permesso di eludere i sospetti sul suo accento particolare quando parlava arabo, attribuendolo alle sue origini indiane. Quattro anni dopo, avendo già esplorato la Siria e ritenendo di conoscere a sufficienza i costumi, la religione e l’idioma degli arabi, decise di partire verso Il Cairo. Non avrebbe però percorso la via consueta, lungo la costa, ma sarebbe passato dall’interno, al di là del Mar Morto, un territorio praticamente sconosciuto per gli
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occidentali. Come scrisse nelle sue memorie di viaggio, era animato dal desiderio di completare la sua formazione «e, allo stesso tempo, ottenere informazioni relative alla geografia di un’area sconosciuta».
L’odissea del falso pellegrino Il 18 giugno del 1812 partì da Damasco e iniziò la sua avventura, che lo portò nei territori dell’attuale Giordania. Lì sentì la gente del posto parlare di una città situata nei pressi del Monte Hor (Jebel Harun), dove si trovava la tomba di Aronne. Burckhardt, che aveva letto i classici – Diodoro Siculo, Strabone, Giuseppe Flavio –, comprese che questa leggenda poteva non discostarsi molto dalla realtà e decise di provare a verificare se tale «città perduta» esisteva realmente. Vestito con indumenti arabi, si fece passare per un pellegrino che doveva compiere il voto di sacrificare un capretto davanti al mausoleo del fratello di Mosè. In questo modo riuscì a contattare una guida locale e poté addentrarsi nel territorio dei diffidenti beduini. Sempre all’erta per non essere smascherato,
Nella nicchia rettangolare si trova una statua di taglio classico: una figura maschile con indosso quello che sembra un mantello greco o una toga romana.
Il sepolcro. Lo studio delle modanature del sepolcro ha permesso di fissare una possibile cronologia della costruzione: il regno di Malco II (40-70 d.C.).
I quattro enormi obelischi che decorano la facciata spinsero i viaggiatori europei del xix secolo a dare a questa tomba il nome con il quale la conosciamo oggi. La facciata del triclinio. Nell’aspetto ricorda un tempio classico. Nella fascia superiore, sei lesene reggono un frontone bipartito. La porta è fiancheggiata da quattro colonne e due lesene che sorreggono un fregio e un frontone semicircolare.
Sue due lati del triclinio si aprono camere funerarie di dimensioni ridotte, con sepolture a fossa all’interno.
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prese la via del deserto, deciso a svelare l’enigma di quel luogo misterioso. Alla fine giunse a una profonda gola, il cui ingresso era seminascosto dalla vegetazione. Senza immaginare che si trattasse del Siq, l’accesso a Petra, vi si addentrò per scoprire, quando uscì dalle ombre, la facciata del Tesoro. Era appena diventato il primo occidentale che, dopo sette secoli, posava gli occhi sull’incredibile città dei nabatei. Era il 12 agosto del 1812. Mantenersi impassibile davanti a tali meraviglie era molto difficile, e Burckhardt non poté fare a meno di esaminare alcune costruzioni e prendere qualche appunto nel suo diario, il che allertò la sua guida. Forse lo sceicco Ibrahim era un infedele che era andato lì in cerca di tesori? Per non destare sospetti, il viaggiatore svizzero si soffermò soltanto poche ore a Petra poi proseguì il cammino verso la sua presunta meta sul Monte Hor, dove eseguì il sacrificio che aveva annunciato. Nella lettera che inviò all’African Association una volta giunto al Cairo, nel mese di settembre, scriveva: «A una distanza di due giorni di cavallo
a nord-est di Aqaba vi sono un fiumiciattolo e una valle nei monti Jebel Shera [...] chiamato Wadi Musa. Si tratta di una zona molto attraente per le sue antichità e i resti di una remota città che, se le mie congetture sono esatte, è Petra, capitale dell’Arabia Petrea e un posto mai visitato dagli esploratori europei. Nella pietra arenaria rossiccia che forma la valle si osservano oltre duecentocinquanta sepolcri scavati nella roccia, in gran parte decorati con motivi greci». Oggi sappiamo che la città dimenticata era, effettivamente, Petra. Tuttavia, Burckhardt non ebbe mai modo di farvi ritorno per verificare la sua intuizione: morì infatti cinque anni dopo, mentre si trovava al Cairo, proprio quando era infine pronto ad attraversare l’Africa fino al Paese del Niger.
LA TOMBA DEGLI OBELISCHI
Ricostruzione della Tomba degli Obelischi così come doveva essere poco dopo la sua edificazione, avvenuta tra il 40 e il 70 d.C.
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ED-DEIR, IL MONASTERO MISTERIOSO
Tutti i capitelli della facciata sono genuinamente nabatei. È un altro tratto che la distingue dalla facciata del tempio di al-Khazneh, poiché là i capitelli erano floreali.
Vicino a Ed-Deir fu scoperta un’iscrizione che contiene un riferimento a «Oboda, il dio», il che potrebbe significare che la divinità ivi venerata fosse il re nabateo, divinizzato dopo la morte. Questo potrebbe collegarsi con il fatto che in epoca bizantina l’edificio fosse utilizzato come chiesa.
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La facciata di ed-Deir (monastero in arabo) fu costruita scavando sul fianco della montagna sino a raggiungere una profondità di circa 15 metri. Se si eccettua l’erosione provocata dal vento, questo monumento è uno dei più impressionanti e meglio conservati di Petra. Fu costruito probabilmente all’epoca del regno di Rabbel II (70-106 d.C.). Non si sa quale fosse la sua funzione, ma di certo doveva essere di primo piano, viste le dimensioni e l’importanza degli elementi decorativi. Attualmente si ritiene che avesse una finalità religiosa e che il piedistallo nella nicchia all’interno fosse una base su cui si collocava il betilo o pietra sacra che indicava la presenza della divinità.
L’urna che corona il tempio misura 9 metri. Le sue dimensioni ne fanno il degno ornamento per un tempio colossale.
Un fregio dorico con metope e triglifi ricorre in tutta la decorazione delle tre grandi strutture del secondo ordine. Sui due lati del tholos centrale, le strutture rettangolari sono fiancheggiate da lesene. Questi tre elementi architettonici definiscono la parte superiore della facciata.
T
Tutte le nicchie (della parte inferiore e superiore) conservano i piedistalli, dove di certo erano poste delle statue.
Il portale del tempio, la porta che dava accesso all’interno, era preceduto da una scalinata.
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Gli spettacoli più grandiosi nell’Impero
NAUMACHIE La ricostruzione delle grandi e sanguinose battaglie navali negli anfiteatri
LA NAUMACHIA
Il dipinto del pittore spagnolo Ulpiano Checa ricostruisce una naumachia a Roma al cospetto dell’imperatore. 1894. Museo Ulpiano Checa, Colmenar de Oreja. MUSEO ULPIANO CHECA, COLMENAR DE OREJA
MARÍA ENGRACIA MUÑOZ-SANTOS
ARCHEOLOGA E RICERCATRICE
A ROMA
nei e luoghi pubblici trasformati in bacini artificiali
C R O N O LO G I A
Il grande spettacolo di Roma 46 a.C.
Giulio Cesare organizza una battaglia navale in un lago artificiale del Campo Marzio: è la prima naumachia della storia romana.
2 a.C.
L’imperatore Augusto celebra una grande naumachia nell’attuale zona diTrastevere per festeggiare l’inaugurazione del tempio di Marte Ultore.
52
Claudio organizza una naumachia sul lago Fucino, un centinaio di chilometri a est di Roma, per celebrare l’inizio dei lavori di prosciugamento.
57
Si celebra una naumachia nell’anfiteatro ligneo del Campo Marzio per volere di Nerone; nel 64 l’imperatore ne organizza un’altra.
80
Per celebrare l’inaugurazione del Colosseo, Tito organizza due naumachie, una nell’anfiteatro e l’altra sul lago artificiale di Augusto.
109
In un bacino nei pressi del colle del Vaticano, l’imperatore Traiano celebra con una naumachia il suo trionfo su daci e arabi.
248
Per commemorare il millenario della fondazione di Roma, Filippo l’Arabo organizza giochi fastosi, che comprendono una naumachia. SCALA, FIRENZE
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L’ARTE DELLA PROPAGANDA
Busto di Cesare. Nella naumachia organizzata per celebrare le sue vittorie, i combattenti erano prigionieri di guerra. Musei Vaticani.
N
el 46 a.C., Giulio Cesare tornò a Roma dopo aver ottenuto una vittoria decisiva sui seguaci del suo grande rivale, Pompeo. Designato dittatore, Cesare organizzò una serie di celebrazioni varie e fastose. Per 40 giorni vi furono corse di cavalli, musica, teatro, battaglie con soldati, combattimenti di belve feroci. Forse, però, il momento culminante dei festeggiamenti ebbe luogo nella Palus Caprae (palude delle capre) nel Campo Marzio, che egli ordinò di riempire con l’acqua del Tevere. Lì, due flotte formate da biremi, triremi e quadriremi, con 4000 rematori e 2000 membri di equipaggio a bordo, si affrontarono in un’autentica battaglia navale sotto lo sguardo meravigliato dei romani. La novità dello spettacolo suscitò un’enorme attesa. Svetonio ci racconta che accorsero genti da ogni angolo d’Italia, e che nelle zone circostanti furono montate tende e le strade brulicavano di prostitute, ladri e allibratori. La folla era tale che vi fu addirittura chi la notte prima dell’evento dormì in strada pur di assi-
DEA / ALBUM
BATTAGLIA NAVALE IN UN AFFRESCO DELLA CASA DEI VETTII A POMPEI. I SECOLO.
NAUMACHIE PRIVATE Da quando, nell’anno 82, Domiziano fece costruire i sotterranei dell’anfiteatro Flavio, il Colosseo non poté più essere utilizzato per le naumachie.
curarsi una buona visuale. Alcuni, tra i quali anche due senatori, morirono per asfissia o schiacciati nella ressa. Fu la prima naumachia di cui si abbia notizia nella storia di Roma.
Ricostruzioni di battaglie
ACCANTO ALLE NAUMACHIE pubbliche, si tenevano spettacoli simili organizzati per diletto da privati cittadini. Nell’Epistola a Massimo Lollio, Orazio descrive il giovane amico che con il fratello si diverte ad allestire naumachie su piccola scala nello specchio d’acqua della tenuta agricola del padre, con due flottiglie di imbarcazioni e giovani schiavi, mettendo in scena la battaglia di Azio.
naumachia di Cesare, per esempio, le due flotte rappresentavano rispettivamente tirii ed egizi, due grandi nemici di Roma. Tra molte altre, vennero messe in scena anche battaglie tra ateniesi e persiani o tra rodiesi e siculi. Questo non significa che lo spettacolo fosse una semplice simulazione. Al contrario, si trattava di veri e propri combattimenti nei quali violenza, sangue e annegamenti erano una costante, uno spettacolo terribile e macabro quanto le lotte di gladiatori. Per questo motivo, i combattenti erano prigionieri di guerra e condannati a morte, anche se potevano partecipare anche uomini liberi; in effetti è dimostrato che alla naumachia di Cesare prese parte addirittura un pretore. La celebrazione di una naumachia richiedeva una grande pianificazione, oltre a un’infrastruttura gigantesca e molto costosa, e ciò spiega il motivo per cui se ne contino soltanto una decina dopo quella organizzata da Cesare. Per poter mettere in scena una nau-
VITTORIA NAVALE
Il cammeo commemora la vittoria del futuro imperatore Augusto su Marco Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
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Le naumachie erano uno dei tanti svaghi dei romani, come le lotte di gladiatori (munera gladiatoria) e la caccia agli animali esotici (venatio). Tutti questi spettacoli, che attiravano migliaia di persone di ogni classe sociale, non servivano soltanto per intrattenere, ma anche per sfoggiare le virtù virili tanto apprezzate dai romani– la gloria, il coraggio, la resistenza, il valore –, e allo stesso tempo rendevano evidente agli avversari la grande ricchezza di Roma e il suo potere, la forza della civiltà romana. La naumachia fu lo spettacolo più complesso tra quelli messi in scena nell’antica Roma. Si trattava della rappresentazione teatrale di una battaglia che aveva avuto luogo realmente nel passato, al punto che i partecipanti (chiamati naumachiarii) si vestivano con le uniformi dei due schieramenti opposti. Nella già citata
DIETER SCHAEFER / GETTY IMAGES
IL COLOSSEO
DEA
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AQUA CLAUDIA. L’ACQUEDOTTO RIFORNIVA LA PARTE EST DI ROMA, DOVE SORGE IL COLOSSEO.
RICCARDO AUCI / VISIVALAB
Inondare il Colosseo in 76 minuti
UNO DEI COLLETTORI DEL COLOSSEO SCOPERTI SOTTO L’ARENA, E CHE OGGI SONO INTERRATI.
lare quanto tempo si impiegherebbe a inondare d’acqua l’arena del Colosseo per celebrare le naumachie. Poiché l’acqua dovrebbe avere una profondità di almeno 1,50 m, necessaria per il galleggiamento delle navi, e tenendo conto delle dimensioni dell’arena (80 x 45 m), erano necessari circa 4241 m3 d’acqua per riempire l’anfiteatro. Contando che l’acquedotto dell’Aqua Claudia poteva raggiungere la portata di 2,12 m3 al secondo, l’arena del Colosseo si poteva riempire in pochissimo tempo, dai 34 ai 76 minuti, anche se una stima più moderata aumenta il tempo fino a 6 o 7 ore. Grazie a una struttura in legno
STEPHEN ALVAREZ / NGS
GLI ARCHEOLOGI hanno cercato di calco-
e a un sistema di saracinesche, l’acqua – che cadeva all’interno attraverso numerosi canali – raggiungeva la pressione corretta. Lo svuotamento avveniva in modo non meno rapido, attraverso 18 collettori distribuiti nell’arena. Tutti
questi vennero interrati all’epoca di Domiziano, nell’anno 82, quando furono costruite le enormi strutture di pietra sotto l’arena (l’ipogeo) che da allora in poi resero impossibile l’organizzazione di naumachie nell’anfiteatro Flavio.
IL LAGO FUCINO. ATLANTE DI IGNAZIO DANTI. XVI SECOLO. GALLERIA DELLE CARTE GEOGRAFICHE, VATICANO.
BATTAGLIA NAVALE NELL’APPENNINO
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SCALA, FIRENZE
ulla naumachia organizzata dall’imperatore Claudio sulle acque del lago Fucino, nell’anno 52, gli storici romani raccolsero diversi aneddoti. Ecco, per esempio, che cosa narra Svetonio: «Quando i combattenti gridarono: “Ave, Caesar, morituri te salutant” egli rispose: “Magari no!” A queste parole, come se avesse concesso loro la grazia, alcuni di loro non vollero più battersi; allora stette per un po’ a domandarsi se non dovesse farli ammazzare tutti col ferro e col fuoco, poi alla fine si alzò dal suo posto e correndo qua e là attorno al lago, ora minacciando, ora esortando, non senza una certa esitazione ridicola, li spinse alla battaglia». Davanti a una grande folla, il combattimento ebbe inizio «al suono di una tromba uscita da un tritone d’argento che un congegno aveva fatto sorgere in mezzo al lago».
machia dovevano esistere diverse condizioni favorevoli: avere un’ingente quantità di denaro da spendere, disporre di un luogo appropriato, costruire le imbarcazioni che vi avrebbero preso parte e poter contare su un numero sufficiente di prigionieri.
La ricerca dello scenario migliore Un primo vincolo era il luogo in cui celebrare la naumachia. Naturalmente, era possibile organizzarla in acque libere, che fossero un fiume o il mare, ma questa scelta aveva l’inconveniente di limitare la visione degli spettatori. L’unica testimonianza che abbiamo di una naumachia in mare riguarda quella che nel 40 a.C. il figlio minore di Pompeo, Sesto, celebrò nello stretto di Messina per commemorare una vittoria navale sui legati di Augusto. I nemici di Sesto furono costretti a vedere i loro compagni d’armi cadere nella macabra rappresentazione. Una naumachia che ebbe una risonanza particolare fu quella organizzata dall’imperatore Claudio nel 52 sul lago Fucino per celebrare l’inizio dei lavori di prosciugamento del lago
stesso. La battaglia vide scontrarsi una flotta della Sicilia e una di Rodi, ciascuna composta da dodici triremi e con un totale di 19.000 combattenti impegnati, secondo quanto narra Tacito. Come sempre, i soldati erano reclutati tra criminali e prigionieri, e per costringerli a combattere erano stati dispiegati, sui pontoni attorno al lago, squadroni delle coorti pretoriane armati di catapulte e balestre. Tacito, nei suoi Annales, scrive: «Si combatté da valorosi, benché fossero criminali, così dopo molto spargimento di sangue, furono sottratti alla morte». Tuttavia, era molto più consueto che le naumachie avessero luogo in uno spazio allestito appositamente, una conca di grandi dimensioni che veniva riempita d’acqua e attorno alla quale si disponevano le gradinate per gli spettatori. Cesare, come detto in precedenza, organizzò la sua in una zona del Campo Marzio, in DEA / A L B UM un grande bacino che fu
BARCHE DA GUERRA
Rilievo con trireme. Alle naumachie prendeva parte un numero variabile di imbarcazioni, come biremi o triremi, a seconda delle dimensioni dello scenario in cui erano allestite. Museo della Civiltà Romana, Roma.
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LA NAUMACHIA DI DOMIZIANO
L’incisione, tratta dall’opera Fondamenti di una storia dell’architettura, di Johann Bernhard Fischer (1721), ricostruisce una naumachia celebrata da Domiziano nel Colosseo e descritta da Svetonio.
riempito poco prima dell’evento, di certo per evitare il rischio delle malattie dovute all’acqua stagnante. Alcuni anni dopo, Augusto creò un grande lago artificiale sulla sponda destra del Tevere, nel luogo chiamato Nemus Caesarum (bosco dei Cesari), per allestire una nuova naumachia, questa volta per celebrare l’inaugurazione del tempio di Marte Ultore (vendicatore). Per un secolo, la naumachia di Augusto (il termine“naumachia”designava anche il luogo in cui si teneva lo spettacolo) divenne l’unica installazione stabile di Roma per rappresentazioni di questo tipo. Quando si parla di naumachie, però, l’immagine che viene alla mente è quella di un anfiteatro colmo d’acqua. Il primo esempio di questo tipo di naumachia si riscontra durante il governo di Nerone, che nel 57 organizzò uno spettacolo acquatico in un anfiteatro di pietra e legno che aveva fatto costruire nel Campo Marzio. Qualche anno dopo, nel 64, Nerone organizzò una nuova naumachia nello stesso anfiteatro, lasciando gli spettatori meravi-
LE ULTIME NAUMACHIE
Traiano fu uno degli ultimi imperatori a organizzare naumachie. Nei Fasti ostienses è menzionato uno di questi eventi celebrato dall’imperatore. Rovescio di una moneta di Traiano con la basilica Ulpia. Musei Capitolini, Roma.
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gliati per la rapidità con cui il recinto venne colmato e poi svuotato, giacché lo spettacolo ebbe luogo tra altri due eventi in programma quel giorno: una caccia alle belve e dei giochi gladiatori. Soltanto qualche mese dopo, tuttavia, l’anfiteatro fu distrutto nel tristemente famoso incendio di Roma.
Battaglie al Colosseo Nell’anno 80 venne inaugurato l’anfiteatro Flavio, il Colosseo, e per festeggiare l’imperatore Tito decise di celebrare due naumachie: una sul lago artificiale creato da Augusto, e la seconda nello stesso Colosseo. Dobbiamo tenere presente che nei primi anni di attività dell’anfiteatro Flavio non esistevano ancora le complesse infrastrutture sotterranee costruirte successivamente da Domiziano, e che avrebbero poi impedito di poter nuovamente trasformare l’arena in una piscina navigabile. Il Colosseo fu costruito sfruttando lo spazio lasciato dal lago della Domus Aurea, il palazzo di Nerone, e ciò probabilmente
NAMUR ARCHIVE / SCALA, FIRENZE. COLORE: SANTI PEREZ
O. GARCÍA BAYERRI / AGE FOTOSTOCK
CIRCO ROMANO DI MÉRIDA. SECONDO UN’ISCRIZIONE, QUI SI TENNE ALMENO UNA NAUMACHIA.
rese più facile l’afflusso e il deflusso dell’acqua, che avvenivano attraverso una serie di canalizzazioni e collettori che sono stati localizzati dagli archeologi. Le fonti citano qualche altra naumachia, come quella organizzata da Traiano per celebrare le sue vittorie sui daci e in Arabia, descritta nella Historia Augusta. Lo spettacolo ebbe luogo in un bacino vicino alla collina del Vaticano, i cui resti vennero localizzati nel corso di scavi condotti nel XVIII secolo presso Castel Sant’Angelo. L’ultimo riferimento a queste celebrazioni corrisponde al 248, anno in cui l’imperatore Filippo l’Arabo festeggiò il millenario della fondazione di Roma con una naumachia nel luogo in cui un tempo si trovava il lago artificiale costruito da Augusto. Le naumachie furono spettacoli relativamente rari, ma forse proprio per questo motivo divennero leggendarie, anche dopo l’epoca imperiale. Secoli dopo venivano ancora ricordate come uno dei massimi esempi della megalomania degli imperatori e del genio romano per l’architettura e le opere di
NAUMACHIE A MÉRIDA UNA LAPIDE CONSERVATA nel Museo Romano di Mérida contiene
un’iscrizione sul rimodellamento del circo della città, secondo la quale esso fu «ricostruito con nuove colonne, circondato da costruzioni ornamentali e inondato con acqua». La menzione dell’allagamento è stata interpretata come una prova del fatto che il circo venne utilizzato per organizzare naumachie, almeno per la sua inaugurazione.
ingegneria, soprattutto idraulica, rivolti agli spettacoli di massa. Non sorprende, dunque, che a partire dal Rinascimento diversi principi vollero emulare le fastose naumachie degli antichi. In Spagna, per esempio, nel XVII secolo si celebrarono spettacoli simili nel Parque del Retiro di Madrid e a Valencia, sul fiume Turia. In Italia, è celebre la naumachia organizzata a Milano nel 1807 in occasione dell’inaugurazione dell’Arena; allo spettacolo assisté Napoleone Bonaparte, che aveva commissionato la costruzione dell’anfiteatro, progettato da Luigi Canonica e che fu riempito con l’acqua dei Navigli e di una vicina roggia. Spettacoli, dunque, che rievocavano i fasti delle grandi naumachie romane, ma senza spargimento di sangue. Per saperne di più
SAGGI
Feste e spettacoli popolari Roland Auguet. Rizzoli, Milano, 1974. Vita romana Ugo Enrico Paoli. Mondadori, Milano, 1995.
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LA GRANDE NAUMACHIA
Nell’anno 2 a.C., l’imperatore Augusto organizzò una spettacolare battaglia
Augusto ordinò di rappresentare la battaglia di Salamina, che nel 480 a.C. mise di fronte greci e persiani.
Il bacino era rifornito dall’acqua proveniente dall’Aqua Alsietina, un nuovo acquedotto con una portata di 24.000 metri cubi al giorno.
Naumachia Augusti PER CELEBRARE l’inaugurazione del tempio di Marte
Ultore nel 2 a.C., l’imperatore Augusto fece realizzare un enorme bacino artificiale sulla sponda destra del Tevere, circondato da gradinate. Il complesso venne chiamato Naumachia Augusti e rimase in uso almeno sino alla fine del I secolo d.C (al tempo dei Severi era ormai distrutto). Qualche cenno descrittivo ci è dato dallo stesso Augusto e da Plinio, ma poiché non si sono conservati resti della struttura e non si conosce la sua ubicazione esatta, il disegno è solo una ricostruzione del tutto ipotetica.
DI AUGUSTO
nella quale si affrontarono circa trenta navi
Il bacino misurava, secondo Augusto, 533 x 355 m. Poiché la profondità doveva essere di almeno 1,5 m, conteneva 200.000 m3 d’acqua.
Le navi, a quanto pare, entravano nella laguna dal Tevere attraverso un canale navigabile.
«Allestii pel popolo uno spettacolo di combattimento navale al di là del Tevere, laddove ora c’è il bosco dei Cesari (scavato il terreno per 1800 piedi di lunghezza e per 1200 di larghezza). In esso vennero a conflitto trenta navi rostrate triremi o biremi, e, più numerose, di stazza minore; in questa flotta combatterono, a parte i rematori, circa tremila uomini.» augusto, res gestae ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE. © ÉDITIONS ERRANCE
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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La raffinata corte di Kyoto
IL GIAPPONE IMPERIALE Durante i quattrocento anni del periodo Heian, la città di Kyoto fu il centro di una corte imperiale completamente dedita all’arte e allo stile di vita più raffinato del periodo medievale dell’arcipelago IRENE SECO SERRA ORIENTALISTA
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el 795, l’imperatore Kammu trasferì la capitale del Giappone a Heian-kyo, la «capitale della Pace», più nota come Kyoto a partire dall’XI secolo. La crescente diffusione del buddhismo aveva fatto vacillare la stabilità dell’Impero, e la corte volle fuggire dall’influenza che i monaci esercitavano sulla città di Nara, la vecchia capitale. Ebbe così inizio il periodo Heian, fase che segnò per sempre lo sviluppo culturale dell’arcipelago. Heian-kyo fu costruita con una pianta a scacchiera, dove si incrociavano vie principali (oji) e vie secondarie (koji). Il palazzo imperiale, visibile da ogni punto della città, sorgeva nella parte nord, mentre il lato sud era dominato da due grandi templi. Quella fu anche l’epoca in cui si smise di prendere ispirazione da modelli cinesi e nacque uno stile giapponese che, con varie evoluzioni, da allora costituisce il cuore della cultura nipponica.
TEMPIO DELL’ACQUA PURA
Il Kiyomizu-dera, o Otowasan Kiyomizudera, si erge sulla cima di una collina di Kyoto. Fa parte di un complesso di templi buddhisti costruiti all’inizio del periodo Heian. CHIARA SALVADORI / GETTY IMAGES
POLVERE D’ORO SU SETA
Disegno giapponese del XIX secolo nello stile della dinastia cinese Song (960-1279). La cultura cinese esercitò una forte influenza sul Giappone fino al periodo Heian. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
LO STATO GIAPPONESE NACQUE SULL’ISOLA DI HONSHU, DOVE EBBE COME CAPITALI NARA, KYOTO (HEIAN-KYO) E TOKYO (EDO).
divisioni, per un totale di trenta tipi di cortigiani. Per accedere a questo sistema bisognava superare degli esami ufficiali, che tuttavia non erano necessari se una persona era di buona famiglia. Le donne erano dame di compagnia dell’imperatrice o di qualcuna delle concubine imperiali. Ad accomunare tutti, però, era il grande apprezzamento per le arti e l’estrema raffinatezza della loro vita quotidiana. I membri di questo mondo chiuso, dominato dal cerimoniale di palazzo, erano giudicati in base alla loro capacità di apprezzare e praticare quei valori estetici e spirituali.
Maestri dell’eleganza
CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
L’INIZIO DEL PERIODO HEIAN
Kammu fu il cinquantesimo imperatore della storia del Giappone e il primo del periodo Heian. Regnò dal 781 all’806. BRIDGEMAN / ACI
Questa fioritura culturale aveva un centro: la corte. E aveva anche dei protagonisti: circa tremila persone che, riunite attorno all’imperatore e all’imperatrice, costruirono un mondo chiuso e cerimonioso. Il governo centrale controllava il Paese mediante funzionari inviati nelle province, che supervisionavano l’esazione fiscale degli appezzamenti di terra pubblici e privati. Nonostante la condizione divina dell’imperatore, la corte Heian era praticamente dominata dalla famiglia Fujiwara, che acquisì il potere esecutivo e le cui dame furono consorti di quasi tutti gli imperatori. La corte era suddivisa in nove ceti, da quello più basso o soi ai più alti, i kugyo, a partire dal terzo. A sua volta, ogni ceto aveva varie sud-
Nelle epoche precedenti, l’abbigliamento, ispirato ai modelli cinesi, era relativamente semplice. Nel periodo Heian, però, si trasformò, facendosi sempre più elaborato, e si svilupparono modi di vestire che, più di mille anni dopo, sopravvivono in quello che oggi conosciamo come abbigliamento giapponese tradizionale. Le dame diedero vita a nuove mode, basate sulla sovrapposizione di strati di vesti molto larghe, i cui bordi si intravedevano nello scollo e nelle maniche. Queste vesti avevano una forma a T. Quella più interna, di colore bianco – il kosode o“manica [dall’apertura] piccola” –, si stringeva attorno alla vita con una fascia, mentre tutte le altre – gli osode o “manica [dall’apertura] grande” – si lasciavano aperte. Il nome scelto per queste vesti non è casuale. Le maniche sono un elemento fondamentale nella concezione giapponese dell’abbigliamento, al punto da diventare una metafora di chi le indossa. Per questo motivo, la poesia classica usa l’espressione tagasode – “Di chi sono queste maniche?” – per fare riferimento a una bella donna della quale si nota l’assenza. Sotto gli strati di vesti, le dame indossavano pantaloni larghi chiamati hakama, sovente rossi, mentre sopra potevano portare vesti
C R O N O LO G I A
DA HEIAN AGLI SHOGUN
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L’imperatore Kammu trasferisce la capitale a Heiankyo, l’attuale Kyoto; si apre un periodo di foritura culturale.
Il governo rompe i rapporti istituzionali con la Cina. Termina il lungo processo di assorbimento di usi e costumi del Paese vicino.
TEMPIO BYODO-IN
Costruito a Kyoto, nel 998, come residenza del potente Fujiwara no Michinaga, fu convertito in tempio buddhista da suo figlio, l’altrettanto potente Fujiwara no Yorimichi. JANE SWEENEY / AWL IMAGES
1002-1019
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1180-1185 470 A.C.
A corte, Murasaki Shikibu scrive Storia di Genji, e Sei Shonagon, le Note del guanciale, capolavori della letteratura giapponese.
Muore Fujiwara no Michinaga, il maggior rappresentante del controllo del clan Fujiwara sugli imperatori Heian.
Dopo lo scoppio della ribellione Hogen sale al potere la famiglia Taira, nemica dei clan Fujiwara e dei Minamoto.
Guerra Genpei: il clan facio, Bis. Valicer udaciest Minamoto i Taira. confertiumsconfigge qui cri strum Minamoto Yoritomo tem quod no cavo, Pala nonfes inaugura lo shogunato, egervid co hos fuissil un governo di carattere tandiurnic oportud.militare.
LA BELLEZZA FUGACE DELL’HANAMI
A
DIFFERENZA DEL MONDO occiden-
tale, i cui monumenti si costruivano per durare eternamente, nel Giappone medievale l’effimero divenne la condizione essenziale della bellezza. Su questa convinzione si costituirono i valori e la base di un’estetica e di una spiritualità che sotto molti aspetti perdurano ancora nel Giappone attuale, in cui i fiori più apprezzati sono quelli che meno tempo rimangono sui rami. E così, sin dal periodo Heian, tutte le primavere i giapponesi si riuniscono sotto gli alberi di ciliegio per ammirarne la fioritura, che dura solamente qualche giorno e rappresenta l’immagine migliore della concezione di bellezza fugace. È la festa di Hanami, la “contemplazione dei fiori”, una tradizione che fu adottata anche dall’imperatore Saga (786-842), la cui corte si riuniva sotto i ciliegi del palazzo imperiale.
HISHIKAWA MORONOBU RAFFIGURÒ UNA FAMIGLIA SOTTO I CILIEGI IN FIORE. INCISIONE DEL XVII SECOLO. MUSEO DI BELLE ARTI, BOSTON.
MUSEUM FINE ARTS, BOSTON / ART ARCHIVE
UN IMPERATORE GIOVANISSIMO
Daigo Tenno, sessantesimo imperatore del Giappone, regnò dall’897 al 930; salì al trono a soli dodici anni. BRIDGEMAN / ACI
che fungevano da soprabito, come il lungo kazami, o vesti più corte, o karaginu. Inoltre, nelle occasioni speciali, sopra tutto l’insieme legavano una gonna cerimoniale, dalla foggia simile a un grembiule, nota come mo, eredità di mode antichissime. I gentiluomini seguirono l’esempio delle dame e divennero anch’essi esperti nell’arte del vestire. Anche gli uomini indossavano i pantaloni hakama, ma potevano scegliere anche altri modelli, come gli ancor più larghi oguchi o gli elaborati sashinuki. Allo stesso modo delle donne, nella parte superiore indossavano vari strati di vesti, scelte con somma cura. Un brano delle Note del guanciale, nel capitolo 52, descrive così l’abbigliamento dell’elegantissimo consigliere Fujiwara no Tadanobu: «Il suo aspetto mentre mi veniva incontro era magnifico. La sua splendente cappa color ciliegia era foderata con un tessuto di una brillantezza e un tono deliziosi. Indossava pantaloni scuri color uva, decorati con una profusione di motivi a ramo di glicine. La sua veste scarlatta era tanto brillante che pareva emettere faville, e sotto di essa si potevano in-
dovinare strati e strati di indumenti di colore violetto […] Sembrava un cavaliere uscito da un quadro, o da un romanzo».
Più di un profumo Nel periodo Heian, l’incenso uscì dalla sfera puramente religiosa per diventare un passatempo dei cortigiani. Sebbene non fosse ancora nata l’arte del kodo o “via dell’incenso” – la cerimonia nella quale se ne apprezzava la fragranza –, le sostanze aromatiche godevano già di una considerazione speciale. Come nel mondo arabo di oggi, l’incenso Heian o takimono non si bruciava soltanto per profumare le stanze, ma anche per aromatizzare indumenti e accessori, e veniva usato come profumo. Ciascuno si pregiava di avere il proprio e sapeva riconoscere quelli altrui. Venivano organizzati veri e propri concorsi in cui i cortigiani presentavano la loro produzione, custodendo gelosamente il segreto delle ricette, e i risultati venivano presi molto sul serio. Sia le Note del guanciale sia la Storia di Genji dedicano capitoli alla descrizione di tali concorsi. Sono giunti sino a noi anche poemi dedicati alla fragranza dell’incenso, come
GIARDINI DEL TEMPIO DAIGO-JI
Alla fine del suo regno, al termine del sec. X, l’imperatore Daigo si ammalò e dovette abdicare. Poco dopo morì e questo tempio di Kyoto, dove sono i suoi resti, cambiò nome in suo onore. STUART BLACK / GETTY IMAGES
L’ABILITÀ NEL NASCONDERE LE EMOZIONI
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ON VI ERA NULLA di più volgare di
una dama Heian che mostrare in pubblico le proprie emozioni. Sebbene anni di pratica insegnassero a nasconderle straordinariamente bene, anche la più esperta poteva muovere involontariamente un elemento del volto, come le sopracciglia, che può rivelare molti sentimenti. Per evitare una tale catastrofe le dame scelsero di eliminarle completamente e sostituirle con due linee sfumate, dipinte sulla fronte più in alto rispetto alle sopracciglia naturali. Secondo alcuni, questa è la ragione per cui divenne popolare la pratica dell’hikimayu o la completa depilazione delle sopracciglia; secondo altri, fu adottata per facilitare la stesura del cerone bianco, di moda dall’VIII secolo. L’hikimayu diede origine a un modello di bellezza ancora oggi riproposto, per esempio, nelle maschere del teatro No.
IMMAGINE DEL XIX SECOLO CHE RITRAE UNA GIOVANE MENTRE SI RADE LE SOPRACCIGLIA ALLO SPECCHIO.
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
Si tratta della prima delle Dodici Monete Dinastiche che furono in circolazione tra i periodi Nara e Heian. Le monete erano in rame, e venivano usate per il pagamento delle imposte. British Museum, Londra. SCALA, FIRENZE
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questa piccola perla raccolta nella famosa antologia Kokinshu, di epoca Heian: Yado chikaku / Ume no hana ue ji /Aji kinaku /Natsu hito no ka ni / Ayama tarekeri: «Vicino a casa / Un ciliegio in fiore / Non pianterò più / Poiché confusi il suo aroma / Con le vesti profumate di colei che desidero». Per ottenere la miscela perfetta, come prima cosa si sceglieva uno dei sei grandi gruppi olfattivi in cui si classificavano gli incensi, tra i quali, come dice il poema, era particolarmente popolare il baika o fiore di ciliegio. Dopo di che si preparava una miscela personale su questa base, usando legni, resine e sostanze come per esempio cannella, chiodo di garofano o lavanda. La miscela veniva conservata in un vaso che si sotterrava in giardino o si appendeva sotto la gronda di un edificio affinché maturasse. Questo processo, che poteva durare anche diversi anni, conferiva all’incenso il suo profumo finale. I tornei di indovinelli erano un altro dei passatempi che i cortigiani Heian preparavano per settimane. Un giudice premiava i vincitori di ogni squadra con un piccolo og-
getto, che poteva avere un valore simbolico, ma che a volte era pregiato; alcuni usavano oggetti in oro e argento. Vinceva la squadra che accumulava il maggior numero di questi oggetti. A volte gli imperatori in persona si divertivano a partecipare al gioco. L’imperatore Daigo, per esempio, chiese di indovinare che cosa fosse «un arco disegnato nel cielo». La risposta era, naturalmente, «la luna crescente».
Scrivere con stile Prima del periodo Heian, esisteva soltanto il kanji, un sistema di ideogrammi derivato dal cinese nel quale ogni simbolo definisce un’idea. Con il periodo Heina apparvero i sistemi kana –l’hiragana e il katakana–, a base sillabica, in cui ogni sillaba è rappresentata da un logogramma. Questi metodi più semplici contribuirono a diffondere l’apprendimento della scrittura oltre la sfera degli esperti calligrafici. La comparsa dei sistemi sillabici hiragana e katakana facilitò enormemente la scrittura. Furono utilizzati soprattutto dalle donne, alle quali non era consentito usare gli ideogrammi. Fu così che le dame di corte di Kyoto diedero inizio a una vera età d’oro della letteratura
PAGINE: GRANGER / ALBUM. PENNELLO: AGE FOTOSTOCK. PERSONAGGI: BRIDGEMAN / ACI
MONETA WADO KAICHIN
IN QUESTE PAGINE, IL CALLIGRAFO FECE USO DEI TRE TIPI DI SCRITTURA GIAPPONESE: KANJI, HIRAGANA E KATAKANA.
L’ARTE DELLA CALLIGRAFIA NEL PERIODO HEIAN, l’atto di scrivere diven-
ne un’arte. Anche se non tutti potevano raggiungere la categoria semi-divina dei tre grandi calligrafi Heian – Ono no Michikaze, Fujiwara no Sukemasa e Fujiwara no Yukinara –, ciascuno si sforzava a seconda delle proprie possibilità. Gli strumenti di scrittura divennero oggetti di bella fattura e molto elaborati. Le “pietre” per sciogliere l’inchiostro, utensili di origine cinese che in Giappone si fabbricarono dapprima in argilla cotta, e poi in pietra a partire dal X secolo, erano oggetti IL PENNELLO molto apprezzati e si cuSI SCEGLIEVA A SECONDA DELLO stodivano in scatole speSTILE E DEL ciali, a volte laccate, assieCARATTERE CHE IL CALLIGRAFO me ai pennelli, all’inchioVOLEVA DARE ALLA SCRITTURA. stro e talvolta alla carta.
La pietra da inchiostro o suzuri Inventato in Cina, l’inchiostro per scrivere veniva prodotto sotto forma di barrette solide, fatte con carbone vegetale o fuliggine, e con agglutinanti come colle animali. La barretta veniva strofinata su una “pietra da inchiostro”, un recipiente rugoso con acqua nella quale l’inchiostro solido si scioglieva ed era così pronto all’uso.
PERSONAGGI DEL ROMANZO GENJI MONOGATARI CON UNA SCATOLA DI STRUMENTI D SCRITTURA. MUSEO GOTOH, TOKYO.
NELLA GUERRA GENPEI SI SCONTRARONO I CLAN TAIRA E MINAMOTO TRA GLI ANNI 1180 E 1185.
Il nuovo mondo dei guerrieri
AKG / ALBUM
UNA RELIGIONE IN ASCESA
Il buddhismo giunse in Giappone nel VI secolo e crebbe durante i periodi Nara e Heian. Buddha giapponese. XI secolo. Musée Guimet, Parigi. DEA / ALBUM
da compagnia, e il loro prestigio era tale che a corte alcuni arrivarono persino a godere di un titolo nobiliare. All’epoca di Sei Shonagon, l’autrice delle Note del guanciale, la gatta dell’imperatrice era uno di quegli animali con titolo nobiliare; era conosciuta come Dama Myobu (il termine Myobu designava le dame dal quinto rango della nobiltà in su). Probabilmente era uno dei gattini nati nel palazzo nell’anno 999, alla cui venuta al mondo avevano assistito niente meno che i Ministri della Destra e della Sinistra, due dei dignitari più importanti dello Stato. Un giorno, istigato per gioco dalla donna che si occupava di Myobu, un cane chiamato Okinamaro attaccò l’illustre gatta, che corse a rifuguarsi tra le braccia dell’imperatore in persona. La risposta non si fece attendere, e lo sventurato Okinamaro, sino ad allora amato da tutti e che in occasione delle festività veniva adornato con ghirlande di fiori, venne fustigato senza pietà fino a lasciarlo mezzo morto. Alla fine, tuttavia, ottenne il perdono ufficiale ed ebbe salva la vita.
giapponese, con opere del calibro di Genji Monogatari, la meravigliosa «Storia del Principe Splendente», o Makura no Soshi, le «Note del guanciale», un interessantissimo diario che ci offre uno scorcio della vita di corte. Oltre al contenuto, anche la presentazione dello scritto era della massima importanza. A volte si scrivevano poemi su ventagli, ma era più consueto scrivere lettere. Una lettera si poteva ripiegare formando un nodo dalle estremità volutamente diseguali che a volte si legava allo stelo di un fiore di stagione; era questa la presentazione più adeguata per le profumate missive d’amore.
Animali domestici aristocratici Cani e gatti facevano parte della vita quotidiana dei cortigiani Heian. Anche se non erano ancora nate le razze canine che oggi si considerano tipiche del Giappone, come il famoso Akita inu, già da migliaia di anni i cani erano diffusi in tutto l’arcipelago. I gatti, dal canto loro, giunsero in Giappone verso il VII secolo, e anch’essi erano relativamente numerosi; molti aristocratici li tenevano come animali
Dopo quest’epoca di tranquillità in cui la corte si lasciò sedurre dalle arti e dalla squisitezza estetica, si aprì nella storia del Giappone un’era basata su valori molto diversi. A metà del XII secolo, i Fujiwara cedettero il ruolo di primo piano ai due famosi clan Taira e Minamoto, che per cinque lunghi anni si disputarono il controllo del Paese. Dopo una parentesi in cui dominarono i Taira, alla fine furono i Minamoto a imporsi nel 1185, dando inizio a una nuova fase della storia giapponese, il periodo Kamakura. Fu così che cominciò un’età feudale che durò per sette secoli, fino al 1868. In questa nuova fase, caratterizzata dall’apogeo dei samurai e della casta dei guerrieri, l’imperatore perse il suo potere a beneficio dei capi militari, gli shogun, e la bellezza, l’eleganza e l’arte vennero messe da parte dalla spada.
Per saperne di più
TESTI
Storia di Genji Murasaki Shikibu. Einaudi, Torino, 2006. Diario di Murasaki Shikibu Murasaki Shikibu. Marsilio, Venezia, 2016. Note del guanciale Sei Shonagon. Edizioni SE, Milano, 2014.
TEMPIO TO-JI
Fu costruito soltanto due anni dopo il trasferimento della capitale a Kyoto. In seguito, durante il periodo Edo, fu eretta la pagoda di cinque piani e 55 metri di altezza, uno dei simboli della cittĂ . AARONCHENPS / GETTY IMAGES
FOTO: ART ARCHIVE
VERSO AKASHI. IN QUESTA SCENA DEL CAPITOLO 13, IL PRINCIPE GENJI SI DIRIGE VERSO LA CITTÀ DI AKASHI ACCOMPAGNATO DA UN MONACO. LÌ SI RENDERÀ CONTO DEL PROPRIO AMORE PER MURASAKI.
LA STORIA DI GENJI MURASAKI SHIKIBU, autrice di Genji Monogatari o Storia di Genji, era una dama della corte Heian, e questo ebbe un’influenza molto forte sulla scrittura della sua opera. Nel romanzo, considerato un capolavoro della letteratura giapponese – e universale –, Murasaki narra la vita di Hikaru Genji, figlio dell’imperatore. Per motivi politici, perde il diritto di successione e assistiamo dunque alla sua lotta per superare gli ostacoli che gli si presentano per recuperare il trono, e alle sue innumerevoli avventure amorose. Questo classico giapponese e il diario scritto da Murasaki (che visse tra il 978 e il 1014) sono un riflesso unico dello stile di vita e delle abitudini cortigiane del periodo Heian.
«Graziosa ma timida, schiva, scontrosa, appassionata di vecchie storie, presuntuosa, così avviluppata nella poesia che gli altri quasi non esistono, sprezzante verso il mondo intero – questa è la poco benevola opinione che la gente di me». DAL DIARIO DI MURASAKI (MURASAKI SHIKIBU NIKKI)
MURASAKI SHIKIBU, AUTRICE DEL GENJI MONOGATARI, SCRIVE IL SUO RACCONTO, ABBIGLIATA CON IL VESTITO CARATTERISTICO DELLE DAME DI CORTE. INCISIONE DI CHOSHUN MIYAGAWA (1683-1753).
«Per quanto fosse doloroso vederti partire di notte, / era molto meglio / che farlo quando la grigia luce dell’alba / tanto crudelmente ti strappa dal mio fianco». DALLA STORIA DI GENJI
Dalla sconfitta alla guerra santa
LE CROCIATE VISTE DAGLI ARABI La conquista di Gerusalemme da parte dei Crociati nel 1099 aprì una profonda ferita nel mondo islamico. Dopo l’iniziale sconcerto, molti musulmani chiamarono all’unità e indissero il jihad per combattere l’invasore JAVIER ALBARRÁN IRUELA RICERCATORE. CONSIGLIO SUPERIORE DELLA RICERCA SCIENTIFICA
GERUSALEMME IN MANI CRISTIANE
Il dipinto di Émile Signol raffigura il momento in cui i crociati, guidati da Goffredo di Buglione – al centro della scena, con le braccia levate al cielo – presero Gerusalemme nel 1099, durante la prima crociata. 1847. Museo di Versailles. JOSSE / SCALA, FIRENZE
IL KRAK DEI CAVALIERI
La fortezza crociata fu assediata senza successo da Nur al-Din nel 1163 e da Saladino nel 1188. Non fu conquistata dagli arabi sino al 1271, anno in cui cadde per mano del sultano d’Egitto Baybars.
N
el 1097, un esercito di 4000 cavalieri e 25.000 fanti cristiani si mise in marcia da Costantinopoli attraverso la Turchia. I crociati si dirigevano verso Gerusalemme con l’obiettivo di liberarla dal dominio musulmano. Conquistata Antiochia dopo un duro assedio, proseguirono la loro avanzata verso sud, impossessandosi di tutte le città costiere prima di giungere davanti a Gerusalemme. Alla fine, dopo un assedio durato 40 giorni, il 15 luglio 1099 i cavalieri cristiani assaltarono e presero la Città Santa. Per i successivi
ottantotto anni, la Cupola della Roccia – il luogo che ricorda episodi della vita di Maometto – fu coronata da una croce e prese il nome di Templum Domini. La liberazione dei Luoghi Santi fu celebrata in tutta Europa come un evento epocale. Per i musulmani che vivevano nella regione, però, l’arrivo dei crociati rappresentò un’esperienza molto differente. La prima crociata fu un’invasione inaspettata e brutale, che lasciò dietro di sé una scia di terrore che sarebbe stata ricordata per molto tempo. I cronisti arabi parlarono della paura causata da episodi come la con-
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Il 15 luglio, dopo un assedio di quaranta giorni, l’esercito crociato conquista Gerusalemme ed entra in città, dove inizia il massacro di gran parte della popolazione musulmana ed ebrea.
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GUERRA IN TERRA SANTA
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L’atabeg Zengi conquista la città di Edessa il 24 dicembre. L’episodio cambia la storia della Terrasanta e spinge papa Eugenio III a indire, nel dicembre del 1145, la seconda crociata.
MAPPA DI GERUSALEMME. CRONACHE DELLE CROCIATE DI ROBERTO IL MONACO.
MANUEL COHEN / AURIMAGES
quista di Maarat – dove, secondo lo storico musulmano del XI-XII secolo Ali Ibn al-Atir, «per tre giorni passarono la gente per le armi, uccidendo oltre centomila persone e facendo numerosi prigionieri» – o, soprattutto, la presa di Gerusalemme; come riferisce lo stesso al-Atir, nel corso della settimana successiva all’assalto «la popolazione della Città Santa fu passata per le armi, e i franchi continuarono a uccidere musulmani per una settimana. Nella moschea al-Aqsa, massacrarono oltre settantamila persone». Tali eventi contribuirono a far sì che nella mentalità araba dell’epoca mettesse radici
1187 Il condottiero musulmano Saladino sconfigge l’esercito crociato comandato da Guido di Lusignano nella battaglia di Hattin il 4 luglio. Tre mesi dopo conquista Gerusalemme, e ciò dà inizio alla terza crociata.
un’immagine fortemente ostile dei“franchi” come venivano chiamate le genti dell’Europa occidentale, sottomesse al papa di Roma, per distinguerle dai bizantini o“romei”. Agli occhi dei vinti, i crociati apparivano come barbari, superiori nelle armi, ma sprovvisti di qualsiasi raffinatezza o sentimento di umanità. «Coloro che si sono informati sui franchi – scriveva lo storico del XII secolo Ibn Mundiqh – hanno visto in loro delle bestie che sono superiori nel valore e nell’ardore del combattimento, ma in null’altro, proprio come gli animali sono superiori in termini di forza e di aggressività».
1260 L’esercito mamelucco sconfigge i mongoli ad Ayn Jalut, ponendo così fine alla minaccia tartara e portando Baybars, comandante dei mamelucchi, alla guida del sultanato d’Egitto.
1291 Il mamelucco al-Ashraf conquista la città di Acri il 18 maggio, ponendo fine alla presenza crociata in Terrasanta dopo quasi due secoli. Il regno di Gerusalemme viene rivendicato dai re di Cipro.
SALADINO, SULTANO D’EGITTO
Dopo la conquista di Aleppo nel 1183, Saladino divenne sultano d’Egitto e leader indiscusso dei musulmani. Ritratto eseguito da Cristofano dell’Altissimo. Ante 1568. Uffizi, Firenze. E. LESSING / ALBUM
Regno d’Armenia
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L’ACCETTAZIONE DEL NUOVO GIOGO
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Torrione Regno dei Cavalieri di Gerusalemme Hattin (1187)
Nazareth Tiberiade Belvoir Alture Sebaste del Golan Nablus
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e si eccettuano i terribili massacri e i saccheggi delle prime conquiste, che crearono una visione demoniaca dei crociati, per la maggior parte della popolazione musulmana il nuovo dominio non comportò profonde trasformazioni né diede luogo a un esodo di massa, una fuga che peraltro risultava eccessivamente costosa. I musulmani conservarono la loro fede e le loro leggi in cambio del pagamento di un’imposta, come facevano cristiani ed ebrei in territorio islamico. Al contempo, anche se molte moschee furono trasformate in chiese, altre rimasero dedicate al culto islamico, come ci narra il viaggiatore Ibn Yubayr a proposito di un piccolo oratorio ad Acri. Lo stesso Federico II, entrando a Gerusalemme dopo la cessione ayyubide, chiese ai muezzin di continuare a
chiamare i fedeli alla preghiera. Questa coesistenza, che interessava alle due parti, rese possibili scene quotidiane come quella narrata nelle sue memorie dal nobile cavaliere Usama ibn Munqid: in un hammam (bagno) un musulmano avrebbe insegnato a un crociato a depilarsi. Simili aneddoti rafforzarono il luogo comune secondo il quale i nuovi arrivati erano selvaggi e poco puliti.
Krak di Moab (Kerak)
CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
GLI STATI CROCIATI
Nel XII secolo, i nuovi principati cristiani in Terrasanta, o Terre d’Oltremare, si inserirono come un cuneo tra le due grandi potenze musulmane del Vicino Oriente: l’Impero selgiuchide e il califfato fatimide.
Il successo militare dei crociati era dovuto alle divisioni interne che regnavano nel mondo musulmano alla fine dell’XI secolo, specialmente nella zona siro-palestinese. Una cinquantina d’anni prima, la dinastia turca dei selgiuchidi aveva creato un grande impero che si estendeva da Afghanistan, Iran e Iraq fino a Turchia, Palestina e Arabia. Tuttavia, non era un impero centralizzato, ma basato su piccoli principati governati da città come Mosul o Aleppo, e che si preoccupavano più di combattere tra loro che dell’arrivo di un nemico esterno. Inoltre, i sultani selgiuchidi e i loro vassalli erano impegnati in un’accanita lotta contro un altro potere islamico della zo-
Poeti come al-Abiwardi lamentavano l’inerzia dei musulmani: «Vedo che la fede poggia su pilastri deboli»
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na, il califfato fatimide d’Egitto, appartenente al ramo sciita dell’Islam, considerato eretico dagli altri. La rivalità tra selgiuchidi e fatimidi spinse il visir fatimida a salutare inizialmente con favore l’arrivo dei crociati in Siria e Palestina, tanto che propose loro un accordo per spartirsi le zone di influenza. Tuttavia, dopo la conquista di Gerusalemme, che i fatimidi avevano appena strappato ai selgiuchidi, si resero conto che i crociati rappresentavano una minaccia diretta anche per loro.
Dall’accettazione alla rivolta In qualsiasi caso, la debolezza militare e la divisione politica portarono la maggior parte dei governanti musulmani a cercare di stipulare patti privati con gli invasori, impegnandosi persino a pagare loro un tributo. Un esempio di ciò è dato da Tahir ad-Din Togtekin, governante turco di Damasco, che nel 1109 giunse a un accordo con il re di Gerusalemme Baldovino per dividersi il controllo delle Alture del Golan e dei monti di Ajlun. I quattro Stati creati dai crociati – il regno latino di Gerusalemme, le
LA TORRE DI DAVIDE
L’antica fortezza, la cui origine risale al II secolo a.C., si erge vicino alla Porta di Giaffa, a Gerusalemme. Erode la rafforzò con tre torri nel I secolo a.C. La cittadella fu la sede dei re crociati.
MASSIMO BORCHI / FOTOTECA 9X12
contee di Tripoli e di Edessa e il principato di Antiochia – divennero in questo modo una realtà permanente nella politica del Vicino Oriente, con la quale i principi musulmani erano costretti a fare i conti, sia sul piano politico sia su quello militare o economico. Non tutti i musulmani, però, si rassegnarono ad accettare la presenza dei nuovi vicini cristiani, e ancor meno l’occupazione di luoghi tanto importanti per l’Islam come Gerusalemme. La perdita di quella che era la terza città santa dei musulmani, dopo Medina e La Mecca, aveva ferito profondamente la sensibilità religiosa islamica. Sono vari gli esempi letterari nei quali trova eco questa sensazione di sconfitta e tristezza, unite al lamento per la debole risposta delle autorità davanti agli invasori. Ecco che cosa scrisse il poeta e storico persiano al-Abiwardi sulla caduta della Città Santa: «Debbono forse gli stranieri alimentarsi della nostra
CROCIATI CONTRO FATIMIDI Frammento di pittura in cui sono raffigurati i fatimidi che assaltano una fortezza crociata. Il califfato fatimide governò l’Egitto fino alla conquista da parte di Nur al-Din nel 1169. XII secolo.
ignominia, mentre voi vi divertite nella vostra vita piacevole, come gli uomini il cui mondo è in pace? [...] Vedo la mia gente lenta nell’impugnare la lancia contro il nemico. Vedo che la fede poggia su pilastri deboli». Un altro poeta scrisse a sua volta: «I politeisti [riferito ai cristiani, che credono nella Santissima Trinità] sono aumentati sino a diventare un torrente di dimensioni terrificanti. / Per quanto tempo continuerà tutto questo? / Eserciti come montagne, l’uno dietro l’altro, sono discesi dalle terre dei franchi. / Le teste dei politeisti sono ormai mature [...] Il filo della loro spada deve essere spezzato e il loro pilastro demolito».
La chiamata al jihad Oltre che tra i poeti, i massimi portavoce della resistenza contro i crociati cristiani si trovavano nei circoli religiosi. Predicatori, giuristi e teologi cominciarono a lanciare appelli per organizzare una risposta armata all’invasione degli “infedeli”, invocando a questo scopo un noto principio della tradizioBRITISH MUSEUM / ART ARCHIVE STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA CITTADELLA DI ALEPPO
Situata su un tell (una collina), fu interamente ricostruita a metà del XII secolo da Nur al-Din. Poco dopo al-Zahir, figlio di Saladino, fece costruire una porta monumentale collegata alla città da un ponte a otto archi. YANN ARTHUS-BERTRAND / GETTY IMAGES STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA DOTTRINA NEL XII SECOLO
IL JIHAD, TRA MORALE E POLITICA
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l termine jihad, che significa letteralmente “sforzo”, ha due accezioni: quella di coraggio nell’essere un buon musulmano e quella di guerra per l’Islam; la tradizione islamica le definisce rispettivamente come jihad maggiore e minore. La prima concezione, senza dubbio, è quella prevalente nel Corano. Si riteneva anche che il jihad minore fosse un dovere il cui adempimento da par-
ABU ZAYD PREDICA IN UNA MOSCHEA DI SAMARCANDA. MINIATURA DELLE MAQAMAT DI AL HARIRI. 1240. BIBLIOTHÈQUE NATIONALE, PARIGI.
te di pochi esimeva il resto, tranne che nei momenti di minaccia. Nel contesto delle crociate, gli ideologi del jihad, soprattutto giuristi come al-Sulami, ritenevano entrambe le nozioni fondamentali e complementari per affrontare i crociati. Era necessario che la comunità facesse ricorso alle armi contro l’infedele, ma allo stesso tempo questo sforzo bellico doveva essere accompagnato dal
jihad maggiore, del rispetto e della promozione della legge islamica. Per questo, governanti come Nur al-Din o Saladino non si limitarono ad attaccare i territori cristiani, ma furono protagonisti anche di molti atti di pietà. Tuttavia, quegli stessi ideologi contemplavano la possibilità di interrompere il jihad e negoziare con gli “infedeli”, avvalendosi di concetti come quello di maslaha o “interesse”.
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vore dell’unità dei credenti e della loro lotta contro gli invasori crociati. Nel pensiero islamico dell’epoca, si riteneva che l’unico autorizzato a dichiarare il jihad fosse il califfo, la massima autorità religiosa. Nell’XI secolo, i califfi, che risiedevano a Baghdad, erano diventati figure praticamente decorative, manovrate a loro piacimento dai sultani selgiuchidi, però conservavano ancora una certa autorità simbolica. Ecco perché, nel 1111, un gruppo formato da uno sceriffo e un gruppo di giuristi, sufiti e mercanti si recò a Baghdad, la capitale della dinastia imperante abbaside, con l’obiettivo di ottenere una risposta decisa alla minaccia dei crociati. Si presentarono con modi aggressivi nella moschea del sultano e in quella del califfo, come racconta il cronista Ibn al-Qalanisi: «Obbligarono il predicatore a scendere dal pulpito, che distrussero, e iniziarono a piangere per le disgrazie che l’Islam doveva subire per colpa dei franchi, che uccidevano gli uomini e riducevano in schiavitù le AR
LA GUERRA SANTA DEI CRISTIANI Sigillo dei Templari con il simbolo dell’Ordine. Durante le crociate, “soldato di Cristo”, che di solito indicava chi combatteva una guerra spirituale per la fede, passò a designare guerrieri come i Templari.
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ne islamica, il jihad, in questo caso inteso come il dovere di combattere in difesa dell’Islam; in altre parole, come “guerra santa”. Il primo autore a sviluppare in quegli anni la dottrina del jihad come guerra santa fu un giurista di Damasco chiamato Tahir al-Sulami. In una serie di predicazioni riunite nel Libro del jihad (Kitab al-jihad, 1105), al-Sulami constatava che i crociati stavano scatenando un jihad contro i musulmani in tutto il Mediterraneo e spiegava il trionfo cristiano come un castigo divino inflitto ai musulmani per non aver adempiuto ai doveri religiosi e per aver trascurato il dovere di espandere l’Islam: «L’interruzione nella realizzazione del jihad unita alla negligenza dei musulmani verso le norme stabilite dell’Islam […] ha portato Dio a far sì che i musulmani si sollevino gli uni contro gli altri, ha seminato violenta ostilità e odio tra di essi e ha incitato i loro nemici a impadronirsi dei loro territori». Tuttavia, al-Sulami era convinto della vittoria islamica finale e faceva un appello in fa-
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donne e i bambini». I religiosi tentarono di tranquillizzarli promettendo loro che il sultano «avrebbe inviato eserciti per difendere l’Islam dai franchi e da tutti gli infedeli».
Vittorie musulmane Gli appelli all’offensiva contro i crociati sortirono il loro effetto. Nel 1119, il governante di Aleppo ottenne la prima grande vittoria musulmana sui cristiani, nella battaglia dell’Ager Sanguinis (o di Sarmada). Tuttavia, fu soltanto con l’ascesa al potere di Imad al-Din Zengi – nel 1127 come atabeg o governatore di Mosul e un anno dopo di Aleppo – che i ruoli cominciarono davvero a invertirsi. Zengi fu il primo capo musulmano a invocare sistematicamente la “guerra santa” contro i cristiani nelle campagne che condusse nel nord dell’Iraq dal 1130, e che culminarono con la conquista della città di Edessa nel 1144. Questo fu un duro colpo per i crociati e fece di Zengi il tanto sospirato leader che avrebbe cacciato gli infedeli, come scrissero i cronisti: «Dio volle schierare contro i crociati qualcuno che
potesse compensare la malvagità delle loro azioni e distruggere e annientare i demoni crociati. Egli non vide nessuno più capace del signore, il martire Zengi». Dopo la morte di Zengi, assassinato nel 1146 da un servo, i suoi successori raccolsero il testimone di difensori dell’Islam e del jihad. Nur al-Din, che aveva ereditato Aleppo e il Nord della Siria, ottenne importanti vittorie nella seconda crociata e riuscì a riprendere praticamente tutta la Siria. Intervenne anche nel califfato fatimide, avvicinandosi così all’ideale di unificare tutto il mondo islamico sotto un solo governante. Grazie a tutto ciò si guadagnò l’appoggio dell’élite religiosa, che prese sem-
I MAMELUCCHI IN EGITTO
Moschea eretta dal sultano Hassan al Cairo tra il 1356 e il 1361. I sultani mamelucchi d’Egitto ebbero un ruolo fondamentale nella lotta contro i crociati e nella loro espulsione dalla Terrasanta.
Zengi fu il primo capo musulmano a invocare sistematicamente la “guerra santa” contro i cristiani
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LA TESTIMONIANZA DI IBN JUBAYR
ESPERIMENTI DI CONVIVENZA
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el suo libro Memorie di viaggio (Rihla) il viaggiatore arabo-andaluso Ibn Jubayr descrive i rapporti tra cristiani e musulmani in Terrasanta. Nel brano che citiamo, Ibn Jubayr parla delle condizioni di vita dei musulmani sotto il dominio cristiano, migliori di quelle che conobbero sotto il dominio dei loro correligionari: «Abbiamo lasciato Tibnin [la fortificazione crociata di Toron, nel sud del Libano] percorrendo una grande strada, oltrepassato fattorie nelle quali vivono i musulmani, che prosperano sotto il dominio crociato, che Allah ci preservi da questa tentazione [...] I musulmani sono proprietari delle loro case e si amministrano secondo le loro regole. È in questo modo che le grandi fattorie e i villaggi sono organizzati in territorio franco [cristiano].
UN CRISTIANO E UN ARABO GIOCANO A SCACCHI IN UNA TENDA. LIBRO DEI GIOCHI O LIBRO DI SCACCHI, DADI E TAVOLE. ALFONSO X. 1283. BIBLIOTECA DEL MONASTERO DELL’ESCORIAL.
Molti musulmani sono tentati di stabilirsi qui quando vedono le terribili condizioni nelle quali i loro fratelli vivono nelle zone sotto dominio musulmano. Sfortunatamente per loro, hanno sempre motivi per lamentarsi delle ingiustizie dei loro capi nelle terre governate dai loro correligionari, mentre non possono avere che elogi per il comportamento dei franchi, nella cui giustizia possono sempre confidare».
ORONOZ / ALBUM
CROCIATI E MUSULMANI
Scontro tra un crociato e un musulmano. Goffredo di Buglione guidò la conquista di Gerusalemme durante la prima crociata , nel 1099. Dettaglio dal Romanzo di Goffredo di Buglione. XIV sec.
pre parte attiva nelle sue campagne. Simbolo del suo impegno con il jihad fu la costruzione della madrasa (scuola islamica) di al-Halawiya ad Aleppo sopra l’antica cattedrale bizantina di Sant’Elena, un modo per rappresentare la vittoria dell’Islam sugli infedeli. Nel 1168 ordinò di costruire un minbar (pulpito) destinato alla moschea di al-Aqsa, a Gerusalemme, come anticipazione della prossima riconquista della Città Santa. Alla morte di Nur al-Din nel 1174, il suo visir in Egitto, il curdo Salah al-Din (Saladino), fondatore della dinastia degli ayyubidi, divenne la nuova guida dell’Islam contro i crociati. Si narra che quando si ammalò gravemente giurò che, se fosse sopravvissuto, non avrebbe mai più combattuto contro altri musulmani e si sarebbe dedicato unicamente al jihad contro i crociati, e avrebbe cercato di riconquistare Gerusalemme. Non
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tardò molto a mantenere la parola: nel luglio del 1187, Saladino sconfisse nella battaglia di Hattin, presso Gerusalemme, le truppe del re Guido di Lusignano, e tre mesi dopo gli stendardi del condottiero curdo sventolavano nella Città Santa, ponendo fine a quasi un secolo di dominio crociato. A differenza di ciò che fecero i crociati nel 1099, Saladino risparmiò la vita agli abitanti della città in cambio di un’imposta a testa, cosa che accrebbe la sua fama di sultano magnanimo. Così descriveva lo storico al-Isfahani i sentimenti del mondo islamico per la liberazione di una delle sue città sante: «La roccia sacra è stata purificata dalla macchia dei politeisti […] Che il tempio della Mecca sia rafforzato dalla liberazione del fratello dopo la lunga e oscura notte dell’empietà, e dalla purificazione dei luoghi in cui vissero i profeti». La sua dedizione alla politica del jihad non impedì a Saladino di mantenere strette relazioni con i crociati. Così avvenne all’arrivo dei contingenti della terza crociata, indetta dopo la perdita di Gerusalemme. Narra Ibn
ALDO PAVAN / AGE FOTOSTOCK
Shaddad, cortigiano di Saladino, che il sultano ayyubide, per risolvere la disputa, cercò di addivenire a un patto con Riccardo Cuor di Leone in base al quale la sorella del re inglese sarebbe stata data in sposa al fratello di Saladino, creando così una stirpe islamocristiana che avrebbe governato la città santa. Ma l’accordo naufragò e l’esercito crociato tornò in Europa prima della morte del sultano, avvenuta nel 1193.
«La nazione della croce è caduta» I successori di Saladino si distinsero per la volontà di seguire una politica pragmatica, lasciando in secondo piano lo spirito del jihad. Sostenitori del pragmatismo politico, strinsero accordi con gli Stati crociati e sottoscrissero diversi trattati commerciali con le Repubbliche marinare, che possedevano attive colonie nelle città cristiane. Un esempio di questa politica è la decisione del sultano al-Kamil, nel 1229, di cedere Gerusalemme per dieci anni all’imperatore Federico II, che guidava la sesta crociata, decisione che suscitò un’ondata di sdegno nel mondo islamico.
L’ideale del jihad rinacque per mano dei mamelucchi, un gruppo di guerrieri turchi che prese il potere al Cairo nel 1249, detronizzando gli ayyubidi. A partire dal 1260, il sultano Baybars intraprese una serie di campagne per sradicare il potere crociato nel Vicino Oriente. Il suo successore al-Ashraf raggiunse l’obiettivo con la presa di Acri nel 1291, che pose fine a quasi due secoli di presenza crociata in Terrasanta. Un panegirico in onore del sultano vittorioso ricordava questa vittoria come un trionfo dell’Islam sui crociati e su tutta la cristianità: «Grazie a te non rimane alcuna città in cui l’infedeltà possa trovare riparo. Non rimane speranza per la religione cristiana! La nazione della croce è caduta; attraverso i turchi la religione degli arabi eletti ha trionfato». Per saperne di più
CITTADELLA DI ACRI
Interno del Salone dei Cavalieri, una delle stanze della cittadella di San Giovanni d’Acri. La città passò più volte di mano tra musulmani e cristiani, fino al momento della definitiva conquista da parte dei mamelucchi nel 1291.
SAGGI
Le crociate viste dagli arabi Amin Maalouf. Sei Editrice, Torino, 1993. TESTI
Le lezioni della vita. Un principe siriano e le crociate Usama Ibn Munqidh. Ariele, Milano, 2001.
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Borraccia della Freer Gallery La borraccia in rame e argento è l’unico esempio del genere conosciuto nel mondo islamico; in genere, infatti, le borracce sono in ceramica. Al centro appare la Vergine con il Bambino, e tutto attorno sono raffigurate scene del Vangelo: l’Annunciazione, il battesimo di Cristo, la sua presentazione al Tempio e la sua entrata a Gerusalemme.
Acquamanile del Louvre Questo acquamanile in rame sbalzato e con incrostazioni metalliche combina due tipi di motivi. Nella parte inferiore vi sono quattro medaglioni con scene di caccia ispirate al Libro dei re, un’epopea del poeta persiano Ferdusi. Nella fascia superiore, invece, si può vedere la Vergine con il Bambino circondata da angeli e apostoli.
Tra il XII e il XIV secolo si sviluppò in Siria un artigianato raffinatissimo, che si specializzò nella realizzazione di oggetti in rame lavorato a sbalzo con ricche decorazioni. Sorprendentemente, molte rappresentano motivi cristiani, come Cristo, la Vergine o monaci orientali. Si è ipotizzato che le opere fossero destinate ai potentati crociati, ma potrebbero anche essere state create per principi musulmani, poiché l’Islam riconosce Cristo come profeta e venera la Vergine Maria.
L’ARTE DELL’ERA DEI CROCIATI
La scatoletta, o pyxis, di fattura più umile rispetto agli altri due pezzi, presenta i tratti tipici dell’arte ayyubide del XIII secolo: arabeschi nella parte superiore e animali che corrono nella parte inferiore. Nella fascia centrale si vedono una processione di monaci cristiani, che spargono incenso, e forse l’ordinazione di un sacerdote.
Scatolina in rame OGGETTI : borraccia. siria o nord iraq. xiv secolo. freer gallery of art, washington. BRIDGEMAN / ACI. acquamanile. siria o nord iraq. xiii secolo. louvre. H. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS. 3. scatola cilindrica. siria. xiii secolo. victoria & albert museum, londra. VANDA IMAGES / PHOTOAISA
ALBRECHT VON WALLENSTEIN
Militare e politico, seppe scalare i vertici dell’esercito imperiale ritagliandosi un ruolo preminente al servizio degli Asburgo, ma inimicandosi anche i potenti del tempo. SCALA, FIRENZE
L’EMBLEMA IMPERIALE
Lo stemma di Ferdinando II, che si avvalse dei servigi di Wallenstein, consisteva nell’aquila bicipite nera che stringeva fra gli artigli lo scettro e la spada, da una parte, e il globo, simbolo di un’autorità universale, dall’altra. BRIDGEMAN / ACI
ASCESA E FINE DEL GRANDE CONDOTTIERO
WALLENSTEIN GENERALISSIMO DELL’ESERCITO IMPERIALE, FU UN PROTAGONISTA DELLA GUERRA DEI TRENT’ANNI, MA I CONTRASTI CON L’IMPERATORE PORTARONO AL SUO ASSASSINIO IN SEGUITO A UN COMPLOTTO VITTORIO H. BEONIO-BROCCHIERI PROFESSORE DI STORIA MODERNA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA CALABRIA
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a Boemia, dove il 24 settembre 1583, a Hermanitz (o Hermanice) nacque Albrecht Wenzel Eusebius von Wallenstein, era un posto complicato, percorso da profonde divisioni, a cominciare da quelle religiose. La famiglia di Albrecht aderiva alla cosiddetta Confessio Bohemica, la componente più moderata dell’eresia nata dalla predicazione di Jan Hus, che si era riconciliata in seguito con la Chiesa di Roma mantenendo tuttavia un’identità separata. Ma lo zio di Albrecht, Heinrich Slavata, che divenne suo tutore dopo la morte prematura dei genitori, apparteneva a una corrente più radicale, quella dei Fratelli Boemi, che aveva rifiutato il compromesso con il cattolicesimo e dopo la Riforma si era avvicinata al luteranesimo.
IL CASUS BELLI RELIGIOSO
Nel maggio del 1618, la defenestrazione di due rappresentanti imperiali dal castello di Praga avviò la Guerra dei Trent’anni. Dipinto di Vaclav Brozik (XIX secolo).
NATIONAL GALLERY OF VICTORIA, MELBOURNE / BRIDGEMAN / ACI
Le contrapposizioni religiose si sovrapponevano alle divisioni etniche. La maggior parte della popolazione era infatti slava, di lingua boema, ma soprattutto nelle città e tra la nobiltà molto consistente era la minoranza tedesca. La famiglia di Wallenstein o Waldstein, pur di origine boema, è passata alla storia con un nome tedesco che significa la “rocca nella foresta”, dal nome del castello culla della stirpe. E infine le complicazioni politiche. La Boemia faceva parte del Sacro Romano Impero, pur restando un regno autonomo, anzi l’unico regno all’interno dell’Impero. Fino al 1526 vi aveva regnato la dinastia degli Jagelloni. Dopo la sconfitta e la morte di Luigi Jagellone nella battaglia di Mohács, la Dieta del Regno aveva eletto re Ferdinando d’Asburgo, fratello
di Carlo V e destinato a sua volta a diventare, nel 1556, imperatore. Gli Asburgo erano quindi doppiamente signori della Boemia, come imperatori e come re. Una situazione che non suscitava l’entusiasmo di tutti e soprattutto della nobiltà, in larga maggioranza protestante, che aveva ottime ragioni di temere per la propria libertà religiosa, dato che gli Asburgo non facevano mistero dell’avversione per le varie forme di protestantesimo, oltre che per l’autonomia politica.
Al servizio degli Asburgo Lo scenario nel quale un nobile boemo doveva destreggiarsi all’inizio del Seicento era quindi complicato e pieno di insidie. Ma anche di opportunità. La carriera militare era la scelta
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IL POTERE DI ARMI E DENARO
1604
1618
Albrecht von Wallenstein si avvia alla carriera militare partecipando alla Lunga guerra turca ed entrando al servizio degli Asburgo.
Con la defenestrazione di Praga si apre la Guerra dei Trent’anni. Wallenstein è il finanziatore e lo stratega delle guerre imperiali.
CORSALETTO DA BARRIERA DI FERDINANDO I D’ASBURGO. XVI SECOLO. DEA / SCALA, FIRENZE
PALAZZO WALLENSTEIN
Costruito nel cuore di Praga, l’edificio doveva testimoniare del prestigio del condottiero. Inserito in uno splendido giardino, fu ultimato pochi anni prima della morte del suo proprietario. CHRISTIAN KOBER / GETTY IMAGES
1625
1630
1632
1634
L’intervento di Cristiano IV di Danimarca a fianco dei protestanti scatena nuovi scontri: Wallenstein è detto «il Generalissimo».
Nonostante le indubbie capacità militari e le sempre più cospicue risorse economiche, il condottiero è allontanato dal comando.
L’arrivo degli svedesi riapre il fronte e Wallenstein viene richiamato per bloccare l’avanzata nemica: lo farà nella battaglia di Lützen.
Sospettato di tradimento e malvisto per la sua politica di compromesso, viene assassinato da un gruppo di alti ufficiali. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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FRIEDRICH SCHILLER. STATUA DEL POETA E FILOSOFO DI FRONTE ALL’HESSISCHES STAATSTHEATER DI WIESBADEN, GERMANIA.
Il Wallenstein di Schiller AL GRANDE CONDOTTIERO boemo, Johann
Christoph Friedrich von Schiller, poeta, drammaturgo e storico tedesco, dedicò tra il 1796 e il 1799 una trilogia intitolata Wallenstein appunto. Prima di allora, Schiller si era già avvicinato al soggetto storico, scrivendo nel 1793 la sua Storia della guerra dei Trent’anni. La trilogia drammatica, rappresentata per la prima volta a Weimar, riscosse un immediato successo. COMPOSTO DI TRE PARTI, Il Campo di Wallenstein, i Piccolomini e La morte di Wallenstein, il dramma si incentra sulle vicende del condottiero che, sullo sfondo della Guerra dei Trent’anni, visse una parabola personale che lo portò dai vertici militari dell’esercito asburgico a essere vittima di un assassinio, tra campi di battaglia, tradimenti, complotti e scenici idilli d’amore. PHIL ROBINSON / AGE FOTOSTOCK
quasi obbligata per un giovane di nobili natali e Albrecht la intraprese nel 1604, partecipando alle ultime fasi della Lunga Guerra turca (15931606). Fu un esordio dignitoso, anche se non particolarmente brillante, che implicava però porsi proprio al servizio degli Asburgo. Il naturale passo successivo, che Albrecht compì nel 1606-1607, fu convertirsi al cattolicesimo, la confessione religiosa sostenuta con intransigenza dagli Asburgo. L’appartenenza alla nobiltà tuttavia, se era senz’altro una condizione necessaria per l’affermazione sociale, non era sufficiente. Il problema delle ristrettezze finanziarie della famiglia fu risolto grazie al matrimonio, nel 1609, con l’ereditiera Lucrezia Landek. Nel 1617, Wallenstein fu quindi in grado di allestire a sue spese un contingente di circa 200 cavalleggeri da impiegare al servizio dell’allora arciduca e futuro imperatore Ferdinando di Stiria contro Venezia nella guerra degli Uscocchi (1615-1617), i pirati dalmati che, protetti dagli Asburgo, infestavano l’Adriatico. Il conflitto che si aprì con la Defenestrazione di Praga del 23 maggio 1618 e la rivolta dei protestanti boemi contro gli Asburgo, offrì a Wallen-
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L’ELMO DELLA CAVALLERIA La “cappellina” era l’elmo più diffuso tra i cavalieri durante la Guerra dei Trent’anni. Caratterizzata da guanciali che dalle orecchie scendono verso il mento, prevedeva calotta con visiera e una protezione nasale.
stein l’occasione per un’ascesa fulminante. Wallenstein, come stretto collaboratore di Karl von Liechtenstein, reggente per la Boemia, si trovava al posto giusto e al momento giusto per approfittare dell’espropriazione dei beni sequestrati alla nobiltà ribelle dopo la vittoria degli Asburgo nella battaglia della Montagna Bianca (8 novembre 1620). In breve tempo riuscì ad ammassare un patrimonio fondiario enorme, quasi 1200 km2, con nove città e quasi sessanta villaggi. Questa ricchezza gli permise di rendersi utile a Ferdinando che aveva bisogno di denaro per finanziare la guerra prestandogli, tra il 1619 e il 1623, oltre un milione e mezzo di fiorini. In segno di gratitudine, nel 1624 Ferdinando innalzò Wallenstein a duca di Friedland. Nello stesso anno Wallenstein, rimasto vedovo nel 1614, sposava in seconde nozze Isabella Katherina, figlia del conte Harrach, influente consigliere dell’imperatore.
Il Generalissimo L’anno seguente, l’intervento di Cristiano IV di Danimarca a fianco dei protestanti riaprì una partita che sembrava chiusa. L’imperatore aveva bisogno di un nuovo esercito, da affiancare a
LA BATTAGLIA DI LÜTZEN
Episodio decisivo della Guerra dei Trent’anni, lo scontro del 1632 vide contrapporsi l’esercito svedese guidato da re Gustavo Adolfo a quello imperiale comandato da Wallenstein, che riuscì a bloccare l’avanzata nemica, lasciando sul campo il corpo del sovrano svedese. ROYAL LIBRARY, STOCCOLMA / BRIDGEMAN / ACI
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L’INTERVENTO DANESE
Cristiano IV scese in campo contro gli imperiali. Wallenstein ebbe le capacità e le risorse per costituire un nuovo esercito che gli si oppose. Dipinto di K. Van Mander (XVI secolo), Copenhagen.
quello della Lega cattolica, comandato da Tilly, e Albrecht von Wallenstein, grazie alla sua favolosa ricchezza e alle sue indubbie capacità organizzative, era l’unico in grado di fornirglielo, per così dire, chiavi in mano: circa venticinquemila uomini. Proprio in questo consisteva in realtà il grande talento di Wallenstein. Più che un generale o un condottiero che guida il suo esercito sul campo, era un grande imprenditore militare, uno straordinario organizzatore. Una figura essenziale in una fase storica nella quale gli Stati non avevano ancora messo a punto gli strumenti burocratici e finanziari per gestire direttamente gli eserciti di cui avevano bisogno. Comunque anche sul campo Wallenstein si dimostrò capace. Cristiano IV di Danimarca
Più che un condottiero, Wallenstein fu un grande imprenditore militare ISTRUZIONI REDATTE DA WALLENSTEIN PER IL RAZIONAMENTO DEL CIBO.
DHM / BRIDGEMAN / ACI
venne ripetutamente sconfitto e gli imperiali occuparono gran parte della Germania settentrionale. L’esercito di Wallenstein nel frattempo crebbe a dismisura e con esso i crediti che il General-Oberster Feldhauptmann, in breve il Generalissimo, vantava nei confronti del suo datore di lavoro. Nell’impossibilità di pagare in contanti, Federico era largo nella concessione di onori. Come per esempio il trasferimento a Wallenstein del ducato di Meclemburgo, i cui duchi avevano appoggiato gli invasori danesi. Questa rapidissima ascesa nascondeva però elementi di debolezza. I principi dell’Impero, sia protestanti sia cattolici, come il duca di Baviera, cominciavano a guardare con preoccupazione all’eccessivo potere che quello che in fondo restava un parvenu, un arrivista, aveva concentrato nelle sue mani. In particolare l’espropriazione di un’antica e nobile dinastia, come quella dei duchi di Meclemburgo, aveva suscitato forti malumori. Inoltre i cattolici più oltranzisti, in Austria e Spagna, non si fidavano molto di questo convertito che aveva alle sue dipendenze molti protestanti e che era favorevole a una pace di compromesso. Wallenstein si era infatti apertamente espresso contro l’Editto di Restituzione, emanato da Ferdinando nel marzo del 1629, che prevedeva il ritorno alla Chiesa di tutti i beni incamerati dai protestanti dopo il 1552, provocando un vero e proprio terremoto politico. «Con questo editto – scrisse Wallenstein – l’imperatore ha aizzato contro di noi tutti i non cattolici». La conclusione era inevitabile e la facilità con la quale Wallenstein venne rimosso dal comando, nell’agosto 1630, dimostra come il suo presunto enorme potere fosse in realtà fragile.
L’ultimo atto Sedici mesi più tardi Federico fu comunque costretto a richiamarlo in servizio. Nel giugno del 1630, infatti, Gustavo II Adolfo di Svezia era sbarcato in Pomerania aprendo una nuova fase di quella che sarebbe stata chiamata la Guerra dei Trent’anni e nel settembre del 1631 aveva inflitto una sconfitta catastrofica al generale Tilly. Da quel momento gli svedesi erano dilagati in tutta la Germania e niente e nessuno sembrava in grado di fermarli. O quasi nessuno. In preda alla disperazione Ferdinando fu costretto, a malincuore, a chiedere al suo ex Generalissimo di ripetere il miracolo e creare dal nulla un nuovo esercito in grado di salvare il trono degli Asburgo e la causa cattolica. E
IL DUCA-GENERALE
La cattedrale gotica di Bad Doberan, in Meclemburgo. I servigi di Wallenstein vennero premiati anche con questo antico ducato, nel nord della Germania, territorio confiscato ai proprietari colpevoli di aver appoggiato i danesi contro gli Asburgo. HUBERTUS BLUME / AGE FOTOSTOCK
IL FARO DI KIEL-HOLTENAU LUNGO IL CANALE DI KIEL, CHE METTE IN COMUNICAZIONE IL MAR BALTICO CON IL MARE DEL NORD, PROGETTO GIÀ CONCEPITO DA WALLENSTEIN.
La strategia baltica LA VITTORIA SULLA DANIMARCA portò
le armate imperiali sulle rive del Baltico e del mare del Nord. Gli Asburgo d’Austria e i loro cugini e alleati di Spagna cominciarono allora a vagheggiare una “strategia baltica” imperniata sulla costruzione, anche con l’aiuto della Lega Anseatica, di una flotta in grado di strappare il controllo dei mari settentrionali alle potenze protestanti e, soprattutto, all’Olanda. IN QUESTA PROSPETTIVA nel 1628 Wallenstein venne nominato “Capitano generale dei mari Oceano e Baltico” e il Generalissimo avviò lo studio per realizzare un canale per collegare Baltico e mare del Nord, passando a sud della penisola dello Jutland. L’intervento svedese vanificò queste velleità e il canale di Kiel venne ufficialmente inaugurato solo nel 1895. WERNER OTTO / AGE FOTOSTOCK
Wallenstein, motivato più dal desiderio di preservare i propri domini che da quello di salvare Ferdinando, ripeté il miracolo. Il 16 novembre 1632 Wallenstein e Gustavo Adolfo si trovarono di fronte per la prima e ultima volta sul campo di Lützen, in Sassonia. Nonostante la fama di stratega e di innovatore militare di cui godeva (e gode) Gustavo Adolfo, alla fine della giornata le perdite svedesi furono decisamente superiori. E soprattutto tra queste perdite vi fu quella dello stesso sovrano. Lützen fu quindi una vittoria strategica degli imperiali e di Wallenstein, che arrestò quella che pareva l’avanzata inarrestabile degli svedesi. Nei mesi successivi Wallenstein si attenne a una condotta molto prudente. Il suo obiettivo era infatti quello di conseguire una pace di compromesso e non una vittoria totale, ma la sua inerzia suscitò malcontenti e persino sospetti di tradimento e di collusione con il nemico. La sua contrarietà a coinvolgere le forze imperiali nella difesa degli interessi spagnoli nelle Fiandre o in Italia gli alienò le simpatie di Madrid e la sua disponibilità a compromessi con i protestanti gli inimicò i cattolici più zeAL
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GUSTAVO IL GRANDE DI SVEZIA Gustavo II Adolfo re di Svezia nel 1630 riaprì gli scontri contro gli imperiali. Per fermare la sua avanzata, gli Asburgo chiamarono di nuovo Wallenstein. Galleria Palatina, Firenze.
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lanti. In un pamphlet, il predicatore di corte lo definì un «uomo ripudiato dalla chiesa, arrogante, selvaggio, folle e vendicativo». Ma soprattutto, dopo la morte di Gustavo Adolfo, Ferdinando non aveva, o credeva di non avere, più bisogno di lui. Liberarsi del Generalissimo non era però facile. Per molti ufficiali e soldati la fedeltà verso Wallenstein – che li aveva arruolati e che li pagava – veniva prima di quella verso l’imperatore. La rimozione del Generalissimo avrebbe potuto provocare una rivolta. Il presunto complotto di Wallenstein divenne quindi il pretesto per un complotto vero che mirava a eliminarlo fisicamente. A tirarne le fila fu il generale Ottavio Piccolomini d’Aragona, ma a eseguirlo materialmente fu un gruppo di alti ufficiali che nella notte del 24 febbraio 1634 assassinarono Wallenstein nella cittadina di Eger (oggi Cheb) in Boemia. Per saperne di più
SAGGI
Wallenstein Golo Mann. Sansoni, Firenze, 1981. La Guerra dei Trent’Anni Cicely Veronica Wedgwood. Mondadori, 1998.
LA FINE DEL CONDOTTIERO
L’astrologo Giovanni Battista Seni di fronte al cadavere di Wallenstein, assassinato nel febbraio del 1634. L’ex Generalissimo fu vittima di un complotto organizzato da Ottavio Piccolomini d’Aragona. Dipinto di K. Th. Piloty (XIX secolo), Monaco. BPK / SCALA, FIRENZE
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IL GENERALE E LA FEDE NELLE STELLE Uno dei luoghi comuni riguardo a Wallenstein è quello della sua fede nell’astrologia. In realtà si tratta di un risultato della propaganda a lui ostile. La Chiesa condannava l’astrologia e presentare Wallenstein come succube di astrologi era un modo per accusarlo di empietà. Il Generalissimo era effettivamente interessato all’astrologia ed ebbe anche alle sue dipendenze l’astronomo (e astrologo) Keplero. Questo interesse era però molto diffuso all’epoca e non ci sono elementi per affermare che Wallenstein fosse stato condizionato nelle sue decisioni dalla fede negli astri. UIG / ALBUM
L’OROSCOPO PREPARATO DALL’ASTRONOMO KEPLERO PER ALBRECHT VON WALLENSTEIN, NATO IL 24 SETTEMBRE DEL 1583, SOTTO IL SEGNO DELLA BILANCIA.
Praga, la città magica Indicata come uno dei vertici del triangolo della magia bianca – assieme a Torino e Lione – Praga è spesso definita una “città magica”, e non solo per l’incanto delle sue bellezze artistiche e architettoniche, ma anche per il suo passato che l’ha vista meta di astronomi, astrologi, maghi e alchimisti. Della loro attività restano ancora tracce in città, a partire dal vicolo d’Oro, popolato ai tempi di Rodolfo II da alchimisti dediti alla ricerca della pietra filosofale e dell’elisir di lunga vita. E ancora, il ponte Carlo sulla Moldava la cui prima pietra venne posata in una data astrologicamente ritenuta propizia: l’anno 1357, il giorno 9 del 7° mese alle ore 5 e 31 minuti. La somma delle cifre – 135797531 – palindroma, racchiudeva molti significati mistici. RODOLFO II, IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO. RITRATTO DI HANS VON AACHEN (1600). KUNSTHISTORISCHES MUSEUM, VIENNA.
BRIDGEMAN / ACI
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L’OROLOGIO ASTRONOMICO DEL MUNICIPIO DI PRAGA, NELLA CITTÀ VECCHIA. A FORMA DI ASTROLABIO, PREVEDE UN QUADRANTE ASTRONOMICO CON UN ANELLO ZODIACALE, UN ANELLO ESTERNO ROTANTE, UNA LANCETTA CON IL SIMBOLO DEL SOLE E UNA LANCETTA CON IL SIMBOLO DELLA LUNA. MARTINE RAMMER / AGE FOTOSTOCK
L’imperatore e lo scienziato Divenuto imperatore del Sacro Romano Impero nel 1576, Rodolfo II fece di Praga la sua nuova capitale e qui l’eccentrico sovrano, appassionato di arti e scienze occulte, creò una corte attorno alla quale presto iniziarono a gravitare alchimisti e maghi, ciarlatani e medium, ma anche scienziati quali Tycho Brahe e Giovanni Keplero, celebri rappresentanti di una scienza che tra XVI e XVII secolo conobbe grande diffusione. Il primo dedicò i suoi studi all’astronomia divenendo anche astrologo personale dell’imperatore, mentre il secondo, successore di Brahe quale astronomo imperiale, sempre a Praga pubblicò Astronomia Nova lavorando poi alle Tavole rudolfine, il catalogo contenente le istruzioni per la localizzazione dei pianeti. GIOVANNI KEPLERO. RITRATTO DI HANS VON AACHEN (1612). ORLICKA GALERIE, RYCHNOV NAD KNEZNOU (REPUBBLICA CECA). BRIDGEMAN / ACI
MARIA ANTONIETTA D’AUSTRIA
Il ritratto di Maria Antonietta, eseguito dalla sua ritrattista e amica LouiseElisabeth Vigée Le Brun verso il 1785, mostra la regina nello splendore dei suoi giorni di gloria alla corte di Versailles. GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS
RIVOLUZIONE E TERRORE
Riproduzione di una ghigliottina di epoca rivoluzionaria. L’esecuzione di Maria Antonietta, avvenuta il 16 ottobre 1793, coincise con l’inizio della fase più cruenta del Terrore. BILDBYRA / AGE FOTOSTOCK
MARIA ANTONIETTA Processo alla regina di Francia Accusata di cospirazione con i nemici della Rivoluzione, nel 1793 la moglie di Luigi XVI fu condotta davanti a un tribunale rivoluzionario. Dopo un processo durato solo due giorni, la “vedova Capeto” fu condannata alla ghigliottina VLADIMIR LÓPEZ ALCAÑIZ STORICO
VERSAILLES OCCUPATA DAL POPOLO
Il Cortile di Marmo della reggia di Versailles. Il 5 ottobre 1789, il popolo di Parigi assaltò il palazzo, costringendo i sovrani ad abbandonarlo e a seguire la folla nella capitale, dove furono accompagnati nel Palazzo delle Tuileries. STÉPHANE LEMAIRE / GTRES
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Sebbene nei 23 anni di matrimonio, 18 dei quali da sovrani di Francia, non fossero mancati screzi e incomprensioni, la loro unione si era rinsaldata allo scoppio della Rivoluzione nel 1789, e ancor di più dopo l’insurrezione del 10 agosto 1792, che portò alla caduta della monarchia e alla reclusione della famiglia reale nella Tour du Temple. Il re sapeva che la sua morte non avrebbe soddisfatto i rivoluzionari e che Maria Antonietta era in grave pericolo per via della sua enorme impopolarità. Il suo atteggiamento altero, i suoi sprechi e l’innegabile influenza politica che aveva esercitato sul marito l’avevano fatta diventare la bestia nera dei rivoluzionari. Dopo la morte del re, Maria Antonietta rimase rinchiusa nella Tour du Temple assieme ai suoi due figli, Maria Teresa e Luigi Carlo, e alla sorella di Luigi XVI, Elisabetta. Sprofondata in un profondo dolore, «non aveva più alcuna speranza nel cuore né distingueva tra la vita e la morte», scrisse la figlia anni dopo. Non era chiaro che cosa sarebbe stato di lei. Durante il processo al re si era ventilata l’ipotesi che fosse deportata, o nel suo Paese natale, l’Austria, o addirittura negli Stati Uniti, come aveva proposto uno dei loro Padri fondatori,
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LA FINE DELLA REGINA
Thomas Paine. Dopo l’esecuzione di Luigi XVI, i rivoluzionari parevano essersi dimenticati dell’odiata sovrana. La situazione, però, cambiò alla fine del marzo 1793, con la recrudescenza della guerra che dall’anno precedente la Francia rivoluzionaria combatteva contro le potenze europee. La vittoria dell’esercito austriaco a Neerwinden, vicino a Liegi, fece temere un’offensiva diretta contro Parigi, e ciò ebbe come conseguenza un’accelerazione del processo rivoluzionario. Agli inizi di aprile fu istituito il Comitato di Salute Pubblica, e due mesi dopo una sollevazione popolare espelleva i moderati girondini dalla Convenzione Nazionale e dava il potere ai giacobini, il partito dei democratici radicali guidato da Robespierre.
L’austriaca traditrice In questo clima di massima tensione, Maria Antonietta divenne nuovamente il bersaglio dei rivoluzionari. Si diceva che i suoi contatti segreti con la sua famiglia austriaca avessero provocato l’invasione e, con essa, il sacrificio di decine di migliaia di soldati francesi. Un pamphlet dell’epoca proclamava: «Anni fa, migliaia di uomini sono stati assassinati perché esisteva in Francia una donna malva-
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1792
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La folla assalta Versailles e costringe i sovrani a trasferirsi a Parigi.
Maria Antonietta convince il marito a fuggire da Parigi, ma sono catturati.
La famiglia reale viene condotta al Temple. Nel gennaio 1793, Luigi XVI viene ghigliottinato.
Processata e giudicata colpevole di alto tradimento, Maria Antonietta viene giustiziata.
LUIGI XVI IL GIORNO DELL’INCORONAZIONE. RITRATTO DI DUPLESSIS. 1774. MUSÉE CARNAVALET, PARIGI. BRIDGEMAN / ACI
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venturata principessa! Il matrimonio con me le aveva promesso un trono. E ora? Che sarà di lei?». Quando, nel gennaio del 1793, comunicarono a Luigi XVI di Francia la sentenza della Convenzione Nazionale che lo condannava a morire sulla ghigliottina, i pensieri del sovrano si rivolsero prima di tutto alla moglie, Maria Antonietta d’Austria.
COCCARDA RIVOLUZIONARIA
Nel 1789, JeanSylvain Bailly, sindaco di Parigi, consegnò al re la coccarda tricolore, che la accettò come simbolo di unione tra la monarchia e la nazione. Deutsches Historisches Museum, Berlino.
LA PRIGIONE RIVOLUZIONARIA
Dopo la creazione del Tribunale rivoluzionario, nel marzo del 1793, la Conciergerie divenne prigione politica. Accolse fino a 500 prigionieri, tra cui, da agosto a ottobre 1793, Maria Antonietta. BRIAN JANNSEN / AGE FOTOSTOCK
DOPO L’ESECUZIONE di Luigi XVI, Maria Antonietta, i suoi figli e la sorella del re, Elisabetta, rimasero rinchiusi nella Torre del Tempio. Il 3 luglio 1793, alle nove di sera, gli inviati del Comitato di Salute Pubblica irruppero nella cella della famiglia reale per portare via il Delfino e, per usare le loro stesse parole, sottrarlo alla perniciosa influenza della madre. Il dipinto di Edward Matthew Ward (XIX secolo) raffigura il momento della separazione.
ROBESPIERRE, UNO DEGLI ISTIGATORI DEL PROCESSO CONTRO MARIA ANTONIETTA. DIPINTO DI PIERRE ROCH VIGNERON. 1786. VERSAILLES.
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la guardia Jean Gilbert, al quale fu promessa una considerevole somma di denaro per lasciarla evadere, decise di trattenerla. Il 3 ottobre, la Convenzione decise che il processo di Maria Antonietta doveva avere inizio immediatamente. Il giorno 12 svegliarono Maria Antonietta nel cuore della notte e la condussero davanti al presidente del Tribunale Rivoluzionario, Martial Joseph Armand Herman, e del pubblico accusatore, Antoine Fouquier-Tinville, per un interrogatorio segreto. Quando questo ebbe termine, le offrirono due avvocati difensori, Chauveau-Lagarde e Tronson du Coudray, che ebbero solamente un giorno di tempo per esaminare caso. Il giorno 14, la regina comparve infine davan/A
Sapendo che la Conciergerie era l’anticamera della ghigliottina, alcuni fedeli alla monarchia organizzarono vari tentativi di liberare la regina. La più nota è la cosiddetta congiura del garofano, dal nome dei fiori che, il 28 di agosto, il cavaliere Alexandre de Rougeville lasciò cadere ai piedi della regina durante una visita alla sua cella. Nascosto tra i garofani, un messaggio prometteva la sua liberazione. Più tardi, Rougeville e l’ispettore delle carceri Jean-Baptiste Michonis tornarono alla cella di Maria Antonietta per esporle i dettagli della fuga, prevista per la notte del 2 settembre. Sembrava che l’operazione potesse avere successo, ma all’ultimo momento,
L’ADDIO AL FIGLIO LUIGI CARLO
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«Il flagello dei francesi»
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gia per la quale il vapore che emana il sangue umano che scorre a fiumi era un profumo delizioso». Come qualsiasi altro controrivoluzionario e traditore, Maria Antonietta doveva essere giudicata e condannata. Il 1° agosto, alla Convenzione il deputato Bertrand Barère si interrogava sulle ragioni per cui la Francia si vedeva attaccata su più fronti: «È forse l’oblio dei delitti dell’Austriaca? È la nostra indifferenza per la famiglia Capeto che ha ingannato i nostri nemici? Ebbene, è tempo di estirpare tutti i rampolli del potere reale!». Quello stesso giorno, la Convenzione approvò il trasferimento della regina dal Temple alla Conciergerie per metterla a disposizione del tribunale rivoluzionario. Già nelle settimane precedenti il regime carcerario cui era sottoposta Maria Antonietta era andato facendosi sempre più duro. Ai primi di luglio, con il pretesto che si stava tramando un complotto per liberare suo figlio e proclamarlo re, la separarono brutalmente dal bambino, che posero sotto la custodia del ciabattino Antoine Simon. Alla Conciergerie, Maria Antonietta fu rinchiusa in una piccola cella sotto la vigilanza costante di due guardie. La sua situazione era resa ancor più penosa dal fatto che ormai era gravemente malata. La tubercolosi, che aveva fatto strage nella sua famiglia, aveva colpito anche lei, e inoltre soffriva di emorragie, probabile indizio di un incipiente cancro all’utero.
PRIGIONIERA NUMERO 280
Maria Antonietta fu registrata alla prigione della Conciergerie come Antonietta Capeto o prigioniera numero 280. Il dipinto di C.-L. Muller la ritrae nella sua minuscola cella, sorvegliata da un sans-culottes. Museo d’Arte, Amburgo. BRIDGEMAN / / ACI
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ti al tribunale. La fecero sedere su un podio al centro della sala, dinanzi al presidente, al pubblico accusatore e ai dodici membri della giuria. Un testimone a sfavore dichiarò che «Antonietta fingeva la calma dell’innocenza, ma i suoi sguardi erano arroganti e non tranquilli; scrutava con gli occhi i presenti e sembrava sorpresa dallo spaventoso silenzio che osservava il popolo». Fouquier-Tinville lesse l’atto d’accusa, nel quale le si imputava di aver istigato il tradimento di Luigi XVI quando aveva cercato di lasciare la Francia (la fuga di Varennes, nel giugno del 1791), di aver cospirato con i nemici della Francia e di aver sperperato fondi pubblici. Fouquier-Tinville concludeva così: «Preso esame di tutti gli atti trasmessi dall’accusatore pubblico, ne risulta che, parimenti a Messalina, Brunilde, Fredegonda e Caterina de’ Medici, qualificate un tempo regine di Francia, e il cui nome per sempre odioso mai si cancellerà dai fasti della storia, Maria Antonietta, vedova di Luigi Capeto, dal giorno della sua venuta in Francia è stata sempre il flagello e la sanguisuga dei francesi».
LA NEMICA DELLA RIVOLUZIONE LA CARICATURA qui sopra è un esempio degli attacchi che si attirò Maria Antonietta per la sua opposizione alle misure rivoluzionarie. Giocando con la somiglianza dei due termini in francese, autruche e Autriche, viene presentata come uno struzzo e un’austriaca, con piume che simboleggiano il lusso e artigli da arpia. In bocca tiene una Costituzione e dice: «Digerisco l’oro e l’argento con facilità, ma la Costituzione non mi va giù».
Condannata a morte di me. Chiudo osservando che fui soltanto la moglie di Luigi XVI e che dovevo pure conformarmi alla sua volontà». Fouquier-Tinville confermò allora le sue accuse e subito dopo gli avvocati difensori improvvisarono arringhe nelle quali tentarono di convincere i membri della giuria della mancanza di prove dei crimini che si attribuivano a Maria Antonietta. Molto accorato fu Chauveau-Lagarde, che contestò l’accusa di una«presunta cospirazione con le potenze straniere» e che la regina ringraziò di tutto cuore. Tronson-du Coudray contestò l’accusa della sua «presunta cospirazione con i nemici all’interno della nazione». Al termine degli interventi, che furono ascoltati «in assoluto silenzio» dal pubblico, gli avvocati vennero arrestati nella stessa sala delle udienze. IL DELFINO LUIGI CARLO, FIGLIO DI LUIGI XVI E MARIA ANTONIETTA, CHE MORÌ NEL 1795. RITRATTO DI A. KUCHARSKI. VERSAILLES.
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Furono quarantuno i testimoni che, suddivisi in quattro sedute celebrate in due giorni, deposero nel processo alla regina. Erano ministri, servi o gendarmi che avevano avuto un rapporto diretto con la regina e che, quindi, dovevano aver assistito personalmente agli atti criminali di Maria Antonietta. Tuttavia, nessuno addusse prove materiali dei fatti, e nelle loro dichiarazioni si limitarono a riferire voci o formulare accuse generiche influenzate dalla propaganda del momento. Per esempio, un certo Rossillon, «chirurgo e artigliere», la accusò «di essere l’istigatrice dei massacri che sono avvenuti in diversi luoghi della Francia [...] e di aver contribuito a portare la Francia sull’orlo del baratro». Quando, al termine dell’ultima udienza, il presidente Herman domandò a Maria Antonietta se volesse dire qualcosa in propria difesa, lei rispose: «Ieri non conoscevo i testimoni e non sapevo che cosa avrebbero detto. Ebbene, nessuno ha pronunciato niente di positivo su
PLACE DE LA CONCORDE
La monumentale piazza, la più grande di Parigi, fu abbellita nel 1755 con statue e fontane. Nel 1793, quando era Place de la Révolution, fu lo scenario delle esecuzioni di Luigi XVI e di Maria Antonietta. WALTER ZERLA / GETTY IMAGES
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L’accusata fu condotta in un’altra stanza, dopo di che il presidente del tribunale pronunciò un’arringa davanti alla giuria nella quale reiterò tutte le accuse e insisté nel dire che non era il momento di soffermarsi sulle prove materiali né di cedere al «sentimento di umanità»: bastava la testimonianza delle migliaia di rivoluzionari e soldati morti negli ultimi cinque anni «a causa delle macchinazioni infernali» di Maria Antonietta. I giurati si ritirarono per deliberare e in capo a un’ora dichiararono la regina colpevole di connivenza con il nemico e cospirazione contro la Repubblica, insomma di alto tradimento. Ricondotta nella sala, la regina ascoltò il pubblico ministero Fouquier-Tinville, che richiese la pena di morte, e poi il verdetto pronunciato dal presidente: «La corte, dopo la dichiarazione unanime della giuria, ascoltata la requisitoria del pubblico ministero, e secondo le leggi da questi citate, condanna la suddetta Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, vedova di Luigi Capeto, alla pena di morte». La sentenza doveva essere eseguita in Place de la Révolution (oggi Place de la Concorde).
LA REAZIONE DEL POPOLO SECONDO UN OSSERVATORE della polizia, dopo l’esecuzione di Maria Anto-
nietta molti lanciarono in aria i cappelli, «e tutti gli spettatori applaudirono vedendo la sua testa». Altri, invece, «la maggior parte di quelli attorno a me», si preoccupavano per le rappresaglie dei nemici sui prigionieri francesi. Per altri ancora, «sarebbe stato meglio ghigliottinarla per prima e lasciare Luigi Capeto tra di noi; è stata lei a fare tutto il male».
Verso il patibolo Alle quattro del mattino, Maria Antonietta lasciò il tribunale e fece ritorno in cella. Per la prima volta da mesi aveva a disposizione carta e penna, che usò per scrivere un’ultima lettera alla cognata Elisabetta: «Sono stata condannata non a una morte vergognosa, essa non è tale che per i delinquenti, ma a raggiungere vostro fratello; innocente come lui». Nella missiva, che Elisabetta non ricevette mai, Maria Antonietta le chiedeva di prendersi cura dei figli e concludeva: «Chiedo perdono a tutti quelli che conosco e perdono a tutti i miei nemici il male che mi hanno fatto». La giornata di mercoledì 16 ottobre 1793 si presentava mite, con una leggera foschia. Con un semplice vestito bianco, una cuffietta, i capelli tagliati corti e le mani legate dietro la schiena, Maria Antonietta uscì dalla Conciergerie verso le undici del mattino. Tutta Parigi si era riversata nelle vie per assistere al corteo. La gente che gremiva tetti e balconi fischiava e insultava la regina, che era diventata l’in-
carnazione del male. Secondo un testimone oculare, lei «volgeva tranquillamente lo sguardo sul popolo innumere che gridava “Viva la Repubblica!”». Ci fu soltanto un momento in cui si emozionò, alla vista del palazzo delle Tuileries. Quando giunse al patibolo, però, si ricompose e recuperò la calma. Un testimone riassunse così la sua esecuzione: «Alle dodici e un quarto in punto la sua testa cadde sotto la spada vendicatrice delle leggi e il boia la mostrò al popolo, che acclamò ripetutamente gridando “Viva la Repubblica! Viva la libertà!”». Per saperne di più
L’ESECUZIONE DI UNA REGINA
Il dipinto anonimo del XVIII secolo raffigura il momento in cui il boia mostra al popolo festante la testa di Maria Antonietta. Musée Carnavalet, Parigi.
SAGGI
Maria Antonietta. La solitudine di una regina Antonia Fraser. Mondadori, Milano, 2004. Maria Antonietta. L’ultima regina Évelyne Lever. Rizzoli, Milano, 2001. Maria Antonietta Stefan Zweig. Castelvecchi, Roma, 2013.
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LA TERRIBILE ACCUSA Durante il processo, Maria Antonietta dovette rispondere a un giornalista
MEMBRI DELLA GIURIA PRESIDENTE DEL TRIBUNALE
TRE GIUDICI
Donzé-Verteuil, Lane, Foucault
Herman
SEGRETARIO
Fabricius PUBBLICO MINISTERO
Fouquier-Tinville
TESTIMONE
Hébert
AVVOCATO DIFENSORE
Chauveau-Lagarde
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A UNA MADRE
PROCESSO DI MARIA ANTONIETTA. INCISIONE DI PIERRE BOUILLON. 1793. MUSÉE CARNAVALET, PARIGI.
che l’accusò di aver traviato il suo stesso figlio
AVVOCATO DIFENSORE
Tronson-du Coudray
MARIA ANTONIETTA
«Se non ho risposto, è perché la Natura stessa si rifiuta di rispondere a una simile accusa lanciata contro una madre! Mi appello a tutte le madri che sono presenti!».
acques-René Hébert era un giornalista e un rivoluzionario dell’ala più radicale, fondatore del giornale Le Père Duchesne. Sfruttando una dichiarazione del ciabattino Antoine Simon, a cui era affidato Luigi Carlo, figlio della regina, Hébert testimoniò che il bambino, che all’epoca aveva otto anni, sorpreso a masturbarsi, avrebbe detto di essere stato iniziato a tali pratiche dalla madre e dalla zia. Hébert produsse anche una presunta dichiarazione firmata dal bambino e accusò Maria Antonietta di incesto. Quando il presidente la interrogò sulla questione, Maria Antonietta rispose in modo tale da emozionare tutta la sala e l’accusa venne lasciata cadere.
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LABORATORIO DELL’ITALIA FUTURA
LA REPUBBLICA ROMANA Nel quadro dei moti risorgimentali che scossero la penisola, la pur breve esperienza repubblicana a Roma del 1849 rappresentò un importante momento storico che poggiò su grandi principi democratici e costituzionali
ENRICO FRANCIA PROFESSORE DI STORIA CONTEMPORANEA, UNIVERSITÀ DI PADOVA
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a rivoluzione del 1848 si era aperta in Italia nel segno di un papa, Pio IX, acclamato come liberatore dell’Italia. Alla fine di quell’anno Pio IX fuggiva da Roma, dove il 9 febbraio 1849 un’Assemblea Costituente dichiarava «il Papato decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano», che prendeva da quel momento il «glorioso nome di Repubblica Romana». Per capire le ragioni di questo radicale capovolgimento di fronte, occorre riavvolgere il nastro degli avvenimenti e andare al 1846. Nel giugno di quell’anno, il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti veniva eletto papa con il nome di Pio IX. Lo Stato che era chiamato a governare era considerato dal movimento patriottico come la manifestazione più evidente della reazione e dell’oscurantismo.
IL GENERALE DELLA REPUBBLICA
Giuseppe Garibaldi, protagonista militare della rivoluzionaria esperienza repubblicana a Roma del 1849. Ritratto di Silvestro Lega, Museo Civico e Risorgimentale Don Giovanni VeritĂ di Modigliana (FC). DEA / SCALA, FIRENZE
LA CREAZIONE DEL MITO GARIBALDINO
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RANO TUTTE FIGURE snelle, atletiche,
SCALA, FIRENZE
risolute [...] Indossavano tutti gli splendidi abiti della legione garibaldina, la tunica rosso fiamma, il berretto greco, oppure cappelli rotondi con la piuma come i Puritani. I lunghi capelli al vento, i volti decisi [...] non si voltavano indietro, non esitavano» (Margaret Fuller). Coraggio, fermezza, ma anche un “pittoresco” modo di abbigliarsi, che aveva poco del militare e che invece ricordava gli eroi romantici di Walter Scott: così la stampa straniera descriveva i legionari italiani di Garibaldi impegnati nella difesa di Roma, contribuendo in modo decisivo alla costruzione del mito garibaldino. Un mito che, capovolgendo la tradizionale immagine dell’italiano imbelle, alimentò nell’opinione pubblica europea il sostegno alla causa italiana, vinta dunque prima sul piano mediatico, che su quello militare.
GARIBALDI SUL GIANICOLO
A capeggiare le truppe a difesa della Repubblica vi era, tra gli altri, Giuseppe Garibaldi, che presidiava il Gianicolo tra Porta Portese e Porta San Pancrazio.
Però nel 1843 un abate piemontese, Vincenzo Gioberti, aveva pubblicato il Primato civile e morale degli italiani, che ebbe uno strepitoso successo. Gioberti avanzava una proposta all’apparenza priva di verosimiglianza: il papa doveva essere il leader spirituale e politico del riscatto della nazione, che sarebbe arrivato senza rivoluzioni, ma attraverso riforme e accordi tra i sovrani italiani. E Pio IX ben presto sembrò incarnare proprio quel papa patriota descritto da Gioberti. Tra il 1846 e il 1847 Pio IX avviò una politica di riforme interne, che fu imitata da altri sovrani italiani, si fece promotore di una
lega doganale e nel marzo 1848 concesse addirittura la Costituzione. Nello stesso mese sembrò appoggiare anche la guerra scoppiata al nord dopo le insurrezioni di Milano e di Venezia. Ma proprio al culmine della sua popolarità nel movimento patriottico, Pio IX squarciò quel velo di ambiguità che aveva ammantato fino a quel momento le sue azioni. Infatti, se Pio IX poteva accettare l’immagine di un papa guida spirituale della nazione, non poteva però muovere guerra contro una nazione cattolica, né rischiare il suo potere temporale dando troppo spazio ai liberali. Il 29
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Sull’onda dei moti rivoluzionari che si andavano diffondendo, papa Pio IX concede la Costituzione. La sua posizione riguardo alle riforme rimane ambigua.
A Roma, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi avvenuto il 15 novembre, la tensione cresce sempre più e papa Pio IX, durante la notte, fugge dalla città. Si rifugia a Gaeta, al tempo parte del Regno delle Due Sicilie.
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SEI MESI PER UN IDEALE
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ENZE
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PELLEGRINO ROSSI. POLITICO ASSASSINATO NEL 1848, RITRATTO.
BRIAN JANNSEN / AGE FOTOSTOCK
aprile di fronte al collegio cardinalizio Pio IX non solo rigettava la guerra in quanto contraria alla sua missione universale, ma prendeva le distanze anche dalla sua stessa politica riformista. Questa dichiarazione non solo incrinava profondamente l’immagine del papa liberatore dell’Italia, ma metteva in crisi l’intero progetto moderato. Una crisi che divenne irreversibile con la sconfitta militare nel luglio 1848 che riportava gli austriaci in Lombardia e in Veneto. Il declino della proposta moderata dava ora spazio ai democratici che provarono a mettere in pratica le loro parole d’ordine: guerra di po-
polo e sovranità popolare. Come realizzarle ? Attraverso un’Assemblea costituente eletta a suffragio universale in cui si trovassero tutti i rappresentanti della nazione e che promuovesse la ripresa della guerra. Alla realizzazione di questa proposta mancava però, come scriveva Mazzini, un «centro propulsore» che fu subito individuato in Roma.
La fuga di Pio IX Nei mesi successivi all’Allocuzione la situazione a Roma era tesa e confusa. Mentre Pio IX manteneva una posizione ambigua – non sosteneva la guerra, ma non ritirava il suo so-
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30-4-1849
L’Assemblea Costituente vota a maggioranza la decadenza del potere temporale del papa. Nasce la Repubblica romana guidata da un triunvirato. Le grandi potenze europee si mobilitano a favore del papa.
Agli ordini di Oudinot, l’esercito francese del futuro Napoleone III tenta l’assedio di Roma, ma viene respinto. La neonata Repubblica continua tuttavia a essere minacciata dagli austriaci a Nord e dai borbonici a Sud.
LA BASILICA DI SAN PIETRO
La sede pontificia si trova a breve distanza dal Gianicolo (visibile a sinistra nella foto), il colle dove si consumarono molte, e sanguinose, battaglie della Repubblica.
3-7-1849 Dopo un secondo assedio dei francesi, questa volta vittorioso, la Repubblica romana soccombe. Il 12 aprile dell’anno seguente il pontefice torna a Roma. Termina così la rivoluzionaria esperienza della Repubblica romana. PISTOLA CON COLTELLO A ROTAZIONE IMPIEGATA DAI GARIBALDINI. T. SPAGONE / AGE FOTOSTOCK
LA COSTITUZIONE CONCESSA DAL PAPA
GIUSEPPE MAZZINI CHE ASSIEME A CARLO ARMELLINI E AURELIO SAFFI COMPOSE IL TRIUMVIRATO A CAPO DELLA REPUBBLICA ROMANA. BUSTO, NEW YORK.
T. WHITEFOOT / AGE FOTOSTOCK
Angelo Brunetti detto Ciceruacchio annuncia al popolo di Roma che Pio IX ha concesso la Costituzione. Dopo la fuga a Gaeta del pontefice, il patriota si unirà alla neonata Repubblica romana. Dipinto di Antonio Malchiodi (XIX-XX secolo). Museo di Roma.
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LA COSTITUZIONE MAI ATTUATA
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NA COSTITUZIONE ROMANA secondo me non deve farsi
[...]». Le parole di Mazzini, convinto che la Repubblica dovesse concentrarsi solo sulla guerra nazionale, non trovarono ascolto. Il 13 febbraio l’Assemblea Costituente diede avvio all’iter per la redazione di un progetto di costituzione. Dopo tre mesi di lavori istruttori, il testo venne presentato in Assemblea per la discussione finale, che avvenne mentre la città era sotto assedio, con i deputati che facevano la spola tra le barricate e l’assemblea. Il 1° luglio l’Assemblea approvava la Costituzione, composta di soli 69 articoli, preceduti da 8 principi fondamentali. Prodotta in circostanze eccezionali, la Costituzione romana è essa stessa un testo eccezionale: poneva tra i suoi principi fondamentali la sovranità popolare, la libertà, l’eguaglianza, la fraternità; impegnava la Repubblica a migliorare le condizioni morali e materiali dei suoi cittadini; definiva la cittadinanza in larga parte secondo lo jus soli; garantiva in modo quanto mai ampio i diritti politici e civili; faceva dell’Assemblea eletta a suffragio universale il motore della vita politica. Mai attuata e di fatto dimenticata nel corso degli anni successivi, la Costituzione romana però sarebbe stata celebrata nel 1947 come unico antecedente della Costituzione repubblicana.
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stegno alla causa italiana – nel Parlamento risuonavano appelli alla mobilitazione patriottica con il rumoroso sostegno della piazza e dei circoli politici. L’obiettivo di Pio IX divenne quindi quello di ristabilire l’ordine interno e per questo affidò la guida del governo a Pellegrino Rossi, celebre giurista liberale, ma anche poco interessato alla questione nazionale. Il 15 novembre, mentre saliva le scale della Cancelleria per inaugurare la nuova sessione della Camera, Rossi fu circondato da un gruppo di reduci e pugnalato a morte. La notizia della tragica fine di Rossi fu accolta in città con manifestazioni di giubilo, e la sera stessa una folla di quasi 10.000 persone si recò sotto il Quirinale per chiedere minacciosamente la formazione di un governo patriottico e la convocazione di un’Assemblea Costituente. Pio IX acconsentì alla prima richiesta, ma in realtà preparava già la fuga da Roma, che avvenne il 24 novembre. Si trattava di un clamoroso gesto di rottura con il movimento patriottico, suffragato dal successivo documento redatto a Gaeta con il quale Pio IX dichiarava illegitti-
mi gli atti del governo romano. In una Roma senza papa, nella quale affluivano democratici da tutta la penisola, si apriva ora una fase di grande fermento, dominata dalla richiesta di una Costituente, che avrebbe dovuto definire l’assetto del nuovo Stato e nello stesso tempo costituire il nucleo della nazione italiana. E il 29 dicembre il governo provvisorio romano stabiliva che il 21 gennaio 1849 i cittadini dello Stato romano avrebbero votato a suffragio universale per un’Assemblea Costituente.
IL DECRETO DELLA REPUBBLICA Manifesto redatto dai triunviri Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi, con cui il 12 aprile del 1849 la Costituente della Repubblica romana dichiara il Po fiume nazionale.
La nascita della Repubblica Alle votazioni prese parte circa un terzo degli aventi diritto, percentuale che a Roma superò il 40%. Numeri di tutto rilievo se si considera che occorreva mobilitare una popolazione in larga parte analfabeta e lontana dalle vicende politiche, sulla quale poi pendeva la solenne condanna del papa contro la Costituente. Il 9 febbraio l’Assemblea Costituente votava a schiacciante maggioranza (120 a favore, 10 no, e 12 DEA / SCALA, FIRENZE
astensioni) la decadenza del potere temporale e la creazione della Repubblica. All’inizio l’Assemblea si presentò come il motore della vita politica: si adunava tutti i giorni, compresa la domenica; teneva sotto controllo l’azione dei ministri; manteneva vivo il rapporto con il “popolo”, accogliendo petizioni, domande d’impieghi e di grazia. Però la minaccia militare, fattasi ancora più incombente dopo la sconfitta piemontese del marzo 1849, imponeva «di istituire una maniera di dittatura la quale andasse rivestita di straordinarie facoltà» (Giuseppe Gabussi). Fu creato un triunvirato al quale veniva affidato il governo della Repubblica ed erano assegnati «poteri illimitati per la Guerra dell’indipendenza e la salvezza della repubblica». I triunviri, Mazzini, Armellini e Saffi, usarono i loro poteri straordinari, legiferando e intervenendo con decisione nei diversi settori della vita pubblica, senza però mettere da parte l’Assemblea, che da aprile fu impegnata anche nella discussione STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA LETTERATA STATUNITENSE FILO-ITALIANA
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E TRAGICHE VICENDE della Repubblica
ebbero grande risonanza nell’opinione pubblica internazionale. Tra i testimoni più efficaci di questa epopea vi fu sicuramente Margaret Fuller. Nata a Boston, donna di straordinaria vivacità e cultura, nel 1846 era arrivata in Europa come redattrice del New York Tribune. A Londra aveva conosciuto Mazzini, divenendo un’accesa sostenitrice delle sue idee. Nel 1847 giunse a Roma, dove conobbe e sposò Giovanni Angelo Ossoli, un nobile romano che aderì al movimento patriottico e dal quale ebbe un figlio. Il suo appoggio alla Repubblica non si manifestò solo nelle appassionate cronache che inviava al suo giornale, ma anche in un impegno diretto, in quanto fu nominata responsabile dei soccorsi all’ospedale Fatebenefratelli. Morì nel naufragio della nave che nel 1850 la riportava negli Stati Uniti con la sua famiglia.
MARGARET FULLER, GIORNALISTA, SOSTENNE LE IDEE MAZZINIANE CONTRIBUENDO CON I SUOI ARTICOLI A DIFFONDERE GLI IDEALI DELLA REPUBBLICA.
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case religiose, stabiliva che «tutti i beni ecclesiastici dello Stato romano sono proprietà della Repubblica» (21 marzo). La Repubblica si preoccupò poi «di provvedere al progressivo miglioramento delle classi più disagiate». Cercò di farlo sia con misure di immediato effetto (diminuzione del prezzo del sale, abolizione del dazio sul macinato e riduzione di quello sul consumo, creazione del Monte agricolo nazionale, lavori pubblici), sia con misure strutturali. Stabilì che «la grande quantità dei beni rustici» che provenivano dalle proprietà ecclesiastiche fossero ripartite in porzioni «sufficienti alla coltivazione di una o più famiglie del popolo sfornite di altri mezzi». Il triunvirato assicurava però che non aveva intenzione di avviare una“guerra di classi”, ma voleva procedere al «miglioramento materiale dei meno favoriti dalla fortuna». Alla fine però la politica sociale della Repubblica ebbe scarsi effetti; il provvedimento di quotizzazione non poté essere attuato e i ceti popolari rimanevano duramente colpiti dall’inC
LA MONETA NELLO STATO PONTIFICIO Moneta da un baiocco emessa dalla Repubblica romana nel 1849. Il baiocco rappresentava l’unità base nello Stato pontificio che continuò a batterlo fino al 1865, anno in cui si adottò il sistema decimale.
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del progetto di Costituzione. Per i democratici, specie per i numerosi “stranieri” giunti a Roma nel corso di questi mesi (alcuni dei quali, come Mazzini e Garibaldi, erano stati eletti anche all’Assemblea), la Repubblica romana doveva essere il nucleo della nazione italiana. Lo chiariva Mazzini nel primo discorso in Assemblea: «Noi vogliamo fondare la nazione; noi non cerchiamo solamente lo sviluppo del diritto repubblicano, del benessere del popolo nello Stato Romano; ma tentiamo un’opera unificatrice». Anche se la Repubblica nasceva con queste finalità, nei suoi sei mesi di vita provò a cambiare il volto dello Stato, procedendo in primo luogo alla «estirpazione di ogni reliquia del clericale sistema». Tra febbraio e marzo l’Assemblea decretava l’abolizione del Santo Uffizio, di ogni privilegio del clero regolare e secolare e della censura preventiva. Ma soprattutto attaccava direttamente il potere economico della Chiesa: dopo aver proibito l’alienazione di beni a favore delle
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flazione, dalla crisi monetaria, dalla disoccupazione, e infine dagli effetti della guerra. E la guerra che presto si profilò non era per la liberazione dell’Italia, come sperato da Mazzini, ma per la sopravvivenza stessa della Repubblica.
L’intervento delle potenze europee Sconfitta la rivoluzione ormai in quasi tutta Europa, le principali potenze concordavano sull’opportunità di ristabilire l’ordine anche a Roma. Oltre all’impero austriaco le cui truppe erano già entrate a Ferrara, anche la Francia di Luigi Napoleone Bonaparte era interessata a ripristinare il potere papale, proprio per contrastare l’influenza austriaca sulla penisola. E poi chiaramente c’era il papa, al quale il re delle Due Sicilie che lo ospitava aveva offerto il suo aiuto. D’altra parte la Repubblica non poteva contare su alleati in Italia e all’estero. Ad aprile era caduto il governo democratico toscano; Venezia era sotto assedio oramai da tempo; dalla Gran Bretagna non c’era da aspettarsi alcun sostegno. A muoversi per primi furono i francesi. Il 17 aprile 1849 l’Assemblea nazionale
decise di inviare un corpo di spedizione, ufficialmente con il mandato di cercare una mediazione tra il papa e il governo repubblicano. Il 30 aprile il generale Oudinot, comandante della spedizione, si avvicinò a Roma con una parte del contingente, deciso a entrare nella città. L’assalto francese fu respinto, e anzi Garibaldi li inseguì per diversi chilometri fuori Roma, ma fu bloccato da Mazzini che non intendeva rompere definitivamente con la Francia. Si aprì allora un lungo periodo di trattative, ma alla fine di maggio l’Assemblea francese deliberò l’intervento per la restaurazione del potere temporale del papa. In questo mese di tregua con i francesi il governo romano ave-
GAETA, RIFUGIO DEL PONTEFICE
Quando nel 1848 Pio IX fuggì da Roma, si rifugiò a Gaeta, che al tempo faceva parte dei territori del Regno delle Due Sicilie. Qui il papa poté godere della protezione dei Borbone.
Mazzini era fortemente convinto che la Repubblica romana dovesse essere il nucleo della futura nazione italiana
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LE DONNE DELLA REPUBBLICA
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L 27 APRILE DEL 1849, imminente lo scontro con i france-
si, il governo repubblicano invitava le donne romane a formare «un’associazione allo scopo di assistere i feriti». Pochi giorni dopo tre donne, tra le più celebri patriote di questi mesi – Cristina Trivulzio di Belgioioso, Enrichetta Pisacane e Giulia Bovio Paulucci – venivano nominate nell’amministrazione delle ambulanze. Molte romane si presentarono per fare da infermiere presso ospedali e centri di soccorso che venivano costituiti in prossimità del fronte. Vi furono anche donne combattenti come Colomba Antonietti che, con suo marito il conte Luigi Porzi, si recò prima a Venezia e poi a Roma, dove chiese di far parte delle sortite e infine morì nella difesa di Porta San Pancrazio. Questa partecipazione femminile, però, doveva rimanere chiusa all’interno dei tradizionali confini di genere: le donne dovevano prendersi cura dei combattenti, ma fu invece lasciata cadere la proposta di creare una milizia civica femminile. Colomba Antonietti poté combattere solo travestendosi da uomo; la Costituzione repubblicana non apriva alcuno spazio alla presenza delle donne in politica. La guerra e la politica rimanevano, anche nella Roma democratica, un affare da uomini.
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CRISTINA TRIVULZIO DI BELGIOIOSO PARTECIPÒ ATTIVAMENTE ALLA DIFESA DELLA REPUBBLICA ROMANA. RITRATTO DI FRANCESCO HAYEZ, 1832 CIRCA.
va peraltro dovuto affrontare altre minacce: a sud Garibaldi aveva bloccato un corpo di spedizione borbonico, ma all’inizio di giugno era sbarcato un contingente spagnolo che, coordinandosi con i borbonici, occupò la parte meridionale dello Stato, senza però avvicinarsi a Roma. A nord il corpo di spedizione austriaco occupò le Legazioni, le Marche (solo Ancona resistette per quasi un mese) e buona parte dell’Umbria. Per fronteggiare queste diverse minacce militari, la Repubblica poteva contare su un esercito di circa 20.000 uomini, mal armato ed equipaggiato, composto da reparti del vecchio esercito pontificio e da corpi volontari che raccoglievano patrioti da tutta Italia. I leader militari della Repubblica, a dir la verità, erano divisi sul modo in cui combattere la guerra. Mazzini subordinava ogni strategia militare a due esigenze: salvaguardare Roma e dare vita a una guerra di liberazione nazionale che avesse come obiettivo principale l’Austria. Invece secondo Carlo Pisacane, alla guida della Commissione militare e poi capo di Stato Maggiore dell’esercito, la Repubblica doveva
impegnarsi in una guerra di movimento e non rimanere bloccata nella difesa della città. Capacità militare, slancio volontario, straordinaria popolarità, rappresentavano invece la cifra caratteristica dell’azione di Garibaldi, indiscusso protagonista militare della Repubblica romana, ma poco stimato da Pisacane e dai generali romani per la sua imprevedibilità. Garibaldi mostrava spesso insofferenza verso i capi militari della Repubblica, accusati di frenare il suo slancio militare e di essere una «ermafrodita generazione d’Italiani». Le ostilità ripresero il 3 giugno e dopo un violentissimo scontro le truppe francesi occuparono le posizioni strategiche sul Gianicolo. Iniziava l’assedio.
La fine di una rivoluzione La minaccia straniera aveva animato una forte mobilitazione popolare: come scriveva un diplomatico americano, «migliaia di persone da indifferenti si sono convertite in caldi e forti sostenitori della Repubblica». Popolani, borghesi e donne costruivano barricate, prestavano soccorso ai combattenti, imbracciavano
i fucili, ma il loro morale veniva messo a dura prova dai bombardamenti che Oudinot diresse anche contro gli edifici civili. Il 22 giugno le truppe francesi conquistarono la prima linea di difesa e il 30 giugno un nuovo massiccio attacco portò alla caduta della seconda linea, con gravi perdite tra i repubblicani. A questo punto, vista ormai persa la difesa della città, Mazzini propose di uscire da Roma insieme all’esercito per continuare la guerra. Ma, dopo un acceso dibattito, l’Assemblea deliberava di cessare «una difesa divenuta impossibile», provocando le dimissioni di Mazzini e degli altri triunviri. La Repubblica capitolava il 3 luglio, ma in quello stesso giorno veniva ufficialmente promulgata la Costituzione, ultimo atto di una rivoluzionaria esperienza. Per saperne di più
PALAZZO CORSINI
Teatro di uno dei più cruenti scontri tra truppe francesi e repubblicane nel giugno 1849. Sempre sul Gianicolo, nel Casino dei Quattro Venti, fu ferito Mameli, che morirà un mese più tardi.
SAGGI
Roma senza il papa. La Repubblica romana del 1849 Giuseppe Monsagrati. Laterza, Roma-Bari, 2014. 1848. La rivoluzione del Risorgimento Enrico Francia. Il Mulino, Bologna, 2012.
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GARIBALDI METTE IN FUGA I BORBONICI
A. DE GREGORIO / BRIDGEMAN / ACI
Il 9 maggio 1849, nei pressi di Palestrina, pochi chilometri a sud-est di Roma, l’esercito borbonico filo-papale e quello garibaldino filo-repubblicano si scontrarono in una sanguinosa battaglia. Con appena 2300 uomini, le truppe repubblicane riuscirono a bloccare l’avanzata delle colonne borboniche, che contavano invece 6700 uomini.
Giuseppe Garibaldi
Nino Bixio
Luciano Manara
Protagonista di molti degli scontri che caratterizzarono la breve esperienza repubblicana a Roma nel 1849, Giuseppe Garibaldi guidò le vittoriose Camicie rosse contro le truppe borboniche a Palestrina.
Al seguito di Garibaldi, Nino Bixio partecipò attivamente alla difesa della giovane Repubblica, seguendo il generale anche a Palestrina dove combatté al suo fianco contro le truppe napoletane guidate da Lanza.
Grande protagonista della battaglia di Palestrina fu un altro patriota, Luciano Manara, che perse poi la vita nella difesa della Repubblica, rimanendo ucciso il 30 giugno del 1849, durante l’assalto a Villa Spada.
1
In tre ore di duri scontri, le truppe di Garibaldi riconquistarono le case in cui si erano asserragliati i borbonici.
2
La vittoria garibaldina allontanò la minaccia borbonica, ma a Roma rimase quella francese.
3
Le Camicie rosse riuscirono a respingere il possente attacco sferrato dalla cavalleria borbonica.
GRANDI SCOPERTE
Il mondo in miniatura nella tomba del nobile Meketre Nel 1920, l’archeologo Herbert Winlock scoprì in una tomba egizia una eccezionale raccolta di statuine funerarie
1990 a.C. circa
MAR MEDITERRANEO
M E N FI
EGITTO
Asasif sud
MAR ROSSO
tebana. Il sepolcro, che fu saccheggiato nell’antichità, era già stato esplorato nel 1895 dall’egittologo francese Georges Daressy, e nel 1902 dall’archeologo Robert Mond. Winlock si propose di «pulire i corridoi e i fossi della tomba in modo da poter elaborare la mappa che i nostri predecessori non fecero». Durante l’opera di sgombero e pulizia, i manovali trovarono ventidue frammenti di una bara di legno con passaggi dei Testi dei sarcofagi (rituali magico-religiosi in uso soprattutto nel
Meketre, insignito del titolo di guardasigilli e gran maggiordomo, muore, forse sotto il regno di Amenhemat I.
Primo Periodo Intermedio (2181-2055 a.C.), oltre ad alcuni resti di rilievi dipinti di una cappella funeraria. Così appresero che il proprietario della tomba era un uomo chiamato Meketre, un alto funzionario vissuto durante il regno di Mentuhotep II, faraone della XI dinastia il cui tempio si trovava nelle immediate vicinanze.
Scoperta in extremis Un giorno, quando i lavori di pulizia erano quasi terminati, il fotografo della spedizione, Harry Burton (lo stesso che poco dopo avrebbe fotografato la scoperta della tomba di Tutankhamon), penetrò al tramonto nella tomba per congedare gli operai, ma li trovò molto eccitati: uno di essi aveva notato che alcune pietre, all’esercitare una pressione, “sparivano” attraverso una
fenditura fra il pavimento e il muro. L’uomo corse ad avvisare il suo supervisore ed entrambi premettero altri blocchi di pietra incolonnati in quel punto, vedendoli sparire nella fenditura.
1895
1902
1920
La tomba di Meketre, nella necropoli di Asasif sud, viene esplorata dall’egittologo francese Georges Daressy.
L’archeologo inglese Robert Mond visita la tomba e certifica la devastazione che tempo e ruberie vi hanno inferto.
Winlock e la sua squadra trovano per caso una raccolta completa di figurine funerarie nella tomba di Meketre.
GIOVANE PORTATRICE DI OFFERTE. TOMBA DI MEKETRE. XI DINASTIA. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. BRIDGEMAN / ACI
WERNER FORMAN / GTRES
H
erbert Eutis Winlock fu uno degli archeologi più attivi e fortunati dell’età dell’oro dell’egittologia, al principio del XX secolo. Collaboratore del Metropolitan Museum di New York, di cui arrivò a essere il direttore, partecipò a diverse spedizioni in Egitto, dove fece importanti scoperte. Quella che viene più frequentemente associata al suo nome avvenne nel 1920, mentre stava lavorando presso la necropoli di Asasif sud, vicino a Deir el-Bahari. Winlock concentrò la sua attenzione sulla tomba TT280, un’antica sepoltura che si apriva nella montagna
GRANDI SCOPERTE MEKETRE, seduto
sotto un porticato e circondato da scribi, effettua il controllo e il conteggio del bestiame delle sue proprietà. Museo Egizio, Il Cairo.
RITORNO FORZATO HERBERT WINLOCK (1884-1950) operò nella
Burton accese un fiammifero per illuminare la cavità così rivelata, ma non riuscì a scorgere nulla. Incuriosito, il fotografo avvisò Winlock affinché accorresse immediatamente con delle lanterne. Affaticato da una lunga giornata di lavoro, Winlock si mostrò maldisposto, ma alla fine acconsentì a dare un’occhiata. Una volta nella tomba, si stese a terra e indirizzò un fascio di luce verso l’apertura con poca convinzione.
Con grande sorpresa, la lanterna rivelò una quantità di figurine umane dipinte con colori brillanti e impegnate in svariate attività. Più tardi, l’archeologo avrebbe evocato in questo modo il momento della scoperta: «Un’alta e slanciata fanciulla mi restituì lo sguardo con una compostezza impeccabile. Piccoli uomini con bastoni fra le mani conducevano dei buoi pezzati; rematori muovevano i remi di una flotta di imbarcazioni,
grande epoca delle campagne archeologiche in Egitto organizzate dai principali musei nordamericani. Quando la crisi del 1929 ne segnò la fine, Winlock accettò l’incarico di direttore del Metropolitan Museum di New York. Nell’immagine, i membri della spedizione americana a Tebe nel 1925; Winlock, in piedi, è il primo a sinistra.
EGYPTIAN EXPEDITION, THE METROPOLITAN MUSEUM OF ART / ART RESOURCE / SCALA, FIRENZE
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Scene di vita quotidiana Anche se sono state trovate altre figurine funerarie in Egitto, la collezione rinvenuta nella tomba di Meketre è senza dubbio la più preziosa sia per qualità sia per quantità. Oggi, questa collezione si divide fra New York e Il Cairo.
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1 UNA MACELLERIA
Due bovini legati sono stati sacrificati e diversi uomini si affannano a smembrarli e a preparare la carne. Nella parte superiore, pezzi di carne appesi per l’essiccazione. 2 UN LABORATORIO TESSILE
3 UNA FALEGNAMERIA
Al centro, un falegname sega un pezzo di legno, mentre intorno altri impugnano delle asce. Un altro cesella con martello e scalpello una scatola in legno.
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FOTOS: WERNER FORMAN / GTRES
Un gruppo di donne prepara il lino da tessere su due telai orizzontali. Alcune donne sono chinate a tessere, altre, in piedi, a filare con i fusi.
THE METROPOLITAN MUSEUM OF ART / ART RESOURCE / SCALA, FIRENZE
GRANDI SCOPERTE
LE FIGURINE funebri di Meketre appena scoperte nella sua tomba, a Deir el-Bahari. Fotografia scattata da Harry Burton nel 1920.
mentre una di esse sembrava capovolgersi proprio davanti ai miei occhi, con la prua precariamente in equilibrio. E tutto si svolgeva nel silenzio più assoluto [...]». Il giorno seguente, gli archeologi penetrarono nella stanza. Non si trattava di una camera sepolcrale, ma di un piccolo ambiente dove erano state depositate ventiquattro piccole scatole in legno dipinto che rappresentavano laboratori e cortili in cui si muovevano pastori, macellai, panettieri, birrai, filatori, tessitori, falegnami e scribi. Tutti lavoravano affannosamente, offrendo una visione della vita quotidiana nelle
proprietà di Meketre. Intorno alle scatole si trovavano i prototipi di dieci navi con cui probabilmente Meketre poté effettuare viaggi lungo il Nilo. In uno di questi appare seduto con il figlio piccolo e con una cantante; in un altro, un arpista cieco anima la serata. Tutto questo aveva il fine di ricreare nell’Aldilà la piacevole e confortevole esistenza di Meketre. Winlock osservò che alcune statuine erano rotte: a un pescatore mancava un braccio e alcune navi mostravano segni di bruciature o avevano gli alberi staccati. Alcune figure erano state rosicchiate dai topi e altre ave-
vano macchie di mosche e ragni, anche se gli archeologi non ritrovarono segni della presenza di questi animali all’interno della stanza. Forse Meketre fece preparare i modellini funebri molto prima di morire e li conservò in un angolo della sua casa, dove subirono qualche danno.
Impronte millenarie Gli archeologi, che riuscivano appena a restare eretti in quella stanza stipata di oggetti, raccolsero con la massima cura i modellini delle navi e le scatole colme di statuine per portarli all’esterno. Solo Winlock e un membro della sua squadra
toccarono gli oggetti, con le mani fasciate con fazzoletti per non danneggiarle. Una volta sotto l’ardente sole egiziano, Winlock ebbe un’ultima emozionante sorpresa: vide che le figurine erano piene di impronte digitali. E non erano le sue, ma quelle «degli uomini che le avevano trasportate nella tomba dalla casa di Tebe quattromila anni prima e le avevano lasciate lì per il loro lungo riposo». CARME MAYANS ARCHEOLOGA
Per saperne di più
Vita quotidiana degli egizi Franco Cimmino. Rusconi, Milano, 1998.
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L I B R I E A P P U N TA M E N T I
ETÀ CLASSICA
Giochi e guerra, le affinità nell’antica Grecia
O Paola Angeli Bernardini
IL SOLDATO E L’ATLETA
Il Mulino, 2016, 272 pp., 24 ¤
gni quattro anni avvincono tutti, per ragioni diverse, che vanno dall’amore per lo sport a quello per la patria e, ogni quattro anni, i giochi olimpici celebrano uno degli aspetti caratterizzanti della cultura che li ha inventati: la competitività. Ma quanto agli occhi dei contemporanei appare come una mera manifestazione atletica, in origine rivestiva anche un importante ruolo civile, politico, culturale e religioso. Tanto importante che, durante la
celebrazione dei giochi, veniva istituita la tregua olimpica, ovvero una sospensione di ogni attività bellica: come a dire che nell’antica Grecia sport e guerra erano incompatibili. Ma quel che l’autrice del volume – professore emerito dell’Università di Urbino – presenta, tuttavia, non è un mondo dualistico fatto di atleti e soldati, agoni e battaglie, bensì un confronto tra due universi che condividono più di quanto non si pensi e che porta a chiedersi se, alla base di entrambi, non vi
sia una matrice culturale comune. Se l’allenamento e la preparazione fisica appaiono come le più evidenti caratteristiche condivise, nell’antica Grecia l’universo agonistico e quello militare sembrano governati anche da stili di vita affini: rigore, disciplina, spirito di sacrificio, combattività, carattere, amore per la sfida, per la lotta e, ovviamente, per la vittoria. In cinque capitoli e basandosi su fonti poetiche e storiografiche, l’autrice enuclea le similitudini che accomunano l’atleta e il soldato, il ruolo sociale dei due, le caratteristiche fisiche e morali che li distinguono e le cui imprese, durante i giochi come in battaglia, li fanno assurgere a campioni che la società intera canta e celebra. (A.G.)
SAGGI
DAL QUATTROCENTO AL SEICENTO TRA I FORNELLI IN TEMPI IN CUI la professione di cuoco è diventata tra
le più ambite, il volume di Antinucci esplora le cucine nella storia dalla prospettiva di tre protagonisti d’eccezione: Maestro Martino, Bartolomeo Scappi e François Vatel: il primo, cuoco al servizio del condottiero Ludovico Trevisan, il secondo di cardinali e di papa Pio V e l’ultimo al servizio di Fouquet nella Francia del Re Sole. Tre grandi chef le cui prelibatezze raccontano tre tempi e tre mondi: l’Umanesimo, il Rinascimento e il Barocco. Nel volume, tuttavia, non si scoprono solo le ricette e le usanze gastronomiche del tempo, ma si rivivono le tematiche e i delicati giochi di potere che, allora come oggi, spesso e volentieri si discutono a tavola. Francesco Antinucci
IL POTERE DELLA CUCINA Editori Laterza, 2016, 160 pp., 15 ¤
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GIOVE CUSTODE DI ROMA Andrea Carandini Utet, 2016, 238 pp., 20 ¤
GUIDA ALLE COMPOSITRICI Adriano Bassi Odoya, 2016, 384 pp., 24 ¤
UN VIAGGIO nel cuore di Ro-
MOZART, Schumann e Mah-
ma, nei cunicoli del tempo, nelle profondità archeologiche, alla scoperta di una storia millenaria nata sotto la protezione di Giove Statore. Una sorta di vademecum per scoprire le origini e le evoluzioni dell’Urbe che le tavole e i grafici di Mattia Ippoliti rendono ancora più prezioso.
ler sono solo alcuni degli altisonanti cognomi di celebri compositori, ma non è di loro che il volume tratta, bensì delle loro mogli e sorelle, compositrici che, come altre dal Seicento a oggi, la storia ha dimenticato o forse mai conosciuto e che il volume di Bassi vuole invece onorare.
STORIA DELL’ARTE
MIBACT - MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO
Pieter Paul Rubens, il fiammingo “italiano”
LA SCOPERTA DI ERITTONIO FANCIULLO, Pieter Paul Rubens,
The Princely Collections, Vienna.
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econdo lo storico dell’arte Giuliano Briganti, Rubens «può considerarsi l’archetipo del barocco»: alle sue parole sembra fare eco la mostra allestita a Milano, nel primo Piano Nobile di Palazzo Reale, che mette infatti in relazione il pittore fiammingo con la nascita del barocco. Patrocinata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, l’esposizione non si presenta tuttavia come una mera analisi di quanto Rubens abbia influenzato il barocco
italiano, ma sottolinea anche, in una sorta di mutuo condizionamento, quanto il nostro Paese e gli artisti italiani abbiano influito sulla sua arte. In Italia, infatti, Rubens soggiornò tra il 1600 e il 1608, qui studiò la scultura antica, la statuaria classica e gli artisti rinascimentali per poi farsi egli stesso maestro. Filo conduttore della mostra è proprio quello di evidenziare il ruolo artistico di Rubens tra un’eredità passata e un nascente barocco di cui saranno protagonisti artisti
quali Bernini e Pietro da Cortona. Articolata in quattro sezioni, la mostra espone oltre 70 opere, 40 delle quali di Rubens, riunite grazie alla collaborazione e ai prestiti di numerose sedi museali italiane e straniere, dal Museo Nazionale del Prado di Madrid all’Hermitage di San Pietroburgo, dalla collezione del Principe del Liechtenstein agli Uffizi di Firenze. Un evento imperdibile per scoprire la “furia” del pennello di Rubens e la nascita di un nuova, dirompente stagione. (A.G.) Pietro Paolo Rubens e la nascita del Barocco LUOGO Palazzo Reale, Milano TELEFONO 199 151121 WEB www.mostrarubens.it DATE Fino al 26 febbraio 2017
ANTICA CINA
Le porcellane dell’Impero celeste
dinastia Qing, era Qianlong (1736-1795).
cellane che testimoniano della vita civile, religiosa e anche quotidiana della Cina del tempo, capolavori artigianali in cui trovano posto vasi, lampade, oggetti rituali, statue, tazze, candelabri e incensieri, tutti in eleganti forme e colori capaci di svelare le antiche tradizioni cinesi e trascinare il visitatore nell’esotica culla in cui la porcellana nacque. (A.G.) Capolavori dell’antica porcellana cinese LUOGO Museo Nazionale di Palazzo Venezia, Roma WEB www.capolavoriporcellanacinese.it DATE Fino al 16 febbraio 2017
SHANGHAI MUSEUM
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u nell’antica Cina che per la prima volta venne prodotta la porcellana e fu in particolare sotto le dinastie Song (960-1279), Yuan (1279-1368) e Ming (13681644) che dalle fornaci uscirono prodotti ceramici destinati a divenire veri capolavori dell’arte. Sono 74 gli oggetti che compongono l’esposizione allestita nelle sale di Palazzo Venezia a Roma, tutti provenienti dal Museo di Shanghai e tutti dimostrazione di un’antica quanto raffinata maestria tecnica e decorativa. Lungo un percorso che si articola in tre sezioni, si potranno ammirare por-
INCENSIERE DEI CINQUE OGGETTI RITUALI FAMILLE ROSE SU FONDO CARMINIO ,
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ITINERARI Praga Parigi
3 PLACE DE LA CONCORDE VIII arrondissement, Parigi, Francia; www.parisinfo.com
I percorsi di Storica
Nella piazza più grande di Parigi per rivivere la storia della Francia monarchica e rivoluzionaria e dove, al posto dell’attuale obelisco, un tempo si ergeva la ghigliottina del Terrore.
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Dove e come visitare i luoghi storici e i musei legati ai servizi e ai personaggi di questo numero di Storica
DEL QUIRINALE
Piazza del Quirinale, Roma; http://palazzo.quirinale.it
Sin dal 1583 simbolo dell’Auctoritas, prima di ospitare il presidente della Repubblica, fu scelta come sede anche dai pontefici e dai re d’Italia.
il progressivo abbassamento. Nel Parco Regionale BraccianoMartignano, il lago rappresenta una vera oasi naturale, privo com’è di una strada perimetrale che lo costeggi, raggiungibile solo tramite sentieri nella ricca vegetazione che lo circonda. Un vero paradiso che allietava i romani di allora, e di oggi. pagina 34
naumachie a roma Nulla è rimasto della storica naumachia Augusti, il grande bacino fatto costruire dall’imperatore per la messa in scena delle battaglie navali, così come poco ancora si sa dell’acquedotto dell’Aqua Alsietina che lo alimentava, il cui tracciato e i cui resti sono ancora in fase di studio. Quel che sappiamo, tuttavia, è da dove l’acqua per la naumachia di Augusto veniva attinta, ovvero il lago di Martignano. Si tratta di un ameno specchio d’acqua – non a caso in origine chiamato lago Alsietino – situato in provincia di Roma, poco distante dal più noto lago di Bracciano. Di origine vulcanica, il lago si estende su un’area di poco superiore ai 2 km2 a un’altitudine di 205 metri s.l.m. con una profondità massima di circa 60 metri. Ben più profondo doveva essere in epoca romana, quando le sue sponde venivano frequentate come luogo di villeggiatura: ancora oggi, infatti, otto terrazze ne testimoniano 112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Roma
Il padiglione principale, Hondo, è situato su una piattaforma in legno che poggia su piloni alti 12 metri e dalla cui terrazza si può godere di un’impareggiabile vista panoramica sull’intera città. All’interno si trova una statua bronzea a undici teste, ma il cuore del complesso è di certo la cascata Otowa che, divisa in tre rivoli, è associata a tre diverse virtù. Ogni struttura qui si lega in realtà a particolari aspetti della tradizione giapponese e alla sua profonda misticità, ma anche i meno spirituali non potranno rimanere indifferenti agli splendidi colori dei fiori di loto e dei ciliegi in fiore che cingono il tempio.
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il giappone imperiale In un luogo chiamato «la città dei mille templi», come scegliere un itinerario di visita? Innanzitutto partendo proprio da un tempio che, al di là della bellezza artistica e architettonica, più di altri edifici forse permette di avvicinarsi al mistico mondo giapponese. Siamo a Kyoto, anzi sulle sue colline dove, in cima a un’altura, sorge il tempio di Kiyomizu-dera. Già patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, questo splendido complesso concorre anche per divenire una delle sette meraviglie del mondo moderno, e a ragione.
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le crociate viste dagli arabi Definita la “chiave della Palestina” per la sua posizione strategica lungo il litorale che rappresenta uno degli accessi alla Galilea occidentale, la città di Acri 1 , nel Nord dello Stato di
2 PALAZZO WALLENSTEIN Malá Strana, Praga; www.prague.eu
Voluto da Albrecht von Wallenstein nel cuore della Boemia a imperitura memoria del suo potere e della sua ambizione, rivaleggia per bellezza con l’imponente castello.
Acri
1 CITTADELLA DI ACRI
Distretto Settentrionale, Israele; www.goisrael.com
Una cittadella fortificata che nella storia ha visto gli assedi di Saladino e di Riccardo Cuor di Leone e che venne anche scelta come capitale del Regno crociato.
Israele, vanta una lunga e travagliata storia. Degli assedi, della conquista araba e crociata, qui si possono ancora ammirare le tracce, in particolare nella cittadella, una fortificazione risalente al periodo ottomano edificata però su una preesistente struttura voluta invece dall’Ordine degli Ospitalieri. L’imponente costruzione, munita di torre e fossato, giace infatti sulle sale dei Cavalieri risalenti agli inizi del XII secolo. Gli scavi archeologici hanno da poco riportato alla luce una serie di ambienti costruiti dai Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale che si articolano in sei sale semicomunicanti, nell’ampia sala dei pilastri, in quella dei prigionieri e nella sala del refettorio.
Praga. La costruzione del palazzo Wallenstein 2 , che attualmente è sede del Senato ceco, iniziò nel 1623 e si concluse sette anni più tardi, consentendo al suo proprietario di viverci solamente per poco tempo. Si tratta di un edificio imponente, per la realizzazione del quale il condottiero fece abbattere case e fornaci e che rappresenta il primo palazzo laico in stile barocco della città. Realizzata e decorata da maestranze italiane e olandesi, la residenza si compone di un’ala principale lunga 60 metri sulla cui facciata si aprono tre file di finestre identiche. Nella sala principale invece, sul soffitto, troneggia un affresco di Wallenstein raffigurato come il dio Marte, alla guida di un carro trainato da quattro cavalli. Visitabili (sempre a orari variabili in base alle sedute del Senato) sono anche la Camera delle Udienze, un piccolo ambiente circolare decorato da stucchi barocchi e la cappella in cui ammirare scene tratte dalla leggenda di San Venceslao. Lo sfarzo della residenza Wallenstein si inserisce inoltre in uno splendido giardino, aperto solamente durante il periodo estivo, nel quale rilassarsi passeggiando tra una grotta artificiale, una fontana, una galleria di statue bronzee, un variopinto parterre fiorito nonché maestosi pavoni.
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wallenstein Come si addice a ogni uomo ambizioso, anche Albrecht von Wallenstein volle una residenza che testimoniasse del suo prestigio e lo volle nel cuore di
maria antonietta Nel cuore di Parigi, affacciata sulla Senna, si apre una delle piazze più grandi della Francia: place de la Concorde 3 . Progettata a metà XVIII secolo per ospitare una monumentale statua equestre di Luigi XV, place de
la Concorde, durante la Rivoluzione francese fu destinata invece a ospitare la ghigliottina che giustizierà Luigi XVI e Maria Antonietta. Dall’alto dei suoi 23 metri, a dominare oggi la piazza è invece l’obelisco egizio di Luxor, risalente al XIII secolo a.C. i cui geroglifici narrano la gloria di Ramses II. Gli splendidi palazzi che si affacciano su questo grande spazio ottagonale fanno poi da cornice a due imponenti fontane, mentre ai lati si ergono delle statue rappresentanti ciascuna una città francese. Piazza simbolo del furore durante il Terrore, place de la Concorde è oggi un’elegante piazza turistica, testimone di oltre due secoli di storia.
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repubblica romana Palazzo simbolo del potere, oggi come nel 1849, è il Quirinale 4 , che sorge sull’omonimo colle nel centro di Roma. Oltre al suo spessore storico e politico, tanto da essere stato in passato residenza di reali e di pontefici (vi risiedette lo stesso Pio IX), il palazzo risalente alla fine del XVI secolo è anche un capolavoro artistico e architettonico. La visita – su prenotazione – consente più itinerari che si snodano tra il piano nobile, in cui ammirare tra gli altri lo scalone d’onore, il salone delle Feste, la galleria dei Busti, il passaggetto di Urbano VIII, lo studio del Presidente e la sala degli Specchi, per proseguire nei giardini, nel Museo delle Carrozze e, al pianterreno, con una mostra tutta istituzionale che comprende anche l’esposizione della storica – e quantomeno ancor oggi dibattuta – Costituzione italiana. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Prossimo numero LE IMPRESE DEI CAVALIERI DI SAN GIOVANNI NATO PER ASSISTERE
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i pellegrini in Terrasanta, l’Ordine monastico– militare dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme ha attraversato, non senza profondi mutamenti, oltre nove secoli di storia. Nel loro percorso, che prese avvio nella Gerusalemme dell’XI secolo, alla vigilia della prima crociata, per proseguire fino ai giorni nostri, gli ospitalieri hanno assistito e partecipato a eventi salienti nella storia conflittuale fra Europa e Medio Oriente.
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LA RIVOLTA DI MASANIELLO NEL 1647 A NAPOLI l’insofferenza popolare
nei confronti di un’ennesima imposizione fiscale istituita dagli spagnoli sfocia in un’insurrezione che avrà in Tommaso d’Aniello, detto “Masaniello”, il suo «Davide», come raccontato da una cronaca dell’epoca. Un povero pescatore, spesso dedito al contrabbando, per dieci giorni si troverà a governare una delle città più grandi dell’Impero spagnolo e d’Europa, divenendo quasi un sovrano assoluto in grado di guidare migliaia di persone pronte a eseguire i suoi ordini.
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Archeologia della Bibbia Finché gli archeologi del XX secolo non affondarono i picconi nel Vicino Orente, si pensava che i racconti biblici costituissero delle vere e proprie testimonianze storiche.
La Villa dei misteri a Pompei Questa residenza nei pressi della città seppellita nel 79 d.C. dall’eruzione del Vesuvio ha una stanza con magnifici affreschi che illustrano un rituale misterico.
La fastosa villa Adriana Nel II secolo, l’imperatore Adriano fece costruire a Tivoli una maestosa residenza imperiale, la più grande della storia di Roma: vennero eretti 30 edifici su 120 ettari.
In cerca di Antartide L’Ammiragliato inglese diede l’incarico di localizzare il grande continente australe al capitano Cook, che circumnavigò il globo nell’epica impresa.
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