N. 100 • GIUGNO 2017 • 4,50 E
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LA SETTA DEGLI ASSASSINI LE DONNE DI GIULIO CESARE
POLITICA, AMORE E SESSO NELLA ROMA REPUBBLICANA
LA VIA DELLA SETA LA LEGGENDARIA ROTTA ASIATICA
L’INFERNO DEI GRECI
art.
772035 878008 9
IL MISTICO CHE PORTÒ LA RUSSIA ALL’ABISSO
70100
RASPUTIN
periodicità mensile
IL TENEBROSO VIAGGIO DELLE ANIME NELL’ALDILÀ
EDITORIALE
Finché vivrò,
vivrà anche la dinastia. Ma se io muoio, prima che siano trascorsi sei mesi perderete vostro figlio e la corona». Era una mattina gelida, quella del 17 dicembre 1916 a San Pietroburgo, quando dalle acque ghiacciate della Piccola Neva venne ripescato il corpo rigido e spettrale di un uomo dalla capigliatura nera e lunga e dalla barba incolta. Sulla fronte tumefatta, il foro di un proiettile. Il cadavere era quello dell’autore della lugubre profezia indirizzata all’ultimo esponente dei Romanov, lo zar Nicola II. Poche figure del Novecento hanno goduto di una fama tanto longeva e controversa come Grigorij Efimovič Rasputin, il figlio di un contadino siberiano assurto agli onori della cronaca mondiale per essere stato l’uomo più influente della corte imperiale, tanto da segnarne perfino la caduta. Ancora nel 2000, lo storico e drammaturgo russo Edvard Radzinskij pubblica Rasputin. La vera storia del contadino che segnò la fine di un impero, basato su un documento straordinario, ottenuto dallo stesso Radzinskij a un’asta di Sotheby’s: il dossier originale delle indagini di polizia sul caso della morte del carismatico personaggio. Dal 1907 alla fine del 1916, Rasputin è guaritore, maestro spirituale e confidente dell’ultimo zar e di sua moglie Alessandra. Tra le sue doti confermate dalla storia spicca, soprattutto, quella di veggente: due mesi dopo il suo assassinio, infatti, la rivoluzione avrebbe messo fine, una volta per tutte, al casato che per più di trecento anni aveva regnato sulle terre di Santa Madre Russia. ANDREAS M. STEINER Direttore
Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION
N. 100 • GIUGNO 2017 • 4,50 E
LA SETTA DEGLI ASSASSINI
Pubblicazione periodica mensile - Anno VII - n. 100
LE DONNE DI GIULIO CESARE
CONSEJERO DELEGADO
ENRIQUE IGLESIAS
via Gustavo Fara 35 20124 Milano
LA VIA DELLA SETA LA LEGGENDARIA ROTTA ASIATICA
L’INFERNO DEI GRECI
IL TENEBROSO VIAGGIO DELLE ANIME NELL’ALDILÀ
RASPUTIN
IL MISTICO CHE PORTÒ LA RUSSIA ALL’ABISSO
CATTEDRALE DELLA RESURREZIONE, SAN PIETROBURGO. 1883-1907. FOTO: FOTOSA / FOTOTECA 9X12
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POLITICA, AMORE E SESSO NELLA ROMA REPUBBLICANA
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Insieme con Siviglia, la capitale spagnola fu il principale teatro d’azione dei picari.
Grandi storie
16 Sinuhe, il nobile esule in Egitto La storia del funzionario del faraone Amenemhat I, le cui vicissitudini diedero vita a uno dei più celebri racconti dell’antico Egitto. DI JOSÉ LULL
26 Il mondo dell’aldilà dei greci Secondo il mito, le anime dei defunti finivano in un lugubre regno sotterraneo, governato dal dio Ade. DI DAVID HERNÁNDEZ
40 Le donne di Giulio Cesare Grande seduttore, Cesare sfruttò politicamente ed economicamente le donne della sua vita. DI JUAN LUIS POSADAS
52 La Via della Seta Lungo la rotta commerciale tra la Cina e l’Impero romano circolarono anche idee, conoscenze e religioni. DI C. BUENACASA
66 Gli assassini di Alamut Dall’Iran, i nizariti diffusero la dottrina sciita nel Vicino Oriente e organizzarono attentati politici. DI VICENTE MILLÁN TORRES
76 Picari. I bassifondi del siglo de oro Nel XVI-XVII secolo la Spagna pullulava di piccoli delinquenti che sarebbero stati ritratti in romanzi e dipinti. DI F. NÚÑEZ ROLDÁN
116 Rasputin, l’ombra dello zar La storia del mistico che legò al proprio destino quello dei Romanov, l’ultima dinastia russa. DI J. M. CASALS
Rubriche
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ATTUALITÀ L’EVENTO STORICO
Frankenstein
Nel 1816, “l’anno senza estate”, Mary Shelley scrisse il suo celebre romanzo sul mostro creato da uno scienziato.
12 VITA QUOTIDIANA La pesca in Egitto
Il Nilo forniva una parte importante dell’alimentazione all’epoca dei faraoni.
110 DATA STORICA Il seppuku, l’addio dei samurai
Per salvare l’onore e dimostrare il proprio valore, i mitici guerrieri giapponesi si uccidevano con il terribile rito dell’harakiri.
110 LIBRI E MOSTRE 114 PROSSIMO NUMERO IL RATTO DI PROSERPINA (1622), DI GIAN LORENZO BERNINI. MUSEO BORGHESE, ROMA.
KYODO / AP IMAGES / GTRES
AT T UA L I T À
VISTA del mosaico
dell’ingresso dei bagni, con motivi geometrici.
NASSER / AP IMAGES / GTRES
VICINO ORIENTE
Terminato il restauro del grande mosaico di Gerico Il mosaico copre una superficie di più di ottocento metri quadrati del palazzo di Hisham, residenza dei califfi omayyadi
L’
impressionante mosaico di stile bizantino che ricopriva il pavimento all’ingresso dei bagni del palazzo di Hisham, a cinque chilometri da Gerico (Israele), è stato mostrato al pubblico per la prima volta per 24 ore dopo decenni di restauro. L’impressionante insieme, che si estende su 826 metri quadri, è ritornato a essere coperto in attesa che venga terminata la costruzione, quest’anno, di un tetto che lo protegga dall’erosione. L’ope-
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ra è uno dei maggiori mosaici del Vicino Oriente, e fra le sue 38 figure geometriche e floreali si distingue l’albero della vita, con un leone e tre cervi ai suoi piedi.
Residenza invernale Il mosaico, composto con tasselli di 21 differenti colori che si abbinano alle tonalità delle pareti e del soffitto, decorava dei magnifici bagni edificati nello stile delle terme romane. Il palazzo di Hisham, così chiamato per via del sovrano che
lo commissionò, il califfo omayyade Hisham ibn ‘Abd al-Malik a metà dell’VIII secolo, fu eretto come residenza invernale e comprendeva nel suo complesso un palazzo, una moschea, dei cortili e un giardino di 60 ettari, oltre a questi impressionanti bagni. Il palazzo fu distrutto nel 747 da un terremoto e il mosaico rimase nascosto e protetto sotto le macerie finché intorno al 1934 gli archeologi non portarono a compimento il primo scavo del recinto.
L’ALBERO della vita è
il pezzo più notevole del complesso ed è considerato come uno dei mosaici più belli del mondo. L’opera decora il pavimento di una piccola stanza in cui sono raffigurati un albero e un gruppo di animali. A un lato dell’albero, due cervi ne mangiano i frutti; all’altro, un leone divora un terzo cervo dopo averne fatto la sua preda.
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L’EVENTO STORICO
Frankenstein, 1816: l’anno in cui nacque un mostro In una fredda estate svizzera, Byron propose ai suoi amici una gara letteraria da cui scaturì uno dei più inquietanti romanzi della letteratura europea: Frankenstein, di Mary Shelley
L’
anno 1816 è passato alla storia come l’“anno senza estate”. L’eruzione del vulcano Tambora a Sumbawa (Indonesia), avvenuta l’11 aprile dell’anno precedente, liberò tonnellate di polvere di zolfo che si diffusero in tutto il pianeta, provocando un duraturo raffreddamento che alterò il ciclo agricolo e finì per causare carestie. Questi effetti arrivarono a farsi sentire anche in Svizzera: a Cologny, nei pressi del lago Lemano, in un’elegante dimora chiamata Villa Diodati, si era
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trasferito per quell’estate un gruppo di amici provenienti dall’Inghilterra: il poeta Percy B. Shelley; la sua amante dell’epoca, Mary Godwin; il celebre scrittore Lord Byron; il suo medico e segretario personale John Polidori e Claire Clairmont, sorellastra di Mary. Da buoni romantici, gli abitanti di Villa Diodati amavano la natura, erano affascinati dai progressi della scienza e nutrivano una grande passione per i romanzi gotici. A causa del clima si videro costretti a passare molto tempo chiusi in casa e si abituarono a tra-
scorrere le serate leggendo racconti del terrore. «La pioggia incessante ci confinava in casa. Alcuni volumi di storie di fantasmi capitarono fra le nostre mani [...] Sono freschi nella mia mente come se li avessi letti ieri», ricorderà Mary anni più tardi. Commentavano anche i progressi di una scienza che, al tempo, aveva ancora aspetti confinanti con la magia. In particolare erano affascinati dagli esperimenti scientifici legati all’elettricità, come quelli effettuati da Luigi Galvani, che consistevano nel muovere le zam-
L’EVENTO STORICO
FIGLIA DELLA BOEMIA LETTERARIA nacque a Londra il 30 agosto del 1797. I suoi genitori erano il filosofo William Godwin e Mary Wollstonecraft, una femminista che morì pochi giorni dopo il parto. Mary crebbe in un ambiente colto e molto stimolante, ma suo padre affidò la sua educazione alla sua seconda moglie, una donna conservatrice che non condivideva le teorie del marito e cercò di impartirle un’educazione più formale.
IL MEDICO scozzese Andrew Ure esegue un esperimento di eccitazione nervosa su di un cadavere nel 1818, anno di pubblicazione di Frankenstein.
MARY SHELLEY, DI R. ROTHWELL. 1840. NATIONAL GALLERY, LONDRA.
PRISMA / ALBUM
MARY GODWIN, poi Shelley,
SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
pe di una rana attraverso una scarica elettrica, così come dalle speculazioni di Erasmus Darwin sulla possibilità di restituire la vita alla materia inanimata grazie agli impulsi elettrici. In questo modo, fra storie di fantasmi, esperimenti e letture, la reclusione diede i suoi generosi frutti il giorno in cui Lord Byron propose che ogni membro del gruppo scrivesse una storia del terrore. L’idea fu accolta, e il risultato fu la nascita di due capolavori della letteratura fantastica: Il vampiro, di John Polidori – la storia di un seduttore aristocratico che dissangua
tutte le donne che cadono nella sua rete, antecedente il più celebre Dracula di Bram Stoker (1897) –, e Frankenstein, di Mary Shelley.
(fu lei a dichiararsi per prima), ma sin dal primo momento Godwin si oppose alla relazione, ragion per cui, decisa a non rinunciare a una vita in comune, due mesi dopo il primo incontro la La figlia del filosofo coppia fuggì in Francia in compagnia A quell’epoca, Mary Shelley era ancora di Claire, figlia della matrigna di Mary. Mary Godwin. Nata a Londra 19 anni Poco dopo si recarono in Svizzera dove prima, da bambina aveva presenziato rafforzarono i loro legami con Byron, ai circoli letterari e filosofici che suo di cui Claire divenne l’amante. padre, il filosofo William Godwin, Quando Byron lanciò la sua singolaorganizzava nella sua casa, di cui fa- re sfida, Mary ancora non aveva svelato cevano parte le penne e le menti più le sue capacità di scrittrice. Bisogna innovative del suo tempo. Fu lì che, supporre che la possibilità di affrontanel 1814, conobbe il poeta Percy B. re il foglio bianco la spaventasse, dato il Shelley, al tempo sposato e padre di suo carattere estremamente sensibile due figli. Entrambi si innamorarono e una certa instabilità emotiva che la portava a cadere spesso in stati depressivi e a porsi continuamente domande Percy Shelley frequentava sulla relazione fra vita e morte. Forse per questo, l’inconscio – aiutato dal i circoli in casa del padre laudano, un oppiaceo di moda all’epodi Mary, dove si conobbero ca, che utilizzava per combattere l’insonnia – accorse in suo aiuto. Secondo quanto ebbe a raccontare anni dopo, PERCY SHELLEY, DI A. CURRAN. 1819. NATIONAL GALLERY, LONDRA. AKG / ALBUM STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’EVENTO STORICO
VILLA DIODATI. Ubicata a
DEA / ALBUM
Cologny, in Svizzera, si chiamava Villa Belle Rive, ma Lord Byron le mise il nome della famiglia proprietaria. Il suo aspetto esteriore non è quasi cambiato.
una notte fece un sogno terrificante: credette di vedere «il pallido studioso di un’arte profanatrice inginocchiarsi accanto al risultato della sua opera, vidi l’orribile fantasma di un uomo disteso dare qualche segno di vita, per via di un potente meccanismo: lo vidi agitarsi, ancora informe ma già quasi umano». Era nato il mostro del dottor Frankenstein.
Mary tradusse il suo incubo in un breve racconto su di uno scienziato che creava un essere mostruoso. Di ritorno in Gran Bretagna, Mary trasformò il suo primo racconto in un romanzo che venne pubblicato nel 1818 con il titolo Frankenstein o il moderno Prometeo, senza che apparisse il nome dell’autrice. Contò per esso sull’aiuto di Shelley, con cui si era sposata dopo
NUOVO PROMETEO COME INDICA il sottotitolo del romanzo, Mary Shelley si ispirò al mito greco di Prometeo, figlio dei titani che, secondo una leggenda, creò gli uomini a partire dall’argilla, anche se in altre appare unicamente come loro benefattore. INCISIONE DELL’EDIZIONE DI FRANKENSTEIN DEL 1831. MARY EVANS PICTURE / AGE FOTOSTOCK
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il suicidio della sua prima moglie; la stessa Mary scriverà più tardi: «Mio marito mi ha sempre incitata a scrivere la mia pagina nel libro della fama e a crearmi una reputazione nell’ambito letterario». Nel 1831, riscrisse completamente la storia fino a ottenere la versione definitiva che è giunta fino ai nostri giorni.
Il dottore e la sua creatura Il romanzo racconta la storia di uno scienziato svizzero, il dottor Victor Frankenstein, che, dopo aver assistito alle lezioni di un professore dell’Università di Ingolstadt, in Baviera, sugli ultimi progressi della scienza, decide che lui andrà ancora più lontano. «Esplorerò nuove vie, nuovi poteri fino ad arrivare ai misteri più profondi della creazione». Frankenstein si mette a studiare febbrilmente l’anatomia animale e i processi di generazione e corruzione, finché un giorno riceve
WELLCOME IMAGES / SCIENCE SOURCE
L’esperimento che ispirò Mary Shelley
Incisione tratta da Saggio di esperienze sul galvanismo, di Giovanni Aldini. 1804.
Dal 1780, Luigi Galvani iniziò a effettuare esperimenti in cui provocava convulsioni muscolari a delle rane morte atttaverso scariche elettriche. Gli esperimenti «galvanici» divennero popolari in tutta Europa, grazie, fra gli altri, al nipote e discepolo di Galvani, Giovanni Aldini. Nel 1803, Aldini giunse a Londra e realizzò una spettacolare dimostrazione sul cadavere di un criminale che era appena stato giustiziato. Di fronte a una nutrita platea, Aldini applicò a diverse parti del corpo delle bacchette connesse a una pila di zinco, provocando forti contrazioni. Una cronaca racconta che toccando il volto del morto «la mascella ebbe uno spasmo e un occhio si aprì». Aldini non pretendeva di avere il potere di resuscitare un uomo, ma il suo esperimento di certo influì sull’idea romanzesca di Mary Shelley.
un’illuminazione che gli fa scoprire «la causa della generazione e della vita» e lo convince di essere «capace di dare vita alla materia inanimata». Per quasi due anni, Frankenstein realizza misteriosi esperimenti in una soffitta che utilizza come laboratorio. Con diverse parti di cadaveri che raccoglie nelle sale di dissezione e di animali che trova nei macelli forma un corpo umano di grandi dimensioni (2,40 metri di altezza). Usando sicuramente una pila come quella inventata da Alessandro Volta verso il 1800, gli applica impulsi elettrici per cercare di donargli la vita. Finalmente, in una piovosa notte di novembre, alla tenue luce di una candela, Frankenstein vede che il suo mostro apre un occhio e inizia a respirare. Scappa terrorizzato e quando torna la Creatura –questo è il nome che ha dato alla sua creazione– è scomparsa. A partire da questo momento si sviluppa un intrigo roman-
zesco in cui il nuovo essere sperimenta la solitudine e l’ostilità degli uomini, uccide senza volerlo un bambino e sfida il suo creatore. Nelle tre versioni della storia si avverte l’incessante sforzo che l’autrice compie nell’intento di comprendere la stretta relazione fra vita e morte. Il decesso di due dei suoi figli, a causa di infezioni contratte durante un lungo viaggio in Italia, e quello dello stesso Percy B. Shelley in un naufragio, nel 1822, non fecero altro che accentuare la sua morbosa ossessione. Allo stesso tempo, nell’opera si trova il riflesso delle preoccupazioni scientifiche della sua epoca, come la legittimità della ricerca che contravveniva la morale tradizionale e la capacità dell’essere umano di creare e distruggere la vita. Consacrata alla letteratura, alla cura del suo unico figlio superstite, Percy Florence, e al ricordo di Shelley, Mary si rifiutò sistematicamente di
contrarre un nuovo matrimonio adducendo che dopo aver sposato un genio avrebbe solo potuto sposarne un altro. Di ritorno a Londra dopo un viaggio nel continente, iniziò a soffrire i primi sintomi della malattina, un tumore celebrale, che la porterà alla tomba il 1 febbraio del 1851. Dopo la sua morte, quando i suoi parenti presero visione delle sue proprietà trovarono, avvolto nella seta insieme al poema di Percy B. Shelley Adonais, il cuore di colui che era stato il suo sposo e mentore. Forse lo conservò nella speranza che, un giorno, un Victor Frankenstein in carne e ossa le restituisse il suo amato. MARÍA PILAR QUERALT STORICA E SCRITTRICE
Per saperne di più
ROMANZO
Frankenstein, ossia il moderno Prometeo Mary Shelley. Mondadori, Milano, 1998.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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V I TA Q U OT I D I A N A
Gli egizi e la pesca: fra cibo e tabù Gli antichi egizi pescavano nel Nilo una grande varietà di pesce, anche se la religione ne proibiva a volte il consumo
I
l Nilo procurava non solamente il limo che fertilizzava i campi dell’Egitto, ma forniva alla popolazione anche quello che era il principale alimento, accompagnandosi al pane e alla birra: il pesce. Di certo erano molti gli egizi che si dedicavano alla pesca, anche se abbiamo poche testimonianze scritte a tale proposito. Forse la più illuminante è l’inizio della famosa Satira dei mestieri, risalente al Medio Regno: «Ti parlerò anche del pescatore, il peggiore di tutti i lavori. Vedi, non esiste lavoro sul fiume che non costringa a stare in mezzo ai coccodrilli. Al momento della resa dei conti, sono dolori: egli non oserà dire che c’era un coccodrillo il quale, venendo a galla, l’ha accecato di paura, ma dirà: “è la potenza di Dio”». L’attività dei pescatori, in effetti, non era priva di rischi. Per via della fragilità delle loro barche, la pesca si svolgeva preferibilmente nei canali, poiché questi offrivano una maggiore
sicurezza dagli imprevedibili attacchi di coccodrilli e ippopotami che infestavano le sponde del Nilo. Anche se non erano questi animali il principale pericolo a cui si esponevano i pescatori nilotici. Nell’acqua, una microscopica larva è il parassita di un minuscolo mollusco che può introdursi negli orifizi del corpo, attaccando il fegato e provocando dolorose emorragie (ematuria parassitaria) che arrivano a causare la morte. Per evitarlo, era comune che, come pratica preventiva, i pescatori si sottoponessero alla circoncisione.
Reti e ami
BRIDGEMAN / ACI
RETI MANUALI
12 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
BRIDGEMAN / ACI
Rispetto al relativo silenzio delle fonti scritte, possiamo contare su numerose rappresentazioni grafiche, tanto sulle pitture quanto sui bassorilievi delle tombe nobiliari, che illustrano il lavoro dei pescatori. In esse, per esempio, posizionavano in due barche dalle quasono illustrate le diverse tecniche di li tendevano reti di grandi dimensioni, pesca utilizzate. A volte i pescatori si provviste di galleggianti e di pesi. Lo stesso procedimento poteva essere eseguito da terra posizionandosi sulle due sponde di un canale. In altre occasioni si utilizzavano reti più piccole maneggiate da un solo QUESTO RILIEVO della mastaba di Idut, a Saqqara, pescatore dal suo piccolo scafo di padella VI dinastia, mostra un pescatore in piedi piro, o anche direttamente nell’acqua su uno scafo di papiro che maneggia una picquando questa era poco profonda. È cola rete o retino, molto somigliante a quelle sorprendente riscontrare come queste che continuano a essere utilizzate oggigiorno nasse siano identiche a quelle utilizin Egitto. Al di sotto della barca si nasconde zate attualmente dai pescatori del lago un ippopotamo con le fauci spalancate. Manzala, nel delta orientale dell’Egitto. E, più curioso ancora, i rivieraschi di
ALCUNI PESCATORI provvisti di lunghi arpioni lottano fra di loro per accedere al banco di pesci che si intravede sotto gli scafi. Mastaba di Ptahhotep. V dinastia. Saqqara.
questo lago abitano, quando pescano, in capanne di giunchi uguali a quelle rappresentate nelle tombe dell’Antico Regno. Altre volte, si abbatteva il pesce con una mazza dopo averlo estratto dall’acqua o si utilizzavano nasse semplici a forma di bottiglia o nassa doppia. Le scene delle tombe mostrano raramente pescatori che impugnino canne da pesca, salvo in epoca grecoromana, ma gli archeologi hanno però rinvenuto diversi ami. Alcuni sono multipli, ovvero, sono uniti a uno stesso filo che il pescatore sostiene quasi sempre con la mano, chiama-
Il faraone che odiava il pesce NONOSTANTE L’IMPORTANZA del
pesce nell’alimentazione degli egizi, esistevano numerosi veti religiosi che ne rendevano il consumo proibito in diverse province e città e in determinati periodi dell’anno. A questo proposito può essere citato il caso di Pianki, il re nubiano che conquistò l’Egitto nel 747 a.C. e fondò la XXV dinastia. In una stele che fece erigere per commemorare la sua vittoria, si spiega che il re non avrebbe fatto sedere alla sua tavola i principi del Sud e del Delta perché era-
no «libertini, circoncisi e mangiatori di pesce», considerato un abominio nel palazzo reale. Il faraone acconsentì solo all’invito al banchetto del sacerdote NEMAROT, che non mangiava pesce forse perché risiedeva in una città di teologi, Khemenu (Hermopolis Magna).
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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V I TA Q U OT I D I A N A
PESCE PER I TEMPLI
AMULETO A FORMA DI OSSIRINCO IN CERAMICA BLU. MUSEO MARITTIMO NAZIONALE, HAIFA.
ta pesca alla lenza. Le pitture ci informano anche sui tipi di pesce che consumavano gli antichi egizi. Con l’accuratezza che contraddistingue l’opera degli artisti egizi, i tratti di ogni specie sono definiti con assoluta chiarezza. A giudicare dalla frequenza con cui compare nelle tombe, il pesce favorito degli egizi fu la tilapia del Nilo (inet, in egizio antico), provvisto
DUE UOMINI portano grandi pesci appesi a una pertica: un persico (a sinistra) e un cefalo (a destra). Mastaba di Kagemni. VI dinastia. Saqqara.
BRIDGEMAN / ACI
ERICH LESSING / ALBUM
IL PAPIRO HARRIS N. 1, della XX dinastia, registra le considerevoli quantità di pesce che si distribuivano nei templi di Tebe, Eliopoli e Menfi: 441.000 pesci di specie diverse. Per trasportare quelli di maggiori dimensioni si passava una pertica dalle branchie e poi due uomini li caricavano sulle spalle per trasportarli agevolmente.
di un’increspata pinna dorsale che le dava un inconfondibile contorno quasi rettangolare. La sua carne squisita continua a essere uno dei piatti preferiti nell’Egitto attuale, sotto il nome arabo di boulti.
Bollito o arrostito Generalmente, in queste raffigurazioni di pesca subacquea la tilapia non compare sola; altri pesci conosciuti nuotano intorno a essa, come siluri (della famiglia del pesce gatto), anguille, persici del Nilo, barbi, cefali... Specie che continuano a essere consumate ai giorni nostri.
La squisita carne della tilapia del Nilo è molto apprezzata oggi come in epoca faraonica DUE TILAPIE PORTATE COME OFFERTA. TOMBA DI MENNA. XVIII DINASTIA. AISA / BRIDGEMAN / ACI
Per quanto riguarda la modalità di trattamento del pesce, di nuovo bisogna ricorrere alle rappresentazioni delle cappelle funebri per sapere come si cucinava. In quasi tutte le tombe con questo tipo di scene vediamo che il pesce si mangiava bollito in grandi bacili di ceramica. Si arrostiva anche, direttamente sulla brace o infilzando il pesce su un bastoncino, come gli spiedi usati oggi in varie località marittime. Invece, non è stata trovata testimonianza alcuna, né grafica né letteraria, che indichi che gli egizi mangiassero pesce fritto nell’olio. Inoltre, gli egizi praticavano alcune modalità di conservazione del pesce. La più comune era disseccarlo al sole una volta eviscerato, pulito e salato, appendendolo come il bucato. Ciò permetteva di consumarlo molto tempo dopo la sua cattura, dopo averlo reidratato semplicemente immergendolo in acqua.
Una giornata di pesca nel Nilo NELLA CAPPELLA della tomba tebana dello scultore Ipy, che visse durante la XIX dinastia, si trova una
scena di pesca con reti. Questa ingenua pittura manifesta una delle caratteristiche del disegno egizio: l’assenza del rigore nelle proporzioni, per far risaltare le caratteristiche di ogni soggetto.
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3 1
1 Le barche
2 Loto
3 Pesci
4 La rete
5 Il timone
Queste barche di medie dimensioni sono costruite con assi di legno assemblate.
Il loto blu indica che la scena avviene di giorno (di notte sboccia il fiore bianco).
I pesci, come il loto, hanno dimensioni assai sproporzionate rispetto a quelle degli uomini.
Fatta con fibre vegetali intrecciate, aveva galleggianti e pesi, non visibili nel dipinto.
Il grande remo di poppa serviva da timone e indica la posizione rispetto alla rete.
La vita degli egizi scorreva immersa nella simbologia religiosa, e perciò non bisogna sorprendersi che i pesci fossero oggetto di culto. Nella città di Ossirinco si venerava il pesce con lo stesso nome, ma sotto la contraddittoria forma di un ippopotamo femmina: la dea Tueris. Per elementare logica religiosa, nella città e nella sua provincia era proibito consumare il pesce patronimico, e lo stesso divieto si incontra in molti altri luoghi del territorio egizio. Allo stesso modo, la pesca con reti – in modo analogo all’uccellagione eseguita con la “rete esagonale” – era considerata un contributo alla maat, l’ordine stabilito il giorno della creazione dell’universo, poiché il movimento anarchico di volatili e pesci era assimilato al caos iniziale che bisognava combattere. Per parte sua, la tilapia si convertì in un potente amuleto protettivo,
per associazione con l’abitudine di questo pesce, all’avvertire un pericolo, di nascondere i suoi avannotti nella bocca. L’importanza della tilapia nelle arti suntuarie, con una chiara intenzione religiosa, potrebbe aver influito sulla scelta dell’incipiente cristianesimo egizio di adottare un pesce come suo simbolo.
Arpionieri nel Nilo Nella decorazione di alcune tombe vediamo rappresentata una tecnica di pesca particolare, attraverso una lunga lancia che si conficcava nei pesci come un arpione. In realtà, questa pratica aveva un simbolismo politico e religioso. In queste animate scene, il “pescatore”, che appare duplicato, è un alto dignitario, o anche un re, e arpiona da un leggero scafo i pesci che nella maggior parte dei casi sono una tilapia e un persico, specie rappresentative del Basso e Alto Egitto.
BRIDGEMAN / ACI
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Di certo, attraverso questa singolare doppia cattura si voleva simboleggiare l’unificazione delle due parti dell’Egitto come condizione necessaria per il buon andamento del paese. In un senso più religioso, i testi raccontano che entrambi i pesci nuotavano accanto alla barca di Ra, il dio Sole, vegliando sulla sua protezione. È chiaro che la doppia figura del “nobile pescatore” ha un significato interamente simbolico, posto che la nobiltà egizia non si dedicava alla pesca. Nonostante l’abbondanza di scene di pesca nella decorazione di tombe, nessuna di queste apparteneva realmente a un pescatore. MAITE MASCORT EGITTOLOGA
Per saperne di più
SAGGI
Vita quotidiana degli Egizi Franco Cimmino. Bompiani, Milano, 2001.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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CONGIURA ED ESILIO
Il Papiro di Berlino 3022 (nella foto) è quello che contiene la copia più completa delle Avventure di Sinuhe, un nobile che fugge dall’Egitto per evitare le lotte per la successione dopo l’assassinio del faraone Amenemhat I. Musei Statali, Berlino. Nella pagina a fianco, statua-cubo del dignitario Hotep. XII dinastia. Museo Egizio, Il Cairo.
Le avventure di un egizio in esilio
SINUHE
Dopo l’assassinio di Amenemhat I, e temendo possibili rappresaglie, Sinuhe fugge dall’Egitto e si rifugia nel Vicino Oriente, dove diventa un uomo ricco e rispettato. Così cominciano le Avventure di Sinuhe, uno dei racconti più famosi dell’antico Egitto
BARRY IVERSON / ALAMY / ACI
BPK / SCALA, FIRENZE
METROPOLITAN MUSEUM / SCALA, FIRENZE
C R O N O LO G I A
L’EGITTO AI TEMPI DI SINUHE 18 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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per cui si sono conservati fino a 28 ostraka (frammenti di ceramica o di pietra usati per scrivere e disegnare) e sette papiri che raccolgono differenti parti del racconto. Di nessun altro testo letterario egizio possediamo un tale numero di copie. Grazie agli ostraka e ai papiri è stato possibile ricostruire dal principio alla fine il testo delle Avventure di Sinuhe, la cui storia si svolge all’inizio della XII dinastia, a partire dalla morte di Amenemhat I e nel corso del regno di suo figlio Sesostri I. Il testo è ricco d’azione, con l’inserimento di dialoghi che
2009 a.C.
1939 a.C.
Il sovrano Mentuhotep II, dell’XI dinastia, sale al trono di Tebe. A metà del suo regno riuscirà a riunificare di nuovo l’Egitto dopo la parentesi del Primo Periodo Intermedio.
Inizia il regno di Amenemhat I, primo faraone della XII dinastia. Verso il 1962 a.C., dopo trent’anni di regno, muore assassinato nel suo palazzo di Iti-Tawy. Con la sua morte cominciano le Avventure di Sinuhe.
BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
Amenemhat fondò una nuova capitale, Iti-Tawy, a sud di Menfi, nei pressi della quale fece costruire la necropoli di el-Lisht, dove si trova la sua piramide. Rilievo con l’immagine del faraone. Metropolitan Museum, New York.
a Residenza era nel silenzio, i cuori in pena, i Due Grandi Cancelli erano stati chiusi, i cortigiani in lutto, i notabili nell’angoscia». Questa descrizione dell’atmosfera di desolazione che regna alla corte d’Egitto per la morte di Amenemhat I apre Le avventure di Sinuhe, la composizione letteraria più nota dell’antico Egitto, considerata un capolavoro. Le numerose copie che si conservano di questo testo costituiscono la prova della popolarità che ebbe in epoca faraonica. Fu molto utilizzato dagli apprendisti scribi, ragione
LOREM IPSUM
ARCHITRAVE DI AMENEMHAT I
STELE DI SESOSTRI I PROVENIENTE DA ELEFANTINA. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
conservate. Lo stile del testo, dal canto suo, corrisponde in maggior parte al genere del verso narrativo. In alcune versioni, lo scriba segnò alcuni punti con inchiostro rosso per separare le frasi principali, forse per formare versi accoppiati.
Un nobile al servizio del faraone Il protagonista della storia è Sinuhe, il cui nome significa “figlio del sicomoro”, un personaggio presentato al principio del testo come il «nobile, leader, giudice, portatore del sigillo reale, amministratore dei distretti del sovrano nelle terre degli asiatici,
1910 a.C.
1818 a.C.
Sesostri I diventa da solo sovrano dell’Egitto dopo dieci anni di coreggenza con suo padre Amenemhat I. Il suo regno sarà lungo e prospero e Sesostri sarà il faraone che permetterà a Sinuhe di fare ritorno in Egitto.
Ha inizio il regno di Amenemhat III, figlio del faraone Sesostri III. Con lui l’Egitto gode di un lungo periodo di prosperità economica; a quest’epoca risale la versione più completa del racconto di Sinuhe.
PERICOLI IN TERRA STRANIERA
Anche altri testi, come Le avventure di Unamon, narrano le peripezie dei loro protagonisti fuori dall’Egitto, in questo caso durante un viaggio per nave a Biblo. Modellino di nave del Medio Regno. Ashmolean Museum, Oxford.
1760 a.C. La principessa Nefrusobek sale al trono come faraone. Con lei termina la XII dinastia e inizia il Secondo Periodo Intermedio.
LOREM IPSUM
ne accrescono la vivacità, e addirittura con trascrizioni delle lettere scambiate tra il monarca e il protagonista, il che conferisce più realismo alla narrazione. Tutte le versioni conosciute del racconto di Sinuhe furono redatte in scrittura ieratica, una semplificazione di quella geroglifica, che era la più utilizzata dagli scribi. Questi ultimi erano soliti scrivere con inchiostro nero, e usavano quello rosso per i titoli o gli enunciati principali oppure per le revisioni e le correzioni che i maestri facevano allo scritto originale. Questi dettagli, così come la calligrafia personale di ogni scriba, sono visibili nelle diverse copie
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PAPIRI E OSTRAKA
LE VERSIONI DELLA STORIA DI SINUHE
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a versione più completa e antica che conosciamo del racconto di Sinuhe è quella che si conserva nel papiro Berlino 3022, scoperta in una tomba tebana a metà del XIX secolo. Questa versione è costituita da 311 righe di testo, anche se le prime sono mancanti. Il papiro risale alla XII dinastia, attorno all’anno 1800 a.C. A questa stessa epoca risalgono altri papiri che però riportano soltanto piccole parti della storia. Un altro esempio completo è il papiro Berlino 10499, della XIII dinastia (circa 1700 a.C.), che fu rinvenuto da James Quibell in una cassa piena di testi medici, letterari e amministrativi all’interno di una tomba vicino al Ramesseum, il tempio funerario del faraone Ramses II. Quanto agli ostraka (frammenti di ceramica o di pietra), la maggior parte di essi proviene dal sito archeologico di Deir el-Medina e
UNO DEGLI OSTRAKA SUI QUALI VENNE INSCRITTA LA STORIA DI SINUHE. XIX DINASTIA, BRITISH MUSEUM.
sicuramente è di epoca ramesside, cioè di oltre seicento anni posteriori al papiro Berlino 3022. La maggioranza di questi ostraka presenta solo parte dell’inizio del racconto, poiché si tratta di esercizi degli apprendisti scribi nei quali contavano più la calligrafia e il modo di scrivere un testo in egizio classico. Un ostrakon del l’Ashmolean Museum di Oxford, invece, con 130 righe di testo, conserva buona parte del racconto.
BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
vero conoscente del re, suo amato, seguace» e «servitore» della regina Neferu, la grande sposa reale di Sesostri I, il che denota la sua importanza e la sua vicinanza al faraone e alla sua famiglia. D’altro canto, questa introduzione richiama i testi autobiografici usualmente iscritti in molte tombe e nei quali il defunto sfoggiava il proprio “curriculum”. Le Avventure di Sinuhe si aprono con la morte di Amenemhat I nel 30° anno del suo regno, un regicidio che non è descritto nel racconto, ma del quale parlano altri documenti storici. Il faraone fu assassinato nel suo palazzo mentre dormiva, come è riportato nelle Istruzioni di Amenemhat, un testo nel quale lo spirito del re racconta la propria morte al figlio e successore e lo consiglia su questioni di governo. Nelle Avventure di Sinuhe non si dice neppure se la morte di Amenemhat avesse provocato rivolte a Iti-Tawy, la capitale fondata dal faraone, come se si fosse deciso di tacere sulla morte del re e la reazione di Sinuhe. STATUINA DI SESOSTRI I. IL RE PORTÒ AVANTI UNA POLITICA DI ESPANSIONE E STABILÌ LA FRONTIERA SUD DEL PAESE ALLA SECONDA CATERATTA DEL NILO. DEA / SCALA, FIRENZE
Nella storia si dice, invece, che Sesostri I in quel momento faceva ritorno da una campagna contro i libici, e che vennero inviati dei messaggeri per informarlo della morte di suo padre. A quella terribile notizia, e senza che venga spiegato nel testo, Sinuhe, che accompagnava l’esercito del principe ereditario, reagì come se venisse colto da un senso di colpa: «Un tremito mi percorse il corpo e fuggii a grandi balzi cercando un nascondiglio; mi misi tra due arbusti».
La fuga di Sinuhe Sinuhe comincia la sua strana fuga risalendo il Nilo dalla parte occidentale del Delta all’altopiano di Giza, e all’altezza di un villaggio chiamato Negaur attraversa il fiume su una zattera senza timone, sfruttando il vento dell’ovest. Oltrepassata la cava di Gebel Ahmar, presso l’odierna Il Cairo, proseguirà a est del Delta, fino ai Muri del Principe, al confine orientale del Paese, una specie di sistema di fortificazioni eretto da Amenemhat I per evitare le incursioni dei popoli asiatici.
DAGLI ORTI / ART ARCHIVE
Quando giunge nella zona dei Laghi Amari, a nord dell’istmo di Suez, Sinuhe è in punto di morte: «Ebbi un attacco di sete. Ero disidratato, la mia gola era secca. Mi dissi: “Questo è il sapore della morte”». In questo stato di prostrazione viene trovato da alcuni nomadi, che lo salvano. Numerosi documenti di quell’epoca parlano del pacifico ingresso di asiatici nella regione del Delta, per motivi commerciali – come si vede in una pittura della tomba del governatore Khnumhotep II a Beni Hasan – o semplicemente per trascorrere qualche tempo nelle fertili terre alluvionali che, specialmente in tempo di carestia, servivano da pascolo al bestiame. Giunto a Qedem, vicino a Biblo, Sinuhe conosce Amunenshi, sovrano della regione dell’alto Retenu, in Siria. Quando questi gli chiede perché si trovi nel palazzo e il motivo del suo strano viaggio, Sinuhe non si dilunga sui gravi avvenimenti, ma sottolinea la propria innocenza: «Non fui accusato, non fui additato. Non si udì alcuna critica, non fu pronunciato il mio nome per bocca dell’araldo. Non so che
cosa mi condusse in questa terra straniera». Subito dopo, Sinhue descrive la grandezza e le buone maniere del nuovo faraone, Sesostri I, e consiglia ad Amunenshi di scrivergli e di essergli leale come lo fu col padre Amenemhat I, con il quale aveva avuto relazioni diplomatiche. In quel momento, nulla fa presagire che Sinuhe, che in Egitto si era mostrato pauroso e sfuggente, persino codardo, si distinguerà per l’esatto contrario nel suo nuovo Paese.
Soldato valoroso
LA PIRAMIDE DI AMENEMHAT I
Il faraone costruì il suo complesso funerario nella necropoli di el-Lisht, presso Iti-Tawy, come farà anche suo figlio Sesostri I. Per via del furto dei materiali di costruzione, la piramide si è a malapena conservata.
Il nostro protagonista entra a far parte della tribù del principe Amunenshi e sposa la sua primogenita, diventando così un capo tribale e trasferendosi a vivere in un luogo di frontiera chiamato Iaa, descritto come un autentico giardino, una terra fertile, ricca di miele, olio, frutta, cereali e bestiame. Dopo molti anni, anche i suoi figli diventeranno capi di tribù. Sinuhe, inoltre, combatterà contro i beduini asiatici come comandante delle truppe del sovrano dell’alto Retenu, dimostrando continuamente il proprio valore. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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UN MEDICO CURA L’OCCHIO A UN PAZIENTE. COPIA SU PAPIRO DI UNA PITTURA MURALE DELLA TOMBA DI IPI.
ROMANZI E CINEMA
ADATTAMENTI DELLA STORIA DI SINUHE
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e Avventure di Sinuhe furono prese come riferimento e ispirazione da due noti scrittori del XX secolo, Naguib Mahfouz, Premio Nobel per la letteratura nel 1988, e il finlandese Mika Waltari. L’egiziano Naguib Mahfouz pubblicò nel 1941 il romanzo Awdat Sinuhi, tradotto in inglese nel 2003 con il titolo The Return of Sinuhe (“Il ritorno di Sinuhe”). La trama, in realtà, segue il racconto di Sinuhe che ritroviamo nei testi egizi classici, con la differenza che Mahfouz apporta tutta una serie di aggiunte per completare la storia. Senza alcun dubbio, però, il Sinuhe più conosciuto dal grande pubblico è quello del romanzo Sinuhe l’egiziano, l’opera di maggior successo del romanziere Mika Waltari, pubblicata in finlandese nel 1945. Il romanzo fu portato sul grande schermo nel 1954 dal regista Michael Curtiz. Waltari colloca il suo
Sinuhe all’epoca del faraone eretico Akhenaton, ovvero circa seicento anni dopo il Sinuhe del racconto egizio, trasformandolo in un medico del re che alla morte del monarca è costretto all’esilio e inizia un viaggio che lo conduce in diversi Paesi. Le situazioni politiche rappresentate dall’autore probabilmente richiamano i difficili anni della Seconda Guerra Mondiale, periodo in cui fu scritto il romanzo.
BRIDGEMAN / ACI
Un giorno, un eroe e campione di Retenu sfida Sinuhe e i due concordano di battersi all’alba. Secondo le regole, le rispettive tribù rimangono in attesa, poiché, essendo l’autorità personale, il futuro della tribù sarà segnato unicamente dal risultato del duello tra i capi. In questo frammento, alcuni autori hanno voluto vedere il prototipo letterario dello scontro biblico tra Davide e il gigante filisteo Golia. Questo è il momento culminante della storia: Sinuhe riesce a sconfiggere il rivale e a strappargli tutti gli averi, raggiungendo l’apice della sua gloria nel Paese d’adozione. Con il prolungarsi del suo soggiorno e l’avvicinarsi della vecchiaia, però, il suo cuore soffre per la lontananza dall’Egitto: «La mia casa è bella, la mia posizione privilegiata, ma il mio pensiero è sempre al palazzo. Oh! Qualunque sia il dio che ha ordinato 22 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
LA NECESSITÀ DI MORIRE IN EGITTO Sinuhe desiderava morire in Egitto, poiché un egizio doveva essere sepolto secondo le tradizioni del suo Paese. Tavola con le offerte per il defunto. Stele funeraria. XII dinastia.
ERICH LESSING / ALBUM
questa fuga, sii clemente, e permettimi senza indugio di tornare a vedere il luogo nel quale il mio cuore è sempre rimasto […] Che cosa è più importante di far sì che il mio corpo possa essere sepolto nella terra in cui nacqui?».
Non morire in terra straniera Il desiderio di Sinuhe di tornare in Egitto giunge alle orecchie del faraone Sesostri I, che in una lettera lo esorta a fare ritorno: «Non morire in terra straniera, che non ti seppelliscano i cananei, che non ti avvolgano in una pelle di pecora come sarcofago […], pensa al tuo corpo e ritorna». Sesostri non formula accuse o rimproveri, ma nella sua risposta alla missiva reale, Sinuhe insiste a dire che non sa perché sia fuggito: «Non avevo previsto questa fuga, non era nel mio cuore, non l’avevo premeditata, non so che cosa mi abbia
WERNER FORMAN / GTRES
portato in questo luogo […] Avevo paura, anche se non ero inseguito». Prima di fare ritorno in Egitto, Sinuhe lascia le sue proprietà e il comando della tribù al figlio maggiore. Il viaggio si svolge lungo la rotta di Horus, via militare e commerciale che seguiva la costa palestinese in direzione della fortezza di Tjaru, la porta d’ingresso dell’Egitto. Una volta a palazzo, l’esule si prostra dinanzi al re. La vista del faraone colpisce Sinuhe, che rivive le proprie paure a affida la propria vita al monarca: «Io ero come un uomo afferrato dall’oscurità, il mio ba se n’era andato, il mio corpo perdeva le forze, il mio cuore non era nel mio corpo, e non distinguevo tra la vita e la morte». Dopo gli anni trascorsi in Siria, l’aspetto e gli indumenti di Sinuhe sono quelli tipici di un cananeo, e per questo i principi egizi non sono in grado di riconoscerlo. Ma non è così per il re : «Egli non ha nulla da temere. Egli non deve avere paura. Egli sarà un amico tra i nobili, e la sua posizione sarà in mezzo ai cortigiani». Quando esce dal palazzo, Sinuhe è accompagnato a casa di un nobile, dove viene lavato
e agghindato: «Mi furono tolti molti anni di dosso, venni rasato, mi pettinarono i capelli. Abbandonai la sporcizia del deserto e gli indumenti di coloro che viaggiano nella sabbia, e mi vestii con lino, mi cosparsi con l’olio migliore, e dormii su un letto». Sinuhe rinuncia al suo aspetto cananeo per rinascere nuovamente come egizio grazie alla volontà del faraone. Gli viene donata la casa di una persona importante, gli si dà abbondante sostentamento e – cosa più importante – gli si concede una tomba di pietra e decorata, con un corredo completo e il servizio funerario assicurato. Potrà così finire i suoi giorni in Egitto, dove era sempre rimasto il suo cuore. «Fu Sua Maestà a renderlo possibile [...] Rimasi nei favori del sovrano sino al momento di lasciare questo mondo».
CAPPELLA BIANCA DI SESOSTRI I
Il tempietto fu edificato nel recinto di Karnak per commemorare il giubileo del faraone. Nel Nuovo Regno, l’edificio fu smontato e i suoi pezzi usati come riempimento nel terzo pilone del tempio.
JOSÉ LULL EGITTOLOGO. ISTITUTO DI STUDI DEL VICINO ORIENTE ANTICO (UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA)
Per saperne di più
SAGGIO
Favole e racconti dell’Egitto faraonico Aldo Troisi. Xenia, Milano, 1991. ROMANZO
Sinuhe l’egiziano Mika Waltari. Rizzoli, Milano, 2012.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IL DUELLO TRA SINUHE E IL BEDUINO
UN GRUPPO DI SOLDATI NUBIANI SFILA CON LE ARMI SULLE SPALLE: ASCE DA GUERRA, ARCHI E FRECCE, COME QUELLE CHE PREPARA SINUHE NEL SUO DUELLO CON IL BEDUINO. XVIII DINASTIA. MUSEO EGIZIO, BERLINO.
Uno degli episodi più celebri delle Avventure di Sinuhe è il combattimento tra il protagonista e un capo beduino di Retenu (Siria) che lo sfida in un duello a singolar tenzone. Sinuhe, che vive da qualche anno a Retenu come genero del principe Amunenshi, accetta e vince. È un uomo ricco e rispettato, ma la sua felicità è incompleta perché è lontano dall’Egitto.
ASCIA DA GUERRA EGIZIA IN LEGNO DI CEDRO, ORO, RAME, LAPISLAZZULI, VETRO E INCROSTAZIONI DI CORNALINA. RINVENUTA NEL 1859 NELLA TOMBA DELLA REGINA AHHOTEP. XVII DINASTIA. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.
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«PREPARAI L’ARCO, AFFILAI LE FRECCE ED ESTRASSI IL PUGNALE»
«ALLORA arrivò un uomo forte proveniente da Retenu
CERAMICA INVETRIATA CHE RAFFIGURA UN SIRIANO, COME IL PRINCIPE AMUNENSHI, PROTETTORE E SUOCERO DELL’ESULE SINUHE. QUESTO PEZZO FU SCOPERTO NEL PALAZZO DI RAMSES III A LEONTOPOLIS. KUNSTHISTORISCHES MUSEUM, VIENNA.
ASCIA. A. JEMOLO / AKG / ALBUM. CERAMICA. E. LESSING / ALBUM. 1. AKG / ALBUM. 2. S. VANNINI / DEA / ALBUM. 3. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE.
[Siria] e mi sfidò nella mia tenda. Era un valoroso senza eguali e aveva vinto intero il paese di Retenu. Diceva che avrebbe lottato con me, intendeva spogliarmi e si proponeva di portarmi via il mio bestiame, per consiglio della sua tribù [...] Passai la notte a piegare il mio arco, a lanciare le frecce, a estrarre la mia spada, a forbire le mie armi. Quando fu giorno erano arrivati i Retenu: aveva riunito le sue tribù, [...] era fortemente interessato a questo combattimento. Venne verso di me [...] Ogni cuore ardeva per me: le donne e gli uomini sospiravano, tutti i cuori soffrivano per me.».
UN SOLDATO EGIZIO TENDE L’ARCO PRONTO PER LANCIARE LA FRECCIA. CON UN ARCO SIMILE, SINUHE SCAGLIA LA FRECCIA CHE UCCIDE IL BEDUINO CHE L’HA SFIDATO. XVIII DINASTIA. TOMBA DI INENI A GURNA.
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«IO LO TRAFISSI E LA MIA FRECCIA STAVA INFISSA NEL SUO COLLO»
«EGLI [L’UOMO DI RETENU] LEVÒ IL SUO SCUDO, la sua ascia e la sua bracciata di giavellotti. Ma io sfuggii alle sue armi, feci che passassero vicino a me le sue frecce, fino all’ultima, una dopo l’altra. Allora si lanciò su di me, ma io lo trafissi e la mia freccia stava infissa nel suo collo. Gridò e cadde sul suo naso. Lo abbattei con la sua stessa ascia e lanciai sul suo dorso il mio grido di vittoria mentre ogni asiatico lanciava acclamazioni. Resi grazie a Monto [divinità guerriera di Tebe] mentre la sua gente si lamentava sopra di lui. Quel principe Amunenshi [suocero di Sinuhe] mi strinse tra le braccia».
SINUHE SI IMPOSSESSA DEL BESTIAME DEL NEMICO DOPO AVERLO SCONFITTO IN DUELLO. LA PITTURA DELLA TOMBA DI NEBAMON RAFFIGURA UN GIOVANE CHE GUIDA UNA MANDRIA DI VACCHE. DINASTIA XVIII. BRITISH MUSEUM.
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«CHE IL DIO ABBIA PIETÀ DI COLUI CHE ABITA IN TERRA STRANIERA!»
«IO PORTAI VIA LE SUE COSE, mi impadronii del suo bestia-
me e ciò che aveva pensato di fare a me, lo feci io a lui. Presi ciò che era nella sua tenda, depredai il suo accampamento. Divenni importante per questo, ricco nel mio tesoro, abbondante nel mio bestiame [...] Vi fu un tempo in cui patii la fame. Ora regalo il pane ai miei vicini. Un uomo abbandonò nudo il proprio Paese. Ora vesto abiti di lino fine. Fuggì l’uomo che non possedeva nulla. Ora ho una moltitudine di servi. La mia dimora è bella e i miei beni immensi [...] Che il dio [il faraone] abbia pietà di colui che si vide costretto a dimorare in terra straniera!».
Il viaggio delle anime nell’aldilà
L’INFERNO DEI GRECI Secondo la mitologia, dopo la morte le anime degli uomini finivano in un lugubre regno sotterraneo, governato dal terribile dio Ade e dalla sua sposa Persefone. Eroi come Orfeo ed Eracle ebbero l’ardire di visitarlo
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LA GUIDA DELLE ANIME AGLI INFERI
Ermes, messaggero degli dei e guida delle anime verso l’oltretomba, appare circondato dagli spiriti dei defunti che attendono sulle sponde dello Stige che Caronte li trasporti nel regno dell’Ade. Dipinto di Adolf HirémyHirschl. 1898. Galleria Belvedere, Vienna. CULTURE-IMAGES / ALBUM
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osì come il cristianesimo e altre religioni credono in un aldilà in cui l’anima continua a vivere, anche i greci dell’Antichità immaginavano un oltretomba nel quale venivano condotte le anime di uomini e donne dopo la morte. Per i greci, il regno dei morti era sottomesso al potere di Ade, fratello di Zeus e Poseidone. Questi tre dei virili e barbuti, che incarnano la suprema mascolinità nel pantheon greco, si suddivisero i tre diversi ambiti del nostro mondo dopo aver rovesciato il loro tirannico padre Crono e aver sconfitto i potenti Titani in un’epica lotta per il dominio dell’universo.
Conoscere l’aldilà La visione che i greci avevano dell’aldilà cambiò con il passare del tempo. All’inizio, l’oltretomba o Ade – così chiamato per il dio che lo governava – sembrava un luogo poco appetibile, come narra a Odisseo (l’Ulisse romano) l’ombra dell’eroe Achille in un episodio dell’Odissea di Omero: «Vorrei da bracciante servire un altro uomo [...] piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti». Tuttavia, a partire almeno dal VI secolo a.C. si iniziò a vedere l’aldilà secondo una prospettiva etica, con una divisione dei morti tra giusti e ingiusti, cui spettano premi o castighi a seconda del loro comportamento in vita. Secondo questa concezione, i giusti andavano in un luogo gradevole dell’Ade, i Campi Elisi, o le Isole Fortunate (o Isole dei Beati), il regno idilliaco del vecchio Crono, divenuto il sovrano di questo aldilà. Sicuramente questa nuova concezione dell’oltretomba seguiva lo sviluppo dell’idea dell’immortalità dell’anima, e addirittura l’introduzione del concetto di reincarnazione da parte di alcune sette religiose e filosofiche. Il desiderio di sapere come fosse l’aldilà al fine di adattarvi meglio la nostra anima favorì lo sviluppo di uno dei motivi più af28 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
LA PASSIONE DEL DIO INFERNALE
Il magnifico gruppo scultoreo, opera di Gian Lorenzo Bernini, raffigura il ratto di Persefone da parte del dio Ade, sovrano dell’oltretomba, sotto gli occhi del cane Cerbero. 1622. Galleria Borghese, Roma. L. ROMANO / SCALA, FIRENZE
fascinanti della cultura greca: la discesa agli inferi o katábasis. La letteratura greca conta numerosi racconti su eroi mitici o epici, così come su filosofi o figure sciamaniche, che scendevano nel regno dell’Ade per compiere una missione, ottenere conoscenze religiose o, semplicemente, per provare l’esperienza mistica di morire prima della morte fisica per entrare in possesso di un sapere privilegiato. Una delle storie più famose è quella del cantore Orfeo, figura mitica che sarebbe poi stata all’origine di una setta misterica, l’orfismo, che garantiva ai propri adepti una vita più felice dopo la morte. A compiere questo viaggio di andata e ritorno dall’aldilà furono anche eroi viaggiatori, come Odisseo ed Enea, o figure divine come Dioniso ed Efesto. Allo stesso tempo vi furono figure semileggendarie alle quali fu attribuita una conoscenza speciale del mondo dell’aldilà grazie al volo dell’anima o daimon per visitare queste regioni prima della loro ultima ora. Tra questi vi sono Abari, un mitico sacerdote di Apollo Iperboreo che, secondo la leggenda, viaggiava su una freccia d’oro volante ed era amico di Pitagora, e Zalmoxis, o Zalmosside, uno sciamano tracio del quale si narrano strane storie su una sua discesa nel mondo sotterraneo per dimostrare che era in grado di morire e di rinascere. Un altro caso è quello del viaggiatore e poeta Aristea di Proconneso, del quale si narrava che morì nella bottega di un cardatore e che in seguito fu visto in diversi luoghi. Di se stesso diceva di aver accompagnato Apollo in un viaggio spirituale trasformato in corvo. Anche il filosofo Pitagora compì diverse discese nell’altro mondo attraverso il soggiorno in grotte.
Gli ingressi dell’inferno La credenza nell’oltretomba era tanto radicata nell’Antichità che esistevano numerose tradizioni che collocavano l’entrata dell’inferno in punti geografici concreti. Poteva trattarsi
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DAVID HERNÁNDEZ DE LA FUENTE SCRITTORE E DOCENTE DI STORIA ANTICA ALLA UNIVERSIDAD NACIONAL DE EDUCACIÓN A DISTANCIA (MADRID)
Per saperne di più
SAGGI
La sapienza greca Giorgio Colli. Adelphi, Milano, 1995. Vol I. I miti greci Robert Graves. Longanesi, Milano, 2013. TESTI
Teogonia Esiodo. Mondadori, Milano, 2004.
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di lagune, poiché l’acqua era l’elemento conduttore per eccellenza, come il lago d’Averno, presso Napoli, che occupa il cratere di un vulcano estinto e i cui gas tossici provocavano la morte degli uccelli che cercavano di nidificare nelle sue vicinanze. Potevano essere anche crepe nel suolo, come quella che si apriva sotto il Ploutonion o Porta di Plutone a Hierapolis (nell’attuale Turchia), o una fenditura in Sicilia, nell’antica Enna, attraverso la quale si diceva che Ade uscì dall’aldilà per rapire Persefone. Anche alcune grotte e caverne sono state considerate porte dell’inferno, come la grotta Coricia, situata su un fianco del monte Parnaso, presso il santuario del dio Apollo a Delfi, o le grotte di Capo Tenaro in Grecia. La bocca dell’inferno per eccellenza in Occidente fu identificata con la grotta della Sibilla a Cuma, nei pressi del lago d’Averno, luogo in cui vivevano queste donne che erano in grado di predire il futuro. Nell’Eneide di Virgilio, Enea, guidato dalla Sibilla Cumana, entra nella grotta per accedere al regno dell’Ade. Queste grotte che fungevano da passaggio verso l’oltretomba si trovavano sovente accanto a importanti oracoli: quello di Efira, dove una trazione afferma che Ulisse scese negli inferi inviato dalla maga Circe per consultare lo spirito dell’indovino Tiresia; l’antico oracolo della dea Gea (la Terra) a Olimpia, sotto il quale si apriva una fessura nel terreno, secondo Pausania; l’oracolo di Apollo a Ptoion; il santuario oracolare di Trofonio a Lebadeia, o l’oracolo di Eraclea Pontica (nell’odierna Turchia), miticamente situato alla foce del fiume Acheronte, in Oriente. Oggi lì si trova una grotta chiamata Cehennemagzi (in turco, “porta dell’inferno”).
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LA GEOGRAFIA DELL’ALDILÀ LE MOLTEPLICI DESCRIZIONI dell’Ade da parte di autori
antichi e moderni permettono di rappresentare il desolante paesaggio dell’inferno dei greci, pieno di luoghi orrendi. Dopo essere entrato da una qualunque delle bocche dell’inferno esistenti A, il defunto si dirigeva sulla riva dello Stige b, il fiume che circonda l’oltretomba e che egli attraversava a bordo della barca guidata da Caronte. Sull’altra riva l’anima incontrava il guardiano Cerbero c e i tre giudici dell’aldilà d. Gli autori spiegano che nel loro peregrinare per l’Ade le anime incontrano tre fiumi: l’Acheronte o fiume del dolore e, il Flegetonte o fiume del fuoco f e il Cocito, il fiume del pianto g. A separare il nostro mondo dall’aldilà vi sono anche altri luoghi prodigiosi, come le acque del Lete h, il fiume dell’oblio, che il poeta inglese John Milton descrive nel suo Paradiso perduto. Le anime dei giusti sono inviate in luoghi felici come i Campi Elisi i o le Isole dei Beati (o Isole Fortunate). Gli iniziati ai misteri, che a volte si facevano seppellire con le istruzioni per intraprendere il loro viaggio, si assicuravano l’arrivo senza problemi ai Campi Elisi invocando il potente nome di Demetra, Orfeo o Dioniso. Per finire c’era il Tartaro J, luogo di tormento eterno dove andavano a finire i dannati.
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A N / AC I
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RITI FUNERARI
LA MORTE NEL MONDO GRECO Nel pensiero dell’antica Grecia, la morte era incarnata da diverse divinità. Una era Ade, dio del quale non si poteva pronunciare il nome, ragione per cui gli venivano dati parecchi nomi eufemistici, come “il ricco”. Thanatos (parola che in greco significa esattamente “morte”) incarnava la morte non violenta. Era fratello di Hypnos, il sonno, e simboleggiava l’addormentamento definitivo che porta alla morte. Le Keres erano geni diabolici che in Omero incarnano la morte violenta, soprattutto in combattimento. Esistevano anche le Moire o Parche, le tre donne di
MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI / BRIDGEMAN / ACI
origine divina che stabilivano il destino: il loro compito era quello di tessere, filare e tagliare il filo della vita degli uomini. Mentre Cloto si occupava di filare e Lachesi stabiliva la lunghezza del filo destinato a ogni uomo, Atropo era colei che causava la morte tagliando il filo della vita. Nelle sepolture greche, infine, si depositava accanto al defunto una moneta (normalmente un obolo) per il traghettatore Caronte, che portava le anime nell’altro mondo. Nel caso degli iniziati, essi portavano con sé ossa o lamine d’oro con i contrassegni per la vita nell’Aldilà.
Monete per pagare il passaggio Nella bocca del defunto si metteva una moneta per pagare il viaggio a Caronte. Se l’anima non l’aveva, era costretta a vagare per cent’anni sulle sponde dello Stige fino a quando il traghettatore non accettava di trasportarla gratis. Moneta con il viso di Persefone, 260 a.C. Numismatica Jean Vinchon, Parigi.
AKG / ALBUM
Le tre Moire e il filo della vita Figlie di Zeus e di Temi, le tre filatrici decidono il destino degli umani, che neppure gli dei possono cambiare, e sono state un tema ricorrente nelle rappresentazioni artistiche di tutte le epoche. Un esempio è questo dipinto di Francesco Salviatti, del XVI secolo, oggi conservato a Palazzo Pitti a Firenze, che raffigura le tre Moire come donne anziane che si dispongono a tagliare il filo.
Corteo funebre Nelle sepolture, le donne dovevano rimanere dietro il corteo e potevano partecipare soltanto se avevano piĂš di 60 anni, a meno che non fossero parenti strette del defunto. Per i riti funebri, invece, venivano assunte flautiste, cantanti, prefiche e danzatrici, come quelle raffigurate in questa scena, proveniente da una tomba di Ruvo, in Campania, risalente al IV secolo a.C.
Hypnos e Thanatos Nelle tombe, soprattutto in quelle di donne, si era soliti disporre come offerta un tipo caratteristico di vaso in ceramica, il lekythos, di colore bianco e decorato con scene appena abbozzate. Quello che compare in questa pagina, attribuito al cosiddetto pittore di Thanatos, raffigura i gemelli Hypnos e Thanatos mentre sollevano il corpo di un guerriero. V secolo a.C. British Museum, Londra. B R I T I S H M U S E UM / S C A L A , F I R E N Z E
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L’ULTIMO VIAGGIO
Dalla tomba, le anime dei defunti peregrinavano fino alla porta dell’aldilà, situata in una laguna, in una grotta o in una fenditura del terreno. Erano guidate dal dio Ermes, che svolgeva la sua funzione di psychopompos, o “conduttore delle anime”, e che, come dio della soglia, non poteva oltrepassare la porta del regno infernale. Le anime dovevano poi attraversare il fiume Stige sulla barca guidata dal traghettatore vestito di stracci Caronte, cui dovevano pagare un obolo. Qualcuno si sottrasse a questo infausto pagamento, come Eracle, che quando scese negli inferi obbligò Caronte a trasportarlo a forza di colpi. Una volta giunte nell’Ade, le anime dovevano presentarsi davanti ai tre giudici dell’oltretomba, tutti figli di Zeus: Eaco, Minosse e Radamante. Il giudizio dell’anima inviava ciascuna al proprio destino. Il re cretese Minosse presiedeva il tribunale, in qualità di famoso legislatore che promulgò leggi ispirate dalla divinità. La sua giustizia è proverbiale, come la durezza del fratello Radamante. Più dolce e compassionevole era Eaco, considerato il più pietoso. In caso di dubbio tra condanna e assoluzione, però, decideva Minosse. Secondo una leggenda successiva Radamante giudicava le anime dei barbari ed Eaco quelle dei greci, mentre a Minosse spettava il privilegio di pronunciare il voto decisivo. MUSEO SAN PIO V, VALENCIA / BRIDGEMAN / ACI
BRIDGEMAN / ACI
ARRIVO ALL’INFERNO E GIUDIZIO FINALE
I giudici dell’aldilà Nel XIX secolo, Gustave Doré realizzò questo inquietante dipinto in cui compaiono i tre grandi giudici dell’oltretomba: Minosse, Radamante ed Eaco, assisi in trono e pronti a giudicare la miriade di anime ammassate timorose e disperate ai loro piedi. Museo di Belle Arti, La Rochelle.
La barca di Caronte José Benlliure raffigurò in questo dipinto dell’inizio del XX secolo la traversata verso gli inferi sulla barca di Caronte. Benlliure rappresenta il traghettatore come un vecchio scheletrico, con barba grigia e irsuta, mentre impugna egli stesso il remo; nel mito erano invece le anime a occuparsi di spingere la barca.
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GLI DEI DELL’OLTRETOMBA
LE TERRIBILI DIVINITÀ INFERNALI I greci concepivano il regno dell’Ade come un luogo oscuro e tenebroso; non per nulla il termine stesso Ade significava originariamente “invisibile”. Il suo sovrano era il dio omonimo, Ade, che dopo la vittoria degli dei dell’Olimpo sui Titani si spartì il dominio del mondo con i suoi due fratelli: Zeus, che ebbe il cielo, e Poseidone, cui toccò il mare. Ade era il re assoluto dell’oltretomba. Non conosce la giustizia di Zeus, ma regna in maniera dispotica sugli inferi accanto alla sua sposa Persefone, anch’essa dal cuore di pietra, che egli rapì dopo essere rimasto
DEA / SCALA, FIRENZE
BPK / SCALA, FIRENZE
affascinato dalla sua bellezza. La giovane era la figlia della dea dell’agricoltura, Demetra, sorella del monarca infernale. Per portare a compimento il suo piano, Ade uscì dall’inferno su un carro trainato da quattro destrieri neri come la notte. Davanti alle proteste di Demetra, Zeus dispose che ogni anno Persefone tornasse per alcuni mesi sulla terra per consolare la madre, dispensatrice di cereali. Questo viaggio di andata e ritorno nell’aldilà simboleggiava, nella mitologia greca, i misteri della morte e della resurrezione della Natura. Nell’Ade dimoravano anche le Erinni, che perseguitavano in modo particolare coloro che avevano commesso crimini di sangue contro la propria famiglia. Erano note anche come Eumenidi, “benevole”, un eufemismo per evitare di pronunciare il nome di queste creature orrende. Come divinità infernali, le Erinni punivano le anime malvagie nell’Aldilà.
Le Tre Erinni Nell’Erebo, il luogo più cupo degli inferi, abitavano le Erinni o Eumenidi: Aletto, Tisifone e Megera. Sono divinità violente nate dal sangue di Urano. In questo dipinto di Arnold Böcklin, le tre terribili creature sono appostate vicino a qualcuno che ha appena commesso un crimine. La loro intenzione è quella di tormentare il reo fino a quando non troverà qualcuno in grado di purificarlo per l’atto commesso. 1870. Schack Galerie, Monaco.
Ade, Persefone e Cerbero In un tempio dedicato alle divinità egizie Iside e Serapide, a Gortina, sull’isola di Creta, furono scoperte queste statue che testimoniano il sincretismo religioso imperante nel mondo antico. Persefone, la regina degli inferi, porta elementi tipici della dea Iside, come il sistro e la mezzaluna sulla fronte, mentre il dio Ade porta un kálathos, un copricapo caratteristico di Serapide, dio greco-egizio. II secolo. Museo di Heraklion.
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LE TORTURE DELL’INFERNO
IL TARTARO, DOVE SOFFRONO I DANNATI La Teogonia del greco Esiodo descrive il Tartaro come una divinità astratta del principio dei tempi, forse erede del caos primordiale. Fonti successive videro il Tartaro come un abisso senza fine situato esattamente al di sotto degli inferi. Secondo il mito, quando Crono salì al trono dell’universo dopo aver rovesciato suo padre Urano, gettò nel Tartaro i figli di quest’ultimo, i Ciclopi e gli Ecatonchiri (giganti rispettivamente con un solo occhio e con cento mani). In seguito, Zeus, figlio di Crono, li salvò da BRIDGEMAN / ACI
questo esilio odioso affinché combattessero al suo fianco contro i Titani, che sostenevano suo padre Crono, e ottenere così la corona universale. Quando gli Olimpici trionfarono, gettarono i Titani incatenati nel cupo abisso del Tartaro e incaricarono gli Ecatonchiri di fare da carcerieri. Dopo aver sconfitto il mostro Tifone, Zeus confinò anch’esso nel Tartaro. Autori successivi videro il Tartaro come un luogo di tormento nell’Aldilà, simile all’inferno cristiano. Per Platone, quello era il luogo in cui le anime venivano giudicate dai tre giudici dell’oltretomba e ricevevano il loro castigo. Questo era spesso terribile, come nel caso di Tantalo, assassino del proprio figlio: aveva eternamente fame e sete e, sebbene fosse immerso nell’acqua fino al collo, questa si ritirava quando cercava di bere, mentre sopra la sua testa pendeva un ramo carico di frutti che si allontanava quando cercava di mangiare.
Un luogo sinistro Nell’Eneide, Giunone (Era) scende nell’oltretomba per sollevare le Furie (le Erinni) contro il troiano Enea, poiché la dea è nemica del suo popolo. Jan Brueghel il Vecchio rappresenta la discesa di Era agli inferi in questo dipinto, in cui spicca l’ambiente lugubre e terrificante del luogo, affollato di anime in pena. 1592. Pinacoteca di Dresda.
Sisifo
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Tiziano raffigura in questo dipinto, eseguito tra il 1548 e il 1549, il terribile castigo cui fu condannato lo scaltro Sisifo, che aveva osato ingannare addirittura il dio infernale. Fu condannato a spingere un enorme masso fino alla cima di una collina, solo per vederla cadere e dover così ricominciare daccapo. Prado, Madrid.
Dopo aver ottenuto il perdono di Zeus per aver ucciso il re Deioneo, suo suocero, Issione, re dei lapiti, tentò di sedurre Era, moglie di Zeus. Furioso, il dio lo punì legandolo a una ruota di fuoco che girava senza posa e lo gettò nel Tartaro, assieme ai grandi criminali. Il crudele castigo è raffigurato nel dipinto di Jules-Élie Delaunay, del 1876. Museo di Belle Arti, Nantes.
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UN’AVVENTURA PERICOLOSA
Sono diversi i miti che parlano degli impavidi eroi che riuscirono a penetrare nell’Ade, che fosse per un mandato, per amore o per compiere una missione speciale. Odisseo (Ulisse) entrò in contatto con il regno delle tenebre per consultare l’anima dell’indovino Tiresia e cercare la strada di ritorno in patria. Anche il grande eroe della letteratura latina, Enea, scese negli inferi durante il suo viaggio. Dal canto suo, Eracle (il romano Ercole) visitò l’Ade per portare a termine diverse missioni, la più celebre delle quali era la cattura di Cerbero, il lugubre guardiano dell’inferno, imposta all’eroe come undicesima fatica dal re Euristeo e narrata da Omero nell’Iliade; lo stesso Ade cercò di impedire l’accesso all’eroe, ma fu ferito a una spalla e dovette essere portato sull’Olimpo per curarsi. Alcuni viaggi all’inferno avevano come scopo il riscatto di un condannato. Per esempio, Eracle riuscì a salvare dall’Ade la principessa Alcesti, che si era prestata a morire al posto del marito, Admeto. Teseo e Piritoo, dal canto loro, penetrarono nell’aldilà con l’intenzione di rapire Persefone, ma vennero fatti prigionieri ed Eracle dovette accorrere a liberarli. Figlio della musa Calliope, Orfeo si addentrò nell’Ade alla ricerca della sua sposa Euridice, morta per il morso di un serpente. Commosse dal canto addolorato del marito, le divinità infernali permisero a Euridice di ritornare in vita. Orfeo, però, fallì, perché non rispettò la condizione imprescindibile che gli era stata imposta per raggiungere il suo scopo. BRIDGEMAN / ACI
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EROI CHE TORNARONO DALL’ADE
Eracle e Cerbero In una delle sue dodici “fatiche” Eracle doveva scendere negli inferi per catturare il cane Cerbero. L’eroe si presentò davanti ad Ade per chiedergli di prestargli il suo guardiano. Il dio acconsentì, a condizione che Eracle riuscisse ad afferrarlo a mani nude. Il dipinto di Domenico Pedrini raffigura proprio questo momento: vediamo l’eroe, con la sua clava e coperto con la pelle di leone, mentre trascina il cane incatenato fuori dall’Ade. XVIII secolo.
Odisseo e Tiresia
H. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS
Nell’Odissea, Omero narra come Odisseo si rechi alle porte del regno dell’Ade per consultare lo spirito dell’indovino Tiresia sui pericoli che lo attendono nel suo viaggio di ritorno a Itaca. Il rilievo mostra l’eroe mentre offre il sangue del sacrificio all’ombra di Tiresia, che si accinge a berlo prima di poter rispondere alle domande dell’eroe. Museo del Louvre, Parigi.
Orfeo ed Euridice Ade e Persefone permisero a Orfeo di tornare sulla terra con la sua amata Euridice, ma a una condizione: che durante il ritorno Orfeo non si voltasse mai indietro per guardarla. Nel suo dipinto, Jean-Baptiste Corot raffigura la coppia che ha attraversato il fiume Stige ed è sul punto di uscire dagli inferi, ma Orfeo non potrà evitare di voltarsi verso la sua amata, e in questo modo la perderà per sempre. 1861. Museo di Belle Arti, Houston.
Da Cornelia a Cleopatra
LE DONNE DI GIULIO CESARE Discendente, secondo una tradizione familiare, da Venere, la dea dell’amore, Giulio Cesare fece molte conquiste amorose e usò a proprio beneficio, politico o economico, tutte le donne con cui ebbe a che fare
CESARE E LA REGINA D’EGITTO
Il generale romano conobbe Cleopatra quando, inseguendo il suo rivale Pompeo, giunse in Egitto. Nel XVIII secolo, Tiepolo raffigurò l’episodio in un dipinto. Museo Arkhangelskoye, Mosca. HERITAGE / SCALA, FIRENZE
GAIO GIULIO CESARE
SERVILIA
AURELIA
CESARE
CLEOPATRA
POMPEA
CALPURNIA
(Nipote del dittatore Silla)
(Figlia di Lucio Calpurnio Pisone)
GIULIA
(Collega di triumvirato)
DISCENDENTE DELLA DEA VENERE
Secondo la tradizione, la gens Iulia discendeva direttamente da Venere, dea dell’amore, cosa di cui Cesare si vantava. Ostentava con orgoglio l’antichità della sua stirpe, anche se la famiglia aveva perso influenza.
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aio Giulio Cesare fu più famoso per i suoi amanti – donne e uomini – che per le sue mogli, e dire che fu fidanzato una volta e sposato tre volte. La sua vita sessuale fu caratterizzata da innumerevoli relazioni amorose e coniugali, due termini che non sempre indicano la stessa cosa; Svetonio narrava che la sua conquista della Gallia suscitava meno entusiasmo durante la sfilata trionfale a Roma, al termine della guerra, che le sue conquiste delle donne di quella regione. Quando leggiamo Svetonio e altri autori veniamo a sapere che la vita sessuale di Cesare in gioventù fu caratterizzata da una relazione con il re Nicomede di Bitinia, che era molto più anziano di lui. Tutte le sue storie successive con donne sembrano voler cancellare quell’episodio. Secondo un altro storico an-
TEMPIO DI SATURNO
LAKOV / DEPOSITPHOTOS
POMPEO
CORNELIA (Figlia di Lucio Cornelio Cinna)
ANTONELLO LANZELLOTTO / AGE FOTOSTOCK
CESARIONE
Si trova nel Foro romano, che era il centro politico e sociale dell’antica Roma. Qui avevano sede le principali istituzioni politiche e religiose della città, come il Senato, la tribuna dei Rostra e gli archivi ufficiali.
tico, Cassio Dione, bastava alludere a questo fatto per fargli perdere le staffe, e questo avvenne anche a molti anni di distanza. Cesare coltivò una doppia immagine nella sfera sessuale: moralismo in pubblico e liberalismo in privato. Fu anche Pontefice Massimo, la carica religiosa più importante di Roma, quindi la sua immagine pubblica doveva essere irreprensibile. Sottolineò questa severità promulgando leggi conservatrici contro l’ostentazione nell’abbigliamento e negli ornamenti femminili; rafforzò ancor di più questa immagine di tradizionalismo morale mediante azioni contro
C R O N O LO G I A
CESARE, IL GRANDE SEDUTTORE 42 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Rompe il fidanzamento con Cossuzia, giovane di famiglia equestre, per sposare Cornelia, figlia del leader popolare Cinna, il personaggio più potente di Roma all’epoca.
69 a.C.
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La zia Giulia e Cornelia muoiono. Cesare legge un elogio funebre nel quale loda la gens Iulia attraverso le sue donne e guadagna le simpatie del popolo, poiché era insolito dimostrare affetto verso la moglie in pubblico.
LA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA. CAMMEO. BIBLIOTECA NAZIONALE, PARIGI
l’adulterio o contro le relazioni tra donne di classe elevata e liberti. Parallelamente, però, coltivò un’immagine molto liberale nella sua sessualità, come dimostra il fatto che guidò il partito dei populares, opposti al chiuso moralismo dell’altro partito che dominava la vita politica a Roma alla fine della Repubblica, gli aristocratici optimates.
Addio, Cossuzia Come era consuetudine a Roma, a quattordici anni Giulio Cesare era fidanzato con Cossuzia, «donna di famiglia equestre, ma molto ricca», racconta Svetonio, e due anni dopo fu
designato flamen dialis, sacerdote di Giove. Questo lo obbligava a sposarsi con una patrizia, e Cossuzia non lo era; Giulio Cesare ruppe dunque il fidanzamento per contrarre matrimonio nell’84 a.C. con Cornelia, figlia di Cinna, che fu quattro volte console. Lucio Cornelio Cinna era il leader dei populares dopo la morte del suo alleato Gaio Mario, zio di Cesare. In quel momento, i populares controllavano il Senato, sicché tale unione apriva a Cesare grandi prospettive nella sua carriera politica. L’instabilità della Repubblica, tuttavia, sfociò in una guerra civile tra i sostenitori di Cinna e gli optimates, guidati da Silla.
62 a.C.
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Divorzia da Pompea, la sua seconda moglie, perché non può permettere che si dubiti della sua fedeltà verso di lui. Durante gli anni in cui sono stati sposati, però, Cesare ha avuto numerose amanti.
Concede la mano di sua figlia a Pompeo e lui si sposa con Calpurnia, figlia di un fedele collaboratore di questi. Spera in tal modo di stringere i legami del triumvirato che costituisce insieme con Pompeo e Crasso.
IL SIMBOLO DELLE LEGIONI
Gaio Mario, marito della zia di Cesare, Giulia, introdusse l’aquila come simbolo unico delle legioni romane. Capo del partito dei populares, fu eletto console sette volte, un fatto senza precedenti.
48 a.C. In piena guerra civile, giunge ad Alessandria mentre insegue Pompeo e vi incontra Cleopatra. La regina si recherà a Roma quando lui sarà dittatore perpetuo. AKG / ALBUM
FOGLIA / SCALA, FIRENZE
UN BANCHETTO. LE CORTIGIANE RALLEGRAVANO LE FESTE DEI PATRIZI ROMANI. AFFRESCO, MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
LA SESSUALITÀ DI CESARE Anche se ebbe rapporti con molte donne, si diffuse la diceria di una sua relazione omosessuale con Nicomede IV di Bitinia (sotto), che lo fece infuriare. Per irriderlo, i suoi nemici lo insultavano chiamandolo «Regina di Bitinia». CGB NUMISMATIQUE PARIS
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Dopo questa guerra, da cui uscirono vincitori gli optimates e durante la quale morì il suocero di Cesare, iniziarono le proscrizioni di Silla, nelle quali morirono migliaia di cittadini. Come membro del partito sconfitto, Cesare fu spogliato del sacerdozio e dell’eredità di famiglia. Silla voleva che ripudiasse Cornelia, figlia del leader della fazione perdente, ma in un gesto di rispetto per la sua sposa e di ribellione verso l’autorità, Giulio Cesare rifiutò e dovette nascondersi per sfuggire alla morte. Dopo un certo periodo, Silla cedette alle pressioni delle vergini vestali e di due parenti di Cesare e ritirò la condanna a morte, ma avvertì che quel giovane sarebbe stato la rovina del partito optimate poiché secondo lui «in Cesare sono nascosti molti Mari». Dopo il perdono, Cesare lasciò la moglie e la figlia a Roma e iniziò il servizio all’estero. Fu inviato come ambasciatore alla corte del re Nicomede IV di Bitinia, in Asia Minore, dove avrebbe avuto relazioni sessuali con il monarca. Il fatto che Nicomede fosse molto più anziano di lui poteva significare solo che Cesare aveva avuto un ruolo passivo. I romani disprezzavano gli omosessuali passivi e si facevano beffe di loro, dunque è probabile che Cesare pubblicizzasse una forsennata vita amorosa eterosessuale per cancellare l’infamia di una relazione omosessuale passiva con un
NIMATALLAH / ART ARCHIVE
FUNERALE ROMANO
A Roma, i funerali erano pubblici e servivano per rafforzare l’immagine della famiglia, come nel caso delle esequie di Giulia, zia di Cesare. Rilievo con corteo funebre. I secolo d.C.
uomo molto più vecchio e straniero. Egli negò sempre la veridicità della storia, che servì da argomento ai suoi detrattori anche molto tempo dopo la sua morte.
La morte di Cornelia Il felice matrimonio tra Giulio Cesare e Cornelia durò quindici anni, fino al 69 a.C., quando lei morì di parto nel dare alla luce il secondo figlio, che non sopravvisse. Cesare organizzò i funerali per sua moglie e per sua zia Giulia, moglie di Gaio Mario, e pronunciò un elogio funebre per Cornelia. Non vi erano precedenti di elogi funebri per donne tanto giovani e questo atto gli fece guadagnare le simpatie della gente, poiché non era frequente dimostrare pubblicamente l’amore coniugale. Si potrebbe pensare che Cornelia fu il grande e vero amore di Giulio Cesare, poiché non la ripudiò neanche sotto minaccia di morte. A Cesare, però, interessava risposarsi presto per ottenere ricchezze e alleanze politiche, e la prescelta fu Pompea, nipote di Silla, il vecchio rivale del padre di Cornelia. È probabile che, in
GIULIA E POMPEO
MATRIMONIO DI POMPEO E GIULIA. LITOGRAFIA, XX SECOLO.
NOZZE POLITICHE
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ell’aristocrazia romana era consueto organizzare matrimoni per rinsaldare alleanze politiche. Al fine di stringere i suoi legami con Pompeo, collega di triumvirato, Cesare gli concesse la mano di sua figlia Giulia. La grande differenza d’età tra i coniugi, di oltre vent’anni, non era insolita a Roma. Perché queste nozze avessero luogo, Cesare dovette rompere il fidanzamento di Giulia con Quinto Servilio Cepione, al quale Pompeo concesse la propria figlia come compensazione. Giulia fu una sposa esemplare. Si dice che Pompeo la amò veramente e che soffrì molto quando morì di parto. Giulio Cesare organizzò dei giochi gladiatori in sua memoria, i primi celebrati in onore di una donna.
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LEEMAGE / PRISMA
quegli anni difficili, Cesare volesse, per così dire, salvare capra e cavoli: mentre si dichiarava popolare con le sue azioni, cercava di assicurarsi per il futuro con la fazione contraria in quei tempi convulsi. Tuttavia, se per Cornelia aveva provato amore e affetto, nel matrimonio con Pompea regnò il disinteresse, a quanto pare ricambiato dalla sposa. Nel 64 a.C. divenne di dominio pubblico la sua relazione con Servilia, l’amante che secondo Svetonio amò più delle altre. Servilia era sorellastra del grande nemico di Cesare, Catone l’Uticense, e aiutò il suo amante quando Catone lo accusò di essere complice nella cospirazione del senatore Catilina contro la Repubblica. La relazione tra Cesare e Servilia durò fino alla morte di lui. Alcuni autori dell’Antichità sostenevano che avessero già avuto un idillio in gioventù, dal quale poteva essere nato Bruto, primogenito di Servilia e uno degli assassini di Cesare. La sua relazione tornò sotto i riflettori nel 63 a.C., durante la seduta del Senato nella quale si discuteva se comminare la pena di morte al proscritto Catilina, quando Cesare si vide costretto a mostrare una lettera appassionata che gli aveva fatto recapitare Servilia. Mentre Cesare continuava a vedersi in segreto con Servilia, avvenne un incidente che rese evidente che Cesare (e la società romana) usava due pesi
AKG / ALBUM
LE AMANTI: BENESTANTI E COLTE Molte delle partner di Giulio Cesare erano di classe elevata, colte e argute. In loro Cesare trovava piacere intellettuale, non solo sessuale. Giovane del I secolo d.C. in un affresco di Pompei.
MONDADORI / ART ARCHIVE
COLONNE DEL TEMPIO DI VENERE GENITRICE (IN FONDO), CHE CESARE ERESSE NEL FORO CHE PORTA IL SUO NOME E CHE OSPITÒ UNA STATUA D’ORO DI CLEOPATRA.
e due misure per lui e per le sue mogli. Avvenne durante una festività religiosa, quando Pompea fu protagonista del più grande scandalo sessuale e religioso della Roma repubblicana.
Sacrilegio e divorzio Aurelia, madre di Giulio Cesare, non si fidava della nuova nuora, e la sorvegliava da vicino perché sospettava che non fosse fedele al figlio. Una sera del 62 a.C. in cui si celebrava la festa della Bona Dea – riservata alle donne – in casa di Cesare, allora pretore e Pontefice Massimo, il giovane aristocratico Clodio si intrufolò nella dimora travestito da donna e fu scoperto da una serva; costei chiamò Aurelia, che ordinò di arrestare l’intruso. Lo scandalo fu enorme, e, secondo Plutarco, «il giorno seguente si diffuse in tutta la città la notizia che Clodio aveva commesso un sacrilegio, per il quale doveva pagare non solo davanti agli offesi, ma anche davanti alla città e agli dei». Giulio Cesare ripudiò Pompea e Clodio fu accusato di sacrilegio e, implicitamente, di adulterio ai danni di Cesare, che negò le ac-
UN ADULTERIO RIVELATO
LA LETTERA DI SERVILIA
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entre il Senato discuteva della sorte di Catilina, accusato di cospirare contro la Repubblica, Giulio Cesare si vide costretto a rivelare in pubblico le lussuriose parole che gli rivolgeva la sua amante Servilia. Accadde mentre Cesare, che propendeva per risparmiare la vita di Catilina, discuteva animatamente con Catone, che invece voleva condannarlo a morte. La posizione di Cesare fu vista come un indizio di un suo coinvolgimento nella congiura, sospetto che aumentò quando un servo entrò nella sala e gli consegnò una tavoletta. Catone gli chiese di dire se fosse un messaggio di Catilina, e, quando Cesare rifiutò di mostrarlo, disse che quello confermava la sua colpevolezza. Cesare consegnò la tavoletta a Catone, il quale vide che era una lettera lasciva di Servilia, sua sorellastra e moglie del console eletto Decimo Giunio Silano, anch’egli presente alla seduta. Catone, umiliato, gettò la tavoletta addosso a Cesare gridando: «Tieni, ubriacone!».
cuse contro il suo alleato politico durante il processo. Fu allora che, quando gli chiesero perché avesse ripudiato la moglie se non credeva che avesse commesso adulterio, rispose con la famosa frase: «Perché, a mio avviso, tutti i miei parenti devono essere esenti tanto da sospetti quanto da colpe». Dopo il divorzio, Cesare rimase celibe per un certo periodo, ma non senza partner, poiché continuò la relazione con Servilia alla quale, si diceva, regalò una perla del valore di sei milioni di sesterzi, l’equivalente del salario annuale di una legione. Cercò anche il piacere con amanti di qualsiasi condizione, comprese le regine. Fonti e voci dell’epoca alludono a un lungo elenco di conquiste e adulteri di Cesare. Dice Svetonio che «sedusse moltissime donne di nobile nascita», tra le quali spiccano Mucia e Tertulla, mogli dei futuri compagni di Cesare nel triumvirato, Pompeo e Crasso. Successivamente avrebbe sedotto anche la regina Eunoe di Mauritania, moglie del suo alleato re Bogude. La loro importanza stava nel fatto che erano mogli dei suoi nemici, quindi le
usava come informatrici, o dei suoi amici, e gli servivano per rafforzare le proprie alleanze: non era inconsueto che un accordo tra due politici fosse sigillato coricandosi l’uno con la moglie dell’altro.
Doppie nozze e triumvirato La carriera politica di Giulio Cesare continuò, e a quarant’anni occupò la carica di console per la prima volta. Alla fine del consolato, nel 59 a.C., tornò a tessere alleanze politiche attraverso il matrimonio. Concesse la mano di sua figlia Giulia al suo collega di triumvirato Pompeo, in quel momento leader degli optimates, e lui si sposò con Calpurnia, figlia di un alleato del triumviro conservatore. Il suo grande rivale, il severo Catone, definì questo accordo tra i due politici come «la prostituzione della Repubblica attraverso i matrimoni». Questo matrimonio tra un quarantenne e un’adolescente aveva lo scopo di generare un maschio. Sfortunatamente, non nacquero figli, anche se Cesare manifestò sempre un sentimento tenero per la moglie, un affetto corrispo-
I SENATORI CONTRO CATILINA
Le discussioni del Senato sulla congiura di Catilina furono accalorate. L’affresco del XIX secolo raffigura il momento in cui il console Cicerone, favorevole all’esecuzione di Catilina, tiene il suo discorso. Palazzo Madama, Roma.
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LE VESTALI CELEBRANO UN RITO NEL TEMPIO DELLA BONA DEA. IMMAGINE DAL LIBRO LE SUPERSTIZIONI DELL’UMANITÀ, 1891. MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
Dallo scandalo al divorzio L’INCIDENTE che provocò il divorzio
di Giulio Cesare dalla seconda moglie, Pompea, avvenne durante la celebrazione della Bona Dea (“Buona Dea”). A seconda delle versioni del mito, costei era figlia, sposa o sorella del dio Fauno. Le celebrazioni ricordavano la virtù della Bona Dea e avevano luogo ogni anno a casa di un magistrato della città. A occuparsene erano la moglie del magistrato e le vergini vestali, e il culto prevedeva anche riti segreti.
Alle celebrazioni potevano partecipare soltanto le donne, gli uomini erano esclusi. Tuttavia, in occasione della festa del dicembre del 62 a.C., il politico Publio Clodio si travestì da donna per intrufolarsi nella casa di Giulio Cesare, che all’epoca era Pontefice Massimo, e venne scoperto da una serva. Lo scandalo fu tale che Aurelia, la madre di Cesare, diede ordine di arrestare Clodio, il quale venne sospettato di aver commesso adulterio con Pompea.
BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
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sto. La coppia visse separata quasi dall’inizio, poiché il“regalo di nozze”di Pompeo fu la nomina di Cesare per la conquista della Gallia. A quanto pare, nel tempo in cui fu impegnato nella campagna, il suo appetito sessuale non diminuì. Quando celebrò il trionfo a Roma, i suoi sodati cantavano: «Cittadini, sorvegliate le vostre donne: vi portiamo l’adultero calvo. In Gallia, o Cesare, hai dissipato con le donne il denaro che qui hai preso in prestito». L’alleanza tra Cesare e Pompeo andò via via indebolendosi, e la morte di Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo, finì per rompere qualsiasi legame tra loro. I due uomini si affrontarono per il potere in una guerra civile che si concluse con la vittoria di Cesare e favorì la sua conquista amorosa più celebre, quella di Cleopatra VII, regina d’Egitto. Si conobbero quando, nel 48 a.C., Cesare giunse ad Alessandria, la capitale egizia, per porre fine alla resistenza delle truppe di Pompeo, che vi si era rifugiato. Nelle sue cronache non perse l’opportunità di criticare i suoi nemici per la vita dissoluta che conducevano in Egitto; secondo lui, «avevano scordato il nome e la disciplina del popolo romano» per sposare donne di Alessandria e fare figli con loro. Ma nel momento stesso in cui scriveva queste righe, viveva con una donna di Alessandria, Cleopatra. Secondo Plutarco,
MASAHIRO NOGUCHI / GETTY IMAGES
LA REGINA AMANTE Quando Cesare parla delle sue amanti, raramente ne descrive la bellezza, ma allude sempre alla loro importanza a livello politico o finanziario. Si dice che della regina Cleopatra, di cui sotto compare un ritratto, lo conquistarono l’intelligenza e il talento.
BRIDGEMAN / ACI
GIULIO CESARE SI DIRIGE AL SENATO IL GIORNO DELLE IDI DI MARZO, MENTRE CALPURNIA CERCA DI FERMARLO. MUSEO DELLE BELLE ARTI, VALENCIENNES.
Cesare rimase «affascinato dalla sua conversazione e dalla sua grazia», cioè dalla sua intelligenza e dal suo talento (e non dalla sua bellezza). La storia con la sovrana d’Egitto, che era quasi un concubinato, durò fino alla morte di Cesare. L’unione con la regina più influente del Mediterraneo faceva di Cesare quasi un re, il che sosteneva la sua ambizione monarchica a Roma. Inoltre, Cleopatra gli forniva un sostegno economico decisivo per ottenere la supremazia politica nella Repubblica. Soprattutto, però, Cleopatra diede a Cesare il figlio maschio che tanto desiderava, Cesarione. La regina, dal canto suo, ottenne il trono d’Egitto, che contendeva al fratello Tolomeo XIII.
Il dittatore “poligamo” Giulio Cesare fu nominato dittatore perpetuo nel 45 a.C. e concentrò nelle sue mani più potere di qualsiasi altro uomo nella storia di Roma fino a quel momento. Nel frattempo, portava avanti tre relazioni stabili contemporaneamente. Calpurnia, sua moglie, fu la prima“imperatrice”, in quanto moglie di colui
LA VIRTÙ DELLE MATRONE
ESSERE ONESTA E SEMBRARLO
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esare preferiva le matrone rispettabili per avere figli e condurre una vita esemplare e donne più disinvolte per svagarsi e accantonare la virtù. Nell’elogio funebre per sua zia e la sua prima moglie, Cornelia, le indicò come modelli di comportamento esemplare. Un’altra donna di cui seguì sempre i consigli fu sua madre, Aurelia. La sua terza moglie, Calpurnia, rispecchiava perfettamente l’ideale di matrona romana: dedita al focolare domestico e al marito. L’eccezione fu la seconda moglie, Pompea, protagonista di uno scandalo che terminò con il divorzio. Quando gli chiesero perché avesse ripudiato la moglie,che non accusò di adulterio, secondo Svetonio Cesare rispose: «A mio avviso, tutti i miei parenti devono essere esenti tanto da sospetti quanto da colpe», filosofia giunta sino a noi nella versione leggermente diversa data da Plutarco: «La moglie di Cesare deve non solo essere onesta, ma anche sembrare onesta».
che si proclamò imperator, dittatore perpetuo e signore assoluto dello Stato romano. Fu una moglie discreta e, nonostante le infedeltà, amò sempre il marito, come dimostra il famoso episodio del suo incubo la notte prima dell’assassinio di Cesare, quando sognò che lo uccidevano e cercò di dissuaderlo a recarsi in Senato. Dal canto suo, dopo la guerra civile, Servilia continuò a trarre profitto dalla sua lunga relazione con Cesare. Comprò a buon prezzo molte proprietà confiscate ai pompeiani e ottenne il perdono per il figlio Bruto, che era stato alleato di Pompeo. La patrizia offrì persino in moglie a Cesare sua figlia Giunia, visto che Calpurnia era sterile. Quanto a Cleopatra, era stata invitata a Roma da Cesare nell’autunno del 46 a.C., e tornò in città l’anno seguente, rimanendovi fino all’assassinio del dittatore. I due ravvivarono il loro amore e discussero di questioni di Stato. Secondo Cassio Dione, la regina fu dichiarata «alleata e amica del popolo romano» e nel tempio di Venere Genitrice, costruito da Cesare, fu eretta una statua in oro di Cleopatra.
Con il suo assassinio alle idi di marzo del 44 a.C. Giulio Cesare lasciò tre“vedove”. La prima, Calpurnia, rappresentò molto bene il ruolo che Cesare pretendeva dalle donne della sua famiglia; fu discreta nel lutto e nell’amministrazione del testamento politico di Cesare. Non si risposò mai. La seconda, Servilia, divenne per qualche mese l’arbitro della politica romana, mediando tra i sostenitori di Cesare e i suoi assassini, tra i quali, come abbiamo detto, c’era anche suo figlio Bruto. La terza, Cleopatra, fece ritorno in Egitto e finì i suoi giorni in maniera tragica due anni dopo, al fianco del suo nuovo amante e antico collaboratore di Giulio Cesare, Marco Antonio.
IL TEMPIO DELLE VESTALI
Le vestali rivestivano un ruolo importante in molti riti di Roma. Il loro tempio (in alto) si trovava di fianco alla Domus Publica, residenza del Pontefice Massimo, carica religiosa che Giulio Cesare ricoprì dall’anno 63 a.C.
JUAN LUIS POSADAS DOTTORE IN STORIA ANTICA
Per saperne di più
SAGGI
Giulio Cesare Luciano Canfora. Laterza, Roma-Bari, 2006. Gli imperatori romani. Storia e segreti Michael Grant. Newton & Compton, Roma, 1984. TESTI
Le vite dei cesari. Libro I: Cesare Gaio Svetonio Tranquillo. Rizzoli, Milano, 1982-2012.
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VALLE DI NUBRA, KARAKORUM
L’impressionante gruppo montuoso del Karakorum, che si snoda tra Pakistan, India e Cina, circonda la valle di Nubra, attraverso la quale transitarono viaggiatori e commercianti in lunghe carovane di cammelli battriani, come quelli della foto, prima di addentrarsi in Asia Centrale. SKAMAN / GETTY IMAGES
La rotta che unì Oriente e Occidente
LA VIA DELLA SETA Da Chang’an, la capitale della Cina, a Roma, all’estremità opposta dell’Eurasia, la Via della Seta fu per secoli la grande rotta commerciale tra civiltà e un corridoio lungo il quale viaggiarono idee, conoscenze e religioni
VESTITI DI SETA
Concubine dell’imperatore Yuan. Da tempi immemori, i cortigiani imperiali vestivano con lussuosi capi di seta come simbolo del loro status sociale. LA GRANDE OCA SELVATICA
AKG / ALBUM
ORIGINE DI UNA ROTTA MILLENARIA
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ginare quanto lontano fosse il paese di Seres (il nome che essi davano alla Cina), né i pericoli che si dovevano affrontare affinché loro potessero vestirsi con tanto fasto. Secondo le concezioni geografiche dell’epoca, la Cina era all’estremo opposto del mondo.
L’articolo più quotato I cinesi producevano la seta da tempi immemori. In alcune tombe neolitiche (2500 a.C.) sono stati rinvenuti bozzoli di seta sepolti accanto al defunto; la spiegazione più probabile è che furono posti lì perché il loro ciclo vitale era inteso come un’analogia dell’esistenza di vita oltre la morte. Cinquecento anni più tardi, ai tempi della dinastia Xia, la prima
2500 a.C. RISALGONO a quest’epoca
i bozzoli di seta rinvenuti in alcune tombe della cultura Liangzhu, in Cina, sicuramente associati all’idea di vita eterna. Sono i resti più antichi mai ritrovati.
247-222 a.C. QIN SHI HUANGDI unifica
la Cina e diventa il primo imperatore. Inizia la costruzione della Grande Muraglia per contenere le incursioni dei nomadi provenienti dalle steppe.
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a prima volta che un occidentale vide la seta fu nel 53 a.C., negli stendardi che i soldati dell’Impero partico (nell’odierno Iran) agitavano davanti agli occhi sorpresi dei legionari guidati da Crasso, triumviro della Repubblica romana assieme a Cesare e Pompeo. Un secolo dopo, la seta era ormai divenuta così popolare nell’Impero romano che Plinio il Vecchio si scandalizzava per le cifre esorbitanti che i suoi concittadini dilapidavano per acquistarla: «Secondo la valutazione più bassa ogni anno gli indiani, i seri e gli abitanti della penisola d’Arabia tolgono al nostro impero cento milioni di sesterzi; tanto ci costano il lusso e le donne!». I romani non potevano imma-
L’altissima pagoda, eretta nel 648, ai tempi della dinastia Tang, sorge nella città di Xian, vicino a Chang’an, l’antica capitale imperiale e inizio e fine della Via della Seta.
138 a.C. ZHANG QIAN intraprende un viaggio in Afghanistan per mandato dell’imperatore Wudi. Arriva nel territorio degli yuezhi, nell’antica Battriana. Dieci anni dopo si crea la Via della Seta.
552 d.C. ALCUNI MONACI provenienti
dall’Estremo Oriente giungono alla corte dell’imperatore bizantino Giustiniano I con uova di bachi da seta che hanno portato di nascosto dalla Cina.
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CITTÀ NEL DESERTO
Eretta nel I secolo e abbandonata nel XIV, la città di Gaochang, sul bordo del deserto del Taklamakan, divenne un importante centro commerciale della Via della Seta.
CRÓNICA DE ENRIQUE IV DE CASTILLA, POR DIEGO ENRÍQUEZ DEL CASTILLO. SIGLO XV. BIBLIOTECA DE LA UNIVERSIDAD DE GEORG GERSTER / AGE FOTOSTOCK
Gli imperatori usavano la seta per regali diplomatici, per pagare gli stipendi dei loro funzionari e addirittura come moneta, fissando in determinate quantità di rotoli di seta i prezzi di alcune merci di lusso. Solo gli alti dignitari potevano indossare abiti di seta, ed esisteva un codice d’abbigliamento che assegnava a ogni rango burocratico un colore specifico (porpora, carminio, verde o nero), mentre il giallo era riservato all’imperatore. Nel XIV secolo si stabilirono anche pezze di seta specifiche per ciascuna delle categorie di corte.
L’egemonia cinese I cinesi non si preoccuparono di commerciare la seta al di fuori del loro Paese fino a quando le circostanze non li obbligarono. Un popolo nomade dell’Asia Centrale, gli xiongnu, faceva frequenti incursioni per saccheggiare le popolazioni alla frontiera dell’Impero. Allo scopo di contenere tali incursioni, l’imperatore Qin Shi
Nel III secolo a.C., i cinesi ricavarono dalla seta un altro elemento importante: la carta CAMMELLO ACCUCCIATO. STATUINA IN CERAMICA. DINASTIA TANG. VII-X SECOLO.
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della storia cinese, sei delle nuove province che costituivano il territorio producevano già la seta sotto monopolio statale. Le leggende attribuiscono a una delle prime imperatrici, Lei Zu, la tecnica di svolgimento del filo di seta; a quanto pare, la scoprì per caso. Lei Zu, consorte dell’Imperatore Giallo, stava bevendo il tè all’ombra di un gelso quando un bozzolo cadde nella sua tazza. Invece di tirarlo fuori, si mise a giocherellare con il bozzolo immerso nel liquido caldo, e in questo modo scoprì che si poteva tirare il filo fino a srotolarlo del tutto. Fu per questo che sin dall’inizio la produzione della seta fu affidata alle donne, che ne dovevano custodire gelosamente i segreti; divulgarli comportava la pena di morte. Inoltre, a partire dal III secolo a.C., i cinesi riuscirono a ricavare dalla seta un altro articolo di lusso: la carta.
Principale itinerario terrestre della Via della Seta Ampliamento fino a Costantinopoli e Roma Altre rotte commerciali
3 COSTANTINOPOLI
2 CTESIFONTE
1 CHANG’AN
A 8000 chilometri da Chang’an, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente fu un grande centro commerciale. Oltre alla seta, vi giungevano altri prodotti preziosi, come i lapislazzuli dall’Afghanistan.
I parti convinsero i mercanti cinesi che arrivavano nella loro capitale delle difficoltà che comportava la rotta al di là di Babilonia. In questo modo monopolizzarono il tratto finale della Via della Seta e si arricchirono.
Situata nei dintorni dell’attuale Xian, Chang’an fu capitale imperiale con gli Han, i Sui e i Tang. Arrivò a contare un milione di abitanti e divenne un importante centro di scambi commerciali.
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Nella capitale dell’Impero giungeva un’infinità di prodotti esotici attraverso molte rotte commerciali, via terra e via mare. Roma esportò a sua volta prodotti in Cina, alcuni dei quali molto pregiati, come il vetro.
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DALLA CINA ALL’EUROPA L’ESPRESSIONE “Via della Seta” indica un
insieme di rotte commerciali che collegavano l’Asia Orientale e l’Europa. Per la difficoltà dell’itinerario e le enormi distanze che separavano i suoi punti chiave, i mercanti non facevano tutto il tragitto, ma solo piccoli tratti, e nelle oasi e alle fermate scambiavano i prodotti più disparati con altri mercanti. La via iniziava a Chang’an, la capitale cinese, si dirigeva verso il corridoio di Hexi e arrivava all’oasi di Dunhuang, al limitare del
deserto del Taklamakan. Da lì si poteva scegliere tra la rotta nord, che passava da Turfan e arrivava fino a Kashgar, ai piedi dei monti del Pamir, e la rotta sud, che costeggiava il lato meridionale del Taklamakan attraverso Khotan e terminava anch’essa a Kashgar. La via proseguiva verso l’Asia Centrale, attraversando la steppa, fino a Ctesifonte, la capitale dei parti. Da lì, attraverso Palmira, nel deserto siriano, le rotte commerciali arrivavano nel Mediterraneo.
LA SETA, AGOGNATA E DISPREZZATA A ROMA, la seta fu sinonimo di ricchezza, ma anche di ostentazione e va-
Huangdi iniziò nel III secolo a.C. la costruzione della famosa Grande Muraglia, un sistema difensivo che i suoi successori ampliarono secolo dopo secolo. La Grande Muraglia, però, non frenò gli assalti degli xiongnu, e nel 138 a.C. l’imperatore Wudi ebbe un’idea per salvare il suo Paese: cercare un’alleanza con gli yuezhi, un altro popolo nomade che viveva in Afghanistan, e convincerli ad attaccare la retroguardia degli xiongnu. Tempo addietro, gli yuezhi erano stati massacrati dagli xiongnu, il cui re usava come coppa il cranio del monarca sconfitto. Zhang Qian, un giovane ufficiale della guardia di palazzo, fu nominato capo di questa missione diplomatica, composta da circa cento soldati che non fecero mai ritorno. Solo Zhang Qian tornò, tredici anni più tardi, dopo essere sopravvissuto a vicissitudini d’ogni genere ed essere stato fatto prigioniero dagli xiongnu.
L’itinerario cinese della Via della Seta è scandito da grotte buddhiste scavate nella roccia dai monaci, come quelle di Maijishan: 194 grotte che risalgono ai secoli IV e V.
La sua ambasciata presso gli yuezhi fu un insuccesso, ma non fu del tutto infruttuosa. Durante il viaggio, Zhang Qian si rese conto di due cose: che nella valle di Fergana esistevano cavalli molto forti e agili che potevano aiutare i cinesi a sconfiggere la cavalleria degli xiongnu, e che l’India e molti altri Paesi commerciavano la seta cinese. Così, quando tornò da Wudi, Zhang Qian convinse l’imperatore a monopolizzare l’esportazione di questo prodotto attraverso una rotta controllata dallo Stato e, attraverso di essa, a ottenere cavalli in cambio di seta. Fu così che nacque la leggendaria Via della Seta.
Attraverso deserti e montagne Il tratto principale della via era nelle mani dei cinesi, che la controllavano fino alla valle di Fergana. Per proteggere i loro interessi, gli imperatori costruirono guarnigioni militari lungo il percorso, oltre a locande per i mercanti. Af-
Zhang Qian convinse l’imperatore Wudi a monopolizzare l’esportazione della seta H.
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DONNE VESTITE CON ABITI DI SETA PETTINATE DA UNA SCHIAVA ORNATRIX (PARRUCCHIERA). AFFRESCO DI ERCOLANO.
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nità. Si arrivò persino a promulgare leggi che ne regolavano il consumo: Augusto ne proibì il commercio dicendo che era immorale e Tiberio vietò agli uomini di vestirsi con la seta. Seneca, nel I secolo d.C., nella sua opera De beneficiis criticava con durezza il gusto delle donne patrizie romane per questo tessuto esotico: «Ecco le vesti di seta, se vesti si possono chiamare queste che non hanno nulla che serva a proteggere il corpo o almeno il pudore: la donna che le indossa non troppo facilmente potrebbe giurare di non essere nuda; certo, vesti simili si fanno arrivare, pagandole con somme ingenti, da luoghi sconosciuti persino ai nostri mercanti, affinché le nostre nobildonne non mostrino ai loro ganzi, nell’alcova, più di quello che mostrano in pubblico».
LA GRANDE MURAGLIA
finché non attaccassero i convogli, gli xiongnu ricevettero un tributo annuale di 8000 rotoli di seta, cento vestiti di questo tessuto e altri prodotti di lusso. Il tracciato della via iniziava nella capitale della Cina, Chang’an (vicino all’attuale Xian). Da lì, i mercanti si dirigevano verso nord-ovest seguendo la rotta delle oasi del desertico altopiano tibetano, il corridoio di Hexi, verso l’oasi di Dunhuang, la principale dogana cinese. Un altro tratto della via si dirigeva direttamente da Chang’an a sud-ovest, verso la foce del Gange, in India. I commercianti che giungevano a Dunhuang attendevano vari giorni mentre i soldati li registravano con cura per verificare che nessuno portasse di nascosto bozzoli fuori dal Paese. Si narra che una volta una principessa cinese riuscì a portarli via nascondendoli nello chignon, poiché non si potevano toccare i membri della
casa imperiale. La tassa per uscire da Dunhuang equivaleva a un terzo del valore del carico. Da lì si potevano seguire due vie per aggirare il pericoloso deserto di Taklamakan: la rotta nord (o beilu) o la rotta sud (o nanlu). La rotta nord passava a sud delle Montagne Celesti (Tian Shan) per poi dividersi in vari rami, lungo i quali gli scavi archeologici hanno identificato ricchi centri commerciali, come Merv, in Afghanistan, o Termez, in Uzbekistan. La rotta sud costeggiava il Taklamakan, un deserto senza vita il cui nome significa “colui che entra non esce”. Di giorno, i mercanti affrontavano temperature superiori ai 46 °C, mentre di notte si raggiungevano i -10 °C. La traversata, inoltre, presentava anche l’insidia di tempeste di sabbia nelle quali, come descrisse Marc Aurel Stein, esploratore britannico della Via della Seta all’inizio del XX secolo, «i granelli di sabbia fischiavano come proiettili». Le due rotte si univano a
Una principessa cinese riuscì a portare via bachi da seta nascosti nello chignon TARTARUGA. FIGURINA TROVATA IN UNA TOMBA. DINASTIA TANG. VII-X SECOLO. BRIDGEMAN / ACI
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Iniziata da Qin Shi Huangdi nel III secolo a.C., la Grande Muraglia fu eretta per proteggere la Cina dalle invasioni dei nomadi. Quella che vediamo oggi è di epoca Ming.
CAVALLI CELESTI SECONDO UNA LEGGENDA l’esploratore
Zhang Qian raccontò all’imperatore Wudi che nella valle di Fergana viveva una razza molto speciale di cavalli, di grande bellezza ed enorme resistenza, che «sudavano sangue» – in realtà, un fluido rossiccio attribuito all’azione di parassiti – e dei quali si diceva che fossero i migliori del mondo. L’imperatore, entusiasmato, saccheggiò Dayuan, in Fergana, e si impossessò di questi «cavalli celesti», che avrebbero dato un grande vantaggio alla sua cavalleria
poiché si credeva che potessero percorrere mille leghe al giorno, quasi 5000 chilometri. Durante il periodo Tang, il cavallo divenne un simbolo di status, e la cavalleria imperiale era composta da questi esemplari che si incrociarono con cavalli indigeni. Questa mitica razza non esiste più; ne conserviamo soltanto qualche rappresentazione in pitture, sculture e incisioni. SCENA DI CACCIA, CON I PARTECIPANTI A CAVALLO. PITTURA MURALE DEL MAUSOLEO DI QIANLING, VICINO A XIAN, CHE CONSERVA LE TOMBE DI VARI MEMBRI DELLA DINASTIA TANG. VII-VIII SECOLO.
MONACI IN MISSIONE DI SPIONAGGIO INDUSTRIALE A PARTIRE DAL V SECOLO, il segreto della fabbricazione della seta smise
BACHI DA SETA SU UN ARBUSTO DI GELSO. ILLUSTRAZIONE PUBBLICATA NEL 1900.
Crocevia di civiltà La rotta dei cinesi terminava in un luogo noto come la Torre di Pietra (forse Tashkent, la capitale dell’odierno Uzbekistan), dove erano in attesa i mercanti sogdiani, battriani e parti. Questi proseguivano il percorso trasportando la seta verso l’India e il Mediterraneo orientale. Secondo il geografo Tolomeo, che scriveva nel II secolo d.C., da Chang’an alla Torre di Pietra la via era lunga 11.557 chilometri, e da lì alla frontiera romana sull’Eufrate altri 4861. In totale, oltre 16.000 chilometri. I re parti costruirono caravanserragli per alloggiare i commercianti e i loro cammelli lungo il percorso fino a Ctesifonte, la loro capitale. Lì si riunivano mercanti ebrei, palmireni e nabatei che portavano la seta fino a Palmira, Damasco, Gerusalemme o Petra. I commercianti romani imbarcavano la seta nei porti del Levante come Gaza o Antiochia, e così le balle di seta confezionate più di un anno prima a Chang’an terminavano il loro viaggio negli aristocratici 62 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
L’imperatore Giustiniano (al centro) decretò nel 541 un monopolio statale sulla seta per proteggerne la fabbricazione. Mosaico di San Vitale, Ravenna.
saloni di una villa di Roma. Secondo Plinio il Vecchio, il prezzo finale che questo prodotto raggiungeva nella capitale era spropositato: «Ogni anno l’India drena da noi un capitale superiore ai 50 milioni di sesterzi per l’acquisto delle sue merci, che vengono poi rivendute sul nostro mercato a cento volte il loro costo». Anche se la Via della Seta divenne famosa per questo prodotto, vi circolavano altre merci, non tutte di lusso: giada, lacche, tè, carapaci di tartaruga, piume di uccelli esotici, elefanti per gli eserciti greci, oro, argento, ferro, piombo, stagno, spezie, lino e cuoio. Lungo questa rotta, inoltre, giunsero in Occidente prodotti come la carota, la melagrana e lo zafferano. E sempre tramite questa via avvennero anche intensi contatti religiosi, come si vede nelle pitture delle grotte buddhiste di Turfan, oasi nella quale convivevano sacerdoti buddhisti, confuciani e nestoriani. CARLES BUENACASA PÉREZ DOTTORE IN GEOGRAFIA E STORIA. UNIVERSITÀ DI BARCELLONA
Per saperne di più
SAGGI
Roma e la Via delle Spezie J. Innes Miller. Einaudi, 1974. TESTI
Il milione Marco Polo. Mondadori, Milano, 1990.
SCALA, FIRENZE
Kashgar, al confine con l’attuale Kirghizistan, e da lì attraversavano la catena del Pamir seguendo piste strette e in cattivo stato, a circa 4000 metri di quota, spesso innevate e con visibilità scarsa o nulla.
UN TESSUTO IMPERIALE
ORONOZ / ALBUM KHARBINE-TAPABOR / ART ARCHIVE
di essere un monopolio cinese e il prezioso materiale fu prodotto in altri luoghi dell’Oriente. Secondo le leggende cristiane, nel 552, l’imperatore bizantino Giustiniano I, al fine di assicurarsi la propria fornitura di seta, convinse alcuni monaci che stavano per recarsi in Estremo Oriente a portargli alcune di quelle larve che producevano la seta. I monaci consegnarono all’imperatore le uova di quei bachi, che avevano trasportato avvolte nello sterco per tenerle al caldo, nascoste in uno dei loro bastoni da pellegrino. In questo modo, secondo lo storico Procopio, «trasportarono le uova a Bisanzio e dopo che si furono trasformate in larve, le alimentarono con foglie di gelso e riuscirono a far sì che la seta nascesse nei territori dei romani».
LA MANIFATTURA DELLA SETA
Il dipinto raffigura un gruppo di donne cinesi d’alto rango impegnate nella
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FOTO: GRANGER COLLECTION / AGE FOTOSTOCK
Tessuti prodotti da e per le dame della corte Il dipinto riprodotto in questa pagina è una copia fedele, realizzata sotto il regno dell’imperatore Huizong (10821135), di un’opera di Zhang Xuan, un pittore di corte vissuto nell’VIII secolo. Il dipinto, che misura 37 x 145 cm, è stato eseguito su seta, utilizzando colori vivaci e un lussuoso sfondo dorato. Intitolata Dame della corte che preparano una seta appena tessuta, l’opera si inscrive in uno stile che fu caratteristico per secoli e che descrive l’importanza di un lavoro eseguito solo da donne d’alto rango. Questo splendido dipinto è conservato nel Museo di Belle Arti di Boston. PEZZA DI SETA CHE FACEVA PARTE DI UNA DRAPPELLA, SU CUI SONO RAFFIGURATI DUE BUDDHA OPPOSTI. X SECOLO. BRITISH MUSEUM, LONDRA. ERICH LESSING / ALBUM
1 BATTITURA
2 FILATURA
Quattro dame di corte, lussuosamente vestite con abiti di seta, usano bastoni di legno per battere e agitare i bozzoli di seta in acqua calda in modo da separare i fili e ottenere la fibra.
Una donna dipana il filo ottenuto da ogni bozzolo di seta mediante il processo precedente. Svolge il filamento dalla punta e lo avvolge su una specie di rocchetto. Al suo fianco, un’altra dama cuce.
3 RISCALDAMENTO
4 STIRATURA
Una giovane serva, accoccolata a terra, ravviva le braci nelle quali vengono riscaldati i pezzi di carbone che serviranno per tenere caldo il ferro con cui si stireranno i rotoli di seta.
Una bambina gioca fra tre dame eleganti e una giovane serva. Due dame svolgono una pezza di seta, una terza la stira con estrema attenzione e la giovane aiuta a mantenere il tessuto ben teso.
NELL’ANTICA CINA
produzione di delicati tessuti di seta, nell’VIII secolo d.C.
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Gli indumenti e gli accessori che indossano le donne in questa scena illustrano lo stile e la moda imperanti durante la dinastia Tang (618-907). Sulla fronte hanno una decorazione a forma di foglia, ma erano molto diffusi anche altri disegni come piume, conchiglie e punti. Tutte portano tra i capelli pettini di giada, oro, argento o avorio, e alcune sfoggiano anche decorazioni floreali, anch’esse di materiali preziosi. Sulle spalle sono drappeggiate stole di seta, di diversi colori e modelli.
PEZZA DI TESSUTO DI SETA DECORATA CON ALBERI STILIZZATI. V SECOLO. DINASTIA WEI. RITROVATA IN UNA TOMBA DI ASTANA, TURFAN.
FRAMMENTO DI TESSUTO DI BROCCATO DI SETA DECORATO CON FIGURE DI UCCELLI CONTRAPPOSTE. VIII SECOLO. TOMBE DI ASTANA, TURFAN.
BRIDGEMAN / ACI
BRIDGEMAN / ACI
IL VECCHIO DELLA MONTAGNA
Secondo Marco Polo, il capo degli assassini dava da bere un intruglio ai giovani che addestrava all’uso delle armi per farli addormentare e risvegliare in un luogo meraviglioso, facendo loro credere di essere un profeta che possedeva le chiavi del paradiso e ottenendo un potere assoluto sulla loro volontà. Miniatura del Libro delle Meraviglie. XV secolo. Bibliothèque Nationale, Parigi. A destra, daga persiana con intarsi in oro e pietre preziose. Victoria and Albert Museum, Londra. SINISTRA: AKG / ALBUM. DESTRA: BRIDGEMAN / ACI
I leggendari guerrieri di Alamut
LA SETTA DEGLI ASSASSINI Dalla loro inespugnabile fortezza di Alamut, in Iran, i nizariti diffusero la loro dottrina sciita nel Vicino Oriente all’epoca delle Crociate. La fama dei loro attentati giunse fino in Europa, dove erano conosciuti come “assassini”
C R O N O LO G I A
Le sette degli sciiti 680
Dopo la battaglia di Kerbela ha luogo lo scisma religioso tra i seguaci di Alì, chiamati sciiti, e i sunniti, tra i quali vengono eletti i califfi.
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Dopo la morte del sesto imam sciita, la credenza che il suo primogenito Ismail tornerà alla fine dei tempi dà origine alla corrente ismailita.
909
Nasce il califfato fatimide, i cui membri si considerano discendenti di Fatima, figlia del Profeta, e di suo marito, il primo imam sciita.
1017
Alla morte del califfo fatimide al-Hakim, i suoi seguaci, che lo considerano manifestazione di Dio, formano il gruppo dei drusi, insediato in Libano.
1095
Dopo l’assassinio di Nizar, figlio del califfo fatimide al-Mustansir, i suoi seguaci, i nizariti, dominano in Persia guidati da Hasan-i Sabbah.
LA FORTEZZA DI ALAMUT
Il quartier generale degli assassini, nell’attuale Iran, prendeva il nome da Aluh Amujt (nido di aquile). Bastava il nome per suscitare timore in tutte le corti della Persia.
1256
I mongoli prendono il castello di Alamut (Iran), sede degli assassini, nome che i cristiani danno ai nizariti.
HASAN-I SABBAH, IL VECCHIO DELLA MONTAGNA. INCISIONE 68 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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I nizariti rifugiati in India estendono il loro proselitismo e creano il gruppo khoja, base della comunità nizarita odierna.
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XIV SECOLO
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l 28 aprile del 1192, Corrado del Monferrato celebrava a Tiro la sua designazione a re di Gerusalemme, un titolo importante per i crociati, nonostante la capitale della Terrasanta fosse caduta nelle mani del Saladino cinque anni prima. Proprio allora giunsero due emissari con un messaggio per lui. Mentre Corrado aveva le mani occupate a reggere lo scritto, i due inviati si avvicinarono, estrassero i pugnali e posero fine alla sua vita. E sebbene vi fossero molti più cristiani che musulmani interessati alla sua morte, del crimine fu incolpato uno strano gruppo che i cronisti dell’epoca conoscevano con i nomi di assessinis, assissinis, axecessi, axasessi e, soprattutto, assissinorum secta, la “setta degli assassini”; tutti termini che avrebbero dato origine alla parola “assassino” che usiamo oggi. Questa setta era conosciuta dai crociati, ma i racconti che sono giunti fino a noi sono molto confusi. Tutti i testimoni chiamano il leader di questo gruppo “il vecchio”, dandogli appellativi piuttosto eloquenti, come “il signore delle daghe”. Il rabbino Beniamino
AKG / ALBUM
ALESSANDRO MAGNO E I RACCOGLITORI D’OPPIO. MINIATURA. 1495. PALAZZO TOPKAPI, ISTANBUL.
GLI ASSASSINI E L’HASHISH
cristiani in Terrasanta. La seconda è che gli assassini attaccavano i principi che abusavano del popolo. Ciononostante, il Vecchio e i suoi assassini avrebbero potuto essere un altro dei numerosi aneddoti all’interno dei racconti delle crociate, se all’inizio del XIV secolo non si fosse diffuso con grande successo in tutta Europa il Milione di Marco Polo, nel quale si dice che il Vecchio della Montagna usava droghe per formare i suoi assassini: fu questa la versione che rimase scolpita per secoli nell’immaginario degli europei.
L’ORO DEGLI ASSASSINI
I nizariti divennero un movimento molto potente, tanto che coniarono monete d’oro come quella dell’immagine. XII secolo. Società Numismatica, New York.
Uno scisma religioso
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Per comprendere la natura di questa “setta degli assassini”bisogna risalire alle origini dell’Islam. Dopo la repentina morte di Maometto nell’anno 632 senza che fosse designato chiaramente un successore, si scatenò una lotta feroce per la guida della comunità musulmana che diede origine a un grande scisma. I sostenitori del cugino e genero di Maometto, Ali ibn Abi Talib,
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di Tudela, che viaggiò in Palestina attorno al 1170, si spinse oltre e presentò questo vegliardo come un profeta trai suoi, il shayk al-Hashishim, “capo degli assassini”. Tutti concordavano anche sul fatto che questi assassini non fossero buoni musulmani. La loro mancanza di zelo li fece apparire nelle cronache cristiane come infedeli e maestri dell’incredulità, che consumavano vino e carne di maiale, andando quindi contro le norme dell’Islam. A questo vanno aggiunte le voci sulla loro vita in comunità, tra le quali quella sulla soppressione della proprietà privata e, ancor più suggestiva, quella su certe libertà sessuali che venivano loro attribuite. Il loro presunto scarso attaccamento all’Islam fece sì che venissero considerati discendenti di ebrei o addirittura individui prossimi alla cristianizzazione. Nonostante la confusione sulle credenze degli assassini, un altro cronista sottolineava un paio di cose interessanti su di loro. La prima è che il loro capo non era designato per via ereditaria, bensì per meriti propri, aspetto che confliggeva frontalmente con le usanze dei
l’idea secondo cui gli hashishiyya si chiamavano così perché assumevano hashish prima di commettere i loro attentati. Le azioni dei fedayyin, tuttavia, richiedevano una preparazione e una pazienza incompatibili con il consumo di droghe. È più probabile che si trattasse di un termine dispregiativo male interpretato dai crociati.
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MATJAZ KRIVIC / GETTY IMAGES
GLI ORIENTALISTI europei del XIX secolo contribuirono a diffondere
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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MOSCHEA DI AL-AZHAR
IL Cairo, la capitale dell’Egitto fatimide, fu il grande centro di potere ismailita. La moschea fatimide di al-Azhar fu costruita nell’anno 972.
volevano che fosse lui ad avere il potere, perché apparteneva alla famiglia del Profeta. I rivali, invece, sostenevano che qualsiasi membro della tribù di Maometto poteva guidare la comunità. Con il trascorrere del tempo, la disputa tra i seguaci di Ali, conosciuti come sciiti, e i suoi nemici, i sunniti, finì per dividere la Umma, la comunità musulmana creata dall’azione di Maometto. Il messaggio sciita guadagnò molti adepti non arabi nelle nuove terre appena conquistate, soprattutto tra i persiani. Questi neoconvertiti, diffidenti verso i nuovi padroni arabi e poco islamizzati, avevano credenze millenarie, come il mazdaismo, che arricchirono notevolmente l’Islam sciita. Inoltre, a partire dall’VIII secolo iniziò a svilupparsi nei territori persiani un’interpretazione particolare del Corano, una lettura simbolica o esoterica che incorporò al contempo elementi della filosofia dell’antica Grecia. Data la pressione dell’ortodossia sunnita dominante, questa interpretazione fu por-
IL GRANDE IMPERO FATIMIDE
Sotto il governo dei fatimidi, l’Egitto fu il centro di un grande impero che si estendeva dal Nord dell’Africa alla Siria e allo Yemen. Pendente d’oro con incrostazioni creato da artigiani fatimidi. XI secolo. Museo di Arte Islamica, Il Cairo.
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tata avanti in segreto e secondo un sistema di insegnamento molto gerarchizzato, seguendo l’idea secondo la quale mentre per il volgo erano sufficienti la lettura letterale del Corano e l’osservanza della sharia o legge islamica, gli iniziati potevano conoscere la verità ultima nascosta nel libro sacro.
I rivoluzionari ismailiti Nel IX secolo, l’interpretazione esoterica del Corano fu incarnata da una fazione sciita nota come ismailiti. Organizzati come una società segreta, esperti nell’azione clandestina per eludere le persecuzioni dei poteri sunniti, essi crearono un sistema di missionari o propagandisti in grado di agire in tutto l’Islam. Questi missionari erano tra gli uomini più istruiti del loro tempo, e per questo in molti dei traguardi intellettuali dell’epoca si può rilevare la presenza degli ismailiti. Non era soltanto un gruppo che stava assimilando le nuove idee, ma si trattava di un vero e M BU L proprio movimento rivoluzionario teA G/
BRIDGEMAN / ACI
L’ASSASSINIO DI NIZAM AL-MULK. MINIATURA PERSIANA. PALAZZO TOPKAPI, ISTANBUL.
MORTE AL VISIR JULIAN LOVE / GETTY IMAGES
IL VISIR ABU’ALI HASAN, più conosciuto con il titolo di Nizam
muto in tutte le corti musulmane. Una certa dose di messianismo – ossia la credenza nel prossimo arrivo di un mahdi o “ben guidato” che avrebbe inaugurato un’era di equità e luce – aiutava a dare speranza a tutti coloro che desideravano giustizia. Come movimento rivoluzionario, gli ismailiti raggiunsero il loro obiettivo di prendere il potere nell’anno 909, nel Nord dell’Africa. Con l’aiuto delle tribù berbere conquistarono Tunisi e instaurarono il cosiddetto califfato fatimide. La conquista dell’Egitto nel 969 e la loro espansione verso Palestina e Siria resero i fatimidi una delle più grandi potenze dell’epoca. La tolleranza verso cristiani ed ebrei fu uno dei segni identificativi della nuova dinastia, mentre la passione degli ismailiti per la conoscenza fece del Cairo il principale centro culturale e scientifico dell’Islam per un paio di secoli. I fatimidi sottomisero un vasto territorio mentre proseguiva l’attività dei missionari ismailiti. Se a questo aggiungiamo il controllo del califfato di Baghdad da parte di una dina-
al-Mulk, “l’ordine del regno”, fu la prima vittima di alto rango assassinata per ordine di Hasan-i Sabbah. Questo atto segnò la fine della dinastia selgiuchide e la scomparsa del miglior politico del suo tempo. Il suo trattato sul governo anticipò di ben quattro secoli Il principe di Niccolò Machiavelli.
stia sciita dalla metà del X secolo, i buwayhidi, sembrava che l’Islam sciita avrebbe cancellato il sunnismo dal mondo musulmano. Proprio allora, però, gli ultimi convertiti all’Islam, i selgiuchidi – una dinastia di origine turca –, divennero i più ardenti sostenitori della traballante ortodossia sunnita: nel 1055 strapparono Baghdad alla dinastia dei buwayhidi, il che impedì l’espansione dello sciismo.
Un leader intelligente e audace A metà dell’XI secolo, uno studente persiano di 17 anni chiamato Hasan-i Sabbah incontrò un missionario ismailita. La sua curiosità lo spinse a iniziare una conversazione con il missionario, il quale, secondo quanto narra lo stesso Hasan nella sua autobiografia, seminò il dubbio sulle sue credenze fino a sradicarle del tutto. E, cosa più importante, gli mostrò che poteva esistere la verità al di fuori dell’Islam. Dopo aver studiato i testi ismailiti ed essere sopravvissuto a una gravissima malattia, Hasan-i Sabbah si unì alla causa ismailita nel giugno del 1072. Dopo sei anni e mezzo di iniSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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TOP FOTO / CORDON PRESS
SAN LUIGI, RE DI FRANCIA, RICEVE IN EGITTO I MESSAGGERI DEL VECCHIO DELLA MONTAGNA NEL 1251. DIPINTO DI GEORGES ROUGET. XIX SECOLO. MUSEO DI VERSAILLES.
GLI ASSASSINI VISTI DA UN CRONISTA vi è un signore che suscita un grande timore in tutti i principi saraceni vicini e lontani, così come ai vicini cristiani, perché uccide in maniera terribile [...] Questo principe possiede molti e bellissimi palazzi tra le montagne, circondati da mura altissime all’interno delle quali nessuno può entrare se non da una porta molto piccola e ben sorvegliata. In questi palazzi tengono molti dei figli
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i confini di Damasco, Antiochia e Aleppo vi è un tipo di saraceni sulle montagne comunemente chiamati heyssessini e, in romano, signori della montagna. Gli uomini di questa razza vivono senza legge, mangiano carne di maiale andando contro la legge dei saraceni e abusano di tutte le donne senza differenze, persino di sorelle e madri [...] Tra di essi
PLACCA D’AVORIO CHE ORNAVA UN SARCOFAGO DI EPOCA FATIMIDE. XII-XIII SEC. MUSEO DEL BARGELLO, FIRENZE.
dei loro contadini, prelevati dalla culla in tenerissima età [...] Insegnano loro a obbedire al signore della loro terra, a tutte le sue parole e tutti i suoi ordini. Se così fanno, lui, che ha il potere sugli dèi viventi, offrirà loro i piaceri del paradiso. Viene inculcato loro che non potranno salvarsi se si opporranno alla volontà del principe della terra. Sin dalla più tenera età, non vedono altre persone all’infuori dei loro maestri e professori, fino al momento in cui il principe non li chiama per uccidere qualcuno. Quando sono dinanzi al principe, costui chiede loro se vogliano obbedire ai suoi ordini per ottenere il paradiso [...] Si prostrano ai suoi piedi e rispondono con fervore che obbediranno a qualsiasi ordine verrà loro dato. Dopo di che, il principe consegna loro un coltello d’oro e ordina di uccidere chiunque egli indichi. Burchard di Strasburgo, Cronaca degli slavi (1175), libro VII, cap. 8.
Costantinopoli
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n contrasto con il legalismo della corrente maggioritaria dell’Islam, quella sunnita, gli ismailiti davano più importanza all’interpretazione esoterica del Corano che all’osservanza e al rispetto delle norme della sharia, la legge islamica. Per loro, infatti l’abolizione della sharia era l’ultimo passo S ilan “resurrezione spirituale”. per raggiungere d Questa rottura dell’equilibrio tra la dottrina e la sharia fa degli ismailiti uno dei gruppi più singolari all’interno dell’Islam. Quando nell’agosto del 1164 venne proclamata ad Alamut la “grande resurrezione”, la sharia venne di fatto abrogata e i credenti furono liberati dall’obbligo dell’osservanza delle leggi musulmane. L’Islam ad Alamut e nel resto degli insediamenti che ricadevano sotto la loro autorità era una religione strettamente spirituale e personale. ig
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Il Vicino Oriente attorno all’anno 1100
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ziazione diede prova del suo talento al punto da essere inviato al Cairo, cuore intellettuale dell’ismailismo, da dove avrebbe avuto accesso ai più alti gradi dell’organizzazione. Tuttavia, la città che trovò Hasan-i Sabbah non era quella dell’epoca di splendore dell’Impero fatimide. Sette anni consecutivi di cattivi raccolti dovuti alle scarse piene del Nilo, con le inevitabili rivolte sociali, avevano lasciato l’Egitto nella più profonda miseria. Dell’attività di Hasan-i Sabbah in Egitto esistono solo voci, anche se possiamo supporre che abbia ricevuto l’istruzione propria di un’alta carica all’interno della struttura ismailita. Tre anni dopo lo ritroviamo nei panni del missionario in Persia. Quasi un decennio di sforzi a organizzare gli ismailiti, a conquistare più seguaci e a cospirare nella clandestinità contro i selgiuchidi culminò con la presa del castello di Alamut, nelle inaccessibili montagne del Daylam, nell’odierno Iran. Con un’audace tattica basata sull’infiltrazione e la corruzione, il 4 settembre del 1090 Hasan-i Sabbah entrava nella fortezza senza che la guarnigione
si opponesse. Con questi metodi non avrebbe tardato a occupare altre fortezze nelle zone montuose della Persia e a consolidare un imponente sistema difensivo.
Il Vecchio della Montagna Passare all’offensiva contro i selgiuchidi non sarebbe stato così facile. Hasan-i Sabbah sapeva perfettamente che attaccare in campo aperto avrebbe dato gloria solo ai martiri, ma non avrebbe portato alcuna vittoria. La soluzione che trovò fu quella di organizzare un corpo speciale di combattenti, i fedayyin, e lanciarli contro obiettivi accuratamente selezionati. Questi fedayyin – termine arabo che significa “coloro che offrono la propria vita in sacrificio” – dovevano compiere la loro missione senza tener conto delle conseguenze, che fossero la tortura o l’esecuzione. Nell’ottobre del 1092 posero fine alla vita del visir Nizam al-Mulk, un pi-
IL NEMICO SELGIUCHIDE
I nizariti attaccarono con successo il sultanato selgiuchide, che si estendeva dall’Asia Centrale alla Palestina. Incensiere selgiuchide in bronzo a forma di leone proveniente da Khorasan (Iran). Museo del Louvre.
BRIDGEMAN / ACI
74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
IL COLPO PIÙ DURO
I mongoli, abili cavalieri e valorosi guerrieri, guidati da Hulagu, nipote di Gengis Khan, rasero al suolo le fortezze dei nizariti, che si sarebbero ripresi solo nel XV secolo. Sella da monta mongola. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
no dal Cairo e cominciarono a operare in totale indipendenza. Era giunto il momento di espandere la dottrina di Alamut, e la Siria sembrava il luogo idoneo. Con questo obiettivo, all’inizio del XII secolo, Hasan-i Sabbah decise di inviare missionari in Siria e Palestina, dove si erano insediati i crociati europei dopo aver conquistato Gerusalemme nel 1099. All’inizio, le relazioni con questi ultimi furono ostili, il che costrinse i nizariti a cambiare costantemente base delle operazioni: dal castello di Apamea passarono a Damasco e poi si stabilirono nel castello di Baniyas, fino al 1140, quando si impossessarono della fortezza di Masyaf, presso Hama. Per puro pragmatismo decisero allora di stabilire un’alleanza con gli europei e alla fine divennero addirittura contribuenti dei Templari, ai quali pagavano duemila pezzi d’oro all’anno. Nella decade del 1160, giunse in Siria Rashid al-Din Sinan, un virtuoso asceta, che possedeva il dono della profezia e certi poteri soprannaturali, secondo
LOREM IPSUM
lastro fondamentale del sultanato selgiuchide. Il mese seguente, il sultano selgiuchide Malik Shah moriva avvelenato. La nota capacità d’infiltrazione da parte degli ismailiti indicava Alamut come origine dell’omicidio. Dopo la morte del sultano, le lotte per la successione finirono per distruggere il potere selgiuchide, ridotto a una serie di piccoli regni molto indeboliti. Hasan-i Sabbah aveva vinto senza neanche iniziare una battaglia, e l’efficacia dei suoi metodi venne confermata. La grande vittoria ismailita in Persia contrastava con le notizie che giungevano dal Cairo. Anche lì si scatenò una lotta per il potere, che in questo caso condannò i fatimidi. Hasan-i Sabbah prese partito per uno degli aspiranti al trono, Abu Mansur Nizar, che fu assassinato nel 1095. Questo causò uno scisma tra gli ismailiti: i sostenitori di Hasan-i Sabbah, che cominciarono a essere noti come nizariti, si svincolaro-
AKG / ALBUM
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CASTELLO DE MASYAF
Situata nella valle dell’Oronte, nella piccola località di Masyaf (Siria), la fortezza fu il centro del potere nizarita per più di cento anni, sino alla fine del XIII secolo.
ASSEDIO DI ALAMUT DA PARTE DEI MONGOLI. 1438. BIBLIOTHÈQUE NATIONALE, PARIGI.
FRÉDÉRIC SOREAU / GETTY IMAGES
LA CADUTA DI ALAMUT
quanto dicevano gli stessi nizariti. Sinan, il “Vecchio della Montagna” del quale parlano i cronisti delle crociate, creò un complesso sistema di alleanze con crociati e musulmani che avrebbe tenuto al sicuro i nizariti.
Attentati in Terrasanta Mentre i nizariti tessevano questa rete di alleanze con crociati e musulmani, misero in atto gli attentati che avrebbero dato origine alla loro leggenda in Occidente. Fu così che nel 1106 fu assassinato Khalaf ibn Mula’ib, emiro di Apamea. Vent’anni dopo cadde Aqsonqor il-Bursuqi, atabeg o governatore di Aleppo. Il primo cristiano abbattuto dai nizariti fu Raimondo II, conte di Tripoli, nel 1152. Sinan, che si sentiva minacciato dal sultano ayyubide Saladino – che dal 1174 era l’uomo forte della regione – inviò fedayyin in due occasioni per ucciderlo, ma Saladino uscì illeso e in risposta decise di sterminare i nizariti. Assediò il castello di Masyaf, ma, quando tutti davano per scontato che sarebbe stata la fine di Sinan e dei suoi, Saladino si ritirò inaspettatamente.
NEL 1255, Hulagu, fratello del gran khan dei mongoli Mongke, lanciò un’offensiva contro la setta degli assassini, che nel 1241 aveva ucciso Chagatai, uno dei figli di Gengis Khan. Il capo nizarita Rukn ala-Din negoziò con i mongoli e favorì la resa di Alamut. Hulagu diede ordine di distruggere la fortezza e bruciare la maggior parte della biblioteca che vi era all’interno.
Si narra che Sinan si introdusse nottetempo della tenda del sultano e lasciò accanto a lui alcune gallette, una daga avvelenata e un poema; a quanto pare, Saladino afferrò il messaggio. I nizariti organizzarono altri attentati. Oltre a uccidere Corrado del Monferrato, re di Gerusalemme, nel 1213 posero fine alla vita di Raimondo, conte di Tripoli; nel 1252 assassinarono Isabella I, regina d’Armenia e, nel 1270, Filippo di Montfort. Due anni dopo, l’obiettivo fu Edoardo I d’Inghilterra, che si salvò ma abbandonò subito la Terrasanta, dove era giunto alla guida della nona crociata. All’epoca, i nizariti avevano già perso la loro grande base in Iran, Alamut, conquistata dai mongoli nel 1256, dopo di che si dispersero in diversi Paesi, dallo Yemen all’India, lasciandosi dietro il ricordo della loro implacabile determinazione. VICENTE MILLÁN TORRES STORICO. SPECIALISTA IN LETTERATURA ISLAMICA
Per saperne di più
SAGGIO
Gli assassini W. B. Bartlett. Corbaccio, Milano, 2004.
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PICARI I BASSIFONDI NELLA SPAGNA DEL SIGLO DE ORO
In una Spagna che viveva di rendita e disprezzava il lavoro manuale pullulavano picari e delinquenti, ritratti nei romanzi del XVI e XVII secolo. Siviglia fu, con Madrid, il loro principale campo d’azione
GENTE DI SIVIGLIA
Il pranzo, dipinto da Diego Velázquez all’epoca in cui risiedeva a Siviglia, raffigura in modo realistico i tipici popolani della città. 1618 circa. Ermitage, San Pietroburgo. BRIDGEMAN / ACI
LA CAPITALE DEI PICARI
Nella pagina a fianco, veduta di Siviglia; a sinistra, il ponte di barche sul Guadalquivir che univa la città al sobborgo di Triana. Dipinto del 1726. Municipio di Siviglia.
CRÉDITO DE LAS DOS FOTOS
ORONOZ / ALBUM
PLAZA MAYOR, MADRID
La Corte attirava numerosi scrocconi, sia dalla Spagna sia da altri domini della Corona: italiani, tedeschi, fiamminghi e altri. Tutti speravano di vivere di caritĂ o delle loro arti decisamente poco innocenti. SANDRA RACCANELLO / FOTOTECA 9X12
78 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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a parola “picaro” – derivata dal verbo picar o dalla pica del soldato (una lancia lunga) – iniziò a essere usata verso la fine del XVI secolo e si diffuse verso il 1580, quando in tutta la Castiglia proliferavano accattoni e vagabondi, tanto da allarmare il potere. Erano giovani che vivevano ai margini del sistema, fuori dall’ambiente familiare, rubando ed evitando con astuzia di finire nelle mani della giustizia. La comparsa del picaro ebbe a che vedere con il progressivo impoverimento della popolazione spagnola ed europea a partire dall’inizio del XVI secolo. La crescita demografica allontanava i giovani dalle campagne, spingendoli verso città allora fiorenti grazie al commercio e alle manifatture; molte volte, però, questi giovani finivano nell’indigenza e ricorrevano a vari stratagemmi per sopravvivere. Non a caso, dunque, Miguel Giginta, nel 1583, utilizzò per la prima volta il termine “picarismo” per indicare l’altra faccia della povertà e del vagabondaggio nella sua Exhortación a la compasión. A differenza dei veri poveri, il picaro era un personaggio senza radici, ai margini di tutto, senza patria e senza aspettativa di averla, senza amori che lo legassero, ossessionato dalla sopravvivenza e che non valutava da un punto di vista morale i mezzi per farlo, quasi sempre inseguito dalla legge e vagabondo. Sebbene il picaro fosse nel mirino dell’autorità stabilita, non aveva spirito di anarchia o di protesta. Sfiorando il cinismo e l’egolatria, non era seriamente interessato a nulla se non alla propria sopravvivenza. Considerato dai suoi contemporanei e da Sebastián de Covarrubias nel suo Tesoro de la lengua –il pri-
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I FURFANTI ENTRANO NEI LIBRI
mo dizionario generale del castigliano– come uno che non ha nulla e nulla desidera perché è un fannullone, dannoso e malizioso, astuto e scaltro, il picaro apparterrebbe alla malavita o sarebbe sul punto di entrarci; in qualsiasi caso, era al di fuori dell’ordine sociale. Questi tratti erano così chiari che diedero origine al romanzo picaresco, il genere letterario che consacrò questo tipo umano come un personaggio caratteristico dell’epoca.
CITTÀ DI RICCHEZZE
Moneta d’oro da due scudi coniata da Filippo II a Siviglia. Nel romanzo Guzmán de Alfarache la città viene chiamata «paese della cuccagna» per via della sua ricchezza. ORONOZ / ALBUM
Il romanzo picaresco Nel 1599 fu pubblicata con inatteso successo la Vida del pícaro Guzmán de Alfarache, di Mateo Alemán, l’opera che coniò definitivamente il termine “picaro”. La sua struttura narrativa rimandava al Lazarillo de Tormes: come Lázaro – che inizia le sue peripezie da bambino, come servo di un cieco –, il picaro abbandona la casa e il paese natio. L’espediente tecnico utilizzato per narrare la sua biografia è quello di metterlo al servizio di diversi padroni, che rappresentano i vari modelli sociali criticati dall’autore. Ben presto il genere si diffuse e divenne molto popolare con La picara Giustina, attribuita a Francisco López de Úbeda (1605); Rin-
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Esce il Lazarillo de Tormes, opera anonima e prototipo del romanzo picaresco.
Pubblicato il Guzmán de Alfarache, di Mateo Alemán, che consacra il termine «picaro».
Cervantes descrive i picari di Siviglia in Rinconete e Cortadillo.
Il furto è il tema del romanzo del dottor García La desordenada codicia de los bienes ajenos.
FRONTESPIZIO DEL GUZMÁN DE ALFARACHE. EDIZIONE DEL 1681. DEA / ALBUM
IL CUORE DI SIVIGLIA
El Arenal, scenario della vita sociale sivigliana, si estendeva dal ponte di barche di Triana alla Torre del Oro, edificata sulle rive del Guadalquivir nel XIII secolo. Sullo sfondo, la cattedrale, dominata dalla Giralda. SEBASTIANO SCATTOLIN / AGE FOTOSTOCK
O rendita, o furbizia In una Spagna nella quale ci si vantava di sfuggire al lavoro restavano solo due soluzioni: una vita di rendita o la sua imitazione fraudolenta, la furbizia, fosse alta o vile, velata o esplicita. E a Siviglia abbondavano quelli che, non avendo rendite, vivevano all’ombra di chi ne disponeva. Erano quelli che Cervantes, nel suo El celoso extremeño (1613), chiamava «gente di borgata»: «Gente oziosa e fannullona», «inutile, azzimata e melliflua», del cui stile di vita «c’era molto da dire». Gente come don Lope Ponce de León, prototipo di fanfarone
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conete e Cortadillo (1613), di Cervantes; Vita del pitocco (1626), di Quevedo; Las aventuras del bachiller Trapaza (1637), una vivace successione di scherzi e marachelle scritta da Alonso del Castillo Solórzano, e il L’avventuroso Simplicissimus (1668), di Grimmelshausen, romanzo tedesco che deve molto ai testi spagnoli. Per scrivere il Guzmán, Mateo Alemán partì dalla sua profonda conoscenza di Siviglia, sua città natale, senza la quale non si comprende la portata della sua opera. Siviglia e Madrid erano i grandi poli di attrazione per i picari spagnoli. Però, a differenza di Madrid, sede della corte, Guzmán «trovava in Siviglia un odore di città, un altro non so che, altre grandezze […]perché vi era una quantità enorme di ricchezze»; lì «nelle relazioni tra persone scorreva l’argento come altrove il rame». La popolosa Siviglia, infatti, era il cuore del traffico commerciale con l’America, e ciò ne faceva lo scenario ideale nel quale collocare l’inizio delle peripezie e delle avventure di un picaro. La furfanteria, però, non nasce solo in un ambiente in cui pullulano persone e ricchezze. Ha bisogno dello stimolo dell’ozio proprio e della semplicità e della credulità altrui. Il picaro non lavora. Sotto lo splendore della società mercantile, a Siviglia ribolliva un variopinto sottobosco di persone che aspettavano l’opportunità di sfruttare l’ingenuità della gente, al punto da trasformare la metropoli in una Babele dell’Inganno. Il picaro, di bassa lega o più ambizioso, fa fortuna grazie all’eccesso di fiducia e utilizza la simulazione e la menzogna come strumenti del suo mestiere.
VISTA DI SIVIGLIA (DETTAGLIO). DISEGNO DI ANTON VAN DEN WYNGAERDE. 1567. BIBLIOTECA NAZIONALE, VIENNA.
UNA GIUSTIZIA VENALE A CAVALLO dei secoli XVI e XVII, il prebendario della cattedrale di Siviglia Fran-
cisco Porras de la Cámara scriveva al cardinale Fernando Niño de Guevara sulla giustizia (o la mancanza di essa) a Siviglia: in questa città, dice, l’unico delinquente che soffre è «quello che si trova nel bisogno e non ha nulla da dare a cancellieri, procuratori e giudici. Da sei anni non vedo impiccare un ladro a Siviglia [...] eppure ce ne sono a sciami, come se fossero api».
protetto da certi elementi della nobiltà più potente della città, in grado di commettere tutta una serie di misfatti gratuiti e bizzarri. Figlio illegittimo del vicario di Carmona (località nei pressi di Siviglia), don Lope finì i suoi giorni sulla forca nel 1594 non per un crimine, che pure confessò di aver commesso, ma per il sequestro di una donna sposata sua complice che ingannava e derubava il marito. La storia degli ultimi giorni di questo giovane di venti e passa anni, compagno di smargiassate dell’allora marchese di Peñafiel, con il quale andava per le vie TIPICO POPOLANO. DETTAGLIO DE L’OLFATTO, DIPINTO DI JOSÉ DE RIBERA. XVII SECOLO. ORONOZ / ALBUM
VEDUTA DEL ARENAL, LA GRANDE SPIANATA SULLA RIVA DEL GUADALQUIVIR. DETTAGLIO DI UN DIPINTO ATTRIBUITO AD ALONSO SÁNCHEZ COELLO. FINE DEL XVI SECOLO. MUSEO DE AMÉRICA, MADRID. ORONOZ / ALBUM
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Miguel de Cervantes L’autore del Don Chisciotte ritrasse il mondo picaresco di Siviglia, di cui aveva conoscenza diretta, in alcune delle sue Novelle esemplari.
LA SIVIGLIA DEI PICARI: EL ARENAL arrio (sobborgo) di Siviglia e porto del Guadalquivir allo stesso tempo, El Arenal – una larga striscia di terra non urbanizzata tra il fiume e le mura – finì per essere il centro della vita sociale ed economica di Siviglia, e per questo attirò picari, gente che viveva di espedienti e delinquenti. In quanto luogo da cui entravano in Europa le ricchezze delle Indie, vi si trovava gente di tutte le nazionalità (Siviglia era la «grande Babilonia di Spagna, / mappa di tutte le nazioni», dicevano dei versi attribuiti a Góngora); lì si incontravano marinai, caricatori, capitani e soldati, funzionari reali e
ladruncoli, prostitute e gentiluomini; lì c’erano taverne e bische dove si mangiava, si beveva e si giocava, e non mancavano i bordelli – di fatto, le prime abitazioni costruite in questa zona erano destinate alle prostitute –. El Arenal ospitava anche la prostituzione omosessuale d’alto bordo: uomini ricchi e di buona posizione incontravano e sceglievano i loro giovani amanti nelle case da gioco, dove era facile distinguerli perché erano truccati, eleganti e aitanti, con i capelli ricci, il collo alto e agghindati con ogni sorta d’ornamento; queste relazioni esigevano la massima discrezione, poiché l’omosessualità era punita con la morte. Per tutte queste ragioni, non è strano che Miguel de Cervantes abbia situato a El Arenal la casa di Monipodio, centro della congrega di malviventi che descrive nel suo Rinconete e Cortadillo. Senza dubbio, lo scrittore conosceva la realtà di cui parlava, poiché tra il 1597 e il 1598 fu detenuto nel Carcere Reale per questioni legate alla sua attività di esattore delle imposte.
I bambini abbandonati Se osserviamo la grande città del Guadalquivir nelle sue classi più umili, le ombre finiscono per offuscarne lo splendore. Il picaro per eccellenza nasce e cresce in un ambiente ostile in cui regna la miseria, come accade ad alcuni protagonisti dei romanzi. Nel mondo dell’infanzia sta la risposta alle incognite. Un osservatore allarmato scriveva, nell’inverno del 1593, che in tutta Siviglia vedeva «andare in giro bambini di sette e otto anni abbandonati, vestiti di stracci o addirittura nudi, che dormono negli angoli delle vie, in questo periodo che persino chi ha abiti e riparo trascor-
ARNAUD SPANI / GTRES
di Siviglia assieme ad altri giovani d’alto rango combinandone di tutti i colori, fu narrata nelle sue memorie del carcere reale da Pedro de León, un gesuita confessore di condannati e galeotti. Lope Ponce era stato arrestato per il rapimento della donna, ma quattro anni prima era stato indagato e non condannato per un delitto commesso sotto il nome di don Jorge de Portugal. Non essendo stato provato il crimine, e poiché era protetto da amici influenti, «la faccenda fu liquidata con un esilio» sottolineava il gesuita. Tuttavia, stava così bene in carcere che rinunciò all’esilio poiché con il favore del marchese di Peñafiel «lo lasciavano entrare e uscire liberamente; usciva a commettere quello che voleva [...] e quando ne aveva voglia tornava in carcere, dove aveva un tavolo da gioco per prigionieri e non che giocavano senza paura della giustizia [...] e il suo alloggio era un covo di malfattori, perché tutti gli spacconi, i ruffiani e i malviventi della città erano suoi amici, faceva quello che voleva e si burlava di tutti loro». Fino al giorno in cui arrivò a Siviglia un giudice imparziale, l’alcalde Velarde, che su denuncia e richiesta del marito della donna rapita da don Lope intervenne, avviò il processo e lo condannò a morte sulla forca, cosa «molto ben accolta in tutta Siviglia, perché tutti lo disprezzavano ed era molto mal visto». Anche se la vita di Ponce de León si discosta dal rigido modello picaresco di bassa lega, il lettore non pensi che si tratti di un caso raro ed eccezionale.
PLAZA DEL SALVADOR, A SIVIGLIA, CON LA CHIESA DEL XVII SECOLO CHE LE DÀ IL NOME.
LA STRADA, CASA PER MOLTI LA POVERTÀ o la morte dei genitori destinava molti bambini a una vita molto dura nelle strade e nelle piazze, dove dovevano guadagnarsi da vivere come picari. Altri cadevano nelle mani di malviventi come i dacianos, che rapivano bambini di tre o quattro anni «e dopo aver rotto loro braccia e piedi, li riducono a falsi storpi, per poi venderli a ciechi, furfanti e altra gente vagabonda», come spiega il medico Carlos García, scrittore del XVII secolo.
re con molta difficoltà». L’immagine si ripeteva sempre più spesso: «Un grandissimo numero di bambini e bambine orfani e forestieri, senza nessuno che li protegga e li accudisca, vagano oziosi, imparando vizi come la bestemmia, il gioco e persino il furto e altri gravi crimini, e le bambine imparano a essere disoneste, e le une e gli altri finiscono per perdersi e la cosa più innocua che fanno è chiedere l’elemosina per strada ogni giorno». Fatale era il confine tra il bambino innocente e il bambino picaro. Tra il 1584 e il 1592,la Hermandad del Santo Niño Perdido, istituzione benefica creata all’uopo, raccolse oltre mille bambini abbandonati
BAMBINO RITRATTO DAL PITTORE SIVIGLIANO BARTOLOMÉ ESTEBAN MURILLO. 1655-1656 CIRCA. ERMITAGE, SAN PIETROBURGO. ORONOZ / ALBUM
FURTI E RAPINE l picaro si distingueva dal malvivente per il fatto di non avere istinti malvagi: non era perverso, bensì cinico e amorale; se rubava, prendeva l’indispensabile per mangiare, e si dedicava più che altro a piccoli furti. Al contrario, la professione del farabutto era quella di ladro e scagnozzo, e poteva arrivare all’omicidio. Nel 1617, il dottor García elencava nel suo romanzo picaresco La desordenada codicia de los bienes ajenos (sottotitolata Antigüedad y nobleza de los ladrones) fino a dodici categorie di malviventi, alcuni dei quali sono a cavallo tra il picaro e il delinquente, come: le sigaraie, «che con una sforbiciata si portano via metà di un mantello o di un abito»; i maggiordomi, «che rubano provviste e raggirano gli osti»; i tagliaborse, il cui nome rivela la specialità in cui eccellono, e che «sono i più numerosi nel Paese»; i “folletti”, «ladri furtivi», o coloro «che di notte si impossessano dei mantelli o si recano con la divisa da lacchè nelle case di divertimento, dove rubano quello che possono, senza mancare di salutare coloro che incontrano».
LA BUONA VENTURA. UNA GITANA TACCIA DI TIRCHIERIA IL GIOVANE CUI HA LETTO IL FUTURO, MENTRE I SUOI COMPLICI LO DERUBANO. GEORGES DE LA TOUR. 1632-1635. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK. ERICH LESSING / ALBUM
MUSICO CIECO CON LA SUA GUIDA. L’ACCATTONAGGIO ERA UN’ATTIVITÀ DEI PICARI. DIPINTO DI FRANCISCO HERRERA IL VECCHIO. 1640. KUNSTHISTORISCHES MUSEUM, VIENNA. ERICH LESSING / ALBUM
Vita di taverna
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Nelle taverne si riunivano picari e delinquenti. Il “pío” era il vino, e un “piorno” un ubriaco. Brocca del XVII secolo.
I MESTIERI DEL PICARO picari si dedicavano a numerose occupazioni, che servivano loro per tirare avanti quando mancavano altre risorse e fungevano da copertura per attività sospette. Per esempio, facevano i galoppini o gli operai che trasportano macerie, persone che portavano carichi e potevano entrare nelle case private... o svanire nel nulla con i beni che erano stati loro affidati. Lo studioso tedesco Ludwig Pfandl li ritrasse così: «Fauna eterogenea che si trova ai crocevia e nei vicoli, formata da mendicanti, calderai, banditori, stallieri, trafficanti, venditori ambulanti, invalidi, imbonitori, mulattieri e burattinai, musicisti ambulanti e prestigiatori; e poi le
professioni più infime e meno decorose, come quelle di oste, tagliatore, bottegaio, sbirro e boia». Alcuni mestieri non erano da picaro, ma avevano una stretta relazione con il loro mondo, come i macellai di Siviglia. Di loro parla Cervantes nella sua novella Il dialogo dei cani (1613): «È gente lassista e crudele», dice. E prosegue: «Sono uccelli rapaci efferati e affamati di carne: mantengono se stessi e le loro amiche con ciò che rubano. [...] Prima dell’alba c’è nel matadero un gran numero di ragazze e ragazzi, tutti con bisacce, che, vuote all’andata, al ritorno sono colme di pezzi di carne, e le domestiche si assicurano frattaglie e lombate quasi intere. Non vi è una bestia da macellare della quale questa gente non porti via come decime e regalie molte delle parti più saporite. [...] Questi macellai possono uccidere un uomo e una vacca con la stessa facilità [...]. È un miracolo se passa un giorno senza risse e senza ferite, e a volte senza morti».
Nella commedia Pedro de Urdemalas (1615), scritta da Cervantes, la biografia letteraria del picaro coincide con quella dei bambini perduti di Siviglia: abbandonato alla nascita e accolto in un orfanotrofio, finisce poi nella Casa de la Doctrina, un’istituzione sivigliana simile a un riformatorio che mantiene i ragazzi «a dieta e frustate», li veste, insegna loro a leggere, a scrivere, le preghiere quotidiane, la dottrina cristiana, ma anche a rubare l’elemosina e «discolparsi e mentire». Liberato o fuggito, il bambino, divenuto picaro in seno alla stessa istituzione, al di fuori di essa agisce al ritmo dettato dalla necessità, solo o in gruppo e alla mercé del destino. Un destino che per molte bambine era già scritto: diventare una delle numerosissime prostitute– a quanto pare, più di tremila – che sorprendevano tanti viaggiatori ed era un altro tratto singolare della vita malavitosa ai margini nella Siviglia del Siglo de Oro. Molte di quelle ragazzine sarebbero finite nel bordello, la zona nella quale le prostitute esercitavano la loro professione, al di fuori delle mura cittadine, nel sobborgo del Arenal. Alla fine del XVI secolo, il gesuita Martín de Roa, parlando del bordello, spiegava come si fruttava «la miseria e l’abbandono di molte bambine che la povertà o il bisogno dei genitori o la condizione di orfane lasciavano in balia della città. Le accoglievano [le prostitute] nelle loro case, si servivano di loro e, cresciute in un tale ambiente, ne uscivano che erano maestre della disgrazia».
I DINTORNI DELLA CATTEDRALE DI SIVIGLIA ERANO PUNTO D’INCONTRO PER I MALVIVENTI DELLA CITTÀ.
MENDICANTI DI PROFESSIONE LE PORTE DEGLI EDIFICI RELIGIOSI come la cattedrale di Siviglia erano terreno
di caccia di mendicanti professionisti che fingevano di avere piaghe, lebbra, gambe deformi. Di essi scriveva Quevedo: «Il monco, che potrebbe imparare il mestiere di tessitore, e lo zoppo quello di sarto, comprano le stampelle, studiano il lamento e altre azioni da mendicante [...] Quello che ha piaghe, le rinfresca per il giorno dopo [...] e fanno le prove, come i commedianti».
Come accadeva alle ragazze senza famiglia, quando i bambini cresciuti per strada o nella Doctrina diventavano adulti li attendevano i bassifondi, le conSPADA fraternite di malfattori e ruffiani, DELL’ULTIMO TERZO DEL la violenza della strada. XVI SECOLO.
Tempi di violenza
MUSEO NAVAL, MADRID.
Tra il 1578 e il 1616 furono condannate a morte a Siviglia 309 persone per crimini comuni, secondo il gesuita Pedro de León; in realtà, la cifra doveva essere molto più alta, attorno al migliaio. Gran parte dei condannati aveva commesso uno o più omicidi. L’irritabilità sociale era caratteristica di una città nella quale si concentravano il potere del denaro, la paura della povertà, la frustrazione
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Come nasce un picaro
MASSIMO RIPANI / FOTOTECA 9X12
di età compresa tra i due e i quattordici anni. Erano privi di istruzione, genitori, parenti o padroni, erano nudi, malati di tigna o di lebbra; gli adolescenti erano avviati alla delinquenza. Era facile trovarli in luoghi ritratti in seguito nel romanzo picaresco: il porto e El Arenal, Plaza del Salvador e Plaza del Pan, las Gradas, luoghi di passaggio di gente danarosa in cui sembrava facile rubare, chiedere l’elemosina, o mettersi sotto la protezione di un picaro adulto grazie ai cui insegnamenti sarebbero diventati ladri di professione. Rinconete e Cortadillo, nonostante siano forestieri, rappresentano un modello di bambini educati in questo modo.
LE TONNARE DI CADICE. SULLO SFONDO, LA PESCA; A DESTRA,L’ACCAMPAMENTO DEI LAVORATORI, E IN PRIMO PIANO UNA SCENA DELLA VITA QUOTIDIANA AL SUO INTERNO. INCISIONE TRATTA DA CIVITATES ORBIS TERRARUM. ORONOZ / ALBUM
MUSEO FOURNIER DE NAIPES, ÁLAVA
Passione per il gioco Carte spagnole del XVII secolo. Nelle tonnare si beveva e si giocava. I bari usavano carte contrassegnate chiamate hechizos, carte false o contraffatte.
VITA NELLE TONNARE e tonnare di Zahara e Conil (nell’attuale provincia di Cadice) erano famose per il loro legame con i picari. Il lavoro della pesca dei tonni cominciava all’inizio della primavera, quando questi pesci transitavano dall’Atlantico al Mediterraneo per deporre le uova, e occupava oltre mille persone. Tra queste vi erano molti picari, gente senza occupazione fissa che approfittava di questo lavoro stagionale e accorreva presso le tonnare (proprietà del duca di Medina-Sidonia) da varie città, soprattutto da Siviglia, centro dell’ambiente picaresco. Durante i mesi di attività, nella zona si concentravano prostitute, giocatori, mal-
viventi. Ne L’illustre fregona, dice Cervantes del protagonista, Diego de Carriazo, che: «passò per tutti i gradi della furfanteria, sin che s’addottorò nella pescaria de’ tonni di Zaara, ov’è il finibusterrae dell’arte furfantesca. O guatteri succidi, grassi, unti e bisunti, finti mendichi, falsi stropiati, tagliaborse di Zocodover [piazza famosa diToledo] e della piazza di Madrid, sportaruoli di Siviglia, ruffianelli spampananti, con tutta l’inumerabile caterva compresa sotto questo nome di furfante e furfantone, abbassate l’orgoglio, calate l’albagia e non abbiate più l’ardire di chiamarvi furfanti, se non avete passati due corsi nell’academia della pesca de’ tonni!». Lì c’è «netteza ed onestà la bruttura e villania, la grassezza nel suo punto, la fame pronta, la sazietà abbondante ed il vizio alla scoperta, il giuoco sempre, le questioni di momento in momento e con esse la morte, motti e bottoni ad ogni passo [...] Qui si canta, ivi si rinega e biastemma, qua si giuoca, là si contende e da per tutto si rubba».
MUSEO NACIONAL DEL PRADO
delle aspettative di felicità di coloro che aspiravano a una vita migliore e la collera di coloro cui tutto era negato. Come potremmo spiegare, altrimenti, perché la maggior parte dei feriti da arma bianca all’addome o alla schiena che entrarono nell’ospedale del Cardenal per morirvi fosse costituita da forestieri giunti dai luoghi più remoti di Castiglia e Portogallo in cerca di una fortuna che si trasformò in morte? In pessime condizioni fu ridotto il madrileno Pascual de Medina, che morì per una ferita alla testa e una alla gola nel 1602. I mesi della primavera e dell’estate del 1622 furono costellati di assassini: nel mese di marzo morirono Francisco Afanador, originario di Béjar, che era stato ferito da due stoccate; poi Pedro de los Reyes, indiano di Monterrey, in conseguenza di una ferita al petto, e per ferite simili persero la vita due portoghesi di Braga. A luglio e a settembre diedero l’ultimo respiro per la stessa causa un francese al servizio di un prete, un portoghese, un uomo di Serena, Extremadura, e un asturiano di Amieba. Erano forestieri, finiti in una città dove regnavano concorrenza e disagio.
CONFRATERNITE DI LADRI IL MONDO della malavita e della delinquenza non era privo di organizzazione. Come spiega Luis Zapata nella sua Miscelánea (scritta nel 1589), si diceva che la confraternita sivigliana dei ladri aveva un capo supremo, il “priore”, e altri di grado inferiore, i “consoli”, un depositario del bottino e una cassa con tre chiavi per nascondere la refurtiva. Da lì attingevano il necessario per le spese di tutti confratelli e per corrompere giudici e notai.
Pene e castighi Il pericolo insito nel vivere a Siviglia era reale. Le confraternite di ladri e bulli non erano una parodia creata da Cervantes. Furti e omicidi erano all’ordine del giorno, le pene comminate ai ladri erano di una sproporzione disumana e si moltiplicarono in tempi di incertezza e spaccatura sociale. La maggior parte delle testimonianze risale a quest’epoca, e spesso i fatti furono clamorosi. Il 27 gennaio 1604, dei ladri forzarono le porte della casa di don Juan Antonio del Alcázar, uno degli uomini più ricchi della città, e dopo aver scassinato nove casseforti gli sottrassero oltre 12.000 ducati in denaro, pezzi d’oro e d’argento e brillanti. Nella primavera del 1629 nella strettissima Calle del Agua, dietro il Corral de doña Elvira, tre individui uccisero un sottotenente di galeoni per rubargli il denaro, la cappa e la spada. Uno degli autori del crimine era servitore della vittima e per non insospettire il padrone si
era accordato con una prostituta che lo attirò nel vicolo. Prontamente arrestati dalla giustizia, il servitore e uno dei suoi complici furono impiccati dopo poco più di una settimana e al primo venne amputata la mano che venne poi esposta come pubblico esempio sul luogo del crimine. Era questo lo sfondo della vita picaresca: un tempo e un luogo in cui, come dice il protagonista del Guzmán, «tutti viviamo in agguato contro tutti, come il gatto con il topo», in cui «tutti rubano, tutti mentono, tutti si arrangiano; nessuno compie il proprio dovere e, peggio ancora, se ne vantano».
IL GRUPPO DI MONIPODIO
Rinconete e Cortadillo con Monipodio, capo della malavita sivigliana nel libro di Cervantes. Dipinto di Manuel Rodríguez de Guzmán. 1858.
FRANCISCO NÚÑEZ ROLDÁN UNIVERSITÀ DI SIVIGLIA
Per saperne di più
Il romanzo picaresco e il punto di vista Francisco Rico. Mondadori, 2001.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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DONNE ALLA FINESTRA, FORSE UNA PROSTITUTA E LA SUA MAMMANA. DIPINTO DI MURILLO. 1660 CIRCA. GALERÍA NATIONAL GALLERY OF ART, WASHINGTON.
LA LINGUA PARLATA NEI BASSIFONDI elinquenti e picari parlavano un gergo tutto loro: la “lengua de germanía”, parola che significa “fratellanza”; essi, infatti, costituivano un gruppo a parte all’interno della società. Usavano questo vocabolario per sicurezza, per capirsi tra loro ed evitare che chi non apparteneva al loro ambiente potesse comprendere le loro parole. Così, per esempio, gli abispones guardavano dove si poteva rubare; i polinches facevano sì che il ladro fosse assunto come servo in una buona casa; i polidores erano coloro che vendevano la refurtiva, mentre quelli che la compravano erano gli arrendadores. Nomi generici per i ladri erano (tra gli altri) murcios, termine considerato abbreviazione di murciélago, pipistrello, MENIPPO, FILOSOFO GRECO RITRATTO COME UN POVERO CON UN MANTELLO. DIPINTO DI DIEGO VELÁZQUEZ. 1638 CIRCA. MUSEO DEL PRADO, MADRID. ORONOZ / ALBUM
o rapantes, poiché rapar, radere o tagliare, era sinonimo di rubare: «Mio padre andò (cosí disse lui) a tagliare a uno, non so se la barba o la borsa», spiega Pablo, il protagonista del Pitocco. I floreros erano i bari che falsificavano o floreaban le carte da gioco (bueyes): nel gergo, infatti, il flor era un imbroglio. La spada era il respecto (rispetto), perché con essa si facevano rispettare gli spacconi, e, per estensione, il respecto era anche il protettore di una prostituta. Questo colorito vocabolario toccava tutta la vita del picaro: un abrazado (abbracciato) era uno arrestato; un acogido (accolto) era un fuggiasco (un’allusione ai fuggiaschi che sfruttavano il diritto d’asilo in una chiesa); la trena era la prigione; il forno o horado (buco) era la cella; la viuda (vedova) era la forca, e un bornido o un racimo (grappolo), un impiccato.
Litigi per la strada Questo dipinto anonimo, databile al 1656 circa, mostra la Casa de la Villa de Madrid e la piazza antistante. È una splendida ricostruzione di quell’ambiente, con una rissa con la spada nella parte destra, un tipo di scontro molto consueto in grandi città come Madrid o Siviglia. Museo Municipale, Madrid.
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IL GERGO DELLA PROSTITUZIONE Tra i numerosi termini della germanía Devota spiccano quelli propri dell’ambiente della prostituzione; qui di seguito ne sono elencati e spiegati alcuni.
Ninfa
Prostituta. Questo termine mitologico, che indicava le divinità dei boschi e dei ruscelli, entrò nel linguaggio volgare con la voga della letteratura orale e il teatro del Siglo de Oro.
Andorra
Prostituta. Da handora, proveniente dall’arabo gandura, donna elegante, termine che si usava sin dal XIV secolo per riferirsi alla «donna che passeggia, amica con cui bighellonare».
Piltraca
Prostituta di bassa categoria. Questo termine dispregiativo deriva da piltra, come veniva chiamato nel linguaggio della malavita il pagliericcio o letto di fortuna.
Concubina di un prete. Nel Lazarillo il protagonista dice: «Non ci meravigliamo di un prete né di un frate, perché uno ruba ai poveri e l’altro al convento per aiutare le sue devote».
Cantonera
Prostituta. Il Diccionario de autoridades la definiva come «donna pubblica che vaga qua e là cercando clientela»; proviene da cantón, l’angolo di un edificio (da questo termine proviene anche contonearse, ancheggiare).
Iza
Prostituta. Questa parola deriva da “izar”, issare, nel senso di provocare erezione; un izado era uno che viveva in concubinato.
Alcancía
Nella prima edizione del Diccionario de autoridades si dice che alcancía era «il padre
del bordello o casa pubblica delle donne di malaffare», cioè l’uomo che dirigeva il bordello.
Cobijadera
Designava la mammana, la persona che protegge o favorisce una relazione amorosa, generalmente illecita. Deriva da cobija (coperta) e da cobijo (rifugio).
Trainel
Servitore del bordello o della prostituta. È un prestito dal tedesco trainier, mulattiere. Sembra che abbia sostituito mandil (grembiule) quando il senso di questa parola era ormai troppo comprensibile.
Faraute
Servitore di prostituta o di ruffiano (prosseneta). Dal francese héraut, araldo o messaggero, entrò nella germanía come mediatore nelle questioni di prostitute e protettori.
RASPUTIN L’OMBRA DEGLI ZAR
I suoi successi nell’alleviare all’erede al trono russo, Alexej, le sofferenze provocate dall’emofilia gli diedero un potere straordinario sulla madre del bambino, Alessandra, e su Nicola II, sovrano del più grande impero del mondo. L’ascendente sugli zar, però, fu anche la causa della sua morte, avvenuta cent’anni fa
IL CONTADINO E GLI IMPERATORI
Rasputin impartisce la benedizione in una fotografia scattata verso il 1912. Nella pagina a fianco, dettaglio di una scatola da toletta della zarina con i ritratti di Nicola II e dell’imperatrice Alessandra incastonati tra i diamanti. SINISTRA: LEBRECHT / ALBUM. DESTRA: BRIDGEMAN / ACI.
RASPUTIN CON I SUOI FIGLI DIMITRI (A DESTRA), VARVARA (IN BRACCIO) E MATRIONA O MARIA, GLI UNICI SOPRAVVISSUTI DEI SETTE CHE EBBE.
al monastero di San Nicola di Verhoturje, dove si recò in cerca della guida spirituale di fratello Makarij, un giovane asceta che mortificava la propria carne con una catena. Questa visita cambiò la sua vita per sempre. Il semianalfabeta Rasputin che fece ritorno al villaggio partecipava ai momenti di culto, pregava con fervore e ben presto la sua fama gli radunò attorno un gruppo di fedeli che si riuniva in una cappella sotto la stalla di casa sua per cantare e leggere il Vangelo, che Grigorij commentava. Ma quei cantici e quei commenti erano ciò che ci si aspetterebbe da un onesto seguace della Chiesa ortodossa russa? I concittadini di Rasputin si convinsero presto che non era così: Grigorij si guadagnò la fama – che non l’avrebbe più lasciato – di appartenere alla setta dei chlysty.
Il mistico
BRIDGEMAN / ACI
LA CORONA DI NICOLA II
Utilizzata per l’incoronazione degli zar dai tempi di Caterina la Grande, sopravvisse alle vicende della Rivoluzione russa e oggi è conservata nell’Armeria del Cremlino, a Mosca. BRIDGEMAN / ACI
G
rigorij EfimovičRasputin nacque il 9 gennaio 1869 a Prokrovskoe, un villaggio della Siberia a più di duemila chilometri da San Pietroburgo, allora capitale della Russia. Era figlio di Efim Jakovlevič, un modesto contadino. La sua giovinezza non fu diversa da quella di molti altri in una terra in cui la vita era molto dura: beone e festaiolo, risultò essere anche un ladro. Un giorno, uno dei suoi vicini lo sorprese a rubare lo steccato di legno del suo pagliaio e gli rifilò una bastonata che cambiò Grigorij; secondo questo vicino, Rasputin «diventò strano e come istupidito». Quell’atteggiamento era il segno di una trasformazione interiore, che si manifestò quando, nel 1897, fece un pellegrinaggio
I chlysty credevano che Cristo si potesse incarnare in qualsiasi uomo, letterato o meno. Questi, chiamato Cristo, si univa a una donna, la Madre di Dio, e guidava la vita spirituale della sua comunità o “arca”. Durante le celebrazioni notturne in luoghi sotterranei, i chlysty cantavano, danzavano, si flagellavano e raggiungevano uno stato di estasi rituale che culminava in un’orgia: credevano che il peccato portasse al pentimento e alla salvezza, una credenza alla luce della quale è stata interpretata la sessualità di Rasputin. Nessuna delle indagini condotte dalla Chiesa su Grigorij, però, concluse che fosse un settario. Su questo punto le opinioni di coloro che hanno studiato la vita di Rasputin divergono. Se per lo scrittore russo Edvard Radzinskij non fu un chlysty per via delle pressioni degli zar in suo favore, per lo storico statunitense John T. Fuhrmann non fu un settario, ma adottò elementi del pensiero e la pratica dei settari; per esempio, non fumava e i suoi seguaci si chiamavano tra loro “fratello” e “sorella”.
C R O N O LO G I A
DALLA SIBERIA A PALAZZO
1869
1897
Il 9 gennaio nasce Grigorij Efimovič Rasputin, all’interno di una famiglia contadina di Pokrovskoe, una località siberiana.
Dopo il pellegrinaggio al monastero di San Nicola di Verhoturje, Rasputin decide di dedicarsi al misticismo.
MONASTERO DI VERHOTURJE
Nel 1897, Rasputin arrivò in questo luogo in pellegrinaggio dal suo villaggio natio. Qui, guidato da un asceta, Padre Makarij, trovò Dio, come disse egli stesso. Cattedrale della Santa Croce, Verhoturje. UMBERTO PANTALONE / GETTY IMAGES
1905
1912
1915
1916 470 A.C.
Viene presentato a Nicola II e a sua moglie Alessandra, che si affiderà a lui per guarire il figlio Alexej da una grave forma di emofilia.
Gli zar gli attribuiscono la salvezza in extremis del loro figlio. La zarina dipende completamente da lui dal punto di vista emotivo.
Mentre lo zar è al fronte, le sorti della Russia sono nelle mani di Alessandra, consigliata da Rasputin e da Anna Vyrubova.
IlBis. 29Valicer dicembre, Rasputin udaciest facio, muore assassinato in un confertium qui cri strum complotto monarchico che tem quod cavo, Pala nonfes forse ebbe anche un aiuto egervid co hos fuissil da parte britannica. tandiurnic oportud.
NON FA PER ME: RASPUTIN E LO STUDIO
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RITRATTO DI RASPUTIN MENTRE SCRIVE. LO STARETS ERA QUASI ANALFABETA E LA SUA GRAFIA ERA MOLTO DIFFICILE DA COMPRENDERE.
ASPUTIN ERA SEMIANALFABETA;
sapeva a malapena scrivere. Non ebbe un’istruzione formale, ma aveva un’infarinatura di teologia e lesse i Padri della Chiesa. Acquisì questa formazione minima forse nel 1897, nel monastero di Verhoturje, dove si recò in pellegrinaggio. «Lessi molto», disse quando tornò a Pokrovskoe, e la sua abilità nel citare le Scritture o i Padri lo conferma. Ma questo era tutto. Quando il monaco Iliodor volle prepararlo per il sacerdozio, si disperò: «È ottuso, non impara nulla, è più duro del legno». E quando Ermogene si accinse alla stessa impresa, Rasputin gli disse: «non potrei neanche per sogno. Per essere sacerdote bisogna studiare molto. Si deve meditare con molta concentrazione. E questo non fa per me. I miei pensieri sono come uccelli in cielo, vanno di qua e di là senza che io possa impedirlo».
BRIDGEMAN / ACI
LA GRANDE CELEBRAZIONE
Nel 1913, Nicola II donò ad Alessandra questo uovo di Pasqua di Fabergé in oro e brillanti per commemorare il Tricentenario della dinastia Romanov. BRIDGEMAN / ACI
Le voci sulla sua appartenenza ai chlysty, gli scandali sessuali – che sua moglie Praskovia tollerava, forse perché sapeva che il sesso era per Grigorij più di una fonte di piacere – e gli scherzi sulla sua presunta santità fecero sì che nel 1902, dopo un pellegrinaggio al monte Athos, Rasputin si recasse nella città di Kazan, un importante centro religioso.
Il cammino verso la corte Rasputin impressionò i dignitari religiosi di Kazan, che si trovavano alla guida di una Chiesa ritualista, burocratizzata e sottomessa allo zar, e che cercavano l’autenticità e la semplicità che sembrava incarnare quel contadino dalla fede ardente, che trattava i gerarchi ortodossi con la stessa familiarità che riservava alla gente di Pokrovskoe. Di fatto, li entusiasmò al punto che lo raccomandarono ai capi della Chiesa a San Pietroburgo, dove giunse in treno nel periodo di Pasqua del 1903, a bordo di un vagone di prima classe. Non avrebbe più calpestato la polvere dei sentieri.
La fede di Grigorij commosse l’archimandrita Feofan, il confessore degli zar, che lo presentò ai suoi altri protettori all’interno della Chiesa: il vescovo Ermogene e il monaco Iliodor, che in seguito sarebbero diventati suoi acerrimi nemici. Alla morte di Rasputin, Ermogene ebbe a dire: «Credo che inizialmente vi fu in Rasputin un fulgore divino. Aveva la perspicacia necessaria per penetrare nell’interiorità della gente e sapeva mostrare commiserazione, cosa che, se devo essere sincero, sperimentai in prima persona, poiché in più di un’occasione egli fu in grado di alleviare le mie pene spirituali. Fu in questo modo che conquistò me e, almeno agli inizi della sua carriera, anche altre persone». Questi doni spirituali e l’avallo di Feofan aprirono a Rasputin i salotti dell’alta aristocrazia russa, dove proliferavano venditori di mercanzie mistiche d’ogni tipo. Alle scienze occulte erano interessate le granduchesse Milica e Anastasia del Montenegro, figlie del re di quel Paese e sposate con due membri della famiglia Romanov, che rimasero affascinate dal contadino. Furono loro, nel 1905, a introdurre Rasputin nella famiglia reale, che all’epoca
MUERTE ANTES QUE RENDICIÓN
Ex manultor habus sin hacterem ina, serce etientiam Patquas sidetoredet, num Patura dienium publici amdionium egerox nos cus, poruntelium popublictum cons Maesce por iam. Quo nihicae omac. LOREM IPSUM
CATTEDRALE DI SAN BASILIO, MOSCA
La presenza del tanto criticato Rasputin in un luogo importante delle cerimonie che si tennero a Mosca per il terzo centenario della dinastia Romanov contribuì a screditare la Corona. HARALD SUND / GETTY IMAGES
PALAZZO DI ALESSANDRO
L’edificio, che si trova a Tsarskoe Selo, a 30 km dall’allora capitale San Pietroburgo, divenne il rifugio in cui la zarina Alessandra cercò di tenere segreta la malattia del figlio Aleksej. HARALD SUND / GETTY IMAGES
L’UOMO DIETRO LO ZAR
«L’ho detronizzato», una caricatura del 1917 che allude all’influenza negativa di Rasputin sull’immagine del sovrano, che abdicò proprio quell’anno. AKG / ALBUM
viveva barricata in un isolamento incomprensibile per la corte. Nicola e Alessandra erano disposti a ricevere qualsiasi aiuto, umano e divino, in un mondo che era loro ostile e al quale nascondevano un terribile segreto.
Una coppia angosciata Nel 1904, dopo quattro figlie (Olga, Tatiana, Maria e Anastasia), la zarina aveva dato alla luce un maschio, Aleksej, il tanto desiderato erede al trono. La gioia per la sua nascita, però, svanì presto: l’ombelico del piccolo sanguinò per giorni dopo il taglio del cordone ombelicale; era il primo sintomo dell’emofilia, una malattia ereditaria che si manifesta solo nei maschi, caratterizzata da abbondanti emorragie interne ed esterne. Alessandra, nata nel principato tedesco d’Assia, era nipote della regina Vittoria, portatrice di emofilia, una malattia per cui allora non esisteva cura; all’epoca, l’aspettativa di vita di un emofiliaco era di 14 anni. Gli zar abbandonarono il Palazzo d’Inverno di San Pie-
troburgo e si rinchiusero nel Palazzo di Alessandro, nella vicina Tsarskoe Selo, per mantenere segreta una notizia che avrebbe potuto invalidare lo zarevič Aleksej come successore del padre sul trono. Ma questa non era l’unica preoccupazione. Il 1905 portò infauste novità. In agosto, la Russia perse la guerra contro il Giappone, e ciò scosse una società russa che a gennaio, durante la cosiddetta “Domenica di sangue”, aveva assistito alla brutale repressione della pacifica dimostrazione di migliaia di operai che portavano una supplica allo zar. La sconfitta militare dimostrò che c’era bisogno di una riforma dello Stato, e la repressione tolse allo zar la sua aura di batjushka o padre dei suoi sudditi. Nicola concesse una Costituzione e una Duma o Parlamento con poteri minimi, ma non accettò mai di essere un monarca costituzionale, cosa che considerava una diminuzione della sua autorità, e Alessandra un furto dei diritti di suo figlio come governante assoluto per diritto divino. A Tsarskoe Selo, l’imperatrice si sentiva libera sia dalla pressione politica sia dal rifiuto che verso di lei dimostrava una corte che
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L’emofilia dello zarevič e le cure di Rasputin
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a zarina Alessandra era convinta che la vita di suo figlio dipendesse da Rasputin da quando, nel 1907, un’emorragia dello zarevič si arrestò mentre lo starets pregava accanto a lui. È stato detto che i poteri di suggestione di Rasputin, le sue preghiere e il suo sangue freddo in momenti nei quali si diffondeva l’ansia ebbero forse un effetto calmante, contraendo i vasi sanguigni (al contrario dell’adrenalina, che li dilata). Rasputin insisteva con la preghiera e rifiutava i farmaci, cosa che forse ebbe un certo effetto benefico, poiché per placare i dolori dello zarevič gli si somministrava l’acido acetilsalicilico (aspirina), senza sapere che fluidifica il sangue. È stato
sottolineato che Rasputin aveva in comune il dono di arrestare le emorragie con altri contadini che facevano lo stesso con il bestiame, premendo su determinati vasi sanguigni per diminuire il flusso di sangue (un segreto che questi guaritori custodivano gelosamente). Si è detto anche che il fatto che le emorragie si fermassero in sua presenza era solo una coincidenza e si è ipotizzato che nella crisi di Spala, nel 1912, quando apparentemente Grigorij guarì il bambino via telegrafo dalla Siberia, il piccolo migliorò perché il dottor Fedorov forse ricorse in segreto a metodi chirurgici. LA ZARINA ALESSANDRA E L’EREDE, ALEKSEJ, COSTRETTO A LETTO DALLA MALATTIA. FOTOGRAFIA SCATTATA VERSO IL 1916.
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SIMBOLI DELLO ZAR
Stemma di Nicola II realizzato da Fabergé che riproduce l’aquila bicipite con tre corone, emblema dei Romanov. BRIDGEMAN / ACI
la considerava fredda e distante (non parlava russo e comunicava in inglese con lo zar). Le montenegrine Milica e Anastasia alleviarono il suo isolamento. In precedenza le avevano presentato il francese Nizier Anthelme Philippe, praticante della “medicina astrale”, nel quale gli zar – che lo chiamavano “il Nostro Amico”– confidarono per concepire un figlio maschio e che, quando tornò in Francia nel 1902, disse ad Alessandra: «Un giorno avrete un altro amico come me che vi parlerà di Dio». Questo nuovo amico arrivò nel novembre del 1905, quando le principesse invitarono Rasputin a prendere un tè con i sovrani.
Una relazione indistruttibile Rasputin colpì profondamente Alessandra e Nicola, e il suo legame con i sovrani divenne definitivo quando nel 1907 lo zarevič ebbe una grave emorragia che si arrestò quando Rasputin gli impose le mani e pregò. Un miracolo! Via via che il rapporto di Grigorij con i sovrani diventava più stretto, le montenegrine persero i favori reali, il che le riempì di rancore al punto di chiamare «demonio» Rasputin. Questo le allontanò da
Alessandra, che aveva trovato una nuova amica sulla quale riporre il suo affetto: Anna Vyrubova. Costei si trasferì vicino al Palazzo di Alessandro e divenne una fervente devota di Rasputin. Il guaritore siberiano, l’imperatrice e la sua amica formarono un triangolo che le circostanze avrebbero reso sempre più stretto, per la disgrazia di Grigorij e della dinastia dei Romanov. Nel 1912, lo zarevič ebbe una crisi gravissima, al punto che fu preparato l’annuncio della sua morte. Rasputin era in Siberia e inviò un telegramma (o due) dicendo che il piccolo si sarebbe salvato. In effetti, Aleksej superò la crisi, e la vita di sua madre fu legata per sempre alla persona dello starets o “anziano” , appellativo che si dava ai mistici come Rasputin. Come ha osservato la biografa britannica Helen Rappaport, la schiavitù emotiva di Alessandra fu il prezzo che la zarina pagò per la salute del figlio: ella non solo vedeva in Rasputin il salvatore di Aleksej, ma anche un uomo santo e un veggente, qualcuno (di fatto, l’unica persona) di cui lei e il marito si potevano fidare ciecamente. Gli zar rifiutavano come calunnia qualsiasi prova della sua condotta libidinosa, che nel 1911 già creava scandalo nella capitale. Erano risapute la sua dedizione all’alcol, le sue avventure sessuali e le sue relazioni equivoche con donne dell’alta società (sposate e nubili) che facevano parte del cerchio delle sue adepte. Alla fine di quell’anno, Alessandra affrontò la suocera, l’imperatrice madre Maria Fedorovna, a proposito dell’influenza di Rasputin, che si era manifestata sulle nomine di alte cariche ecclesiastiche, e fu allora che scoppiò lo scandalo. Ermogene e Iliodor, un tempo suoi protettori, erano diventati suoi oppositori, ma caddero in disgrazia agli occhi degli zar. Risentito, Iliodor fece circolare lettere che la zarina aveva inviato a Grigorij e che costui gli aveva dato (o che Iliodor aveva rubato), nelle quali si poteva leggere, per esempio: «Desidero solo una cosa: dormire per sempre sulla tua spalla mentre mi abbracci». Queste parole, scritte da una donna in cerca di consolazione, consumata dalla colpa di aver trasmesso l’emofilia a suo figlio e devastata da una sciatica che faceva di lei un’invalida, furono interpretate secondo una connotazione sessuale. La Corona si screditava davanti al popolo e i monarchici vedevano Rasputin come un pericolo per la monarchia.
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PALAZZO DI LIVADIJA, CRIMEA. INAUGURATO NEL 1911, FU LA RESIDENZA ESTIVA DELLA FAMIGLIA IMPERIALE.
L’attentato della donna senza il naso
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l 29 giugno del 1914, a Pokrovskoe, si avvicinò a Rasputin una donna con il volto ricoperto da un velo. Egli mise le mani in tasca alla ricerca di una moneta, credendo che fosse una mendicante. La donna, invece, lo trafisse con un coltello vicino all’ombelico. Rasputin, ferito gravemente, corse verso la chiesa, mentre la folla, attirata dalle sue grida, fermò la donna. Lo starets disse alla polizia che dietro l’aggressione c’era il suo nemico, il monaco Iliodor. L’attentatrice, Khionia Guseva, era priva del naso, che disse di aver perso per la reazione a una medicazione a 13 anni, mentre la stampa sostenne che fosse a causa della sifilide. Di istruzione elementare, Khionia era seguace
di Iliodor ed era convinta che Rasputin fosse un libertino e un falso profeta. Un tribunale stabilì che era mentalmente instabile e ne dispose l’internamento in manicomio. La donna sostenne di aver agito da sola, ma la polizia non le credette: non aveva i mezzi per pagarsi il viaggio fino a Pokrovskoe. In effetti, in un libro pubblicato in russo, Iliodor, in esilio negli Stati Uniti, ammise di essere dietro l’attentato. Ma agì da solo? Dopo l’aggressione attraversò il confine con la Finlandia in auto, il che fa supporre che avesse un qualche tipo di appoggio da parte del potere. RASPUTIN, CONVALESCENTE DOPO L’OPERAZIONE ALL’OSPEDALE DI TIUMEN A SEGUITO DELL’ATTENTATO CHE SUBÌ NEL GIUGNO DEL 1914.
COLPITO CON UN CROCIFISSO
I RASPUTIN NEL 1910, ASSIEME A ERMOGENE (AL CENTRO), VESCOVO DI SARATOV E TSARITSYN, E AL MONACO ILIODOR (A DESTRA).
L 16 DICEMBRE del 1911 fu un giorno infausto
per Rasputin. Le voci sul suo comportamento indecente e il suo controllo sulle nomine ecclesiastiche spinsero i suoi ex alleati, il vescovo Ermogene e il monaco Iliodor, a liberare la Russia dalla sua influenza. Il vescovo lo invitò al monastero di Yaroslavl a San Pietroburgo. Quando egli arrivò, Mitia Kozelski, un mistico, cogliendolo di sorpresa lo trascinò davanti a un’icona e, secondo quanto si disse, tentò di tagliargli il pene con un paio di forbici e gli sputò. Iliodor ed Ermogene lo accusarono di insozzare la monarchia e la Chiesa. Il vescovo lo colpì in testa con la croce che portava sul petto, gli proibì di avvicinarsi alle donne e lo costrinse a inginocchiarsi e a giurare che non avrebbe mai più rivisto gli zar. L’ira dei sovrani non tardò a manifestarsi: Ermogene venne inviato in Lituania e Iliodor fu rinchiuso in un monastero.
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
UNA RICHIESTA DI RASPUTIN
Indirizzata al ministro dell’Interno, alla cui nomina aveva contribuito: «Presso il ministro Khvostov mando una ragazza dolce e bella. È povera, salvatela, è bisognosa. Parlate con lei. Grigorij». AKG / ALBUM
Fu la Prima Guerra Mondiale, iniziata nel 1914, a portare Rasputin al culmine del suo potere e alla caduta finale, che trascinò anche la dinastia. Nel 1915, a seguito delle sconfitte al fronte, Nicola assunse il comando dell’esercito e partì per la Stavka, il quartier generale, lasciando nelle mani di Alessandra, a Tsarskoe Selo, le questioni di Stato. La zarina, Anna Vyrubova e Rasputin governavano di fatto il Paese, anche se i consigli di Rasputin, che Alessandra interpretava come inviati dalla Provvidenza, non facevano che avallare le opinioni dell’imperatrice, che cercava ministri favorevoli alla Corona: «Non è la mia saggezza, bensì un certo istinto inviatomi da Dio al di là di me stessa affinché possa esserti d’aiuto», scriveva allo zar. Mentre venivano nominati ministri fedeli, ma inetti, l’opposizione della Duma fu alimentata dalle voci che circolavano sulla connivenza della zarina e di Rasputin con i tedeschi, sull’idea che fossero loro spie e che lavorassero in segreto per una pace separata. A queste si aggiun-
gevano le voci su relazioni sessuali tra lo zar, sua moglie, Rasputin e la Vyrubova. Questo discredito della Corona andava di pari passo con una crisi personale di Rasputin.
Bere senza misura Lo starets, che nel 1914 sopravvisse a un grave attentato e vide suo figlio chiamato alle armi, si diede all’alcol come se nulla gli importasse più, forse consapevole che la sua fine si avvicinava; sapeva che contro di lui si erano levate forze molto potenti. All’epoca, i suoi legami con i vertici dello Stato l’avevano fatto diventare la persona cui rivolgersi per ottenere impieghi o affari, evitare di essere chiamati al fronte o di essere deportati. I postulanti gli lasciavano grosse somme, che Rasputin sperperava in gozzoviglie, fatto che aumentò il discredito suo e della Corona. Per salvare la monarchia, il contadino doveva morire. La congiura partì dall’ambiente più vicino allo zar: la figura centrale fu il principe Felix Jusupov, erede della più grande fortuna di Russia (e forse del mondo), da poco sposato con la granduchessa Irina, nipote del monarca. Jusupov reclutò il granduca Dmitrij Pavlovič,
FORTEZZA DI PIETRO E PAOLO
All’interno della cittadella di San Pietroburgo si trova la cattedrale in cui sono sepolti i sovrani russi da Caterina la Grande a Nicola II e la sua famiglia, morti nel 1918 per mano dei bolscevichi. FOTOSEARCH / AGE FOTOSTOCK
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La sessualità di un mistico
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’editore Filipov, amico di Rasputin, raccontava che se qualcuno sollevava l’argomento della sessualità durante una conversazione con lo starets, egli «cambiava subito argomento, scherzando». Di certo era libidinoso e talvolta sembrava incapace di trattenere i propri impulsi: si arrivò a dire che avesse usato violenza alla bambinaia dei rampolli imperiali. In realtà, la sua vita sessuale era complicata e a tutt’oggi poco chiara. Nel 1912, la polizia iniziò BRIDGEMAN / ACI
ad annotare tutti i suoi movimenti, e questo permette di vedere il ruolo che ebbero le prostitute nella sua vita: le portava a casa sua, in hotel, ai bagni pubblici, e a volte aveva rapporti con più di una nello stesso giorno. Spesso andava in cerca di prostitute dopo essere stato in compagnia di una dama rispettabile come le sue seguaci Zinaída Manshtedt o Maria Sazonova; è come se il contrasto tra donne “buone” e “cattive” aumentasse il suo desiderio. Vi
sono tuttavia testimonianze di prostitute che parlano di un comportamento singolare: dopo averle fatte spogliare, restava semplicemente a guardarle, oppure si stendeva al loro fianco vestito. Forse lo scopo dei suoi incontri con le prostitute non era quello di avere rapporti sessuali, ma di resistere alla tentazione, di trascendere l’aspetto carnale affrontandolo. Per dirlo con altre parole, forse Rasputin faceva ricorso alle prostitute per avere un’esperienza religiosa.
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IN COMPAGNIA DI RASPUTIN. FOTOGRAFIA RISALENTE ALLA PASQUA DEL 1914 IN CASA DELLO STARETS. 1 SANA PISTOLKORS, SPOSATA CON ALEXANDR PISTOLKORS (FIGLIASTRO DLE GRANDUCA PAOLO) E SORELLA DI ANNA VYRUBOVA; 2 ANNA VYRUBOVA; 3 IULIA DEN, L’AMICA PIÙ INTIMA DELLA ZARINA DOPO A. VYRUBOVA; 4 EFIM, IL PADRE DI RASPUTIN; 5 RASPUTIN; 6 AKILINA LAPTINSKAYA, EX MONACA E INFERMIERA. COME “SEGRETARIA” DI RASPUTIN CONTROLLAVA LE DONAZIONI ELARGITE AL MISTICO DA COLORO CHE GLI CHIEDEVANO FAVORI.
PALAZZO JUSUPOV
La scalinata monumentale della fastosa residenza di proprietà dell’aristocratica famiglia Jusupov sul fiume Moika, a San Pietroburgo.
A. GAROZZO / AKG / ALBUM
Rasputin sapeva che la guerra avrebbe portato solo sofferenza al popolo russo. Manifesto di propaganda realizzato da Leonid O. Pasternak che esorta ad aiutare le vittime del conflitto. AKG / ALBUM
cugino di Nicola, che lo zar amava come un figlio. Il terzo congiurato era Vladimir Purishkevič , politico di destra e deputato. Il 29 dicembre del 1916, Jusupov attirò Rasputin nel suo palazzo con la promessa di un incontro con Irina, dalla quale era affascinato. In una stanza del seminterrato, gli offrirono dolci alla crema con cianuro, che egli mangiò; poiché il veleno non fece effetto, Jusupov gli sparò con il revolver Browning di Dmitrij. Credevano che fosse morto, ma Rasputin si alzò e fuggì attraversando il cortile sul retro del palazzo. Purishkevič sparò due colpi con la sua pistola Savage e lo uccise. Misero il corpo in automobile e lo gettarono nel fiume, facendo un buco nel ghiaccio. È stato detto che questo racconto, che Jusupov fece nel suo libro su quei fatti, non è vero. Secondo Radzinskij, per esempio, Rasputin non mangiava dolci, e questa versione intenderebbe nascondere che fu Dmitrij a uccidere Rasputin, perché altrimenti non avrebbe potuto sostituire lo zar nel caso di un possibile colpo di Stato. Dati più recenti indicano un coinvolgimento della Gran Bretagna
nel delitto per impedire che la Russia firmasse una pace separata con la Germania, cui Rasputin era forse favorevole. Ma anche se è certo che lo starets vedeva la guerra come una disgrazia per il popolo e che il suo intervento impedì alla Russia di entrare nel 1912 nelle guerre dei Balcani, in realtà aveva detto allo zar che per salvare il trono doveva lottare fino alla vittoria. Rasputin fu sepolto in una cappella che la Vyrubova stava facendo costruire a Tsarskoe Selo. Tre mesi più tardi, dopo la caduta della monarchia, il suo cadavere fu spostato nella capitale. La fine della sua avventura è misteriosa come la sua vita: si disse che il corpo fu bruciato in un bosco, ma oggi si ritiene sia stato cremato nei forni dell’Istituto Politecnico nella parte nord della città. JOSEP MARIA CASALS STORICO
Per saperne di più
SAGGI
Rasputin. La vera storia del contadino che segnò la fine di un impero Edvard Radzinskij. Mondadori, Milano, 2001. Storia della rivoluzione russa William H. Chamberlin. Einaudi, Torino, 1966. La fine dei Romanoff Pavel M. Bulygin. Mondadori, Milano, 1935.
CULTURE-IMAGES / ALBUM
UN POPOLO FERITO
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a morte di Rasputin unì ancor di più lo zar e la moglie, che tagliarono i ponti con la famiglia Romanov, i cui membri più importanti – compresa Elizaveta Fedorovna, la sorella della zarina – non esitarono a chiedere il perdono per i responsabili (Dmitrij fu inviato in Iran, e Felix esiliato nei suoi possedimenti nel Sud della Russia). Alessandra si aggrappava alla tunica di satin blu macchiata di sangue che Rasputin indossava la sera del suo “martirio”: «La conservava con grande fede, come una reliquia, un palladium o forza protettrice da cui dipende il destino della monarchia», scrisse l’ambasciatore francese. Anche altri furono rattristati. Una dama dell’alta società si sorprese vedendo che i suoi pazienti all’ospedale militare non erano felici della notizia dell’omicidio. Quando fece domande a questo proposito, un soldato replicò: «Un contadino è arrivato fino allo zar e i nobili l’hanno ucciso!». Così la pensavano milioni di contadini russi, per i quali Rasputin era un martire. NICOLA II CON IL CUGINO, GRANDUCA NICOLA NIKOLAEVIČ, NEL 1914. QUESTI GUIDÒ L’ESERCITO FINO A QUANDO LO ZAR NON NE ASSUNSE IL COMANDO.
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Ex manultor habus sin hacterem ina, serce etientiam Patquas sidetoredet, num Patura dienium publici amdionium egerox nos cus, poruntelium popublictum cons Maesce por iam. Quo nihicae omac. LOREM IPSUM
ELIZAVETA FEDOROVNA, SORELLA DI ALESSANDRA, IRRITÒ LA ZARINA CRITICANDO L’INFLUENZA DI RASPUTIN.
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Dolore e gioia per un assassinio
FOTO: ALBUM
DA SINISTRA A DESTRA, I TRE PRESUNTI ASSASSINI ˇ DEPUTATO DI RASPUTIN: VLADIMIR PURIŠKEVIC, DELLA DUMA; IL PRINCIPE FELIX JUSUPOV ˇ E IL GRANDUCA DMITRIJ PAVLOVIC.
Lo storico russo Oleg Shishkin e i britannici Andrew Cook e Richard Cullen hanno sostenuto che l’assassinio di Rasputin fu in realtà organizzato e portato a compimento dai servizi segreti inglesi (SIS, Secret Intelligence Service). Quali sono gli indizi che li hanno condotti a questa conclusione?
LA PISTA BRITANNICA
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
LA PRIMA PAGINA DEL QUOTIDIANO INGLESE THE DAILY MIRROR DEL 4 GENNAIO 1917, CON UN TITOLO SULLA MORTE DI RASPUTIN CORREDATO DA FOTO DEL MISTICO E DI FELIX JUSUPOV ASSIEME ALLA MOGLIE IRINA.
Scale e Oswald Rayner, un avvocato che era amico di Felix Jusupov sin dai tempi in cui avevano studiato a Oxford e che parlava fluentemente il russo. Secondo il diario di William Compton, autista inglese di Pietrogrado, Rayner si recò a palazzo Jusupov fino a sei
O
LA SALA DEL PALAZZO JUSUPOV NELLA QUALE RASPUTIN FU AVVELENATO E COLPITO (IN ALTO, A SINISTRA); IL CORTILE INNEVATO CHE ATTRAVERSÒ PER FUGGIRE (IN ALTO A DESTRA) E IL SUO CORPO RIPESCATO DAL FIUME (IN BASSO).
swald Rayner fece visita a Felix Jusupov la mattina dopo l’omicidio e rimase al suo fianco per le ventiquattro ore successive, il che sarebbe un indizio del ruolo del SIS nel delitto, implicito nel telegramma inviato il 7 gennaio 1917 da Stephen Alley a John Scale da San Pietroburgo. Nel messaggio si diceva infatti: «Anche se le cose qui non sono andate del tutto come progettato, il nostro obiettivo è stato chiaramente raggiunto. La reazione alla scomparsa delle Forze Oscure [si allude a Rasputin] è stata positiva, anche se sono già state fatte domande scomode su una partecipazione più ampia. Rayner sta lavorando alle questioni in sospeso e senza dub-
SALA: AKG / ALBUM. CORTILE: BRIDGEMAN / ACI. CORPO: BRIDGEMAN / ACI.
bio ti informerà al tuo ritorno». Il messaggio parla della reazione positiva dei russi che lavoravano con il SIS, e indica anche che altri russi si interrogavano sul ruolo svolto dal servizio segreto, come lo stesso zar, che il 19 dicembre
2u Un telegramma e molte domande
la missione di Pietrogrado (nome dato a San Pietroburgo nel 1914, all’inizio della Grande Guerra). Nella capitale russa si trovavano gli agenti Stephen Alley, John
1916, il Foreign Office briNnelloeltannico inviò il tenente colonSamuel Hoare per guidare
1u Gli agenti di Pietrogrado
parlò all’ambasciatore britannico George Buchanan delle voci secondo cui due «ufficiali inglesi» erano coinvolti nell’omicidio, e che Buchanan attribuì all’amicizia di vecchia data tra Rayner e Jusupov.
volte tra la metà di ottobre e la fine di novembre del 1916, i mesi precedenti l’omicidio di Rasputin, un fatto che avallerebbe la tesi di un coinvolgimento del SIS. Quanto a Scale, sua figlia Muriel avrebbe in seguito dichiarato: «Sapevo che mio padre era con quelli che hanno progettato la sua morte», riferendosi alla fine di Rasputin.
FOTOGRAFIA DEL CADAVERE DI RASPUTIN RECUPERATO DAL FIUME. È BEN VISIBILE IL FORO DI UN PROIETTILE PROPRIO IN MEZZO ALLA FRONTE.
tanti in un’intervista del 1917. Delle ferite da arma da fuoco sul cadavere, quella al petto e quella al costato avrebbero provocato la morte in 20 minuti; un’altra, sulla fronte, fu causata da un’arma che non doveva essere a più di 23 cm, poiché furono trovate tracce di polvere da sparo sul corpo, e fu inflitta quando Rasputin era già a terra. Nel 2004, il patologo forense britannico Derrick Pounder concluse che questa ferita fu causata da un revolver Webley calibro .455, arma usata solamente dal SIS, e ciò, secondo Andrew Cook, proverebbe che fu Rayner a sparare. Tuttavia, questo dato non è considerato incontestabile perché basato solo su fotografie.
’autopsia di Rasputin scomparve dopo la RivoLla praticò, luzione, eccezion fatta per alcune foto, ma chi il dottor Kosorotov, riferì i dati più impor-
3u L’arma del delitto
ROYAL ARMOURIES, LEEDS / BRIDGEMAN / ACI
REVOLVER MARK V WEBLEY, FABBRICATO VERSO IL 1901. L’ARMA ERA USATA DAGLI AGENTI DEI SERVIZI SEGRETI BRITANNICI.
UIG / ALBUM
DATA S TO R I C A
Il seppuku, l’addio del samurai Per salvare l’onore e dimostrare il proprio valore, i mitici guerrieri giapponesi si uccidevano con il terribile harakiri
I
l codice del samurai scritto da Yamamoto Tsumemoto nel XVII secolo diceva: «la Via del samurai è la morte». Con questo non si riferiva solamente alla morte del guerriero in combattimento, ma anche al suo dovere di suicidarsi prima di accettare la resa. Dai periodi più antichi della storia giapponese vennero messi in pratica diversi metodi di suicidio d’onore, come quello di gettarsi in acqua con l’armatura indosso o saltare da cavallo con la spada in bocca. Ma il più conosciuto ed emblematico fu quello di
UN SAMURAI SI PREPARA AL SEPPUKU OBBLIGATORIO CON IL COLLABORATORE CHE DEVE DECAPITARLO ALLE SPALLE.
trafiggersi il ventre con un pugnale: chiamato harakiri o, secondo il termine più formale, seppuku. Anche se sicuramente nacque prima, il primo caso documentato risale al XII secolo, concretamente al 1180, quando il settuagenario samurai Minamoto no Yorimasa, trovandosi ferito e circondato al termine di una battaglia, si tolse la vita in questo modo. Nel Giappone feudale, la decisione di suicidarsi può essere spiegata dal desiderio di evitare la morte che attendeva i prigionieri, che poteva essere molto dolo-
DAGA TANTO CON CUI I SAMURAI REALIZZAVANO LA CERIMONIA DEL SEPPUKU. M. DAVIDSON / ALAMY / ACI
rosa (per esempio, veniva praticata la crocifissione), ed evitare il disonore che questa supponeva per il samurai e il suo clan. Tuttavia, il suicidio era una soluzione eccezionale, poiché non era raro che i samurai sconfitti passassero a combattere sotto l’altra bandiera se ciò poteva assicurare la sopravvivenza del loro lignaggio. Inoltre, il seppuku obbligatorio poteva essere stabilito da un tribunale come modalità di pena di morte per il samurai. Risulta strano ai nostri occhi che si scegliesse un metodo di suicidio tanto doloroso.
Il samurai si eviscerava eseguendo un taglio orizzontale e uno verticale nello stile jumonji o “del numero dieci”, per via dell’ideogramma che disegnavano gli squarci, . L’obiettivo era tagliare i centri nervosi della colonna, provocando una lunga agonia; perciò, anche se si considerava onorevole immolarsi da soli, era comune impiegare un “secondo”, il kaishakunin, per decapitare il suicida non appena si fosse pugnalato. Senza dubbio, un metodo tanto brutale era inteso come una suprema manifestazione di coraggio. Si spiega anche con la credenza che nel basso ventre risiedessero il calore e l’animo umani e che, aprendolo, il suicida si liberasse del suo spirito: nel termine harakiri, hara significa ugualmente “ventre” e “spirito”, “coraggio” e “determinazione”.
Un rito di tradizione
AKG / ALBUM
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Il seppuku si realizzava attraverso un rituale perfettamente codificato e che si applicò fino all’abolizione della classe dei samurai, nel 1871. Il diplomatico inglese Free-
L’ONORE AL DI SOPRA DELLA STESSA VITA OLTRE ai casi di sconfitta in uno
scontro armato, esistevano altri motivi per cui un samurai poteva decidere di suicidarsi, in accordo con il concetto di onore o bushido. Così, il seppuku poteva essere un modo di espiare la colpa per un errore (sokotsu-shi), di rendere pubblica la propria indignazione (funshi) o di protestare per una decisione ingiusta (kanshi). Anche per difendere la propria innocenza (memboku) o accompagnare il signore nella morte (junshi). Tuttavia, bisognava fare attenzione: Hattori Ujinobi ricorda che vi fu un condannato «che prese la spada dell’ispettore e ferì una moltitudine di persone». AKASHI GIDAYU PREPARA IL SUO SEPPUKU. INCISIONE NUMERO 83 DI CENTO ASPETTI DELLA LUNA, DI TSUKIYOKA YOSHITOSHI. TOKYO.
AKG / ALBUM
man-Mitford, che assistette nel 1868 a un seppuku obbligatorio, ne lasciò una descrizione molto dettagliata. La scena aveva luogo in un giardino chiuso. Il samurai che si sarebbe immolato era vestito di bianco, come i pellegrini o i defunti, e accompagnato dal kaishakunin, di solito un amico o servitore di fiducia, anche se poteva essere designato dalle autorità quando il seppuku era applicato come pena di morte. In questo caso, un ufficiale leggeva la sentenza
e poi veniva concesso al reo di pronunciare un appello. Dopo il discorso, il condannato si sedeva e un assistente gli offriva l’arma: il wakizashi, una spada corta (spesso smontata per renderla più maneggevole, in modo che venisse impugnata direttamente dalla lama avvolta in una tela) o anche il tanto o pugnale. Dopo aver scritto un poema di addio, si apriva la veste, impugnava l’arma e iniziava la macabra modalità di morte che Freeman-Mitford raccontò
così: il condannato «prese il pugnale davanti a sé; lo guardò melanconicamente, quasi affettuosamente; per un momento sembrò che avesse riunito i suoi pensieri un’ultima volta e allora, trafiggendosi in profondità nel ventre sotto il costato sinistro, spostò lentamente il pugnale verso il costato destro e, portandolo al di sopra, effettuò un lieve taglio verso l’alto. Durante quest’operazione incredibilmente dolorosa non mosse un muscolo del volto». Poi, il
kaishakunin «si erse dietro il samurai», con il volto al sole o alla luna per non rivelare la sua ombra, «sguainò e lo decapitò con un solo colpo». Poi pulì la sua arma e si inchinò. Nella cerimonia del seppuku, il reo poteva saltare il primo passaggio e al posto di pugnalarsi gli veniva offerta una simbolica daga di legno. Dopo il rituale, la testa del morto era presentata agli ufficiali e dopo la pulizia veniva inviata alla famiglia del suicida affinché le dessero sepoltura. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L I B R I E A P P U N TA M E N T I
RINASCIMENTO
Il Valentino: il cardinale che divenne principe
N Andrea Santangelo
CESARE BORGIA Salerno Editrice, 2017, 128 pp., 12 ¤
el Principe, capitolo VII, così Machiavelli scrive: «Cesare Borgia, chiamato dal vulgo Duca Valentino, acquistò lo Stato con la fortuna del Padre, e con quella lo perdette». E il padre, nientemeno che papa Alessandro VI, era colui che aveva destinato Cesare alla carriera ecclesiastica. Non erano questi però i sogni e le ambizioni del Valentino, deciso invece a ritagliarsi un proprio e personale dominio – la Romagna – nella convulsa e frammentata scacchiera geo-
politica della penisola del Rinascimento. Alla figura di Cesare, alla sua spregiudicatezza, alla sua efferatezza e ai suoi eccessi sono stati dedicati studi e analisi, ma quella che Andrea Santangelo – storico militare – presenta in questo volume è la figura del Valentino quale stratega e condottiero. Abbandonato il cardinalato, fatto inusuale nella storia, Cesare sceglie di diventare un condottiero e lo fa in un periodo in cui lo scenario militare viveva grandi cambiamenti e innovazioni.
Lui stesso diverrà un innovatore in questo senso, formando e organizzando il proprio esercito su principi che gli storici hanno letto come precursori di quelli moderni. A differenza di altri condottieri, infatti, Cesare Borgia non si affida a eserciti mercenari e compagnie di ventura, ma assolda un esercito locale, fatto di romagnoli che, con un uso sempre più metodico delle armi da fuoco, gli consentirà di strappare a Caterina Sforza Forlì, per poi espandere il proprio controllo su Rimini, Ravenna e Pesaro. Un volume quindi che, analizzando le scelte di un uomo ambizioso che abbandona l’abito cardinalizio per la corazza, diviene anche analisi dello scenario militare del primo Cinquecento. (A.G.)
SAGGI
UN MONDO DI ROVINE PER SCOPRIRE LA STORIA
I Condottieri
CHE L’ITALIA SIA TERRA DI TERREMOTI, purtroppo,
è cosa nota e lo è da millenni. Ma non è stata solo la forza della natura a seppellire, nel corso dei secoli, intere città un tempo fiorenti: vi sono state anche altre ragioni, quelle dell’uomo con le sue armi e quelle, inesorabili, del tempo. Ed ecco che, accanto agli esempi più noti di città sepolte quali Ercolano e Pompei, nel volume di Stefanile compaiono anche i nomi di Baia, l’Atlantide d’Italia, di Norba e Mozia, di Luni e Minturnae. Un volume per scoprire, lungo le coste, tra le valli e i monti, le rovine di antiche civiltà, passeggiando e nuotando tra mosaici, terme e fastose residenze che sebbene – e forse proprio perché – sepolte, hanno fatto la storia. Michele Stefanile
ANDARE PER LE CITTÀ SEPOLTE
Il Mulino, 2017, 152 pp., 12 ¤
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MirkoRizzotto
MENANDRO il CONQUISTATORE
MENANDRO IL CONQUISTATORE Mirko Rizzotto Graphe, 2017, 200 pp., 15 ¤
SPARTA Marcello Lupi Carocci Editore, 2017, 224 pp., 17 ¤
FORSE POCO famoso, «Vi fu un re greco più “grande” di Alessandro Magno»: è Menandro I, sovrano del regno indo-greco tra il 165 o 155 e il 130 a.C. Guerriero e stratega, si spinse in terre ignote assorbendone le culture al punto da legare il proprio nome al Milindapañha, uno dei testi buddhisti più noti in Oriente.
UNA CITTÀ divenuta leggen-
da, una comunità dedita all’esercizio delle armi che ha spesso evocato un’immagine mitica, ideale, quasi stilizzata. Sono i più recenti studi sulla città di Licurgo a permettere all’autore di fare nuova luce su Sparta dandone invece un’immagine più sfaccettata e storicamente autentica.
STORIA DELLA MUSICA
Rinasce l’orchestra dell’Orfeo di Monteverdi
COLL. PRIVATA “FRIENDS OF STRADIVARI”, PRESSO MDV
S
VIOLINO CARLO IX, 1566C., ANDREA AMATI, COLLEZIONE PRIVATA “FRIENDS OF STRADIVARI”.
ono passati 450 anni dalla nascita di Claudio Monteverdi, il compositore che segnò il passaggio dalla musica rinascimentale a quella barocca e la sua città natale, Cremona, ha organizzato per l’evento una serie di celebrazioni con concerti, incontri e mostre. Quella allestita al Museo del Violino si presenta di particolare interesse poiché espone una ricostruzione dell’orchestra dell’Orfeo di Monteverdi, ritenuto il primo capolavoro della storia del melodramma
la cui prima rappresentazione risale al 1607. In mostra strumenti originali dell’epoca, selezionati secondo un preciso criterio, quello indicato nelle prime edizioni a stampa dell’opera. L’organico prevedeva infatti: «duoi gravicembali, duoi contrabassi de viola, dieci viole da brazzo, un’arpa doppia [...]». L’annotazione, preziosissima nel rivelare le consuetudini musicali dell’epoca, ha permesso di ricostruire un’orchestra in cui trovano posto violini, viole e tromboni, organi, flau-
ti e clarini provenienti da collezioni nazionali e non, ma tutti selezionati su basi filologiche ed estetiche per ridare vita a un’orchestra del primo Seicento. Il visitatore, inoltre, grazie a un sapiente allestimento multimediale, potrà ascoltare il suono di ogni strumento presentato. Ad aprire la mostra un altro capolavoro, questa volta pittorico, Il suonatore di liuto di Caravaggio. Una mostra multisensoriale quindi, e imperdibile, per le orecchie, ma anche per gli occhi. (A.G.) Monteverdi e Caravaggio. Sonar stromenti e figurar la musica LUOGO Museo del Violino, piazza Marconi, Cremona TELEFONO 0372 080809 WEB www.monteverdi450.it DATE Fino al 23 luglio
CINQUECENTO
Carpi alla corte del re di Francia vicende storiche che legarono le due corti, anche dipinti, sculture, medaglie e boiserie a testimonianza degli scambi artistici tra le maestranze carpigiane e quelle francesi. Allestita nei musei di Palazzo dei Pio, l’esposizione permette inoltre di visitare l’appartamento“francese” del signore di Carpi, la camera dei Re nonché la sala dei Gigli. (A.G.)
MUSEI DI PALAZZO DEI PIO, CARPI / CLP
S
e quella di Francia è stata una corte nota ai più, quella di Carpi lo è stata forse meno eppure, nel Cinquecento, tra le due si instaurò un importante rapporto. Sotto la guida di Alberto Pio, ultimo signore di Carpi dal 1480 al 1527, artisti e artigiani carpigiani presero infatti la strada della Francia di Luigi XII e Francesco I dando nuovo slancio e sviluppo al Rinascimento d’Oltralpe. È per ricordare e omaggiare questo felice momento culturale che è stata allestita una mostra in cui ammirare, oltre alle lettere e ai documenti che permettono di ricostruire la
PANNELLO, RICCARDO DA CARPI, PANNELLO INTAGLIATO DA GAILLON.
Alla corte del re di Francia (1505-1535) LUOGO Musei di Palazzo dei Pio, piazza dei Martiri, Carpi (MO) WEB www.palazzodeipio.it DATE Fino al 18 giugno
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Prossimo numero IMPERATORI FOLLI ALCUNI DEGLI IMPERATORI
BPK / SCALA, FIRENZE
che governarono su Roma nel corso del I secolo d.C. sono passati alla storia come squilibrati. Studi recenti hanno chiarito che questa nomea si deve in gran parte alla testimonianza di storiografi politicamente avversi e, in epoca più recente, a opere letterarie e cinematografiche che ne hanno enfatizzato gli aspetti più bizzarri. Nondimeno, le loro stravaganze suggeriscono che essi possano avere sofferto di problemi psichici.
Copti: la seconda vita dell’Egitto
GLI STATI UNITI E LA CONQUISTA DELL’OVEST NEL CORSO DEL XIX SECOLO, negli Stati Uniti si registrò un enorme incremento demografico, dovuto all’arrivo in massa di migranti provenienti dall’Europa. L’urgenza di disporre di territori su cui insediare una popolazione in costante aumento, la scoperta dell’oro in California – all’origine della mitica “febbre dell’oro” – e la realizzazione della ferrovia transcontinentale diedero impulso all’espansione verso Ovest. Questa inarrestabile colonizzazione avvenne però a spese degli indigeni americani, che alla fine del XIX secolo furono strappati dai territori in cui vivevano da secoli e confinati in riserve.
BRIDGEMAN / ACI
Il trionfo del cristianesimo nell’antico Egitto diede origine a una nuova civiltà che conservò molti elementi del mondo faraonico, come la lingua.
Il Giardino dell’Eden Sia nel libro della Genesi sia negli antichi testi mesopotamici è menzionato un luogo idilliaco, nel quale la morte era sconosciuta e gli umani vivevano felici.
La battaglia di Alalia Intorno al 540 a.C., cartaginesi ed etruschi, alleatisi, si scontrarono con i greci delle colonie di Alalia e Massalia per acquisire il controllo del Mediterraneo.
Il barone di Münchhausen La figura storica di questo nobile militare tedesco fu eclissata dal suo avventuroso e fantastico alter ego, uno dei personaggi più noti della letteratura.
Confucio, un saggio contro la tirannia Nel VI secolo a.C., Confucio divenne ministro della giustizia del duca di Lu e cercò di dare vita al regno della virtù, ma cadde in disgrazia e fu costretto all’esilio.
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