LA FIGURA DEL DIAVOLO NEL MEDIOEVO
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PITTORI D’EGITTO
LE TOMBE DEI GUERRIERI
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GLI ARTISTI CHE DIPINSERO L’ALDILÀ
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MICENE
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IL CONGO DI RE LEOPOLDO
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LA PAURA DI SATANA
N. 111 • MAGGIO 2018 • 4,95 E
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EDITORIALE
il mondo medievale era popolato da presenze invisibili, ma considerate estremamente reali: Dio e il diavolo, gli angeli e i demoni. Queste forze erano in lotta continua tra loro per conquistare i cuori delle persone. I demoni erano molti, anche se, prudentemente, nel Medioevo non si osava contarli. Nel XIII secolo sant’Alberto Magno affermava che il loro numero era noto solo a Dio; Guglielmo d’Alvernia, vescovo di Parigi, sosteneva che dovevano essere tantissimi, dato che erano ovunque. Il XVI secolo provò a stabilire qualche cifra: nel De praestigiis daemonum (1563) Johann Wier calcolava che fossero esattamente 7.409.127, agli ordini dei 79 prìncipi sottomessi a Lucifero. Secondo il De angelis del gesuita Francisco Suárez, invece, fin dalla nascita ogni persona era accompagnata da un demone incaricato di tentarlo per tutta la vita (da qui la necessità di un angelo custode). Ma se il Bene era opera di Dio e il Male del diavolo, chi dei due regnava sul Congo del cristianissimo Leopoldo II del Belgio? Il terribile sfruttamento di cui furono vittime gli abitanti dello stato africano suscitò un’ondata di indignazione contro il sovrano belga. Fu grazie alle denunce di alcuni missionari testimoni della barbarie e alla lotta per la giustizia portata avanti dal britannico Edmund Dene Morel e dall’irlandese Roger Casement che si venne a conoscere la verità. Dove mancano esseri umani coraggiosi, il male è destinato a trionfare. In quanto a Leopoldo, il Medioevo lo avrebbe condannato al supplizio degli avari: ritrovarsi all’inferno in compagnia di un demone che gli versa oro fuso in bocca.
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10 ATTUALITÀ
126 GRANDI SCOPERTE
Tombe millenarie in Cina
Mars, il gigante svedese
Vicino a Chengdu una squadra di archeologi cinesi ha scoperto duecento tombe appartenti alle dinastie Han e Wei-Jin.
La nave da guerra più grande di Svezia avrebbe dovuto rivoluzionare le battaglie navali, ma affondò nel Baltico nel 1564 ed è stata ritrovata solo nel 2011.
12 PERSONAGGI STRAORDINARI Eugenia de Montijo
La moglie di Napoleone III fu protagonista della vita di corte del Secondo impero francese, prima di essere costretta alla solitudine dell’esilio.
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20 EVENTO STORICO Il falso che ingannò l’Europa
Nel 1789 l’abate maltese Giuseppe Vella falsificò la traduzione di un codice arabo che minacciava il sistema feudale siciliano.
26 VITA QUOTIDIANA Le camere delle meraviglie
Nel XVI secolo si diffuse in Europa la moda di collezioni private che mescolavano opere d’arte e curiosità scientifiche non sempre autentiche. 6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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30 EGITTO, I PITTORI DELL’ALDILÀ GLI ARTIGIANI che decorarono le tombe dei faraoni e dei nobili avevano grandi capacità tecniche e un preciso canone di bellezza. Questo gli permise di creare delle opere di grande valore, capaci di suscitare ancora oggi ammirazione. Ma ai loro tempi gli autori di tali capolavori non erano considerati artisti, bensì semplici esecutori, e raramente firmavano le loro creazioni. DI MAITE MASCORT TOMBA DI TAUSERT E SETHNAKHT (VALLE DEI RE). LE SCENE CHE DECORANO LE PARETI DELLA CAMERA FUNERARIA SONO TRATTE DAL LIBRO DELLE PORTE.
46 Micene, la città dei guerrieri Le tombe monumentali e i magnifici corredi funebri ritrovati tra le rovine dell’antica Micene rievocano il mondo dei guerrieri dell’età del bronzo, che il poeta Omero mise in scena nelle pagine dell’Iliade. DI MIREIA MOVELLÁN LUIS
60 Il tempio di Giove Capitolino Fin dall’epoca etrusca il monte Capitolino, meglio conosciuto come Campidoglio, fu la sede di un grande tempio dedicato a Giove Ottimo Massimo. Gravemente danneggiato da un incendio e poi ricostruito, fu distrutto definitivamente dai vandali nel 455. DI ELENA CASTILLO
76 La paura di Satana L’Europa medievale era ossessionata dalla presenza del diavolo nella vita quotidiana. Il signore delle tenebre aveva i suoi alleati nelle streghe e nei negromanti, con cui distoglieva dalla retta via i buoni cristiani. DI MARINA MONTESANO
108 Il giro del mondo di Darwin Nel 1831 Darwin si imbarcò sul Beagle in veste di naturalista. La spedizione durò cinque anni e raggiunse le coste del Sudamerica e l’Oceania. Per il ricercatore fu l’occasione di compiere straordinarie osservazioni in campo geologico e biologico che lo avrebbero portato al primo abbozzo della teoria dell’evoluzione. DI ALISON PEARN
92 Crimini nel Congo belga Nel 1885 lo Stato libero del Congo divenne proprietà di Leopoldo II di Belgio. Per permettere al sovrano di arricchirsi con il commercio del caucciù, le autorità coloniali oppressero la popolazione con torture, amputazioni e omicidi. DI CARLO A. CARANCI
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PALA RAFFIGURANTE LA LEGGENDA DI SAN MICHELE ARCANGELO. MAESTRO DI ARGUIS. 1440 CIRCA. MUSEO DEL PRADO. MADRID. FOTO: ORONOZ / ALBUM
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AT T UA L I T À
STATUETTA in bronzo con fattezze XXXXXXXXXXXXX X XXX XXin umane e grandi orecchie, rinvenuta XXXXXXXXX XXXXXX XXXXX una delle tombeXXXXX nei pressi XXXXX XXXXXXdi XXXChengdu XXX XXXXX XXXCina). XXX XXXXX XXXX (Sichuan, sud-ovestXXXXXX della
ANTICA CINA
IN UNA DELLE TOMBE
emerse nella falesia, sulle sponde del Jinjiang, fu ritrovato il meraviglioso specchio in bronzo, qui nell’immagine in basso. Questi specchi, rotondi e decorati su un lato con motivi incisi, si diffusero con la dinastia Han e iniziarono a essere prodotti su vasta scala.
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Duecento tombe millenarie in Cina Nei pressi della città di Chengdu una squadra di archeologi cinesi ha scoperto duecento tombe appartenenti alle dinastie Han e Wei-Jin
N
ella falesia che si affaccia sulle rive del fiume Jinjiang, non lontano dalla città di Chengdu, nella provincia cinese del Sichuan, l’Istituto di ricerca archeologica e reliquie culturali di Chengdu ha scoperto più di duecento tombe scavate nella roccia. I sepolcri sono datati tra il 206 a.C. e il 420 d.C., all’epoca delle dinastie Han e Wei-Jin. Con la dinastia Han (la seconda dinastia imperiale cinese) Chengdu diventò il centro di un’importante
attività economica basata sulla produzione di smalti, sete e broccati, da cui prese l’appellativo di Jincheng (“città del broccato”).
Tombe opulente L’importanza di Chengdu è strettamente connessa alle tombe che vi sono state rinvenute. Secondo gli archeologi si tratta di sepolture straordinarie sia per l’antichità della datazione sia per le dimensioni: alcune contengono, infatti, fino a sette camere funerarie colle-
gate da tunnel lunghi anche venti metri. Sebbene alcune tombe mostrino segni di passati saccheggi, è stato comunque possibile recuperare un migliaio di oggetti in oro, argento e bronzo, a testimonianza della ricchezza dei proprietari. Pan Shaochi, archeologo dell’Istituto di ricerca archeologica e reliquie culturali di Chengdu, ha affermato che i reperti ritrovati sono estremamente preziosi per la ricerca archeologica sulle dinastie Han e Wei-Jin.
PERSONAGGI STRAORDINARI
Eugenia de Montijo, il fascino del Secondo impero La moglie spagnola di Napoleone III visse i fasti del Secondo impero francese ma anche la tristezza dell’esilio e il dolore per la morte del figlio, l’ultimo discendente dei Bonaparte
Una vita tra luci e ombre 1826 María Eugenia de Palafox y Portocarrero, figlia del conte di Montijo e di María Manuela Kirkpatrick, nasce a Granada.
1853 Sposa nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi Napoleone III, imperatore di Francia e nipote di Bonaparte.
1870 Dopo la sconfitta di Sedan, Eugenia e suo figlio vanno in esilio in Gran Bretagna. Il deposto imperatore li raggiunge nel 1871.
1879 Eugenia si impegna affinché il figlio recuperi il trono, ma questi muore in un’imboscata durante la Guerra anglo-zulu.
1920 Muore in Spagna, dove stava trascorrendo qualche giorno con i duchi d’Alba, suoi cugini.
A
ll’inizio del XX secolo capitava spesso di veder passeggiare nel parque del Oeste di Madrid un’anziana fragile e minuta ma dal portamento fiero ed elegante. La donna viveva in Inghilterra, però durante il freddo inverno britannico si trasferiva in Spagna, e più esattamente nel palazzo di Liria, residenza dei duchi d’Alba, suoi cugini. I passanti guardavano l’anziana con un misto di ammirazione e pietà: la vita le aveva dato tutto e poi gliel’aveva tolto. Si chiamava Eugenia de Palafox y Portocarrero e fu l’ultima imperatrice di Francia. Meglio nota come Eugenia de Montijo in virtù di uno dei titoli nobiliari del padre, era nata a Granada il 5 maggio del 1826. Era stata battezzata con il nome di María Eugenia Ignacia Agustina ed era figlia di Cipriano de Palafox y Portocarrero, duca di Peñaranda e conte di Teba e di Montijo, e di María Manuela Kirkpatrick de Closeburn e de Grevignée, una nobildonna di origine scozzese dalla quale aveva ereditato i capelli rossi e la pelle candida, punteggiata di lentiggini.
Eugenia aveva una sorella maggiore, María Francisca, detta Paca, che sarebbe diventata duchessa d’Alba in seguito alle nozze con il duca Jacobo Fitz-James Stuart.
Presentazione in società Il conte di Montijo era un militare stimato e un uomo di semplici costumi, che non riusciva a capire le ambizioni e il gusto per l’ostentazione della moglie. La sua condizione di afrancesado – termine che indicava i membri della nobiltà spagnola con simpatie napoleoniche e legati all’ambiente intellettuale francese – lo spinse a far educare le figlie in Francia e in Inghilterra. María Manuela Kirkpatrick condivideva la visione del marito, ma la sua prima preoccupazione era garantire alle fanciulle un futuro brillante. A tale scopo la contessa di Montijo sfruttò la sua amicizia con lo scrittore Prosper Mérimée, che fece da mentore alle due giovani nobildonne e, al termine dei loro studi presso il collegio parigino del Sacro Cuore, le introdusse nell’alta società della capitale francese. Nel 1839, alla morte del padre, Eugenia e María Francisca tornarono a Madrid, dove fecero il loro debutto in società in grande stile. L’occasione fu
«Il ruolo di una sovrana è simile a quello di un’attrice» scrisse Eugenia SPILLA CON PERLE E DIAMANTI APPARTENUTA A EUGENIA DE MONTIJO.
GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS
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IL FASCINO DELLA SOVRANA MADAME CARETTE, dama d’onore di Eugenia de Montijo, la descrisse così: «Alta, dai tratti regolari e con un profilo degno di un medaglione antico, era dotata di un fascino tutto suo, un’indefinibile qualità che rendeva impossibile paragonarla a qualsiasi altra donna. La fronte, alta e diritta, si restringeva verso le tempie; le palpebre seguivano la linea delle sopracciglia e le velavano gli occhi, troppo ravvicinati e così caratteristici della fisionomia dell’Imperatrice: due begli occhi, di un blu vivido e profondo, circondati d’ombra, pieni di spirito, di vigore e al tempo stesso di dolcezza». L’IMPERATRICE EUGENIA DE MONTIJO. RITRATTO DI FRANZ XAVER WINTERHALTER. PALAZZO COMUNALE, AJACCIO.
GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS
uno splendido ballo in maschera nel mettersi in mostra nei salotti che frepalazzo di famiglia, in plaza del Ángel. quentava in compagnia della madre, Qualche anno più tardi, nel 1844, Paca né ad attirare l’attenzione dell’allora sposò il duca d’Alba, soddisfacendo così presidente della Seconda repubblica, le aspettative materne. La contessa ma- Luigi Napoleone Bonaparte, che aveva dre decise di tornare a Parigi, convinta conosciuto nel corso di un ballo il 12 che lì ci fossero maggiori possibilità di aprile del 1849. trovare un consorte altolocato anche per la figlia minore. Eugenia era una donna L’erede di Napoleone raffinata, colta e intelligente, dotata di Luigi Napoleone era figlio di Luigi Bouna bellezza particolare, lontana dai naparte – fratello di Napoleone ed canoni tradizionali. I contemporanei effimero re d’Olanda – e di Ortensia le attribuivano un particolare potere di Beauharnais, nata dal primo matridi seduzione, che lei sapeva gestire con monio dell’imperatrice Giuseppina. saggezza. Non ebbe quindi difficoltà a Alla morte del fratello maggiore e di
Napoleone II, unico figlio dell’imperatore còrso, ereditò i diritti dinastici dei Bonaparte. Nel 1848, dopo il fallimento di alcuni tentativi di colpo di stato, Luigi Napoleone – dotato non solo dell’aura eroica che gli proveniva dal cognome ma anche di grande carisma – fu eletto a maggioranza presidente della Seconda repubblica. Non sembra che il suo interesse per la contessa di Teba (un altro titolo che Eugenia aveva ereditato dal padre) fosse particolarmente esclusivo; inoltre, le vicissitudini politiche lo avrebbero presto interrotto. Il 2 dicembre 1851, STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
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NEL 1853 L’ARCHITETTO Visconti mostra a Napoleone III e a Eugenia de Montijo il progetto di ampliamento del palazzo del Louvre. Olio di JeanBaptiste-Ange Tissier. 1865. Versailles.
nell’anniversario dell’incoronazione del suo illustre zio, Luigi Napoleone sciolse con un colpo di stato l’assemblea nazionale e si proclamò «principe-presidente». Un anno dopo, grazie al beneplacito del senato, Luigi Napoleone assunse il titolo di“imperatore dei francesi”. Era
iniziato il Secondo impero. Il nuovo regime aveva bisogno di un erede e a questo scopo serviva un’imperatrice. Per la contessa e la figlia si spalancò un’opportunità unica. Eugenia si era ormai lasciata alle spalle qualsiasi velleità romantica: era già stata respinta dal duca d’Alba, che le aveva
SANGUE FREDDO IMPERIALE IL 28 APRILE 1855 Napoleone III sfuggì a un attentato.
Quella notte andò a teatro con la moglie come se niente fosse. Il conte Horace de Viel-Castel descrisse così la scena: «Le grida di “Viva l’Imperatore” rimbombavano come cannonate a salve […] Ho visto varie persone piangere in teatro. L’imperatrice era pallida e preoccupata, nonostante gli sforzi per mostrarsi serena». NAPOLEONE III. RITRATTO DI HIPPOLYTE FLANDRIN. 1862. VERSAILLES. AGE FOTOSTOCK
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preferito la sorella, e dal marchese di Alcañices, José de Osorio, che si dice fosse stato il suo grande amore. I vent’anni in più e la fama di libertino del nipote di Napoleone non la spaventavano. Eugenia era infatti estremamente attratta dalla possibilità di diventare imperatrice dei francesi. La leggenda vuole che, quando Napoleone le chiese come poteva raggiungerla nella sua alcova, Eugenia rispose: «Passando davanti a un altare, sire». Quasi sicuramente si tratta di un aneddoto, perché la stessa frase è attribuita anche ad Anna Bolena agli inizi della relazione con Enrico VIII. La cosa certa è che, contro l’opinione di buona parte della corte e del ceto politico – che vedevano in lei una straniera –, Eugenia riuscì là dove altre avevano fallito: sposare
CASTELLO DI COMPIÈGNE. In
DANIEL ARNAUDET / RMN-GRAND PALAIS
questa residenza gli imperatori trascorrevano un mese e mezzo ogni autunno con i loro cortigiani. Nell’immagine, la galleria da ballo.
Bonaparte. Le nozze si celebrarono il 30 gennaio 1853 nella cattedrale di Notre-Dame. Gli sposi arrivarono in chiesa sulla stessa carrozza che nel 1804 aveva condotto Napoleone e Giuseppina verso l’incoronazione. I sontuosi festeggiamenti fecero rifiorire i fasti di Versailles e preannunciarono quel che sarebbe stato il Secondo impero. Iniziava infatti un’epoca che avrebbe permesso alla Francia di recuperare la sua proverbiale grandeur sulla scena politica europea. Contemporaneamente, grazie alle riforme urbanistiche, Parigi sarebbe diventata un modello di capitale internazionale e il centro di una nuova estetica, borghese nel suo funzionamento ma ancora aristocratica nelle forme. Fin dal giorno del matrimonio Eugenia de Montijo rifiutò di fare la semplice figura decorativa accanto al marito. Per prima cosa decise di de-
servatori, attirandosi l’odio di buona parte dei settori politici. Nonostante il bonapartismo militante, Eugenia de Montijo non nascondeva la sua ammirazione per Maria Antonietta. Anzi, durante la luna di miele nel palazzo di Saint-Cloud, insistette per soggiornare in quelle che erano state le stanze dell’ultima regina dell’Ancien Régime. E, com’era accaduto all’ultima regina di Francia, si fece una reputazione di La regina della moda donna frivola e arrogante. Eugenia si dedicò alla politica con il L’imperatrice divenne una vera e beneplacito del marito, che la nominò propria icona della moda. Non si trattareggente in tre momenti in cui dovette va di una semplice questione di vanità: lasciare temporaneamente il trono: Eugenia considerava l’abbigliamento durante la campagna d’Italia del 1859, uno degli obblighi del suo ruolo istituin occasione di un viaggio in Algeria zionale. A questo scopo raggiunse un nel 1865 e infine nel 1870, ormai alla accordo con il marito: avrebbe usato fine del Secondo impero. La sua at- il guardaroba per promuovere i settori tività politica non si limitò a quelle dell’economia nazionale che più ne opportunità. Cattolica convinta, non avessero bisogno, come la gioielleria e esitò ad appoggiare i partiti più con- l’industria tessile. La passione dell’imstinare i 600mila franchi del regalo di nozze del comune di Parigi alla fondazione di una delle tante istituzioni caritative che sarebbero sorte durante il suo regno. Il 16 marzo del 1856, dopo due aborti, partorì il suo unico figlio, Napoleone Eugenio Luigi. Ritenne così di aver assolto al dovere di dare un erede al trono e decise quindi di occuparsi dell’impero.
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L’IMPERATRICE visita Amiens durante un’epidemia di colera. Olio di Auguste François Féragu. 1866. Castello di Compiègne.
peratrice per i gioielli e la sua amicizia con lo stilista Charles Frederick Worth contribuirono inoltre a fare di Parigi la capitale internazionale della moda. Gli effetti positivi ebbero ripercussioni su tutta l’attività economica francese, come dimostra il caso della manifattura della seta di Lione. Ma sfortunatamen-
te la maggior parte dei suoi contemporanei non fu capace di comprendere l’atteggiamento dell’imperatrice. Eugenia ne era consapevole, come dimostra quello che scrisse all’amico e biografo Lucien Daudet dall’esilio: «Mi hanno accusato di essere frivola e di amare troppo i vestiti, ma è un’assurdità;
LA FINE DI UNA DINASTIA NEL 1879 NAPOLEONE EUGENIO LUIGI BONAPARTE prese
parte alle guerre zulu. Il 2 aprile scrisse alla madre: «Ciò che più mi spiace è non poter stare accanto a chi combatte. Mi conosci abbastanza da sapere che per me è un boccone amaro. Ma spero che la mia sfortuna finisca presto». In giugno il principe fu ucciso a colpi di lancia in un’imboscata. IL PRINCIPE NAPOLEONE EUGENIO LUIGI SUONA IL TAMBURO. 1858. ADOC-PHOTOS / ALBUM
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significa non rendersi conto del ruolo di una sovrana, che è simile a quello di un’attrice. E gli abiti sono un aspetto fondamentale di questo ruolo!».
La caduta dell’impero Il suo discredito aumentò nel 1867, quando difese l’intervento francese nell’avventura messicana di Massimiliano d’Asburgo, che si concluse con la fucilazione di quest’ultimo e con un elevato bilancio di perdite tra le truppe. E così passarono in secondo piano il suo impegno sociale nella fondazione di ospizi, orfanotrofi e ospedali, la protezione che accordò all’attività di ricerca di Louis Pasteur, il coinvolgimento nella costruzione del canale
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HÔTEL DU PALAIS, Biarritz.
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L’edificio, oggi un hotel di lusso, fu costruito nel 1855 come residenza estiva dell’imperatrice Eugenia de Montijo.
di Suez, e il suo ruolo chiave nella maggior parte degli indulti concessi dall’imperatore, i quali salvarono la vita a molti dei suoi nemici. Il popolo e la classe politica attribuirono il declino dell’impero alla «spagnola», un soprannome dispregiativo che rievocava quello riservato all’«austriaca» Maria Antonietta. La sconfitta francese a Sedan nel 1870, nel corso della Guerra franco-prussiana, fu la goccia che fece traboccare il vaso. La caduta di Napoleone III in mano nemica e la proclamazione della Terza repubblica francese costrinsero l’imperatrice e il figlio a fuggire in Inghilterra, dove si stabilirono nella tenuta di Camden Place, a Chislehurst. Il deposto imperatore li raggiunse nel 1871, una volta liberato. Durante i primi anni di esilio, e in particolare dopo la morte di Napoleone III nel 1873, Eugenia continuò a 18 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
complottare perché suo figlio potesse riprendersi il trono. Ma non fu possibile. Mentre la repubblica metteva radici profonde in Francia, il giovane principe si arruolò come volontario con l’esercito britannico per andare a combattere gli zulu e il primo giugno del 1879 morì in un’imboscata.
proverbiale eleganza, che avevano fatto del pittore personale, Winterhalter, il ritrattista preferito dei regnanti europei e dello stilista, Worth, il precursore dei grandi couturier francesi del XX secolo. A Farnborough si lasciò alle spalle le ambizioni, la passione per gli intrighi politici, i tradimenti del marito e il disamore del suo popolo. Anni di solitudine Negli ultimi anni si divise tra l’InEugenia de Montijo sopravvisse qua- ghilterra e la Spagna, dove alleviava la rant’anni a suo figlio, ma non fu mai sua solitudine in compagnia dei duchi più la stessa. Mise da parte qualunque d’Alba. Proprio in Spagna Eugenia velleità politica e si trasferì a Farnbo- si spense l’11 luglio 1920 a causa di rough, nello Hampshire inglese. Nei una complicazione renale. Il corpo fu pressi della sua residenza fece edificare riportato in Inghilterra, dove venne un mausoleo in onore del marito e del sepolto accanto a quello del marito figlio, l’abbazia di Saint Michael, che e del figlio. affidò alle cure dei frati benedettini. L’imperatrice Eugenia de Montijo Eugenia si dedicò alle opere di carità era morta e si apprestava così a entrare e si ritirò da qualsiasi attività politica. nella leggenda. Ben presto il mondo si dimenticò della sua leggendaria bellezza e della sua —María Pilar Queralt del Hierro
Tributo storico e archeologia sperimentale sul Lago di Como: sulle orme di Lucius Minicius Exoratus Dopo la fortunata prima edizione, che ha visto una straordinaria presenza di pubblico accedere ai campi per le didattiche, le conferenze e i momenti di rievocazione, Lucius Minicius Exoratus torna a rivivere sulle sponde del Lago di Como in una seconda edizione densa di novità didattiche ed eventi. Siete pronti a un nuovo viaggio nel Larius romano? Sono passati solo 140 anni dalla Battaglia di Camerlata che ha visto, per la prima volta, le legioni romane scontrarsi con i Celti Comenses ed ora, il territorio del Lago di Como è totalmente romanizzato: il Lago di Como, divenuto “Larius”, è divenuto un asse essenziale per gli spostamenti militari e commerciali nonché luogo di origine, e di svago, con le sue splendide villae, di importanti famiglie ascese alle più alte cariche della società romana, quali i Plinii e gli Oufentini. Proprio da quest’ultima gens, nel I° secolo d.C., nacque Lucius Minicius Exoratus, flamine dell’Imperatore Vespasiano e Pontefice Massimo. Sarà seguendo le sue orme, ma anche quelle di altri illustri abitanti del Larius, che da visitatori potrete rivivere un pezzo importante della storia locale e, soprattutto, sperimentare in prima persona, grazie alla ricostruzione in loco degli accampamenti delle popolazioni autoctone, non ancora assoggettate a Roma, e dei legionari romani, la vita di tutti i giorni. In questi due giorni, potrete mischiarvi alle file dei soldati dei due schieramenti, testare il peso di uno scudo e di una spada, saggiare la vostra abilità con l’arco, prepararvi con loro alla battaglia, assistere al conio delle monete, assaggiare il cibo romano e celtico, presenziare agli scenografici riti apotropaici, fare da spettatori a un processo romano, con tanto di arringhe in latino, supplici e avvocati in toga, e, nella seconda giornata, potrete persino essere invitati ad un vero matrimonio romano. Nel pomeriggio della seconda giornata potrete, infine, assistere dal vivo alla rievocazione della battaglia di Bibracte, nel corso della quale le legioni di Cesare sconfissero gli Helvetii ponendo di fatto le basi per la futura conquista della vicina Helvetia. Durante il tributo storico una particolare attenzione sarà dedicata ai bambini, per i quali saranno organizzati speciali laboratori didattici e grazie a i quali avvicinarsi alla storia con divertimento e curiosità sarà un vero piacere. Non mancheranno gli interventi di esperti classicisti, ogni sera dalle ore 19.00, che garantiranno il giusto studio e approfondimento degli LUCIUS MINICIUS EXORATUS argomenti trattati nel corso della giornata: Sabato 30 giugno, Marco Tributo Storico e Archeologia Sperimentale Sartori, autore di bestseller come L’Inverno della Repubblica, Menaggio (Co) e Teutoburgo, ci parlerà di “Cesare, Catullo e la Cisalpina”, sabato 30 Giugno - domenica 01 Luglio 2018 mentre domenica 1 Luglio, Alessandro Cerioli, ci parlerà de “La Fondazione di Novum Comum”. dalle ore 10.00 alle 21.00 Per informazioni dettagliate potrete contattare gli organizzatori Telefono: +39 3392181456 facendo riferimento ai contatti qui accanto e visitare il sito web E-Mail: info@studiotablinum.com www.studiotablinum.com e la pagina facebook dedicata all’evento: Web: www.studiotablinum.com Lucius Minicius Exoratus.
BRIDGEMAN / ACI
Il falso che ingannò mezza Europa Nel 1789 un abate maltese di nome Giuseppe Vella falsificò la traduzione di un codice arabo che minava le basi del sistema feudale siciliano
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erso la fine del XVIII secolo in Europa iniziò a circolare il Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi. Era la traduzione di un codice arabo custodito nel monastero di San Martino delle Scale (Monreale) e uno dei pochi documenti riguardanti la dominazione araba in Sicilia. Quello che non si sapeva era che la traduzione in realtà era un falso, opera di un abate maltese di nome Giuseppe Vella. Ultimo di quattro fratelli, Vella era nato a La Valletta
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nel 1749. Dopo essere entrato a far parte dell’ordine gerosolimitano, nel 1780 arrivò a Palermo per celebrare la messa, anche se avrebbe preferito con tutto il cuore tornare a Malta. La sorte volle però che restasse nel monastero di San Martino delle Scale, in una posizione che lo avrebbe reso uno dei falsari più conosciuti d’Europa. Il 17 dicembre del 1782 l’ambasciatore del Marocco Muhammad ibn Uthmān, in viaggio per mare, si vide costretto ad approdare in Sicilia a causa di una tempesta. Ricevuto con tutti gli ono-
ri, fu ospite della città di Palermo per alcune settimane e Vella ne approfittò per il suo tornaconto. Grazie alla sua conoscenza della lingua maltese e probabilmente anche di qualche parola di arabo – appreso da uno schiavo magrebino conosciuto a Malta – e in assenza di migliori candidati per il ruolo, l’abate si offrì come interprete per l’ambasciatore. Fra le altre cose, i due fecero visita al monastero di San Martino delle Scale: lì Vella mostrò all’ambasciatore alcuni codici arabi che si conservavano nell’edificio. Pro-
EVENTO STORICO VISTA DEL PORTO DI PALERMO.
IVAN PENDJAKOV / AGE FOTOSTOCK
L’illustrazione di Louis Jean Desprez ritrae uno scorcio della città nel 1777. Insieme a La Valletta, Palermo è l’altra città chiave della vicenda.
LA VALLETTA NATALE CROCEVIA DI SCAMBI commerciali e punto strategico culturale del Me-
diterraneo, la capitale di Malta (capitale europea della cultura 2018) è probabilmente la chiave di tutto: il maltese è equiparato da molti studiosi a una sorta di dialetto magrebino, in cui molte parole derivano dall’arabo. L’origine maltese, più che il suo carattere intraprendente, avrebbe fornito all’abate le conoscenze necessarie per orchestrare tutta la vicenda.
babilmente fu in quell’occasione che, dopo aver appurato che nei dintorni non ci fossero altri conoscitori della lingua araba, l’abate ordì l’inganno. Alla partenza dell’ambasciatore, se ne andò anche l’unica persona in grado di comprendere cosa dicessero i codici conservati nel monastero. Vella falsificò la traduzione di uno di questi, chiamato Codice martiniano dal nome del monastero che lo ospitava, sostenendo che fosse un registro della cancelleria araba in Sicilia. Vista la scarsezza di documenti riguardanti il periodo
della dominazione araba sull’isola, gli studiosi convennero subito che si trattava di una scoperta di straordinaria importanza: in realtà, il codice (da cui Vella farà derivare il Codice di Sicilia) non conteneva altro che un racconto fedele della vita di Maometto. L’abate ebbe così tanto successo nelle sue letture pubbliche della traduzione che non pochi finanziarono studi per approfondire le ricerche. Invece altri, come Domenico Scinà, lo identificavano come un “perfetto ignorante”. Probabilmente le implicazioni politiche della traduzione giocarono un ruolo importante nella fortuna dell’abate. Infatti il suo testo
Vella sosteneva che il Codice martiniano fosse un registro della cancelleria araba in Sicilia CODICE DIPLOMATICO. EDIZIONE DEL 1790. BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DE FRANCE.
avallava l’esistenza dei privilegi baronali siciliani che la corona di Napoli cercava da tempo di sopprimere. Il tempismo giocò a favore del monaco truffaldino: se Vella avesse ordito l’inganno appena qualche decennio dopo, non avrebbe avuto nemmeno lontanamente la stessa risonanza. Nel frattempo nei salotti di tutta Europa si commentava il suo lavoro. Il 6 agosto del 1785 ottenne la cattedra in lingua araba all’Università di Palermo, istituita ad hoc con dispaccio reale. Tra il 1789 e il 1792 venne pubblicata una edizione del Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi, che diede corpo all’“arabica impostura”, come la definì Domenico Scinà. Nei due anni seguenti il Codice venne tradotto in tedesco e l’eco delle scoperte di Vella risuonò in tutta Europa. L’abate divenne un personaggio di spicco della società siciliana e si fece più ardito e prepotente: se la maggior parte degli intellettuali gli rendeva STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
BNF
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EVENTO STORICO
SAN MARTINO DELLE SCALE.
DEA / GETTY IMAGES
Vista panoramica del monastero che custodisce il Codice diplomatico. Incisione di Attilio Zuccagni Orlandini (1845).
omaggio, non mancavano tuttavia le critiche alle sue presunte scoperte. In una lettera datata 1786 lo storico Rosario Gregorio sollevò dubbi sulla cronologia, la geografia e lo stile del presunto codice arabo. Fu però messo a tacere da Vella, il quale ribatté che Gregorio, a differenza di lui, non conosceva l’arabo. Probabilmente questo non fece altro che acuire in Gregorio
il desiderio di smascherare l’inganno, giacché lo storico trascorse gli anni successivi a studiare l’arabo per poter meglio sostenere la sua tesi. L’abate, ormai abituato alla notorietà, architettò un nuovo inganno: la traduzione di alcune lettere che la nobiltà normanna e i sultani d’Egitto si sarebbero scambiati nei secoli XI e XII. Questa volta la falsificazione raggiunse un livello
MINZOGNA SARACINA «Sta minzogna saracina / cu sta giubba mala misa / trova cui pro concubina / l’accarezza, adorna e spisa. / E cridennulla di sangu, / come vanta, anticu e puru, / d’introdurla in ogni rangu / si fa pregio non oscuru». In questa poesia Meli equipara l’inganno dell’abate a una concubina che l’amante cerca di far passare per una dama vestendola da donna “per bene”. GIOVANNI MELI. IL RITRATTO DEL CONTEMPORANEO DI VELLA SI TROVA NEL CASTELLO DI CACCAMO. AGE FOTOSTOCK
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addirittura superiore al primo: infatti le lettere, che sarebbero poi confluite nella stesura di una seconda opera, non esistevano affatto.
Ascesa e declino Probabilmente appoggiato da membri di spicco del clero, Vella sferrò allora il colpo da maestro: nel 1793 pubblicò la traduzione delle lettere inesistenti, che raccolse nel primo volume del Libro del Consiglio d’Egitto tradotto da Giuseppe Vella cappellano del sacro ordine gerosolimitano, abate di S. Pancrazio, antenato meno famoso di un altro Consiglio d’Egitto, ovvero la versione romanzata della vita di Vella raccontata nel 1963 da Leonardo Sciascia. In questa seconda opera Vella si schierò a favore della corona di Napoli, che aveva danneggiato con la traduzione del Codice martiniano.
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EVENTO STORICO
Ironie della sorte: uniti in vita e in morte
ROGER GARFIELD / ALAMY / ACI
GIUSEPPE VELLA fu indubbiamente una
spina nel fianco per lo storico Rosario Gregorio, al punto che lo studioso imparò l’arabo solo per smascherare l’abate. È curioso che due personaggi così diversi e così nemici in vita condividano l’eternità. I due sono infatti sepolti nello stesso luogo: la cappella dell’Angelo Custode della chiesa di San Matteo di Cassaro, in corso Vittorio Emanuele a Palermo. Gregorio morì circa cinque anni prima di Vella. A lui è dedicato un busto marmoreo in stile barocco. All’abate falsario, invece, solamente una piccola lapide sotto un medaglione. LA CHIESA DI SAN MATTEO. AFFRESCO DEL SOFFITTO DELLA CHIESA PALERMITANA DOVE RIPOSANO I DUE PROTAGONISTI DELLA VICENDA.
Secondo le nuove lettere, la corona di Napoli poteva fare e disfare a suo piacimento in Sicilia. Gli scettici si fecero sempre più numerosi: oltre a Gregorio, che mosse le prime critiche negli anni precedenti alla pubblicazione del Codice di Sicilia, verso la fine del secolo altri pensatori iniziarono a mettere in dubbio la veridicità delle traduzioni dell’abate. Nel 1794, in occasione di un viaggio a Palermo, il docente di arabo dell’Università di Vienna Giuseppe Hager cercò di esaminare i codici originali ma, quando ne fece richiesta, l’abate rispose con un perentorio e inspiegabile diniego. L’ombra del sospetto si insinuava ormai su più fronti: sia Gregorio sia Hager erano decisi a smascherare l’inganno. Temendo uno scandalo internazionale, il re di Napoli Ferdinando IV decise di far luce sulla vicenda e incaricò Hager di portare avanti un’inchiesta formale. Di ritorno a Palermo, lo studioso esigette di 24 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
esaminare i codici. Vella mandò allora il suo segretario a nascondere i testi a casa di una nipote: il gesto aggravò ancora di più la sua posizione, giacché tutti considerarono questo maldestro tentativo di insabbiare la verità come una prova della sua colpevolezza. L’abate le provò tutte: implorò di potersi recare in Marocco per recuperare i codici e, quando anche questa strada si rivelò impossibile, si finse malato. Ma la sua era una malattia i cui sintomi si aggravavano o miglioravano e a mano a mano che le indagini sulla veridicità dei codici avanzavano oppure si arenavano. Tuttavia, i suoi tentativi furono vani: l’abate venne giudicato colpevole grazie alla confessione che i giudici riuscirono a ottenere, sotto minaccia di tortura, dal suo segretario. Il 29 agosto del 1796 venne rinchiuso nel castello di Palermo e condannato a 15 anni di carcere. Successivamente
si scoprì che il Codice martiniano era stato manipolato a tal punto da renderlo illeggibile. Per quanto riguarda il Consiglio d’Egitto, invece, Vella aveva addirittura fabbricato di sana pianta le lettere, i cui resti furono da lui bruciati insieme all’inchiostro per cercare di nascondere le prove. Gli sviluppi delle indagini colsero il falsario in carcere, mentre era alle prese con una lettera da inviare al re Ferdinando IV, al quale chiedeva la grazia. Anche se non gliela concesse, il sovrano autorizzò comunque il trasferimento di Vella nel suo casale di Mezzomonreale e la parziale restituzione dei suoi beni. Dopo aver ingannato mezza Europa e messo a rischio la legittimità della corona borbonica in Sicilia, Vella la spuntò ancora una volta: morì nel suo letto nel maggio del 1814, dopo 15 anni di arresti domiciliari. —Annalisa Palumbo
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V I TA Q U OT I D I A N A
Musei in casa: le camere delle meraviglie Nel XVI e nel XVII secolo si diffuse la moda delle collezioni private di opere d’arte, antichità e stranezze di ogni tipo politiche, intellettuali o professionali del proprietario, ma anche il suo status sociale ed economico. Era questo il caso dei collezionisti appartenenti alla famiglia reale o all’aristocrazia, nelle cui camere predominavano gli oggetti esotici, strani e difficili da trovare, che miravano a sorprendere il visitatore. Invece, i gabinetti degli umanisti, dei medici, dei farmacisti o dei filosofi erano più modesti e orientati all’attività scientifica: avevano, cioè, una spiccata finalità pratica.
Meraviglie naturali OLEG KUCHAR / ULMER MUSEUM
C
orni di unicorno, piante esotiche di terre lontane, strani uccelli, orologi di straordinaria precisione, opere d’arte. Sono solo alcuni degli oggetti esposti nei peculiari musei che sorsero nell’Europa del XVI e del XVII secolo. Si trattava di collezioni private di principi, aristocratici, ricchi borghesi o persone con inquietudini culturali che mettevano in mostra i propri pezzi rari in un’apposita sala della propria casa. In Italia questi spazi erano denominati “camere delle meraviglie”o“gabinetti delle curiosità”, ma spesso si utilizzava semplicemente il termine tedesco Wunderkammer. Trattandosi di collezioni private, si potevano visitare solo su invito del proprietario. L’organizzazione e l’arredamento della sala adibita all’esposizione degli oggetti erano molto studiati: il gabinetto delle curiosità non rispecchiava solo le aspirazioni
Queste collezioni si svilupparono a partire dalla curiosità per tutto quanto fosse insolito. Gli oggetti esposti erano classificati in due grandi categorie: le cose naturali – in latino naturalia –, ovvero tutti quegli animali, piante o minerali che si potevano trovare in natura; e le cose artificiali, artificialia, scimentale di conoscere e organizzare ossia le creazioni umane. Si manife- la realtà di un mondo che ampliava stava così il desiderio dell’uomo rina- costantemente i propri orizzonti. Secondo la cultura del Rinascimento, l’osservazione empirica del mondo naturale è più importante delle discutibili informazioni provenienti dagli autori classici, come quelle presenti QUESTO NAUTILUS è un tipico oggetto da canella Naturalis historia di Plinio il Vecmera delle meraviglie del XVII secolo. Cochio. Per questo motivo gli umanisti niuga il fascino delle cose naturali esotiche erano molto interessati ad acquisire – una conchiglia proveniente dalle regioni per le loro camere degli esemplari di tropicali d’oltreoceano – e la raffinatezza “arpiante, animali o minerali, a partire tificiale” della decorazione, opera dell’incisore dai quali creavano una tassonomia o olandese Cornelius van Bellekin. una rudimentale classificazione delle diverse specie naturali. Ciò non gli
ARTE E NATURA
JEAN-GILLES BERIZZI / RMN-GRAND PALAIS
GABINETTO D’ARTE della famiglia Dimpfel. Acquerello di Joseph Arnold. 1668. Museum Ulm (Germania).
impediva di interessarsi anche alle aberrazioni della natura, come i cervi con le corna deformi o le capre con due teste (fossero autentiche o false). Possedere una di queste stranezze accresceva il prestigio della propria camera delle meraviglie. La scoperta del Nuovo mondo e l’aumento dei contatti con l’Africa, con il Sud-est asiatico e con l’Estremo oriente fecero sì che il mondo naturale si arricchisse di nuove piante, animali e minerali fino ad allora sconosciuti. Chiaramente, non tutti i collezionisti riuscivano a entrare in possesso di questi esemplari. Tuttavia, il desiderio
Il museo privato di un mercante tedesco JOHANN DIMPFEL (1629-1669) era un ricco mercante della città
di Ratisbona (sud-est della Germania), la cui famiglia aveva fatto fortuna con la manifattura del ferro e con la produzione di armi. La sua camera delle meraviglie mostra come la nuova borghesia cercasse di emulare i modelli aristocratici. Il quadro qui sopra, dipinto nel 1668, presenta la collezione così com’era esposta nel gabinetto-studio della casa del mercante. Tra gli oggetti più importanti di Dimpfel spiccano i CANNONI e l’armatura storica, che rimandano
alla professione di famiglia. Inoltre, si possono osservare globi terracquei, CONCHIGLIE, porcellane cinesi, libri, sculture, orologi, un teschio (come memento mori, ovvero monito sull’ineluttabilità della morte), nonché vari quadri di nature morte, paesaggi e temi religiosi.
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UN RICCO MERCANTE regala nel 1617
al duca di Pomerania un bel gabinetto d’arte (il mobile fu distrutto durante la Seconda guerra mondiale). Olio di Anton Mozart. XVII secolo.
MET / SCALA, FIRENZE
di nominare, descrivere e rappresentare le nuove specie e confrontarle con quelle del continente europeo contribuì a far nascere una rete di scambio di informazioni tra collezionisti, che condividevano e verificavano i ritrovamenti. Fu così che si scoprì, per esempio, che i corni di unicorno, che avevano affascinato gli uomini del
Medioevo, erano in realtà di narvalo (un grosso cetaceo). L’unicorno finì quindi relegato all’ambito mitologico. Un grande esempio di Wunderkammer era lo studiolo di Isabella d’Este nel palazzo Ducale di Mantova. La marchesa raccolse numerosi oggetti da collezione, tra cui opere d’arte, reperti archeologici, monete e curiosità naturalistiche. Importante fu anche la collezione di Anna Maria Luisa de’Medici, figlia di Cosimo III e ultima erede diretta della sua dinastia. Il naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi, dal can-
Nei gabinetti si trovavano sculture in legno o avorio, automi, orologi e quadri COPPA REALIZZATA CON UNA NOCE DI COCCO INDIANA, DI HANS VAN AMSTERDAM. XVI SECOLO.
to suo, raccolse un vasto patrimonio di naturalia, oggi esposto a palazzo Poggi. Una camera fu esposta anche presso l’abbazia benedettina di San Martino delle Scale, nel palermitano.
Gli artificialia Nel corso del Rinascimento si sviluppò anche un grande interesse per la storia. Il mondo classico, in particolare quello dell’antica Roma, era sempre stato al centro dell’attenzione, pertanto molti collezionisti iniziarono ad acquistare monete, iscrizioni, sculture e utensili di epoca romana. Nei gabinetti si potevano trovare anche pezzi provenienti dall’antico Egitto, persino mummie, nonché oggetti personali appartenuti a personaggi storici. Il collezionismo del XVI, XVII e XVIII secolo incoraggiò così lo sviluppo dell’archeologia e della attività lucrativa di coloro che si
STAATLICHE MUSEEN / BRIDGEMAN / ACI
V I TA Q U OT I D I A N A
AKG / ALBUM
SCARABATTOLO della dinastia fiorentina dei Medici. Olio di Domenico Remps. Fine del XVII secolo.
dedicavano a una forma primitiva di commercio di antichità. Tra gli artificialia presenti in una camera delle meraviglie poteva esserci qualsiasi manufatto umano caratterizzato da un grande virtuosismo artistico o tecnico-scientifico. Si trovavano per esempio sculture di legno, avorio o corno di elevata complessità, sculture mobili, automi, orologi, astrolabi e opere degli artisti più famosi dell’epoca. Non vanno poi dimenticati gli arredi su cui erano esposte le collezioni, che potevano essere molto elaborati ed erano in genere dotati di vari cassetti e scompartimenti segreti. La camera in cui si esibiva la collezione era solitamente decorata con dipinti che andavano incontro ai gusti del collezionista. Lo studiolo di Francesco I de’ Medici a palazzo Vecchio (1570-1572), per esempio, conteneva all’incirca una
ventina di armadi disposti al centro della sala insieme a una scrivania e a una sedia, mentre le pareti e il soffitto erano sontuosamente decorati con dipinti a tema religioso, mitologico o scientifico.
in Olanda e in Germania affinché il popolo «vedesse e imparasse». Nel XVIII secolo molte collezioni di camere delle meraviglie andarono a costituire la base di un nuovo spazio espositivo: i musei. Queste istituzioni pubbliche segnarono la Dal gabinetto al museo democratizzazione della conoscenza Che fossero dedicate alle scienze na- e lo sviluppo dell’archeologia come turali o alle arti, queste camere delle disciplina scientifica, e allo stesso meraviglie erano il prodotto dell’e- tempo dimostrarono il potere politico poca umanistica, che si sforzava di dei nuovi stati nazionali. L’istituziocomprendere e organizzare le cono- nalizzazione delle collezioni finì per scenze relative al mondo naturale. far scomparire i gabinetti delle cuCon il passare del tempo i gabinetti si riosità. Ciononostante, la loro eredità aprirono gradualmente al pubblico, a si è conservata non solo in forma di volte con un esplicito scopo didattico. museo o di disciplina accademica, ma Nel 1719, per esempio, lo zar Pietro il anche nel modo in cui attualmente Grande creò in casa di un nobile di San ci rapportiamo con il passato e con il Pietroburgo un gabinetto pubblico mondo naturale. nel quale fece esporre le collezioni di —Mónica Ann Walker Vadillo storia naturale che aveva comprato STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GLI ARTISTI CHE DIPINSERO
I PITTORI DELL’ Gli artisti che decorarono le tombe dei faraoni avevano grandi abilità tecniche e
L’A L D I L À
EGITTO un canone di bellezza proprio
TOMBA DI TAUSERT E SETHNAKHT
I dipinti che decorano le pareti di questa tomba reale della Valle dei Re (XIX-XX dinastia) sono tra i meglio conservati d’Egitto. Le scene della camera funeraria sono tratte dal Libro delle porte; sui pilastri sono raffigurate varie divinità. ARALDO DE LUCA
U PITTORI DI SARCOFAGI
Nella tomba di Ipy, a Deir el-Medina, sono ritratti degli artigiani intenti a costruire e a dipingere sarcofagi di legno. UIG / ALBUM
na delle prime cose che vengono in mente quando si parla di arte egizia sono le pitture dai colori vivaci che ricoprono le pareti delle tombe. Tuttavia, gli autori di questi capolavori, ammirati ancora oggi, all’epoca non venivano considerati artisti. Anzi, nell’antico Egitto le parole “arte” e “artista” non esistevano affatto, ed era piuttosto raro che gli autori firmassero le proprie opere. Quelli che noi consideriamo artisti per gli egizi erano dei semplici artigiani, cui nel migliore dei casi veniva riconosciuto di essere “abili con le dita” o “con le mani”. A volte i pittori venivano anche chiamati “scribi del contorno”, un’espressione da cui trapela l’importanza che aveva il disegno nell’arte egizia, non solo all’interno della pittura ma anche della scultura e del bassorilievo. Nell’Egitto dei faraoni tutte le arti plastiche dovevano sottostare alle norme delle Case della Vita. Si trattava di centri didattici legati ai grandi templi e gestiti dai sacerdoti, dove venivano formati gli scribi – i cui segni grafici sono appunto disegni – e i professionisti d’ogni tipo, dai medici agli architetti. È interessante notare che i pittori apprendevano il mestiere dai padri e non nelle Case della Vita, anche se erano comunque obbligati a rispettare le regole di tali istituzioni. Gli scribi del contorno realizzavano opere di varia natura, dai bassorilievi sulle pareti dei templi alle sculture e ai sarcofagi di legno. Dipingevano anche migliaia di oggetti
C R O N O LO G I A
PITTURA, UN’ARTE MILLENARIA
appartenenti alle cosiddette “arti minori”, quali per esempio mobili o stele. Ciononostante, la loro attività principale era la pittura tombale. Sebbene spesso fossero imprecisamente considerati “decorativi”, i dipinti che compaiono sulle pareti delle cappelle funerarie o nei reconditi ambienti che ospitavano le mummie non avevano una finalità estetica. Rispondevano invece a una necessità più profonda, che andava oltre il tentativo di ricostruire gli spazi dov’era vissuto il defunto.
La magia delle immagini Per poter sopravvivere nell’aldilà, il ka – l’essenza vitale del morto – aveva bisogno di nutrirsi. A questo scopo i familiari e i sacerdoti funerari depositavano nella cappella della tomba offerte alimentari. Ma cosa sarebbe successo una volta che anche la famiglia del defunto si fosse estinta? Secondo i testi sacri, in questo caso il ka sarebbe stato costretto ad alimentarsi dei suoi stessi escrementi prima di scomparire definitivamente. Per scongiurare tale eventualità gli egizi ricorrevano alla magia (heka) della pittura o dei bassorilievi: era sufficiente rappresentare un oggetto perché questo diventasse reale. Tuttavia, per una vita eterna non sarebbe bastata la rappresentazione di una tavola imbandita, perché il cibo si sarebbe rapidamente esaurito: era necessario raffigurare tutto il processo di produzione alimentare. Così, a partire dall’Antico regno divenne abituale dipingere il ciclo completo del frumento:
PREDINASTICO 3500-3200 a.C.
ANTICO REGNO 2686-2173 a.C.
MEDIO REGNO 2040-1786 a.C.
NUOVO REGNO 1552-1069 a.C.
EPOCA ROMANA I sec. a.C.-I sec. d.C.
Viene eretta a Ieracompoli la tomba 100, la prima con pitture murali.
Sulle pareti delle mastabe vengono raffigurate scene religiose e di vita quotidiana.
Caratteristica di questo periodo è la pittura di sarcofagi e miniature.
Le tombe tebane di re e nobili sono riccamente decorate con pitture murali.
Le maschere funerarie di al-Fayyum sono adornate da ritratti naturalisti.
ARALDO DE LUCA
LA TOMBA DEL FARAONE SETI I
La tomba di Seti I nella Valle dei Re è una delle più belle d’Egitto. Le sue decorazioni dimostrano il grado di perfezione raggiunto dai pittori egizi durante la XIX dinastia. Nell’immagine, un pilastro su cui sono raffigurati il faraone e la dea Neith. ARALDO DE LUCA
LE OCHE DI MEIDUM. NOME CON CUI È CONOSCIUTO IL FREGIO DELLA TOMBA DEL VISIR NEFERMAAT (FINE DELLA III DINASTIA-INIZI DELLA IV), MEIDUM.
ARALDO DE LUCA
UNO DEI MIGLIORI ESEMPI DI PITTURA MURALE DELLA XIX DINASTIA (1305-1186 A.C. CIRCA) È LA DECORAZIONE DELLA TOMBA DI SENNEDJEM A DEIR EL-MEDINA. SULLA SINISTRA, SENNEDJEM E LA MOGLIE IYNEFERTI MIETONO E RACCOLGONO IL GRANO NEI CAMPI DI IARU, L’ALDILÀ DEGLI EGIZI.
la semina, la mietitura, la trebbiatura, fino allo stoccaggio nei silos. Lo stesso avveniva con la caccia e la pesca, in modo che al ka del defunto non mancassero fonti di sostentamento. Anche un’altra peculiarità dell’arte egizia – il gran numero di opere incompiute – era connessa all’universo magico. Si riteneva infatti che fosse sufficiente abbozzare una scena: a completarla ci avrebbe pensato la magia. Per gli antichi egizi la vita era continuità, e un’opera conclusa era un’opera morta. Invece, i lavori incompiuti indicavano che ci sarebbe stato un domani per ultimarli e simboleggiavano quindi la speranza in un tempo a venire. TAVOLOZZA DA PITTORE
Questa tavolozza di marmo della XVIII dinastia ha un cartiglio con il nome di Amenofi III e sei incavi per i pigmenti.
ALB
UM
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Secoli di evoluzione Nei tremila anni di storia dell’Egitto la tecnica e lo stile pittorici rimasero fondamentalmente gli stessi. Dai rudimentali tentativi effettuati nel corso della prima dinastia fino all’Antico regno non si registrarono cambiamenti apprezzabili. L’iniziale schematicità della pittura tornerà brevemente nel Medio regno, per poi lasciare nuovamente spazio al moderato realismo che dominerà tutte le rappresentazioni pittoriche di tombe e sarcofagi del Nuovo regno e delle successive fasi della civiltà egizia. Fu proprio nel corso del Nuovo regno che la pittura raggiunse il suo apice. Di particolare interesse per quanto riguarda quell’epoca sono i luoghi
di sepoltura degli operai che costruirono le tombe reali, situati nella necropoli del loro villaggio, Deir el-Medina. Molti di questi lavoratori dipinsero le proprie tombe di giallo, perché tale era il colore che si utilizzava anche nelle sale dei sarcofagi reali. Il giallo era infatti connesso all’incorruttibilità e all’eternità; era il colore dell’oro, la materia di cui erano fatti i corpi degli dei. Gli abitanti di Deir el-Medina dovevano essersi detti che se quel colore andava bene per i faraoni, sarebbe andato bene anche per loro. Con Amenofi III l’arte raggiunse un livello tecnico mai visto prima, ma la sua stessa precisione ne pregiudicò la capacità espressiva. Si ebbe un cambiamento con il suo successore, il figlio Akhenaton, promotore di un nuovo stile artistico che rappresentò una ventata di aria fresca in un’arte dominata da un eccessivo accademismo. Le foreste di papiri e le spighe di grano, che fino ad allora avevano obbedito alle leggi immutabili del parallelismo e della simmetria, adesso ondeggiavano sinuose al vento. Alla morte di Akhenaton e della moglie Nefertiti, l’arte ramesside – quella dei primi faraoni della XIX dinastia, fondata da Ramses I – seppe conservare la delicatezza che aveva ereditato dal periodo precedente. In ogni modo con questa tappa si concluse l’età dell’oro della pittura egizia; tutto quanto venne dopo non fu che un simulacro dei passati splendori. Né la pittura saita né quella tolemaica e, meno ancora, quella di epoca romana, avrebbero ritrovato la sensibilità che, salvo sporadiche eccezioni, aveva caratterizzato i periodi precedenti. MAITE MASCORT EGITTOLOGA
IONE: 4D NE
WS
Nella camera laterale spicca l’immagine della regina intenta a compiere offerte agli dèi Osiride e Atum seduti sul trono.
ILLUSTRAZ
Sul piano inclinato sono raffigurate delle scene di Nefertari in compagnia di varie divinità.
Nell’anticamera la regina compare in diverse posizioni di adorazione. Una scena rappresenta Nefertari che gioca al senet, un popolare gioco da tavolo.
Sui pilastri della camera funeraria la regina è raffigurata assieme ad alcune divinità e con dei simboli di resurrezione, come il pilastro djed.
Sulle pareti laterali compaiono i temibili guardiani delle porte che la regina deve attraversare per raggiungere l’aldilà.
LA TOMBA DI NEFERTARI, Grande sposa reale di Ramses II, situata nella Valle delle Regine, è una delle più grandi mai costruite per una sovrana. Si distingue dal resto delle tombe della XIX dinastia per la magnifica decorazione pittorica: contiene 5.600 metri quadrati di rappresentazioni dei rituali magici necessari per raggiungere l’aldilà. Le pitture della dimora eterna di Nefertari costituiscono uno dei pochi tentativi di conferire volume ai volti dei personaggi giocando con le sfumature cromatiche, in contrasto con la generale tendenza dell’epoca a usare una tonalità uniforme. Scoperte nel 1904, le pitture andarono incontro a un tale deterioramento che negli anni ottanta si rese necessario un restauro.
ARALDO DE LUCA
Scene dell’aldilà per Nefertari
NEFERTARI CON LA CORONA SHUTY SUL CAPO. IL VOLTO PRESENTA UN EFFETTO CROMATICO INSOLITO PER LA PITTURA DELL’EPOCA.
SPECIALE / PITTURA EGIZIA
RECIPIENTI CON VARI PIGMENTI USATI DAI PITTORI EGIZI. BRITISH MUSEUM, LONDRA. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
DI SOLITO I PITTORI tracciavano il profilo delle figure in rosso, quindi apportavano le opportune correzioni in nero e infine applicavano i pigmenti definitivi. La pittura egizia è sempre stata piatta: lo spazio racchiuso dal disegno iniziale veniva dipinto con un unico colore, senza usare sfumature (che avrebbero, per esempio, consentito di mettere in risalto i tratti del viso). Il “pennello” era un semplice calamo, una canna sottile simile a quella degli scribi, ma con la punta tagliata per trattenere la tinta. LA TAVOLOZZA DEI COLORI era molto limitata. Se si esclude il nero, ottenuto dalla combustione parziale della paglia di frumento, gli altri pigmenti erano di origine minerale. I blu e i verdi erano minerali di rame carbonati, come l’azzurrite o la malachite. I gialli e i rossi si ottenevano dalle varie ocre, molto abbondanti nella regione di Tebe; e i bianchi dal calcare, anche se la varietà più pura era l’huntite, un carbonato di calcio e magnesio. I PIGMENTI venivano sciolti in acqua con un po’ di resina di acacia, che ne facilitava l’adesione alla superficie dipinta; come fissatori si usavano l’albumina d’uovo e la cera. Si dipingeva su pietra, stucco di gesso, papiro e legno. A causa del clima secco, gli egizi non utilizzavano la pittura a fresco (che prevede di inumidire il supporto di gesso per consentire ai pigmenti di penetrare più in profondità).
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BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
L’uso dei colori
NEBAMON A CACCIA DI UCCELLI. LA SCENA, CHE HA COME PROTAGONISTA QUESTO ALTO FUNZIONARIO DELLA XVIII DINASTIA, RAFFIGURA CON GRANDE REALISMO LA FLORA E LA FAUNA DELLE PALUDI DEL DELTA DEL NILO. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
BASSORILIEVO INCOMPIUTO DELLA TOMBA DI HOREMHEB, NELLA VALLE DEI RE.
DEA / SCALA, FIRENZE
SPECIALE / PITTURA EGIZIA
Il canone egizio
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W. FORMAN / BRIDGEMAN / ACI
gli egizi suddivisero la figura umana in diciotto quadrati, dalla pianta dei piedi all’attaccatura dei capelli. Tale suddivisione è nota come canone egizio. Durante l’epoca dell’eresia di Amarna, 1300 anni più tardi, il canone passò a includere venti quadrati, che divennero poi ventuno nel Periodo tardo e in quello tolemaico. NEL CORSO DELLA SUA SPEDIZIONE in Egitto del 1842, l’egittologo tedesco Karl Richard Lepsius osservò a Saqqara che già durante l’Antico regno i disegni delle tombe venivano realizzati su una griglia sottostante. Karl Richard Lepsius fu il primo a studiare tale tecnica. Nelle rappresentazioni dell’essere umano sia le gambe sia il volto venivano raffigurati di lato, mentre il busto, le spalle e gli occhi frontalmente. ALCUNI ARTISTI SPICCAVANO per la loro maestria. Le pitture murali incompiute sono quelle che meglio permettono di apprezzare le diverse abilità tecniche dei realizzatori. Se gli artigiani meno capaci utilizzavano la griglia, infatti, i più bravi eseguivano direttamente il disegno iniziale e non apportavano più correzioni (gli storici dell’arte le chiamano “pentimenti”). Una volta che il lavoro veniva completato non era più possibile osservare con chiarezza come era stato realizzato, perché i pentimenti venivano coperti con degli strati di colore.
HERBERT M. HERGET / BRIDGEMAN / ACI
A PARTIRE DALLA III DINASTIA (2686-2613 a.C.)
BASSORILIEVO DELLA TOMBA DI HOREMHEB. ACCANTO, IL DISEGNO PREPARATORIO PER UN ALTRO BASSORILIEVO.
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1 Questo disegno mostra alcuni artigiani egizi che si apprestano a decorare la parete di una tomba. Mentre uno prepara i pigmenti 1, due tracciano la griglia sul muro 2 e un terzo vi realizza sopra il disegno preliminare 3.
P I G M E N T I E CO LO R I Gli artigiani egizi usavano delle tavolozze come quella di basalto qui accanto per schiacciare e mescolare i pigmenti, ottenendo così i vari colori. La maggior parte dei pigmenti era di origine minerale. La scelta dei colori rispondeva a considerazioni di ordine religioso o dipendeva dai materiali disponibili. Di solito si utilizzavano sei tinte di base: bianco, nero, rosso, giallo, verde e blu. Nell’immagine si vedono l’ocra rosso, usato per dipingere la pelle delle figure maschili, e varie tonalità di azzurro.
TAVOLOZZA PER MESCOLARE I COLORI, PENNELLO E PIGMENTI. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. BRIDGEMAN / ACI
SPECIALE / PITTURA EGIZIA
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NON SEMPRE LE OPERE MIGLIORI della pittura egizia erano di grande formato. Oltre a eseguire prove dei loro lavori principali (come d’altronde hanno sempre fatto gli artisti di tutte le epoche) i pittori egizi realizzavano anche dei dipinti in formato ridotto, più intimisti, che uscivano dagli schemi generali e che oggi consentono di apprezzarne al meglio il talento. In genere gli artisti non potevano permettersi di dipingere sui costosi papiri, che erano monopolio dello stato. Quindi ricorrevano a materiali di scarto, come gli ostraka (frammenti di ceramica) o a delle piccole lamine di calcare. Se in molti casi le immagini realizzate sugli ostraka erano semplici disegni, non mancano esempi di autentici capolavori, variopinti e dai colori brillanti. UNO DEGLI ESEMPI più famosi in questo senso è la figura di una giovane danzatrice ritratta in posizione acrobatica 4. Nonostante un certo convenzionalismo, colpisce la sicurezza del tratto con cui è definito il corpo snello della ragazza e la grazia della chioma di riccioli scuri (sebbene l’orecchino sembri sfidare le leggi di gravità). Un’altra splendida testimonianza è quella di una donna dalla folta capigliatura nera 3 , rappresentata frontalmente – una prospettiva non abituale per l’arte egizia –, che sembra riposare accanto al suo liuto in una postura suggestiva e insolita.
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1. METROPOLITAN MUSEUM / SCALA, FIRENZE; 2. DEA / SCALA, FIRENZE; 3. ARALDO DE LUCA; 4. DAGLI ORTI / AURIMAGES; 5. ARALDO DE LUCA; 6. ALBUM
Piccoli capolavori Illustrazioni: 1 Studio di un uccello. Ostrakon proveniente da Deir el-Bahari. Met, New York. 2 Un babbuino raccoglie frutti da una palma sotto lo sguardo attento di un uomo. Deir el-Medina. Louvre. 3 Una ragazza riposa accanto al suo liuto. Deir elMedina. Museo egizio, Il Cairo. 4 Danzatrice in posizione acrobatica. Deir el-Medina. Museo egizio, Torino. 5 Due giovani intenti a lottare. Ostrakon della tomba di Ramses VI. Museo egizio, Il Cairo. 6 Ippopotamo di Deir el-Bahari. Met, New York.
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AKHENATON E NEFERTITI IN UN BASSORILIEVO DI AMARNA. BROOKLYN MUSEUM.
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SPECIALE / PITTURA EGIZIA
IL RE AKHENATON e la moglie Nefertiti sostituirono il culto della principale divinità egizia, Amon, con quello di Aton, il disco solare (Ra), in onore del quale fondarono una nuova capitale: Akhetaton, l’attuale Amarna. Questa rivoluzione religiosa ebbe un impatto sulla società a tutti i livelli, incluso quello artistico. A sorprendere non è tanto il cambiamento di proporzioni nella figura umana, quanto il fatto che ad apparire deformato sia lo stesso Akhenaton, rappresentato con un cranio oblungo e stretto (una modifica che interessa anche la regina Nefertiti e le figlie) e dei fianchi prominenti, che gli davano un aspetto androgino. Oltre alla fama dei suoi eccessi, la sovrana lasciò ai posteri il suo splendido busto, oggi conservato a Berlino, i cui morbidi colori conferiscono un gran fascino al volto . NEL SITO DI AMARNA gli archeologi hanno scoperto alcune pitture del palazzo reale che permettono di osservare la delicatezza dell’arte di quel periodo, come nella scena in cui le due giovani principesse 1 sembrano conversare animatamente tra tappeti e cuscini. Un altro esempio di realismo è visibile in varie porzioni di pavimento in gesso dipinto, nelle quali alcune anatre svolazzano tra fiori di loto e papiro 3. Si tratta di composizioni piene di vita, dai colori intensi ed estremamente luminose, come ci si potrebbe aspettare da una cultura che adorava il sole.
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DEA / SCALA, FIRENZE
Un cambio di stile
Illustrazioni: 1 Ashmolean Museum, Oxford. 2 Brooklyn Museum, New York. 3 Museo egizio, Il Cairo.
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SCALA, FIRENZE
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ERICH LESSING / ALBUM
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L A VI TA A D A M A R N A L’arte di Amarna ha lasciato delle immagini di Akhenaton, Nefertiti e le figlie molto diverse dalle precedenti rappresentazioni della famiglia reale egiziana. Abbondano i gesti amorevoli dei sovrani nei confronti delle principesse, come in questo frammento di un bassorilievo di Amarna 2. La regina Nefertiti è ritratta in un atteggiamento affettuoso verso la figlia maggiore, la principessa Merytaton, mentre entrambe ricevono la benedizione dei raggi del dio Aton, rappresentati da una mano che sorregge un ankh, simbolo della vita e dell’eternità.
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DAGLI ORTI / AURIMAGES
SPECIALE / PITTURA EGIZIA
JEAN-FRANÇOIS CHAMPOLLION, lo studioso francese che decifrò la scrittura egizia, affermava che le pitture tombali non erano altro che geroglifici colorati. Alcune immagini sembrerebbero confermare quest’ipotesi, come nel caso delle decorazioni funerarie del visir Ramose. NELLE TOMBE VENIVANO DEPOSITATE offerte di cibo, bevande, unguenti e vestiti che permettevano all’essenza vitale del defunto, il ka, di sopravvivere nell’aldilà. Il ka veniva rappresentato tramite il geroglifico , che in questa tomba è formato dai profili di varie figure umane: le prefiche, ovvero le donne che si affliggono per la morte del defunto. Se il pittore ha collocato la maggior parte delle donne rivolte verso sinistra, ne ha disegnate anche tre orientate in senso contrario: in questo modo l’intrecciarsi delle braccia compone il geroglifico ka 2. È una maniera indiretta per indicare che quanto viene depositato nella tomba è destinato al ka di Ramose. IN ALTRI CASI la pittura descrive alcuni aspetti della vita degli antichi egizi. Nella tomba del funzionario Nakht, per esempio, la scena di un banchetto 1 illustra la complicità tra due delle invitate, una delle quali offre un frutto di mandragora alla vicina. Questa, per non rifiutare, nasconde il pomo che a sua volta ha in mano, mentre con gesto affettuoso accetta quello che le viene offerto dall’amica.
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DAGLI ORTI / AURIMAGES
Ben oltre la pittura
LA TOMB A D I N AKHTAMON Il sacerdote Nakhtamon era il supervisore dell’altare del tempio funerario di Ramses II. La sua tomba è decorata con scene uniche, di pregiata fattura, che mostrano il defunto nelle sue mansioni quotidiane. Tra queste rientravano l’organizzazione della processione che tutti i giorni effettuavano i sacerdoti addetti al culto del re deceduto e la distribuzione delle offerte sugli altari 3.
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IL TESORO DI ATREO
P. EASTLAND / ALAMY / ACI
Un’enorme falsa volta domina la camera funeraria di questa tomba micenea del XIV secolo a.C., la piÚ grande conservatasi fino a oggi. Nella pagina seguente, anello miceneo in oro con scena di caccia. Museo archeologico nazionale, Atene.
LE TOMBE DEI GUERRIERI
MICENE La più importante città del mondo miceneo ha lasciato sepolcri monumentali e splendidi corredi funebri consacrati ai suoi guerrieri, gli stessi che Omero cantò nell’Iliade
DEA
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LBU
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MICENE Palazzo
CITTADELLA DI MICENE ALL’EPOCA DELL’APOGEO DELLA CIVILTÀ MICENEA.
del potere del re nonché l’espressione di un sistema di governo centralizzato, che controllava la redistribuzione dei beni e l’approvvigionamento di alimenti (grano, olio, miele, capi di bestiame…), materie prime (metalli, pelli, tele…) e manufatti (dalle armi ai mobili).
Porta dei Leoni Circolo di tombe A
Centro di culto
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Armi per i nobili
MAR NERO
Troia A S I A Micene
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TRACI A Ellesponto (Dardanelli)
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AREA AMPLIATA
Monte Olimpo
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MICENE
Midea Argo Tirinto PELOPONNESO Navarino Sparta
Orcomeno Tebe Lefkandi Eretria Aulide Atene
Tenedo
MARE EGEO
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TROADE
Lesbo
Mykonos
C I C L A DI
Cerigo
Creta
Cnosso
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NGS MAPS
UNA DEA MICENEA
Questo oggetto d’oro che rappresenta una dea con le braccia aperte, circondata da una decorazione vegetale, fu ritrovato in una tomba del Circolo A di Micene. Museo nazionale, Micene.
L’
antica Micene è conosciuta per aver dato il nome alla civiltà che dominò la Grecia continentale e le isole dell’Egeo tra il 1600 e il 1200 a.C. circa. L’Odissea, e soprattutto l’Iliade, i poemi epici attribuiti a Omero, descrivono la Grecia di quell’epoca come una terra divisa in piccoli regni, ognuno dei quali era organizzato attorno a una città principale, che era protetta da una poderosa fortezza. Qui risiedevano l’aristocrazia guerriera e il sovrano che viveva a palazzo. La maggior parte della popolazione si dedicava all’agricoltura, all’allevamento e ai lavori artigianali. Lo strato più basso della società era rappresentato dagli schiavi. Il palazzo era il nucleo
Nel tentativo di ricostruire la vita quotidiana della popolazione di Micene, gli archeologi hanno effettuato scavi tra i resti del palazzo e delle case, ma non sono riusciti a ottenere molte informazioni. Invece le varie tombe ritrovate in città hanno consentito di conoscere non solo le pratiche funerarie di quegli antichi greci, ma anche un aspetto di grande importanza della loro mentalità: la cultura militare e guerriera. I corredi funerari maschili ritrovati a Micene spiccano infatti per la grande abbondanza di armi, di solito in bronzo. Sono state rinvenute spade di diverse lunghezze accuratamente decorate, daghe, archi e frecce, nonché lance con punte di silicio o di ossidiana, un minerale che può essere più affilato del metallo. Le pitture, poi, rivelano che i guerrieri micenei si proteggevano con grandi scudi rettangolari o a forma di otto – purtroppo non conservatisi – che si fabbricavano sovrapponendo vari strati di pelle lavorata. Chi poteva permetterselo si procurava il caratteristico elmo miceneo a zanne di cinghiale, mentre gli altri dovevano accontentarsi di un casco di cuoio. Anche se le armi dei corredi funebri erano in genere cerimoniali, e quindi non usate precedentemente in combattimento, recenti studi antropologici delle ossa ritrovate nelle tombe hanno confermato la natura fondamentalmente guerriera della cultura micenea: molti degli individui sepolti presentavano
C R O N O LO G I A
ASCESA E CADUTA DI MICENE
AKG / ALBUM
1650 a.C.
1500 a.C.
Inizio del Periodo neopalaziale. Si sviluppano i circoli funerari, che rimarranno in uso per circa 250 anni.
A Micene viene costruita la prima tomba a cupola (tholos) nota come Tomba di Egisto. Poco dopo è eretta la Tomba di Clitennestra.
L’INGRESSO DEL TESORO DI ATREO
Le tombe di tipo tholos sono caratterizzate dalla presenza di un dromos, un lungo corridoio di accesso a cielo aperto fiancheggiato da conci di pietra sempre più grandi a mano a mano che ci si avvicina all’entrata, come si può notare in questa foto del Tesoro di Atreo.
1450 a.C.
1300 a.C.
1250 a.C.
1100 a.C.
Inizia il Periodo palaziale, un grande momento di ascesa ed espansione della cultura micenea in tutto il Mediterraneo.
Viene costruito il tholos noto come Tesoro di Atreo o Tomba di Agamennone, una pietra miliare dell’architettura micenea.
Viene ampliata la muraglia che circonda il Circolo funerario A della cittadella di Micene e viene costruita la porta dei Leoni.
Palazzo e mura della città sono distrutti dagli invasori. Il colle su cui sorgevano continuerà a essere abitato in epoca storica. HERCULES MILAS / ALAMY / ACI
Il trono degli Atridi IL PREDOMINIO DI MICENE in Grecia affon-
CLITENNESTRA ESITANTE PRIMA DI UCCIDERE AGAMENNONE ADDORMENTATO. OLIO DI PIERRE-NARCISSE GUÉRIN, XIX SECOLO.
da le sue radici mitiche nella famiglia degli Atridi e nella guerra di Troia. Atreo fu sovrano di Micene e padre del leggendario Agamennone, che comandò gli eserciti diretti a Troia alla ricerca di Elena. Il conflitto si protrasse per dieci anni e il sovrano pagò cara la lunga assenza. Al suo rientro vittorioso a Micene fu ucciso dalla moglie Clitennestra, che nel frattempo aveva iniziato una relazione con Egisto, cugino del re. La donna si vendicava così del fatto che Agamennone avesse sacrificato la loro figlia, Ifigenia, per placare i venti contrari che impedivano la partenza delle navi per Troia. Solo più tardi Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, chiuderà il cerchio delle vendette uccidendo sua madre ed Egisto, che aveva usurpato il trono di Micene.
ERICH LESSING / ALBUM
SCHLIEMANN, DA TROIA A MICENE Dopo aver scoperto la leggendaria Troia, Heinrich Schliemann (qui sotto) effettuò degli scavi a Micene, dove credette di aver individuato i resti dell’Atride Agamennone.
GRA NGE
segni di violenza come ferite mortali alla testa, fratture alle gambe o vertebre spezzate, indizi di una lunga storia di battaglie. Purtroppo non ci sono molte informazioni sulle guerre di quell’epoca: non si sa se le città micenee fossero in lotta tra loro o contro un nemico esterno. Nonostante questo, l’abbondanza di armi ritrovate nelle tombe dimostra che l’attività bellica era parte essenziale di questa cultura. Lo stesso emerge dalle fonti letterarie, in particolare dall’Iliade di Omero, dove i contendenti lottano l’uno contro l’altro per impadronirsi delle armi dell’avversario. Non fa eccezione neppure lo scontro tra greci e troiani per il corpo senza vita di Patroclo, l’amato compagno di Achille, raccontato nel XVII canto del poema epico. Dopo un’intera giornata di combattimenti per recuperare il suo cadavere, che era rimasto nelle mani dei troiani, Menelao esorta i suoi compagni con queste parole: «Affrettiamoci in difesa di Patroclo, riportiamo ad Achille almeno il nudo corpo, giacché le sue armi ormai sono in mano di Ettore». Il
principe troiano era quindi riuscito a impadronirsi degli armamenti del guerriero greco sconfitto.
La sepoltura di un combattente Il funerale di Patroclo dà adito a un’ampia descrizione di quella che doveva essere la sepoltura di un guerriero in epoca micenea. Nel XXIII canto dell’Iliade Omero racconta che, dopo aver pianto la morte dell’amico, Achille decide di vendicarlo e promette di non dargli sepoltura prima di aver ucciso Ettore e averlo spogliato delle sue armi, cosa che avverrà solo alcuni giorni più tardi. Quando finalmente si compie la vendetta, Patroclo appare in sogno ad Achille e lo prega di seppellirlo «al più presto, per poter varcare le porte dell’Ade, poiché gli spiriti, le ombre dei morti, me ne tengono lontano, e non mi permettono di unirmi a loro sull’altra sponda del fiume; ma vago senza meta davanti alle ampie porte dell’Ade». I greci credevano che, se un morto non veniva sepolto, non poteva ottenere il riposo eterno nel regno dei morti: per questo una cerimonia adeguata rivestiva tanta
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MASCHERE MORTUARIE
All’esterno della cittadella di Micene, a pochi metri dalla porta dei Leoni, fu ritrovato un circolo di tombe (Circolo A) in cui giacevano 35 corpi, sei dei quali avevano il volto coperto con maschere funerarie in oro. Quella in alto a sinistra è nota come “maschera di Agamennone”, perché fu attribuita da Heinrich Schliemann al mitico re di Micene.
FOTO: SCALA, FIRENZE
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA TOMBA REALE DI AGAMENNONE? Questo tholos, conosciuto tradizionalmente come la Tomba di Agamennone o il Tesoro di Atreo, è il meglio conservato di tutta Micene. Il tumulo funerario supera in dimensione i nove più antichi scoperti a Micene e vi sono sepolti i membri importanti della società micenea, anche se probabilmente nessuno dei guerrieri che combatterono a Troia.
La facciata superava i dieci metri di altezza. L’ingresso della camera era il punto più delicato della costruzione: il triangolo di scarico alleggeriva il peso che gravava sull’architrave, già di per sé molto pesante (120 tonnellate), distribuendolo sugli stipiti.
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1 C O R R I D O I O D I AC C E S S O L’entrata del tholos e la porta di accesso alla camera erano unite dal dromos, un corridoio di 36 m di lunghezza per 6 di larghezza, che in prossimità della tomba si stringeva e aumentava in altezza.
ILUSTRACIÓN: RISE STUDIO
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Anche una piccola camera di 6 m2 sul lato nord, cui si accedeva tramite una piccola porta, era dedicata a riti funebri.
Il corpo del defunto veniva collocato a terra, circondato dal suo corredo funerario. Il tholos era una forma di sepoltura collettiva e prevedeva che i morti più datati lasciassero spazio a quelli più recenti.
2 C A M ER A S EPOLCR A LE Il thalamos era a pianta circolare, misurava 14 m di diametro per 13 di altezza e culminava con una falsa volta. Le pareti erano rivestite di gesso e lastre di bronzo.
3 FA L S A VO LTA La volta era costituita da 33 file concentriche di conci – collocati in modo da avvicinarsi sempre più gli uni agli altri – che formavano una falsa cupola.
4 TUMU LO Per rafforzare la costruzione ed evitare che la cupola crollasse, fatto probabilmente non insolito nei primi tholoi, questa veniva ricoperta di terra, formando un tumulo.
delle gare cui partecipano i capi greci, che si cimentano in discipline come la corsa a piedi, il pugilato, il lancio del peso o il tiro con l’arco. Oggi sappiamo che questo tipo di competizioni funerarie rappresentò il germe da cui si sarebbero sviluppati i Giochi panellenici organizzati a Olimpia e negli altri santuari della Grecia. Il racconto del funerale di Patroclo nell’Iliade è in apparente contraddizione con ciò che sappiamo delle usanze funebri di Micene, dove non sono stati trovati resti di alcuna cremazione funeraria, pratica che sarebbe diventata abituale in Grecia solo alla fine del periodo miceneo. Si è ipotizzato che, in tempi di guerra e lontani da casa, i guerrieri micenei cremassero i compagni caduti in attesa di poter riportare poi più facilmente i loro resti in patria, a meno che non si tratti di un semplice anacronismo introdotto dal poeta in epoca successiva.
FUNKYSTOCK / AGE FOTOSTOCK
LA PORTA DEI LEONI
È l’entrata monumentale alla cittadella di Micene. Sull’architrave (di 20 tonnellate di peso) si trova un blocco di pietra decorato con due leoni rampanti in rilievo appoggiati a una colonna.
importanza. Il racconto dell’Iliade continua con il momento del banchetto funebre in onore di Patroclo e la preparazione della pira funeraria, accanto alla quale vengono sacrificati vari buoi e pecore, quattro cavalli, due cani e dodici guerrieri troiani uccisi per l’occasione. Vicino alla pira vengono collocati anche otri di miele e olio, e i guerrieri greci si tagliano le chiome in segno di lutto. Una volta conclusa la cremazione, le ossa di Patroclo sono depositate in un’urna d’oro, dove rimarranno in attesa della morte di Achille, perché i due amici avevano espresso il desiderio di riposare insieme nella stessa tomba. Alla fine di questi rituali Achille organizza
Nei corredi del Circolo A furono ritrovati armi, gioielli e maschere funerarie d’oro SCA
BRACCIALETTO D’ORO RINVENUTO NEL CIRCOLO A DI MICENE.
LA , FIR
La cosa certa è che per i micenei la morte aveva un’importanza fondamentale. Ciò emerge dalla quantità di tempo, sforzi e ricchezze che l’aristocrazia micenea investì nella costruzione di monumenti funebri. Nel corso del tempo le pratiche funerarie micenee acquisirono diverse forme. In una prima fase troviamo gruppi di tombe a fossa, ognuna contraddistinta da una stele e successivamente recintata da un muro: per questo sono state denominate “circoli funerari”. Nel 1876 Heinrich Schliemann, già celebre per la scoperta di Troia, effettuò degli scavi nell’area conosciuta come Circolo A, situata all’interno del perimetro delle mura della cittadella. Tra i ricchi corredi funerari delle sei tombe a fossa rinvenute (che contenevano 19 corpi), l’archeologo tedesco trovò un gran numero di armi e gioielli, nonché diverse maschere mortuarie in oro, come la famosa “maschera di Agamennone” che Schliemann attribuì al mitologico re di Micene. Il cosiddetto Circolo B, situato al di fuori delle mura (e scavato tra il 1951 e il 1952 dall’archeologo A. J. B. Wace) conteneva invece 14 tombe a fossa e 12 inumazioni semplici, per un totale di 35 corpi. I cadaveri di entrambi i circoli giacevano di schiena e i corpi, sia di uomini sia di donne, erano più
DA SOPRA A SOTTO: SCALA, FIRENZE; AGE FOTOSTOCK; SCALA, FIRENZE; ALBUM
Tipi di tombe
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IL CORREDO FUNEBRE DI UN GUERRIERO nelle tombe dell’élite micenea, sia maschile sia femminile, sono stati ritrovati magnifici corredi funerari: tra i vari oggetti spiccano gioielli e altri ornamenti personali, bicchieri e coppe d’oro, d’argento e di bronzo, sigilli di tipo minoico con decorazione micenea e perle di ambra provenienti dall’Europa centrale. Nelle tombe appartenenti ai guerrieri spiccano alcuni insiemi di armi, tra i quali si trovano spade di differenti dimensioni, punte di lancia o di frecce, daghe e coltelli di bronzo con fili decorati che rappresentano scene di guerra e di caccia di leoni – un tema molto apprezzato dalla nobiltà micenea – o con motivi geometrici e scene marine, che denotano un’influenza cretese. Le impugnature e le else presentano incrostazioni d’oro, d’avorio o d’alabastro.
DAGHE MICENEE
La prima che viene mostrata qui sopra è decorata con motivi marini; quella di mezzo con una caccia ai leoni con lance e scudi, e quella più in alto con dei leoni che corrono. XVI secolo a.C. Museo archeologico nazionale, Atene.
ELMO A ZANNE DI CINGHIALE
«Gli coprì la testa con un elmo di cuoio che all’interno era sostenuto da robuste cinghie, e all’esterno era coperto dalle zanne bianche di un cinghiale». Così Omero descrive nell’Iliade il tipico elmo miceneo, come questo, conservato nel Museo archeologico di Atene.
RHYTON IN ARGENTO CHE RIPRODUCE UNA SCENA DI ASSEDIO A UNA CITTÀ. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, ATENE.
Guerrieri in azione TRA GLI OGGETTI ritrovati nei corredi funerari del Circolo A c’è un rhyton (un boccale usato per bere o fare libagioni) in argento, risalente al XVI secolo a.C. L’immagine del bassorilievo mostra un gruppo di soldati che assediano una città fortificata, schierati in formazione ordinata e secondo una precisa tattica di combattimento: si possono vedere guerrieri con la spada, arcieri e scudieri suddivisi in gruppi. QUESTO TIPO DI RAPPRESENTAZIONE di un
esercito schierato è importante perché è molto distante dal racconto dell’Iliade, dove dominano i combattimenti a due e un tipo di formazione che ricorda un’armata da incursione e razzia. Questo potrebbe indicare che, in realtà, i guerrieri micenei combattevano in modo molto più moderno rispetto a quanto facessero gli eroi omerici. DEA / AGE FOTOSTOCK
COPPA CON LEONESSA Questo rhyton a forma di testa di leonessa è un esempio della ricchezza di alcuni corredi funerari ritrovati nelle tombe del Circolo A di Micene. MAN, Atene.
grandi e più robusti di quelli ritrovati in altre necropoli più semplici della città. Per quanto il dibattito sia ancora aperto, questo potrebbe indicare che si trattava di persone di una classe sociale più elevata, quindi con un’alimentazione migliore e cure più adeguate per affrontare la vecchiaia e le malattie.
Una nuova moda
BRIDGEMA N/A
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Attorno al 1500 a.C. le famiglie aristocratiche di Micene decisero di seguire una nuova moda funeraria, che implicava un maggior investimento in termini di lavoro e denaro: i cosiddetti tholoi (tholos al singolare), un tipo di tomba monumentale consistente in una camera sepolcrale sotterranea in pietra a pianta circolare, sormontata da una falsa volta, cui si accedeva tramite un lungo corridoio (dromos) che si restringeva in prossimità dell’entrata. Le ragioni del cambiamento si dovettero al fatto che il nuovo tipo di monumento raffigurava in modo ancor più evidente il potere e la ricchezza della famiglia. Inoltre, i tholoi
avevano il vantaggio di essere molto più facili da riutilizzare: infatti era sufficiente aprire una porta per seppellire insieme vari membri della famiglia, mentre le tombe a fossa richiedevano di procedere ogni volta a nuovi scavi. A Micene sono stati ritrovati nove tholoi appartenenti a diverse epoche. Il geografo greco Pausania, che visitò il luogo nel II secolo d.C., vide molte di queste costruzioni ancora in piedi, anche se per la maggior parte erano state saccheggiate e depredate. Le attribuì a personaggi della mitologia greca, come Clitennestra, Egisto o Agamennone. Secoli più tardi Heinrich Schliemann visitò il sito archeologico di Micene con il libro di Pausania come guida e, senza esitare, riconobbe nel Tesoro di Atreo il tholos più spettacolare e meglio conservato dell’antica città. In realtà i nobili qui sepolti erano vissuti secoli prima della Guerra di Troia. Ciononostante, le loro gesta potrebbero essere state le ispiratrici del celebre poema omerico. MIREIA MOVELLÁN LUIS UNIVERSITÀ DI VALENCIA
CIRCOLO TOMBALE A
HERCULES MILAS / ALAMY / ACI
Situato all’interno della mura della cittadella di Micene, questo complesso funerario era composto da sei tombe a fossa datate tra il 1600 e il 1500 a.C.
IL CIRCOLO TOMBALE DELLA
Questo complesso funerario, situato all’interno della cittadella di Micene,
La muraglia era del XIII secolo a.C., di epoca successiva al circolo. Il percorso delle mura disegnava una curva in modo da rimanere all’interno della cittadella.
Un gruppo di lastre delimita le tombe sotterranee e le stele di superficie del Circolo A.
ILLUSTRAZIONE: RISE STUDIO
Le stele funerarie potevano essere lisce o presentare diversi tipi di iscrizioni e decorazioni.
Il Circolo di tombe A era situato su una terrazza artificiale.
CITTADELLA
venne riportato alla luce da Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia
Sotto questa stele fu sepolto, in una tomba collettiva, un personaggio con un ricco corredo funebre, il cui oggetto più famoso è la cosiddetta “maschera di Agamennone”.
Accanto al circolo funerario sorgeva un magazzino di granaglie di medie dimensioni, in cui si conservavano alimenti quali frumento, carrube e orzo.
TOMBE OCCULTE Sotto terra furono costruite sei tombe a fossa, nelle quali vennero realizzate varie inumazioni: ogni stele corrispondeva a una persona. Le fosse si trovavano nel lato ovest perché era la parte più idonea del pendio (il circolo fu aggiunto più tardi).
Si accedeva allo spazio funerario tramite una semplice entrata, situata a pochi metri dalla porta dei Leoni.
IL FORO E IL CAMPIDOGLIO
Il panorama mostra gli edifici del foro romano e, sulla destra, il tempio di Giove Capitolino ai tempi di Augusto. Musée d’Orsay, Parigi. In basso a destra, busto di Giove. Musei Vaticani, Roma.
LA DIMORA DI GIOVE
L’ORIGINE DEL CAMPIDOGLIO
Su uno dei sette colli di Roma sorgeva un maestoso tempio dedicato a Giove. Impreziosito dalle offerte di romani e stranieri, il santuario fu scenario di avvenimenti politici di grande rilievo
S. BALDINI / BRIDGEMAN / ACI
HERVÉ LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS. COLOR: SANTI PÉREZ
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l monte Capitolino ha da sempre rivestito un posto privilegiato nella città di Roma. Con i suoi 47 metri di altezza sul livello del mare era il punto più elevato dell’urbe e si trovava strategicamente tra la valle del foro e il Tevere. Inoltre, si presentava come un bastione inespugnabile grazie ai pendii quasi verticali e alla cima (arx), dalla quale era separato mediante una leggera depressione, l’asylum. Non sorprende affatto, dunque, che il Campidoglio noto che Tarpeia era il nome della divinità tutelare del colle, conosciuto originariamente come monte Tarpeo. Il toponimo si conservò tuttavia soltanto per indicare la rupe situata ai piedi dell’arx, da cui venivano fatte precipitare le persone che venivano condannate a morte per omicidio o tradimento.
Il maestoso tempio di Giove Con l’arrivo degli etruschi a Roma, nel 616 a.C., il monte Tarpeo iniziò a trasformarsi nel centro religioso della città, luogo scelto dai sovrani per ostentare il proprio potere. Fu costruito sul colle il primo tempio dell’urbe, consacrato alla triade capitolina, costituita da Giove Ottimo Massimo, dalla sposa Giunone e dalla figlia Minerva. Nella Storia di Roma Tito Livio narra che il primo re etrusco della città, Tarquinio Prisco, si era impegnato con un votum sacro a erigere il tempio se fosse tornato vittorioso dalla guerra contro i sabini, come poi accadde. I lavori di costruzione iniziarono effettivamente con Tarquinio Prisco, ma fu il figlio Tarquinio il Superbo a portare a termine
MUSEI CAPITOLINI, RICOSTRUZIONE ILLUSTRATIVA INKLINK
sia divenuto la sede di alcuni tra i più importanti templi di Roma. Oggi sappiamo che il colle era abitato sin dai secoli XIV e XIII a.C., ovvero nell’età del bronzo. Un’antica tradizione attribuiva al dio Saturno, figlio di Urano, la creazione di un insediamento, ancor prima della fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo. Una leggenda tramandata da Tito Livio racconta che i primi romani costruirono una rocca in cima al monte. Secondo questa tradizione, durante la guerra contro i sabini, Tarpeia, vergine vestale e figlia del comandante della cittadella, accettò la ricompensa offerta dal re sabino Tito Tazio e aprì le porte della fortezza ai soldati nemici. Una volta entrati, la punirono invece di premiarla e la ricoprirono di monili d’oro e pesanti scudi fino a ucciderla, «sia per dare l’idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia per fornire un esempio in modo che più nessun delatore potesse contare sulla parola data», racconta lo storico romano. Al di là della leggenda, è
C R O N O LO G I A
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IL TEMPIO MILLENARIO DI GIOVE
616 a.C.
509 a.C.
Il monte Capitolino diventa il centro religioso di Roma e il luogo scelto per la costruzione del primo tempio consacrato a Giove.
Dopo il “golpe” controTarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, il console Marco Orazio Pulvillo inaugura un tempio sulla cima del Campidoglio.
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LA VESTALE TARPEIA RAFFIGURATA SU UNA MONETA D’ARGENTO. BRITISH MUSEUM.
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CAPANNE SUL CAMPIDOGLIO
Gli archeologi hanno scoperto in cima al monte Capitolino i resti di capanne dell’VIII secolo a.C., come quelle di questa ricostruzione, simili alla “capanna di Romolo”, ancora conservata come reliquia all’epoca di Augusto.
83 a.C.
69 d.C.
78 d.C.
455 d.C.
Il tempio di Giove Capitolino viene completamente raso al suolo da un incendio. Silla inizia la costruzione di un nuovo santuario.
Nell’anno dei quattro imperatori il tempio di Giove e altri edifici del Campidoglio vengono distrutti da un incendio.
Domiziano intraprende la costruzione di un nuovo e maestoso tempio sulla cima del Campidoglio, e sarà quello definitivo.
Il re vandalo Genserico saccheggia Roma per due settimane. Distrugge i santuari del Campidoglio, tra i quali il tempio di Giove.
Tempio di Giove Capitolino
IL DISEGNO MOSTRA L’ASPETTO DEL MONTE CAPITOLINO IN EPOCA ETRUSCA, CON IL TEMPIO DI GIOVE, ALTRI SANTUARI E LA STRADA CHE CONDUCEVA IN CIMA, IL CLIVUS CAPITOLINUS.
Clivus Capitolinus
Tempio di Mater Matuta
Tempio della Fortuna
Asylum
Tempio di Giove Feretrio
IL CAMPIDOGLIO ALL’EPOCA DEI RE ETRUSCHI INTORNO AL 600 A.C. le antiche capanne costruite dai primi abitanti del monte Capitolino furono sostituite da edifici a carattere civile e religioso. È risaputo che nella prima metà del VI secolo a.C. esisteva anche una zona residenziale, che fu poi distrutta per costruire le fondamenta del tempio Capitolino. I lavori iniziarono probabilmente prima, già sotto il regno di Tarquinio Prisco, ma fu poi il figlio Tarquinio il Superbo a dare la spinta decisiva per la costruzione del grande tempio dedicato a Giove, orientato verso il foro. A sud-est del colle si scorgeva una zona dedicata al culto di una divinità autoctona, conosciuta con il nome di Mater Matuta.
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Roma arcaica (VIII-VI secolo a.C.)
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Tempio di Vesta
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Tempio di Giove Ottimo Massimo
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Tempio di Cerere Muraglia di Servio Tullio
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MUSEI CAPITOLINI, RICOSTRUZIONE ILLUSTRATIVA INKLINK.
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Recinto di Romolo
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Tempio di Diana Murco
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ROMA ETRUSCA
La cartina in alto mostra l’ubicazione degli edifici civili e religiosi a Roma nel periodo della monarchia etrusca, nei secoli VIII-VI a.C.
CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
Valle del Velabro
Le provvidenziali oche del Campidoglio ITO LIVIO NARRA che intorno al 390 a.C. i galli assedia-
rono Roma, in quel momento sprovvista di un’adeguata difesa. Poiché l’assedio stava lasciando la città senza viveri, i romani, assetati e affamati, si rifugiarono nel Campidoglio. A un certo punto erano così disperati che pensarono di mangiarsi le oche della dea Giunone, animali consacrati alla divinità da secoli e che vivevano liberi sul monte divino, vigilati da un guardiano. Alla fine desistettero. Una notte i galli cercarono di entrare in Campidoglio per cogliere di sorpresa i romani, ma le oche li sentirono e con il loro svolazzare e starnazzare svegliarono la sentinella Marco Manlio. In questo modo i romani riuscirono a respingere i loro nemici. Da quel momento il tempio di Giunone – che si erge sull’arx, nei pressi del Campidoglio – prese anche il nome di Moneta, che significa “ammonitrice”, dal richiamo delle oche sacre che salvò Roma.
OCHE GUARDIANE
Il rilievo in marmo nell’immagine qui sopra raffigura le oche di Giunone mentre sbattono le ali e starnazzano per avvertire dell’assalto dei galli al Campidoglio. Museo ostiense, Roma.
66 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Gli dei e il tesoro di stato
DEA / SCALA, FIRENZE
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Secondo il racconto di Tito Livio alla fine la sorte toccò a Orazio Pulvillo, mentre Valerio fu costretto ad andare in guerra contro la città di Veio. A quel punto, secondo quanto narra sempre Tito Livio, gli amici di Valerio cercarono invano di posticipare la consacrazione del tempio fino al suo ritorno dalla guerra e interruppero l’atto della consacrazione dando a Orazio una notizia falsa, ovvero che aveva perso il figlio e che «il padre di un morto non era nelle condizioni di consacrare un tempio». Il tentativo non servì a nulla, poiché Orazio, senza verificare la notizia, si limitò a dare ordine di seppellire il cadavere, e completò l’invocazione grazie alla quale l’edificio diventava sacro (sacrum) e, dunque, inviolabile.
l’edificio in seguito alla prematura morte del padre. Pertanto «dopo aver fatto venire operai da tutta l’Etruria, attinse non solo ai fondi di stato stanziati per questo progetto, ma ricorse anche alla manodopera della plebe». Infatti i tributi degli alleati e il bottino conquistato nella città di Suessa Pometia bastarono appena a pagarne le fondamenta. Il comportamento dispotico di Tarquinio il Superbo e la violenza sulla patrizia Lucrezia a opera di uno dei suoi figli accelerarono la fine della monarchia etrusca nel 509 a.C., quando il tempio del Campidoglio non era ancora stato inaugurato. La consacrazione del santuario toccò quindi alla massima autorità della nuova repubblica, ovvero a due consoli, Publio Valerio Publicola e Marco Orazio Pulvillo.
Il primo tempio fu edificato in un ampio spazio ricavato su una delle due cime del colle, quella che riceveva il nome di Capitolium. Nella cuspide fu innalzata una quadriga in terracotta, opera dell’artista etrusco Vulca di Veio. Plinio il Vecchio narra i presagi che accompagnarono la creazione della scultura. Quando gli artigiani di Veio introdussero il carrello nel forno, la statua crebbe invece di rimpicciolirsi e dovettero rompere il forno per tirarla fuori. L’avvenimento venne interpretato come un segno del potere del popolo a cui era destinato il gruppo scultoreo. Nel 296 a.C. la statua originale in terracotta venne sostituita da una copia identica realizzata in bronzo, offerta dai fratelli Gneo e Quinto Ogulnio. Il tempio Capitolino non fu soltanto un centro religioso per i cittadini romani, ma rappresentò anche uno scenario di legittimazione politica, colmo di simboli allusivi alla difesa dello stato. Giove era considerato dio dei giuramenti, per cui nel suo santuario venivano conservati gli atti e i trattati diplomatici, iscritti su tavole di bronzo. Il tesoro d’emergenza della repubblica, riservato ai momenti critici, era nascosto sotto il trono di Giove, così come i Libri sibillini, un compendio di profezie in greco che la Sibilla Cumana aveva venduto al re Tarquinio (secondo Varrone, a Tarquinio Prisco; secondo Plinio,
ENSBA / RMN-GRAND PALAIS
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L’AREA CAPITOLINA altare 1, come il tempio di Ops (abbondanza) 2 e il Tensarium o Aedes Tensarum 3 . Alcuni elementi sono stati inventati per mostrare l’enorme quantità di tesori costruiti nei dintorni del tempio di Giove. M
MONETA D’ARGENTO ROMANA CON LA RIPRODUZIONE DEL TEMPIO DI GIOVE CAPITOLINO.
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beaux-arts di Francia dai suoi studenti a Roma figura una pianta del Campidoglio di epoca repubblicana (nell’immagine in alto). Nella cartina sono riconoscibili i principali edifici costruiti intorno al maestoso tempio della triade e al suo monumentale
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TRA I DISEGNI inviati all’Académie des
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nuove dovevano essere depositate in buche o grotte sotterranee (favissae), scavate all’interno del recinto sacro. Alcune di queste offerte sono state rinvenute dagli archeologi moderni. Davanti al tempio Capitolino si celebravano numerosi avvenimenti politici. Le assemblee più solenni del senato avevano luogo sulla scalinata. Particolarmente significativa era la cerimonia dell’investitura dei due consoli, che reggevano il destino della repubblica per un anno. Il rito si celebrava alle calende di gennaio (il primo giorno del mese). La notte precedente gli àuguri consultavano gli auspici precettivi sulle scale del tempio. Il giorno successivo i nuovi capi di stato assumevano i segni del potere ed entravano nel santuario, seguiti da magistrati e sacerdoti, per formulare i voti davanti all’immagine di Giove. Analogamente, in periodo di guerra, i consoli organizzavano sotto il loggiato del tempio la leva militare e indicavano ai magistrati e ai rappresentanti dei Paesi alleati il numero di uomini con cui contribuire. Riunite le truppe, prima di lasciare Roma e di partire verso il campo di battaglia, il console formulava i voti sacri per assicurarsi la protezione degli dei della triade. Al termine del mandato i consoli venivano immortalati in statue commemorative poste nella piazza capitolina, accanto alle figure di grandi protagonisti della storia politica di Roma.
DAGLI ORTI / AURIMAGES
OFFERTE A GIOVE
Nel rilievo, l’imperatore Marco Aurelio compie una libagione e brucia l’incenso su un altare portatile davanti al tempio della triade capitolina, la cui facciata si vede sullo sfondo. II secolo. Musei capitolini, Roma.
68 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
a Tarquinio il Superbo). Inoltre, il tempio diventò un deposito di opere d’arte, portate in offerta dagli stati vassalli di Roma e dai cittadini come atto di devozione agli dei. La mole di offerte e sculture nei dintorni e all’interno del tempio raggiungeva proporzioni tali che in alcune occasioni si rendeva necessario rimuoverle. Il grammatico latino Servio ricordava che all’interno del tempio si onoravano immagini di tutti gli dei, tra cui Marte, Iuventas (Giovinezza) e Termine. Il culto di quest’ultima divinità impose un’apertura sul tetto del tempio perché i riti in suo onore dovevano realizzarsi a cielo aperto. Poiché tutte le offerte consacrate a Giove erano proprietà degli dei, quando le vecchie venivano spostate per fare spazio alle
Divorato dalle fiamme Il tempio etrusco del Campidoglio subì svariati restauri e cambiamenti. Il primo di questi avvenne nell’83 a.C., quando il santuario venne devastato totalmente da un terribile incendio che distrusse anche l’oro del tesoro pubblico e tutti gli oggetti artistici custoditi all’interno. Del tempio si salvarono soltanto i depositi votivi sotterranei, con centinaia di vasi di imitazione corinzia e statuette in terracotta policromata. Datate tra il VII e il VI secolo a.C., le statuette furono ritrovate tra il 1925 e il 1927. Il dittatore Lucio Cornelio Silla intraprese immediatamente la costruzione di un nuovo edificio, a cui furono aggiunte alcune colonne corinzie del tempio ateniese
Tempio di Giove Capitolino
GIOVANNI SIMEONE / FOTOTECA 9X12
IL CAMPIDOGLIO
La piazza del Campidoglio, disegnata da Michelangelo nel 1538, si colloca nell’area dell’antico asylum, la piccola depressione che separava l’arx dal Campidoglio. La cima di quest’ultimo, dove si ergeva il tempio di Giove, è oggi occupata da una sezione dei Musei capitolini.
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IL SANTUARIO DEDICATO ALLA TRIADE CAPITOLINA IL TEMPIO DEDICATO alla triade capitolina, in cima al Campidoglio, venne costruito con una concezione architettonica più etrusca che greca. L’edificio, che misurava circa 60 per 55 metri, poggiava su un alto basamento che si prolungava fino alla facciata principale mediante una scalinata. La pianta era quadrata e relativamente bassa. Il tempio si componeva di tre file di colonne nella parte frontale e una fila per ogni lato e non c’erano colonne sul retro. L’ingresso si trovava nella parte anteriore, mentre l’interno era stato costruito con i materiali più sontuosi.
Invece di una cella, destinata a una sola divinità (della quale si conservava in quel luogo la statua), il santuario era dotato di una cella tripla, secondo la tradizione etrusca, con tre grandi cappelle separate da mura. All’interno erano custodite le statue della triade (Giove, Giunone e Minerva), realizzate in terracotta dipinta. Nel 65 a.C. la statua di Giove fu sostituita da una statua crisoelefantina (ovvero in oro e avorio), opera dell’ateniese Apollonio, che per la sua realizzazione aveva preso come modello la statua di Zeus a Olimpia.
1 Giove
La divinità si mostrava sul trono e incoronata. Indossava la tunica palmata, ricamata in oro e ornata con foglie di palma.
2 Minerva
Come l’Atena greca, Minerva era la dea della guerra e della sapienza. Nella statua, realizzata in terracotta dipinta, era raffigurata armata e in piedi.
3 Giunone
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La sposa di Giove era la dea del matrimonio e della maternità. La statua la ritraeva sul trono, proprio come Giove.
IL TEMPIO DI GIOVE CON LA QUADRIGA IN BRONZO CHE ORNAVA LA CUSPIDE E L’ALTARE DEI SACRIFICI DAVANTI ALLA FACCIATA.
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Il console Marco Orazio Pulvillo inaugurò il tempio il 13 settembre del 509 a.C. Secondo Lucio Anneo Floro: «Quando scavarono le fondamenta, con grande sorpresa trovarono un teschio umano; tutti credettero che questo favorevole prodigio presagisse che Roma sarebbe divenuta la sede dell’impero e la capitale del mondo».
IMMAGINI IN 3D: ALTAIR4 MULTIMEDIA.
Il tempio della capitale del mondo
Tempio di Giunone Moneta
Tempio di Giove Ottimo Massimo
Elevazione dell’Arx
Tempio di Ops Tempio di Fides
Monte Capitolino
IL CAMPIDOGLIO IMPERIALE LA ROMA DEL IV SECOLO era dominata dall’alto del monte Capitolino, ricreato nel disegno con tutti i suoi templi. Si univa all’arx, – dove si trovava la zecca della città, dentro o vicino al tempio di Giunone Moneta –, attraverso il tabularium, edificio di epoca repubblicana
utilizzato come archivio ufficiale dello stato romano. Con il tabularium fu monumentalizzato l’asylum, la depressione che separava le due colline. Ai suoi piedi si estendeva il foro civile, ampliato in epoca imperiale con i fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano.
ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE ©JEAN-CLAUDE GOLVIN / ÉDITIONS ERRANCE
Tabularium
Tempio della Concordia Foro di Cesare
Foro romano
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L GENERALE a cui il senato concedeva un trionfo aveva il diritto di mostrarsi per un giorno intero come immagine viva del dio supremo del pantheon romano. Il generale in questione prendeva gli attributi divini e, impugnato lo scettro in una mano e il ramoscello d’alloro nell’altra, saliva su un carro trainato da quattro cavalli bianchi. In testa a un fastoso corteo in cui sfilavano musicisti, soldati, animali destinati al sacrificio e tutto il bottino di guerra, compresi i prigionieri, percorreva la città fino a giungere di fronte al Campidoglio. Dopo aver percorso la scalinata a piedi, offriva a Giove la corona d’alloro e pagava il tributo alla divinità immediatamente prima di ripartire per il campo di battaglia.
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UN GENERALE TRIONFANTE
Nel vaso d’argento in alto, che fa parte del tesoro di Boscoreale, è raffigurata una scena di trionfo. Dietro il generale vittorioso, uno schiavo sostiene una corona d’alloro e gli sussurra: «Ricordati che devi morire». Musée du Louvre.
KI / RMN-GRAND PALAIS
di Zeus Olimpio. Alla sua morte continuò l’incarico il console Quinto Lutazio Catulo, menzionato in un’iscrizione della facciata del tempio come “addetto alla restaurazione del Campidoglio” (curator restituendi Capitolii). Successivamente l’imperatore Augusto ordinò di ricostituire il tesoro di Giove e donò al santuario una grande quantità d’oro, di perle e di pietre preziose, in un atto che doveva garantire la protezione della divinità all’impero appena instaurato.
Il tempio perduto All’epoca era iniziata l’urbanizzazione dei versanti del Campidoglio. Non solo i membri dell’élite comprarono terreni per costruire lussuose residenze private, ma fecero anche affari con la costruzione di grandi 74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
blocchi di appartamenti in affitto, ovvero le celebri insule. Gli scavi archeologici realizzati intorno al 1930 portarono alla luce una insula di mattoni e cemento, alta cinque piani, che arrivò ad accogliere circa 380 inquilini. Il piano inferiore degli edifici era occupato da una serie di tabernae, negozi di vario genere, provvisti di un soppalco che serviva come abitazione per gli impiegati, mentre negli altri piani erano distribuiti gli appartamenti in affitto. Il tempio Capitolino bruciò nuovamente durante i tumulti del 69 d.C. che portarono al potere Vespasiano, fondatore della dinastia Flavia. Le cronache raccontano che i sostenitori del suo nemico, Vitellio, assediarono il monte Capitolino, dove si erano trincerati i difensori di Vespasiano. Nel pieno dello scontro scoppiò un incendio devastante, che rase al suolo il Campo Marzio e raggiunse la cima del Campidoglio. Domiziano, figlio minore di Vespasiano, trovò rifugio nel vicino tempio orientale di Serapide, da cui fu costretto a uscire travestito da sacerdote di Iside, con la testa completamente rasata. In quell’occasione Domiziano non avrebbe potuto immaginare che sarebbe stato proprio lui, nove anni dopo, ovvero nel 78 d.C., a innalzare il tempio definitivo in onore della triade capitolina. Il Campidoglio consacrato da Domiziano rimase in piedi fino al 455 d.C., anno in cui il re vandalo Genserico saccheggiò Roma nel corso di due interminabili settimane. I pochi ruderi rimasti furono utilizzati secoli dopo in una delle ricostruzioni della basilica di San Pietro. Da allora e sino alla fine del XIX secolo si perse l’ubicazione esatta del tempio Capitolino. Non si riusciva neppure a identificare con certezza ciascuna delle due cime dell’antico monte Tarpeo. Il dubbio venne finalmente chiarito intorno al 1860, quando i lavori di restauro di palazzo Caffarelli portarono alla luce le fondamenta dell’immensa piattaforma su cui era stato eretto il Campidoglio romano e che attualmente si possono contemplare in situ nei Musei capitolini di Roma. ELENA CASTILLO FILOLOGA E RICERCATRICE DI ARCHEOLOGIA
FOTO: ZENO COLANTONI / SOVRINTENDENZA CAPITOLINA AI BENI CULTURALI, ROMA
Il trionfo: sentirsi Giove per un giorno
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TESORI RITROVATI Gli scavi sul monte Capitolino hanno riportato alla luce i resti del tempio di Giove, compresi i ruderi dell’antico tempio costruito dai re etruschi, le statue votive e i monumenti commemorativi. La gran parte di questi reperti è esposta nei Musei capitolini di Roma.
2 1 Antefissa
Questo elemento decorativo veniva utilizzato nell’estremità inferiore delle tegole. È un ornamento del tempio di Giove.
2 Monumento
Fregio decorato con una corazza, due trofei e un clipeo. Forse apparteneva a un monumento fatto erigere da Bocco I di Mauretania.
3 Aristogitone
Statua greca del V secolo a.C., realizzata in marmo pentelico, rappresenta uno degli assassini del tiranno ateniese Ipparco.
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Il diavolo nel Medioevo
LA PAURA DI SATANA Nel Medioevo il mondo era visto come un campo di battaglia tra Dio e il diavolo, che si alleava con streghe e negromanti per minacciare la vita dei buoni cristiani
IL DIAVOLO IN AZIONE
LUCIANO ROMANO / SCALA, FIRENZE
Intorno al 1410 Giovanni da Modena rappresentò nella cappella Bolognini della chiesa di San Petronio, a Bologna, Lucifero intento a divorare i condannati. Alla pagina precedente, il diavolo distrugge i beni di Giobbe in un capitello scolpito tra il 1151 e il 1200. MusÊe des Augustins, Tolosa.
LA PRIMA IMMAGINE DEL DIAVOLO? ANTICA RAPPRESENTAZIONE L AdelPIÙdiavolo è forse quella della ba-
CRISTO SEPARA LE PECORE DAI CAPRETTI. MOSAICO DEL VI SECOLO. BASILICA DI SANT’APOLLINARE NUOVO. RAVENNA.
silica di Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna. Un mosaico del VI secolo mostra Cristo che separa le pecore (i buoni) dai capretti (i cattivi) nel giudizio finale. Accanto alle pecore c’è un angelo vestito di rosso, il colore del fuoco e del regno dei cieli. L’angelo vicino ai capretti ha un abito azzurro, il colore dell’aria inferiore, che caratterizza il luogo in cui erano stati gettati gli angeli che si erano ribellati a Dio (l’idea del diavolo come “angelo caduto” rimanda ai testi biblici apocrifi, come il Libro di Enoch). Solo molto più tardi il diavolo verrà rappresentato in rosso, il colore del sangue e delle fiamme dell’inferno. Sia Cristo sia i due angeli hanno un nimbo attorno al capo, che originariamente era un simbolo di potere e non necessariamente di santità.
BRIDGEMAN / ACI
GLI ANTICHI DÈI
Sotto, Lilitu, una divinità babilonese dell’oltretomba da cui deriverebbe la Lilith biblica. 1800 a.C. circa.
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l diavolo non è sempre stato il principe del male adorato dalle streghe, né colui al quale vende l’anima chi vuole realizzare i propri desideri. Fu solo tra il V e il XV secolo, infatti, che gli spiriti che si invocavano al tramonto dell’antichità pagana si fusero con la figura del diavolo biblico, lasciando ai posteri quell’immagine del signore delle tenebre che oggi risulta così familiare.
Satana, Belzebù, Lucifero Nell’Antico testamento Satana non è considerato il grande antagonista di Dio. Il termine, che deriva dall’ebraico shatan, “avversario”, è usato in alcuni casi in riferimento a esseri umani e in altri a esseri soprannaturali, come per esempio gli angeli di Yahweh. Ma tutto ciò cambia nel Nuovo testamento. Nei Vangeli Cristo viene tentato da Satana, il quale acquisisce il ruolo esclusivamente negativo che si conserBRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
verà all’interno del pensiero cristiano. Nella principale traduzione greca dell’Antico testamento, la Bibbia dei settanta, il termine Satana viene tradotto tramite un’espressione dalla connotazione negativa, diabolos: “colui che divide”, il“calunniatore”, da cui poi deriverà il latino diabolus e successivamente il nostro “diavolo”. Altri nomi propri del diavolo, come Lilith, Lucifero o Belzebù designavano divinità o figure presenti nei pantheon di altri popoli. Quello di Belzebù, cui il Vangelo di Matteo si riferisce come «Beelzebùl, principe dei demòni» (12:24), deriva da Baal Zebub, un dio cananeo. Il termine Lucifero, invece, proviene dalla Vulgata, la traduzione latina della Bibbia ebraica realizzata nel IV secolo da san Gerolamo, che utilizza questo nome per rendere l’espressione ebraica Helel ben Shahar, “il luminoso, figlio dell’alba”. Lucifero, letteralmente “portatore di luce”, era un’espressione originariamente utilizzata in latino per indicare il pianeta Venere. Solo più tardi sarebbe stata associata al diavolo.
LE TENTAZIONI DEL MALIGNO
Il diavolo tenta Cristo offrendogli il potere sulla terra. Duccio di Buoninsegna, predella della Maestà del Duomo di Siena. Tempera su tavola. XIV secolo. Frick Collection, New York. DEA / ALBUM
Nella Seconda lettera di san Pietro apostolo (1:19) del II secolo, per esempio, il termine Lucifero viene usato in riferimento alla luce divina del Vangelo. Ancora più tardi, nel IV secolo, era il nome di un vescovo di Cagliari, poi diventato santo. Ciononostante, all’inizio del Medioevo i padri della Chiesa crearono una figura di Lucifero che andava al di là del testo biblico, facendone l’angelo ribelle castigato da Dio, un modello negativo dell’orgoglio come peccato capitale.
Un’eredità pagana e cristiana Nel mondo cristiano medievale la visione del diavolo biblico come essere maligno si fuse con l’idea del demone propria dell’epoca ellenistica, nella quale il daimon era uno spirito guida o una divinità minore con la quale era possibile entrare in contatto. Nel II secolo il famoso autore latino Apuleio riprese la concezione secondo la quale i demoni svolgevano una funzione intermediaria tra gli dèi e gli uomini e presiedevano a rivelazioni e presagi. L’arte di evocare
questi spiriti capaci di divinare il futuro e di aiutare le persone era una branca fondamentale della magia del mondo antico, la cosiddetta teurgia. La teurgia ellenistica sopravvisse anche in contesto cristiano, trasformandosi nella negromanzia. Originariamente l’evocazione poteva riguardare tanto gli dei e i semidei che si voleva costringere ai propri voleri quanto gli spiriti dei defunti. Nel cristianesimo, però, Dio non può esser piegato dalla volontà dell’uomo, ma solo implorato per mezzo della preghiera. Maria, gli angeli e i santi intercedono presso Dio, ma neppure loro sono soggetti all’uomo. Così, i daemones che i maghi ellenistici comandavano attraverso le tecniche cerimoniali vengono sostituiti dalle uniche figure che potrebbero essere sottomesse al volere dell’uomo: gli “angeli caduti”, gli “avversari” della tradizione ebraica, esseri della stirLA CADUTA DEGLI ANGELI RIBELLI. TAVOLA DEL XIV SECOLO. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
ERICH LESSING / ALBUM
COSA SANNO I DEMONI (354-430 d.C.) dedicò ai demoni una S ANT’AGOSTINO breve opera, La divinazione dei demoni, e vari passaggi di La città di Dio. Agostino riteneva che i poteri divinatori attribuiti da Apuleio ai demoni dipendessero dalla velocità, dalla longevità e dalla maggior sensibilità di questi spiriti dal corpo aereo. Secondo lui, grazie alla «acutezza della sensibilità e la rapidità del movimento, preannunziano o annunziano molti fatti fonte di meraviglia per gli uomini a causa della lentezza della propria sensibilità terrena. Nei demoni s’è aggiunta, per di più, durante tutto il lungo arco di tempo in cui si sviluppa la loro vita, un’esperienza della realtà di gran lunga superiore a quella che può pervenire agli uomini per la brevità della loro vita. Grazie a queste proprietà, che sono toccate alla natura di un corpo aereo, i demoni non solo predicono molti fatti futuri, ma ne compiono addirittura molti di sorprendenti […] Quindi incitano, in forme stupefacenti e invisibili, grazie alla leggerezza dei propri corpi, insinuandosi nei corpi degli uomini a loro insaputa e intrufolandosi nei loro pensieri attraverso alcune visioni fantastiche, sia da desti che da dormienti».
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DAGLI ORTI / AURIMAGES
KIMBELL ART MUSEUM, TEXAS / SCALA, FIRENZE
APULEIO E I DEMONI. MINIATURA DI UN’EDIZIONE MANOSCRITTA DI LA CITTÀ DI DIO, DI SANT’AGOSTINO. XV SECOLO. MUSÉE CONDÉ, CHANTILLY.
pe di Satana e di Lucifero. Erano loro che i negromanti evocavano per i propri fini. Tuttavia, nella tradizione cristiana i demoni non si sottomettono all’uomo per spirito di obbedienza, bensì allo scopo di ingannarlo e condurlo alla perdizione. Già nel III secolo l’autore cristiano Lattanzio annoverava l’arte negromantica tra le attività con le quali il demonio inganna e tenta gli uomini.
Gli adoratori del diavolo Nell’XI e nel XII secolo la crescita economica europea e l’espansione nel Mediterraneo portarono al fiorire di numerosi centri di traduzione dal greco e dall’arabo. Oltre ai trattati scientifici e filosofici vennero tradotti anche manuali di negromanzia, che favorirono quindi l’intensificarsi delle pratiche di evocazione del demonio. Tale fatto portò a sua volta a dei cambiamenti nel modo in cui la Chiesa vedeva il diavolo. Fino alla fine del XIII secolo le opere teologiche non mostrarono alcun interesse specifico per le azioni dei demoni, a parte
I NEGROMANTI, O COME SOTTOMETTERE I DEMONI CON L’AIUTO DI SALOMONE SI POSSONO INDIVIDUARE le caratteristiche di
fondo delle arti negromantiche a partire da alcuni libri utilizzati. Fra questi, i più celebri sono quelli dedicati ai presunti poteri miracolosi del re biblico Salomone, cui si attribuiva la stesura di numerosi testi magici. La Clavicula Salomonis era forse il più noto di tutti; la copia manoscritta più antica, in greco, risale al XII-XIII secolo. Sembra che l’originale fosse prevalentemente in ebraico, con interpolazioni greco-egiziane, e più in generale orientali, e solo raramente cristiane. Nelle preghiere a Dio si sottolinea la necessità, per chi officia il rito, di rispettare i requisiti di castità, digiuno e purezza, anche se le preghiere sono spesso volte a procurarsi mezzi magici per seminare morte, discordia e distruzione. L’appello ai demoni perché conferiscano potere si accompagna in modo blasfemo alle suppliche ai profeti dell’Antico testamento e a Dio, chiamati a maledire i demoni e a costringerli a obbedire alla volontà dell’evocatore. INVOCAZIONE DEI DEMONI. MINIATURA DI UN MANOSCRITTO DI PLINIO IL VECCHIO. XV SECOLO. BIBLIOTECA NAZIONALE MARCIANA, VENEZIA.
qualche riflessione sulla caduta di Satana e sul problema dell’origine del male. La situazione cambiò notevolmente attorno al 1270, quando apparvero i grandi trattati della Scolastica – la tradizione filosofica dominante nella teologia dell’Alto Medioevo –, all’interno della quale il potere dei demoni e la loro relazione con gli esseri umani assumevano una particolare rilevanza. Il diavolo divenne in questo modo un poderoso nemico del popolo di Dio. E con lui, lo divennero anche i suoi collaboratori, come i negromanti. Così, nel 1326, con la bolla Super illius specula, papa Giovanni XXII stigmatizzava coloro che stipulavano un patto «cum inferno», facevano sacrifici ai demoni e li adoravano e fabbricavano immagini, anelli, specchi e fiale, ossia oggetti atti a compiere malefìci. La bolla papale assimilava i colpevoli di tali azioni agli eretici e, al pari di
L’ANTICA FORMA DEL DIAVOLO In questo vincastro in avorio il demonio è raffigurato come un drago, in riferimento all’aspetto di serpente con cui tentò Adamo ed Eva. SCALA, FIRENZE
questi, i negromanti erano soggetti all’azione repressiva degli inquisitori e passibili di condanna al rogo. Nel corso del XV secolo (un’epoca di crisi climatiche, di epidemie come la peste nera, di carestie e di guerre) il patto con il diavolo smise di essere una prerogativa dei negromanti: lo stringevano, infatti, anche gli adepti della stregoneria, che allora consisteva sostanzialmente nel ricercare l’aiuto diretto del demonio per compiere sortilegi. In tal modo il patto stipulato da streghe e stregoni con Lucifero, e le orge e i rituali celebrati in suo onore, come il sabba, passarono a contraddistinguere una parte della società che, teoricamente, era al servizio delle forze dei demoni e che fu oggetto di una persecuzione spietata. La caccia alle streghe è una chiara dimostrazione di come, nei mille anni del Medioevo, fosse cresciuta la paura nei confronti di Satana e del suo potere. MARINA MONTESANO UNIVERSITÀ DI MESSINA
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on rare eccezioni, gli autori ecclesiastici ritenevano che i demoni – originariamente degli angeli caduti – fossero esseri spirituali, non corporei. A volte, per tentare le sue vittime, il diavolo assumeva un aspetto ingannevole, come le fattezze di un’avvenente fanciulla o dell’apostolo Giacomo. In campo artistico, invece, veniva normalmente ritratto con sembianze terrificanti, allo scopo di spaventare e dissuadere i peccatori. L’immagine del demonio era in genere priva di bellezza, armonia e struttura, a indicare la distorsione della natura ideale degli angeli e degli uomini. A partire dall’XI secolo divennero abituali gli elementi bestiali, come la coda, le orecchie di animale, la barba da capro, gli artigli, le corna e spesso le ali. Se all’inizio del Medioevo queste ultime erano in genere piumate come quelle degli uccelli o degli angeli, a partire dal XII secolo diventarono comuni le ali da pipistrello.
L’A S PE T TO D E L D I AVO LO
1 ZE SCALA, FIREN
In questo capitello due demoni tirano la corda con cui si impicca Giuda, il discepolo che tradì Gesù. I capelli del demone a destra nell’immagine evocavano forse le fiamme dell’inferno. Cattedrale di Autun (Francia).
GIUDA IMPICCATO
Per molti secoli le corna erano state un simbolo di potere: anticamente nel Vicino Oriente erano un attributo della divinità e della nobiltà. Quadro di Michael Pacher. 1483. Alte Pinakothek, Monaco di Baviera.
SANT’AGOSTINO E IL DIAVOLO
BPK / RMN-GRAND PALAIS
2 I L PAT TO CO N I L M A L I G N O patto tra gli esseri umani e il diavolo ha sempre afI lfascinato gli europei, forse perché la volontà di potere e di conoscenza portata alle sue estreme conseguenze è stata un pilastro fondamentale della civiltà occidentale. Il tema si diffuse per la prima volta in Europa durante il Medioevo, esattamente nel X secolo, quando la monaca e poeta Roswitha di Gandersheim scrisse (attingendo a una tradizione di origine greca) la storia del diacono Teofilo. Caduto in disgrazia presso il suo vescovo, grazie all’ausilio di un ebreo esperto di arti magiche, Teofilo firmò un patto di sangue con il diavolo: gli vendette la sua anima in cambio del potere, come avrebbe fatto secoli dopo il dottor Faust. Ma Teofilo poi si pentì, invocò la Vergine e riuscì a sciogliere il patto. Nel XIII secolo il dramma liturgico Il miracolo di Teofilo di Rutebeuf diede ulteriore diffusione a questo motivo. In Europa il patto tra Teofilo e il demonio veniva spesso rappresentato come un omaggio feudale, l’atto che univa un signore al suo vassallo in un reciproco giuramento di fedeltà. Trattandosi di un gesto rituale molto importante, il suo uso in tale contesto doveva provocare indignazione e inquietudine.
LO SCRITTORE INGLESE CHRISTOPHER MARLOWE DEDICÒ UN’OPERA ALLA STORIA DEL DOTTOR FAUST. QUESTA È LA COPERTINA DELL’EDIZIONE DEL 1620. AKG / ALBUM
IN QUESTE PAGINE ILLUSTRATE DI THE MAASTRICHT HOURS, UN LIBRO D’ORE EDITO NELLA ZONA DI LIEGI ALL’INIZIO DEL XIV SECOLO, È RAPPRESENTATA LA STORIA DI TEOFILO. BRITISH LIBRARY, LONDRA. AKG / ALBUM
3 G L I E SO RC I S M I n documento medievale della metà del XV secolo fornisce una testimonianza del timore che ecclesiastici e laici nutrivano nei confronti di Satana e dei suoi servitori in un’epoca di carestie, guerre ed epidemie. Si tratta del Libro di Egidio, decano di Tournai, un manuale per esorcisti le cui domande mirano a penetrare i misteri dell’aldilà, a conoscere il comportamento degli abitanti dell’inferno e i limiti dei loro poteri. Prima di rivolgersi al demonio, l’esorcista deve pregare con devozione, «con il cuore contrito» e proteggersi «con il segno della croce». Per prima cosa chiederà al diavolo il suo nome e quindi gli porrà domande come queste: «Perché prendi sembianze differenti?»; «Perché affliggi più gli ecclesiastici che i laici? A causa di quali peccati?»; «Qual è il peccato di cui tu e i tuoi compagni più vi rallegrate?»; «Quali opere pie più vi rattristano?». L’esorcista fa anche domande sulle streghe: «Le mistificazioni causate a volte dall’azione di quelle donne […] che abusano dell’ignoranza della gente sono prodotte da uno spirito maligno? O altrimenti, come avvengono? Ed esistono donne, uomini o animali [diabolici] simili?».
SCALA, FIRENZE
DEA / ALBUM
SAN TEOBALDO ESORCIZZA UN POSSEDUTO. ALTARE DELLA CHIESA DI SAINT-THIBAULT, IN BORGOGNA. XIV SECOLO.
FILETO TOCCA LE VESTI DI SAN GIACOMO E IL DEMONIO ABBANDONA IL SUO CORPO. VETRATE DELLA CATTEDRALE DI CHARTRES CON SCENE DELLA LEGGENDA DI SAN GIACOMO.
4 I D EM O N I E I C A S TI G H I I N FE R N A LI rappresentazione medievale dell’inferno, il L aregno del diavolo, è legata alla credenza secon-
do cui, durante il giudizio universale, Dio premierà chi ha compiuto buone azioni e castigherà i peccatori. I giusti potranno contemplare Dio per l’eternità, mentre i malvagi saranno tormentati perpetuamente e in sintonia con i peccati commessi. Dopo aver varcato la soglia dell’inferno (che a volte assume la forma di una porta divoratrice), ciascuno riceve la sua pena indipendentemente dalla posizione sociale. Proprio come avviene nella rappresentazione qui accanto, opera di Beato Angelico: serpenti immobilizzano gli oziosi; rospi e serpi mordono i genitali di chi si è macchiato di lussuria; i colpevoli di peccati di gola sono obbligati a mangiare l’immondizia che hanno nei piatti; gli avari devono inghiottire oro fuso; i rei d’ira si fanno violenza gli uni con gli altri. Ovunque ardono le fiamme e i demoni tormentano i peccatori con i loro tridenti. Nella parte inferiore compare Satana, il capo dei diavoli: la sua triplice testa divora tre dannati.
ERICH LESSING / ALBUM
ERICH LESSING / ALBUM
I CONDANNATI ENTRANO ALL’INFERNO. ALTARE DI VERDUN. FINE DEL XII SECOLO. ABBAZIA DI KLOSTERNEUBURG.
I CONDANNATI E I LORO CASTIGHI. PARTICOLARE DEL GIUDIZIO UNIVERSALE DI BEATO ANGELICO. TEMPERA SU TAVOLA. 1431 CA. MUSEO NAZIONALE DI SAN MARCO, FIRENZE.
RIUNIONE DI STREGHE. INCISIONE SU LEGNO APPARTENENTE ALLA BIBBIA STAMPATA A STRASBURGO NEL 1485 DA JOHANN GRÜNINGER.
una «nuova setta» ereticale composta da stregoni. Nel corso del XV secolo vari pontefici scrissero bolle e lettere simili, che nel 1484 culminarono con la Summis desiderantes affectibus di Innocenzo VIII. Il testo non faceva riferimento esplicito alla stregoneria, ma per i suoi toni radicali l’accusa del pontefice era diversa dalle comuni denunce di pratiche magico-superstiziose. Venne infatti usata come prefazione al Malleus maleficarum (ossia Il martello delle malefiche, generalmente tradotto come “streghe”) del domenicano Heinrich Krämer, testo in cui si denunciano le azioni delle fattucchiere «che scatenano grandinate, venti dannosi con fulmini, procurano sterilità negli uomini e negli animali, i bambini che non divorano li offrono ai diavoli […] o li uccidono in altro modo». Questa posizione metteva in crisi le antiche idee di Agostino, che attribuiva ai demoni poteri ben più limitati. Difatti non tutte le posizioni laiche ed ecclesiastiche si conformarono all’estremismo del Malleus. Per esempio, nel 1526 un concilio svoltosi a Granada dichiarò impossibile il volo magico e affermò che, secondo la maggior parte dei giuristi, le streghe non esistevano. Tuttavia, la caccia alle streghe aveva ormai preso piede in molti paesi europei, sostenuta dalla credenza in ritrovi notturni di donne malefiche che andavano in volo su bastoni o cavalcature, e stringevano un patto mortifero con il demonio. Tali riunioni avevano diversi nomi a seconda delle realtà regionali, come ludus, tregenda, akelarre, anche se il più celebre e comune sarebbe diventato il sabba.
1409 una lettera di papa Alessandro V diretta all’inN elquisitore francescano Ponce Fougeyron denunciava
A L S E RV IZI O D E I D EM O N I
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IL CONGO TR AG EDIA NEL CUORE
PRIGIONIERI DEI BELGI
Questa fotografia, risalente al 1900 circa, mostra un gruppo di congolesi, accusati di vari delitti e oppressi dalle catene, al fianco di due membri della Force Publique, l’odiata polizia coloniale. PVDE / BRIDGEMAN / ACI
BELGA DELL’A FRIC A
nel 1885 nacque lo stato libero del congo. in
realtà si trattava di un possedimento personale del re leopoldo ii del
belgio, che oppresse senza pietà i suoi immensi domini nel continente africano
ROBERT CAPUTO / GETTY IMAGES
UN MONDO VERDE E AZZURRO
Sopra, il Congo si insinua tra le mangrovie in vicinanza della foce. Con i suoi 4.700 km di lunghezza, è il secondo fiume più lungo dell’Africa, dopo il Nilo.
I
lettori che nel luglio del 1897 aprirono il giornale The Aborigines’ Friend si ritrovarono davanti la vivida descrizione di un orrore avvenuto nella lontana Africa. Era la storia di uno spietato sopruso, causato dalla brama di caucciù. L’autore dell’articolo riferiva cosa accadeva ai membri di un villaggio quando si rifiutavano di raccogliere quella preziosa linfa: «Gli si fa la guerra. Gli distruggono le risaie e gli rubano il cibo. Gli abbattono i plataneti, anche se non hanno ancora fruttato, spesso gli in-
cendiano le capanne e gli si portano via gli oggetti di valore. A volte gli indigeni sono costretti a versare un pesante risarcimento. In genere i capi li pagano con filo di ottone e schiavi e, se non ci sono schiavi a sufficienza, sono costretti a vendere le loro mogli». A scrivere era il missionario svedese Edvard Vilhelm Sjöblom. Il missionario narrava anche che un giorno, mentre tutti gli abitanti di un villaggio ascoltavano le sue prediche, erano arrivati alcuni soldati ad arrestare un anziano. Uno di loro aveva detto a Sjöblom:
C R O N O LO G I A
STORIA DI UN’AMBIZIONE
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Sotto gli auspici dell’Associazione internazionale del Congo (Aic), creata da Leopoldo II del Belgio, Henry Morton Stanley risale il Congo e convince i capitribù a firmare accordi con cui, senza saperlo, gli cedono i loro terreni.
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18 79-18 8 2 CAPOTRIBÙ DEL CONGO SU UN TRONO, SOPRA UN REO CHE VERRÀ GIUSTIZIATO. SCETTRO IN AVORIO. 1900 CA. TERVUREN, MUSEO REALE PER L’AFRICA CENTRALE.
Dopo aver stipulato accordi con decine di comunità africane, nel 1884 l’Aic rivendica il diritto a governare il territorio come stato libero. La Conferenza di Berlino ne riconosce Leopoldo II come sovrano.
«Voglio uccidere quest’uomo perché se n’è stato tutto il giorno a pescare al fiume. Non è andato a raccogliere il caucciù». E aveva aperto il fuoco contro di lui, nonostante le proteste del missionario, per poi «ordinare a un bambino, di otto o nove anni, di tagliare la mano all’uomo cui aveva sparato. Non era ancora morto e, quando vide il coltello, provò a scansare la mano. Il bambino gliela mozzò con uno sforzo non indifferente». Era quanto succedeva nel cosiddetto“Stato libero del Congo”, una colonia belga i cui abitanti venivano crudelmente sfruttati, privati delle loro terre, mutilati, massacrati. La notizia non
189 0 -189 1 Leopoldo estende il controllo militare all’interno del Congo. A est, nel 1890 espelle dall’area del fiume Lualaba i trafficanti arabi di schiavi. A sud, nel 1891 si impadronisce della ricchissima regione mineraria del Katanga.
era certo nuova, perché così si comportavano i Paesi colonialisti. Era strano, però, che venisse divulgata, malgrado colui che era a tutti gli effetti il proprietario del Congo avesse cercato in ogni modo di mettere a tacere le voci di tali atrocità. Il proprietario in questione era nientemeno che Leopoldo II, re del Belgio. E il Congo era la maschera dietro cui nascondeva la sua insaziabile avidità.
LEOPOLDO II DEL BELGIO
Il re Leopoldo
ALAMY / ACI
Nato nel 1835, Leopoldo regnò tra il 1865 e il 1909. Per il Belgio fu un re riformista: incentivò grandi opere pub-
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1908
Dopo otto anni di lavori, è pronta la linea ferroviaria che collega la foce del Congo all’inizio del suo tratto navigabile: si evitano così i 400 km di rapide che ostacolano i commerci.
Le denunce per i soprusi ai congolesi, obbligati da Leopoldo a estrarre avorio e caucciù, obbligano Leopoldo a cedere la sua colonia allo stato belga.
Quando morì nel 1909, i suoi interessi riguardavano anche il Congo francese e il Camerun tedesco: aveva non poche azioni nelle compagnie che li sfruttavano.
FRANCIA ITALIA SPAGNA
PORTOGALLO
IL TRIONFO DI LEOPOLDO II A BERLINO
Tunisi Tangeri Casablanca
Algeri
TUNISI
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CC RO A M
LA NASCITA DI UNO STATO
Tripoli Il Cairo
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ALGERIA
EGITTO RÍO DE ORO
AFRICA OCCIDENTALE FRANCESE
San Luis Dakar
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COSTA D ’ ORO
ETIOPIA SOMALIA BRITANNICA SOMALIA AFRICA ITALIANA ORIENTALE BRITANNICA
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AFRICA EQUATORIALE SPAGNOLA
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AFRICA TEDESCA DEL SUD OVEST
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eopoldo II del Belgio creò l’Associazione internazionale del Congo per dare un’apparenza umanitaria alle sue ambizioni e proclamò di voler liberare gli abitanti del centro del continente dai trafficanti di schiavi dell’Africa orientale. Con tale pretesto, nel 1878 assoldò per cinque anni Henry Morton Stanley, il primo uomo che aveva percorso il fiume Congo dall’interno dell’Africa sino alla foce. Al servizio di Leopoldo, Stanley tracciò dei cammini per le carovane, stabilì delle linee per la navigazione fluviale e stipulò con i capitribù della regione falsi trattati, con cui questi gli cedevano le loro terre. Su queste basi, la Conferenza internazionale di Berlino del 1885, patrocinata dal cancelliere tedesco Bismarck, riconobbe il Congo come stato libero,
e Leopoldo II come suo sovrano. Bismarck preferiva che il Congo rimanesse dominio del piccolo Belgio piuttosto che della Gran Bretagna oppure della Francia. Quest’ultima riconobbe i diritti di Leopoldo II quando il re le assicurò che le avrebbe ceduto il territorio (equivalente alla tredicesima frazione dell’Africa) nel caso in cui lui avesse fallito nel suo piano di colonizzazione.
BASUTOLAND
MERCHE HERNÁNDEZ
UNA REGIONE STRATEGICA
LOREM IPSUM
Il Congo confinava con domini francesi, britannici, tedeschi e portoghesi, i quali non volevano che i loro rivali occupassero il territorio. Per questa ragione Leopoldo poté farlo proprio.
bliche, appoggiò una legislazione sociale progressista, e sostenne il suffragio universale maschile. I sudditi del Congo, invece, vissero il lato più oscuro di un monarca che, ancor prima di salire al trono, già diceva di voler «morire multimilionario», garantire al Belgio «un posto nei mercati mondiali» e ottenere «una colonia cui portare la civiltà». «Non ci sono piccoli stati», avrebbe affermato, «soltanto piccoli spiriti». Il Belgio mirava a seguire l’esempio degli altri Paesi europei che invidiavano i vasti imperi coloniali di Gran Bretagna e Francia e cercavano di imitare le due potenze. Il sovrano belga provò ad acquisire dei territori in Argentina, progettò di acquistare le isole Figi e di affittare l’isola di Taiwan, e nel 1875 tentò di comprare le Filippine dalla Spagna. Fu allora che scoprì un vasto
e promettente territorio al centro dell’Africa: l’enorme bacino del Congo, sul quale nessuna potenza aveva ancora messo le mani. Leopoldo si rese subito conto del fatto che, per non destare sospetti, doveva camuffare il suo interesse con una retorica scientifica e umanitaria, e indossò quindi diverse maschere. Nel 1876 patrocinò la Conferenza di geografia di Bruxelles, tesa a stabilire «le rotte da aprire verso l’interno; la creazione di postazioni accoglienti, scientifiche e di conciliazione per abolire la tratta degli schiavi; l’instaurazione di una pace stabile tra i capitribù e la proposta di un arbitrato giusto e imparziale tra di loro», come affermò lo stesso sovrano. Secondo tale linea fondò l’Associazione internazionale africana (Aia, alla quale succedette l’Associazione internazionale del Congo) e invitò un esploratore a prenderne parte. Si trattava di un viaggiatore
MAI PRIMA DI ALLOR A UN TERRITORIO COLONIALE ER A APPARTENUTO A UNA SOLA PERSONA BANDIERA DELLO STATO LIBERO DEL CONGO. LITOGRAFIA DEL 1938. DEA / GETTY IMAGES
BLOCCATI DALLA CORRENTE
Henry M. Stanley raggiunge le rapide del Congo nel 1877, durante le discese lungo il fiume dal centro dell’Africa.
GRANGER / ALBUM
del quale si fidava più di ogni altro: Henry Morton Stanley, giornalista statunitense senza scrupoli ed esperto conoscitore dell’Africa (noto anche per aver attraversato, nel 1877, le cascate Livingstone). Tra il 1879 e il 1884, finanziato dal re belga, Stanley esplorò metodicamente il basso Congo. Le rapide ostacolavano la navigazione per 400 chilometri sino alla foce, e così Stanley tracciò un percorso parallelo via terra, fondò Léopoldville laddove il fiume era navigabile e ne risalì il corso. Stabilì degli avamposti e stipulò, a volte con la violenza, centinaia di falsi trattati con i congolesi che, senza saperlo, gli cedevano le loro terre. Riuscì così a battere sul tempo francesi, portoghesi e britannici, e poté “offrire” a Leopoldo il territorio occupato con il pretesto di scopi umanitari. Combinando le prerogative di un sovrano e di un investitore privato, il re delimitò i confini artificiali del territorio, riconosciuto nel
HENRY MORTON STANLEY Qui sotto, Stanley alla fine del XIX secolo, con il copricapo che ideò per l’esplorazione dei tropici, dotato di fori per favorire il passaggio di aria. GRANGER / ALBUM
1885 dalla Conferenza di Berlino, in cui gli europei si spartirono l’Africa. Dopo complesse trattative con la Francia e il Portogallo, nella capitale tedesca venne creato a tavolino lo Stato libero del Congo, ottanta volte più grande del Belgio, che doveva essere «neutrale, libero nei commerci, e all’inizio privo di tasse doganali e senza schiavi». Nel corso della conferenza Leopoldo venne eletto all’unanimità re del Congo, ma l’opinione pubblica belga era riluttante a riconoscergli il titolo, e quindi il potere del monarca rimase «a titolo personale». Pur di sfruttare il nuovo possedimento, il re ricorse alle proprie ricchezze e, per amministrarlo, nel dicembre del 1886 creò la Compagnia del Congo per il Commercio e l’Industria. Fu un caso davvero insolito: mai prima di allora un territorio coloniale era appartenuto a una sola persona. Assieme ai funzionari belgi, in Congo iniziarono ad arrivare imprenditori, mercanti e missionari, attirati
LOREM IPSUM STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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MAPPA: ENCYCLOPAEDIA BRITANNICA / BRIDGEMAN / ACI. FOTO: AKG / ALBUM
TRA LE ETNIE DEL CONGO CHE RESISTETTERO AI BELGI VI FURONO LA CHOKWE E LA LUBA. SOPRA, MASCHERA CHOKWE; SOTTO, STATUETTA LUBA. ENTRAMBI I PEZZI SI TROVANO A TERVUREN (BELGIO), NEL MUSEO REALE PER L’AFRICA CENTRALE.
(1) Boma
(3) Matadi
(2) Léopoldville
(5) ECUATORIA
MAPPA DELL’AFRICA COLONIALE PUBBLICATA VERSO IL 1902. I CONFINI DEL CONGO SONO SEGNATI IN ARANCIONE.
ADOC-PHOTOS / ALBUM
elle lingue parlate lungo le sue sponde, il Congo è denominato «il fiume». I suoi numerosi affluenti, assieme al fiume, costituiscono più di 11.000 chilometri di vie fluviali: i colonizzatori belgi poterono subito contare su un’immensa rete di comunicazioni, percorsa da navi a vapore che erano in grado di rifornirsi di una materia prima all’apparenza inesauribile: il legno della foresta. Il principale ostacolo erano le rapide della parte inferiore del fiume – incuneato tra rocce di quarzo, conosciute come i monti di Cristallo, che impedivano la navigazione per circa 400 chilometri. Per schivare l’ostacolo, nei cinque anni in cui fu assoldato da Leopoldo (1879-1884) Stanley aprì con la dinamite un cammino e vi fece trasportare dai portantini le navi
a vapore smontate. La strada metteva in comunicazione Boma (1), all’estuario del Congo – la città che Leopoldo trasformò nella capitale del suo stato –, con Léopoldville, l’attuale Kinshasa (2), il porto fondato all’inizio delle rapide. Con quelle barche Stanley partì da Léopoldville e fondò una catena di avamposti per i 1.600 km del principale tratto navigabile del fiume. L’intralcio dell’attività commerciale dovuta alle rapide si risolse con l’inaugurazione, nel 1898, della ferrovia che univa Léopoldville a Matadi (3), un porto fluviale a monte di Boma dove veniva esportato il caucciù raccolto a costo del sangue all’interno del Paese. I popoli autoctoni vennero soggiogati grazie ai mezzi spietati della Force Publique, costituita nel 1885, che nel 1900 raggiunse la cifra di 19mila uomini, divenendo così la forza armata più potente di tutta l’Africa. Nel 1887 il sedicente filantropo Leopoldo raggiunse un accordo con Tippu Tip. Il grande trafficante arabo di schiavi, di base a Kasongo (4), divenne il governatore del distretto delle Cateratte del Congo, anche se nel 1890 si ritirò poi a Zanzibar in seguito alle pressioni belghe. Ciononostante, le ambizioni di Leopoldo non si limitavano al Congo: il sovrano mirava infatti ad aggiungere ai suoi possedimenti anche parte della valle del Nilo. Con tale obiettivo ordinò a Stanley di attraversare il Congo fino a Equatoria (5) – nell’attuale Sudan del Sud, allora territorio egiziano – e di liberare il governatore, Emin
IL CONGO, RISERVA PRIVATA DEL RE LEOPOLDO II
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NAVE A VAPORE SULLE RIVE DEL CONGO. 1900 CIRCA.
GUERRIERI DEL CONGO. FOTOGRAFIA SCATTATA NEL 1894.
Pascià, assediato dalle forze islamiche ribelli del Mahdi. La spedizione durò tre anni, dal 1887 al 1890, e sebbene Stanley fosse effettivamente giunto a Equatoria, i britannici riuscirono a tenere il Nilo fuori dalle grinfie del sovrano belga.
REGNI CENTENARI
IL CONGO PRIMA DEI BELGI
V
erso il 1870 nel territorio del futuro Stato libero del Congo c’erano più di 400 realtà politiche, che includevano antichi e grandi regni. Alcuni non erano più fiorenti o erano addirittura in decadenza, spesso a causa del traffico di schiavi, delle guerre civili con i nemici esterni e delle ingerenze europee. Tra di loro figuravano il regno del Congo (che durò dal 1395
OCCIDENTALI E CONGOLESI IN UNA SCATOLINA INTAGLIATA IN UNA ZANNA DI AVORIO. 1880-1890.
al 1914) e le grandi confederazioni dei lunda (16601887), luba (1585-1889), chokwe (sopravvissuta, questa, sino al 1930), kuba (dal XVII secolo al 1910), kazembe, kakongo, loango ecc. I loro territori vennero spartiti tra il Belgio, il Portogallo, la Francia e la Gran Bretagna. Quando decaddero i vecchi regni, nel XIX secolo sorsero degli stati avvantaggiati dalla tratta degli schiavi con la costa
orientale africana e dal commercio con l’oceano Indiano, il Sudan e l’Egitto, come il regno dei mangbetu o i sultanati degli zande. I regni di Tippu Tip, a Maniema, e il regno di Yeke di M’Siri furono schiacciati dai belgi. E allo stesso modo vennero conquistate centinaia di entità politiche minori, di clan e società acefale (senza un vero e proprio capo) come quelle, tra le altre, dei tetela, dei mongo e degli nzakara.
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da guadagni ed evangelizzazioni facili. Gli europei vi si potevano stabilire «senza chiedere il permesso» e senza rendere conto a nessuno. Alcune terre erano della corona belga, altre dello stato e delle società private; a queste si aggiungevano le cosiddette «terre vacanti» (ovvero senza europei, dato che gli africani non erano affatto considerati), di proprietà del re o cedute alle compagnie che saccheggiavano le materie prime della colonia, soprattutto il caucciù e l’avorio. I rappresentanti dello stato e gli agenti delle compagnie prendevano una percentuale sulla vendita dei prodotti, quindi avevano tutto l’interesse a ottenerne la massima produzione e ricorrevano perciò a ogni mezzo, anche alla violenza. Per sorvegliare la colonia, nel 1885 fu istituito un corpo armato: la Force Publique (FP), dalla fama
sinistra. Ne facevano parte africani, spesso criminali, uomini senza radici, schiavi in fuga o mercenari stranieri – etiopi e somali, ma pure liberiani, senegalesi e perfino congolesi reclutat i con la forza –; era comandata da ufficiali europei, in maggioranza belgi e anche scandinavi. La Force Publique schiacciò i congolesi, sedò ogni ribellione ed eliminò le ultime entità indipendenti. Perché il Congo non era certo disabitato. Il suo territorio di quasi tre milioni di chilometri quadrati, equivalente a circa dieci volte l’Italia, era occupato da approssimativamente 450 entità politiche grandi, medie, piccole e piccolissime: monarchie, domini, confederazioni, clan... Lo Stato libero del Congo firmò trattati con i capi locali, con le buone o con le cattive. Altre volte li spinse gli uni contro
IL BELGIO ER A UNA DEMOCR AZIA, MA NEL CONGO DOMINAVA UNA TERRIBILE DITTATUR A MIVERO, CAPO DI UN CLAN, NEL 1935, CON UNA CASACCA DELLA FORCE PUBLIQUE E MEDAGLIONI CHE ESALTAVANO LEOPOLDO II. GETTY IMAGES
IN ATTESA DEL CARICO
Portantini al porto fluviale di Matadi, intorno al 1890, prima di riprendere il cammino verso l’interno del Congo. ADOC-PHOTOS / ALBUM
Le denunce In via del tutto eccezionale, il Congo belga fu sottoposto a un’insolita tassazione da parte degli altri stati colonialisti, che resero note le atrocità belghe. Non c’è da stupirsene. Potenze come la Francia, la Germania e, soprattutto, la Gran Bretagna, guardavano al Congo dalle loro colonie centroafricane e vedevano come Leopoldo tenesse lontane le loro compagnie da ghiotti guadagni. Favorirono perciò la campagna contro il Belgio, come fecero pure gli Stati
LA PRESENZA DEL MONDO NATURALE Sotto, itombwa, utensile impiegato dal popolo dei kuba per la divinazione. Questo ha la forma di un elefante. La parte piana era unta con acqua e olio, e su di essa l’indovino faceva scivolare un pezzo di legno.
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gli altri, e fece diventare capitribù persone corrotte, criminali, prezzolate, tutte odiate dai congolesi. Alcuni dirigenti resistettero per diversi anni e altri, una volta sottomessi, si riarmarono e continuarono a combattere fino agli anni quaranta del XX secolo.
Uniti mentre, al pari di tutto l’Occidente, continuavano a comprare i prodotti provenienti dal Congo. Personalità e istituzioni diverse cominciarono a denunciare e a portare alla luce i misfatti belgi. Il Belgio era una democrazia, ma in Congo aveva instaurato una terribile dittatura. Un professore belga, Félicien Cattier, denunciava: «Leopoldo II regna in modo assoluto su tutte le attività interne ed esterne dello Stato libero del Congo [...] Ha disposto lui l’organizzazione della giustizia, dell’esercito e del regime industriale e commerciale. Potrebbe affermare, con maggiore autenticità di Luigi XIV, “Lo stato sono io”». Nel 1904-1905 una commissione di inchiesta internazionale pubblicò un rapporto sugli abusi nella raccolta del caucciù, senza però accusare direttamente Leopoldo. Nacque l’AssoSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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membri della force publique con un ufficiale. I soldati erano chiamati "albini" perché portavano fucili Albini. Fotografia pubblicata dalla rivista Berliner Illustrirte Zeitung nel 1907.
MANI IN CAMBIO DI PROIETTILI Quando i soldati andavano a sedare una rivolta o a controllare i lavori forzati, gli ufficiali chiedevano una mano mozzata per ogni proiettile esploso, come prova che questo non era servito ad altro (a cacciare, per esempio). Per poterle conservare, le mani venivano affumicate.
la missionaria inglese Alice Seeley Harris documentò con fotografie le atrocità commesse in Congo, come l’amputazione delle mani.
DA SINISTRA A DESTRA: ULLSTEIN BILD / GETTY IMAGES; EVERETT COLLECTION / BRIDGEMAN / ACI; UIG / BRIDGEMAN / ACI
ciazione per la riforma del Congo. I detrattori erano a mano a mano aumentati, e tra di loro vi erano funzionari come il britannico Edmund Dene Morel, che aveva già denunciato il «caucciù rosso», così definito a causa del sangue versato per procurarlo. Morel aveva ottenuto che il caso del Congo entrasse nell’agenda del parlamento inglese, e Londra aveva commissionato un rapporto al console britannico del Congo, Roger Casement, uomo di incredibile onestà e serietà, che sarebbe divenuto famoso per quel rapporto del 1903-1904 con il quale si giocò la sua carriera diplomatica. Nel rapporto Casement parlava di sfruttamento, infanticidio, stupri, mutilazioni (come quella del ragazzo «a cui i soldati, assieme agli ufficiali bianchi, avevano lacerato
le mani a calci di fucile contro un albero»). Casement avrebbe fatto una brutta fine: in seguito all’esperienza in Congo e nelle piantagioni di caucciù peruviane divenne un tenace anticolonialista e, da irlandese, nel 1916 appoggiò l’insurrezione antibritannica di Dublino, che lo condusse alla forca. Alla campagna di denuncia si unirono pure i socialisti, i liberali progressisti, gli scienziati, gli artisti e i letterati come il francese Charles Péguy («Non è il Congo Belga, è il Congo leopoldiano», dirà). L’appoggiarono i religiosi sgomenti, come il gesuita belga Vermeersch, professore all’Università cattolica di Lovanio, o il pastore, giurista e storico statunitense G.W. Williams. Quest’ultimo accusò «il governo personale in Congo di Sua Maestà », «sovrano senza morale, che lega i prigionieri come buoi, con catene che gli si
LO SCRITTORE STATUNITENSE MARK TWAIN ERA CATEGORICO NEL DENUNCIARE I «DIECI MILIONI DI MORTI» ROGER CASEMENT, IL CONSOLE BRITANNICO DEL CONGO CHE DENUNCIÒ I CRIMINI COMMESSI. BRIDGEMAN / ACI
zanne di elefante davanti a una base commerciale del Congo, in una fotografia scattata verso il 1900. I congolesi avevano il divieto di vendere o procacciare avorio a chiunque non fosse un agente di re Leopoldo.
Senza pietà Ci furono pure colonialisti pentiti, come il belga Édouard Tilkens, tenente della Force Publique, che raccontò: «Ho dovuto combattere contro i capitribù che si rifiutavano di collaborare. La gente preferisce morire nella foresta, dove fugge [...] È una guerra orribile: armi da fuoco contro lance e armi bianche». L’agente Moray poi confessò che il suo distaccamento era stato mandato in un villaggio per controllare se gli indigeni stessero raccogliendo il caucciù. In caso contrario, avrebbero dovuto «ucciderli tutti, uomini, donne e bambini». Li avevano trovati seduti tranquillamente. Moray racconta: «Ci lanciammo su di loro e li massacrammo senza
pietà». Quando, un’ora più tardi, giunse un loro superiore, disse: «“Benissimo, però non basta”. E ci ordinò di mozzare la testa agli uomini e appenderle sulle palizzate attorno al villaggio [...] E di tagliarla anche a donne e bambini, e appendere queste ultime in forma di croce». Le denunce furono una rivelazione per l’Occidente coloniale, quasi mai interessato alla “gente di colore”, per quanto Leopoldo e i suoi avessero cercato di presentare il Congo come una “colonia modello”. Lo statunitense Mark Twain parla categorico di «dieci milioni di morti»: «se il sangue innocente sparso in Congo fosse messo in secchi, e i secchi collocati l’uno accanto all’altro, la fila si estenderebbe per duemila miglia». Un altro scrittore, il britannico Arthur Conan Doyle, creatore di Sherlock Holmes, afferma: «In Inghilterra siamo in
GLI ALTRI EUROPEI
Sotto, placca di avorio in cui sono raffigurati due missionari del Congo. Scultura del XIX secolo.
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conficcano nella carne [...] compra schiavi a tre lire l’uno [...] e importa donne per fini immorali». O come il missionario, anch’egli statunitense, William Sheppard, il quale riferisce come «si affumichino le mani e i piedi mozzati per non farli imputridire dal caldo».
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IL RE DEL CAUCCIÙ La crescita industriale dell’Occidente fu l’origine della domanda di caucciù grazie alla quale Leopoldo divenne milionario, e i suoi sudditi africani, schiavi. ANNUNCIO DI PNEUMATICI DELLA MARCA MICHELIN NEL 1906. L’INDUSTRIA DELL’AUTOMOBILE DIPESE DAL CAUCCIÙ NATURALE FINO ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE.
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IL RE LEOPOLDO, A FORMA DI SERPENTE DI CAUCCIÙ, STRANGOLA IL CONGO. CARICATURA PUBBLICATA DAL SETTIMANALE SATIRICO INGLESE PUNCH NEL 1906.
UN RAMPICANTE DA CUI SI RICAVAVA IL CAUCCIÙ DEL CONGO. FOTOGRAFIA PUBBLICATA DAL CONGO BELGE NEL 1909.
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RACCOLTA DEL CAUCCIÙ CON OSTAGGI. ILLUSTRAZIONE DI F. DE HAENEN PUBBLICATA IN THE GRAPHIC NEL 1906.
l caucciù marchiò a fuoco la storia del Congo. La sua richiesta crebbe incredibilmente negli anni novanta del XIX secolo, quando i Paesi industrializzati cominciarono a utilizzarlo come isolante di cavi elettrici o telefonici, per fabbricare giunture e manicotti e, soprattutto, pneumatici per ogni tipo di veicoli. Nel 1900 si consumavano più di 40mila tonnellate di caucciù all’anno, proveniente in parti uguali da Brasile e Africa centrale. Nel Congo il caucciù si otteneva soprattutto dai rampicanti selvatici del genere Landolphia, e Leopoldo ne accelerò l’estrazione prima che andassero a pieno regime le piantagioni di alberi di caucciù che, a mano a mano, sorgevano nelle regioni tropicali. Il rampicante sale sugli alberi per decine di metri in cerca di luce, e il caucciù è la sua resina coagulata, che si ottiene praticando un’incisione nel tronco. Per raccoglierlo gli uomini dovevano lasciare i villaggi, stabilirsi nella foresta pluviale (che i frequenti acquazzoni trasformavano in pantano) e inerpicarsi sugli
alberi. Per costringerli rapivano i loro familiari, gli sparavano, gli mozzavano le mani... Secondo i dati dell’Abir (Anglo-Belgian India Rubber and Exploration Company) un uomo adulto doveva portare ogni 15 giorni dai 3 ai 4 kg di caucciù secco, il che comportava spostamenti sempre più difficili, perché dalla Landolphia si ricava 1 kg a ettaro. Un impiegato della Société Anversoise du Commerce au Congo calcolava che, per raggiungere la quota, i lavoratori dovevano trascorrere 24 giorni al mese nella foresta. I proventi erano magnifici, perché il rampicante selvatico non richiedeva alcun investimento. Solo lavoro, ottenuto con la violenza. Poi gli uomini percorrevano chilometri per consegnare il caucciù, pagato con tessuti, perline, sale o coltelli. Non stupisce che, all’inizio del XX secolo, il Congo fosse la colonia più redditizia dell’Africa: nel 1897 l’Abir investiva 1,35 franchi per chilo di caucciù e lo vendeva a 10 franchi ad Anversa, con un guadagno del 741%.
LA VENDITA DEL CONGO AL BELGIO
L’ULTIMO AFFARE DI RE LEOPODO
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el 1890 Leopoldo II ottenne dal parlamento belga un prestito di 25 milioni di franchi in sostegno alla sua lotta contro il traffico di schiavi in Congo, che richiedeva immense spese (salario dei soldati, postazioni fortificate, navi a vapore...), anche se in realtà era solo una maschera per saccheggiare il territorio. In cambio, nel suo testamento, il re lasciò il Congo al Belgio. Tuttavia il Belgio non poté aspettare così a lungo: dovette comprare il Congo dal monarca quando le atrocità commesse spinsero la Gran Bretagna e gli Stati Uniti a pretendere che la colonia fosse tolta al re. Nel marzo del 1908 si giunse a un accordo: lo stato belga si faceva carico dei 110 milioni di debito dello Stato libero del Congo, che in buona parte consistevano
in titoli da questo emessi, ora in mano dello stesso re o dei suoi favoriti, come l’amante Blanche Delacroix. Inoltre il Belgio pagò 45,5 milioni per terminare alcuni progetti di costruzione, come i megalomani lavori del palazzo reale di Laeken. Infine Leopoldo ricevette altri 50 milioni «in segno di gratitudine per i grandi sacrifici compiuti in Congo». Il Paese passò al Belgio il 15 novembre del 1908.
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UNA FORTUNA INSANGUINATA
La caricatura dell’epoca, qui sopra, mostra il re dei belgi circondato da crani, in una pesante allusione all’origine insanguinata della sua fortuna.
molti a considerare il crimine commesso in Congo da re Leopoldo [...] come il più grande mai conosciuto». Non esageravano. Tutti erano d’accordo sul brutale sfruttamento subito dagli africani. In una prima fase, alla fine del XIX secolo, si raccolsero avorio e caucciù. Nel 1887 furono prodotte 30 tonnellate di gomma, e nel 1903 ben 5.900. Tra il 1884 e il 1904 furono esportate 445mila zanne di elefante: significava che erano morti 222.500 pachidermi. Quel periodo di raccolta frenetica fu il momento culminante dei lavori forzati e della mortalità umana e animale. Seguì la fase delle piantagioni (caffé, palmi-
sto), con l’imposizione di monocolture e i soprusi agli agricoltori africani, che a stento venivano pagati, se non erano maltrattati o uccisi. Seguì ancora un periodo “minerario”, tra il 1908 e il 1910, di feroce sfruttamento, tuttavia più “ordinato”. L’amministrazione sequestrava periodicamente lavoratori per piantagioni e miniere o come portantini, con giornate lavorative di 12, 14 o 16 ore. Erano rinchiusi in “villaggi” simili a campi di concentramento, dai quali non potevano uscire. Se fuggivano ed erano catturati, venivano puniti o uccisi. Se si rifiutavano, i belgi gli rapivano figli e mogli, che erano messi alla fame, vessati o mutilati per costringere gli uomini a tornare al lavoro. Dovevano pagare tasse altissime in spezie, lavoro o denaro. Chi si negava veniva picchiato, giustiziato o condannato alla
«LEOPOLDO MORÌ QUANDO GLI TOLSERO IL CONGO», DISSE UN GIORNALISTA DOCUMENTO FIRMATO DA LEOPOLDO II ATTRAVERSO IL QUALE TRASFERISCE IL CONGO AL BELGIO NEL 1908. BRIDGEMAN / ACI
CASTELLO REALE DI LAEKEN
La ricostruzione e l’ampliamento di questo castello, distrutto da un incendio nel 1890, furono una delle ossessioni di Leopoldo, che destinò a tale scopo milioni di franchi ricevuti dal Congo. OLIVIER POLET / GETTY IMAGES
guadagnare l’astronomica cifra di 50 milioni di franchi d’oro in soli dieci anni, dal 1898 al 1908. Dal 1900 i prodotti esportati valevano più del doppio rispetto a quelli importati. Un affare notevole. Forse per questo i belgi e le loro agenzie cominciarono a pretendere che lo stato si facesse carico del Congo, contro la volontà del monarca. Ma giocò certamente un ruolo anche la pressione internazionale e interna contro il «cinismo e la perdita di vite». Alla fine il re accettò l’annessione del Congo al Belgio nel 1908. Leopoldo II si spense nel dicembre del 1909, a 74 anni. «Morì quando gli tolsero il Congo», disse un giornalista. L’annessione del Congo al Belgio instaurò un sistema di sfruttamento più “razionale” e pose fine agli abusi peggiori, anche se continuarono la sottomissione, il depauperamento e le ribellioni. Per il Belgio il Congo rimase un buon investimento fino all’indipendenza, nel giugno del 1960. CARLO A. CARANCI STORICO
COSÌ IL MONDO VEDEVA IL RE
Caricatura britannica pubblicata nel 1904 circa. Il testo che l’accompagna dice: «Sua Maestà Leopoldo, re del Congo, con il vestito nazionale del suo Paese».
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mutilazione. I portantini non ricevevano il vitto durante i viaggi, e quindi la mortalità era altissima (alcuni autori ritengono che, in proporzione, fosse maggiore di quella sulle navi negriere). Le carestie erano frequenti. Un tempo l’aiuto reciproco tra le diverse comunità riusciva ad arginarle, ma i belgi avevano vietato la cosiddetta “solidarietà tribale”, termine per loro dispregiativo. Le deportazioni, le guerre e la pessima alimentazione causarono gravi epidemie e, in un contesto privo di cure sanitarie, si diffusero le infezioni: vasti territori si spopolarono, milioni di persone morirono. Oggi gli studiosi confermano quanto denunciato allora e stimano la mortalità al 50 percento: perirono tra gli 8 e i 9 su 17 milioni di abitanti (alcuni la alzano al 65 percento e altri la abbassano al 38). La popolazione ricominciò a crescere solo a partire dagli anni trenta del XX secolo. Nel 1908 l’economia coloniale di Leopoldo era fiorente. Il Congo permise al sovrano di
IL VIAGG IO DEL B E AG LE
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Nel 1831, a soli 22 anni, Charles Darwin prese parte a una spedizione scientifica che lo portò in America e in Oceania. Cinque anni dopo tornò a casa con il primo abbozzo della teoria dell’evoluzione
CHARLES DARWIN NEL 1839
Acquerello di George Richmond. Down House. Nella pagina precedente, due specie scoperte da Darwin durante il suo viaggio: un pesce delle Galápagos e una farfalla del Madagascar.
ISAAC LÓPEZ CÉSAR
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DOCTOR ARQUITECTO. UNIVERSIDAD DE LA CORUÑA
L A VITA DI DARWIN A BORDO DEL BE AGLE
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varato nel 1820, il Beagle era originariamente un brigantino di 27 metri di lunghezza e circa 8 di larghezza massima, dotato di due alberi e dieci cannoni. Ristrutturato con un nuovo albero, un castello di prua e un’ampia cabina di poppa, cinque anni più tardi prese parte a una spedizione di ricognizione in Sudamerica. Al suo ritorno, prima di salpare per una nuova missione – che avrebbe dovuto concludere la precedente – fu sottoposto a un nuovo intervento. l’equipaggio per il nuovo viaggio era composto da 7 ufficiali, 5 guardiamarina, 34 tra marinai e 6 mozzi, 8 membri della marina militare, 4 viaggiatori occasionali, tra cui Darwin e alcuni
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IL CHRIST’S COLLEGE DELL’UNIVERSITÀ DI CAMBRIDGE NEGLI ANNI ’30 DEL 1800. DARWIN VI STUDIÒ TRA IL 1828 E IL 1831. L’INCISIONE SI BASA SU UN DIPINTO DI I. A. BELL.
ROBERT FITZROY, CAPITANO DEL BEAGLE DURANTE LA SPEDIZIONE DEL 1831-1836. DOPO IL RITIRO DALLA MARINA, FITZROY SI DEDICÒ ALLA METEOROLOGIA. SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
AREA AMPLIATA
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ell’agosto del1831 il ventiduenne Charles Darwin, da poco laureatosi all’università di Cambridge, se ne stava rinchiuso in casa con lo stesso umore di chi si trova in prigione per i debiti, per dirla con le sue parole. Affascinato dal mondo naturale e dalle avventurose storie di esploratori come Alexander von Humboldt, desiderava ardentemente viaggiare. Ma il tentativo di organizzare una spedizione a Tenerife era miseramente fallito e su di lui incombeva la poco allettante prospettiva di guadagnarsi da vivere come vicario di una parrocchia di campagna. Proprio allora ricevette una lettera che gli offriva un’opportunità incredibile. Robert FitzRoy, un aristocratico capitano della marina dal temperamento volubile, cercava qualcuno della sua stessa posizione sociale che lo accompagnasse in una missione esplorativa diretta alla Terra del
manovali. Molta gente per una nave di dimensioni tutto sommato modeste, come dichiarò lo stesso Darwin: «La nave è davvero piccola, ma tutti dicono che è la migliore per il nostro lavoro… Lo spazio scarseggia e bisogna approfittarne al meglio». Il naturalista si muoveva soprattutto nella zona di poppa: si alternava con il capitano nella sua cabina 1 e disponeva di un vano per sé 2 con un letto pieghevole 3 , scaffali per i libri 4 e un armadio dove depositava le casse 5 con i campioni raccolti durante le spedizioni terrestri. Darwin si sentì ben presto a suo agio: «Con mia grande sorpresa, una nave non è scomoda per lavorare. Tutto è a portata di mano e la ristrettezza degli spazi ti obbliga a essere così metodico che, alla fine, risulta un vantaggio. Conoscendo il mare ho scoperto che è un luogo tranquillo, è come tornare a casa dopo un lungo viaggio».
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IL BEAGLE DI FRONTE ALLA COSTA DELLA TERRA DEL FUOCO NEL 1832. DIPINTO DI CONRAD MARTENS.
IL VIAGG IO DEL B E AG LE IN SU DA M ERIC A
CASSETTO CON CAMPIONI DI CONCHIGLIE DI MOLLUSCHI RACCOLTI DA DARWIN IN VARI LUOGHI DURANTE IL VIAGGIO. IL RITROVAMENTO DI CONCHIGLIE MARINE IN ZONE MONTUOSE STIMOLÒ LE SUE RIFLESSIONI SULLA TRASFORMAZIONE GEOLOGICA DELLA TERRA.
SESTANTE UTILIZZATO DA CHARLES DARWIN NEL CORSO DELLA SPEDIZIONE SUL BEAGLE. ROYAL GEOGRAPHICAL SOCIETY, LONDRA.
Fuoco. Ma, come era abituale nelle spedizioni di quel genere, FitzRoy voleva con sé anche un naturalista capace di sfruttare le opportunità di ricerca, di raccolta di campioni e di osservazione. Darwin non era stato la sua prima scelta per il viaggio: in precedenza aveva fatto la proposta ad altre due persone. All’inizio il giovane ricercatore non gli aveva fatto una grande impressione. Il padre di quest’ultimo, poi, che aveva pagato gli studi universitari del figlio, era comprensibilmente riluttante all’idea di finanziare un’impresa che non solo gli sembrava“inutile”, ma anche estremamente pericolosa.
A Caroline Darwin, sorella di Charles Río de la Plata, maggio 1833
Spero e credo che il tempo dedicato a questo viaggio… porti a buoni risultati per le scienze naturali. Mi sembra che il tentativo di dare un contributo, per quanto piccolo, alle acquisizioni generali in materia di conoscenza costituisca uno scopo rispettabile come qualsiasi altro… Pensa alle Ande, alle rigogliose foreste di Guayaquil, alle isole dei mari del sud… Quanti paesaggi meravigliosi, quante tribù di uomini vedremo! Quante ottime occasioni di studio della geologia e di una massa infinita di esseri viventi! Questa prospettiva non rallegrerebbe anche lo spirito più depresso?
Il Beagle era un brigantino di appena 27 metri di lunghezza e 8 di larghezza con un equipaggio formato da ben 74 persone. Il naufragio era un rischio abituale per i naviganti, ma ancor più frequente era la morte per malattia. Gran parte del Sudamerica era poi un territorio isolato e senza legge. Alla fine il padre di Darwin cedette e FitzRoy si lasciò convincere. Il 27 dicembre del 1831 il Beagle salpò dal porto di Plymouth con il giovane naturalista a bordo. Inizialmente il viaggio sarebbe dovuto durare due anni, ma si protrasse a cinque e portò 112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Comincia l’avventura
GRANDE BARRIERA CORALLINA AUSTRALIANA. DISEGNO DI CONRAD MARTENS.
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durante la spedizione del beagle Darwin non si limitò a raccogliere e a catalogare una grande quantità di campioni scientifici trovati nelle sue esplorazioni. Il giovane scrisse anche una lunga serie di lettere ai suoi familiari e ai suoi amici che permettono di ricostruire il suo stato d’animo – mutevole ma mai arrendevole – nel corso dei cinque anni di viaggio. Notevoli anche i disegni di Conrad Martens, pittore paesaggista a bordo del Beagle.
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ILLUSTRAZIONI PROVENIENTI DA ZOOLOGIA DEL VIAGGIO DELLA HMS BEAGLE (1838-1843) 1. RODITORE GRAOMYS GRISEOFLAVUS, SCOPERTO IN SUDAMERICA. 2. FRINGUELLO GEOSPIZA FORTIS, OSSERVATO ALLE GALÁPAGOS. 3. PASSERO THRAUPIS BONARIENSIS. 4. LA HMS BEAGLE.
ILLUSTRZIONI: SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK. MAPPA: CHARLES W. BERRY / NGS
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CONTENITORE CON LUCERTOLE RACCOLTE DA DARWIN DURANTE IL VIAGGIO. NATURAL HISTORY MUSEUM, LONDRA.
L’INTERESSE PER LE LUCERTOLE CILENE IL 18 APRILE DEL 1835 Darwin scrisse da Valparaíso (Cile) una lunga lettera al suo amico botanico John Stevens Henslow in cui raccontava i risultati delle sue esplorazioni geologiche, botaniche e zoologiche. La missiva è un buon esempio del coscienzioso metodo di lavoro di Darwin. L’esploratore spiegava a Henslow che gli inviava una bottiglia con due lucertole, una delle quali aveva la particolarità di essere vivipara, «come puoi vedere dalla nota che l’accompagna». Sapeva che uno studioso francese ne aveva trovata una simile, per cui invitava l’amico a mandare i campioni «a qualche esperto di lucertole e anatomista comparato perché pubblichi una buona analisi della sua struttura interna».
Darwin non solo in Sudamerica, ma anche ad Haiti, in Australia, in Nuova Zelanda, nel continente africano e su varie isole dell’Atlantico e del Pacifico. Il cuore della spedizione non fu tanto la traversata oceanica in sé: Darwin trascorreva tutto il tempo che poteva sulla terraferma e spesso si allontanava a cavallo per centinaia di chilometri e si riuniva al Beagle al successivo punto di attracco. Lungo il cammino riempì un quaderno dietro l’altro di appunti e osservazioni e spedì in patria decine di barili, casse e contenitori pieni di piante essiccate, fossili, rocce, pelli e scheletri di animali. Esplorò territori che andavano dalla grigia desolazione delle isole Falkland (note anche come isole Malvine) alle impressionanti vette
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delle Ande, dalle selvagge scogliere ghiacciate del canale di Beagle alle spiagge di Tahiti, dai lussureggianti paesaggi tropicali di Rio alle umide foreste pluviali del Cile meridionale.
Un naturalista in erba Il primo scalo fu l’isola vulcanica di Santiago, nell’arcipelago di Capo Verde. Dopo tre settimane terribili di mal di mare, Darwin si lanciò entusiasta nella sua prima missione sul campo, che consisteva nell’identificare dei campioni di roccia ed elaborare una sezione trasversale degli strati vulcanici. Aveva con sé gli strumenti che aveva comprato prima di partire: un microscopio, un clinometro per misurare l’inclinazione, dei martelli da geologo e un vascolo per conservare le diverse spe-
cie di piante, ma era ancora un principiante. In una lettera indirizzata al suo professore di Cambridge John Stevens Henslow, si vantava di aver scoperto una piovra che cambiava colore, «probabilmente una nuova specie». Non lo era, come gli fece notare con diplomazia Henslow. Il 16 febbraio il Beagle si fermò per rifornirsi di viveri sui remoti e sterili isolotti rocciosi dell’arcipelago di San Pietro e San Paolo, e due settimane più tardi attraversò l’equa-
LA FORESTA BRASILIANA
«Ho visto in tutta la loro perfezione foreste, fiori e uccelli: contemplare quella natura è un piacere infinito», annotò Darwin nel 1832, durante il suo soggiorno in Brasile.
LE E SPLOR A ZION I DI DA RWI N SI SPI N SERO DA I TER R ITOR I DE SOL ATI DELLE ISOLE FA LK L A N D FI NO A LLE V E T TE DELLE A N DE E A LLE PA R A DISI ACH E SPI AGG E DI TA H ITI STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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un’impressionante collezione di ragni e di vespe. Il vascello ripartì a fine giugno in direzione sud con a bordo Darwin, che lungo la rotta poté osservare focene, balene, pinguini e foche. A fine luglio la spedizione raggiunse il maestoso estuario del Río de la Plata. Sulla riva settentrionale di Montevideo l’equipaggio contribuì a soffocare una rivolta. Sulla sponda meridionale di Buenos Aires i membri della spedizione furono ricevuti a colpi di cannone, perché sospettati di portare il colera. Si trattava, insomma, di luoghi pericolosi e instabili. Darwin, oltretutto, riteneva quel paesaggio vuoto e piatto di scarso interesse rispetto al rigoglio dei tropici.
Nell’America selvaggia
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INDIGENO DELLA TERRA DEL FUOCO
L’illustrazione, realizzata dal pittore paesaggista del Beagle Conrad Martens, apparve nel resoconto di viaggio pubblicato da FitzRoy nel 1838.
tore e raggiunse le coste del Brasile. Ammalatosi durante l’ultima parte del viaggio, Darwin fu inizialmente costretto a rimanere a bordo. Era aprile quando mise per la prima volta piede in terra americana, nella baia di Botafogo, a Rio de Janeiro. Mentre il Beagle navigava lungo la costa per verificare meticolosamente le carte nautiche, Darwin si fece lasciare a terra e nei mesi successivi esplorò il Corcovado, passando dalla geologia alla zoologia e riunendo
DOP O AV ER AT TR ACC ATO I N U N A BA I A DELL A TER R A DEL FUOCO, DA RWI N E I SUOI NON P OTERONO DOPPIA R E C A P O HOR N CON I L B E AG LE A C AUSA DELLE TEM PE S TE 116 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Il giovane naturalista si dedicò durante tutto quel periodo alla raccolta di campioni di flora e fauna, con grande disperazione del commissario di bordo del brigantino, che si lamentava del disordine regnante sui ponti della nave. Darwin imparò anche qualche rudimento di tassidermia e iniziò a sperimentare nuovi metodi a base di cera, alcol e sottili lamine di piombo per conservare i bizzarri esemplari raccolti. Ma non sempre i risultati erano quelli sperati. Nelle prime lettere dall’Inghilterra Henslow, che era il destinatario dei tesori spediti da Darwin, non risparmiava le critiche e i consigli: le etichette non erano attaccate bene, gli scarabei arrivavano schiacciati e i topi ammuffiti, mentre il contenuto di un misterioso recipiente ricordava «i resti di una esplosione elettrica, una pura massa di fuliggine». Nel settembre del 1832 la nave riprese la rotta verso sud ed esplorò le coste dell’Argentina. Da buon cacciatore qual era, Darwin imparò a usare le bolas – dei lacci di cuoio con delle sfere alle estremità – per catturare gli struzzi e scoprì il suo primo grande fossile di vertebrato. Si trattava di un megaterio, che suscitò l’interesse del giovane naturalista per la sua somiglianza con una specie locale di aguto (un tipo di roditore). A novembre fecero ritorno a Buenos Aires per rifornirsi prima del lungo viaggio verso capo Horn. Nel mese di dicembre, un anno dopo aver lasciato
TERRA DEL FUOCO
Vista dalla baia Pía (Cile) con, sullo sfondo, la cordigliera Darwin, battezzata così da FitzRoy nel 1834 in onore del suo compagno di viaggio sul Beagle.
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l’Inghilterra, il Beagle ormeggiò nella baia del Buon Successo, lungo la costa della Terra del Fuoco, come già avevano fatto in precedenza le spedizioni di Cook e Banks. Era un territorio maestoso ma inospitale. L’equipaggio trascorse il natale a Hermite, un’isola a ovest di capo Horn, però le condizioni meteorologiche gli impedirono di proseguire. Durante una tormenta una delle loro scialuppe si schiantò contro la nave e nell’incidente Darwin perse appunti e campioni preziosi. Per FitzRoy si trattava della seconda spedizione in quella zona. Oltre a mappare l’intricato dedalo di canali dell’estremo continentale, aveva in programma di fondare una missione. Insieme a un missionario, sul Beagle viaggiavano anche i tre giovani indigeni
I “SELVAGGI” DELLA TERRA DEL FUOCO NEL CORSO DEL VIAGGIO Darwin mostrò un marcato
interesse per le popolazioni indigene di tutte le zone che visitava, dai tahitiani o i maori fino ai nativi americani. Le sue opinioni sulla differenza tra uomini “selvaggi” e “civilizzati” oggi risultano piuttosto scioccanti. «Impossibile immaginare la differenza che esiste tra un uomo selvaggio e uno civilizzato; è di gran lunga maggiore rispetto a quella tra un animale selvatico e uno addomesticato», scrisse nel suo diario a proposito degli indigeni della Terra del Fuoco. Ma si trattava di una differenza puramente culturale, dato che Darwin, lontano dalle teorie razziste della sua epoca, era convinto dell’unitarietà della specie umana.
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MAPPA DELLE GALÁPAGOS ELABORATA DALL’AMMIRAGLIATO BRITANNICO A PARTIRE DALLE INFORMAZIONI FORNITE DAL CAPITANO FITZROY DOPO IL SUO VIAGGIO SUL BEAGLE. SULL’IMMAGINE È SOVRIMPRESSO IL FRAMMENTO DI UNA LETTERA DI FITZROY, CON LA SUA FIRMA.
che aveva portato con sé in Inghilterra nel viaggio precedente. Il brigantino depositò il suo carico umano nello stretto di Ponsonby. Invece FitzRoy e altri membri dell’equipaggio, tra cui lo stesso Darwin, ripartirono a bordo di due scialuppe: percorsero 300 miglia e mapparono le insenature più recondite del canale di Beagle, così chiamato in onore della prima spedizione di FitzRoy.
Il paesaggio era spettacolare. Nelle sue lettere Darwin descriveva in questo modo la vista della costa gelata: «L’azzurro del ghiaccio contrasta con il biancore della neve, circondato dal verde scuro delle foreste». Ma si trattava di una bellezza insidiosa: un gigantesco blocco di ghiaccio si staccò e precipitò in acqua, provocando un’onda che avrebbe potuto distruggere le scialuppe alla fonda. Fu grazie agli sforzi di Darwin che riuscirono a salvarsi. In onore del suo compagno di viaggio, FitzRoy ribattezzò quel luogo Darwin Sound. Il gruppo di spedizione fece ritorno alla missione, ma trovò gli edifici distrutti; il missionario confessò intimorito di sentirsi in pericolo. Il progetto fu quindi abbandonato. L’anno successivo, quando il gruppo tornò in quei luoghi, incontrò uno degli indigeni rimpatriati, un membro della tribù degli yaghan di nome Orundellico – che tutti chiamavano Jemmy Button – e scoprì che questi aveva lasciato da parte l’abbiglia118 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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La Terra del Fuoco
TARTARUGHE DELLE GALÁPAGOS
L’8 ottobre del 1835 Darwin sbarcò sull’isola Santiago delle Galápagos. Fu impressionato dal gran numero di tartarughe e notò le differenze di costituzione tra gli esemplari di ciascuna delle isole dell’arcipelago. Nell’immagine, tartarughe dell’isola Isabela, esplorata da Darwin alcuni giorni prima della Santiago.
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NANDÙ SCOPERTO DA DARWIN ALLE FALKLAND NEL 1834. DARWIN LO CONSIDERAVA UNA VARIANTE DELLO STRUZZO, MA IL SUO AMICO BOTANICO JOHN GOULD, AUTORE DEL DISEGNO QUI SOPRA, LO IDENTIFICÒ COME UNA SPECIE DISTINTA, CHE BATTEZZÒ RHEA DARWINII.
mento occidentale e aveva ripreso il suo stile di vita originario. Anni più tardi Darwin avrebbe contribuito a finanziare un fondo creato da un ex membro della spedizione per aiutare i due nipoti di Orundellico. Una volta fallito il tentativo di doppiare capo Horn, il Beagle si diresse verso est e il primo marzo del 1833 raggiunse le isole Falkland, dove la marina britannica era interessata a stabilire dei punti di approdo sicuri. Preoccupato che l’equipaggio del Beagle non fosse in grado di portare a termine la missione da solo, FitzRoy acquistò una seconda nave, la Adventure. Le due imbarcazioni fecero ritorno a Montevideo in aprile e qui Darwin iniziò la sua prima grande esplorazione interna, accompagnato dal giovane Syms Covington, che aveva assunto come cameriere e assistente di ricerca. I due si sarebbero ricongiunti con la nave solo a settembre, a Buenos Aires. A dicembre il Beagle e l’Adventure salparono in direzione sud seguendo la stessa rotta dell’anno precedente. Nella Terra del Fuoco Darwin trovò finalmente un esemplare di una specie di uccello che cercava da tempo, la rhea pennata (oggi nota come nandù di Darwin), simile allo struzzo, ma solo
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DOP O E SSER E SBA RC ATO SU LL A COS TA CI LEN A DA RW I N I NTR A PR E SE U N A SPEDIZION E TER R E S TR E DI 350 CH I LOM E TR I AT TR AV ER SO LE A N DE, DA VA LPA R A ÍSO A COPIA P Ó 120 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
dopo che l’equipaggio ne aveva già mangiato una buona metà durante il pranzo di Natale. Anche in questa occasione la spedizione dovette tornare alle Falkland senza essere riuscita a doppiare capo Horn.
Attraverso le Ande La chiglia di rame del Beagle era gravemente danneggiata: a metà aprile fu necessario attraccare presso la foce del Río Santa Cruz per ripararla. FitzRoy approfittò dell’occasione per organizzare una spedizione lungo il fiume. I partecipanti si addentrarono per 225 chilometri in un territorio inesplorato, a tratti remando e a tratti trascinando le scialuppe. Impiegarono tre settimane a risalire il fiume e tre giorni per tornare di nuovo alla foce
navigando a vela. Darwin sfruttò il tempo a disposizione per aggiungere nuove osservazione di carattere zoologico e geologico agli appunti dell’anno precedente. Una volta riparato il Beagle, il terzo tentativo si rivelò quello buono: la spedizione riuscì a doppiare capo Horn e nel giugno del 1834 raggiunse la costa occidentale del Sudamerica. Trascorsero l’anno successivo in Cile e Perù, dove mantennero lo stesso metodo dei due anni e mezzo precedenti in Brasile, Uruguay e Argentina: il brigantino ripercorreva la rotta in senso inverso per esplorare i complessi arcipelaghi della costa. Darwin detestava le umide e impenetrabili foreste pluviali temperate del sud del Cile e si assentava spesso per organizzare delle spedizioni
interne. Prima di attraversare le Ande passò dall’eleganza coloniale di Valparaíso fino a Santiago. Il territorio era in gran parte inesplorato, per cui il naturalista si affidava alla collaborazione dei coloni, che gli disegnavano mappe, gli raccomandavano i percorsi più sicuri e lo aiutavano a reperire guide e cavalli. Quando si ammalò gravemente, forse di febbre tifoide, uno di loro si prese cura di lui per diverse settimane. Nel frattempo FitzRoy, isolato, sovraccarico di lavoro e depresso per la riluttanza dell’ammiragliato a finanziare le spese dell’Adventure – che fu costretto a vendere –, minacciava di mollare tutto. Il futuro della spedizione era appeso a un filo. Una volta guarito, Darwin effettuò un’altra grande esplorazione terrestre: percorse 350
LE ISOLE GALÁPAGOS
Foto dell’isola di San Cristóbal (che fa parte dell’arcipelago) scattata da León Dormido, un isolotto disabitato. Darwin arrivò a San Cristóbal il 17 settembre del 1835.
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FRINGUELLI DELLE GALÁPAGOS. LITOGRAFIA TRATTA DA ZOOLOGIA DEL VIAGGIO DEL BEAGLE (1838-1843).
L’ORNITOLOGIA SI FA STRADA GENERALMENTE si associa la teoria dell’evoluzione
allo studio effettuato da Darwin sugli uccelli delle Galápagos. Le differenze esistenti tra gli esemplari di ogni isola gli avrebbero dimostrato che le varie specie evolvevano in modo diverso in funzione di uno specifico ambiente fisico . Tuttavia, oggi si ritiene che Darwin arrivò a questa conclusione solo molto tempo dopo essere tornato in Inghilterra e in base a nuovi esperimenti condotti tramite l’allevamento di uccelli. In ogni caso i campioni di fringuelli che portò con sé dalle Galápagos erano mal etichettati, pertanto al suo ritorno a Londra si rivelò più complicato del previsto identificare le varie specie.
chilometri lungo le Ande, da Valparaíso a Coquimbo e Copiapó, prima di ricongiungersi con il Beagle e salpare per Iquique, all’epoca in Perù (attualmente in Cile), e poi per Lima. Alla fine di luglio del 1835 il Beagle si diresse a ovest e a metà di settembre raggiunse l’arcipelago delle Galápagos. I membri della spedizione trascorsero cinque settimane esplorando le varie isole. Intanto Darwin, che ci avrebbe messo ancora dei mesi a formulare una rudimentale teoria dell’evoluzione delle specie, raccoglieva e archiviava dati sulla flora e sulla fauna di ognuna di esse. Nella sua mente stava allora prendendo forma una teoria scientifica molto diversa dalle precedenti. Sulle alture andine l’esploratore aveva notato un fatto curioso, ovvero l’esistenza di alberi fossilizzati, che un tempo dovevano essere stati sommersi dal mare prima di ritrovarsi sul passo di Uspallata, dove li aveva osservati. Ma com’era potuta succedere una cosa simile? Più tardi, esattamente il 19 gennaio del 1835, mentre stava esplorando l’entroterra, l’equipaggio del Beagle assistette all’eruzione del vulcano Osorno. Un mese dopo, più a nord, Darwin fu testimone di un terremoto e dei devastanti effetti di un maremoto e iniziò a ipotizzare che questi eventi potessero essere connessi. FitzRoy tornò ad analizzare i precedenti sondaggi e confermò che l’altezza della terra era cambiata. In base a queste osservazioni, Darwin propose una teoria dell’abbassamento e del sollevamento del suolo su scala continentale secondo la quale piccoli cambiamenti nel corso di ere geologiche potevano modellare i paesaggi, anche quelli monumentali e apparentemente senza tempo delle Ande. Partendo da questi presupposti, quando a Tahiti vide per la prima volta una barriera corallina, Darwin propose una nuova, brillante soluzione al mistero dell’origine degli atolli oceanici. A sua CAMPIONE DI CORALLO RACCOLTO DA CHARLES DARWIN DURANTE IL VIAGGIO ALLE ISOLE COCOS, A NORDOVEST DELL’AUSTRALIA, DOVE ARRIVÒ NELL’APRILE DEL 1836. SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
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insaputa, le lettere in cui raccontava queste idee vennero pubblicate su alcune riviste scientifiche. Così, ancor prima di tornare in patria, il naturalista si era già costruito una solida reputazione scientifica. Ma ci sarebbe voluto del tempo prima di arrivare a casa. Mentre il gruppo lasciava le coste africane in direzione ovest, FitzRoy si accorse di alcuni errori sulle carte nautiche che aveva disegnato in precedenza. Decise così di attraversare nuovamente l’Atlantico per tornare a esplorare la costa del Brasile. Il Beagle attraccò finalmente a Falmouth il 2 ottobre del 1836. Darwin non lasciò mai più la Gran Bretagna. Pubblicò più di venti articoli tratti dai suoi appunti e dai suoi diari, ottenendo grande successo sia come
scrittore di libri di viaggi sia come scienziato. Il lavoro di identificazione delle centinaia di specie da lui raccolte fu ripartito tra vari scienziati, molti dei quali divennero suoi amici. Anche se non fu elaborata durante il viaggio, la teoria dell’evoluzione delle specie tramite il cosiddetto processo di selezione naturale sorse dalla scoperta di quella grande varietà di piante e animali (e anche di esseri umani), e soprattutto dall’opportunità di vederli nella complessità dei loro habitat. Molti anni più tardi Darwin non avrebbe esitato a definire quel viaggio come l’evento più importante della sua vita.
BARRIERA CORALLINA A TAHITI
Darwin arrivò a Tahiti nel novembre del 1835. «Ci siamo fermati dieci giorni ad ammirare la bellezza di quest’isola quasi classica», scrisse in una lettera.
ALISON PEARN DIRETTRICE ASSOCIATA DEL PROGETTO DI CORRISPONDENZA DI DARWIN DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAMBRIDGE.
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MEGATERIO
GLIPTODONTE
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La teoria dell’evoluzione prese forma nella mente di Darwin a partire da vari stimoli: la lettura di suoi predecessori, come Lamarck, l’osservazione di specie viventi durante la spedizione del Beagle e i successivi esperimenti di allevamento di uccelli e piante. Secondo alcuni autori, un altro fattore decisivo fu l’analisi dei fossili di animali estinti ritrovati nella pampa argentina.
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I FOSSILI, LA CHIAVE EVOLUTIVA
FRONTESPIZIO DELLA PRIMA EDIZIONE DI L’ORIGINE DELLE SPECIE. 1859. SPL / AGE FOTOSTOCK
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TOXODON
MACRAUCHENIA
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è probabile che già durante il viaggio a bordo del Beagle Darwin avesse concepito un primo abbozzo della teoria dell’evoluzione. In ogni caso, fu subito dopo il ritorno a Londra che iniziò a formularla. Lo fece in segreto, in quaderni privati e in un primo breve trattato, che tenne nascosto per timore dello scandalo che la teoria avrebbe potuto creare tra i cristiani benpensanti. Nel 1837 disegnò anche un “albero della vita” (a sinistra) che illustrava la derivazione delle specie attraverso l’evoluzione o “trasmutazione”, secondo il termine allora in uso. Darwin si decise a scrivere e a pubblicare la versione definitiva della sua teoria nel 1859, e lo fece per anticipare un suo connazionale, Alfred Russel Wallace, che era arrivato a conclusioni simili.
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G E N E S I D E L L A N U O VA T E O R I A
PRECEDENTI N EL X VIII SECOLO
Lo studio scientifico dei fossili iniziò con il francese Georges Cuvier negli anni novanta del settecento. Cuvier raccolse fossili nei dintorni di Parigi, ma studiò anche uno scheletro gigante, delle dimensioni di un elefante, ritrovato nel 1788 nei pressi di Buenos Aires e poi inviato a Madrid. A partire dai disegni ricevuti, Cuvier lo battezzò Megatherium americanum e ipotizzò che quell’animale estinto appartenesse alla famiglia dei bradipi. Ma Cuvier non credeva che nel tempo le specie si potessero evolvere.
SCHELETRO DI MEGATERIO RINVENUTO NEL 1788. A SINISTRA, RICOSTRUZIONE DELL’ANIMALE ORIGINALE. NHM / BRIDGEMAN / ACI
DA RW I N I N A RG ENTI N A
Nel corso delle missioni esplorative condotte in Argentina, Darwin ritrovò numerosi fossili di quelli che allora definiva «animali antidiluviani». Alcuni li identificò con il megaterio di Madrid: «Sono stato estremamente fortunato con le ossa fossili… Ho trovato parti di curiosi strati di ossa che si attribuiscono al Megatherium…», scrisse. L’esploratore rimase colpito anche da altri resti, che ipotizzò potessero appartenere ad «armadilli giganti, simili alle specie viventi così abbondanti da queste parti».
GLIPTODONTE (GLYPTODON CLAVIPES). NATURAL HISTORY MUSEUM DI LONDRA. A SINISTRA, RICOSTRUZIONE. SPL / AGE FOTOSTOCK
L’A N A L I S I D E G L I E S P E R T I
Darwin inviò i suoi fossili a un amico paleontologo, Richard Owen, affinché li studiasse. Fu Owen a determinare la specie cui ciascuno corrispondeva. Confermò che alcuni erano di megaterio. Altri, invece, erano di macrauchenia, una specie che paragonò ai cammelli, errore che in seguito avrebbe rettificato. I fossili di “armadillo gigante” erano invece dei gliptodonti, una famiglia di mammiferi corazzati imparentata con gli armadilli. Altri ancora erano dei toxodon, simili al rinoceronte.
CRANIO DI TOXODON PLATENSIS. A SINISTRA, RICOSTRUZIONE DI QUESTO ANIMALE ESTINTO.
L A CO N CLUSIO N E DI DA RW I N
VERTEBRA DI MACRAUCHENIA PATACHONICA. A SINISTRA, RICOSTRUZIONE DELL’ANIMALE.
Le analisi di Owen e gli studi di altri ricercatori confermarono l’intuizione che Darwin aveva avuto probabilmente già durante il viaggio: le specie animali derivano l’una dall’altra e pertanto evolvono nel corso del tempo. Nell’autobiografia che scrisse poco prima di morire Darwin ricordò la profonda impressione che gli aveva provocato il ritrovamento di fossili nella pampa argentina: «Era evidente che osservazioni di quel tipo potevano essere spiegate ipotizzando una variazione graduale delle specie, e quell’idea mi ossessionava».
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GRANDI SCOPERTE
Varata, affondata e ritrovata 450 anni dopo Nel 2011 alcuni archeologi svedesi hanno identificato il relitto della Mars, una nave da guerra affondata nelle acque del Baltico nel 1564
DEA / ALBUM
1564
FINLANDIA
NORVEGIA
SVEZIA
STOCCOLMA
MARE DEL NORD
Relitto della Mars
te, dio romano della guerra, era la nave usata a scopi bellici più grande e moderna dell’epoca: quasi 60 metri di lunghezza – «dieci piedi in più della cattedrale di Lubecca», come scrisse un impressionato contemporaneo –, 1.800 tonnellate di dislocamento e più di cento cannoni distribuiti su cinque piani rinforzati con legno di quercia svedese di primissima qualità. Non sorprende che fosse soprannominata Makalös, “L’ineguagliabile”. Il suo equipaggio era composto da 350 marinai
Il fiore all’occhiello della marina reale svedese affonda con tutto l’equipaggio durante la battaglia di Öland.
e da 450 soldati. Nel 1564, quando ne fu ultimata la costruzione, quest’imponente fortezza marina dotata di cannoni in bronzo – di dimensioni mai viste prima su un’imbarcazione – sembrava destinata a cambiare l’assetto delle future armate navali europee.
Un incendio fatale Il 30 maggio 1564, poco tempo dopo il varo della Mars, la flotta svedese e quella della coalizione tedesco-danese si scontrarono nei pressi dell’isola di Öland. Durante il primo giorno di combattimenti la Mars ebbe la meglio. Mantenendosi sopravento la nave riusciva a respingere facilmente qualsiasi tentativo di attacco degli avversari. Ma, incomprensibilmente, dopo il tramonto la flotta svedese si disperse:
Decennio 1990
I fratelli Lundgren, sommozzatori professionisti, iniziano le ricerche della Mars nelle acque del Baltico.
2011
Il 26 maggio i fratelli Lundgren localizzano i resti di un imponente relitto, che risulta essere la mitica nave.
ERIK XIV, RE DI SVEZIA. RITRATTO DI STEVEN VAN DER MUELEN. XVI SECOLO. GALLERIA NAZIONALE DEI RITRATTI, STOCCOLMA.
TOMASZ STACHURA
A
metà del XVI secolo il sovrano svedese Erik XIV era alle prese con la Guerra del nord dei sette anni. Il conflitto vedeva il suo Paese contrapposto a una coalizione formata dalla Danimarca e dalla città-stato tedesca di Lubecca. Le tre potenze si contendevano il controllo delle rotte mercantili del mar Baltico dopo il declino della Lega anseatica, la federazione di città che durante il Medioevo aveva dominato il commercio nella regione. Per affrontare la sfida Erik XIV aveva fatto costruire quella che avrebbe dovuto essere l’arma risolutiva del conflitto: la Mars. Dedicata a Mar-
all’alba del 31 maggio solo sei navi erano ancora schierate in formazione. Duramente provata dalle perdite del giorno prima, l’armata navale nemica decise di tentare il tutto per tut-
2014
National Geographic realizza un documentario sul ritrovamento e lo studio del relitto della Mars.
VISTA DELLA MARS sul fondale del Baltico. L’immagine è stata composta a partire da 650 scatti differenti.
L’ORGOGLIO DI SVEZIA l’archeologo subacqueo Johan Rönnby, ai suoi tempi la Mars (qui sotto in un’incisione russa del XIX secolo) era la nave da guerra «più moderna del mondo». Due dei suoi cinque ponti erano riservati esclusivamente all’artiglieria, cosa non comune nelle imbarcazioni militari dell’epoca.
to assaltando la Mars. Per prima cosa fece fuoco sul timone, che mise fuori uso, poi bombardò la coperta con proiettili incendiari. Quindi trecento uomini si lanciarono all’arrembaggio dell’imbarcazione svedese. Mentre il ponte ardeva e i soldati si battevano in un sanguinoso corpo a corpo, un barile di polvere da sparo fu centrato da un colpo di cannone. L’esplosione conseguente scatenò una reazione a catena che distrusse
completamente la prua della Mars. Al crepuscolo il fiore all’occhiello della marina svedese giaceva sui freddi e oscuri fondali del Baltico. Con essa venivano inghiottiti dal mare seicento membri dell’equipaggio e centinaia di soldati nemici. Riuscirono a salvarsi solo alcune decine di naufraghi, tra cui l’ammiraglio Jakob Bagge. In Svezia non tutti si stupirono della tragica fine della Mars: era una nave maledetta. Per costruire i suoi
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SECONDO
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI SCOPERTE
TOMASZ STACHURA
UN SOMMOZZATORE esplora i resti della Mars. Alla buona conservazione del relitto hanno contribuito una serie di caratteristiche del Baltico: la bassa salinità, la scarsa ossigenazione e l’assenza di molluschi xilofagi.
imponenti cannoni di bronzo il volubile e arrogante re Erik aveva fatto fondere le campane delle chiese locali. Agli occhi del popolo, questo era senza dubbio un grave sacrilegio. Quattrocentocinquanta anni più tardi la Mars sembrava vittima di un’altra
maledizione, che ne impediva il ritrovamento. Nel 1998 i fratelli Richard e Ingemar Lundgren, sommozzatori professionisti e appassionati di archeologia marittima, hanno creato la Global Underwater Explorers, un’organizzazione che è riuscita a rinvenire vari relitti nel Baltico. Ma per lungo tempo la leggendaria Mars si è sot-
tratta a ogni tentativo di ritrovamento.
Iniziano le ricerche La svolta è arrivata la notte del 26 maggio 2011, quando i Lundgren erano a bordo della nave da ricerca Princess Alice, a 18 miglia (quasi 30 chilometri) dall’isola di Öland. Il sonar dell’imbarcazione ha iniziato a segnalare la presenza di resti
Tra i resti della Mars i sommozzatori hanno trovato armi, stoviglie, oggetti personali e perfino ossa umane ARMATURA DA PARATA DEL RE ERIK XIV DI SVEZIA. PALAZZO REALE, DRESDA. BPK / SCALA, FIRENZE
dispersi sul fondale marino, a 75 metri di profondità. Seguendo le indicazioni degli strumenti di bordo, alle 23:45 i due fratelli hanno individuato quello che sembrava lo scafo in legno di un grande vascello, adagiato sul lato di dritta e circondato da residui di travi. Sul ponte di comando della Princess Alice è esplosa l’euforia. Ma bisognava verificare che si trattasse proprio della storica nave svedese, visto che il fondale del Baltico è letteralmente cosparso di relitti. I fratelli Lundgren e Frederik Skogh si sono preparati a calarsi lungo i 75 metri
BATTAGLIA DI ÖLAND. Opera di Willem van de
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
Velde, l’incisione ricostruisce gli schieramenti delle flotte prima dello scontro (1658).
che li separavano dalla nave. Erano attrezzati con costosi rebreather a circuito chiuso, delle apparecchiature per la respirazione che consentono immersioni estreme, anche se richiedono lunghe decompressioni a quattro gradi di temperatura. La visibilità era solo di due metri, ma lo stato di conservazione del relitto era ottimale: le caratteristiche dell’acqua del Baltico, infatti, possono preservare le navi per secoli. L’esplorazione ha permesso ai sommozzatori di verificare che la prua era andata distrutta e le assi di legno dello scafo presentavano segni dell’incendio di-
vampato a bordo. Tra i resti della nave sono state ritrovate armi, stoviglie, oggetti personali e persino ossa umane. Sul fondale sabbioso era adagiato un cannone di bronzo. Avvicinandosi, i sub hanno notato lo stemma del re Erik XIV. Era la conferma definitiva del fatto che si trattasse della Mars. Richard Lundgren ha lanciato un grido attraverso la maschera: «Siamo atterrati su Marte!».
La più fotografata Il sito è stato accuratamente documentato. La squadra archeologica, guidata da Johan Rönnby dell’U-
niversità di Södertorn, ha scattato migliaia di foto. La prima immagine completa del relitto è stata fornita dal fotografo polacco Tomasz Stachura: dopo 20 ore di immersioni e altre 300 di paziente lavoro al computer, Stachura ha messo insieme 650 scatti per creare un fotomosaico, che è stato poi utilizzato dagli archeologi per realizzare modelli 3D completi della nave. In base alla severa legislazione svedese sul patrimonio sommerso, la squadra è stata autorizzata a riportare in superficie solo poche cose: qualche trave, tre cannoni e tre talleri d’argento così
ben conservati che è stato possibile studiarli subito, «senza nemmeno bisogno di ripulirli», secondo quanto dichiarato da Richard Lundgren. Tutti i resti dell’imbarcazione sono stati fotografati e georeferenziati in situ. Non è esagerato affermare che la Mars fu la nave più potente della sua epoca. E ora è anche la più studiata. L’analisi dettagliata alla quale è stata sottoposta ha rivoluzionato le tecniche di immersione e di documentazione dei relitti depositati nelle profondità marine a livello mondiale. —Xabier Armendáriz STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Prossimo numero SUFFRAGISTE, LA LOTTA PER IL VOTO DELLE DONNE
BRIDGEMAN / ACI
NEI PRIMI del novecento le femministe britanniche furono protagoniste di una lotta a oltranza per ottenere un diritto fondamentale: il voto in uguaglianza di condizioni con gli uomini. Davanti agli impedimenti posti dal parlamento britannico le suffragiste ricorsero a forme di protesta quali il sabotaggio e lo sciopero della fame, che portarono avanti senza sosta fino a raggiungere l’obiettivo nel luglio del 1928.
MOZART A VIENNA: LA CORSA AL SUCCESSO Mozart era già un musicista famoso in tutta Europa. Tuttavia, i suoi datori di lavoro lo trattavano come un semplice servo. Stanco della situazione, nel 1781 decise quindi di trasferirsi a Vienna e vivere esclusivamente del proprio talento. I concerti e le composizioni ammaliarono il pubblico, ma non furono sempre sufficienti a pagare le bollette. Una malattia stroncò la sua carriera all’età di 35 anni. A 25 ANNI
ERICH LESSING / ALBUM
La giustizia del faraone Nell’antico Egitto i delitti minori, come il furto, venivano giudicati da un tribunale popolare mentre quelli gravi, come l’omicidio o la ribellione, erano in mano al visir.
Il primo tempio della storia Nel 1995 l’archeologo tedesco Klaus Schmidt scoprì nel sud della Turchia delle impressionanti costruzioni megalitiche del IX millennio a.C.
Gli indovini A Roma si adoperava ogni mezzo per conoscere in anticipo i disegni celesti: indovini e aruspici erano incaricati di interpretare la volontà degli dei.
La nascita dell’impero musulmano Tra il 661 e il 750 i califfi omayyadi governarono da Damasco l’impero musulmano, che grazie a loro si estese dall’Iraq fino alla penisola iberica.
Il gioco piĂš tuo.
Cultura. Oltre ogni racconto.
7000 anni di storia e 3 siti Unesco tra i quali Valletta Capitale Europea della Cultura 2018. Un arcipelago che abbraccia le diverse culture del Mediterraneo a poco piÚ di un’ora di volo dall’Italia.
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