IL DIVO AUGUSTO
MASTABE
LA TERRA VISTA DAI GRECI
JIROFT
LE MASTABE
TERRA VISTA DAI GRECI
TOMBE DELL’ANTICO REGNO
I CENTO GIORNI DI NAPOLEONE
AUGUSTO
CENTO GIORNI DI NAPOLEONE
SISSI
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- ESCE IL 24/08/2018 - POSTE ITALIANE S.P.A SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) 1 COMMA 1 - LO/MI. GERMANIA 11,50 € - SVIZZERA C. TICINO 10,20 CHF - SVIZZERA 10,50 CHF - BELGIO 9,50 €
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N. 115 • SETTEMBRE 2018 • 4,95 €
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SISSI, IMPERATRICE ANTICONFORMISTA
LA TEMPESTOSA VITA DI ELISABETTA D’AUSTRIA
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EDITORIALE
«non c’è alcuna differenza tra monarchia e repubblica. Nobili, borghesi e Chiesa sono un’unica cosa. Tutti vivono sfruttando il sudore e la miseria dei contadini e dei lavoratori diventando sempre più ricchi e più grassi». Sono parole di Luigi Lucheni, il manovale anarchico parmigiano che il 10 settembre del 1898 colpì al petto Sissi con una lima e la uccise. Erroneamente conosciuta come principessa, in realtà Elisabetta era imperatrice, un titolo ben più importante. Anche se cambia poco ai fini della sua morte, avvenuta sulla riva del lago di Ginevra durante uno dei suoi innumerevoli viaggi. Come lo stesso Lucheni, subito arrestato, ammise davanti al giudice istruttore Charles Léchet, non era lei il suo reale obiettivo. L’uomo si era recato a Ginevra da Losanna, «dove faccio quello che fanno tutti i miei connazionali all’estero: lavorare» – nel suo caso, nei cantieri per la costruzione del nuovo palazzo delle poste – per uccidere il principe d’Orléans. Come Lucheni aveva letto sui giornali, il pretendente al trono di Francia era appena giunto in città. Non era vero. «Ho deciso quindi di uccidere una personalità qualsiasi, principe, re o presidente della repubblica; tanto sono tutti della stessa razza!». Forse Lucheni non lo venne mai a sapere, ma Sissi non era esattamente della stessa razza. Non aveva nel sangue né l’austerità della corte viennese, della quale divenne suo malgrado un simbolo, né la remissività che sarebbe stata auspicabile in una donna, tanto più nella sua posizione. Per il suo tempo e per il suo ruolo, Sissi era una ribelle. ELENA LEDDA Vicedirettrice editoriale
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8 ATTUALITÀ 12 PERSONAGGI STRAORDINARI Washington Irving Affascinato dall’Alhambra di Granada, lo scrittore le dedica un’opera che la renderà famosa in tutto il mondo.
18 EVENTO STORICO La peste di Giustiniano L’epidemia di peste, la prima secondo gli storici, mise in ginocchio l’impero bizantino.
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22 VITA QUOTIDIANA Quipu, il codice segreto degli inca
Nel Perù precolombiano i governatori usavano un artefatto tessile composto da nodi e cordicelle per conservare e trasmettere tutte le informazioni rilevanti per l’impero.
118 GRANDI ENIGMI Kraken, il calamaro gigante
La terrificante creatura marina della mitologia scandinava, nata dai racconti dei navigatori di ritorno da viaggi in acque sconosciute, potrebbe essere una specie di calamaro di 14 metri di lunghezza.
122 GRANDI SCOPERTE Il più grande bottino della Britannia romana
Nel 1992 un cittadino di Hoxne scoprì con il suo metal detector uno straordinario deposito di monete, vasellame e gioielli di epoca romana.
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54 LA TERRA VISTA DAI GRECI I PRIMI FILOSOFI GRECI
elaborarono varie teorie sulla forma della terra e la sua posizione nell’universo. In questa avventura ebbero un ruolo importante i presocratici, ovvero quei pensatori vissuti tra il VI e il V secolo a.C., per lo più nella Ionia, un’antica regione dell’Asia Minore. Anassimandro la immaginava come un cilindro sospeso nel vuoto, i pitagorici sostenevano che fosse sferica e Aristarco che ruotasse intorno al sole. di paloma ortiz TEMPIO DI NAXOS ERETTO NELL’EPOCA IN CUI I FILOSOFI INIZIARONO A INTERROGARSI SUGLI ASTRI E LA FORMA DEL COSMO.
26 Mastabe, le tombe dell’Antico regno I faraoni delle prime dinastie egizie e, più tardi, i cortigiani e i membri della famiglia reale, si facevano seppellire nelle mastabe, grandi tombe sulle quali sorgevano enormi strutture di pietra. DI MAITE MASCORT
68 Augusto, l’imperatore dio Anche se a Roma non fu mai divinizzato in vita, già prima di morire Augusto era oggetto di un culto ufficiale nelle province dell’impero, dove era considerato un dio. Si inaugurò una consuetudine che proseguì coi suoi successori. DI JUAN MANUEL CORTÉS COPETE
84 I cento giorni di Napoleone Dopo circa nove mesi di confino sull’isola d’Elba, Napoleone rientrò a sorpresa in Francia nella speranza di far rivivere il suo impero. Ma il suo sogno si spense dopo cento giorni. DI JEAN-JOËL BRÉGEON
100 Sissi, imperatrice anticonformista Trasformata dal cinema nel simbolo della Vienna imperiale, in realtà Sissi non si adattò mai alla vita di corte. Viaggiatrice instancabile, fu una lucida osservatrice della sua epoca e andò incontro a una tragica fine. DI MARÍA PILAR QUERALT DEL HIERRO
42 Jiroft, Mesopotamia d’Iran Apparsa dopo millenni di oblio nel 2001, la civiltà di Jiroft presenta originali reperti in pietre semipreziose, un enigmatico sistema di scrittura e indubbi contatti con la Mesopotamia. Per alcuni si tratterebbe della leggendaria Aratta; per altri, del regno di Marhashi. In ogni caso si tratta di una scoperta straordinaria. DI ANTONIO RATTI
VASO IN CLORITE RINVENUTO A JIROFT.
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I CENTO GIORNI DI NAPOLEONE
SISSI, IMPERATRICE ANTICONFORMISTA LA TEMPESTOSA VITA DI ELISABETTA D’AUSTRIA
SISSI, IMPERATRICE D’AUSTRIA. LA CELEBRE OPERA DI FRANZ WINTERHALTER LA RITRAE ALL’ETÀ DI 27 ANNI. FOTO: SYLVAIN GRANDADAM / AGE FOTOSTOCK
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Pubblicazione periodica mensile - Anno X - n. 115
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Editore: RBA ITALIA SRL via Gustavo Fara, 35 20124 Milano
Direttore generale: ANDREA FERDEGHINI Vicedirettrice editoriale: ELENA LEDDA Grafica: MIREIA TREPAT Coordinatrice: ANNA FRANCHINI Collaboratori: LUIGI COJAZZI; MATTEO DALENA; ALESSANDRA MAESTRINI; STEFANIA MARINONI; VALENTINA MERCURI; ALESSANDRA PAGANO; AMARANTA SBARDELLA; MARTINA TOMMASI
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Errata corrige • Storica 113 (luglio 2018): Il naturalista Johann Conrad Gessner, ritratto nella foto a pagina 94, non era tedesco, bensì svizzero.
YULIA PETROSSIAN BOYLE Senior Vice President, ROSS GOLDBERG Vice President of Strategic Development, ARIEL DEIACO-LOHR, KELLY HOOVER, DIANA JAKSIC, JENNIFER JONES, JENNIFER LIU, LEIGH MITNICK, ROSANNA STELLA
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NPS / NATHAN KING
KATE D. SHERWOOD / SMITHSONIAN INSTITUTION
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Immagine principale, sopra: Kari Bruwelheide, dello Smithsonian, con i resti ritrovati nella fossa comune. In alto a sinistra, lo scavo della fossa. In basso a sinistra, un’illustrazione della seconda battaglia di Manassas, combattuta nell’agosto 1862. Sotto, il proiettile Enfield conficcato nel femore di uno degli scheletri rinvenuti.
ARCHEOLOGIA FORENSE
Ossa che raccontano una storia angosciosa Studio pionieristico rivela il penosissimo dramma vissuto dai medici nel corso di una delle battaglie più letali della Guerra civile americana li ha rinvenuto in una fossa comune i resti di due combattenti e di diversi frammenti di arti amputati. Con il primo scavo professionale di una fossa comune medica risalente all’epoca della Guerra civile, gli antropologi forensi dello Smithsonian’s National Museum of Natural History hanno stabilito come sono morti i soldati e come i chirurghi da campo
erano costretti a prendere rapide decisioni sulla vita e sulla morte.
Terreno insanguinato Combattuta nella campagna lungo il Bull Run, a una quarantina di chilometri da Washington D.C., la prima battaglia di Manassas (21 luglio 1861) terminò con la vittoria dei confederati. Su quello stesso terreno, nell’a-
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a scoperta di una fossa comune nei pressi di un campo di battaglia della Guerra di secessione statunitense ha gettato nuova luce sulle sofferenze dei soldati feriti e sulle abilità dei medici che cercarono di salvarli. Nel 2014, nel Manassas National Battlefield Park, in Virginia, l’agenzia governativa che si occupa dei parchi naziona-
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IL MALE MINORE
Z. FRANK / ALAMY / ACI
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IL MANASSAS NATIONAL BATTLEFIELD PARK.
gosto 1862 si tenne un secondo, più sanguinoso scontro, conclusosi anch’esso con una caotica ritirata dell’Unione. I bottoni ritrovati nel sito sembrano appartenere a una giubba dell’Unione non in uso durante la prima delle due battaglie. Ha preso così corpo la teoria che la fossa risalisse al secondo combattimento, teoria confermata dal proiettile di Enfield
scoperto nel femore di uno dei due scheletri completi (a sinistra). Quel tipo di fucile, infatti, era in dotazione alle forze confederate nella seconda battaglia. Ne possiamo concludere che le vittime erano soldati dell’Unione.
Storie dietro alle ossa L’analisi dei due scheletri e delle undici porzioni di arti ha fornito altri indizi sui re-
DURANTE la Guerra civile statunitense, venire feriti all’addome equivaleva spesso a una condanna a morte. Se la ferita era localizzata vicino al tronco – ad esempio sulle anche –, le probabilità di sopravvivenza CHIRURGICI erano poche. La maggior parte STRUMENTI DELLA GUERRA CIVILE delle ferite, però, coinvolgeva STATUNITENSE. gambe o braccia, che i medici quasi sempre decidevano di amputare: un’operazione effettuata senza l’ausilio di cloroformio. Dato l’impatto traumatico della procedura, la velocità era fondamentale. I segni lasciati dalla sega sugli arti ritrovati nella fossa di Manassas rivelano un’abilità e un’accuratezza considerevoli. Molto probabilmente il chirurgo da campo tagliava prima i tendini e la carne attorno alla circonferenza della gamba con uno scalpello, per poi raggiungere l’osso. Dopo aver alzato i tessuti, segava infine l’osso. Per l’intero intervento ci volevano forse meno di dieci minuti: un lasso di tempo decisamente esiguo, dal punto di vista chirurgico, ma uno strazio interminabile per il paziente.
I SEGNI PRECISI E ACCURATI LASCIATI DA UNA SEGA SULL’OSSO DI UNA GAMBA AMPUTATA RITROVATO A MANASSAS.
sti ritrovati. L’amputazione era di certo una procedura straziante e traumatica, ma le prove rinvenute sulle ossa suggeriscono che venisse effettuata con grande abilità. I due uomini di cui sono stati disseppelliti i corpi completi, però, non ebbero l’opportunità di sperimentarla: la gravità delle loro ferite suggerisce che i chirurghi abbiano deciso
di non operarli e che siano stati lasciati morire. Nel giugno del 2018 i resti dei due giovani, uno di circa 20 anni e l’altro tra i 30 e i 34 e provenienti dagli stati del nord-est, sono stati trasferiti all’esercito statunitense in attesa di essere sepolti ad Arlington, in bare ricavate dal legno di un albero cresciuto sul campo di battaglia. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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THE COUNTRY DOCTOR MUSEUM
immagine di un’amputazione in un ospedale da campo a Fort Monroe, in Virginia, durante la Guerra civile statunitense (1861-65).
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UNA PROCEDURA STRAZIANTE. La rara
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PERSONAGGI STRAORDINARI
Washington Irving e l’incanto dell’Alhambra Nel 1829 lo scrittore nordamericano realizzò un viaggio fino a Granada. Meravigliato dall’Alhambra, le dedicherà un’opera che la renderà famosa in tutto il mondo
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u una delle personalità più inquiete e affascinanti che diedero lustro alla giovane repubblica nordamericana. Lo stesso nome dello scrittore, storico, diplomatico, antropologo e viaggiatore romantico era un omaggio a George Washington, padre fondatore degli Stati Uniti. Divenuto famoso a poco più di vent’anni per aver scritto una storia satirica di New York, sua città natale, maturò il suo stile a Liverpool, dove si trasferì nel 1815 per rappresentare gli interessi dell’attività familiare d’import-export. Quando, tre anni dopo, l’attività fallì, Irving si dedicò a viaggiare per l’Europa e a scrivere libri di racconti che ottennero un grande successo. Dai suoi numerosi viaggi avrebbe tratto Racconti di un viaggiatore, pubblicato nel 1824. Nella raccolta di racconti compaiono anche alcuni testi dedicati al brigantaggio italiano. Irving, infatti, ebbe modo di conoscere il fenomeno durante un soggiorno in Italia avvenuto tra il 1804 e il 1805. Il racconto Storie di briganti
Viaggiatore, scrittore e ambasciatore 1804-06 Il nordamericano Washington Irving compie un primo viaggio per tutta l’Europa. La tappa italiana include Genova e la Sicilia.
1815 Lo scrittore arriva a Liverpool all’età di 32 anni come rappresentante dell’attività d’import-export di famiglia.
1818 Dopo il fallimento dell’attività familiare il giovane Irving intraprende un viaggio per tutta l’Europa.
1828 Scrive una biografia di Cristoforo Colombo che ha molto successo. In seguito viaggia per l’Andalusia.
Come risultato del viaggio pubblica I racconti dell’Alhambra, una delle sue opere più celebri.
LOREM IPSUM
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italiani è ambientato in una locanda di Terracina in cui si incontrano alcuni viaggiatori diversi per nazionalità e status sociale, tra cui un medico e una coppia di sposi veneziani che, a uno a uno, iniziano a descrivere vicissitudini legate alla presenza dei briganti che in quel tempo imperversavano l’Italia centrale e meridionale. Nel suo viaggio per l’Italia lo scrittore aveva visitato anche Genova, la Sicilia, Roma, Bologna e Milano. Irving si trovava invece a Parigi quando nel 1826 venne invitato a trasferirsi a Madrid dall’ambasciatore nordamericano in Spagna. La missione era quella di tradurre in inglese dei documenti sulla scoperta e la conquista dell’America da parte degli spagnoli. Da sempre grande appassionato di storia, Irving decise di scrivere una biografia di Cristoforo Colombo, che fu pubblicata nel 1828. Il successo fu tale da spingere lo scrittore a lanciarsi in un nuovo progetto: una storia della conquista di Granada da parte dei re cattolici, libro che vide la luce l’anno seguente. Durante la sua permanenza in Spagna, oltre a trascorrere il tempo in archivi e biblioteche, Irving viaggiò molto. Nel 1828 insieme a due amici, al
Nei racconti di Irving l’Alhambra appare come un «palazzo incantato» ILLUSTRAZIONE DI MCCANNELL PER I RACCONTI DELL’ALHAMBRA. 1920.
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LA GENESI ROMANTICA DELL’OPERA di I racconti dell’Alhambra al pittore inglese David Wilkie, amico e compagno di viaggio, Irving fa riferimento alla genesi dell’opera: «Durante le nostre peripezie attraverso le vecchie città della Spagna ci rendemmo conto di quanto lo stile saraceno si fosse mescolato con quello gotico osservando i resti conservati fin dai tempi degli arabi […] Frequentemente fummo sorpresi da scene che ci ricordavano paesaggi da Mille e una notte. Fu proprio allora che lei, Wilkie, mi spinse a scrivere qualcosa […] in grado di ricreare le sensazioni di quel profumo arabo che impregna tutta la Spagna». NELLA DEDICA
WASHINGTON IRVING. INCISIONE A COLORI DEL VIAGGIATORE, STORICO E DIPLOMATICO STATUNITENSE. GRANGER / AGE FOTOSTOCK
console e al segretario dell’ambasciata russa di Madrid, si recò all’Alhambra. In quel periodo i viaggi costituivano una vera e propria avventura. Spesso il cammino era lungo e pieno di pericoli. In certe occasioni era necessario cavalcare su sentieri a strapiombo sul mare, o sotto una pioggia incessante. Lo stesso Irving ricorda: «La maggior parte del nostro cammino è stato incredibilmente faticoso attraverso panorami selvaggi e in una parte del paese completamente sprovvista di comodità, però siamo stati ricompensati da paesaggi sublimi fatti di aspre
montagne che, in certi momenti, mi hanno impressionato con sentimenti di una grandezza austera che solo avevo provato leggendo le pagine di Dante». Viaggiavano durante la notte, si fermavano per fare colazione e continuavano fino a mezzogiorno. A quel punto facevano una lunga sosta per mangiare e riposavano fino a mezzanotte.
L’avventura granadina Dopo aver attraversato molti luoghi famosi del sud della Spagna (Cordoba, Malaga, Gibilterra, Siviglia), nel maggio del 1828 il gruppo arrivò
a Granada, dove si fermò per nove giorni e dove Irving ebbe l’occasione di visitare l’Alhambra. Affascinato dalla città, decise di tornarvi l’anno seguente. Accompagnato dal principe russo Dolgoronky, lo scrittore rimase a Granada per quasi tre mesi. Questa volta ottenne dal governatore l’autorizzazione ad alloggiare all’interno del palazzo dei nasridi. All’epoca gli interni del palazzo erano devastati dall’occupazione francese e quello stato di decadenza esotica risvegliava la sensibilità romantica dello scrittore quando li ammirava alla luce della STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
CAMERA NELL’ALHAMBRA SECONDO quanto lui stesso rac-
Irving ambientò una delle sue leggende più famose dell’Alhambra in questa sala. Incisione di David Roberts. 1834.
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conta, le stanze preparate per Irving all’Alhambra «si trovavano di fronte al palazzo e davano sul piazzale delle Cisterne. Da questi locali si poteva accedere alla torre di Comares […] Aprendo una porticina si emergeva, incantati, nella luminosa anticamera della sala degli Ambasciatori».
STANZA DEGLI ABENCERRAGES.
TARGA COMMEMORATIVA DEL SOGGIORNO DI WASHINGTON IRVING ALL’ALHAMBRA.
luna: «Tutte le ingiurie del tempo […] svaniscono completamente; il marmo recupera il suo bianco primitivo […] i saloni si bagnano di una soave chiarezza e tutto l’edificio sembra un palazzo incantato dei racconti arabi». In base ai registri del 1824 i palazzi erano abitati da 381 persone tra im-
piegati del governo, militari, sacerdoti ed emarginati (poveri, vagabondi, ladri…). Irving visse tra queste persone con naturalezza. Lì conobbe un certo Mateo Jiménez, un «filosofo straccione» che lo avvicinò e si offrì come guida. Scrisse Irving: «Ho la tipica diffidenza del
LA TÍA ANTONIA IRVING DESCRISSE questa contadina come la migliore custode dell’Alhambra visto che «manteneva l’ordine nei saloni e nei giardini arabi e si preoccupava di farli visitare agli stranieri». Sembra che la donna si mantenesse facendosi pagare le visite e vivendo di «tutti i prodotti dei giardini». La tía Antonia impediva anche che i visitatori prelevassero frammenti di stucco dalle pareti danneggiando ulteriormente il monumento. DETTAGLI DEGLI ARCHI DELLA STANZA DEGLI ABENCERRAGES. LITOGRAFIA. 1839. BRIDGEMAN / ACI
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viaggiatore verso i ciceroni ufficiali, così gli dissi: “Immagino che lei avrà dimestichezza con il posto”. Al che rispose:“Più di chiunque altro; signore, io sono figlio dell’Alhambra”. La gente comune in Spagna ha veramente un modo così poetico di esprimersi, un figlio dell’Alhambra!». Da quel momento i due instaurarono una stretta relazione che si trasformò in sincera amicizia. Irving mantenne conversazioni anche con degli anziani invalidi che avevano trovato rifugio nel palazzo, come tío Polo, un vecchio soldato le cui storie gli ispirarono La leggenda di Sleepy Hollow.
Un triste addio Il 18 luglio del 1829 Irving ricevette la notizia della sua nomina a segretario dell’ambasciata nordamericana a Londra. «Il mio dolce e felice regno nell’Alhambra venne bruscamente in-
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L’ALHAMBRA. Questo dipinto di Samuel Colman del 1865 rappresenta la città di Granada,
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dominata dall’impressionante fortezza nasride così com’era ai tempi della visita di Irving.
terrotto dall’arrivo di alcune lettere che mi sollecitavano a uscire dal quel paradiso musulmano per immergermi ancora una volta nel trambusto polveroso del mondo. Come potevo far ritorno alle mie inquietudini dopo aver assaporato quel tipo di vita così idilliaco?». Alla fine decise comunque di accettare l’incarico. La partenza venne posticipata di alcuni giorni, durante i quali Irving si dedicò a «vagare attraverso i miei luoghi favoriti, che ogni volta si offrivano sempre più deliziosi alla mia contemplazione». Alla fine lo scrittore lasciò Granada il 28 giugno del 1829. Nel salutare la città si ricordò dell’ultimo re nasride: «All’imbrunire arrivai nel luogo dove il cammino serpeggia tra le montagne e mi fermai per dirigere un ultimo sguardo su Granada. Adesso potevo comprendere qualcosa dei sentimenti provati dal povero Boabdil quando
disse addio al paradiso che si lasciava alle spalle e contemplò davanti a sé il cammino aspro e ripido che conduceva all’esilio». Si estasiò per l’ultima volta nella contemplazione del palazzo: «Come d’abitudine i raggi del sole al tramonto rilasciano un melanconico fulgore sulle rossastre torri dell’Alhambra. Potevo appena distinguere la finestra della torre di Comares dove mi ero sommerso in tanti e tanto deliziosi sogni. I numerosi boschi e giardini intorno alla città apparivano preziosamente dorati dal sole e la purpurea foschia dei tramonti estivi si estendeva lungo la pianura. Tutto era piacevole e delizioso e al tempo stesso tenero e triste al mio sguardo di addio. Mi allontanerò da questo paesaggio – pensai – prima che il sole tramonti. Porterò con me la sua immagine in tutto il suo splendore». Nel 1832 pubblicò I racconti dell’Alhambra, libro che, combinando
impressioni di viaggio con racconti ambientati durante il periodo nasride, contribuì a rendere universalmente noto il complesso del palazzo andaluso. Negli anni successivi molti viaggiatori si recarono a Granada e chiesero di Mateo Jiménez, di cui Irving aveva parlato tanto bene nella speranza che l’amico potesse guadagnarsi da vivere come cicerone e fosse così in grado di cambiare il cencioso, logoro e consumato mantello scuro che indossava quando lo vide la prima volta per una tenuta più nuova ed elegante. —Fátima de la Fuente del Moral
Per saperne di più
TESTI
I racconti dell’Alhambra Washington Irving. Studio Tesi, Roma, 2016. Storie di briganti italiani Washington Irving. Sellerio, Palermo, 1989.
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La strage della peste di Giustiniano L’epidemia di peste, la prima secondo gli storici, mise in ginocchio l’impero bizantino e ne sterminò un quarto della popolazione
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di Pelusio nel 541 d.C. Da lì risalì la costa del Levante: devastò prima Gaza e poi Gerusalemme e Antiochia. Infine giunse a Costantinopoli: nell’impero bizantino le notizie dell’epidemia erano già circolate e in città la popolazione l’aspettava terrorizzata e impotente. Era un momento di grande splendore per il regno di Giustiniano: meno di dieci anni prima aveva rischiato di essere deposto dalla Rivolta di Nika, ma da allora aveva riconquistato in Italia e in nord Africa le terre che erano
appartenute all’impero romano – del quale si sentiva il legittimo erede – ed era impegnato nella campagna contro i persiani per il dominio sulla Siria. Regnava a Costantinopoli, una metropoli che contava fra i 500 e gli 800mila abitanti che vivevano all’interno delle mura Teodosiane: un terreno fertile per un’epidemia, che infatti divampò. La maggior parte delle notizie le dobbiamo a Procopio di Cesarea, uno dei massimi storici dell’era di Giustiniano. Procopio aveva letto Tucidide e
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a peste è la pandemia per antonomasia e nell’immaginario è associata alla devastazione del trecento: la peste nera. Tuttavia, ce ne fu un’altra altrettanto letale, ma meno conosciuta, che uccise milioni di persone quasi un millennio prima: la peste di Giustiniano, la prima pandemia pestifera di cui abbiamo fonti scritte. Giungeva dall’Etiopia ma fu notata solo quando arrivò in Egitto, nella città
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EVENTO STORICO
CASTEL SANT’ANGELO, A ROMA, COSTRUITO SU UN PRECEDENTE MAUSOLEO DEDICATO AD ADRIANO.
LA PESTE DI GIUSTINIANO IN ITALIA
PESTE DI AZOTH. Il dipinto di Nicolas Poussin del 1631 fu ispirato dalla peste scoppiata l’anno prima a Milano. Musée du Louvre
NEL 590 D.C. la peste arrivò a Roma, dove era appena stato eletto il nuovo papa, Gregorio Magno, dopo che Pelagio II era morto nelle prime settimane dell’epidemia. Gregorio Magno preparò in fretta la prima Septiformis Laetania, una processione di migliaia di persone che attraversò la città (e favorì sicuramente il contagio) per richiedere la grazia a Dio. Secondo una leggenda apparsa molti secoli dopo, il corteo arrivò davanti al Mausoleo di Adriano, dove apparve l’arcangelo Michele, che rinfoderò la spada fiammeggiante fermando così l’epidemia e salvando la città.
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la sua narrazione della peste di Atene (che in realtà era probabilmente tifo) e, ispirandovisi, si impegnò in una descrizione analitica della situazione, attenendosi ai fatti e senza interpretarli come frutto di una punizione divina. Descrisse i sintomi, osservando ad esempio il fenomeno medico per cui i malati a cui i bubboni crescevano, maturavano e spurgavano, sarebbero probabilmente sopravvissuti. Se i bubboni restavano turgidi e intatti, l’esito sarebbe sta-
to fatale. Secondo Procopio, la peste uccideva fra le cinque e le dieci mila persone al giorno. La stima è forse esagerata, ma rende l’idea del panico che si creò quando la situazione divenne incontrollabile. Costantinopoli era una città progettata dai romani, quindi era attenta alle misure sanitarie di approvvigionamento di acqua fresca e aveva designato il luogo delle sepolture lontano dal centro abitato. Tuttavia, si trovò impotente di fronte all’improvviso dilagare del contagio. Uno dei problemi più pressanti fu lo smaltimento dei cadaveri: Giustiniano requisì le
Lo stesso imperatore Giustiniano contrasse il morbo all’inizio dell’epidemia ERI
L’IMPERATRICE TEODORA. MOSAICO. VI SEC. D.C. BASILICA DI SAN VITALE, RAVENNA.
tombe private per stiparle di corpi altrimenti accatastati in fosse comuni, ma ciò non fu sufficiente e si cominciò a scavare in ogni luogo disponibile, arrivando persino a usare le torri di fortificazione della città come enormi silos, che venivano riempiti di cadaveri. Altri venivano gettati dalle mura sulle scogliere, aspettando che la marea li trascinasse via. Quando il vento soffiava, la puzza che ammorbava la città era insostenibile. La via Mese, larga 25 metri, attraversava tutta la capitale dalla porta Aurea fino al Gran Palazzo ed era la principale arteria di Costantinopoli. In tempi normali era affollata e caotica, punteggiata di migliaia di negozi che vendevano ogni genere di colorata mercanzia sotto i grandi portici. In quei giorni, però, doveva sembrare uno scenario spettrale: deserta, con i commerci chiusi e costellata di cadaveri che marcivano sotto il sole d’estate. Lo
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EVENTO STORICO
SULLE MACERIE della vecchia
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chiesta, distrutta dalla Rivolta di Nika che quasi lo spodestò, Giustiniano edificò la basilica più maestosa dell’impero. Santa Sofia, Istanbul.
stesso Giustiniano contrasse il morbo all’inizio dell’epidemia. Furono giorni frenetici che videro circolare notizie contraddittorie in un pericoloso vuoto di potere in cui la potente e controversa moglie Teodora accusò i generali più fidati dell’imperatore, Buze e Belisario, di cospirazione. Quando Giustiniano guarì dal morbo (per le credenze del tempo era un miracolato), Buze venne
imprigionato, mentre Belisario venne privato dei suoi beni. Nel frattempo, accanto alla descrizione lucida di Procopio (che in parte si spiega con il suo ruolo ufficiale nell’amministrazione bizantina), si moltiplicarono le letture spirituali e apocalittiche. Il morbo era diventato “diabolico”, un atto di vendetta di Dio, inferocito per i peccati della
GIUSTINIANO I L’ULTIMO IMPERATORE BIZANTINO cresciuto nella cultura latina nacque in un villaggio di pastori in Macedonia e succedette al trono allo zio Giustino nel 527 d.C. Regnò per 38 anni, diventando uno dei protagonisti della cesura fra l’età classica e il Medioevo. SOLIDO D’ORO DI GIUSTINIANO. VI SECOLO D.C. BRITISH MUSEUM. ERICH LESSING / ALBUM
popolazione, mentre le credenze pagane si sovrapponevano alla lettura cristiana della tragedia. Si ricorse all’oniromanzia (la lettura dei sogni) e a maghi che preparavano unguenti con le polveri provenienti dai sepolcri dei santi. Persino un religioso come lo storico Gregorio di Tours guarì un ragazzo facendogli bere dell’acqua in cui aveva mescolato ceneri prelevate dalla tomba di san Giuliano martire. Peste non significava solo morte, ma anche paura e isteria. Giovanni da Efeso osservò cosa successe nella sua nativa Amida, in Siria: gli abitanti attraversavano le strade latrando come cani o chiocciando come galline. I bambini si aggiravano fra le tombe urlandosi a vicenda e mordendosi, e piangendo con lamenti come trombe
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Il batterio Yersinia pestis ha sequenziato il genoma estratto dai denti di due scheletri provenienti dal cimitero di Aschheim, in Baviera e sepolti intorno al 570 d.C. La conclusione fu che erano morti di peste. I ricercatori sono riusciti anche a isolare il batterio responsabile: lo Yersinia pestis. Era lo stesso che si risvegliò otto secoli dopo e che decimò un terzo della popolazione europea nel trecento, durante la famosa peste nera, e che ritornerà in Asia alla fine del diciannovesimo secolo. Non sono chiare le ragioni di queste pause durate secoli, ma il batterio responsabile dei casi di peste che ancora oggi colpiscono migliaia di persone nel mondo, nonostante gli antibiotici, è lo stesso del Medioevo: nel 2017 c’è stata un’epidemia in Madagascar che ha fatto circa 220 morti.
– senza più ricordare la strada di casa, sempre che ad aspettarli vi fosse qualcuno sopravvissuto. Solo l’intervento degli apostoli avrebbe salvato la città, gridavano gli abitanti barricatisi nelle chiese, dove crollavano sfiniti dalla malattia.
I morti superano i vivi L’economia ebbe un tracollo quando il numero dei morti superò quello dei vivi in età da lavoro. A causa della mancanza di manodopera, i salari schizzarono alle stelle generando una spinta inflazionistica che durò decenni, anche se i commerci e gli scambi erano paralizzati. Emersero anche misure d’emergenza perché la macchina amministrativa bizantina non fosse travolta dagli eventi e ci si preoccupò di riempire i vuoti legislativi causati dal vertiginoso aumento di morti improvvise. L’imperatore promulgò una legge in cui sanciva diritti
e doveri degli eredi dei deceduti senza testamento, incluso il regolamento dei debiti contratti. Banchieri e prestatori tirarono un sospiro di sollievo. Le implicazioni per l’impero furono devastanti: le truppe, fino ad allora unite e motivate, furono decimate e fiaccate dal morbo, e avrebbero perso in poche decine di anni i territori che avevano faticosamente conquistato. Inoltre, i frequenti spostamenti dell’esercito furono senz’altro un veicolo di trasmissione: infatti, a partire da Costantinopoli, il morbo si irradiò in tutto l’impero: i porti marittimi e fluviali furono i nodi del contagio. La debolezza dell’impero bizantino rese la vita più facile ai regni barbarici in Europa e alcuni storici vedono nei colpi inferti dall’epidemia una delle linee di confine fra l’antichità ormai in declino e la nascita del Medioevo europeo. Dopo quattro mesi la peste perse vigore e nell’autunno del 542 d.C.
PARTICOLARE. AFFRESCO DELLA CHAPELLE DE SAINT-SÉBASTIEN. XV SECOLO. LANSLEVILLARD. FRANCIA.
SCALA, FIRENZE
NEL 2012 un gruppo di ricercatori tedeschi
abbandonò Costantinopoli. La città, attonita e in ginocchio, aveva perso circa il 40 percento della popolazione. Entro i successivi due anni, in tutto l’impero il morbo aveva ucciso quattro milioni di persone. Per i successivi due secoli la peste tornò a ondate, ma senza quella virulenza iniziale. L’ultima fiammata fu a Napoli nel 767 d.C. Dopodiché scomparì, senza ragione apparente, per altri sei secoli. Fino al 1347: era la peste nera. —Giorgio Pirazzini Per saperne di più
TESTI
Storie segrete Procopio di Cesarea. BUR, Milano, 1996. SAGGI
Giustiniano Mischa Meyer. Il Mulino, Bologna, 2007. ROMANZI
La peste Albert Camus. Bompiani, Torino, 2013.
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I quipu, codice segreto degli inca Nel Perù precolombiano i governatori usavano un sistema di nodi e cordicelle per conservare e trasmettere le informazioni
L’
impero inca non aveva nulla da invidiare ai regni europei. Chiamato tahuantinsuyu, parola che in quechua significa“le quattro parti del mondo”, l’enorme impero fondato nel XV secolo si estendeva su una vasta area che comprendeva le zone oggi corrispondenti a Colombia meridionale, Ecuador, Perù e buona parte del Cile, oltre alla Bolivia occidentale e al nord-est dell’Argentina, con una superficie totale di circa due milioni di chilometri quadrati. Lo stato controllava la produzione agricola e manifatturiera, basata su quote di lavoro obbligatorio, e tutto era perfettamente gestito da un complesso corpo di funzionari organizzati in gerarchie. Eppure agli inca mancava uno strumento che è sempre stato considerato indispensabile per il funzionamento di un impero: la scrittura. Perché non svilupparono mai tale arte? Perché avevano a disposizione un
oggetto che non la rese necessaria, ovvero un sistema di conservazione delle informazioni unico e di grande precisione detto quipu.
Un impero senza scrittura Il quipu (dal quechua khipu, che significa “nodo”) era un artefatto tessile composto da nodi e cordicelle. Nonostante la sua semplicità, era alla base di un complesso sistema attraverso il quale i quipucamayoc, o esperti di quipu, tenevano traccia di tutto ciò che era importante per l’impero. I cronisti spagnoli del XVI secolo rimasero impressionati dalla quantità di informazioni che questi fili potevano contenere. Per esempio, l’antropologo e naturalista gesuita José de Acosta li descriveva così: «I quipu sono memorie o registri formati da corde in cui a nodi e colori diversi corrispondono informazioni diverse. È incredibile quello che si ottiene con questo metodo, perché
CIFRE E NODI AI DIVERSI TIPI di nodo presenti nei quipu amministrativi corrispondevano, secondo i ricercatori, diversi valori numerici. Qui a lato: in alto, nodo doppio usato per rappresentare il numero 1; al centro, nodo composto che, a seconda delle volte, indicava le cifre da 2 a 9; in basso, nodo semplice usato per riportare decine, centinaia, migliaia.
QUIPU INCA CONSERVATO NELL’ETHNOLOGISCHES MUSEUM DI BERLINO. AKG / ALBUM
tutto ciò che un libro può trasmettere in fatto di storie, leggi, cerimonie e contabilità viene comunicato con i quipu in maniera così precisa da suscitare meraviglia». L’espoloratore Pedro Sarmiento de Gamboa, invece, scriveva: «È ammirevole vedere quanti dettagli trasmettano queste cordicelle». Più tardi il frate Martín de Murúa affermava che gli inca ricordavano le informazioni registrate «come se fossero successe in quell’istante, anche a distanza di molti giorni». Per creare un quipu era sufficiente una corda disposta in orizzontale (corda principale) a cui si legavano cordicelle di spessore minore che pendevano in verticale (corde secondarie) e alle quali, a loro volta, si potevano unire altri cordini (corde sussidiarie). Per inserire un’informazione si facevano dei nodi sulle corde secondarie e sussidiarie, ovvero tutte quelle che pendevano dalla principale. La lunghezza delle cordicelle era variabile ma quella della corda principale era sempre maggiore dello spazio occupato dalle secondarie. In questo modo uno dei capi della corda principale rimaneva sempre libero ed era utilizzato per arrotolare il quipu e riporlo quando non serviva. Una volta arrotolato si poteva aggiungere un elemento distintivo, come una piuma colorata, per facilitarne l’identificazione tra gli altri simili con cui era conservato.
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Nelle reti del fisco inca I CONQUISTATORI spagnoli han-
UN NOBILE INCA riceve un quipu con un messaggio. Illustrazione contenuta
nel Nueva crónica y buen gobierno di Felipe Guamán Poma de Ayala. XVII secolo.
Le materie prime maggiormente utilizzate per la creazione dei quipu erano il cotone e la lana dei camelidi (in particolare l’alpaca) ma in alcuni casi si ricorreva ad altri materiali, come fibre vegetali o capelli umani. Alcuni cronisti riferirono di quipu in oro, ma tra i più di ottocento esemplari conservati non ce n’è nessuno elaborato con questo metallo. Le cordicelle potevano avere colori diversi in uno stesso quipu, e persino in una stessa corda. A seconda dei colori e del modo in cui venivano intrecciati i fili, il risultato assumeva un aspetto
diverso (monocromo o policromo). Alcune cordicelle cambiavano persino colore a metà lunghezza. Anche i nodi avevano forme diverse: potevano essere semplici o complessi; osservandoli da vicino si nota che venivano intrecciati intenzionalmente verso destra o verso sinistra. Sappiamo che i quipu erano versatili e consentivano di modificare le informazioni: era sufficiente sciogliere i nodi e ricomporli in modo diverso. Oggi sappiamo che il modo in cui venivano disposti i fili, il loro colore, la distanza tra le cordicelle, la disposi-
no lasciato diverse testimonianze sull’uso dei quipu da parte degli inca. Tra i cronisti troviamo Pedro Cieza de León, che per anni percorse i territori dell’impero. Nella sua Crónica del Perú del 1550 parla ampiamente di questi strumenti che, a suo dire, avevano una funzione statistica e storica. Racconta che i quipu statistici erano utilizzati dai funzionari di ogni provincia per tenere il conto di quanto fosse stato speso, delle tasse incassate e delle scorte immagazzinate. Questi funzionari avevano l’obbligo di annotare tramite i nodi tutte le tasse dovute. Cieza sostiene che con questo sistema «non si poteva nascondere neanche un paio di sandali». GRANGER / ALBUM
zione e la quantità dei nodi, così come la loro forma e direzione, erano le variabili che consentivano di trasmettere determinati dati.
Informazioni esaustive Nei quipu nessun dettaglio era lasciato al caso, perché veicolava un’informazione. Si trattava di un sistema complesso che consentiva di conservare facilmente dati di ogni tipo: amministrativi (censimento della popolazione, controllo delle imposte), temporali, genealogici, storici, religiosi… Nel XVI secolo il poeta Diego de Ávalos STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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THE TRUSTEES OF THE BRITISH MUSEUM / RMN-GRAND PALAIS
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QUIPU INCA fotografato
steso per mettere in risalto tutti i nodi che lo compongono. XV-XVI secolo. British Museum.
riferì che passeggiando in una zona delle Ande insieme a un governatore scorse un indigeno che nascondeva un quipu. Quando gli chiese cosa contenesse, l’uomo rispose che era il racconto di quanto era successo in quelle terre dal crollo dell’impero inca. E quando il regno sarebbe rifiorito, lui avrebbe avuto il compito di riferire ai
suoi signori «di tutti gli spagnoli che erano passati su quel sentiero reale, di tutto quello che avevano chiesto e comprato, di tutto quello che avevano fatto nel bene e nel male».
Decodificazione parziale Molti ricercatori hanno cercato di decifrare il codice per comprendere i quipu. Tra gli anni settanta e ottanta i professori universitari Marcia e Robert Ascher hanno analizzato attentamente un reticolo formato da 206 quipu al fine di comprendere il significato delle variazioni nella forma e nella
disposizione dei nodi, nel colore, nella lunghezza e negli intrecci tra le corde. I due si sono accorti che esistevano dei quipu numerici in cui i nodi erano organizzati secondo un sistema decimale che permetteva di identificare unità, decine, centinaia ecc. E sono anche riusciti a determinare il valore di tali nodi, che va da zero a nove. In questo modo hanno potuto decifrare le cifre che si creano sulle cordicelle grazie alla somma del numero di nodi che indicano unità, decine, centinaia… Gli studi della coppia Ascher hanno permesso di identificare i valori
I quipu consentivano di conservare facilmente dati amministrativi, temporali, genealogici, storici e religiosi L’INCA HUÁSCAR, SUCCESSORE DI HUAYNA CÁPAC. RITRATTO DEL XVIII SEC. BROOKLYN MUSEUM. 24 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC BRIDGEMAN / ACI
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SENTIERO che conduce a Machu
numerici contenuti in determinati quipu, ma ancora non siamo riusciti a capire a cosa si riferiscono quei numeri. In primo luogo perché non abbiamo decifrato altre variabili come, ad esempio, il significato dei colori. Inoltre, i quipu erano accompagnati da messaggi orali che integravano le informazioni conservate nelle corde, per cui funzionavano come un sistema mnemotecnico che richiedeva dati complementari, oggi perduti. D’altra parte sappiamo che esistevano quipu “storici” per registrare i principali fatti avvenuti durante le dinastie inca, ma ignoriamo le caratteristiche di questo sistema di scrittura. Per tali ragioni oggi siamo ancora lontani dal conoscere il significato completo di un quipu, ed è probabile che non riusciremo mai a svelare gli enigmi che si celano dietro questi “nodi della memoria”.
All’inizio della conquista spagnola i quipu furono ritenuti oggetti di culto e, pertanto, ne fu ordinata la distruzione. Ciononostante, l’efficacia del quipu come sistema di conservazione delle informazioni portò gli spagnoli a rivedere le proprie posizioni.
Quipu coloniali Paradossalmente, pochi anni dopo la conquista e il rogo dei quipu, l’amministrazione coloniale ne incentivò l’uso tra gli indigeni per facilitare il censimento della popolazione. Anche i preti esortavano gli indios a «riflettere sui propri peccati e farne dei quipu» prima di confessarsi. I quipu coloniali non aderivano più ai canoni inca perché rispondevano alle nuove esigenze del governo spagnolo. Ciononostante, la figura del quipucamayoc continuò a esistere e a rico-
prire un ruolo importante all’interno dell’amministrazione. Dopo la caduta dell’impero inca il quipu si trasformò ma la tecnica sopravvisse, e questo spiega perché ancora oggi nelle Ande ci siano comunità che usano questo strumento ancestrale. Al giorno d’oggi normalmente il quipu è un oggetto rituale o di prestigio, un artefatto di corde intrecciate che ha ormai poco in comune con il quipu inca ma che, a ogni modo, mostra quanto“le cordicelle”fossero radicate nel tessuto sociale andino. —Ariadna Baulenas
Per saperne di più
SAGGI
L’impero degli inca Victor W. von Hagen. Newton Compton, Roma, 1993. L’impero inca Michael E. Moseley. Mondadori, Milano, 1992.
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Picchu. I chasqui, o messaggeri, percorrevano sentieri come questo per portare le informazioni da un estremo all’altro dell’impero inca.
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LA MASTABA DI KAR
La tomba di questo alto funzionario vissuto durante la VI dinastia si trova nella necropoli di Giza. All’interno, intagliate nella roccia, ci sono le statue di vari membri della sua famiglia, vestiti secondo la moda dell’Antico Regno. Kar è raffigurato nel bassorilievo qui accanto. ARALDO DE LUCA
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L E T O M B E D E L L’ A N T I C O R E G N O
M A S TA B E I faraoni delle prime dinastie egizie e, piĂš tardi, i cortigiani e i membri della famiglia reale, si fecero seppellire in grandi tombe su cui eressero enormi strutture di pietra... e certe volte la magia permetteva di risparmiare sui materiali da costruzione
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INGRESSO DELLA MASTABA DELLA REGINA MERESANKH III, MOGLIE DI CHEFREN, A GIZA. SULLO SFONDO SI STAGLIA LA MOLE DELLA PIRAMIDE, COSTRUITA DA CHEOPE.
MAPPA DEL PAESE DEL NILO
Qui sotto si può vedere una mappa dell’Egitto, in cui sono indicati alcuni dei siti archeologici più importanti, tra cui Saqqara, Giza e Abido, grandi necropoli dell’Antico Regno.
Mar Mediterraneo Alessandria Sais
Tani
Naucrati
Basso Egitto
Eliopoli
Giza
Saqqara
El Fayum
Menfi
D
opo una giornata di lavoro gli egiziani di oggi amano andare a chiacchierare su panchine all’aperto che chiamano mastabe. Sono stati gli egittologi a dare questo nome alle tombe dell’Antico Regno, proprio in virtù della loro somiglianza con questa sorta di panche. Questa, però, era solo la parte visibile di tali costruzioni, che ne nascondevano un’altra, scavata nella roccia, in cui venivano inumati i defunti. La forma, le dimensioni e il sistema costruttivo delle mastabe potevano variare, ma la struttura di base era la stessa, comune anche alle altre tipologie di sepolcro egizie, dalle piramidi ai monumenti della Valle
Meidum
s os r R o
Nilo
Ma
Eracleopoli
Medio Egitto
dei Re. Tutte le tombe erano formate da due elementi ben diversi: una cappella, cui era possibile accedere e dove venivano deposte le offerte al ka (l’essenza vitale del defunto), e una zona sotterranea in cui si trovavano il sarcofago e il corredo funerario. Anche nelle più misere tombe a pozzo sono stati ritrovati dei semplici tavoli in muratura, con la funzione di luogo di culto, su cui i familiari del morto potevano lasciare le loro umili offerte. Nelle piramidi il luogo di culto era costituito da una cappella contigua, posta in alto. Nel caso dei faraoni sepolti nella Valle dei Re, le loro cappelle erano i grandi templi funerari eretti nei pressi del Nilo. Per quanto riguarda le mastabe, la cappella era inizialmente all’esterno, addossata a una
Beni Hasan
Asiut
Alto Egitto
Abido
C R O N O LO G I A
CASE PER L’ALDILÀ
3200-3065 a.C.
3065-2686 a.C.
Vengono costruite le prime mastabe, come la tomba U-J di Abido, attribuita al re Scorpione, o la tomba 23 di Ieracompoli.
I re delle prime due dinastie si fanno seppellire in grandi mastabe. Ad Abido e a Saqqara sono state trovate le loro tombe e i loro cenotafi.
Tebe
EOSGIS.COM
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OFFERTE PER IL DEFUNTO
2686-2613 a.C.
2613-2494 a.C.
2494-2345 a.C.
2345-2173 470 A.C. a.C.
Durante la III dinastia gli alti funzionari e i membri della famiglia reale costruiscono le proprie mastabe nella necropoli di Saqqara.
I re della IV dinastia sono sepolti nelle piramidi; i loro familiari e i nobili sono inumati nelle mastabe, vicino al loro signore.
Durante la V dinastia le mastabe dei nobili a Saqqara (come quella di Irukaptah) raggiungono un elevato livello artistico.
Nel VI dinastia, Bis. corso Valicerdella udaciest facio, alla fine dell’qui Antico Regno, confertium cri strum atem Saqqara si costruiscono quod cavo, Pala nonfes ancora mastabe, egervidlussuose co hos fuissil come quellaoportud. di Mereruka. tandiurnic
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KENNETH GARRETT
La mastaba di Idu, alto funzionario della VI dinastia, sorge nella necropoli di Giza. La tomba contiene una falsa porta (una soglia che lo spirito del defunto deve attraversare), dove Idu appare di fronte a un tavolo di offerte. In questo caso il defunto è rappresentato a mezzo busto nell’atto di ricevere le offerte.
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M. SHEPHERD / ALAMY / ACI
MASTABA DI NEFERMAAT, VISIR AI TEMPI DEL SOVRANO SNEFRU (IV DINASTIA), A MEIDUM. IN FONDO, LA FALSA PIRAMIDE, ATTRIBUITA DA ALCUNI A HUNI E DA ALTRI A SUO FIGLIO SNEFRU.
CIBO PER L’ALDILÀ
Sotto, tavola circolare delle offerte ritrovata a Saqqara, in una mastaba della V dinastia. Questi elementi erano situati nella cappella, dove si trovava la falsa porta su cui era raffigurata l’offerta di alimenti per il defunto (hotep). Museo egizio, Il Cairo. ORONOZ / ALBUM
parete, e solo in seguito si spostò all’interno. La funzione della cappella era assicurare la sopravvivenza eterna del ka del defunto, mettendogli a disposizione tutto ciò che gli serviva. Nelle mastabe le offerte venivano collocate davanti a una grande stele di pietra, detta “della falsa porta”, che rappresentava una soglia di passaggio tra questo mondo e l’aldilà. Sulla stele venivano incisi i nomi del defunto e dei suoi familiari più prossimi, nonché le cariche che questi aveva occupato. Erano elencate anche “tutte le cose buone e pure di cui vive un re”, cioè tutti i beni di cui avrebbe avuto bisogno nell’altra vita. Ecco perché sulle pareti delle cappelle erano rappresentati alimenti, bevande e unguenti di ogni tipo, che la magia avrebbe trasformato in realtà. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che queste immagini fossero delle semplici decorazioni funerarie, ma in realtà svolgevano un ruolo molto concreto: assicurare l’esi-
stenza eterna del defunto. Inoltre, per evitare che questi beni si perdessero lungo il cammino, la stele veniva situata il più vicino possibile alla verticale del sarcofago, che era sepolto qualche metro più sotto.
La grande necropoli di Menfi La prime mastabe, in mattoni crudi, furono costruite per i sovrani della I e della II dinastia (Periodo tinita). Queste tombe, come quelle di tutti i re dell’Antico Regno, si trovano nella vasta necropoli di Menfi (all’epoca capitale egizia), un insieme di cimiteri reali che si estende per circa 40 chilometri da Abu Rawash, a nord, fino a Meidum, a sud, e le cui diverse parti sono indicate con i nomi degli attuali centri urbani. Le mastabe tinite hanno molti punti in comune quanto a forma e dimensioni. Alcuni dei re di questo periodo si fecero costruire due tombe, simili tra loro, una a Saqqara e una nella città santa di Abido – luogo in cui, secondo il mito, era sepolta la testa del dio Osiride, sovrano dell’aldilà. L’architetto ed egittologo francese Jean-Philippe Lauer, forse uno dei maggiori esperti sul tema, sosteneva che le tombe reali
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DISCO DECORATO CON L’IMMAGINE DI DUE CANI CHE CACCIANO GAZZELLE, RINVENUTO NELLA MASTABA DI HEMAKA. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.
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L A GR ANDE MASTABA DI HEMAK A
DA SOPRA A SOTTO: GETTY IMAGES; WILLIAM BORREGO; ALAMY / ACI
a nord-est di saqqara si trova un’antica necropoli del periodo tinita, quello delle due prime dinastie faraoniche. Qui, tra il 1936 e il 1956, l’archeologo britannico Walter Emery portò alla luce una serie di grandi tombe appartenenti ad alti funzionari della corte, come la mastaba di Hemaka (la tomba S3035), la cui struttura è illustrata in questo disegno. Era una mole impressionante, di 57,3 x 26 metri, costruita interamente in mattoni crudi e risalente ai tempi del faraone Den, della I dinastia (3065-2890 a.C.). Qui fu sepolto il funzionario reale Hemaka, il cui nome appare
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su svariate tavolette di legno e di avorio. La parte visibile o struttura superiore della mastaba è composta da 45 camere destinate a conservare offerte funerarie: anfore, armi, steli, scatole di legno, placche d’avorio, giochi da tavolo, vasi di alabastro, tessuti. Sono stati ritrovati anche due frammenti di papiro bianco. Una scala, situata a est, penetra fino a 9 metri di profondità e permette di accedere alla camera funeraria di Hemaka, che misura 9,5 per 4,9 metri.
1 Scala di accesso 2 Camera funeraria 3 Magazzini 4 Mura a forma di facciata di un palazzo
LA MASTABA DI DJER
In questa immagine della tomba del faraone Djer – della I dinastia – a Abido si può notare la caratteristica forma di queste prime mastabe, composte da vari magazzini per le offerte.
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IMBARCAZIONI E BESTIAME
In alto, alcuni uomini costruiscono imbarcazioni di legno. Più sotto si trovano scene legate all’allevamento di bovini di varie specie. Bassorilievo della mastaba di Mereruka a Saqqara, VI dinastia. ARALDO DE LUCA
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LA MASTABA DEL FARAONE SHEPSESKAF a sud di saqqara sorge l’eterna dimora dell’ultimo faraone della IV dinastia: Shepseskaf, probabilmente figlio di Micerino (artefice della piramide più piccola di Giza). A differenza dei suoi predecessori, che si fecero seppellire nelle piramidi, Shepseskaf scelse una mastaba gigante, di circa 104 x 78 metri e un’altezza di quasi 20 metri. Un corridoio scendeva all’interno della struttura, al cui centro si trovava la camera funeraria del re. La mastaba (conosciuta come mastaba el-Faraun) era circondata da un muro situato a 10 metri. Un secondo muro, a 48 metri di distanza, recintava l’intero complesso. Una strada di accesso, coperta da un soffitto a volta, conduceva dal tempio basso – situato nella valle e ancora in attesa di essere portato alla luce – al complesso funerario.
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TESTA DI USERKAF, SUCCESSORE DI SHEPSESKAF E PRIMO RE DELLA V DINASTIA. A DESTRA, ALLA PAGINA SEGUENTE, PARTE CONSERVATASI DEL NUCLEO DI PIETRA DELLA MASTABA DI SHEPSESKAF.
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Secondo muro, che circondava la mastaba.
1 CORRIDIO DI ING RESSO
2 CAMER A FUNER ARIA
Alla tomba di Shepseskaf si accedeva tramite un lungo corridoio inclinato di circa 20 m di lunghezza, che si congiungeva con un altro corridoio orizzontale, collegato direttamente alle stanze interne dell’edificio.
Il centro della mastaba era formato da un’anticamera con il tetto a due falde, di 5,5 m. Da nord si accedeva alla camera funeraria del sovrano, che misurava 7,79 per 3,85 m. Il sarcofago non è stato ritrovato.
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Primo muro, che circondava il complesso funerario.
Il corpo della mastaba era formato da due piattaforme sovrapposte. La facciata superiore, più ampia, era rivestita di pietra calcarea bianca proveniente dalle cave di Tura, mentre quella inferiore era di granito rosso. I quattro lati avevano un’inclinazione di 70 gradi.
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3 NICCHIE INTERNE Dall’angolo sud-est dell’anticamera partiva un corridoio su cui si aprivano cinque nicchie, che ospitavano statue di culto. Il corridoio proseguiva e sembrava formare una sesta nicchia, più corta.
ALAMY / ACI
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Situato accanto alla facciata est, misurava circa 20 x 25 m e aveva due entrate indipendenti. Entrambe davano su un corridoio che conduceva alla sala delle offerte, a una serie di magazzini e a un cortile esterno con una o due vasche.
ILLUSTRAZIONE: 4D NEWS
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QUESTO RILIEVO DIPINTO DELLA MASTABA DI MERERUKA MOSTRA UNA SCENA CURIOSA: ALCUNI UOMINI ALIMENTANO A FORZA DELLE ENORMI IENE, MOLTO PROBABILMENTE PER OTTENERE UNA SPECIE DI FOIE GRAS.
UN FOIE GRAS MOLTO PECULIARE
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E IMMAGINI delle mastabe rappresentano a volte scene di allevamento di animali. Nelle tombe dei visir Mereruka e Kagemni (VI dinastia) sono raffigurate anatre e oche intente a beccare il grano gettato dai servi in una grande gabbia. In altre scene meno note si vedono i servi alimentare i volatili introducendogli a forza il cibo nel becco. È chiaro che gli egizi conoscevano già il fegato d’oca – per quanto fosse una pietanza riservata alle classi agiate. La cosa davvero sorprendente è che questa somministrazione forzata di cibo, che mirava a ingrossare il fegato degli animali, si applicasse anche a specie selvatiche quali le iene, come si può vedere in alcuni bassorilievi. Questi pericolosi carnivori erano “addomesticati” e alimentati con le zampe legate, per ottenere un pregiato foie gras.
C. SAPPA / GETTY IMAGES
LE OCHE DI MEIDUM
Questa pittura della mastaba di Nefermaat e Itet a Meidum rappresenta sei anatidi divisi in due gruppi e appartenenti a due specie distinte. Quelle dell’immagine qui sotto sono delle oche collorosso. SCALA, FIRENZE
del Periodo tinita fossero quelle di Saqqara, mentre quelle di Abido erano solo cenotafi, cioè dei semplici monumenti rappresentativi. Il suo principale argomento era che le facciate delle mastabe di Saqqara avevano un tipo di decorazione “regale” assente nelle tombe di Abido: delle finiture esterne, costituite da una serie di sporgenze e rientranze, che simulavano la facciata di un palazzo. Più a sud, a Meidum, si trovano altre mastabe con caratteristiche differenti. In un primo momento la cappella era situata all’interno dell’edificio, e consisteva in una grande stele cui si accedeva tramite un corridoio. In seguito il luogo di culto fu addossato alla facciata esterna della mastaba. Nelle tombe di Giza e Saqqara si verificò il processo inverso: le prime cappelle erano contigue alla facciata della mastaba e dopo si spostarono all’interno, occupando quasi tutto lo spazio della struttura superiore. È questo il caso
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dell’imponente mastaba di Nefermaat (forse fratello di Cheope), situata nella necropoli di Meidum. Il principe era sepolto con la moglie Itet, ma non esattamente nello stesso posto: secondo gli usi egizi, ognuno aveva la propria camera funeraria e la propria cappella di culto, in due zone diverse della mastaba. Il famoso fregio dipinto conosciuto come “le Oche di Meidum”proviene proprio dal corridoio che univa le due cappelle.
Sistemi costruttivi Anche se le mastabe erano pensate per accrescere il prestigio dei rispettivi proprietari, si tendeva a risparmiare il più possibile sul processo costruttivo. Gli scavi hanno confermato questo apparente paradosso. Per ricchi che fossero, gli alti funzionari cercavano di ottenere i migliori risultati al minor costo. A questo scopo usavano l’ingegno e si facevano aiutare dall’heka, la magia egizia. Nella maggior parte dei casi, infatti, la compatta solidità della parte visibile delle mastabe è solo fittizia. Di solito ci si limitava a costruire un muro di mattoni crudi, o nel
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MUERTE ANTES QUE RENDICIĂ“N
Ex manultor habus sin hacterem ina, serce etientiam Patquas sidetoredet, num Patura dienium publici amdionium egerox nos cus, poruntelium popublictum cons Maesce por iam. Quo nihicae omac. LOREM IPSUM
ARALDO DE LUCA
TOMBA DELLA REGINA MERESANKH III
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La moglie di Chefren si fece costruire una magnifica mastaba nella necropoli di Giza, vicino alla piramide del marito. Sulla sinistra, raffigurazione di Meresankh; sullo sfondo, una serie di statue di familiari; sulla destra, il principe Kawab, suo padre.
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MASTABA DI MERERUKA
Visir del faraone Teti, della VI dinastia, Mereruka si fece costruire una splendida mastaba a Saqqara. Nell’immagine vediamo la stanza più grande della tomba, dominata da una statua del defunto di due metri di altezza, che sembra emergere dall’interno di una nicchia. ARALDO DE LUCA
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IL VISIR HESIRE
ARALDO DE LUCA
Nella mastaba di questo alto funzionario della III dinastia, a Saqqara, sono stati ritrovati pannelli di legno su cui è raffigurato lo stesso visir. Museo egizio, Il Cairo.
DEA / AGE FOTOSTOCK
INTERNO DELLA MASTABA DI TIY A SAQQARA. I PILASTRI DI QUESTA SALA, IN PIETRA CALCAREA BIANCA, SONO DIPINTI A IMITAZIONE DEL GRANITO ROSA DI ASSUAN. IN FONDO ALLA STANZA, UNA FALSA PORTA E UNA TAVOLA DI OFFERTE.
migliore dei casi di blocchi di pietra, con cui si circoscriveva uno spazio il cui interno era riempito di sabbia e detriti vari. Lo scopo dei costruttori era dare l’idea che l’interno della mastaba fosse costituito da blocchi di pietra calcarea, ma ciò in realtà avveniva molto raramente. A Giza, per esempio, le mastabe sembrano edificate interamente in blocchi di pietra, ma questi, invece, sono un semplice rivestimento esterno, un’unica fila di blocchi collocati su dei piccoli gradini scavati nella nuda roccia. In altre occasioni si rivestiva la roccia con un muro di pietra e quindi si riempiva l’interno, come di consueto, con resti e macerie di vecchi edifici circostanti. In alcuni casi la roccia non veniva neppure ricoperta con la pietra, ma semplicemente levigata, e in seguito vi si incidevano sopra delle finte linee di giunzione per simulare le file di blocchi. Però le mastabe non venivano “truccate” solo esternamente: se ne falsificavano anche i materiali all’interno. A differenza delle case e dei palazzi, che erano in mattoni crudi, le tombe egizie erano costruite in pietra, perché dovevano essere delle “case
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per l’eternità”. Ma non tutte le pietre erano uguali. Una delle più apprezzate era il granito rosa di Assuan, che non tutti però potevano permettersi. Così, nelle mastabe di personaggi importanti come Mereruka o Tiy gli architravi e le colonne in pietra calcarea bianca erano adornati con macchie grigie e rosse, per simulare il prezioso granito. Chi si voleva ingannare con questi espedienti? Nessuno, ovviamente. Tuttavia il granito, noto per la sua bellezza e la sua resistenza, era il materiale ideale per costruire una casa destinata a durare per l’eternità. La magia si sarebbe occupata del resto, compiendo il miracolo di trasformare la pietra calcarea in granito. Allo stesso modo gli alimenti dipinti sulle mura della cappella sarebbero diventati succulenti manicaretti per il defunto. Niente di più facile. MAITE MASCORT ARCHEOLOGA
Per saperne di più
SAGGI
L’arte dell’antico Egitto Cyrill Aldred. Rizzoli-Skira, Milano-Ginevra, 2002. INTERNET
osirisnet.net/mastabas/e_mastabas_saqqara.htm
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ARALDO DE LUCA
FALSA PORTA DI KHABAUSOKAR
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NEL 1889 Auguste Mariette scoprĂŹ a Saqqara la tomba di Khabausokar, alto funzionario della III dinastia, in cui spicca questa stele a falsa porta sulla quale sono elencati i titoli del defunto, che appare seduto davanti a una tavola di offerte. Museo egizio, Il Cairo.
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IL SIGNORE DEGLI ANIMALI
Peso con ansa in clorite. Rappresenta il Signore degli animali, capace di soggiogare le forze della natura. National Museum of Iran, Teheran.
L A S CO P E RTA DI J I RO F T
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PEJMAN AKBARZADEH / PERSIAN DUTCH NETWORK
Una civiltà urbana del III millennio a.C. apparsa dal nulla in una delle regioni più remote dell’altopiano iranico, migliaia di originali reperti in pietre semipreziose finemente lavorati, un enigmatico sistema di scrittura e indiscutibili contatti con la lontana Mesopotamia. Cronaca di una scoperta archeologica che non cessa ancora di stupire
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SCENA ANIMALISTICA
Elaborato intreccio tra due serpenti dalla forma curvilinea. Sud-est dell’Iran. 26002200 a.C.
EOSGIS.COM
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partire dal 2001, e con sempre maggiore insistenza agli inizi dell’anno successivo, il mercato antiquario internazionale fu invaso da migliaia di misteriosi reperti archeologici che lasciarono di stucco la comunità scientifica. Si trattava di vasi, coppe, contenitori, tavoli da gioco e pesi con anse, realizzati in clorite (un minerale semiprezioso) o alabastro e splendidi intarsi in cornalina e lapislazzuli. E ancora fibule, armi, gioielli e capolavori in ceramica. Ciò che però li rendeva davvero unici
era la complessa simbologia che ne decorava la superficie: animali selvatici e domestici (zebù, felini, scorpioni, rapaci, etc.), in lotta tra loro o contro figure umane che sembrano assoggettarli, rappresentazioni naturalistiche e bucoliche (con animali che pascolano in vasti palmeti) e riproduzioni architettoniche di templi o palazzi. Le poche informazioni disponibili fornite dai siti internet che li vendevano, o dalle case d’asta che li proponevano a caro prezzo, erano piuttosto laconiche, del tipo “provenienti dall’Asia centrale”. Se inizialmente fu avanzata l’ipotesi che si trattasse dell’opera di abili falsari, col passare dei mesi, a mano a mano che il loro
ERICH LESSING / ALBUM
C R O N O LO G I A
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EVOLUZIONE DI UN SITO MILLENARIO
4000 a.C. circa Si riscontra la presenza di un’elaborata ceramica e di pietre semipreziose che hanno analogie con quelle di Mesopotamia e Susania.
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LA CIVILTÀ EMERSA DALLE ACQUE
III millennio a.C.
2500-2200 a.C.ca
2001-2002
2003-OGGI
Gli strati delle colline artificiali di Konar Sandal (A e B), della prima metà del III millennio a.C., non sono ancora stati raggiunti.
Il sito cresce rapidamente con la costruzione di abitazioni in mattoni crudi e di un quartiere metallurgico per la lavorazione del rame.
Scavi clandestini fanno riaffiorare una grande quantità di manufatti che inondano il mercato antiquario internazionale.
Iniziano gli scavi ufficiali. Coordinati dall’Università di Teheran, contano sulla partecipazione di diverse università straniere.
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JOSÉ FUSTE RAGA / AGE FOTOSTOCK
All’inizio del 2001, dopo anni di relativa siccità, un’alluvione ha portato alla luce, dopo millenni d’oblio, i resti di un’enigmatica cultura cittadina nel sud-est dell’Iran. Nell’immagine, vista di una zona desertica nelle vicinanze della città di Kerman, al nord di Jiroft, luogo della scoperta.
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UN TEMA CONDIVISO
Su questo vaso in clorite viene rappresentato un tema, quello del Signore degli animali, che era assai caro anche in Mesopotamia. National Museum of Iran, Teheran.
numero aumentava, venne avanzata l’ipotesi di scavi clandestini di vaste proporzioni. Sì, ma dove esattamente? A svelare l’arcano ci pensarono, sul finire del 2002, le forze di polizia iraniane. Grazie a un’operazione coordinata, vennero realizzati svariati arresti nell’ambiente dei ricettatori, con la confisca di grandi quantità di oggetti già pronti per essere spediti da Teheran, Bandar Abbas e Kerman nel resto del mondo. Fu così possibile appurare che la maggior parte di essi proveniva da una serie di necropoli localizzabili tra i ventotto e i cinquanta chilometri a sud di Jiroft, una remota e sonnolenta cittadina dell’Iran sud-orientale, non lontano dal Golfo Persico. Ma com’era possibile che all’improvviso fosse emersa una simile ricchezza? La spiegazione era semplice e disarmante allo stesso tempo: all’inizio del 2001 una devastante alluvione, dopo anni di relativa siccità, aveva fatto straripare il locale fiume Halil e le acque ne avevano eroso le sponde, portando alla luce, dopo millenni d’oblio, i resti di un’enigmatica cultura. Solo quando furono compiuti i primi sopralluoghi fu però possibile comprendere le dimensioni del fenomeno: migliaia di sepolture devastate e depredate dei loro tesori, con una terribile perdita di informazioni scientifiche. Iniziò pertanto una corsa contro il tempo per cercare di salvare il salvabile e fare luce sull’origine del popolo capace di realizzare simili opere d’arte.
Una grande cultura urbana Nel febbraio del 2003 fu avviata la prima campagna di scavi condotta dall’archeologo iraniano Youssef Madjidzadeh, che si sarebbe protratta per diverse stagioni. Fu possibile identificare una delle necropoli principali da cui provenivano la maggior parte dei reperti, chiamata Mahtoutabad e, a circa un chilometro e mezzo a ovest, due imponenti tepe (colline artificiali) che svettavano sulla pianura, denominate Konar Sandal Sud e Konar Sandal Nord, distanti tra loro poco meno di duemila metri. Si trattava, come fu
KONAR SANDAL. Le due colline artificiali di Konar Sandal ospitano i resti di un edificio di culto e di una cittadella fortificata. Nella foto, gli scavi effettuati a Konar Sandal. MOHAMAD ESLAMI RAD / GETTY IMAGES
possibile dedurre, dei resti di due complessi architettonici di notevoli dimensioni che custodivano, rispettivamente, un edificio di culto e una cittadella fortificata. Invece ai loro piedi, sepolti sotto metri di sedimenti, giacevano i resti di edifici minori. I due siti facevano quindi parte di un unico e vasto centro urbano che si estendeva per molti ettari a circa ventotto chilometri dalla moderna Jiroft. Sebbene Madjidzadeh potesse disporre di dati ancora parziali, le sue conclusioni preliminari ebbero un incredibile impatto sulla comunità scientifica, sollevando in taluni casi accesi dibattiti e furiose polemiche. Spesso, e in maniera incomprensibile, sottovalutando la stessa portata della scoperta.
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Come infatti ha sottolineato l’archeologo italiano Massimo Vidale, che ha lavorato sul sito: «Mentre alcuni studiosi, dando prova di scarso acume, non perdevano occasione di manifestare scetticismo, veniva alla luce una nuova grande civiltà urbana. Gli scavi di Konar Sandal Sud, circondato da un grande comprensorio urbano del quale sono ancora ignote estensione e storia insediamentale, e della necropoli saccheggiata di Mahtoutabad stanno gradualmente costruendo un’immagine coerente». A distanza di oltre un decennio, dopo molte campagne di scavo cui hanno preso parte diverse università straniere (coordinate da archeologi iraniani), il quadro iniziale si è consolidato a mano a mano, permettendo di arrivare a tracciare un
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LA “PICCOLA MESOPOTAMIA” JIROFT sorge in una valle alluvionale che si estende fino alla torrida
depressione dello Jazmurian, a due passi dal golfo Persico. Si tratta di un ecosistema molto delicato, in perenne lotta con l’aridità della regione circostante, che solo l’umidità proveniente dal mare è in grado di preservare. Sono infatti i frequenti rovesci invernali a garantire l’apporto idrico necessario al sostentamento dell’agricoltura: l’acqua non rimane in superficie, ma scorre nel sottosuolo, alimentando una falda costante, intercettabile a pochi metri di profondità grazie allo scavo di pozzi. Inoltre i sedimenti lasciati dalle piene stagionali rendono il suolo molto fertile e adatto alla coltivazione di frutta e ortaggi. Per tale ragione la valle è una delle regioni più fertili dell’Iran e da molti è chiamata “Piccola Mesopotamia”; un ambiente ideale che pare non sia cambiato molto negli ultimi cinquemila anni.
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PESO CON ANSA
Raffigurante un palmizio. Il tema rappresentato dimostra come anche nell’antichità queste piante fossero assai comuni nella regione. Metà o fine del III millennio a.C. circa.
bilancio interessante. Il centro urbano sembra nascere nel tardo V millennio a.C. e svilupparsi fino alla fine del III millennio a.C., mostrando una comunità molto avanzata coinvolta nella produzione di manufatti in pietre semipreziose (calcite, clorite, ossidiana e lapislazzuli), realizzati con grande maestria e in grado di tenere stretti contatti con le lontane città dell’alluvio mesopotamico (la regione irachena tra il Tigri e l’Eufrate). Vidale spiega: «Mentre gli strati della prima metà del III millennio sono ancora inesplorati, la città sembra “esplodere” intorno al 2500 a.C. e riempirsi di case in mattone crudo». Gli approfonditi scavi a Konar Sandal Sud hanno permesso inoltre di capire che si trattava di una cittadella circondata da un monumentale muro in mattoni con diverse stanze adibite ad attività amministrative, che le analisi al radiocarbonio hanno consentito di datare tra il 2500 e il 2200 a.C. Ma le sorprese non erano ancora finite: presso uno degli accessi della cittadella e in un sito localizzato a circa 150 metri verso nord furono portate alla luce, rispettivamente, un frammento e tre tavolette complete caratterizzate da due differenti sistemi di scrittura: uno conosciuto, confrontabile con la cosiddetta “elamita lineare” (scrittura utilizzata nelle città dell’Elam al confine con la Mesopotamia), e uno geometrico mai riscontrato prima. Un vero colpo di scena: si poteva allora affermare che la civiltà di Jiroft fosse letterata?
Aratta o Marhashi? In che cosa ci si era imbattuti? Dopo aver esaminato l’enorme collezione di reperti sequestrati, nel 2003 Madjidzadeh, forte delle prime impressioni di scavo e della lettura degli antichi testi cuneiformi mesopotamici, ritenne che la civiltà appena portata alla luce altro non era che Aratta, una ter-
MADJIDZADEH Y / IRANIAN CULTURAL / GAMMA-RAPHO
ra leggendaria decantata in numerosi poemi sumerici per la sua proverbiale ricchezza. Secondo lui, troppi indizi lo lasciavano supporre: la posizione geografica con le sue montagne da attraversare, l’abbondanza di pietre semipreziose e l’alto grado di civiltà raggiunto. Teoria estremamente affascinante e stimolante che non tardò a prendere forma anche nell’immaginario popolare, ma che fu subito criticata dalla comunità scientifica, in assenza della benché minima prova storica. Infatti non esistono documenti in grado di confermare che i fatti raccontati nei poemi sumerici si siano mai verificati. Per ora quindi la proposta dell’archeologo iraniano non può essere avvalorata dai fatti. Sarà mai possibile quindi identificare questa
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L’ARCHITETTURA
Sulla superficie di diversi vasi venuti alla luce a Jiroft figurano complesse e articolate rappresentazioni di quelli che sembrano a tutti gli effetti modelli architettonici di facciate di edifici. Non siamo in grado però di determinare se siano luoghi di culto, palazzi o altro. Si tratta comunque di una testimonianza unica e interessantissima che permette di farci un’idea di come apparissero esternamente. Possiamo distinguere quelli che sembrano portali d’accesso intervallati da una serie di nicchie decorate con motivi geometrici ripetuti all’infinito. Se teniamo conto della composizione potremmo trovarci di fronte a un edificio a due piani, forse una struttura terrazzata, con in prossimità del tetto una complessa cornice cruciforme.
civiltà? Per alcuni studiosi sì: si tratterebbe del regno di Marhashi. E in questo caso ci sono alcuni elementi storici in grado di documentarlo: le iscrizioni dei re dell’impero mesopotamico di Akkad, che ricordano vittoriose imprese contro quel potente stato localizzato nella regione orientale dell’altopiano iranico. In una di esse viene narrato con dovizia di particolari l’epilogo del conflitto: «Rimush […] ha sconfitto in battaglia Abalgamash re di Marhashi […] Quando conquistò l’Elam e Marhashi portò via 30 mine d’oro, 3600 mine di argento e 300 schiavi e schiave». Poiché è accertato che Akkad si colloca cronologicamente nella seconda metà del III millennio a.C., più precisamente tra il 2350 e il 2200 a.C.,
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LA LEGGENDARIA ARATTA PER YOUSSEF MADJIDZADEH, il primo archeologo a scavare a
Jiroft, non c’era alcun dubbio: si trattava di Aratta. Un paese favoloso che gli antichi testi sumerici definiscono traboccante d’oro, argento, pietre preziose e lapislazzuli. Una terra dell’abbondanza, ma pressoché inaccessibile, protetta com’era da montagne altissime e selvagge. La letteratura è piena di simili rappresentazioni, come la famosa Epopea di Gilgamesh (“Loro conoscono anche la via per Aratta”). Sul suo conto furono scritti quattro poemi, che la vedono protagonista di un’infinita disputa con i sovrani della città sumera di Uruk; re mitici, mai menzionati nei testi storici, ma che appaiono nella Lista reale sumerica, un documento che elenca la successione di dinastie mesopotamiche.
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SISTEMA DI SCRITTURA
Una delle tavolette con caratteri di scrittura geometrici che attende solo di essere decifrata dagli studiosi.
e dato che Marhashi è a essa contemporanea, anche questa città è databile tra il 2350 e il 2200 a.C. Invece, Aratta per ora non può essere collocata cronologicamente. Tuttavia è l’analisi della complessa iconografia presente sulle centinaia di vasi che sembra fornire, più di ogni altra cosa, il livello di complessità di questa civiltà. Un repertorio che sconcerta non solo per l’abilità artistica, ma anche per il simbolismo che lascia trasparire. È difficile dire se si riuscirà mai a svelarne totalmente i segreti e di certo solo studi approfonditi permetteranno di addentrarvisi. Anche in questo caso è possibile cercare dei confronti solo rifacendosi alla tradizione mesopotamica. E le similitudini affiorano in modo sorprendente, come a dimostrare che queste due terre così lontane condividevano anche una sorta di bagaglio culturale comune. Basti pensare alla raffigurazione di uomini scorpione che sono stati rappresentati con dovizia di particolari nella necropoli reale di Ur (metà del III millennio a.C.) o agli uomini toro associabili al famoso mito di Gilgamesh. Ma sono le rappresentazioni di un toro capovolto e l’aquila che volteggia sopra di lui o i combattimenti tra aquile e serpenti – elementi molto diffusi sui vasi di Jiroft – a ricordare in maniera incredibile uno dei miti mesopotamici più famosi: quello di Etana, il re pastore citato nella Lista reale sumerica come il primo sovrano post-diluviano. Uno dei racconti più complessi e coinvolgenti pervenutoci dall’antichità, ha come tema la ricerca dell’immortalità e come preambolo proprio l’eccidio dei figli del serpente per mano di
un’aquila. Anche il tema del Diluvio universale, tanto caro a sumeri e babilonesi, potrebbe trovare spazio in alcune rappresentazioni. E vale la pena ricordare un’interessante ipotesi avanzata proprio da Vidale: «In un vaso un personaggio inginocchiato conduce due zebù, che generano dalla testa dei flutti. Dai flutti emerge una montagna; un altro personaggio con le divine insegne astrali di sole e luna innalza ciò che ha tutto l’aspetto di un arcobaleno, oltre il quale già compaiono catene di rilievi emersi […] Chi scrive fatica a sottrarsi all’impressione che l’immagine narri un antico mito su una grande inondazione, ma la cautela è assolutamente d’obbligo».
Un universo da scoprire Nessuno si sarebbe mai sognato che dalle sabbie di una regione così remota, da molti ritenuta non adatta alla nascita di una civiltà complessa, potesse riemergere una cultura talmente sofisticata. In poco più di un decennio sono stati fatti indubbi passi avanti per la sua comprensione e certamente molti altri verranno compiuti per collocarla nella prospettiva storica che le compete. Eppure fin dai primi riscontri l’incredibile materiale venuto alla luce ha permesso di abbozzare ipotesi che, se confermate, dimostrerebbero come nel III millennio a.C. la regione avesse raggiunto uno sviluppo simile a quello della lontana Mesopotamia, ritenuta la vera culla dell’umanità; un primato che, per oltre un secolo dalla sua scoperta, è stato impossibile scalzare. La storia in questo caso dovrebbe essere riscritta, o almeno letta, in una prospettiva più ampia, a riprova di come altre civiltà avessero raggiunto livelli di sviluppo altrettanto sofisticati anche in altre regioni del mondo. ANTONIO RATTI STORICO DEL VICINO ORIENTE ANTICO, SPECIALIZZATO IN AREA MESOPOTAMICA E IRANICA DELL’ETÀ DEL BRONZO.
Per saperne di più
SAGGI
A Oriente di Sumer Massimo Vidale. Carocci, Roma, 2010. Storia e archeologia del commercio nell’Oriente Antico Luca Peyronel. Carocci, Roma, 2008.
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IL DESTINO DEI REPERTI per altri migliaia o addirittura decine di migliaia. Pare sia impossibile fare una stima attendibile di quanti reperti, trafugati dalle varie necropoli della valle dell’Halil, siano andati definitivamente persi dopo quasi due anni di scavi selvaggi e senza controllo. Si ipotizza che meno dell’un percento – cifra comunque non supportata da veri riscontri - sia stato recuperato o sequestrato dalle autorità. Sul restante novantanove le possibilità che venga recuperato sono decisamente labili. Dopo averli acquistati a prezzi stracciati direttamente sul posto, ricettatori
PER ALCUNI SONO CENTINAIA,
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iraniani e stranieri hanno provveduto a inviarli via terra, mare e cielo in ogni parte del mondo: musei famosi, case d’asta e antiquari di Stati Uniti, Europa e Asia. Per un certo periodo è stato possibile perfino acquistarli su internet (in compenso ora il mercato è pieno di falsi, in genere piuttosto grossolani). Per quanto riguarda il materiale recuperato, e in minor misura quello scoperto durante gli scavi ufficiali, è possibile visionarlo in tre collezioni allestite all’occorrenza: il nuovo Museo di Jiroft (che contiene il maggior numero di reperti), il Museo di Kerman e quello di Teheran.
ANTONIO RATTI
MOHAMAD ESLAMI RAD / GETTY IMAGES
IL NUOVO MUSEO DI JIROFT
Nel museo aperto a Jiroft dopo la scoperta vengono studiati gli oggetti ritrovati nel sito. IL CULTO DEGLI ANIMALI
Vaso, suddiviso in tre registri orizzontali, raffigurante con tutta probabilità un muflone selvatico.
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LA RICCA ICONOGRAFIA DEI REPERTI
FOTO: MADJIDZADEH Y / IRANIAN CULTURAL / GAMMA-RAPHO
L’assoluta originalità dei reperti recuperati nella valle di Jiroft è testimoniata dallo straordinario repertorio iconografico presente sulla maggior parte dei manufatti, in cui il mondo animale è assoluto protagonista. Non mancano tuttavia figure umane (divinità o super-uomini?) o elementi architettonici (luoghi di culto o palazzi).
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FIG U R E UM A N E, ZEB Ù E A RCOBA LENO È una delle scene più complesse e affascianti dell’intero repertorio. Una figura inginocchiata sembra soggiogare, o tenere a bada, due enormi zebù dal cui capo sgorgano copiosi flutti d’acqua. Invece nel registro superiore un’altra figura, immersa in un ambiente montano, sembra stringere tra le mani un enorme arcobaleno.
M OTI VO B U CO L I CO
L’AQ U I L A E I L S E R PE N T E
Su questa coppa in clorite è rappresentata una scena animalistica che ne ricopre l’intera superficie, in cui vengono raffigurati quelli che sembrano essere animali selvatici (capridi, mufloni e alcuni cuccioli) intenti a cibarsi di piante spontanee. Una scena che sembrerebbe riprodurre il tipico ambiente delle valli montane che circondano Jiroft.
In questo motivo alcune aquile ingaggiano un combattimento contro dei serpenti. Un tema assai conosciuto in Mesopotamia, celebrato nel famoso poema Etana, in cui lo scontro tra i due animali è assoluto protagonista. Uno dei tanti elementi che dimostrerebbero le forti connessioni tra la valle di Jiroft e la Terra tra i due Fiumi.
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ILLUSTRAZIONI: SANTI PÉREZ
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IL CIELO SOPRA NAXOS
Questo tempio dedicato probabilmente alla dea Demetra fu eretto a Naxos attorno al 530 a.C. In quell’epoca i primi filosofi ionici iniziarono a interrogarsi sugli astri e la forma del cosmo. OLIVER TAYLOR / ALAMY / ACI
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G L I E S S E R I U M A N I E L’ U N I V E R S O
LA TERRA VISTA DAI GRECI I primi filosofi greci elaborarono varie teorie sulla forma della terra e la sua posizione nell’universo. Anassimandro la immaginava come un cilindro sospeso nel vuoto, i pitagorici sostenevano fosse sferica e Aristarco che ruotasse intorno al sole
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AKG / ALBUM
IL PLANISFERO DI TOLOMEO
Questa mappa del 1482 è la dimostrazione di come la rappresentazione del globo terrestre proposta da Tolomeo nel II secolo d.C. continuasse a essere il punto di riferimento della cartografia rinascimentale.
I
l cielo si muove come una sfera; la terra, secondo la nostra percezione, ha forma sferica in ogni sua parte; è al centro della sfera celeste e in rapporto a essa è un punto». Queste parole del geografo alessandrino Claudio Tolomeo, tratte dall’Almagesto, riassumono la concezione della terra e del mondo che si era affermata tra gli astronomi greci verso la metà del II secolo d.C. Secondo questo modello, che sarebbe rimasto praticamente immutato per tutto il Medioevo, la terra era un corpo sferico situato al centro dell’universo. Alcune centinaia di anni prima i greci avevano una visione del mondo molto diversa. Nei poemi omerici, per esempio, si trova un’immagine poetica del cosmo, in cui «il Sole infaticabile, la Luna e la volta celeste coronata di stelle» sormontavano la «terra piatta» e questa era circondata dal fiume Oceano. Esisteva inoltre un misterioso spazio sotterraneo, «l’oscura dimora di Ade», il dio degli inferi, che nel racconto omerico Odisseo raggiungeva dopo aver attraversato «l’Oceano dai vortici profondi» e una piccola spiaggia delimitata dai boschi sacri a Per-
sefone. Il passaggio da una visione poetica e religiosa dell’universo a una concezione scientifica e matematica, aperta all’osservazione dei fatti e interessata alla loro spiegazione, rappresenta una delle più brillanti avventure intellettuali intraprese dai greci.
Le prime teorie In quest’epopea svolsero un ruolo particolarmente attivo i filosofi presocratici, ovvero quei pensatori vissuti tra il VI e il V secolo a.C., per lo più nella Ionia, un’antica regione costiera dell’Asia Minore. Le loro ipotesi sembrano a volte contraddirsi l’un l’altra ed essere animate da una volontà di confutare le dottrine già esistenti. Ma questo non toglie valore ai loro contributi: anzi, l’attitudine dialettica era uno strumento per perfezionare le teorie precedenti e correggerne gli errori. Il primo filosofo, Talete di Mileto, affermò nel VI secolo a.C. che la terra galleggiava sull’acqua «come un pezzo di legno». La sua idea non si discostava troppo dalle concezioni di egizi e babilonesi né dalla visione biblica e sarebbe passata inosservata se a
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ATLANTE REGGE I CIELI
Atlante capeggiò la lotta dei titani contro gli dei dell’Olimpo. Dopo la vittoria di questi ultimi, Zeus lo condannò a sostenere la volta celeste sulle spalle per l’eternità, come si può vedere in questa scultura, nota come Atlante Farnese. Museo archeologico nazionale, Napoli. FOGLIA / SCALA, FIRENZE
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Pitagora mette ordine IL CONTRIBUTO di Pitagora allo sviluppo
dell’astronomia greca fu fondamentale, anche se è difficile dire con esattezza quali teorie fossero sue e quali dei suoi discepoli. Il maestro infatti non lasciò nulla di scritto e i suoi seguaci tendevano ad attribuirgli qualsiasi idea. Fu il primo a definire «cosmo» (dal greco kosmos, “ordine”) il cielo, un’assoluta novità rispetto alla posizione di Anassimandro, che aveva posto al centro delle sue riflessioni il concetto di infinito (apeiron). L’IPOTESI pitagorica sulla forma della terra
portò alla nascita della geometria sferica, permise di effettuare importanti progressi nello studio delle costellazioni e di predire i movimenti dei pianeti con una precisione che sarebbe rimasta insuperata fino all’invenzione del telescopio.
PITAGORA AFFERMA CHE LA TERRA È ROTONDA. OLIO DI PIERRE-NARCISSE GUÉRIN. XVIII, XIX SEC. BRIDGEMAN / ACI
LA TERRA AL CENTRO DELL’UNIVERSO Questa sfera armillare del XVII secolo mostra i movimenti dei corpi celesti secondo il sistema tolemaico, che fu per secoli il modello di riferimento dell’astronomia occidentale.
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Talete non fossero stati attribuiti anche altri importanti risultati scientifici, come la previsione di un’eclissi di sole nel 585 a.C. o il teorema matematico che porta il suo nome. Sicuramente la sua teoria aveva un punto debole, ovvero quello di ritenere che la terra avesse bisogno di una base su cui appoggiarsi, perché questo generava un problema logico senza soluzione: se la terra è sostenuta dall’acqua, su cosa si regge a sua volta l’acqua? Analoghe difficoltà presentavano le posizioni di altri filosofi del periodo, come quella di Anassimene, secondo cui la terra poggiava sull’aria, o di Senofane, che pensava che si estendesse all’infinito verso il basso. Fu Anassimandro di Mileto, discepolo di Talete e tra i più originali di questi primi pensatori, a superare il problema del punto d’appoggio sostenendo che la terra era sospesa al centro dell’universo, immobile e in equilibrio in virtù della sua equidistanza dagli altri
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corpi celesti. Secondo Anassimandro, la terra aveva forma di una «colonna» (o, meglio, del tamburo di una colonna di pietra), la cui altezza era un terzo del diametro. Gli esseri umani vivevano sulla faccia superiore di questo disco. Il filosofo di Mileto riteneva che il cosmo si fosse sviluppato dalla rottura di una sorta di involucro, creato dal rapporto tra caldo e freddo, che circondava la terra; un evento che aveva dato origine al sole, alla luna e alle stelle. Fu pure il primo a tentare una stima delle dimensioni dei corpi celesti. Per Anassimandro il sole e la luna sono due enormi anelli, il primo grande 28 volte la terra, la seconda 19. Il suo allievo Anassimene riteneva invece che la terra fosse piatta e racchiusa dalla cupola celeste. Fu lui a concepire per primo il cielo come una semisfera di cristallo su cui erano incastonate le stelle.
La scuola pitagorica Poi arrivò Pitagora, il sapiente di Samo fondatore di un’influente scuola filosofica. I pitagorici ripresero due principi dai loro predecessori: da Anassimandro la conce-
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L’ U N I V E R S O S E C O N D O I G R E C I pur non rappresentando la teoria di nessun autore greco in particolare, quest’immagine illustra alcune caratteristiche della visione del cosmo dei primi filosofi presocratici. La massa terrestre sembra galleggiare sulle acque ed è circondata dagli abissi dell’oceano. I continenti sono distribuiti attorno al Mediterraneo, in accordo con le osservazioni dei navigatori greci dell’epoca. Il mondo è racchiuso da un firmamento sferico sul quale scorrono il sole, la luna e le stelle. In questa fase del pensiero astronomico si riteneva che l’universo fosse limitato e di dimensioni ridotte. Anassimandro sarà il primo a concepire l’idea di un universo infinito.
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IL MONDO SECONDO ANASSIMANDRO Nella prima metà del VI secolo a.C. Anassimandro elaborò una teoria della struttura dell’universo che aspirava a essere puramente razionale e non basata sui racconti mitologici. La terra, di forma cilindrica, era circondata da una sfera di stelle e da due enormi anelli cavi e pieni di fuoco, su cui si aprivano due fessure dalle quali fuoriuscivano la luce solare e lunare.
LA TERRA E LE STELLE
Anassimandro immagina la terra come un cilindro sospeso nello spazio. Le stelle sono situate tutte alla stessa distanza dalla terra, sulla sfera di cristallo che, secondo il suo discepolo Anassimene, circonda il pianeta.
IL FILOSOFO DELL’ IN FINITO anassimandro visse a mileto, in Asia Minore, tra il 610 a.C. e il 545 a.C. circa. Sosteneva che il mondo fosse nato dall’infinito, l’apeiron, tramite un movimento che aveva prodotto la separazione delle qualità opposte, come il caldo e il freddo. L’universo, però, non sarebbe durato eternamente, ma un giorno si sarebbe dissolto nell’apeiron, dal quale, poi, sarebbero sorti nuovi mondi. Qui sopra, frammento di un bassorilievo con un ritratto di Anassimandro. Museo nazionale romano, Roma.
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IL SOLE
LA LUNA
Attorno al nostro pianeta c’è anche un secondo anello cavo. Le fasi lunari dipendono dalla maggiore o minore apertura dell’orifizio che lascia trapelare la luce interna dell’anello. Le eclissi si verificano quando la fessura è completamente chiusa.
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FRAMMENTO: AKG / ALBUM. ILLUSTRAZIONE: G. DUPRAT / CIEL ET ESPACE / CONTACTO PHOTO
La terra è circondata da un gigantesco anello pieno di fuoco, con un diametro 27 volte quello terrestre. La luce solare visibile dalla terra fuoriesce da una piccola fessura.
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elaborati, anche se i loro ragionamenti non erano sempre esenti da pregiudizi. Filolao (nato a metà del V secolo a.C., secondo Diogene a Crotone) affermava per esempio che la terra e gli astri giravano attorno a un fuoco centrale, il cosiddetto «trono di Zeus». Sosteneva inoltre l’esistenza di un pianeta uguale al nostro ma sempre nascosto dal sole, l’«antiterra». Forse si trattava di un espediente per far sì che i corpi celesti fossero dieci, un numero ritenuto perfetto dai pitagorici.
AL CENTRO DEL SISTEMA TOLEMAICO È SITUATA LA TERRA, COME ILLUSTRA QUESTO DISEGNO DI OLIVER LODGE. 1893.
L’OROLOGIO SFERICO DI MATELICA Questa sfera di marmo, datata tra il I e il II secolo d.C., fu scoperta a Matelica nel 1985. Sembra servisse a misurare il tempo e le stagioni. Museo archeologico, Matelica.
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Il genio di Archimede
zione della terra come una superficie tondeggiante e da Anassimene l’idea del cielo come una cupola di cristallo punteggiata di stelle fisse. Per i pitagorici l’universo era una sfera che ruotava attorno a un asse, il cui polo visibile era situato nell’Orsa minore – una costellazione visibile tutto l’anno. Pitagora pensava inoltre che la terra fosse al centro dell’universo e avesse anch’essa forma sferica. Non sappiamo bene come giunse a questa conclusione: alcuni ritengono che l’idea della sfericità gli venne osservando l’ombra ricurva che la terra proietta sulla luna durante le fasi di eclissi; secondo altri Pitagora estese l’immagine del cielo sferico anche agli altri oggetti astronomici. C’è infine chi pensa che il filosofo si limitò a sviluppare un argomento matematico-estetico, in quanto considerava la sfera come la più bella delle forme geometriche. A partire dall’osservazione del cosmo, i pitagorici svilupparono dei modelli astronomici particolarmente
Nel V secolo a.C. arrivarono in Grecia le osservazioni effettuate dai babilonesi, molto più numerose e precise rispetto a quelle degli astronomi locali. Tale novità, in unione con i progressi nello studio della geometria sferica, accelerò il ritmo delle scoperte e permise sia di perfezionare le ipotesi sia di elaborare nuove teorie. Nel frattempo fecero la loro comparsa i primi trattati di matematica e astronomia. A metà del IV secolo a.C. Aristotele riprese l’idea che la terra fosse una sfera di non grandi dimensioni. Nel III secolo a.C., poi, la cultura greca sviluppò notevolmente la sua comprensione della terra e del cosmo. Ne sono una prova le parole che il grande matematico siceliota Archimede scrisse nell’Arenario, un’opera della fine del III secolo a.C. dedicata al figlio del tiranno Gerone II di Siracusa: «Ora sai bene che molti astronomi considerano il cosmo una sfera al cui centro c’è la terra e di raggio eguale alla retta congiungente il centro del sole con il centro della terra; e ciò è quanto hai appreso dagli astronomi». Archimede si riferiva in questo scritto alle teorie rivoluzionarie di Aristarco di Samo, uno scienziato della Ionia vissuto alcune decine di anni prima, che aveva ipotizzato un modello di universo in cui la terra e il resto dei pianeti girano attorno al sole. «Aristarco di Samo – scrive Archimede – ha esposto nei suoi libri alcune tesi secondo le quali […] le stelle fisse e il sole sono immobili, mentre la terra si muove lungo una circonferenza al cui centro si trova il Sole». Secondo Plutarco, l’astronomo ionico sosteneva anche che la terra ruotava sul suo asse. Nel suo trattato Sulle dimensioni
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TEMPIO DI APOLLO A DIDIMA
I primi saggi e filosofi greci apparvero in città dell’Asia Minore come Mileto, Efeso o Alicarnasso. Nella stessa regione sorgeva Didima, che ospitava un importante oracolo del dio Apollo, il cui tempio è visibile in quest’immagine. SEMA BARAN / AGE FOTOSTOCK
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Le dimensioni della terra Alessandria
Siene
LA PRIMA misurazione scientifica della circonferenza terrestre si deve a Eratostene di Cirene. Vissuto ad Alessandria nel III secolo a.C., Eratostene misurò la differenza nell’inclinazione dei raggi solari tra due città, Alessandria e Siene (l’odierna Assuan, in Egitto), situate sullo stesso meridiano a circa 800 chilometri di distanza l’una dall’altra, e concluse che era di 7 gradi. QUINDI EFFETTUÒ una semplice proporzione e arrivò alla conclusione che la circonferenza terrestre era di 252mila stadi. Se lo stadio utilizzato era quello attico, lungo 174,125 metri, allora si sbagliò di pochissimo, perché il suo risultato finale (43.879,5 km) sarebbe appena un 9,6 percento in più della misura corretta (40.075 km).
SPL / AGE FOTOSTOCK
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IL SISTEMA SOLARE DI COPERNICO Nell’incisione del XVIII secolo visibile sotto è raffigurato il sistema solare secondo la teoria eliocentrica formulata da Niccolò Copernico nel XVI secolo.
e distanze del Sole e della Luna, Aristarco tentò di calcolare la grandezza del cosmo. A partire da alcune osservazioni astronomiche, in particolare delle eclissi lunari, e tramite calcoli geometrici, concluse che la distanza tra la terra e il sole era tra le 18 e le 20 volte quella tra la terra e la luna. In realtà il rapporto tra le distanze medie è di circa 400, ma il grande merito di Aristarco fu quello di attribuire all’universo un’estensione molto maggiore rispetto a quanto si riteneva fino ad allora. Nel III secolo a.C. si era quindi ormai imposta l’idea secondo cui i corpi celesti si muovono circolarmente attorno a un centro. L’unico oggetto di dibattito era se la posizione centrale fosse occupata dalla terra o dal sole. Sfortunatamente la visionaria teoria eliocentrica di Aristarco cadde nell’oblio (Archimede fu uno
dei pochi a ricordarla nel passo citato). Secondo quanto riferisce Plutarco, lo stoico Cleante arrivò ad accusare l’astronomo di Samo di empietà per «aver turbato il centro dell’universo», cioè per aver sostenuto che la terra era in movimento. Gli scienziati di epoca ellenistica e romana preferirono adottare il modello di universo geocentrico, che sarebbe poi giunto fino al Medioevo grazie all’Almagesto di Tolomeo, provocando una lunga stasi dell’astronomia occidentale. Successivamente sarebbero state le ipotesi di Copernico, l’Aristarco della modernità, e le osservazioni fatte da Galileo con il suo telescopio, a rinnovare l’immagine del cosmo e a inaugurare una nuova fase di progresso scientifico. PALOMA ORTIZ FILOLOGA
Per saperne di più
SAGGI
L’universo invisibile Isaac Asimov. Mondadori, Milano, 1992. L’universo dei greci. Attualità e distanze Oddone Longo. Marsilio, Venezia, 2000.
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CLAUDIO TOLOMEO
Tolomeo riprese gli elementi fondamentali della sua teoria dalle cosmologie precedenti. Il suo grande contributo all’astronomia consistette nell’applicarvi i progressi della geometria sferica. I vertici scientifici raggiunti nell’Almagesto rappresentarono un punto di riferimento per tutto il millennio successivo. Tolomeo in un olio di Giusto di Gand. XV secolo. Musée du Louvre, Parigi. JOSSE / SCALA, FIRENZE
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DALLA TERRA PIATTA ALLE Nell’antica Grecia furono elaborate varie teorie per tentare di spiegare la 1
VIII SECOLO A.C.
omero dipinge un’immagine poetica del cosmo. Il sole, la luna e le stelle si muovono al di sopra della terra, che è circondata dall’oceano e ha sotto di sé il regno degli inferi.
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620-546
A.C. CIRCA
talete di mileto afferma che la terra è piatta e galleggia sull’acqua «come un pezzo di legno». Nella sua filosofia «l’acqua è il principio di ogni cosa».
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610-545
A.C. CA.
anassimandro di mileto sostiene che la terra è un cilindro sospeso nello spazio, circondata dalla sfera delle stelle. Il fondamento del cosmo è l’infinito o apeiron.
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590/585-524
A.C.
anassimene di mileto concepisce una terra emisferica che galleggia nell’elemento fondamentale dell’universo, l’aria, ed è il risultato della sua condensazione.
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570-500/490
A.C. CIRCA
pitagora sostiene che la terra occupa il centro dell’universo ed è una sfera, secondo lui la più bella forma geometrica esistente.
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470-385
A.C.
filolao immagina l’universo come una cupola cosparsa di stelle. Al centro è situato un grande fuoco intorno a cui orbitano la terra, il sole, la luna e i restanti pianeti, tra cui l’antiterra.
SFONDO: JUAN CARLOS CASADO / SPL / AGE FOTOSTOCK. ILLUSTRAZIONI: G. DUPRAT / CIEL ET ESPACE / CONTACTO PHOTO
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SFERE CELESTI formazione dell’universo 7
427-347
A.C.
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platone sviluppa un modello a otto orbite planetarie con la terra al centro. Secondo la sua teoria, il sole è semplicemente il corpo celeste più luminoso.
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408-355
A.C.
eudosso di cnido afferma che la terra è al centro dell’universo ed è circondata dagli altri corpi celesti, ovvero da 27 sfere suddivise in 7 gruppi.
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180-150
A.C.
cratete di mallo costruisce il primo modello sferico del globo terrestre. Per ragioni di simmetria Cratete immagina che nell’emisfero sud esistano due continenti inesplorati.
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100-170
D.C.
claudio tolomeo consacra il modello geocentrico del cosmo, dove i pianeti ruotano attorno alla terra all’interno della sfera delle stelle fisse.
384-322A.C. aristotele ritiene che la sfera terrestre sia al centro dell’universo. I pianeti si muovono attorno a essa su delle sfere cristalline.
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310-230
A.C.
aristarco di samo è il primo ad affermare che il sole è al centro dell’universo e tutti gli altri pianeti gli orbitano attorno. Sostiene anche che il sole è sette volte più grande della terra.
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276-194
A.C.
eratostene di cirene effettua una misurazione della circonferenza terrestre, ottenendo dei risultati straordinariamente precisi.
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APOTEOSI DEL CESARE
IL DIVO AUGUSTO Mentre era ancora in vita, Augusto fu venerato in tutto l’impero. Alla sua morte fu divinizzato, inaugurando una consuetudine che proseguì coi suoi successori
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GEMMA AUGUSTEA
In questo cammeo di onice, di cui nell’immagine si vede la parte superiore, Augusto viene incoronato da una divinità, mentre l’aquila di Giove si posa sotto il suo trono. Accanto all’imperatore, la moglie Livia è rappresentata come la dea Roma. Kunsthistorisches Museum, Vienna. ERICH LESSING / ALBUM
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L’ALTARE DELLA PACE E IL MAUSOLEO
Al centro di questa immagine aerea di Roma si può vedere il mausoleo costruito da Augusto per accogliere le spoglie mortali sue e dei suoi familiari. In primo piano, l’edificio moderno che ospita l’Ara Pacis, fatta erigere dall’imperatore tra il 13 e il 9 a.C. BAMS PHOTO / SCALA, FIRENZE
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uando il primo imperatore romano morì aveva quasi 77 anni e per circa mezzo secolo aveva regnato indiscusso. Il 19 agosto del 14 d.C. da Nola, vicino Napoli, il suo corpo fu portato a Roma a spalle dai notabili delle città situate lungo il cammino. Il viaggio si fece di notte per evitare
che il corpo si decomponesse troppo rapidamente a causa dell’intenso calore estivo. Furono i cavalieri romani a incaricarsi di introdurre le spoglie dell’imperatore nella capitale. Tiberio, figlio adottivo e successore designato, pronunciò l’elogio funebre durante una sessione del senato. Quindi la salma fu trasferita al Campo Marzio, dove Augusto si era costruito il suo mausoleo. La pira funeraria fu accesa da alcuni centurioni su ordine del senato. Mentre il rogo ardeva, un’aquila si alzò in volo dalle fiamme per trasportare in cielo l’anima del defunto imperatore. L’ex pretore Numerio Attico giurò davanti al senato di aver assistito all’evento miracoloso, facilitando in questo modo l’apoteosi di Augusto, che fu decretata il 17 settembre. A Roma era nato un nuovo dio. Iniziò così una consuetudine che sarebbe proseguita per almeno due secoli: il senato divinizzava gli imperatori se ne giudicava positivamente l’operato. Era un’usanza nuova, che rompeva con le antiche tradizioni politiche e religiose dell’Urbe. La repubblica romana si era sempre definita una “città”, una comunità di persone
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che condividevano la cittadinanza e veneravano gli dei locali, in particolare Giove Capitolino, divinità suprema connessa alla fondazione dello stato.
La divinizzazione di Cesare Fin dalla nascita della repubblica, nel 509 a.C., i romani avevano rifiutato l’ordine monarchico e il concetto di origine divina della regalità, a differenza di quanto avveniva nell’Egitto dei faraoni o nelle monarchie ellenistiche eredi di Alessandro Magno. Di fronte alla grandezza delle sue stesse imprese, il conquistatore macedone non aveva resistito alla tentazione di farsi divinizzare in vita, e coloro che gli erano succeduti nei vari territori del suo impero avevano provato a imitarlo, con esiti diversi. La situazione a Roma cambiò nel I secolo a.C., un periodo caratterizzato dal susseguirsi di guerre civili. I generali dell’esercito accumularono nelle loro mani un potere sempre più grande, che metteva a repentaglio la sopravvivenza politica dello stato romano. I soldati venivano obbligati a pronunciare un giuramento di lealtà personale al loro capo, che li vincolava all’obbedienza anche in caso
44 a.C.
29 a.C.
27 a.C.
14 d.C.
Giulio Cesare viene divinizzato dopo il suo assassinio. Il nipote Ottaviano è proclamato «figlio del Divo».
Ottaviano autorizza gli abitanti delle province orientali a venerarlo insieme alla dea Roma.
Il senato concede a Ottaviano il titolo di Augusto, decretando così l’inizio dell’impero.
In seguito alla morte di Augusto il senato proclama la sua apoteosi.
CAMMEO DI AUGUSTO
In questo cammeo incastonato nella cosiddetta “croce di Lotario”, conservata nella cattedrale di Aquisgrana, Augusto indossa una corona di alloro e regge in mano uno scettro con l’aquila di Giove.
GIOVE VEROSPI. STATUA ROMANA DI MARMO. MUSEO PIO CLEMENTINO, VATICANO.
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SCALA ,
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ROMA RENDE DIVINI
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IL FORO DI AUGUSTO
Augusto fece costruire a Roma un suo proprio foro, in cui spiccava un grande tempio dedicato a Marte Vendicatore. L’imperatore lo eresse in segno di gratitudine per la vittoria a Filippi contro gli assassini di Cesare, suo padre adottivo. JON INGALL / ALAMY / ACI
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di ordini in contrasto con la fedeltà dovuta alla repubblica. Si sviluppò la tendenza a ritenere che il potere dei generali avesse un fondamento religioso, tendenza che fu alimentata dall’influenza delle monarchie ellenistiche e, in particolare, dal ricordo di Alessandro Magno. Nemmeno Giulio Cesare sfuggì alla tentazione di ritenersi in qualche modo un prescelto dagli dei. Nella sua aspirazione a dominare il mondo si convinse che il suo potere aveva origini divine, e riuscì a fare accettare questa visione al popolo romano. Alla sua morte un prodigio facilitò la divinizzazione dell’imperatore da parte del senato: per sette giorni brillò nei cieli di Roma una cometa, il sidus Iulium. Quell’evento astronomico fu interpretato come il segno che l’anima del dittatore era stata accolta tra gli dei.
Amati dagli dei
L’ASCESA AI CIELI QUANDO MORIVA un imperatore e il senato ne decretava l’apoteosi, veniva
allestita una grande pira funeraria (rogus) di quattro piani a forma di piramide, riempita di legna e ricoperta di arazzi intessuti d’oro, statuette di avorio e dipinti. La bara veniva collocata al secondo piano e cosparsa di incensi e profumi pregiati. A quel punto si accendeva il fuoco e dal piano più alto della pira veniva liberata un’aquila, che si credeva portasse l’anima nei cieli.
Dioniso e sposo di Cleopatra, a sua volta identificata con la dea egizia Iside. Insomma, sui ponti delle navi non era in corso solo uno scontro tra gli uomini, ma anche una battaglia tra gli dei. Se fosse riuscito a imporsi, Marco Antonio avrebbe trasformato Roma in una monarchia di stampo orientale, governando come un sovrano di origine divina. Ottaviano invece aveva promesso che la sua vittoria avrebbe significato la restaurazione della repubblica e del potere senatoriale, e impedito la conversione dei domini dell’Urbe in un regno teocratico. Il successore di Cesare fu di parola e in una sessione del senato, tenutasi nel gennaio del 27 a.C., proclamò che
GIULIO CESARE DIVINIZZATO
Su una delle facce di questo denario d’argento è rappresentata la cometa che apparve in cielo poco dopo la morte di Cesare.
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Dopo la morte di Cesare, chiunque aspirasse al potere iniziò a presentarsi come un eletto divino. Marco Antonio si lasciò affascinare dalla credenza ellenistica nella divinità dei re in seguito alla sua appassionata relazione con la regina egizia Cleopatra VII. L’ex triumviro iniziò a considerarsi un discendente di Ercole, che aveva un figlio di nome Anteone. Proclamò anche di essere l’incarnazione di Dioniso, il dio del vino – una passione che Marco Antonio coltivava con un certo trasporto –, e il conquistatore dell’Oriente. Dal canto suo, il suo avversario Ottaviano si faceva chiamare «figlio del Divo» (Giulio), rivendicando in questo modo le sue origini divine. La lotta tra i due rivali si risolse nella battaglia navale di Azio, nel 31 a.C. Prima dello scontro entrambi si fecero giurare fedeltà dalle province sotto il rispettivo dominio – Ottaviano da quelle occidentali, Antonio da quelle orientali. Azio diventò una specie di guerra sacra, che vedeva schierati da un lato il figlio del Divo con l’appoggio di Giove Capitolino, Marte Vendicatore e Apollo; dall’altro Marco Antonio, discendente di Ercole, nuovo
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PIRA FUNERARIA DI UN IMPERATORE ROMANO. INCISIONE. 1746.
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CULTO IMPERIALE IN ORIENTE
Pergamo, in Asia Minore, fu la prima città a ospitare un tempio dedicato al culto dell’imperatore Augusto. Successivamente anche Traiano costruì qui il suo tempio, visibile nella foto. ISTOCK / GETTY IMAGES
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COME IL DIO GIOVE
La statua nell’immagine rappresenta Augusto con gli attributi di Giove ed è stata scoperta nell’Augusteum di Ercolano. Si ritiene che questo enorme edificio fosse la sede del collegio degli augustales, i sacerdoti addetti al culto imperiale. PRISMA / ALBUM
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DISCENDENTE DI ENEA OTTAVIANO FU ADOTTATO da Giulio Cesare nel suo testamento, diven-
tando così figlio di un essere divino e discendente della dea Venere, antenata della gens Iulia. Cesare aveva fatto sua la leggenda di Enea, l’eroe figlio di un mortale e di Venere che fuggì da Troia per raggiungere le coste italiane. Suo figlio Ascanio, detto anche Giulio, avrebbe dato origine alla stirpe di Romolo e Remo.
FIGLIO DEL DIVO GIULIO
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Nell’iscrizione di questo scudo votivo, l’imperatore viene definito figlio del Divo Giulio. Musée de l’Arles antique, Arles.
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natura divina si impose definitivamente solo alla sua morte. Durante i magnifici funerali svoltisi in suo onore, Augusto salì al cielo per unirsi agli dei e diventare uno dei numi protettori dell’impero romano. Se a Roma la divinizzazione di Augusto avvenne solo alla morte del Divo, nelle province dell’impero il processo era iniziato prima. Molti abitanti delle regioni orientali avevano familiarità con l’idea di un dio-re, e Ottaviano decise di approfittare di quella circostanza per conquistarsi le loro simpatie. Fu nella provincia d’Asia, nell’attuale Turchia, che collaudò
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Ufficialmente Ottaviano era figlio del Divo Giulio, e la sua opera di restaurazione politica e sociale era considerata un riflesso diretto dalla volontà divina. Non poteva però essere divinizzato in vita, perché ciò avrebbe significato l’instaurazione di una teocrazia. Alcuni proposero allora di assegnargli il nome di Romolo, re fondatore di Roma, per riconoscergli un carattere sacro, ma l’ostilità popolare nei confronti della monarchia scoraggiò questa eventualità. La soluzione ideale venne da Lucio Munazio Planco, un sostenitore di Marco Antonio che aveva disertato alla vigilia della battaglia di Azio per passare tra le file di Ottaviano. Nel 27 a.C. Planco suggerì che si concedesse al successore di Cesare il nome di Augusto, un termine etimologicamente affine alla parola “auge” e che era normalmente utilizzato per riferirsi agli dei e alle loro prerogative. E così Ottaviano divenne Augusto, non solamente per i suoi benefici effetti sulla rinascita di Roma, ma anche perché gli vennero attribuite alcune qualità divine, senza che però fosse considerato propriamente un dio in vita. Quest’ambiguità caratterizzò tutto il seguito del suo regno. L’idea di una
ENEA PARTECIPA A UN SACRIFICIO. PARTICOLARE DELL’ARA PACIS DI AUGUSTO.
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Augusto e quasi dio
PRISMA ARCHIVO
il suo ruolo sarebbe stato quello di senatore, anche se primo fra tutti. Ciononostante, Ottaviano non rinunciò ad attribuirsi una posizione privilegiata nell’universo religioso romano. Quello stesso anno avrebbe voluto diventare pontefice massimo, la più importante dignità sacerdotale della città. Ma quella carica vitalizia era nelle mani di Lepido, che con Antonio e lo stesso Ottaviano aveva composto il triumvirato succeduto a Cesare nel governo di Roma. Il figlio del Divo dovette quindi attendere la morte di Lepido, avvenuta nel 12 a.C., per assumere la guida della religione romana. Nel frattempo occupò la presidenza degli altri collegi sacerdotali, svolgendo un ruolo di interlocutore tra il popolo romano e l’universo divino. Ma questo rapporto preferenziale con gli dei non gli bastava.
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I L T E M P I O D I TA R R A G O N A
PRISMA / ALBUM
nel 2010 alcuni scavi effettuati nella cattedrale di Tarragona hanno portato alla luce i resti dell’antico tempio dedicato ad Augusto. Fu il suo successore Tiberio ad autorizzarne la costruzione, su richiesta di un’ambasciata proveniente dalla capitale della provincia tarraconense. I lavori iniziarono nel 15 d.C. all’interno del foro provinciale, una piazza porticata che si rifaceva al foro di Augusto a Roma. In base ai ritrovamenti si ritiene che il tempio avesse otto colonne sui lati corti e undici sui lati lunghi, tutte di circa 14 metri di altezza. La struttura di fondazione scoperta suggerisce che il tempio potesse raggiungere i 37 metri di altezza. ALTARE DEDICATO AL DIO AUGUSTO RITROVATO NELL’ORCHESTRA DEL TEATRO DI TARRAGONA. MNAT, TARRAGONA.
TEMPIO DI AUGUSTO NEL FORO IMPERIALE DI TARRAGONA. RICOSTRUZIONE IN 3D REALIZZATA DA JAVIER TORRES E ÁNGEL VELOSO (DIGIVISIÓN).
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APOTEOSI IMPERIALE
SCALA, FIRENZE
La tradizione della divinizzazione imperiale proseguì dopo Augusto. Su una delle facce della base della colonna di Antonino Pio (138-161 d.C.) è raffigurata l’apoteosi dell’imperatore e della moglie Faustina, che ascendono al cielo sorretti da un genio alato e accompagnati da due aquile. Ai loro piedi, accanto a una catasta di armi, ci sono la dea Roma e la personificazione del Campo Marzio che sostiene l’obelisco di Augusto.
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LA MAISON CARRÉE
Questo edificio religioso fatto costruire da Marco Agrippa e destinato al culto dell’imperatore Augusto si trova a Nîmes. Considerato uno dei templi romani meglio conservati d’Europa, era situato nel foro della città. REN MATTES / GETTY IMAGES
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il modello del culto imperiale, prima ancora di potersi fregiare di qualche titolo. Innanzitutto ordinò di erigere nella capitale Efeso un tempio dedicato al Divo Giulio, dove i cittadini romani avrebbero dovuto svolgere le loro funzioni religiose. Quindi fece costruire un secondo tempio a Pergamo, dedicato a Roma e alla propria persona, in cui poteva assistere ai riti chi non godeva della cittadinanza romana.
Augusto stabilì dunque uno schema per la venerazione dell’imperatore: questi era un dio vivente per gli abitanti delle province, ma i romani potevano adorarlo solo dopo la morte, nel caso in cui il senato ne avesse decretato l’apoteosi. Così riassumeva la situazione Cassio Dione: «A quegli stranieri che chiamava greci, concesse di erigere dei templi a lui stesso consacrati, agli abitanti d’Asia a Pergamo, e ai bitini a Nicomedia. E questo costume, che ebbe qui il suo inizio, si mantenne in seguito per onorare anche gli altri imperatori, non solo nelle province greche, ma anche presso tutti gli altri popoli sudditi dei romani. E certo né a Roma, né in Italia, mai nessun uomo, per quanto degno d’onori, aveva osato tanto». Come lascia intravedere questo passo, a Roma la divinizzazione degli imperatori fu accolta con certa istintiva ostilità, a differenza di quanto avveniva nel resto dell’impero. Di fatto, alcuni sovrani si mostrarono riluttanti a essere divinizzati. È il caso del successore di Ottaviano, Tiberio. A soli otto giorni dalla morte di Augusto una delegazione di ispanici si recò a Roma per chiedere al nuovo imperatore e a sua madre il permesso di erigere un tempio in loro onore, come avevano fatto gli abitanti della provincia d’Asia. Ma in un discorso di fronte al senato Tiberio replicò che aveva accettato la proposta delle città asiatiche solo per seguire l’esempio di Augusto, e non voleva che quell’esempio si estendesse a tutto l’impero. «Che in tutte le province mi si consacrino delle immagini come se fossi un dio – dichiarò – implicherebbe
J. D. DALLET / AGE FOTOSTOCK
Un dio nella vita e nella morte
DOMINATORE DEL MONDO IL BASSORILIEVO visibile qui sopra proviene dal Sebasteion, un grande
complesso cerimoniale eretto a metà del I secolo d.C. ad Afrodisia, una città sulla costa occidentale dell’attuale Turchia. Rappresenta un imperatore – i ricercatori discutono se si tratti di Augusto o di Claudio –, nudo alla maniera di un eroe, che esercita il suo dominio sulle personificazioni della terra e del mare, prostrate ai suoi piedi.
un’attitudine vanagloriosa e superba […] Io, senatori, voglio essere mortale, ricoprire cariche proprie degli uomini e accontentarmi di essere il primo tra loro […] I miei templi sono quelli che avete edificato nei vostri cuori; sono quelle le mie statue più belle e durature». JUAN MANUEL CORTÉS COPETE PROFESSORE DI STORIA ANTICA, UNIVERSITÀ PABLO DE OLAVIDE (SIVIGLIA)
Per saperne di più
TESTI
Vite dei Cesari (2 volumi) Caio Svetonio Tranquillo. BUR, Milano, 1998. SAGGI
Augusto, figlio di Dio Luciano Canfora. Laterza, Roma-Bari, 2015. Vita alla corte imperiale romana Beatrice Girotti. Patron, Bologna, 2010.
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I cento giorni di Napoleone Bonaparte
1815: l’ultimo Dopo circa nove mesi di confino sull’isola d’Elba, Napoleone rientrò a
SBARCO IN FRANCIA
Quest’olio del 1818, opera di Carl von Steuben, mostra l’arrivo di Napoleone e delle sue truppe a Golfe-Juan, nei pressi di Antibes, il primo marzo del 1815. AKG / ALBUM
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assalto
sorpresa in Francia per provare a far rivivere il suo impero
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C R O N O LO G I A
Esilio, trionfo e sconfitta 20-IV-1814
Dopo aver abdicato, Napoleone va all’Elba. Il governo francese si impegna a versargli una pensione annua di due milioni di franchi.
1-III-1815
Nove mesi più tardi l’imperatore sbarca a GolfeJuan con circa mille uomini e inizia una marcia verso Parigi per riprendersi il trono.
20-III-1815
PORTA APERTA ALL’ESILIO
Entra nella capitale acclamato dall’esercito e dalla popolazione. La notte prima Luigi XVIII ha abbandonato precipitosamente la Francia.
Il 6 aprile del 1814, nel palazzo di Fontainebleau (nell’immagine) Napoleone Bonaparte firmò l’abdicazione incondizionata. Il 20 andò in esilio sull’isola d’Elba.
22-IV-1815
Viene promulgata una nuova costituzione. Napoleone si sottopone al controllo del parlamento per migliorare la sua immagine pubblica.
LE PASSIONI DELL’IMPERATORE
Napoleone amava circondarsi di simboli del potere e della dignità imperiale, come quest’orologio a pendolo che rappresenta Urania, la musa dell’astronomia. Palazzo di Fontainebleau.
9-VI-1815
Si conclude il congresso di Vienna. Le potenze europee si preparano a invadere la Francia. Napoleone entra in Belgio con la sua armata.
22-VI-1815
15-VII-1815
Viene imbarcato su una nave della marina inglese e successivamente trasferito su un’altra, diretta a Sant’Elena, dove morirà nel 1821..
A. DIDIERJEAN / RMN-GRAND PALAIS
Sconfitto a Waterloo quattro giorni prima, Napoleone abdica per la seconda volta. L’8 luglio Luigi XVIII rientra a Parigi come re di Francia.
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opo quasi vent’anni di trionfi sui campi di battaglia – che gli avevano permesso di estendere il suo impero su tutta l’Europa continentale – il 6 aprile del 1814 la carriera di Napoleone Bonaparte sembrava essere giunta al termine. Asserragliato nel suo palazzo di Fontainebleau, lontano dalla moglie Maria Luisa e dal figlio, privato dal senato del suo titolo imperiale e con il Paese invaso da eserciti stranieri, Napoleone decise di abdicare senza condizioni. Gli stati vincitori discussero su cosa fare del sovrano deposto. Inglesi, austriaci e prussiani volevano deportarlo oltre i confini europei. Ma lo zar Alessandro si oppose per una forma di rispetto verso un uomo che aveva a lungo considerato un fratello. Alla fine il trattato di Fontainebleau stabilì di assegnare a Napoleone la sovranità sull’isola d’Elba, uno“scoglio”di 223 chi-
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GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS
L’ADDIO DI NAPOLEONE. ANTOINE ALPHONSE MONTFORT. PALAZZO DI VERSAILLES.
lometri quadrati tra l’Italia e la Corsica. Il 4 maggio una nave inglese lasciò l’imperatore a Portoferraio, dove gli elbani lo accolsero calorosamente. Francia ed Europa tirarono un sospiro di sollievo vedendo il vecchio conquistatore adattarsi al suo nuovo ruolo di sovrano di un territorio minuscolo e isolato. Dopo 25 anni di guerre il continente sembrava sul punto di ritrovare la pace. Ma le svolte della storia sono spesso determinate dal caso e difficili da prevedere.
Prima restaurazione Nel frattempo a Parigi il ritorno dei Borbone si presentava sotto i migliori auspici. Luigi XVIII, fratello minore del sovrano ghigliottinato nel 1793, era un uomo progressista e prudente che aspirava solo a una restaurazione pacifica. Per rompere con l’assolutismo prerivoluzionario e smantellare il potere dittatoriale dell’imperatore, concesse ai francesi una Carta che istituiva una monarchia costituzionale sul modello di quella britannica. I grandi principi della Dichiarazione dei diritti
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PRIMA DI LASCIARE FONTAINEBLEAU Napoleone salutò le sue truppe con parole commosse: «Soldati della vecchia guardia, io vi dico addio. In venti anni di comando, vi ho sempre trovati sul cammino della gloria […] Con degli uomini come voi, la nostra causa non era persa. Ma la guerra era interminabile […] Per questo ho sacrificato tutti i nostri interessi a quelli della patria. Parto. Addio, figli miei!».
dell’uomo del 1789 erano accolti nel codice civile; e veniva garantita la proprietà dei beni espropriati alla Chiesa durante la rivoluzione e poi venduti ai privati. La maggior parte dei francesi vedeva di buon occhio queste decisioni. Il Paese oltretutto non era stato umiliato dai vincitori dopo la sconfitta militare: era tornato ai suoi confini del 1792 (con qualche aggiunta), aveva recuperato il suo impero coloniale ed evitato l’occupazione militare e il pagamento di risarcimenti di guerra. Talleyrand seppe difendere con astuzia gli interessi francesi al congresso di Vienna, che si era aperto il primo novembre per definire il nuovo assetto internazionale dopo circa vent’anni di conflitto. Grazie al riconoscimento degli altri Paesi, Luigi XVIII poté dedicarsi a garantire la ripresa e la pace civile nel regno.
RIVALE E SUCCESSORE
Dopo l’abdicazione di Napoleone, Luigi XVIII ristabilì il potere borbonico in Francia. Sotto, il re seduto sul trono. Palazzo di Versailles.
FRANCK RAUX / RMN-GRAND PALAIS
LEEMAGE / GETTY IMAGES
IL CONGEDO DALL’ESERCITO
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IL PALAZZO DEL LOUVRE
Napoleone utilizzò come residenza ufficiale il palazzo delle Tuileries, all’interno del complesso architettonico del Louvre (nell’immagine, il padiglione dell’Orologio).
Ma gli mancava l’appoggio della sua cerchia più stretta: la famiglia, i dignitari di corte e i vari ministri avevano un atteggiamento poco conciliante. Tornati in Francia dopo decenni di esilio, non avevano familiarità con il nuovo Paese sorto dalla rivoluzione ed esigevano la restituzione dei loro titoli e un risarcimento proporzionato ai torti subiti. Il conte d’Artois, fratello del re e futuro Carlo X, era uno dei rappresentanti di questo spirito reazionario. Nel governo di Luigi XVIII convivevano ministri più o meno liberali, alcuni dei quali avevano collaborato con Napoleone, con aristocratici conservatori del calibro del conte di Blacas e del barone di Vitrolles. Anche nell’opinione pubblica si registrava una spaccatura simile. A sinistra il filosofo Benjamin Constant temeva l’assunzione di misure liberticide, mentre all’estrema destra il visconte di Bonald esigeva l’incriminazione dei giacobini (che dal canto loro aspiravano
TALLEYRAND IL TRASFORMISTA
Nel 1814, Talleyrand ordì un complotto per rovesciare Napoleone, di cui era stato ministro. Fu a capo della delegazione francese al congresso di Vienna. Versailles. C. FOUIN / RMN-GRAND PALAIS
a riproporre la rivoluzione del 1789-95) e dei bonapartisti. La relativa libertà di stampa favoriva gli eccessi verbali. Le politiche del nuovo regime si alienarono ben presto le simpatie di molti cittadini. Sul piano religioso, la reintroduzione delle cerimonie e delle processioni solenni, il fiorire di scuole ecclesiastiche e seminari, e il controllo della Chiesa sull’università irritarono i francesi di cultura illuminista, che mal sopportavano le ingerenze clericali. Ancor più grave era il malessere che serpeggiava nell’esercito. Alla fine della guerra erano stati licenziati 300mila soldati, mentre più di 15mila ufficiali avevano subìto una riduzione dello stipendio ed erano costretti all’inattività. Se la maggior parte dei marescialli e degli ammiragli appoggiava la monarchia borbonica, la fedeltà all’imperatore rimaneva forte tra gli ufficiali superiori, i subalterni e i veterani, il cui malcontento poteva sfociare da un momento all’altro in cospirazioni o sedizioni. Ignaro del
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IL GIARDINO DELL’IMPERATORE
pericolo, Luigi XVIII reinserì nell’esercito molti militari di rientro dall’esilio che avevano combattuto contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica.
Il ritorno in Francia Il re sperava che con il passare del tempo i disaccordi e i rancori si sarebbero placati e la vita pubblica e privata sarebbe tornata alla calma. Ma non aveva sufficiente carisma per favorire questi sviluppi. Afflitto dall’obesità e dalla gotta, sospettoso di tutto e di tutti, disilluso ed edonista al tempo stesso, non usciva dal palazzo delle Tuileries. La crescente delusione generata dai suoi atteggiamenti influì sulla scelta di Napoleone di tornare. All’isola d’Elba l’ex imperatore si manteneva informato sulla situazione francese grazie alle sue reti di spionaggio. I suoi agenti si muovevano liberamente in Italia e in Austria, e in territorio transalpino riuscivano a eludere la sorveglianza di una polizia mal gestita dal ministro degli interni Beugnot. L’opinione condivisa era che in Francia po-
ALL’ELBA NAPOLEONE si costruì un’oasi di tranquillità. L’imperatore scriveva di avere una vita «invidiabile, molto serena». Ma ben presto l’isola divenne troppo piccola per lui. «Poteva forse accettare di regnare su un giardino, come Diocleziano a Salona?» si chiese Chateaubriand, citando l’imperatore romano che si era ritirato in una cittadina croata.
tesse scoppiare una rivolta da un momento all’altro, e che se lui si fosse presentato come salvatore della patria sarebbe stato accolto a braccia aperte. Ma sulle decisioni di Napoleone influivano anche delle considerazioni di carattere personale. Una riguardava la sospensione del pagamento della pensione annua di due milioni di franchi che il governo francese si era impegnato a versargli. L’ufficiale britannico Neil Campbell, incaricato di sorvegliare Bonaparte a Portoferraio, scriveva al suo governo: «Se le difficoltà economiche che lo affliggono dovessero continuare […] credo potrebbe attraversare il canale di Piombino
UN PICCOLO ESERCITO
L’esercito del principato d’Elba (sopra) era formato da 800 soldati – in gran parte provenienti dalla guardia imperiale – che nel marzo del 1815 accompagnarono il rientro di Napoleone in Francia.
Napoleone poteva contare su spie che lo informavano del crescente malcontento verso il governo di Luigi XVIII
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NAPOLEONE SI IMBARCA PER LA FRANCIA. IN QUEST’OLIO DEL 1826 JOSEPH BEAUME RICOSTRUISCE CON GRANDE FEDELTÀ STORICA LA PARTENZA DI BONAPARTE DALL’ISOLA D’ELBA, AVVENUTA IL 26 FEBBRAIO DEL 1815. MUSÉE NAVAL ET NAPOLÉONIEN, ANTIBES. GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS
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La partenza da Portoferraio Fleury de Chaboulon, segretario di Bonaparte, rievoca nelle sue memorie il giorno della partenza di Napoleone dall’isola d’Elba: «Tutta la popolazione, una moltitudine di donne, bambini e anziani, si diresse verso la costa. Ci furono delle scene molto toccanti. La gente si strinse attorno ai fedeli compagni dell’esilio di Napoleone, contendendosi l’onore di toccarli e vederli per un’ultima volta […] Alle otto di sera un colpo di cannone annunciò la partenza. Fu il momento degli abbracci […] Napoleone, salendo sull’imbarcazione, citò le parole di Cesare: “Il dado è tratto!”. Il suo volto era calmo, la fronte serena. Non si chiedeva se la sua impresa avrebbe avuto successo, ma solo quanto rapidamente l’avrebbe portata a termine».
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L’ENTUSIASMO DI GRENOBLE
La calorosa accoglienza ricevuta il 7 marzo del 1815 a Grenoble convinse Napoleone che il successo era a portata di mano. «Prima di Grenoble ero un avventuriero; lì divenni un principe», dichiarò. Incisione del 1830.
IL MARESCIALLO SLEALE
Michel Ney, ex maresciallo dell’impero inviato da Luigi XVIII ad arrestare Napoleone, finì invece per unirsi a lui. Sotto, nel 1805. Palazzo di Versailles. RMN-GRAND PALAIS
con le sue truppe o compiere qualche altra azione imprevedibile. Ma se gli viene garantita la sua pensione, potrebbe anche decidere di trascorrere in pace il resto dei suoi giorni». Ancora più preoccupanti erano le notizie che arrivavano dal congresso di Vienna. Molti ritenevano che l’Elba fosse troppo vicina e che l’imperatore potesse tentare la fuga in qualsiasi momento. Per questo proponevano di esiliarlo in una località ancor più remota, come le Azzorre o Sant’Elena, che fu menzionata per la prima volta come possibile zona di confino. Alcuni monarchici particolarmente reazionari proponevano di assassinarlo. A metà febbraio del 1815 Napoleone giunse alla conclusione che doveva giocare d’anticipo. Era all’Elba ormai da nove mesi, apparentemente preoccupato solo dai lavori da fare sull’isola, che fossero canali, strade o ponti. Prima
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di passare all’azione si consultò con la madre. Letizia comprese perfettamente che il figlio non poteva terminare i suoi giorni «in un riposo indegno di lui». Da quel momento gli avvenimenti subirono un’accelerazione. Domenica 26 l’imperatore si imbarcò sull’Inconstant; il 28 poteva già scorgere Antibes all’orizzonte, e il primo marzo approdò a Golfe-Juan, con il suo piccolo esercito di un migliaio di uomini.
Rientro trionfale Subito dopo lo sbarco fu distribuito un proclama della guardia imperiale: «Soldati, compagni, abbiamo protetto il vostro imperatore […] Abbiamo attraversato i mari per riportarvelo, tra mille pericoli. Siamo approdati sul sacro suolo patrio con le insegne nazionali e l’aquila imperiale […] In pochi mesi di governo i Borbone hanno già dimostrato di non aver dimenticato nulla né imparato nulla […] Soldati del grande Napoleone, rimarrete forse al servizio di un sovrano che per vent’anni è stato nemico della Francia?».
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TUTTO PER IL POPOLO
Una volta sul continente Bonaparte e i suoi uomini iniziarono la marcia verso Parigi. Il 5 marzo furono accolti a Gap da una folla esultante. Quello stesso giorno Luigi XVIII venne informato del ritorno del generale còrso. Il sovrano cercò di mantenere la calma, imitato dai membri del governo. Tutti erano convinti che i vertici militari sarebbero rimasti fedeli alla monarchia. Il maresciallo Ney, che era stato uno dei generali più vicini a Napoleone, promise al re di consegnargli l’usurpatore «in una gabbia di ferro». Intanto la marcia di Bonaparte verso la capitale, ribattezzata il «volo dell’aquila», proseguiva senza incontrare ostacoli. A Lione tutte le istituzioni civili e militari gli giurarono fedeltà. Quando Ney lo vide a Auxerre, a 150 chilometri dalla capitale, si scordò istantaneamente della promessa fatta al re e si gettò tra le sue braccia. Il 20 marzo, alle nove di sera, Napoleone entrò nel palazzo delle Tuileries, che Luigi XVIII aveva precipitosamente abbandonato la notte prima per rifugiarsi a Gand.
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ladino delle conquiste della rivoluzione del 1789. «Il mio rientro dissipa tutte le vostre preoccupazioni; garantisce la conservazione di tutte le proprietà, l’uguaglianza tra tutte le classi e i diritti di cui già godete da 25 anni», si legge nella dichiarazione di Gap, riprodotta nell’immagine qui sopra.
Il ristabilimento del potere imperiale non richiese più di due settimane. La maggior parte delle istituzioni appoggiò l’imperatore e l’epurazione si limitò a pochi traditori comprovati. Napoleone si affrettò a formare un governo con i suoi vecchi collaboratori. La Francia era di nuovo sua. Ma, secondo le testimonianze di vari osservatori, Napoleone non era più lo stesso. L’abdicazione dell’anno precedente – con la sua sfilza di tradimenti e manifestazioni di avversione popolare – aveva lasciato il segno. L’imperatore non si fidava più delle apparenze. «Il suo prodigioso ritorno, uno degli avvenimenti più straordinari della sua
«Abbiamo attraversato i mari per riportarvi il vostro imperatore»
LA CAUSA DELLA NAZIONE
Nella dichiarazione firmata a Gap il 6 marzo del 1815 Napoleone metteva in evidenza le basi popolari del suo potere: «La causa della Nazione tornerà a trionfare!».
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AL SUO RITORNO IN FRANCIA Napoleone si reinventò come pa-
SHAKO DEI VOLTEGGIATORI DELLA GUARDIA IMPERIALE.
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Disprezzato, temuto, acclamato In un libro pubblicato nel 1840 Alexandre Dumas ricostruisce l’evolversi dell’opinione pubblica a mano a mano che Napoleone si avvicina alla capitale. Dumas cita dei presunti estratti del Moniteur universel, il giornale ufficiale del regime. • L’antropofago ha lasciato la sua tana. • L’orco còrso è appena sbarcato a Golfe-Juan. • La tigre è arrivata a Gap. • Il mostro ha dormito a Grenoble. • Il tiranno ha attraversato Lione. • L’usurpatore è stato avvistato a sessanta leghe dalla capitale.
Parigi 20-III
Sens 19-III Auxerre 17-III
• Bonaparte avanza rapidamente, ma non entrerà mai a Parigi. • Napoleone raggiungerà domani i nostri baluardi.
Autun 15-III
RMN-GRAND PALAIS. MAPPA: BRIDGEMAN / ACI
• L’imperatore è arrivato a Fontainebleau. • Sua Maestà ha fatto ieri il suo ingresso alle Tuileries tra due ali di sudditi fedeli…
Lione 10-III
Grenoble 7-III
AQUILA IMPERIALE. MUSÉE DE LA MAISON BONAPARTE, AJACCIO.
Gap 5-III
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CRONACA DI UN’OVAZIONE PARIGINA
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apoleone arrivò a Parigi il 20 marzo «circondato da una tale folla di generali e ufficiali che era impossibile scorgere la carrozza su cui viaggiava», riferì John Hobhouse. Il giovane politico britannico descrisse così l’ingresso dell’imperatore nella capitale, di cui fu testimone diretto: «Napoleone è entrato dalle porte delle Tuileries, di fronte a Pont Royal, ed è sceso a palazzo alle undici in punto; un gran numero di ufficiali gli si è stretto intorno; qualche attimo dopo lo hanno sollevato da terra, facendogli cadere il cappello. La folla lo ha portato a spalla fino ai suoi alloggi, dove alcune dame della sua vecchia corte gli hanno reso omaggio. La più bella di tutte, in preda all’emozione, gli ha passato le braccia attorno al collo ed è scoppiata in lacrime».
NAPOLEONE PORTATO A SPALLA NEL PALAZZO DELLE TUILERIES IL 20 MARZO 1815.
despota. Dichiarò di essere tornato dall’esilio con un’altra mentalità: «Ho passato un anno sull’isola d’Elba, dove ho potuto ascoltare la voce della posterità, come se già fossi in un sepolcro. So cosa va evitato e di cosa c’è bisogno».
Cattivi presentimenti L’imperatore incaricò un suo vecchio avversario, il filosofo liberale Benjamin Constant, di elaborare un Atto addizionale alle Costituzioni dell’impero, che si ispirava alla Carta emanata da Luigi XVIII ma con maggiori libertà individuali. Questa nuova legge fondamentale dello stato non metteva però in discussione il potere quasi assoluto di Napoleone, un fatto che deluse buona parte dell’opinione pubbli-
LO ZAR CONTRO L’IMPERATORE
Dopo una breve alleanza, Alessandro I divenne acerrimo nemico di Napoleone. Sotto, lo zar in un ritratto anonimo. Musée du Louvre, Parigi.
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vita, non lo illudeva né gli dava speranza», scrisse il diplomatico e storico Prosper de Barante. Quando ricevette le congratulazioni del suo ex ministro del tesoro, Mollien, Bonaparte rispose alludendo all’opportunismo del Paese: «Il tempo dei complimenti è finito; mi hanno lasciato tornare così come hanno lasciato gli altri partire». Il ministro degli interni Carnot manifestava tutto il suo stupore: «Non lo riconosco; è come se quel coraggioso rientro dall’isola d’Elba abbia prosciugato le sue energie; dubita, è indeciso; invece di agire si perde in chiacchiere; chiede consigli a chiunque». In realtà Napoleone aveva i suoi motivi per essere sfiduciato. All’interno del suo stesso governo c’erano figure che tramavano contro di lui, come il capo della polizia Joseph Fouché, che lo aveva già tradito anni prima. Bonaparte fece comunque il possibile per consolidare il suo potere. Cercò di imprimere una svolta più liberale al suo regime, per dissipare i timori di chi lo accusava di essersi in precedenza comportato come un
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LA SCONFITTA FINALE
Andrieux Clément Auguste ricostruì in questo quadro del 1852 la battaglia di Waterloo, che aprì le porte della Francia ai nemici di Napoleone. Palazzo di Versailles.
ca. La nuova costituzione fu approvata con 1.532.000 voti favorevoli e appena 4.800 contrari, ma con l’astensione di oltre cinque milioni di cittadini. Il primo giugno Napoleone proclamò solennemente i risultati del plebiscito durante una grandiosa cerimonia militare, il cosiddetto “Campo di maggio”, ma la partecipazione della borghesia e dei vertici militari fu scarsa e poco entusiastica. Sul piano internazionale, la maggiore preoccupazione dell’imperatore era garantire alle varie potenze europee che non avrebbe ripreso le guerre di conquista. Al suo ritorno alle Tuileries il generale còrso moltiplicò i messaggi rassicuranti, ma non tutti erano disposti a concedergli fiducia: «Per prima cosa Bonaparte […] ha cercato di spacciarsi per un essere innocente, un agnellino senza rancore e senza macchia, amico dell’universo e desideroso di vivere in pace nel suo piccolo regno», ironizzava il barone di Frénilly. È difficile sapere se il
UNA RITIRATA PRECIPITOSA
Dopo la battaglia di Waterloo, Napoleone rientrò rapidamente a Parigi. Nella foga lasciò nel suo accampamento la pistola con i simboli imperiali (visibile qui sotto), che fu ritrovata dai nemici. Musée de l’Armée, Parigi. RMN-GRAND PALAIS
pacifismo di Napoleone fosse autentico. Sicuramente l’imperatore era consapevole del fatto che i rapporti di forza gli erano sfavorevoli. Ma non si può escludere che fosse sincero quando scriveva ai suoi “fratelli” imperatori e re: «Dopo aver offerto al mondo uno spettacolo di grandiose battaglie, è il momento di riconoscere i vantaggi della pace». In ogni caso la sua offerta si scontrò con un rifiuto categorico. Il 13 marzo i rappresentanti di Regno Unito, Russia, Austria, Prussia, Svezia, Spagna e Portogallo, riuniti al congresso di Vienna, dichiararono che Napoleone, in quanto «nemico e perturbatore della pace pubblica» si era «esposto alla pubblica punizione». Anche se si trattava di una dichiarazione di guerra in piena regola, nella pratica il fronte antinapoleonico non era compatto. Lo zar, che aveva pagato care le guerre contro i francesi, non voleva essere
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FUGA E CATTURA GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS
IN SEGUITO ALLA SCONFITTA di Waterloo, la Francia si ritrovò
coinvolto in un nuovo conflitto. A Vienna il cancelliere Metternich dovette fare pressioni sull’imperatore Francesco I, che era pur sempre suocero di Bonaparte. Il governo inglese voleva chiudere la questione al più presto, ma esitava a rispettare i suoi impegni in merito al numero di militari da inviare. Ciononostante, la settima coalizione poté concentrare in territorio belga circa 223mila soldati.
Nemico della pace A Napoleone non restava che riorganizzare rapidamente il suo esercito. In qualche settimana di intenso lavoro riuscì a reclutare 120mila soldati, di cui 20mila cavalieri, e a mettere insieme 366 pezzi di artiglieria. Nelle sue truppe c’erano molti veterani e ufficiali di grande esperienza, ma anche giovani privi di un’adeguata preparazione. Il 15 giugno, mentre austriaci, tedeschi, russi e spagnoli si avvicinavano ai confini francesi, Bonaparte penetrò in territorio belga con la sua Armata del nord. Il suo piano – che prevedeva di cogliere di sorpresa le
nuovamente occupata. Incalzato dal parlamento e dal governo provvisorio di Joseph Fouché, Napoleone abdicò e iniziò una fuga, che si concluse il 15 luglio con la sua consegna agli inglesi. Una settimana prima Luigi XVIII era ufficialmente tornato sul trono francese.
truppe prussiane e britanniche, guidate rispettivamente da Blücher e Wellington – fu inizialmente un successo. Il 16 giugno a Ligny Napoleone vinse la sua ultima battaglia, proprio contro l’esercito prussiano. Due giorni dopo a Waterloo ci fu lo scontro decisivo. Il combattimento rimase a lungo incerto e in alcuni momenti sembrò sul punto di risolversi a favore dei francesi. Ma alla fine prevalse l’armata della coalizione. Quella seconda sconfitta rappresentò la fine indiscutibile di Napoleone. Un mese più tardi il grande conquistatore dell’Europa si consegnò agli inglesi. Fu deportato nella remota isola di Sant’Elena, nell’Atlantico meridionale, da cui non avrebbe più fatto ritorno.
RIPENSANDO ALLA SCONFITTA
Un Napoleone pensieroso si riposa presso una famiglia contadina durante il rientro da Waterloo. Olio di Marcus Stone.
JEAN-JOËL BRÉGEON STORICO
Per saperne di più
SAGGI
Napoleone il Grande Andrew Roberts. UTET, Torino, 2015. Cento giorni da imperatore Sergio Valzania. Mondadori, Milano, 2015.
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IL TEMUTO RITORNO DELL’ORCO Nel 1815 apparvero sulla stampa varie caricature che testimoniano l’impatto del ritorno di Napoleone sull’opinione pubblica. Alcune vignette criticavano l’opportunismo dei politici, pronti a cambiare bandiera a ogni nuovo regime. Altre, di tendenza borbonica, rappresentavano l’imperatore come un mostro che minacciava la pace e il benessere della Francia e del resto dell’Europa.
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2 Banderuola Pronto a cambiare opinione, questo personaggio indossa un cappello con una coccarda bianca della monarchia e una tricolore di Napoleone. Da una parte grida «Viva il re!» e dall’altra «Viva l’imperatore!».
3 Finto conciliatore
Napoleone si presenta con promesse di pace, ma porta con sé solo stampelle e gambe di legno per le vittime di guerra. Lo accompagnano la morte e la miseria. Il popolo lo respinge: «Questa volta non riuscirai a blandirci!».
1 In agguato all’Elba L’illustrazione mostra Napoleone che, dall’esilio, sorveglia lo zar, l’imperatore austriaco e il re di Prussia (da sinistra a destra). Riuniti al congresso di Vienna, i tre dignitari si spartiscono il controllo del continente europeo.
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4 Lo sbarco L’imperatore raggiunge il continente su una barca trainata da oche. Brandendo una torcia proclama: «Vi porto la mia luce». Ma le uniche cose che ha da offrire sono la guerra e la caduta dei sovrani legittimi.
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imper atr ice a nticonfor mista
SINISTRA: AKG / ALBUM. DESTRA: SYLVAIN GRANDADAM / AGE FOTOSTOCK
Trasformata dal cinema nel simbolo della Vienna imperiale, in realtà Sissi non si adattò mai alla vita di corte. Viaggiatrice instancabile, fu una lucida osservatrice della sua epoca e andò incontro a una tragica fine
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SISSI, IMPERATRICE D’AUSTRIA
Questa celebre opera di Franz Winterhalter ritrae Sissi all’età di 27 anni, con la chioma tempestata di stelle di brillanti. A sinistra, utensili per la scrittura dell’imperatrice.
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SISSI A POSSENHOFEN
Quest’olio di Karl Theodor von Piloty raffigura una Sissi non ancora sedicenne a cavallo, davanti al castello familiare di Possenhofen, in Baviera. IL PALAZZO IMPERIALE
A destra, entrata della Hofburg, la residenza ufficiale viennese degli imperatori austriaci, che Sissi detestava.
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metà degli anni cinquanta il cinema ha trasformato l’imperatrice Elisabetta d’Austria nel simbolo di una Vienna che vibrava a ritmo di valzer. In realtà, Sissi fu una persona molto controversa, e venne accusata dai settori più conservatori delle corti europee di essere irresponsabile e stravagante. Il grande schermo non ha fatto cenno ad alcuni tratti dell’imperatrice messi in risalto, invece, da rigorose biografie successive: la tendenza all’anoressia e alla vigoressia, il carattere tormentato, l’amore per la cultura classica e l’attività poetica. Elisabetta era uno spirito delicato e lucido, che ben prima del suo entourage comprese
di trovarsi di fronte alla fine di un’epoca. Ma era anche una donna profondamente infelice, condannata a vivere una vita che non voleva e obbligata a sopportare continue tragedie, che culminarono con la morte del figlio – il principe ereditario Rodolfo –, avvenuta nel casino di caccia di Mayerling. Soprannominata Sissi, Elisabetta era la quarta di dieci figli di Massimiliano Giuseppe duca in Baviera e della principessa Ludovica, figlia del re Massimiliano I di Baviera. Nata a Monaco il 24 dicembre del 1837, crebbe a Possenhofen, sulle rive del lago di Starnberg, a stretto contatto con la natura e in un ambiente libero e disinibito, che condizionò il suo carattere così come quello dei fratelli. La sorel-
1837 UNA VITA COSTELLATA DI AFFLIZIONI
ELISABETTA, figlia del
duca Massimiliano e della principessa Ludovica, nasce a Monaco di Baviera. Cresce nel castello di Possenhofen, in un ambiente campestre.
1854 DOPO UN ANNO di
fidanzamento sposa il cugino, l’imperatore Francesco Giuseppe, nella chiesa di sant’Agostino a Vienna e diventa imperatrice.
SANDRA RACCANELLO / FOTOTECA 9X12
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1889 IL FIGLIO di Sissi ed erede al trono Rodolfo muore a Mayerling. L’imperatrice, che già non sopporta la corte viennese, intensifica la frequenza dei suoi viaggi.
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1898 MENTRE passeggia sulle sponde
del lago Lemano, a Ginevra, Sissi viene uccisa da un anarchico con una pugnalata al cuore. L’imperatrice sarà sepolta a Vienna nella cripta dei Cappuccini.
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L’amore platonico con un cavallerizzo
IL CAPITANO MIDDLETON IN UN’ILLUSTRAZIONE CHE ACCOMPAGNAVA LA NOTIZIA DELLA SUA MORTE.
la Elena – elegante, discreta, molto religiosa ed estremamente disciplinata – sembrava la candidata idonea al trono imperiale. Almeno questo pensavano sua madre e sua zia Sofia, genitrice dell’imperatore Francesco Giuseppe. Ecco perché nel 1853 le due sorelle decisero di far incontrare i rispettivi figli a Bad Ischl, residenza estiva degli Asburgo-Lorena, per organizzare il fidanzamento. Inizialmente Elena sarebbe dovuta andare a Ischl da sola con la madre, ma all’ultimo momento si decise che le avrebbe accompagnate anche Elisabetta.
VENTAGLIO DELL’IMPERATRICE ELISABETTA DECORATO CON UNA SCENA DI FESTA CAMPESTRE. BRIDGEMAN / ACI
BRIDGEMAN / ACI
UNA GIOVANE COPPIA
Il dipinto sulla destra ritrae Francesco Giuseppe ed Elisabetta a Schönbrunn, all’epoca del fidanzamento. 1853. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Uscita con il cuore spezzato da uno sfortunato amore di gioventù, Sissi stava attraversando una delle prime crisi depressive che l’avrebbero accompagnata nel corso degli anni, e la famiglia pensò che quel viaggio potesse aiutarla a riprendersi. Nessuno si aspettava ciò che avvenne in seguito. Quando Francesco Giuseppe vide la cugina Elisabetta, che ricordava ancora bambina, e si rese conto che ormai era una giovane donna attraente, slanciata, con il volto delicatamente ovale, i tratti regolari e una splendida chioma castana, capì all’istante che sarebbe diventata sua moglie. L’imperatore aveva appena compiuto ventitré anni ed era un uomo adulto che sapeva quello che voleva. Sissi invece era un’adolescente, lusingata dalle attenzioni del cugino ma abbastanza intelligente da cogliere le differenze di interessi e di temperamento che li separavano. Però sapeva anche che Francesco Giuseppe non avrebbe accettato un rifiuto. La verità è che non era l’unica a pensare che quel matrimonio non sarebbe stato conforme ai canoni della corte imperiale. A cominciare dall’arciduchessa Sofia, tutti cercarono di convincere l’imperatore a desistere dal suo proposito. Era evidente che quella giovane donna non aveva la stoffa
AKG / ALBUM. MONTAGGIO DIGITALE
IN VARIE OCCASIONI si rumoreggiò di una storia tra Sissi e il conte ungherese Andrássy, che secondo alcuni era il padre di Maria Valeria – un fatto chiaramente smentito dalla genetica, vista la somiglianza dell’arciduchessa con l’imperatore. Altre voci attribuirono a Elisabetta una relazione con il cavallerizzo britannico William George “Bay” Middleton. Attorno al 1875, durante uno dei suo numerosi soggiorni nelle isole britanniche, Sissi conobbe Middleton, con cui condivideva la passione per i cavalli. Il carattere di Elisabetta e la sua sottile avversione per il sesso, chiaramente esplicitata in alcune poesie, non permettono di azzardare che il loro rapporto andasse oltre la semplice amicizia. Ma per evitare possibili scandali, Sissi decise di troncare ogni contatto con il nobiluomo inglese, che morì nel 1892 durante una competizione ippica.
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La fine di un sogno Il giorno in cui fu annunciato il fidanzamento tra Francesco Giuseppe ed Elisabetta di Baviera, la madre di quest’ultima, Ludovica, dichiarò: «La notizia mi dà una gioia immensa, ma allo stesso tempo mi turba il fatto che mia figlia, così giovane e inesperta, si trovi di fronte a una simile responsabilità!». Poco dopo il matrimonio Sissi confessava in una poesia tutta la delusione di trovarsi improvvisamente rinchiusa nel palazzo imperiale di Vienna: «Mai avessi lasciato la strada che mi avrebbe condotta alla libertà! Mai mi fossi perduta imboccando la via della vanagloria. Mi sono destata in un carcere con le braccia avvinte da penose catene. Più mi struggo nel desiderio di te, più tu, libertà, mi abbandoni. Mi sono risvegliata da un’ebbrezza che aveva imprigionato la mia anima, e maledico invano quel momento in cui ti ho perso, libertà».
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SISSI E LE SUE DAME
La fotografia ritrae Sissi di schiena, circondata dalle dame del suo seguito. Fu scattata nel 1861, durante un viaggio a Madeira. CASTELLO DI SCHÖNBRUNN
La residenza estiva della famiglia imperiale era composta da 40 stanze. Nell’immagine, la Grande galleria, decorata con affreschi.
dell’imperatrice. Non aveva mai accettato il rigido protocollo di corte, non sapeva muoversi negli ambienti sociali, e i suoi sedici anni non lasciavano sperare che fosse capace di assumersi le responsabilità richieste dalla corona. Fu tutto inutile. L’imperatore scrisse al cugino Alberto d’Asburgo-Teschen di essere «perdutamente innamorato»; il solenne matrimonio si celebrò il 24 aprile 1854 nella chiesa di sant’Agostino, a Vienna. Una volta che i coniugi si furono stabiliti presso la residenza della Hofburg, Elisabetta si rese conto che i suoi timori non erano infondati. La famiglia imperiale non aveva nulla a che vedere
STIVALETTI DELL’IMPERATRICE ELISABETTA D’AUSTRIA. 1880. GETTY IMAGES
con l’ambiente in cui era cresciuta. L’etichetta di corte rendeva impossibile qualsiasi gesto di spontaneità o di intimità. La giovane imperatrice si sentiva completamente sola in un ambiente cui non era legata né dal punto vista affettivo né da quello intellettuale. Le sue dame di compagnia, scelte all’interno dell’alta nobiltà, erano di età avanzata e terribilmente conservatrici. Inoltre l’arciduchessa Sofia criticava senza sosta le abitudini della nuora, il suo modo di vestire, il suo comportamento e le sue inclinazioni. Certo, Francesco Giuseppe era innamorato di Sissi come il primo giorno, ma era troppo occupato per poterle dedicare del tempo, e in quei primi anni di matrimonio la sua autoritaria madre divenne un vero e proprio incubo per la moglie. Era tale l’influenza dell’arciduchessa che quando, a un anno dalle nozze, Elisabetta partorì la primogenita Sofia, la suocera si occupò personalmente della bambina, ritenendo che l’imperatrice fosse incapace di prendersene cura. La storia si ripeté nel 1856, quando nacque la secondogenita Gisella, ma in questo caso Elisabetta riuscì a imporsi: poco dopo il parto ottenne che entrambe le figlie fossero trasferite nei suoi appartamenti alla Hofburg. Fu però solo una vittoria effimera. Nella pri-
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Un difensore inatteso: il kaiser Guglielmo II
IL KAISER GUGLIELMO II. LITOGRAFIA A COLORI. BIBLIOTHÈQUE DES ARTS DÉCORATIFS, PARIGI.
mavera del 1857 si scontrò nuovamente con la suocera, che non voleva che le bambine accompagnassero i genitori in un viaggio in Ungheria. Sissi difese le sue ragioni con insolita fermezza, ma non aveva fatto i conti con l’insalubrità di alcune regioni ungheresi. Le conseguenze furono tragiche: la piccola Sofia contrasse una terribile dissenteria che la portò alla morte il 29 maggio 1857. Elisabetta era schiacciata dai sensi di colpa e si sentiva una madre irresponsabile. Lasciò che la suo-
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IL RIFUGIO GRECO
Sissi fece costruire a Corfù l’Achilleion, un magnifico palazzo decorato con scene dell’Iliade e immagini dell’eroe Achille, dove trascorse lunghi periodi.
cera tornasse a occuparsi dell’educazione di Gisella e cadde in una profonda depressione, che non superò neppure alla nascita del figlio Rodolfo, il 21 agosto 1858. Su consiglio dei medici viaggiò a Madeira, dove apparentemente si riprese. Qualche mese dopo tornò a Vienna, ma lo scontro con la realtà fu terribile. Il ritmo della vita di corte, le formalità dell’etichetta e l’incomprensione di cui era oggetto da parte dell’ambiente circostante le risultarono insostenibili, e la sua prostrazione arrivò al punto da far temere seriamente per la sua vita. Le venne nuovamente prescritto di lasciare il Paese, e questa volta scelse Corfù, dove iniziò il suo idillio con la cultura classica greca e sviluppò il suo amore per il Mediterraneo. Ristabilitasi perfettamente, rientrò nella capitale austriaca nell’agosto del 1862. Cominciò allora una nuova tappa della sua vita. Elisabetta era maturata e si trovava all’apice della sua bellezza, che assunse toni leggendari. Raggiunse con Francesco Giuseppe un accordo secondo cui non sarebbe sottostata alla disciplina di corte, se non quando strettamente necessario. Avrebbe svolto le SCATOLA DI LEGNO CON UNA MAPPA IN RILIEVO DEL VIAGGIO DELL’IMPERATRICE SISSI DA VIENNA A CORFÙ. 1860. SCALA, FIRENZE
REINHARD SCHMID / FOTOTECA 9X12
NON TUTTE LE TESTE coronate europee deploravano il carattere mutevole di Sissi e il suo scarso attaccamento alle responsabilità di corte. Il kaiser Guglielmo II scrisse di lei: «Non ho mai avuto particolari rapporti con l’imperatrice, ma so da mio nonno e da mia madre, che la conoscevano bene, che la gente ne aveva un’opinione sbagliata. Entrambi la consideravano una donna dotata di grande dignità, profondità intellettuale e sensibilità, e si rammaricavano che i suoi connazionali non l’avessero capita. Mia madre era dell’opinione che l’imperatrice avesse vissuto in gioventù un’amara disillusione nei confronti della società austriaca […] Mio nonno ripeteva spesso quanto ne ammirasse la capacità di comprensione e l’acuto giudizio, che le valsero tutto il suo rispetto».
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Culto della bellezza, dentro e fuori SISSI aveva un grande amore per lo studio, che la spinse a imparare il greco moderno e l’ungherese e a tradurre Shakespeare in tedesco e in greco. Ma aveva un’ossessione fuori dal comune anche per il suo aspetto fisico, forse dovuta all’ansia di dover comparire in pubblico o a una consapevole strategia. La sua parrucchiera Fanny Angerer dedicava due o tre ore al giorno a pettinarle i lunghi capelli castani, che lavava con una miscela di uova e cognac. Del suo guardaroba si occupava un celebre stilista dell’epoca, l’inglese Charles Frederick Worth. Per mantenersi snella, Sissi si fece costruire una palestra in tutte le residenze in cui abitò, e seguiva un dieta rigorosa e salutare, come indica la sua passione per i succhi di frutta. Aveva un unico difetto, i denti rovinati, che cercava di nascondere coprendosi la bocca quando parlava. ERICH LESSING / ALBUM
sue mansioni di imperatrice, ma si sarebbe ritagliata uno spazio dove coltivare la propria individualità. Ciò non significava che volesse restare al margine delle questioni di stato. Sebbene parte integrante dell’impero, in quel periodo l’Ungheria lottava per riconquistare i privilegi ancestrali e le prerogative costituzionali soppressi da Vienna in risposta alla rivolta nazionalista e liberale del 1848. Elisabetta nutriva simpatia per gli aristocratici ungheresi ribelli, che continuavano a lottare e non permettevano alle menti conservatrici dell’impero di adagiarsi sugli allori. Il desiderio di conoscere a fondo quel Paese e la sua cultura la spinsero ad avvalersi dei servizi di Ida von Ferenczy, una giovane ungherese che divenne “lettrice dell’imperatrice” e sua migliore amica. Grazie a lei Elisabetta conobbe il bel Gyula Andrássy, un colonnello dell’esercito magiaro di idee profondamente liberali, con cui entrò subito in sintonia. Tra i due MEDAGLIA DELL’ORDINE DI ELISABETTA, CREATO DALL’IMPERATORE NEL 1898 IN ONORE DELLA MOGLIE.
CHIOMA IMPERIALE
In questo ritratto di Franz Winterhalter si può apprezzare la lunghissima chioma di Sissi. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
nacque una profonda amicizia, che trasformò l’imperatrice in una paladina della causa ungherese, rendendola così ancor più invisa alla corte viennese. Ciononostante, se l’Ungheria non si separò dall’impero fu proprio grazie a Sissi. Dopo la sconfitta di Sadowa, quando gli eserciti prussiani marciavano verso Vienna, Elisabetta decise di rifugiarsi con i figli nella capitale ungherese. La fiducia dimostrata dall’imperatrice verso i magiari in quella fase molto delicata fece desistere i ribelli da ogni tentazione insurrezionalista. Poco dopo Andrássy e l’imperatore negoziarono i presupposti che consentirono al territorio ungherese di riconquistare la sua condizione di stato costituzionale e sancirono la nascita dell’impero austro-ungarico, formato da due Paesi sovrani con regimi e governi diversi, ma uniti sotto un’unica corona. L’8 giugno del 1867 Francesco Giuseppe ed Elisabetta furono solennemente incoronati re costituzionali di Ungheria nella chiesa di Mattia a Buda (che pochi anni dopo sarebbe diventata Budapest). In segno di rico-
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LE MANIE DI SISSI Nei suoi numerosi viaggi l’imperatrice Elisabetta portava sempre con sé una grande valigetta di medicinali, alcuni utensili da cucina per farsi da mangiare, degli attrezzi per la ginnastica e un taccuino su cui annotava le sue riflessioni o scriveva poesie, alcune delle quali satiriche.
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Dieta proteica Nella dieta dell’imperatrice aveva un ruolo centrale il succo della carne, che veniva estratto tramite questa pressa.
Cocaina e siringa Nella trousse non mancava mai la cocaina, che Sissi usava come sedativo e antidepressivo. 5.
Allenamento a palazzo 2.
Orologio e amuleti
L’imperatrice usava questa spalliera per fare i suoi esercizi quotidiani di ginnastica alla Hofburg.
Il peso ideale
Insieme all’orologio da taschino Sissi aveva sempre con sé alcuni amuleti, tra i quali una mano per difendersi dal malocchio.
Sissi era ossessionata dal suo peso, che non superò mai i 50 chili. Bilancia dell’imperatrice.
Scrittrice Nel diario Sissi scriveva poesie contro i membri della sua famiglia, come suo zio, l’arciduca Guglielmo. 6.
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FRANCESCO GIUSEPPE E SISSI SONO INCORONATI RE DI UNGHERIA. LITOGRAFIA A COLORI. 1867.
noscenza gli ungheresi donarono ai coniugi il castello barocco di Gödollo, situato nelle vicinanze della capitale. Lì, un anno dopo, nacque la loro ultimogenita, l’adorata arciduchessa Maria Valeria. Da allora Elisabetta trascorse lunghi periodi a Gödollo con i figli, dividendo le sue giornate tra battute di caccia, lunghe passeggiate a cavallo e interminabili ore di lettura. In seguito, quando Gisella si sposò e Rodolfo iniziò la sua formazione militare, Sissi riprese a viaggiare in compagnia di Maria Valeria, ormai grande a sufficienza da seguirla. Dal 1874, usando il nome di contessa di Hohenembs per garantirsi un certo anonimato, visitò con la figlia varie località del Mediterraneo, le isole britanniche e buona parte dell’Europa centrale. La nascita di Maria Valeria aveva segnato l’inizio di una nuova tappa per la coppia imperiale. Nonostante le differenze di caratte-
re, tra Elisabetta e Francesco Giuseppe c’era un rapporto cordiale e amichevole che, malgrado non si potesse definire passionale, era basato su un affetto sincero e una profonda generosità. È vero che nel 1885 Katharina Schratt, attrice del Burgtheater, entrò nella vita dell’imperatore, ma lo fece con il consenso di Elisabetta, che la chiamava affettuosamente “l’amica”. Sissi amava davvero quell’attrice, aveva lunghe conversazioni con lei e Francesco Giuseppe e sapeva che quella donna dava a suo marito la vicinanza e il trasporto che lei non aveva mai potuto offrirgli. Maria Valeria si fidanzò nel 1888. Il prescelto fu l’arciduca Francesco Salvatore d’Asburgo-Lorena, un candidato che non convinceva troppo l’imperatore ma che aveva l’appoggio di Elisabetta, ferma sostenitrice del diritto dei figli a sposarsi per amore. In quel periodo l’imperatrice osservava impotente il progressivo deterioramento del matrimonio del principe ereditario Rodolfo con Stefania del Belgio. La giovane, che Sissi aveva sempre ritenuto arrivista e ambiziosa, aveva una posizione conservatrice e tradizionalista che la collocava agli antipodi del suo
RODOLFO, EREDE DEL TRONO IMPERIALE, E LA MOGLIE STEFANIA DEL BELGIO. AKG / ALBUM
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RICHARD TAYLOR / FOTOTE CA 9X12
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BUDAPEST, LA CAPITALE UNGHERESE
Vista panoramica del castello di Buda, in primo piano. Dietro è visibile la chiesa di Mattia, restaurata nel 1470 dal re Mattia Corvino, da cui prende il nome. Qui Francesco Giuseppe e Sissi furono incoronati sovrani di Ungheria.
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IL FERETRO DELL’IMPERATRICE VIENE TRASPORTATO DAL SUO HOTEL ALLA STAZIONE DI GINEVRA. AKG / ALBUM
L’imperatrice errante Tutto sembrava indicare che Rodolfo avesse sparato alla donna per poi suicidarsi. La versione ufficiale parlò di un disordine mentale dell’erede al trono, ma il sospetto del crimine di stato continuò ad aleggiare su quanto accaduto a Mayerling quel 30 gennaio del 1889. Dopo la morte del figlio, Elisabetta divenne l’ombra di sé stessa. Cominciò a fuggire da tutto ciò che avesse a che fare con la corte viennese, che accusava di aver provocato indirettamente il suicidio di Rodolfo. Perpetuamente vestita a lutto, iniziò a viaggiare con frenesia e senz’alcuna meta, sempre nascosta dietro un grande ventaglio, uno pseudonimo o un velo, che la illudevano di passare inosservata. Quando tornava a Vienna, l’imperatrice non voleva più alloggiare alla Hofburg, ma preferiva starsene da sola a Hermesvilla, un palazzo fatto costruire da Francesco Giuseppe nel Lainzer Tiergarten per offrire una resi-
denza più confortevole alla sua nobile famiglia. L’8 settembre del 1898, durante uno dei numerosi viaggi, Elisabetta soggiornò presso l’hotel Beau-Rivage di Ginevra. Due giorni più tardi, mentre si apprestava a raggiungere il battello che l’avrebbe portata a Montreux, si imbatté casualmente in un altro passeggero. Sentì un forte colpo al petto e svenne. Morì quel pomeriggio stesso. L’uomo che aveva incrociato era l’anarchico italiano Luigi Lucheni, che le aveva piantato una lima trasformata in pugnale molto vicino al cuore. Nessuno riuscì a convincere l’imperatore a lasciar riposare Elisabetta dove lei stessa aveva scelto, ovvero sulle rive del Mediterraneo, a Corfù o a Itaca. La sua condizione di imperatrice d’Austria-Ungheria richiedeva che fosse sepolta nella solenne cripta dei Cappuccini, in quella Vienna che non aveva mai amato e da cui non era stata mai compresa. MARÍA PILAR QUERALT DEL HIERRO STORICA, AUTRICE DI LA SOMBRA DE SISSI
Per saperne di più
SAGGI
La storia di Sissi, l’imperatrice della gente Elisabeth Burnat. Sonzogno, Milano, 1998. Sissi, l’imperatrice ribelle Alessandra Millo, Lino Monaco. Giunti, Firenze, 2007.
ORONOZ / ALBUM
colto, liberale e poco convenzionale marito. Elisabetta non nascondeva la sua preoccupazione, e i suoi oscuri presentimenti vennero confermati quando Rodolfo e l’amante Maria Vetsera furono trovati morti nel casino di caccia di Mayerling.
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L’ASSASSINIO DELL’IMPERATRICE
Nel 1898, mentre si dirigeva al battello che l’avrebbe portata da Ginevra a Montreux in compagnia della contessa Irma Sztáray, Sissi fu pugnalata a morte dall’anarchico parmigiano Luigi Lucheni. Incisione a colori.
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IMMAGINI DI UNA VITA
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Esistono numerose fotografie di Sissi giovane. Ciononostante a partire dall’età adulta Elisabetta non volle più mostrare pubblicamente il suo volto.
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1. E 2. AUSTRIAN ARCHIVES / SCALA, FIRENZE. 3. ALINARI / GETTY IMAGES
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A 16 anni
La foto fu scattata dal famoso fotografo tedesco Alois Locherer nel 1853, in Baviera, all’epoca del fidanzamento tra la principessa Elisabetta e il cugino Francesco Giuseppe. 2
A 30 anni
Sissi era una grande amante degli animali, e in particolare dei cani, con cui adorava farsi fotografare. In questa immagine del 1867 è in compagnia di Houseguard, il levriero irlandese che le stette accanto per molti anni e verso cui nutriva un affetto speciale. 3
50 anni
A partire dalla maturità Sissi non volle più farsi fotografare. Da quel momento in poi nelle foto appare spesso con il volto coperto da un velo o da un ventaglio, come in questo caso.
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GRANDI ENIGMI
Kraken, il calamaro gigante in agguato negli abissi Il favoloso mostro marino della mitologia scandinava potrebbe essere un tipo di calamaro di 14 metri di lunghezza
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quel periodo il mostro iniziò a essere chiamato “kraken”, un nome proveniente da un termine norvegese che indicava in origine un albero contorto. Nel 1752 il vescovo di Bergen, Erik Ludvigsen Pontoppidan, citava il kraken nella sua Storia naturale della Norvegia: «Una bestia di un miglio e mezzo di lunghezza, che se afferrasse la nave da guerra più grande del mondo sarebbe in grado di trascinarla sott’acqua». E aggiungeva: «Vive appostato sui fondali marini e sale in superficie solo quando è riscaldato dal fuoco dell’inferno». Queste descrizioni iperboliche non erano esclusivamente frutto dell’immaginazione. Pontoppidan,
per esempio, dichiarava di aver notato che le espulsioni dell’animale «intorbidiscono le acque». L’animale da lui osservato poteva quindi essere un calamaro, o più precisamente un calamaro gigante.
L’origine del mito La leggenda del kraken nasceva dai racconti dei marinai di ritorno da viaggi in acque sconosciute. Se in passato i navigatori scandinavi avevano limitato le proprie esplorazioni all’Atlantico settentrionale, in epoca moderna il campo di osservazione si ampliò a tutto il Pacifico. Tra gli uomini di mare era diffusa la storia del «diavolo rosso», un calamaro che af-
ferrava i naufraghi con i suoi tentacoli e li divorava; altri riferivano di creature marine insaziabili che potevano raggiungere i 12 o 13 metri di lunghezza. Non mancavano le testimonianze di ufficiali di marina che giuravano di aver visto animali simili, provocando sconcerto tra gli scienziati. Il celebre naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (noto in Italia come Linneo), padre della moderna tassonomia, inserì il kraken nel suo Systema Naturae (1735), ma la maggior parte dei ricercatori era restia ad accettare l’esistenza del terribile mostro venuto dai mari del nord. Un esempio di questa preclusione è l’ingiusto destino del naturalista francese Pierre Denys de Montfort. Nel 1801, nella sua Storia naturale, generale e particolare de’ molluschi, Monfort menzionò sia il «polpo colossale» sia il kraken, «il più grande animale del nostro globo». Lo studioso transalpino basava la sua ricostruzione sui miti nordici e i racconti dei maLA BALENA DEL DIAVOLO SECONDO UN DISEGNO DELLA HISTORIAE ANIMALIUM DI CONRAD GESSNER. XVI SECOLO.
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L
e saghe e le cronache nordiche del Medioevo parlano di una terrificante creatura marina grande come un’isola, che si muoveva nei mari tra Norvegia e Islanda. La saga di Oddr l’arciere, una leggenda islandese del XIII secolo, narra di un «enorme mostro marino», capace di inghiottire «uomini, navi e persino balene». Affermazioni simili si ritrovano anche in testi successivi, come la cronaca dello svedese Olao Magno, del XVI secolo, che riferisce di creature colossali, capaci di affondare da sole un’imbarcazione. Nel XVIII secolo queste storie erano ancora in circolazione, e proprio in
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ATTACCO di un polpo
colossale lungo le coste angolane. L’immagine, presente nell’opera di Denys de Montfort, divenne l’emblema del kraken.
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LA CACCIA dell’Alecton. Secondo il capitano Bouyer, «un movimento improvviso dell’animale spezzò l’arpione; la parte della coda cui era legata la corda si ruppe, e riuscimmo a portarne a bordo solo un frammento di 20 chili».
rinai suoi contemporanei, ricollegandoli alle descrizioni di una gigantesca creatura marina fatte da Plinio il Vecchio. Monfort inserì all’interno della sua opera il disegno di un polpo gigantesco che attacca un vascello, un evento che si riteneva fosse avvenuto
di fronte alle coste angolane. Quell’immagine, destinata a diventare l’emblema del kraken, provocò il rifiuto unanime della comunità scientifica e valse all’autore il discredito a vita. Ciononostante, le testimonianze relative all’esistenza del leggendario animale non si arrestarono. Il capitano e baleniere Frank Bullen dichiarò di aver av-
vistato «un gigantesco polpo che si batteva con un capodoglio». Stando alla sua descrizione, l’animale aveva gli occhi situati alla base dei tentacoli, il che corrobora l’ipotesi che potesse trattarsi di un grande cefalopode. Ma l’episodio che segnò una svolta nella storia del kraken avvenne nel 1861. Il piroscafo francese Alecton si imbatté in un calamaro di
Il calamaro gigante può raggiungere i 14 metri e ha come unico predatore naturale il capodoglio ERIK PONTOPPIDAN. AUTORE DELLA STORIA NATURALE DELLA NORVEGIA.
sei metri di lunghezza a nordest dell’isola di Tenerife, in acque atlantiche. Il capitano di fregata Frédéric Bouyer, al comando dell’imbarcazione, ricostruì lo scontro in un rapporto per l’Accademia francese delle scienze: l’animale «sembrava cercasse di evitare la nave», ma il capitano gli diede la caccia con arpioni e fucili. Ordinò anche di legargli una corda attorno al corpo e issarlo a bordo, ma alla fine la creatura riuscì a divincolarsi e si rituffò negli abissi. In ogni caso, Bouyer si ritrovò tra le mani un frammento dell’animale, che fece pervenire al prestigioso biologo Marie-Jean-Pierre Flourens.
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GLI OPERATORI trasportano un esemplare di calamaro gigante ritrovato a Luarca (Asturie), nel settembre del 2003. Le acque della zona sono uno degli habitat atlantici della specie.
Il calamaro gigante fece così il suo ingresso nel mondo della letteratura, grazie a opere come I lavoratori del mare di Victor Hugo, o Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne. Sempre attento alle novità provenienti dal mondo scientifico, Verne descrisse nella sua opera il ritrovamento dell’Alecton, citò i vari riferimenti mitologici e storici all’animale, e narrò l’attacco di una piovra gigante al sottomarino Nautilus. Dal canto loro, gli scienziati analizzarono le testimonianze dei marinai e i resti di calamari rivenuti in mare o sulle spiagge e arrivarono alla conclusione
che corrispondevano a una specie particolare di cefalopode, classificato come Architeuthis dux. Questa creatura è un mistero ancora oggi. Non si sa praticamente nulla del suo ciclo vitale e delle sue abitudini, né se si tratti di un unico tipo di calamaro o se, invece, dietro gli avvistamenti possano nascondersi specie diverse. Il cefalopode è stato filmato solo due volte, nel 2004 da una troupe scientifica giapponese e nel 2012 da un canale nordamericano. Le sue dimensioni si aggirano attorno ai 10 metri per i maschi e 14 per le femmine. L’occhio, il più gran-
de del regno animale, può raggiungere i 30 centimetri di diametro, la misura della borchia di un’auto.
Dimora cantabrica L’habitat del calamaro gigante è situato a profondità estreme, soprattutto dell’oceano Pacifico, ma sono stati individuati degli esemplari anche nell’Atlantico. Un caso famoso è quello della fossa di Avilés, a cinquemila metri di profondità di fronte alle coste asturiane. I pescatori locali sono sempre stati abituati a vedere queste creature in alto mare e non hanno mai dato molta importanza al dibattito sul-
la loro esistenza. Si tratta di una presenza così familiare nella zona che dal 1997 il calamaro gigante ha anche un museo in suo onore, a Luarca, un piccolo comune delle Asturie. Il kraken è quindi un animale reale, per quanto non così feroce come la creatura uscita dall’immaginazione nordica o dai bestiari rinascimentali. Per conoscerlo appieno dal punto di vista scientifico resta ancora molta strada da fare. —Xabier Armendáriz Per saperne di più Kraken Emiliano Pagani, Bruno Cannucciari. Tunué, Latina, 2017.
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GRANDI SCOPERTE
Hoxne, il più grande bottino della Britannia romana
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ric ritrova un tesoro di dieci milioni di sterline. Impressionante!”. Questo era il titolo del giornale britannico The Sun il 19 novembre 1992: era la prima volta che una scoperta archeologica occupava la sua copertina. L’occasione lo meritava. Era appena trapelata alla stampa la scoperta, a Hoxne, nella contea di Suffolk, del più grande tesoro di pezzi in oro e argento mai rinvenuto nei territori dell’impero romano. La foto in prima pagina ritraeva un orgoglioso Eric Lawes, abitante del paese, descritto come un “cacciatore di tesori”, con il metal detector alla mano. Il prodigioso evento risaliva a tre giorni
Hoxne GRAN BRETAGNA LO N D R A OCEANO ATLANTICO
FRANCIA
prima. Il 16 novembre Eric Lawes cercava con il suo metal detector il martello che l’amico Peter Whatling aveva perso mentre lavorava. Lo strumento cominciò a emettere segnali che indicavano la presenza di oggetti metallici. Non si trattava del martello, bensì di una serie di catene in oro, monete e cucchiai in argento. Riempì in totale due buste di plastica, ma il metal detector continuava a segnalare la presenza di altro materiale nel sottosuolo.
Lo comunicò all’amico Whatling, e insieme decisero di avvertire del ritrovamento le autorità della contea di Suffolk e il proprietario del terreno. Per evitare i saccheggi di collezionisti di antichità e appassionati, l’istituto competente della contea decise di effettuare in segreto uno scavo archeologico d’urgenza. Non potevano però immaginare le dimensioni di quanto avrebbero scoperto. A pochi centimetri dalla superficie furono rinvenute diverse scatole di oggetti metallici, ordinati e perfettamente conservati. Alcuni di questi avevano ancora parte della stoffa nella quale erano stati a suo tempo avvolti.
Scoperta mediatica La zona fu esaminata per assicurare un recupero completo. Quel giorno, e in
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Nel 1992, un cittadino di Hoxne scoprì con il suo metal detector uno straordinario deposito di monete, vasellame e gioielli di epoca romana
DETTAGLIO delle monete
d’oro e d’argento, di varie tipologie e coniate sotto diversi imperatori, contenute nel tesoro di Hoxne. British Museum.
occasione di controlli successivi del terreno, fu rinvenuto un totale di 15.234 monete in oro e argento, datate tra il IV e il V secolo, e circa centocinquanta pezzi risalenti allo stesso periodo, tra
Intorno al 410 d.C.
16 novembre 1992
19 novembre 1992
20 novembre 1992
Viene nascosto un meraviglioso tesoro di monete e oggetti d’argento nei pressi dell’attuale Hoxne, nella contea di Suffolk.
Eric Lawes tenta di individuare il martello perso dall’amico Peter Whatling e, per puro caso, ritrova il tesoro.
Il giornale The Sun dà la notizia dell’importante scoperta e la pubblica in prima pagina con un titolo sensazionalistico.
Il British Museum, che prende in consegna il tesoro, convoca una conferenza stampa per annunciare la scoperta.
MARTELLO DI PETER WHATLING. BRITISH MUSEUM, LONDRA. THE TRUSTEES OF THE BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
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IN PRIMA PAGINA IL TITOLO del The Sun parlava di un ritrova-
mento del valore di dieci milioni di sterline. Era un’esagerazione. In realtà il tesoro fu valutato per molto meno: 1.750.000 sterline.
renza stampa e annunciò ufficialmente quel poco che si conosceva sul ritrovamento. Un anno dopo fu comunicato che, in accordo con la legge inglese, il tesoro non poteva essere reclamato dai proprietari del terreno a causa della sua antichità. Dal canto loro, gli scopritori ricevettero un premio in denaro per il valore di 1,75 milioni di sterline, stabilito dal Comitato di valutazione del tesoro, il Treasure Trove Reviewing Committee.
THE SUN / NEWS LICENSING
cui vasellame e gioielli. Fu ritrovato anche il martello che Whatling aveva perso. Tutti i reperti (martello compreso) furono trasferiti al British Museum per essere sottoposti a un’analisi meticolosa. Ogni tentativo di mantenere segreto il sito al fine di completare le ricerche fallì. Solo 72 ore dopo il giornale The Sun svelò la scoperta. Il giorno successivo, il 20 novembre, il British Museum convocò una confe-
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Solido d’oro coniato dall’usurpatore Magno Clemente Massimo, proclamato imperatore dalle sue truppe in Britannia nel 383 d.C.
Catena per il corpo in oro e ametista. Le catene poggiavano sulle spalle e sotto le braccia, e poi si univano sul petto e sul dorso. Le ridotte dimensioni lasciano intendere che questa catena apparteneva a una giovane donna.
Collane e stuzzicadenti L’INSIEME di gioielli e monete contenuti nel tesoro di Hoxne era variegato. Nell’immagine a fianco sono visibili un esempio di ornamento per il corpo molto usato in epoca ellenistica e romana, bracciali, una moneta d’oro e uno strumento da toletta molto originale.
I curiosi oggetti a forma di uccello con le zampe lunghe si utilizzavano forse da un’estremità come stuzzicadenti e, dall’altra, come bastoncini per le orecchie.
Bracciali in oro. Il tesoro comprendeva una collezione di 19 bracciali in oro, conservati in tre pacchetti separati.
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UNA STRADA del villaggio di Hoxne,
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nella contea di Suffolk, dove nel 1992 venne trovato il tesoro romano che porta il suo nome.
Eric Lawes condivise equamente la cifra con l’amico Whatling.
FOTO: THE TRUSTEES OF THE BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
Al riparo nello scrigno Sin da subito fu riconosciuta l’onesta condotta di Lawes e Whatling, che anteposero la cultura al proprio interesse personale e collaborarono alle prime indagini, effettuate in fretta per evitare che si divulgasse subito la notizia. Gli archeologi riuscirono a individuare la posizione rettilinea dei reperti e la presenza di chiodi e puntelli, e confermarono che gli oggetti erano stati depositati accuratamente in varie scatole,
a loro volta disposte in uno scrigno di rovere di 60 x 45 x 30 cm, decorato con un intarsio osseo e chiuso con lucchetti d’argento. Probabilmente erano stati riposti prima gli oggetti personali e il vasellame, poi le monete in oro, certamente in un sacchetto oggi scomparso e, solo alla fine, erano state inserite le monete d’argento per riempire gli spazi liberi all’interno dello scrigno. Inoltre, gli archeologi trovarono traccia di un foro nel terreno, corrispondente forse a un palo, utilizzato come segnale dal proprietario per ritrovare il luogo di sepoltu-
ra dei propri averi. Anche il martello perduto di Peter Whatling fu recuperato e successivamente donato al British Museum.
L’origine del tesoro L’informazione fornita dalle monete ha consentito ai ricercatori di datare l’occultamento del tesoro agli inizi del V secolo, con molta probabilità intorno alla fine della prima decade. Le monete più antiche vennero coniate all’epoca di Costantino II (337-340 d.C.) e le più moderne sotto il regno di Costantino III (407-411 d.C.). In totale sono stati recuperati cinque tipi di mo-
nete: circa 580 solidi d’oro, 60 miliarenses d’argento, 24 nummi e oltre 14.500 siliquae di argento, quasi tutte gravemente tosate, tranne due intere e cinque tosate. La tosatura consisteva nell’asportazione di parte del metallo dai bordi allo scopo di impadronirsene. Questo “trattamento” finiva per far assumere alla moneta forme particolari. Le 15.234 monete erano state coniate in 14 luoghi diversi corrispondenti alle attuali Italia, Francia, Croazia, Serbia, Grecia e Turchia. Tra queste, spiccano anche delle riproduzioni della moneta ufficiale in circolazione. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Undici cucchiai del tesoro di Hoxne presentano un manico lungo, con una decorazione a tema marino.
Pepaiola a forma di imperatrice. Il pepe era una spezia molto costosa e tali oggetti erano davvero rari nell’impero romano.
Vasellame d’argento IL VASELLAME D’ARGENTO del tesoro di Hoxne, sebbene non sia impressionante come quello di altri siti archeologici, presenta alcune peculiarità, tra cui le pepaiole, oggetto poco comune per l’epoca. Le stoviglie comprendevano inoltre cucchiai di diverse dimensioni, mestoli, anfore e piatti.
Lo scrigno conteneva inoltre centocinquanta oggetti d’uso quotidiano e personale, ordinati con attenzione, avvolti in un panno e raccolti in varie scatole. Sono stati recuperati 29 gioielli di eccellente qualità,
tra cui catene, braccialetti, anelli e collane. Tra questi, un completo di ornamenti femminili per il corpo unico nel suo genere, di cui finora è stato ritrovato un solo esemplare più antico, proveniente dall’Egitto. Su uno dei bracciali, decorati con scene di caccia tipiche dell’epoca, è incisa l’iscrizione Utere Felix Domina Iuliane, ovvero «Usa [questo bracciale] felicemente, signora Giuliana», forse un regalo da un membro della sua famiglia o da qualcuno di rango inferiore. I restanti pezzi, in argento, sono perlopiù vasellame: 19
mestoli e 98 cucchiai di diverso tipo, quattro scodelle e bricchi, e sei vasi e ciotole. La collezione comprende anche il manico di un’anfora, a forma di tigre, che era stato rotto prima di nascondere il tesoro, e svariati utensili per la toletta personale, come alcuni pezzi che a un’estremità servivano da stuzzicadenti e all’altra da bastoncini per le orecchie. Spiccano poi quattro piccoli recipienti per contenere il pepe. La più particolare di tali pepaiole raffigura il busto di un’imperatrice del IV secolo che, a giudicare dall’acconciatura, alcuni studiosi hanno identificato con Elena, la madre
di Costantino, per il suo legame con il cristianesimo. Le altre tre rappresentano gli eroi Ercole e Anteo, uno stambecco e un cane che attacca una lepre. Il tesoro ha portato alla luce 52 iscrizioni, alcune delle quali mostrano le credenze cristiane dei proprietari: il monogramma di Cristo, ad esempio, decorava una delle catene in oro per il corpo, mentre sui cucchiai si identificava un altro monogramma, formato a partire da una croce. Tra i nomi di persona collegati ai possessori degli oggetti, o a membri della famiglia, per ben dieci volte si ripeteva un unico nome,
PEPAIOLA D’ARGENTO DEL TESORO DI HOXNE. BRITISH MUSEUM, LONDRA. THE TRUSTEES OF THE BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
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Sei cucchiai hanno il manico corto e la concavità più grande. Il manico ha una forma a testa di uccello.
Anfora d’argento e placcata in oro con un solo manico a forma di P, che presenta alle estremità teste di uccelli. La decorazione è a tema vegetale.
Manico a forma di tigre, animale associato a Bacco, dio del vino. Insieme a un altro manico faceva parte di un’anfora che non si è conservata.
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quello di un tale Aurelio Ursicino. L’aspetto più curioso della scoperta è il suo carattere isolato. Non sono stati riscontrati resti di insediamenti rurali o di altro tipo nel raggio di tre chilometri. I siti più vicini sono Scole (a 3,2 km) e Stoke Ash (a 12 km), collegati da una strada romana oggi conosciuta come Pye Road. Gli studiosi sostengono che nel primo sito è possibile localizzare villa Faustini, menzionata nell’Itinerario di Antonino, un documento del III secolo in cui si raccolgono le rotte dell’impero romano. Va ricordato inoltre che nella stessa Hoxne nel 1732 venne
rinvenuta una moneta d’oro di analoga datazione. A circa tre chilometri a sud-ovest della località, nei pressi del fiume Dove, a Eye, nel 1781 alcuni operai ritrovarono una cassa di piombo con 650 monete d’oro databili tra il IV e il V secolo. Le analogie con il tesoro di Hoxne hanno portato alcuni ricercatori a sostenere che i due scrigni potessero appartenere allo stesso nucleo familiare prima di essere sotterrati.
Depositi affini In Britannia sono noti più di 95 siti simili a quello di Hoxne. La gran parte risale all’ultimo periodo dell’im-
pero romano, quando l’occupazione della Britannia volgeva ormai al termine. Si ritiene pertanto che un tesoro come quello di Hoxne fosse appartenuto a una famiglia facoltosa che aveva deciso di nascondere temporaneamente i propri averi e che, date le circostanze, abbandonò poi la zona. Alcuni ricercatori ricollegano i tesori a specifiche tradizioni del mondo romano. Si tratterebbe, in questo caso, di un deposito votivo o di una prassi di scambio di beni. Si può certamente affermare che il luogo scelto per lasciare il tesoro rispondesse al preciso intento di
nasconderlo. E difatti si è mantenuto inalterato per quasi millecinquecento anni, fino a quando una casualità ha modificato il corso della storia. Gli scopritori hanno perso un martello e ritrovato un tesoro che, oggi, è uno dei più famosi d’Inghilterra e costituisce una delle perle del British Museum. —Rubén Montoya Per saperne di più The Hoxne Late Roman Treasure: Gold Jewellery and Silver Plate Catherine Johns. British Museum Press, Londra, 2010.
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L I B R I A CURA DI MATTEO DALENA STORIA DI ROMA
Come assedi e saccheggi cambiarono Roma
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Matthew Kneale (traduzione di Bianca Bertola)
STORIA DI ROMA IN SETTE SACCHEGGI
Bollati Boringhieri 2018; 453 pp.; 26 ¤
ono sette come i colli che la circondano. I saccheggi hanno segnato il destino della città di Roma e causato al suo interno stravolgimenti di natura politica, economica e sociale. Per raccontare circa tremila anni di storia cittadina, lo scrittore inglese Matthew Kneale sceglie la prospettiva inusuale di assedi e saccheggi. Dal primo, che vede protagonisti i galli sénoni guidati da Brenno nel 387 a.C., fino all’occupazione nazista del 1943-44, Roma
ha modo di“cadere e rialzarsi” altre cinque volte. Il caso più misterioso riguarda il “sacco” dei visigoti di Alarico che, nella notte del 24 agosto del 410, entrarono in una Roma maleodorante e infestata dai pidocchi. L’occupazione durò tre giorni. Questo è l’unico particolare sul quale le fonti concordano poiché, come afferma l’autore, «i resoconti sono così contrastanti che si potrebbe pensare descrivano eventi diversi». Secondo Socrate Scolastico, che scrisse 30 an-
ni dopo il sacco, furono uccisi diversi senatori e la città data alle fiamme. Un secolo dopo Procopio di Cesarea affermava che la maggior parte dei romani venne annientata, mentre l’asceta Girolamo sostiene che, quando gli invasori entrarono in città, buona parte degli abitanti era già morta di fame. Cosa accadde davvero? Kneale si pone tale interrogativo in relazione a ogni saccheggio, districandosi tra fatti storici e propaganda. Quello che è certo è che dopo ogni distruzione i romani ricostruirono e abbellirono l’urbe dotandola di nuovi monumenti. In tal senso, secondo l’autore, «insieme, guerra e pace hanno contribuito a rendere Roma il luogo straordinario che è oggi».
STORIA CRIMINALE
Barbara Bracco
LA SAPONIFICATRICE DI CORREGGIO il Mulino 2018; 144 pp.; 14 ¤ TRA IL 1939 e il 1940 Leonar-
da Cianciulli attirò tre donne sole nella propria abitazione di Correggio, le uccise, ne sezionò i corpi e tentò di scioglierli sottoponendoli a processo di saponificazione. Il movente degli omicidi fu individuato nella volontà
di sottrarre alle vittime, con l’inganno e vane promesse, risparmi e beni materiali per poi rivenderli e assicurare un avvenire alla propria famiglia. Condannata nel 1946 a 30 anni di carcere, pena poi commutata in reclusione a vita in manicomio, «la saponificatrice di Correggio» si spegnerà a Pozzuoli nel 1970. L’antropologa Barbara Bracco ripercorre la vicenda dell’assassina seriale il cui caso ebbe grande risonanza in un Paese che riscopriva un interesse morboso per i fatti di cronaca nera. Una storia individuale che, nei suoi risvolti mediatici, si fa racconto collettivo: un capitolo di storia culturale e sociale italiana nel passaggio cruciale dal fascismo alla repubblica.
LE FORME DELLA MOSTRUOSITÀ ANTICA DRAGHI E MOSTRI MARINI, esseri immaginari per
eccellenza, erano parte integrante del sapere degli antichi. Protagonisti di alcuni miti fondatori, che inscenano la lotta tra una divinità e un mostro acquatico simboleggiante il caos, compaiono anche negli studi etnografici e nelle classificazioni zoologiche. Nella tradizione cristiana il diavolo assumerà ad esempio le fattezze del drago con l’obiettivo di “infestare” le persone. Partendo dal Leviatano biblico, mostro policefalo primordiale abitante del mare e ucciso da Yhwh (il dio ebraico), l’antropologa Anna Angelini passa in rassegna le forme della mostruosità antica, tra Grecia e Levante, in un confronto fra diverse tradizioni. Anna Angelini
DAL LEVIATANO AL DRAGO il Mulino 2018; 272 pp.; 20 ¤
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Prossimo numero LIBIA, LA TERRA PROMESSA
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CONTAGIATO dal colonialismo imperante, nel 1911 il Regno d’Italia si lanciò alla conquista della Libia. Contrariamente alle previsioni, che parlavano di un’annessione rapida e indolore, l’Italia incontrò una resistenza attiva da parte dei locali. Ci vollero vent’anni e lo sterminio di una parte della popolazione per assumere il controllo della regione e far posto ai diseredati della penisola.
LÉO TAXIL: IL MASSONE CHE TRUFFÒ LA CHIESA NEL 1885 Léo Taxil organizzò una truffa
che coinvolse la Chiesa romana. Finse di convertirsi al cattolicesimo e rivelò di aver fatto parte di un presunto ordine massonico, il palladismo, che avrebbe aspirato a dominare il mondo. Negli anni successivi Taxil denunciò le pratiche devianti dei massoni, quali orge, omicidi e l’adorazione di Lucifero. Le sue parole furono entusiasticamente accolte dal papa, che finanziò i suoi libri. Nel 1897 Taxil ridicolizzò la curia romana confessando che era tutta una frode, ma le sue menzogne contribuirono ad alimentare la leggenda nera dei massoni. RUE DES ARCHIVES / ALBUM
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La grande tomba di Seti I Seti I fu sepolto nella tomba più lunga e profonda della Valle dei Re. Solo nel 2010 è stata portata a termine l’esplorazione della sua misteriosa galleria.
L’amaro trionfo delle Arginuse Nel 406 a.C. i comandanti della flotta ateniese furono giustiziati per non aver soccorso i loro concittadini naufragati durante una vittoriosa battaglia contro Sparta.
I re dei re dell’Iran Nel III secolo d.C. sorse l’ultimo impero persiano. La dinastia sasanide si scontrò con Roma e Bisanzio, per poi piegarsi davanti all’islam nel VII secolo.
Cicerone, un omicidio di stato La lunga carriera politica di Marco Tullio Cicerone si interruppe nel 43 a.C., quando fu decapitato da due sicari presso il porto di Gaeta.
Bruegel e l’Europa contadina Nel XVI secolo il pittore fiammingo Pieter Bruegel fu il primo a ritrarre le usanze e le attività quotidiane dei contadini del suo tempo.
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