Storica National Geographic - ottobre 2018

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NU MERO 116

NATIONAL GEOGRAPHIC

storicang.it

MASSONERIA L’IMPOSTURA DI LÉO TAXIL

TOMBA DI SETI I

BRUEGEL E I CONTADINI

SASANIDI

LA TOMBA PIÙ BELLA

LA SEPOLTURA DI SETI I NELLA VALLE DEI RE

ARGINUSE CICERONE

LA TRAGICA FINE DI CICERONE

BRUEGEL E I CONTADINI

LA BATTAGLIA DELLE ARGINUSE

MASSONERIA CONQUISTA LIBIA

LA TERRA PROMESSA

CRONACA DELLA CONQUISTA ITALIANA DELLA LIBIA

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EDITORIALE

ci sono temi che scottano, e momenti storici in cui lo fanno più che in altri. È il caso dell’argomento al quale dedichiamo la copertina, e dell’epoca che stiamo vivendo, in Europa e in Italia. E proprio per questo abbiamo deciso di parlarne, perché crediamo veramente che il passato possa e debba servirci per comprendere il presente. L’Italia non è certo stata l’unica né la maggiore potenza coloniale. Ma, come ben illustra l’esperienza in Libia, non è stata neanche da meno rispetto alle altre in quanto a prepotenza e a violazioni dei diritti umani. È insito nel colonialismo. L’esperienza italiana nel Paese africano è particolarmente interessante da conoscere anche perché permette di dare il giusto spazio a quegli “altri” (i vinti, i colonizzati) così spesso resi invisibili dal racconto storico dominante. Molti libici si opposero infatti fin dall’inizio all’occupazione italiana e portarono avanti, con pochi mezzi ma forte sostegno da parte della popolazione locale, una lunga lotta di resistenza. Moltissime delle persone che sbarcano oggi sulle nostre coste passano per la Libia. Lì vengono trattenute in centri di detenzione dei quali organizzazioni come Medici senza Frontiere hanno denunciato le “condizioni inumane”. La creazione di questi campi è il risultato di accordi stilati tra Italia e Libia che sono anche la conseguenza della colonizzazione italiana. Tante di queste persone scappano da Paesi quali la Somalia, l’Eritrea o l’Etiopia. E nuovamente la storia ci mette davanti al nostro passato. Vi invitiamo a guardarlo in faccia insieme a noi. ELENA LEDDA Vicedirettrice editoriale

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10 PERSONAGGI STRAORDINARI Al-Jazari

Le incredibili invenzioni di al-Jazari dimostrarono l’alto livello tecnologico raggiunto dal mondo musulmano nel Medioevo.

14 GRANDI INVENZIONI La doccia

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Nel 1767 l’inglese William Feetham inventò un dispositivo che permetteva di lavarsi in casa sotto un getto d’acqua continuo.

16 EVENTO STORICO Beemster, il polder che stupì il mondo

All’inizio del XVII secolo alcuni investitori olandesi fecero prosciugare il grandissimo lago di Beemster per ricavarne campi coltivabili, fattorie e lussuose residenze estive.

22 ANIMALI NELLA STORIA I leoni mangiatori di uomini di Tsavo

Nel 1898 per nove mesi due enormi leoni ammazzarono decine di operai impegnati nella costruzione di una ferrovia in Uganda, finché un colonnello irlandese non li uccise.

122 GRANDI SCOPERTE

Lalibela, le mitiche chiese rupestri dell’Etiopia

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Nel XVI secolo nella zona etiope di Lalibela i portoghesi trovarono un complesso di chiese scavate nella roccia unico al mondo.

128 LIBRI E MOSTRE

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24 LA TOMBA PIÙ BELLA COME I SUOI predecessori,

Seti I fu sepolto nella Valle dei Re, la grande necropoli dei faraoni del Nuovo regno. La tomba di Seti I è la più lunga e profonda della Valle dei Re, nonché l’unica a essere interamente decorata con splendide pitture murali. Venne scoperta nel 1817 dall’esploratore italiano Giovanni Battista Belzoni. Ciononostante solo nel 2010 è stata portata a termine l’esplorazione della sua misteriosa galleria. di josé lull CAMERA FUNERARIA. SULLA SINISTRA, LA SALA DEI SEI PILASTRI, CHE PRECEDE LA STANZA IN CUI SI TROVAVA IL SARCOFAGO DI SETI I.

42 I Re dei Re dell’Iran Nel III secolo d.C. sorse l’ultimo impero persiano. La dinastia sasanide si scontrò con Roma e Bisanzio, per poi piegarsi davanti all’islam nel VII secolo. DI MIGUEL ÁNGEL ANDRÉS TOLEDO

56 L’amaro trionfo delle Arginuse Nel 406 a.C. i comandanti della flotta ateniese furono giustiziati per non aver soccorso i loro concittadini naufragati durante una vittoriosa battaglia contro Sparta. DI JAVIER NEGRETE

66 Cicerone, un omicidio di stato La lunga carriera politica di Marco Tullio Cicerone si interruppe nel 43 a.C. quando, presso il porto di Gaeta, fu decapitato per ordine di Marco Antonio da due sicari. DI JOSÉ MIGUEL BAÑOS

78 Bruegel

e l’Europa contadina

Nel XVI secolo il pittore fiammingo Pieter Bruegel fu il primo a ritrarre le usanze e le attività quotidiane dei contadini del suo tempo. DI MÓNICA ANN WALKER VADILLO

DANZA DEI CONTADINI. I BALLI APPAIONO IN VARIE OPERE DI BRUEGEL.

94 L’impostura di Léo Taxil Per più di un decennio la Chiesa cattolica diede credito alle storie di un ex massone che accusava la massoneria di essere un culto segreto dedicato al diavolo. DI JAVIER DOMÍNGUEZ ARRIBAS

108 Libia, la terra promessa Contagiato dal colonialismo imperante, nel 1911 il Regno d’Italia si lanciò alla conquista della Libia. Fu un’impresa ben più ardua del previsto. DI ERIC SALERNO

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BRUEGEL E I CONTADINI LA TOMBA PIÙ BELLA

LA SEPOLTURA DI SETI I NELLA VALLE DEI RE

LA TRAGICA FINE DI CICERONE LA BATTAGLIA DELLE ARGINUSE

LA TERRA PROMESSA

CRONACA DELLA CONQUISTA ITALIANA DELLA LIBIA

LA CONQUISTA DELLA LIBIA. LE TRUPPE ITALIANE SBARCANO A TRIPOLI NEL 1911 DANDO INIZIO ALLA GUERRA ITALO-TURCA. FOTO: A. DAGL / DEA / AGE FOTOSTOCK

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Pubblicazione periodica mensile - Anno X - n. 116

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PERSONAGGI STRAORDINARI

Al-Jazari, geniale inventore dell’islam medievale Nel XII secolo le innumerevoli invenzioni di al-Jazari, considerato da alcuni come il Leonardo da Vinci dell’islam, dimostrarono l’alto livello tecnologico raggiunto dal mondo musulmano

Moderni geni medievali 800 circa I califfi Harun al-Rashid e al-Mamun fondano la Casa della Saggezza, centro intellettuale dell’Età dell’oro dell’islam medievale.

850 I fratelli Banu Musa pubblicano Il libro dei congegni ingegnosi, ispirato alle invenzioni degli autori classici.

1200 circa Al-Jazari entra al servizio della dinastia degli Artuchidi, per i quali inventa automi e macchine idrauliche.

1784 Viene brevettata una caldaia a vapore che utilizza un meccanismo simile a quello di alcuni orologi ad acqua di al-Jazari.

1976 Il Museo della scienza di Londra ricrea un orologio di al-Jazari seguendo le istruzioni dell’ingegnere arabo.

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a quando i califfi abbasidi di Bagdad diedero vita alla Bayt al-Hikma (Casa della Sapienza) tra l’VIII e il IX secolo, la scienza ricoprì un ruolo essenziale nel mondo islamico medievale. L’istituzione, dedicata alla raccolta e allo studio delle opere degli antichi saggi, giocò un ruolo fondamentale nello splendore scientifico e culturale dell’islam. Il contrasto con il mondo cristiano medievale, dove non esistevano né le conoscenze né gli interessi dei contemporanei musulmani, risulta evidente. Saranno infatti proprio la scienza e le traduzioni arabe a essere utilizzate dagli umanisti del Rinascimento per riscoprire un passato quasi completamente dimenticato. Le conoscenze arabe medievali spaziarono dalla filosofia alla medicina fino all’astronomia e alla zoologia. Raggiunse un notevole sviluppo anche l’ingegneria meccanica, dove spiccarono nomi come quelli dei fratelli Banu Musa e dell’andaluso Abbas ibn Firnas, poeta, astronomo, fisico e inventore di ogni tipo di macchinari. Ma a spiccare fra tutti fu Ismail Ibn al-Razzaz

al-Jazari, ingegnere e inventore che visse nella città turca di Diyarbakir tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, all’epoca delle crociate e del Saladino. Di lui sappiamo soltanto che proveniva da un’umile famiglia di artigiani e che per venticinque anni fu al servizio della locale dinastia artuchide. Viene ricordato per le sue opere pionieristiche di ingegneria meccanica, idraulica e robotica e per le sue poliedriche doti di inventore, costruttore, artista e ideatore di ogni tipo di macchine, pompe e condutture ad acqua, orologi e automi, uno più originale dell’altro.

Caldaie e automi Grazie alle traduzioni arabe di Archimede ed Euclide e alla scienza cinese e indiana, al-Jazari fu in grado di sviluppare più di cento dispositivi meccanici. La maggior parte di questi macchinari, raccolti nel Libro della conoscenza dei meccanismi ingegnosi (noto anche come Un compendio sulla teoria e sulla pratica delle arti meccaniche), si basa su principi ancora validi per l’ingegneria moderna. Alcune invenzioni avevano solamente una funzione pratica, come il sistema di rifornimento d’acqua tramite ingranaggi a energia idraulica, utilizzato nelle moschee e negli ospe-

Attraverso la Casa della Sapienza i califfi abbasidi diedero impulso alle traduzioni di opere antiche ARCHIMEDE. BUSTO IN MARMO DEL III SECOLO A.C.

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L’INGEGNERE «UNICO E INEGUAGLIABILE» della conoscenza dei meccanismi ingegnosi, al-Jazari si presenta come Rais al-Amal (ingegnere capo) e si assegna i titoli di Badi al-Zaman (unico e ineguagliabile) e di al-Shaykh (dotto e degno). Interessato ai lavori «degli eruditi e dei saggi antichi», l’inventore si dedicò per 25 anni al disegno e alla costruzione di dispositivi automatici presso la corte artuchide di Nas‚ir alDin e, prima ancora, presso suo padre e suo fratello. Fu proprio Nas‚ir al-Din che lo esortò a raccogliere i suoi «dispositivi senza pari» in un libro che ne permettesse la riproduzione. NEL LIBRO

AUTOMA CHE SUONAVA IL FLAUTO OGNI ORA PER SVEGLIARE DA UN SONNO LEGGERO. BRIDGEMAN / ACI

dali di Diyarbakir e Damasco e che è rimasto in uso fino a epoche recenti. Molte delle sue creazioni anticiparono di vari secoli le scoperte della scienza europea. Ad esempio, il primo riferimento in Europa alla valvola conica sviluppata da al-Jazari lo troviamo in Leonardo da Vinci. Inoltre, nel 1784 venne brevettata una caldaia a vapore che funzionava con un meccanismo simile a uno di quelli che l’inventore arabo aveva utilizzato per i suoi orologi ad acqua.

Altri dispostivi di al-Jazari erano invece destinati allo svago e al divertimento del sultano e dei cortigiani. È il caso di un orologio di quasi due metri di altezza dove figure e automi – un elefante, il suo cavaliere, draghi, uno scrivano e un falco – segnavano le ore e i minuti. Si trattava del primo orologio dove gli automi reagivano in modi diversi ai differenti intervalli di tempo, oltre a essere il primo a segnare il tempo con tanta precisione. Straordinariamente curioso doveva essere

anche il lavandino conosciuto come la “fontana del pavone”: tirando la coda dell’uccello l’acqua usciva dal becco e compariva la figura di un servo per offrire ceneri vegetali da utilizzare come sapone; dopo il risciacquo, da una delle porte entrava un’altra figura per porgere un asciugamano. Fra le sue invenzioni troviamo anche un marchingegno che possiamo considerare come una versione sofisticata degli attuali giochi alcolici. La macchina rappresentava un edificio STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

AUTOMI E MECCANISMI A OROLOGERIA QUI a fianco sono rappresentate tre delle invenzioni di al-Jazari. Nella prima 1 vediamo un lavandino a forma di pavone: funzionava con dei galleggianti (in rosso) legati a delle corde che mettevano in azione i piccoli automi a seconda di quanto il deposito fosse pieno. Nella seconda immagine 2 vediamo un dettaglio dell’orologio con elefante, dove si nota il meccanismo grazie al quale la figura del cavaliere colpisce la testa dell’animale ogni 30 minuti. Per ultimo si può vedere un elevatore 3 : l’acqua metteva in azione gli ingranaggi che azionavano l’automa della mucca e una ruota che trasportava il liquido. Questa macchina era in grado di alimentare addirittura un acquedotto.

a quattro piani: nel primo c’era una donna con una bottiglia e un bicchiere; nel secondo altre donne con strumenti musicali e un ballerino; più in alto una serie di porte chiuse e, in cima, un cavaliere con una lancia. L’effetto doveva essere incredibile. I giocatori

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si posizionavano intorno alla macchina, l’oggetto iniziava a produrre suoni e le figure cominciavano a muoversi; quando la musica s’interrompeva, il cavaliere puntava la lancia verso uno dei

L’ARTIGIANO OROLOGIAIO L’OROLOGIO CON ELEFANTE è una delle creazioni più fa-

mose di al-Jazari. Posizionata al suo interno c’era una barchetta che impiegava 30 minuti per riempirsi d’acqua; quando affondava tirava una corda che provocava un effetto domino facendo in modo che il cavaliere colpisse la testa dell’animale, iniziando daccapo il circuito. L’OROLOGIO CON ELEFANTE DI AL-JAZARI.

WHA / AGE FOTOSTOCK

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partecipanti, e la donna versava il vino nel bicchiere. Non è necessario spiegare cosa avvenisse in seguito: il giocatore indicato doveva bere fino all’ultima goccia di vino. Questo poteva ripetersi fino a venti volte (con intervalli di riposo, questo sì) e solo a quel punto le porte, fino ad allora chiuse, si aprivano e usciva un personaggio con uno di questi due messaggi: «è finito il vino» oppure «ancora due bicchieri».

Pronto al montaggio Nel suo libro al-Jazari mostra profonde conoscenze in ambiti diversi e cerca di spiegare il modo più semplice per riprodurre le sue invenzioni, come se si trattasse di istruzioni di montaggio. Per questo alcuni ricercatori hanno avanzato l’ipotesi che

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1. BRIDGEMAN / ACI. 2. AKG / ALBUM. 3. BRIDGEMAN / ACI

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al-Jazari fosse più interessato ai processi di costruzione che alla teoria o ai calcoli e che il suo libro dovesse quindi essere considerato come un manuale. Non c’è alcun dubbio, comunque, che le sue invenzioni segnarono un punto di svolta nella scienza medievale e l’inizio dell’ingegneria e della robotica moderne. A ogni modo se il vero obiettivo di al-Jazari fu quello di facilitare la riproduzione delle sue opere, lo scopo venne raggiunto. Infatti durante il Festival del Mondo islamico tenutosi a Londra nel 1976, uno dei suoi orologi venne completamente ricostruito al Museo delle scienza seguendo le istruzioni dell’ingegnere arabo. Va evidenziato anche il notevole risparmio energetico e il grande progresso tecnologico che le sue creazioni comportarono. Le innovazioni

di al-Jazari comprendono la pompa a doppia azione con tubi di aspirazione per aumentare il flusso del liquido, l’albero a gomiti che converte il movimento lineare in rotatorio, la calibrazione precisa dei fori, la laminazione del legno per facilitarne la curvatura e l’equilibrio statico delle ruote per evitare le vibrazioni.

Il Leonardo d’Oriente Non contento di applicare le conoscenze greche o cinesi, al-Jazari dimostrò con le sue invenzioni – comprese quelle più curiose – quanto fosse interessato a idee nuove e a soluzioni per rendere più facile la vita delle persone, altro punto in comune con i principi dell’ingegneria e della robotica moderne. L’inventore arabo fu un ingegnere e un artista poliedrico, precursore

dei tempi proprio come Leonardo da Vinci. Al-Jazari controllava tutte le fasi delle sue invenzioni, dalla progettazione alla costruzione fino all’utilizzo, oltre a dominare le conoscenze tecnologiche e di ingegneria meccanica e idraulica necessarie. Fu allo stesso tempo inventore, artigiano e anche incisore, visto che le miniature con le quali illustrò il suo libro sono state studiate e apprezzate anche dal punto di vista artistico. In definitiva, come affermò l’ingegnere e storico della tecnologia Donald R. Hill: «È impossibile sopravvalutare l’importanza dell’opera di al-Jazari». —Jorge Elices Ocón Per saperne di più

SAGGI

Automi d’Oriente Mario G. Losano. Medusa, Milano, 2003.

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GRANDI INVENZIONI

La doccia rivoluziona l’igiene personale L’inglese William Feetham brevettò un dispositivo che permetteva alla gente di lavarsi in casa sotto un getto d’acqua continuo «a pioggia»

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el XVIII secolo le classi agiate di tutta Europa dimostravano ormai una crescente preoccupazione per l’igiene, non solo delle città ma anche delle persone. Il bagno diventò una pratica abituale, per alcuni per esigenze di pulizia o il piacere di sentirsi freschi, per altri per ragioni mediche. In quegli anni il progresso della medicina e il miglioramento delle conoscenze batteriologiche favorirono lo sviluppo dell’idroterapia, ovvero la cura per mezzo dell’acqua, che veniva applicata al paziente a diverse condizioni di temperatura e pressione.

NTPL / SCALA, FIRENZE

Fin da epoche remote per lavarsi in casa la gente utilizzava delle grandi tinozze. L’inconveniente principale di questo sistema era l’ingente quantità di acqua richiesta, che doveva essere trasportata con dei secchi. Questo era il problema che l’inglese William Feetham si proponeva di risolvere quando brevettò nel 1767 il primo modello di doccia meccanica. Feetham era un costruttore di stufe e forni con la vocazione per le invenzioni, e aveva già progettato uno spazzacamino meccanico grazie al quale non era più necessario ricorrere ai bambini. Il suo prototipo di doccia consisteva in una struttura portatile a tronco di

GUSMAN / LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

1767

IDROTERAPIA IN CASA. PUBBLICITÀ SU UNA RIVISTA MEDICA DEL 1884.

cono suddivisa in due parti: quella inferiore era costituita da un catino in cui ci si lavava in piedi, quella superiore da un piccolo serbatoio che faceva scendere l’acqua attraverso una superficie bucherellata. Le due parti erano unite da alcune canne di bambù che fungevano da montanti e su cui si installavano le tende per garantire la privacy ed evitare di allagare la stanza.

Le prime docce pubbliche L’apparecchio presentava due grossi vantaggi. Intanto bastava tirare una catena per far scendere un getto d’acqua «a pioggia», un procedimento indiscutibilmente più pratico che rovesciarsi una secchiata in testa. Inoltre una pompa manuale permetteva di far risalire l’acqua raccolta nel catino fino alla cisterna superiore e di riutilizzarla. Ciò consentiva un notevole risparmio idrico, per quanto dal punto di vista igienico non fosse ancora la soluzione ideale. Più tardi sarebbero arrivati scarichi, valvole e serpentine che consentivano di riscaldare l’acqua e aumentarne la pressione, o sistemi di collegamento alla rete idrica che evitavano di doverla riutilizzare. Feetham stesso continuò a perfezionare la sua idea, di cui introdusse un nuovo modello nel 1822. CARICATURA DEL 1851. UNA FAMIGLIA SI APPRESTA A UTILIZZARE LA DOCCIA INSTALLATA NELLA CUCINA.

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GRANGER / ALBUM

ARCHIMEDE NELLA SUA VASCA. INCISIONE DEL XVI SECOLO.

IL LENTO TRIONFO DELLA DOCCIA 1767 William Feetham brevetta a Londra la doccia meccanica portatile.

1822

UNA DOCCIA dei primi del XIX secolo in una residenza di campagna di Erddig, Galles.

Tuttavia fu merito del chirurgo francese Merry Delabost se la doccia iniziò a svolgere anche una funzione sociale e non rimase solo un privilegio delle classi agiate. Delabost era il medico ufficiale del carcere di Rouen. All’epoca nelle prigioni centinaia di uomini vivevano ammassati in condizioni malsane che favorivano il diffondersi di malattie di ogni tipo. I bagni avevano un uso esclusivamente terapeutico per il trattamento dei detenuti con problemi nervosi. Nel 1872 Delabost propose invece l’installazione di docce collettive, per lavare rapidamente un gran numero di persone con un consumo idrico ridotto.

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Quattro o cinque minuti e «sedici litri di acqua» erano sufficienti, «invece dei trecento richiesti da un bagno in vasca», scriveva il medico nei suoi rapporti. Dal carcere di Rouen questo nuovo sistema “di abluzione” si diffuse in altre istituzioni penitenziarie, senza però essere ancora disponibile per i civili. Per usufruirne bisognava «avere ucciso qualcuno, o almeno rubato», scherzava Delabost. Ma nel giro di pochi anni le docce, ormai rese obbligatorie anche all’interno degli eserciti, avrebbero iniziato l’inesorabile conquista di tutta Europa. —Josemi Lorenzo Arribas

1872 Il medico francese Merry Delabost introduce le docce collettive nella prigione di Rouen.

1884 L’esercito prussiano rende obbligatoria la doccia per i soldati. UNA DONNA SI FA UNA DOCCIA NEL 1897, ALL’EPOCA IN CUI IL DISPOSITIVO DIVENNE POPOLARE.

MARY EVANS / SCALA, FIRENZE

THE NATIONAL TRUST PHOTOLIBRARY / ALAMY / ACI

Feetham brevetta nuovi modelli di doccia sempre più avanzati.

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Beemster, il polder che stupì il mondo All’inizio del XVII secolo degli investitori olandesi fecero prosciugare il grandissimo lago di Beemster per ricavarne campi coltivabili, fattorie e lussuose residenze estive

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io creò il mondo ma l’Olanda la crearono gli olandesi», recita un vecchio detto. Senza entrare nel merito dell’affermazione, è sicuramente stata titanica la missione di costruire quella che in molti chiamano erroneamente Olanda (in realtà è solo una delle regioni storiche e attualmente rappresenta due delle dodici province dei Paesi Bassi). Un quarto dei 41.543 chilometri quadrati dello stato si estende infatti su terre strappate alle paludi, alle lagune o di-

rettamente al mare del Nord grazie a un immenso e complesso sistema di dighe e dispositivi di drenaggio. A ricordo di questa lotta contro il mare rimangono i famosi mulini a vento, una delle icone dei Paesi Bassi. Ce ne sono ancora circa mille sparsi in tutto il Paese, anche se nel XVII secolo erano molto più numerosi: solo a Zaanse Schans, a nord di Amsterdam, ne funzionavano circa seicento. I loro sofisticati meccanismi ebbero diverse applicazioni: dalla macinazione delle spezie alla produzione di olio,

carta e pigmenti fino all’azionamento di segherie, anche se la funzione principale rimase quella di aspirare milioni di litri d’acqua dalle zone sommerse per convertirne i fondali in terre coltivabili, pascoli e aree residenziali. A queste terre, in gran parte recuperate dal mare o salvate dalle inondazioni, gli olandesi diedero un nome diventato poi famoso in tutto il mondo: polder. Attraverso un’impresa durata quasi mille anni, gli abitanti del gigantesco delta del Reno, della Mosa e dello Schelda crearono più di tremila

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BRIDGEMAN / ACI

EVENTO STORICO

DUELLO CON IL MARE INTORNO ALL’ANNO MILLE prese forza il movimento di colonizzazione agricola dei Paesi Bassi, che andò in parallelo con la costruzione di un sistema di dighe a protezione delle terre strappate al mare. Ciononostante le inondazioni catastrofiche furono numerose. La pala sopra queste righe rappresenta l’inondazione del 1421 nella regione di Dordrecht, che provocò almeno duemila morti.

LA CITTÀ di Dordrecht, a sud di Rotterdam, e i suoi polder nel delta della Mosa, del Reno e dello Schelda in una mappa del 1673.

ALAMY / ACI

polder, modificando e ampliando in continuazione la geografia del loro fragile territorio. I primi polder risalgono al XII secolo quando, grazie ai mulini, iniziarono a essere prosciugate piccole zone lacustri, conche fluviali e bacini endoreici, cioè senza sbocco al mare. Sotto la spinta dell’elevata pressione demografica, e della minaccia costante di inondazione dei territori sotto il livello del mare, nei secoli successivi si continuò a guadagnare nuovi terreni. Le nuove terre, molto fertili, vennero consegnate ai contadini, che divennero così responsabili della loro manutenzione tramite comitati locali, ai quali partecipavano anche i borghesi e i nobili. Con il tempo questi comitati ottennero sempre maggiore autonomia e contribuirono alla liberazione dei contadini olandesi dalla maggior parte delle imposte reali e feudali, caso eccezionale in Europa. L’opera

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di prosciugamento fu facilitata dallo sviluppo di mulini dedicati al drenaggio delle terre, il cui uso aumentò nel XV secolo e raggiunse una piena diffusione nel XVI, permettendo l’espansione delle terre.

Un’impresa colossale Nei primi anni del XVII secolo la creazione del polder di Beemster segnò un punto di svolta nella lotta degli olandesi contro le forze della natura: con i suoi circa 7.000 ettari non solo era molto più grande di qualsiasi polder mai realizzato, ma era anche il primo strappato direttamente al mare del Nord, le cui acque superavano frequentemente il livello delle dighe distruggendo vite umane e coltivazioni. Il successo dell’operazione servì da esempio per prosciugare altri territori sia nel resto del Paese sia all’estero.

Situato tre metri e mezzo sotto il livello del mare, il lago di Beemster era il più grande del nord dell’Olanda. Il suo prosciugamento fu un’impresa dalle dimensioni colossali e richiese l’investimento di ingenti capitali. Tutti i progetti dei polder erano costosi e i loro promotori, i comuni o le chiese locali, dovevano ricorrere a prestiti forniti da una ricca classe capitalista formata da aristocratici, mercanti e contadini facoltosi. Nel caso di Beemster la sfida superava qualunque impresa precedente, però gli olandesi seppero vincerla attraverso un meccanismo Beemster di investimento del quale fu-

MAPPA DEI PAESI BASSI NEL 1701 CON LA LOCALIZZAZIONE DEL POLDER DI BEEMSTER. QUINTLOX / ALBUM

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EVENTO STORICO

MAPPA DI BEEMESTER

ALAMY / ACI

del 1658 dove si vedono la parcellizzazione in quadrati del terreno e il canale a forma di anello che circolava nel polder.

rono pionieri: la società per azioni. Non è un caso che proprio ad Amsterdam nel 1602 venne fondata quella che oggi è considerata la banca valori più antica al mondo (col permesso di quella di Anversa). Nel 1607 un gruppo di ricchi commercianti di Amsterdam e di alti funzionari dell’Aia ottennero l’auto-

rizzazione per prosciugare il lago di Beemster e destinare le terre conquistate all’agricoltura e all’allevamento. La società riuniva 123 azionisti, tra i quali Dirck van Oss, uno dei fondatori della Compagnia delle Indie Orientali e suo fratello Hendrick, il sindaco di Amsterdam. La direzione delle opere

JAN “BASSA MAREA” JAN ADRIAENSZ si conquistò il soprannome di Leeghwater, “Bassa marea” per le sue abilità nella costruzione dei polder. Oltre al polder di Beemster, tra il 1607 e il 1643 costruì anche il vicino polder di Schermer, così come quelli di Heerhugowaard, Purmer, Starnmeer e Wormer. JAN ADRIAENSZ IN UN’INCISIONE DEL 1643. ALAMY / ACI

venne affidata a Jan Adriaensz detto Leeghwater (“Bassa marea”). Leeghwater costruì 26 mulini con i quali nel 1610 riuscì a prosciugare quasi completamente il lago, ma purtroppo nello stesso anno una tempesta tornò a inondarlo. Dovette ricominciare tutto daccapo utilizzando, questa volta, 43 mulini fino a quando, due anni dopo, il lago venne completamente prosciugato.

Fattorie e palazzi Una volta bonificato, il terreno venne diviso in parcelle geometriche secondo l’ideale di bellezza del Rinascimento: furono create delle scacchiere sulle quali si disposero armonicamente campi, prati, fattorie e villaggi. La terra strappata al lago venne di-

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EVENTO STORICO

visa in rettangoli di 180 per 900 metri cosicché cinque di queste unità formavano un modulo di 900 per 900 metri; quattro moduli riuniti assieme costituivano infine una struttura superiore. Una rete di strade e canali scorreva in parallelo da nord a sud e da est a ovest, con edifici disposti lungo le vie di comunicazione. I lati corti dei lotti erano connessi attraverso canali di drenaggio e strade di accesso. Il polder venne separato dall’ambiente lacustre circostante tramite una diga e un canale a forma di anello (il Beemsterringvaart) con percorsi elevati affiancati da alberi. Le nuove parcelle, coperte da un ricco strato di argilla, risultarono estremamente fertili e vennero date in affitto ad agricoltori e allevatori mentre, per sfuggire al calore e all’aria insalubre delle grandi città, dei facoltosi mercanti ci costruirono

HANS BLOSSEY / AGE FOTOSTOCK

CANALI e mulini di Noordbeemster, uno dei municipi nati dopo la realizzazione del grande polder di Beemster nel XVII secolo.

ville e palazzi con giardini, anch’essi disegnati geometricamente. A metà del XVII secolo se ne contavano circa cinquanta.

Un grande prato Fin da subito iniziarono a spuntare sul polder le stolpboerderijen, le caratteristiche fattorie dal tetto a campana dell’Olanda settentrionale nate nel XVI secolo. Prendevano il nome dai grandi tetti piramidali sotto i quali venivano immagazzinati il grano e il fieno per tenerli il più lontano possibile dal suolo umido. Si trattava di piccole costruzioni a base quadrata, perfettamente integrate nel disegno delle parcelle, la cui parte abitabile condivideva il piano terra con la stalla. Nonostante i buoni risultati ottenuti nei primi anni, il successo di queste fattorie durò poco: la sedimentazione fece in modo che i terreni

tornassero a essere troppo umidi per coltivare i cereali. Il polder venne allora adibito all’allevamento, e i suoi prodotti venivano venduti nelle grandi città olandesi: da quel momento il formaggio di Beemster diventò famoso in tutto il Paese. La verde e nutriente erba del polder permise anche di mettere all’ingrasso mandrie di bovini provenienti dalla Germania e dalla Danimarca. Quattrocento anni dopo le terre agricole e di allevamento dominano ancora la maggior parte del polder di Beemster che, nel 1999, è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. —Joaquim M. Pujals Per saperne di più

SAGGI

La civiltà olandese del Seicento Johan Huizinga. Einaudi, Torino, 2008.

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ANIMALI NELLA STORIA

Nel 1898 per nove mesi due enormi leoni ammazzarono decine di operai impegnati nella costruzione di una ferrovia in Uganda, finché un colonnello irlandese non li uccise

L’

Uganda Railway, una linea che univa il porto di Mombasa a Kisumu, sulle sponde del lago Vittoria (entrambi nell’attuale Kenya), fu costruita dai britannici tra il 1896 e il 1901. Ben presto fu ribattezzata Lunatic Express dall’opinione pubblica britannica a causa dei costi elevati e della redditività apparentemente scarsa. Le difficoltà di costruzione si manifestarono quasi subito: terreno difficile, mancanza di manodopera (gli operai furono portati dall’India), rivolte dei lavoratori, conflitti con le etnie locali come i masai e malattie quali malaria e dissenteria.

OPERAI LUNGO L’UGANDA RAILWAY ALL’INIZIO DEL XX SECOLO.

SZPHOTO / BRIDGEMAN / ACI

Ciononostante, nessuno di questi problemi fu inaspettato quanto gli attacchi di due leoni che per nove mesi uccisero e divorarono indisturbati gli operai della ferrovia causando non pochi problemi a uno degli ingegneri, il colonnello John Henry Patterson, che alla fine riuscì ad ammazzarli. Ingegnere militare nato in Irlanda, Patterson avrebbe poi raccontato la storia nel libro I mangiatori di uomini di Tsavo (1907), «la più illustre testimonianza a nostra disposizione», come dichiarò il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt, cacciatore appassionato. Il libro avrebbe successivamente ispirato il film Spiriti

MARY EVANS / SCALA, FIRENZE

I leoni mangiatori di uomini di Tsavo

CARTELLONE PUBBLICITARIO DELL’UGANDA RAILWAY, CHE CORREVA “ATTRAVERSO LO ZOO DELLA NATURA”.

nelle tenebre, con Val Kilmer nei panni di Patterson. Nel 1898 il colonnello fu assunto dall’Uganda Railway per costruire un ponte sul fiume Tsavo. Il suo arrivo in marzo coincise con i primi attacchi dei felini. «Uno o due coolie [lavoratori indiani] sparirono misteriosamente – raccontò – e mi fu riferito che di notte i leoni li avevano trascinati fuori dalle loro tende e divorati». Inizialmente Patterson calcolò un totale di 28 indiani uccisi, «senza contare i poveri nativi africani di cui non abbiamo alcun registro ufficiale».

I demoni notturni Gli animali dimostrarono una totale mancanza di paura verso l’uomo, il fuoco o le armi. Il loro metodo di caccia era simile a quello del primo attacco descritto da Patterson: si avvicinavano a notte fonda, attraversavano i boma – recinti di arbusti spinosi che proteggevano gli accampamenti – e trascinavano fuori le vittime per divorarle. Il colonnello costruì delle trappole servendosi di esche e per varie notti montò di guardia sugli alberi. In un’occasione proibì addirittura di rimuovere il cadavere di un lavoratore e si appostò in attesa che i leoni tornassero per ricominciare il banchetto. Tutto inutile. Acquattato nel suo punto di osservazione, poteva solo sperare di sentire «più prima che poi le grida agonizzanti» della pros-

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FIELD MUSEUM LIBRARY / GETTY IMAGES

I LEONI DI TSAVO appartengono a una sottospecie più grande in cui i maschi sono privi di criniera, come si vede nell’im-

magine qui sopra, nella quale il colonnello Patterson posa accanto al cadavere di quasi tre metri del primo leone ucciso. La perdita della criniera è un adattamento all’ambiente in cui vivono, arido, caldo e coperto di arbusti spinosi. In questo modo i maschi disperdono meglio il calore ed evitano che la criniera resti impigliata nelle spine della vegetazione.

sima vittima. I leoni «sembravano avere una straordinaria e misteriosa capacità di intuire i nostri piani». Se Patterson si appostava vicino a un accampamento, l’attacco successivo aveva luogo in un rifugio più lontano. Varie teorie hanno cercato di spiegare la predilezione dei leoni di Tsavo per la carne umana: una peste bovina che aveva ridotto il numero delle prede usuali, l’abitudine di attaccare le antiche carovane di schiavi, denti infetti che rendevano difficile la caccia... Quale che fosse la ragione, per mesi i due leoni rappresentarono un incubo per l’Uganda Railway e furono la causa del ritardo nella costruzione, come

riferì in parlamento il primo ministro britannico, lord Salisbury. Dopo mesi di panico, il primo dicembre centinaia di lavoratori scapparono in massa su un treno merci, paralizzando i lavori per tre settimane. La situazione cambiò il 9 dicembre, quando Patterson, da una fragile postazione costruita sopra il cadavere di un asino che gli animali avevano attaccato all’alba, uccise il primo leone. Il felino si rivelò un gigante lungo circa tre metri dal muso alla punta della coda e furono necessari otto uomini per trasportarlo all’accampamento. Venti giorni dopo il colonnello cacciò il secondo leone, dopo averlo attirato verso i resti di

alcune capre. Ci vollero nove colpi. Patterson conservò le pelli dei due animali fino al 1924, quando in uno dei suoi viaggi negli Stati Uniti le vendette al Field Museum di Chicago, che le inserì in un plastico. Quando si visita il museo e si vedono i leoni si riesce a farsi un’idea del perché i lavoratori credevano che fossero demoni, «spiriti collerici di due capi nativi defunti che protestavano contro la costruzione della ferrovia attraverso le loro terre»: nonostante gli occhi di vetro i leoni di Tsavo fanno paura anche da morti. —Jordi Canal-Soler STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA VALLE DEI RE

LA TOMBA PIÙ BELLA Come i suoi predecessori Seti I fu sepolto nella Valle dei Re. La tomba, la prima a essere interamente decorata con splendide pitture murali, fu scoperta da Giovanni Battista Belzoni

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CAMERA FUNERARIA

Parte superiore della camera funeraria di Seti I. La parete in fondo, che dà accesso a una stanza laterale, è decorata con scene del Libro delle porte. Sul pilastro è ritratto il dio Iunmutef con una pelle di leopardo. Alla pagina precedente, Seti I con l’ureo (il cobra reale) in fronte. FOTO: ARALDO DE LUCA

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Ingresso della tomba KV17

TRAVEL PICTURES / ALAMY / ACI

LA VALLE DEI RE

La tomba di Seti I è situata tra quelle di Ramses I e Ramses X, nel wadi (letto asciutto di un torrente) della Valle dei Re.

A

ll’inizio del XIX secolo si sapeva ancora molto poco della Valle dei Re, la grande necropoli che i faraoni del Nuovo regno egizio avevano costruito nelle vicinanze della capitale, Tebe. All’epoca erano visibili solamente le entrate di 16 tombe. La situazione cambiò radi-

1817 C R O N O LO G I A

NELLA TOMBA DI SETI

1828 Jean François Champollion e Ippolito Rosellini organizzano una grande spedizione in Egitto. Tra i compiti che i due studiosi porteranno a termine c’è la copia dei testi e dei rilievi della tomba di Seti I.

L’esploratore Giovanni B. Belzoni scopre nella Valle dei Re la tomba del faraone Seti I, della XIX dinastia. Esegue delle copie dei bassorilievi e porta a Londra il sarcofago in calcite del sovrano. SCA

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calmente con l’arrivo in Egitto del celebre esploratore Giovanni Battista Belzoni. Nel 1816 il console generale britannico Henry Salt lo assunse al suo servizio nella speranza che gli procurasse nuovi pezzi per la sua collezione di antichità egizie. Belzoni esaminò la zona di Luxor e poi raggiunse Abu Simbel risalendo il Nilo, mentre raccoglieva

LA ,

FIRE

NZE

BELZONI. RECTO DI UNA MEDAGLIA. BRITISH MUSEUM.

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Mar Mediterraneo

Basso Egitto

Alto Egitto

CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

Nilo

di quelle trovate fino Giza ad allora, ed era conMenfi Saqqara vinto che si potevano al-Fayyum raggiungere grandi risultati. L’esploratore studiò attentamenBeni Hasan te la topografia della valle e in particolare Asyūt il comportamento del deflusso di acqua Abydos piovana sul terreno, in Tebe quanto poteva rivelare Valle delle aperture nascodei Re ste. Nel giro di pochi mesi trovò otto tombe, anche se solo tre di esse appartenevano a faraoni: quelle di Ay (il successore di Tutankhamon), di Ramses I e di Seti I. La più grande scoperta di Belzoni fu senza dubbio quest’ultima.

La sepoltura del faraone

un gran numero di sculture e papiri. Ma fu al ritorno a Luxor che fece le grandi scoperte che gli avrebbero assicurato un posto di rilievo nella storia dell’archeologia. Belzoni incentrò il suo interesse sulla Valle dei Re. Aveva letto gli storici Diodoro Siculo e Strabone, secondo i quali nella zona c’erano più di quaranta tombe reali, cioè molte di più

1902 In qualità di capo del Servizio reperti archeologici dell’Alto Egitto, l’archeologo Howard Carter, noto per aver scoperto la tomba di Tutankhamon, esegue i primi scavi scientifici dell’ipogeo di Seti I.

Il 10 ottobre 1817 gli uomini di Belzoni trovarono la tomba di Ramses I, la KV16. Si trattava di un sepolcro di dimensioni ridotte, lungo appena 29 metri, le cui decorazioni murali erano state gravemente danneggiate da infiltrazioni e allagamenti, ma al cui interno furono rinvenuti un sarcofago e alcuni frammenti del corredo funebre. Belzoni osservò che a pochi metri dall’ingresso del sepolcro c’era un piccolo avvallamento in cui l’acqua piovana penetrava con facilità. Il 17 ottobre ordinò di procedere allo scavo del sito. Prima della fine della giornata fu rinvenuto un blocco di pietra che sembrava indicare la presenza di una tomba. Il giorno seguente gli operai riuscirono a raggiungere l’entrata dell’ipogeo, situata a quasi sei metri

1979 Il progetto di mappatura della Valle dei Re Theban Mapping Project esegue la topografia della tomba di Seti I con grande precisione. La ripeterà tra il 1996 e il 2000.

2007

USHABTI DI SETI I IN MAIOLICA. BRITISH MUSEUM. SCALA, FIRENZE

L’egittologo Zahi Hawass sviluppa un progetto per studiare il misterioso tunnel che parte dalla camera funeraria di Seti I. Nel 2010 viene raggiunta la fine del corridoio, lungo 174 metri, che si rivela incompiuto. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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IL FARAONE COSTRUTTORE Seti I morì nel 1279 a.C., al termine di quasi undici anni di regno, durante i quali aveva consolidato la sua dinastia e rafforzato il ruolo dell’Egitto sulla scena internazionale, in Nubia e in Asia. Il faraone avviò numerosi progetti di costruzione all’interno del Paese, come il suo tempio e il suo monumento funebre ad Abido, l’ampliamento del tempio di Amon a Karnak e, naturalmente, la sua tomba, uno dei più bei monumenti nel suo genere.

RIPOSTIGLIO. Questa grande stanza serviva da magazzino. La camera funeraria aveva diversi ripostigli.

SALA DEI DISEGNI. Le pitture

di questa stanza sono rimaste incompiute, per motivi ignoti.

SALA DEI QUATTRO PILASTRI.

È la prima della tomba ed è decorata con bassorilievi policromi.

SALA DEL SARCOFAGO. Le decorazioni rappresentano scene della rinascita del dio Ra; il sarcofago si trovava in un angolo. Una scala conduce all’inizio del tunnel incompiuto.

ANTICAMERA. Precede la

camera funeraria e vi è raffigurato il faraone in compagnia di varie divinità.

CAMERA DEI SEI PILASTRI.

È la sala più grande della tomba e costituisce il primo livello della camera sepolcrale.

di profondità e ostruita dai detriti. Dopo diverse ore di lavoro apparve una splendida decorazione che prefigurava la magnificenza della tomba. Belzoni definì quello uno dei giorni più fortunati della sua vita: «Possono figurarsi la gioia, ond’io fui preso penetrando per il primo fra tutti [...] in un monumento ch’era stato perduto per gli uomini, e che da me veniva allora ritrovato così ben conservato, che si sarebbe potuto credere venisse finito poco prima della nostra entrata». Per quanto non lo sapesse ancora, aveva appena scoperto la tomba di Seti I, la prima nella Valle dei Re a essere decorata integralmente, dal corridoio iniziale fino alla camera sepolcrale. L’esploratore avanzò una cinquantina di metri all’interno dell’ipogeo, fino a raggiungere un pozzo profondo che gli

TOMBA KV17

La sepoltura di Seti I è un ipogeo, cioè una tomba sotterranea. È composta da sette corridoi e dieci camere, che si estendono per un totale di 137 m (senza contare il tunnel, che prosegue per altri 174 m). È disposta lungo un asse rettilineo, e non a gomito, com’era invece usuale sotto la dinastia precedente.

impedì di proseguire. Al di là del pozzo vi era una parete sulla quale era stato praticato un foro e da cui pendeva una corda, lasciata probabilmente dai ladri migliaia di anni prima. Dopo aver acquistato assi di legno e funi, il giorno successivo Belzoni fece ritorno alla tomba in compagnia del segretario di Salt, William Beechey. Superato il pozzo e attraversata la breccia sul muro, i due arrivarono a una stanza con quattro pilastri e riccamente adornata di dipinti parietali. Sulla sinistra c’era una grande scala che portava a un corridoio, oltre il quale la tomba sembrava proseguire: «Di mano in mano che ci inoltravamo riconoscemmo che tali pitture diventavano più perfette». Alla fine raggiunsero la camera sepolcrale, dove poterono ammirare il magnifico soffitto astronomico

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Gli uomini ne percorsero un centinaio di metri, ma il rischio di possibili frane li fece desistere dall’impresa prima che riuscissero a capire dove portasse.

Lo studio della tomba di Seti I

decorati con testi funerari.

POZZO RITUALE. Era il luogo

ILLUSTRAZIONE: WHITE STAR

in cui il faraone defunto si trasformava in Osiride.

(una rappresentazione del firmamento). La sala era circondata da varie stanze laterali, in alcune delle quali c’erano statue di legno con un foro circolare sul dorso, «certamente per riporvi papiri», anche se questi erano scomparsi ormai da secoli. Nella camera funeraria li attendeva il famoso sarcofago in calcite del faraone: «L’Europa non ricevette mai dall’Egitto un pezzo antico della stessa magnificenza», scriveva entusiasta Belzoni. Il sarcofago era vuoto e privo del coperchio, di cui Belzoni non ritrovò che pochi frammenti. Era ricoperto di geroglifici e disegni ed era talmente sottile che «ponendo il lume dietro una parete di esso appariva trasparente». Al di sotto del sarcofago c’era una scala che dalla camera sepolcrale conduceva a un lungo e misterioso corridoio sotterraneo.

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HOWARD CARTER

Questo ritratto dello scopritore della tomba di Tutankhamon fu realizzato nel 1924, due anni dopo l’impresa che lo avrebbe reso famoso nel mondo. Carter effettuò scavi scientifici nella tomba di Seti I nel 1902.

JOSÉ LULL ISTITUTO DI STUDI DEL VICINO ORIENTE ANTICO UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA

Per saperne di più

SAGGI

La Valle dei Re e la Valle delle Regine Elio Moschetti. Ananke, Torino, 2008. INTERNET

Tomb of Seti I cuicui.be (visita virtuale) BRIDGEMAN / ACI

CORRIDOI. Sono

Un anno dopo la scoperta di Belzoni una grave inondazione danneggiò la tomba, ormai priva della protezione dei detriti che in precedenza ne ostruivano l’entrata. Per risolvere il problema, nel 1825 James Burton portò a termine la costruzione dei muretti che era stata iniziata dallo stesso Belzoni. Tra il 1828 e il 1829 la spedizione franco-toscana di Champollion e Rosellini copiò i testi e le immagini dalla tomba, e tra il 1902 e il 1903 Howard Carter eseguì al suo interno dei lavori di consolidamento, imitato da Barsanti dieci anni più tardi. Negli anni venti Harry Burton fotografò l’intera decorazione dell’ipogeo, e le sue immagini hanno in seguito costituito la base del lavoro di Erik Hornung, che nel 1991 ne ha trascritto tutti i testi funebri. Dal 1978 il Theban Mapping Project sta portando avanti una sistematica attività di mappatura nella Valle dei Re; la topografia della tomba di Seti I è stata eseguita con grande precisione nel 1979 e poi ripetuta tra il 1996 e il 2000. Da parte sua, l’American Research Center in Egitto ha effettuato dei lavori di conservazione e restauro che hanno permesso di riportare alla luce i vivaci colori originali dei bassorilievi dipinti. L’ultimo intervento archeologico sulla tomba è stato realizzato dal famoso egittologo Zahi Hawass tra il 2007 e il 2010, ed è servito a risolvere l’enigma del tunnel trovato da Belzoni nella camera sepolcrale.

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SPECIALE / L A TOMBA DI SETI I

1

L’ INGRESSO E I PRIMI CORRIDOI

LA TOMBA KV17 è formata da una serie di cunicoli

2 3

4

RAMSES VII FARAONE XVIII DINASTIA FARAONE XIX DINASTIA FARAONE XX DINASTIA

1

MERNEPTAH

YUYA E TUYA

RAMSES IV RAMSES II

HOREMHEB

FIGLI DI RAMSES III

RAMSES XI USERHAT FIGLI DI RAMSES II

TIY O AKHENATON RAMSES IX TUTANKHAMON RAMSES I

RAMSES V E RAMSES VI

RAMSES X

AMENEMIPET

SITRA-IN

MONTUHERKHEPSHEF

AMENMESSE

SETI I (KV17)

AMENOFI II MAIHERPRI BAY

4 5

TAUSERT Y SETHNAKHT

TIA’A

THUTMOSIE I E HATSHEPSUT

HATSHEPSUT-MERYET-RA THUTMOSE III

THUTMOSE I SETI II

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RAMSES III

THUTMOSE IV

EOSGIS.COM

e camere che scendono fino alla sala del sarcofago. Tutti questi spazi rappresentano l’attraversamento dell’oltretomba che il defunto compie in compagnia del Sole (il dio Ra) dopo il tramonto, durante le dodici ore della notte, come descritto nell’Amduat o Libro della camera nascosta. Nel corso del viaggio Ra (o il faraone defunto) affronta vari pericoli, che supera grazie ai testi magici inscritti sulle pareti. Le decorazioni rievocano le tappe di questa traversata notturna. Al termine del primo tratto di scale 1 si susseguono tre corridoi che conducono alla cosiddetta sala del pozzo. Nel primo corridoio 2 è raffigurato il sovrano che saluta il dio Ra-Horakhty (una divinità nata dalla fusione di Ra e Horus) e sono riportati i testi delle Litanie di Ra, una raccolta di invocazioni e preghiere rivolte al dio solare. Sul soffitto compaiono degli avvoltoi con le ali spiegate – che rappresentano la dea Nekhbet – su uno sfondo stellato. Il secondo corridoio 3 è decorato con immagini delle Litanie che illustrano le 75 forme di Ra. Più avanti è raffigurata la terza ora dell’Amduat. In fondo al corridoio appaiono il dio dalla testa di cane Anubi e le dee Iside, sulla parete sinistra, e Nefti, su quella destra. Nel terzo corridoio 4 si trovano la quarta e la quinta ora di Amduat, rispettivamente sulla destra e sulla sinistra. Nella sala del pozzo il sovrano viene ricevuto da diverse divinità 5.

SIPTAH

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ARALDO DE LUCA ALAMY / ACI

Ingresso della tomba di Seti I nella Valle dei Re.

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4 LA RINASCITA DI RA 1

Alcune composizioni religiose dell’ipogeo sono incentrate sul viaggio nell’oltretomba del dio solare Ra e dei suoi accompagnatori. Lungo il cammino la divinità affronta ogni notte nuovi ostacoli. Nell’Amduat il percorso notturno del sole è suddiviso in dodici ore. Qui sopra vediamo le scene corrispondenti alla quarta ora, quando l’astro è trascinato nella sabbia dai «percorsi misteriosi di Rostau» fino alla «caverna di Sokar». Alla settima ora viene sconfitto il serpente malvagio Apopi, e alla dodicesima il sole notturno si dirige verso est, dove risorge sotto forma di coleottero (Khepri), completando così il ciclo di rigenerazione e nascita.

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SPECIALE / L A TOMBA DI SETI I

2

L A SAL A DEI QUAT TRO PIL ASTRI

SULLE PARETI DELLA SALA DEI QUATTRO PILASTRI

1 si trovano varie scene del Libro delle porte, un

testo funerario raffigurato per la prima volta nella camera sepolcrale della tomba di Horemheb, l’ultimo sovrano della XVIII dinastia. Questo scritto narra del viaggio del defunto attraverso l’oltretomba e ogni ora della notte è associata a una porta presieduta da una divinità. La quinta e la sesta ora sono raffigurate rispettivamente sulla parete sinistra e destra della stanza. Su ogni lato dei quattro pilastri appare Seti I in compagnia di un dio; per esempio, sul primo pilastro è accanto a Harsiesi (la rappresentazione di Horus in quanto figlio di Iside) 2 e a Ptah 3. Il soffitto presenta una decorazione a stelle. Sul fondo si trova la scena del «sepolcro di Osiride» 4 in cui il faraone, accompagnato da Horus, viene ricevuto da Osiride e dalla dea dell’Ovest. Questa pittura segna un cambiamento nella simbologia presente nella tomba: se nei corridoi iniziali i temi sono di natura solare, a partire da qui assumono invece delle connotazioni ctonie (legate cioè all’oltretomba) e osiriache (connesse al rito funebre e al giudizio delle anime). Dal punto di vista architettonico, la suddivisione si riflette nello sdoppiamento dell’asse della tomba. Una porta sulla destra conduce alla sala dei due pilastri, con decorazioni incompiute 5; sulla sinistra c’è una scala che va ai livelli inferiori 6.

4

5 1 6

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ARALDO DE LUCA

5 PITTURE INCOMPIUTE

3

ARALDO DE LUCA

2

Le decorazioni della sala dei due pilastri sono realizzate in inchiostro nero su intonaco bianco, senza policromie né rilievi. La stanza fu battezzata da Belzoni «sala dei disegni». Vi sono raffigurate la nona, la decima e l’undicesima ora dell’Amduat, mentre su ognuno dei due pilastri è ritratto il faraone in compagnia di una divinità. In questo caso, la dea dell’ordine e della giustizia Maat, che offre a Seti I un ankh, simbolo della rinascita.

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SPECIALE / L A TOMBA DI SETI I

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I CORRIDOI CHE PORTANO ALL’ANTICAMERA LA SCALA che parte dal lato sinistro della sala dei quattro pilastri 1 conduce a un nuovo corridoio 2, sui cui muri è raffigurato Seti I davanti a una tavola di offerte. Sulla parete sinistra si trovano una successione di testi e immagini legati al rituale dell’apertura della bocca, una cerimonia in cui si pronunciavano una serie di formule che permettevano al defunto di recuperare le facoltà di un essere vivente; la raffigurazione di questo rito è una novità che caratterizza l’ipogeo di Seti I e non è presente nelle altre tombe della Valle dei Re. Sulla parete destra compaiono scene della Litania dell’Occhio di Horus, un altro testo funebre dell’epoca, insieme a una lista di offerte. Il corridoio successivo inizia con una serie di scalini su cui sono raffigurati dei serpenti alati protettori 3. Come nel caso della zona precedente, le pareti sono decorate con scene della cerimonia dell’apertura della bocca e della Litania dell’Occhio di Horus. Segue l’anticamera 4, dove spiccano il soffitto stellato e le pareti con la raffigurazione del re davanti a varie divinità, sormontata da un fregio kheker. La policromia di questa sala fu gravemente danneggiata da Belzoni, che ne copiò i rilievi tramite degli stampi in cera che rovinarono i colori originali.

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Precede la camera funeraria ed è decorata con eleganti bassorilievi del faraone in compagnia di varie divinità. In questa foto Seti I è con Iside e Anubi.

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4 L’ANTICAMERA

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DENTRO LA CAMERA FUNERARIA

A PARTIRE DALLA TOMBA DI AMENOFI II, che aveva governato l’Egitto più di un secolo prima, tutte le camere funerarie della Valle dei Re sono disposte su due livelli. Nel caso dell’ipogeo di Seti, al livello superiore 1 della sala ci sono sei pilastri, su cui è rappresentato il faraone accanto a qualche divinità (Geb, Ptah-Sokar, Anubi, Thot, Osiride, Shu, Ra-Horakhty) o ad altre figure (come Iunmutef o le anime di Buto e Nekhen), oppure con un amuleto. Sulle pareti si trovano scene della seconda, della terza e della quarta ora del Libro delle porte. Nella parte inferiore della camera sepolcrale 2 erano probabilmente situate le cappelle e le bare del faraone. È qui che Belzoni rinvenne il sarcofago di calcite. Le pareti della stanza sono decorate con la prima, la seconda e la terza ora dell’Amduat; le scene della prima ora sono dominate da una raffigurazione della dea Iside alata 3. In questo livello inferiore si trova anche la cosiddetta “nicchia di Osiride” 4, che rappresenta Osiride Khentimentiu sottoposto al rituale dell’apertura della bocca da parte di Anubi, dio della mummificazione. Il soffitto astronomico della camera 5 raggiunge i sei metri di altezza e costituisce una novità architettonica nella Valle dei Re, per la sua forma a cupola che simboleggia la volta celeste. Al centro della stanza c’è una scala 6 che conduce all’inizio di un lungo tunnel.

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CAMERA FUNERARIA Sulla sinistra si può vedere la sala dei sei pilastri, che precede la stanza in cui si trovava il sarcofago. Quest’ultima è decorata con un magnifico soffitto astronomico. In primo piano c’è la scala che conduce all’ingresso del tunnel.

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IL SARCOFAGO DI SETI I Il sarcofago di calcite traslucida ritrovato da Giovanni Battista Belzoni fu portato in Inghilterra nel 1821 a bordo dell’HMS Diana. Henry Salt voleva venderlo al British Museum, ma le 2.000 sterline da lui richieste furono considerate eccessive. Nel 1824 fu acquistato da sir John Soane, che ne fece il pezzo più prezioso della sua collezione. Il sarcofago è decorato con scene del Libro delle porte. Sulla base compaiono un’immagine della dea del cielo Nut e i capitoli 72 e 89 del Libro dei morti.

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Mummia di Seti I. Fu scoperta nel 1881 nel nascondiglio di Deir el-Bahari, in buone condizioni. Oggi è conservata al Museo egizio del Cairo. ARALDO DE LUCA

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SO F F I T TO A S T RO N O M I CO La zona della camera funeraria in cui era situato il sarcofago del faraone è coperta da una volta che simboleggia il firmamento. La decorazione su sfondo blu è costituita da liste di pianeti, decani (serie di stelle utilizzate per conteggiare le ore notturne) e costellazioni meridionali e settentrionali.

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STANZE LATERALI DELL A CAMERA FUNERARIA NELLA PARTE SUPERIORE della camera sepolcrale

si trovano due piccole stanze laterali. Quella di sinistra 1 è decorata con la quarta ora del Libro delle porte, mentre quella di destra 2 con scene del Libro della vacca celeste, che illustrano la creazione della volta celeste da parte della dea Nut, sostenuta da altre divinità. Anche al livello inferiore ci sono due stanze laterali. La più grande, sulla sinistra 3, ha due pilastri sui quali sono raffigurate delle immagini singole, come Osiride Seti I (il faraone defunto associato al dio Osiride) e Osiride tra gli imiut (dei simboli funerari costituiti da una pelle di animale). Le pareti sono decorate con la sesta, la settima e l’ottava ora dell’Amduat. La stanza di destra, di dimensioni minori, è collegata a Osiride. Nell’angolo sinistro della parete di fondo c’è una porta che dà su una grande stanza 4 sostenuta da quattro pilastri non decorati. Qui Belzoni trovò la mummia di un toro e numerosi ushabti, le statuine in legno e maiolica che, secondo la credenza egizia, lavoravano al posto del defunto nell’oltretomba.

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Questa stanza laterale è decorata con una raffigurazione della dea celeste Nut con sembianze di vacca, sorretta da varie divinità.

Accesso al tunnel

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Sul pilastro qui sopra è raffigurato il dio Osiride (sovrano dell’oltretomba) in trono, con la corona atef sul capo. Ha in mano un pilastro djed e un flagello, simbolo della regalità.

ENIGMA RISOLTO Dalla camera funeraria di Seti I scende una scala che conduce a un lungo e misterioso corridoio. Nel 1817 Belzoni riuscì a percorrerne un centinaio di metri; nel 1960 Ali Abd el-Rassul avanzò di un’altra trentina di metri, ma poi fu anch’egli costretto a desistere. Nel 2007 una squadra guidata da Zahi Hawass si è proposta di raggiungere la fine del tunnel per verificare se esisteva qualche camera sepolcrale segreta, ma dopo tre anni di duro lavoro si è scoperto che i 174 metri del tunnel si interrompono bruscamente. Qual era dunque la sua funzione? Si trattava forse di una tomba simbolica del dio Osiride?

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3 STANZA LATERALE

Tunnel incompiuto. È lungo 174 metri e parte dalla camera funeraria. THEBAN MAPPING PROJECT

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IL POTERE DEL RE DEI RE

In questo piatto d’argento dorato un re sasanide, sul dorso di un cammello fastosamente bardato, caccia dei cervi con un arco. Metropolitan Museum, New York. A destra, una scodella incastonata di pietre preziose, al cui centro compare un re sul trono. Bibliothèque Nationale, Parigi. SINISTRA: MMA / RMN-GRAND PALAIS. DESTRA: BNF / RMN-GRAND PALAIS

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I R E D E I R E D E L L’ I R A N

L’IMPERO SASANIDE Dopo aver sconfitto l’ultimo re dei parti, Artabano V, il nobile Ardashı̄r diventò il primo re di una nuova dinastia, quella dei sasanidi. I quattro secoli di splendore dell’impero sasanide finirono di colpo con l’invasione araba

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MA R NERO Sinope

lcuni imperi nascono sulle rovine di altri. Il dominio sasanide nacque sull’altopiano iraniano intorno al 224 d.C. con la sconfitta dell’ultimo sovrano dell’impero partico, Artabano V, per mano dell’allora sconosciuto Ardashı̄r I. Il fondatore della dinastia – il cui nome proviene da Sāsān, il nonno di Ardashı̄r – fu figlio di Pāpak, un capo locale che unificò gran

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quando il re Sapore I – Shāhpūr in persiano medio – tenne in scacco l’intero impero nella famosa battaglia di Edessa (verso il 260), in cui fece prigioniero l’imperatore romano Valeriano. E proprio uno dei rilievi di Naqsh-i Rustam rappresenta Valeriano in ginocchio davanti al vincitore, il Re dei Re.

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Gerusalemme

Una società multiculturale

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CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

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Nell’impero sasanide la società era organizzata in modo gerarchico. Alla sommità si trovava il sovrano, che delegava le mansioni di governo a una sorta di primo ministro, dal grande potere. I consigli, o ministeri, e i governi delle province completavano la burocrazia, che garantiva il funzionamento dello stato. Sotto vi erano quattro classi, in ordine decrescente di prestigio: i sacerdoti (āsrōvān), i guerrieri (artēshtārān), i contadini e allevatori (vāstaryōshān) e gli artigiani (hutukhshān). I membri della corte – composta da parenti del re, altri nobili e notabili del regno, i quali ricoprivano le cariche di una complessa amministrazione – provenivano soprattutto dai primi due ceti, e in particolar modo dall’aristocrazia mili-

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parte della provincia di Fārs. I re sasanidi diedero sempre risalto al legame con questa provincia, così da sottolineare il forte vincolo tra la loro stirpe e quella dei re achemenidi, sovrani dell’Iran, il cui impero fu tra i più importanti dell’antichità. Come questi ultimi, i sovrani sasanidi adottarono il titolo di Re dei Re (šāhanšāh). Per questo aggiunsero nuovi rilievi in loro onore a Naqsh-i Rustam, necropoli reale dell’antico impero achemenide, non solo per legittimarsi rispetto ai governi precedenti, che consideravano invasori, ma soprattutto per recuperare un passato glorioso di cui si sentivano eredi. L’espansione militare sasanide mirava al controllo di un territorio vasto quanto quello degli achemenidi. Ovviamente ciò causò spesso relazioni tese con i vicini, soprattutto con romani, armeni, unni eftaliti (conosciuti come “unni bianchi”) e arabi: ne seguirono numerose guerre e rivolte dalle quali non sempre i sasanidi uscirono vittoriosi. Eppure rappresentarono una delle più terribili minacce per l’espansione territoriale dell’impero romano e per le sue strutture di potere. Ne fu una chiara dimostrazione

IMPERO BIZ A N TINO

C R O N O LO G I A

GLI ULTIMI RE DELLA PERSIA AKG / A

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260 CIRCA

Ardashı̄r vince l’ultimo re dei parti, Artabano V, e inaugura la monarchia sasanide, l’ultima dinastia di re persiani.

Nella battaglia di Edessa Sapore I fa prigioniero l’imperatore Valeriano, che si pensa sia stato giustiziato crudelmente.

TESTA DI CAVALLO IN ARGENTO E DORATA, PROVENIENTE DA KERMAN, VI SECOLO.

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Diffusione della dottrina manichea grazie a Mānı̄, che verrà torturato e condannato a morte dal re sasanide Cosroe I.

Yazdgird I si apre alla tolleranza religiosa e interrompe le persecuzioni dei cristiani. Firma la pace con i romani.

Gli eserciti arabi conquistano Ctesifonte, la capitale amministrativa dell’impero sasanide, dopo la battaglia di al-Qādisiyya.

L’ultimo re sasanide, Yazdgird III, fugge dagli invasori arabi ed è ucciso a Merv. Il figlio si trasferisce in India.

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LA CAPITALE IMPERIALE

Ctesifonte, capitale del regno partico, fu anche la sede della nuova dinastia sasanide. Nell’immagine, rovine del palazzo reale. RILIEVO A TAQ-I BOSTAN

AKG / ALBUM

persiano o pahlavi, una lingua imparentata sia con l’antico persiano – la lingua dei re achemenidi – sia con il moderno persiano, e potenziarono l’impiego della lingua materna non solo a corte, nell’amministrazione, nelle leggi e nel conio delle monete, ma anche in ambito letterario e religioso. Tuttavia, la poliedrica popolazione dell’impero parlava pure altre lingue iraniche, quali il partico, il battriano, il sogdiano, il corasmiano o chvarezmio, così come le lingue di diversi ceppi linguistici.

Zoroastrismo, la religione dei re La diversità regnava anche in ambito religioso. I re e la maggior parte dell’élite dominante professavano lo zoroastrismo, il cui nome viene da Zoroastro (adattamento greco della parola avestica Zarathustra), considerato dai credenti come il profeta. Il dio principale è il dio della saggezza (Ahura Mazdā in avestico, Ōhrmazd in pahlavi), creatore del mondo e delle sue creature, e ha come antagonista principale lo spirito del male (Angra Mainyu

ERIC LAFFORGUE / ALAMY / ACI

tare, e vivevano in un ambiente lussuoso e sofisticato, che raggiunse uno splendore leggendario durante il regno di Cosroe I (Khusraw I), tra il 531 e il 579. Spesso crediamo che le culture antiche siano uniformi: niente di più lontano dalla realtà. La società sasanide era plurilingue, multietnica e multireligiosa, come ci si potrebbe immaginare in un territorio così esteso quale quello controllato dai loro re. I sasanidi dominavano gran parte della Via della Seta, dettaglio che gli garantiva introiti immensi, ma per questo dovevano salvaguardare la sicurezza dei cammini. Carovane con ogni sorta di prodotti e persone provenienti da Cina, Asia centrale, India, Penisola arabica, Egitto, Mediterraneo orientale, Caucaso, Grecia o Roma attraversavano la regione sasanide tramite una complessa rete di comunicazioni. Le élite sasanidi parlavano il medio

Il rilievo nella roccia mostra il re Cosroe II assieme agli dei Ahura Mazdā e Anāhitā e, sotto, sul suo cavallo favorito, Shabdiz.

Il re sasanide Sapore I annientò Roma nella battaglia di Edessa LOREMUS

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SAPORE I E L’IMPERATORE VALERIANO. CAMEO. III SECOLO, BIBLIOTHÈQUE NATIONALE, PARIGI.

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ALTARI DEL FUOCO

in avestico, Ahriman in pahlavi). Tuttavia, lo zoroastrismo non è una religione monoteista. Dall’antichità i suoi fedeli hanno venerato altri dei immateriali e materiali, associati soprattutto a elementi naturali come il fuoco, le stelle, la terra, l’acqua, i metalli e le piante. Non dimentichiamo che Sāsān, eponimo della dinastia sasanide, fu sacerdote della dea delle acque Anāhitā nel tempio di Istakhr, a Fārs. Lo zoroastrismo fu la religione principale dell’epoca sasanide, ma non l’unica a diffondersi nell’impero. Comunità sempre più numerose di ebrei, cristiani, manichei, mandei e buddisti convivevano grazie a una politica di tolleranza religiosa, nonostante persecuzioni mirate di alcune autorità zoroastriane che temevano di perdere il potere a corte.

Per esempio, il Talmud, uno dei più importanti testi del giudaismo rabbinico, fu redatto nelle versioni di Gerusalemme e di Babilonia durante la dominazione sasanide. Non solo: il massimo rappresentante della Chiesa orientale cristiana – che nella variante nestoriana si separò dall’occidentale nel V secolo – risiedeva a Ctesifonte sotto la protezione del re sasanide. Ciononostante, alcuni sovrani cercarono di imporre lo zoroastrismo quale religione ufficiale nelle zone ribelli a maggioranza cristiana, come per esempio in Armenia e Georgia, per paura che i re vicini, convertitisi al cristianesimo, li attraessero nella loro orbita. Sempre in quel periodo il manicheismo si espanse sino ai confini dell’Asia, malgrado la condanna a morte del profeta e fondatore Mānı̄, tra il 274 e il 277, durante il regno di Wahrām I. Mānı̄ compose in pahlavi lo Shāhpuhrāgan, compendio della dottrina manichea, e lo dedicò al re sasanide Sapore I (Shāhpuhr, 240-270 circa), causando risentimento nel clero zoroastriano. Il sacerdote

1. MMA / RMN-GRAND PALAIS. 2. BRITISH MUSEUM / RMN-GRAND PALAIS. 3. BRIDGEMAN / ACI. 4. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

PAUL ALMASY / GETTY IMAGES

Nella necropoli achemenide di Naqsh-i Rustam vengono alzati piccoli altari dedicati al culto zoroastriano, come quelli nella foto.

I sasanidi optarono per una politica di tolleranza religiosa RM

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BROCCA CON UNA BALLERINA, IN ARGENTO E ARGENTO DORATO. SECOLI V-VI. MUSÉE DU LOUVRE.

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IL SOVRANO SASANIDE COME SIGNORE DELLA CACCIA

A esibizione del loro potere, i re sasanidi avevano l’abitudine di regalare ai capi alleati eleganti piatti di portata e ciotole in argento. In essi è rappresentato il monarca intento a cacciare o a lottare con bestie selvatiche. Qui possiamo vedere un re a cavallo che caccia dei montoni 1, un altro a dorso di cervo che lo trafigge con una spada 2, un terzo sovrano che schiaccia un leone da lui ucciso e ne solleva due, trionfante 3, e un altro colto nel momento in cui uccide un leone 4.

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PEZZI: 1. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK. 2, 3 E 4. BRITISH MUSEUM, LONDRA

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NAQSH-I RUSTAM

Ubicata a circa dodici chilometri da Persepoli, la necropoli di Naqsh-i Rustam ospita le tombe di quattro sovrani achemenidi: Dario I, Serse I, Artaserse I e Dario II. Dal canto loro, i sovrani sasanidi fecero scolpire sulla parte inferiore delle sepolture dei predecessori grandi rilievi commemorativi delle rispettive gesta. È il caso di Sapore I mentre sconfigge l’imperatore romano Valeriano, che compare in ginocchio ai piedi del Re dei Re. Vengono rappresentate pure le conquiste compiute da Hormuz II e da Wahrām II, e l’incoronazione di Ardashı̄r I, fondatore della dinastia, da parte del dio Ahura Mazdā.

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SURA ARK / GETTY IMAGES

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COSROE II IL VITTORIOSO

La pittura decorava un palazzo reale di Esfahan in epoca safawide, durante la quale era tenuto vivo il ricordo dell’impero sasanide. GLI SCACCHI

KURWENAL / ALBUM

Il crollo dell’impero Alla fine del V secolo il sacerdote zoroastriano Mazdak promosse una riforma religiosa e sociale che scatenò una grave crisi nell’impero. Con l’appoggio iniziale del re Kawādh I, Mazdak avviò la spartizione comune della ricchezza e, soprattutto, della produzione agricola tra i lavoratori dei campi, con la convinzione che nessuno doveva possedere più del necessario. Nella sua organizzazione, i figli diventavano responsabilità di tutta la comunità e perfino le donne erano condivise, come biasimavano gli esponenti del conservatore clero zoroastriano. La riforma di Mazdak fu un palese attacco sia al potere delle élite aristocratiche, che si accaparravano possedimenti e donne, sia a diverse autorità religiose dell’epoca, che temevano il mazdachismo per quel pericoloso “libero amore”. La risposta a questa prima forma storica di comunismo non si fece attendere: nel 496 i nobili e il clero deposero il re Kawādh I, che poté tornare sul trono grazie all’aiuto straniero e solo dopo aver sconfessato quelle idee. Fu il figlio Cosroe I

che, prima di succedere al padre, sterminò Mazdak e i suoi seguaci. Nel 636, dopo la vittoria nella battaglia di al-Qādisiyya, gli arabi, latori della nuova religione musulmana, conquistarono Ctesifonte, capitale amministrativa dell’impero sasanide. Negli anni seguenti caddero pure altre regioni. Il crollo dell’impero culminò nel 651 con la sconfitta del re Yazdgird III, ultimo della sua dinastia, che, dopo la fuga, venne assassinato a Merv, nell’attuale Turkmenistan. Gli arabi sono passati alla storia come gli annientatori dell’impero sasanide, ma anche come i suoi eredi, dal momento che ne hanno trasmesso il sapere. Non dimentichiamo che nella letteratura, nell’architettura, nei giardini e nelle arti plastiche e tessili del periodo islamico rimangono elementi del mondo sasanide, senz’ombra di dubbio una delle culture più affascinanti e sofisticate della tarda antichità. MIGUEL ÁNGEL ANDRÉS TOLEDO UNIVERSITÀ DI SALAMANCA

Per saperne di più

SAGGI

L’impero persiano Federico A. Arborio Mella. Mursia, Milano, 2003. La monarchia sasanide tra storia e mito Andrea Gariboldi. Mimesis, Milano, 2011.

BRITISH LIBRARY / BRIDGEMAN / ACI

zoroastriano Kartir fu il principale istigatore della condanna a morte di Mānı̄ e della persecuzione dei suoi seguaci e di altre minoranze religiose.

La miniatura a destra immortala il momento in cui viene presentato al re Cosroe I il gioco degli scacchi. 1614. British Library, Londra.

52 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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DALL’INDIA ALLA PERSIA

GLI SCACCHI CONQUISTANO I PERSIANI Gli scacchi, un gioco di origine indiana, furono importati in Iran durante il dominio sasanide. Secondo il testo pahlavi Spiegazione degli scacchi e invenzione del nard, il re indiano Dewisharm mandò il gioco al re sasanide Cosroe I a condizione che, se non fosse stato capace di decifrarne il significato, avrebbe dovuto pagargli un tributo. Il saggio sasanide Wuzurgmihr ı̄ Bōkhtagān riuscì a capirlo e mandò a sua volta il nard, corrispondente all’attuale backgammon, a Dewisharm che, invece, fu incapace di decifrarlo e si vide costretto a pagare il tributo al re sasanide. La parola “scacchi” proviene dal provenzale escac, che a sua volta deriva dal persiano šāh ‘re’. In pahlavi corrispondeva al termine catrang, “di quattro membri”, con cui nell’antica India era indicato un esercito formato dalla fanteria (pedoni), cavalleria, elefanti (alfieri) e carri (torri). Parte della terminologia degli scacchi deriva, infatti, dal pahlavi. Per esempio, “alfiere”, proviene dall’arabo al-fil, che a sua volta deriva dal pahlavi pil, “elefante”, e “scacco matto” viene dal pahlavi šāh mat, “re morto”.

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CORONE PER IL RE DEI RE

C’

è chi cambia abito. I re sasanidi, invece, cambiavano corona. Come dimostrano i rilievi e soprattutto la numismatica sasanide, ogni re era solito usare una o più corone diverse da quelle dei suoi predecessori, mettendo così in risalto il proprio carattere.

Le corone erano considerate il simbolo più importante della regalità ed erano decorate con motivi diversi, che spesso rappresentavano divinità zoroastriane. Così, per esempio, Wahrām I (271-274) incluse nella propria corona i raggi solari, simbolo del dio Mitra o Mihr; Wahrām II (276-293) le ali di un corvo, che rappresentavano il dio della guerra Verethragna o Wahrām, da cui prendeva il nome lo stesso re. Le corone sasanidi divennero di una tale complessità e avevano una decorazione talmente lussuosa e carica che i re non riuscivano a portarle sulla testa.

Secondo alcune fonti, proprio per la loro pesantezza erano appese a catene d’oro sul trono, sul luogo della residenza temporale del monarca o perfino sul letto di morte. L’usanza sasanide di sospendere le corone fu poi ripresa dai re bizantini, e annessa come parte del cerimoniale di corte.

TESTE CORONATE

1. Hormuz I (272-273) compare a torso nudo mentre regge un tridente. 2. Wahrām I (273-276) porta una corona di raggi, legata al dio Mitra. British Museum. 3. Wahrām II (274-296) compare nella moneta assieme ad altri personaggi. British Museum. 4. Hormuz II, pettinato con korymbos, una sorta di chignon circolare. British Museum. 5. Cosroe II (591-628) porta una corona con ali, una mezzaluna e una stella. British Museum.

1.

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IN ALTO A SINISTRA. RMN-GRAN PALAIS. IN ALTO A DESTRA. BRIDGEMAN / ACI. 1. AKG / ALBUM. 2, 3, 4 E 5. RMN-GRAND PALAIS

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RE SASANIDE

SAPORE II

In questa scultura in bronzo, conservata presso il Louvre, un re sasanide non ben identificato indossa una corona con ali di corvo, simbolo del dio della guerra Verethragna.

La mezzaluna, introdotta da Yazdgird I, compare nella corona di Sapore II assieme ai merli, legati al dio Ahura Mazdā. Statua in argento e oro.

3.

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5.

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MACCHINA DA GUERRA

In questo rilievo del V secolo a.C. è raffigurata una trireme, l’imbarcazione da guerra più apprezzata nell’antichità. Museo dell’Acropoli, Atene. WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

LA BATTAGLIA DELLE

ARGINUSE A M A R O T R I O N F O A D AT E N E

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Verso la fine della Guerra del Peloponneso gli ateniesi sconfissero Sparta in un’importante battaglia navale, ma i generali artefici della vittoria furono condannati a morte al loro rientro ad Atene

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MARK SONGHURST / ALAMY / ACI

SCONTRO TRA POTENZE

Nel V secolo a.C. Atene, Sparta e l’impero persiano furono protagonisti di un lungo scontro per l’egemonia sull’Egeo. Sopra, Lesbo vista dal tempio di Atena ad Asso.

C R O N O LO G I A

GUERRE TRA GRECI

I

ntorno al luglio del 406 a.C., in un minuscolo arcipelago di fronte alle coste dell’Asia Minore si svolse la più imponente battaglia navale della Guerra del Peloponneso. Sparta e Atene erano coinvolte da circa 25 anni in un sanguinoso scontro, che si era esteso a tutto il mondo greco. All’inizio del conflitto Sparta si era concentrata sulle operazioni di terra, approfittando dell’indiscussa superiorità della propria fanteria. Dal canto suo, Atene dominava i mari fin dalla vittoria contro i persiani del 480 a.C. Tuttavia negli ultimi tempi le parti si erano inver-

tite. Gli spartani avevano compreso che per vincere dovevano potenziare le proprie capacità marittime. Per questo motivo si erano rivolti all’impero persiano, tradizionale nemico dei greci, da cui avevano ricevuto aiuti economici per armare nuove triremi e reclutare migliaia di vogatori. Grazie a questa nuova forza navale e ai temibili opliti, praticamente imbattibili a terra, i lacedemoni speravano di poter chiudere rapidamente la partita.

431 a.C.

421-414 a.C.

Inizia la Guerra del Peloponneso, che vede di fronte due fazioni: la Lega delio-attica, guidata dalla città di Atene, e la Lega del Peloponneso, capeggiata invece da Sparta.

Dopo dieci anni di conflitto, Atene e Sparta firmano la pace di Nicia. Sette anni dopo Atene lancia una campagna per conquistare la Sicilia, che si conclude in una disastrosa sconfitta e provoca la ripresa della guerra.

FANTERIA. SCULTURA DI UN OPLITA GRECO. BRITISH MUSEUM, LONDRA. PRISMA / ALBUM 58 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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concittadini che, se non gli avessero inviato dei rinforzi, la guerra poteva considerarsi finita. Una delle due navi riuscì a eludere il blocco lacedemone e a recapitare il messaggio. In quella situazione disperata gli ateniesi fecero un grande sforzo collettivo. Nei porti restavano poco più di trenta triremi, ma in meno di un mese il governo cittadino approvò e portò a termine la costruzione di un’ottantina di nuove navi, finanziate fondendo le statue dorate della Nike (la personificazione della vittoria) situate nell’Acropoli. Il comando della flotta di soccorso fu assegnato a otto dei dieci

406 a.C.

405 a.C.

404 a.C.

Gli ateniesi sconfiggono la flotta di Sparta nella Battaglia delle Arginuse, ma rovinano tale successo condannando a morte i generali vittoriosi per non aver soccorso i superstiti.

Battaglia di Egospotami. Lo spartano Lisandro sorprende a terra la flotta ateniese e la distrugge quasi integralmente. Sotto assedio e senza più navi, alla fine Atene capitola di fronte ai suoi storici avversari.

Sparta impone ad Atene il governo dei trenta tiranni, che promuove una sanguinosa epurazione. Un anno dopo l’oligarchia viene sconfitta e nella città attica viene restaurata la democrazia.

DA NEMICO AD ALLEATO

Per contrastare la superiorità navale degli ateniesi, Sparta si rivolse all’impero persiano, suo antico avversario. Sotto, una moneta persiana. Fábrica Nacional de Moneda y Timbre, Madrid.

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Nel 406 a.C. Callicratida assunse il comando della flotta spartana in sostituzione del grande generale Lisandro. Sebbene non avesse esperienza e guardasse con sospetto all’ingerenza persiana, alla sua prima battaglia il nuovo ammiraglio riuscì a sconfiggere Conone, il miglior generale ateniese dell’epoca. Nel combattimento questi perse trenta navi e fu costretto a rifugiarsi con le restanti quaranta nel porto di Mitilene, presso l’isola di Lesbo, dove fu bloccato dalle imbarcazioni spartane. Conone decise allora di inviare ad Atene due triremi per comunicare ai suoi

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MANOVRE NAVALI questo disegno mostra alcune triremi durante una battaglia navale, con una manciata di uomini armati sul ponte. La maggior parte delle vittime erano causate dagli speronamenti dei rostri nemici: i membri dell’equipaggio cadevano in acqua e venivano arpionati senza pietà.

LA DURA VITA DEI VOGATORI

L’illustrazione qui sopra ricostruisce la distribuzione di cibo ai rematori di una trireme greca. L’equipaggio consumava le scarse razioni alimentari senza interrompere l’estenuante lavoro. Andrew Howat. XX secolo.

strateghi che venivano eletti annualmente in città, tra i quali figurava anche Pericle, figlio del famoso statista omonimo e di Aspasia di Mileto. Per equipaggiare le navi servivano urgentemente 22mila uomini, ma i marinai e i vogatori più esperti erano bloccati a Mitilene. Fu presa allora la decisione, senza precedenti, di reclutare gli schiavi, ai quali vennero concesse in cambio la libertà e la cittadinanza. Si ricorse anche ai membri delle classi più elevate, che normalmente servivano nella fanteria. Per gli opliti fu un bel bagno di umiltà ritrovarsi a remare coperti da un semplice perizoma, su cuscini ingrassati per evitare

Per gli opliti fu un bel bagno di umiltà ritrovarsi a remare coperti da un semplice perizoma

gli sfregamenti. La flotta ateniese salpò non appena pronta, anche se gli equipaggi erano inesperti e in alcuni casi non era stato possibile coprire tutti i 180 posti di voga. Lungo la rotta verso Lesbo si unirono altre imbarcazioni delle città alleate, portando a oltre 150 il totale delle navi della Lega delio-attica. Pensando che fosse più vantaggioso combattere vicino a terra, i generali ateniesi ormeggiarono la flotta presso le Arginuse – un piccolo arcipelago situato tra Lesbo e le coste dell’Asia Minore e formato all’epoca da tre isole (oggi una di esse si è trasformata in penisola). Da capo Malea, all’estremità sudorientale di Lesbo, gli spartani videro i fuochi da campo degli avversari e decisero di attaccarli a sorpresa di notte, ma una tormenta glielo impedì. Il giorno successivo le due flotte si apprestarono a combattere nello stretto canale

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(meno di otto chilometri) che separa Lesbo dalle Arginuse. Con quasi 300 imbarcazioni coinvolte, si trattava della più grande battaglia navale della Guerra del Peloponneso. Callicratida lasciò 50 navi di fronte a Mitilene, perché proseguissero il blocco, e dispose le restanti 120 su un’unica linea, lungo un fronte di oltre due chilometri. Per contrastare la maggiore esperienza e la grande agilità di manovra dei nemici, gli ateniesi adottarono invece una strategia innovativa: divisero la flotta in otto unità, ognuna agli ordini di uno stratega, e si disposero su due file: in questo modo le imbarcazioni della seconda fila potevano difendere gli spazi liberi tra quelle della prima. L’obiettivo dei generali era impedire che gli spartani eseguissero il diekplous, una manovra che consisteva nell’inserirsi tra due imbarcazioni nemiche per poi speronarle sul fianco con il rostro di bronzo posto sulla prua delle triremi. Solo il centro della flotta ateniese

I VANTAGGI DI SPARTIRSI IL COMANDO Suddividere la flotta in otto unità si rivelò una decisione vincente. Sotto, busto di uno stratega. PRISMA / ALBUM

era disposto su un’unica linea, ma era protetto alle spalle dall’isola di Garip. Schierarsi su due file implicava però accorciare il fronte, con il rischio di vedersi accerchiare dagli avversari. Per evitare questa situazione, gli strateghi decisero di ampliare gli spazi tra una nave e l’altra: grazie a questo espediente riuscirono a superare il fronte spartano di oltre 15 navi per lato. Il comando indipendente delle otto unità lasciava inoltre ai generali un maggior margine di manovra, permettendo di adottare le iniziative di volta in volta più opportune.

Una battaglia cruenta Quando le due flotte furono a distanza di combattimento, gli spartani abboccarono e cercarono di infilarsi negli enormi spazi della prima fila nemica per effettuare il diekplous. Ma le loro triremi furono bloccate dalle navi della seconda fila e si ritrovarono così esposte all’attacco degli avversari, che ben presto le speronarono e le mandarono a picco. Approfittando di STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA VOCE DELLA GIUSTIZIA

SOCRATE E LA TIRANNIA DEL POPOLO

Q

uando si svolse il processo delle Arginuse, Socrate occupava la carica di pritano, uno dei 50 magistrati della Bulè (“consiglio”) che a turno si incaricavano di presiedere le riunioni dell’assemblea cittadina. Dopo un concitato dibattito, si decise di processare i generali. Tutti i pritani approvarono il procedimento per paura della folla, tranne Socrate. Nella sua Apologia, Platone mise in bocca al maestro queste parole: «Quando decideste di processare in massa, illegalmente (come più tardi avete ammesso), i generali che non avevano raccolto i morti dopo la battaglia navale […] fui il solo, tra i pritani, ad oppormi a voi, perché non fosse scavalcata la legge, e votai contro; e sebbene gli altri

L’ACROPOLI VISTA DALLA COLLINA DELL’AREOPAGO, DOVE IN EPOCA CLASSICA SI CELEBRAVANO I PROCESSI PER OMICIDIO.

oratori fossero pronti a denunciarmi e a farmi arrestare, incoraggiati dalle vostre grida, io pensai che dovessi seguire la legalità e la giustizia, al prezzo di ogni rischio, piuttosto che associarmi a voi». In quel momento Socrate riuscì a evitare conseguenze personali, ma sette anni dopo avrebbe pagato il prezzo della sua coraggiosa opposizione alla volontà collettiva venendo processato e condannato a morte.

REYNOLD MAINSE / AGE FOTOSTOCK

questa situazione, il generale Pericle lanciò una manovra avvolgente sull’ala sinistra per circondare il fianco destro spartano. Qui si trovava la trireme di Callicratida, il cui timoniere aveva consigliato fin dall’inizio di ritirarsi di fronte alla superiorità numerica ateniese. Ma l’ammiraglio lacedemone aveva ribattuto che un ritiro era contrario al codice etico spartano e che la città sarebbe stata in grado di riprendersi dalla sua eventuale morte. Furono parole profetiche: quando la sua nave fu speronata dagli ateniesi, Callicratida cadde in mare e sparì tra i flutti, probabilmente annegato sotto il peso delle sue armi. La manovra di Pericle e la morte di Callicratida gettarono nello scompiglio l’ala destra degli spartani. La sinistra resistette più a lungo, ma alla fine fu sopraffatta dalla flotta nemica e si diede anch’essa alla fuga. Ormai separate in piccoli gruppi, le triremi spartane e persiane erano ancor più vulnerabili di fronte alla

CITTADINI DI GUARDIA Per tutta la durata dell’incarico i pritani vivevano in un edificio pubblico. Sotto, Socrate. Palazzo Massimo alle terme, Roma. SERGIO ANELLI / ALBUM

superiorità numerica ateniese e caddero una dopo l’altra. I lacedemoni persero circa 70 navi, oltre la metà dell’intera flotta, mentre gli ateniesi solo 25. Questa vittoria clamorosa e inaspettata avrebbe dovuto accrescere il morale della città attica e invertire le sorti della guerra. Ma le cose andarono diversamente.

Salvataggio fallito Aggrappati ai resti delle imbarcazioni affondate, i superstiti ateniesi attendevano i soccorsi dei compagni. Ma invece di concentrare tutti gli sforzi su questo obiettivo, gli strateghi si diressero a Mitilene per liberare Conone dal blocco degli spartani e lasciarono a due ufficiali l’incarico di gestire le operazioni di salvataggio. Purtroppo si scatenò una tempesta che costrinse le navi a rifugiarsi sotto costa e non permise di portare a termine nessuna delle due missioni. Le imbarcazioni bloccate a Mitilene riuscirono comunque a salvarsi, perché la flotta spartana si ritirò, ma i naufraghi non

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ebbero la stessa fortuna. Tra il pomeriggio e la notte oltre tremila uomini morirono inghiottiti dalle onde. Nei giorni successivi i parenti dei defunti accusarono gli otto generali di negligenza. Due di questi, intuendo come si stavano mettendo le cose, decisero di non fare ritorno ad Atene. Gli altri sei furono giudicati nel corso di una concitata assemblea. Alcuni oratori (qualsiasi cittadino poteva intervenire in pubblico) osservarono che un processo collettivo era incostituzionale e ogni caso andava giudicato separatamente. Ma un tal Licisco ribatté che chi si fosse opposto a un giudizio diretto del popolo sarebbe stato anch’egli processato. La situazione dei generali fu ulteriormente aggravata dalle testimonianze di alcuni superstiti, come un naufrago che si era salvato aggrappandosi a un barile di farina, che li accusarono di negligenza. Alla fine l’assemblea decretò la condanna a morte dei sei strateghi, incluso il figlio di Pericle. Gli ateniesi avrebbero avuto modo di pentirsi di quel processo avventato.

Giustiziando gli artefici dell’inattesa vittoria, si erano privati delle loro doti strategiche e, allo stesso tempo, avevano disincentivato altri a presentare la propria candidatura per il posto di comando. Anziché risollevare il morale della cittadinanza, la battaglia provocò rancore e divisioni. Un anno più tardi la flotta ateniese fu distrutta a Egospotami e la lunga Guerra del Peloponneso terminò con la vittoria finale di Sparta e dei suoi alleati. Questa triste conclusione trasformò quello che avrebbe potuto essere un momento di gloria in uno degli episodi più oscuri della storia di Atene.

LA FINE DELLA GUERRA

La Battaglia di Egospotami, del 405 a.C., sancì la vittoria spartana nella Guerra del Peloponneso. Qui sopra, una ricostruzione dell’episodio. Hutchinson, History of the nations (1915).

JAVIER NEGRETE FILOLOGO E SCRITTORE

Per saperne di più

TESTI

Anabasi, Le Elleniche Senofonte. Newton Compton, Roma, 2009. SAGGI

La guerra del Peloponeso Ugo Fantasia. Carocci, Roma, 2012. La guerra del Peloponeso Bruno Bleckmann. Il Mulino, Bologna, 2010.

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COME SI SVOLSE LA BATTAGLIA Il comandante lacedemone Callicratida schierò la sua flotta in una sola linea di fronte alle imbarcazioni avversarie. Per la prima volta nella storia gli spartani disponevano di equipaggi più esperti di quelli ateniesi, che erano Atene guidati da Conone. Sparta Ciononostante fu Atene a imporsi, grazie all’uso di un’innovativa strategia bellica. 1 Il faccia a faccia. Gli ateniesi rinforzano le proprie ali con una doppia fila, mentre il centro è protetto dall’isola. Gli spartani schierano invece le proprie navi su un’unica fila. 2 L’attacco. Per evitare una manovra avvolgente, la flotta di Callicratida si divide e attacca le ali nemiche. La sezione centrale ateniese, invece, si mantiene in formazione. 3 Crollo dell’ala destra. Dopo una feroce battaglia, la nave di Callicratida viene affondata, le imbarcazioni lacedemoni cedono su questo fianco e ripiegano verso sud. 4 Crollo dell’ala sinistra. Da questo lato le navi spartane resistono più a lungo, ma quando vedono sopraggiungere il resto della flotta ateniese battono in ritirata. 5 Inseguimento. Una parte degli ateniesi cerca di soccorrere i propri naufraghi, mentre l’altra incalza i nemici in fuga. Entrambe le operazioni falliscono a causa di una tempesta.

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L’ARGINUSA PERDUTA Le fonti antiche si riferiscono alle Arginuse come un gruppo di tre isole. Ciononostante nelle mappe attuali ne compaiono soltanto due, con nome turco: Garip e Kalem. Non era però stato possibile individuare la terza, che all’epoca ospitava una città portuaria di una certa fama, Canae. Nel 2015 una squadra di archeologi tedeschi l’ha identificata nell’odierna penisola di Kara Dag,

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CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

ARCHEOLOGI TEDESCHI INDIVIDUANO LA TERZA ARGINUSA NELLA PENISOLA TURCA DI KARA DAG.

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DAI ISTANBUL

nei pressi del villaggio di Bademli, a nord rispetto alle altre due isole. Il materiale alluvionale ritrovato al centro della penisola avrebbe coperto il braccio di mare che in precedenza separava l’isola dal continente, forse in seguito a un terremoto. Gli archeologi hanno rivenuto anche i resti dell’antico porto di Canae.

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MARCO TULLIO CICERONE

Avvocato, politico e filosofo, Cicerone è passato alla storia per la difesa dei valori repubblicani e per la lotta contro la tirannide, incarnata ai suoi occhi da Giulio Cesare e Marco Antonio. Busto. Galleria degli Uffizi, Firenze. SCALA, FIRENZE

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La vendetta di Marco Antonio

LA TRAGICA FINE DI CICERONE Nel 43 a.C. due sicari fermarono una lettiga nei pressi del porto di Gaeta. Trasportava un uomo di quasi 64 anni, il più grande oratore romano e ultimo difensore dell’antica repubblica. Il suo nemico Marco Antonio ne aveva ordinato l’assassinio

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SCALA, FIRENZE

DI NUOVO A ROMA

Questo affresco della Villa medicea di Poggio a Caiano, opera di Francesco di Cristofano detto il Franciabigio, illustra il ritorno di Cicerone a Roma nel 57 a.C., dopo l’esilio impostogli da Clodio (il tribuno della plebe alleato di Cesare).

Q

uando compì 60 anni, un’età che i romani consideravano già molto avanzata, Marco Tullio Cicerone era convinto che la sua carriera politica era giunta al termine. Erano lontani i giorni gloriosi in cui quest’avvocato di Arpino si era scagliato dai banchi del senato contro i politici corrotti e i nemici dello stato come Catilina, il patrizio di cui aveva sventato la congiura oltre 15 anni prima. In seguito aveva assistito impotente all’ascesa di Pompeo e

di Giulio Cesare, i generali e capi fazione che avrebbero scatenato una guerra civile per il controllo del potere. Cicerone fu critico verso entrambi, ma era soprattutto Cesare a preoccuparlo, per le sue ambizioni quasi monarchiche e contrarie al vecchio ideale repubblicano, del quale l’arpinate si era eretto a difensore. Nel 48 a.C., dopo la vittoria del futuro dittatore sul suo rivale, l’oratore fece ritorno a Roma, ma non riprese a partecipare pienamente alla vita politica. Se in qualche momento si era illuso

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PALADINO DELLA REPUBBLICA 68 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Giulio Cesare attraversa il Rubicone con il suo esercito, dando inizio alla guerra civile contro Pompeo. Cicerone, nemico di Cesare, lascia Roma come molti senatori e si rifugia in una delle sue ville di campagna.

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49 a.C.

Cicerone raggiunge Pompeo in Epiro (Grecia). Dopo la sconfitta dei pompeiani a Farsalo ritorna a Roma e si riconcilia con Giulio Cesare. Si ritira a vivere nella sua villa di Tuscolo, dedicandosi a scrivere prosa e poesia.

GIULIO CESARE. BUSTO DEL DITTATORE. I SECOLO A.C.

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che Cesare potesse restaurare la repubblica, ogni speranza si era dissolta di fronte alla realtà dei fatti: in poco tempo il generale aveva concentrato su di sé un potere praticamente assoluto. L’ostracismo politico nei confronti di Cicerone coincise con un momento particolarmente duro della sua vita personale. Da poco rientrato a Roma, all’inizio del 46 a.C. divorziò dalla moglie Terenzia dopo 30 anni di matrimonio, accusandola di aver dilapidato gran parte del patrimonio familiare in discutibili investimenti. Quindi contrasse matrimonio con Publilia, una giovane di ori-

gini patrizie che finì però per ripudiare sei mesi dopo. Come se non bastasse, a metà febbraio del 45 a.C. sua figlia Tullia morì nel dare alla luce un bambino, che sarebbe morto anche lui poco dopo. In seguito a questi eventi Cicerone cadde in uno stato di profondo scoramento, che cercò di superare come aveva fatto in passato: rifugiandosi nelle sue passioni letterarie. Si immerse in una frenetica attività di scrittura, che lo portò alla stesura di alcune delle sue opere retoriche più importanti (come per esempio il Brutus e il De oratore), e soprattutto intraprese un ambizioso progetto che mirava a

46 a.C.

44 a.C.

Dopo 30 anni di matrimonio, Cicerone divorzia da Terenzia e sposa la giovane Publilia. Nel 45 a.C. muore di parto sua figlia Tullia, cui era molto legato. Esprime il suo dolore in varie epistole.

Cinque mesi dopo l’assassinio di Giulio Cesare, Cicerone pronuncia le sue Filippiche, in cui attacca duramente Marco Antonio. Chiede senza successo al senato di dichiararlo nemico pubblico.

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L’EREDE DI CESARE

Questo cammeo incastonato nella cosiddetta croce di Lotario, conservata nella cattedrale di Aquisgrana, mostra l’effigie di Ottaviano Augusto diventato imperatore. E. LESSING / ALBUM

43 a.C. Il 7 dicembre Marco Antonio ordina l’uccisione di Cicerone. In seguito la testa e le mani dell’oratore vengono esposte nella tribuna dei rostra.

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IL DIALOGO CON GLI ASSASSINI

UN’OPPORTUNITÀ PERDUTA

N

elle sue lettere Cicerone criticava Bruto per aver lasciato l’iniziativa a Marco Antonio dopo la morte di Cesare, e affermava che la successiva guerra era stata una conseguenza dell’indecisione dei congiurati. Scriveva al suo amico Attico: «Ti ricordi quando il primo giorno gridai in Campidoglio che erano i pretori [Bruto e Cassio] che dovevano convocare il senato? Dèi immortali, cosa si è fatto in quei giorni, tra l’allegria della gente per bene! […] Ricordi che dicesti che non bisognava lasciare che [Cesare] fosse onorato durante le esequie funebri, altrimenti la causa era persa? Ebbene, è stato persino cremato nel foro, magnificato con parole commoventi, mentre i poveri e gli schiavi venivano incitati a scagliarsi con le torce contro le nostre

case». E a Bruto rimproverava: «Scrivi che si deve usare più vigore nell’impedire le guerre civili che nel castigare i nemici vinti. Non sono d’accordo con te, Bruto […] Sarete oppressi, credimi, se non sarete lungimiranti: non avrete sempre lo stesso popolo né lo stesso senato né lo stesso uomo che lo guidi. Prendi queste parole come se fossero dette dall’oracolo di Apollo Pizio…».

BRIDGEMAN / ACI

LA MORTE DI GIULIO CESARE

Marco Antonio approfittò dell’uccisione di Cesare per aizzare il popolo contro i congiurati e presentarsi come il nuovo uomo forte. Olio di George Edward Robertson.

rendere accessibili i concetti principali della filosofia greca al pubblico latino. Mentre Cicerone trascorreva le sue giornate rinchiuso nelle ville di Astura, Tuscolo, Pozzuoli o Arpino, un gruppo di congiurati organizzava l’assassinio di Giulio Cesare. Sebbene avessero forti legami con l’oratore – in particolare Marco Bruto, su cui Cicerone aveva esercitato una decisiva influenza intellettuale –, i cospiratori non lo informarono dei loro piani, forse perché erano consapevoli del suo atteggiamento esitante e del suo rifiuto della violenza. Cicerone era presente alla sessione del senato delle idi di marzo del 44 a.C., durante la quale Cesare

Per Cicerone la causa repubblicana era «una nave a pezzi: nessun piano, nessuna riflessione, nessun metodo»

fu pugnalato a morte. La sua reazione fu un misto di sorpresa e orrore, ma anche di gioia contenuta: nella sua corrispondenza privata e nelle orazioni che avrebbe pronunciato contro Marco Antonio – le Filippiche – l’avvocato arpinate mostrò un certo orgoglio per il fatto che Bruto, mentre sollevava il pugnale che avrebbe conficcato nel corpo di Cesare, aveva gridato il nome di Cicerone in omaggio alla ritrovata libertà.

Guerra contro Marco Antonio La gioia di Cicerone per la morte di Cesare non durò a lungo, perché ad assumere il controllo della situazione a Roma fu Marco Antonio: durante le esequie funebri del dittatore infiammò la folla e la aizzò contro gli assassini del loro capo. Sentendosi in pericolo di vita, Bruto e Cassio abbandonarono la città. Cicerone fu costretto a imitarli e iniziò a lamentarsi in toni sempre più aspri dell’inazione dei congiurati, della loro mancanza di determinazione nei momenti successivi

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TEATRO DI TUSCOLO

Situato sui colli Albani, a circa 35 chilometri dalla capitale, Tuscolo ospitava la villa di campagna di Cicerone e quella di altri facoltosi romani. Nell’immagine, i resti del piccolo teatro locale. MARCO SCATAGLINI / AGE FOTOSTOCK

alla morte di Cesare, della loro incapacità di affrontare Marco Antonio con chiari progetti per il futuro. L’oratore arpinate, invece, non era disposto ad arrendersi. Convinto che era in gioco la sopravvivenza stessa della repubblica, decise di assumere la guida del senato per condurre una lotta strenua contro Marco Antonio. Come se ormai non avesse più niente da perdere, Cicerone mise da parte i dubbi e l’indecisione che avevano caratterizzato altri momenti della sua vita e si dimostrò implacabile nei confronti del suo avversario. Sostenne la necessità di intraprendere azioni molto più drastiche e violente di quelle proposte dai cospiratori, che a suo giudizio avevano agito con il coraggio di un uomo, ma con la testa di un bambino. Tuttavia quando, poco dopo, si profilò la possibilità di uno scontro tra Decimo Bruto (un altro dei congiurati) e Antonio in Gallia Cisalpina, che avrebbe

IL PATTO TRA OTTAVIANO E ANTONIO Questo cistoforo d’argento fu coniato a Efeso per commemorare le nozze tra Marco Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano. British Museum, Londra.

significato per i romani una nuova guerra civile, Cicerone ebbe un momento di esitazione. Tutto ormai gli sembrava perduto; la repubblica – confessava in una lettera al suo amico Attico – era «una nave a pezzi: nessun piano, nessuna riflessione, nessun metodo». Senza più speranze, decise di abbandonare l’Italia e raggiungere la Grecia. Ma quando era già a bordo della nave, la partenza fu rimandata a causa del sopraggiungere di un’improvvisa tempesta. Allora l’arpinate tornò sui suoi passi e decise di rientrare a Roma. Le notizie provenienti dalla città erano incoraggianti: sembrava che la situazione si stesse tranquillizzando e che Marco Antonio fosse disponibile a rinunciare allo scontro con Decimo Bruto. Di fronte alla mancanza di iniziativa dei congiurati, Cicerone pensò di utilizzare nella sua battaglia contro Marco Antonio un giovane diciottenne, recentemente SC

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DISCORSI INCENDIARI

CICERONE CONTRO MARCO ANTONIO

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icerone pronunciò contro Marco Antonio quattordici orazioni che denominò Filippiche, in omaggio ai discorsi tenuti dall’ateniese Demostene contro un altro tiranno della sua epoca, ovvero Filippo II di Macedonia, quando questi si apprestava a conquistare la Grecia. La seconda Filippica è sicuramente la più dura. A conclusione del suo discorso, Cicerone proclama in tono solenne la ferma determinazione a lottare per la libertà della patria, come già aveva fatto ai tempi di Catilina, pur sapendo i rischi che avrebbe corso: «Ti prego, Marco Antonio, rivolgi qualche volta gli occhi alla repubblica; pensa ai tuoi antenati, e non solo ai tuoi contemporanei; comportati nei miei confronti come ti pare, ma riconciliati con la repubbli-

COPERTINA DI UNA COPIA DELLE FILIPPICHE DI CICERONE FATTA PER IL RE FERDINANDO I DI NAPOLI. XV SECOLO.

ca. Quanto a me, farò questa dichiarazione: difesi la repubblica in gioventù, non penso di abbandonarla in vecchiaia; non ebbi timore allora delle armi di Catilina, non saranno certo le tue a spaventarmi oggi. Offro volentieri la mia vita, se può servire a restituire a Roma la sua libertà e se finalmente permette al dolore del popolo romano di partorire ciò che da tempo ha concepito».

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entrato in politica. Questo giovane era Gaio Ottaviano, pronipote di Giulio Cesare, da cui era stato adottato come erede. Ottaviano ricevette la notizia della morte di Cesare mentre era ad Apollonia (nell’attuale Albania), e subito si mise in viaggio verso Brindisi. Una volta sbarcato sulle coste italiche, cercò di accattivarsi la fiducia dei veterani delle legioni cesariane e di altri personaggi influenti, come lo stesso Cicerone. Durante la sua marcia verso Roma, visitò l’oratore presso la sua villa di Pozzuoli con l’intento di ingraziarselo, consapevole del fatto che avrebbe avuto bisogno del suo appoggio per raggiungere i propri obiettivi politici. L’arpinate fu lusingato dal fatto che il giovane fosse così attento nei suoi confronti e si convinse che avrebbe potuto manovrarlo per frenare le ambizioni di Marco Antonio. Quando venne a sapere che, in assenza di quest’ultimo, Ottaviano era entrato a Roma con i veterani delle legioni per rivendicare di fronte al popolo i suoi diritti di

BRUTO, L’A SSASSINO DI CESARE Busto di Bruto da giovane. II secolo d.C. Museo statale Ermitage, San Pietroburgo. SCALA, FIRENZE

erede di Cesare, Cicerone se ne rallegrò e scrisse al suo amico Attico: «Quel ragazzo ha inferto un bel colpo ad Antonio». Si fece quindi convincere da Ottaviano a tornare nella capitale per guidare lo scontro con l’ex luogotenente di Cesare, che in quel momento stava marciando verso la Gallia Cisalpina. L’oratore cercò di convincere i nuovi consoli, Irzio e Pansa, a dichiarare apertamente guerra a Marco Antonio. Questa posizione – energicamente espressa nelle orazioni divenute celebri come Filippiche – era in contrasto con quella del senato, che puntava sulla via negoziale per convincere Antonio a desistere dall’assedio di Modena, dove Decimo Bruto resisteva disperatamente in attesa del soccorso delle truppe repubblicane. Quando si diffuse la notizia che era passata la linea dello scontro, a Roma si scatenò l’euforia: Cicerone fu portato in trionfo al Campidoglio e successivamente fu acclamato davanti ai rostra, la tribuna oratoria ufficiale del foro. Ma anche in questo caso la gio-

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ia di Cicerone fu di breve durata. Sebbene sconfitto, Marco Antonio riuscì a salvare una parte delle sue legioni e quindi strinse alleanza con Lepido, governatore della Gallia Narbonense. Invece di inseguirlo, Ottaviano rivendicò per sé la carica di console e, di fronte al rifiuto del senato, non esitò a varcare il Rubicone e a marciare su Roma con le sue legioni, come aveva già fatto Cesare prima di lui. I senatori non poterono far altro che accettare il fatto compiuto. Cicerone era ormai consapevole che il nuovo capo militare approfittava del potere delle sue truppe per calpestare la legalità repubblicana. Intanto Ottaviano iniziò a diffidare dell’oratore, poiché era venuto a sapere che in privato cospirava contro di lui e dichiarava: «Quel giovane dev’essere lodato, onorato ed eliminato».

La fuga di Cicerone Scoraggiato e ormai ben conscio che la causa repubblicana era definitivamente persa, Cicerone si ritirò nei suoi possedimenti nell’Italia meridionale, da cui assistette

impotente all’avvicinamento tra Ottaviano, Lepido e Marco Antonio e alla nascita del cosiddetto secondo triumvirato. Per lui questo accordo non rappresentava semplicemente una sconfitta, ma anche una minaccia diretta. Infatti i triumviri redassero una «lista di proscrizione», ovvero un elenco di senatori e cavalieri condannati a morte e sottoposti alla confisca dei beni personali. La sete di vendetta ebbe la meglio persino sui legami familiari: Lepido sacrificò suo fratello Paolo, Marco Antonio lo zio Lucio Cesare. Nel caso di Cicerone, fu Ottaviano che alla fine cedette di fronte ai propositi di rivalsa di Antonio. Plutarco ricostruisce così quel

IL FORO ROMANO

In questo luogo, centro della vita politica di Roma, Cicerone pronunciò alcune delle sue più celebri orazioni. In primo piano, le tre colonne del tempio di Castore e Polluce; sullo sfondo, l’arco di Settimio Severo.

Ottaviano diffidava di Cicerone, che diceva di lui in privato: «Quel giovane dev’essere lodato, onorato ed eliminato»

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CICERONE E OTTAVIANO

COME FRENARE IL «GIOVANE»

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opo l’assassinio di Giulio Cesare, Marco Bruto fuggì in Grecia. Nelle sue lettere quest’ultimo rimproverava a Cicerone di aver concesso eccessivi onori al giovane Ottaviano e di non essere stato capace di controllarne le smisurate ambizioni politiche: «So che Cicerone ha sempre agito con le migliori intenzioni […] Ciononostante, mi pare che certe cose siano state fatte, come dire, senza attenzione, per un uomo con le sue altissime competenze. O è stato forse mosso dalla vanagloria, proprio lui che per il bene della repubblica non ha esitato a inimicarsi il potente Antonio? […] Cicerone, invece di reprimere le ambizioni e l’immodestia del giovane, le ha stimolate». A sua volta l’oratore scrive a Bruto ribattendo così alle sue cri-

tiche: «Se egli [Ottaviano] continuerà a essermi leale e mi obbedirà, saremo sufficientemente al sicuro; se poi varranno più i consigli degli empi che i miei […] ogni nostra speranza è in te riposta. Per questo vieni qui rapidamente, per favore, e libera definitivamente questa repubblica che già una volta hai liberato grazie al tuo coraggio e alla tua grandezza d’animo [uccidendo Cesare]».

SCALA, FIRENZE

LA TRIBUNA DEI ROSTRA

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Gli oratori si rivolgevano al pubblico da questa tribuna del foro romano, accanto al tempio di Saturno. Fu qui che Antonio fece esporre la testa e le mani di Cicerone dopo la sua morte.

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momento: «La proscrizione di Cicerone fu quella che suscitò maggiori discussioni, in quanto Antonio non era disponibile a nessun accordo se Cicerone non fosse stato il primo a morire […] Si dice che Ottaviano difese Cicerone i primi due giorni, e poi al terzo lo abbandonò». L’oratore si trovava nella sua villa di Tuscolo, in compagnia del fratello Quinto e del figlio di questi, quando venne a sapere che lui stesso e il fratello erano stati inseriti nella prima lista di proscrizione. In preda all’angoscia, si misero immediatamente in marcia verso la villa di Astura, da dove pensavano di raggiungere la Macedonia per riunirsi con Marco Bruto. TAVOLETTA DI CERA, STILO E CALAMAIO DI BRONZO PROVENIENTI DA POMPEI. I SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.

Ma a un certo punto Quinto, che era partito senza portarsi dietro nulla, decise di tornare indietro per procurarsi delle provviste. Quella scelta gli fu fatale: tradito dai suoi servi, fu ucciso pochi giorni dopo insieme al figlio. Ad Astura, Cicerone era ormai divorato da dubbi e timori. Si imbarcò su una nave ma si fece lasciare a terra all’altezza del Circeo e si diresse verso Roma; dopo una trentina di chilometri cambiò nuovamente idea, tornò ad Astura e poi raggiunse via mare la villa di Formia. Qui decise di fermarsi a recuperare le forze, prima di intraprendere il viaggio finale verso la Grecia.

La morte del grande oratore Troppi dubbi. Troppi tentennamenti. Quando venne a sapere che i soldati di Antonio stavano per raggiungerlo, Cicerone si fece trasportare in fretta e furia verso il porto di Gaeta. I soldati trovarono la villa vuota, ma un liberto di nome Filologo gli indicò il percorso seguito dalla lettiga su cui viaggiava Cicerone. Era il 7 dicembre

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del 43 a.C. Plutarco descrisse così la scena: «In quel momento arrivarono il centurione Erennio e il tribuno dei soldati Popilio il quale, accusato una volta di parricidio, era stato difeso dallo stesso Cicerone […] Cicerone, accortosi che Erennio si avvicinava di corsa, ordinò ai suoi servi di fermarsi e deporre la lettiga. Toccandosi il mento con la mano sinistra, com’era solito fare, fissò in volto i suoi carnefici, sporco di polvere, i capelli arruffati e il viso contratto dall’angoscia; cosicché in molti si coprirono gli occhi per non vedere Erennio che lo sgozzava. Cicerone sporse il collo fuori dalla lettiga, e in quella posizione morì, a quasi 64 anni. Per ordine di Antonio gli furono tagliate la testa e le mani con cui aveva scritto le Filippiche; testa e mani che in seguito furono esposte come trofei su quelle stesse tribune dove pochi mesi prima Cicerone era stato acclamato dalla folla, perché tutti i romani potessero vederle. Stefan Zweig, che dedica a Cicerone il penultimo dei suoi Momenti fatali, conclude

così il suo saggio: «Eppure, nessuna invettiva contro la brutalità, l’illegalità e la smania di potere proferita dal grande oratore su questa tribuna ha mai denunciato in modo così eloquente il male eterno della violenza quanto il linguaggio muto del suo capo profanato: il popolo si avvicina timidamente ai rostra, poi con un senso di vergogna e costernazione se ne allontana. Nessuno dei presenti osa protestare – siamo in una dittatura! –, ma angosciati, col cuore stretto in una morsa, abbassano lo sguardo davanti al tragico simbolo della loro repubblica crocifissa».

L’ASSASSINIO DI CICERONE

Quest’olio di François Perrier ricostruisce il momento in cui Erennio si appresta a decapitare Cicerone, dopo aver intercettato la lettiga su cui viaggiava. XVII secolo. Staatliche Schlösser, Bad Homburg.

JOSÉ MIGUEL BAÑOS PROFESSORE DI FILOLOGIA LATINA. UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID

Per saperne di più

TESTI

Le Filippiche Marco Tullio Cicerone. Mondadori, Milano, 2007. SAGGI

Cicerone Stefan Zweig. Castelvecchi, Roma, 2016. Cicerone Wilfried Stroh. Il Mulino, Bologna, 2010.

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ANCHE FULVIA SI VENDICA assio Dione riferisce che quando la moglie di Marco Antonio, Fulvia, vide la testa di Cicerone, non riuscì a contenere la sua rabbia. Prima che venisse esposta nei rostra del foro insieme alla mani con cui l’oratore aveva scritto le Filippiche, «Fulvia la prese tra le mani, vi sputò sopra infuriata; quindi se la pose sulle ginocchia, le aprì la bocca, ne estrasse la lingua e la trafisse con lo spillone che usava per raccogliersi i capelli, continuando a proferire turpi ingiurie». Dato che gli storici antichi amavano molto scene così morbose, tale resoconto potrebbe essere anche frutto dell’immaginazione di Cassio Dione. In ogni caso, Fulvia aveva due motivi per odiare Cicerone: non solo era la moglie di Marco Antonio, ma in precedenza era stata anche sposata con Clodio, nemico personale dell’oratore arpinate. Non poteva certo avere dimenticato che, quando Clodio era morto nel 52 a.C. in uno scontro sulla via Appia, Cicerone aveva assunto la difesa del suo assassino, Milone. L’IRA DI FULVIA CONTRO CICERONE. OLIO DI GREGORIO LAZZARINI. 1692. GEMÄLDEGALERIE ALTE MEISTER, KASSEL.

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BRUEGEL E L’EUROPA CONTADINA Nel XVI secolo il grande pittore fiammingo Bruegel il Vecchio fu il primo a ritrarre in una serie di quadri straordinari la vita dei contadini del suo tempo: i lavori agricoli, le feste scatenate, i momenti di sofferenza e le tragedie

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DANZA DEI CONTADINI

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Nell’immagine, un particolare dell’olio in cui Pieter Bruegel ritrae una festa paesana. Dimentichi per un momento della durezza della loro vita, i contadini ballano allegramente. 1568. Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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n un’epoca in cui i pittori prediligevano i temi religiosi e mitologici, Pieter Bruegel il Vecchio costituisce una figura difficile da classificare. Nessun altro artista prima di lui aveva incentrato la sua opera sulla grandezza del paesaggio e sulla vita quotidiana dei contadini. I suoi detrattori lo consideravano poco raffinato, e arrivarono a soprannominarlo con disprezzo “Bruegel il contadino”. Tuttavia aveva anche molti ammiratori e amici – accademici, umanisti e facoltosi uomini d’affari – che apprezzavano il suo lavoro e collezionavano le sue opere. Le informazioni sulla sua vita sono lacunose. Nacque a Breda (ducato di Brabante, nell’attuale Belgio) tra il 1524 e il 1530, si formò come pittore ad Anversa e, dopo aver ottenuto il titolo di maestro, fece un viaggio in Italia. Al ritorno si stabilì nuovamente ad Anversa, per poi trasferirsi nel 1562 a Bruxelles, dove si sposò e lavorò fino alla morte. Non ci sono notizie precise sulla sua personalità e neppure sulle sue credenze religiose e politiche, un aspetto importante in un periodo in cui i Paesi Bassi vivevano una grande agitazione per il diffondersi delle idee protestanti e l’inasprirsi dei rapporti con Filippo II di Spagna, sovrano del Paese. Forse fu proprio questo clima teso che spinse Bruegel a rifugiarsi nell’evocazione del paesaggio e della semplice vita contadina.

L’importanza delle stagioni Realizzata da Bruegel nel 1565 per il banchiere di Anversa Niclaes Jonghelinck, la serie Mesi illustra la vita ciclica, difficile e monotona della campagna. L’opera era composta da sei quadri dedicati ai lavori campestri secondo i periodi dell’anno (due mesi per quadro), anche se solo cinque di essi sono giunti fino a

È considerato uno dei primi paesaggi moderni dell’arte occidentale. Bruegel cerca di dare al panorama una realistica profondità di campo grazie all’uso della prospettiva aerea: le figure più lontane non sono solo più piccole, ma anche più sfumate e azzurrine per la densità dell’aria. 1565. Metropolitan Museum, New York.

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LA MIETITURA

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I contadini cucinavano, mangiavano e dormivano nella stessa stanza, su materassi di paglia pieni di pulci e pidocchi noi. In Mietitura Bruegel ritrae l’attività agricola ad agosto e settembre. In questa vista panoramica del paesaggio si possono osservare alcuni contadini che falciano il grano e legano i covoni da terra mentre altri, seduti all’ombra di un albero, riposano, bevono da una brocca e mangiano avena, pere, formaggio e pane. Alcune figure visibili in lontananza raccolgono mele, si bagnano in un lago e si dedicano ad attività ricreative. Il calore soffocante emerge dal modo in cui Bruegel tratta il paesaggio e gli effetti del clima – due delle sue grandi innovazioni. In un cielo senza nuvole il sole di mezzogiorno offusca i colori brillanti e bagna la terra di tonalità dorate. Dall’altopiano dove si trovano i contadini il pittore invita a guardare verso il basso, attraverso una distesa verde segnata da filari di alberi e sentieri, fino a raggiungere il porto e il mare che si perde in lontananza.

In Ritorno della mandria, un altro quadro della stessa serie dedicato ai mesi di ottobre e novembre, i contadini conducono gli animali giù dai pascoli di montagna, quando il calore estivo ha ormai ceduto il passo al freddo e al maltempo. Gli alberi hanno perso le foglie e il sentiero è fangoso. I mandriani risalgono lentamente una collina in direzione del villaggio pungolando il bestiame. In lontananza un fiume scorre all’ombra delle vette montane minacciate dalla tormenta. Non è facile la vita di questi uomini infreddoliti, immersi in un ambiente imponente e desolato. Una volta in paese, gli animali verranno rinchiusi nei fienili o nelle piccole abitazioni dove le famiglie vivono ammassate in un’unica stanza, con i pagliericci ricoperti di pulci e pidocchi. Cacciatori nella neve ritrae una scena invernale, ambientata tra dicembre e gennaio. Due uomini a capo chino rientrano al villag-

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I rigori dell’inverno

IL DURO LAVORO DEI PASTORI

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RITORNO DELLA MANDRIA. Nei suoi paesaggi l’artista ritrae i contadini integrati nell’ambiente. Il clima è visto come la manifestazione esterna di una natura che governa la vita di donne e uomini. Come le stagioni si susseguono periodicamente, così anche l’essere umano ha il suo ciclo, che va dalla nascita fino alla morte. Rose-Marie e Rainer Hagen hanno fatto notare che in questa scena i mandriani sono dipinti con gli stessi colori del bestiame, per mostrare che gli uomini non sono i signori della natura, ma semplicemente una parte di essa. 1565. Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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CACCIATORI NELLA NEVE

Ogni elemento di questo quadro trasmette la sensazione di un inverno gelido. Il terreno ricoperto di neve è privo di ombre e gli alberi sono completamente spogli. I pochi falò visibili non sono sufficienti a proiettare calore nel vento ghiacciato. 1565. Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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gio, attraversando il paesaggio innevato dopo una battuta di caccia infruttuosa. Una piccola volpe rappresenta l’unica preda della giornata. Persino i cani hanno un’aria dimessa e camminano con la coda tra le gambe. I fuochi sembrano indicare che i paesani si apprestano ad affumicare carni e pesci. Sullo sfondo uomini e donne trasportano la legna in spalla o sui carri. Il freddo ha interrotto i normali passatempi del mondo campestre, ma adulti e bambini si dedicano ad altre attività ricreative, come pattinare sui due laghetti ghiacciati.

Se la vita dei contadini era spossante, la cultura rurale era anche caratterizzata da un’intensa tradizione di feste. Alcune erano di origine religiosa, come il Carnevale che, come ancora oggi, si svolgeva ogni anno nei giorni precedenti la Quaresima, e che Bruegel ritrasse nella sua famosa opera del 1559 Lotta tra Carnevale e Quaresima. Altre celebrazioni si basavano sul folclore locale, oppure erano una mescolanza di sacro e profano, come i matrimoni, i balli e le fiere. Bruegel aveva un grande interesse per questi momenti tradizionali. Nel Libro della pittura, pubblicato nel 1604, Karel van Mander racconta che il pittore fiammingo si recava spesso nei villaggi in compagnia di un suo amico, il mercante tedesco Hans Franckert, per partecipare a nozze e feste. Scrive van Mander che i due uomini «si vestivano con abiti popolari e distribuivano doni e regali come tutti gli altri invitati, fingendosi parenti dello sposo o della sposa. Al pittore piaceva molto osservare le usanze dei contadini, studiarne le maniere a tavola, le danze, i giochi, i corteggiamenti e gli scherzi, che poi riproduceva con grande sensibilità e umorismo». In Danza dei contadini (1568) Bruegel immortalò una festività religiosa, anche se i protagonisti del quadro non sembrano preoccuparsi troppo della chiesa locale, cui voltano le spalle, né della stampa della Madonna appesa a un albero. In primo piano una coppia si affretta con passo goffo verso il centro della strada per unirsi agli altri danzatori. Al tavolo sulla sinistra sono seduti

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Feste e celebrazioni

BALLI E DIVERTIMENTI POPOLARI

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DANZA DEI CONTADINI. Nei villaggi dei Paesi Bassi si svolgono delle feste annuali per commemorare la dedicazione della

chiesa locale, dette kermesse (dal neerlandese kerkmisse, “messa di chiesa”). Bruegel rappresentò queste celebrazioni in vari quadri; su uno di essi aggiunse un commento in fiammingo: «Durante le feste i contadini si divertono a ballare, saltare e bere fino a ubriacarsi come bestie. Non perderebbero l’opportunità di partecipare a queste kermesse per nulla al mondo, anche se durante il resto dell’anno dovessero morire di fame». 1568. Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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Bruegel amava molto osservare le usanze dei contadini, studiarne le maniere a tavola, le danze, i giochi e i corteggiamenti non solo il suonatore di zampogna e il suo amico rubicondo con una caraffa di birra in mano, ma anche il sordo, il cieco e lo scemo del villaggio, che hanno anch’essi diritto di godersi la baldoria. Dietro di loro due giovani si baciano amorevolmente, un evento che forse prelude a un futuro matrimonio. Nel Banchetto nuziale (1568) l’artista si concentra su un’altra festività rurale fiamminga. Il pranzo di nozze si celebra nel granaio del villaggio, con le balle di fieno accatastate a mo’ di parete su cui sono fissati due covoni con un rastrello. La sposa, con i capelli sciolti e un vestito verde, ha alle sue spalle un telo scuro a cui è appesa una corona di carta capovolta. Forse lo sposo è l’uomo seduto all’estremità del tavolo più prossima allo spettatore: con una casacca marrone e un berretto rosso in testa è intento a servire i convitati. Sulla destra, in elegante abito nero, il signore feudale che ha autorizzato il matrimonio parlotta con un frate. In mancanza di un vero e proprio vassoio per le scodelle, i due contadini in primo piano portano il cibo in tavola su un uscio di legno. Due suonatori di zampogna si occupano della musica. Sulla sinistra, uno dei commensali versa la birra (probabilmente prodotta dai contadini stessi) in una brocca; accanto a lui, una bambina lecca il suo piatto. Si può quasi sentire il trambusto dei festeggiamenti che, se la famiglia degli sposi ha soldi a sufficienza, continueranno per vari giorni.

Attraverso le sue opere l’artista stava ricordando ai suoi contemporanei che i veri sconfitti di ogni evento bellico erano sempre i contadini: non solo dovevano finanziare il conflitto pagando tributi maggiori del solito, ma erano anche le vittime preferenziali degli attacchi nemici, che miravano a tagliare i rifornimenti agli eserciti locali.

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Gli effetti della guerra

UNA CELEBRAZIONE TRADIZIONALE

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BANCHETTO NUZIALE. In questa celebre opera il pittore ritrae gli abitanti del villaggio concentrati nel mangiare e nel bere. Al centro, un uomo vestito di nero solleva una brocca per farsela riempire; di fronte a lui un altro convitato mostra il piatto vuoto. Anche la bambina in primo piano ha terminato il suo pasto, mentre il suonatore di zampogna guarda con occhi golosi le pietanze in arrivo. Solo il frate e il signore feudale sulla destra restano ai margini dei festeggiamenti, e sembrano parlare di qualche argomento piĂš elevato e adeguato alle rispettive classi sociali. 1568 circa. Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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Nella Strage degli innocenti (tra il 1564 e il 1567) l’artista trasfigurò l’episodio biblico del massacro dei bambini di Betlemme, ordinato da re Erode, in una vicenda della sua epoca: il saccheggio di un villaggio fiammingo da parte di soldati spagnoli e mercenari tedeschi. Nell’opera Bruegel mostra con sguardo critico il comportamento delle truppe di occupazione nel preludio della rivolta olandese contro la dominazione spagnola. Ogni scena all’interno del quadro rappresenta una piccola tragedia, dove il dolore dei contadini nasce dall’impossibilità di difendere i propri figli dal brutale attacco (va comunque notato che i dettagli più cruenti furono aggiunti dopo la morte dell’artista). Il futuro che attende questa gente è cupo e desolante come il paesaggio innevato in cui si svolge la scena.

Il pittore del popolo Bruegel non ritrasse la vita campestre in situ, ma compose queste scene nel suo studio, basandosi sui numerosi bozzetti fatti nel corso dei suoi viaggi in Italia e tra i paesini delle Fiandre. Sebbene non siano una rappresentazione fedele della realtà, i suoi quadri illustrano il «teatro del mondo», che l’artista conobbe di persona e cercò di dipingere in modo oggettivo e scevro da sentimentalismi. Le descrizioni di Bruegel dei rituali del mondo contadino, come il lavoro nei campi, la caccia, le feste, i giochi e le danze, sono vivide e indimenticabili. La sua opera offre la possibilità unica di osservare una cultura popolare oggi scomparsa. MÓNICA ANN WALKER VADILLO STORICA DELL’ARTE

SAGGI

Bruegel David Bianco. Giunti, Milano, 2007. Bruegel Tiziana Frati. BUR, Milano, 1980. Vizi virtù e follia nell’opera grafica di Bruegel il Vecchio Gloria Vallese. Mazzotta, Milano, 2004. Pieter Bruegel il Vecchio, 1525-1569 ca.: contadini, matti e demoni Rose-Marie e Rainer Hagen. Taschen, Koln, 1995. Bruegel. Il Carnevale e la Quaresima Alexander Wied. Electa, Milano, 1996.

© HER MAJESTY QUEEN ELIZABETH II, 2018 / BRIDGEMAN / ACI

Per saperne di più

LA CRUDELTÀ DELLA GUERRA

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LA STRAGE DEGLI INNOCENTI. Si ritiene che quando l’imperatore Rodolfo II vide il quadro originale di Bruegel, fu talmente disgustato dalla verosimiglianza della scena che fece sostituire le figure dei bambini. Al centro dell’opera si vede per esempio una madre seduta a piangere con un fagotto in braccio, che in origine era il figlio morto. Nell’edificio sulla sinistra si possono scorgere due soldati intenti a portar via due fanciulli, che non sono stati ridipinti. Il personaggio vestito di nero davanti al plotone di cavalieri è probabilmente il duca d’Alba. 1565. Royal Collection Trust, Londra.

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BRUEGEL E LA SAGGEZZA POPOLARE

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bruegel era un grande ammiratore dei proverbi olandesi della sua epoca. Ai suoi occhi rappresentavano delle verità basate sul senso comune e sull’esperienza, pertanto dotate di un valore universale. Per questo motivo dipinse vari quadri ispirati direttamente ai detti popolari. Il Misantropo 1 illustra il proverbio «Poiché il mondo è così infido, mi vesto a lutto», e mostra un anziano con una cappa scura, derubato da uno straccione. Il Paese della cuccagna 2 è un’allegoria del vuoto spirituale generato dalla gola e dall’accidia, due dei sette peccati capitali. Il Ladro di nidi 3 si richiama al detto popolare «Chi sa dov’è il nido lo conosce, chi lo ruba lo possiede», e forse allude a chi ride dell’imprudenza degli altri senza accorgersi della propria (in questo caso la figura in primo piano sta per cadere in un torrente). Infine, la Parabola dei ciechi 4 rimanda a un noto passaggio del Nuovo Testamento: «Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso». Bruegel porta il numero dei ciechi a sei, ognuno dei quali presenta una lesione differente, per esempio al secondo sono stati rimossi i bulbi oculari, il terzo soffre di leucoma corneale e il quarto di atrofia del nervo ottico.

4 PARABOLA DEI CIECHI. 1568. MUSEO NAZIONALE DI CAPODIMONTE, NAPOLI.

SOPRA, MISANTROPO. BRUEGEL. 1568. MUSEO NAZIONALE DI CAPODIMONTE, NAPOLI. SINISTRA, RITRATTO DI BRUEGEL.

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PAESE DELLA CUCCAGNA. 1567. ALTE PINAKOTHEK, MONACO

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LADRO DI NIDI. 1568. KUNSTHISTORISCHES MUSEUM, VIENNA.

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L’ I M P O S T U R A D I L É O T A X I L

SOPRA: LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO. SOTTO: A. HARLINGUE / ROGER-VIOLLET / AURIMAGES

Per oltre un decennio la Chiesa cattolica diede credito alle false storie di un ex massone che diceva di essersi convertito al cattolicesimo e accusava la massoneria di essere un culto segreto del diavolo

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UNA DEVOZIONE SATANICA

ISIDORA / LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

Massoni vestiti da templari adorano il Bafometto in una loggia segreta. Illustrazione del libro Les mystères de la Franc-maçonnerie, pubblicato nel 1886. Alla pagina precedente, simbolo massonico apparso nella rivista The Kneph (1881-1900) e, sotto, ritratto di Léo Taxil.

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UNA CONFRATERNITA DI UOMINI E DONNE

SCALA, FIRENZE

Cerimonia di ricevimento in una “loggia di adozione” (aperta, cioè, alle donne) durante il periodo dell’impero napoleonico. Acquerello. 1810-1815. Musée de la Franc-maçonnerie, Parigi.

LEONE XIII, PONTEFICE TRA IL 1878 E IL 1903, VISSE L’AFFERMAZIONE DELLE IDEE LAICHE E SOCIALISTE E IL CONTEMPORANEO DECLINO DELL’INFLUENZA SOCIALE DELLA CHIESA. RITENNE CHE LA RESPONSABILITÀ DI QUESTI CAMBIAMENTI FOSSE DA ATTRIBUIRE ALLA MASSONERIA.

ra il 1885 e il 1897 un avventuriero marsigliese che si faceva chiamare Léo Taxil convinse una buona fetta del mondo cattolico che la massoneria adorava il diavolo e che, di tanto in tanto, questi faceva la sua apparizione nelle logge. La fonte principale di tali informazioni sarebbe stata un’adepta pentita, tale Diana Vaughan, che gli avrebbe rivelato i segreti del “palladismo”, il termine con cui veniva definito il culto massonico di Lucifero. L’attività antimassonica di Taxil ricevette l’approvazione di numerosi esponenti della Chiesa, e lo stesso papa Leone XIII incoraggiò l’impostore a proseguirla. Per comprendere come fu possibile una mistificazione di simili proporzioni, bisogna situare i fatti nel contesto dell’auge antimassonica della fine del XIX secolo.

Fin dalla sua fondazione ai primi del XVIII secolo, la massoneria fu accompagnata da un forte antagonismo, soprattutto nell’Europa cattolica. Il fenomeno fu rafforzato da un susseguirsi di condanne ecclesiastiche, la prima delle quali fu la bolla pontificia di papa Clemente XII In eminenti apostolatus specula, del 1738. Questa posizione teorica si tradusse in una serie di azioni concrete, che segnarono l’inizio di una lunga storia di persecuzione della massoneria. Nel 1814, per esempio,

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Una specificità cattolica

1854

1870

Marie Joseph Gabriel Antoine Jogand-Pagès (noto con lo pseudonimo di Léo Taxil) nasce a Marsiglia da una famiglia cattolica.

Fine dello stato pontifico, che passa al nuovo Regno d’Italia. In Francia inizia la Terza repubblica, a carattere laico.

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La frode del secolo 1884

1885

1897

1907

Enciclica Humanum genus, con cui papa Leone XIII lancia un appello a smascherare la massoneria.

Léo Taxil finge di convertirsi al cattolicesimo e inizia la sua attività di propaganda antimassonica.

Durante una conferenza alla Società geografica di Parigi, Taxil dichiara che le sue rivelazioni sulla massoneria sono false.

Léo Taxil muore a Sceaux, alla periferia di Parigi. Dopo lo svelamento del suo inganno aveva lavorato come correttore di bozze.

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LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

COPERTINA DI UN LIBRO ANTIMASSONICO DELLO SCRITTORE CATTOLICO ABEL CLARIN DE LA RIVE, PUBBLICATO NEL 1894.

CHI ER A NO I M A SSONI? I FRAMMASSONI O MASSONI devono il loro nome al

termine inglese mason, che designava i muratori di epoca medievale. Questi si riunivano in confraternite che poi, nel XVIII secolo, si trasformarono in associazioni di “liberi muratori” (free masons), in cui il linguaggio e gli strumenti dei costruttori medievali assumevano un significato simbolico. I suoi membri, che aspiravano al perfezionamento spirituale, erano organizzati in gerarchie (gradi), si incontravano nelle logge e agivano con discrezione, se non con segretezza. Lo stato e la Chiesa guardavano con sospetto alla massoneria e alle sue tendenze laiche, liberali e tolleranti, ritenendo che minassero la società e la fede.

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Vittorio Emanuele emanò un decreto con il quale proibiva le associazioni segrete e, soprattutto, quelle della massoneria.

L’ostilità nei confronti dei massoni si intensificò notevolmente dopo la Rivoluzione francese del 1789. Nelle sue Memorie, che illustrano la storia del giacobinismo, il gesuita Augustin Barruel attribuì alle logge la responsabilità degli eventi rivoluzionari. Cominciò a prendere forza l’idea dell’esistenza di una cospirazione massonica universale contro la religione e l’ordine stabilito. Per tutto il XIX secolo si moltiplicarono le opere di denuncia di questa presunta congiura contro il trono e l’altare, spesso scritte da ecclesiastici francesi, quali monsignor de Ségur. Allo stesso tempo, le nuove condanne papali identificavano i

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BERTRAND RIEGER / GTRES

massoni con Satana, a cominciare dalla bolla Quo graviora emessa da Leone XII nel 1825. Tuttavia fu alla fine dell’ottocento che il contesto divenne particolarmente favorevole all’intensificarsi delle campagne antimassoniche. Il 1870 fu un anno doppiamente traumatico per la Chiesa: segnò la fine del potere temporale del papa, con la conquista dello stato pontificio da parte del neonato Regno d’Italia, e l’inizio della Terza repubblica in Francia, che si caratterizzò per le misure a favore della laicità. Di fronte alla perdita di autorità e di influenza, la reazione della Chiesa e dei cattolici più conservatori si manifestò su diversi piani, uno dei quali fu la lotta antimassonica. In un mondo in rapido cambiamento, la massoneria appariva un nemico facilmente

identificabile, un paradigma di modernità e secolarizzazione su cui far ricadere la responsabilità dell’attuale degrado morale. D’altro canto questa strategia era favorita dall’anticlericalismo degli stessi massoni. L’ondata antimassonica della fine del XIX secolo culminò nel 1884, quando papa Leone XIII lanciò un appello a smascherare la massoneria nella sua enciclica Humanum genus: «Togliere alla setta massonica le mentite sembianze, e renderle le sue proprie», scriveva il pontefice. Ebbe così inizio una campagna

TEMPIO MASSONICO

Interno del tempio Franklin Roosevelt, presso la sede della Gran Loggia di Francia, a Parigi. Nata nel 1894, si stabilì qui nel 1910.

L’AZIONE ANTIMASSONICA DELLA CHIESA CATTOLICA SI INSERISCE NEL CONTESTO DELLA SUA PERDITA DI POTERE ALLA FINE DEL XIX SECOLO STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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INSEGNE MASSONICHE. XIX SECOLO. MUSEO DEL RISORGIMENTO, MILANO.

BERTRAND RIEGER / GTRES

UN “CACCIATORE MASSONE”, DALLA FISIONOMIA EBRAICA (SECONDO L’IMMAGINARIO ANTISEMITA), TIENE AL GUINZAGLIO UN CANE DA CACCIA CON UNA FASCIA MASSONICA AL COLLO E UN CILINDRO IN TESTA, CHE RAPPRESENTA UN POLITICO. IL SUO OBIETTIVO È IL PRELATO IN AVVICINAMENTO. 1909. RIVISTA CATTOLICA LE PÈLERIN.

internazionale senza precedenti, che registrò svariate iniziative contro la «setta massonica»: dalla pubblicazione di libri e riviste alla fondazione di società, fino alla diffusione di lettere pastorali.

L’anima dell’impostura A modo suo, Léo Taxil fu tra coloro che risposero all’appello del papa. Nato a Marsiglia nel 1854, Marie Joseph Gabriel Antoine Jogand-Pagès (questo era il suo vero nome) era un giornalista di tendenze anticlericali e blasfeme che aveva fatto brevemente parte di una loggia del Grande Oriente di Francia – il Tempio degli amici dell’onore francese –, dalla quale fu espulso in seguito a un’accusa di plagio.

Un anno dopo l’enciclica di Leone XIII, Taxil dichiarò di essersi pentito della sua empietà e di aver fatto ritorno all’ovile del cattolicesimo in cui era stato educato. Insieme ad alcuni collaboratori iniziò un’intensa attività di propaganda antimassonica, che si concretizzò nella pubblicazione di vari libri sui segreti della confraternita, come Les mystères de la Franc-maçonnerie, Les sœurs maçonnes e Les frères Trois-Points, tutti pubblicati nel 1886. Questi testi, improntati al sensazionalismo e con un certo gusto per i dettagli scabrosi, ebbero grande successo e vennero tradotti in varie lingue.

La grande cospirazione na peculiarità del movimento antimassonico cattolico è che riteneva la massoneria un’alleata degli altri nemici del cristianesimo, in particolare degli ebrei. Questa identificazione era favorita dalla tolleranza religiosa esistente nella

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contesti differenti. Ma Taxil si mantenne lontano dall’antisemitismo virulento di altre iniziative antimassoniche di fine secolo, e nel 1890 si presentò alle elezioni municipali in una circoscrizione di Parigi contro l’antisemita Édouard Drumont. «LA FRAMMASSONERIA, ECCO IL NEMICO». UNO STIVALE SI APPRESTA A SCHIACCIARE IL RAGNO MASSONICO CHE DOMINA LA FRANCIA. 1907. LE PÈLERIN.

BIANCHETTI / LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

confraternita e dal fatto che questa usasse elementi simbolici di origine ebraica. Ma era soprattutto indice di una certa tendenza a raggruppare i vecchi e i nuovi nemici del cattolicesimo – rispettivamente ebrei e massoni –in una sorta di entità maligna bicefala: la giudeo-massoneria. A inizio ottocento nacque così il mito del complotto giudaico-massonico, che avrebbe saputo adattarsi a epoche e

SELVA / LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

GUSMAN / LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

«UN TEATRINO NEFASTO»: COSÌ SI INTITOLA QUESTA CARICATURA IN CUI SI VEDE UN EBREO MANOVRARE UN MASSONE CHE, A SUA VOLTA, MANOVRA I PARLAMENTARI. 1909. RIVISTA LE PÈLERIN.

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BRIDGEMAN / ACI

PRESUNTA FOTO DI DIANA VAUGHAN, PERSONAGGIO CREATO DA TAXIL PER DARE CREDIBILITÀ ALLA SUA FRODE.

LE A LTRE TRU FFE DI LÉO TA XIL LA MENZOGNA su Diana Vaughan e il palladismo fu la mistificazione più riuscita di Taxil, ma non la prima. Nel 1873, a soli 19 anni, utilizzò il suo giornale, La Marotte, per diffondere la notizia che la baia di Marsiglia era infestata dagli squali, con tanto di false lettere di pescatori terrorizzati. Sembra che la gente del posto si spaventò a tal punto che fu necessario inviare dei soldati per affrontare il pericolo. Successivamente Taxil si inventò la storia di una città romana sommersa sotto le acque del lago Lemano, e vari archeologi e curiosi si convinsero di averne intravisto i resti. Fu lo stesso Taxil a citare questi aneddoti durante la sua confessione, pertanto c’è da chiedersi quanto siano attendibili.

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Tra le rivelazioni di Taxil c’era la descrizione del «palladismo» o «rito palladiano», un culto satanico riservato agli alti gradi della massoneria, che prevedeva l’apparizione di Lucifero in forme a volte piuttosto fantasiose – in un caso aveva assunto le sembianze di un coccodrillo che suonava il pianoforte. I particolari più sorprendenti della cerimonia furono rivelati da Diana Vaughan, una palladiana statunitense poi convertita al cattolicesimo. In realtà era tutta un’invenzione di Taxil per rendere più credibili le sue menzogne. Diana era una semplice dattilografa, e il vero autore delle confessioni era lo stesso avventuriero marsigliese. Ma la cosa stupefacente è che la storia di Vaughan venne presa per buona e rilanciata dai più seri giornali religiosi; e fu anche avallata da molti studiosi cattolici (come i vescovi Léon Meurin e Amand-Joseph Fava), che la consideravano degna di fede. La conversione fittizia di Diana ricevette il plauso di vari rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, tra cui alcuni cardinali, mentre solo una minoranza di voci cattoliche si levò per mettere in discussione le montature su una presunta massoneria luciferiana. Taxil fu uno dei partecipanti più attesi al primo Congresso internazionale antimassonico, tenutosi a Trento nel settembre del 1896. Le rivelazioni del giornalista marsigliese e di Vaughan ebbero ovviamente un ruolo centrale nell’evento e furono accolte con entusiasmo dal pubblico. Ma, un po’ alla volta, l’impostura di Taxil cominciò a incrinarsi. Incalzato dalle domande di vari prelati tedeschi che diffidavano della reale esistenza dell’ex palladiana, Taxil mostrò una foto della donna. Ciononostante, i dubbi sul conto di Vaughan continuarono a crescere. E così, il lunedì di Pasqua del 1897 Taxil svelò un inganno durato oltre dieci anni. L’annuncio, che suscitò un grande scandalo, fu fatto in occasione di una conferenza presso la Società geografica di Parigi e si concluse con queste parole: «Signori, confesso che ho commesso un infanticidio: il palladismo ora è morto perché suo padre l’ha assassinato». Taxil aveva centrato tutti i suoi obiettivi: la provocazione, l’arricchimento personale e

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JULIAN SCHLOSSER / GETTY IMAGES

la beffa nei confronti del mondo ecclesiastico. La rivelazione del suo imbroglio contribuì a screditare momentaneamente gli eccessi dell’antimassoneria cattolica, in particolare le accuse di satanismo rivolte agli avversari. All’inizio del XX secolo il movimento antimassonico perse notevolmente forza, dimostrando così quanto era stato influenzato dai libri del giornalista marsigliese. Anche se l’idea di un culto di Lucifero non scomparve mai del tutto (se ne possono vedere tracce fino ai nostri giorni), il tema non fu più al centro del discorso antimassonico. L’impostura di Taxil non fu quindi un semplice aneddoto curioso, ma una frode che si protrasse per anni e che risulta particolarmente rappresentativa dell’epoca in cui avvenne. Fu una storia di

truffatori e vittime inconsapevoli, di paure e desideri, che rivela il fascino quasi inconfessabile suscitato dalla massoneria, tanto più se ammantata di rivelazioni fantasiose dal contenuto più o meno scabroso.

La volontà di credere Come nel caso di altre famose imposture, la durata e il successo della menzogna di Taxil dipesero più dalla disponibilità delle sue vittime che da un particolare merito proprio. In una certa misura questa mistificazione può essere spiegata solo dalla volontà dei destinatari di lasciarsi ingannare, dal desiderio di credere alla conversione dei propri nemici, per quanto improbabile possa sembrare. Le rivelazioni di Taxil andavano a confermare,

UN TEMPIO VOTIVO

La basilica del Sacré-Coeur di Montmartre, a Parigi, fu concepita nel 1870 come voto per espiare i peccati commessi dal Paese, dove proliferavano idee sociali e morali considerate pericolose per l’ordine vigente.

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in una versione ancor più estrema, i pregiudizi che gli antimassoni cattolici nutrivano da decenni in merito alla perversità della massoneria, al suo carattere anticristiano e ai suoi legami con Lucifero.

Qualcosa di simile accadde nel caso di un altro celebre falso, i Protocolli dei Savi di Sion, che neanche vent’anni dopo avrebbe riacceso la propaganda antimassonica in chiave più marcatamente antisemita. Si trattava di un presunto programma di dominazione mondiale orchestrato dagli ebrei, da realizzarsi con l’aiuto della massoneria, tramite guerre, rivoluzioni e la distruzione delle istituzioni tradizionali. I Protocolli erano stati elaborati da agenti della polizia segreta zarista, l’Ochrana, nella Parigi a cavallo tra i due secoli, subito dopo la fine della vicenda Taxil. Tuttavia furono i timori suscitati dalla Rivoluzione russa del 1917 a favorirne la diffusione a livello mondiale nel primo dopoguerra, quasi vent’anni dopo la loro stesura. In questo caso la contraffazione permetteva di riaffermare i secolari pregiudizi antisemiti e, al contempo, dimostrava il suo presunto valore profetico in merito al complotto giudaico-bolscevico. In sostanza, l’inganno di Taxil e i Protocolli attecchirono perché il terreno era già fertile; chi diffuse quelle mistificazioni seppe approfittare di contesti favorevoli alla loro accettazione. Nel romanzo Il cimitero di Praga Umberto Eco mette in bocca al marsigliese una frase che suggerisce quale fu il semplice meccanismo che consentì la più grande impostura antimassonica della storia: «La caratteristica principale della gente è che è disposta a credere a tutto».

Léo Taxil confessa la verità

JAVIER DOMÍNGUEZ ARRIBAS UNIVERSITÀ DI PARIGI XIII TESTI

Storia segreta della massoneria Léo Taxil. Jouvence, Milano, 2016. SAGGI

Storia della massoneria in Italia Aldo A. Mola. Bompiani, Milano, 2018. Origini e storia della massoneria Michael Baigent, Richard Leigh. Newton Compton, Roma, 2005. ROMANZI

Il cimitero di Praga Umberto Eco. Bompiani, Milano, 2010.

MARY EVANS / SCALA, FIRENZE

Per saperne di più

l 19 aprile 1897, quando ormai il suo raggiro stava per essere scoperto, Léo Taxil giocò d’anticipo. Durante una conferenza presso la Società geografica di Parigi annunciò che Diana Vaughan – la presunta iniziata ai culti luciferiani praticati dai massoni – non esisteva. Ciò provocò uno scandalo di enormi proporzioni, poiché tutta la storia della massoneria satanica si reggeva sulle confessioni di questa ex adepta convertita al cattolicesimo. Nel settembre del 1896 (pochi mesi prima che Taxil rivelasse la sua impostura) la rivista dei gesuiti romani La Civiltà Cattolica dichiarava: «Miss Diana Vaughan, chiamata dalle profondità delle tenebre

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alla luce di Dio [...] si rivolge alla Chiesa per servirla, e le sue preziose e inesauribili pubblicazioni non hanno eguali per accuratezza e utilità». La realtà era ben diversa, come rivelò quel giorno Léo Taxil: «Con il nome di “dottor Bataille” ho raccontato che il tempio massonico di Charleston contiene un labirinto al centro del quale si trova la cappella di Lucifero, e ne ho dato conferma tramite la firma di “Miss Vaughan”». Ma c’era dell’altro. “Bataille” aveva raccontato anche che una delle sale di forma triangolare, che porta il nome di Sanctum Regnum, «ha per principale ornamento la mostruosa statua del Bafometto, alla quale gli alti massoni rendono culto; che un’altra sala contiene una statua di Eva che si anima quando una maestra templare è particolarmente gradita a maestro Satana, e che questa statua diviene allora la diavola Astarte, che prende corpo e vive per un attimo, per dare un bacio alla maestra

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templare privilegiata». Continua Taxil: «Il vescovo cattolico di Charleston, monsignor Northrop, si è recato apposta a Roma per assicurare al Pontefice che questi racconti erano assolutamente fantasiosi […] Northrop disse: “È falso, assolutamente falso che i massoni di Charleston siano i capi di un supremo rito luciferiano. Io conosco benissimo i più importanti tra loro […] Ho visto il loro tempio: non esiste neanche una delle sale descritte dal dottor Bataille e da Miss Vaughan. Questa pianta è una burla”. Il vescovo, di ritorno da Roma, non ha più protestato; è rimasto in silenzio: Miss Diana Vaughan, al contrario, ha risposto all’intervista dicendo che il vescovo di Charleston era lui stesso un massone, e lei aveva ricevuto la benedizione del papa».

SELVA / LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

DIANA VAUGHAN SVELA ALLA CHIESA GLI ORRORI DELLA MASSONERIA, MA È TAXIL A DETTARLE LA CONFESSIONE. CARICATURA APPARSA NEL MAGGIO DEL 1897 SULLA RIVISTA JUGEND.

CARICATURA DI LÉO TAXIL, OPERA DI GILL, SUL NUMERO 71 DI LES HOMMES D’AUJOURD’HUI. 1879.

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Massoni, la confraternita oscura

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volume di oltre 800 pagine dal titolo Les mystères de la Franc-maçonnerie, che fu tradotto in diverse lingue da vari editori cattolici. Il libro, costellato di illustrazioni truculente, descriveva la massoneria come una società segreta anticattolica con finalità maligne; raccontava di fantasiosi rituali che avvenivano nelle logge; tracciava una storia dell’associazione che ne faceva SQUADRA E COMPASSO, PRINCIPALI SIMBOLI MASSONICI, risalire le origini ad antiche sette INCISI SULLA CASSA DI UN eretiche; bollava i massoni come OROLOGIO. XIX SECOLO. antipatriottici, perché anteponevano l’adesione alla massoneria alla fedeltà al proprio Paese, e li accusava di numerosi omicidi di ex membri della confraternita. Taxil si paragonava a William Ward, un presunto massone americano ucciso per aver rivelato i segreti della loggia: «Se soccomberò ferito da un pugnale o da un colpo di pistola, saprete da quali antri sono sbucati i miei assassini. Se soccomberò a una malattia imprevista, se ne conosceranno le cause criminali prima della mia morte».

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NEL 1886 LÉO TAXIL pubblicò un

Sanguinose iniziazioni

Secondo Taxil, durante l’iniziazione di un Cavaliere Kadosh la mano dell’aspirante viene poggiata sul ventre glabro di una pecora, per fargli credere di sentire le pulsazioni di un cuore umano, e gli viene ordinato di affondare il pugnale nel corpo della vittima.

Copertine raccapriccianti Codici segreti

Esistevano vari alfabeti massonici, ma avevano tutti un semplice carattere rituale. Non erano quindi uno strumento segreto di comunicazione per scopi inconfessabili, come suggerisce Taxil.

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I libri di Taxil furono pubblicati in un’epoca di espansione dei giornali di massa e della letteratura popolare, che trionfavano offrendo al pubblico storie oscene e scandalose. AKG / ALBUM

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AKG / ALBUM

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Parodia anticattolica

Storia sacrilega

Taxil descrive la cerimonia di adozione dei louveteaux – i figli dei massoni – da parte della loggia come se fosse una parodia intenzionale del battesimo cattolico. «Poveri bambini! Sciagurati genitori!», conclude.

Taxil pone alle origini della massoneria la setta immaginaria dei «luciferiani», che nella Colonia del XIII secolo pugnalano un’ostia consacrata al cospetto di Lucifero. Secondo Taxil, da loro discenderebbero anche i fraticelli italiani e gli hussiti boemi.

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Il veleno segreto dei massoni Tra le varie invenzioni di Taxil che contribuirono a caratterizzare la massoneria come un’organizzazione criminale, c’era questa bevanda, la Manna di San Nicola di Bari (l’acqua che si forma nella tomba del santo). Dietro al suo aspetto innocente (e cattolico), si nascondeva un veleno prodotto a Napoli che, secondo Taxil, «viene inviato ai supremi consigli [massonici] che ne fanno richiesta».

Ricostruzione dell’omicidio del newyorkese William Morgan, un presunto fuoriuscito dalla massoneria che aveva annunciato la pubblicazione di un libro di denuncia contro la loggia, e che si diceva fosse stato rapito e ucciso dai suoi ex confratelli nel 1826.

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ILLUSTRAZIONI PROVENIENTI DA LES MYSTÈRES DE LA FRANC-MAÇONNERIE, PUBBLICATO A PARIGI NEL 1886 DA LETOUZEY ET ANÉ.

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Omicidi selettivi

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LA TERRA

Contagiato dal colonialismo imperante, nel 1911 il Regno d’Italia si lanciò

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LA CONQUISTA DELLA COSTA

Le truppe italiane sbarcano a Tripoli nel 1911 dando inizio alla Guerra italo-turca. Cartolina propagandistica dell’epoca. Castello Museo storico italiano della guerra, Rovereto. A. DAGL / DEA / AGE FOTOSTOCK

PROMESSA alla conquista della Libia. Un’impresa ben più ardua del previsto

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no “scatolone di sabbia”: un grande deserto, qualche oasi e, al massimo, tanti datteri. Con una superficie di un milione 760mila chilometri quadrati, la Libia è il quarto paese africano per estensione e quello “scatolone di sabbia” – come nel 1911 la definì lo storico e politico socialista Gaetano Salvemini con disinteresse e una dose di sano, ma non apprezzato, anti-colonialismo – rappresenta quasi

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flitto e arriveranno a proporre all’Italia il protettorato anche dopo l’inizio della guerra. In Italia l’idea stessa della guerra e del suo carattere coloniale aveva profondamente diviso il Paese e un parlamento già ostile al primo ministro.

La conquista a dibattito Sui giornali la polemica divampava già da mesi con toni accesi. I nazionalisti, i giornalisti dei quotidiani più importanti, i cattolici, il poeta Giovanni Pascoli e il “vate” Gabriele D’Annunzio erano tutti a favore. Proliferavano libri e studi eruditi e si facevano conferenze per dimostrare, con l’aiuto della storia, che in fondo andare in Libia era come tornare a casa. Non erano forse romane le città di Sabratha, di Leptis Magna, di Cirene? I romani non avevano conquistato e portato la loro civiltà all’interno del Paese fino a domare anche i bellicosi e fieri garamanti? La Libia era, appunto, una specie di “terra promessa”. E le banche romane controllate dal Vaticano (che già avevano investito in quelle province dell’impero ottomano) spingevano per preservare i loro

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sei volte l’Italia. Un territorio immenso, del quale all’epoca non erano stati ancora scoperti i ricchi giacimenti petroliferi, e scarsamente abitato. Nelle aule del parlamento, già dalla fine dell’ottocento, si sentiva ribattere con foga che quelle terre, definite da molti la “terra promessa”, avrebbero potuto ospitare milioni di italiani poveri e senza lavoro invece di vederli scappare verso le Americhe in un’ondata migratoria che sembrava inarrestabile. Il primo ministro Giovanni Giolitti, e chi la pensava come lui, voleva seguire l’esempio di altre capitali europee, come Parigi, e impossessarsi delle terre africane. La data ufficiale dell’inizio della guerra contro i turchi, che governavano il territorio corrispondente all’odierna Libia dalla metà del cinquecento, è il 29 settembre 1911. Il Regno d’Italia festeggiava allora il suo cinquantenario mentre l’impero ottomano era in una fase di rapida disgregazione dopo più di seicento anni al potere (dal 1299 circa al 1922). I turchi cercheranno fino all’ultimo di evitare il con-

1911

1929-1931

1943

Ha inizio la cosiddetta Guerra italo-turca. Il 5 ottobre le truppe italiane guidate da Umberto Cagni sbarcano a Tripoli.

Il generale Graziani sopprime la resistenza libica. Nel ’34 il governatore Balbo avvia la migrazione di migliaia di italiani.

Con la caduta del fascismo, la Libia viene occupata dagli inglesi; i francesi controllano il Fezzan, regione al sudovest della Libia odierna.

L’ITALIA PORTA LA CIVILIZZAZIONE IN TRIPOLITANIA. ILLUSTRAZIONE DI LE PETIT JOURNAL. 1911.

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ENTRATA TRIONFALE

Le truppe italiane entrano a Tripoli nell’autunno del 1911.

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1969

1970

2011

Proclamazione dell’indipendenza della Libia. Viene nominato re Idrı̄s, capo della confraternita dei Senussi.

Con un colpo di stato Muhammar Gheddafi depone il re Idrı̄s e proclama la Repubblica araba di Libia.

Nazionalizzazione delle banche e delle proprietà straniere; circa 20mila residenti italiani sono obbligati a lasciare il Paese.

Tre anni dopo l’accordo che pone fine al contenzioso coloniale, guerra civile e competizione neo-coloniale dividono la Libia.

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CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

HAI VISTO DOV’È BABBO?

Vigilia di Natale. Una madre indica al figlio dove si trova il suo papà su una cartina della Libia. 1911. Illustrazione italiana. DEA / GETTY IMAGES

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interessi e andare ancora più avanti. Tra i contrari alla conquista, a fianco di Salvemini si consolidarono alleanze che soltanto pochi anni dopo sarebbero state improponibili. Benito Mussolini, allora socialista, e Pietro Nenni, all’epoca repubblicano, furono persino arrestati, condannati e imprigionati per qualche mese nel carcere di Bologna per aver manifestato contro l’impresa e contro la politica delle altre potenze europee che il governo di Roma voleva inseguire. La corsa per il controllo del Mediterraneo e dei resti della “Sublime Porta”, come i turchi chiamavano il loro impero, aveva già portato Gran Bretagna e Francia a impadronirsi dei bocconi più ghiotti del Mare nostrum,

dal Marocco all’Egitto. Restavano Tripolitania e Cirenaica. E ai 1732 marinai al comando del capitano Umberto Cagni che sbarcarono a Tripoli, l’impresa appariva, oltre che totalmente giustificata dalla storia, facile. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Mai più vero il detto. Gli analisti, così presi dalla voglia di agire, si erano resi colpevoli di una superficialità che spesso, ancora oggi in un mondo molto più informato, fa fallire progetti di conquista. Avevano sottovalutato la resistenza dei turchi. E soprattutto quella dei libici, divisi o uniti in tribù o popoli il cui comune denominatore era l’islam e l’odio nei confronti di ogni invasore.

Le due fasi della conquista Anche per questo la conquista della Libia si svolse in due fasi quasi distinte: la prima, superficiale e approssimativa, portò gli italiani a impossessarsi di parte del Paese (1911-12) prima di essere respinti e confinati sulla costa intorno a Tripoli e Bengasi (1914-15). La seconda, definita la“riconquista”, venne portata a termine dal regime fascista mussoliniano. Strumenti di guerra più efficaci e micidiali vennero messi a disposizione dell’esercito da un governo disposto a vedere la decimazione della popolazione autoctona pur di “pacificare” lo “scatolone” e di renderlo abitabile e ospitale per le decine di migliaia di coloni che vi sarebbero stati trasferiti dall’Italia. Se nella prima fase le atrocità furono causate dall’inesperienza e dall’approssimazione, nella seconda la repressione divenne una scelta ben precisa, codificata, messa in atto con determinazione e, dunque, senza attenuanti. Quelli che oggi chiamiamo“crimini di guerra” – stupri, scempi sui corpi degli uccisi, armati e no – furono spesso reciproci nella prima fase del conflitto ma, con l’avvento del fascismo, divennero più strutturati. Massacri dei civili con la giustificazione che nascondevano i ribelli, marce forzate di intere comunità e campi di concentramento, eliminazione di greggi e altre fonti di sostentamento, impiccagioni dopo processi sommari e, verso la fine dello scontro armato, rappresaglie feroci come a Cufra (dove molti capi tribù furono fatti salire in aereo e buttati sulle popolazioni costrette a guardare) sono apparsi a molti storici come un vero e proprio progetto di genocidio. Il 23 ottobre 1911, meno di un mese dopo lo

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Le molteplici popolazione libiche erano soprattutto arabi, berberi e tuareg i libici che gli italiani trovarono quando approdarono nel vasto Paese. E la loro lingua unificante era l’arabo. Berberi e tuareg, gli abitanti originari della regione nordafricana, appartengono al medesimo gruppo etnico e hanno in comune un’antica lingua scritta e ancora oggi parlata in alcune zone. Nelle regioni meridionali, gruppi di tebu e hausa provenienti dall’Africa subsahariana occupavano molte oasi. Nelle montagne a sud di Tripoli, in mezzo o accanto ai berberi, fin dall’antichità si erano insediati nuclei di ebrei (chiamati trogloditi per le loro abitazioni scavate nella roccia). Nel tempo, a questi si aggiunsero altri arrivati dalla Spagna all’epoca dell’Inquisizione, per un totale di circa 28mila persone. I sefarditi, dediti soprattutto al commercio, vivevano a Tripoli e a Bengasi. Legarono immediatamente con i co-

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lonizzatori italiani, ma il filo fu spezzato con la proclamazione delle Leggi speciali anti-ebraiche nel 1938. Allora come oggi, arabi, berberi e tuareg erano divisi in circa cento tribù distribuite sul territorio e spesso antagoniste tra di loro. I warfalla, presenti soprattutto in Tripolitania; i ghadala (la famiglia di Muhammar Gheddafi) a Sirte e dintorni; i megarha, nella regione sudorientale del Paese; gli zuwayya, a est (zona oggi strategicamente importante per il controllo delle condutture petrolifere), costituivano i nuclei più potenti con cui gli italiani dovevano fare i conti. I nomadi tuareg si muovevano soprattutto nel Sahara passando da oasi in oasi, anche fuori dai confini coloniali tracciati nelle sabbie del deserto. Invece il grosso dei berberi abitava soprattutto nel Gebel Nefusa, a Zuara sulla costa, e in vari centri dell’interno come Ghat, Gadames, Sokna e Augila.

POPOLI A CONFRONTO Donne libiche vengono sorvegliate da soldati italiani a Derna. L’Illustrazione italiana. 1912. DEA / GETTY IMAGES

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Gaetano Salvemini, voce contro dall’Italia

C

ONVINTO MERIDIONALISTA, ANTIFASCISTA e difensore degli oppressi, Salvemini fu storico, docente universitario, saggista e giornalista. Nacque a Molfetta nel 1873 e si laureò a Firenze. Aderì al Partito socialista, ma in seguito se ne allontanò in quanto lo riteneva non sufficientemente attento alla questione meridionale. Oltre a criticare la Guerra di Libia, in una specie di “crociata per la moralizzazione della vita pubblica” si schierò contro Giolitti, che chiamava «ministro della malavita». A soli 28 anni ricopriva già la cattedra di storia moderna a Messina. Nel 1925, dopo essersi rifiutato di firmare il “Manifesto degli intellettuali fascisti” venne arrestato, imprigionato e, infine, costretto all’esilio. Prima a Londra e a Parigi, poi negli Usa, dalla cattedra di Storia della civiltà italiana a Harvard, continuò la sua battaglia contro il fascismo. Morì a Sorrento nel 1957. GAETANO SALVEMINI IN UNA FOTO DEL 1932 CIRCA.

KEYSTONE / GETTY IMAGES

PRIMI AEREI DA GUERRA

Quella italo-turca fu la prima guerra nella quale si ricorse all’aviazione. Nell’immagine, il capitano Piazza in procinto di fare un giro di ricognizione delle postazioni turche. MARY EVANS / SCALA, FIRENZE

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sbarco delle truppe italiane, gli ottomani e le milizie libiche loro alleate reagirono e attaccarono all’improvviso il perimetro difensivo di Tripoli. Alcune posizioni riuscirono a resistere. Nell’oasi di Sciara el Sciatt, invece, le cose andarono male. La popolazione locale si unì ai combattimenti prendendo alle spalle i bersaglieri e costringendo una compagnia ad arrendersi. Quando gli italiani riconquistarono l’area si trovarono di fronte a un massacro. Quasi tutti i 290 prigionieri in uniforme erano stati trucidati. Un corrispondente francese del Matin descrisse così le sevizie subite da circa 80 bersaglieri: « [...]

gli hanno tagliato i piedi, strappate le mani, poi sono stati crocefissi. Un bersagliere ha la bocca strappata sino alle orecchie, un altro ha il naso segato in piccoli tratti, un terzo ha infine le palpebre cucite con spago da sacco». La reazione delle truppe italiane non fu meno feroce. Vennero uccisi a sangue freddo oltre mille tra uomini, donne e bambini secondo le fonti italiane. Quelle libiche, invece, parlano di quattromila morti. La vicenda, ampiamente raccontata dagli inviati della stampa italiana, suscitò nuove polemiche e per molti anni influenzò i comportamenti delle truppe italiane. Negli stessi giorni, dopo violenti combattimenti venne occupata Bengasi, capitale della Cirenaica, 650 chilometri in linea d’aria da Tripoli. Dopo appena un mese Tripoli e Bengasi erano in mano italiana, ma la resistenza turca e libica continuò. E Roma si servì di ogni mezzo, lecito e illecito, per cercare di penetrare nel vasto interno dello“scatolone di sabbia”. Nei cieli della Libia apparve allora, per la prima volta, una manciata di aerei da combattimento per bombardare e terrorizzare la popolazione. Nonostante vecchie e nuove armi, però, le operazioni militari italiane non andarono bene. Le truppe non erano preparate al deserto, al colera, e ancora meno alla guerriglia urbana. Fu necessario quasi un anno per mettere in ginocchio la Sublime Porta: il trattato di pace tra Italia e Turchia venne firmato il 18 ottobre 1912 a Losanna. Ufficiali e truppe turche si ritirarono dalla Tripolitania e dalla Cirenaica. Ma la resistenza libica era soltanto agli inizi. Le popolazioni combattevano non più per sostenere gli interessi dei turchi, quanto per non essere nuovamente sottoposte a un’occupazione straniera. Quella italiana aveva generato speciale rigetto anche perché, fin da subito dopo lo sbarco, l’Italia aveva revocato ai libici i diritti politici (la possibilità di avere i propri deputati a Costantinopoli, i consigli comunali elettivi, ecc.) che questi avevano conquistato a caro prezzo dall’amministrazione ottomana. Gli arabi e i berberi libici riuscirono a costringere gli invasori a rinchiudersi nelle due grandi città conquistate, Tripoli e Bengasi. Al tempo stesso, erano già stati allestiti reparti di libici disposti a combattere a fianco degli italiani pur di non vedere le loro famiglie colpite da rappresaglie. Negli anni successivi, eritrei, somali, etiopi, yemeniti e sudanesi avrebbero integrato

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LA ROCCAFORTE DELLA RESISTENZA

La capacità di muoversi e nascondersi nel vasto deserto della popolazione libica, in gran parte nomade, fu la chiave per la resistenza contro gli italiani. FRIEDA RYCKAERT / GETTY IMAGES

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Òmar al-Mukhtār, il capo della resistenza

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LI ULTIMI ANNI di Òmar al-Mukhtār, eroe nazionale

libico, sono stati raccontati nel film Il leone del deserto con Anthony Quinn. Òmar nacque nel 1861 da una famiglia di contadini in un villaggio della Cirenaica e studiò prima in una scuola coranica di Giarabub, poi in una madrasa di Zanzur e, infine, aderì come imam alla confraternita dei Senussi. Nel 1922, fu nominato capo delle operazioni militari da Idrı–s as-Sanūsı̄ (che sarebbe diventato il primo re di Libia) e con gran parte della guerriglia unificata riuscì a bloccare per anni l’avanzata italiana. Fu ferito e catturato l’11 settembre 1931 e, quattro giorni più tardi, condannato a morte. Nel giugno 2009 Gheddafi si fece accompagnare in Italia dal figlio di alMukhtār portando sul petto la foto dell’arresto del padre di questi. Per anni il film sulla sua storia era stato bandito dalle sale italiane in quanto “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”.

IL MOMENTO DELLA CATTURA DI ÒMAR.

FOTOTECA GILARDI / AGE FOTOSTOCK

CARTOLINE DALLA LIBIA

Francobolli della serie dell’Istituto coloniale italiano, della IX Fiera campionaria di Tripoli e della serie “Due popoli, una guerra” con ritratti di Mussolini e Hitler. DEA / ALBUM

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i reparti di arabi libici fedeli a Roma che avrebbero sostenuto il grosso del peso della guerra. La Grande guerra impose, se non una vera e propria pausa, quanto meno un rallentamento delle operazioni, che ripresero con maggiore convinzione nel 1922 in quella che fu definita la “riconquista” della Libia. Molte oasi della Tripolitania erano già cadute nelle mani italiane. Il vero nodo era la Cirenaica. Prima il governo liberale, poi quello fascista, si impegnarono a fondo per mettere ordine o, come scrissero, per “pacificare”la provincia libica. Mussolini aveva dimenticato le proteste contro l’occupazione che lo avevano portato in carcere e, da leader dell’Italia, so-

gnava la gloria dell’antico impero di Roma. I generali Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani comandarono le nuove operazioni. Avevano di fronte una resistenza organizzata e sostenuta da tutta la popolazione, in gran parte nomade, e guidata da un uomo abile e carismatico, spronato da religione e nazionalismo: Òmar al Mukhtār. Mukhtār era il capo indiscusso dell’ala militare della Senussia, una confraternita musulmana fondata nell’ottocento da Muh.ammad ibn `Alı̄ as-Sanūsı̄, un mistico algerino che aveva istituito la sua comunità nell’oasi di Giarabub. Prima di combattere gli italiani, i fedeli della setta avevano lottato contro l’espansione francese nel Sahara e nel Ciad. Sul piano strettamente militare i mezzi di cui disponevano i ribelli (vecchi cannoni e fucili turchi, dromedari con cui muoversi nel deserto e, soprattutto, il sostegno della popolazione civile, che consentiva loro di nascondersi di giorno e di colpire con il buio le posizioni italiane più isolate) non potevano competere con gli aerei armati di bombe e mitragliatrici e con i semicingolati adatti agli spostamenti nel deserto. Ma a un certo punto Roma, che giocava anche sulle rivalità tra le tribù, si rese conto che la superiorità delle armi e il cosiddetto dialogo era insufficiente. E allora puntò sulla repressione e il massacro della popolazione civile. Nel gennaio 1929 il maresciallo Badoglio assunse il governo di Tripolitania e Cirenaica: iniziò così la pagina più nera del colonialismo italiano in Libia. Il suo obiettivo era chiaro e non aveva remore a scriverlo. «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica».

Metodi spietati L’uomo che traduceva le disposizioni arrivate dal duce e decideva le strategie era Rodolfo Graziani. Freddo e spietato, sperimentò metodi mai usati prima in combattimento. Se tra il 1911 e il 1912 la giovane aviazione del Regno lanciava bombe grandi come pompelmi – più per spaventare e stordire i ribelli che per uc-

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L’ARCO DEI FILENI

Noto anche come “El Gaus”, quest’arco trionfale venne fatto costruire per volontà del governatore della Libia Italo Balbo (il quale attuò un ampio piano di costruzioni di strade, infrastrutture ed edifici pubblici) al confine tra Cirenaica e Tripolitania. Nel 1973 è stato smantellato per volontà di Gheddafi in quanto simbolo del colonialismo. SZ PHOTO / PHOTOAISA

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DEA / GETTY IMAGES

A PROVA DI CANNONE

Cannoni italiani a Gargaresh, in Tripolitania, bombardano la località di Zanzur. Fotografia di Emegi per L’Illustrazione Italiana del 25 febbraio 1912.

ciderli – nella nuova fase gli ordigni erano di dimensioni maggiori. Si decise anche di tirare fuori dai magazzini di residuati bellici della Guerra mondiale, quelli carichi di iprite, un gas già sperimentato in combattimento sul fronte francese e successivamente bandito dalle convenzioni internazionali. Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930 l’aviazione in Cirenaica eseguì, secondo fonti ufficiali, ben 1605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice. Le fonti, però, non precisano quante tonnellate di bombe fossero cariche di iprite. Molta documentazione del suo uso è stata eliminata ma qualcosa è rimasto negli archivi, come testimonia questa relazione “segreta” del 6 gennaio 1928. «Come stabilito, stamane quattro Ca73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente distruzione. I quattro Ca73 si sono spinti circa settanta chi-

lometri sud Nufilia bombardando anche a gas circa quattrocento tende […]». L’attacco all’oasi non fu un episodio isolato. Nel mirino anche greggi e cammelli, per costringere alla resa i civili – all’incirca centomila persone – e poi convogliarli in vasti campi di concentramento perché non potessero più aiutare i “ribelli”. Non erano campi di sterminio come quelli nazisti, ma i morti furono comunque decine di migliaia. «Ogni giorno da El Agheila uscivano cinquanta cadaveri. Venivano sepolti in fosse comuni. […] Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di malattia», avrebbe raccontato anni dopo un sopravvissuto. Nelle vicinanze di uno di questi campi, dove affiorano ancora oggi le sepolture delle vittime, c’è un piccolo monumento per ricordare il capo della resistenza, Òmar al-Mukhtār. Nonostante gli fossero rimasti appena settecento combattenti, non volle arrendersi. L’11 settembre 1931 venne ferito e catturato e, dopo un processo sommario e un breve colloquio con Graziani a Bengasi, venne trascinato a Soluch, a ridosso di uno dei campi di concentramento fascisti e impiccato alla presenza di migliaia di libici. Le sue ultime parole furono quelle di un noto versetto coranico: Innā li-llāhi wa innā ilayHi rāgi‘ūna (“A Dio apparteniamo e a Lui ritorniamo”). Badoglio avrebbe dovuto aspettare il 24 gennaio del 1932 per annunciare fiero: «La ribellione in Cirenaica è completamente e definitivamente stroncata». Il territorio strappato all’impero ottomano sarebbe rimasto saldamente nelle mani dell’Italia di Mussolini fino alla Seconda guerra mondiale, quando la colonia si sarebbe trasformata in un grande campo di battaglia. La sconfitta del fascismo avrebbe segnato la fine del colonialismo italiano e la Libia sarebbe diventata uno stato indipendente. E dalle viscere sarebbero usciti fiumi di petrolio e minerali rari, che avrebbero aperto le porte a devastanti giochi neo-coloniali. ERIC SALERNO SCRITTORE, ESPERTO DI QUESTIONI MEDIORIENTALI E AFRICANE

Per saperne di più

SAGGI

Gli italiani in Libia 2 vol. Angelo del Boca. Mondadori, Milano, 1996. Genocidio in Libia Eric Salerno. Manifestolibri,Roma, 2005. Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento di Giado. Una storia italiana. Eric Salerno. Il Saggiatore, Milano, 2012.

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Dalle deportazioni ai campi di concentramento lo scopo era duplice: mettere fine alla resistenza contro l’occupazione italiana e far posto ai coloni che sarebbero venuti dall’Italia. A partire dal 1930 almeno centomila abitanti di Gebel el-Achdar, i monti fertili della Cirenaica, furono strappati alle loro case e agli accampamenti e costretti a marciare per raggiungere tredici campi di concentramento allestiti nelle regioni più inospitali lungo la costa della Sirtica. Le terre furono espropriate; le zavie, i centri polivalenti senussiti, chiusi, e molti dei pozzi avvelenati per rendere la vita impossibile a chi era riuscito a sfuggire ai rastrellamenti e ai combattenti che avrebbero continuato per mesi la loro lotta contro gli italiani. Quindicimila tra uomini, donne e bambini non arrivarono mai a destinazione. Ai morti per malattia, fame e stanchezza si aggiunsero quelli deceduti per le fustigazioni

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o le fucilazioni di chi non voleva obbedire ai soldati italiani o alle truppe coloniali (composte da eritrei e, talvolta, anche da libici). Nello spostamento fu perso o ucciso gran parte del bestiame (circa un milione di animali) per non farlo cadere nelle mani dei guerriglieri. Le foto scattate dagli aerei militari italiani mostrano campi di tende e spazi per gli animali allestiti nello stile classico romano: quadrati di circa un chilometro quadrato con vie strette per consentire il passaggio dei guardiani e mantenere il controllo dei detenuti. Il tutto era circondato da filo spinato. L’acqua razionata, la mancanza di cibo e le condizioni igieniche fecero scempio degli internati. Come anche le fucilazioni e le impiccagioni quotidiane. Dei circa 85mila internati si sarebbe salvata poco più della metà. Le tombe dei morti affiorano ancora oggi dalla sabbia attorno ai campi.

I MANDANTI Il dittatore Benito Mussolini insieme al generale Rodolfo Graziani a Salò. Dopo il crollo del regime Graziani decise di schierarsi a fianco del duce. Nel 2012 gli è stato intitolato un mausoleo che ha fatto discutere in quanto “affronto alla democrazia”. DU FOTO / SCALA, FIRENZE

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AL LAVORO

Una colona italiana lavora alla raccolta di cereali mentre sua figlia l’aspetta seduta su un sacco pieno di chicchi. Immagine del 1930 circa. “PIÙ ITALIANI DEGLI ITALIANI”

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Bambini libici fanno il saluto romano durante una visita di Mussolini alla colonia nel 1930. All’epoca molti cronisti italiani si sorpresero della “selva di braccia levate” che trovavano ovunque nella Libia italiana. Ancor più che in Italia.

LA VITA NELLA COLONIA ITALIANA

SZ PHOTO / PHOTOAISA

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L’ARRIVO. I FUTURI COLONI VENGONO CONDOTTI IN CAMION AGLI INSEDIAMENTI IN LIBIA. 1939.

SZ PHOTO / PHOTOAISA

migrazione italiana costruirono strade, ponti, ospedali, scuole e altre infrastrutture importanti. Lanciarono iniziative come la Fiera internazionale di Tripoli e il Gran Premio di Tripoli, corsa automobilistica di fama internazionale. Le antiche città romane di Leptis Magna e Sabratha furono disotterrate. All’inizio della Seconda guerra mondiale gli italiani in Libia erano 120mila: circa il 13% della popolazione, concentrati nella costa intorno a Tripoli e Bengasi. Con lo scoppio del conflitto che trasformò la Libia in un campo di battaglia, molti furono costretti ad abbandonare case e proprietà.

Un gruppo di coloni condivide un pasto in una foto scattata tra il 1930 e il 1939.

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rrivarono soprattutto da Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata. Alcuni subito dopo la Prima guerra mondiale, altri alla metà degli anni trenta, quando il governatore Balbo ne portò 20mila e fondò per loro una ventina di villaggi, molti in Cirenaica. In quella che era considerata la “nuova America” per l’e-

A TAVOLA

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ITALIANIZZAZIONE DEI LIBICI dopo la “pacificazione” l’obiettivo di Mussolini fu la “conquista morale” degli arabi. Nei decenni precedenti il sistema scolastico “turco” era stato modificato con iniziative che potevano, all’epoca, apparire migliorative. Tuttavia, soltanto con l’arrivo di Balbo come governatore nel 1934 fu chiaro il progetto di assimilazione che si voleva perseguire. «Noi avremo in Libia non dominatori e dominati, ma italiani cattolici e italiani mussulmani, gli uni e gli altri uniti nella sorte invidiabile di essere gli elementi costruttori di un grande potente organismo, l’Impero Fascista». Al posto della scuola media per gli arabi furono create strutture per insegnare “arti e mestieri” e come educazione superiore furono rafforzate le vecchie istituzioni di studi islamici. Molti libici impararono l’italiano, ma il programma educativo imposto fu un totale fallimento. Quando la Libia divenne indipendente nel 1951, il 91% della popolazione era analfabeta rispetto al 13% in Italia.

GHEDDAFI: DALLA CACCIATA DEI COLONI AI NUOVI RAPPORTI CON ROMA

COMPARSA PUBBLICA DI GHEDDAFI DOPO IL COLPO DI STATO DEL PRIMO SETTEMBRE 1969.

A capo di un gruppo di giovani ufficiali e ispirato dal pensiero pan-arabo del leader egiziano Nasser, nel 1969 Muhammar Gheddafi rovesciò la monarchia senussita a cui l’Onu, alla fine della guerra mondiale, aveva affidato la Libia. Con l’intento di unificare i libici, il nuovo leader distrusse sistematicamente il passato coloniale esaltando al contempo la lotta di liberazione. Cacciò 20mila coloni italiani, sequestrò beni e terre e chiese i danni di guerra e le scuse di Roma, che arrivarono con il premier Berlusconi nel 2008. Ne nacque un nuovo rapporto.

L’Eni divenne il maggiore partner nel settore petrolifero e l’Italia il maggiore partner commerciale della Libia. Furono stilati accordi per gestire o bloccare l’ondata migratoria con il rafforzamento della guardia costiera di Gheddafi e la creazione di campi di detenzione su suolo libico che si sono rivelati veri e propri lager in cui sono detenuti anche donne e bambini. KEYSTONE-FRANCE / GETTY IMAGES

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LA ROCCAFORTE DELLA RESISTENZA

La capacità di muoversi e nascondersi nel vasto deserto della popolazione libica, in gran parte nomade, fu la chiave per la resistenza contro gli italiani. FRIEDA RYCKAERT / GETTY IMAGES

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GRANDI SCOPERTE

Lalibela, le mitiche chiese rupestri dell’Etiopia Nel XVI secolo nella zona etiope di Lalibela i portoghesi trovarono un complesso di chiese scavate nella roccia unico al mondo

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A F R I CA

Lalibela ETIOPIA

OCEANO ATLANTICO

principe, Habrav, ne fu geloso e ordinò di avvelenare il giovane, ormai diventato un rivale. Lalibela sprofondò in un sonno mortale e fu portato da alcuni angeli in cielo, dove osservò delle strane costruzioni. Dio ridiede la vita al giovane principe a patto che questi costruisse nella capitale del regno chiese simili a quelle che aveva intravisto in sogno. Quando fu incoronato re, Lalibela ordinò l’edificazione di undici chiese monolitiche collegate da un intricato sistema di tunnel sotterranei.

Il prete portoghese Francisco Álvares è il primo occidentale a visitare e descrivere le chiese di Lalibela.

1868

Si diceva che fossero state costruite in soli 24 anni grazie all’aiuto degli angeli, che di notte continuavano il lavoro degli uomini. Al di là della leggenda, gli esperti non sono ancora riusciti a spiegare come sia stato possibile costruire con tanta precisione queste chiese composte da un solo pezzo di roccia. CHIESA DI SAN GIORGIO.

Luogo inaccessibile Le chiese furono costruite nella città di Roha, a quel tempo capitale del regno di Zagwe, che fu ribattezzata Lalibela in onore del re. Il luogo è oggi una città monastica completamente isolata a 2.630 metri di altezza, circondata e protetta da una barriera naturale di montagne alte più di 4.000 metri nel cuore degli altipiani a nord dell’Etiopia, nella regione degli Amhara. Fino

L’esploratore tedesco Gerhard Rohlfs descrive Lalibela. Nel 1882 il viceconsole francese Achille Raffray visita la zona.

1939

L’architetto e archeologo italiano Alessandro Monti Della Corte dirige i primi scavi archeologici a Lalibela.

TONI ESPADAS

D

opo la caduta del potente regno di Aksum, intorno al 960 l’Etiopia sprofondò in un’epoca buia. Una fase che terminò soltanto duecento anni più tardi, esattamente nel 1181, con l’ascesa al trono dell’imperatore Gebre Maskal Lalibela. La vita di questo re della dinastia Zagwe si snoda tra il mito e la storia. Secondo la leggenda, alla nascita del principe uno sciame di api circondò il corpo del bambino senza lasciare alcun segno. Allora la regina madre esclamò: «Le api sanno che sarà re!» e chiamò il figlio Lalibela, che significa “le api riconoscono la sua sovranità”. Il fratello maggiore del

Intagliata in un unico, gigantesco blocco di pietra e con la pianta a forma di croce greca, questa chiesa è uno degli edifici più importanti di Lalibela.

a poco tempo fa Lalibela era un luogo praticamente inaccessibile e arrivarci era un’impresa: per raggiungere la città sacra erano necessari circa due giorni di viaggio a

1966-1970

Con il patrocinio dell’Unesco, la squadra diretta da Sandro Angelini ripristina l’aspetto originale delle chiese.

CROCE ASTILE ETIOPE DEL XVI SECOLO. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK. MET / SCALA, FIRENZE

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CRISTIANESIMO ETIOPE

dorso di mulo. Fu questa la sfida che dovettero affrontare i viaggiatori portoghesi che nel XVI secolo fecero conoscere questo luogo agli europei.

Arrivano i portoghesi Dal XII secolo era credenza diffusa in Europa che in qualche zona dell’Estremo Oriente ci fosse un regno cristiano situato nelle terre da cui provenivano i re Magi e governato da un

misterioso personaggio noto come Prete Gianni. Molti governanti europei inviarono spedizioni oltre i confini dell’Armenia e della Persia per incontrare questo regno leggendario, finché nel XIV secolo le ricerche si concentrarono in Africa orientale, più concretamente in Etiopia. Allora nota con il nome di Abissinia, era un regno cristiano i cui imperatori si consideravano discendenti della mitica regina di Saba.

L’ETIOPIA fu una delle prime nazioni africane ad abbracciare il cristianesimo. Il re Ezanà si convertì nel IV secolo e pose il Paese sotto la chiesa copta di Alessandria. Durante la dinastia zagwe il cristianesimo adottò alcune peculiarità. Gli zagwe si ritenevano discendenti del re Salomone e della regina di Saba, il cui figlio Menelik I aveva portato in Etiopia l’Arca dell’Alleanza, conservata in una cappella della chiesa di santa Maria di Sion ad Aksum. PATTO TRA DIO E IL PRINCIPE LALIBELA. MANOSCRITTO. XIX SECOLO. LEBRECHT / AURIMAGES

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA CHIESA DI SAN GIORGIO (Bet Giyorgis) è forse la più

conosciuta tra quelle di Lalibela. La pianta a forma di croce crea dodici facciate e le conferisce un aspetto simile a una torre. L’edificio, che posa su un basamento, ha tre ingressi; alcuni gradini conducono all’entrata principale.

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GRANDI SCOPERTE

Una città intagliata nella roccia LA DISTRIBUZIONE dei monumenti di Lalibela segue i punti in cui la roccia era meno difficile da tagliare. Le strade scavate nella terra circondavano o collegavano tra loro molti dei monumenti del complesso religioso e di quello palazziale. La chiesa di San Giorgio si trova in una posizione leggermente più isolata.

Bet Emmanuel (casa di Emmanuel)

Bet Giyorgis (chiesa di San Giorgio)

TONI ESPADAS

IMMAGINE 3D: RISE STUDIO

Bet Maryam (chiesa di Maria)

Bet Medhane Alem (chiesa del Salvatore del mondo)

Le sue genti praticavano il credo monofisita, secondo il quale in Gesù è presente solo la natura divina e non quella umana. Alla fine del XV secolo i portoghesi decisero di stabilire in Etiopia una base operativa per i viaggi verso l’India. Nel 1520 Emanuele I di Portogallo inviò una spedizione, di cui ci è arrivata testimonianza grazie a uno dei suoi componenti, padre Francisco Álvares, che si avventurò in quelle terre allora quasi sconosciute. Nel suo libro Verdadeira informação das terras do Preste João, Álvares fornì agli

Bet Dengel (casa delle Vergini)

occidentali la prima descrizione dettagliata delle chiese di Lalibela, di cui fino ad allora erano arrivate solo vaghe informazioni.

Il sepolcro del re Tra gli altri dettagli, Álvares annotò le dimensioni di tutte le chiese di Lalibela e dichiarò che gli edifici di culto scavati nella pietra erano talmente tanti che era impossibile immaginare l’esistenza di un complesso simile in un’altra parte del mondo. Il religioso scrisse che la chiesa detta “del Golgota” era stata scavata a picco nella roccia e che la volta, o la

Palazzo aksumita

parte più alta del tempio, era retta da cinque colonne, di cui una al centro. Il soffitto era liscio come il pavimento e le pareti erano piene di finestre e opere di ebanisteria curate come l’argento lavorato da un orafo. Álvares riferì anche che all’interno della chiesa scolpita nella roccia c’era la tomba in cui era sepolto Lalibela, l’imperatore che aveva ordinato la costruzione dei templi ed era venerato dal popolo come un santo. Inoltre, i monaci locali avevano riferito all’uomo che i santuari erano stati scavati nella roccia in soli 24 anni.

Il cappellano portoghese scrisse anche che gli etiopi mostravano grande rispetto e reverenza nei confronti delle chiese. Raccontò che quando i pellegrini arrivavano davanti alla porta si toglievano le scarpe ed entravano tutti scalzi, imperatore compreso. Notò inoltre che al posto delle campane erano appese lunghe pietre, larghe all’incirca un palmo e spesse quattro dita. Quando venivano colpite con sassi più piccoli, producevano un suono udibile da lontano e che, ignorandone la provenienza, si poteva STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA CHIESA DI MARIA (Bet Maryam) è considerata una delle più affascinanti di Lalibela ed è quella che conserva il maggior numero di pitture, tra cui le più antiche. Come si vede in questa immagine, le pareti e le colonne sono completamente ricoperte di raffigurazioni e motivi geometrici.

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DANITA DELIMONT / ALAMY / ACI

DAVE STAMBOULIS / ALAMY / ACI

GRANDI SCOPERTE

LA CHIESA DEL SALVATORE DEL MONDO (Bet Medhane Alem) è

la più grande di Lalibela. Lunga 33,7 metri e larga 23,7 è circondata da un colonnato formato da 34 pilastri rettangolari.

scambiare per quello delle campane. Secondo il suo racconto durante la messa i fedeli rimanevano in profondo silenzio: nessuno rideva o chiacchierava, nessuno sputava né permetteva ai cani di entrare. Temendo che i compatrioti non credessero alle meraviglie che aveva visto, Álvares dichiarò nel suo libro: «Non voglio scrivere oltre di queste opere perché, se aggiungo altro, temo nessuno mi crederà e verrò accusato di falso […] Ma giuro davanti a Dio, alle cui mani mi affido, che tutto ciò che ho scritto è vero e che la verità va ben

oltre quello che ho scritto». Nel 1564 un altro esploratore portoghese, Miguel de Castanhoso, narrò il suo viaggio nella terra di Prete Gianni, dove dalla cima di una montagna vide alcune chiese impressionanti intagliate in un solo pezzo di roccia. Stando a quanto gli dissero gli etiopi, il conquistatore musulmano Ahmad ibn Ibrahim al-Ghazi, detto “il Mancino”, aveva cercato di trasformare le chiese di Lalibela in moschee, progetto che non era riuscito a portare a termine. Ciononostante, secondo un cronista musulmano dell’epoca,

“il Mancino” distrusse i tabot – repliche delle Tavole della Legge che Mosè custodiva nell’Arca dell’alleanza – e le croci cristiane conservate all’interno delle chiese, e saccheggiò alcune di esse portando via tappeti, sete e oro.

Tedeschi e italiani Durante il XIX secolo gli esploratori europei visitarono la città sacra di Lalibela e descrissero nuovamente le chiese monolitiche, aggiungendo immagini e piantine dettagliate. Tra questi studiosi si distinsero il tedesco Gerhard Rohlfs e i francesi

Raffray e Simon. Tuttavia fu solo nel 1939, in piena dominazione italiana, che l’archeologo, architetto e storico dell’arte Alessandro Monti Della Corte scrisse il primo trattato completo su tutte le chiese di Lalibela. Della Corte le descrisse come immense, raffinate e architettonicamente uniche e le definì il più grande tesoro del cristianesimo ortodosso etiope. —Irene Cordón Per saperne di più Guida di Lalibela Milena Batiston. Arada Books, Addis Abeba, 2008.

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA STORIA CONTEMPORANEA

Donne internate nei manicomi del duce

A Annacarla Valeriano

MALACARNE. DONNE E MANICOMIO NELL’ITALIA FASCISTA Donzelli, 2017; 220 pp.; 28 ¤

veva solo 16 anni Letizia, operaia in una fabbrica di proiettili dell’Italia fascista, quando nel 1940 fu ricoverata per la prima volta nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo. Legata a un letto, ai medici ribatteva di non essere pazza e di non voler stare con i pazzi. Era entrata nella struttura abruzzese a causa di un «forte eccitamento psicomotorio» e il certificato medico definiva il suo carattere «alquanto stra-

I MACCHIAIOLI. ARTE ITALIANA VERSO LA MODERNITÀ al Caffè Michelangiolo di Firenze fra il 1855 e il 1867 e propugnavano una pittura antiaccademica che mirava alla ricerca del “vero”. Usato inizialmente in senso dispregiativo per sottolineare il rifiuto del disegno e della forma in favore della “macchia”, e dunque dell’effetto, il termine “macchiaioli” S’INCONTRAVANO

passò poi a definire una coraggiosa sperimentazione divenuta movimento artistico nella Torino del 1861, ancora inebriata dagli entusiasmi risorgimentali. Sono soprattutto paesaggi e soggetti storici a essere al centro delle 80 opere (provenienti dai più importanti musei italiani e da enti e collezioni private) che raccontano la storia del movimento, con affascinanti confronti con i loro contemporanei italiani. 26 OTT. 2018 24 MARZO 2019 gamtorino.it/it/ eventi-e-mostre/ i-macchiaioli

no». Letizia era fuggita più volte di casa, anche di notte, e secondo i vicini si era data a «vita licenziosa». Sei mesi di manicomio sembravano sufficienti a guarire quello che i medici definirono «eccitamento maniacale» e a ricondurla all’ordine. Dimessa in prova per tre anni, Letizia continuava a fuggire da casa, a suo dire in preda a continua eccitazione. Fu questa la causa del secondo internamento, che finì per trasformarla in «una creatura tranquilla e socievole accanto alla quale

non poteva più trovare spazio la donna irrequieta, di umore variabile, petulante, erotica» che era entrata nell’istituto. La sua è solo una delle decine di storie di donne rinchiuse nelle strutture manicomiali dell’Italia fascista, raccontate dalla storica Annacarla Valeriano. Il termine scelto per definirle è “malacarne”, ovvero tutta quella parte femminile che si discostava dall’ideale fascista di donna e madre esemplare, deputata cioè alla cura del marito e dei figli. Nei manicomi le donne finivano soprattutto poiché intemperanti, esuberanti, isteriche, libertine: anime e corpi imperfetti e ribelli che, come scrive l’autrice, «rischiavano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato».

MONDI DI GHIACCIO Mostra permanente MMM, Messner Mountain Museum, Ortles (Bz) messner-mountainmuseum.it

VIAGGIO TRA I GHIACCI ALLA FINE DEL MONDO L’ORTLES (Ortler in tedesco) è la vetta più alta di tutto

il Tirolo meridionale. Lo stabilì nel 1774 il cartografo austriaco Peter Anich, autore dell’Atlas Tyrolensis (Atlante del Tirolo). Ai piedi del ghiacciaio Suldner, poco sotto il monte, compare la scritta “lontano dal mondo”. In questo luogo remoto, dominato dal ghiaccio e dall’oscurità, è possibile compiere oggi un viaggio attraverso due secoli di storia degli attrezzi da ghiaccio, dello sci, dell’arrampicata e delle spedizioni ai tre poli: il Polo Nord, il Polo Sud e il Terzo Polo ovvero l’Everest, scenario dei miti dello Yeti e del leone delle nevi, simbolo di forza e potere nella cultura tibetana.

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Prossimo numero NOTRE-DAME, LA RINASCITA DI UN SIMBOLO

ARNAUD CHICUREL / GTRES

QUANDO NEL 1845 Violletle-Duc ricevette l’incarico di restaurare NotreDame, la cattedrale parigina aveva ormai perso lo splendore di un tempo. Successive ristrutturazioni avevano compromesso il suo aspetto medievale e durante la Rivoluzione francese era stata gravemente danneggiata. Il lavoro di Viollet-le-Duc rappresentò un modello per futuri interventi, ma fu anche al centro di numerose critiche.

FENICIA, TERRA DI PORPORA i fenici crearono un vasto impero commerciale che si estendeva per l’intero Mediterraneo. La loro ricchezza si basava sulla porpora, prodotto ottenuto da un umile mollusco, ma bramato dai re, e il cui peso aveva il valore dell’oro. La porpora ebbe un successo tale che la domanda superò le riserve esistenti e la sua manifattura sopravvisse alla stessa scomparsa dei fenici, che avvenne nel IV secolo a.C. per mano della Grecia ellenistica.

NEL I MILLENNIO A.C.

I templi in Grecia Suddivisi in una cella riservata alla divinità e un porticato aperto a tutti, rispecchiavano l’organizzazione sociale della polis e la separazione tra uomini e dèi.

Budicca: Britannia contro Roma Sotto la guida della regina degli iceni Budicca, nel 61 a.C. i britanni si ribellarono al dominio dell’impero romano, che schiacciò la rivolta con una brutale repressione.

Botticelli, il pittore dei Medici Alessandro Filipepi, conosciuto come Sandro Botticelli, visse da protagonista il fermento culturale della Firenze medicea.

Il Giappone si apre al mondo Dal 1867 l’imperatore Meiji intraprese una serie di riforme che cambiarono il volto del Paese, il quale poté così uscire da trecento anni di isolamento quasi totale.

AKG / ALBUM

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