DA VENEZIA ALLA CORTE DEL GRAN KHAN
GRECHE E ROMANE
NASCE LA MAFIA CITTADINANZA ROMANA
- ESCE IL 19/07/2019 - POSTE ITALIANE S.P.A SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) 1 COMMA 1 - LO/MI. GERMANIA 12 € - SVIZZERA C. TICINO 10,20 CHF - SVIZZERA 10,50 CHF - BELGIO 9,50 €
IL PIÙ GRANDE PRIVILEGIO DELL’ANTICHITÀ
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L’ARCA DELL’ALLEANZA MACCHINE DA GUERRA
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PERIODICITÀ MENSILE
IL VIAGGIO DI MARCO POLO
N. 126 • AGOSTO 2019 • 4,95 €
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LE GEISHA
ICONE DEL GIAPPONE TRADIZIONALE
EDITORIALE
SIGNORI IMPERATORI, re e duci e tutte le altre genti che volete
sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province». L’incipit del libro di Marco Polo, Il Milione, è un invito a leggere con mente aperta e disposta a scoprire le meraviglie che il mondo ha da offrire. Da sette secoli le parole che l’esploratore veneziano scrisse assieme a Rustichello da Pisa, compagno di prigionia al suo rientro in Europa, ammaliano migliaia di lettori desiderosi di vivere l’emozione della scoperta e di percepire il fremito del viaggiatore per antonomasia. In un mondo sempre più globalizzato, piccolo e stretto, dove i chilometri non sono più un ostacolo, non tutte le distanze si accorciano. La predisposizione ad ascoltare e conoscere con cui Marco Polo s’imbarcò da Venezia nel 1271 oggi è tuttaltro che scontata. La voglia di comprendere l’altro, d’immedesimarsi e immergersi in una cultura diversa dalla propria viene a volte percepita come un pericolo più che come una ricchezza, in un mondo che va verso la globalizzazione ma le cui distanze sono oggi forse più incolmabili rispetto a settecento anni fa. Eppure Marco Polo attraversò il mondo e s’inginocchiò di fronte al Gran Khan, abbracciandone la cultura. Le conclusioni cui giunse il veneziano non furono mai di superiorità, ma conscie di una diversità ricca e piena che faremmo bene a ricordare anche oggi, sebbene il viaggio verso Oriente duri poche ore e non diversi anni.
8
8 PERSONAGGI STRAORDINARI
20 VITA QUOTIDIANA
Il drammaturgo irlandese fu condannato a due anni di prigione a causa della sua omosessualità.
Nella Parigi del XIX secolo le regole del commercio e degli acquisti vennero rivoluzionate dall’estro visionario del giovane Aristide Boucicaut.
Oscar Wilde, processo a un provocatore
14 EVENTO STORICO
Duello all’O.K. Corral A Tombstone, in Arizona, due fazioni di cowboy rivali diedero vita a una sparatoria che sarebbe entrata nella storia del far west.
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124
La nascita dei grandi magazzini
120 GRANDI ENIGMI
Il mistero della morte di Napoleone Cancro o avvelenamento? Per anni esperti di ogni dove hanno dibattuto sulle vere cause della morte di Napoleone Bonaparte, in esilio a Sant’Elena.
124 GRANDI SCOPERTE La villa romana di Carranque
Vicino a Toledo dei giovani agricoltori scoprirono per caso delle tessere di mosaico. Scavando nei dintorni portarono alla luce i resti di una villa romana.
128 LIBRI 4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
72 L’ECCEZIONALE VIAGGIO DI MARCO POLO ALLA FINE DEL XIII secolo i mercanti Matteo, Niccolò e Marco Polo s’inchinarono davanti a Kublai Khan, sovrano dell’impero cinese. Era la fine di un viaggio durato più di tre anni che li aveva portati ad attraversare tutta l’Asia e a scoprire culture e tradizioni, pericoli e insidie. Le cronache di questo mirabolante viaggio in un territorio all’epoca sconosciuto sono state tramandate nel libro dell’esploratore veneziano, Il Milione. DI ANTONIO RATTI I POLO AL COSPETTO DI KUBLAI KHAN. 1863. TRANQUILLO CREMONA. GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA, ROMA.
28 L’arca dell’alleanza Durante l’esodo del popolo ebraico le tavole della legge che Jahvè aveva dato a Mosè furono custodite in un’arca di legno coperta d’oro. Per secoli si conservò nel tempio di Gerusalemme ma poi sparì senza lasciare traccia. DI JULIO TREBOLLE
44 Macchine da guerra Nel corso dei secoli gli eserciti greci e romani svilupparono e perfezionarono dei sofisticati armamenti d’assedio: balestre giganti, catapulte, diversi tipi di ariete e perfino le temibili e imponenti torri mobili. DI FERNANDO QUESADA SANZ
58 Il privilegio di essere un cittadino romano Per gli antichi abitanti dell’Urbe la cittadinanza era sinonimo di libertà. Chi ne era in possesso godeva del diritto di voto e poteva generare figli legittimi ma era anche obbligato a pagare le tasse per mantenere le legioni romane. DI CLELIA MARTÍNEZ MAZA
104 La nascita della mafia Mafia, camorra e ’ndrangheta sono i nomi con cui si definisce un fenomeno nato alla fine del XIX secolo nelle regioni del sud Italia: una sorta di struttura criminale che ha condizionato la vita sociale e politica della penisola. DI JOHN DICKIE
88 Le geisha dell’antico Giappone Ancora oggi considerate un’icona del Paese del Sol levante, le geisha erano vere e proprie professioniste dell’intrattenimento. Il loro ruolo era dilettare uomini potenti con la cerimonia del tè, conversazioni colte, danze, musica e la loro formazione durava anni. Il fascino che esercitavano sulla società occidentale nel XIX secolo creò intorno a loro un autentico mito. DI V. DAVID ALMAZÁN
SCATOLA GIAPPONESE PER IL TRUCCO. XVIII SECOLO. MUSEO GUIMET, PARIGI.
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LA PARTENZA DI MARCO POLO DA VENEZIA NEL 1271. BODLEIAN LIBRARY, OXFORD. DEA / ALBUM
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Pubblicazione periodica mensile - Anno XI - n. 126
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6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
PERSONAGGI STRAORDINARI
Oscar Wilde: processo a un provocatore Nel 1896 lo scrittore irlandese fu condannato ai lavori forzati per la sua omosessualità. Quando uscì dal carcere dovette affrontare un duro ostracismo nei suoi confronti
L’uomo che scandalizzò l’Inghilterra 1885 Il parlamento britannico approva una legge che punisce le relazioni omosessuali con una pena detentiva fino a due anni.
1891 Oscar Wilde, sposato e con due figli, inizia una notoria relazione con Alfred Douglas, figlio del marchese di Queensberry.
1895 L’irlandese denuncia Queensberry per averlo chiamato sodomita, ma viene a sua volta accusato di omosessualità.
1896 Lo scrittore viene processato per sodomia e condannato a due anni di prigione e ai lavori forzati.
1900 Wilde muore a Parigi, dove si era recato in esilio appena due anni dopo il suo rilascio.
8 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
L’
amore che non osa dire il suo nome […] a causa del quale sono giudicato oggi […] rappresenta una delle più nobili forme di affetto». Con queste parole lo scrittore irlandese Oscar Wilde concludeva la sua arringa nell’affollata aula di tribunale dove nel maggio del 1896 venne processato per omosessualità. Inizialmente la situazione si era sviluppata però in modo molto diverso: era stato l’autore di Il ritratto di Dorian Gray a dare avvio, nel ruolo di accusatore, al procedimento giudiziario che avrebbe finito per affossare la sua brillante carriera.
Wilde contro Queensberry In quegli anni il suo amante era Alfred Douglas, un affascinante giovane che a partire dal 1891 lo accompagnava sempre in pubblico. Wilde era all’apice del successo, i suoi libri vendevano migliaia di copie e le sue opere teatrali erano portate in scena in tutto il mondo. Alfred e Oscar dilapidavano la fortuna accumulata da quest’ultimo tra ristoranti lussuosi, locali e nottate con altri uomini. Come molti
loro contemporanei confidavano nel fatto che la società vittoriana – che pur concepiva l’omosessualità come una perversione – avrebbe chiuso un occhio su quello che ormai era un fatto di dominio pubblico. Ma la situazione si complicò quando il padre di Douglas scoprì la loro relazione. Il marchese di Queensberry iniziò una vera e propria persecuzione nei confronti di Oscar Wilde. Per costringerlo a lasciare il figlio tentò persino di mandare all’aria una delle sue prime teatrali. Stanco di subire le sue angherie, lo scrittore provò a denunciare Queensberry in diverse occasioni, senza successo. Un giorno il marchese gli fece pervenire un biglietto che diceva: «A Oscar Wilde, che si atteggia come un sodomita». Il drammaturgo non ci pensò due volte: finalmente aveva una prova materiale dei continui soprusi. Il suo avvocato tentò inutilmente di dissuaderlo. Anche Bosie, come Wilde chiamava il suo compagno, era favorevole a intraprendere la via giudiziaria: aveva un pessimo rapporto con il padre e sognava di vederlo messo pubblicamente alla gogna. Così, nel marzo 1895 IL BIGLIETTO DEL MARCHESE DI QUEENSBERRY DICEVA LETTERALMENTE: «TO OSCAR WILDE, POSING AS SOMDOMITE», CON UN ERRORE ORTOGRAFICO NELL’ULTIMA PAROLA. NATIONAL ARCHIVES, LONDRA. THE NATIONAL ARCHIVES
LA ROVINOSA CADUTA DI UN ASTRO
BRITISH LIBRARY / AURIMAGES
LA VITA di Oscar Wilde fu una
Wilde fece causa a Queensberry per diffamazione, confidando di uscirne a testa alta. Il procedimento però si ritorse contro di lui. Queensberry e i suoi avvocati raccolsero numerose informazioni sulla sua vita privata e la difesa poté passare al contrattacco, pagando una dozzina di uomini per testimoniare che erano andati a letto con lo scrittore. Venuto a conoscenza della strategia scelta dai suoi avversari, Wilde si presentò in tribunale senza più quel brio dimostrato nell’udienza iniziale. L’avvocato difensore del marchese lo
sottopose a uno spietato interrogatorio cui lo scrittore cercò di sottrarsi grazie alla sua padronanza dell’arte oratoria. Negò di aver avuto qualsiasi rapporto fisico con i ragazzi che lo accusavano e quando gli fu chiesto se aveva baciato uno di loro, rispose: «Certo che no. È un ragazzo particolarmente noioso. E purtroppo anche piuttosto brutto». Questa e altre battute suscitarono le risate del pubblico ma allo stesso tempo contribuirono a portare dalla parte di Queensberry i membri della giuria, che il 5 aprile emise un verdetto assolutorio nei confronti del marchese,
tranquilla ascesa verso il successo. Proveniente da un’agiata famiglia d’intellettuali irlandesi ebbe una brillante carriera universitaria al Trinity College di Dublino e a Oxford. Dopo la laurea viaggiò in Francia, Stati Uniti e Inghilterra tenendo conferenze letterarie. Nel 1884 sposò Constance Lloyd, da cui ebbe due figli, Cyril e Vyvyan. Già conosciuto per le sue poesie e i suoi articoli, tra il 1892 e il 1895 scrisse le opere teatrali che gli diedero la celebrità. L’importanza di chiamarsi Ernesto riscosse un enorme successo che fu interrotto dalle vicende giudiziarie di Wilde. OSCAR WILDE (A SINISTRA) SEDUTO ACCANTO AD ALFRED DOUGLAS, “BOSIE”, IN UN RITRATTO IN STUDIO DEL 1894. BRITISH LIBRARY, LONDRA.
ritenendo avvalorato quanto questi aveva scritto sul biglietto. La vicenda avrebbe anche potuto finire lì, ma una lunga serie di fattori si allineò contro Wilde. Allarmata da quella che percepiva come una degenerazione della morale tradizionale, la società vittoriana chiedeva una maggior repressione dei comportamenti che fuoriuscivano dalla norma, come l’omosessualità. Nel 1885 era stata approvata una legge che definiva le relazioni sessuali tra uomini una «grave indecenza» punibile con la reclusione fino a due anni e con i lavori forzati. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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BRITISH LIBRARY / ALBUM
PERSONAGGI STRAORDINARI
ILLUSTRAZIONI del processo a Oscar Wilde apparse su un giornale londinese.
Grazie alla risonanza che avevano avuto sulla stampa, le accuse emerse contro lo scrittore durante il processo per diffamazione erano ormai sulla bocca di tutti e l’opinione pubblica premeva perché si aprisse un procedimento nei confronti di Wilde. Poche ore dopo la piena assoluzione di Queensberry, l’irlandese venne arrestato.
Il processo iniziò circa venti giorni dopo in un clima di grande concitazione. Dal banco degli imputati, Wilde dovette assistere a una sfilata di testimoni avversi, molti dei quali erano semplici ricattatori di professione che avevano offerto le proprie deposizioni in cambio di denaro. Nel corso del dibattimento si giunse ad ascoltare la
COGNOME MALEDETTO LA MOGLIE DI WILDE, Constance, restò inizial-
mente accanto al marito durante il processo. Quando lo scrittore fu condannato si trasferì in Svizzera e poi in Liguria con i due figli, cambiando il cognome della famiglia in Holland. Morì a Genova nel 1898 in seguito a un intervento chirurgico per una grave lesione alla spina dorsale. CONSTANCE WILDE (POI HOLLAND) CON IL FIGLIO CYRIL NEL 1889. BRIDGEMAN / ACI
10 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
testimonianza di una cameriera d’albergo per determinare se Wilde avesse commesso «un atto di sodomia» dallo stato delle lenzuola. Nonostante i colpi bassi il drammaturgo non perse mai il suo brio né la sua verve. Quando gli fu chiesto perché frequentasse così tanti ragazzi, Wilde dichiarò di essere un «amante della gioventù». Quindi pronunciò il suo appassionato appello in difesa dell’«amore che non osa dire il suo nome», un’espressione tratta da una poesia dello stesso Alfred. Tra il pubblico presente in aula si diffuse l’impressione che Wilde stesse riuscendo ad accattivarsi la giuria, la quale infatti si dimostrò inizialmente incapace di raggiungere un accordo. Il processo dovette essere ripetuto, ma questa volta i giurati furono meno benevoli. Lo scrittore fu sul punto di svenire quando udì il giudice condannarlo a due anni di
PERSONAGGI STRAORDINARI
di Reading, dove fu recluso Wilde, era stato costruito nel 1844 accanto alle rovine di un’abbazia del XII secolo.
reclusione e ai lavori forzati per «indecenza grave». La stampa e il pubblico applaudirono la decisione.
Prigione ed esilio Nei due anni successivi Wilde conobbe di persona la durezza del modello carcerario vittoriano: razioni di cibo minime, divieto di parlare con gli altri detenuti e un isolamento dall’esterno alleviato unicamente da rare visite. Lo scrittore perse vari chili in poco tempo e la sua salute peggiorò visibilmente: un giorno svenne nella cappella riportando seri danni all’orecchio destro. L’attenzione suscitata dal suo caso gli valse un miglioramento delle condizioni di detenzione: cambiò carcere in due occasioni e gli vennero forniti libri da leggere e materiale per scrivere. Poté così redigere una lunga e amareggiata lettera a Douglas, De Profundis, considerata una delle sue migliori opere in prosa. 12 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Scontati i due anni di pena Wilde fu rilasciato e andò in esilio a Parigi, dove scrisse La ballata del carcere di Reading, una denuncia delle condizioni delle prigioni vittoriane che ne promosse la riforma e rappresentò un successo editoriale assoluto. Ma questa fu la sua ultima opera: il poeta non riusciva a lasciarsi alle spalle la dura esperienza penitenziaria né poté liberarsi dall’ostracismo sociale di cui fu vittima dopo la scarcerazione: molti dei suoi libri furono bruciati e le rappresentazioni dei suoi drammi furono proibite. Lui stesso era purtroppo ormai «riluttante a ridere della vita». Wilde rincontrò Alfred nel 1897. I due si diressero a Napoli, ma trascorsero insieme solo tre mesi. La moglie dello scrittore gli proibì di visitare i due figli, che non avrebbe più rivisto. Stufi delle sue continue richieste di denaro, molti amici gli voltarono le spalle, vergognandosi del fatto che continuasse a
girare per Parigi in compagnia dei suoi giovani amanti. Inoltre continuava a soffrire per l’infezione all’orecchio contratta in prigione, probabilmente la causa della meningite che il 30 novembre del 1900 ne causò la morte. Come Oscar Wilde, molti altri furono perseguitati in Gran Bretagna per il loro orientamento sessuale. La legge che proibiva l’omosessualità fu abrogata solo nel 1967. Poco prima di morire, lo sfortunato drammaturgo aveva dichiarato: «Non ho alcun dubbio che vinceremo. Ma la strada sarà lunga e costellata di supplizi tormentosi». Non si sbagliava. —Ainhoa Campos Per saperne di più
SAGGI
De Profundis Oscar Wilde. Feltrinelli, Milano, 2014. Oscar Wilde Richard Ellman. Mondadori, Milano, 2001.
GRAHAM MULROONEY / ALAMY / ACI
IL CARCERE
O.K. Corral, la sparatoria più famosa del far west Nel 1881 i fratelli Earp si unirono per affrontare alcuni cowboy che scorrazzavano a loro piacimento in Arizona. Dopo averne uccisi tre, furono accusati di omicidio a sangue freddo
I
l 26 ottobre 1881, intorno alle tre del pomeriggio, la cittadina di Tombstone, in Arizona, assistette a una sparatoria che sarebbe passata alla storia del selvaggio west statunitense. Una fazione vedeva schierati alcuni cowboy ladri di bestiame: Billy Claiborne, Ike e Billy Clanton, Tom e Frank McLaury e Wes Fuller. Contro di loro, dalla parte della legge, si trovavano i fratelli Earp (Virgil, Morgan e Wyatt) assieme al pistolero Doc Holliday. In solo mezzo minuto fu-
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rono sparate circa trenta pallottole, che uccisero tre dei banditi (Billy Clanton e i due McLaury) e ferirono in modo lieve tre del gruppo degli Earp. Per alcuni fu solo uno dei tanti scontri a fuoco occorsi nel famoso periodo d’oro del far west. Per altri invece fu un’esecuzione a sangue freddo di uomini disarmati. Quel che è certo è che quei celebri trenta secondi avrebbero perseguitato il minore dei fratelli Earp, Wyatt, per il resto della sua vita.
Teatro dei fatti fu una piccola città fondata qualche anno prima da Ed Schieffelin, che dopo aver lavorato come esploratore nell’esercito degli Stati Uniti aveva deciso di cercare metalli preziosi nel territorio al confine tra Messico, Nuovo Messico e Arizona. Poiché i suoi amici sapevano che la zona era abitata dalle tribù apache, l’avevano avvertito che l’unica pietra che avrebbe trovato sarebbe stata la sua lapide. Fu per questo che quando l’esploratore nel 1878 scoprì una
UIG / ALBUM
EVENTO STORICO
TRENTA COLPI IN CINQUE METRI
I FRATELLI Earp e Doc Holliday furono i
protagonisti della più famosa sparatoria del Far West. Quest’olio di Howard Morgan ricostruisce la scena.
IL DUELLO in realtà non si tenne all’O.K. Corral, la stalla di Allen Street da cui prende il nome, ma poco vicino. I fratelli Earp andarono incontro ai cowboy nella via principale di Tombstone, Fremont Street – nell’immagine sopra in una fotografia del 1882 – e li condussero verso uno spazio largo solo cinque metri. Fu proprio lì che si scontrarono i due gruppi ed ebbe luogo la sparatoria che terminò con la morte di tre dei sei cowboy.
BRIDGEMAN / ACI
vena d’argento, decise di chiamare la miniera Tombstone (lapide). In poco tempo la zona pullulava di avventurieri che si riunirono in un piccolo accampamento. Quattro anni dopo, nel 1881, Tombstone accoglieva già più di settemila uomini di frontiera ed era divenuta una prospera città, capoluogo della contea di Cochise.
Clan rivali Nonostante fosse una cittadina fondata da poco, al suo interno si crearono subito due clan rivali per ragioni economiche. Da un lato si unirono i residenti e i proprietari delle varie attività commerciali di Tombstone, i cui interessi erano difesi dal marshal, o capo della polizia locale, Virgil Earp. L’altra fazione era invece formata dai minatori e dai cowboy che vivevano nella zona circostante e che potevano contare sulla protezione dello sheriff, lo sceriffo della contea, Johnny Behan.
Virgil Earp era un veterano, segatore e cercatore d’oro, che dopo essere divenuto marshal di Tombstone nel 1880 aveva chiamato presso di sé i fratelli Wyatt e Morgan. Il clan dei residenti entrò subito in conflitto con i Clanton e i McLaury, cowboy che protetti dallo sceriffo Behan incrementavano i propri guadagni con il contrabbando del bestiame e l’assalto alle diligenze. Questo gruppo accusava gli Earp di usare i propri distintivi per trarne benefici. A tutto ciò si aggiungeva l’inimicizia personale tra Behan e Wyatt, che dieci mesi prima della sparatoria si erano candidati per il posto di sceriffo della
contea di Cochise. Behan aveva convinto Earp a ritirarsi promettendogli in cambio la nomina a vicesceriffo e i benefici derivati da tale carica, ovvero il dieci per cento delle tasse imposte nella contea. Tuttavia, una volta eletto, Behan non rispettò l’accordo. Inoltre nell’ottobre 1881 a Tombstone venne approvata un’ordinanza che proibiva di portare armi in città, e la decisione contrariò i cowboy che erano soliti frequentare i saloon.
Gli Earp difendevano gli interessi dei negozianti di Tombstone contro i cowboy dei dintorni WYATT EARP ALLA FINE DEL XIX SECOLO IN UNA FOTOGRAFIA COLORIZZATA. GRANGER / AURIMAGES
EVENTO STORICO
TOMBSTONE, in territorio di frontiera, era il luogo
SUNPIX TRAVEL / ALAMY / ACI
ideale per il furto e il contrabbando di bestiame. Nell’immagine, un ranch nella contea di Cochise.
Il 25 dello stesso mese Doc Holliday, un pistolero amico degli Earp, rimase a giocare a carte nel saloon Occidental fino a notte fonda ed ebbe un’accesa discussione con alcuni cowboy, i quali urlarono che avrebbero portato armi a Tombstone quando avessero voluto e che nessuno avrebbe avuto il
coraggio di requisirgliele. Per dimostrare di essere il rappresentante della legge, la mattina dopo Virgil sequestrò le armi a Ike Clanton e gli impose la multa stabilita. Ike si riunì quindi con un gruppo di cinque cowboy del suo clan in Fremont Street e fece girare la voce che erano armati e nessuno li avrebbe potuti fermare. È molto probabile che stes-
UNA STORIA DA FILM IL CINEMA elevò a leggenda l’episodio dell’O.K. Corral.
Sfida infernale (1946), di John Ford, è uno dei migliori western della storia e Sfida all’O.K. Corral (1957), di John Sturges, immortalò il nome della vicenda. Sono entrambi poco fedeli ai fatti, mentre ne dà una lettura più attenta George P. Cosmatos in Tombstone (1993).
LOCANDINA DI MY DARLING CLEMENTINE, IN ITALIA SFIDA INFERNALE. ALBUM
sero solo facendo gli spacconi e che fossero armati solo in previsione di una scorribanda fuori città, tenendosi così ai limiti della legge. Comunque sia, Virgil convocò i fratelli e l’amico Doc Holliday e decise di dimostrare a Ike Clanton e ai suoi chi comandava. Il marshal e la sua scorta si diressero verso i cowboy e li trovarono in un’area dietro una stalla di cavalli chiamata O.K. Corral. Gli Earp erano in netta minoranza ma non appena ebbe inizio lo scontro tre dei cowboy – Billy Clairborne, Ike Clanton e Wes Fuller – scapparono con le mani in alto. I tre rimasti, Billy Clanton e i fratelli Tom e Frank McLaury, furono trucidati con decine di colpi.
Accusa di omicidio Secondo la legge era lecito ricorrere alle armi solo se il contendente avesse minacciato di usarle. Ma gli uomi-
GRANGER / AURIMAGES
I TRE UOMINI uccisi nella sparatoria
con i fratelli Earp e con Doc Holliday. Da sinistra a destra, i fratelli Frank e Tom McLaury e Billy Clanton.
ni uccisi all’O.K. Corral le imbracciavano davvero? Dopo la sparatoria, Ike Clanton accusò gli Earp di aver sparato contro cinque uomini disarmati. Lo sceriffo Behan arrestò i fratelli Earp e Doc Holliday, accusati di omicidio a sangue freddo. In un’udienza preliminare durata un mese si riuscì a dimostrare che due dei cowboy erano armati e alla fine il giudice non trovò motivazioni per portare in giudizio gli accusati. Eppure non mancarono mai quei sospetti la cui ombra segnò per sempre Wyatt Earp. Lo scontro ebbe conseguenze terribili per il clan degli Earp. A dicembre Virgil cadde in un’imboscata: si salvò per miracolo ma perse per sempre l’uso del braccio sinistro. Nel marzo dell’anno seguente Morgan venne ucciso a sangue freddo. Poiché sembrava che qualcuno stesse vendicando le morti dell’O.K. Corral,
Wyatt riunì una squadra per farsi giustizia da solo. Pur di portare a termine la propria vendetta il gruppo uccise quattro cowboy, tra cui un aiutante di Behan. Lo sceriffo di Cochise ottenne allora un mandato di arresto e si mise alle calcagna di Wyatt e dei suoi uomini, ma senza successo. Earp abbandonò l’Arizona nell’aprile del 1882 e dopo anni si stabilì in California con Josephine Marcus, ex compagna di Behan.
L’uomo e il mito Ben presto Wyatt Earp divenne una figura mitica della frontiera statunitense. Aveva aneddoti da raccontare come uomo di legge, giocatore d’azzardo, cercatore d’oro e d’argento, cacciatore di bufali, mezzano e gestore di saloon e veniva spesso invitato ad arbitrare incontri di boxe. La sua presenza dava un tocco di glamour
alle feste delle star di Hollywood e tuttavia non volle mai spiegare nei dettagli quanto successe in quei fatidici trenta secondi all’O.K. Corral. Si dovette aspettare il 1931, quando ormai Earp era morto da due anni, perché Stuart Lake pubblicasse Lo sceriffo di ferro. Basato su conversazioni con il famoso cowboy, il libro ebbe subito un grande successo, anche se oggi è tacciato di scarsa precisione storica e di eccessiva finzione. Al di là di ciò, fece da scintilla alla produzione di numerosi film e permise alla cittadina di Tombstone di diventare un’attrazione turistica per gli amanti del far west. —Fernando Martín Pescador Per saperne di più
SAGGI
Lo sceriffo di ferro Stuart N. Lake. Odoya, Bologna, 2013.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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V I TA Q U OT I D I A N A
La rivoluzione dei grandi magazzini Nel 1853 un giovane visionario di nome Aristide Boucicaut aprì a Parigi un negozio che cambiò le regole del commercio La situazione iniziò a cambiare a metà del XIX secolo. Dopo la Rivoluzione industriale anche nelle grandi capitali i negozi erano diventati insufficienti a soddisfare i bisogni di una fiorente borghesia che aveva soldi da spendere, desiderava seguire le mode e chiedeva accesso a una vasta gamma di piccoli e grandi lussi che fino ad allora le erano stati preclusi.
Il cliente prima di tutto Per rispondere a questa nuova domanda, in città come Parigi sorsero nuove formule commerciali come ad esempio i passaggi coperti – delle gallerie per gli acquisti situate all’interno d’immobili – o le boutiques de nouveautés (negozi di novità), una sorta di bazar rivolti a una clientela selezionata. Ma a metà del XIX secolo apparve un nuovo tipo di stabilimento commerciale in cui la clientela poteva trovare una grande varietà di prodotti senza doversi spostare da un negozio
LOREMUSDS
«SE NON LE PIACE…» NEL 1929 UNA RIVISTA ricordava i contributi di Boucicaut all’«arte di vendere». Uno su tutti, la regola del “soddisfatti o rimborsati”: «S’impegnò a restituire i soldi ai clienti che rendevano un articolo. Convinse i suoi dipendenti a effettuare il rimborso con un sorriso sulle labbra». ARISTIDE BOUCICAUT. RITRATTO DI W. ADOLPHE BOUGUEREAU. 1875. AKG / ALBUM
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ei primi decenni del XIX secolo il commercio al dettaglio nelle città europee non era variato molto rispetto al passato. Da un lato c’erano i piccoli stabilimenti dedicati esclusivamente a un unico prodotto, come le mercerie, le profumerie o le gioiellerie. Esistevano anche le bancarelle di strada, di solito itineranti, che si raggruppavano in fiere o mercati. L’alta borghesia invece era solita fare compere direttamente nelle proprie case, dove convocava periodicamente i mercanti e gli artigiani – come sarti e stilisti – perché prendessero nota dei loro ordini. Questo però presentava degli inconvenienti: l’offerta era limitata, i prezzi potevano subire impennate improvvise e ogni acquisto richiedeva un delicato esercizio di contrattazione che non sempre risultava piacevole.
DECINE DI SIGNORE
visitano i reparti dei grandi magazzini Au Bon Marché nel 1875. Incisione.
all’altro, in un’atmosfera confortevole ed elegante. I prezzi degli articoli erano esposti, il personale era numeroso e consigliava in modo attento i clienti senza infastidirli. L’invenzione di questo nuovo tipo di centro commerciale, i grandi magazzini, viene generalmente attribuita al francese Aristide Boucicaut. Prototipo dell’uomo che si è fatto da sé, Boucicaut era figlio di un cappellaio di provincia. Nato e cresciuto a Bellême, in Normandia, faceva il venditore ambulante di cappelli. Nel 1829 si trasferì a Parigi, dove due anni dopo iniziò a lavorare in un bazar di nome
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Le Petit Saint Thomas. Lì incontrò la sua futura moglie, Marguerite Guérin, che divenne anche la sua migliore collaboratrice. Nel 1845 fu assunto come commesso in una boutique de nouveautés chiamata Au Bon Marché. Grazie al contatto diretto con i clienti, Boucicaut apprese in quegli anni a conoscerne bene la psicologia e poté sperimentare in prima persona tutti i fattori che influenzano la vendita di un articolo. Dimostrando quello spirito d’iniziativa che caratterizzerà tutta la sua vita, convinse i proprietari di Au Bon Marché a ristrutturare lo stabilimento e a organizzare al suo interno
Il pesce grande mangia i pesci piccoli NEL SUO ROMANZO Al paradiso delle signore Zola dipinge il pro-
prietario dei grandi magazzini Octave Mouret come un’astuta volpe che cerca di affondare i piccoli negozi con moderne strategie commerciali, come per esempio l’abbassamento dei prezzi: «Perderemo qualche centesimo su questo articolo, certo. E qual è il problema, se in compenso attraiamo tutte le donne, se le abbiamo alla nostra mercé, SEDOTTE, sconvolte davanti ai cumuli dei nostri prodotti, pronte a svuotare i loro portamonete senza pensarci troppo? Bisogna
invogliarle; e a questo scopo ci serve un articolo che le stuzzichi […] Dopodiché, potete vendere gli altri PRODOTTI ALLO STESSO prezzo che altrove […] Seppelliremo tutti quei rigattieri pieni di reumatismi nelle loro cantine!». E infatti i piccoli commerci poco a poco iniziarono a sparire.
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Pubblicità e servizio ai clienti BOUCICAUT sviluppò molte delle
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tattiche commerciali in uso ancor oggi, come i saldi stagionali, la pubblicità sulla stampa o la promozione del marchio. La sua politica dei prezzi fissi, invece, era un modo per difendere i magazzini dalle clienti troppo abili nell’arte della contrattazione.
Comodamente sedute, alcune signore osservano diverse paia di guanti in compagnia di solleciti e preparati commessi pronti ad assisterle in diverse lingue.
una serie di reparti in grado di fornire tutto ciò di cui un potenziale cliente potesse aver bisogno. Nei magazzini si potevano trovare abiti, cappelli, ombrelli, guanti, borse, valigie e altri articoli disponibili in varie misure e che andavano incontro ai gusti degli acquirenti. L’esperienza fu accolta con tale entusiasmo che nel 1853, dopo aver fondato una società insieme ai suoi precedenti datori di lavoro, Boucicaut decise di trasferire la sua at-
tività commerciale in una struttura più grande situata in piena rue de Sèvres. Il nuovo complesso commerciale conservò il nome Au Bon Marché. Dieci anni più tardi Boucicaut rilevò l’intera attività grazie all’apporto di capitale di un francese che aveva fatto fortuna come commerciante negli Stati Uniti. Nel frattempo il pubblico del complesso commerciale era cresciuto e la struttura era già diventata troppo piccola. Così, nel 1867, Boucicaut incaricò agli architetti Gustave Eiffel e Louis Charles Boileau di progettare un nuovo e moderno stabilimento in ferro e vetro, secondo i canoni dell’estetica
I dipendenti di Boucicaut godevano di condizioni lavorative inusuali COMMESSE SCRIVONO I PREZZI SULLE ETICHETTE. INCISIONE. 1889. MARY EVANS / AGE FOTOSTOCK
L’annuncio dei saldi di Au Bon Marché su un giornale parigino del 1865. S’informano le signore che le spedizioni verso la provincia potranno subire dei ritardi.
dell’epoca. Fu costruito nella stessa rue de Sèvres, nel settimo arrondissement di Parigi, dov’è aperto ancor oggi.
Il piacere di consumare Vero genio del marketing, Boucicaut cercò di rendere la spesa un’esperienza piacevole e gratificante che non si riduceva semplicemente alla soddisfazione di alcuni bisogni concreti. La sua attività commerciale era rivolta al pubblico femminile, ma per evitare che gli accompagnatori maschi si spazientissero allestì un piccolo caffè dove gli uomini potevano leggere, fumare o bere qualcosa mentre le signore facevano acquisti. Se poi le compratrici erano con i figli, questi venivano gratificati con piccoli omaggi quali palloncini o caramelle: in questo modo i bambini avrebbero collaborato a far tornare le madri allo stabilimento. Nei magazzini Au Bon Marché per la prima volta nella storia i clienti po-
Questo manifesto pubblicitario dell’epoca descrive Au Bon Marché come i magazzini «più grandi, più forniti e meglio organizzati» di Parigi.
In questa fattura si ricorda ai clienti che i prezzi dei prodotti sono fissi e che quindi non possono essere oggetto di negoziazione. RUE DES ARCHIVES / ALBUM
tevano osservare da vicino il prodotto, leggerne il prezzo sull’etichetta, ammirare gli accattivanti cartelloni pubblicitari che riportavano ovunque il nome del centro e godere di sconti particolari su certi articoli a seconda del periodo dell’anno. Questi cambiamenti comportarono la fine dell’usanza di contrattare sul prezzo. I commessi, inoltre, dovevano essere adeguatamente preparati per poter consigliare gratuitamente le acquirenti sulle migliori compere da realizzare in base alle proprie esigenze. Boucicaut voleva che la struttura fosse un luogo confortevole e accogliente. Per questo motivo curò con particolare attenzione gli arredi e fece installare degli ascensori che facilitavano gli spostamenti da un piano all’altro. I grandi magazzini erano anche dotati di enormi vetrine che di notte restavano accese allo scopo di pubblicizzare i prodotti. Venne pure
introdotta la consegna a domicilio per invogliare la clientela a comprare un maggior numero di articoli senza doversi preoccupare del trasporto.
vorative assolutamente inusuali per l’epoca, che prevedevano il congedo di maternità retribuito e l’indennità di malattia. Boucicaut faceva poi regali ai lavoratori in occasione delle nozze, Lavoratori soddisfatti li incentivava a studiare le lingue per Ma le capacità imprenditoriali di servire meglio i clienti stranieri e metBoucicaut non emersero solo nella teva a loro disposizione delle abitazioni ristrutturazione dello stabilimento. nelle stesse strutture dei magazzini. Determinato a promuovere un auL’impatto di questa nuova tipologia mento degli acquisti, si lanciò nelle di commercio non solo contribuì a vendite per corrispondenza su cata- promuovere il prestigio internazionale logo, che prevedevano per i clienti la dell’industria della moda francese e possibilità di restituire gratuitamente l’ingresso delle donne nel mercato del l’articolo qualora non risultasse di loro lavoro in ruoli quali commesse, sarte e gradimento. La sua rete commerciale si ricamatrici, ma ispirò anche le opere di espanse nelle principali città francesi alcuni grandi scrittori. Nel 1883 Émile per raggiungere successivamente ogni Zola pubblicò il romanzo Al paradiso angolo d’Europa e d’America. delle signore, il cui protagonista, Octave Inoltre, ispirandosi alla teoria socia- Mouret, era un evidente alter ego di lista cristiana del politico e sacerdote Boucicaut, mentre lo stabilimento francese Félicité Robert de Lamennais, fittizio che dava il titolo al romanzo Boucicaut offrì ai suoi circa 1.790 di- descriveva fedelmente ciò che Au Bon pendenti una serie di condizioni la- Marché aveva rappresentato per chi STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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SALA DI LETTURA e galleria d’arte dei magazzini Au Bon Marché, 1900 circa.
l’aveva visto nascere: «Dalle otto del mattino – scrive Zola – il Paradiso delle signore risplendeva ai raggi di quel sole luminoso nel fasto del grande lancio delle novità invernali. Le bandiere che sventolavano sulla porta e le pezze di lana che sbattevano nell’aria fresca del mattino animavano place
Gaillon di un festoso tumulto da fiera; lungo le due vie, le merci in esposizione componevano sinfonie di toni squillanti, ravvivate dai lucidi cristalli delle vetrine. Era un’orgia di colori, un’ebbrezza che irrompeva nella strada […] Tutti potevano entrare in quello spazio completamente dedicato al consumo, quanto meno per rallegrarsi gli occhi». Nel 1910 dei familiari di Boucicaut, morto nel 1877, inaugurarono a Parigi l’Hôtel Lutetia, che coniugava Art nouveau e Art déco e dove potevano soggiornare i clienti che venivano da fuori città. Visto il successo di Au Bon Marché, non stupisce la comparsa re-
Au Bon Marché lanciò la vendita per corrispondenza su scala nazionale CATALOGO DEI GIOCATTOLI DEI MAGAZZINI AU BON MARCHÉ. 1911. MARY EVANS / AGE FOTOSTOCK
pentina di diversi imitatori. Alla sua ombra crebbero altri grandi magazzini parigini, alcuni aperti dagli stessi dipendenti di Boucicaut. Fu questo il caso di Au Printemps, il complesso fondato da Jules Jaluzot e Jean Alfred Duclos nel 1865 e dove nel 1930 furono installate le prime scale mobili nella storia degli stabilimenti commerciali; o di La Samaritaine, aperto nel 1870 da Ernest Cognacq e Marie-Louise Jaÿ. Tutti loro si erano formati professionalmente nei magazzini Au Bon Marché.
Gli imitatori Nel 1893 Théophile Bader e Alphonse Kahn fondarono le Galeries Lafayette, che grazie alla loro posizione divennero ben presto un punto di riferimento per l’alta borghesia, mentre Au Bon Marché e La Samaritaine rimasero legati a una clientela appartenente in prevalenza alla classe media. Anche questa seconda ondata di grandi magazzini ha
DEI CARRI trainati
AKG / ALBUM
da cavalli davanti ai magazzini Au Bon Marché attendono di effettuare le consegne a domicilio. Foto del 1900.
lasciato un’eredità che non si limita a un nuovo concetto di commercio: sono situati in splendidi edifici dove l’Art nouveau si mescola con l’Art déco, e possono perfettamente essere catalogati come capolavori dell’architettura della loro epoca.
I grandi magazzini in Europa In tutto il continente altri imprenditori seguirono l’esempio di Boucicaut. A Londra aprí Harrods: inaugurato nel 1835 nel distretto di Stepney, era in origine un negozio di alimentari, manel 1849, quando si trasferì a Knightbridge, iniziò a crescere e in pochi anni divenne un grande centro commerciale. Il quartiere era in piena fase di sviluppo, i clienti compravano più del normale e Harrods divenne in poco tempo un grande magazzino di lusso. In Italia, Milano fu la prima città a raccogliere la sfida lanciata da Boucicaut. Nel 1877 i fratelli Bocconi affit-
tarono l’Hôtel Confortable, al cui ingresso compariva l’insegna Aux Villes d’Italie che, nel 1880, divenne Alle città d’Italia. Questi grandi magazzini, da cui sarebbe poi sorta La Rinascente, seppero trasformare la moda in fenomeno dai risvolti economici di grande importanza per il Paese. A Napoli il 5 ottobre 1889 furono inaugurati i grandi magazzini Mele, fondati dagli omonimi fratelli, ricchi proprietari terrieri e commercianti che avevano scoperto la grande distribuzione nel corso dei loro viaggi a Londra e Parigi. Nel primo dopoguerra nacquero centri di stampo più popolare, come la UPIM (Unico Prezzo Italiano Milano), che nel 1928 aprì il suo primo negozio a Verona, e la Standa, fondata a Milano nel 1931. Alla fine del XIX secolo altri Paesi videro la nascita di grandi stabilimenti molto conosciuti ancor oggi. Negli Stati Uniti un altro visionario capace di trasformare il commercio tradizionale
fu Franklin W. Woolworth, che fondò nel 1879 la prima sede di quella che sarebbe diventata una catena di grandi magazzini. La peculiarità di Woolworths era che tutta la merce veniva venduta a due unici prezzi: 5 o 10 centesimi. I grandi magazzini Bloomingdale’s invece nacquero nel 1872, mentre nel 1902 Macy’s inaugurò a New York «il negozio più grande del mondo». Queste nuove esperienze commerciali non sarebbero state possibili senza l’intuizione imprenditoriale e l’innovativa concezione del mercato di quel giovane provinciale francese di nome Aristide Boucicaut. —María Pilar Queral del Hierro Per saperne di più
ROMANZO
Al Paradiso delle signore Émile Zola. BUR, Milano, 2000. SAGGIO
Dimensione massa Stefano. Cavazza. Il Mulino, Bologna, 2005.
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IL GUADO DEL GIORDANO
Le acque si separano al passaggio dell'arca dell'alleanza; il cavaliere a sinistra è Giosuè, il successore di Mosè. Olio di Benjamin West. Art Gallery of New South Wales, Sidney. FINE ART IMAGES / ALBUM
IL TRONO DI JAHVĂˆ
L'ARCA DELL'ALLEANZA Il libro dell'Esodo narra la partenza del popolo ebraico dall'Egitto e il suo viaggio verso la terra di Canaan. Durante il cammino venne protetto da un piccolo santuario che custodiva le tavole della legge consegnate a Mosè da Dio
SANTUARIO PORTATILE
JORGE TUTOR / ALAMY / ACI
In questo rilievo del tempio di Bel, a Palmira, sulla groppa di un cammello è rappresentata la tenda con i betili della divinità, le pietre sacre venerate dagli arabi. I secolo d.C.
L'ANTICO CULTO DELLE PIETRE
In tutta l'Arabia gli dei erano venerati per mezzo di betili, le pietre che li rappresentavano. In questo betilo trovato in Persia si legge: «Dea di Hayyan, figlio di Nybat». JANE TAYLOR / AURIMAGES
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li israeliti avevano lasciato l'Egitto già da tre mesi ed erano ora accampati di fronte al monte Sinai quando ebbero uno straordinario incontro con Jahvè, che gli si palesò sotto forma di una nube oscura dalla quale provenivano tuoni e lampi. Le scritture narrano che, mentre il Sinai s'incendiava e una tromba faceva tuonare il cielo, Jahvè chiamò Mosè al suo cospetto. Il popolo rimase in trepidante attesa e la sua guida si addentrò nella nube. Al suo ritorno portò con sé le tavole delle legge che Jahvè gli aveva consegnato e alle quali gli israeliti avrebbero dovuto prestare obbedienza. Non fu quella l'ultima occasione in cui Mosè salì sul Sinai per rispondere alla chiamata del Signore. Jahvè infatti gli fornì le istruzioni per costruire un'arca in legno d'acacia e oro in cui conservare le tavole della legge e gli indicò come realizzare un tabernacolo o santuario portatile protetto da dieci teli in cui custodirla. L'arca fu chiamata dell'alleanza per il patto stipulato tra Dio e gli israeliti:
finché questi si fossero attenuti alla legge divina, Jahvè li avrebbe protetti aiutandoli a conquistare quella terra d'Israele che aveva promesso alla partenza dall'Egitto. Divenuta un simbolo sacro, politico e militare, l'arca si sarebbe imposta come protagonista durante l'ultima parte del lungo viaggio dall'Egitto.
L'eredità nel deserto Lo scrigno testimoniava il remoto passato degli israeliti descritto nel Pentateuco o Torah – i primi cinque libri dell'Antico Testamento che contengono, appunto, la legge di Mosè – e la tenda era un simbolo del pellegrinaggio attraverso il deserto. In origine infatti le società tribali custodivano in una tenda le divinità rappresentate sui betili, cioè tavole o piccole stele in pietra. Il termine deriva dal greco baitylos che a sua volta proviene dall'ebraico betel, "casa di Dio", in riferimento proprio alla tenda o al santuario che li proteggeva. Questa infatti è un elemento ricorrente: in epoca pre-islamica i beduini arabi conservavano i betili in una piccola cassa all’interno di una tenda in pelle tinta di rosso, mentre nei testi Ca-
il libro dell'esodo, redatto tra i secoli VI e V a.C. (molto tempo dopo i fatti che racconta), narra le vicissitudini degli israeliti dalla schiavitù in Egitto sino all'arrivo a Canaan, la terra di cui Jahvè aveva promesso la conquista. A volte identificati con gli hyksos (semiti che si erano stabiliti nel delta del Nilo), gli israeliti lasciarono presumibilmente l'Egitto verso il 1250 a.C., ai tempi di Ramses II. Secondo l'Esodo, sul Sinai Jahvè consegnò la legge sulla quale si sarebbe retto il suo popolo scolpita su tavole di pietra e gli fornì istruzioni circa la costruzione dell'arca (dove sarebbero state conservate le tavole) e del tabernacolo, o tenda, che l'avrebbe protetta; gli diede quindi indicazioni sul culto da rendergli. Gli israeliti si erano posti dei dubbi su Jahvè perché questi li aveva costretti a vagare 40 anni prima di raggiungere Canaan, che Mosè poté contemplare dal monte Nebo prima di morire. LA LEGGE E L'ARCA. JAHVÈ CONSEGNA LE TAVOLE DELLA LEGGE A MOSÈ SUL SINAI; AL CENTRO, MOSÈ LE LEGGE AL SUO POPOLO; SOTTO, IL TABERNACOLO. PENTATEUCO DI ASHBURNHAM, DEL V SECOLO.
BNF / RMN-GRAND PALAIS
UN POPOLO IN FUGA
LE TROMBE DI GERICO
Non si tratta in realtà di trombe, bensì di shōfār in corno d'ariete usati per chiamare alle armi e comporre musica. Ancora oggi sono impiegati nel culto ebraico. RAFAEL BEN-ARI / ALAMY / ACI
nanei diventa la dimora di El, il dio supremo; un rilievo di Palmira, infine, mostra una tenda e dei betili davanti ai quali veniva interrogato l’oracolo. Nella tradizione biblica i betili divennero due tavole di pietra sulle quali Jahvè redasse la legge e i dieci comandamenti che poi consegnò a Mosè (Esodo 24:12). Durante la traversata del deserto dunque l'arca alla quale si rivolgevano gli israeliti per chiedere il parere di Dio era custodita nella tenda, fuori dall'accampamento, protetta da pelli di montone tinte di rosso. Quando lasciarono il monte sacro del Sinai, «l'arca dell'alleanza del Signore li precedeva durante le tre giornate di cammino, per cercare loro un luogo di sosta» (Numeri 10:33).
Il potere di Jahvè Gli israeliti – guidati dal successore di Mosè Giusuè – superarono il Giordano per entrare nella terra promessa. Una tradizione successiva accomunò poi il guado di questo fiume a quello del mar Rosso: le acque di entrambi si aprirono per consentire il passaggio dell'arca, come cantava l'inno: «Che hai tu, mare, per fuggire, / e tu, Giordano, perché torni indietro?» (Salmo 114). Il ruolo di Giosuè in tale frangente gettò le basi per le future pretese di egemonia da parte della sua tribù, quella di Efraim. L'arca avrebbe infatti dimorato nel suo territorio – a Sichem, Silo e Betel – durante la cosiddetta Epoca dei giudici. Dopo l'attraversamento del Giordano lo scrigno che custodiva le tavole della legge operò un nuovo miracolo durante l'attacco alla città cananea di Gerico. Condotta alla testa dell'esercito simboleggiava Jahvè, presente
LE SETTE TROMBE DI GERICO
Gli israeliti circondano le mura di Gerico portando l'arca dell'alleanza e suonando lo shōfār. Olio del pittore francese JamesJoseph-Jacques Tissot. 1896-1902. The Jewish Museum, New York. THE JEWISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
nella lotta e garante della vittoria. L'urlo di guerra e il suono del corno, o shōfār, testimoniavano il carattere tribale di questa "guerra santa". Una tradizione successiva ne sottolineò anche l'aspetto religioso: la narrazione parla di sette sacerdoti con sette trombe che precedevano l'arca e, seguiti dai soldati, circondarono la città per sei giorni. Il settimo fecero il giro delle mura per ben sette volte. Fu allora che queste crollarono da sole, consentendo agli israeliti di
La presenza dell'arca nelle terre della tribù di Giosuè giustificava le sue aspirazioni egemoniche SUL TRONO, GIOSUÈ CONDANNA IL RE DI GERUSALEMME. SCULTURA BIZANTINA IN AVORIO. 900-1000. MET, NEW YORK. METROPOLITAN MUSEUM / SCALA, FIRENZE
prendere la città e lanciarsi alla conquista di Canaan, come riferito nel libro di Giosuè. Tuttavia, successivamente in Giudici troviamo un'altra versione di tale assedio: sin dal primo capitolo viene raccontato come le tribù non riuscirono a scacciare i cananei dal loro territorio. È eloquente il silenzio di questo testo sul ruolo dello scrigno in un'epoca in cui le fazioni israelitiche stabilivano alleanze per costituire la confederazione delle dodici tribù. L'arca ritorna nel Primo libro di Samuele (4:6), che ne restituisce un racconto ben lontano dall'epica delle antiche leggende. Dopo aver perso contro i filistei ad Afek, infatti, gli israeliti decisero in extrema ratio di prenderla dal santuario di Silo e di portarla
ORO PURO E LEGNO D'ACACIA IL LIBRO DELL'ESODO contiene le istruzioni che Jahvè diede a Mosè sul monte Sinai per costruire l'arca che gli israeliti trasportarono davanti a Gerico. La cassa misurava all'incirca 125 cm di lunghezza per 75 cm di larghezza e altezza. Era fatta di legno d'acacia e rivestita dentro e fuori di oro puro. Gli stessi materiali costituivano gli anelli posti agli angoli e le stanghe estraibili che passavano al loro interno per permettere il trasporto dello scrigno. L'arca era coperta da un propiziatorio o kapporeth in oro puro composto una lastra con un cherubino a ogni estremità che la copriva stendendo le ali. Le due figure si guardavano. Mosè depositò all'interno dello scrigno le tavole con il decalogo, i dieci comandamenti incisi sulla pietra che Jahvè gli aveva affidato sul Sinai.
L'ARCA RISPLENDENTE
Agli inizi del IX secolo, all'epoca di Carlo Magno, venne costruito l'oratorio di Germigny-des-Prés. La volta dell'abside presenta questo mosaico bizantino con due angeli sull'arca dell'alleanza. HERVÉ LENAIN / ALAMY / ACI
IL SACRIFICIO AGLI DEI
Sopra, altare del VII secolo a.C. proveniente dall'antica città di Ekron, patria dei filistei che vi portarono l'arca dopo aver sconfitto gli israeliti. ZEV RADOVAN / ALAMY / ACI
nel loro campo. Non appena la videro, i filistei esclamarono: «È venuto Dio nell'accampamento! […] Guai a noi!», ma nonostante i timori che generava riuscirono comunque a vincere la battaglia e a impossessarsene. Decisero quindi di portarla ad Asdod e di collocarla nel tempio di Dagon come trofeo di guerra. Ma la mattina successiva trovarono la statua del dio pagano a terra davanti all'arca di Jahvè, il quale come punizione seminò la peste tra le genti. I principi filistei la dovettero spostare in altre città, a Gat e a Ekron; tuttavia, a causa delle morti dovute al simulacro, lo restituirono alla città israelitica più vicina, Bet-Semes. I nuovi ospiti però erano curiosi di vedere cosa contenesse l'arca e spiarono al suo interno. Jahvè allora ne castigò settanta con la morte e i superstiti se ne disfecero del tutto mandandola a Cariath-iarim, dove giacque dimenticata per una ventina d'anni.
Un tempio a Gerusalemme Dopo l'unificazione d'Israele sotto il comando di Davide l'arca tornò in auge ammantandosi di un ulteriore significato. Il re infatti decise di trasportarla a Gerusalemme, la città che egli aveva appena strappato alla tribù cananea dei gebusei e che aveva trasformato nella sua capitale; l'obiettivo era quello di collocarla in un tempio che sarebbe poi stato eretto durante il governo del figlio Salomone. La narrazione del trasporto fornisce un'idea del terrore che l'arca suscitava nella gente. Non appena i buoi che trainavano il carro vacillarono un certo Uzzia stese la mano per sostenere la cassa, ma Jahvè lo fulminò sul colpo. Davide ebbe paura e abbandonò lo scrigno a casa di Obed-Edom. Ma se da un lato incuteva timore, dall'altro il simulacro poteva colmare di benedizioni, e così accadde alla famiglia di ObedEdom. Il sovrano allora se lo riprese e lo
L'ALLEGRIA DI DAVIDE
Il Secondo libro di Samuele riferisce che Davide trasferì l'arca dell'alleanza a Gerusalemme tra musiche festose, ballando lui stesso davanti al santuario. Olio di Balage Balogh. BALAGE BALOGH / RMN-GRAND PALAIS
sistemò nella tenda allestita allo scopo di custodirlo nella "città di Davide". In tale occasione il profeta Natan si fece interprete della voce di Dio: «Non ho abitato in una casa da quando ho fatto uscire gli israeliti dall'Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un tabernacolo» (2 Samuele 7:6). Il momento saliente del passaggio nella nuova dimora si verificò quando, prima della consacrazione del tempio, «i sacerdoti e i leviti la trasportarono
I filistei portarono l'arca nella città di Asdod e la depositarono come trofeo al cospetto del dio Dagon INCENSIERE CON RAPPRESENTAZIONI DI MUSICISTI RINVENUTO NELLA CITTÀ FILISTEA DI ASDOD. XI-X SECOLO A.C. ZE
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con la tenda del convegno […] nella cella del tempio, cioè nel sancta sanctorum [o debir] sotto le ali dei cherubini. Difatti i cherubini stendevano le ali sopra l'arca» (1 Re 8:4-6). Davide e Salomone seppero sfruttare il forte valore simbolico del trasferimento dell'arca a Gerusalemme e della sua collocazione nel santuario. Il nuovo governo monarchico aveva bisogno di una legittimazione politica e religiosa che solo essa poteva garantire in quanto testimone di quell'alleanza stretta sul Sinai fra Dio e Mosè e sancita dalle tavole della legge. Lo scrigno rimase dunque dentro il sancta sanctorum del tempio di Salomone, sotto le ali spiegate di due cherubini che assieme formavano una sorta di trono invisibile della divinità. L'arca (‘ārōn in ebraico),
IL CONTENUTO DELL'ARCA SECONDO QUANTO NARRA l'Epistola agli ebrei (9:4) attribuita a san Paolo e probabilmente redatta prima del 70 d.C., l'arca conteneva tre oggetti. Il primo erano le tavole della legge in pietra che Dio aveva consegnato a Mosè sul Sinai. Il secondo era la verga di Aronne che, durante l'instaurazione del culto sul Sinai, venne scelto da Jahvè perché svolgesse il sacerdozio; il bastone era un monito per i ribelli perché Jahvè, irato con chi si opponeva alla guida religiosa di Mosè e Aronne, uccise migliaia di persone e fece germogliare la verga come prova della sua scelta. Il terzo oggetto ricordava come egli vegliasse sul suo popolo: si trattava di un vaso d'oro che conteneva la manna, l'alimento miracoloso con cui aveva nutrito gli israeliti nel deserto salvandoli da morte certa.
Fumo proveniente dalle offerte sull'altare dei profumi.
Il coperchio del tabernacolo era costituito da tre strati, posti l'uno sull'altro e di materiale diverso: il primo era in vello di capra; quello di mezzo di pelle di montone tinta di rosso; infine l'ultimo in pelle di tasso.
La pareti della tenda erano costituite da pannelli di legno d'acacia su basi d'argento.
L'altare degli olocausti, destinato alla cremazione delle vittime sacrificali, misurava circa 2,25 m di lunghezza e 1,35 di altezza. Era in legno d'acacia – dettaglio inconsueto per un luogo destinato ad accogliere braci e fiamme – e rivestito di rame.
Agli angoli dell'altare erano disposti quattro anelli di bronzo dentro i quali erano inserite due stanghe di legno ricoperte di rame, atte a trasportarlo.
Le colonne che circondavano l'ingresso avevano basi di rame ed erano rivestite da lamine d'argento.
L'entrata era formata da cinque colonne in legno d'acacia rivestite d'oro con basi di rame.
LA NUVOLA DI JAHVÈ
Secondo diversi libri biblici (Esodo, Numeri, il Primo libro dei re) la presenza divina nel tabernacolo si manifestava tramite una nube. Poiché anche Isaia nella sua visione profetica parla della nuvola come di fumo («e il tempio fu ripieno di fumo», Isaia, 6:4), forse l'immagine aveva origine dall'altare dei profumi, dove l'offerta d'incenso a Jahvè doveva bruciare ogni giorno, «di generazione in generazione» (Esodo 30:8).
RICOSTRUZIONE MODERNA DELL'ARCA DELL'ALLEANZA ALAMY / ACI
IL SANTUARIO DEL DESERTO la parola "tabernacolo" proviene dal latino tabernaculum, termine con il quale nel IV secolo san Girolamo tradusse la parola ebraica corrispondente a "tenda" e le espressioni "tenda della riunione" e "tenda della testimonianza". Il tabernacolo era il santuario mobile che Jahvè aveva fatto costruire perché gli israeliti conducessero con sé l'arca durante la traversata del deserto. Secondo l'Esodo due artigiani, Besaleel e Ooliab, furono gli incaricati di occuparsi della sua fabbricazione. La tenda misurava circa 5 m di larghezza per 15 di lunghezza ed era eretta in un atrio di 20 per 50 m. Era divisa in due parti da quattro colonne di legno rivestite d'oro con base di rame dalle quali pendeva un velo di bisso color porpora adornato con dei ricami di cherubini. La zona più interna della tenda, il sancta sanctorum o debir, era riservata all'arca. La parte vicina all'ingresso ospitava invece un candelabro, o menorah, e un tavolo destinato al culto come pure l'altare dei profumi: un turibolo per le essenze placcato in oro. IL CANDELABRO IN ORO DEL TABERNACOLO ERA COSTITUITO DA UN UNICO PEZZO DEL PREZIOSO METALLO. AVEVA SETTE BRACCI E I CALICI PRESENTAVANO LA FORMA DI FIORI DI MANDORLO; LE LAMPADE DOVEVANO ARDERE COSTANTEMENTE DAVANTI A JAHVÈ. DEA / ALBUM
UIG / ALBUM
Si accedeva all'atrio dal lato orientale, protetto da un tendaggio simile a quello dell'ingresso del tabernacolo.
ERICH LESSING / ALBUM
ALCUNI PRIGIONIERI NUDI SONO PORTATI AL COSPETTO DI UN RE. IL SOVRANO È SEDUTO SU UN TRONO SORRETTO DA CHERUBINI. AVORIO PROVENIENTE DA MEGIDDO.
LA FINE DI MOSÈ
Poco prima che Mosè morisse un angelo gli mostrò la terra promessa dal monte Nebo dove si narra che venne nascosta l'arca. Affresco di Luca Signorelli. Cappella Sistina. SCALA, FIRENZE
realizzata in legno d'acacia, era lo "sgabello" (hadom) su cui poggiavano i piedi di Jahvè che sedeva invisibile sul trono. Secondo il Primo libro delle cronache Davide voleva costruire una «dimora stabile per l'arca dell'alleanza del Signore, per lo sgabello dei piedi del nostro Dio» (28:2). E gli inni cantavano: «Esaltate il Signore, il nostro Dio, / e prostratevi davanti allo sgabello dei suoi piedi» (Salmo 99:5) e ancora: «Entriamo nella sua dimora, / prostriamoci allo sgabello dei suoi piedi. / Sorgi, Signore, verso il luogo del tuo riposo, / tu e l'arca della tua potenza» (Salmo 132:7-8). Il trono e i cherubini compaiono nei testi e nell'iconografia di Siria e Palestina: il sarcofago del re Ahı̄rām di Biblo, risalente al X secolo a.C. circa e una targa in avorio di Megiddo mostrano dei troni di cherubini con uno sgabello alla base. In quest'arca-sgabello erano conservati i patti dell'alleanza come quella siglata tra il re ittita Hattushilish III e il faraone Ramses II: le due copie degli accordi furono depositate ai piedi delle rappresentazioni della divinità egizia Ra e dell'ittita Tarhun. Allo stesso modo le tavole della legge del Sinai vennero conservate nello scrigno sotto il trono ideale di Jahvè; probabilmente a imitazione di quanto era avvenuto nei regni vicini a Israele, entrò a far parte del corpus di opere che legittimavano il potere regale. Nel santuario di Silo venne definita come «l'arca del Dio degli eserciti che siede sui cherubini» (1 Samuele 4:4), simbolo dell'unione tra la nuova immagine monarchica di Jahvè sovrano e l'antico Jahvè guerriero che guidava i suoi uomini alla vittoria. Ma quando scomparve l'arca? Nel 587 a.C. Nabuco-
donosor II, re di Babilonia, distrusse Gerusalemme e il suo tempio. Fu probabilmente quello il momento in cui se ne persero le tracce; o forse accadde nel 597 a.C., quando i babilonesi occuparono per la prima volta Gerusalemme deportando l'élite israelitica.
La scomparsa misteriosa Il profeta Geremia, testimone di quegli eventi (anche se non fu deportato a Babilonia e morì in Egitto), credeva che fosse andata perduta: «Non si parlerà più dell'arca dell'alleanza del Signore: non verrà più in mente a nessuno e nessuno se ne ricorderà, non sarà rimpianta né rifatta» (Geremia 3:16). Eupolemo, vissuto quattrocento anni più tardi, credeva invece che il profeta l'avesse nascosta durante l'invasione dei babilonesi. Nel testo apocrifo del Secondo libro dei maccabei si dice che «quando giunse presso il monte dove Mosè era salito e aveva contemplato l'eredità di Dio, Geremia salì e trovò un vano a forma di caverna e là introdusse la tenda, l'arca e l'altare degli incensi e sbarrò l'ingresso. Alcuni del suo seguito tornarono poi per segnare la strada, ma non trovarono più il luogo» (2:4-6). L'arca avrebbe dunque avuto lo stesso enigmatico destino di Mosè, probabilmente sepolto sul monte Nebo senza che «nessuno fino ad oggi abbia saputo dove fosse la sua tomba» (Deuteronomio 34:6). JULIO TREBOLLE DOCENTE DI LINGUA E LETTERATURA EBRAICA UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID
Per saperne di più
SAGGI
Il segno e il sigillo Graham Hancock. Piemme, Milano, 2017. L'arca dell'alleanza Giuseppe Claudio Infranca. Gangemi, Roma, 2008. Le leggende degli ebrei Louis Ginzberg. Adelphi, Milano, 2003. Il Tempio di Gerusalemme Simon Goldhill. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009.
L'ULTIMA DIMORA DELL'ARCA?
Nell'immagine, panorama del mar Morto dal monte Nebo, nel territorio dell'attuale Giordania. Il monte è alto circa 806 metri. BORIS STREUBEL / GETTY IMAGES
IL TEMPIO DI SALOMONE E L'ARCA Il tempio che accolse l'arca fu la più importante opera di Salomone, secondo e ultimo sovrano dell'Israele unito. Terminato verso il 960 a.C. l'edificio s'ispirava ai santuari cananei coevi, in parte scavati nella roccia. Tale circostanza e i dati forniti dalla Bibbia (1 Re capitolo 6) consentono di farci un'idea sul suo aspetto, qui proposto in una possibile ricostruzione.
1 TAVOLA DEI PANI DELL'OFFERTA In legno d'acacia e oro, ospitava un'offerta di 12 pani disposti su due pile che venivano cambiate ogni sabato. Sopra vi si spargeva l'incenso.
Le misure del tempio. Secondo la Bibbia (1 Re capitolo 6) il tempio misurava 60 cubiti di lunghezza, 20 di larghezza e 30 di altezza. Se prendiamo come unità di misura il cubito reale (52,5 m), equivalgono a 27 m di lunghezza, 9 di larghezza e 13,5 di altezza.
Magazzini N
Debir
O
E S Hekal
Ulam
L'edificio. Come i templi cananei, avrebbe avuto una pianta rettangolare. Era probabilmente costituito da tre parti: l'ulam, o portico; la sala principale, o hekal e il santuario interno, o dĕbh r.
Ulam
Iachin e Boaz. Sono i nomi dati alle due grandi colonne di bronzo disposte all'ingresso del tempio.
Mare di bronzo. Quest'enorme pilone di bronzo fuso poggiava su 12 tori dello stesso metallo, nell'area conosciuta come cortile dei sacerdoti.
Altare degli olocausti. Era a tutti gli effetti una grande graticola per cremare le vittime immolate a Jahvè e si trovava all'ingresso del tempio.
L'interno. Le pareti erano rivestite da legno di cedro e il suolo da legno di cipresso.
Hekal Dĕbh r
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Cherubini. Nel dĕbh r. due cherubini dalle ali stese, in legno d'ulivo ricoperto d'oro, custodivano l'arca. Misuravano 10 cubiti, ovvero circa 4,5 metri di altezza.
Magazzini. «Vicino al muro che circondava il tempio [Salomone] fece tre piani laterali su tutto il contorno» con pietra e legno di cedro che avevano la funzione di magazzini.
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LA DESCRIZIONE DELL'ARCA e del tabernacolo fornita
Pile di bronzo. C'erano 10 recipienti di bronzo (5 per ogni lato del tempio) per lavare gli animali destinati al sacrificio. Erano decorati con leoni, buoi e cherubini.
dal libro dell'Esodo (capitoli 26-40) è anacronistica. Potrebbe corrispondere al santuario di Silo, che giocò un ruolo fondamentale per l'instaurazione della monarchia e che risale al periodo in cui le tribù israelitiche si erano già rese stanziali. La descrizione incorpora elementi del futuro tempio di Gerusalemme ed è in buona parte una ricostruzione ideale, opera dei cosiddetti scrittori sacerdotali. La loro scuola infatti spostò all'epoca dell'Esodo una realtà successiva, quella delle tribù già riunite attorno all'arca e al tabernacolo. L'idea si cristallizzò nel 621 a.C., quando il re Giosia accentrò il culto nel tempio di Gerusalemme. Le tribù nomadi avevano probabilmente un tabernacolo che però non presentava le stesse caratteristiche.
SOL 90 / ALBUM
3 ARCA DELL'ALLEANZA Era l'oggetto sacro per eccellenza e vi si conservavano le tavole della legge che Jahvè aveva dato a Mosè, la verga di Aronne e un recipiente con della manna.
2 ALTARE DEI PROFUMI Vi si bruciava giorno e notte un profumo di «storace, onice, galbano come balsami e incenso puro» (Esodo 30:34).
MACCHINE DA
Gli eserciti ellenistici e romani svilupparono sofisticate armi d’assedio, come
ASSEDIO DI SIRACUSA
Questo dipinto a olio di Thomas Ralph Spence è la ricostruzione un po’ fantasiosa di una gigantesca macchina per lanciare massi, simile all’onagro romano. FINE ART / ALBUM
GUERRA balestre, catapulte, arieti e torri mobili
G PUNTA DI FRECCIA
L’iscrizione indica che questo manufatto di bronzo proviene dall’arsenale di Filippo II di Macedonia. Fu usato nell’assedio di Olinto del 348 a.C. BRIDGEMAN / ACI
C R O N O LO G I A
NASCITA DELLE ARMI D’ASSEDIO
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li eserciti contemporanei dispongono di un’ampia varietà di armi collettive, cioè quelle che richiedono di essere manovrate da più persone e che sono in grado di proiettare a lunga distanza un grande volume di fuoco, molto superiore a quello che potrebbero produrre quattro soldati con armi individuali. Mortai, cannoni e carri armati rientrano in questa categoria di armamenti, che comprende anche i veicoli dei genieri e altri macchinari. Ma le armi collettive erano già utilizzate dagli eserciti più sviluppati dell’antichità, in particolare in epoca ellenistica e romana tra il IV secolo a.C. e la caduta dell’impero d’Occidente, nel V secolo d.C. Tali armi possono essere suddivise in macchine d’assedio e artiglieria. Le prime, più antiche, servivano a proteggere gli assedianti in fase di avvicinamento alle mura nemiche per mezzo di strutture difensive come il mantelletto o la testuggine, consentivano di accedere alla sommità del cammino di ronda tramite scale e torri d’assedio mobili e, infine, permettevano di abbattere le porte o le basi delle mura a colpi di ariete. Le pitture egizie d’epoca faraonica ci tramandano l’uso di scale dotate di ruote e mantelletti, mentre i primi assedi condotti con macchinari complessi risalgono ai tempi di Assurnasirpal II (IX secolo a.C.), re degli assiri, quando vennero create delle nuove macchine mobili che combinavano diverse armi e consentivano di proteggere gli assedianti. Per molto tempo i greci non s’inte-
ressarono a queste invenzioni. L’unica novità che introdussero fu l’ariete: secondo Diodoro Siculo e Plutarco fu inventato dall’ingegnere Artemone di Clazomene durante l’assedio di Samo, nel 440-439 a.C., proprio mentre ad Atene si costruiva il Partenone. Più tardi Senofonte, che era un militare di professione, si stupiva di fronte alla novità rappresentata dalla testuggine – una grande struttura di legno destinata a proteggere i soldati che assediavano Larisa nel 399 a.C.
Macchine colossali Ma fu all’altro capo del mondo greco, in Sicilia, che si registrò il maggior sviluppo delle macchine d’assedio elleniche. Nel V secolo a.C. l’isola era contesa da greci e cartaginesi. Durante l’assalto alla roccaforte punica di Mozia da parte del tiranno di Siracusa Dionigi I nel 397 a.C. i sicelioti utilizzarono per la prima volta delle torri mobili per superare l’alta cinta muraria che proteggeva la città. Diodoro Siculo riferisce che le torri erano alte sei piani, dotate di ruote e che gli assedianti fecero ricorso anche ad arieti e catapulte durante l’attacco. Se le macchine da guerra greche erano d’ispirazione orientale, la prima artiglieria sembra invece essere stata un’invenzione tutta ellenica. Nel 399 a.C. alla corte di Dionigi di Siracusa fu probabilmente ideato il gastraphetes, una specie di balestra. Qualche decennio più tardi gli eserciti di Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, crearono macchine più potenti che poi si diffusero nel resto del mondo greco.
399 a.C.
332 a.C.
305 a.C.
209 a.C.
100 d.C.
A Siracusa si costruiscono le prime balestre, basate su un meccanismo a tensione.
Nell’assedio di Tiro si utilizzano catapulte in grado di aprire brecce nelle mura.
Demetrio Poliorcete usa una colossale torre mobile durante l’assedio di Rodi.
Con la presa di Cartagena Roma entra in possesso di un arsenale di catapulte.
I romani rendono le catapulte per dardi più maneggevoli in battaglia.
MACCHINE ASSIRE
Questo rilievo dell’VIII secolo a.C. proveniente dal palazzo di Sennacherib a Ninive illustra l’assedio assiro a Lachish. Sono visibili le rampe in adobe usate per innalzare delle casematte, e gli arieti e le torri d’assalto ai piedi delle mura. Un attaccante versa un recipiente d’acqua sull’ariete per evitare che venga incendiato dalle torce lanciate dai difensori. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
LE PRIME ARMI DA FUOCO
Sebbene le miscele incendiarie fossero usate già dal V secolo a.C. i bizantini furono i primi a spruzzarle sui nemici tramite dei tubi di rame. Il cosiddetto “fuoco greco” era utilizzato soprattutto nei combattimenti navali. BRIDGEMAN / ACI
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Non tutti concordano sul fatto che questi dispositivi possano essere classificati come “artiglieria”, dato che il termine dovrebbe essere riservato alle armi azionate da polvere da sparo. Ma in ogni caso si trattava di armi collettive che permettevano di lanciare proiettili di un certo volume a grande distanza e con molta potenza, ben al di là di ciò che avrebbe potuto conseguire la mera forza muscolare di un individuo. Se l’artiglieria d’epoca moderna è termobalistica – sfrutta cioè l’energia cinetica provocata dallo scoppio della polvere e la susseguente espansione di gas – quella dell’antichità era invece nevrobalistica, si basava cioè sull’energia cinetica accumulata da una corda in tensione. In realtà questi due tipi di artiglieria coesisteranno a lungo in Europa dopo l’introduzione della polvere da sparo. I regni ellenistici sorti dopo la morte di Alessandro Magno si lanciarono in un’autentica corsa agli armamenti sviluppando torri d’assedio di dimensioni gigantesche e suddivise in vari piani, nonché catapulte di diverso calibro che lanciavano massi di pietra. Demetrio I detto Poliorcete (l’assediatore) utilizzò queste macchine durante l’assedio di Rodi (305-304 a.C.). In certi casi gli arieti, le torri e le catapulte venivano montati su delle imbarcazioni incatenate tra loro per sferrare un attacco dal mare. Curiosamente la repubblica romana iniziò in ritardo a impiegare tali tecnologie. Per lungo tempo la tecnica d’assedio preferita dai romani fu il blocco dei rifornimenti, che piegava la città nemica con la fame. Si ricor-
reva anche a semplici sistemi di protezione simili ai mantelletti, come la vinea e il pluteus. Fu solo con la conquista di Cartagena (209 a.C.), nel corso della Seconda guerra punica, che i romani cominciarono a utilizzare i pezzi di artiglieria sottratti ai nemici e in seguito anche a produrli. Ai tempi di Giulio Cesare, a metà del I secolo a.C., era ormai abituale il ricorso a dispositivi balistici e macchine d’assedio quali torri, mantelletti, testuggini, arieti o sambuche (strutture di legno dotate di una piattaforma che veniva manovrata con delle corde e utilizzata per superare le mura delle città nemiche). L’epoca dell’imperatore Vespasiano e di suo figlio Tito vide celebri assedi, come quello della roccaforte di Masada (72-73 d.C.), che dimostrarono il livello di perfezionamento raggiunto dalle tecniche romane. Nel successivo periodo di Traiano e Adriano (98-138 d.C.) si registrarono alcune delle più importanti novità nel campo dell’artiglieria, come le carroballistae, delle grandi balestre montate su carri. Ancora molto tempo dopo, durante il Rinascimento, molti ingegneri militari europei continuavano a studiare con attenzione queste macchine belliche che rappresentavano un esempio indiscutibile del genio degli antichi. FERNANDO QUESADA SANZ UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID
Per saperne di più
SAGGI
La guerra nella Grecia antica J. Vernant (a cura di). Raffaello Cortina, Milano, 2018. Armi e guerrieri di Roma antica Yann Le Bohec. Carocci, Roma, 2008.
LE MURA DI MESSENE
Fondata da Epaminonda nel 369 a.C. questa fortezza del sud-ovest del Peloponneso fu assediata in diverse occasioni da macedoni e spartani. HERITAGE / AGE FOTOSTOCK
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L’arco si distingue per la rigidità e le grandi dimensioni.
DARDI E PIE TRE
BRIDGEMAN / ACI
I PRIMI PEZZI di artiglieria dell’antichità
DARDO RITROVATO A MASADA, TESTIMONIANZA DELL’ASSEDIO ROMANO DEL 72-73 D.C.
Meccanismo a scatto con fermi dentati e grilletto. ILLUSTRAZIONI: PETER CONNOLLY / AKG / ALBUM
erano azionati da un meccanismo a tensione ed erano noti in greco come kaeltai e in latino come catapultae. A partire dal III secolo a.C. però vennero introdotti i modelli a torsione più efficaci e potenti, che sfruttavano delle matasse fatte di crini o tendini animali attorcigliati tra loro. L’artiglieria a tensione riapparve verso la fine dell’impero romano con l’arcuballista citata da Vegezio, antenata della balestra medievale. IL TIPO DI PROIETTILE aiuta a distinguere i primi pezzi di artiglieria. Gli oxybeles a torsione scagliavano frecce pesanti e di grandi dimensioni e a Roma erano noti come scorpio. A Maiden Castle, nel Dorset, sono stati ritrovati degli scheletri umani con punte di grossi dardi conficcati nella colonna vertebrale. Dallo studio dei resti di una fortificazione britanna a Hod Hill, nella stessa regione, è emerso che tali dardi potevano essere sparati con grande precisione da una distanza compresa tra i 130 e i 170 metri. Il Bellum Africum – riguardante le battaglie di Cesare contro i suoi avversari repubblicani nelle province africane – specifica che un dardo lanciato con uno scorpio poteva trapassare la coscia di un uomo e inchiodarlo al suo cavallo. INVECE i proiettili dei lithobolos, in latino ballista, erano massi sferici e la potenza dell’arma era determinata dal loro peso. A partire dal II secolo d.C. però il termine ballista inizia a essere usato piuttosto per indicare macchine che lanciavano dardi.
GASTRAPHETES
L’“arco da pancia” fu inventato in Sicilia intorno al 399 a.C. Per caricarlo bisognava poggiarlo a terra e premere con il ventre e tutto il peso del corpo sul calcio convesso; in questo modo il meccanismo a scatto si spostava verso il basso portando la corda alla sua tensione massima.
Un argano fa scorrere il meccanismo a scatto da un estremo all’altro per tendere l’arco.
Le matasse erano fissate a delle rondelle di bronzo (modioli). Il loro diametro determinava il peso dei proiettili.
OXYBELES
I primi dispositivi per il lancio di dardi del IV secolo a.C. erano armi a tensione di grandi dimensioni. Successivamente nacquero i modelli a torsione.
Due matasse di crini intrecciati fornivano l’energia necessaria.
LITHOBOLOS
Letteralmente “lanciapietre”. Era una catapulta a torsione utilizzata nella seconda metà del IV secolo a.C., ai tempi di Alessandro Magno.
pietre raggiunsero dimensioni e capacità di tiro notevoli. Alcune riuscivano a lanciare i proiettili fino a 400 metri di distanza con un tiro parabolico; altre potevano essere caricate con massi di 13 chili che raggiungevano i 170 metri circa in meno di 2 secondi. FLAVIO GIUSEPPE racconta che, durante l’assedio di Gerusalemme del 70 d.C., i romani inventarono uno stratagemma per evitare che il colore chiaro della pietra risaltasse sul terreno scuro e i difensori vedessero arrivare i proiettili: semplicemente, dipinsero i massi di nero. Lo stesso Giuseppe riferisce anche che durante l’assedio di Iotapata un masso centrò un uomo, staccandogli la testa e proiettandola a 400 metri di distanza. NEL IV SECOLO D.C. l’onagro, già in uso da secoli, sostituì definitivamente le complesse macchine a doppia matassa e bracci orizzontali. Il dispositivo, così chiamato in allusione al modo di scalciare dell’asino selvatico, era dotato di una grande matassa di corde e di un palo che a un’estremità aveva una sacca per contenere il proiettile. È il modello più rappresentato nelle incisioni del XIX secolo e nel cinema contemporaneo perché è il più facile da ricostruire.
NELL’ANTICHITÀ le macchine per scagliare
TEM IB IL I CATAPULTE
2 NELL’ASSEDIO DI ALESIA GIULIO CESARE NON UTILIZZÒ ONAGRI COME QUELLO IMMAGINATO DALL’AUTORE DI QUEST’OLIO, HENRIPAUL MOTTE. MUSÉE MUNICIPAL, SÉMUR-EN-AUXOIS.
Gli onagri romani erano dotati di una grande sacca posta all’estremità del braccio.
Non è una macchina particolarmente sofisticata, però è di facile manutenzione. Lo storico romano Ammiano Marcellino la menziona per la prima volta nel 359 d.C.
ONAGRO
Gli argani per portare in tensione la matassa, nelle macchine con proiettili da un talento (26kg) erano azionati da otto uomini.
Una matassa di circa 50 cm di diametro permetteva di lanciare massi di un talento a oltre 250 metri di distanza.
L’ammortizzatore attutiva l’impatto del braccio evitando che rompesse il telaio.
MUSÉE MUNICIPAL SÉMUR EN AUXOIS / DAGLI ORTI / AURIMAGES
ILLUSTRAZIONE: SOL 90 / ALBUM. FOTO: THIERRY LE MAGE / RMN-GRAND PALAIS
La torretta era provvista di piccole macchine lanciadardi per la copertura difensiva.
ARIETE GIGANTE
Ipotetica ricostruzione di un ariete gigante basata sulla descrizione dell’ingegnere e architetto romano Vitruvio. La trave non è sospesa, ma scorre su dei rulli.
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PETER CONNOLLY / AKG / ALBUM
L’ IM PAT TO DEL L’ARIETE L’ARIETE È PROBABILMENTE la più antica mac-
china da guerra. In Egitto e in Mesopotamia le mura in mattoni secchi potevano essere abbattute con grandi lance o semplici zappe, ma poteva risultare più efficace un tronco d’albero intagliato, vero prototipo di questo attrezzo. Ateneo Meccanico, ingegnere e autore vissuto nel I secolo a.C., afferma che l’ariete fu inventato dai cartaginesi durante l’assedio a Gadir (Cadice), ma è pura fantasia.
molte teste di ariete, perché essendo in bronzo venivano spesso rifuse già nell’antichità. Presso lo stadio del santuario di Olimpia ne è stato rinvenuto un piccolo esemplare a forma di trave a sezione quadrata, dentellato e decorato lateralmente con il cranio di un montone in rilievo. In certi casi si proteggeva l’ariete con una testuggine mobile, cioè una struttura di legno rivestita con placche metalliche o pelli umide. A volte l’ariete veniva appeso alla struttura stessa con delle catene in modo tale da generare un movimento oscillatorio ripetuto, di maggior potenza e precisione.
NON SI SONO CONSERVATE
ARIETE OSCILLANTE
In questo modello, uno dei più semplici utilizzati a partire dal IV secolo a.C., l’ariete rimane sospeso grazie all’utilizzo di catene.
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La posizione elevata dell’ariete permetteva di colpire la parte più alta e debole delle mura.
TESTUGGINE ARIETARIA
Ipotetica ricostruzione di un modello descritto da Vitruvio e Ateneo, che lo attribuiscono ad Agetore di Bisanzio. Non è chiaro quale fosse il suo funzionamento. La figura umana dà un’idea delle sue enormi dimensioni.
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lossale e celebre dell’antichità fu l’elepoli (letteralmente conquistatrice di città), fatta costruire da Demetrio Poliorcete nel tentativo di espugnare Rodi, nel 305 a.C. Il blocco dell’isola è ben documentato da Diodoro Siculo che si basò sul racconto di Ieronimo di Cardia. Progettata da Epimaco di Atene l’elepoli spiccava tra le tante macchine d’assedio per le sue dimensioni. Suscitò una tale impressione che fu descritta, oltre che da Diodoro, anche da Vitruvio, Plutarco e Ateneo Meccanico, sebbene con varie discrepanze sui particolari. L’ELEPOLI era un gigante a sezione quadrata che raggiungeva i 23 metri di larghezza a livello della base per poi restringersi ai livelli superiori. I suoi 45 metri di altezza (come un moderno edificio di quindici piani) erano sufficienti a superare qualsiasi cinta muraria difensiva. La torre aveva al suo interno nove piattaforme su cui venivano collocate delle catapulte che sparavano proiettili tramite apposite feritoie. Poteva essere spostata grazie alle ruote, ma era lenta e vulnerabile agli ostacoli presenti sul terreno, come i fossati nascosti. Anche se le torri d’assedio continuarono a essere utilizzate per molti secoli non se ne sarebbero più costruiti esemplari di queste dimensioni.
FORSE LA TORRE d’assedio più co-
TORRI D’ASSEDIO
4 La struttura è resa ignifuga tramite un rivestimento esterno di placche di ferro.
In questa ricostruzione, una delle varie possibili, la torre ha tre facce inclinate e una verticale.
ELEPOLI
ILLUSTRAZIONI: SOL 90 / ALBUM
Per spostare le torri erano necessari 3.400 uomini che spingevano in parte collocandosi negli spazi interni tra le travi e in parte da dietro.
L’artiglieria è disposta nei sei piani superiori della torre: sotto, le catapulte per le pietre; sopra, quelle per i dardi.
L’elepoli era dotata di otto enormi ruote di quasi un metro di larghezza, rivestite di ferro. In alcuni modelli, come quello qui rappresentato, le ruote potevano essere orientate tramite un argano manovrato da 200 uomini.
SGUARDI DEL PASSATO
Solo i patrizi, i più nobili dei cittadini, godevano dello ius imaginum, il diritto a esibire le maschere funerarie o i ritratti dei loro avi. Così fa l’aristocratico conosciuto come Togato Barberini e immortalato in questa statua del I secolo a.C. Nella pagina seguente, le lettere SPQR rimandano alla formula latina Senatus Populusque Romanus (Il Senato e il Popolo Romano), che figurava sugli stendardi delle legioni e sugli edifici pubblici. BUSTO: SCALA, FIRENZE. SPQR: MARKA / AGE FOTOSTOCK
SONO UN CITTADINO ROMANO IL PIÙ GR ANDE PRIVILEGIO DELL’ANTICHITÀ Per oltre cinquecento anni la condizione di cittadino romano rese libero chi la possedeva: solo essi, per esempio, potevano occupare cariche pubbliche, arruolarsi nella legione o contare su un matrimonio legale e su figli legittimi
NIDAY PICTURE LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
Un cittadino romano poteva essere giustiziato solo tramite decapitazione, come nel caso di Paolo di Tarso. Olio di Enrique Simonet. 1887. Cattedrale di Malaga.
N
el suo celebre discorso tenuto a Berlino Ovest nel giugno 1963, in piena Guerra fredda, il presidente degli Stati Uniti J.F. Kennedy manifestò il proprio appoggio agli abitanti della città dichiarando: Ich bin ein Berliner (Io sono un berlinese). Oggigiorno nessuno ricorda che l’arringa iniziava con un riferimento ai tempi romani, perché Kennedy stabiliva un parallelo tra l’orgoglio di sentirsi berlinese e quello che un romano, duemila anni prima, avrebbe provato nell’affermare Civis romanus sum, “Sono un cittadino romano”. I grandi protagonisti della storia di Roma pronunciarono la frase con la stessa fierezza. L’eroe dei primi tempi della repubblica, Gaio Muzio Scevola, si presentò con tali parole (Romanus sum) al re etrusco Lars Porsenna dopo aver fallito
DAGLI ORTI / AURIMAGES
LA DECAPITAZIONE DI SAN PAOLO
RITI NUZIALI
Nella basilica romana di San Lorenzo fuori le mura è conservato questo sarcofago del III secolo d.C. con l’immagine di una cerimonia nuziale.
nel tentativo di ucciderlo. Quando Cicerone denunciò gli abusi commessi dal governatore della Sicilia, Verre, ricordò le severe punizioni da infliggere al reo sebbene questi, al fine di evitare la tortura, si fosse più volte proclamato cittadino romano. Quasi un secolo dopo, a quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli, quando san Paolo venne liberato denunciò i maltrattamenti ricevuti in prigione malgrado fosse per nascita un cittadino romano. Quest’ultimo aneddoto, di cui gli studiosi mettono in dubbio la veridicità, riflette il senso dell’onore che derivava
90 a.C. C R O N O LO G I A
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COME SI ESTENDE UN DIRITTO
Con la Lex Iulia de civitate latinis et sociis danda si concede la cittadinanza romana alle città italiche rimaste fedeli a Roma durante la Guerra sociale o italica (91-88 a.C.).
89 a.C.
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La Lex Plautia Papiria concede la cittadinanza romana a tutti gli italici che vivono a sud del Po, a condizione che vengano registrati a Roma dal pretore nell’arco di due mesi.
MONETA DEI MARSI, NEMICI DI ROMA NELLA GUERRA ITALICA. IL LORO SIMBOLO, IL TORO, CARICA LA LUPA ROMANA.
COSA INDOSSA UN CITTADINO
LA TOGA, VESTE TRADIZIONALE
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ualsiasi spettacolo con una grande affluenza o un evento nel foro – il centro della vita pubblica nel mondo romano – era l’occasione per sfoggiare la toga, una sopravveste riservata esclusivamente ai cittadini romani; indossarla era un diritto (lo ius togæ) che il cittadino perdeva quando veniva condannato all’esilio. Si trattava di un capo in lana di grandi dimensioni che s’indossava drappeggiandolo sopra la tunica e che copriva il corpo e le spalle. Poiché era piuttosto ingombrante, cadde in disuso in epoca repubblicana finché Augusto, il primo imperatore di Roma, introdusse l’obbligo d’indossarla almeno nel foro. Tra i diversi modelli disponibili era presente anche la toga candida o bianca, usata dagli aspiranti a una carica politica come sinonimo di purezza d’intenzioni; proprio da qui deriva il termine “candidato”.
da un simile status giuridico, il più tutelato dell’epoca, nonché quello che garantiva maggiori privilegi. La cittadinanza romana infatti permetteva all’individuo libero di godere di un insieme di diritti che riguardavano ogni aspetto della vita quotidiana: poteva votare in assemblee e comizi, sposarsi legalmente e avere quindi figli legittimi che ne raccogliessero l’eredità, possedere beni, presentarsi alle elezioni e accedere alle cariche pubbliche, partecipare ai sacerdozi e arruolarsi nella legione. Poteva inoltre dedicarsi a qualsiasi attività commerciale in territorio romano.
49 a.C. Agli inizi della guerra civile contro Pompeo Cesare promuove la Lex Roscia con cui si concede la cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina, già titolari della cittadinanza latina.
Nell’ambito della giustizia, il cittadino poteva intraprendere azioni giuridiche davanti a un tribunale romano, essere assistito dal tribuno della plebe e ricorrere in appello contro le decisioni dei giudici. In epoca imperiale era sufficiente che il cittadino romano di qualsiasi parte dell’impero pronunciasse le parole Cæsarem appello (Mi appello a Cesare) perché la causa fosse trasferita direttamente a Roma. Fu questo il diritto invocato da san Paolo, che riuscì perciò a rimandare il processo di due anni
L’IMPERATORE CARACALLA
Si dice che concesse la cittadinanza romana per aumentare le entrate del fisco grazie alle tasse pagate dai cittadini. Busto del III secolo d.C. Museo archeologico nazionale, Napoli.
212 d.C. Caracalla promulga la Constitutio Antoniniana con cui l’imperatore estende la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi che vivono nel territorio imperiale.
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PER SALVARE ROMA
ISCRIZIONE AL CENSO. RILIEVO IN MARMO SULL’ALTARE DI LUCIO DOMIZIO ENOBARBO. II SECOLO A.C. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
I cittadini di Roma donano oro e gioielli per costituire un nuovo esercito dopo la sconfitta subita a Canne per opera di Annibale. Olio di Giuseppe Sciuti. 1894. Galleria nazionale d’arte moderna, Roma.
COME SI ESERCITAVA IL DIRITTO AL VOTO Questo denario (100 a.C. circa) mostra una votazione. L’elettore (a sinistra) deve attraversare un ponte. All’ingresso un rogator (al centro) gli porge una tavoletta per votare, che il cittadino lascia in una cista (a destra).
e a portarlo a Roma. I cittadini potevano essere puniti unicamente con le frustate e condannati a morte per decapitazione. In tale modo fu ucciso Cicerone per ordine di Marco Antonio nel 43 a.C. Pure il nonno di quest’ultimo era stato decapitato nell’87 a.C. sotto Mario, durante le proscrizioni. Tuttavia la cittadinanza comportava anche dei doveri, soprattutto relativi alla tassazione. Per esempio i cittadini dovevano contribuire alle spese militari con una somma proporzionale alla loro ricchezza o pagare le tasse di successione destinate a finanziare i pensionamenti delle forze militari. Avevano anche l’obbligo d’iscriversi al censo cosicché lo stato potesse calcolare la classe a cui appartenevano in funzione della loro agiatezza e ciò aveva ripercussioni sul tipo di voto nei comizi centuriati.
Cittadine di serie B
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Le donne romane erano escluse dalla vita politica e di conseguenza non potevano partecipare a tutte le attività pubbliche che caratterizzavano la dimensione politica del cittadino. Il giurista Ulpiano lo esprime in modo esplicito: «Le donne sono allontanate da tutti gli incarichi civili o pubblici e pertanto non possono essere giudici e non possono assumere cariche magistratuali»; aggiunge anche che «[non possono]
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garantire per terzi né essere procuratori». Un riflesso di tale mancata partecipazione alla vita pubblica lo troviamo nel nome: le donne non avevano il cosiddetto tria nomina, il segno più evidente della condizione di un cittadino; le donne di una stessa gens, o famiglia, erano chiamate con il gentilizio famigliare, come Claudia, Livia o Cornelia, al quale si aggiungeva un ordinale che ne indicava la successione: seconda, terza, quarta... Nell’ambito privato, la donna era soggetta a restrizioni legali perché non aveva una propria potestas, ma era sottomessa a quella del padre e poi del marito. Alla morte di questi passava sotto il controllo di un tutore perfino per disporre delle sue proprietà e per effettuare certe transazioni legali: era lui che doveva accordare il consenso formale. Secondo i giuristi, la presenza di un tutore veniva giustificata con la debolezza dovuta al sesso, l’ignoranza nelle questioni legali e la mancanza di buonsenso. Poiché non possedevano autorità legale le donne non potevano essere capifamiglia e quindi, una volta
COSÌ SI CHIAMAVA UN ROMANO
IL NOME DEL CITTADINO
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a formula onomastica riservata al cittadino, nota come tria nomina, era costituita da tre elementi. Il prænomen era il nome proprio che gli si assegnava dopo la nascita ed era quello con cui ci si rivolgeva in ambito familiare. Il nomen permetteva d’identificare la gens o famiglia allargata d’appartenenza dell’individuo ed era l’unico appellativo assegnato alle donne, che venivano chiamate solo con il nostro cognome: Claudia, Livia. Il cognomen, l’attribuzione più particolare, veniva assegnato in base a una caratteristica fisica o un’esperienza di vita. A questi tre elementi si poteva aggiungere l’agnomen, che aveva carattere onorifico e di solito indicava gesta d’arme importanti.
PUBLIO prænomen: Publio
CORNELIO nomen: Cornelio (della gens Cornelia)
SCIPIONE cognomen: Scipione (bastone del comando)
L’AFRIC ANO
agnomen: L’Africano (ottenuto dopo aver sconfitto Annibale a Zama, Africa)
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IL PASSAGGIO DA BAMBINO A CITTADINO il 17 marzo di ogni anno si celebrava a Roma la festa dei liberalia, in onore di Liber Pater, il dio associato al vino e a Bacco. In quel giorno i giovani maschi di età compresa tra i 15 e i 16 anni divenivano adulti. A casa offrivano ai Lari (gli dei protettori del focolare) la bulla, un amuleto che portavano sin da piccoli, e si spogliavano davanti alla famiglia per dimostrare che erano in grado di procreare. Il padre consegnava al ragazzo la toga virile che lo accreditava come cittadino. Aveva quindi luogo la festa pubblica, durante la quale i giovani che avevano raggiunto l’età per esibire la loro condizione di adulti attraversavano in processione il foro fino al tempio di Giove, al quale offrivano dei sacrifici. Ormai potevano votare, arruolarsi nella legione o istruire processi nel foro.
CIONDOLO IN ORO A FORMA DI BULLA RINVENUTO A POMPEI. I SECOLO D.C. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
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L’ARA PACIS
Nel grande altare consacrato da Augusto nel 9 a.C. compaiono due bambini con la bulla appesa al collo: il nipote dell’imperatore germanico mano nella mano con la madre Antonia Minore e il piccolo Gneo Domizio Enobarbo attaccato alla toga di Druso maggiore.
L’UOMO PIÙ CORAGGIOSO DI ROMA Nella Naturalis historia Plinio il Vecchio menziona l’uomo che vinse più corone civiche: Lucio Siccio Dentato, un valoroso militare del VI-V secolo a.C. che ne meritò addirittura 14. Sotto, corona civica intagliata in pietra. Museo della civiltà romana, Roma.
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vedove, non potevano adottare né esercitare la tutela sui propri figli o su qualsiasi altro membro della famiglia. Ciononostante le donne romane potevano godere di alcuni diritti basilari del cittadino. Se il padre moriva prima che la figlia si sposasse, aveva lo stesso diritto dei fratelli maschi a una divisione equa dell’eredità. Le donne potevano possedere beni, disporne, prendere parte a contratti e amministrare le loro proprietà in completa autonomia ma, se queste attività comportavano un’ufficializzazione giuridica, doveva intervenire il tutore, la cui presenza ed approvazione erano spesso meramente formali giacché era la donna a portare avanti le pratiche. C’erano romane che gestivano immense fortune e, nei suoi epigrammi, Marziale ne deride alcune, per la maggior parte vedove senza figli, perché facili prede dei cacciatori di dote. Ci sono poi casi di liberte ricche e di cittadine che nelle province amministravano gli affari. Ne è un esempio Lidia, una commerciante di stoffe pregiate di Filippi, in Macedonia, che accolse san Paolo e i suoi compagni. Sebbene la donna
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UNA GIOVANE DAVANTI AI MAGISTRATI. AFFRESCO DI POMPEI. I SECOLO D.C. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
non avesse il diritto di prendere decisioni politiche, poteva lavorare nell’ombra e anche promuovere il mecenatismo: Ottavia minore, sorella di Augusto, fece probabilmente costruire a Roma il portico che ne ha assunto il nome e che comprendeva un tempio, una biblioteca e una pinacoteca. Quanto alla religione, le donne erano escluse dalle alte cariche tranne che per i sacerdozi delle dee Cerere e Vesta. È anche vero però che quando gli uomini venivano investiti di ruoli importanti dovevano avere al loro fianco la moglie: il flamen dialis, sacerdote di Giove, doveva avere una consorte che rivestisse il ruolo di flaminica dialis; il rex sacrorum doveva essere sposato e se la sua compagna, la regina sacrorum, moriva, era costretto a rinunciare alla carica.
Come ottenere la cittadinanza Per essere cittadino romano bastava nascere da un matrimonio in cui gli sposi fossero entrambi cittadini. Nel caso di un’unione non legale la Lex Minicia de liberis – datata presu-
DECORAZIONE AL MERITO
LA CORONA CIVICA
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no dei maggiori onori militari che potesse ricevere un cittadino romano era la corona civica. Si preparava con foglie di quercia, forse perché, come scrive Plutarco nella sua biografia di Coriolano, l’albero era sacro a Zeus Polieus, ovvero “protettore della città”. Tale onoreficenza si concedeva in circostanze molto precise, ovvero quando un uomo salvava in battaglia la vita di un cittadino romano. L’unico testimone valido di simili gesta era il sopravvissuto e all’inizio era lui a conferire tale premio. Negli spettacoli pubblici il decorato al merito poteva indossare la corona e gli veniva riservato un posto vicino a quello dei senatori, che dovevano alzarsi al suo arrivo. Il premio inoltre comportava l’esenzione dagli obblighi pubblici per il padre e per il nonno paterno dell’insignito e il cittadino salvato doveva mostrargli lo stesso rispetto di un figlio verso il proprio padre.
mibilmente intorno al I secolo a.C. – stabiliva che i discendenti acquisivano la condizione del progenitore con lo status inferiore: i figli di un romano e di una non cittadina, o viceversa, non erano dunque cittadini romani. Esistevano però altri modi per acquisire tale privilegio. Potevano ottenerlo gli schiavi divenuti liberti purché rispondessero a tre requisiti ben precisi: essere maggiori di 30 anni, avere avuto come padrone un cittadino romano ed essere stati affrancati sotto la supervisione di un magistrato. In quanto nuovi cittadini adottavano i tre nomi che ne evidenziavano la precedente schiavitù: lo schiavo Narcissus, una volta divenuto liberto imperiale adottò il prænomen e il nome dell’imperatore Claudio, di cui era segretario, e divenne Tiberio Claudio Narciso. In ambito militare la legione straniera era riservata ai cittadini. Uno straniero, o peregrinus, si arruolava soltanto nelle unità ausiliarie, ma dopo 25 anni di servizio poteva ricevere come premio di pensionamento il diritto di cittadinanza romana e godere fi-
nalmente dei diversi vantaggi derivati dal suo nuovo status, tra i quali lo ius connubii, il diritto di sposare legalmente una straniera. Era uno dei più importanti perché durante il servizio attivo i soldati non potevano prendere moglie. Se spesso formavano comunque delle famiglie la donna e i figli non avevano alcuna tutela legale. Diventare cittadino consentiva quindi di legalizzare le frequenti relazioni dei soldati con donne indigene e di fornire una sicurezza giuridica ai discendenti. I peregrini potevano accedere allo status di cittadino anche per concessione individuale o collettiva, a volte come riconoscimento per una prestazione militare straordinaria. Per esempio, il 18 novembre dell’89 a.C., durante la Guerra sociale (91-88 a.C.), il comandante in capo dell’esercito Gneo Pompeo Strabone concesse tale privilegio a un gruppo di trenta cavalieri iberici della regione dell’Ebro, la cosiddetta Turma salluitana, per premiare il coraggio e il valore dimostrati durante l’assedio di Ascoli, una roccaforte dei ribelli italici.
AUSILIARI IN AZIONE
Nel rilievo sopra queste righe vediamo delle truppe ausiliarie formate da stranieri, o peregrini con i caratteristici scudi oblunghi, mentre combattono contro i daci. Colonna Traiana inaugurata a Roma nel 113 a.C.
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TIMGAD: LA ROMA DEL DESERTO
mercato. Fu regalato a Timgad da un illustre cittadino: Marco Plauzio Fausto, chiamato Serzio, e dalla sposa Cornelia Valentina Tucciana Serzia.
IL CENTRO DI TIMGAD. SONO VISIBILI IL TEATRO E LO SPAZIO QUADRANGOLARE CHE OCCUPAVA IL FORO. Y. ARTHUS-BERTRAND / GETTY IMAGES
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“la pompei africana”: così viene conosciuta Timgad, o Colonia Ulpia Traiana Marciana Thamugadi (nell’attuale Algeria), fondata ai tempi dell’imperatore Traiano. Secondo un’iscrizione le prime pietre vennero posate nel 100 d.C. per volere di Lucio Munazio Gallo, legato del sovrano nella provincia africana di Numidia, per rialloggiare i veterani della III Legio Augusta. Dopo vent’anni al servizio dell’impero i veterani ricevevano degli appezzamenti di terra in quella zona, non lontano dal deserto del Sahara, perché vi si stabilissero. Avevano anche la missione di controllare le tribù ostili insediatesi nei contrafforti del massiccio montuoso dell’Aurès, che facevano razzie nella regione alla ricerca di bottini. Quei soldati segnati da centinaia di scontri erano cittadini romani e lì costruirono una città a immagine e somiglianza di Roma. Furono loro stessi a edificare le prime costruzioni: il foro, le terme, il teatro... Il modello che vediamo qui corrisponde al III secolo, il periodo di massimo splendore della città.
campidoglio. Dedicato a Giove, Giunone e Minerva, il tempio imitava quello di Roma.
foro. Come in tutte le città romane, s’innalzava all’incrocio delle due strade principali.
teatro. Poteva accogliere circa 4mila spettatori.
grandi terme del sud casa di serzio. Questa ricca magione, che includeva anche delle terme private, si estendeva su 2.300 m2.
SPAGNA, CULLA DI CITTADINI Imperatore tra il 69 e il 79 d.C., Vespasiano concesse a diverse comunità ispaniche lo status di latini, che permetteva poi di accedere alla condizione di cittadini. Sotto, busto di Vespasiano. Musée des Ruines d’Hyppone, Annaba (Algeria).
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Spesso dunque si faceva leva sull’aspettativa di ottenere la cittadinanza e in tal modo i generali rinforzavano la lealtà delle truppe ausiliarie nelle province. Si vennero a creare delle clientele militari basate sulla relazione personale tra un generale e il suo esercito che si rivelarono uno strumento fondamentale durante le guerre civili. È ciò che accadde quando Cecilio Metello e Pompeo il Grande attaccarono Sertorio nell’Hispania Ulterior. Entrambi i generali concessero la cittadinanza agli spagnoli leali alla propria causa, come dimostrano le numerose iscrizioni ispaniche di Cecilio e Pompeo: i nuovi cittadini formarono il proprio nome in omaggio a questi generali. Tra coloro che risultarono favoriti da Pompeo figura Lucio Cornelio Balbo, membro di una potente famiglia di commercianti di origine cartaginese stabilitasi a Gades, l’attuale Cadice. Proprio Pompeo concesse la cittadinanza a Balbo, che fu un uomo di fiducia di Giulio Cesare a tal punto che ne amministrò la fortuna privata e ricoprì la carica di console di Roma nel 40 a.C. Nel 56 a.C. i suoi nemici lo accusarono di aver usurpato la cittadinanza e lo sottoposero a processo. Venne difeso da Cicerone e fu assolto; inoltre Balbo ottenne da Cesare la cittadinanza romana per le sue genti, i gaditani.
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IL FORO ERA IL CENTRO DELLA VITA PUBBLICA DI ROMA. QUI POSSIAMO SCORGERE LE COLONNE DEL TEMPIO DI SATURNO E L’ARCO DI SETTIMIO SEVERO.
Nel processo di romanizzazione il conferimento della cittadinanza a intere comunità e non a singoli individui giocò un ruolo importantissimo. Man mano che l’Urbe estendeva i propri domini vennero promulgate leggi che in un primo momento concedevano la condizione di latino e in seguito lo status superiore di cittadino romano ai membri dei nuclei urbani che rispondevano a certi requisiti: stile di vita romano, presenza di cittadini romani tra gli abitanti, ecc. In tal modo si cercava di favorire l’integrazione all’interno dei confini romani e di assicurare la presenza dei soldati nelle legioni, che potevano essere formate unicamente da cittadini. Non solo: simili misure permettevano ai personaggi influenti dei gruppi indigeni di governare le città senza che l’etnia di appartenenza costituisse un problema. Invece di favorire la xenofobia e l’assoggettamento, questa politica permise l’integrazione dei popoli vinti che dimostravano lealtà a Roma: in questo modo bastavano poche forze per controllare le regioni
LA PERDITA DELLA CITTADINANZA
UN PRIVILEGIO PRECARIO
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i poteva anche perdere il titolo di cittadino romano se si verificavano determinate circostanze. La pena era nota come deminutio capitis, letteralmente “diminuzione dei diritti”, della quale esistevano diversi gradi. La deminutio capitis maxima comportava la perdita della libertà e della cittadinanza e veniva applicata in caso di cattura di un cittadino da parte dei nemici. Il grado minor implicava solo la perdita dello status di cittadino, come ad esempio succedeva ai romani che decidevano di trasferirsi nelle colonie. La cittadinanza era revocata per una condanna criminale, quando si andava in esilio o, ancora, per un debito insoluto: era il creditore a scegliere se vendere il debitore come schiavo. Ma la perdita poteva anche divenire una questione collettiva: nel 95 a.C. con la Lex Licinia Mucia venne revocata la cittadinanza ai gruppi italici che si erano confusi tra i veri cittadini e fu una delle cause della Guerra sociale.
conquistate. S’incentivava anche l’autonomia amministrativa e si accresceva il numero di persone che avrebbero costituito l’élite tramite matrimoni legalmente riconosciuti.
Nessuno è straniero In tale politica di municipalizzazione si rivelò essenziale lo Ius Latii promulgato dal fondatore della dinastia flavia Vespasiano tra il 73 e il 74 d.C. Grazie a tale decreto le comunità ispaniche raggiunsero lo stato giuridico latino, il cui beneficio più rilevante era la concessione della cittadinanza romana a qualsiasi persona avesse ricoperto una carica pubblica. Durante il periodo flavio diverse comunità ispaniche svilupparono questa nuova condizione, di cui si conservano leggi molto complete – come quelle di Malaga – oppure frammenti – come quelle di Hispalis (oggi Siviglia), Emporiæ (presso L’Escala, in Catalogna) o Clunia (nella provincia di Burgos). Una prova dell’applicazione estesa dell’editto in Spagna la troviamo nel fatto che il nome della gens imperiale dei
Flavi fosse uno dei più ricorrenti nell’élite urbana della penisola, i cui membri divenivano cittadini dopo aver ricoperto cariche nella magistratura. Il passaggio definitivo giunse con l’Editto di Caracalla, com’è conosciuta la Constitutio Antoniniana promulgata nel 212 d.C. Tale decreto concesse la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero. Anni prima, nel 143 d.C., l’oratore Elio Aristide aveva così pronunciato il suo elogio di Roma: «Né i mari né le terre sono un ostacolo sulla strada della cittadinanza, l’Europa e l’Asia non sono trattate diversamente. Tutti i diritti vengono riconosciuti a tutti. Nessuno di coloro che meritano potere o fiducia ne è escluso». La retorica era divenuta realtà.
CONGEDATI CON ONORE
Il diploma militare era una tavoletta di bronzo che i peregrini arruolati nelle forze armate ricevevano dopo 25 anni di congedo. Con il diploma gli veniva conferita la cittadinanza in segno di ringraziamento per i servizi prestati. I secolo d.C.
CLELIA MARTÍNEZ MAZA UNIVERSITÀ DI MALAGA
Per saperne di più
SAGGI
SPQR. Storia dell’antica Roma Mary Beard. Mondadori, Milano, 2016. Il cittadino e il politico (ebook) Claude Nicolet. Laterza, Roma-Bari, 2012.
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L’UOMO CHE ATTRAVERSÒ TUTTA L’ASIA
Un mosaico del 1867 conservato nel palazzo Doria-Tursi di Genova ricorda l’intrepido viaggiatore e la sua opera, Il Milione. Nella pagina accanto, i Polo si congedano da Kublai Khan. Miniatura del XV secolo. RITRATTO: LEEMAGE / GETTY IMAGES. MINIATURA: AKG / ALBUM
MARCO POLO Da Venezia a Pechino
Nel 1271 i fratelli Matteo e Niccolò Polo e il figlio di quest’ultimo, Marco, lasciarono Venezia alla volta della Cina, dove dovevano essere ricevuti dal Gran Khan. Il loro viaggio attraverso l’Asia durò tre anni e mezzo
onsultando le opere dei geografi medievali ed esaminando i mappamondi o le carte che ci hanno fatto pervenire, non si può non rimanere colpiti dal fatto che territori vastissimi, comprendenti l’Asia settentrionale, la Cina e buona parte del subcontinente indiano risultassero allora completamente sconosciuti. Nella maggioranza dei casi ci si limitava a lasciare spazi vuoti, in altri appaiono scritte poco rassicuranti del tipo Hinc abundant leones o Antropophagi, quasi a voler giustificare tale ignoranza tirando in ballo animali pericolosi o popoli all’ultimo stadio dell’evoluzione. Lo storico Albert t’Serstevens, nell’opera che nel 1959 dedicò ai precursori del viaggiatore veneziano, scrisse: «Nessuno dei sessantaquattro mappamondi datati dal VII alla fine del XIII secolo e da me consultati dà una minima idea di ciò che potevano essere le vaste regioni che si estendono verso Oriente al di là del Gange, dell’Himalaya, del Pamir e degli Urali». Fu necessario attendere fino alla fine del XIII secolo perché il mistero che aleggiava su quelle terre fosse finalmente svelato. E ciò grazie a un testo apparso per la prima volta in francese antico con il titolo di Devisement du Monde, ma che oggi tutti conoscono come Il Milione. Fu il prosatore Rustichello da Pisa a riordinare e a mettere nero su bianco i ricordi e gli appunti di viaggio di un giovane veneziano, 74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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COPERTINA DI UN’EDIZIONE SPAGNOLA DI IL MILIONE DI MARCO POLO. 1503.
ASIA, AFRICA ED EUROPA DOPO MARCO POLO
Intorno al 1450 il monaco camaldolese fra Mauro disegnò un mappamondo sorprendentemente dettagliato che gli era stato commissionato dal re portoghese Alfonso V ed è oggi conservato presso la Biblioteca nazionale marciana di Venezia. Rispetto alle rappresentazioni classiche è invertito: l’Europa si trova infatti nella parte bassa. La mappa ha i contorni più precisi e un maggior numero di dettagli interni rispetto alle carte in uso all’epoca dei Polo, due secoli prima. Ma naturalmente manca ancora l’America.
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KUBLAI KHAN. RITRATTO SU SETA DIPINTO POCO DOPO LA SUA MORTE AVVENUTA NEL 1294. PALAZZO NAZIONALE, TAIPEI.
Marco Polo, giunto fino alla corte di Kublai Khan, nipote di Gengis Khan. All’inizio del XIII secolo Gengis, il condottiero mongolo, era stato capace di soggiogare la quasi totalità dell’Eurasia, gettando le basi di un dominio immenso che, quando Kublai fondò il primo impero celeste della dinastia Yuan, si estendeva ormai dall’Europa orientale al mar del Giappone, Cina compresa.
Sarebbero state proprio queste straordinarie condizioni di unità politica e militare, la cosiddetta pax mongolica, a stabilire un collegamento tra Asia ed Europa come mai era accaduto prima. Un’opportunità che Venezia, la cui fortuna era legata ai traffici con l’Oriente, non si lasciò sfuggire. E nemmeno la famiglia Polo. Se il giovane Marco poté imbarcarsi nell’impresa che lo avrebbe reso famoso lo dobbiamo all’abilità del padre e dello zio (Niccolò e Matteo), che già nel 1266 raggiunsero la Cina riuscendo a farsi ricevere da Kublai in persona. Al loro rientro in patria, avvenuto tre anni dopo, non erano più semplici mercanti ma speciali emissari del Khan, incaricati di condurre un’ambasceria presso il pontefice. Una missione delicata suggellata dalla ricezione di un salvacondotto, la “tavola d’oro”, che in cinese si chiamava paiza e in mongolo gerega. Questo documento permetteva loro di muoversi liberamente entro tutti i territori 76 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Il signore del mondo
LA CITTĂ€ DEL PIĂ™ GRANDE VIAGGIATORE MEDIEVALE
Questa miniatura del XV secolo ricostruisce il momento in cui Marco Polo lascia Venezia. A sinistra si vede la basilica di San Marco con i quattro cavalli di bronzo sulla facciata. Accanto a essa il palazzo Ducale di fronte al quale si apre la piazza con le colonne di san Marco e di san Todaro. Marco Polo, in abito rosa, cammina lungo una banchina che potrebbe essere la riva degli Schiavoni. Bodleian Library, Oxford.
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MONASTERO DI ERDENE ZUU, XVI SECOLO. PER LA COSTRUZIONE DI QUESTO CENTRO BUDDISTA SI USARONO MATERIALI PROVENIENTI DALLE ROVINE DI KARAKORUM.
Viaggio di Marco Polo (1271-1295) Percorso di andata Percorso di ritorno
CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
I FRATI CHE SPIANARONO LA STRADA AI POLO MARCO POLO NON FU il primo occidentale ad aver messo
piede in Cina. Mercanti, avventurieri e soprattutto religiosi l’avevano preceduto. Basta ricordare il missionario Giovanni da Pian del Carpine, che nel 1245, su incarico di papa Innocenzo IV, giunse alla corte di Guyuk Khan dopo un lungo viaggio via terra. Altrettanto significativa fu l’esperienza di Guglielmo di Rubruck, un religioso e missionario fiammingo che nel 1253 ebbe modo di visitare l’accampamento di Mangu Khan a Karakorum come emissario del re di Francia, Luigi IX. A differenza di Il Milione i loro rapporti però rimasero chiusi negli archivi di chi li aveva commissionati. Un destino che li privò di quella fama che avrebbero certamente meritato.
sottoposti al controllo mongolo sia nel viaggio di andata sia in quello di ritorno. Ecco perché quando nel 1271 Niccolò e Matteo si rimisero in cammino verso l’impero celeste con al seguito il giovane Marco, che all’epoca aveva 17 anni, sapevano che dall’esito di quell’incarico sarebbero dipese anche tutte le loro fortune.
Comincia l’avventura Lasciata Venezia i Polo sbarcarono ad Acri, in Terrasanta, nell’aprile del 1272. Dopodiché mossero verso l’interno secondo un itinerario che li portò ad attraversare l’Anatolia orientale e l’Armenia, per poi dirigersi alla volta dell’altopiano iranico con l’obiettivo di raggiungere lo stretto di Hormuz e imbarcarsi per la Cina.
Durante questa prima parte del tragitto attraverso il Vicino Oriente i tre si spostarono via terra, da soli o unendosi a qualche carovana nei tratti più difficili. Dal momento che Il Milione non è un diario di viaggio ma un resoconto di quanto visto e udito durante il percorso, sprovvisto quasi del tutto di dettagli sugli spostamenti, non sappiamo come si relazionassero i Polo con le popolazioni locali. È però molto probabile che, in virtù della precedente esperienza di Niccolò e Matteo, ricorressero a delle guide che conoscevano le lingue del luogo e a funzionari delle terre sottoposte all’autorità del Gran Khan, il cui sostegno era garantito dalla presenza del salvacondotto. Naturalmente non mancavano rischi e difficoltà legati soprattutto al clima
impietoso e alla necessità di attraversare fiumi molto pericolosi in tutte le stagioni dell’anno. Le informazioni su queste prime tappe nell’interno dell’Asia sono numerose e spesso affascinanti: «Ancor vi dico che in questa grande Erminia [Armenia] è l’arca di Noè in su una grande montagna», scrive Marco riferendosi al mitico monte Ararat, su cui si sarebbe arenata l’arca alla fine del diluvio universale. Ma non mancano neppure le scoperte curiose.
PERICOLI A OGNI PASSO
Secondo Marco Polo chi attraversava il deserto del Taklamakan rischiava di perdersi a causa di allucinazioni provocate da spiriti ingannevoli.
Kublai aveva incaricato Niccolò e Matteo di condurre un’ambasceria presso il papa; i due fratelli tornavano dunque al suo cospetto insieme al figlio di Niccolò, Marco STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’esploratore descrive con dovizia di particolari anche il territorio dell’attuale Iraq, ma non specifica se i Polo vi abbiano veramente messo piede o si siano limitati a riportare informazioni, per quanto puntuali, di seconda mano. Comunque sia andata, si tratta di uno spaccato prezioso sui popoli che vi abitavano, le lingue parlate, gli usi e i costumi. Come la celebre descrizione del reame di Mosul, città famosa per i «panni di seta e d’oro». Marco si riferisce quasi certamente alla mussola, un tessuto molto fino e leggero che fece la fortuna dei mercanti locali ed è originario dell’Iraq settentrionale. Il veneziano restò affascinato anche dal fatto che nella regione vivesse una comunità cristiana molto numerosa, ma il cui credo non era «come comanda la Chiesa di Roma». Si trattava del nestorianesimo, una dottrina che sosteneva la totale separazione delle due nature di Cristo, quella umana e quella divina, e che per questo motivo era considerata eretica. Poco più avanti nel testo viene menzionata Baudac (Baghdad), dove risiedeva «lo califfo di tutti li saracini del mondo, così come a Roma il papa di tutti li cristiani». È una città vasta, attraversata da «uno fiume molto grande [il Tigri] per lo quale si puote andare infino nel mare d’India, e quindi vanno e vegnono mercatanti e loro mercatantie».
Nel cuore dell’Asia NESTORIANI IN CINA
Nel 635 alcuni fedeli giunsero a Xi’an, capitale del regno della dinastia Tang, come testimoniato dalla stele nestoriana (sopra) eretta nel 781.
A poca distanza da quel monte biblico c’era una sorgente di petrolio, probabilmente bitume, che le popolazioni locali sfruttavano da tempi immemorabili. In Il Milione Marco ne riporta un’interessante descrizione: «In questo confine è una fontana, ove surge tanto olio e in tanta abbondanza che 100 navi se ne caricherebboro a la volta. Ma egli non è buono a mangiare, ma sì da ardere». E in effetti secondo il veneziano la fama del luogo era tale che venivano «uomini molto da la lunga».
Nella città di Saba erano sepolti i tre re magi con i loro corpi intatti, ognuno in uno splendido sepolcro 80 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
È probabile che i tre veneziani fossero giunti fino in Persia attraverso le selvagge montagne del Kurdistan, arrivando poi a Tabriz, città nel nord-ovest del Paese, dove rimasero affascinati da «li sovrani tappeti del mondo e i più begli». Il transito per l’altopiano iranico, suddiviso in otto regni, è una miniera d’informazioni. Basti ricordare il passo che menziona la città di Saba (la cui ubicazione è attualmente sconosciuta), dove si troverebbero le tombe dei re magi che andarono ad «adorare Dio quando nacque». I tre magi sono «in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co’ capegli». Quella scoperta inattesa suscitò la curiosità del giovane Marco, che più volte chiese informazio-
IL MONTE ARARAT. In Il Milione
Marco Polo parla della vastissima regione dell’Armenia e riferisce la notizia secondo cui l’arca di Noè sarebbe ancora sulla cima del monte su cui si era arenata.
TUUL ET BRUNO MORANDI / GTRES
ni alla gente del posto, ma «niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano tre re soppelliti anticamente». È presente anche una preziosa testimonianza sugli «adoratori del fuoco», le comunità religiose zoroastriane (l’antico culto iranico) sopravvissute all’avvento dell’islam, sei secoli prima. Dopo Tabriz i tre fecero tappa a Yazd, descritta come una città molto bella e ricca grazie ai panni d’oro e alla seta, e a Kerman, dove si allevavano «li migliori falconi e li più volanti del mondo». Lì vennero a sapere che a Hormuz non era disponibile alcuna imbarcazione in grado di tenere il mare. Questo stravolse i loro piani e li costrinse a continuare via terra attraverso il deserto del Dash-e-Lut, l’Afghanistan e la valle del Panshir.
CRISTOFORO COLOMBO, LETTORE DI MARCO IL MILIONE HA STIMOLATO per secoli la curiosità di
esploratori e avventurieri. Non stupisce sapere che lo stesso Cristoforo Colombo ne aveva una copia su cui prendeva appunti, conservata oggi nell’Alcázar di Siviglia. E non ci sono dubbi che la tenesse in gran considerazione visto che, fino alla fine dei suoi giorni, rimase convinto di essere approdato in India, arrivando a toccare i confini orientali del mondo descritto dai Polo. Nel suo diario di bordo verso le Americhe scrive infatti: «Ventun ottobre [...] Sono sicuro di arrivare alla terraferma e alla città di Quisay e consegnare le lettere delle Vostre Altezze al Gran Can». Era il 1492 e l’apparizione dell’isola di Cuba, secondo lui, altro non poteva essere che il Giappone.
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RICERCA DI RUBINI SULLE MONTAGNE DI BADAKHSHAN. MINIATURA DEL LIBRO DELLE MERAVIGLIE DI MARCO POLO. XV SECOLO.
In Il Milione la descrizione di queste terre non è sempre lineare, ma sono presenti digressioni su altre regioni che spesso confondono il lettore. È il caso della nobile Samarcanda, che viene citata solo per spiegare un curioso aneddoto su un fratello del Gran Khan, che si era convertito al cristianesimo. Dal Panshir, percorrendo un lungo ramo della via della Seta, raggiunsero in seguito il Wakhan, una striscia di terra che s’incunea fino in territorio cinese. Ma era solo il prologo a una delle imprese più ardue: l’attraversamento della terribile catena del Pamir, durato ben quaranta giorni, che permise loro di giungere fino al bacino del Tarim – l’attuale regione di Xinjiang –, un territorio ai confini del mondo riscoperto da esploratori occidentali solo nel XIX secolo.
L’opera di Marco è molto parca di dettagli su questa parte del viaggio: non riporta né le impressioni dell’autore, né si dilunga sulle difficoltà che dovette affrontare. Il veneziano menziona solo che fu costretto a fermarsi per un certo tempo sui monti del Balasciam (l’attuale Badakhshan in Afghanistan) per riprendersi da una malattia. Si trattava di una terra ricca di pietre preziose chiamate balasci, una varietà di rubini che venivano estratti in grandi quantità ma che era proibito esportare, pena la morte. 82 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
TUUL ET BRUNO MORANDI / GTRES
Le sfide più difficili
LA STIRPE DI ALESSANDRO MAGNO
In questa immagine si vedono in primo piano i resti della fortezza di Yamchun, nella valle del Wakhan, dove il fiume Panj separa gli attuali stati del Tagikistan e dell’Afghanistan. Qui, nell’antico regno di Badakhshan, Marco Polo si fermò per riprendersi da una malattia. Il veneziano credeva che i re di questo territorio, i cui domini superavano «le dodici giornate tra levante e greco», discendessero da Alessandro Magno «e de la figlia di Dario, lo grande signore di Persia».
A quanto sembra la sosta permise al giovane di soffermarsi su alcuni particolari della popolazione locale, come per esempio l’usanza delle donne d’indossare brache dalla forma insolita. Un costume che lo stesso autore spiega così: «E questo fanno per parere ch’abbiano grosse le natiche, perché li loro uomini si dilettano in femine grosse». Ma se una volta raggiunto il bacino del Tarim i Polo pensavano di essersi lasciati alle spalle la parte più difficile del viaggio si sbagliavano di grosso. Li attendeva la traversata del deserto del Taklamakan, lungo una pista che si snodava per le città commerciali di Kashgar, Kotan e Cherchen, e quindi il cammino proseguiva attraverso il deserto del Gobi. Per non correre inutili rischi i tre, che si muovevano a dorso di cammello, decisero di unirsi a una carovana. Fu una pessima idea perché il gruppo fu presto attaccato dai predoni. I Polo furono abili: riuscirono a sganciarsi dagli accompagnatori e trovarono rifugio in una città vicina; molti dei compagni furono trucidati.
Arrivo alla meta Sfuggiti per un pelo a un destino terribile non poterono far altro che proseguire e la fortuna anche questa volta non gli voltò le spalle. Dopo aver percorso quasi duemila chilometri di deserto, capirono di essere in salvo: un reparto della guardia imperiale li attendeva per condurli a corte. Ci volle ancora più di un mese di viaggio, ma alla fine si trovarono al cospetto della favolosa Shangdu – la mitica Xanadu –, residenza estiva di Kublai Khan edificata pochi anni prima a nord di Pechino. Dopo tre anni e mezzo di peripezie i veneziani erano finalmente giunti in Cina. Quando furono ricevuti a corte con tutti gli onori non poterono fare altro che ammirare estasiati la ricchezza e lo sfarzo di quel palazzo «di mar-
DEA / ALBUM
INCONTRO CON IL KHAN
Il pittore Tranquillo Cremona immaginò così l’incontro tra i veneziani e Kublai. In realtà, i Polo si prostrarono al cospetto del Khan. 1863. Galleria nazionale d’arte moderna, Roma.
Dopo aver superato la catena del Pamir, i Polo dovettero attraversare i deserti del Taklamakan e del Gobi 84 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
mo e d’altre ricche pietre», le cui sale e camere erano «tutte dorate». L’udienza con Kublai fu uno dei momenti più importanti nella vita di Marco, come spiega lui stesso: «Egli [Kublai] li fece levare [i Polo] e molto mostrò grande alegrezza, e dimandò chi era quel giovane ch’era con loro». Niccolò rispose: «Egli è vostro uomo e mio figliuolo». Allora Kublai assentì: «Egli sia il benvenuto, e molto mi piace». Per il giovane Marco, ormai ventunenne, alla corte del Khan si aprivano le porte di quell’immenso Paese che, in capo a poco, avrebbe finito per conoscere a menadito. Impratichitosi molto velocemente delle lingue – pare ne conoscesse quattro –, non tardò a essere nominato ufficiale governativo. Questo privilegio gli permise
di prendere parte a importanti missioni in ogni angolo dell’impero, dal Tibet alla Birmania e dalla Cocincina all’India. Per volontà di Kublai i Polo rimasero in Cina per quasi 17 anni, fino a che nel 1292 il Gran Khan non gli concesse il permesso di far ritorno in patria. Salparono verso il golfo Persico su una flotta di 14 giunche. Iniziava così un viaggio per mare che non avrebbe avuto nulla da invidiare a quello che anni prima avevano percorso via terra: dopo aver costeggiato la Malacca arrivarono a Sumatra, dove furono costretti a fermarsi per cinque mesi a causa dei venti contrari. Poi toccarono i porti dell’India e di Ceylon, che Marco Polo dimostrò di conoscere bene per es-
servisi già recato nel corso di una precedente missione governativa. Dopo 18 mesi la flotta giunse finalmente a Hormuz. Avrebbero trascorso un altro anno e mezzo in Persia, prima d’intraprendere l’ultima parte del viaggio che li avrebbe riportati, dopo una sosta a Costantinopoli, fino in patria. Era il 1295 e i Polo mancavano da Venezia da ben 24 anni. ANTONIO RATTI STORICO
Per saperne di più
TESTI
Il Milione Marco Polo. Einaudi, Torino, 2005. SAGGI
Marco Polo. Viaggio ai confini del Medioevo Giulio Busi. Mondadori, Milano, 2018.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LE MERAVIGLIE DELLA CORTE DEL GRAN KHAN
25 chilometri circondava un paesaggio di fiumi, fontane e prati dove vivevano cervi, daini e caprioli, e anche falconi e 200 girifalchi (dei falchi da caccia molto apprezzati). Marco racconta che «quando il Grande Kane va per questo prato murato, porta un leopardo in sulla groppa
IN MEZZO AL PARCO il Gran Khan aveva fatto costruire la meraviglia suprema: un immenso palazzo smontabile fatto di canne di bambù «grosse più di 3 palmi o 4, e sono lunghe 10 passi infino in 15», lavorate per fungere da pilastri, travi e coppi, e sostenute da «più di 200 corde di seta». E tra il palazzo di marmo e «il palagio di canne» Kublai trascorreva i mesi di giugno, luglio e agosto «e questi tre mesi questo palagio sta fatto, gli altri mesi dell’anno istà disfatto e riposo». E «quando ‘l Grande Kane è in questo palagio e egli viene uno male tempo, egli àe astronomi e incantatori e fa[nno] che ‘l male tempo non viene in sul suo palagio».
LOOK AND LEARN / BRIDGEMAN / ACI
UNA MURAGLIA di
del cavallo; e quando vuole fare pigliare alcuna di queste bestie, lascia andare lo leopardo, e lo leopardo la piglia».
LA GRANDE YURTA DI GENGIS KHAN, NONNO DI KUBLAI. IL «PALAGIO DI CANNE» DI KUBLAI ERA UNA VERSIONE GIGANTESCA DELLE ABITAZIONI MOBILI DEI MONGOLI, UN POPOLO DI PASTORI NOMADI.
FOTO: ALBUM
uando giunse a Shangdu, la mitica Xanadu cantata in seguito da Coleridge nel poemetto incompiuto Kubla Khan , Marco Polo rimase a bocca aperta. Qui aveva la sua residenza estiva Kublai Khan: un sontuoso palazzo di marmo immerso nella natura, con camere e corridoi ricoperti d’oro. I Polo furono accolti con gioia dall’imperatore: «Date ch’ebbero le carte e privilegi che recavano dal papa, lo Grande Kane ne fece grande allegrezza».
KUBLAI A CACCIA A SHANGDU. IL SOVRANO LIBERA IL SUO FALCO CHE PARTE IN CERCA DI PREDE. ILLUSTRAZIONE DEL LIBRO DELLE MERAVIGLIE.
I POLO DAVANTI AL GRAN KHAN. NICCOLÒ E MATTEO S’INGINOCCHIANO DAVANTI A KUBLAI ALL’INGRESSO DELLA SUA TENDA. ILLUSTRAZIONE DEL LIBRO DELLE MERAVIGLIE.
GEISHA CON ABITO TRADIZIONALE
Nelle sue opere l’artista Kitagawa Utamaro colse diverse scene di vita quotidiana. In quella a destra, due geisha si occupano di un cliente ubriaco e, in questa pagina, una geisha inginocchiata sfoggia un’elegante pettinatura. XVIII secolo. Philadelphia Museum of Art. FOTO: BRIDGEMAN / ACI
G E I S H A
Estremamente eleganti, sofisticate ed esperte in musica e poesia, le geisha sono ancora oggi l’immagine piÚ rappresentativa del Giappone tradizionale
DISTRAZIONE ESOTICA
Due occidentali vengono intrattenuti da una geisha. Incisione a colori. XIX secolo. British Library, Londra. IL QUARTIERE DELLE GEISHA
BRITISH LIBRARY / AURIMAGES
Una geisha suona uno shamisen, il popolare strumento a corde giapponese. La musica era parte fondamentale dell’educazione di una geisha. Pittura del XIX secolo. AGE FOTOSTOCK
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a geisha e il samurai sono divenute figure iconiche che, agli occhi degli occidentali, evocano il Giappone tradizionale, forse per la necessità di un riferimento visivo che impersoni il mondo maschile e femminile di una cultura lontana quanto affascinante. Tutto ciò comporta una necessaria semplificazione e, in effetti, la maggior parte delle donne non viveva ovviamente come le geisha, né la maggior parte degli uomini era samurai. Non solo: alcune geisha erano uomini e alcuni samurai donne. È interessante riflettere sul perché simili personaggi abbiano riscosso un così grande successo quali incarnazioni del Giappone. Una delle possibili cause si trova nell’apertura commerciale del Paese verso la metà del XIX secolo, che permise la Restaurazione Meiji del 1868. Fino ad allora, durante due secoli e mezzo, l’arcipelago giapponese era
rimasto isolato per volere del governo militare del clan Tokugawa (1603-1868), ma d’improvviso iniziò ad attirare l’attenzione dell’Occidente sia per la rapidità della sua modernizzazione sia per la ricchezza delle sue tradizioni. Tale interesse fu veicolato dai racconti di quei viaggiatori che avevano visitato le isole nipponiche e anche dal “giapponismo”, la diffusa moda di collezionare e ammirare l’arte nipponica che si sviluppò dopo la “scoperta” del Giappone.
L’arte della vita quotidiana Se si analizza l’arte giapponese allora conosciuta in tutto il mondo è possibile notare che i primi collezionisti e i musei non acquisirono le grandi opere dell’arte colta nipponica, bensì oggetti che iniziavano a cadere in disuso per la crescente occidentalizzazione del Paese, così come opere dell’arte popolare quali ad esempio le stampe xilografiche coloriste della scuola ukiyo-e. Tale stile era tipico delle classi medie urbane che occupavano una posizione bassa nella scala sociale durante il governo dei Tokugawa, dominato dai samurai. L’ukiyo-e
SEAN PAVONE / ALAMY / ACI
ESPERTE IN MUSICA
Gion, a Kyoto, è uno dei più famosi quartieri di geisha di tutto il Giappone. Sullo sfondo, la pagoda Yasaka.
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1779
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Compaiono i taikomochi, uomini geisha, che con le loro storie intrattengono i commensali.
S’impongono le geisha professioniste. La prima di cui si ha notizia è Kikuya di Fukagawa.
Nel quartiere di Yoshiwara, a Edo (Tokyo), viene fondato il primo kenban, una sorta di albo delle geisha.
A Kyoto si può prendere la licenza da geisha. I clienti raffinati le preferiscono alle tayū, o prostitute.
Per le donne che hanno la licenza di geisha e cortigiane i clienti pagano la tariffa doppia, fissata nel 1874.
DONNE IN UNA STANZA
IL TÈ, O L’ARTE DEL RILASSAMENTO
La cerimonia del tè, che mira al raggiungimento del benessere spirituale, fa parte di quei rituali che una geisha deve conoscere a fondo. Sopra, teiera decorata con un paesaggio. XVIII secolo. Musée du Louvre, Parigi. JEAN-GILLES BERIZZI / RMN-GRAND PALAIS
era un’arte commerciale e, difatti, gli stampatori di incisioni miravano a prodotti di largo consumo. Per realizzarle sceglievano le tematiche che vendevano di più e ingaggiavano gli artisti più apprezzati dal grande pubblico. Alcune stampe erano dedicate alle gesta dei samurai, alle loro valorose battaglie o alla loro implacabile sete di vendetta per l’onore macchiato; queste vicende tornavano pure nel teatro kabuki, i cui attori più famosi erano un altro dei motivi più ricorrenti nell’ukiyo-e assieme a quello delle belle donne conosciute in giapponese come bijinga. Sebbene in queste xilografie femminili comparissero donne di ogni condizione sociale, le grandi protagoniste erano le lavoratrici nei quartieri del piacere e in particolare quelle di Yoshiwara, a Edo, antico nome di Tokyo.
Un gruppo di geisha ride mentre prepara il locale per ricevere i clienti. Dalla finestra è visibile il monte Fuji. Utamaro. 1798. Musée Guimet, Parigi.
Un’immagine distorta Alla fine del XIX secolo in Europa e negli Stati Uniti circolavano migliaia di opere sui quartieri del piacere che contribuirono a plasmare un modello parziale e seducente di donna giapponese, basato sull’elegante ideale di bellezza promosso dagli stampatori. Le donne ritratte erano cortigiane di alto rango, apprendiste, cantanti, cameriere o ancora altre che si dedicavano alle professioni tipiche del mondo notturno, e che in Occidente vennero contemplate ed equiparate in un unico, impreciso termine: geisha. Le scene ukiyo-e, quindi, divulgarono una ben precisa immagine della donna nipponica destinata a riscuotere molto successo e a far sì che tra alcuni occidentali si
HARRY BRÉJAT / RMN-GRAND PALAIS
cristallizzasse la convinzione che le giapponesi erano le donne più incantevoli del mondo. Tale opinione non si mostrava ovviamente priva di un certo maschilismo che apprezzava la loro delicatezza ma pure la loro rassegnata sottomissione. Insomma, l’immagine della geisha divenuta popolare in Occidente corrispondeva alla rappresentazione delle xilografie giapponesi e a tale immagine distorta s’ispirarono perciò gli europei nelle opere let-
In Occidente si diffuse una precisa immagine della geisha, delicata e sottomessa LOCANDINA DI MADAMA BUTTERFLY, LA FAMOSA OPERA DI PUCCINI ANDATA IN SCENA PER LA PRIMA VOLTA NEL 1904. ALBUM 92 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
terarie e teatrali ambientate in Giappone. Forse l’esempio più riuscito è il romanzo di Pierre Loti Madame Chrysanthème (1887), da cui Giacomo Puccini prese spunto per la creazione della sua Madama Butterfly (1904), in seguito più volte adattata al cinema e a teatro. Da allora i media hanno continuato a presentare una concezione leggermente alterata della geisha che si reggeva sulla sua sensibilità, sui gesti compassati e sull’aspetto elegante, reso celebre dai capelli graziosamente raccolti e dalle vesti esuberanti. Nemmeno lo scontro con il Giappone nella Seconda guerra mondiale erose un simile immaginario. In Il barbaro e la geisha (1958), uno dei “film della riconciliazione” concepiti per recuperare una visione posi-
UTAMARO, PITTORE DELLA BELLEZZA FEMMINILE NESSUN ARTISTA rappresentò meglio di Kitagawa Utamaro (1753-1806) la bellezza dell’universo femminile. Utamaro visse a Edo (attuale Tokyo) al tempo in cui la città sviluppava una suggestiva cultura urbana attorno ai costumi e agli spettacoli popolari. Fu un artista dello ukiyo-e, la popolare incisione giapponese dedicata al mondo dei divertimenti, e si specializzò nel genere delle donne belle, o bijinga. Oltre alla precisione con cui rappresentava kimono e pettinature, l’artista dimostrò anche una particolare abilità nel cogliere i sentimenti delle sue modelle, che furono soprattutto geisha e cortigiane del quartiere di Yoshiwara. Le sue opere svolsero un ruolo decisivo nel modo in cui l’Occidente recepì ed elaborò l’immagine della donna giapponese.
UNA GEISHA E UN CLIENTE FUMANO UNA PIPA IN UNA CASA DA TÈ. XVII SECOLO.
UN TRUCCO PERICOLOSO
Le geisha si truccavano con precisione. Si dipingevano il volto di bianco con oli essenziali uniti a escremento d’usignolo e a un derivato tossico del piombo. Cofanetto da trucco. XVIII secolo. Musée Guimet, Parigi.
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tiva del Paese del Sol levante, John Huston fece cadere preda delle seduzioni femminili di una giapponese perfino un uomo rude quale John Wayne.
La professione della geisha Le geisha mettevano in scena l’arte della seduzione tramite un’estrema cortesia e una particolare raffinatezza. Si dedicavano più alla sfera spirituale che a quella fisica. Tuttavia, va sottolineato, una simile distinzione fa capo alla mentalità occidentale che, a differenza di quella giapponese dell’epoca, ha sempre attribuito una connotazione peccaminosa all’ambito sessuale. La geisha non può però essere assimilata a una prostituta, perché offriva servizi che potremmo definire artistici, e non arti amatorie. Purtroppo nell’immaginario occidentale si è spesso creduto il contrario, ovvero che le geisha fossero delle ragazze umili destinate unica-
mente ad allietare banchetti di soli uomini facoltosi. Per questo è opportuno rifarsi all’enciclopedia Treccani che, a differenza di altri testi e dell’opinione pubblica, fornisce una definizione esatta della geisha: «In Giappone, donna esperta, dopo apposito tirocinio, nella danza, nel canto, nella musica, nell’arte di conversare e di preparare e servire il tè, chiamata a intrattenere gli ospiti durante cene e feste». Per quanto nella maggior parte dei casi tali ospiti fossero uomini, non mancavano certo le donne; e le geisha non erano ragazze comuni, bensì artiste competenti, come si può evincere pure dall’etimologia del forestierismo “geisha”, composto da due lettere, “arte” (gei) e “persona” (sha): “professionista delle arti”, artista. Non era un termine utilizzato per le belle arti, quindi, bensì per le cosiddette arti sceniche. La professione di geisha ebbe origine in un contesto storico e sociale ben preciso: il periodo Edo o Tokugawa (1603-1868), caratterizzato da una serie di fenomeni tra i quali l’isolamento internazionale del Giappone, che gli consentì di elaborare una
MUSEUM OF FINE ARTS, BOSTON / SCALA, FIRENZE
BRIDGEMAN / ACI
LA FAMOSA GEISHA KAMEKICHI DI SODEGAURA, RITRATTA DA UTAMARO. 1794 CIRCA. MUSEUM OF FINE ARTS, BOSTON.
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LA PETTINATURA DI UNA GEISHA Uno degli stili di acconciature più caratteristici di una geisha era il cosiddetto shimada, che consisteva nel raccogliere i capelli in alto e fermarli con un pettine chiamato kushi 1, da reggere anche con spilli decorativi noti come kanzashi 2. Così come per i kimono, i motivi ornamentali delle pettinature si adeguavano allo scorrere delle stagioni. Variavano anche in base alla moda e si evolsero nel tempo. In periodi di crisi venne limitato l’uso di accessori lussuosi tra i capelli.
LA CASA DA TĂˆ
In questa fotografia scattata intorno al 1900 un gruppo di geisha si concede una breve pausa in un padiglione destinato ad accogliere la cerimonia del tè, rituale influenzato dal buddismo zen. UIG / ALBUM
ELEGANTI KIMONO
Le geisha sfoggiavano kimono cuciti con tele sontuose, le cui stampe includevano motivi stilizzati ispirati alla natura, e che potevano variare in base alla stagione. Sopra, kimono di seta. XIX secolo. Philadelphia Museum of Art. BRIDGEMAN / ACI
cultura propria e genuina, di cui le geisha erano una delle espressioni. D’altro canto, però, il ferreo governo militare del clan Tokugawa stabilì un rigido sistema sociale piramidale, al cui vertice si trovavano i feudatari seguiti dai samurai, in mezzo i contadini e alla base i commercianti e gli artigiani che vivevano nei centri urbani. Senza la possibilità di ascesa sociale, gli abitanti arricchiti delle città crearono una propria scala di valori, orientata verso il mondo di quei divertimenti e di quegli intrattenimenti alla portata delle loro tasche. Finché si fossero rispettate le norme e non ci si fosse occupati di politica, i Tokugawa non avrebbero certo ostacolato le diverse forme di ozio popolare.
Donne colte e sofisticate Edo era stata scelta come capitale agli inizi del XVII secolo e venne subito popolata, anche se nei primi decenni le donne erano ancora poche. Dal 1617 alcune zone vennero deputate a quartieri del piacere, yūkaku in giapponese, nei quali la legge consentiva il commercio carnale. Sebbene gli yūkaku potessero essere considerati piaghe sociali dove la donna subiva lo sfruttamento, va pure detto che non erano soltanto bordelli, bensì al tempo stesso luoghi bohémiens frequentati da artisti e scrittori, nonché una vetrina nella quale sfoggiare eleganza e bon ton. I locali facevano a gara nella ricercatezza e nell’essere alla moda, offrendo un’oasi di libertà nella società rigida dell’epoca. Molti dei clienti erano uomini sposati, ma all’epoca
THE CHICAGO ART INSTITUTE / ALBUM
nessuna persona con un decorosa posizione sociale o economica prendeva moglie per amore. E se da un lato alle consorti pazienti e laboriose veniva chiesta la virtù della discrezione, fuori casa, nel mondo del divertimento, andavano per la maggiore l’appariscenza, l’arguzia e l’esibizione del talento. Le cortigiane di alto rango chiamate oiran erano famose e ammirate al pari delle attrici di Hollywood, delle cantanti pop o delle top model. Solo i clienti più ricchi potevano per-
Gli yūkaku, o quartieri del piacere, erano anche una vetrina per fare sfoggio di stile ed eleganza GETA, CALZATURE CON LA SUOLA RIALZATA USATE DALLE DONNE DI YOSHIWARA. QUAI BRANLY, PARIGI. JACQUES CHIRAC / RMN-GRAND PALAIS
A PASSEGGIO TRA I CILIEGI
La stampa mostra la bellezza dei ciliegi in fiore a Nakanoch, nel quartiere di Yoshiwara, la zona del divertimento di Tokyo. Vi passeggiano persone di ogni estrazione e tipo. Metà del XIX secolo. Art Institute of Chicago.
mettersi i loro servigi, e le oiran avevano il diritto di rifiutarli. Oltre a queste esistevano tante altre persone di entrambi i sessi che si guadagnavano da vivere grazie alle notti di divertimento, incentrate su cibo, alcol e svago: le prostitute di diverse categorie, le cameriere, i musicisti e via dicendo. Nel XVII secolo il termine geisha si applicava a musicisti, cantanti e umoristi di sesso maschile, noti pure come hōkan e taikomochi, mentre il termine onna geisha (letteralmente “donna artista”) indicava che la professionista era appunto di sesso femminile. Dalla metà del XVIII secolo in poi le geisha divennero figure di grande importanza nei quartieri del piacere, e la loro eleganza e il loro talento iniziarono a competere con
I QUARTIERI DEL PIACERE, DA YOSHIWARA A GION IL MONDO DELLE GEISHA si è trasformato nel corso della storia.
In un primo momento, agli inizi del periodo Edo, il governo stabilì che i quartieri del piacere si trovassero solo nelle grandi città. Il più importante di tutti era senza dubbio Yoshiwara, a Edo (Tokyo), la capitale del Paese. Nella zona vennero aperte numerose case da tè che offrivano banchetti e ogni sorta d’intrattenimento. Le cortigiane che vi lavoravano erano di rango superiore e le loro tariffe più alte. Le geisha erano artiste specializzate in canto, ballo, conversazione arguta e giochi utili a rallegrare le serate. Al giorno d’oggi il quartiere di Gion, a Kyoto, è un punto di riferimento per conoscere il mondo delle geisha, qui chiamate geiko, la cui arte è considerata un’importante eredità culturale, un simbolo del Giappone tradizionale e un’attrazione turistica.
Questo tipo di specchio con manico era posto in genere su un cavalletto pieghevole che a sua volta poggiava su un mobile a cassettoni destinato a conservare prodotti per il trucco. Specchio di lacca. XIX secolo. Musée du Quai Branly, Parigi. JACQUES CHIRAC / RMN-GRAND PALAIS
Un’arte imperitura Per diventare geisha era necessario un lungo apprendistato che includeva lo studio della danza classica giapponese con il ventaglio – nella quale i piedi venivano appena alzati da terra – e del canto, accompagnato da diversi strumenti musicali. Tra questi il più popolare era lo shamisen a tre corde, che oltre a suonare la melodia può marcare il ritmo. Le apprendiste erano bambine che imparavano tali arti prendendo lezioni e in cambio lavoravano come servitrici nelle okiya, le case dove vivevano le geisha, per poi divenire apprendiste durante la pubertà. Al giorno d’oggi la formazione per diventare geisha s’inizia dopo la scuola secondaria di secondo grado. I nomi che indicano siffatti mestieri variano a seconda della re100 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
gione. In Occidente abbiamo familiarità con i termini geisha e maiko, quest’ultimo relativo alle apprendiste, che sono però usati solo nella zona di Tokyo, dove venivano realizzate le famose stampe ukiyo-e e dove si trovava il porto di Yokohama, la porta d’accesso agli stranieri dalla seconda metà del XIX secolo. Nella regione di Kasai, ovvero a Kyoto e a Osaka, le geisha sono invece chiamate geiko, e le apprendiste hangyoku, la cui traduzione sarebbe “sulla via per divenire gioielli”. Colei che ha completato la propria formazione acquista grande sicurezza di sé e una grazia sofisticata in ogni gesto e parola, ragion per cui le vesti e gli accessori diventano più delicati e discreti. Non è più necessario distrarre l’attenzione con un aspetto ipnotico perché il gusto elegante giapponese, o iki, si manifesta nella semplicità, con colori marroni o grigi. Al contrario, le maiko indossano kimoni dai colori e motivi più sgargianti e dalle maniche lunghe. Anche le forcine che adornano le loro pettinature sono molto più brillanti e variopinte di quelle di una geisha: le giovani le indossano fino al termine del loro periodo di apprendista. In un certo qual modo le nuove generazioni preferiscono le nuove tecnologie alle antiche tradizioni, e le geisha sono un patrimonio culturale immateriale a rischio di estinzione. Attualmente è Kyoto il luogo dove più si mantengono queste tradizioni: si stima che qui vi siano circa duecento geiko e più di cento aspiranti. Per conoscere la secolare arte delle geisha può risultare interessante recarsi nel quartiere di Gion, dov’è possibile assistere agli spettacoli che a tale scopo si organizzano nel teatro di Gion Corner. V. DAVID ALMAZÁN TOMÁS UNIVERSITÀ DI SARAGOZZA
Per saperne di più
SAGGI
Geisha Lesley Downer. Piemme, Milano, 2011. TESTI
Storia proibita di una geisha Mineko Iwasaki, Rande Brown. Newton Compton, Roma, 2016. Memorie di una geisha Arthur Golden. Tea, Milano, 2017.
GRANGER / AURIMAGES
UNO SPECCHIO PER FARSI BELLE
il prestigio delle irraggiungibili oiran. All’inizio le geisha accompagnavano i clienti nei ristoranti e nelle case da tè. Erano assunte in tali quartieri per rallegrare i banchetti tramite canzoni argute, balli, passatempi, indovinelli, giochi... La clientela più abbiente poteva così permettersi di prolungare i propri ritrovi con simili momenti conviviali. Le geisha di certo destavano passioni e i clienti le cercavano per il loro fascino, ma la priorità era riservata al talento artistico; la loro professionalità non dipendeva solo dall’avvenenza e le geisha potevano rimanere in auge anche per molti anni. Di solito si circondavano di una scelta clientela di habitué ed era difficile reclamare le loro arti: si trattava più di una conquista che di una semplice operazione commerciale. Alcune disponevano di un cliente principale o mecenate, chiamato danna, che aveva il diritto di prenotarle. Alla fine della carriera, erano perfino libere di sposare uno dei prestigiosi clienti senza che la loro precedente professione gettasse discredito sociale sul marito.
IL GIAPPONE IN OCCIDENTE
Giovani geisha posano nei giardini di una casa da tè eretta in occasione dell’Esposizione Universale di Saint Louis, Missouri, nel 1904: un’occasione perfetta per far conoscere al mondo le tradizioni e i costumi nipponici.
102 HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC
SADA YACCO, LA MUSA DEGLI ARTISTI geisha, ballerina e attrice, la giapponese Sada Yacco viaggiò per tutto il mondo con la compagnia teatrale del marito, Otojirō Kawakami, anche lui attore. Nel 1900 si recarono all’Esposizione Universale di Parigi e qui conquistarono il pubblico con il loro repertorio di drammi ispirati al Giappone tradizionale. Yacco acquisì presto una grande fama, superando di gran lunga la popolarità del marito e divenendo la star della compagnia, nonché una delle attrici più emblematiche del suo tempo. SADA YACCO NELL’OPERA LA GEISHA ET LE CHEVALIER. FOTOGRAFIA PUBBLICATA SUL GIORNALE LE THÉÂTRE, NELL’OTTOBRE DEL 1900.
HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC
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AKG / ALBUM. ©SUCESIÓN PABLO PICASSO. VEGAP, MADRID, 2019
LOCANDINA CON SADA YACCO OPERA DI PABLO PICASSO. 1901.
Fu tale la fama di Sada Yacco che numerosi artisti vollero conoscerla e immortalarla. Nel 1902 Yacco e il marito visitarono l’Italia, e per poco Giacomo Puccini, alle prese con Madama Butterfly, non riuscì a incrociarli. Rodin chiese di poter scolpire la famosa attrice, ma lei si rifiutò. Tuttavia accettò di posare per un giovane Picasso, che nel 1901 creò questa locandina mentre l’artista eseguiva la Danza serpentina di Loïe Fuller.
UNA DA NZA ESOTICA
RUE DES ARCHIVES / ALBUM
SICILIA • CAMPANIA • CAL ABRIA
NASCE LA CAMORRISTI NAPOLETANI
Quattro appartenenti alla malavita partenopea in un’immagine dei primi del novecento. AURIMAGES
MAFIA Nella seconda metà del XIX secolo, mentre l’Italia raggiungeva l’unità nazionale, nel Mezzogiorno si sviluppavano varie società segrete criminali: la mafia in Sicilia, la camorra in Campania e la ’ndrangheta in Calabria
IL FALSO PEDIGREE DELLA MAFIA
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A LEGGENDA collega l’origine della
mafia in Sicilia ai Beati Paoli, una setta segreta che fin dal Medioevo era dedita a vendicare le ingiustizie inflitte al popolo dai dominatori stranieri. In realtà l’idea proviene in gran parte dall’omonimo romanzo popolare apparso all’inizio del XX secolo. Anche a Napoli si diceva che la camorra derivasse da una setta medievale, in questo caso di origine spagnola: la garduña di Siviglia, descritta da Cervantes nella sua novella Rinconete e Cortadillo. Ma l’esistenza della presunta fratellanza iberica derivava in realtà da un romanzo ottocentesco intitolato I misteri dell’inquisizione ed è priva di fondamenti storici. A diffondere queste fantasiose teorie furono senz’altro gli stessi malavitosi, che volevano conferire credibilità alle rispettive fratellanze.
ORONOZ / ALBUM
LA “MAFIA” DI SIVIGLIA
In Rinconete e Cortadillo Cervantes narra le vicende di due giovani sivigliani che entrano in una banda di ladri capeggiata da Monipodio. I tre sono ritratti nell’incisione sopra.
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e solo la genesi della mafia avesse davvero qualcosa di romantico… Una collina spazzata dal vento. Torce infuocate sotto il cielo di mezzanotte. Tetre figure avvolte in mantelli. Il primo terribile giuramento. Anche se questo scenario non ha nulla a che vedere con la realtà, è proprio così che i membri della malavita italiana narrano gli inizi delle loro fratellanze. In Calabria l’origine del ramo locale della banda di estorsori, criminali e narcotrafficanti viene fatta risalire a un passato cupo e lontano, quando tre cavalieri spagnoli, i fratelli Osso,
1851 C R O N O LO G I A
GENESI DI UNA PIAGA 106 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Un aristocratico liberale testimonia che nelle carceri di Napoli è stata creata una società criminale segreta chiamata camorra.
Mastrosso e Carcagnosso, trovarono rifugio sull’isola di Favignana, al largo delle coste siciliane. Avevano abbandonato la penisola iberica dopo aver lavato col sangue lo stupro della sorella. Nel corso degli anni i tre fratelli stabilirono le regole e i rituali di quella che chiamarono l’“onorata società”. Qualche tempo dopo lasciarono l’isola e si separarono per dare vita ai tre rami dell’organizzazione criminale. Osso si stabilì dunque in Sicilia e creò la mafia, Mastrosso scelse Napoli come sede della camorra mentre Carcagnosso decise di stabilirsi in Calabria e fondare la ’ndrangheta.
18 6 0 L’inglobamento di Napoli e della Sicilia nel Regno d’Italia permette alle associazioni mafiose di entrambi i territori di ampliare i rispettivi raggi d’azione e d’iniziare a controllare nuove attività. PIASTRA DEL REGNO DI NAPOLI. XIX SECOLO.
DEA / ALBUM
CASTELLAMMARE DEL GOLFO
Questa città situata sulla costa siciliana tra Trapani e Palermo ha dato i natali a diversi clan mafiosi dei primi anni del XX secolo. ANTONINO BARTUCCIO / FOTOTECA 9X12
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Il medico Gaspare Galati invia al governo italiano un dettagliato rapporto sull’organizzazione della mafia nelle aree rurali del palermitano per il controllo del settore agrumicolo.
Secondo i giudici in quest’anno nasce in Calabria un’associazione criminale segreta simile alla mafia e alla camorra. L’anno successivo si verificano gravi episodi di violenza a Palmi.
L’assassinio di un commerciante di frutta palermitano a New York è considerato il primo omicidio commesso dalla mafia negli Stati Uniti.
LETTERA DELLA “MANO NERA”
La mafia era chiamata anche “mano nera”, come testimonia questa lettera di estorsione del 1909 indirizzata a un imprenditore newyorchese. BRIDGEMAN / ACI
Secondo: nonostante le varie differenze le tre mafie condividono un medesimo linguaggio pseudonobiliare, al cui centro c’è sempre il concetto di “onore”. I mafiosi siciliani si definiscono “uomini d’onore” e tutte le mafie, almeno per buona parte della loro storia, si sono denominate “onorate società”. La terza lezione che si può apprendere dal mito è che la mafia attribuisce grande importanza alla storia, vera o presunta. Per quanto infondata, la convinzione di appartenere a un ordine nobile e antico costituisce una base importante dell’identità collettiva.
LOREMU IVIS
Naturalmente si tratta di leggende scaturite dalla letteratura e dai racconti popolari e che non hanno più basi storiche di quante possa averne la favola di Cenerentola. Ciò che le rende interessanti è che permettono di cogliere alcuni elementi importanti. Primo: parlare della mafia come se fosse un fenomeno unico è un errore. In Italia ci sono tre grandi fratellanze criminali: cosa nostra, la cui fama ha portato la parola siciliana “mafia” a diventare un termine generico e universale per indicare la criminalità organizzata; la camorra, sviluppatasi a Napoli e provincia, e la ’ndrangheta calabrese.
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IL LINGUAGGIO DEGLI «UOMINI D’ONORE»
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I ORIGINI PROBABILMENTE ARABE, il termine mafia
a metà del XIX secolo aveva il significato positivo di “coraggio”. Essere mafiosi era sinonimo di essere valorosi. L’associazione del vocabolo con la criminalità nacque forse da una fortunata opera teatrale del 1863, I mafiusi de la Vicaria. Ma anche in seguito c’è chi continuò a rivendicare il prestigio della denominazione. Nel 1889 il filologo e medico Giuseppe Pitrè scriveva: «La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale […] Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre». Per quanto riguarda l’omertà, la celebre legge del silenzio, si ritiene che la parola derivi da “umiltà”, in riferimento alla sottomissione che i membri della mafia devono all’organizzazione. Ma il termine è stato collegato anche a “virilità”, che è poi il significato di ’ndrangheta nel dialetto di origine greca della Calabria meridionale, un nome documentato solo a partire dagli anni venti. L’etimologia del termine camorra invece è incerta. Secondo alcuni sarebbe legata al mondo delle scommesse clandestine; secondo altri farebbe riferimento alla figura dell’attaccabrighe o alla città biblica di Gomorra.
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CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
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Il Regno di Sardegna e l’Unità d’Italia Prima del 1859 1859 1º semestre del 1860 2º semestre del 1860 1866 1870
Le leggende sulla mafia offrono una rassicurante sensazione di continuità a degli esseri umani invischiati in un’esistenza quotidiana sanguinaria e pericolosa: tutti i mali sono passeggeri, mentre le radici antiche sono garanzia di un futuro solido. Storie come quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso rientrano nell’apparato culturale creato dalle organizzazioni mafiose per favorire la propria sopravvivenza. Sono una delle ragioni per cui la mafia, la camorra e la ’ndrangheta non si sono dissolte per dar vita a nuove bande, come invece è avvenuto a molte altre organizzazioni criminali del resto del mondo. Insomma, le leggende sono un basamento che sostiene la realtà e sono una delle ragioni per cui le mafie continuano a esistere a più di un secolo e mezzo dalla loro nascita. Quindi, come sono nate le mafie? Quand’è che i mafiosi hanno iniziato a tessere la mitologia delle loro origini? La domanda ci riporta alla metà del XIX secolo, il periodo di tumulti rivoluzionari da cui emerse il moderno stato italiano. Fino al 1859 la penisola era poli-
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ticamente frammentata: il Regno lombardo-veneto dipendeva dall’impero asburgico, l’Italia centrale era sotto il dominio del papa e il meridione e la Sicilia erano riuniti nel Regno delle Due Sicilie sotto un monarca della dinastia borbonica. Tra questi blocchi principali s’inserivano alcuni ducati e un granducato. Per i governanti dello stivale l’idea di unificazione rappresentava una semplice eresia. Ma un nuovo sentimento nazionale stava prendendo vita, anche se i patrioti raramente si trovavano d’accordo sulla forma che avrebbe dovuto assumere l’Italia unita che sognavano. La conseguenza di tutto ciò fu un’endemica instabilità politica.
Società segrete Nel Regno delle Due Sicilie quest’instabilità assunse delle forme particolarmente violente. Le cospirazioni rivoluzionarie erano iniziate già prima che gli eserciti napoleonici lasciassero la penisola nel 1815. I rivoltosi erano organizzati in società segrete ispirate alla massoneria: sotto il manto di rituali,
giuramenti e leggende sulle proprie nobili origini potevano nascondere più facilmente i loro piani sovversivi. La più celebre era la carboneria, che nel 1820 organizzò una rivolta a Napoli. Ben presto le società segrete si diffusero anche nella zona più instabile del regno borbonico, in Sicilia, vero e proprio focolaio d’insurrezioni. Visto che le rivoluzioni richiedono una certa dose di violenza, i cospiratori e i carbonari reclutavano spesso tra le proprie file dei delinquenti: membri di bande criminali o di gruppi nati nelle carceri. Personaggi di questo tipo trovarono nei moti siciliani delle ottime opportunità di saccheggio e si resero conto che entrare in una società clandestina offriva anche altri vantaggi. La cornice rituale, con i suoi giuramenti e i suoi miti, incrementava il prestigio dei capi malavitosi e l’obbedienza dei rispettivi scagnozzi. Dopo essersi conosciuti grazie alla rete cospirativa i principali criminali provenienti da diverse parti della Sicilia si misero in affari. Questo permetteva, ad esempio, di rubare il bestia-
LA RIVOLUZIONE SICILIANA Nel gennaio del 1848 a Palermo scoppia una grande rivolta popolare contro i Borbone. Nell’incisione, gli scontri del 12 gennaio davanti alla cattedrale.
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UN PATRIOTA DIVENTATO MAFIOSO
GARIBALDI A PALERMO NEL 1860. LE SUE CAMICIE ROSSE OCCUPANO LA CITTÀ DOPO TRE GIORNI DI COMBATTIMENTI CON LE TRUPPE BORBONICHE. INCISIONE.
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EL 1872 il medico Gaspare Ga-
lati acquistò un limoneto nella periferia di Palermo e subito fu vittima di tentativi di estorsione. Tre anni dopo decise di trasferirsi a Napoli. Qui scrisse un rapporto che inviò al ministero dell’interno. Secondo Galati, nella borgata di Uditore operava un’organizzazione mafiosa che aveva i rituali di una confraternita. A guidarla era Antonino Giammona, che da giovane aveva partecipato alle rivoluzioni del 1848 e del 1860. Ora era un uomo di 55 anni, «taciturno, presuntuoso e sospettoso», ma soprattutto molto ricco, essendo riuscito ad assumere il controllo dell’industria agrumicola della zona. Lui e i suoi uomini esercitavano un vero e proprio regime del terrore: Uditore, un quartiere di 800 abitanti, registrò ben 23 omicidi solo nel 1874.
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me a un’estremità dell’isola e rivenderlo in quella opposta, dove nessuno avrebbe riconosciuto la marchiatura. Ma, soprattutto, nelle file delle società segrete i banditi si ritrovavano gomito a gomito con i ricchi e potenti patrioti. Una definizione pratica della mafia potrebbe essere proprio questa: una fratellanza in stile massonico che riunisce i peggiori criminali con alcuni ambiziosi protagonisti della vita pubblica dotati di molte influenze e pochi scrupoli. Nel 1860 Giuseppe Garibaldi invase la Sicilia con un piccolo esercito di volontari in camicia rossa. Lo sbarco innescò un’insurrezione che avrebbe finito per rovesciare la monarchia borbonica e annettere il sud del Paese a quel Regno di Sardegna da cui pochi mesi dopo sarebbe nato il Regno d’Italia. In Sicilia i cospiratori patriottici ebbero la possibilità di entrare a far parte 110 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC SCALA, FIRENZE
LA MANNA DEI LIMONI Annuncio di un’azienda di agrumi messinese. XIX secolo.
della classe dirigente del nuovo stato, riuscendo così a dare lavoro ai propri amici banditi, soprattutto nella polizia. Dopo tutto, chi meglio di coloro che sapevano muoversi alla perfezione nei bassifondi poteva mantenere l’ordine in quegli ambienti? Gli storici sono riusciti a ricostruire le vite dei primi capi della mafia siciliana: Antonino Giammona di Uditore, un borgo ora parte del comune di Palermo; Salvatore Licata di Resuttana, un altro quartiere del capoluogo siciliano; o, spostandosi più a sud, il ladro di bestiame e sindaco di Burgio, Pietro De Michele. Ognuno di loro aveva partecipato alla rivoluzione del 1860. In seguito la maggior parte dei capi trovò lavoro nella polizia o nella guardia nazionale. Molti di questi erano coinvolti in un settore che si dimostrerà cruciale per gli inizi della mafia siciliana: quello dei limoni. Arriviamo così all’aspetto economico di tutta la faccenda.
BRIDGEMAN / ACI
A metà del XIX secolo Palermo era una città ricca. I più importanti proprietari terrieri dell’isola abbandonavano le loro tenute appartate per costruirsi palazzi nel capoluogo e nella campagna circostante. La Conca d’Oro, la pianura su cui sorge la città e che va dai monti di Palermo al mar Tirreno, era straordinariamente fertile e possedeva praticamente il monopolio mondiale dei limoni: una risorsa molto preziosa che la Royal Navy britannica utilizzava per evitare che i suoi marinai soffrissero di scorbuto. Ancor più proficuo era il mercato dell’acido citrico, che aveva importanti usi industriali. Ecco perché secondo le stime del 1860 la Conca d’Oro era il secondo territorio agricolo più redditizio d’Europa dopo la regione parigina.
Capitalismo e criminalità I limoni erano sicuramente un bene molto remunerativo, ma esigevano notevoli investimenti a lungo termine. Le piantagioni necessitavano di sistemi d’irrigazione e mura di protezione, c’era bisogno di strade per
trasportare il prodotto fino al porto e di strutture per lo stoccaggio. Un albero di limoni poteva richiedere anche otto anni prima di produrre abbastanza frutti da ripagare il suo proprietario dei costi iniziali. Questi agrumi erano anche vulnerabili e non solo all’azione delle intemperie. In Sicilia, dove l’autorità politica – e quindi la polizia – non aveva uno stretto controllo sulla società, la criminalità era una minaccia costante. Un blocco temporaneo delle forniture idriche o un’ondata di atti di vandalismo poteva mandare in rovina qualsiasi investimento agricolo. I primi mafiosi del palermitano, oltre a essere rivoluzionari per opportunismo, erano
I LIMONETI DI PALERMO
L’immagine qui sopra mostra una squadra di raccoglitori di limoni in una tenuta della Conca d’Oro, nel palermitano, all’inizio del XX secolo.
La coltivazione dei limoni fu il primo settore che la mafia siciliana riuscì a controllare
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L’ORGANIZZAZIONE INTERNA DELLA MAFIA
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LLA FINE DEL XIX secolo il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi scrisse un rapporto sulla mafia che offriva un’esaustiva descrizione dei suoi membri, della struttura e delle modalità d’azione. Sangiorgi, che si batteva da anni contro le associazioni mafiose, stabilì che nel palermitano c’erano otto clan o cosche, ciascuno guidato da un capo e da un vicecapo. I capi si coordinavano per spartirsi tra loro il controllo del territorio e risolvere i problemi comuni. Sangiorgi elenca le loro fonti di reddito a partire dal pizzo, cioè il pagamento richiesto ad agricoltori e ad altre categorie professionali in cambio della presunta protezione fornita, fino alla contraffazione di denaro e al furto. A incaricarsi di far rispettare l’ordine mafioso erano i picciotti – un termine di origine siciliana che però alla fine del XIX secolo veniva usato anche dalla camorra e dalla ’ndrangheta e che letteralmente significa “ragazzi” –, incaricati di esercitare pressioni, intimidire, sequestrare o uccidere. In totale Sangiorgi identificò 218 membri della mafia palermitana, molti dei quali erano attivi nel settore degli agrumi in qualità di proprietari, capisquadra o commercianti.
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LOREM IPSUM
SGHERRI DELLA MAFIA. DUE PICCIOTTI, NASCOSTI TRA I FICHI D’INDIA DELLA CAMPAGNA SICILIANA, SI APPRESTANO A COMPIERE UN’AZIONE CRIMINALE.
anche proprietari o amministratori di limoneti, commercianti ed esportatori, conducenti dei carri che trasportavano il prodotto ai mercati o guardiani che proteggevano le piantagioni di notte. Di fatto, attraverso la protezione dei campi coltivati la mafia riuscì a imporre il suo controllo sul mercato. Si tende ad associare la mafia siciliana ai traffici illeciti, soprattutto di droga. Ma in realtà l’estorsione è molto più rilevante ai fini del “controllo del territorio”, per citare un’espressione mafiosa. Si tratta di un affare sostanzialmente semplice. La mafia offre un servizio in cambio di denaro: la protezione da sé stessa. Le minacce dirette – “pagami o abbatterò i tuoi limoni e sequestrerò i tuoi figli” – erano poco comuni. Invece spesso s’inscenava una sorta di teatrino: un mafioso spediva una lettera con terribili minacce, un altro contattava la vittima cercando di tranquillizzarla in tono cordiale, dichiarando di sapere chi era l’autore della missiva e offrendosi per mediare. Tutti i proprietari terrieri che accettavano di pagare – e le soluzioni
ANTONINO BARTUCCIO / FOTOTECA 9X12
alternative scarseggiavano – cominciavano un’inesorabile discesa agli inferi. Subito dopo arrivavano nuove proposte: “posso far vigilare i tuoi campi da guardiani di fiducia, posso incaricarmi di gestire la tua proprietà, i miei amici politici possono far costruire il ponte di cui tanto hai bisogno”… Nel giro di poco tempo il proprietario perdeva completamente il controllo dei suoi terreni. Non a caso il classico omicidio mafioso nel XIX secolo era un agguato con armi da fuoco sotto le mura di un limoneto o lungo le strade che attraversavano le piantagioni. A metà dell’ottocento il principale mercato dei limoni siciliani si trovava dall’altra parte dell’Atlantico, negli Stati Uniti. I mafiosi seguirono presto le orme dei loro prodotti e iniziarono a fare affari nel Nuovo Mondo. Il primo omicidio di mafia in Nord America si registrò nel 1888 a New York, dove i due proprietari di un ristorante siciliano vennero accusati di aver ucciso un commerciante di frutta palermitano. Furono uomini così a fondare la succursale americana di cosa nostra.
Dunque la mafia siciliana, a lungo la più potente e conosciuta delle organizzazioni criminali italiane, nacque dall’incontro tra il mondo delle cospirazioni politiche ordite da fratellanze di stampo massonico e il business dei limoni.
Nelle carceri partenopee A Napoli, all’epoca capitale del Regno delle Due Sicilie, la storia della camorra inizia nello stesso periodo – l’insurrezione del 1860 –, ma in un ambiente molto diverso: le prigioni più maleodoranti e pericolose della regione. Il 4 giugno 1851 il duca Sigismondo Castromediano venne rinchiuso nel temibile castello del Carmine, a Napoli, per aver preso parte alle rivolte del 1848-1849. Fu immediatamente avvicinato da un prigioniero che si distingueva per eleganza dal resto dei detenuti: pantaloni neri di felpa con bottoni cesellati sui fianchi e una cintura dai colori vivaci. Dal taschino del panciotto spuntava la catena di un orologio. «Viva la patria, viva la libertà!», disse l’uomo. «Noi, prendendo
PIAZZA DI PALERMO
Piazza Villena, detta anche i Quattro Canti, fu costruita all’inizio del XVII secolo. Le sculture del penultimo livello rappresentano i re spagnoli di Sicilia.
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LA CAMORRA E LE FAIDE INTERNE
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poli tra il 1860 e il 1861, combatté le infiltrazioni della camorra e ne studiò l’organizzazione. Scoprì che in ognuno dei dodici quartieri della città c’era una sezione camorrista guidata da un capo che era assistito da un contarulo (contabile). Ma ogni volta che si cerca di determinare la struttura interna della camorra ci si scontra con le faide che per decenni hanno interessato tutto il territorio campano. A differenza della mafia siciliana, una realtà estremamente gerarchica, l’organizzazione pulviscolare della camorra impedisce d’identificare un vertice direttivo concreto. Quasi tutti i tentativi di assoggettare il territorio a un unico cognome o a un’alleanza di clan sono falliti, degenerando spesso in vere e proprie guerre.
RISSA CON COLTELLI TRA CAMORRISTI. ILLUSTRAZIONE DI UN LIBRO DEL 1858.
parte alla vostra triste e onorata sorte, noi camorristi, vi esoneriamo da ogni obbligo di camorra […] Signori, sollevate pure l’animo vostro, poiché qui, giuraddio, nessuno vi toccherà un capello! Io sono qui il capo della camorra, quindi sono io solo che qui comando, e tutti, tutti dipendono dal mio cenno, fin lo stesso comandante e i suoi aguzzini». Tale cortesia era falsa e non durò a lungo. Il duca Castromediano scoprì ben presto che i camorristi come quell’uomo in pantaloni di felpa neri estorcevano denaro a suon di minacce a lui e a tutti gli altri detenuti con cui condivise il carcere nei sette anni e mezzo della sua prigionia. Il più infimo bene – un angolino dove gettare un materasso, una crosta di pane, una candela – doveva essere acquistato dalla malavita a prezzi esorbitanti. «Ricaviamo oro anche dalle pulci», si vantava la camorra. Afflitto da gravi problemi di liquidità, il governo aveva di fatto ceduto la gestione delle patrie galere a questi criminali che
IL MARCHIO DI UN CAMORRISTA I membri della camorra si tatuavano i nomi delle prostitute che proteggevano o le vendette da portare a termine. Sotto, un tatuaggio copiato dall’antropologo Abele De Blasio.
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erano organizzati in una fratellanza chiamata “onorata società”. Per esservi ammessi bisognava battersi contro un capo in un duello rituale a colpi di coltello. I tatuaggi servivano per distinguere il rango e permettere così ai gradi maggiori di mantenere il loro status in qualsiasi prigione dell’Italia meridionale. Anche in Sicilia la galera divenne un importante centro di aggregazione della criminalità organizzata. Nel 1867 un osservatore definiva le carceri della Vicaria, a Palermo, «una sorta di sede di governo» delle bande criminali. Il linguaggio dell’onore che accomunava tutte le mafie italiane s’impose proprio tramite il sistema penitenziario. Ma se i primi capimafia palermitani si erano arricchiti rapidamente grazie al business dei limoni, i camorristi di Napoli e di altre zone si radicavano piuttosto tra i quartieri poveri del centro della città. La polizia non aveva risorse né strutture carcerarie a sufficienza, ed era più preoccupata dai patrio-
SCALA, FIRENZE
ILVIO SPAVENTA, questore di Na-
ALINARI ARCHIVES / GETTY IMAGES
ti rivoluzionari che dai criminali. Pertanto finiva spesso per delegare alla camorra il compito di mantenere l’ordine, un tipo di accordo noto come “cogestione della criminalità”. In cambio dell’aiuto fornito alle forze dell’ordine nella lotta contro i cospiratori, i camorristi avevano carta bianca nelcontrollo di settori come il gioco d’azzardo e la prostituzione e amministravano reti di estorsione in diversi ambiti, come il trasporto in barca o in carrozza. Ma la camorra non si dimostrò un partner fedele. Come la mafia in Sicilia, era corteggiata anche dai rivoluzionari. Quando la polizia napoletana si dissolse in seguito alla spedizione garibaldina del 1860 il nuovo comandante del corpo nominò suoi diretti sottoposti alcuni dei più celebri camorristi. Con sorprendente candore un giornale di Torino pubblicò lusinghieri articoli dedicati a tre di loro, che nelle foto sfoggiavano delle coccarde tricolori. Si diceva che quegli ex criminali si erano riscattati lottando per l’unità nazionale e che adesso erano eroi.
Inutile dire che i camorristi approfittarono dei nuovi poteri di polizia per rafforzare le proprie reti estorsive. Il governo italiano reagì rapidamente, anche se era più interessato a sfruttare la “paura della camorra” per reprimere l’opposizione che a portare la pace nelle strade. Nelle carceri, ma anche nelle periferie e nei mercati di Napoli, risorse così l’ accordo di cogestione della criminalità.
IL POPOLO DI NAPOLI
La camorra era presente in molte zone di Napoli: sui moli, alle porte d’ingresso della città o nei mercati come questo del 1885.
La mafia in Calabria La ’ndrangheta calabrese è contemporaneamente la più giovane e la più antica delle mafie italiane. La più giovane perché apparve solo una generazione dopo la mafia siciliana e la camorra. Ma anche la più antica perché i suoi rituali e il suo gergo sono una testimonianza vivente delle tradizioni dell’“onorata società” che dominava le carceri dell’Italia meridionale. Alla fine degli anni ottanta dell’ottocento i giornali calabresi cominciarono a riportare notizie di bande di uomini tatuati che si battevano impugnando coltelli. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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MUSOLINO, IL RE D’ASPROMONTE
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EL 1898 UN CONTADINO ventiduenne di nome Giu-
seppe Musolino fu condannato a 21 anni di carcere per l’assassinio di un suo concittadino di Santo Stefano d’Aspromonte, in Calabria. Giuseppe respinse con rabbia ogni accusa, come fece anche nel 1902 in occasione di un secondo processo in cui fu giudicato per sette omicidi commessi negli anni precedenti, dopo la fuga dal carcere. Fu condannato all’ergastolo, ma la sua difesa in tribunale lo rese famoso in tutta Italia e il suo caso tornò al centro dell’attenzione nel 1936, quando un calabrese emigrato negli Stati Uniti dichiarò di essere l’autore del primo omicidio attribuito a Musolino. Ma il re d’Aspromonte, com’era soprannominato Giuseppe per i suoi anni di brigantaggio, non era innocente. Suo fratello Antonio rivelò alla polizia che appartenevano entrambi alla ’ndrangheta, l’organizzazione mafiosa a cui erano connessi gli omicidi commessi da Giuseppe, compreso quello del suo compaesano, il cui autore materiale però era un altro. Musolino acquisì in ogni caso l’aura del bandito del popolo vittima dell’ingiustizia. Un popolare film del 1950 lo dipinge addirittura come un perseguitato dalla mafia.
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IL BANDITO MUSOLINO DURANTE IL SUO SECONDO PROCESSO NEL 1902. ILLUSTRAZIONE DI UN GIORNALE D’EPOCA.
I duelli iniziavano nelle osterie e nei bordelli per poi diffondersi nelle strade dei villaggi contadini. I proprietari terrieri cominciarono ad avere paura di tornare alle loro tenute disarmati e ricevettero protezione con i soliti meccanismi estorsivi. A quel punto si scatenò la repressione della polizia sotto forma di arresti e processi che, pur senza porre fine a quella nuova piaga, almeno ne chiarirono l’origine. Un giudice arrivò alla seguente conclusione: «L’associazione è nata nelle carceri con il nome di “setta dei camorristi”. In seguito, quando i capi sono stati rilasciati, si è diffusa in altre città e paesi, trovando terreno fertile soprattutto tra i giovani inesperti, i vecchi detenuti e i pastori di capre». Nel corso di un altro processo un testimone ex membro di una banda raccontò una confusa storia sulla fondazione della setta dei camorristi da parte di tre cavalieri spagnoli di nome Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Le sue parole furono accolte in aula tra risate perplesse. Eppure fu così che, nella Calabria
RENÉ MATTES / AGE FOTOSTOCK
dell’ultimo ventennio del XIX secolo, l’“onorata società” trovò finalmente un modo per uscire dalle carceri e diffondersi all’esterno. Non avrebbe più abbandonato quella strada.
Passato e presente Da allora il panorama della criminalità organizzata italiana è molto cambiato. Invece di contrabbandare bestiame rubato, oggi i mafiosi siciliani trafficano droga in tutto il pianeta. Piuttosto che estorcere denaro ai coltivatori di limoni e ai venditori ambulanti, preferiscono taglieggiare le attività di manutenzione stradale e i parchi eolici. La camorra, un tempo un’“onorata società” con le sue regole e i suoi rituali, è ora una frammentata accozzaglia di bande diverse ed è priva di un nucleo. Dal canto suo la ’ndrangheta, che in origine era una modesta fratellanza di ex detenuti e caprai, è attualmente il più grande importatore di cocaina in Europa, con prospere ramificazioni nel nord Italia, in Europa settentrionale, in Canada, negli Stati Uniti e in Australia. Nel corso
della sua complessa evoluzione la malavita calabrese ha imparato a rinunciare ai profitti della prostituzione e a pianificare a lungo termine, usando le donne come moneta di scambio nelle alleanze dinastiche per via matrimoniale. Ma questa è un’altra storia. Nonostante tutti questi cambiamenti, i metodi della mafia rimangono sostanzialmente gli stessi e non hanno perso efficacia nel corso del tempo: il controllo del territorio tramite l’estorsione, il traffico di merci e sostanze illecite e la gestione delle influenze attraverso reti di corruzione.
IL GOLFO DI NAPOLI
Veduta del capoluogo campano. In primo piano la certosa di San Martino; sullo sfondo il Vesuvio; al centro il porto, cuore dei traffici della camorra.
JOHN DICKIE DOCENTE DI STUDI ITALIANI PRESSO LO UNIVERSITY COLLEGE, LONDRA
Per saperne di più
SAGGI
Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana John Dickie. Laterza, Bari, 2007. Onorate società. L’ascesa della mafia, della camorra e della ’ndrangheta John Dickie. Laterza, Bari, 2012. Che cos’è la mafia Gaetano Mosca. Laterza, Bari, 2002. FILM
Processo alla città Luigi Zampa, 1952.
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I SEGRETI DELLA CAMORRA
CERIMONIA D’INIZIAZIONE ALLA CAMORRA. INCISIONE DEL XIX SECOLO.
SPL / AGE FOTOSTOCK
Nella seconda metà del XIX secolo la camorra attirò l’attenzione di numerosi autori e studiosi che descrissero in modo dettagliato – e a volte con una certa fantasia – gli usi e i costumi dei camorristi. Analizzarono l’abbigliamento, i segni identificativi, i rituali e i metodi con cui questi criminali imponevano la loro legge.
1 . riti d’iniziazione A metà del XIX secolo le nuove leve della camorra giuravano su due spade incrociate. Dovevano poi battersi a colpi di coltello, anche se la lama dell’arma era spesso avvolta in stracci per evitare ferite mortali che avrebbero privato l’organizzazione di preziosa forza lavoro.
2. abbigliamento
GUAPPO NAPOLETANO IN UN’INCISIONE DEL 1866. IL TERMINE DERIVA DALLO SPAGNOLO. SIGNIFICA “BELLO”, MA QUI È INTESO ANCHE COME “SPAVALDO”.
In contrasto con la segretezza della mafia siciliana, i camorristi erano facilmente riconoscibili per il loro abbigliamento contraddistinto da una particolare giacca di velluto e da pantaloni larghi. I modi richiamano la figura del guappo, il personaggio spavaldo e tracotante tipico della tradizione napoletana che fin dall’inizio del XX secolo era associato all’attività mafiosa.
FOTO: IL GUAPPO: BRITISH LIBRARY / AURIMAGES. VOLTI DI PERSONE SFREGIATE: DEA / ALINARI / AGE FOTOSTOCK. TATUAGGI: AGE FOTOSTOCK
GIOVANE CAMORRISTA VIENE TATUATO. OLIO DI GIOACCHINO TOMA. DE AGOSTINI / SCALA, FIRENZE
4 . tat uag g i
3.ritorsioni I sicari della camorra erano soliti sfregiare con un coltello il volto di coloro che disobbedivano agli ordini dell’“onorata società”, compresi i membri che violavano le regole. Lo sfregio era un segno visibile della “giustizia” della camorra, che poteva essere praticato anche per punire le donne accusate d’infedeltà.
Tra i camorristi i tatuaggi erano quasi di rigore. Segno di appartenenza alla società (si diceva che quelli sul dorso della mano indicassero il rango del tatuato), rendevano manifesto il potere di un membro. Furono oggetto di studio da parte di criminologi e antropologi di fine ottocento. Abele De Blasio, per esempio, catalogò i tatuaggi di 287 camorristi. TATUAGGIO DI UN CAMORRISTA CON SIMBOLI RELIGIOSI. FINE DEL XIX SECOLO.
PERSONE SFREGIATE. INCISIONE DEL XIX SECOLO.
GRANDI ENIGMI
Tracce di arsenico nella chioma di Napoleone L’analisi delle ciocche di capelli dell’imperatore ha fatto nascere il sospetto di un avvelenamento subìto durante l’esilio a Sant’Elena suo paziente che il governatore dell’isola, Hudson Lowe, finì per esonerarlo dal suo incarico nel 1818. A partire dal settembre del 1820 la salute di Napoleone si deteriorò in maniera drammatica. Le cure somministrategli dal nuovo medico Francesco Antommarchi, un còrso inviato dalla sua famiglia, si rivelarono inutili. L’imperatore esiliato morì il 5 maggio 1821.
«Muoio assassinato» Anche se all’inizio del XIX secolo morire a 51 anni di età non era così insolito come sarebbe oggi in Occidente, nel suo testamento l’imperatore scrisse: «Muoio prematuramente, ucciso
dall’oligarchia inglese e dal suo sicario», cioè Lowe. L’autopsia, eseguita da Antommarchi con la collaborazione di diversi medici britannici, rilevò la presenza di un’ulcera gastrica che sia il dottore còrso sia alcuni collaboratori inglesi considerarono cancerogena. Questo bastò per attribuire la morte di Napoleone a un cancro allo stomaco, lo stesso male che aveva provocato la scomparsa di suo padre tempo prima. Negli anni cinquanta del novecento un dentista svedese di nome Sten Forshufvud, appassionato di tossicologia e di studi napoleonici, mise in dubbio questa versione dei fatti ritenen-
LE PRIME VOCI IL DURO TRATTAMENTO ricevuto
da Napoleone a Sant’Elena, in particolare per mano del governatore Hudson Lowe, convinse molti francesi che la sua morte prematura fosse dovuta a un avvelenamento. Nel 1829 un medico parigino affermava che questa tesi era stata accettata a lungo a Parigi ed era ancora diffusa in vari dipartimenti. HUDSON LOWE IN UN’INCISIONE A COLORI DEL 1875. AKG / ALBUM. COLORE: JOSÉ LUIS RODRÍGUEZ
LA MORTEDI NAPOLEONE
AKG / ALBUM
L’
esilio di Napoleone sull’isola di Sant’Elena, a 1.800 chilometri dalle coste africane, iniziò il 15 ottobre 1815. L’illustre prigioniero era relativamente giovane – aveva 46 anni – e ci si attendeva quindi che il suo soggiorno durasse a lungo. Invece morì meno di sei anni dopo. Napoleone risiedeva a Longwood House, un luogo freddo, umido e avvolto da una nebbiolina costante, che vide la sua salute peggiorare costantemente e dove non si sentì mai a sua agio. Il medico britannico che lo aveva in cura, Barry O’Meara, si lamentava con tale insistenza delle condizioni di vita del
Montholon, il presunto avvelenatore, è uno dei personaggi sullo sfondo. Olio di Charles de Steuben.
do che la causa dei sintomi descritti nelle memorie di Louis Marchand, cameriere di Napoleone, potesse essere l’arsenico. Dato che questo veleno tende ad accumularsi nei capelli, tale sospetto poteva essere verificato analizzando un campione di chioma la cui appartenenza all’imperatore fosse documentata in modo affidabile. Esistevano d’altronde varie ciocche di capelli di Bonaparte, che spesso le regalava in segno di affetto.
LA CASA SULL’ISOLA A SANT’ELENA Napoleone risiedeva a Lon-
ni dell’umore, trattamenti ricevuti, e – essendo nota la velocità di crescita dei capelli umani – comparò questi dati con l’evoluzione dei tassi di arsenico. La correlazione apparve evidente: l’aumento del tasso di arsenico coincideva con un peggiore stato di salute di Napoleone e viceversa.
HERITAGE / AGE FOTOSTOCK
In questo modo Forshufvud scoprì che i capelli di Napoleone non solo mostravano concentrazioni di arsenico molto più alte del normale, ma che queste erano discontinue: molto arsenico in determinati periodi, poco o nulla in altri. Allora l’esperto svedese elaborò una dettagliata cronologia dello stato di salute del prigioniero esaminando la documentazione medica relativa ai suoi ultimi mesi di vita: sintomi fisici, variazio-
gwood House (qui sotto), una villa fredda, umida e piena di ratti. Arredata con quelli che egli chiamava con disprezzo «mobili da seicento franchi», aveva un ampio giardino dov’era possibile passeggiare liberamente per diversi chilometri.
In cerca dell’assassino Ormai convinto dalla sua ipotesi, Forshufvud cercò di risalire all’identità dell’avSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI ENIGMI
I CAPELLI DELL’IMPERATORE diverse ciocche di capelli attribuite a Napoleone Bonaparte. Una fu tagliata nel 1816, mentre le altre furono prelevate subito dopo il decesso. Sono queste ultime che presenterebbero tracce di un possibile avvelenamento. In realtà non è nemmeno sicuro che i campioni gli appartengano. L’unico modo per confermarlo sarebbe aprire la sua tomba parigina situata nell’Hôtel national des invalides.
sue memorie sull’isola di Sant’Elena. Museo della battaglia di Borodino, Mosca. Sotto, un ciuffo di capelli dell’imperatore.
FINE ART / ALBUM
SI SONO CONSERVATE
NAPOLEONE detta le
ALFRED DE MONTESQUIOU / GETTY IMAGES
velenatore, che doveva necessariamente essere stato un ospite di Longwood House e aver frequentato con regolarità Napoleone durante il suo esilio. Ciò ridusse la lista dei sospetti a cinque nomi. Ma l’intendente della cucina Pierron e i valletti Saint-Denis e Nover-
raz non avevano contatti con il cibo dell’imperatore. L’unico cameriere che serviva regolarmente i pasti a Napoleone era Marchand, suo ardente sostenitore. Rimaneva un unico candidato: il conte di Montholon.
Il principale indiziato Montholon era un politico opportunista che aveva combattuto nell’eserci-
to napoleonico ma aveva anche subito alcuni sgarbi personali dall’imperatore. Nel 1814 aveva sostenuto la restaurazione borbonica ed era riuscito a raggiungere il grado di generale; poi però era improvvisamente tornato bonapartista e aveva deciso di accompagnare Napoleone a Sant’Elena con la famiglia. La moglie, che si vociferava essere l’a-
/ ALBU
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I sostenitori della tesi dell’avvelenamento di Napoleone accusano Montholon O RO
NOZ
IL CONTE DI MONTHOLON, GENERALE E MEMBRO DELL’ENTOURAGE DI BONAPARTE. 122 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
mante di Bonaparte, rientrò in Francia qualche anno dopo. Il marito invece decise di restare. Controllava personalmente le cantine dell’imperatore, cui serviva con regolarità un certo vino di provenienza sudafricana. La teoria di Forshufvud ebbe poco credito tra gli storici, ma fu rilanciata qualche anno dopo dall’imprenditore canadese Ben Weider che pubblicò diversi libri sull’argomento. Negli anni novanta toccò allo scrittore francese René Maury portare avanti la tesi della responsabilità di Montholon, basandosi su alcuni documenti avuti da un discendente del generale.
Uno scambio di bare a Sant’Elena?
FINE ART / ALBUM
NEL 1969 il giornalista Georges Rétif de la Bretonne raccontò che nel 1828 gli inglesi avevano portato via da Sant’Elena il corpo dell’imperatore. Al suo posto era stato lasciato il cadavere del maggiordomo Cipriani Franceschi, morto nel 1815. Secondo la leggenda furono dunque i suoi resti che i francesi avrebbero riportato in patria nel 1840.
IL CORPO DI NAPOLEONE FU ESUMATO NEL 1840 PER ESSERE TRASFERITO NELLA TOMBA DI PARIGI.
In realtà, non c’è nessuna prova certa del fatto che Montholon avesse organizzato l’assassinio dell’imperatore, come alla fine ha riconosciuto lo stesso Weider. Nonostante ciò, diversi autori hanno continuato a speculare sulla presenza di arsenico nei ciuffi di capelli conservatisi fino ai giorni nostri. Ben Weider ne ha fatto analizzare uno in un laboratorio dell’FBI e i risultati hanno confermato quelli ottenuti da Forshufvud. Nel 2001 tre tossicologi di un ospedale parigino hanno esaminato altre ciocche, rilevando di nuovo un tasso di arsenico al di sopra della
norma.Ciò porta a chiedersi quale potrebbe essere allora l’origine della contaminazione. Gli studiosi hanno suggerito una serie d’ipotesi: la carta da parati di Longwood House, dei medicinali contenenti la sostanza, qualche alimento oppure i cosmetici usati per la conservazione del cadavere. Ma Pascal Kintz, uno dei tossicologi che ha partecipato allo studio del 2001 e ha successivamente effettuato nuove analisi, ha respinto queste possibilità. Secondo lui, il veleno in questione è di origine inorganica e dovuto ad avvelenamento. D’altro canto qualcuno ha fatto notare che nell’autop-
sia non sono stati osservati i segni caratteristici dell’avvelenamento da arsenico.
Un veleno diffuso Nel 2008 alcuni ricercatori delle università di Pavia e Milano hanno analizzato i campioni della chioma di Napoleone e di altre persone vissute nello stesso periodo, tra cui alcuni suoi parenti. In tutti i casi le concentrazioni di arsenico erano cento volte superiori a quelle attuali. E anche se il tasso era leggermente più elevato nelle ciocche che appartenevano all’imperatore, questo non giustifica affatto i sospetti di omicidio.
I medici e i biochimici che hanno studiato la questione sostengono che i sintomi di Napoleone sono compatibili con un cancro allo stomaco. Anche Robert Genta, professore di patologia presso la University of Texas Southwestern Medical Center, è giunto alla stessa conclusione nel 2007: Bonaparte morì per un’emorragia gastrointestinale causata da un tumore in fase avanzata. —Juan José Sánchez Arreseigor Per saperne di più SAGGIO
L’assassinio di Napoleone Ben Weider, David Hapgood. Mursia, Milano, 2014.
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GRANDI SCOPERTE
Vivere in mezzo ai mosaici: la villa romana di Carranque Nel 1983 alcuni agricoltori scoprirono un mosaico che consentì di portare alla luce una sontuosa villa romana nei pressi di Toledo
MAR CANTABRICO
S PA G N A MADRID
TO L E D O
Carranque MAR MEDITERRANEO
dino, prendeva in affitto da oltre 15 anni il terreno proprietà del vicino comune di Carranque. Quel giorno d’estate Samuel trovò per caso una tessera di mosaico in mezzo alla paglia. La cosa però non lo sorprese. Qualche tempo prima infatti ne aveva già trovata un’altra. E proprio i ritrovamenti di quegli anni, tegole, mattoni, resti di ceramica e perfino oggetti metallici – zappe e una chiave –, avevano fatto nascere nel ragazzo la passione per l’archeologia.
1983
Samuel López Iglesias e i suoi fratelli scoprono dei mosaici vicino a Carranque.
Tuttavia, la scoperta di quel giorno superò ogni sua aspettativa. Dopo aver rimosso un po’ di terra ed essersi sincerato che si trattava di un mosaico, chiamò a gran voce i fratelli; tutti iniziarono a scavare con le zappe e, attoniti, videro affiorare delle figure. Presi dall’entusiasmo, iniziarono immediatamente a cercare nei dintorni e scoprirono che ve ne erano sepolti altri.
Una villa romana Samuel e i fratelli intuirono il valore del rinvenimento e decisero di avvisare il Museo de Santa Cruz di Toledo, i cui archeologi valutarono il sito e confermarono la presenza di una villa romana. I giovani furono i protagonisti di una delle scoperte più importanti dell’archeologia ispano-romana.
1985
Hanno inizio gli scavi archeologici, che porteranno alla luce una villa romana.
ERCOLE. DETTAGLIO DEL MOSAICO DELLE METAMORFOSI.
2003
AYUNTAMIENTO DE CARRANQUE
I
l cuore mi usciva dal petto [...] Cominciai a rovistare nella paglia e trovai un’altra tessera, e poi un’altra [...] e un minuscolo frammento di mosaico [...] Con il bastone che mi portavo dietro per spronare le mucche raspai la terra e, a dieci centimetri di profondità, lo vidi: il mosaico». Così, anni dopo, Samuel López Iglesias descrisse il momento del ritrovamento dell’opera. La sua scoperta fortuita permise di portare alla luce una delle più splendide ville romane del territorio spagnolo conservatesi fino a oggi. Era un afoso 23 luglio del 1983. Come di consueto, il giovane agricoltore si apprestava a lavorare in alcuni campi nel fondo di Santa María de Abajo, sulle rive del Guadarrama, a metà strada tra Madrid e Toledo. Suo padre, anche lui conta-
Non solo: la premura e l’attenzione dei fratelli López fecero sì che il sito non venisse depredato o distrutto, permettendone la conservazione e l’inizio di un lungo
Il sito di Carranque è dichiarato Parque arqueológico e viene aperto al pubblico.
ALBUM / ORONOZ
2013
Dopo una breve chiusura nel 2012 Carranque apre di nuovo e riprendono gli scavi.
LA VILLA ROMANA di Carranque vista dal portico d’ingresso. Le rovine sono protette da un telo di grandi dimensioni.
LA CASA DI MATERNO
Il ritrovamento di resti in ceramica e di altre strutture spinse gli archeologi a collocare l’origine del sito nei secoli I-II d.C., durante la cosiddetta Età alto-imperiale, e a stabilire che alla fine del III secolo, o agli inizi del IV, venne costruita un’area produttiva dedicata alla lavorazione di vino e olio. Ma la villa assunse l’aspetto attuale solo negli ultimi decenni del IV secolo grazie a una serie di rifor-
AYUNTAMIENTO DE CARRANQUE
intervento archeologico che ne avrebbe svelato i segreti. Nel 1985 incominciarono gli scavi nell’area in cui Samuel aveva trovato il primo mosaico. E man mano vennero alla luce le strutture di una villa romana con la zona residenziale, quella produttiva e quella funeraria, oltre a un ulteriore edificio della fine del IV secolo decorato con sontuosi marmi trasportati fino a Carranque da ogni angolo dell’impero.
IL NOME DI MATERNO, proprietario della villa alla fine del IV secolo, era scritto all’ingresso della sala con il mosaico scoperto da Samuel e dai fratelli nel 1983. Compariva assieme al nome dell’autore di uno dei pavimenti: «Hirinius della bottega di Ma […] dipinse questo cubicolo per il diletto di Maternus».
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GRANDI SCOPERTE
MOSAICO DELLE METAMORFOSI
AYUNTAMIENTO DE CARRANQUE
Al centro appare il busto di Afrodite circondato da diverse scene mitologiche e da vari ritratti di divinità.
me che coinvolse la totalità degli edifici residenziali e produttivi allora esistenti. Alla nuova zona residenziale, o pars urbana, si accedeva dalla riva destra del fiume Guadarrama. Di
pianta quadrangolare e con circa 33 metri per lato, aveva una facciata principale con un portico decorato da archi e colonne e delimitato da due torrioni. Tramite un vestibolo si giungeva quindi al peristilio, un cortile centrale con giardini circondato da portici, sul quale si affacciavano le diverse stanze.
Mosaici lussuosi La villa di Carranque seguiva il modello delle residenze dell’élite del IV secolo; risalta l’abbondanza di absidi semicircolari DETTAGLIO CON UNA CROCE UNCINATA RINVENUTO NELLA ZONA DELLE TERME. JAM WORLD IMAGES / ALAMY / ACI
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e poligonali, associate ad ambienti di prestigio e di rappresentanza come sale da pranzo o di ricevimento e ad alcuni cubiculi, o stanze minori, che davano sul peristilio. Nel IV secolo i locali dell’area meridionale della villa, fino ad allora occupati dalle prime terme, vennero adibiti ad altri usi e incorporarono le rispettive absidi. La nuova struttura termale venne collocata in un impianto separato non lontano dalla pars urbana. È stato anche rinvenuto un edificio – probabilmente un mausoleo – che doveva servire da luogo di sepoltura per il proprieta-
rio della villa e per la sua famiglia. La collocazione in prossimità della zona residenziale risponde a una pratica dell’epoca che consentiva ai signori della villa di essere ricordati dagli ospiti. Ma l’attrazione principale della casa è rappresentata senz’altro dai 16 pavimenti in mosaico che decorano molte delle stanze. Visto l’eccellente stato di conservazione costituiscono uno dei migliori esempi di arte musiva ispano-romana. Coprivano circa il sessanta per cento dello spazio edificato della pars urbana e vennero realizzati da tre diverse botteghe di artigiani.
DETALLE Eci inclerdiis
OCEANO: il ritratto di questo personaggio circondato da esseri marini venne realizzato per un’esedra. Probabilmente qui c’erano una fonte o un ninfeo.
AYUNTAMIENTO DE CARRANQUE
sulturo, mactarbit. Torei forum ret, conclus ad pos, conterora conlocc iortalarit, cios cum ortur, Castum aciam iortalarit.
A una di queste botteghe appartiene l’autore dell’iscrizione all’entrata di un cubicolo che ci rivela il nome di colui che possedeva la villa alla fine del IV secolo: Materno. Al suo interno si trova il cosiddetto mosaico delle Metamorfosi, nel quale, attorno alla figura di Afrodite, sono rappresentate diverse scene mitiche: il bagno di Diana, Poseidone e la danaide Amimone, Piramo e Tisbe e il rapimento di Ila da parte delle ninfe. Di particolare interesse è l’insieme musivo che ricopre una grande sala con abside – si pensa potesse essere un triclinium, o sala
da pranzo – situata nell’ala orientale dell’edificio. Tale insieme comprende un mosaico con la scena della lotta tra Adone e il cinghiale e un altro che decora la zona di accesso alla sala. Furono entrambi realizzati dagli artigiani del mosaico delle Metamorfosi. In quello di Adone, accanto la rappresentazione di due cani compaiono i nomi Titurus e Leander, in allusione ai cani del proprietario della villa.
Laboratori diversi L’esistenza di una seconda bottega è confermata da un’altra iscrizione: «Dalla bottega di Julius Pru […]».
Le sue creazioni, che coprono i corridoi attorno al peristilio e nell’ala nord dell’edificio, si caratterizzano per la profusione di elementi vegetali schematizzati. Tra le diverse scene spicca quella del dio Oceano, associata sicuramente a un ninfeo o a una fonte. La sala di rappresentanza più importante dell’area, il cosiddetto œcus, accoglieva una scena dell’Iliade che ha come protagonisti Achille, Ulisse e Briseide. Un terzo laboratorio si occupò dei pavimenti di tre locali che corrispondevano alle antiche terme, poi ristrutturate e trasformate
in cubicoli. In questo caso lo stile è caratterizzato da composizioni centralizzate e dall’uso di elementi geometrici simili, come pelte o croci. Aperto al pubblico nel 2003, il Parque Arqueológico di Carranque consente oggi di fare un viaggio nel tempo per tornare al mondo rurale romano dell’Hispania della fine del IV secolo. —Rubén Montoya Per saperne di più SAGGI
Musivaria Licia Vlad Borrelli. Viella, Roma, 2016. INTERNET
Sito ufficiale del Parco archeologico di Carranque www.parquearqueologico.org
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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA STORIA DEL COSTUME
Chi è la modella del nudo immortalato da Courbet?
S Claude Schopp
LA MODELLA SENZA VOLTO Donzelli, 2018; 138 pp.; 26 ¤
alutiamolo tutti insieme, / salutiamolo con un inchino, / poiché, sebbene ne arrossiamo, / è lui che governa il mondo». La quartina dello scrittore Ernest Feydeau, riportata secondo alcuni su un telo che copriva il dipinto L’origine del mondo, realizzato dal pittore francese Gustave Courbet nel 1866 per la galleria del diplomatico e collezionista turco-egiziano Khalil-Bey, si presta a descrivere la forza dirompente della raffigurazione
quasi anatomica di un nudo femminile e del suo organo genitale. Ma a chi appartiene quel corpo, espressione di un realismo portato all’estremo, di cui Courbet omette il volto? Secondo lo storico francese Claude Schopp (tradotto da Camilla Diez) nella frase «non si dipinge con il pennello più delicato e sonoro l’intervista della signorina Quéniault dell’Opéra», tratta dalla corrispondenza inedita tra Alexandre Dumas (figlio) e la scrittrice George Sand, sta la chiave per la de-
cifrazione del mistero. Il termine“intervista”(interview) sarebbe, secondo Schopp, frutto dell’errata trascrizione di“interno”(interiéur), che si riferirebbe proprio al pube della donna immortalata da Courbet. La consultazione dello scritto originale, custodito nella Biblioteca nazionale di Parigi, sembra dar ragione a Schopp che scava nella vita di Costance Quéniaux (il cognome varia leggermente rispetto alla lettera), la ballerina dell’Opéra «dalle belle sopracciglia nere», amante del facoltoso Khalil-Bey. Schopp scopre la “terza vita” di Constance: da ballerina e cocotte (prostituta d’alto bordo) a convinta filantropa, instancabile raccoglitrice di fondi per i figli orfani del mondo delle arti.
STORIA ILLUSTRATA DEL TAPPO
I SEGRETI DI UN MAKE-UP PERFETTO NELL’ANTICHITÀ «SE LA BELLEZZA ti sarà compagna, sarai sempre
felice» si legge su una tavoletta anonima dell’epoca della regina Nefertiti. Ossicini d’uccello bolliti e tritati, sterco di mosca, succo di sicomoro e gomma erano gli ingredienti di una crema depilatoria in uso nell’antico Egitto. Parte di rituali religiosi o magici, mezzo per distinguersi e affermare il proprio status, oppure una maniera per rendere gradevole il proprio aspetto, la necessità di decorarsi è «parte integrante della stessa natura umana». A dirlo il make-up artist Rossano De Cesaris che, con scienza e metodo, indaga nelle pratiche della cosmesi presso egizi, cretesi, micenei, etruschi, romani e bizantini. Rossano De Cesaris
TRUCCO E BELLEZZA NELL’ANTICHITÀ Sillabe, 2019; 112 pp.; 14 ¤
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Alessandro Zaltron con Francesca Marchetto
SAPERE DI TAPPO Ronzani Editore, 2019; 144 pp.; 23 ¤ HAJI FIRUZ, Iran. Tra i focola-
ri di un villaggio di ottomila anni fa sono stati ritrovati i tappi più antichi della storia, che servivano a preservare il contenuto di sei giare. La fabbricazione dei tappi cominciava con la pulitura a
mano dell’argilla e della sua frantumazione e levigazione, mentre per la preparazione dell’impasto bastava aggiungere dell’acqua. Modellati con le tecniche “a colombino” (formando strisce cilindriche disposte a spirale l’una sull’altra) o “a pallina” (creando un incavo con la pressione delle dita) i tappi venivano lasciati essiccare al sole oppure cotti in fornaci. Dagli insediamenti neolitici iraniani alle macerie della civiltà cretese, dai mercati egizi alle navi fenicie, Alessandro Zaltron e Francesca Marchetto ricostruiscono la storia di «un oggetto tanto utile e prezioso eppure quasi dimenticato nei libri di storia» in un volume illustrato unico al mondo.
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ALBUM
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IL MINOTAURO, IL MOSTRO DEL LABIRINTO PASIFAE, la sposa del re di Creta Minosse,
s’invaghì di un toro e generò il Minotauro, un mostro che sarebbe stato sconfitto dall’eroe ateniese Teseo. La sua lotta contro il temibile essere metà uomo e metà toro è un emblema dello scontro tra bene e male. Attraverso i secoli sono state costruite diverse versioni del mito che hanno lasciato tracce nell’arte e nella letteratura. Mentre Teseo divenne un simbolo di coraggio, il labirinto rappresentò il peccato e il Minotauro venne identificato prima con il diavolo e poi con i piaceri terreni. DEA / SCALA, FIRENZE
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Dario III, il nemico di Alessandro Il re achemenide passò alla storia come un codardo umiliato da Alessandro Magno. Ma il suo personaggio ha molte sfumature su cui si è sorvolato per secoli.
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Viaggio nella Istanbul ottomana La città che rappresentava la porta d’ingresso in Oriente nel XVIII secolo era un crocevia di viaggiatori, intellettuali e diplomatici stregati dal suo fascino.