BRIDGEMAN / INDEX
LA RIVOLTA IN AMERICA Il 19 aprile del 1775, gli abitanti di Lexington e Concord, nella colonia del Massachusetts, vissero i primi scontri tra le truppe britanniche e la milizia delle colonie. Era l’inizio della Guerra di Indipendenza e il primo passo verso la nascita degli Stati Uniti d’America. Olio su tela (1910) di W. B. Wollen. National Army Museum, Londra.
GRANDI RIVOLUZIONI
ALLE PORTE DELLA RIVOLUZIONE Il 23 giugno del 1789, Mirabeau affronta il marchese di Dreux-Brézé, rappresentante di Luigi XVI, e rifiuta di sciogliere l’Assemblea Nazionale prima che venga votata la Costituzione. Rilievo in bronzo di Aimé-Jules Dalou. 1881. Assemblea Nazionale, Parigi.
In Occidente, le tensioni sociali e politiche portarono a violente agitazioni che hanno plasmato il presente: i diritti e le libertà di cui godiamo oggi sono l’eredità delle rivoluzioni del passato.
10 La lunga storia della rivoluzione Le lotte per la partecipazione alla vita politica, le battaglie contro le discriminazioni e a favore dei diritti umani e dell’uguaglianza sociale.
18 L’Atene di Clistene Dopo aver liberato Atene dalla tirannia, Clistene avviò una riforma politica che trasformò la città attica nella patria della democrazia.
30 Spartaco La rivolta animata da Spartaco nel 73 a.C. fu una delle minacce più gravi che la Roma repubblicana dovette affrontare nel corso della sua storia.
40 Le rivolte contadine Verso la fine del Medioevo, gli abusi dei signori feudali diedero origine a una serie di rivolte contadine che insanguinarono l’Europa.
50 Cola di Rienzo Nel XIV secolo, Cola di Rienzo cercò di instaurare un regime popolare che riportasse Roma ai fasti dell’epoca imperiale.
60 Lutero 4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Nel suo impegno per riformare la Chiesa, Lutero sfidò papato e Impero, trasformando la storia e aprendo il periodo delle guerre di religione.
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70 L’Inghilterra contro il re Tra il 1642 e il 1649, la lotta tra Carlo I e il Parlamento originò tre guerre civili, la messa a morte del re e la nascita della repubblica.
80 George Washington Guidò la lotta per l’emancipazione delle colonie britanniche nel Nord America e fu poi eletto primo presidente degli Stati Uniti.
96 Luigi XVI Il 21 gennaio 1793 la ghigliottina poneva termine alla vita del re di Francia, dopo un processo dal chiaro significato politico.
108 Le Cortes di Cadice Con quasi tutta la Penisola iberica occupata dai Francesi, a Cadice si riunì un’assemblea che avrebbe cambiato la società spagnola.
LA LIBERTÀ GUIDA IL POPOLO FRANCESE DURANTE LA RIVOLUZIONE DEL 1830, DI EUGENE DELACROIX . LOUVRE, PARIGI. FOTO: ERICH LESSING / ALBUM.
118 1848 Nel febbraio del 1848, a Parigi scoppiò una rivoluzione che accese le speranze di libertà in un’Europa sottomessa all’assolutismo.
130 Garibaldi Fu il principale artefice e il suggello dell’Unità d’Italia, il promotore della costruzione di una coscienza nazionale.
144 La Comune di Parigi I cittadini di Parigi iniziarono una rivolta contro il governo monarchico che divenne il simbolo della rivoluzione universale.
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LE ONDATE RIVOLUZIONARIE
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e rivoluzioni si manifestano non ciclicamente, ma a ondate. Ciò si verifica puntualmente dal Medioevo a oggi, se pensiamo a quanto accade nel Vicino Oriente e in Nordafrica. Ma gli storici non sono ancora d’accordo (e forse non lo saranno mai) su una questione. Che cosa innesca in un dato momento storico una rivoluzione? Non è solo un disagio sociale, perché in molti casi questo era presente da tempo nelle nazioni che sono state teatro di rivoluzioni; deve esserci qualcosa in più. L’idea di alcuni è che l’innesco sia culturale: l’arrivo di un’ondata – appunto – di nuove consapevolezze da parte dei cittadini di ogni classe sociale, le quali sottolineano con forza le contraddizioni tra un modello idealizzato di Stato e la sua realtà politica: ciò alimenta le opposizioni e, soprattutto, divide le élite che detengono il potere. Non c’è quasi rivoluzione che sia stata condotta soltanto dalle fasce più umili del popolo ma, sempre, anche da componenti di classi più elevate (gli esempi sono tanti: dalla Rivoluzione inglese del Seicento a quella francese ai moti risorgimentali italiani). Un’altra teoria è invece economica: i suoi sostenitori affermano come, dal Medioevo al XX secolo, le grandi rivoluzioni siano avvenute in concomitanza con impennate dei prezzi dei generi di prima necessità (grano). Un esempio? Le rivolte contadine del Medioevo, il tumulto di San Martino del 1628 a Milano, raccontato nei Promessi sposi, i moti di Milano del 1898 repressi da Bava Beccaris. Mentre in periodi di equilibrio dei mercati (Rinascimento, Illuminismo, seconda metà dell’Ottocento) non si sono verificate. A ogni modo, sembra che ogni rivoluzione sia qualcosa di inevitabile: in un dato momento un profondo cambiamento è nell’aria e la scintilla si accende. Come ha detto Joseph de Maistre, un pensatore peraltro fortemente antirivoluzionario: “Non sono gli uomini che guidano la rivoluzione, è la rivoluzione che guida gli uomini”. Giorgio Rivieccio UN MAZZO DI CARTE RIVOLUZIONARIO Carte francesi della fine del XVIII secolo che raffigurano, da sinistra a destra e dall’alto in basso: una allegoria dell’Unità dei Francesi, Jean-Jacques Rousseau, una allegoria della Giustizia e una della Forza. Museo Carnavalet, Parigi.
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L’ALBERO DELLA LIBERTÀ Tre sanculotti, componenti delle classi popolari di Parigi, piantano l’albero della libertà circondati da altri rivoluzionari: borghesi, soldati e donne. Tempera dei fratelli Le Sueur. 1789. Museo Carnavalet, Parigi.
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RMN-GRAND PALAIS
LIBERTÀ O MORTE Un genio mostra alla Francia la Libertà e la Morte; la prima ha in mano un berretto frigio, il triangolo e un filo a piombo, simbolo di giustizia. Dipinto di Jean-Baptiste Regnault. 1794-1795. IL BERRETTO FRIGIO Indossato nell’antica Roma dagli schiavi affrancati, nel XVIII secolo divenne un simbolo di libertà. In Francia si diffuse a partire dalla festa della Federazione, celebrata a Parigi il 14 luglio 1790.
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LA LUNGA STORIA DELLA RIVOLUZIONE Le lotte per la partecipazione alla vita politica, le battaglie contro le discriminazioni e a favore dei diritti umani e l’uguaglianza sociale hanno dato origine a rivolte sociali che hanno trasformato la storia JOSEP MARIA CASALS STORICO
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ome affermò il sociologo Max Weber un secolo fa, “è certo del tutto esatto e confermato da ogni esperienza storica che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile”. Molte volte uomini e donne hanno tentato di “assaltare il Cielo”, secondo l’espressione usata da Karl Marx a proposito della Comune di Parigi. Ovvero hanno voluto trasformare la realtà per soddisfare le necessità, realizzare i desideri o rendere concreta un’utopia. Ciò che propriamente distingue una rivoluzione da una semplice rivolta è questa volontà di contrapporsi a un ordine politico, sociale, economico o morale considerato ingiusto, allo scopo di sostituirlo con un altro. Una rivoluzione, quindi, non consiste solamente nell’opporsi al potere costituito. La rivoluzione aspira a cambiare la società a beneficio di quella parte a cui si nega una capacità, un diritto, una libertà.
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Il mondo antico
BOTTONI RIVOLUZIONARI La presa della Bastiglia a opera dei Parigini nel 1789 simboleggiò la vittoria del popolo sull’assolutismo. Durante la Rivoluzione venne rappresentata su ogni tipo di oggetti, come questo bottone.
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Nell’antichità classica, la rivoluzione consisté nella lotta del popolo (il demos greco, la plebs romana) per il diritto alla partecipazione alla vita politica. Fu ad Atene che questa partecipazione popolare si spinse oltre. Nel passaggio dal VI al V secolo a.C., Solone, Clistene ed Efialte (al quale succedette Pericle), i costruttori del regime democratico, diedero voce al demos – ai contadini, agli artigiani, ai commercianti e ai marinai – in una misura inedita, che non avrebbe avuto eguali fino a più di duemila anni dopo. Roma, tra il V e il III secolo a.C., assistette alla lotta dei plebei per strappare concessioni ai patrizi. Al termine del conflitto risultava spezzato il monopolio politico dei patrizi, soppiantati da una nuova nobiltà formata da loro e da plebei arricchiti, e i plebei si erano ritagliati un posto nel sistema politico, ricoprendo diversi incarichi pubblici.
Ci sono autori, tuttavia, che sostengono che non si possa parlare di rivoluzioni in Grecia e a Roma dato che la loro struttura sociale non cambiò. Entrambe le civiltà si fondavano sulla principale fonte di ricchezza di tutte le società precedenti al capitalismo: l’agricoltura. Secondo lo storico Moses Israel Finley, si trattava di un mondo fondamentalmente agrario, in cui la campagna era dominata da grandi proprietari terrieri che ricorrevano alla mano d’opera schiavile. Tale minoranza formata da possidenti fu sempre alla base dello Stato, sia nelle poleis, le città-Stato greche, sia nella Roma repubblicana e imperiale. I profitti del commercio e dell’industria non diedero luogo alla comparsa di nuove classi sociali capitaliste o lavoratrici (una comparsa ostacolata dall’impiego massiccio di mano d’opera schiavile) tali da giungere a sfidare il dominio delle élite latifondiste. Non poteva dunque verificarsi una rivoluzione come la intendiamo oggi, in quanto il requisito necessario perché questa si produca consiste nel fatto che un settore ampio e potente della società aspiri a imporre i propri interessi ai gruppi sociali che controllano le risorse dello Stato. Pertanto, né in Grecia né a Roma poteva avvenire una rivoluzione come quella che vi fu in Francia nel 1789, quando la borghesia sfidò l’aristocrazia, o nella Russia del 1917, quando un partito operaio prese il potere. Gli storici quindi dibattono riguardo alla possibilità di parlare di classi sociali e di rivoluzione nell’antichità classica, e anche nel Medioevo. Rispetto a quest’ultimo periodo si può affermare, come fece il grande storico
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IL TRIONFO DELLA MONTAGNA Durante la Rivoluzione francese, i deputati più radicali furono i “montanari”, così chiamati perché sedevano nella parte superiore dell’Assemblea legislativa costituita nel 1791. Incisione su rame.
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“GLI UOMINI NASCONO E RIMANGONO LIBERI E CON UGUALI DIRITTI”, FU PROCLAMATO NEL 1789
francese Marc Bloch, che “la rivolta agraria appare inscindibile dal sistema signorile altrettanto, per fare un esempio, dello sciopero dalla grande impresa capitalistica”. Effettivamente, nel mondo medievale, che continuava a essere agrario, la principale opposizione si registrava tra i signori e i contadini che erano sotto la loro giurisdizione, un’opposizione che epidemie, carestie e guerre esacerbarono tra il XIV e il XV secolo. Tuttavia le ribellioni, represse nel sangue, delle quali allora furono protagonisti i Jacques (agricoltori) francesi e i contadini inglesi che seguivano Wat Tyler, non furono solo la risposta a esigenze considerate inique: in esse si avvertiva una rivendicazione della dignità umana e alla loro base vi erano aspirazioni ugualitarie. “Svegliamoci, miei buoni amici, dimostriamo che siamo uomini e non animali”, proclamava Guillaume Cale, il capo dei Jacques. “Se tutti discendiamo da uno stesso padre e una stessa madre, Adamo ed Eva, come possono dire, o dimostrare, che sono più signori di noi?”, si chiedeva John Ball, il prete che marciava con i rivoltosi inglesi di Tyler.
I dissidenti Tali ribellioni sociali, le quali non mettevano in discussione l’autorità del monarca (che anzi cercavano come interlocutore per riparare alle ingiustizie di questo mondo), esprimevano le loro aspirazioni mediante il linguaggio della Bibbia, l’unico libro conosciuto da tutti, inclusi gli analfabeti: lì si lodava la povertà e si censuravano i ricchi privi di carità. La critica sociale, non fornita di un linguaggio proprio, si serviva di espressioni evangeliche, e l’utopia sociale era contemporaneamente un’utopia religiosa, come nel caso del comunismo dei Taboriti cechi, i quali nel XV secolo attendevano l’avvento del regno di Dio. 14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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INSORTO NEI MOTI DEL 1848. DAGHERROTIPO A COLORI DELL’EPOCA.
Le radici della rivoluzione come la intendiamo oggi si trovano proprio nella dissidenza religiosa. Nel XVI secolo, la predicazione di Martin Lutero distrusse l’unità medievale della cristianità, che si frammentò in molteplici confessioni. Una di loro, quella calvinista, sosteneva il diritto della Chiesa alla libertà, e riteneva che il governo che la limitava potesse essere soppresso. Durante la lotta dei calvinisti francesi (gli ugonotti) e scozzesi contro le rispettive Corone, tale diritto alla resistenza si spostò dal piano religioso a quello politico: si attribuirono al popolo diritti naturali che legittimavano la resistenza all’oppressione in nome della sovranità popolare. Il legame tra religione e rifiuto dell’assolutismo fu decisivo nella prima rivoluzione moderna: quella inglese, che nel 1649 portò alla decapitazione di re Carlo I e trasfor-
LA MARCIA VERSO VERSAILLES Le popolane di Parigi marciano verso la reggia, il 5 ottobre del 1789. Le donne svolsero un ruolo importante nei moti rivoluzionari, ma non furono loro riconosciuti diritti politici.
“LIBERTÀ PER L’ANIMA”
CONTADINI TEDESCHI CHE MARCIANO AL SEGUITO DEL LORO STENDARDO RIVOLUZIONARIO. INCISIONE DEL 1525.
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”FINCHÉ ESSI VIVONO [i signori], non è possibile che vi liberiate dal timore umano”. Così si rivolgeva il pastore protestante Thomas Müntzer ai contadini tedeschi che nel 1525 insorsero contro la nobiltà incoraggiati dalla libera interpretazione della Bibbia alla quale esortava Lutero. Ma la libertà che questi postulava era solo spirituale: Lutero condannò i ribelli, affermando che le autorità avevano diritto ad “abbatterli, strangolarli e ucciderli a bastonate”.
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LA BANDIERA DELLA RIVOLUZIONE
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Seconda Internazionale, che raggruppava i partiti socialisti e laburisti europei. In essa le classi abbienti avrebbero visto lo strumento per una rivoluzione mondiale. Il manifesto a lato mostra i simboli che costituivano il marchio d’identità dei lavoratori. Da una parte, l’eredità democratica della Rivoluzione francese: il berretto frigio della libertà indossato da una matrona (emblema della repubblica), la quale illumina il mondo con la verità, e i nastri con le parole “libertà”, “uguaglianza” e “fraternità”. Dall’altra parte, la bandiera rossa del socialismo, “la bandiera dell’umanità”, e, da sinistra a destra, l’incudine e il martello, emblemi del lavoro industriale; le catene della schiavitù, spezzate; la squadra e il compasso, simboli massonici di uguaglianza; infine, un libro con la scritta “la conoscenza è potere”, che allude al diritto all’istruzione. MANIFESTO TEDESCO CON UN’ALLEGORIA DELLA II INTERNAZIONALE. LA TORRE EIFFEL SIMBOLEGGIA LA SUA FONDAZIONE A PARIGI.
LA CONQUISTA DEL FUTURO “Cittadini, siete padroni dei vostri destini”, proclama il manifesto in basso, datato 29 marzo 1871. In esso si annuncia la costituzione della Comune di Parigi.
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EL 1889 SI FONDÒ A PARIGI la
mò il puritano Oliver Cromwell nel padrone dell’Inghilterra. Già prima, i puritani (ovvero i calvinisti inglesi) avevano sofferto la persecuzione della Corona, che li aveva spinti a stabilirsi nell’America del Nord. Lì costituirono il nucleo fondatore delle colonie che, non a caso, furono in seguito protagoniste della Rivoluzione americana, la prima che dichiarò i suoi principi in una maniera nitida. L’ideologia alla base della decisione dei coloni di ribellarsi all’assolutismo del re inglese Giorgio III si concretizzò nel 1776 nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America: “Riteniamo che siano per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che il
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Creatore li ha dotati di certi diritti inalienabili, tra cui la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità; che i governi sono istituiti per garantire questi diritti; che ogniqualvolta una qualsiasi forma di governo li sopprime, il popolo ha il diritto di cambiare o abolire tale governo e di istituirne uno nuovo”. Simili idee giustificarono e alimentarono la resistenza all’assolutismo in Francia, dove i rivoluzionari promulgarono nel 1789 la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, i cui primi tre articoli contengono il germe delle rivolte future: “Gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti”; “Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescindibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”; “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione”.
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In questo testo giuridico, in cui non compare più il Creatore, l’accento ricade invece sulle idee di uguaglianza e di sovranità nazionale. Sono tutte idee su cui si baseranno le rivoluzioni successive e la storia di un XIX secolo in cui le rivoluzioni scoppiano per affermare la supremazia della nazione sulla Corona, oppure per l’indipendenza di un Stato (come nei moti risorgimentali italiani) o ancora per estendere i diritti politici a tutta la popolazione o almeno a una gran parte di essa. Poi, con l’arrivo del socialismo e dell’anarchia, la rivoluzione non solo alzerà la bandiera dei diritti politici, ma includerà anche i diritti sociali: al lavoro, a un salario decoroso, al riposo, all’istruzione; e così fanno gli operai, gli artigiani e i piccoli proprietari che nel 1871 sostengono la Comune di Parigi. In ultimo, nel 1917, la Rivoluzione russa condurrà al cambiamento più brusco della sto-
ria: la costituzione di un ordine che sembra portare agli estremi limiti il vecchio slogan rivoluzionario dell’“uguaglianza”. Tutte queste rivoluzioni sono assolutamente inscindibili dallo sviluppo e dalla diffusione del capitalismo, che erose le basi del potere dell’aristocrazia latifondista e diede un ruolo da protagonisti a commercianti, finanzieri, produttori, liberi professionisti, artigiani e operai. Talvolta alleati e più spesso contrapposti, le loro aspirazioni e le loro lotte condussero a un mondo nuovo: il nostro, capace di elaborare nel dicembre 1948 una Dichiarazione universale dei diritti umani che sarebbe stata impensabile senza i tre secoli di movimenti rivoluzionari che accompagnarono l’espansione capitalista. Trecento anni di “assalti al Cielo”, di lotte per l’impossibile che ci hanno lasciato in eredità ciò che oggi consideriamo possibile.
UNA RIUNIONE DI GIACOBINI La Rivoluzione francese originò il moderno dibattito politico. Sopra, un’accesa discussione nel club dei Giacobini, nel gennaio del 1792. XVIII secolo. Bibliothèque Nationale, Parigi.
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GLI DEI E LA POLITICA Poseidone e Apollo, rappresentati nel fregio orientale del Partenone, discutono fra loro come se fossero due Ateniesi qualsiasi impegnati in un’assemblea cittadina.
LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA
L’ATENE DI CLISTENE Sfidando dall’esilio gli eredi del tiranno Pisistrato, Clistene riuscì, con l’aiuto degli Spartani, a liberare Atene. Poi avviò un programma di riforme politiche che trasformarono la città attica nella patria della democrazia
DAGLI ORTI / ART ARCHIVE
DAVID HERNÁNDEZ DE LA FUENTE DOCENTE PRESSO L’UNIVERSITÀ CARLOS III DI MADRID E SCRITTORE
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acconta Erodoto che Ipparco, figlio del defunto tiranno Pisistrato, un giorno fece un sogno: “Alla vigilia delle Panatenee un uomo di bell’aspetto gli si avvicinò e gli disse: ‘Patirai un destino insopportabile, accettalo con pazienza’”. All’alba Ipparco riferì il sogno ai sacerdoti, poi, incurante del presagio, si recò alla processione.
LA CIVETTA SULLA MONETA Sul rovescio di questa tetradracma ateniese, molto comune nel V sec. a.C., appare la civetta, simbolo della dea Atena. L’altra faccia mostra il profilo della dea, protettrice della città attica.
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Era l’anno 514 a.C., e durante la celebrazione della festa il tiranno cadde per mano di due giovani amanti, Armodio e Aristogitone, celebrati dalla tradizione ateniese come eroi della libertà. Secondo Tucidide, il delitto aveva avuto cause personali: Ipparco si era invaghito di Armodio, ma il giovane lo aveva respinto; per vendetta il tiranno, che divideva il potere con il fratello Ippia, aveva ordinato di escludere dalla cerimonia inaugurale delle feste Panatenee la sorella di Armodio, accusandola di non essere più vergine. Un’offesa tanto grave agli occhi di Armodio da spingerlo – insieme all’amante Aristogitone – a progettare l’assassinio di Ipparco e Ippia e il rovesciamento della tirannide. In realtà, il piano riuscì solo a metà e la morte di Ipparco non riportò la democrazia ad Atene. Il potere si concentrò nella mani di Ippia, vera mente politica della famiglia, che attuò una spietata politica repressiva per puntellare il potere conquistato dai Pisistratidi circa mezzo secolo prima, in un’epoca lacerata da profondi conflitti sociali. Fin dalla metà dell’VIII secolo a.C., infatti, Atene era stata retta da un pugno di famiglie aristocratiche che possedevano gran parte delle terre, controllavano le istituzioni statali – l’arcontato, cioè la magistratura a cui era delegato il potere esecutivo e militare, e il tribunale dell’Areopago – e formavano i quadri scelti dell’esercito. Al di sotto di questa élite, vi era il grosso della popolazione, completamente priva di rappresentanza politica: i contadini, gli artigiani, le donne, gli schiavi... Tra il VII e VI secolo a. C., tuttavia, il raffor-
zamento ec0nomico della classe mercantile e il diffuso malcontento dei contadini per lo sfruttamento a cui erano sottoposti dai proprietari terrieri provocarono il moltiplicarsi delle tensioni sociali. Sorse così la richiesta che le magistrature, fino ad allora monopolizzate dagli aristocratici, divenissero accessibili anche al resto della popolazione. La grande riforma politica voluta da Solone, “legislatore” di Atene tra il 594 e il 593 a.C., mirava appunto a soddisfare queste esigenze, stabilendo, fra l’altro, un’Assemblea generale dei cittadini (Ekklesía) aperta alla classe media, mentre le famiglie aristocratiche mantenevano il controllo sull’Areopago. Tuttavia, l’opera riformista di Solone non bastò a riassorbire i conflitti, e tre decenni più tardi Pisistrato, un aristocratico che si era distinto nelle guerre contro la città rivale di Megara, s’impose sulle varie fazioni in lotta per il potere e istituì la tirannide. Era il 561 a.C. Quattro anni prima, ad Atene, era nato un uomo destinato a svolgere un ruolo decisivo nell’affermazione della democrazia: Clistene.
La maledizione degli Alcmeonidi Clistene apparteneva alla nobile stirpe degli Alcmeonidi, uno dei clan più potenti della città. Figlio di Megacle, portava su di sé la “maledizione” che aveva colpito la sua famiglia nel VII secolo a.C., quando suo nonno (anch’egli chiamato Megacle) aveva ucciso nel tempio di Apollo i sostenitori di Cilone, un aristocratico che voleva instaurare la tirannia ad Atene. Per questo l’oracolo di Delfi lo aveva maledetto e Megacle, insieme a tutta la sua famiglia, era stato ostracizzato dalla polis.
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IL TEATRO DI UN ASSEDIO Nel 508 a.C. l’Acropoli fu teatro dell’assedio con cui la popolazione ateniese, schierata con Clistene, costrinse il suo rivale Isagora a trattare la resa e ad autoesiliarsi. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IL TEMPIO DI CAPO SOUNION Eretto nel V secolo a.C. a Capo Sounion, promontorio situato circa 70 km a sud di Atene, il tempio di Poseidone sorgeva su una punta dalla quale si potevano scorgere le navi dirette verso la città attica.
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Qualche decennio più tardi, all’epoca di Solone, gli Alcmeonidi furono riammessi ad Atene, e durante l’egemonia di Pisistrato (dal 561 al 556 e dal 546 al 527 a.C.) tennero un comportamento quantomeno ambiguo. In buoni rapporti con i tiranni di altre città, nella prima fase del governo di Pisistrato cercarono di imparentarsi con lui e di condividerne il potere. Solo dopo che i loro piani fallirono, passarono all’opposizione, avviando un decennio di lotte al termine delle quali, sconfitti da Pisistrato, dovettero lasciare nuovamente la città. Clistene aveva allora vent’anni. Non sappiamo quanto durò l’esilio degli Alcmeonidi, né in che anno Clistene rientrò ad Atene. Dalle fonti pare tuttavia emergere che egli fu arconte tra il 525 e il 524 a.C., il che lascerebbe supporre che sia stato riammesso in città dopo la morte di Pisistrato, avvenuta nel 527 a.C. Alcuni studiosi traggono peraltro
dalla notizia dell’arcontato di Clistene conclusioni ancora più radicali, ipotizzando, in contrasto con il resoconto offerto dallo storico greco Erodoto (484-425 a.C.), che in realtà gli Alcmeonidi non andarono mai in esilio.
Un oracolo per Clistene Di certo, gli Alcmeonidi non erano ad Atene all’epoca della morte di Ipparco, quando Ippia, spaventato dall’accaduto, impose una serie di provvedimenti restrittivi tra cui il disarmo forzato dei cittadini. Fu allora che Clistene e la sua famiglia assunsero decisamente la guida delle forze ostili alla tirannide. Dall’esilio dove si trovavano, organizzarono una prima spedizione contro Ippia, che fu un insuccesso. Tuttavia, se gli Alcmeonidi avevano imparato qualcosa dalle lotte del passato, era che, per trionfare nella politica greca, occorreva il sostegno dell’oracolo di Delfi.
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CON LE RIFORME DI CLISTENE i cittadini ateniesi furono suddivisi in dieci grandi tribù (phylai), contro le quattro (Argadei, Egicorei, Geleonti, Opleti) delle epoche precedenti. Queste tribù costituivano il fondamento dell’organizzazione statale ed erano a loro volta spartite in tre grandi distretti (trittie), formati rispettivamente dagli abitanti dell’entroterra, della costa e delle città dell’Attica. Ciascuna trittia comprendeva poi tre gruppi di demi, circoscrizioni locali guidate da un magistrato e dotate di una certa autonomia amministrativa. Con questa suddivisione Clistene mirava a spezzare i legami di fedeltà tra le famiglie e i clan aristocratici in favore di una piena adesione allo Stato. Ogni tribù eleggeva 50 rappresentanti da inviare nel Consiglio o Boulé, costituito in tutto da 500 membri, che a loro volta designavano 50 pritani. Si stabilì anche la presenza di nove arconti e un segretario, in totale uno per tribù, e di dieci strateghi. Le sedi di queste istituzioni si trovavano tutte nell’agorà, lungo il cammino verso la collina di Pnice, dove si riuniva l’AsSTELE SCOLPITA CON UN DECRETO CONTRO LA TIRANNIDE. 337 A.C., MUSEO DELL’AGORÀ, ATENE. semblea, o Ekklesía, dei cittadini.
1 PNICE Su questa collinetta a ovest dell’Acropoli si riuniva l’Assemblea dei cittadini. Pericle e Alcibiade tennero qui i loro più celebri discorsi.
2 TRIBUNALE
I magistrati giudicavano i casi insieme a giurati popolari, sorteggiati tra le dieci tribù che costituivano la base di tutta la società ateniese.
5 AREOPAGO
Formato dai vecchi arconti, il Consiglio dell’Areopago si riuniva sulla collina di Ares, nei pressi dell’Acropoli. I suoi enormi poteri furono ridotti da Clistene.
6 STRATEGHEION
In questo edificio si riunivano i dieci strateghi di Atene, uno per tribù, eletti per un anno, con funzioni militari, amministrative e persino legislative.
PRITANI ARCONTI
AREOPAGO (non elettivo)
TRIBUNALE (Dikasteria)
CONSIGLIO (Boulé)
STRATEGHI
ASSEMBLEA (Ekklesía) All’epoca del governo dell’aristocrazia si riuniva soltanto in casi eccezionali. Clistene fu il primo a far sì che approvasse le leggi e funzionasse come tribunale. POPOLO (demos) Alla fine del V secolo a.C. Atene era abitata da 22.000 cittadini, suddivisi in dieci tribù o phylai chiamate con i nomi di dieci eroi ateniesi. Le tribù scelgono
La Boulé sceglie
I NON CITTADINI
Ampi settori della società ateniese non avevano diritti politici ed erano esclusi dal voto: donne, meteci (ovvero stranieri) e schiavi.
3 THOLOS
Era la sede dei “pritani”, cinquanta magistrati che a turno presiedevano la Boulé per un mese. Non va confuso con il Pritaneo, sede del focolare sacro.
4 BOULEUTERION
In questo edificio, autentico fulcro della democrazia cittadina, si riuniva la Boulé, il Consiglio di Atene. Nel 415 a.C. la città ne edificò uno nuovo.
A CURA DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE. ©ÉDITIONS ERRANCE
LA GEOGRAFIA DEL POTERE
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IL PORTICATO DI ATTALO L’agorà era il centro politico e commerciale di Atene. Sul lato orientale di questa piazza, nel 140 a.C., fu edificata la Stoà di Attalo, un porticato su due livelli, lungo 116 metri, donato dal re di Pergamo Attalo II.
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Così investirono parte delle loro (considerevoli) ricchezze nella ricostruzione del tempio che lo ospitava, distrutto da un incendio, e in cambio ricevettero dalla Pizia – la profetessa di Apollo – l’aiuto desiderato. Narra Erodoto nelle Storie: “Ottennero dalla profetessa di Delfi, corrotta con il denaro, che ogniqualvolta gli Spartani si fossero presentati al tempio per un responso, l’oracolo annunciasse loro la richiesta degli dei di liberare Atene”. Alla fine il re lacedemone Cleomene I, “ricevendo sempre lo stesso vaticinio”, si convinse di dover obbedire agli dei e ordinò di abbattere il tiranno ateniese. Quando gli Spartani mobilitarono le forze della Lega peloponnesiaca, su cui signoreggiavano, Ippia si sentì perso. In cambio della libertà accettò perciò di lasciare Atene e si rifugiò a Sigeo, una città anatolica sulla quale avrebbe governato fino al 490 a.C. in quali-
tà di vassallo dell’imperatore persiano. Ad Atene, intanto, dopo l’espulsione del tiranno, avevano iniziato a fronteggiarsi due fazioni: quella di Clistene, della dinastia degli Alcmeonidi, e quella di Isagora, figlio di Tisandro, anch’egli appartenente a una casata illustre.
Lo scontro con Isagora I due partiti rappresentavano visioni politiche contrapposte: Clistene, con l’appoggio della plebe, propugnava una serie di riforme di tipo democratico, che si proponevano di allargare la partecipazione popolare a scapito dei clan nobiliari che da secoli monopolizzavano la vita politica ateniese. Isagora, all’opposto, mirava a instaurare un regime aristocratico, e per questo chiese aiuto al re di Sparta Cleomene I, accusando Clistene di empietà per l’antica maledizione che gravava su di lui come su tutti gli Alcmeonidi.
UN NUOVO GOVERNO
LE RIFORME DI CLISTENE istituirono ad Atene una democrazia basata sulla partecipazione diretta di tutti i cittadini. Nella capitale attica, qualsiasi cittadino poteva essere eletto per un incarico politico o giudiziario e difendere le sue idee all’Assemblea generale. Le leggi potevano nascere su iniziativa privata, anche se era poi il Consiglio dei 500, formato dai rappresentanti delle dieci tribù istituite da Clistene, a vagliare le proposte e a trasformarle in leggi. Queste leggi erano poi sottoposte all’approvazione dall’Assemblea generale, cui potevano partecipare tutti i cittadini ateniesi.
I cittadini propongono una legge. Qualsiasi 1scrivendola cittadino ateniese poteva proporre una nuova legge, su una tavoletta e appendendola nell’agorà
presso il Monumento degli eroi eponimi, le statue degli eroi che davano il nome alle dieci tribù di Atene.
La discussione nel Consiglio o Boulé. 2 Il Consiglio dei 500 (Boulé), composto da 50 rappresentanti per ciascuna delle dieci tribù, discuteva le proposte, le trasformava in progetti di legge e convocava l’Assemblea generale per la loro votazione.
Il dibattito in Assemblea. 3all’Assemblea I cittadini ateniesi che partecipavano generale (Ekklesía) si
riunivano sulla collina della Pnice, vicino all’Acropoli. Al dibattito assistevano numerosi spettatori. Dopo il sacrificio di un maialino da latte iniziava la seduta, che poteva durare anche molte ore.
I discorsi e le votazioni. Gli oratori si 4 susseguivano uno dopo l’altro sulla tribuna. Un araldo invitava a parlare prima i cittadini di
La legge registrata. Una volta approvato, 5il decreto (con la data della votazione e il nome dei magistrati che l’avevano messo ai voti) veniva inciso nella pietra o in tavolette di legno. Poteva essere consultato da tutti i cittadini che lo ritenessero opportuno.
ILUSTRAZIONI: SANTI PÉREZ
età superiore ai 50 anni, poi tutti coloro che lo desideravano. Si procedeva quindi alla votazione della legge per alzata di mano (cheirotonia): prima i favorevoli, poi i contrari. Le votazioni si svolgevano sempre e solo di giorno, per evitare che l’oscurità potesse creare confusione nella conta dei voti.
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L’AGORÀ DI ATENE VISTA DAL LATO ORIENTALE ATTORNO AL 400 A.C., ILLUSTRAZIONE DI PETER CONNOLLY.
AGORÀ LO SCENARIO DELLA DEMOCRAZIA ATENIESE AD ATENE L’AGORÀ (piazza principale) era il fulcro della
vita politica ed economica cittadina. Vi si trovavano palazzi pubblici e tribunali, negozi, botteghe e le stoài, edifici a portici sotto le cui colonne gli Ateniesi amavano riunirsi per discutere di affari o di politica. Questa ricostruzione dell’agorà, eseguita dallo storico Peter Connolly, mostra l’aspetto della piazza nel 400 a.C. 26 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
1 Pnice
3 Eliea
Era l’emiciclo dove, sin dai tempi di Clistene, si riuniva l’Assemblea generale; in precedenza la cittadinanza si raccoglieva nell’agorà. Alla fine del IV secolo a.C. la Pnice poteva ospitare fino a 24.000 cittadini.
Era la sede del tribunale popolare di Atene, dove si discutevano le cause che non riguardavano fatti di sangue. Era formata da 6000 cittadini volontari, 600 per ognuna delle dieci tribù di Atene, tutti superiori ai trent’anni.
2 Stoà sud
4 Eroi eponimi
Questo porticato, lungo oltre 93 metri, fu costruito alla fine del V secolo a.C. È situato accanto al Ninfeion, nome che gli archeologi hanno dato a un edificio dove sorgeva una fonte. Lì gli Ateniesi si rifornivano di acqua.
Monumento in onore degli eroi da cui traevano il nome le dieci tribù ateniesi. Sotto ogni eroe erano esposti avvisi per i cittadini di quella tribù, l’elenco dei soldati mobilitati e le leggi in procinto di essere votate dall’Assemblea.
PETER CONNOLLY / AKG / ALBUM
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5 Strategheion
7 Nuovo Bouleuterion
9 Tempio di Efesto
L’edificio quadrangolare qui raffigurato era la sede del collegio dei dieci strateghi, i generali (uno per ogni tribù) che guidavano le truppe della polis. Poteva quindi trattarsi del “quartier generale” dell’esercito ateniese.
Dal 415 a.C. circa fu la sede del Consiglio dei 500, che convocava l’Assemblea popolare e preparava gli argomenti da dibattere. I suoi componenti venivano sorteggiati da una lista di candidati scelti dalle tribù.
La spianata dell’agorà si estendeva alle pendici della collina Kolonos Agoraios, in cima alla quale si trovava il tempio di Efesto (V secolo a.C.), a pianta rettangolare. Intorno al tempio vi erano le officine di fabbri e bronzisti.
Via Panatenaica Scenario della solenne processione che si svolgeva durante le feste Panatenee, questa strada attraversava l’agorà unendo l’Acropoli alla porta di Dipylon, lungo la cinta muraria. Di lì partiva la Via Sacra per il Tempio di Eleusi.
6 Tholos
8 Antico Bouleuterion
Questa costruzione circolare è stata identificata con il Tholos dove si riunivano i 50 pritani, cioè i membri del Consiglio dei 500 (Boulé) scelti per gestire gli affari di Stato per una decima parte dell’anno (36 giorni).
La sede originaria del Consiglio dei 500 era un edificio quadrato di circa 23 metri di lato, ricostruito intorno al 460 a.C. Dopo l’edificazione del nuovo Bouleuterion , fu trasformato nell’archivio di Stato.
Stoà di Zeus Era dedicata a Zeus Eleuterio, cioè “Liberatore”, attributo principale del dio. La sua costruzione durò dal 430 al 408 a.C. Diversamente dalle altre stoài, era completato da due ali sporgenti rispetto alla facciata principale.
Stoà poikile Le mura di questa stoà, edificata dopo la ritirata dei Persiani da Atene (480 a.C. circa), erano ornate con dipinti (stoà poikile significa appunto “portico dipinto”) che raffiguravano imprese belliche della storia cittadina. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LI ALCMEONIDI sostenevano di discendere da Alcmeone, bisnipote di Nestore, uno dei leggendari eroi greci della guerra di Troia. Coinvolti sin dal VII secolo a.C. nella lotta per il potere, furono oggetto di critiche e maldicenze da parte delle altre famiglie aristocratiche di Atene, che guardavano con malanimo la loro popolarità presso le classi umili. Dopo la morte di Clistene, gli attacchi si moltiplicarono e i loro avversari giunsero a sostenere che gli Alcmeonidi avessero favorito i Persiani (e il tiranno Ippia, allora esiliato in Asia Minore) nella battaglia di Maratona (490 a.C.), inviando ai nemici un segnale luminoso mediante uno scudo utilizzato come specchio. Lo storico Erodoto smentisce questa diceria, non ritenendo possibile che gli Alcmeonidi desiderassero restaurare la tirannia dei Pisistratidi dopo aver fatto tanto per abbatterla. CORTEO DI ARCIERI PERSIANI, FREGIO IN MATTONI SMALTATI POLICROMI PROVENIENTE DAL PALAZZO IMPERIALE DI DARIO I, A SUSA (OGGI SHUSH, IN IRAN). VI SECOLO A.C., MUSEO DEL LOUVRE, PARIGI.
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GÜNTER GRAFENHAIN / FOTOTECA 9 X 12
ART ARCHIVE
UN CLAN CIRCONDATO DA MILLE SOSPETTI
LA COLLINA DIVENTATA SIMBOLO L’Acropoli è la massima espressione dell’Atene democratica: distrutta durante l’occupazione persiana del 480 a.C., fu ricostruita vent’anni dopo da Pericle.
Legato a Isagora da un’antica d’amicizia, Cleomene rispose positivamente al suo appello e, occupata Atene con un contingente militare, decretò l’esilio di Clistene. Inaugurò quindi una politica repressiva, che culminò nell’espulsione dalla città di settecento famiglie segnalate da Isagora come “sacrileghe”.
La profezia della sacerdotessa Racconta la leggenda che, quando Cleomene ebbe occupato l’Acropoli, si fermò a pregare dinnanzi all’altare di Atena. In quel momento comparve dinnanzi a lui la sacerdotessa della dea, che gli intimò: “Indietro, Spartano, indietro: guai a te se violerai questo tempio, nel quale non è lecito ai Dori mettere piede”. Gli Spartani cercarono di instaurare ad Atene un regime oligarchico, abolendo l’Assemblea e attribuendo tutto il potere a un Consiglio di 300 sostenitori di Isagora. Tuttavia in città il
Lo Stato riformato Richiamato dall’esilio, Clistene fu nominato arconte e, con il sostegno del popolo, tra il 507 e il 501 a.C. riformò lo Stato ateniese in senso democratico. L’idea era di placare le tensioni sociali mediante una riorganizzazione politica che sottraesse influenza ai clan nobiliari. A tale scopo Clistene introdusse una nuova suddivisione del popolo in dieci tribù; aumentò a 500 il numero dei componenti
della Boulé, il Consiglio creato da Solone; diede maggiore potere all’Assemblea generale (Ekklesía) e introdusse il sorteggio come metodo di attribuzione delle magistrature. Il principio-base delle sue riforme era l’“ isonomia”, l’uguaglianza di tutti i cittadini dinnanzi alla legge, termine che da allora avrebbe definito la democrazia ateniese. Alla sua morte, nel 492 a.C., Clistene fu onorato con solenni funerali e il suo nome si affiancò a quelli di Armodio e Aristogitone nel pantheon degli eroi della libertà. Un omaggio che il più celebre tra gli Alcmeonidi aveva dimostrato di meritare: con le sue riforme politiche, infatti, egli aveva posto le basi della democrazia ateniese, e imposto quei principi di libertà e sovranità popolare che, molti secoli dopo, sarebbero stati fatti propri dal mondo occidentale.
IL RICORSO ALL’OSTRACISMO Ostrakon con inciso il nome di Temistocle. Il metodo dell’ostracismo consentiva di esiliare per dieci anni i nemici della città, scrivendo il nome dell’accusato su tondi di ceramica, gli ostraka.
AKG / ALBUM
sentimento democratico era assai forte, tanto che la popolazione finì per insorgere: l’Acropoli fu presa d’assalto e Isagora, protetto dagli Spartani, si asserragliò tra le sue mura. Dopo due giorni di assedio, i contendenti raggiunsero un accordo: Isagora ebbe salva la vita, ma in cambio dovette abbandonare la città e lasciare nelle mani della folla i 300 membri del suo Consiglio, che vennero trucidati.
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RENÉ-GABRIEL OJEDA / RMN
L’EROE DEGLI OPPRESSI Nella statua in bronzo dello scultore Denis Foyatier, Spartaco è idealizzato come un eroe rivoluzionario, paladino della libertà e di tutti gli oppressi della storia. 1847, Musée des BeauxArts, Lille, Francia. LO SPETTACOLO DELLA VIOLENZA Combattimenti di gladiatori in un affresco proveniente dalla villa romana di Dar Buc Ammera, nei pressi del sito archeologico di Leptis Magna (Libia). II sec. d.C., Museo della Jamahiriya, Tripoli.
CORBIS
LO SCHIAVO CHE SFIDÒ ROMA
SPARTACO Per alcuni storici fu solo un bandito, per altri un eroe della libertà. Ma la rivolta animata da Spartaco nel 73 a.C. fu una delle minacce più gravi che la Roma repubblicana si trovò ad affrontare nel corso della sua storia FERNANDO LILLO REDONET
GIOVANNI RINALDI
RICERCATORE IN FILOLOGIA CLASSICA E SCRITTORE
I
l giorno in cui fu condotto a Roma per esservi venduto, “uno schiavo trace vide in sogno un serpente che gli si attorcigliava sul viso. La sua donna, una sacerdotessa di Dioniso, vaticinò che l’inquietante visione indicava un potere a cui sarebbe seguita una fine sventurata”. Il nome di quella donna non si è mai saputo, ma quello dello schiavo sì: Spartaco.
PRISMA
Il sogno di Spartaco è raccontato dal greco Plutarco nella sua Vita di Crasso, una delle fonti maggiormente attendibili per conoscere le vicende dello schiavo più famoso della storia. A creare per primi il mito dell’invincibile gladiatore che attentò all’Impero furono proprio gli autori classici. I riferimenti a Spartaco nei loro scritti sono in genere brevi e spesso non coincidenti. Esistono comunque almeno due tradizioni storiografiche: una favorevole allo schiavo trace, rappresentata dai greci Plutarco e Appiano di Alessandria, che in qualche modo idealizzano il personaggio; e un’altra più critica, sostenuta da storici romani come Livio e Lucio Anneo Floro, secondo i quali la rivolta fu un semplice episodio di brigantaggio. Circa cinque secoli dopo la morte di Spartaco, Sant’Agostino, nella sua opera La città di Dio, ripercorreva l’intera vicenda, spendendo parole di disprezzo nei confronti dei ribelli, descritti come un’orda devastatrice. A metà del XIX secolo, invece, Spartaco divenne un mito per il nascente movimento operaio: lo schiavo ribelle in lotta contro l’oppressione.
La fuga da Capua BUSTO DI POMPEO MAGNO Il generale Gneo Pompeo Magno, qui in un busto del XVIII secolo, copia di un originale romano, annientò con le sue truppe i 5000 schiavi sopravvissuti alla disfatta di Spartaco contro Crasso. 32 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Quella di Spartaco fu l’ultima di una serie di guerre servili che interessarono Roma tra il 136 a.C. e il 71 a.C. In quel periodo la Repubblica era indebolita dalle ripetute guerre di conquista, oltre che dalla difficoltà di gestire gli immensi territori assoggettati. Per di più i continui trionfi militari avevano fatto affluire in Italia un numero enorme di schiavi, che vivevano in condizioni disumane covando sogni di rivalsa. Nel 73 a.C., mentre una carestia fiaccava l’Urbe e i suoi eserciti erano impegnati nel Ponto
contro Mitridate e in Spagna contro Sertorio, a Capua, presso l’attuale Caserta, scoppiò una ribellione. Ebbe origine nella celebre scuola di gladiatori di Gneo Lentulo Batiato, dove una settantina tra schiavi galli o traci riuscirono a fuggire e a rifugiarsi nei territori intorno al Vesuvio. I capi del gruppo erano tre: Spartaco, di origine tracia, Crisso ed Enomao, di origine gallica o germanica. Secondo alcuni storici, Spartaco era il “generale”, mentre altri ritengono che condividesse il comando con i due compagni. In ogni caso, poiché nei racconti di Plutarco e Appiano – i più dettagliati al riguardo – il primato è attribuito a Spartaco, fu il suo nome a restare nella memoria dei posteri.
Una personalità controversa Non è facile ricostruire la personalità di Spartaco. Plutarco, nella Vita di Crasso, presume che avesse ricevuto un’educazione greca, e che fosse dotato di forza e intelligenza. Invece Appiano, nella sua Storia Romana, ne offre un ritratto più controverso, raccontando per esempio di quando sacrificò trecento prigionieri per vendicare l’uccisione di Crisso. Lo stesso Appiano sostiene che, prima di entrare nella scuola gladiatoria, Spartaco avesse prestato servizio nell’esercito romano in Macedonia finché, dichiarato disertore, non fu ridotto in schiavitù e venduto come gladiatore. Anche lo storico Floro lo descrive come un disertore che, essendo dotato di straordinario vigore fisico, si riciclò come gladiatore. La versione di Sallustio, invece, è più benevola: Spartaco sarebbe stato un uomo prudente e colto, che dovette faticare non poco per contenere gli eccessi degli altri schiavi.
SHUTTERSTOCK
L’ANFITEATRO PIÙ GRANDE In occasione degli spettacoli gladiatori, sulle tribune romane del Colosseo – noto anticamente come Amphitheatrum Flavium – potevano trovare posto fino a 80.000 spettatori.
GIOVANNI SIMEONE
IL TEATRO DI TAORMINA Nel 72 a.C. Spartaco tentò di sbarcare in Sicilia e unire le sue forze a quelle di una locale rivolta di schiavi, ma non trovò navi per varcare lo Stretto. Sopra, il teatro romano di Taormina.
La sua mentalità di uomo libero, dunque, sarebbe da contrapporsi a quella di Crisso, che invece rappresenta colui che è schiavo per natura. Tutte queste interpretazioni testimoniano come già gli antichi oscillassero tra il considerare Spartaco un semplice bandito e l’attribuirgli un carattere nobile, rendendolo dunque un degno avversario per l’esercito romano.
L’armata degli schiavi Se è difficile determinare la personalità di Spartaco, ancora più complesso è spiegare gli obiettivi della sua rivolta. Lasciata Capua, i fuggitivi si raccolsero sulle pendici del monte Vesuvio (fu l’eruzione del 79 d.C. a dimostrare che si trattava di un vulcano). In origine il gruppo era formato solo da gladiatori ribelli, cui in seguito si aggiunsero altri schiavi fuggiaschi e gruppi di braccianti e pastori della zona. I Romani inviarono ad affrontare gli insorti
34 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
il pretore Claudio Glabro con un contingente di 3000 uomini. Glabro assediò i ribelli bloccando l’unica via di fuga dalla montagna; ma gli schiavi, scoperti sui fianchi del monte alcuni vigneti selvatici, ne tagliarono i tralci e, intrecciandoli, costruirono delle scale per calarsi dalle ripide pareti del Vesuvio. In tal modo riuscirono ad aggirare il contingente di Glabro, lo attaccarono alle spalle e lo misero in fuga. Dopo questa prima vittoria, molti altri ribelli si aggregarono a Spartaco, che riuscì a raccogliere ben 70.000 uomini. Questa grande armata affrontò poche settimane dopo le legioni del pretore Publio Varinio, inviato a sostituire Glabro, e inflisse loro una memorabile sconfitta. A questo punto, nel 72 a.C., il Senato, allarmato dalle dimensioni raggiunte dalla rivolta, inviò contro Spartaco i consoli Lucio Gellio Publicola e Gneo Lentulo Clodiano, che decisero di adottare una tattica di accerchiamento.
L
A DECISIONE di Spartaco di portare il suo
SCALA, FIRENZE
contingente di ribelli nell’Italia settentrionale, lungo le coste adriatiche, ha suscitato la curiosità sia degli storici antichi sia di quelli contemporanei. Alcuni hanno ipotizzato che vi fosse in merito un contrasto tra i due capi della rivolta: mentre Crisso, interessato solo al bottino, voleva restare nell’Italia meridionale per razziarne i territori, Spartaco progettava di attraversare le Alpi per riportare nelle loro terre d’origine gli schiavi galli e traci. Questa idea fu forse attribuita a Spartaco, ritenuto un barbaro, poiché i Romani presumevano che tutti gli stranieri desiderassero tornare in patria. Inoltre, il progetto di attraversare le Alpi evocava le gesta di Annibale, che aveva compiuto il tragitto inverso circa 150 anni prima. I Romani dunque associarono le figure dei due condottieri, accomunati dal coraggio di sfidare Roma sul proprio territorio. Alcuni studiosi moderni contestano tuttavia il fatto che Spartaco volesse davvero valicare la catena alpina, e ritengono che il tutto sia frutto di un’invenzione degli storici romani per dare maggior dignità alla rivolta.
Piacenza en enz nza
Verona naa n
Aquileia Aquile Aqu ileia eia
Padova Modena Mo M odena od o de ena n
Genova nov
Rimini imin ni n Pisa sa
Ancona ncona nco
Arezzo
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A Atri ROMA
Capua C Cap ap pua pu p uaa Nola
Venosa V Ve e en no a nosa n Brindisi Picentia
Nocera N Cosenza Co C osenz os o enza enz nza Temesa Tem TTe emesa emesa essa sa Hipponion H Hipp Hip ip pp po onion onion
Movimenti iniziali M dei d de e eii ribe ribelli lli ((inverno (inv (i erno rno 73-72 73 73-72 a.C.) a.C.) C) Marcia Marc M ia degli degli schiavi schiavi vverso ve e erso ers rso nord nord d (72 (72 aa.C.) .C.) C)
Palermo erm mo
Metaponto Me ettap pont po ntto Thurio TTh hu h urio u rio io
Messina Me essin Catania C
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SSpartaco accerchiato Sp a sud (71 a.C.)
CARTOGRAFIA: EOSGIS
SPARTACO NUOVO ANNIBALE
Saccheggio SSa acc aac cch cc hegg h egg eggi ggio ggio io Battaglia Batta Batt Ba B aatt ttagli gllia gl Vallo Va Vall V allo allllo di di Cr Cra Crasso Cra raass sso so
LA MORTE DI SPARTACO IN UN’ILLUSTRAZIONE DEL DISEGNATORE FRANCESE (MA DI ORIGINE TEDESCA) HERMANN VOGEL. XIX SECOLO, LONDRA.
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LA RIVOLTA DI SPARTACO fu preceduta da altre due guerre servili. La prima scoppiò tra il 136 e il 132 a.C., in Sicilia. A capo dei ribelli vi era il siriano Euno che, eletto re dagli schiavi insorti, prese il nome di Antioco e creò a Enna una propria corte. Sorpresi dall’accaduto, i Romani subirono ripetute sconfitte, prima di riorganizzarsi e catturare Euno, che morì in prigione. Tra il 104 e il 99 a.C. si ebbe in Sicilia una seconda rivolta, guidata da Salvio: questa volta la reazione di Roma fu immediata, ma la rivolta terminò comunque dopo cinque anni con la morte dei suoi capi e il suicidio di massa degli schiavi catturati.
IL SACCHEGGIO DEL TEMPIO Il dipinto di G. Battista Pittoni (1743) raffigura il saccheggio del Tempio di Gerusalemme (54 a.C.) da parte dei legionari di Crasso, divenuto governatore d’Oriente dopo la vittoria su Spartaco.
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Gellio si diresse a sud, per tagliare la strada ai ribelli diretti in Sicilia e spingerli verso nord. Lentulo, a sua volta, si stanziò nel Piceno (le attuali Marche) per intercettare il nemico. Le legioni di Gellio attaccarono Crisso e il suo esercito in Puglia: nella battaglia del Gargano morirono lo stesso Crisso e 20.000 schiavi. Spartaco si trovò allora a fronteggiare da solo entrambi i consoli, che sconfisse separatamente “di qua e di là dell’Appennino”. Poi, dopo aver immolato 300 prigionieri romani come ritorsione per la morte di Crisso, risalì l’Italia fino a Modena, dove sbaragliò le truppe di Caio Cassio, proconsole della Gallia Cisalpina. Era aperta a questo punto la via per le Alpi, e quindi per il rimpatrio dei suoi compagni d’armi celtici, germanici e slavi. Ma Spartaco decise di tornare indietro. Sono state proposte varie ipotesi per spiegare i motivi di questa scelta. È probabile che lo schiavo trace non intendesse
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LE PRIME GUERRE SERVILI
davvero valicare le Alpi, oppure che la mancanza di viveri lo inducesse a tornare al sud, dove poteva trovare buoni supporti logistici. Spartaco così percorse di nuovo la Penisola lungo il litorale adriatico e giunse fino in Lucania.
La riscossa di Roma Intanto, però, qualcosa era cambiato a Roma. Fino ad allora, i successi degli schiavi erano stati favoriti certo dalla loro superiorità numerica e dalla tattica di guerriglia, ma anche dalla mediocrità dei generali che li avevano affrontati. Infatti, in quel momento, i due migliori comandanti romani si trovavano fuori d’Italia: Gneo Pompeo in Spagna e Marco Terenzio Varrone Lucullo in Oriente. I Romani decisero perciò di affidare la guida del loro esercito all’unico uomo che sembrava all’altezza dei due assenti: Marco Licinio Crasso. Membro della potente gens Licinia, Crasso era
ricchissimo e perciò motivato a far cessare al più presto i disordini degli schiavi, che danneggiavano agricoltura e commerci. D’altra parte, il suo grande rivale politico, Pompeo, stava sgominando il ribelle Sertorio in Spagna, e si attendeva a breve il suo trionfale ritorno. Crasso aveva quindi ogni interesse a sedare quanto prima la rivolta, per conservare un ruolo centrale nella politica romana. Forse la lotta contro gli schiavi ribelli non era l’occasione migliore per conseguire la gloria, ma poiché Spartaco veniva equiparato ad Annibale, Crasso, sconfiggendolo, sarebbe divenuto il nuovo Scipione, con tutto il prestigio conseguente. Se voleva ottenere la vittoria da solo, Crasso doveva tuttavia agire rapidamente. A tal fine, inviò in avanscoperta il suo luogotenente Mummio con l’ordine di tenere sotto stretta sorveglianza i movimenti dell’esercito ribelle, ma questi disobbedì, attaccò gli schiavi e
subì una vergognosa sconfitta. Furibondo, Crasso ristabilì a forza la disciplina tra i suoi uomini giustiziando cinquanta legionari ogni cinquecento con il sistema della verberatio (la fustigazione). Poi riprese la caccia a Spartaco. L’ex gladiatore si era ritirato verso l’Italia meridionale ed era giunto in Calabria, forse nella speranza di raggiungere la Sicilia, focolaio di nuove rivolte servili. Ma i corsari della Cilicia che avrebbero dovuto fornirgli le imbarcazioni di supporto lo tradirono. Nel frattempo i soldati romani avevano innalzato, all’altezza di Catanzaro, un muro di 55 chilometri dalla costa ionica a quella tirrenica, precludendo la via di fuga e i rifornimenti agli schiavi. Spartaco non si arrese facilmente e, approfittando di una notte di tempesta, spezzò l’accerchiamento. A questo punto i ribelli, esaltati dalla vittoria, non si trattennero dal saccheggiare i villaggi e le campagne circostanti.
SCUOLA PER GLADIATORI La palestra dei gladiatori di Pompei, costruita in epoca augustea: la rivolta di Spartaco ebbe origine in un’altra celebre scuola gladiatoria campana, quella di Capua, diretta da Gneo Lentulo Batiato.
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CRASSO FECE CROCIFIGGERE MIGLIAIA DI SCHIAVI LUNGO LA VIA APPIA, DA CAPUA FINO A ROMA ELMO IN BRONZO DA GLADIATORE, I SECOLO D.C., BRITISH MUSEUM, LONDRA.
Plutarco descrive così la situazione: “Fu un successo dunque, ma segnò la rovina di Spartaco. L’orgoglio si impadronì dei suoi schiavi. Non tollerarono più di dover evitare la battaglia né di ubbidire ai comandanti”. In quel momento decisivo, il Senato romano decise di inviare rinforzi a Crasso, cosicché Pompeo, appena rientrato in Italia, marciò dal centro Italia verso sud, mentre altre truppe di supporto sbarcavano a Brindisi. Spartaco, chiuso in una morsa, non poté far altro che affrontare subito l’esercito di Crasso, nell’anno 71 a.C. in Apulia (l’odierna Puglia).
L’ultima battaglia Ecco come Plutarco rievoca i momenti precedenti la battaglia: “Prima di tutto, si fece portare il suo cavallo e lo decapitò, dicendo che, se avesse vinto, avrebbe potuto avere buoni cavalli in abbondanza, e che, se avesse perso, non ne avrebbe più avuto bisogno”. Poi dispose i suoi uomini per la battaglia, che però si risolse in una disfatta: circa 60.000 ribelli restarono sul campo, contro soli 1000 Romani. Ancora Plutarco ci narra l’eroica morte di Spartaco: “Spingendosi quindi alla ricerca di Crasso, in mezzo alle armi e ai colpi, non lo poté raggiungere. Alla fine, mentre quelli intorno a lui fuggivano, fermo al suo posto e accerchiato da molti nemici, fu massacrato di colpi mentre ancora si difendeva”. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Crasso fece crocifiggere 6000 schiavi prigionieri lungo la via Appia, da Capua fino a Roma. Pompeo, frattanto, intercettava e sgominava i circa 5000 schiavi superstiti della battaglia. Crasso non osò chiedere il trionfo che si concedeva per le grandi imprese, e dovette accontentarsi della “ovazione”, una cerimonia di trionfo minore, nella quale il vincitore sfilava a piedi. Alcuni studiosi moderni, scettici sull’idealizzazione del personaggio proposta da Plutarco, hanno sminuito l’impatto reale della rivolta 38 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
di Spartaco sui contemporanei. Per questi storici, la rivolta non fu che una serie di atti di saccheggio compiuti da schiavi fuggiaschi, organizzati in bande separate, che agivano agli ordini di qualche caporione; tra questi, forse, Spartaco aveva il comando supremo. Per tre anni i ribelli misero sotto scacco un esercito romano debole, guidato da generali inetti e di scarsa esperienza, fino a che, una volta ristabilita la disciplina, le rivolte furono soffocate e i loro protagonisti sterminati. Secondo questi stessi autori, furono gli storici romani posteriori a voler ingrandire le proporzioni della rivolta, con evidenti fini propagandistici. In ogni caso, l’assenza di un obiettivo politico preciso, lo scarso appoggio ottenuto dalle città della Penisola e le inesauribili risorse della Roma repubblicana frustrarono qualunque speranza di successo dei ribelli. Il Senato, per accontentare Crasso e Pompeo, concesse loro il titolo di consoli nel 70 a.C., malgrado le severe leggi del cursus honorum lo proibissero. La politica romana negli anni successivi divenne una lotta personale per il potere, nella quale entrambi i vincitori della guerra a Spartaco finirono vittime della propria ambizione. Crasso perì combattendo contro i Parti, in Oriente; Pompeo morì più tardi, nella guerra civile scatenata contro Cesare. A Roma non vi fu più alcuna rivolta paragonabile a quella di Spartaco. Forse ciò fu dovuto alle maggiori possibilità di emancipazione concesse agli schiavi e al trattamento più umano che essi ricevettero durante l’Impero. In una delle sue lettere (l’Epistola 47 a Lucilio), il filosofo Seneca mette in evidenza proprio questo cambiamento: “Ho saputo che vivi in amicizia con i tuoi schiavi: ciò si addice alla tua saggezza e alla tua cultura. ‘Sono schiavi’. No, sono uomini. ‘Sono schiavi’. No, vivono nella tua stessa casa. ‘Sono schiavi’. No, compagni di schiavitù, se consideri che la Fortuna ha lo stesso potere sugli uni e sugli altri”.
GLI SCHIAVI NELL’ANTICA ROMA
Trattati alla stregua di merci, privi di qualsivoglia diritto, gli schiavi costituivano una riserva inesauribile di mano d’opera a basso costo da utilizzare nei campi e nelle miniere della Roma repubblicana e imperiale
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UN ISTITUTO ARCAICO
A Roma la schiavitù subì un’evoluzione nel corso dei secoli. In epoca arcaica si trattava di un istituto in virtù del quale lo schiavo, spesso un prigioniero di guerra, invece di essere ucciso veniva per l’appunto servatus, “salvato”, da cui deriva il termine stesso di schiavo (servus in latino). Non a caso la figura dello schiavo in questo periodo era assimilabile a quella del servo.
AL SERVIZIO DELLE FAMILIAE
Come scrive Mario Dogliani, autore del saggio Spartaco. La ribellione degli schiavi, in epoca regia gli schiavi vivevano “in quella struttura gentilizia che ruotava intorno alla figura del pater familias”. D’altronde proprio il tipo di economia su cui si fondava l’Urbe prevedeva una classe di lavoratori subalterni al servizio delle familiae, strutture agricole sottoposte al potere del pater.
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EQUIPARATI AD ANIMALI
Le leggi dell’età repubblicana, come le XII tavole compilate tra il 451 e il 450 a.C. o la Lex Aquilia del 286 a.C., attestano quanto poco considerati fossero gli schiavi a Roma. Nel primo corpo di leggi vi è una norma che prevede una multa di 150 sesterzi per chi ferisce uno schiavo, contro i 300 previsti per un uomo libero. Il secondo codice equipara lo schiavo a un animale.
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PIÙ MANSIONI, PIÙ FATICA
Sul finire del periodo repubblicano, Roma passò da un’economia fondata sulla piccola proprietà a un sistema imperniato sul latifondo. Ciò peggiorò di molto la condizione degli schiavi, anche perché nel frattempo aumentarono i compiti loro assegnati: non più solo il lavoro nei campi ma anche quello, massacrante, nelle miniere, e l’impiego come rematori sulle galee.
DA AUGUSTO AL TARDO IMPERO
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MINORANZE FORTUNATE
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I SERVI DELLA GLEBA
VENDITA DI UNA SCHIAVA A ROMA, OLIO SU TELA DI J.-L. GÉRÔME. 1884 CA., MUSEO DELL’HERMITAGE, SAN PIETROBURGO.
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PERIODO REPUBBLICANO
UN’ANCELLA CON IL VASSOIO DELLE OFFERTE DURANTE UN RITO D’INIZIAZIONE, AFFRESCO DEL I SECOLO A.C., POMPEI.
AISA
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Neppure l’avvento dell’Impero mutò le condizioni degli schiavi, vittime della crescente necessità di forza lavoro da parte di una metropoli ormai padrona del mondo. Ciò non significa che tutti gli schiavi vivessero in condizioni terribili: tra di loro vi erano dei soggetti più colti (spesso di origine orientale) che venivano impiegati dai padroni nel commercio o negli affari.
L’avvento del Cristianesimo, pur accrescendo la sensibilità nei confronti delle condizioni miserabili degli schiavi, non riuscì tuttavia a modificare una situazione consolidata da secoli. L’economia dell’Impero continuò a fondarsi largamente sull’impiego di forza lavoro a basso costo, un sistema sociale ereditato anche dal Medioevo quando gli schiavi si trasformarono in servi della gleba.
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L’EPOCA DEI SETTE RE
LAVORI AGRICOLI IN UNA VILLA ROMANA, AFFRESCO DEL II SECOLO D.C., RHEINISCHE LANDESMUSEUM, TREVIRI.
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WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
LA PUNIZIONE DEI RIBELLI Un esercito nobiliare assalta una città e i contadini che lavorano nei campi. Miniatura quattrocentesca attribuita al “Maestro di Jean de Dunois”, Musée Condé, Chantilly (Francia).
IN LOTTA CONTRO LA NOBILTÀ
LE RIVOLTE CONTADINE I privilegi nobiliari, gli abusi dei signori feudali, l’impoverimento causato dalle guerre e dalle carestie diedero origine a una serie di rivolte contadine che, tra il XIV e XV secolo, insanguinarono l’Europa ALBERTO RECHE ONTILLERA PROFESSORE DELL’UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA
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“
oco tempo dopo la liberazione del re di Navarra, alcuni contadini, senza capi, si riunirono nella zona di Beauvais. All’inizio non erano neanche in cento, e dicevano che tutta la nobiltà di Francia tradiva il regno, e che andava distrutta. Ognuno di essi disse: ‘Questa è la verità: vergogna a chi non vuole la distruzione dei nobili’. Allora si misero insieme e se ne andarono, senza altro consiglio e senza armi, tranne che mazze ferrate e coltelli, nella casa di un cavaliere; entrarono a forza nell’abitazione e uccisero il cavaliere, la moglie e i figli, poi bruciarono la casa”. Così lo storico Jean Froissart (1337-1405), nelle sue Chroniques, racconta l’inizio della Grande Jacquerie, l’insurrezione contadina che scosse la Francia nel 1358. Per Froissart, voce del mondo cortigiano, la Jacquerie altro non era stata che un’occasionale rivolta delle popolazioni agricole alla legittima autorità signorile; ma gli eventi successivi, con il moltiplicarsi delle insurrezioni in tutta Europa, dimostrano come dietro la protesta ci fossero in realtà ragioni più profonde, legate al malcontento dei braccianti per l’eccessivo sfruttamento.
Le rivolte contadine, in Europa, non erano certo una novità. Prima della Grande Jacquerie, infatti, sollevazioni analoghe vi erano state in epoca carolingia, e poi, a intervalli quasi regolari, nel X, XI e XII secolo. La natura stessa del regime feudale – un sistema attraverso il quale la nobiltà controllava la proprietà terriera ed esercitava la propria giurisdizione sui contadini – non poteva che produrre forti tensioni: sui braccianti ricadeva infatti il peso gravoso della coltivazione dei campi, ma i prodotti del loro lavoro andavano quasi totalmente a beneficio dei signori feudali, che se ne appropriavano attraverso tasse, gabelle, multe, o, più semplicemente, con la forza. 42 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
BIBLIOTHÈQUE NATIONALE PARIS / ART ARCHIVE
Gli abusi dei feudatari
NOBILTÀ ALLA RISCOSSA Occupata dai contadini ribelli nel giugno del 1358, la città francese di Meaux fu “liberata” dalle truppe nobiliari poche settimane dopo. Miniatura del XV secolo, Bibliothèque nationale de France, Parigi.
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LA GRANDE
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LA RIBELLIONE DEI JACQUES
SCALA, FIRENZE
Caccia alla nobiltà L’odio verso la nobiltà spinse i ribelli della Grande Jacquerie a orribili violenze. Froissart riferisce episodi spaventosi, come la morte di un cavaliere ucciso nella sua casa e poi bruciato dinnanzi ai figli.
IL PRETE CHE VOLEVA LA RIVOLUZIONE
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OHN BALL (1338-1381) fu, insieme a Wat Tyler, uno dei capi della Peasant’s Revolt, la rivolta dei contadini inglesi divampata nel 1381. Seguace del controverso teologo John Wycliffe, con le sue prediche incendiarie Ball mise in discussione il sistema feudale e le sue gerarchie. Questi sermoni valsero al prete la scomunica da parte dell’arcivescovo di Canterbury, ma non lo fermarono; egli continuò a predicare nei prati o nelle piazze al centro dei villaggi. È celebre il suo discorso su Adamo ed Eva: “Quando Adamo arava ed Eva filava, chi era allora il nobile? Fin dal principio tutti gli uomini per natura furono creati uguali e la nostra servitù è frutto dell’ingiusta oppressione di uomini malvagi. Infatti, se Dio avesse voluto la schiavitù, avrebbe designato lui stesso chi dovesse essere schiavo e chi libero. Per questo vi dico che è giunto il momento, concesso da Dio, di sottrarvi al peso della schiavitù e ritornare liberi”. ADAMO ED EVA RAPPRESENTATI NELLE VESTI DI CONTADINI, CAPITELLO ROMANICO DELLO SCULTORE LOMBARDO BENEDETTO ANTELAMI, XII SECOLO, GALLERIA NAZIONALE, PARMA.
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In questa condizione di sudditanza economica e giuridica, le comunità agricole reagirono sviluppando un forte senso d’identità, nutrito dell’odio verso la nobiltà e della diffidenza nei confronti degli stranieri. Benché composte da individui di status sociale e ricchezza differenti, esisteva nelle comunità rurali del XIV e XV secolo una sostanziale coesione, garantita dalla coscienza dello sfruttamento di cui tutti i lavoratori dei campi erano vittime e dalla necessità di fare fronte comune contro i nemici esterni. Un sentimento collettivo di rabbia e di paura che fece da propellente alle innumerevoli (e spesso sanguinose) rivolte rurali esplose in Europa durante il Basso Medioevo: dalla Grande Jacquerie francese del 1358, alla Peasant’s Revolt inglese del 1381, fino alla Guerra de los Remenças catalana del 1462. Tutte manifestazioni di un comune disagio, di un senso laten-
JACQUERIE, LA RIVOLTA DELL’ODIO
La grande repressione Una volta riavutisi dalla sorpresa, i nobili francesi si mobilitarono per stroncare la rivolta. Secondo fonti dell’epoca, le marce punitive dei loro eserciti contro le città e i villaggi occupati dagli insorti fecero 20.000 vittime in appena due settimane.
te di frustrazione che, quando le condizioni lo resero possibile, si trasformò in aperta contestazione di un sistema politico ed economico – quello feudale – i cui squilibri non si era più disposti a tollerare passivamente.
La Grande Jacquerie Nel 1358 la Francia, alle prese con la Guerra dei cent’anni, viveva momenti drammatici. Al costante aumento delle imposte si univa infatti il discredito di una nobiltà arrogante e litigiosa, incapace di far fronte comune contro gli eserciti inglesi. In più il prezzo del grano continuava a scendere, impoverendo i contadini, e città e villaggi erano soggetti a frequenti scorrerie da parte di bande mercenarie. Questo insieme di tensioni esplose di colpo nel maggio del 1358, probabilmente a seguito di una nuova imposta introdotta dai feudatari per finanziare la guerra. Fu allora che, nelle
L’esecuzione di Guillaume Cale Dopo la decapitazione di Cale, capo della rivolta, la Jacquerie fu soffocata. Seguì una feroce repressione, e il rafforzamento delle misure di sorveglianza nelle campagne, per prevenire ulteriori sommosse. I presunti ribelli venivano giustiziati alla cattura, senza processo.
campagne della Francia settentrionale, ebbe inizio una rivolta ribattezzata Grande Jacquerie. Il termine deriva dal soprannome canzonatorio con cui i nobili si rivolgevano ai contadini francesi: Jacques Bonhomme, “Giacomo Buonuomo”. Ma all’insurrezione non parteciparono solo braccianti, bensì anche piccoli proprietari terrieri, artigiani e perfino i mercanti di Parigi, ostili alla nobiltà. Sotto la guida di Guillaume Cale, la rivolta dei Jacques si estese dalla Piccardia, dov’era nata, a quasi tutto il Nord della Francia. Froissart descrive bene il clima di terrore prodotto dagli attacchi dei ribelli: “Ogni cavaliere e dama fuggiva da loro. Le dame conducevano i figli dieci o venti leghe lontano, dove potevano stare al sicuro, e lasciavano le case incustodite, con i loro averi.
IL SOVRANO A CAVALLO Moneta d’oro del XIV secolo con l’effigie a cavallo di Giovanni II il Buono: il re francese, catturato dagli Inglesi durante la battaglia di Poitiers (1356), era imprigionato a Londra all’epoca della Grande Jacquerie.
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IMPRESSIONÒ PROFONDAMENTE I CONTEMPORANEI PER LA SUA BRUTALE VIOLENZA
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LA FORTEZZA DEL POTERE Edificata nell’XI secolo, all’epoca della rivolta contadina del 1381 la Torre di Londra fungeva da fortezza reale. Assediata dagli insorti, fu saccheggiata quando Riccardo II se ne allontanò per incontrare Wat Tyler.
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E quei miserabili, riuniti in bande, rubavano e bruciavano tutto, uccidevano i nobili e violentavano le dame, senza pietà, come cani”. Dopo il terrore iniziale, la nobiltà francese trovò tuttavia la forza di reagire. I cavalieri riuniti cominciarono – è sempre Froissart a scriverlo – “a uccidere e fare a pezzi quei miserabili, e li impiccavano in massa agli alberi, dove li trovavano. Anche il re di Navarra ne sterminò in un giorno più di tremila”. Proprio Carlo II di Navarra, figura-chiave della politica francese di quegli anni, mise fine alla rivolta. Nella battaglia di Mello, in Piccardia, sconfisse l’armata dei contadini, poi finse di voler negoziare la pace con il loro capo, Guillaume Cale; ma quando questi si presentò, Carlo II, affermando che il codice d’onore si applicava solo ai cavalieri, lo catturò e lo fece torturare a morte. Dopo questo evento, i Jacques si dispersero,
mentre le truppe reali davano la caccia e giustiziavano chiunque fosse sospettato di complicità con i ribelli. La Jacquerie era durata solo due settimane; ma tanto era bastato perché il suo contagio “infettasse” altri Paesi europei.
La rivolta inglese del 1381 Nel XIV secolo, le condizioni di vita dei contadini inglesi erano andate peggiorando, vuoi per l’epidemia di peste nera che flagellava il Paese, vuoi per la Guerra dei cent’anni. Tuttavia la nobiltà feudale non appariva disposta a rinunciare ai propri privilegi; anzi, poiché la peste nera, falcidiando la manodopera, aveva diminuito sensibilmente la resa dei campi, essa tendeva a rivalersi sui sopravvissuti, appesantendo tributi e corvée a loro carico. Nel 1381, l’andamento negativo della guerra, unito a una pressione fiscale fuori controllo, alimentarono la rabbia dei contadini. Venti
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di rivolta si levarono nelle campagne inglesi, stimolati anche dalla diffusione di credenze millenaristiche secondo le quali, dopo la fine della peste, sarebbe venuto un secondo Cristo a sanare tutte le ingiustizie sociali. Le tensioni latenti esplosero infine il 30 maggio 1381, quando l’arrivo in un villaggio dell’Essex – contea a sudest di Londra – di un ufficiale reale incaricato di riscuotere a forza i tributi locali, scatenò la rivolta. In pochi giorni l’insurrezione si estese a tutto il sud del Paese e i nomi dei suoi due capi, Wat Tyler e John Ball, divennero popolarissimi. Radunatisi nella valle del Tamigi, gli insorti decisero di marciare sulla capitale, per esporre le proprie ragioni direttamente al re Riccardo II, allora solo quattordicenne. Il 13 giugno l’armata contadina giunse a Londra, dove le si aggregarono molti abitanti della città. In breve iniziarono le violenze: approfittando dell’as-
LA MORTE DI WAT TYLER, ucciso dal sindaco di Londra mentre trattava con Riccardo II, pose termine alla rivolta inglese del 1381. Sembra che i contadini, quando videro Tyler cadere, si prepararono alla battaglia; ma il re si rivolse loro dicendo: “Tyler era un traditore. Sarò io il vostro capo”. Confusa, la folla si disperse e, più tardi, fu attaccata dalle truppe reali. L’UCCISIONE DI WAT TYLER A SMITHFIELD, MINIATURA DEL XV SECOLO, BRITISH LIBRARY, LONDRA.
senza delle truppe reali, impegnate contro i Francesi, le bande contadine misero a ferro e fuoco la capitale, massacrando chiunque ritenessero legato o complice del governo. Il 14 giugno Riccardo II, nel tentativo di riportare l’ordine, incontrò i capi della rivolta, mostrandosi disponibile verso tutte le loro richieste; ma mentre il colloquio era in corso, altri ribelli penetrarono nella Torre di Londra, giustiziando due funzionari reali e l’arcivescovo di Canterbury, Simon Sudbury. I negoziati ripresero il 15 giugno a Smithfield, appena fuori dalle mura cittadine. E qui avvenne un fatto decisivo. Nel pieno delle trattative, il sindaco di Londra William Walworth, forse irritato dall’arroganza di Wat Tyler, sfoderò la spada e lo ferì mortalmente al collo. Lo sconcerto paralizzò i ribelli, che d’un tratto si videro circondati dalle guardie del re.
CONTADINO CON FALCETTO I contadini ribelli del XIV secolo erano armati con coltelli, asce e altre armi improvvisate. Qui sotto, rilievo in marmo raffigurante un contadino che impugna un falcetto. XII secolo, Parma.
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IVAN VDOVIN / AWL IMAGES
LA FINE DELLA RIBELLIONE
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PER POTER LASCIARE LA TERRA CHE COLTIVAVANO, I REMENÇAS DOVEVANO PAGARE UN TRIBUTO ELMO E BARBOZZA NOBILIARI REALIZZATI A INNSBRUCK NEL XV SECOLO.
I capi della sommossa vennero catturati e giustiziati sul posto, mentre la massa degli insorti, rassicurata da Riccardo II, lasciava pacificamente la città. The Peasant’s Revolt, la rivolta dei contadini inglesi, era così fallita. Ma quanto era accaduto aveva aperto gli occhi alla Corona , rivelandole la pericolosità delle masse rurali organizzate. Di qui un ripensamento complessivo dei rapporti giuridici tra nobiltà e braccianti agricoli, che negli anni a venire sarebbero stati affrancati dai vincoli di servitù e trasformati in fittavoli o lavoratori salariati.
In Spagna, le due più celebri rivolte contadine ebbero luogo nel 1462 e nel 1484. Entrambe furono animate dai Remenças, braccianti catalani sottoposti a pesanti condizioni di servaggio; in base ad antichi diritti feudali, i contadini de remença erano infatti vincolati alla terra che coltivavano: per abbandonarla dovevano pagare un tributo ai loro signori. Ciò costituiva una sostanziale limitazione della loro libertà, tanto più che la remença, essendo ereditaria, si trasmetteva di padre in figlio. Cosciente del malcontento causato da questa situazione, la Corona giocò per tutto il XV secolo il ruolo di arbitro tra la nobiltà e i contadini catalani. Nel 1448, Alfonso V il Magnanimo, dopo vari interventi contro abusi nobiliari, permise ai Remenças di organizzarsi in una sorta di sindacato; una decisione che gli valse il favore dei braccianti catalani i quali, di conseguenza, non ebbero dubbi su chi sostenere quando, alla morte di Alfonso, si scatenò una decennale guerra civile (1462-1472) tra il fratello del re Giovanni II e le cortes nobiliari. Sotto la guida di Francesc de Verntallat, un cavaliere favorevole al sovrano, nel 1462 i Remenças allestirono un proprio esercito, e con esso sfidarono più volte le armate nobiliari, in 48 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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La guerra dei Remenças
una rivolta dettata principalmente dal desiderio di strappare alla Corona nuovi benefici. Terminata la guerra, apparve tuttavia subito evidente come le speranze dei Remenças fossero state mal riposte: sia Giovanni II sia il figlio Ferdinando II d’Aragona, infatti, erano pochissimo interessati alle questione contadine, e la cosa deluse a tal punto i Remenças da generare una seconda rivolta. A guidarla fu stavolta Pere Joan Sala, ex luogotenente di Verntallat, che nel 1484 iniziò una guerra contro nobiltà e Corona partita trionfalmente ma conclusasi in una strage. E tuttavia, come in Inghilterra, anche in Catalogna la prova di forza tentata dal mondo rurale non fu inutile: nel 1486, infatti, venne promulgata la Sentenza Arbitrale di Guadalupa, con la quale Ferdinando II d’Aragona emancipava i Remenças dalla condizione di servi della gleba, liberandoli da quel complesso di servitù feudali chiamate “cattivi usi”.
ATTENTATO A BARCELLONA Il 7 dicembre del 1492, dinnanzi al Palazzo reale di Barcellona, un contadino di nome Joan de Canyamars tentò di uccidere il re Ferdinando II il Cattolico: forse era un remença deluso dal monarca spagnolo.
UN ESERCITO SPECIALE
UN NOBILE DÀ ORDINI A UN BRACCIANTE, DETTAGLIO DAL TRITTICO DI SAN ESTEBAN, XV SECOLO, BARCELLONA.
ORONOZ / ALBUM
FRANCESC DE VERNTALLAT, comandante dei contadini catalani in rivolta, organizzò il proprio esercito in modo da non interferire con le attività agricole: quando reclutava le sue truppe, prendeva un soldato ogni tre famiglie, e le due famiglie rimaste al villaggio dovevano lavorare la terra anche di colui che era partito. In tal modo, la produzione agricola non subiva danni dall’assenza dei verntallats, nome che venne dato ai soldati di questo capo remença.
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NOSTALGIA DEL PASSATO Cola di Rienzo è raffigurato dal pittore lombardo Federico Faruffini mentre, dall’alto di un colle, contempla con nostalgia le rovine della Roma imperiale. Olio su tela, 1865, Musei civici, Pavia.
DEA / ALBUM
UNA DINASTIA POTENTE Lo stemma araldico degli Orsini, una delle più antiche famiglie della nobiltà laziale: da sempre legati al papato, all’epoca di Cola di Rienzo gli Orsini contendevano ai Colonna e ai Savelli il dominio su Roma.
MARK E. SMITH / SCALA, FIRENZE
UNA RIVOLTA NEL SEGNO DEL PASSATO
COLA DI RIENZO
Colto, carismatico, visionario: Cola di Rienzo, “l’ultimo dei tribuni”, cercò di instaurare un regime popolare che riportasse la Roma del XIV secolo ai fasti dell’epoca imperiale; ma il suo tentativo ebbe un tragico epilogo JACOPO MORDENTI STORICO E SCRITTORE
B
enché sia fra i personaggi più noti della Roma medievale, alcuni tratti della vicenda di Cola di Rienzo tendono a sfuggirci. Sappiamo che le sue origini erano modeste, giacché egli, nato del 1313 nel rione Regola, risulta essere figlio di un taverniere e di una lavandaia; nulla tuttavia sappiamo della sua formazione culturale, che si direbbe andata ben oltre le possibilità familiari. Orfano della madre, Cola trascorre la propria infanzia presso parenti ad Anagni, nel Lazio; ormai ventenne torna a Roma, dove sposa la figlia di un notaio e diviene egli stesso notaio. La Roma dell’epoca è percorsa da intense fibrillazioni, tanto materiali quanto intellettuali: i cosiddetti “baroni”, esponenti di una ristretta cerchia di famiglie che nel secolo precedente si sono elevate sulla nobiltà cittadina, dominano la scena, trascinando nei propri conflitti le rispettive reti clientelari. Il Comune, lungi dal potersi dire consolidato dopo oltre due secoli dalla sua istituzione, vive un rapporto altalenante con i papi avignonesi, rispolverando di tanto in tanto gli antichi diritti di Roma nel tentativo di inserirsi nella dialettica fra papato e Impero.
Evidentemente apprezzato per competenza e cultura, Cola ottiene un primo, importante incarico pubblico nel 1342, quando gli viene affidato il comando della legazione popolare che Roma invia ad Avignone all’attenzione del nuovo papa Clemente VI (1291 -1352), sia per conferirgli la signoria sulla città, sia per sottolineare l’opportunità di un nuovo Giubileo da indire nell’anno 1350. L’ambasceria si rivela fruttuosa, e per di più consente al legato di essere notato dal pontefice: un doppio successo dovuto all’abilità oratoria del giovane e al suo stile letterario fuori dal comune, capace di attingere alle suggestioni dell’antichità romana. 52 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
GIOVANNI SIMEONE / FOTOTECA 9 X 12
La permanenza ad Avignone
IL PALAZZO DEI PAPI, AVIGNONE Nel 1342 il giovane Cola di Rienzo guidò l’ambasceria che il comune di Roma, da poco retto da un governo popolare, inviò ad Avignone per incontrare il nuovo papa Clemente VI.
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UN AMANTE DELLA CLASSICITÀ
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OLA DI RIENZO aveva una buona
BRITISH LIBRARY / SCALA, FIRENZE
conoscenza del latino, fatto che non doveva essere estraneo al suo matrimonio con la figlia di un notaio e al suo accesso a questa professione, una delle poche dignitose e ben remunerate alle quali poteva ambire un membro del popolo. La sua padronanza della lingua latina lo portò a interessarsi della storia di Roma e a raccogliere le sue antiche iscrizioni, il che gli valse l’amicizia di Petrarca. Questo amore per la classicità plasmò la sua visione del mondo e il suo progetto politico: nato da una famiglia umile, volle restaurare a favore del popolo le forme della grandezza romana. Personaggi come l’austero Catone riassumevano per Cola le virtù dell’antica Repubblica romana, che costituiva ai suoi occhi un esempio e un ideale. Non meraviglia quindi che governasse Roma con il titolo di “tribuno”, assunto nel giugno del 1347.
ANTICHE ROVINE ROMANE, INCISIONE DI GIOVANNI BATTISTA PIRANESI. XVIII SECOLO, BRITISH LIBRARY, LONDRA.
MARY EVANS PICTURE LIBRARY / ACI
IL PONTEFICE MORIBONDO La morte (1352) di papa Clemente VI, prima ammiratore e poi nemico di Cola, in una miniatura del XIV secolo ispirata alle Chroniques del francese Jean Froissart.
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Cola decide così di trattenersi ad Avignone: da un lato stringe amicizia con Francesco Petrarca, dall’altro inizia a esplicitare la propria avversione nei confronti dei baroni romani, rei, a suo dire, dell’anarchia in cui si dibatte Roma. Nell’assumere questa posizione critica, egli è evidentemente consapevole di correre dei rischi, perché i baroni – in primo luogo i Colonna – possono contare su propri esponenti all’interno della Curia. Superato un periodo di difficoltà economiche, nel 1344 Cola torna a Roma, con in tasca l’investitura papale a notaio della Camera capitolina: una carica dignitosa, funzionale a conoscere dall’interno gli ingranaggi del potere. Nei successivi due anni raccoglie consensi fra il ceto popolare e la piccola nobiltà cittadina. Non solo: nel 1345 egli sperimenta l’efficacia della co-
municazione per immagini, facendo esporre in Campidoglio, sede del potere comunale, una tavola allegorica con la quale, attraverso l’impiego di una simbologia zoomorfa, torna a mettere sotto accusa i baroni: sono in primo luogo loro – leoni, lupi e orsi – i responsabili della rovina di Roma. L’anno successivo una seconda tavola completa il discorso: la soluzione al problema, grazie al sostegno dello Spirito Santo, è proprio lui, Cola di Rienzo.
Un manifesto politico A partire dal 1346 la spettacolarità dell’azione di Cola va aumentando. L’episodio più eclatante, e politicamente significativo, si colloca nel luglio di quell’anno, quando il giovane espone nella basilica di San Giovanni in Laterano una particolare epigrafe bronzea, impiegata in precedenza come mensa d’altare: le sue competenze gli consentono di identifi-
MICHELE FALZONE / AGE FOTOSTOCK
carla come la Lex de Imperio, la deliberazione con cui il Senato romano, nel 69 d.C., aveva conferito a Vespasiano i poteri di imperatore. Cola non si limita a leggerla in pubblico: sulla scia di una tradizione ghibellina ne attualizza il messaggio, facendo dunque ricadere la nomina dell’imperatore fra le prerogative di Roma. Non solo: il parallelo fra la potenza dell’Urbe antica e il declino di quella contemporanea, dilaniata dalle lotte fra baroni, si configura nei fatti come la premessa di un manifesto politico, prossimo a concretizzarsi. I frutti di una simile propaganda, coltivati nei mesi seguenti con ulteriori messaggi, vengono colti nella primavera del 1347, in un clima cittadino appesantito da un periodo di carestia. Il 19 maggio, approfittando della momentanea assenza in città dell’esercito comunale, un gruppo di sostenitori di Cola occupa il Campidoglio. Il giorno successivo
egli vi si reca in prima persona alla testa di un solenne corteo, e trova ad aspettarlo il popolo di Roma riunito in assemblea: forte del sostegno del vicario papale, insieme a questi Cola è acclamato rettore di Roma, titolo a cui egli stesso, di lì a pochi giorni, aggiungerà quello più suggestivo di tribuno del popolo romano. Il potere, ormai, è nelle sue mani.
Azione su più fronti Il suo programma politico mira a scardinare il dominio dei baroni, agendo su più fronti: su quello giudiziario, al fine di pacificare in tempi rapidi – persino in modo sommario – la città; su quello economico, così da garantire un ordinato approvvigionamento alimentare; su quello militare, così da poter contare su un esercito in grado di mantenere l’ordine pubblico e, in prospettiva, espandere il controllo di Roma sul territorio circostante.
IL PULPITO DEL TRIBUNO La basilica di San Giovanni in Laterano, a Roma: qui, nel 1346, Cola di Rienzo lesse e commentò la Lex de Imperio, la delibera con cui, nel 69 d.C., il Senato romano aveva conferito a Vespasiano il potere imperiale.
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DE AGOSTINI PICTURE LIBRARY / SCALA, FIRENZE
PROCLAMANDOSI DICTATOR DI ROMA, COLA MISE IN ALLARME SIA IL PAPA SIA L’IMPERATORE
Non si tratta di contenuti nuovi: precedenti regimi popolari erano in effetti andati nella stessa direzione. Cola, tuttavia, pare distinguersi per razionalità politica e capacità di calamitare consenso, al punto da stroncare sul nascere la resistenza dei baroni: quanti fra di loro non abbandonano l’Urbe alla volta dei propri castelli nel circondario, finiscono infatti per giurare fedeltà al comune. I primi mesi di governo permettono al tribuno di conseguire non pochi risultati: la ricomposizione delle controversie procede spedita; la proibizione dei giuramenti di vassallaggio mina alla radice il sistema delle clientele; le fortificazioni cittadine dei baroni vengono smantellate, mentre gli introiti del fisco, grazie al puntuale controllo delle gabelle, si fanno cospicui. Anche le spedizioni militari nelle quali viene impegnato l’esercito comunale si concludono felicemente, piegando i baroni fuoriusciti da Roma e consegnando alla città il controllo di castelli e piazzeforti strategiche.
Padrone dell’Urbe Ce n’è abbastanza perché Cola ottenga formalmente i pieni poteri civili e militari: il 22 luglio assurge di fatto a dictator dell’Urbe, compiendo un ulteriore passo in avanti nel recupero del passato romano. Non basta: nello stesso periodo, attraverso un’intensa attività diplomatica, egli avvia anche una propria politica estera, vagheggiando una lega che unisca tutte le città italiane. Non sono pochi i comuni – soprattutto dell’Italia centrale – che rispondono all’appello del tribuno, sia supportando militarmente l’esercito romano, sia inviando proprie delegazioni al sinodo convocato a Roma per il primo di agosto. Il sinodo, tuttavia, non arriverà mai a vedere la luce: forte dei recenti successi, pur non abbandonando l’idea della lega fra città, Cola 56 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
RAIMUND KUTTER / IMAGEB / AGE FOTOSTOCK
TAVOLA BRONZEA CON LA LEX DE IMPERIO, 69 D.C., MUSEI CAPITOLINI, ROMA.
lascia intravedere concrete ambizioni egemoniche. Il confronto politico è sostituito allora da una serie di spettacolari cerimonie che, nella prima metà di agosto, vedono il tribuno prima investito del titolo di cavaliere, e poi addirittura incoronato. Nuovamente simboli della cristianità e simboli dell’antichità si combinano fra loro. E la declinazione politica di tale combinazione sembra indicare la volontà di Cola di ergersi sul papa e sull’imperatore. Quest’ultimo, in particolare, finisce per risultare delegittimato: è compito dei Romani – e degli Italiani tutti, – eleggerne uno nuovo. Come non ritenere il tribuno del popolo – giunto ad accostarsi a Cristo – il candidato ideale? Inizia qui la parabola discendente di Cola di Rienzo, incapace – a detta dei suoi stessi contemporanei – di calcolare lucidamente le conseguenze del proprio operato politico.
LA RIBELLIONE DI VITERBO Il duomo di San Lorenzo e, sulla destra, il Palazzo dei papi di Viterbo: la città laziale, sede della corte pontificia dal 1257 al 1281, si ribellò al governo popolare di Cola di Rienzo, ma fu piegata con la forza.
UN EROE ROMANTICO
COLA DI RIENZO ACCLAMATO DAL POPOLO, DISEGNO DI FORTUNINO MATANIA, 1881.
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IL SOGNO di Cola di Rienzo era di abolire il potere temporale del papa e di unificare la Penisola italiana sotto l’autorità di Roma, perno e cuore dello stesso Impero. Per questo, nel XIX secolo, la sua figura sarebbe stata esaltata dagli intellettuali nazionalisti e liberali del Risorgimento. Questi storici trasformarono Cola in un eroe visionario, che aveva combattuto le loro stesse battaglie per l’unità, la libertà e l’indipendenza dell’Italia con cinque secoli di anticipo.
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si nasconde sui monti abruzzesi della Maiella, dove entra in contatto con il francescanesimo più radicale. Ricompare sulla scena due anni dopo, quando raggiunge Praga e chiede all’imperatore Carlo IV di Lussemburgo il permesso di recarsi a Roma, per preparare la sua venuta in Italia. L’imperatore, che non gli è ostile ma teme le reazioni del papa, lo trattiene in custodia. E a poco serve che Cola giunga a dichiararsi figlio dell’imperatore Enrico VII, o che dia fondo al repertorio escatologico appreso dai fraticelli della Maiella. La sua condizione muta solo nell’estate del 1352, quando viene consegnato ai legati pontifici per raggiungere Avignone: Cola è sospettato d’eresia, e se si salva è solo perché, in dicembre, Clemente VI muore improvvisamente.
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Un’avventura durata due mesi
L’INCORONAZIONE DI CARLO IV Pochi mesi dopo la morte di Cola di Rienzo, Carlo IV di Lussemburgo valicò le Alpi con un piccolo esercito e si spinse fino a Roma, dove il 5 aprile del 1355 fu incoronato imperatore da un vicario papale.
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Il tribuno ha messo in allarme tutti: le città italiane, l’imperatore e soprattutto il papa, che comincia a intravedere in lui un elemento di instabilità in quei territori laziali funzionali alla costituzione del futuro Stato della Chiesa. Per di più Cola si rivela incapace di contenere lo sfaldamento del suo fronte: la sua crescente imprevedibilità da un lato lo mette in cattiva luce agli occhi del popolo, dall’altro finisce per spingere i baroni a coalizzarsi contro di lui. In dicembre il tribuno, spaventato da una rivolta cittadina sobillata dai baroni e, forse, dal vicario papale, lascia segretamente la città. È probabile che sulle prime, avvertendo la pressione del papa, egli ripari a Napoli, salvo essere catturato qualche mese dopo dagli Orsini – una potente famiglia baronale – e tradotto in Castel Sant’Angelo. Nel settembre del 1348, approfittando della peste di cui muoiono i suoi carcerieri, riesce a fuggire:
La sua fama di uomo colto gli vale la benevolenza del nuovo papa, Innocenzo VI (12821362): nel 1353 è scarcerato e introdotto nel seguito del legato Gil de Albornoz, impegnato nel Lazio. Roma torna a essere a portata di mano: grazie al sostegno finanziario di Arimbaldo e Brettone, due cittadini di Perugia originari della città francese di Narbona, egli è in grado di assoldare una piccola armata, con la quale il primo agosto 1354 rientra trionfante a Roma e si fa nominare senatore. È un’avventura che termina in un paio di mesi: incapace di avere ragione della resistenza armata dei baroni, Cola finisce per farsi sopraffare dalle difficoltà economiche correlate al mantenimento di forze armate efficaci, imponendo una tassazione esasperata che gli aliena il consenso dei più. Logorato nel fisico e spaventato, l’8 ottobre 1354 resta vittima di una nuova rivolta popolare alimentata da alcuni baroni: il suo cadavere, prima straziato e poi decapitato, è infine arso. L’eredità di Cola sarà duplice. Alcune delle sue direttive – si pensi al presidio del territorio, alla valorizzazione dell’esercito ecc. – verranno applicate anche dai successivi regimi popolari, almeno fino a quando il papato non tornerà a esercitare un controllo diretto su Roma. Soprattutto, le sue posizioni intellettuali, tanto più a partire dall’Ottocento romantico, permetteranno di annoverarlo fra i grandi protagonisti della storia: controversi, carismatici e spesso equivocati.
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L’UOMO CHE SI ILLUSE DI ESSERE RE E C’È UNA COSA SORPRENDENTE di Cola di Ri-
enzo, è la sua capacità di risultare credibile a dispetto di qualunque buonsenso. Si prenda, per esempio, un episodio avvenuto nel 1354, quando un mercante senese, Giannino Baglioni, fu convocato a Roma e informato da Cola di essere il vero figlio di Luigi X di Francia (1289-1316): vittima di uno scambio in culla, egli sarebbe stato dunque il legittimo sovrano francese al posto di Giovanni II di Valois. Suggestionato da questa ipotesi, formulata da Cola a partire da vecchie dicerie avignonesi manipolate in funzione dei suoi interessi, Giannino avrebbe speso gli anni a venire e il suo intero patrimonio perorando la propria causa tra Italia, Francia e Ungheria. Sarebbe morto nel 1363, prigioniero di Giovanna I di Napoli.
ERICH LESSING / ALBUM
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UNA PRIGIONE SUL TEVERE Dopo essere stato catturato dagli Orsini, Cola fu rinchiuso per alcuni mesi in Castel Sant’Angelo, a Roma; fuggì grazie alla morte dei suoi carcerieri, uccisi dalla peste (1348).
GIOVANNI II DI VALOIS Ritratto anonimo del re di Francia Giovanni II il Buono (1319-1364), che Cola tentò invano di rimpiazzare con Giannino Baglioni. XVI secolo. Louvre, Parigi.
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IL GRANDE RIFORMATORE Martin Lutero in un ritratto di Lucas Cranach il Vecchio (1523): il padre della Riforma protestante è raffigurato come un giovane monaco dallo sguardo ispirato. Germanisches Nationalmuseum, Norimberga. UNA BOLLA CINQUECENTESCA Lettera d’indulgenza concessa nel 1512 a un monastero tedesco di Colonia: il commercio delle indulgenze fu uno degli scandali che indussero Lutero alla ribellione contro la Chiesa di Roma.
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LA NASCITA DELLA RIFORMA
LUTERO Con la sua rivoluzione teologica basata sulle celebri 95 tesi, il monaco tedesco sfidò papato e Impero, trasformando il cristianesimo e aprendo il lungo periodo delle guerre di religione che sconvolsero l’Europa JOSEP PALAU ORTA DOCENTE DI STORIA MODERNA
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ventun anni Martin Lutero era un brillante studente di Legge all’Università di Erfurt, in Germania. Nato a Eisleben, nell’odierna Sassonia-Anhalt, da una famiglia benestante, pareva incamminato verso una tranquilla carriera da avvocato; ma in quel 1505 un evento inatteso cambiò improvvisamente il corso della sua esistenza.
IL PAPA DELLA SCOMUNICA Cammeo in oro e agata raffigurante papa Leone X, che nel 1521 scomunicò Lutero e i suoi seguaci con la bolla Decet Romanum Ponteficem. XVI secolo, Palazzo Pitti, Firenze.
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Accadde che, mentre rientrava da una visita ai genitori, fu sorpreso da un violento temporale. Un fulmine cadde a pochi passi da lui, scagliandolo a terra. Terrorizzato, Lutero promise a sant’Anna che, se fosse giunto a casa sano e salvo, si sarebbe fatto monaco. E così avvenne. Pochi giorni dopo quella terribile esperienza, l’ex studente di Diritto entrava infatti nel convento di Erfurt, in Turingia, noto per l’intransigenza con la quale vi veniva applicata la Regola agostiniana. Il giovane monaco brillò subito negli studi teologici e si fece notare per la minuziosa osservanza delle rigide norme monastiche. I suoi superiori erano meravigliati dalla disciplina con la quale Lutero si sottoponeva a veglie e digiuni e partecipava agli esercizi spirituali. Nel 1510, quando si trattò di decidere chi inviare a Roma per discutere dinnanzi al Priore generale agostiniano alcune questioni interne riguardanti il monastero, non ebbero dunque dubbi nello scegliere Martin Lutero quale loro rappresentante. Nell’inverno del 1510, Lutero compì così la sua prima e unica visita alla capitale della cristianità: durante il suo soggiorno romano, il giovane monaco si attenne rigorosamente alle abitudini dei pellegrini e, tra le altre cose, salì in ginocchio la Scala Santa. Si narra che, mentre compiva questa penitenza, nella sua mente risuonasse continuamente una frase di san Paolo: “Il giusto vivrà mediante la fede”. Anche se il soggiorno nella città dei papi non indebolì la sua religiosità, Lutero tornò in Germania indignato dalla corruzione e dal lassismo morale che perva-
devano la vita ecclesiastica. Nel 1511 si laureò in teologia e, da Erfurt, il giovane fu trasferito nella città sassone di Wittenberg, dove divenne sottopriore del locale monastero e assunse nel 1512 la cattedra di esegesi biblica presso l’università.
La predica contro le indulgenze Bisognò tuttavia attendere l’ottobre del 1516 perché Lutero criticasse per la prima volta la dottrina delle indulgenze. Accadde durante una predica. La pratica delle indulgenze, assai diffusa all’epoca, attribuiva alla Chiesa il potere di rimettere dinnanzi a Dio i peccati degli uomini (o, più precisamente, le pene temporali maturate a causa dei peccati commessi) in cambio di un’opera meritoria (per esempio un pellegrinaggio) o, più spesso, di una donazione in denaro. Ebbene, per Lutero questa prassi sviava i credenti dalla vera fede, in quanto insegnava loro a confidare non nel perdono di Dio ma in un gesto esteriore. Un anno dopo, Lutero tornò alla carica. Papa Leone X aveva appena promosso una vendita straordinaria di indulgenze per la ricostruzione della basilica di San Pietro, affidando all’arcivescovo di Magonza il compito di diffondere in Germania la notizia del beneficio. Lutero reagì appendendo al portone della chiesa del castello di Wittenberg le sue celebri 95 tesi. Era il 31 ottobre del 1517. Con il suo gesto, Lutero non intendeva rompere con la Chiesa, ma solo ribadire un principio dottrinale: ovvero che nessun acquisto di indulgenze può cancellare la pena per i peccati commessi, in quanto solo a Dio è data facoltà di rimettere le colpe dei peccatori pentiti.
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IL CASTELLO DI WARTBURG Dopo la Dieta di Worms (1521) Lutero, con l’aiuto del principe di Sassonia Federico III, restò nascosto per dieci mesi nel castello di Wartburg, in Turingia.
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UNA BIBBIA PER IL POPOLO Lutero traduce la Bibbia in tedesco per renderla accessibile al popolo, olio su tela di Gustav Adolph Spangenberg (1870). La prima edizione completa della Bibbia di Lutero fu stampata nel 1534. Staatliche Museen, Berlino.
Ma la sua provocazione non poteva passare inosservata, e difatti da Roma gli giunse l’ordine di ripudiare le sue tesi. Lutero rifiutò. Nei mesi seguenti, il monaco ottenne il sostegno di uno dei più potenti principi tedeschi, l’Elettore di Sassonia Federico III, che gli fornì un salvacondotto imperiale quando Lutero dovette recarsi ad Augusta, in Baviera, per incontrare il legato papale.
Sfida al papato Nelle speranze di Leone X, questo incontro avrebbe dovuto convincere Lutero a ritrattare le sue tesi; invece si risolse in un nulla di fatto. Anzi, proprio a partire da quel momento Lutero iniziò a radicalizzare le sue posizioni, sostenendo per esempio che un qualsiasi credente ha il diritto di correggere il pontefice, a patto che i suoi argomenti poggino sulla Bibbia. Non solo, mise in discussione la stessa
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autorità papale, affermando che il capo della Chiesa è Cristo, non il suo vicario sulla terra. Nell’agosto del 1520, dopo che con la bolla Exsurge Domine Leone X gli aveva intimato di recedere dai suoi errori pena la scomunica, Lutero pubblicò un trattato intitolato Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca: per il miglioramento dello Stato cristiano. Nelle sue pagine si affermava tra l’altro il principio che, attraverso il battesimo, ogni credente è consacrato sacerdote, e può quindi interpretare correttamente le Scritture: un attacco diretto alla pretesa papale di essere l’unica autorità dotata di tale prerogativa. La reazione di Roma non si fece attendere; nell’ottobre del 1520 libri di Lutero furono bruciati nelle piazze belghe di Lovanio e Liegi, e il 3 gennaio del 1521 Leone X promulgò la bolla Decet Romanum Pontificem, con la quale scomunicava il monaco e i suoi seguaci.
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IL DUOMO DI MAGDEBURGO L’unica chiesa di Magdeburgo che, dopo il trionfale passaggio di Lutero dalla città (1524), non aderì alla sua Riforma fu il Duomo di San Maurizio e Santa Caterina.
DOPO LA SCOMUNICA, LUTERO FU CONVOCATO A WORMS DA CARLO V E ACCUSATO DI ERESIA La rottura tra le due parti era ormai irreversibile, e finì di consumarsi quando l’imperatore spagnolo Carlo V convocò Lutero a Worms dinnanzi alla Dieta (assemblea) dei principi e delle città del Sacro Romano Impero. Lutero giunse nella città renana il 16 aprile del 1521, protetto dal salvacondotto imperiale e dal sostegno di Federico III. Ad accoglierlo trovò una folla acclamante; fu ricevuto nel palazzo episcopale dal giovane imperatore, accompagnato dai principi tedeschi e dagli elettori imperiali. Lutero riconobbe come suoi gli scritti “eretici” che gli venivano attribuiti ma, quando l’arcivescovo di Treviri gli domandò se volesse ritrattare le sue tesi, a sorpresa chiese una notte di riflessione.
Il mattino dopo si ripresentò all’imperatore e rispose senza esitazioni alla domanda del vescovo: poiché nei suoi testi aveva citato fedelmente le Sacre Scritture, e non credeva al papa né ai concili, le uniche autorità di cui si sentiva “prigioniero” erano la sua coscienza e la parola di Dio: “Per questo non posso né voglio ritrattare nulla, poiché non è sicuro né salutare agire contro la propria coscienza.” Solo il salvacondotto di Federico III salvò Lutero dall’arresto immediato; Carlo V, attraverso l’Editto di Worms (25 maggio 1521), lo dichiarò eretico e lo bandì dall’Impero, vietando la lettura dei suoi scritti; ma a quel punto il monaco – con l’aiuto del principe – aveva già trovato rifugio nel castello di Wartburg, a Eisenach (Turingia), dove rimase nascosto per dieci mesi dedicandosi alla traduzione in tedesco del Nuovo Testamento. Nel frattempo, le parole e gli scritti di Lutero avevano inondato la Germania. Come se da tempo l’intera società tedesca fosse in attesa solo di quel segnale, in pochi anni, dopo la Dieta di Worms, seguaci di Lutero e riformatori religiosi si moltiplicarono nel Paese. 66 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Gli echi della Riforma
ZWINGLI
IL RIFORMATORE DELLA SVIZZERA
SCONTRO TRA RELIGIONI LA BATTAGLIA DI KAPPEL (1531) TRA L’ESERCITO RIFORMATO DI ZURIGO E LE FORZE CATTOLICHE, INCISIONE DALLA HISTORISCHE CHRONICA DI JOHANN LUDWIG GOTTFRIED, 1630.
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A RIFORMA di Lutero fu presa a modello dallo svizzero Huldrych Zwingli, che nel 1523 ottenne dal Consiglio cittadino di Zurigo l’adesione a un programma di 67 tesi che negava l’autorità papale e affermava la necessità di una più letterale adesione alle Sacre Scritture. I sacramenti non espressamente citati nel Vangelo furono aboliti, così come
il celibato ecclesiastico. Sopravvissero solo il Battesimo e l’Eucaristia, ma in forma simbolica. La transustanziazione, ovvero l’idea che nella Messa il pane e il vino si trasformino realmente in carne e sangue di Cristo, fu declassata a superstizione: l’Eucaristia divenne il ricordo simbolico del sacrificio di Gesù. Si proibirono le processioni e la musica sacra e i tribunali ecclesiastici
sostituirono quelli civili in materia di fede. Il successo della Riforma zwingliana fece reagire i cantoni cattolici della Svizzera che nel 1531, a Kappel, sconfissero le forze protestanti riunite attorno a Zurigo; ma questo successo, e la morte in battaglia di Zwingli, non fermarono la Riforma, che negli anni seguenti si consolidò grazie all’azione del teologo Heinrich Bullinger. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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VIOLENTE RIVOLTE CONTADINE SCOSSERO, NEL NOME DI LUTERO, GRAN PARTE DELLA GERMANIA CALICE IN ARGENTO DORATO REGALATO A LUTERO PER LE SUE NOZZE, XVI SECOLO, EISENACH.
Nel dicembre del 1521, tre “profeti” provenienti da Zwickau, una città sassone, comparvero a Wittenberg: Nicholas Storch, Thomas Dreschel e Mark Stübner. Il loro programma era più radicale di quello luterano: profetizzavano l’imminente ritorno di Cristo e sostenevano l’iconoclastia. Proponevano anche un sostanziale cambiamento dei sacramenti; in particolare, negavano valore al battesimo dei neonati ed esigevano che gli adulti si ribattezzassero. Da lì il nome del loro movimento: anabattisti, “i ribattezzati”. Alcuni cavalieri e rappresentanti della piccola nobiltà tedesca, a loro volta, cercarono di approfittare della Riforma luterana per ristabilire i propri privilegi: dopo aver formato un esercito agli ordini di Franz von Sickingen, attaccarono l’Elettorato cattolico di Treviri, ma furono dispersi dall’armata mercenaria al servizio del principe-arcivescovo (1522).
La rivolta dei contadini Molto più difficile da estirpare si rivelò la “guerra dei contadini”, una rivolta collettiva delle classi umili animata dalla convinzione che Lutero fosse un liberatore, e che i suoi attacchi al papato rappresentassero una chiamata alle armi contro la nobiltà tedesca, date le strette relazioni intercorrenti in Germania tra principi laici e principi della Chiesa. Tra il 1524 e il 1526 ripetuti moti di rivolta insanguinarono le campagne della Germania centromeridionale, mentre a Mühlhausen (Turingia) Thomas Müntzer, agostiniano come Lutero, cercava di istituire una teocrazia basata sull’uguaglianza e sull’abolizione della proprietà. I seguaci di Müntzer si presentavano come restauratori di un ordine perduto, nel quale non esistevano tasse agrarie e la comunità sceglieva liberamente il proprio pastore. Gli echi di questi movimenti giunsero alle orecchie di Lutero, che ne fu angosciato. Pertanto, nel febbraio del 1522, decise di lasciare 68 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
la clausura e tornare a Wittenberg, dove la predicazione dei “profeti di Zwickau” aveva causato gravi disordini. Il 9 marzo del 1522, raggiunta la città, Lutero salì sul pulpito della chiesa del castello per una serie di otto prediche: in esse ricordò ai cittadini che la violenza non può propagare la parola di Dio, in quanto, quando il Vangelo è diffuso con le armi e la rivolta, “il diavolo gode e gioisce”. Le sue parole sortirono un effetto immediato: i profeti di Zwickau furono espulsi da Wittenberg e le autorità ristabilirono l’ordine. Con i contadini insorti, Lutero fu persino più duro. Dopo un iniziale consenso, si irrigidì quando scoprì che le bande rurali avevano bruciato conventi e palazzi. In un libello intitolato Contro le empie e scellerate bande dei contadini (1525), bollò la violenza dei ribelli come opera di Satana e chiese alla nobiltà di perseguitarli. Attaccò alla radice le aspirazioni contadine di uguaglianza sociale, sostenendo che “il battesimo non rende liberi nel corpo e nella proprietà, ma solo nell’anima”. Nel maggio del 1525 i contadini guidati da Thomas Müntzer furono annientati a Frankenhausen dall’esercito dei principi tedeschi, ma persisteva la minaccia anabattista. Nel 1536 Lutero pubblicò uno scritto nel quale sosteneva il diritto delle autorità civili di opporsi agli anabattisti con la forza. Si spezzava così anche l’ultimo legame tra il messaggio religioso dell’ex monaco agostiniano e le rivolte sociali in atto sul suolo germanico. A quel punto, la Riforma luterana era stata adottata dalla maggior parte dei principi tedeschi, che se ne servirono come uno strumento per rafforzare il proprio potere. Lutero, da parte sua, si incaricò di fissare il dogma e l’organizzazione istituzionale della nuova Chiesa. I tempi in cui il popolo lo celebrava come un rivoluzionario erano alle spalle; ora il suo compito era consolidare la propria opera riformatrice ed estenderla all’intera Europa.
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LA CROCIFISSIONE LE IDEE LUTERANE SI RIFLETTERONO PRESTO NELL’ARTE TEDESCA E DEL NORD EUROPA: PALA D’ALTARE DI LUCAS CRANACH IL VECCHIO, 1552, STADTKIRCHE ST. PETER UND PAUL, WEIMAR.
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CRANACH DIPINGE LA TEOLOGIA LUTERANA
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A PALA D’ALTARE realizzata nel 1555 da Lucas Cranach il Vecchio per una chiesa di Weimar, in Turingia, illustra simbolicamente il principio-base della teologia luterana: la salvezza si ottiene solo mediante la fede e la lettura personale delle Sacre Scritture. Il riformatore appare con una Bibbia tra le mani 1, mentre indica con il dito un passaggio della Seconda epistola di Giovanni: “Il sangue di Gesù, Figlio suo, ci purifica da ogni peccato”. Dal costato di Cristo crocifisso sgorga un fiotto di sangue 2 che colpisce in testa lo stesso Cranach
il Vecchio 3, incarnazione del credente illuminato dalla fede senza mediazioni ecclesiastiche. Al fianco del pittore, Giovanni Battista 4 indica Cristo sulla croce, ai cui piedi è raffigurato l’Agnello di Dio 5 (cioè Cristo stesso) “che toglie i peccati dal mondo”. A sinistra, dietro Gesù risorto 6 che infilza Satana con la sua bandiera, il pittore mostra la cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre 7 dopo il peccato originale, mentre più a destra, sempre sullo sfondo, compare Mosè nell’atto di maledire 8 coloro che non rispettano i Comandamenti. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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DALLA RIVOLUZIONE ALLA DITTATURA Dopo l’esecuzione di re Carlo I, il potere passò all’esercito. Il capo di quest’ultimo, Oliver Cromwell, sciolse il Parlamento nel 1653. Dipinto di Benjamin West. Montclair Art Museum, New Jersey.
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LA PRIMA RIVOLUZIONE MODERNA
L’INGHILTERRA CONTRO IL RE Tra il 1642 e il 1649, la lotta tra l’autoritario Carlo I d’Inghilterra e il Parlamento originò tre guerre civili, l’esecuzione del monarca e l’instaurazione di una repubblica guidata da Oliver Cromwell, un puritano radicale DAVID GARCÍA HERNÁN PROFESSORE DI STORIA MODERNA UNIVERSITÀ CARLO III DI MADRID
PAUL HARDY / CORBIS / CORDON PRESS
IL PALAZZO DI WESTMINSTER L’attuale sede delle due Camere del Parlamento britannico fu edificata dopo che un incendio ebbe distrutto nel 1834 il palazzo in cui nel 1649 re Carlo I fu processato e condannato.
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’è solo un re, ed è Cristo”. Queste parole, presumibilmente pronunciate da Oliver Cromwell, sono ripetute nella scena finale del celebre film di Ken Hughes dedicato a tale polemico e contraddittorio personaggio. Quest’ultimo, dopo aver rifiutato la corona d’Inghilterra, occupò la più alta carica politica del Paese come Lord Protettore, visse come un monarca nel palazzo degli Stuart e arrivò a designare il proprio figlio come suo successore. Profondamente religioso, politico, rivoluzionario e dittatore allo stesso tempo, Cromwell fu il protagonista della prima delle grandi rivoluzioni moderne contro il potere assolutista: la guerra civile inglese, che culminò con l’esecuzione del sovrano e l’instaurazione della Repubblica. Tuttavia, la guerra civile
aveva iniziato a svilupparsi molto prima della comparsa in scena di Cromwell. Già dalla sua ascesa al trono nel 1625, re Carlo I si era infatti scontrato con gran parte dell’élite politica britannica a causa del suo governo assolutista e autoritario ritenuto insopportabile da chi difendeva i diritti del Parlamento. Questa istituzione aveva avuto origine nei grandi Consigli, formati da esponenti del clero e della nobiltà, che durante il Medioevo si formavano per assistere, appoggiare e finanziare il re. Ma da allora aveva acquisito una certa indipendenza e specifiche competenze, e nel XVII secolo incarnava la resistenza al potere assoluto dei monarchi. Fu così che, nel 1628, per protestare contro le nuove imposte e gli arresti arbitrari, i membri del Parlamento presentarono al re una petizione in cui esigevano che si confermassero i diritti delle Camere e dei cittadini (Petition of Rights).
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IL RE INGLESE CARLO I Nel dipinto di Antoon van Dyck il re a cavallo è con il suo maestro di equitazione, il nobile Pierre Antoine Bourdin, che gli regge l’elmo. 1633. Collezione Reale, Londra.
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I NEMICI DEL RE FURONO CHIAMATI “TESTE ROTONDE” PERCHÉ NON PORTAVANO LA PARRUCCA
Il re, tuttavia, finì per sciogliere il Parlamento e nei successivi undici anni governò da solo, senza convocare nessuna assemblea. Si trattò del periodo conosciuto come “lunga tirannia”, durante il quale il sovrano aumentò il carico fiscale sui sudditi e radicalizzò la sua politica di normalizzazione religiosa. La religione, effettivamente, in quegli anni era un’altra grave fonte di conflitti. In Inghilterra si erano formate importanti comunità di puritani, seguaci della dottrina calvinista che si scontravano con la gerarchia della Chiesa anglicana, dominata dai vescovi. William Laud, arcivescovo di Canterbury e uomo di fiducia di Carlo I, guidò la repressione contro i puritani, molti dei quali furono destituiti dai loro incarichi, incarcerati, torturati oppure obbligati a emigrare in America. In gioventù, Cromwell si unì proprio a questi dissidenti religiosi, dopo aver sperimentato una “rivelazione spirituale” per la quale si era convinto di essere “predestinato alla salvezza eterna”.
Il re contro il Parlamento Durante il decennio 1630-1640, i puritani che sostenevano il Parlamento, detti parlamentaristi, accumularono risentimento contro il re, mentre aspettavano l’occasione per riprendere la lotta. Questa si presentò nel 1640, quando Carlo I convocò il Parlamento perché finanziasse l’esercito che egli intendeva inviare in Scozia per sedare una rivolta dei presbiteriani, la comunità religiosa dominante tra gli Scozzesi che rifiutava, anch’essa, la politica di Laud. Il Parlamento di Londra si rifiutò di fornire fondi a meno che non si ponesse fine agli abusi del re. Il sovrano sciolse quindi di nuovo il Parlamento, ma solo pochi mesi dopo, sotto pressione a causa della mancanza del denaro necessario a creare un esercito per far fronte 74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IL GIOIELLO DI NASEBY CHE COMMEMORA L’OMONIMA BATTAGLIA.
al pericolo scozzese, non trovò altra soluzione che convocare di nuovo quello che fu poi chiamato, in seguito al prolungato periodo in cui rimase in carica, Long Parliament. Immediatamente, i parlamentari si proposero di riaffermare il loro potere, proibendo al re di sciogliere le Camere di sua iniziativa. Fu anche soppressa la Camera Stellata, il tribunale che negli anni precedenti aveva celebrato i processi politici contro gli oppositori del monarca. Il Parlamento insistette anche perché fossero giudicati i principali ministri di Carlo I, l’arcivescovo Laud e il conte di Stafford. Quest’ultimo fu decapitato nel 1641; Laud rimase in carcere fino alla sua esecuzione nel 1645. In questo modo il Parlamento diventò in pratica il potere sovrano, come dimostra la legge che stabiliva la formazione di una milizia sulla base delle imposte approvate dalle Camere. L’esercito, prima prerogativa esclusiva del re,
LA NUOVA CONCEZIONE DELL’ESERCITO
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ER CREARE le loro forze armate
i parlamentaristi anteposero la professionalità alla carriera abituale nell’esercito, basata sul sangue e sulla tradizione. Comandato da Thomas Fairfax e formato da generali esperti e soldati professionisti, il cosiddetto “Esercito di Nuova Concezione” si distinse dai tipici eserciti aristocratici dell’epoca per le sue strategie e per i suoi principi militari innovatori. Nonostante l’importante ruolo tradizionale della fanteria e delle picche (lance lunghe oltre tre metri), la cavalleria fu decisiva nel gestire le cariche con professionalità e moderatezza, lasciando da parte le innumerevoli rabbiose cariche all’inseguimento del nemico più che di qualsiasi altro obiettivo strategico. Provvista di pistole, di spade, di un piccolo moschetto, di pettorali e schienali leggeri, essa effettuava incursioni al centro dell’esercito nemico; poi si ritirava per occuparsi di altri obiettivi bellici.
BATTAGLIA DI MARSTON MOOR. DIPINTO DI ABRAHAM COOPER. 1819. HARRIS MUSEUM AND ART GALLERY, PRESTON.
era così nelle mani dei rappresentanti della nazione. Nel 1642, l’assemblea formulò le cosiddette Diciannove Proposizioni, secondo le quali il Parlamento avrebbe avuto il controllo della politica estera e dell’esercito, e avrebbe potuto chiedere conto ai ministri del re. Questi le rifiutò affermando che “sarebbero state la totale sovversione delle leggi fondamentali e dell’eccellente Costituzione di questo regno, poiché il Parlamento non è stato costituito per partecipare in alcun modo al governo né per eleggere quelli che lo guidano”.
Scoppia la guerra civile In quel momento il re non si trovava già più a Londra. Si era ritirato a Oxford, dove si unirono a lui i suoi sostenitori. Risultarono così chiaramente distinte le due fazioni in lotta: i Cavaliers o realisti, sostenitori del re, fra i quali vi erano molti nobili, e i
Roundheads, le “teste rotonde”, così chiamati perché non portavano le tipiche parrucche aristocratiche con ricci e boccoli. Tra questi ultimi erano numerosi i borghesi e i contadini di diversa condizione, con una cospicua presenza puritana. Le due fazioni si armarono e iniziò la prima delle tre guerre civili che formano la Grande Rivoluzione inglese: quella che si svolse tra il 1642 e il 1648. All’inizio sembrò che i realisti, militari esperti, avrebbero vinto. Ma il Parlamento, con maggiori risorse cittadine a sua disposizione, optò per la creazione di un esercito di veri professionisti che avrebbe offerto garanzie sufficienti per affrontare le truppe del re. A quel tempo nella fazione parlamentare aveva iniziato a farsi notare la figura di Cromwell, per la sua condotta nella battaglia di Marston Moor (1644). Ma occorreva molto di più per sconfiggere definitivamente i Cavaliers. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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ABATO 20 GENNAIO 1649, il tribunale che doveva processare
il re si riunì per la prima volta nella Westminster Hall, l’unica parte dell’antico palazzo di Westminster che ancora oggi si conserva. Era formato da tre giudici e 135 commissari, dei quali si presentarono solo 67, il che dimostra la rinuncia a giudicare il sovrano. Furono lette le accuse contro di lui: alto tradimento ed esercizio di un potere tirannico. Carlo sostenne che il tribunale era illegale e che non aveva l’autorità necessaria per giudicarlo. Venerdì 26 gennaio, dopo aver ascoltato un certo numero di testimoni, fu emesso il verdetto: colpevole. E la pena: morte per decapitazione. Sabato 27, i commissari si riunirono sperando ancora che il sovrano riconoscesse la legalità del tribunale e si difendesse. Carlo chiese di essere ascoltato da tutto il Parlamento, richiesta che gli fu negata. Fu dunque comminata la pena di morte. Fu giustiziato tre giorni dopo. PROCESSO A CARLO I, IN UN’INCISIONE DELL’EPOCA. IL MONARCA COMPARE SEDUTO DI SCHIENA, DAVANTI ALLA CORTE. UNA PARETE DI LEGNO LO SEPARA DAL PUBBLICO. COLLEZIONE PRIVATA.
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IL PROCESSO AL “TIRANNO”
Il Parlamento decise allora di creare la New Model Army (l’Esercito di Nuova Concezione), una forza armata permanente che non solo determinò il corso della guerra, ma divenne anche l’arbitro della situazione politica. Cromwell si rivelò un abile generale, sia per le sue doti organizzative sia per l’importanza che riconosceva alla qualità – e non al numero – dei soldati. Presto diventò tra i parlamentaristi il militare più importante. Le sue unità di cavalleria, gli ironsides (“fianchi di ferro”), divennero leggendarie tra i suoi contemporanei. Sembra che sia stato lo stesso capo militare realista, il principe Rupert del Reno, ad assegnare loro quel nome riferendosi alla loro bravura e alla loro capacità di penetrare nelle linee nemiche. La battaglia di Naseby (1645), in cui Cromwell ebbe una condotta memorabile, segnò il punto di svolta della guerra. I realisti subirono
L’ESECUZIONE DI CARLO I La mattina del 30 gennaio del 1649, il popolo si riunì presso il palazzo di Whitehall per presenziare alla decapitazione del re. Scuola fiamminga. XVII secolo. Musée de Picardie, Amiens.
L’esecuzione del monarca Alcuni membri del Parlamento cercarono di negoziare con Carlo I, mentre gli elementi più radicali dell’esercito chiedevano che il re venisse giudicato come traditore. Anche se la maggior parte dei parlamentari rifiutò questa proposta, la New Model Army, comandata da Thomas Pride, espulse i parlamentari contrari al processo contro il re nella cosiddetta
Purga di Pride (Pride’s Purge): il 6 dicembre 1648 due reggimenti dell’esercito si situarono alle entrate del Parlamento e, a mano a mano che arrivavano i deputati, verificavano se si trovassero su una lunga lista che conteneva i nomi dei parlamentari “incerti” o favorevoli al re. Solo 75 deputati rimasero nell’assemblea; 45 furono arrestati e 146 esclusi. Il Parlamento che ne risultò fu detto Rump Parliament, “Parlamento tronco”, nome che alludeva al fatto che erano rimasti solo gli “avanzi”. Ormai senza opposizione, l’assemblea istituì una corte per giudicare il sovrano. Benché Cromwell all’inizio non fosse tra chi chiedeva il processo, sarebbe stato il principale istigatore della condanna a morte del re.
IL DOCUMENTO DI CONDANNA Carlo I fu il primo re condannato a morte al termine di un processo legale e per ordine dei rappresentanti del popolo. In basso, l’atto contenente la sentenza. Palazzo di Westminster, Londra.
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una sconfitta dietro l’altra e il re, che aveva cercato rifugio in Scozia, fu consegnato ai suoi nemici nel 1647. Convinto dell’origine divina del suo potere e della sua sovranità assoluta, Carlo I continuò a ordire intrighi durante la prigionia, e nel 1648 riuscì a scappare e ad allearsi con gli Scozzesi. Ciò diede origine a una seconda guerra civile che culminò con la sconfitta inflitta da Cromwell ai realisti a Preston, nel Lancashire (17-19 agosto 1648).
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DURANTE LA TERZA GUERRA CIVILE IN IRLANDA, CROMWELL SI DISTINSE PER LA SUA CRUDELTÀ EMBLEMA DEL COMMONWEALTH, IL REGIME REPUBBLICANO DI CROMWELL. MONETA DEL 1658.
Nel gennaio del 1649 cominciò il processo al sovrano con le accuse di alto tradimento e di altri crimini. In meno di un mese, la giuria lo dichiarò “tiranno, traditore, assassino e implacabile nemico pubblico della Repubblica”. La mattina del 30 gennaio, Carlo I fu scortato fino al palazzo di Whitehall, davanti al luogo dell’esecuzione. All’una e mezza si sporse da una delle finestre che davano sul patibolo che era stato allestito per strada e parlò brevemente, proclamando la sua innocenza, ma affermando anche di accettare il giudizio divino per le sue colpe e di perdonare i suoi nemici. Senza perdere la calma, si inginocchiò sopra il ceppo e alzò le mani in segno di preghiera. Mancava un minuto alle due quando venne decapitato. L’Inghilterra era diventata una repubblica in cui il Parlamento aveva preso quello che era stato il posto del re, anche se il potere di fatto era nelle mani dell’esercito.
Dittatore per volontà divina Cromwell, al comando dei mitici ironsides, avrebbe ancora dovuto condurre una terza guerra civile contro Irlanda e Scozia, che non accettavano la condanna del re e continuavano ad appoggiare il figlio ed erede del monarca “martire”, il futuro Carlo II. Le campagne di Cromwell in questi anni lasciarono una scia di sangue e distruzione che durò molto tempo. In Irlanda agì con una crudeltà inusitata: quando vi conquistò la città di Drogheda, il governatore fu colpito a morte con la sua stessa gamba di legno e le persone che si erano rifugiate in una chiesa furono bruciate vive. Si inasprirono poi le persecuzioni contro i cattolici irlandesi, ai quali furono sequestrate le terre per consegnarle ai protestanti. L’odio di Cromwell contro i cattolici era in contraddizione con la tolleranza da lui mostrata verso altri culti che voleva introdurre in Inghilterra. Un anno dopo, trasferita la guerra in Scozia, Cromwell riaffermò la sua immagine di gran78 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
de capo militare. Ma, nonostante le vittorie, la situazione politica nel Paese continuò a essere instabile. La corruzione cresceva e, secondo i rivoluzionari più convinti, in Parlamento predominavano gli interessi personali e partitici. Cromwell agì allora in un modo che aveva sempre condannato in Carlo I: appoggiato dai membri più conservatori del Parlamento e forte del suo potere militare, sciolse l’assemblea. Egli stesso spiegò che si era trattato di un attacco di ira ispirato da Dio: “Quando sono arrivato alla Camera non pensavo che avrei fatto ciò che ho fatto, ma ho sentito in me lo spirito di Dio, così potente che ho smesso di ascoltare la carne e il sangue”. Da allora fu a capo di una vera e propria dittatura. Nominato Lord Protettore, divenne la massima autorità politica del Paese. L’antico costituzionalista ora si riteneva autorizzato da Dio a imporre la sua politica, e nel 1654 arrivò a dichiarare davanti a quella ridotta assemblea: “Anche se vi ho detto che siete un Parlamento libero, pensavo che fosse chiaro che ero io il Protettore e l’Autorità che vi ha convocato, e che sono in possesso del governo in virtù di un diritto divino e umano […] Non mi sono chiamato da solo a tale incarico. Dio e il popolo di questo Paese hanno voluto consegnarmelo. Dio e il popolo possono togliermelo. In altro modo, non lo lascerò”. Nel 1657, i parlamentari gli offrirono la corona, ma Cromwell rifiutò. Sicuramente era consapevole della fragilità delle fondamenta del regime rivoluzionario che aveva tanto contribuito a creare. Alla sua morte, nel 1658, fu eletto Lord Protettore suo figlio Richard, che non aveva il carisma politico del padre e si scontrò con l’opposizione dei sempre più numerosi sostenitori degli Stuart. Dopo appena un anno come Lord Protettore, abbandonò l’Inghilterra e lasciò la strada libera alla restaurazione della monarchia, che arrivò per mano di Carlo II, l’erede del re giustiziato.
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OLIVER CROMWELL Il dipinto di Robert Walker raffigura il politico inglese nell’epoca in cui era già diventato l’uomo forte della Repubblica grazie al suo controllo dell’esercito. 1649. Collezione privata.
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GEORGE WASHINGTON Il ritratto di Charles Willson Peale lo ritrae con la fascia di comandante, vicino a un cannone conquistato nella battaglia di Trenton. 1779. Pennsylvania Academy of the Fine Arts, Philadelphia. MEDAGLIA COMMEMORATIVA coniata per celebrare la Guerra d’Indipendenza americana. La frase “La ribellione contro i tiranni è obbedienza a Dio” venne proposta da Benjamin Franklin nel 1776.
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LA RIVOLUZIONE AMERICANA
GEORGE WASHINGTON Guidò con determinazione la lotta per l’indipendenza delle colonie britanniche nel Nord America, e alla fine della guerra fu eletto primo presidente di un nuovo Paese: gli Stati Uniti d’America JOAQUÍN OLTRA DOCENTE ALL’UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA
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IL CAMPIDOGLIO DI WASHINGTON Costruito sulla collina di Capitol Hill, è la sede ufficiale dei due rami del Congresso (il Parlamento) degli Stati Uniti d’America dal 1800, anno in cui la capitale vi fu trasferita da Philadelphia.
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el maggio 1775 a Philadelphia i rappresentanti delle tredici colonie inglesi dell’America del Nord si riunirono nel Secondo Congresso continentale. Volevano organizzare una resistenza comune contro la Corona britannica, che intendeva domare la rivolta tra i suoi sudditi americani. In realtà la guerra era già iniziata. Pochi giorni prima, il 17 aprile, un contingente britannico era stato inviato a Concord per distruggere un deposito di armi che la milizia della colonia del Massachusetts vi aveva nascosto. I miliziani tesero agli Inglesi in cammino verso Lexington un’imboscata. Lo scontro terminò con otto morti e dieci feriti. Quindi, la milizia del Massachusetts assediò Boston per obbligare gli Inglesi ad abbandonare la città.
Anche se il Congresso riunito a Philadelphia non rappresentava ufficialmente il governo delle colonie unite, agì come tale: i delegati delle colonie assunsero il comando delle truppe che erano a Boston trasformandole in quello che fu poi chiamato Esercito continentale (Continental Army) e nominarono comandante in capo George Washington.
La vocazione al comando Perché tra tutti i presenti a Philadelphia fu scelto proprio lui? Alcuni contemporanei dissero che tale elezione si dovette al fatto che fosse l’unico tra i delegati a indossare una divisa; secondo altri, la scelta dipese dalla sua altezza (con quasi 1,90 metri, era un palmo più alto degli altri) e dal suo aspetto imponente. La verità è che Washington era l’unico dotato di una riconosciuta esperienza mili-
lasciandolo come unico erede. Tra le proprietà che egli ricevette vi era Mount Vernon, poi divenuta la sua residenza abituale. La morte del fratellastro lasciò vacante anche un posto di ufficiale nella milizia della Virginia, che fu concesso proprio a George. Un anno dopo, nel 1753, egli iniziò la sua carriera militare nella valle dell’Ohio. La carta di fondazione della Virginia concedeva alla colonia tutte le terre dell’interno fino al Mississippi, compresa la valle del fiume Ohio, che scorreva al di là dei monti Appalachi; per sfruttare al meglio le fertili terre di questa valle, i cittadini più influenti della Virginia avevano fondato la Ohio Company. I Francesi però consideravano l’Ohio un proprio territorio poiché erano stati i primi a scoprirne il valore e, soprattutto, perché era la via naturale di comunicazione
RITRATTO DEL PRESIDENTE Il volto di Washington riprodotto su un vaso di porcellana realizzato in occasione del primo centenario della Rivoluzione americana. 1876. Brooklyn Museum of Art, New York.
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tare. Inoltre, era originario della Virginia e, come poi avrebbe detto John Adams, un altro protagonista della Guerra d’Indipendenza americana, affinché la ribellione avesse successo era imprescindibile l’appoggio della Virginia, all’epoca la colonia più ricca del Nordamerica. Washington era poi uno dei pochi Virginiani che volessero l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Ma, al di là di tutto, possedeva evidentemente un carisma particolare, qualcosa che lo rendeva diverso dagli altri. George Washington era nato il 22 febbraio del 1732. Era un virginiano di quarta generazione, e sebbene la sua fosse una famiglia agiata, non era tra le più influenti della colonia. Alla morte del padre, George fu affidato al fratellastro Lawrence, sposato con Anne Fairfax, che apparteneva a una delle famiglie più importanti della Virginia. Nel 1752 Lawrence morì,
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WASHINGTON USCÌ DALLA GUERRA CONTRO LA FRANCIA CERTO DI ESSERE PRATICAMENTE IMMORTALE ROVESCIO DELLO STEMMA DEGLI STATI UNITI, ADOTTATO NEL 1782.
tra le due colonie francesi dell’America settentrionale: il Canada e la Louisiana. Per proteggere la propria posizione, lungo le rive del fiume Ohio i Francesi avevano fatto costruire una serie di forti. La reazione dei Virginiani non si fece attendere: inviarono una spedizione al fine di notificare agli occupanti francesi che si trovavano in un territorio della Corona inglese e di intimare loro di andarsene. Al comando di quella spedizione c’era il maggiore George Washington, della milizia della colonia della Virginia. I Francesi non accettarono l’avvertimento di Washington e ciò fece scoppiare la scintilla della Guerra franco-indiana, il capitolo nordamericano di quella che in Europa è nota come Guerra dei Sette Anni (1756-1763). Francesi e Inglesi si opposero, gli uni e gli altri con i rispettivi alleati indiani, in quella che fu l’unica guerra europea iniziata nelle colonie (e che costituisce lo sfondo del romanzo di James Fenimore Cooper L’ultimo dei Mohicani). Il primo passo nel conflitto fu compiuto dal governo inglese, che dispose una spedizione in Virginia al comando del generale Braddock, un militare con alle spalle 35 anni di esperienza bellica in Europa, ma nessuna nel continente americano. Braddock mostrò sufficiente buon senso da accettare il giovane Washington come proprio aiutante di campo. Seguì dunque lo stesso percorso da questi utilizzato, ma l’attraversamento delle montagne, con l’artiglieria pesante e l’ampio equipaggiamento, risultò molto difficile e lento, ragione per cui Braddock e Washington decisero di avanzare con solo una parte delle truppe.
Il massacro di Monongahela Gli Inglesi, addestrati alla guerra in campo aperto, durante la loro avanzata furono colti impreparati da un distaccamento di Francesi e dai loro alleati indiani che li attaccarono 84 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
a sorpresa dalla foresta, senza farsi vedere. Braddock rimase ferito, e ciò diffuse il panico tra i soldati britannici, che iniziarono a ritirarsi in ordine sparso. Durante la battaglia, nota come il “massacro di Monongahela”, gli Inglesi persero più di 900 uomini su 1300, mentre le perdite francesi si limitarono a 23. La morte di Braddock, tre giorni dopo, e della maggior parte degli ufficiali britannici, fece sì che il comando della spedizione venisse affidato a Washington, che organizzò la ritirata con grande abilità e determinazione. La spedizione fu dunque un fallimento, ma Washington ne uscì con un’ottima reputazione e con la convinzione di essere poco meno che immortale, una certezza che non lo abbandonò per tutta la Guerra d’Indipendenza. Quando, nel 1755, la Virginia riorganizzò le proprie truppe creando il Reggimento della Virginia, Washington, appena ventitreenne, fu nominato comandante. Egli si dedicò anima e corpo a trasformare quella milizia di volontari in una forza militare effettiva, allo stesso livello di un esercito professionale. Ottenne risultati significativi, ma non poté mettere alla prova l’efficacia del suo lavoro poiché la parte restante della Guerra franco-indiana si svolse lontano dalla Virginia, nelle colonie del nord e nel Canada.
La carriera politica Nel 1758, Washington lasciò l’esercito, in parte per ragioni personali, in parte perché capì che il suo desiderio di divenire ufficiale dell’esercito regolare britannico non si sarebbe mai realizzato, giacché questo non prevedeva l’arruolamento dei coloni. L’anno dopo, George si sposò con Martha Dandridge Custis, una vedova con due figli, forse la donna più ricca della Virginia. Il matrimonio fu un’unione serena, anche se alcuni documenti lasciano intendere che egli amasse un’altra donna, la moglie di un amico.
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DAGLI AGGRAVI FISCALI ALLA RIVOLUZIONE
ENTRATA TRIONFALE A NEW YORK Il 25 novembre del 1793, le ultime autorità britanniche lasciarono Manhattan e Washington fece il suo ingresso trionfale nella città di New York. Litografia del 1879.
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LLA FINE DELLA GUERRA dei Sette Anni, gli abitanti delle colonie nordamericane si sentivano pienamente inglesi e partecipavano all’euforia delle autorità per la vittoria ottenuta sui Francesi, costretti a lasciare il continente. Solo dieci anni dopo, gli stessi coloni scoprirono che tutto li separava dalla madrepatria. Il dissidio maggiore riguardò le imposte che il governo inglese fece gravare sui coloni per sanare il bilancio statale, come lo Sugar Act (1764) e lo Stamp Act (1765). Dalle proteste delle assemblee coloniali si passò al boicottaggio delle merci inglesi e, infine, agli scontri sanguinosi, come il “massacro di Boston” del 1770. La dura repressione britannica trasformò lo scontento in una rivoluzione.
IL MASSACRO DI BOSTON Il 5 marzo 1770 i soldati britannici sparano contro gli ammutinati. Incisione di Paul Revere, il patriota che con il suo raid notturno scatenò la prima battaglia della Guerra d’Indipendenza.
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LA SOLENNE FIRMA PER L’AUTONOMIA
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EL MAGGIO DEL 1776, mentre
George Washington difendeva New York dall’assedio inglese, i delegati delle tredici colonie britanniche riuniti nel Secondo Congresso continentale presero una decisione irrevocabile: separarsi dalla madrepatria. Fu proclamata così la Dichiarazione d’Indipendenza, redatta da Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin, Robert Livingston e Roger Sherman. La Dichiarazione, approvata il 4 luglio 1776, affermava alcuni principi che avrebbero guidato poi le successive rivoluzioni europee e sudamericane: “Riteniamo che siano per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che il Creatore li ha dotati di certi diritti inalienabili, tra cui la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che i governi sono istituiti per garantire questi diritti; che ogniqualvolta una qualsiasi forma di governo li sopprime, il popolo ha il diritto di cambiare o abolire tale governo e di istituirne uno nuovo”.
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LA CAMPANA DELLA LIBERTÀ La Liberty Bell, a Philadelphia, in Pennsylvania, fu uno dei più importanti simboli della Guerra di Indipendenza, e successivamente, del movimento abolizionista.
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Washington non ebbe figli propri, ma trattò i figli e i nipoti di Martha come se fossero i suoi e ne amministrò saggiamente i beni. Negli anni successivi, Washington visse da agiato proprietario terriero, dedicandosi alla politica coloniale e all’incremento della propria ricchezza, il che in Virginia equivaleva all’acquisizione di un maggior numero di terreni. L’economia della colonia era quasi esclusivamente agricola, ma i prodotti dovevano essere venduti a Londra attraverso la mediazione di agenti commerciali londinesi; le leggi britanniche, infatti, obbligavano i coloni a operare tutte le transazioni commerciali passando per la madrepatria. La maggior parte dei possidenti virginiani mal digeriva quegli agenti che si arricchivano alle loro spalle, cosicché sorse inevitabilmente un profondo risentimento nei confronti di quel sistema di sfruttamento, e
dell’Inghilterra in generale. Di ciò si discuteva frequentemente alla House of Burgesses, il parlamento coloniale della Virginia, del quale Washington fu membro per quindici anni. I suoi interventi alla Camera accrebbero la sua fama di politico, dopo che era stato già ampiamente apprezzato come militare. La Guerra dei Sette Anni, iniziata con la missione di Washington nella valle dell’Ohio, preparò il terreno per la crisi tra la Corona inglese e le sue colonie americane. Infatti, sebbene l’Inghilterra avesse avuto la meglio nel conflitto, la vittoria aveva comportato costi tanto elevati che le casse dell’Impero erano ormai vuote. Il governo britannico fu costretto pertanto a creare nuove imposte per tamponare la situazione, e decise che dovessero dare il loro contributo anche le colonie d’oltremare, che fino ad allora avevano pagato solo qualche tassa. A partire dal 1765, Londra
1 JOHN ADAMS Il bostoniano John Adams fu uno dei sostenitori più convinti dell’indipendenza al Congresso continentale. Vicepresidente di Washington durante i suoi due mandati, divenne successivamente il secondo presidente degli Stati Uniti (1797-1801).
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2 THOMAS JEFFERSON Nato in Virginia, Jefferson possedeva una cultura enciclopedica e fu il principale autore della Dichiarazione d’Indipendenza. È stato il terzo presidente degli Stati Uniti d’America tra il 1801 e il 1809, e un acceso sostenitore della democrazia.
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3 BENJAMIN FRANKLIN Il famoso inventore, scienziato e politico Benjamin Franklin, rappresentante dello Stato di Philadelphia e promotore della libertà, dell’uguaglianza e della tolleranza, introdusse significative modifiche nel testo della Dichiarazione di Jefferson.
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DAGLI ORTI / ART ARCHIVE
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promulgò una serie di leggi sulla tassazione che gli abitanti delle colonie americane considerarono veri e propri abusi, e contro le quali protestarono in maniera sempre più energica.
L’inizio del conflitto Negli anni seguenti la tensione crebbe ulteriormente, soprattutto in Massachusetts. Qui ebbero luogo, nel 1770, il “massacro di Boston”, in cui vennero uccisi dalle truppe inglesi cinque civili americani, e, il 16 dicembre 1773, il famoso Boston Tea Party, nel corso del quale alcuni Americani travestiti da Indiani assalirono le navi della Compagnia delle Indie Orientali e gettarono in mare 45 tonnellate di tè per protestare contro la tassa sull’importazione di questa merce. Per stabilire una linea d’azione comune e raccogliere le rivendicazioni di tutte le tredici colonie fu indetto nel settembre del 1774 il
4 JOHN HANCOCK Presidente del Secondo Congresso continentale, John Hancock riceve la bozza della Dichiarazione di Indipendenza dal Comitato dei Cinque, formato da John Adams, Roger Sherman, Robert Livingston, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin.
Primo Congresso continentale, che, pur senza essere risolutivo, prese decisioni importanti. Istituì la Continental Association, che si basava sull’accordo di non importare, esportare o consumare prodotti inglesi, in modo da fare pressione sulle società commerciali britanniche perché queste, a loro volta, pressassero il Parlamento di Londra. Preparò anche un’istanza che denunciava al re d’Inghilterra, Giorgio II, tutte le violazioni perpetrate ai danni dei coloni, sostenendo che la responsabilità fosse del Parlamento, e non del re. I delegati delle colonie decisero poi che si sarebbero riuniti l’anno successivo, se il re non avesse risposto alle loro richieste. Il sovrano non diede risposta e, così, nel 1775 si riunì a Philadelphia il Secondo Congresso continentale, che organizzò un esercito e che il 4 luglio dell’anno successivo avrebbe firmato la Dichiarazione d’Indipendenza.
LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA Il dipinto di John Trumbull mostra la presentazione della bozza della Dichiarazione al Congresso, il 28 giugno del 1776. Rotonda del Campidoglio degli Stati Uniti, Washington D.C.
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LA GUERRA
CANADA
Oceano Pacifico
L’ENTUSIASMO DEI VOLONTARI, IL GENIO
NUOVA SPAGNA
Oceano Atlantico
1775: Canada Gli Americani falliscono due volte l’attacco al Québec.
1776: New York Washington è obbligato a lasciare la città dagli Inglesi.
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1775: Boston Gli Americani strappano la città agli Inglesi.
1 Bunker Hill (17-VI-1775)
Bloccati a Boston dalle milizie coloniali, gli Inglesi tentarono di rompere l’accerchiamento attaccando le colline di Breeds Hill e Bunker Hill. Gli Inglesi ebbero la meglio, ma persero più di mille uomini, il doppio degli Americani. Qui fu ucciso uno dei più ferventi patrioti americani, il generale Joseph Warren.
1777: Philadelphia I soldati britannici occupano la città per dieci mesi.
1781: Yorktown Bloccato per mare e terra, Cornwallis è costretto alla resa. SCALA, FIRENZE
1778-1781: Il Sud Per quattro anni si alternano vittorie inglesi e americane.
MAPA: EOSGIS
4 Saratoga (17-X-1777)
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Nel giugno del 1777, il generale inglese John Burgoyne lanciò dal Canada una grande offensiva contro le colonie del nord. Nel tragitto, gli Inglesi furono affrontati da miliziani e dalle truppe di Washington. Dopo la sconfitta a Saratoga in ottobre, Burgoyne si arrese al generale americano Horatio Gates.
D’INDIPENDENZA
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ORGANIZZATIVO DI WASHINGTON E L’APPOGGIO FRANCESE RISULTARONO DECISIVI
2 Trenton (25-XII-1776)
3 Princeton (3-I-1777)
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Dopo la battaglia di Trenton, il generale inglese Cornwallis guidò un esercito contro Washington. Messi in allerta, gli Americani si ritirarono verso Princeton. Dopo un breve scontro in cui perse la vita il generale americano Mercer, scoppiò una battaglia in cui trionfarono nuovamente gli indipendentisti.
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Costretto dall’esercito inglese a lasciare New York, l’esercito di Washington ripiegò nel New Jersey. Il giorno di Natale entrò in territorio nemico attraversando il fiume Delaware, e assaltò una guarnigione inglese stanziata a Trenton, formata da 1400 mercenari tedeschi, i quali si arresero dopo una breve lotta.
5 Yorktown (19-X-1781)
Nel settembre del 1781, venuto a conoscenza che la maggior parte dell’esercito britannico, al comando di Cornwallis, si era concentrata a Yorktown, Washington cinse il luogo d’assedio insieme al generale francese Rochambeau. La resa del generale Cornwallis segnò la fine della guerra.
6 Pace e dimissioni (22-XII-1783)
Il 3 settembre del 1783 fu firmato a Parigi il trattato di pace definitivo tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Il 25 ottobre le truppe inglesi lasciarono definitivamente New York e il 10 dicembre Washington si dimise dall’incarico di comandante al Congresso della Confederazione, riunito ad Annapolis.
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Il Potomac La capitale doveva essere un volano per l’espansione verso Ovest lungo il fiume, che passava anche per la tenuta di Mount Vernont.
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WASHINGTON RESE LE INDISCIPLINATE MILIZIE COLONIALI UN VERO E PROPRIO ESERCITO
National Mall Il parco segue il progetto di Pierre Charles l’Enfant. Sul fondo si vede l’obelisco in onore di Washington allora in costruzione.
George Washington fu uno dei delegati della Virginia nei due Congressi. Quando gli venne offerto l’incarico di comandante in capo dell’Esercito continentale, affermò di non sentirsi in grado di ricoprire quel ruolo. Alla fine, accettò la designazione, ponendo tuttavia una condizione che accrebbe ulteriormente la sua popolarità: non intendeva ricevere alcun compenso. Washington, d’altra parte, non sapeva che l’Esercito continentale che si apprestava a comandare di fatto non esisteva ancora. La sua strategia iniziale fu volta a logorare il nemico, superiore in numero e in armamenti, con operazioni di guerriglia e rappresaglie, senza mai dare battaglia, se non con l’assoluta certezza di una vittoria.
L’assedio di Boston Il nuovo comandante si diresse in Massachusetts e lungo il cammino venne a sapere che le truppe di cui stava andando a prendere il comando avevano appena combattuto la loro prima vera battaglia contro gli Inglesi a Bunker Hill. Lo scontro fu la conseguenza logica dell’imboscata di Lexington: forti dei successi ottenuti, gli Americani decisero di espellere gli Inglesi da Boston e assediarono la città provando a fortificare le colline che la circondavano. I Britannici decisero di rompere l’accerchiamento e lanciarono un’offensiva, raggiungendo il loro obiettivo ma a un costo elevatissimo: di un contingente di 2600 uomini ne persero quasi la metà, a fronte di un numero esiguo di vittime tra i coloni. Non stupisce che uno dei generali inglesi riportasse sul suo diario che altre “vittorie” come quella avrebbero presto messo fine al dominio inglese in Nordamerica. I coloni, sebbene costretti a ritirarsi dalle colline, non interruppero l’assedio della città, lasciando intendere che non avrebbero rinunciato alla lotta. 90 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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DIRITTO DELLO STEMMA DEGLI STATI UNITI, ADOTTATO NEL 1782.
L’arrivo di Washington a Boston non migliorò la situazione. Sebbene fossero disposti a combattere, quei volontari della milizia erano un’accozzaglia di uomini di provenienza e interessi diversi, privi di disciplina, mal equipaggiati, senza viveri. Il primo compito del nuovo comandante in capo fu quello di trasformarli in un esercito disciplinato, ben armato e ben approvvigionato. A tal fine dovette fare ricorso non solo alla sua competenza militare, ma soprattutto alla sue abilità diplomatiche.
La lotta per l’indipendenza Il governo del Massachusetts continuava a dare ordini come se le forze che assediavano Boston fossero la sua personale milizia coloniale, mentre il Congresso era indifferente al fatto che a un esercito fossero necessarie armi e vettovaglie. L’obiettivo era tutt’altro
Pennsylvania Avenue Nel progetto originale, era il viale che costituiva la direttrice su cui si orientava la città di Washington.
Il Campidoglio Si ispirava al Pantheon di Roma e al Louvre. La cupola originale, alta 30 metri, fu ampliata fino a raggiungere un’altezza di 90.
La città Pur essendo la capitale, nel 1850 aveva solo 50.000 abitanti. Il boom demografico si ebbe dopo la Guerra di Secessione.
LA CAPITALE DELLA NUOVA NAZIONE
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L TERMINE DELLA GUERRA
d’Indipendenza, le ex colonie formavano una semplice confederazione, senza alcuna istituzione comune tranne il Congresso continentale. L’approvazione della Costituzione federale nel 1787 fece comprendere la necessità di stabilire una vera capitale nazionale. Durante la sua prima presidenza, Washington si stabilì a New York; dal 1790 al 1800 poi fu designata come capitale Philadelphia. Ma la decisione sulla capitale definitiva era stata presa già nel 1791, al termine di una negoziazione tra gli Stati del nord e quelli del sud: i Virginiani riuscirono a ottenere che essa venisse fondata in un’area limitrofa. Il punto esatto in cui fare sorgere la nuova capitale fu scelto dallo stesso Washington, e da quel momento fu sottinteso che la città avrebbe preso il suo nome, anche se egli si riferì a essa sempre con il nome di Federal City. WASHINGTON, D.C. A METÀ DEL XIX SECOLO. LITOGRAFIA A COLORI PUBBLICATA NEL 1852. COLLEZIONE PRIVATA.
che facile, ma a poco a poco fu raggiunto. Washington aveva le caratteristiche per riuscirvi: un temperamento riservato e prudente, serietà, costanza e integrità. Possedeva inoltre una chiara consapevolezza dei propri limiti e la grande volontà di imparare dai propri errori. Ma soprattutto aveva una cieca fiducia nella propria missione: credeva che le colonie dovessero ottenere l’indipendenza e che il destino fosse dalla loro parte. Era fermamente convinto di ciò che allora costituiva una novità, e che sarebbe stato uno dei suoi lasciti più importanti: l’esercito doveva essere subordinato a una autorità civile.
Verso la vittoria Washington era anche un uomo molto fortunato. Se non si può dire che fosse un militare brillante, i generali inglesi che egli affrontò non furono comunque all’altezza, e furono
sostituiti a mano a mano che fallirono le loro missioni, mentre lui rimase al suo posto fino alla fine della Guerra d’Indipendenza. L’assedio di Boston durò nove mesi. Nel frattempo, la milizia del Massachusetts si trasformò in un esercito. Henry Knox, un modesto libraio appassionato di testi di artiglieria, ebbe l’idea di portare a Boston i 43 cannoni del forte Ticonderoga, appena conquistato dagli Americani. L’impresa sembrava impossibile ma Knox e i suoi compagni riuscirono, nel corso di un gelido inverno, a portare a Boston attraverso le montagne quei cannoni del peso di 60 tonnellate. Furono piazzati in una sola notte sulle Dorchester Heights, dalle quali dominavano la città, a quel punto divenuta indifendibile. Il generale inglese William Howe si rese conto della situazione e inviò un messaggio a Washington: se gli fosse stato concesso di far STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’ALLEANZA CON LA FRANCIA DIEDE AI COLONI UNA MARINA CON CUI COMBATTERE LA FLOTTA INGLESE
ALBUM
GEORGE WASHINGTON. BUSTO IN TERRACOTTA. 1784. LOUVRE, PARIGI.
uscire le sue truppe, prometteva di non distruggere la città. Il 17 marzo 1776 gli Inglesi abbandonavano Boston, concedendo a Washington e ai suoi la loro prima vera vittoria. Nei mesi seguenti si alternarono per i coloni le vittorie, come a Trenton e Princeton, e le sconfitte, come a Brandywine e Germantown. La battaglia di Saratoga, nell’ottobre 1777, cui Washington non partecipò, risultò decisiva sia per la vittoria americana, sia per una fondamentale conseguenza diplomatica: l’anno dopo la Francia firmò un trattato di alleanza con i ribelli, riconoscendo, di fatto, la loro indipendenza. Poco dopo, anche la Spagna, alleata della Francia, si sarebbe schierata nella lotta a fianco delle colonie. Gli Americani non erano più soli e potevano finalmente contare su ciò che non avevano mai avuto: una marina, quella francese, da opporre alla potente flotta britannica. Da questo momento, le forze risultarono equilibrate e gli Americani poterono approfittare del loro vantaggio principale: la conoscenza del territorio. Nel 1781, la maggior parte del contingente dell’esercito della Corona, mobilitato dal generale Charles Cornwallis per sottomettere gli Stati del sud, si concentrò a Yorktown in Virginia. Una flotta francese li fermò via mare, mentre Washington avanzava per completare l’accerchiamento. Dopo un mese d’assedio, il 19 ottobre 1781 Cornwallis dovette capitolare. Pochi mesi dopo, il governo inglese riconosceva di aver perso la partita. La guerra era terminata e il 3 settembre del 1783 fu firmato il Trattato di pace di Parigi, con cui l’Inghilterra riconobbe formalmente l’indipendenza delle ex-colonie americane. La Guerra d’Indipendenza rese Washington l’uomo più popolare delle antiche colonie. Nel resto del mondo la sua fama non era minore. Thomas Jefferson, principale autore della Dichiarazione d’Indipendenza, raccontò che durante il suo soggiorno in Europa ovunque 92 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
gli venivano chieste notizie del grande eroe dell’indipendenza americana. La popolarità di Washington si spiega anche con il suo atteggiamento alla fine della guerra. Invece di mantenere il potere, nel 1783 egli lasciò il bastone del comando e si ritirò nella sua tenuta di Mount Vernon, convinto di trascorrervi tutto il resto della vita. Ma la sua missione non era ancora terminata. Infatti, alcuni anni dopo, i suoi compatrioti fecero di nuovo ricorso a lui, questa volta per salvare il Paese dall’instabilità politica.
La seconda rivoluzione Nel corso della guerra, i delegati delle colonie nel Secondo Congresso continentale avevano approvato gli articoli della Confederazione, con i quali il Congresso diventava il governo del nuovo Paese indipendente. Tuttavia, quel governo si rivelò insufficiente per assicurare la stabilità politica alla nuova nazione. Avendo i coloni americani lottato per la propria indipendenza nei confronti di un’autorità superiore, che esercitava il potere da lontano e che consideravano tirannica, ora non erano disposti ad accettare un altro governo che avrebbe potuto opprimerli e che, per di più, aveva sede nel loro Paese. Di fronte a quest’atteggiamento, alcuni personaggi lungimiranti, tra i quali Washington, si resero conto che, senza un governo centrale forte, le tredici colonie avrebbero inesorabilmente camminato ciascuna per la propria strada e non sarebbero mai riuscite a costituire una nazione solida. Che tale timore fosse giustificato, risulta evidente da quanto accadde in America Latina qualche anno dopo, quando le ex colonie, cacciati gli Spagnoli, non riuscirono a unirsi tra loro. Nel maggio del 1787 a Philadelphia fu convocata un’assemblea straordinaria per rivedere gli articoli della Confederazione del 1777 e dare al Paese un nuovo assetto istituzionale.
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WASHINGTON E GLI SCHIAVI Nel suo testamento Washington dispose che i suoi 300 schiavi fossero liberati alla morte della moglie. Litografia del XIX secolo. Musée du Nouveau Monde, La Rochelle, Francia.
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IN UN MONDO DOMINATO DA RE, LA COSTITUZIONE AMERICANA ERA QUALCOSA DI INAUDITO AKG / ALBUM
DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA DELLE TREDICI COLONIE.
L’assemblea non si limitò a modificare gli articoli della Confederazione, ma deliberò un documento rivoluzionario: la prima Costituzione dei tempi moderni, che trasformava il Paese in uno Stato repubblicano, federale, fondato sulla separazione dei poteri e basato su un’autorità legittimata dal consenso dei propri cittadini. Tali principi attualmente sembrano scontati, ma in un mondo dominato da monarchi assoluti, che detenevano il potere per mandato divino, l’esperimento americano sembrava a molti inaudito e con poche possibilità di riuscita. La Costituzione affidava il potere esecutivo a un presidente, eletto per via indiretta dai cittadini dei diversi Stati. Per tutti era evidente chi fosse il primo a dover ricoprire quel ruolo. George Washington fu eletto all’unanimità dai 69 elettori degli Stati, e il 30 aprile 1789 assunse l’incarico a New York, scelta come capitale provvisoria della nazione. L’operato del primo presidente degli Stati Uniti costituiva una totale incognita, non essendovi alcun precedente cui ispirarsi.
Il lascito di Washington Washington, in qualità di presidente, non riuscì a risolvere due grandi problemi che la rivoluzione americana aveva lasciato in sospeso: la schiavitù dei neri e la politica nei confronti delle tribù indiane. Egli aveva avuto modo di trattare con queste ultime fin dalla Guerra franco-indiana, e le considerava vere e proprie nazioni indipendenti e sovrane con le quali il governo degli Stati Uniti poteva firmare trattati da pari a pari. Sebbene tale politica conciliante fosse seguita dai suoi immediati successori, con il passare del tempo essa fu resa impossibile dalla pressione demografica dei coloni. La visione di Washington dei rapporti degli Stati Uniti con l’Europa fu, al contrario, parte integrante della cultura politica nordame94 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
ricana fino a metà del XX secolo. Secondo Washington, l’Europa si stava impegolando in guerre prive di ogni interesse per gli Americani; la cosa migliore da fare, quindi, era tenersi in disparte. L’isolazionismo americano cominciò con Washington e continuò fino alla Seconda guerra mondiale, sotto la presidenza di Franklin Delano Roosevelt. Come tutti i rivoluzionari, Washington odiava le divisioni politiche ed era nemico di quelli che oggi sono chiamati “partiti”. I principi rivoluzionari, lo “spirito del ’76”, a suo parere dovevano essere unici e universalmente accettati. Ma, poiché propendeva per un potere federale forte, incontrò la resistenza dei fautori del primato degli Stati. Questi, guidati da Thomas Jefferson, formarono una fazione politica presto nota come anti-federalista. Poiché il nome aveva una connotazione negativa, preferirono poi chiamarsi “repubblicani” e più tardi “democratici”, dando origine al Partito Democratico che oggi conosciamo, che è il più antico tra quelli esistenti. L’eredità lasciata dal primo Presidente degli Stati Uniti all’attuale sistema di governo americano è enorme. Tutto ciò che egli fece costituì un precedente: la stessa scelta della sede del governo federale, la città che porta il suo nome, fu una sua decisione, anche se non riuscì mai a vedere la nuova capitale. Rieletto nel 1793, di nuovo all’unanimità, Washington lasciò la presidenza nel 1797 per ritirarsi definitivamente a Mount Vernon. In un gelido giorno del dicembre del 1799, dopo una lunga cavalcata per un’ispezione nelle sue proprietà terriere, si ammalò di un’influenza che presto si trasformò in una grave laringite. Morì pochi giorni dopo, a 67 anni. Il generale americano Henry Lee III, durante l’elogio funebre, lo descrisse con parole passate alla storia: “Al primo posto nella guerra, al primo posto nella pace, al primo posto nel cuore dei suoi concittadini”.
CORBIS / CORDON PRESS
INDIPENDENCE HALL In tale edificio, a Philadelphia, si firmò la Dichiarazione d’Indipendenza e venne ratificata la Costituzione degli Usa. Nel campanile era ospitata la Liberty Bell.
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IL CAMMINO VERSO IL PATIBOLO Luigi XVI di Borbone si dirige verso la ghigliottina accompagnato dal suo confessore, Edgeworth de Firmont, il 21 gennaio del 1793. Olio su tela di Charles Benazech (1793). Museo Nazionale del Castello di Versailles.
IL RE DI FRANCIA A GIUDIZIO
LUIGI XVI Il 21 gennaio 1793 la ghigliottina poneva termine alla vita dell’ultimo re di Francia “unto da Dio”, dopo un processo dal chiaro significato politico: in esso l’imputato non era né un re né un cittadino, ma un simbolo da abbattere JOAN TAFALLA PROFESSORE DELL’UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA
L
“
uigi XVI ha tradito la patria; si è reso colpevole delle iniquità più orribili; ha commesso spergiuro; aveva progettato di sottometterci al giogo del dispotismo; ha sollevato contro di noi una parte dell’Europa; ha fatto decapitare migliaia di cittadini che non avevano commesso altro crimine se non quello di desiderare la libertà”.
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Queste le gravi accuse mosse contro l’ex re di Francia Luigi XVI di Borbone dal deputato Jean-Baptiste Morisson alla Convenzione Nazionale, l’assemblea legislativa ed esecutiva che si era insediata due mesi prima e che, il 13 novembre 1792, stava discutendo sulla legittimità di un processo all’ex sovrano. A tre anni dal suo esordio, il 14 luglio 1789, la Rivoluzione in Francia stava vivendo un momento critico. I rapporti tra il re e i partiti rivoluzionari si erano inaspriti, fino a culminare nell’insurrezione del 10 agosto 1792, quando una folla esasperata aveva assaltato il palazzo delle Tuileries, dove si trovava il re. In seguito a quel sanguinoso episodio, la monarchia era stata dichiarata decaduta e al suo posto proclamata una nuova forma di governo: la Repubblica. Nel frattempo gli eserciti delle potenze assolutiste europee, Austria e Prussia, varcavano i confini francesi e minacciavano di marciare su Parigi.
Giacobini contro girondini
LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ Il celebre motto della Repubblica francese in un’incisione del 1792: la Repubblica, nata dopo l’abolizione della monarchia, si presentò come il compimento della Rivoluzione.
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Inevitabilmente la rabbia dei rivoluzionari si indirizzò anche contro colui che ritenevano il principale colpevole della situazione: Luigi XVI, il re destituito, che dall’insurrezione del 10 agosto era imprigionato nella Torre del Tempio di Parigi, un’ex fortezza templare diventata prigione. Fu subito avanzata la richiesta di sottoporlo a giudizio per i suoi crimini contro la patria, in particolare per aver favorito l’invasione di Austria e Prussia. Di fronte alla pressione popolare, la Convenzione accettò di discutere la questione, ma i deputati si rivelarono divisi. Molti girondini, temendo che la Rivoluzione si radicalizzasse
ancora di più, erano reticenti nel sottoporre a giudizio l’ex sovrano, mentre i giacobini, guidati da Maximilien de Robespierre, giudicavano inevitabile un’azione contro di lui. Il primo ottobre 1792 la Convenzione formò una commissione incaricata di analizzare l’eventuale presenza di materiale incriminante nei confronti di Luigi XVI, ma i lavori procedevano a rilento. Infatti, molti dubitavano del diritto legale di giudicare l’ex sovrano, poiché la Costituzione del 1791 stabiliva espressamente l’inviolabilità della sua figura.
L’emendamento di Mailhe Contro questa tesi, il deputato Jean-Baptiste Mailhe presentò un rapporto alla Convenzione in cui sosteneva che la Costituzione del 1791 non era applicabile, poiché era stata abolita con l’insurrezione del 10 agosto 1792, nonché più volte violata dallo stesso re. L’“emendamento Mailhe” fu discusso dall’Assemblea il 13 novembre 1792. Morisson, lo stesso che elencava i crimini del re, concluse che la Convenzione non poteva sottoporlo a giudizio: “Come giudici, consultiamo con freddezza il nostro codice penale. Ebbene! Questo codice penale non contiene alcuna disposizione applicabile a Luigi XVI, poiché quando si macchiò dei suoi crimini c’era una legge che prevedeva un’eccezione in suo favore: mi riferisco alla Costituzione”. A Morisson si oppose Louis-Antoine de Saint-Just, seguace di Robespierre e uno dei suoi principali consiglieri: a parere del giovane rivoluzionario il re doveva essere giudicato come nemico dei Francesi, poiché aveva rotto il contratto sociale con il suo popolo.
ARNAUD CHICURELL/ GTRES
LA CONCIERGERIE Situata nel cuore di Parigi, fu la sede la corte reale dal X al XIV secolo; poi venne convertita in prigione, che ospitò, tra gli altri, la regina francese Maria Antonietta e Robespierre.
ALL’ASSALTO DI UN SIMBOLO Nel dipinto a lato è raffigurata la presa della Bastiglia, atto d’inizio della Rivoluzione francese. La tempera, oggi al Musée Carnavalet di Parigi, è opera di Claude Cholat, un artigiano che partecipò all’assalto della prigione-simbolo dell’Ancien Régime: essa rappresenta quindi una testimonianza attendibile di ciò che accadde a Parigi in quello storico 14 luglio 1789. UNA GIORNATA STORICA: LA PRESA DELLA BASTIGLIA
PRISMA
Ore 10. L’assedio degli insorti
Una folla di Parigini si raduna dinnanzi alla Bastiglia: chiede al governatore la consegna della prigione e di distribuire al popolo le munizioni che vi sono custodite.
La fortezza La Bastiglia era un edificio imponente: le sue torri misuravano 24 metri ed erano circondate da un fossato profondo otto metri.
La guarnigione Dotata di 15 cannoni, era composta da 32 Guardie Svizzere e da 82 Invalidi, veterani dell’esercito ormai non più idonei alla leva.
Ore 11.30. La trattativa Il governatore della Bastiglia Launay accetta di incontrare una rappresentanza degli insorti. Dopo aver fatto accedere la delegazione alla fortezza, ordina ai suoi uomini di alzare il ponte levatoio. Ore 12.30. Primi spari
Gli assalitori rompono le catene che sostengono il ponte levatoio e penetrano nel cortile. Le Guardie Svizzere che presidiano la fortezza reagiscono sparando. Ci sono le prime vittime.
Ore 14. Nuova delegazione
Una delegazione del Municipio di Parigi, guidata dall’abate Fauchet, si avvicina alla fortezza, sui cui bastioni è stata esposta una bandiera bianca: ma le guardie dei torrioni le sparano contro.
Ore 16. L’artiglieria all’opera
Sessanta uomini della Guardia Francese, guidati dagli ufficiali disertori P.A. Hulin e A.J. Elié, iniziano a cannoneggiare le porte della Bastiglia con cinque bocche da fuoco.
Ore 17. La resa della guarnigione
Quando i cannoni penetrano nel cortile d’ingresso, il governatore della Bastiglia ordina la resa. In breve una folla inferocita invade la fortezza, libera i prigionieri e decapita il governatore. SCIABOLA DI UN UFFICIALE DI CAVALLERIA, 1789.
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Gli spettatori Nel dipinto gli assalitori sono tutto sommato pochi; in compenso ci sono molti curiosi che osservano gli eventi dai portoni delle abitazioni.
Le vittime Il resoconto ufficiale della battaglia parla di 98 morti e 73 feriti tra gli assalitori; ma altre fonti tendono a ridimensionare le cifre.
La bandiera bianca I difensori la innalzarono per indicare la loro disponibilità a negoziare; ma poi, sospettando una trappola, spararono sugli inviati del Municipio. I cannoni Alcuni artiglieri della Guardia Francese cannoneggiarono dal giardino dell’Arsenale le torri della Bastiglia, senza grandi risultati.
Il cortile esterno Da questa posizione gli assalitori potevano colpire più facilmente le guardie sui torrioni, anche se il loro fuoco fece una sola vittima.
Il ponte levatoio Il governatore della fortezza, Launay, aveva fatto chiudere il ponte levatoio; ma verso mezzogiorno gli insorti riuscirono a scardinarlo.
Il tenente Nel primo pomeriggio il tenente André Jacob Elié, in uniforme bianca, si unisce agli insorti guidando un contingente della Guardia Francese.
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Il negoziatore Boucheron, uno degli inviati del Municipio di Parigi, avrebbe detto: “Mi sono tolto il cappello e ho gridato a gran voce: ‘Smettete di sparare’ ”.
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PRISMA
ROBESPIERRE CHIESE ALL’ASSEMBLEA DI PROCLAMARE LUIGI XVI TRADITORE DELLA NAZIONE FRANCESE IL CAPO DEI GIACOBINI ROBESPIERRE IN UNA MEDAGLIA IN BRONZO DEL XVIII SECOLO, NEW YORK.
Saint-Just sosteneva però che il giudizio contro il re dovesse provenire non da una consulta popolare ma dalla Convenzione, in quanto rappresentante del volere del popolo. Anche su questo si scontrava con i girondini, favorevoli al giudizio popolare nella speranza di salvare Luigi XVI. Continuava Saint-Just: “Luigi ha combattuto contro il suo popolo ed è stato vinto. Quale nemico, quale straniero ci ha fatto più male di lui?”. Il suo intervento terminava con un’accusa generalizzata all’istituzione monarchica: “Non si può regnare senza colpa. Ogni re è un ribelle e un usurpatore”.
Documenti compromettenti Il 20 novembre fu rivelata la scoperta di alcune carte segrete del re in un armadio di ferro nascosto alle Tuileries. Esse provavano che Luigi XVI aveva continuato a pagare, con le finanze dello Stato, numerosi sostenitori della monarchia che erano fuggiti all’estero e che si erano uniti agli eserciti dei Paesi schierati contro la Francia. I documenti dimostravano inoltre l’esistenza di accordi segreti con l’Austria asburgica. Luigi XVI, interrogato in proposito al processo, avrebbe negato di conoscere quei documenti, che ebbero un peso decisivo nelle accuse contro di lui. Nel frattempo, a Parigi crescevano l’agitazione popolare e lo scontento per le lungaggini dei preliminari del processo al re. Il primo dicembre Jacques Roux, un prete che aveva abbracciato la causa rivoluzionaria, nonché rappresentante degli enragés (gli “arrabbiati”), pronunciò un discorso in cui reclamava il procedimento giudiziario immediato contro quello che chiamava “Luigi l’Ultimo”. Roux accusava l’ex re di trattare con il nemico e anche di essere la causa della carestia che affliggeva il Paese. Jacques Roux aveva pronunciato il suo discorso in una sezione, uno dei vari distretti in cui i rivoluzionari avevano suddiviso Parigi. L’effetto fu quello di un 102 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
domino: la protesta si estese a macchia d’olio in tutta la città e subito le altre sezioni della capitale avanzarono le stesse pretese. Sull’onda del malcontento popolare, il 3 dicembre la Convenzione riaprì la discussione sul processo contro Luigi XVI. Diversi deputati intervennero per richiederlo. Alcuni si spinsero anche oltre, come Robespierre. Dopo aver affermato che “il diritto di punire il tiranno e quello di deporlo dal trono sono la stessa cosa”, il capo giacobino sostenne che non era necessario sottoporre a giudizio il re, visto che il popolo aveva già espresso la sua sentenza: “La vittoria del popolo ha deciso che lui era il ribelle; Luigi non può quindi essere giudicato: è già stato giudicato. O egli è condannato o la Repubblica non viene assolta. Per lui, io chiedo che la Convenzione lo dichiari da questo momento traditore della nazione francese e criminale verso l’umanità”. Nel discorso di Robespierre, una frase in particolare sarebbe rimasta celebre: “Luigi deve morire, perché la patria deve vivere”. Non era della stessa opinione Jean-Paul Marat, giornalista e medico, nonché uno dei giacobini più popolari e influenti: “Luigi XVI deve essere sottoposto a giudizio. Questo passaggio è fondamentale per istruire il popolo: è necessario convincere di questo tutti i membri della Repubblica”.
Uccidere il re per salvare la patria L’11 dicembre del 1792 Luigi XVI veniva prelevato dalla sua prigione nella Torre del Tempio, a Parigi, e condotto per la prima volta nell’aula della Convenzione, di fronte a un’assemblea profondamente divisa sulla sorte da riservargli. Bertrand Barère, il presidente della Convenzione, lo accolse con queste parole: “La nazione francese vi accusa; l’Assemblea Nazionale ha decretato di sottoporvi a giudizio”. Poi venne letta la lista delle accuse contro il sovrano.
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TAPPE DEL DECLINO DI UN SOVRANO LUIGI XVI SALÌ AL TRONO nel 1774,
3. Fermato mentre tenta la fuga (22-VI-1791) Nei pressi del confine con il Belgio, i sovrani in fuga vengono scoperti e arrestati. Il loro rientro a Parigi avviene tra gli insulti alla regina e le dimostrazioni di disprezzo per il re.
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LUIGI XVI IN UNA STAMPA PROPAGANDISTICA DEL 1792 INDOSSA IL BERRETTO FRIGIO DEI RIVOLUZIONARI E BRINDA ALLA SALUTE DELLA FRANCIA. MUSÉE CARNAVALET, PARIGI.
4. Assalito nel palazzo (20-VI-1792) La folla invade le Tuileries per obbligare Luigi XVI a rispettare le decisioni dell’Assemblea. Gli assalitori costringono il re a brindare alla salute della nazione e a indossare il berretto frigio.
PRISMA
BRIDGEMAN / INDEX
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5. Destituito (10-VIII-1792) I rivoluzionari assaltano di nuovo le Tuileries, questa volta per rovesciare Luigi XVI. Ne scaturisce una dura battaglia, che si conclude con il massacro della guardia del re.
1. Addio a Versailles (5-X-1789) Aizzate dalle voci di una reazione nobiliare, circa 7000 persone, in maggioranza donne, marciano su Versailles per chiedere migliori condizioni di vita e il trasferimento della corte a Parigi.
2. Prigioniero alle Tuileries (VI-1791) Luigi e Maria Antonietta vengono trasferiti al palazzo delle Tuileries, sotto lo stretto controllo della Guardia Nazionale. La regina convince il marito della necessità di fuggire.
PRISMA
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ad appena vent’anni. Sua moglie Maria Antonietta si rese presto impopolare per la sua fama di donna frivola e dissipatrice, ma egli mantenne un’immagine di sovrano bonario, anche dopo l’inizio della Rivoluzione (1789). Abbandonato il palazzo di Versailles e tornato a Parigi, adottò il titolo di re dei Francesi, ma la sua opposizione a certi provvedimenti, tra cui il rifiuto a sancire la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, gli procurò un’ostilità crescente tra il popolo di Parigi, che lo accusò di complicità con gli aristocratici e i nemici esterni.
6. Trasferito al Tempio (13-VIII-1792) Deposto, Luigi XVI viene trasferito alla Torre del Tempio come prigioniero, insieme alla sua famiglia. I reali vengono fatti sfilare per la città subendo gli insulti della popolazione parigina.
contro l’ex re. L’appello in sua difesa fu pronunciato da Raymond De Sèze, un giovane avvocato scelto proprio da Malesherbes e Tronchet. Le sue argomentazioni erano solide. Ricordava che la Costituzione del 1791 riconosceva l’inviolabilità della figura reale e osservava che, qualora Luigi XVI fosse stato sottoposto a giudizio, doveva essere giudicato come normale cittadino e in questo caso godere di pieni diritti civili. La Convenzione, quindi, non era il tribunale adatto a garantire la regolarità del processo: “Io cerco dei giudici e vedo solo accusatori”, concluse De Sèze.
ALBUM / AKG IMAGES
I dubbi della Palude
IL SOVRANO DI FRONTE ALLA CONVENZIONE Luigi XVI, vestito con una casacca azzurra e sostenuto dai suoi consiglieri, si difende dalle accuse di tradimento della patria di fronte ai deputati della Convenzione. Incisione del 1792.
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L’ex re chiese di vedere le prove e di poter scegliere gli avvocati in sua difesa. Designò Jean-Baptiste Target e François Tronchet, ma il primo rifiutò l’incarico giustificandosi con problemi di salute e il secondo accettò con cautela, chiedendo fin dal principio all’ex sovrano che non gli venisse offerto alcun segno di riconoscenza per la sua difesa. Intanto il giurista Guillaume de Malesherbes, che dal 1787 al 1788 era stato ministro della Corona, si era proposto all’Assemblea dei deputati come difensore di Luigi XVI: “Sono stato chiamato due volte dall’ex sovrano a far parte del Consiglio reale, in un’epoca in cui tale incarico era universalmente ambito. Gli devo riconoscenza e desidero assumermi un incarico che molti giudicano pericoloso”. La Convenzione informò della proposta l’ex sovrano, che accettò la difesa di Malesherbes. Il 26 dicembre la Convenzione aprì il giudizio
Una volta che il re si fu ritirato, iniziò il dibattito. I girondini volevano evitare la condanna a morte del re, e a tal fine sostennero che una decisione di questo tipo avrebbe scatenato una guerra delle potenze europee contro la Francia: chiesero perciò che la sentenza fosse ratificata dal popolo. Nel suo discorso del 28 dicembre, Robespierre rispose evocando lo spettro della guerra civile come conseguenza dell’appello al popolo. Gli uni e gli altri tentavano di convincere la maggioranza moderata dell’Assemblea, la Palude, che non era schierata con nessuna delle due parti. La disputa si risolse il 4 gennaio 1793, quando Barère, portavoce della Pianura, rifiutò l’appello al popolo: “Si può sottoporre alla ratifica del popolo una legge, il processo è, in realtà, un atto di salvezza pubblica o una misura di sicurezza nazionale, e gli atti di salvezza pubblica non si fanno ratificare dal popolo”. Il 14 gennaio arrivò il momento della votazione: si decise di suddividere il giudizio sul re in tre quesiti distinti, a ognuno dei quali l’Assemblea avrebbe risposto separatamente. Il 15 gennaio si svolse la prima votazione. Il quesito proposto ai deputati era: “Luigi Capeto [così l’Assemblea chiamava Luigi XVI, con riferimento a Ugo Capeto, che nel X secolo aveva fondato la dinastia capetingia: ndr], ex re dei Francesi, è colpevole di cospirazione contro la libertà e di attentato alla sicurezza dello Stato? ”. Su 749 deputati, si ebbero 691 risposte affermative, 27 astensioni e 31 assenze. Non ci furono risposte negative. Lo stesso giorno si votò il secondo quesito: “La decisione adottata dalla Convenzione nazionale dovrà essere ratificata dal popolo?”.
IL PRANZO NELLA DIMORA DEL RE (1) Luigi XVI (2) Maria Antonietta (3) Madame Elisabeth (sorella del re) (4) Luigi Carlo, il Delfino (5) Maria Teresa (figlia maggiore) (6) Jean-Baptiste Cléry, il servitore (7) Tison, maggiordono ufficiale (8) Guardie Nazionali (2)
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La reclusione di Luigi XVI e dei suoi familiari
PRIGIONIERI NELLA TORRE DEL TEMPIO
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LA FAMIGLIA REALE NEI GIARDINI DEL TEMPIO, INCISIONE SETTECENTESCA.
DAL 13 AGOSTO 1792, Luigi XVI e la sua famiglia furono trasferiti alla
Torre del Tempio, un edificio templare del XIII secolo poi trasformato in prigione. Dovettero vivere isolati, con un solo servitore, controllati giorno e notte dalla Guardia Nazionale. Insieme a Luigi furono imprigionati anche la moglie Maria Antonietta, la sorella, nota come Madame Elisabeth, e i figli Maria Teresa e Luigi Carlo.
LA ROUTINE DELLA FAMIGLIA REALE Mezzogiorno Ore 12 Le donne salgono nella camera di Madame Elisabeth per cambiarsi d’abito. Ore 13 Passeggiata nel giardino del Tempio, con quattro guardie al seguito. I bambini giocano a palla o corrono. Ore 14 La famiglia pranza nella stanza riservata al sovrano. Ore 15 I reali giocano a carte nella camera della regina.
Sera Ore 16 Il re fa un riposino, mentre la regina e i figli leggono in silenzio. Poi proseguono le lezioni e la lettura a voce alta. Ore 20 Viene servita la cena al principe Luigi Carlo. Ore 21 Il re cena nella sua stanza, poi si congeda dalla regina e dai figli. Ore 24 Dopo aver letto un po’, Luigi XVI si addormenta. ART ARCHIVE
Mattina Ore 6 Il re si alza. Il servitore gli fa la barba e lo pettina. Prega circa cinque minuti e si mette a leggere nel suo salottino. Ore 9 Tutta la famiglia si riunisce per fare colazione nella camera del re. Ore 10 I reali danno lezioni di letteratura e geografia ai figli. Ore 11 La regina lavora a maglia con la cognata e la figlia.
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LA MAGGIORANZA DELL’ASSEMBLEA VOTÒ A FAVORE DELL’ESECUZIONE IMMEDIATA DEL SOVRANO LA REGINA MARIA ANTONIETTA, IN UN MEDAGLIONE DORATO DEL 1774.
I risultati furono: 423 contrari all’approvazione popolare, 286 favorevoli, 28 assenti e 12 astenuti. La Convenzione si era quindi pronunciata a favore della colpevolezza definitiva del re, senza il rimando alla ratifica popolare. Restava da rispondere al terzo quesito: “Quale pena per Luigi, re dei Francesi?”. La votazione iniziò nel pomeriggio del 16 gennaio e si protrasse per tutta la notte. Alla fine, su 721 deputati, 366 votarono per la morte immediata; 26 per la pena di morte ma con una proroga dell’esecuzione, e 329 si divisero tra carcere a vita e detenzione. Il giorno 17, alle nove del mattino, il presidente dell’Assemblea annunciò la sentenza: “Dichiaro, a nome della Convenzione Nazionale, che la pena da essa pronunciata contro il re è la morte”.
L’ultima speranza Malesherbes, addolorato, comunicò al sovrano la condanna. Cercò, tuttavia, di dargli qualche speranza: la Convenzione doveva infatti ancora discutere la proposta di chi aveva votato per l’esecuzione capitale, ma chiedendo un rinvio. L’ulteriore quesito fu così formulato: “Ci sarà una sospensiva per l’esecuzione di Luigi Capeto?”. Il dibattito si svolse tra il 18 e il 19 gennaio e i girondini tentarono in ogni modo di salvare il re. Ma i giacobini, e con loro la maggioranza dell’Assemblea, si mostrarono inflessibili: su 690 votanti, 310 furono favorevoli alla sospensiva e 380 contrari; non si astenne nessuno. Il risultato finale decretò quindi l’esecuzione immediata del sovrano. Il 20 gennaio, verso le due del pomeriggio, Dominique Garat, ministro della Giustizia, accompagnato dai ministri degli Esteri e dell’Interno, si recò al Tempio per comunicare a Luigi XVI la decisione della Convenzione. Luigi reagì con serenità. Fece tre richieste: un ritardo di tre giorni per prepararsi a morire, l’autorizzazione a vedere la moglie Maria 106 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Antonietta e tutta la sua famiglia senza testimoni e il permesso di avere come confessore Edgeworth de Firmont, un prete “refrattario”, ovvero che si era rifiutato di giurare sulla legislazione rivoluzionaria rinnegando la Chiesa. I delegati della Convenzione negarono il rinvio ma acconsentirono alle altre due richieste.
Il corteo verso la ghigliottina Il 21 gennaio del 1793, il re si alzò alle cinque del mattino per assistere alla messa celebrata dal suo confessore. Verso le otto e mezza il capo della Guardia Nazionale di Parigi lo prelevò per condurlo al patibolo. Nel cortile lo attendeva una carrozza circondata da 1300 gendarmi a cavallo. Il tragitto tra il carcere e il luogo dell’esecuzione, l’attuale Place de la Concorde, durò un’ora e mezza. Circa 80.000 guardie nazionali armate di picche e fucili controllavano il corteo su entrambi i lati della strada. Verso le dieci la carrozza giunse ai piedi del patibolo. Luigi XVI si tolse da solo la finanziera, dopodiché gli furono legati i polsi e salì sul patibolo, accompagnato da Edgeworth. Giunto dinnanzi alla ghigliottina, si rivolse alla folla per proclamare la sua innocenza. Secondo la testimonianza del confessore, le parole che pronunciò furono: “Muoio innocente di tutti i crimini a me imputati. Perdono i responsabili della mia morte e prego Dio che il sangue versato non ricada sulla Francia.” . Pochi minuti dopo, alle dieci e venti, la ghigliottina poneva termine alla vita di Luigi XVI, ultimo re di Francia per diritto divino; l’esecuzione era stata accompagnata dagli applausi e dalle grida di giubilo della folla, inneggiante alla Repubblica e alla libertà. Solamente 19 anni erano trascorsi tra la morte a Versailles di Luigi XV, il re “beneamato”, e la decapitazione del nipote sulla pubblica piazza; eppure la Storia aveva creato tra le due epoche una distanza incolmabile.
Le conseguenze del regicidio
UNA GHIGLIOTTINA INSTANCABILE L’esecuzione del re non fece che aggravare le tensioni tra i partiti rivoluzionari. Mentre una coalizione straniera premeva alle frontiere francesi, i giacobini avviarono la stagione del Terrore, ghigliottinando tutti i simpatizzanti, veri o presunti, della Corona.
Guerra alle frontiere
Luigi Filippo II di Borbone-Orléans
Quando si diffuse la notizia dell’esecuzione di Luigi XVI, tutte le corti europee si vestirono a lutto, dall’Austria alla Spagna fino alla Gran Bretagna. Il primo ministro inglese, Pitt il Giovane, definì il regicidio “l’atto più infame e atroce che il mondo abbia mai visto”. Tutti si unirono contro la Francia minacciando di invaderla.
Il duca d’Orléans vantava remoti diritti al trono e un’enorme fortuna. Di idee liberali, si era unito con entusiasmo alla Rivoluzione francese. Eletto deputato nel 1792 e soprannominato “Philippe Égalité”, non esitò a votare per la morte di Luigi XVI. Ma questo non lo salvò dall’arresto e dalla ghigliottina, il 6 novembre del 1793.
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EMBLEMA DEGLI ASBURGO, LA DINASTIA REGNANTE SUL SACRO ROMANO IMPERO.
IL DUCA D’ORLÉANS IN UN RITRATTO DEL 1777, MUSÉE CONDÉ, CHANTILLY.
Michel Lepeletier de Saint-Fargeau
Guillaume de Malesherbes
IL MARTIRE DEI RIVOLUZIONARI
MALESHERBES RICEVE L’ORDINE D’ARRESTO, TEMPERA DEL XVIII SECOLO.
Il 20 gennaio del 1793 Lepeletier de Saint-Fargeau, uno dei deputati che con più forza avevano perorato l’esecuzione del re, si trovava in un caffè nel centro di Parigi, quando un’ex guardia del corpo del sovrano si avventò su di lui e lo pugnalò a morte. Le autorità rivoluzionarie gli tributarono onori solenni ed esequie spettacolari, trasformandolo in un “martire” della rivoluzione da contrapporre al re ucciso.
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LA TRAGEDIA DELL’AVVOCATO
Annientamento dei rivali
Maximilien de Robespierre
Il tentativo di molti girondini di salvare il re li rese invisi ai rivali giacobini, che li accusarono di essere “complici criminali della regalità, nemici di ogni forma di libertà e uguaglianza”. Espulsi dalla Convenzione il 2 giugno, data d’inizio del Terrore, molti girondini salirono sul patibolo il 31 ottobre 1793.
Dall’estate del 1793 il capo dei giacobini Robespierre, attraverso il Comitato di salute pubblica, fu l’anima del governo rivoluzionario. L’anno successivo, però, scoppiò una rivolta contro la sua dittatura e il cosiddetto “Incorruttibile” fu mandato alla ghigliottina, il 28 luglio del 1794, insieme al fidato Saint-Just.
ESPONENTI GIRONDINI SONO CONDOTTI AL PATIBOLO, INCISIONE DEL XIX SECOLO.
LA GHIGLIOTTINA FU PERFEZIONATA DA JOSEPH-IGNACE GUILLOTIN NEL 1790.
GIACOBINI AL PATIBOLO
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LA CADUTA DEI GIRONDINI
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GTRES
La sua difesa del sovrano al processo rese il settuagenario Malesherbes sospetto agli occhi di molti rivoluzionari radicali. Accusato di essere “al servizio della tirannide reale”, fu arrestato e processato in un tribunale rivoluzionario insieme alla figlia, al genero e ai suoi nipoti. Malesherbes fu ghigliottinato il 22 aprile del 1794, dopo aver visto i suoi cari subire la stessa sorte.
SCALA, FIRENZE
UN REGICIDA DI SANGUE BLU
INDIGNAZIONE IN EUROPA
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LA GRANDE RIVOLUZIONE DEI DIRITTI
LE CORTES DI CADICE
Con quasi tutta la Penisola iberica occupata da Napoleone e sotto i continui bombardamenti dei Francesi, si riunì a Cadice un’assemblea, le Cortes, destinata a cambiare il corso della storia spagnola ALBERT GHANIME STORICO
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LA COSTITUZIONE DI CADICE Questo dipinto di Salvador Viniegra, eseguito nel 1912, raffigura il momento in cui le Cortes di Cadice promulgano la carta costituzionale del 1812, chiamata “La Pepa”. Museo Storico Municipale, Cadice.
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lle nove di mattina del 24 settembre 1810, un centinaio di deputati, in rappresentanza di tutte le città e le province di Spagna, si riunirono nel comune di Isla de Léon (attuale San Fernando, vicino a Cadice). Poi andarono nella chiesa parrocchiale, dove l’arcivescovo di Toledo, Luigi di Borbone, celebrò una messa.
UN VENTAGLIO CELEBRATIVO Oggetti come questo ventaglio, ornato da un’immagine allegorica, attestano l’entusiasmo suscitato in Spagna dalla Costituzione nel 1812. XIX secolo. Museo Tessile, Barcellona.
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A quel punto, fu chiesto a ciascuno dei deputati: “Riconoscete la santa religione cattolica apostolica romana senza ammetterne alcun’altra nel regno? Giurate di conservare nella sua integrità la nazione spagnola e di non tralasciare nessun mezzo per liberarla dai suoi ingiusti oppressori? Giurate di adempiere lealmente e secondo il diritto l’incarico che la nazione vi ha affidato, rispettando le leggi spagnole, salvo modificare, moderare e variare quelle leggi per cui lo richiedesse il bene della nazione? Se così agirete, che Dio vi premi; altrimenti, che vi punisca”. Tutti i deputati presenti giurarono affermativamente, nonostante qualche timida obiezione levatasi prima della cerimonia. Al termine della celebrazione, i magistrati e i deputati si trasferirono nel salone delle Cortes, situato nel Teatro Cómico di Isla de Léon. Il presidente del Consiglio di Reggenza pronunciò un breve discorso; furono così inaugurate le Cortes generali e straordinarie, l’assemblea che sarebbe passata alla storia con il nome di Cortes di Cadice. Lo stesso 24 settembre, le Cortes approvarono il loro primo decreto, nel quale i deputati si proclamavano rappresentanti della nazione spagnola e affermavano che in loro risiedeva la sovranità nazionale, riservandosi il potere legislativo in tutta la sua estensione. Si trattava di una decisione rivoluzionaria, con la quale le Cortes spogliavano il monarca del suo potere assoluto e ponevano le basi di un regime costituzionale, il primo della storia spagnola. Tutto era iniziato due anni prima, nel 1808, con
l’ingresso nella Penisola iberica delle truppe di Napoleone, imperatore di Francia. Questa invasione determinò il crollo di tutta l’impalcatura politica della monarchia borbonica, mentre il re Ferdinando VII veniva trattenuto in Francia da Bonaparte. In questa situazione di vuoto di potere, mentre si registravano i primi scontri tra i soldati francesi e i locali, si formarono quasi immediatamente giunte di governo locali e provinciali che si organizzarono, a loro volta, in giunte supreme (regionali). Nel settembre del 1808 fu creata la Giunta Centrale, integrata da trentasei consiglieri delle giunte provinciali. Essa si stabilì ad Aranjuez, vicino a Madrid; ma, a dicembre, prima dell’avanzata delle truppe di Napoleone, si ritirò a Siviglia.
Si costituiscono le Cortes Di fronte all’assenza di Ferdinando VII, gli Spagnoli, attraverso il sistema delle giunte, si erano dati un governo allo scopo di coordinare la resistenza contro i Francesi. Per alcuni, tali assemblee avevano carattere provvisorio, dovendo durare finché il re non fosse tornato in Spagna; altri invece pensavano che quella fosse un’opportunità per creare un nuovo sistema di governo, più giusto e rappresentativo rispetto al regime assolutista dei re borbonici. Sognavano di approfittare della guerra contro Napoleone per fare una rivoluzione politica come quella francese del 1789. L’istituzione delle Cortes risaliva al Medioevo, quando in ognuno dei regni della Penisola iberica vi erano assemblee all’interno delle quali erano rappresentate le tre classi della società: il clero, la nobiltà e le città.
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LA CATTEDRALE DI CADICE. Durante gli anni in cui le Cortes si stabilirono a Cadice, la città spagnola sull’Oceano Atlantico visse una stagione di autentica euforia politica.
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LE GRANDI
IDEE DEL 1812 N ONOSTANTE ALCUNI DEPUTATI di Cadice
affermassero che la Costituzione del 1812 fosse un ritorno alle libertà della Spagna medievale represse dal XVI secolo, la loro principale fonte d’ispirazione fu la Costituzione francese del 1791. I postulati della Costituzione di Cadice furono, per questo, molto radicali per l’epoca, in particolare l’attribuzione del potere legislativo a un’assemblea nazionale, con l’esclusione del Senato aristocratico e la limitazione del potere di veto del re. Tale radicalismo fece sì che, anni dopo, i rivoluzionari di Portogallo, Italia e America Latina la prendessero come modello e che in Spagna, dopo essere stata restaurata tra il 1820 e il 1823, fosse sostituita, dal 1837, da costituzioni più moderate.
LE CATENE DEL DISPOTISMO. DETTAGLIO DELLA COPERTINA DI UN’EDIZIONE DELLA COSTITUZIONE DI CADICE DEL 1812. BIBLIOTECA NAZIONALE, MADRID. AISA
Le Cortes approvavano leggi e talvolta riuscivano a tenere testa al potere del sovrano. Tuttavia, dal XVI secolo avevano iniziato un netto declino in seguito al consolidamento del potere assoluto dei monarchi, e nel XVIII secolo erano scomparse oppure venivano convocate in occasioni molto rare. Nel tempo, più volte si erano alzate voci per chiedere che si ristabilissero quelle Cortes con tutte le loro prerogative. Anche se, in realtà, più che ripristinare un’istituzione medievale, ciò che si voleva era creare un’assemblea nazionale che assumesse l’intera sovranità, come era successo in Francia nel 1789. Nell’aprile del 1809, un membro della Giunta Centrale, Lorenzo Calvo de Rozas, propose di convocare le Cortes per stabilire una “Costituzione ben ordinata”. I difensori dell’assolutismo diffidavano di un’iniziativa che pretendeva di convocare le Cortes in assenza del monarca, un fatto senza precedenti, mentre i liberali speravano che l’assemblea servisse per introdurre le riforme di cui il Paese aveva bisogno e cambiare così il corso della storia spagnola. Il 22 maggio del 1809, la Giunta Centrale approvò la proposta e nei mesi successivi dibatté su quale dovesse essere il sistema di elezione dei deputati. Nel gennaio del 1810, gli avvenimenti precipitarono. Invasa l’Andalusia dai Francesi e con l’esercito spagnolo disperso e in ritirata, la Giunta Centrale abbandonò Siviglia e si spostò a Isla de Léon, che subito si sarebbe trasformata in un baluardo della resistenza spagnola. Lì, i poteri della Giunta furono trasferiti a un Consiglio di Reggenza, che si fece carico, non senza reticenze, della convocazione delle Cortes così come era stata prevista. L’apertura dell’assemblea ebbe luogo finalmente nel settembre del 1810, nel Teatro Cómico di Isla de Léon. In quel momento, Cadice era colpita da un’epidemia, forse di tifo, che non ebbe però conseguenze devastanti.
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LA CONVOCAZIONE DELLE CORTES IN ASSENZA DEL RE NON AVEVA PRECEDENTI
LA NAZIONE SOVRANA La Costituzione consacra il principio che la sovranità risiede nel popolo
Il popolo è sovrano e, pertanto, è suo il diritto di elaborare una costituzione fondamentale: art. 3: La Sovranità risiede essenzialmente nella Nazione e appartiene esclusivamente a questa il diritto di stabilire le sue leggi fondamentali. Il popolo spagnolo esercita la sovranità e l’insieme dei suoi diritti politici attraverso le Cortes, un’assemblea di deputati che è obbligata a riunirsi in modo praticamente permanente per trattare le questioni nazionali, e non quando piaccia o convenga al re. art. 104: Le Cortes si riuniranno tutti gli anni nella Capitale del Regno, in un edificio destinato a questo solo scopo.
UNA MONARCHIA LIMITATA Numerosi articoli pongono stretti limiti al potere del monarca
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La Costituzione riconosceva che la Spagna era una monarchia ereditaria e attribuiva al re una serie di prerogative, tra cui l’inviolabilità. art. 168: La persona del Re è sacra e inviolabile e non è soggetta ad alcuna responsabilità. Enumerava tuttavia varie restrizioni all’autorità regale, per esempio: art. 172: Il Re non può privare nessun Individuo della sua libertà né imporgli di sua autorità alcuna pena.
BANDIERA SPAGNOLA. PARTICOLARE DE LA PROMULGACIÓN DE LA CONSTITUCIÓN DE 1812, DI SALVADOR VINIEGRA. 1912, CADICE.
La principale limitazione consisteva nel fatto che le leggi le facevano le Cortes e il re le sanciva: art. 15: Il potere di fare le leggi risiede nelle Cortes con il Re. Il re poteva rifiutarsi di sancire le leggi, ma al terzo rifiuto il suo potere di veto veniva annullato: art. 149: Se fosse approvato per la terza volta lo stesso progetto nelle Cortes del seguente anno, si intende che il Re dà la sua sanzione.
Come la Rivoluzione francese del 1789, la Costituzione di Cadice contiene una dichiarazione di diritti dei cittadini. Tra gli altri, si garantisce la libertà degli individui. art. 172: il Re non può privare nessun individuo della sua libertà né imporgli di sua autorità alcuna pena. Si riconosce anche il diritto a un processo giusto in un tribunale, mai sotto una giurisdizione speciale: art. 247: Nessuno spagnolo potrà essere giudicato in cause civili né penali da nessuna Commissione, se non dal tribunale competente, determinato dalla legge.
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I deputati rifiutano l’idea che un monarca o una dinastia possa governare un Paese come se si trattasse di una proprietà privata: art. 2: La Nazione Spagnola è libera e indipendente, e non è né può essere patrimonio di nessuna famiglia né persona.
GARANZIE GIURIDICHE La legge fondamentale si propone di proteggere i cittadini dagli abusi di potere
Rimane proibito l’uso della tortura da parte delle forze di polizia o dei giudici: art. 303: Non si impiegherà mai nessuna tortura né violenza. Si assicura il principio dell’inviolabilità del domicilio, eccettuati i casi stabiliti dalla legge per garantire l’ordine e la sicurezza: art. 306: Non potrà essere violato il domicilio di nessuno spagnolo.
FERDINANDO VI GIURA SULLA COSTITUZIONE DEL 1812. ASTUCCIO IN BRONZO. CONGRESSO. MADRID.
CITTADINI PATRIOTI La nuova Costituzione doveva basarsi su un nuovo tipo di cittadino, colto e patriota
In contrasto con il loro atteggiamento passivo e sottomesso al mandato dei re assoluti, gli Spagnoli dovranno mostrare ora virtù civiche come il patriottismo e il sentimento di giustizia: art. 6: L’amore della Patria è uno principali obblighi di tutti gli Spagnoli, che allo stesso tempo hanno il dovere di essere giusti e benefici. I legislatori di Cadice copiano la Costituzione francese del 1791 nel fissare come obiettivo principale dello Stato la “felicità” del popolo: art. 13: L’obiettivo del Governo è la felicità della Nazione, in quanto il fine della società politica intera non è altro che il benessere degli Individui che la compongono. L’educazione è un fattore fondamentale nel nuovo ordine politico. Un articolo stabilisce la durata dell’educazione primaria, e si prevede che in futuro votino solo le persone alfabetizzate: art. 25: Dal 1830 dovranno sapere leggere e scrivere quelli che di nuovo entrassero nell’esercizio dei diritti del Cittadino.
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LA LIBERTÀ DI STAMPA E LA FINE DELLA CENSURA DIEDERO IL VIA AD ACCESI DIBATTITI
STATO MAGGIORE FRANCESE
ESEMPLARE DELLA COSTITUZIONE E ASTUCCIO CHE LA CONTIENE.
Scampato il pericolo, dal gennaio del 1811 le Cortes si trasferirono a Cadice e si stabilirono nella chiesa di San Filippo Neri. Il numero di deputati che assistettero alle Cortes di Cadice fu variabile: nella sessione inaugurale ne furono presenti circa cento, 185 firmarono la Costituzione e 223 si trovavano nella sessione di chiusura delle Cortes Straordinarie. Provenivano da tutta la Spagna e anche dall’America, in quanto le Cortes pretesero di dare gli stessi diritti agli Spagnoli del Nuovo Mondo. La maggior parte erano ecclesiastici, avvocati e funzionari. Tra i deputati si formarono subito due grandi gruppi ideologici: i sostenitori dell’assolutismo e del vecchio ordine tradizionale, chiamati dai loro nemici “servili” (deputati come Blas de Estolaza e Lázaro de Dou), e i liberali, sostenitori della riforma della società, rappresentati da politici brillanti come Agustín Argüelles, Diego Muñoz Torrero, il conte di Toreno e José María Calatrava. Furono i liberali a condurre il gioco, sostenuti dall’atmosfera che si respirava a Cadice, la quale era divenuta una vera e propria fucina di liberali. Anche la maggior parte del clero regolare di Cadice era liberale perché era vicina alle istanze egualitarie, di appoggio ai deboli e di lotta contro i privilegi.
Addio all’Inquisizione, viva la libertà Anche i giornali giocarono a favore dei liberali. Il 10 novembre del 1810, le Cortes decretarono la libertà di stampa, sopprimendo la censura preventiva delle opere politiche. Dopo anni di censura e proibizione vi era ora la possibilità di esprimere la propria opinione liberamente. I dibattiti divennero pubblici, sorsero circoli e si moltiplicarono i giornali e le pubblicazioni; tra quelli liberali si distinsero El Conciso liberal, il Semanario Patriótico e 114 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
, Cádiz
BIBLIOTECA NAZIONALE DI SPAGNA
MUSE
El Puerto de Santa S anta M María aría
El Robespierre Español. L’opposizione assolutista, che disponeva anch’essa di suoi mezzi, si trovava in netto svantaggio. I caffè diventarono nuovi spazi per socializzare e per lo scambio delle idee. I frequentatori del Caffé de Cadenas o del León de Oro, tra gli altri, si lanciavano in appassionate polemiche a partire dalla lettura delle cronache di quanto accadeva nelle sessioni delle Cortes pubblicate dal Semanario Patriótico. Nel frattempo, la gioventù gaditana, infiammata dalle discussioni, si arruolava nei diversi battaglioni di volontari che andavano formandosi, come quello dei “lattughini”, così chiamati per l’utilizzo del colore verde nelle loro divise, anche se il nome venne loro attribuito perché la maggior parte di loro apparteneva ai quartieri di Puerta de Tierra e Extramuros, dove si coltivavano lattughe. Il lavoro legislativo delle Cortes di Cadice fu
L’ASSEDIO FRANCESE DI CADICE
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ON LE SUE MURA, la sua guarnigione, e i contingenti spagnolo e britannico che la proteggevano, Cadice era la città che nel 1810 offriva più garanzie per resistere ai Francesi. Lo dimostrò durante i due anni e mezzo in cui perdurò l’assedio al quale fu sottoposta. Tuttavia, dal dicembre del 1810, iniziarono a cadere sulla città granate e bombe. Per raggiungere una distanza maggiore, i Francesi avevano aumentato il peso dei proiettili, riempiendoli con più piombo, ma la maggior parte di questi non esplodeva. Superati i primi momenti di spavento, i Gaditani inventarono canzoni di sfida, come una, molto celebre, che diceva così: “Con le bombe che tirano / gli spacconi /, le Gaditane si fanno / tirabaci“ (ricci che le donne si fissavano con piccoli pezzi di piombo). I bombardamenti terminarono il 24 agosto del 1812; il giorno seguente, i Francesi iniziarono la ritirata.
CARTINA INGLESE CHE RAFFIGURA LA BAIA DI CADICE ALLA FINE DEL XVIII SECOLO, POCO PRIMA DELLE CORTES.
enorme. Vennero abolite istituzioni dell’Ancien Régime come il sistema feudale di proprietà della terra, l’Inquisizione e le prove di nobiltà, oltre che le istituzioni di controllo economico e sociale o quelle che limitassero la libertà individuale, come le corporazioni. Il dibattito sull’Inquisizione sollevò autentiche passioni. I liberali, imbevuti delle idee di illuministi ed enciclopedisti del XVIII secolo, oltre che dei principi della Rivoluzione francese, vedevano nel Tribunale un nemico della tolleranza e della libertà. Si stamparono molti scritti per chiedere l’abolizione del Sant’Uffizio, come quello del liberale catalano Antonio Puigblanch, che pubblicò L’inquisizione senza maschera, o Dissertazione nella quale si provano fino all’evidenza i vizi di questo tribunale e la necessità di sopprimerlo (1811). Pluigbanch era sostenitore dell’idea di eliminare l’Inquisizione: “Quando cerco di distruggere l’Inquisizione
fin dalle sue fondamenta, ritengo di svolgere uno dei principali doveri, che impongono a ogni cittadino umanità e religione, entrambe offese atrocemente, e per una lunga serie di secoli, in questo tribunale”. Il 22 di febbraio del 1813, l’Inquisizione fu dichiarata “incompatibile con la costituzione politica della monarchia” e, il giorno dopo, la Reggenza del regno sopprimeva il Tribunale, che veniva sostituito dai tribunali della fede.
Verso la Costituzione La legge di maggiore importanza approvata dalle Cortes di Cadice fu la Costituzione, base della riforma di tutta la struttura giuridica e politica assolutista. Il testo stabiliva un modello liberale di Stato, basato sulla divisione di poteri: il re si faceva carico del governo e dell’amministrazione. Il potere di fare le leggi spettava alle Cortes, anche se il re doveva STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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RIVOLUZIONE
IL RE FERDINANDO VII DICHIARÒ NULLA LA COSTITUZIONE E I DECRETI EMANATI
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PRISMA
sancirle e poteva porvi il veto per due anni. I tribunali di giustizia avevano invece la responsabilità di applicare la legge. Si trattava dunque di un sistema molto avanzato per quell’epoca e di fatto sarebbe divenuto il modello di altre rivoluzioni liberali. Il testo definitivo della Costituzione fu promulgato il 19 marzo del 1812, giorno di san Giuseppe: da qui il nome popolare di “La Pepa” che gli si sarebbe attribuito più tardi. Nonostante la pioggia e la vicinanza dell’esercito francese, quel giorno le manifestazioni di giubilo furono generali e si sentirono urla di gioia e applausi in tutta la città. I deputati marciarono in corteo, tra le acclamazioni e le canzoni patriottiche della popolazione. Per perpetuare il ricordo di quella giornata, furono coniate medaglie e si improvvisarono composizioni poetiche. La notizia si propagò in un lampo in tutta la Spagna e le province si andarono ad aggiungere alle celebrazioni nella misura in cui lo consentiva l’occupazione francese. Nel 1814, la ritirata dei Francesi riempì di aspettative i patrioti di Cadice. I deputati si trasferirono a Madrid, con la speranza che il regime che avevano forgiato in quella città si concretizzasse in un Paese libero e pacifico. Il trionfo tuttavia si trasformò in un incubo. Al suo ritorno in Spagna, il re Ferdinando VII non solo non giurò né accettò la Costituzione né alcun decreto emanato dalle Cortes, ma dichiarò quella costituzione e quei decreti nulli e perciò di nessun valore ed effetto, “come se tali atti non fossero mai stati approvati o fossero stati cancellati dal tempo”. L’11 maggio, i deputati ricevettero l’ordine di sciogliere le Cortes, mentre i sostenitori del sovrano percorrevano le strade di Madrid al grido di “Viva la Religione!, Abbasso le Cortes!, Viva Ferdinando VII!, Viva l’Inquisizione!”. Aveva inizio in questo modo in Spagna il periodo reazionario assolutista.
Mentre erano riunite le Cortes, i cittadini di Cadice
(1) LA STAMPA E L’OPINIONE Nel periodo delle Cortes furono scritti a Cadice molti diari politici. Li elaborarono piccoli gruppi di giornalisti professionisti, le cui critiche spesso infastidivano i parlamentari. Uno di loro, per esempio, li chiamò “ciarlatani che avevano scelto come mestiere lo scrivere invece dell’impugnare un fucile”. Il quotidiano più popolare e uno dei più importanti era El Conciso liberal (il suo motto era “Sterminio del fanatismo”), che vendeva 2000 copie, un quantitativo molto elevato per l’epoca. I quotidiani si compravano nella redazione stessa e si leggevano a voce alta nei caffè e nei circoli culturali.
(2) I DIBATTITI NELLE CORTES All’arrivo a Cadice, i deputati delle Cortes furono alloggiati in case private, insieme a famiglie della città. Erano tutti “uomini nuovi”, senza esperienza politica, ma parecchi si fecero presto conoscere per le loro doti oratorie, come il sacerdote Diego Muñoz Torrero, l’avvocato Agustín Argüelles o lo scrittore e politico Antonio Alcalá Galiano. Alle sessioni delle Cortes poteva assistere il pubblico, ma le tribune della chiesa di San Filippo Neri avevano scarsa capacità (non più di cento persone) e non sempre erano piene. Non si può certo dire che i parlamentari arrivassero a sentirsi sotto pressione.
LETTURA DELLA STAMPA IN UN CAFFÈ DEGLI INIZI DEL XIX SECOLO. 1839. TELA DI LEONARDO ALENZA. MUSEO LÁZARO GALDIANO, MADRID.
SESSIONE DELLE CORTES NEL TEATRO CÓMICO DI SAN FERNANDO, PRIMA DEL TRASFERIMENTO A CADICE. 1812. INCISIONE DI JUAN GÁLVEZ.
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E GUERRA A CADICE NEL
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parteciparono attivamente ai dibattiti politici e alla difesa della città dagli assedianti francesi
(3) SOLDATI E MILIZIANI Sottoposta ad assedio per più di due anni da parte dei Francesi, Cadice era una città sul piede di guerra mentre si celebravano le Cortes. La marina e la fanteria spagnola e inglese svolgevano insieme i compiti difensivi, anche se i Gaditani si preoccuparono di stabilire gli Inglesi fuori dalle mura perché non si ripetesse con loro ciò che era successo a Gibilterra un secolo prima. Cadice si trasformò in una città armata: i residenti crearono milizie di volontari per difendere la popolazione, come i “Voluntarios Distinguidos”, la cui sgargiante uniforme valse loro il soprannome di “pappagalli”.
(4) UN POPOLO
(5) IL RUOLO
ESALTATO Uno storico dell’epoca diceva che “gli abitanti di Cadice erano molto d’accordo con le nuove idee”, quelle dei liberali. Effettivamente, i dibattiti delle Cortes trovavano eco nei circoli, nei caffè, nei continui incontri e nelle discussioni… In uno spettacolo teatrale, quando venne letto il bollettino militare che dava conto di una vittoria spagnola, il pubblicò proruppe in canzoni patriottiche sullo stile della Marsigliese. Una di queste diceva: “Le forti spade / patrizi guerrieri / subito impugnate / marciate, sì, marciate, / risuoni il tamburo; veloci marciamo / e il sangue spagnolo vendichiamo / versato con cieco furore”.
DELLE DONNE Durante la guerra diverse donne, gaditane o forestiere, arrivarono a ricoprire un ruolo di rilievo nella vita della città. Alcune signore benestanti allestirono salotti mondani che accoglievano politici e notabili, sia che fossero liberali o assolutisti. Vi furono anche donne giornaliste, come María del Carmen Silva, moglie dell’editore del giornale El Robespierre Español, che sostituì il marito mentre questi era in carcere; o come María Manuela López di Ulloa, autrice di articoli reazionari. Si arrivò a pubblicare un quotidiano per donne, El Amigo de las Damas, anche se di tono abbastanza paternalista.
(6) UNA CITTÀ COSMOPOLITA Alla vigilia della guerra contro Napoleone, Cadice era una prospera città mercantile, moderna e cosmopolita. I visitatori rimanevano meravigliati davanti alla pulizia delle sue strade, agli abiti “alla liberale” che erano sfoggiati dai borghesi (e che contrastavano con la moda autenticamente madrilena), alla presenza visibile di stranieri, inclusi protestanti, allo “spirito di uguaglianza” che caratterizzava il rapporto tra le classi sociali… Intorno al 1800 la città contava circa 60.000 abitanti, che salirono a 80.000 quando furono inaugurate le Cortes in seguito all’arrivo di profughi e di militari.
PROCLAMAZIONE DELLA COSTITUZIONE APPROVATA A CADICE IL 18 MARZO DEL 1812. INCISIONE, BIBLIOTECA NAZIONALE, PARIGI.
IL POPOLO SI DIRIGE ALLE CORTES RIUNITESI A CADICE NEL 1812. MUSEO STORICO MUNICIPALE. SAN FERNANDO.
IL CIRCOLO. DISEGNO DI FRANCISCO JOSÉ DE GOYA Y LUCIENTES, REALIZZATO DURANTE INTORNO AL 1790. MUSEO DEL PRADO, MADRID.
PIAZZA DELLA COSTITUZIONE DI CADICE. ANTICA PIAZZA DI SANT’ANTONIO. INCISIONE DELLA METÀ DEL XIX SECOLO.
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STRAGE DI OPERAI I corpi senza vita degli operai parigini caduti nel giugno del 1848 durante l’attacco della Guardia Nazionale alle barricate di Rue de la Mortellerie. Olio su tela di E. Meissonier, 1850-1851, Museo del Louvre, Parigi.
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UN SOVRANO POCO AMATO Luigi Filippo I in un ritratto di Sophie Lienard: salito al trono nel 1830, si rivelò un sovrano dispotico e conservatore. 1842, Saint Louis Art Museum, Missouri (Stati Uniti).
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1848 LA PRIMAVERA DELLA LIBERTÀ
La Rivoluzione francese del 1848, che segnò l’avvento della Seconda Repubblica, non ebbe una lunga vita, ma segnò la “Primavera dei Popoli” che stava dilagando in Italia e nel resto d’Europa contro le monarchie assolutiste DOMINIQUE KALIFA PROFESSORE DI STORIA DELL’UNIVERSITÀ DI PARIGI 1 E DIRETTORE DEL CENTRO DI STORIA DEL XIX SECOLO
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LA BATTAGLIA DEL 25 GIUGNO Il popolo in armi difende le barricate parigine di Rue de Soufflot dalla carica dell’esercito regolare. Olio su tela di Horace Vernet, 1850, Deutsches Historisches Museum, Berlino.
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insurrezione che scoppiò a Parigi nel febbraio del 1848 segnò un momento di svolta nella storia europea del XIX secolo. Generata dalla comune ostilità di studenti, operai e borghesi liberali verso un regime corrotto, essa provocò la fine della monarchia di Luigi Filippo I e la nascita della Seconda Repubblica francese. Per alcuni mesi, il nuovo regime suscitò grandi speranze, nutrite dallo spirito di fratellanza che pareva saldare tra loro le pur eterogenee forze repubblicane; ma poi il sogno romantico di pacificazione sociale si tramutò in un incubo. In giugno, l’insurrezione operaia dei quartieri orientali di Parigi sfociò in un bagno di sangue. E anche nel resto d’Europa, le rivolte indipendentistiche o liberali che avevano fatto vacillare le varie monarchie nazionali
furono represse l’una dopo l’altra. La marea rivoluzionaria dell’inverno 1848 a poco a poco rifluì, lasciando dietro di sé la disillusione e l’amarezza di chi, abbracciando la rivolta, aveva sognato di cambiare l’Europa.
Un regime impopolare Sebbene fosse figlio della Rivoluzione del 1830 che aveva abbattuto Carlo X di Borbone, il regno di Luigi Filippo I d’Orléans si era presto trasformato in un regime dispotico e impopolare. La crisi economica, il forte aumento della disoccupazione, gli scandali finanziari, la paralisi del governo di François Guizot avevano gettato discredito sulla Corona e generato una diffusa antipatia nei suoi confronti. A tutto ciò si sommò, nel 1847, la decisione del governo di proibire le riunioni pubbliche, un veto che l’opposizione aggirò organizzando banchetti in tutto il Paese.
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LA QUIETE PRIMA DELL’ASSALTO Le barricate di Rue Saint-Maur, a Parigi, poco prima dell’assalto delle truppe del generale Lamoricière. Dagherrotipo scattato il 25 giugno 1848 da un fotografo dilettante di nome Thibault. Musée d’Orsay, Parigi.
to di fanteria, che la situazione degenerò: le manifestazioni di protesta si tramutarono in rivolta e sfociarono in un’insurrezione generale che gettò Parigi nel caos. In molte zone della città furono erette barricate, mentre i ribelli marciavano verso il palazzo reale delle Tuileries protetto a fatica dall’esercito. Intimorito dalla protesta, Luigi Filippo I cercò di guadagnare tempo nominando un nuovo governo e promettendo l’avvio di una stagione di riforme; ma le sue concessioni non placarono la folla, e il 24 febbraio 1848 egli dovette abdicare. Mentre la folla saccheggiava le Tuileries, i capi della rivolta annunciarono la nascita della Repubblica e la costituzione di un governo provvisorio che avrebbe riunito tutte le forze rivoluzionarie: dai repubblicani ai liberali, dai bonapartisti ai socialisti.
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L’euforia dei primi mesi
LA FINE DELLA SCHIAVITÙ Il 27 aprile del 1848, il governo provvisorio nato a Parigi dalla Rivoluzione di febbraio decretò l’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi. Olio su tela di F.-A. Biard, Museo Nazionale del Castello di Versailles.
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Durante questi banchetti, esponenti delle forze d’opposizione pranzavano insieme alla folla, tenendo discorsi pubblici nei quali sostenevano la necessità di una riforma elettorale che eliminasse il suffragio censitario, basato cioè sulla ricchezza degli elettori. A Parigi, questa campagna di banchetti durò dal luglio del 1847 al 22 febbraio del 1848, quando il prefetto proibì un incontro nella centrale Place de la Madeleine. Di fronte alla minaccia governativa di usare le armi, i capi dell’opposizione annullarono il banchetto; ma quello stesso giorno centinaia di studenti e operai decisero di sfidare le autorità e scesero in piazza per contestare il governo. Un’atmosfera di eccitazione si impadronì della capitale, provocando ripetuti scontri tra cittadini e forze dell’ordine. Fu tuttavia solo la sera del 23 febbraio, dopo la morte di 52 dimostranti uccisi dal fuoco di un repar-
Un grande entusiasmo accompagnò i primi passi della Seconda Repubblica. Nel rispetto dei principi di fratellanza e giustizia sociale professati dalla rivoluzione, il nuovo governo varò una serie di misure storiche, a partire dall’introduzione del suffragio universale, sia pure limitato ai soli elettori maschi. Fu anche abolita la pena di morte per ragioni politiche e venne legalizzato il diritto di associazione. Inoltre il governo riconobbe il “diritto al lavoro”, annunciando la creazione di “opifici nazionali” (ateliers nationaux) destinati ad assorbire la manodopera disoccupata e a reimpiegarla in opere di pubblica utilità. Il 27 aprile del 1848, la Repubblica proclamò l’abolizione della schiavitù nelle colonie, una misura già adottato nel 1793 ma che poi era stata revocata da Napoleone. Sembrava che lo spirito della Rivoluzione dovesse trionfare, e che la Francia potesse trasformarsi in un nuovo modello di nazione basata sulla riconciliazione tra le classi sociali. Il 20 aprile, la festa della Fratellanza portò in piazza a Parigi un milione di persone, chiamate a raccolta dalle centinaia di periodici, riviste e club che, nel nuovo clima di libertà imperante nel Paese, erano sorti in tutta la Francia. Le donne erano in prima linea in questa mobilitazione, e approfittarono del clima favorevole per esporre le proprie rivendicazioni in pubblici dibattiti o su giornali come La Voix des Femmes, nato nel 1848.
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LA SATIRA CONTRO IL REGIME
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ALLA RIVOLUZIONE DEL 1789, la satira politica godette di enorme popolarità in Francia, grazie alla sua irriverenza e alla capacità di eludere la censura. La tendenza si accentuò nei primi anni di regno di Luigi Filippo d’Orléans quando, con l’allentarsi dei vincoli sulla stampa, si ebbe un incredibile moltiplicarsi di pubblicazioni, satiriche e non. Importante fu anche la diffusione della tecnica litografica, che consentiva di stampare incisioni in tempi più brevi e a prezzi più contenuti. Massimo interprete di questo nuovo spirito dissacratore fu il pittore Honoré Daumier (1808-1879), le cui caricature di Luigi Filippo I, raffigurato con la testa a pera, ebbero non poco peso nell’erodere il prestigio del sovrano e nel promuovere lo spirito rivoluzionario.
1 La caricatura di Luigi Filippo I
2 Un nuovo grido: “Abbasso la pera!”
Pubblicato per la prima volta nel 1931 sul giornale La Caricature, diretto da Charles Philipon, il ritratto del sovrano con la testa a pera fu l’immagine satirica più celebre dell’epoca e l’emblema dell’ottusità del regime.
I rivoluzionari all’attacco della pera, simbolo della monarchia: benché di idee repubblicane, gli insorti cercarono di evitare gli eccessi del Terrore che avevano reso impopolare la Rivoluzione francese.
3 La fuga di Metternich
4 Il trono al rogo dinnanzi alla Bastiglia
Questa caricatura raffigura la fuga del cancelliere austriaco Metternich dopo i moti di Vienna del 1848. Per spegnere la rivolta, l’imperatore Ferdinando I accettò che fosse indetta un’Assemblea costituente.
Dopo il saccheggio del palazzo reale delle Tuileries, il 24 febbraio del 1848, il trono di Luigi Filippo I fu portato in corteo fino in Place de la Bastille e lì arso pubblicamente sul rogo.
DOCUMENTI: 1. LUIGI FILIPPO I, IL RE CITTADINO, H. DAUMIER. 2. LA PERA AFFETTATA A COLPI DI SCIABOLA, P. DE BRÉVILLE. 3. METTERNICH IN FUGA, J. C. SCHOELLER. 4. IL TRONO MESSO AL ROGO, LITOGRAFIA ANONIMA.
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FURONO OLTRE MILLE GLI INSORTI GIUSTIZIATI DALLE TRUPPE DEL GENERALE CAVAIGNAC LA COCCARDA TRICOLORE, SIMBOLO DEL 1848. MUSÉE CARNAVALET, PARIGI.
Il verdetto delle elezioni Eppure, questo clima di euforia non poteva nascondere i problemi. La crisi economica non era terminata, anzi si era aggravata a causa delle difficoltà finanziarie dello Stato. Nelle province, le disposizioni del governo non venivano applicate, e i nuovi “commissari della Repubblica”, che avrebbero dovuto farle rispettare, si scontravano con molte resistenze locali. Questo stato delle cose si riverberò sulle elezioni del 23 aprile 1848, le prime a suffragio universale, che videro la netta affermazione delle forze conservatrici, votate in massa non solo dalle classi ricche ma anche dai contadini. I repubblicani “progressisti” si trovarono così in minoranza nell’Assemblea costituente, controllata da monarchici, bonapartisti e repubblicani moderati. A Parigi si iniziò a perdere fiducia nel governo e il 15 maggio, quando un gruppo di manifestanti irruppe nel palazzo Borbone, sede dell’Assemblea costituente, le forze di maggioranza colsero l’occasione per far arrestare i principali esponenti della sinistra repubblicana. Fu costituito “un fronte dell’ordine” chiamato a fermare l’ascesa del socialismo, e 124 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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La sua fondatrice, Eugénie Niboyet, così spiegava ragioni e obiettivi della propria lotta sul giornale appena nato: “Le donne sono coscienti della grandezza della missione sociale loro affidata; nel nome della fratellanza, chiedono che libertà e uguaglianza siano una realtà sia per loro sia per i fratelli uomini”. Intanto, nel Club delle Donne, un circolo femminista presieduto dalla stessa Niboyet, ci si batteva per la reintroduzione del divorzio, abrogato nel 1816, così come per l’estensione del suffragio universale alle donne e per l’eliminazione dei vincoli che impedivano loro l’accesso agli ateliers nationaux.
si stabilì la chiusura degli opifici nazionali in quanto culle del radicalismo socialista. La decisione di sciogliere gli ateliers venne annunciata dal governo il 20 giugno. Due giorni dopo, il 22 giugno, esplose la rivolta nei quartieri popolari di Parigi, situati nella parte orientale della città. Tutti i testimoni dell’epoca concordano sulla brutalità con cui il generale Louis Eugène Cavaignac, coadiuvato dal collega Lamoricière, stroncò la sommossa tra il 23 e il 26 giugno: le sue truppe travolsero le barricate erette dagli operai a colpi di baionetta e di cannone. Oltre 1500 insorti furono fucilati, altri 15.000 vennero arrestati; i capi della rivolta furono deportati in Algeria e Guyana Francese. Si spegnevano così, nel modo più doloroso e inaspettato, le speranze di riappacificazione sociale suscitate dalla Rivoluzione del 1848. Da lì in avanti, le sorti della Seconda Re-
L’ESERCITO NELLA CAPITALE Milizie dell’esercito francese accampate in Boulevard du Temple, a Parigi: tra il 23 e il 26 giugno 1848, il generale Cavaignac occupò con le sue truppe la capitale e riconquistò i quartieri controllati dagli insorti.
UNA CITTÀ IN GUERRA le sommosse che insanguinarono le vie di Parigi. Il momento più tragico di questa spirale di violenza si ebbe nel 1848, a seguito della scelta delle autorità di utilizzare l’esercito (oltre 30.000 tra soldati e Guardia nazionale) contro gli insorti. In particolare fu pesante il bilancio degli scontri del giugno 1848, quando le truppe dei generali Cavaignac e Lamoricière caricarono a colpi di cannone le barricate erette dagli operai in rivolta. LA GUARDIA REALE DINNANZI AL PALAZZO DELLE TUILERIES, DAGHERROTIPO DI P-M HOSSARD, 1844.
HERVÉ LEWANDOWSKI / GRAND PALAIS/ RMN
A PARTIRE DAL 1789, furono frequenti
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Austria Il 13 marzo 1848 scoppiò una rivolta studentesca a Vienna, e la città si riempì di barricate. Il cancelliere Metternich, padrone della politica europea sin dai tempi di Napoleone, si dimise, mentre l’imperatore Ferdinando I d’Austria fu costretto ad abdicare in favore del figlio Francesco Giuseppe. 126 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Boemia A Praga, che all’epoca faceva parte dell’Impero asburgico, i ribelli chiesero maggior autonomia da Vienna e il riconoscimento degli storici diritti dei popoli slavi. Ottennero una dichiarazione che sanciva l’uguaglianza giuridica dei cittadini austriaci e boemi.
Ungheria Animata dall’avvocato Lajos Kossuth, la rivoluzione magiara del 1848 ebbe esiti radicali. Si formò un governo nazionale che abolì la servitù della gleba e, nel 1849, proclamò l’indipendenza da Vienna, senza tuttavia riuscire a difendere il Paese dalla successiva reazione asburgica.
Germania e Prussia La Rivoluzione di marzo del 1848 interessò tutti i regni germanici, avviando un vasto processo di riforme liberali. A Berlino, Federico Guglielmo IV di Prussia dovette concedere una costituzione democratica, mentre a Monaco Ludovico I di Baviera fu costretto ad abdicare.
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NUOVI VENTI DI RIVOLTE IN EUROPA
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A PRIMA RIVOLUZIONE del 1848 di-
vampò in Italia: i moti siciliani del mese di gennaio fecero da miccia ad analoghe insurrezioni popolari negli altri Paesi europei, tra i quali gli unici non interessati dalla protesta furono l’Inghilterra e la Russia zarista. La “Primavera dei popoli” del 1848 sembrò in grado di diffondere ovunque libertà e diritti politici; ma fu un’illusione di breve durata. Già a partire dall’autunno del 1848 le monarchie trovarono la forza di reagire, e iniziarono a revocare le concessioni fatte al popolo sotto la spinta delle varie sommosse. Gli scontri si fecero più cruenti e le speranze dei ribelli furono affogate in un bagno di sangue. LA REPUBBLICA UNIVERSALE. NELLA LITOGRAFIA (1848) DI A. LEMERCIER, LA FRATELLANZA TRA I POPOLI È RAFFIGURATA SOTTO FORMA DI UN CORTEO IN CUI SFILANO UOMINI E DONNE DI NAZIONI, CLASSI SOCIALI ED ETÀ DIFFERENTI.
Francoforte Nella Germania del 1848, divisa in decine di regni, i moti rivoluzionari rafforzarono l’aspirazione all’unità nazionale e portarono alla convocazione a Francoforte di un’Assemblea costituente – dominata dalle forze liberali – che cercò di porre le basi per la nascita di uno Stato tedesco unitario.
Milano Mentre in Toscana e in altri Stati italiani furono i regnanti a concedere riforme liberali, nella Milano asburgica la rivolta delle Cinque Giornate, tra il 18 e il 22 marzo, si concluse con la cacciata degli Austriaci e la creazione di un governo provvisorio alleato del Regno di Sardegna.
Venezia Nel marzo del 1848 i patrioti veneziani espulsero le truppe asburgiche dalla laguna e, sotto la guida di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, fondarono la Repubblica di San Marco, che si proclamò indipendente da Vienna e introdusse nei suoi territori il suffragio universale.
Polonia Spartita fra Austria, Prussia e Russia, la Polonia fu appena sfiorata dalla “Primavera dei popoli”. A sollevarsi fu solo il Granducato di Poznan, nella parte occidentale del Paese, dove le forze indipendentiste tentarono di cacciare le truppe d’occupazione prussiane ma furono rapidamente sconfitte. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LE PRIME FEMMINISTE Nel 1848 nacquero in Francia molti circoli femministi, impegnati nella lotta per i diritti civili e per l’estensione anche alle donne del suffragio universale. Litografia a colori del XIX secolo, Musée Carnavalet, Parigi.
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pubblica sarebbe state decise da un “partito dell’ordine” che avrebbe progressivamente compresso le libertà democratiche, fino al colpo di Stato di Luigi Bonaparte – il futuro Napoleone III – nel dicembre del 1851.
L’Europa in fiamme La “Primavera dei popoli” si estese al resto d’Europa, anche se questa fu preceduta in Italia dalla rivoluzione siciliana del gennaio 1848, che spinse i Borboni a concedere una Costituzione. A questa seguirono le Costituzioni concesse da Carlo Alberto di Savoia, da papa Pio IX e da Leopoldo II di Toscana. A partire dal marzo del 1848, si ebbero insurrezioni a Vienna, Napoli, Roma, Venezia, Berlino, mentre si moltiplicavano i moti indipendentistici in Ungheria e Boemia, nazioni che da secoli facevano parte dell’Impero asburgico. In Italia lo spirito indipendentista diede ori-
gine alle Cinque giornate di Milano (18-22 marzo 1848), che portarono alla momentanea liberazione della città dal giogo austriaco, e alla nascita delle Repubbliche di San Marco a Venezia e di Roma. E sempre nel 1848 scoppiò in Italia la prima Guerra d’Indipendenza: fu l’inizio del Risorgimento, che si sarebbe concluso con l’Unità d’Italia nel 1861. Inizialmente, però, questa atmosfera di euforia durò poco più due mesi; poi i regimi monarchici ripresero lentamente il controllo della situazione. Le insurrezioni nate a Berlino, Praga, Vienna, Milano e Budapest vennero sedate, mentre quelle delle Repubbliche di Venezia e Roma furono represse duramente nel sangue. L’Europa delle rivoluzioni popolari era stata sconfitta. O almeno così speravano le monarchie assolutistiche, ignare che le future ondate rivoluzionarie le avrebbero definitivamente piegate.
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ALPHONSE DE LAMARTINE RIPUDIA LA BANDIERA ROSSA A FAVORE DEL TRICOLORE FRANCESE, DIPINTO DI H. F. E. PHILIPPOTEAUX, XIX SECOLO. MUSÉE DE LA VILLE, PARIGI.
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Periodici, opuscoli, libelli… A partire dal febbraio 1848, la soppressione in Francia della censura e l’introduzione della libertà di stampa originarono un’autentica ondata di pubblicazioni: centinaia di nuovi quotidiani, volantini, opuscoli e libelli vennero dati alle stampe, propiziando la diffusione degli ideali rivoluzionari.
SCRIVERE PER IL POPOLO
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EGLI ANNI TRENTA dell’Ottocento, l’effervescenza
politica che si viveva in Francia diede un potente impulso alla stampa quotidiana, stimolando la nascita dei primi giornali operai: L’Artisan, L’Echo de la Fabrique e, più tardi, L’Atelier, Le Populaire o L’Ami du Peuple. La straordinaria ventata di libertà generata dai moti del 1848 rafforzò ulteriormente il fenomeno, che assunse dimensione ragguardevoli: gli opuscoli operai, femministi, socialisti e comunisti vissero una prima, sia pure effimera, età dell’oro. La maggior parte di queste testate sosteneva liste o battaglie politiche particolari, ma alcune di esse, come Le Représentant du Peuple, su cui scriveva il filosofo Pierre-Joseph Proudhon, ebbero un peso decisivo nell’elaborazione del pensiero socialista moderno.
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UN MAGISTRATO CERCA DI DECAPITARE UN GIORNALISTA, LITOGRAFIA DI AUGUSTE BOUQUET, 1832. IN ALTO, TESTATE GIORNALISTICHE DEL 1848.
LA VOCE POETICA DELLA REPUBBLICA POETA AMMIRATO da un’intera generazione di
artisti romantici per le sue Méditations poétiques (1820), Alphonse de Lamartine si avvicinò al mondo della politica a partire dal 1828, e abbracciò progressivamente le idee repubblicane. Membro del governo provvisorio nato dalla Rivoluzione del 1848, rappresentò per qualche tempo la voce di quella Repubblica lirica e fraterna per cui lottavano i rivoluzionari. Le sue grandi doti oratorie, riconosciute anche dagli avversari, indussero il nuovo regime, nel febbraio del 1848, ad adottare come bandiera nazionale il tricolore blu, bianco e rosso, e non la bandiera rossa dei lavoratori. Moderato e filoliberale, Lamartine non riuscì tuttavia a imporsi stabilmente nel panorama politico francese, ottenendo solo lo 0,23 per cento dei voti nelle elezioni presidenziali tenutesi nel dicembre 1848.
L’AVVENTURA DELLA LIBERTÀ
GARIBALDI Fu il principale artefice e il suggello dell’Unità d’Italia, il promotore della costruzione di una coscienza nazionale. La sua vita avventurosa pervase gli ideali romantici dell’800, fino a farlo entrare nel mito DINO CARPANETTO
SCALA, FIRENZE
PROFESSORE DI STORIA MODERNA. UNIVERSITÀ DI TORINO
LA BATTAGLIA DI CALATAFIMI Nel 1860 l’esercito di Garibaldi sconfisse quello borbonico nella celebre battaglia di Calatafimi, in provincia di Trapani. Dipinto di Remigio Legat. XIX secolo. Museo del Risorgimento, Milano.
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ochi Italiani come Garibaldi seppero suscitare intorno a sé tanta ammirazione da creare una vera e propria esaltazione nei loro confronti. Già nella prima metà della sua vita egli fu protagonista di grandi imprese: la guerra per l’indipendenza italiana nel 1848 e la difesa della Repubblica romana nel 1849. Due grandi imprese che avevano profondamente modificato l’immagine del nostro Paese presso l’opinione pubblica internazionale. Ma la fama di Giuseppe Garibaldi assunse i tratti dell’epopea soprattutto dopo la spedizione dei Mille nel 1860, nel corso della quale egli sconfisse uno dei più organizzati eserciti degli antichi Stati italiani, quello borbonico. Sullo sfondo delle guerre patriottiche e nazionali, da lui combattute al di là e al di qua dell’oceano, si delineò così la sua leggendaria immagine di “eroe dei due mondi”.
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Il mare, l’avventura, Mazzini
IL BERRETTO DI GARIBALDI Garibaldi, conosciuto anche come “l’uomo dalla camicia rossa”, utilizzò questo berretto dello stesso colore durante il suo periodo rivoluzionario. Museo Nazionale del Risorgimento, Torino.
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Fin da giovane Garibaldi nutrì la passione per l’avventura. Era nato nel 1807 a Nizza, città che, dopo una breve parentesi sotto i Francesi, nel 1815 era tornata al Regno di Sardegna. Il padre Domenico, commerciante marittimo, lo aveva vanamente instradato negli studi, come gli suggeriva una strategia di ascesa sociale indirizzata verso il maschio più promettente. Avrebbe voluto farne un medico o un ecclesiastico, ma Giuseppe amava il mare, i viaggi, le avventure, più che la solitudine dello studio. Nelle Memorie parlerà della sua prima imbarcazione, la Costanza, con toni di sensuale passione, come di una donna fatale: “Illuminata da cotesto magnifico sole, tu mi apparisti o bella Costanza, primo legno sul quale io solcava il mare. I tuoi fianchi robusti, la tua alberatura slanciata e leggiera, il tuo ponte spazioso, finanche il busto di donna che si allungava sulla tua prua, resterà per sempre nella mia memoria”. Fu durante uno dei primi viaggi per mare che conobbe un affiliato della Giovine Italia,
la società segreta fondata da Mazzini, il cui scopo era quello di trasformare l’Italia in una repubblica democratica unita. Garibaldi se ne sentì subito attratto: decise di iscriversi con il nome di Borel. Nel 1833 a Marsiglia incontrò Giuseppe Mazzini in persona, che lo convinse ad arruolarsi nella marina sabauda per svolgervi attività cospirativa. Incaricato di organizzare un’insurrezione a Genova, si espose in un’avventata impresa sovversiva che fallì sul nascere. Fu accusato di ammutinamento e condannato a morte. Di tutta questa vicenda, quasi più della conclusione giudiziaria, lo inquietò il dilettantismo di Mazzini, che aveva mandato allo sbaraglio una pattuglia di giovani idealisti senza valutare le probabilità di successo della cospirazione. E, per salvare la pelle, fu costretto a prendere la via dell’esilio.
L’esilio in America latina Nel settembre del 1835 Garibaldi si imbarcò su una nave diretta a Rio de Janeiro. Aveva in mente di unirsi alla folta comunità italiana presente in Sud America. Un’ondata dopo l’altra, dalla fine del Settecento una colonia di emigrati si era stabilita sul Rio de la Plata, tra Argentina e Uruguay. Erano commercianti, marinai, artigiani, cui si aggiunsero gli esiliati dei moti liberali del 1820-21 e poi ancora i patrioti della Giovine Italia, che diedero all’emigrazione un carattere politico. L’ambiente antimonarchico degli emigrati italiani spiega perché Garibaldi accettasse l’invito a combattere per il governo secessionista della provincia brasiliana di Rio Grande do Sul, insorta contro l’Impero portoghese.
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LO SBARCO A MARSALA L’11 maggio del 1860, Garibaldi sbarcò a Marsala a capo dell’esercito dei Mille. Dipinto di Girolamo Induno. XIX secolo. Museo Nazionale del Risorgimento, Torino.
POPOLARITÀ DI UN SEDUTTORE ROMANTICO
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ARIBALDI ebbe tre mogli, otto
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figli e un numero imprecisato di relazioni con donne di ogni estrazione sociale. La sua popolarità è legata anche all’atmosfera romantica di quegli anni, riflessa nelle rocambolesche avventure in America e in Italia che ammantavano la sua figura di una seduzione travolgente. Il fuorilegge delle guerre sudamericane e il soldato-gentiluomo al servizio di nobili ideali composero un’immagine di grande impatto sull’opinione pubblica. La figura fisica, l’abbigliamento personalissimo, la fulva capigliatura, lo sguardo magnetico erano strumento e veicolo del suo carisma. Garibaldi stesso non nascose le sue vicende sentimentali, ma le visse apertamente manifestando quell’intreccio tra privato e pubblico che corrispondeva agli ideali romantici di quella stagione della storia.
GIUSEPPE GARIBALDI SULLA COPERTINA DI THE GARIBALDI GALOP, SPARTITO PER PIANOFORTE DI CHARLES D’ALBERT. METÀ DEL XIX SECOLO. COLLEZIONE PRIVATA.
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GIUSEPPE MAZZINI Anche se lottavano per la medesima causa, Garibaldi e Giuseppe Mazzini, il fondatore della Giovine Italia, furono profondamente diversi. Museo del Risorgimento, Milano.
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Nel maggio del 1837 iniziò la “guerra di corsa”, legalmente riconosciuta dalla repubblica separatista del Rio Grande. Al comando di una piccola nave, da lui battezzata Mazzini, con dodici uomini, Garibaldi avrebbe potuto “incrociare liberamente per tutti e qualunque mari e fiumi su cui trafficano navi da guerra e mercantili del governo del Brasile e dei suoi sudditi, potendo catturarle e appropriarsene con la forza delle sue armi”. L’imbarcazione di 20 tonnellate era in realtà una garopera, destinata alla pesca della garoupa, un pesce squisito di quei mari. “Con una garopera sfidiamo un impero e facciamo sventolare la bandiera della libertà su questi mari”, Garibaldi annotò nel diario. Parole che bene restituiscono l’atmosfera esaltata di quelle imprese. L’attitudine al comando lo segnalò alle autorità, che lo promossero capitano di una flottiglia
che veleggiava nella laguna del Rio Grande e nell’Oceano. In uno scontro restò gravemente ferito e, soccorso da una goletta argentina, si trasferì a Buenos Aires e quindi a Montevideo, non per vivacchiare nella colonia di Italiani in cerca di qualche ricompensa politica, ma per proseguire la sua missione.
In aiuto all’Uruguay Arruolatosi al servizio dell’Uruguay nella guerra contro l’Argentina del dittatore Juan Manuel de Rosas, ottenne il comando della Legione Italiana, un battaglione composto da soli connazionali, in prevalenza esuli politici, che giunse a contare 600 uomini. Come divisa indossavano una camicia rossa, un colore in realtà privo di alcun significato simbolico. Come bandiera inalberavano un vessillo nero (lo stesso delle insegne delle associazioni operaie in Italia), su cui si stagliava
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un vulcano in eruzione, evidente riferimento al Vesuvio e ai fermenti rivoluzionari pronti a esplodere nella Penisola. Al rientro a Montevideo, nominato generale, Garibaldi ottenne per qualche mese il comando della difesa nazionale uruguaiana, riuscendo a consolidare la propria fama di uomo incorruttibile. Non aveva ceduto al tentativo degli Argentini di portarlo dalla loro parte a peso d’oro. “Nessuna cifra potrà comperare la mia fede nella libertà dei popoli”, fu la risposta data al dittatore Rosas che gli offriva la cifra iperbolica di 30.000 dollari per convincerlo a passare dalla sua parte. L’Uruguay fu anche il luogo dell’amore che lo unì alla sua prima moglie, Anita Ribeiro da Silva, conosciuta nell’autunno del 1839 a Laguna, nella provincia di Santa Catarina. Intanto la fama di Garibaldi volava per il mondo. Persino nella compassata Camera dei Lord
a Londra si parlava di lui dipingendolo con i tratti dell’eroe romantico: abnegazione, disinteresse, sprezzo della vita per servire una nobile causa. L’esperienza militare maturata in America latina ebbe per lui un valore formativo. Gli insegnò come fronteggiare forze superiori, come motivare gli uomini, sfruttare il fattore sorpresa, sapere trarsi fuori da condizioni difficili. Gli instillò anche una certa avversione nei confronti delle sottigliezze della politica e delle divisioni ideologiche che indebolivano l’azione rivoluzionaria.
NAUFRAGIO DELLA FARROUPILHA Nell’illustrazione di Edoardo Matania è ritratta la tormenta che causò il naufragio della Farroupilha, una nave che fu agli ordini di Garibaldi ed era stata costruita per conquistare il porto di Laguna, in Brasile.
Il rientro in Italia A riportarlo in Italia fu la notizia delle rivolte scoppiate nel 1848. Nel gennaio di quell’anno il popolo insorse a Palermo e a Napoli, e la protesta fu così travolgente da convincere il sovrano borbonico Ferdinando II a promettere al popolo la Costituzione. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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CARPANETO, AMICO DI GARIBALDI, LO SALVÒ DA UNA VITA CHE ERA PROSSIMA ALLA MISERIA
Richieste analoghe trovarono ascolto da parte dei sovrani in Piemonte, in Toscana e nello Stato della Chiesa. In marzo le insurrezioni di Milano (le Cinque giornate) e di Venezia costrinsero l’esercito austriaco a ritirarsi dalle due città. A quel punto l’intervento militare del re di Sardegna, Carlo Alberto, che varcò i confini della Lombardia attaccando l’Austria, diede inizio alla Prima guerra di indipendenza. Non si trattava solamente di un evento di interesse nazionale. L’Italia apriva infatti la strada all’ondata rivoluzionaria europea del 1848-49, di cui costituì uno degli epicentri, insieme con la Francia e l’Austria. In appoggio a Carlo Alberto arrivarono volontari e soldati dalla Toscana e da Napoli, nonché studenti di diverse università e seguaci di Mazzini. Si formò così una insolita e ambigua alleanza tra militari piemontesi e patrioti. I primi combattevano contro gli Austriaci in vista di un’espansione dello Stato dei Savoia; i secondi agivano sulla spinta di ideali democratici e con una prospettiva di carattere repubblicano. A Garibaldi fu affidato il comando di un reparto che operava intorno al Lago di Como. La guerra si risolse in un insuccesso quando a Custoza l’esercito di Carlo Alberto fu sconfitto dalle truppe austriache (22-27 luglio 1848). Una battaglia che gli Austriaci celebrarono con la popolare Marcia di Radetzky, composta da Johann Strauss padre, con cui si chiude ancora oggi il concerto di capodanno a Vienna. La sconfitta dei Piemontesi ebbe un effetto inatteso. I patrioti furono indotti, per reazione, a riprendere la lotta. In Toscana costituirono un governo popolare. A Venezia proclamarono la repubblica, cominciando a organizzare la difesa contro il temuto intervento degli Austriaci. Lo stesso fecero a Roma (febbraio 1849), dove insediarono un gover136 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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MENOTTI E RICCIOTTI, DUE DEI 4 FIGLI DI GARIBALDI E ANITA.
no repubblicano che introdusse la libertà di culto, soppresse l’Inquisizione e confiscò i beni ecclesiastici. Rifugiatosi a Gaeta, papa Pio IX lanciava appelli alle potenze cattoliche perché lo reintegrassero nei poteri temporali. In difesa della Repubblica romana accorsero centinaia di volontari, tra cui Garibaldi, che ne ebbe il comando militare. Fu un’impresa impossibile di fronte al contingente francese di 35.000 uomini che nel giugno del 1849 attaccò Roma per abbattere la repubblica e riportarvi il potere del papa. Iniziò così la rocambolesca fuga di Garibaldi per mezza Italia, nel tentativo di raggiungere Venezia che ancora resisteva alle potenze imperiali europee, e tragicamente segnata dalla morte della moglie Anita a Ravenna. A Garibaldi toccò riprendere l’esilio. Fu prima a Tangeri, poi a Liverpool, in quell’Inghilterra che molto lo ammirava, e infine a New York.
ANITA, EROICA COMBATTENTE E COMPAGNA
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’IMMAGINE quasi mitica che la prima moglie del generale lasciò di se stessa fu il risultato di una vita romanzesca: Anita accompagnò Garibaldi per dieci anni, diede alla luce quattro figli e combatté al suo fianco impugnando la spada, se necessario. Ma la sua vita non fu solo un’avventura romantica. Gelosie, fatiche, continui spostamenti e ogni genere di pericoli segnarono la sua relazione con l’eroe. Nel 1849, dopo la sconfitta da parte dei Francesi, Garibaldi, Anita e il loro esercito intrapresero una lunga fuga attraverso mezza Italia. Nel dipinto a fianco, Anita, moribonda, è trasportata da Garibaldi e dal suo fedele capitano Giovanni Battista Culiolo attraverso le paludi di Comacchio, nel nord-est dell’Italia. Anita morì di febbre tifoidea nei pressi di Ravenna, il 4 agosto 1849, a 28 anni. Garibaldi, distrutto, continuò la sua fuga fino a Venezia e trovò rifugio nell’esilio.
ANITA GARIBALDI MORENTE. DIPINTO DI PIETRO BOUVIER. 1864. MUSEO DEL RISORGIMENTO, BRESCIA.
Qui si guadagnò da vivere lavorando in una fabbrica di candele installata da Antonio Meucci, l’inventore del telefono. Trascorse anni grigi, senza progetti, con pochi legami e ancor meno denari. Fu l’amico Francesco Carpaneto a strapparlo da una condizione di semipovertà. Insieme viaggiarono per gli oceani, toccando diversi porti del Sud America.
L’impresa dei Mille Nel 1854 il governo piemontese gli concesse di rientrare a Nizza, città natale, e di stabilirsi in una sua proprietà a Caprera, isoletta semideserta nella Sardegna nordorientale. Garibaldi trasformò quel pietroso lembo di terra in una colonia agricola, piantando peschi, mandorli, viti, coltivando cereali e ortaggi, allevando buoi e cavalli. Nel 1857 aveva cinquant’anni e soffriva di gravi forme di reumatismo che gli causavano dolori
lancinanti ogni volta che montava a cavallo. I suoi progetti sembravano doversi arrestare di fronte all’età e alle condizioni di salute. Alla scoppio della Seconda guerra di indipendenza, nella primavera del 1859, tornò tuttavia sui campi di guerra al comando di un Corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, inquadrato nell’esercito piemontese e incaricato di combattere gli Austriaci nella zona tra Milano e i Laghi. Occupò Varese, Como, Bergamo e Brescia, ma l’improvviso ritiro dei Francesi, alleati del Piemonte, con l’armistizio di Villafranca (11 luglio) bloccò sul Lago di Garda il proseguimento dell’azione. Come era già accaduto nel 1848, al punto in cui diplomazia ed eserciti regolari si erano fermati, intervenne l’iniziativa dei volontari. Furono loro a rimettere in campo la questione dell’unità nazionale, quando Garibaldi chiamò a raccolta un migliaio di volontari. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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SCALA, FIRENZE
I SUCCESSI DI GARIBALDI RICHIAMARONO VOLONTARI PROVENIENTI DA TUTTA ITALIA FERDINANDO II, RE DELLE DUE SICILIE. MUSEO DI S. MARTINO, NAPOLI.
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sioni di un esercito di ben 40.000 uomini. In quei giorni convulsi il governo dell’isola, gestito da Francesco Crispi, fu volto a raggiungere l’obiettivo nazionale, senza aperture alle questioni sociali che diversi liberali siciliani sollevavano, e con una sostanziale chiusura nei confronti dei problemi delle campagne.
La fine del Regno delle Due Sicilie A metà agosto lo sbarco in Calabria, a Melito Porto Salvo, sullo Ionio, fu rapidamente seguito da un’agevole avanzata verso Napoli, mentre le popolazioni insorgevano contro il nuovo re Francesco II. Il 7 settembre Garibaldi entrò nella capitale partenopea. La presa della città poté avvenire in modo pacifico perché preparata da diversi esponenti dello stesso governo borbonico, tra i quali il ministro degli Interni Liborio Romano, personaggio di spicco del movimento liberale. Tre settimane più tardi (1 e 2 ottobre) Garibaldi sconfisse l’esercito borbonico, forte di 50.000 unità, nella battaglia del Volturno. L’episodio segnò la fine del Regno delle Due Sicilie. Già prima che Garibaldi giungesse a Napoli, era scattato l’allarme negli ambienti politici di Torino: si profilava il rischio che l’avanzata delle Camicie rosse procedesse verso lo Stato della Chiesa, fatto questo che avrebbe scatenato la reazione delle potenze cattoliche, Francia e Austria. Inoltre, i trionfi ottenuti dal generale avevano ridato slancio ai democratici, i quali avrebbero potuto proclamare nel Sud uno Stato repubblicano. A Napoli si erano infatti precipitati esponenti di tutte le forze politiche, tra cui Mazzini. L’impresa dei Mille andava riportata nei limiti della “conquista regia”, sventando ogni rischio di deriva democratica, costituzionalista e, peggio ancora, repubblicana. Per impedire tali esiti, Cavour giocò la carta internazionale e militare. Convinse dunque Napoleone III della pericolosità dei successi di Garibaldi.
CARTOGRAFIA: STUDIO INLKLINK, FIRENZEFIRENZEXXXXXXXXF
Erano per l’esattezza 1089, ma sarebbero divenuti famosi come i Mille. Si trattava di veterani e reclute, patrioti ricercati dalle polizie dei loro Stati, uomini esperti di guerra e uomini del tutto privi di abilità militari. Non avevano una divisa. Solamente pochi, in realtà, vestivano la camicia rossa. La maggior parte di loro erano “variovestiti”, come ebbe modo di dire lo stesso Garibaldi. La notte tra il 5 e il 6 maggio del 1860 i volontari si stiparono sui due mercantili Piemonte e Lombardo, e partirono da Quarto, presso Genova. Gli obiettivi erano quelli di sbarcare in Sicilia, appoggiare militarmente le insurrezioni scoppiate nell’isola, risalire fino a Napoli, cacciare i Borboni e poi muovere su Roma. Il ministro piemontese Camillo Benso, conte di Cavour, sostenne l’operazione in modo coperto e prudente, non potendo esporsi a favore di una guerra così anomala e tale da poter comportare complicazioni internazionali. Sembrava più favorevole il sovrano Vittorio Emanuele II, ma ufficialmente i Savoia né approvarono né avversarono l’impresa garibaldina, tenendosi in tal modo liberi di agire a seconda del suo esito. Un appoggio decisivo a Garibaldi venne dal governo di Londra, che si rifiutò di allearsi con i Francesi per bloccare il passaggio alle due navi dei garibaldini. Pochi in quel momento erano disposti a puntare sul successo dell’impresa. Si dovettero ricredere in pochi giorni. L’azione di Garibaldi ebbe subito uno svolgimento travolgente, fissato in episodi determinanti: lo sbarco a Marsala l’11 maggio, l’assunzione della dittatura a Salemi il 14 in nome del re Vittorio Emanuele II, la sconfitta dei borbonici a Calatafimi (in provincia di Trapani) il 15 maggio, l’ingresso in Palermo, la vittoria a Milazzo (vicino a Messina) il 20 luglio, che gli diede il controllo totale dell’isola. I successi richiamarono da tutta Italia altri volontari, portando gli effettivi alle dimen-
L’ESERCITO dei Mille era forma-
Milano Piemonte
to soprattutto da rivoluzionari di ceto medio-alto che, in gran parte, provenivano dal Nord Italia. In esso combattevano 250 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e altrettanti commercianti e capitani navali. Tra questi vi era lo scrittore francese Alexandre Dumas (padre), che fornì loro armi e fu testimone della spedizione, che descrisse ne I Garibaldini (1860).
Ve n e t o
Lombardia
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REGNO DI SARDEGNA Liguria
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(alla Francia dal 24 marzo 1860)
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MEDAGLIA CON UN RITRATTO DI GARIBALDI. MUSEO DEL RISORGIMENTO, ROMA.
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DUE SICILIE
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Annessioni al Regno di Sardegna (1859-marzo 1860) Spedizione dei Mille Truppe piemontesi Principali battaglie
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FRANCIA
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SCALA, FIRENZE
Savoia
(alla Francia dal 24 marzo 1860)
CHI ERANO I MILLE?
IMPERO D’AUSTRIA
SVIZZERA
Catanzaro
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A TEANO, in provincia di Caserta, ebbe probabilmente luogo il colloquio tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Sardegna, futuro primo re d’Italia. Durante l’incontro, avvenuto il 26 ottobre 1860, Garibaldi gli consegnò il Regno delle Due Sicilie, da lui appena conquistato, e lo acclamò come re d’Italia. Così facendo, antepose la necessità di unificare l’Italia agli ideali rivoluzionari antimonarchici e repubblicani, con grande frustrazione da parte di Mazzini. L’INCONTRO TRA GARIBALDI E VITTORIO EMANUELE II A TEANO RAFFIGURATO IN UN DIPINTO REALIZZATO DA SEBASTIANO DE ALBERTIS. XIX SECOLO. MILANO, MUSEO DEL RISORGIMENTO.
Cavour ottenne poi che un esercito piemontese, capeggiato dal sovrano, attraversasse lo Stato pontificio, occupasse le Marche e l’Umbria, senza violare il Lazio e Roma, presidiati dai Francesi, e si ricongiungesse quindi a Garibaldi. Fece anche votare dal parlamento di Torino una legge che rendeva possibili le annessioni di altri territori, a patto che fossero approvate da plebisciti e non comportassero l’elezione di un’Assemblea costituente, istituzione ritenuta rivoluzionaria.
L’incontro di Teano Il re Vittorio Emanuele II comandò l’esercito regolare sardo che si diresse contro Napoli. Dopo un breve scontro con le forze pontificie, il 26 ottobre 1860 il sovrano si incontrò con Garibaldi nel Casertano, a Teano, o secondo altre versioni presso la Taverna della Catena, un edificio nel comune di Vairano Patenora. 140 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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UN INCONTRO LEGGENDARIO
Convinto che la soluzione monarchica fosse inevitabile, Garibaldi consegnò il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II, con grande disappunto di Mazzini, che pensava invece di estromettere la monarchia piemontese e di creare un’Italia repubblicana. Garibaldi era stato capace di annullare lo Stato borbonico; si trattava ora di organizzare la nuova realtà nazionale che stava profilandosi. Operazione politica che era resa complessa da molte ragioni: l’avversione del papa, l’isolamento internazionale, le divisioni interne al movimento nazionale italiano e i tanti avversari politici dell’Unità, annidati soprattutto nel partito borbonico del Sud e nelle sfere ecclesiastiche. Pio IX, il papa che si era spacciato per liberale nel 1847, tuonava ora contro la nazione che stava nascendo. Per lui i volontari di Garibaldi altro non erano che “una schiera perniciosissima di uomini disperati
che rovinano tutti i principi, se ognuno può senza opposizione mandare armi e predoni per impossessarsi di ciò che è degli altri”.
“O Roma o morte” L’obiettivo mancato, quello di occupare Roma per farne la capitale d’Italia, non scomparve dall’orizzonte politico del generale, che avrebbe tentato l’impresa altre due volte, al grido di “O Roma o morte”. La prima nel 1862, quando Garibaldi, imbarcatosi a Caprera, raggiunse Palermo, accolto dal tripudio popolare. Attraversò indisturbato la Sicilia raccogliendo volontari e passò in Calabria. Ma i garibaldini furono fermati dall’esercito regolare sull’Aspromonte. Nello scontro, Garibaldi rimediò ferite a un piede e all’anca. Ne portò a lungo le conseguenze morali e fisiche. Come testimoniò la scrittrice inglese Jessie White Mario, sposa del patriota Alberto Ma-
rio, già infermiera nell’impresa dei Mille, “la palla di Aspromonte mutava faccia alla vita di lui, togliendogli ogni vigoria e presenza di azione sul campo di battaglia; gli interdiceva di mettere in pratica anche nelle piccole faccende della vita quotidiana il suo motto favorito: Chi vuole vada, chi non vuole mandi”. Nel 1867, reduce dal successo nella battaglia di Bezzecca (in provincia di Trento) della Terza guerra d’indipendenza, Garibaldi tentò un’altra spedizione su Roma. L’attacco fu bloccato a Mentana il 3 novembre 1867 da truppe pontificie e francesi. Fu una pagina amara per il generale. Come già era accaduto in passato, l’operazione fu preparata in un clima di doppiezza da parte del governo sabaudo. Ufficialmente il primo ministro Urbano Rattazzi proclamò il rispetto degli accordi internazionali e la stretta sorveglianza intorno a Garibaldi per impedirne un colpo di mano.
LA REGGIA DI CASERTA Il palazzo reale di Caserta, in stile barocco, fu utilizzato come residenza estiva dai Borboni, re delle Due Sicilie, fino a che il loro regno fu incorporato in quello d’Italia dopo la conquista garibaldina.
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sabotato l’impresa. Ritiratosi a Caprera, Garibaldi lanciò contro Mazzini sanguinanti accuse, definendolo un “mestatore di idealismo”. “Se un’invasione mazziniana avvenisse armata mano, io volerei a combatterlo, dovessi esser certo di morire sul campo”, tuonò di fronte ai suoi fedeli, dal momento che “Mazzini costa più sangue all’Italia che non tutte le mie battaglie”.
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Il ritiro a Caprera
L’ALTARE DELLA PATRIA Meglio conosciuto come Vittoriano, il monumento nazionale a Vittorio Emanuele II si trova a Roma, in Piazza Venezia. Largo 135 metri e alto 81, venne inaugurato nel 1911 in onore del primo re d’Italia.
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Tuttavia consentì anche che i volontari si concentrassero ai confini dello Stato della Chiesa. Garibaldi prese il comando dell’operazione, ma ne avvertì subito le incongruenze e i rischi: la popolazione romana non insorse e le scarse truppe pontificie resistettero più del previsto consentendo al corpo di spedizione francese di arrivare a Civitavecchia. Lo scontro si risolse in una pesante sconfitta. A Mentana l’eroe dei due mondi misurò la fine della sua avventura. Si sentì di colpo esattamente come lo avrebbe descritto uno dei suoi: “Cupo, rauco, pallido, solo l’occhio acceso e fisso, mai sì vecchio come in quel punto”. Non era più in grado di risollevare le sorti di una battaglia con il carisma della sua persona. Esacerbato da quest’ultima prova, espresse un giudizio di aspra condanna di quello che a suo parere era il solo colpevole: Giuseppe Mazzini che, secondo lui, aveva
A parte la breve partecipazione alla Guerra franco-prussiana nel 1870, Garibaldi visse gli ultimi anni per lo più nel ritiro di Caprera, l’isola di cui aveva comperato una larga porzione con i soldi dell’eredità del fratello e con la paga del servizio militare in America. Non vestì i panni rinunciatari del Cincinnato; al contrario, promosse una serie di progetti politici che si richiamavano alla sua storia personale. Uomo di azione più che di riflessione, sostenne le prime società operaie e seguì con interesse la nascita di un movimento progressista, come quello dei radicali italiani. L’artrite lo aveva ormai immobilizzato. Così, dal letto, scriveva ai patrioti che lo tempestavano di missive; componeva racconti di ruvido sapore anticlericale con cui sferrò aspri attacchi contro i preti, “schiuma d’inferno”, e difese la causa della rivoluzione nazionale. Nel 1882 compì l’ultimo viaggio, in direzione della Sicilia, invitato per la celebrazione del sesto centenario dei Vespri. Issato con la carrozzina a bordo della nave L’Esploratore, raggiunse Napoli. Lì venne visitato dai medici più noti. Le sue condizioni di salute migliorarono, così da convincerlo a partire per l’isola. Il viaggio in treno che percorreva la linea ferroviaria da poco inaugurata fu spossante, ma ovunque due ali di folla lo accompagnarono in quel percorso a ritroso lungo l’itinerario dei Mille. A Palermo giunse stremato: a stento poteva sollevare la mano per ringraziare. Con la salute malferma ripartì per Caprera, dove morì il 2 giugno dello stesso anno, il 1882. Pubblicando la notizia, il quotidiano londinese The Times scrisse: “Se Vittorio Emanuele e Cavour saranno oggetto di studi approfonditi sull’esatto valore del loro contributo all’Unità d’Italia, Garibaldi apparirà come una realtà di leggenda, qualcosa di favoloso, dalla natura inafferrabile”.
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UN MITO PER TUTTI, IN ITALIA E NON SOLO TTORNO ALLA FIGURA e alle imprese
di Giuseppe Garibaldi si sviluppò una ricchissima produzione letteraria e giornalistica che lo ritrasse nei panni del generoso combattente per la libertà di tutti i popoli. Fin dalla sua morte, migliaia di comuni italiani (esattamente 5500 su 8100) hanno dedicato a lui vie, piazze e monumenti più che a ogni altro personaggio, facendo della sua immagine il suggello dell’Unità d’Italia e lo strumento per costruire e consolidare una coscienza nazionale. Non minore è stata ed è la fama di Garibaldi all’estero, soprattutto nei Paesi in cui egli visse e in quelli che ne condivisero i grandi ideali, dall’Ungheria alla Polonia, dall’Inghilterra all’Argentina.
DE AGOSTINI PICTURE LIBRARY / SCALA, FIRENZE
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GARIBALDI A CAPRERA Garibaldi visse a Caprera insieme a Francesca Armosino, sua terza moglie, da cui ebbe tre figli. Dipinto di Giacomo Mantegazza (1853-1920). Museo del Risorgimento, Milano.
LA TOMBA DI GARIBALDI La sepoltura di Garibaldi sull’isola di Caprera, nell’arcipelago sardo della Maddalena. Qui passò gli ultimi anni della sua esistenza mentre la sua fama si diffondeva per il mondo.
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LA FINE DELLA RESISTENZA Il dipinto di Georges Clairin raffigura gli eventi del 24 maggio del 1871 da uno degli ultimi bastioni dei comunardi sull’Île de la Cité. Sullo sfondo il palazzo delle Tuileries in fiamme. Musée d’Orsay, Parigi.
DALLA FRATELLANZA ALLA REPRESSIONE
LA COMUNE DI PARIGI Indignati per la capitolazione del governo francese di fronte agli invasori prussiani, i cittadini di Parigi iniziarono una rivolta contro il governo monarchico che divenne il simbolo della rivoluzione universale DOMINIQUE KALIFA PROFESSORE DI STORIA ALL’UNIVERSITÀ DI PARIGI I DIRETTORE DEL CENTRO DI STORIA DEL XIX SECOLO
DAGLI ORTI / ALBUM
L’ASSEDIO PRUSSIANO Per più di quattro mesi, Parigi fu bombardata dalle truppe prussiane che la assediavano, ma fu la mancanza di cibo che causò la morte di centinaia di civili. XIX secolo. Museo Carnavalet, Parigi.
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egli ultimi mesi del 1870, la Francia visse una delle situazioni più critiche della sua storia. Il primo settembre, a Sedan, la guerra contro la Prussia nella quale l’imperatore Napoleone III aveva trascinato il suo Paese terminò con una schiacciante sconfitta. Il sovrano venne catturato e l’esercito francese si dichiarò vinto il giorno seguente. I parigini, tuttavia, si rifiutarono di arrendersi e il 4 settembre fu creato in città un governo di Difesa Nazionale, fu proclamata la Terza Repubblica e fu dichiarato che la patria era in pericolo, mentre si cercava di ravvivare la fiamma della resistenza. Nulla di tutto ciò fermò l’avanzata dell’esercito prussiano, che dalla fine di settembre fino alla fine di gennaio del 1871 mantenne la capitale della Francia sotto assedio. Un
assedio che fu una prova lunga e difficile: i parigini dovettero far fronte a continui bombardamenti, alla carestia e a un rigido inverno con temperature che raggiunsero i quattordici gradi sotto lo zero. Ma resistettero, e i combattenti, quasi tutte reclute della Guardia Nazionale (la milizia formata da circa 340.000 volontari tra i cittadini di Parigi), mostrarono grande determinazione. Per questo molti parigini si indignarono quando, il 28 gennaio, il presidente del governo di Difesa Nazionale, Jules Trocha, ratificò la sconfitta francese e firmò l’armistizio con Otto von Bismarck, l’onnipotente cancelliere prussiano. A febbraio, i francesi elessero una nuova Assemblea Nazionale presieduta da Louis Adolphe Thiers e chiaramente dominata dal settore monarchico. Nella capitale, che era repubblicana, si faceva fatica ad accettare l’autorità di tale nuovo potere.
MUSÉE DE L’ARMÉE, PARIS / RMN
SCONFITTA E UMILIAZIONE NAZIONALE A GUERRA FRANCO-PRUSSIANA iniziò il
19 luglio 1870. Fra le cause, la politica di Otto von Bismarck, cancelliere prussiano che mirava a unificare la Germania. La vittoria sulla Francia avrebbe conferito alla Prussia la supremazia sugli Stati tedeschi e l’avrebbe resa una potenza europea. Intanto l’imperatore Napoleone III voleva vedere realizzato il sogno di divenire arbitro d’Europa. Il pretesto che diede luogo alla guerra fu la candidatura di un principe tedesco al trono di Spagna, cosa che suscitò in Francia il timore dell’accerchiamento. Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia ma fu sconfitto a Sedan perdendo la guerra. Il 19 settembre 1870 Parigi fu assediata dai prussiani; il 28 gennaio 1871 il governo francese si arrese.
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LA CRISI FRANCESE Il generale francese Margueritte è ferito a morte nel corso della battaglia di Sedan, in cui era al comando della cavalleria. James Alexandre Walker. Musée de l’Armée, Parigi.
SCUDO IMPERIALE DI NAPOLEONE III Dopo essere stato democraticamente eletto come presidente della Seconda Repubblica francese nel 1848, Napoleone III si autoproclamò imperatore nel 1852.
LA GALLERIA DEGLI SPECCHI Il 18 gennaio 1871 nella Galleria degli Specchi della reggia di Versailles, i prussiani proclamarono il loro re Guglielmo I imperatore di Germania, alla presenza del cancelliere Bismarck.
Questo nuovo organismo politico, per di più, firmò il 26 febbraio un trattato che sanciva la cessione delle province di Alsazia e Lorena alla Prussia, e il pagamento di un ingente indennizzo di guerra. L’indignazione aumentò quando, il primo marzo, Thiers e l’Assemblea acconsentirono che i prussiani sfilassero per gli Champs-Élysées, un’umiliazione suprema per la città combattente. La capitale era una polveriera che scoppiò quando il governo, che non si fidava assolutamente della popolazione parigina, volle privarla dei suoi cannoni.
La nascita della Comune All’alba del 18 marzo del 1871, una colonna dell’esercito al comando dei generali Claude Martin Lecomte e Clément Thomas arrivò in cima alla collina di Montmartre, che domina la città, per impossessarsi dei duecento cannoni posizionati dalla Guardia Nazionale in 148 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
quel punto strategico. Tuttavia, centinaia di operai circondarono quasi immediatamente i militari, e donne e bambini accorsero in massa per ostacolare l’operazione. Molto presto regnò la confusione: alcuni soldati sollevavano i calci delle loro armi in segno di fraternizzazione con i parigini, mentre altri cercavano di resistere. Risuonarono parecchi spari e la folla, scandalizzata perché si stava cercando di disarmare la città, si lanciò contro gli ufficiali, catturò i due generali e li giustiziò in un giardino sulla collina. La capitale, offesa dal comportamento del governo, si riempì di barricate, e i ministri, primo fra tutti Thiers, abbandonarono Parigi – un fatto insolito anche in tempi di rivoluzione – per rifugiarsi a Versailles. Questo episodio determinò l’inizio della Comune di Parigi, la Commune, la maggiore insurrezione popolare dell’Europa moderna:
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per 72 giorni la capitale si emancipò dall’Assemblea eletta e dal governo per attribuirsi una nuova autorità. All’inizio, questa rimase nelle mani del comitato della Federazione della Guardia Nazionale, organismo che coordinava le attività di tale milizia; perciò i communards, i comunardi, si proclamarono “federati”. Il comité, che si stabilì nel Municipio, desiderava agire nel segno della legalità, così che a partire dal 26 marzo convocò le elezioni per disporre di un consiglio municipale scelto dal popolo. Da Versailles, il governo nazionale sostenne l’astensione, che arrivò al 52 per cento. Comunque, 230.000 parigini si recarono alle urne ed elessero un consiglio ampiamente dominato da militanti e giornalisti rivoluzionari, che in tal modo legittimarono l’insurrezione del 18 marzo. Il nuovo consiglio municipale prese il nome di Comune di Parigi in riferimento all’omonimo
IL 28 MARZO 1871, dopo lo scrutinio dei volti delle elezioni del giorno 26, venne proclamata la Comune di Parigi sulla piazza dell’Hôtel de Ville (il municipio). Durante la cerimonia altre città francesi furono invitate a insorgere contro il governo di Thiers, ma l’isolamento di Parigi da parte del governo di Versailles limitò la riuscita dell’appello. PROCLAMAZIONE DELLA COMUNE, INCISIONE SU LEGNO DI FRÉDÉRIC THÉODORE LIX.
consiglio che si costituì nel 1792, durante la fase gloriosa della Rivoluzione francese. La nuova Comune fu proclamata ufficialmente il 28 marzo 1871 tra l’euforia del popolo, e si invitarono le altre comuni di Francia a unirsi a essa in una federazione libera. Sotto l’impulso di ciò che accadeva nella capitale, presto scoppiarono tumulti a Lione, Marsiglia, Narbona, Saint-Étienne e Tolosa, che però furono subito repressi. Parigi rimase allora sola davanti al governo stabilitosi a Versailles, deciso a sostenere “una guerra spietata e senza tregua contro quegli assassini”.
Una città mobilitata All’inizio regnò un’apparente tranquillità. La Comune si occupò, prima di tutto, di assicurare l’approvvigionamento della capitale, molto provata dall’assedio che era durato per tutto l’inverno.
L’ELMO CHIODATO PRUSSIANO La pickelhaube era l’elmo indossato dai militari prussiani. Introdotto dal re Federico Guglielmo IV, poteva recare sulla parte frontale l’aquila imperiale e la croce patente tedesca.
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STÉPHANE LEMAIRE / GTRES
LA PROCLAMAZIONE
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re chi era fuggito a Versailles. Quasi tutti gli uomini portavano l’uniforme della Guardia Nazionale, il cui stipendio permetteva a molte famiglie di sopravvivere. Scegliere gli ufficiali e le commissioni di ogni quartiere, fabbricare bandiere e sorvegliare le strade erano ormai divenute operazioni quotidiane. Anche le donne si mobilitarono, soprattutto nell’Unione delle donne per la difesa di Parigi, e in gran numero si unirono incondizionatamente all’insurrezione. Molte misero perfino l’uniforme, imbracciarono fucili e combatterono nelle barricate. Ma nulla di tutto ciò poté modificare la discriminazione tra i sessi: la maggior parte delle donne svolse ruoli convenzionali come infermiere, cantiniere o maestre e nessuna reclamò diritti politici.
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In nome del popolo
HÔTEL DE VILLE Il municipio di Parigi, sede della Comune, iniziò a funzionare come centro amministrativo nel 1357 nella “Casa delle colonne”, che nel 1533 fu sostituita da un palazzo progettato dall’architetto Domenico da Cortona.
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Essa doveva anche raccogliere fondi per pagare gli stipendi e prepararsi a un’imminente guerra civile contro l’esecutivo di Versailles, le cui truppe, in effetti, avanzarono su Parigi dalla fine di marzo. Le riforme sociali e politiche passarono temporaneamente in secondo piano, mentre iniziava a percepirsi un’atmosfera un po’ insolita, soprattutto nei quartieri operai a nord e a est, divenuti scenario di un’intensa agitazione politica. Ricomparvero i simboli rivoluzionari del passato: la bandiera rossa e il berretto frigio. I comunardi iniziarono di nuovo a darsi del “tu”: come nel 1789, si chiamavano “cittadino” tra di loro. Fu ristabilito il calendario adottato nel 1792, in piena Rivoluzione francese. Di colpo, fu il mese di Germinale dell’anno 79! Furono distribuiti migliaia di libelli, opuscoli e giornali. Si discuteva animatamente delle future riforme e delle tattiche per combatte-
Il governo della Comune adottò diverse iniziative di carattere politico e sociale che definirono il suo carattere. Alcune furono simboliche, come per esempio la distruzione della colonna di Place Vendôme, che commemorava le vittorie di Napoleone I, o la demolizione della casa di Thiers. Altre misure risposero invece a una situazione sociale delicata. Fu stabilita una moratoria sugli affitti, fu sospesa la vendita degli oggetti impegnati al monte di Pietà e, per esempio, fu soppresso il lavoro notturno per i panettieri. Misure come la separazione della Chiesa dallo Stato o l’abolizione degli eserciti permanenti mostravano un orientamento più ideologico. Tutti i membri della Comune erano d’accordo su alcuni principi fondamentali: la fedeltà a una Repubblica democratica, sociale e fraterna; l’anticlericalismo; la necessità di un’educazione laica e gratuita; il rispetto della proprietà privata e l’aspirazione alla creazione di una libera associazione di cooperative. Si costituirono varie commissioni per riflettere su questi temi, ma tutti i progetti rimasero bloccati. In primo luogo, a causa del rigore finanziario (lo spirito legalista della Comune la portò a rispettare le riserve della Banca di Francia); in seconda istanza, a causa delle differenze ideologiche che iniziarono a separare i “maggioritari”, di tendenza giacobina (sostenitori del potere centralizzato in uno Stato volto al bene comune), e i “minoritari”, più vicini alle posizioni anarchiche.
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LA CADUTA DI UN SIMBOLO MONARCHICO
LA COLONNA DI PLACE VENDÔME I comunardi la distrussero il 16 maggio 1871. Due anni dopo Mac-Mahon ne ordinò la ricostruzione. Incisione. XIX secolo. Bibliothèque Nationale, Parigi.
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A COMUNE distrusse diverse costruzioni che erano considerate emblemi dell’oppressione. Una di queste fu la colonna Vendôme che, al centro dell’omonima piazza, era stata eretta nel 1810 per celebrare la vittoria di Napoleone Bonaparte ad Austerlitz. Essa era ricoperta con il bronzo ricavato dalla fusione dei cannoni conquistati in quella battaglia ed era coronata da una scultura di Napoleone vestito da generale romano. Un decreto della Comune la qualificò come “Simbolo della forza bruta e della falsa gloria, un’affermazione del militarismo, una negazione del diritto internazionale, un insulto permanente dei vincitori ai vinti, un attentato continuo a uno dei tre grandi principi della Repubblica francese, la fratellanza”.
DECRETO DELLA COMUNE Con uno dei suoi decreti la Comune stabilì che la cappella espiatoria di re Luigi XVI dovesse essere distrutta e i suoi materiali venduti poiché costituiva un insulto alla prima Rivoluzione.
LA “SETTIMANA DI SANGUE” COSTITUÌ IL PERIODO PIÙ TERRIBILE DELLA STORIA DI PARIGI
Il grande massacro L’esercito di Versailles progredì velocemente da ovest a est e, nonostante le 900 barricate costruite per fermarne l’avanzata, trovò una forte resistenza solo nei bastioni operai del sudest della città. Più che i combattimenti, fu la repressione ordinata dagli ufficiali a provocare i massacri. Centinaia di rivoltosi furono giustiziati senza processo per il semplice fatto di avere un’arma in mano, polvere da sparo sulle dita o contusioni alla spalla provocate dal rinculo del fucile durante gli spari. Il 24 maggio, l’esercito aveva già occupato la maggior parte della città. Per ritardare l’avanzata delle truppe, la Comune incendiò numerosi edifici che simboleggiavano la monarchia o l’ordine sociale precedente: le Tuileries, il palazzo reale, la prefettura di polizia, il palazzo di Giustizia, il Ministero delle Finanze e perfino il Municipio, che bruciò con tutti i suoi archivi. Un’apocalisse di fuoco e sangue sembrava abbattersi sulla città. In seguito alle esecuzioni sommarie perpetrate dall’esercito, i comunardi compirono rappresaglie: oltre a uccidere l’arcivescovo di Parigi, assassinarono una cinquantina di persone (di cui 24 erano sacerdoti) in rue Haxo. 152 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Tuttavia la fine della rivolta sarebbe giunta per un’altra via: la ribellione libertaria terminò brutalmente il 21 maggio quando le truppe di Versailles aprirono una breccia nelle mura di sudest, nei pressi della porta di Saint-Cloud. Il giorno seguente, 130.000 soldati irruppero nella città, dando così inizio alla “Settimana di sangue”, il periodo più terribile della storia di Parigi. Fu allora che la Comune si trasformò nella protagonista di una tragica epopea e in un simbolo della rivoluzione universale.
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NUOVO TESTIMONE DI STORIA
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A GUERRA DI CRIMEA (1853-1856), la
Guerra di Secessione negli Stati Uniti (1861-1865) e la Comune di Parigi (1871) costituiscono i primi grandi avvenimenti storici che, oltre a essere rappresentati in dipinti e incisioni, sono stati tramandati grazie all’invenzione della fotografia. Durante la seconda metà del XIX secolo, la diffusione di questa tecnica moltiplicò le testimonianze sulla vita sociale e politica dell’epoca, ma non implicò una vera trasformazione del giornalismo e dell’opinione pubblica fino al passaggio dal XIX al XX secolo, quando la stampa poté riprodurre le immagini fotografiche mediante la tecnica della fotoincisione.
IN POSA SULLE BARRICATE
Durante la Comune, Parigi si riempì di barricate. Quella di Faubourg Saint-Antoine, che compare in questa fotografia del 18 marzo 1871, fu una delle ultime a cadere di fronte all’esercito di Versailles.
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1 COMUNARDI NELLE LORO BARE 4
È attribuita al fotografo André-Adolphe-Eugène Disdéri l’immagine che ritrae un gruppo di comunardi fucilati, poco prima della sepoltura. Musée Carnavalet, Parigi. 2 PARIGI DEVASTATA
I comunardi risposero all’avanzata delle truppe governative con l’incendio di edifici ufficiali come il Ministero delle Finanze (nell’immagine). 3 I CANNONI DELLA COMUNE
4 FALSE TESTIMONIANZE
Il realismo delle immagini fotografiche conferiva un’aura di veridicità a fotomontaggi come questo, che mostra la fucilazione di sacerdoti da parte dei comunardi.
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La lotta per il controllo dei cannoni che la Guardia Nazionale aveva piazzato sulla collina di Montmartre rappresentò il detonatore dell’insurrezione parigina.
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CIRCA QUARANTAMILA PERSONE FURONO ARRESTATE E INCARCERATE
Si combatté disperatamente nel Pantheon e, soprattutto, nel quartiere di Belleville, dove il 28 maggio caddero le ultime barricate. Cominciò allora un periodo di denunce, detenzioni ed esecuzioni di prigionieri. Centotrentasette tra i rivoltosi morirono fucilati all’interno del cimitero del Père-Lachaise contro la parete, ancora oggi famosa, che venne poi chiamata “muro dei federati”. Da sei a settemila insorti furono assassinati in questo modo durante quella terribile settimana di combattimenti e repressione. “Parigi è stata liberata. L’ordine, il lavoro e la sicurezza rinasceranno”, dichiarò il generale Patrice de Mac-Mahon, capo dell’esercito. Questo massacro precedette quella che, secondo le parole di Louis Adolphe Thiers, costituì “il maggiore intervento giudiziario del XIX secolo”. Circa 40.000 persone furono arrestate e rinchiuse in campi militari. Le 24 corti marziali riunite per l’occasione fecero comparire in giudizio 12.500 persone, pronunciarono 93 condanne a morte e più di 4000 sentenze di deportazione. La maggior parte di queste ultime furono scontate in Nuova Caledonia, l’arcipelago dell’Oceania dove la Francia aveva istituito una colonia penale. I più fortunati intrapresero il doloroso cammino dell’esilio in direzione della Svizzera, del Belgio e della Gran Bretagna. Una tremenda ondata di odio investì tutto ciò che fosse in qualunque maniera collegato alla Comune e ai comunardi. A Parigi, mentre veniva proibita per legge qualsiasi memoria dell’evento, il governo organizzò funerali solenni per Georges Darboy, l’arcivescovo assassinato dai ribelli, e favorì la costruzione sulla collina di Montmartre – dove tutto era iniziato – di una basilica espiatoria dedicata al Sacro Cuore, perché Dio perdonasse i peccati commessi dai parigini. 154 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LOUIS ADOLPHE THIERS. BIBLIOTHÈQUE NATIONALE, PARIGI.
Solamente quando furono trascorsi nove anni e il potere passò definitivamente ai repubblicani, fu deciso di concedere l’amnistia ai rivoluzionari che si erano ribellati nel 1871.
Che cosa fu la Comune “Che cos’è quindi la Comune, questa sfinge che tanto tormenta lo spirito dei borghesi?”, si domandava Karl Marx in un pamphlet intitolato La guerra civile in Francia. Prima di tutto, la Comune fu una rivoluzione urbana legata sia all’orgoglio parigino sostenitori delle libertà, sia alla storia della capitale. Nel 1852, un vasto progetto di ristrutturazione urbana diretto da Georges Eugène Haussmann e promosso da Napoleone III aveva trasformato radicalmente Parigi, trasferendo anche gran parte della classe operaia in nuovi quartieri del nord (Montmartre, Belleville, Ménilmontant) e del sud (Glacière, Grenelle).
L’INCENDIO CHE DIVORÒ LA CITTÀ
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RA I VARI EDIFICI distrutti duran-
te la Comune vi fu il Municipio, simbolo delle libertà parigine. Costruito a partire dall’inizio del XVI secolo, esso venne ingrandito agli inizi del XIX. Sulla sua scalinata, le rivoluzioni vittoriose proclamarono i nuovi regimi del 1830, 1848, 1870 e 1871. Fu uno degli edifici pubblici che i comunardi incendiarono il 24 maggio del 1871, quando la battaglia era ormai persa, in un ultimo gesto di provocazione e vandalismo rivoluzionario: piuttosto che riconsegnare all’avversario questo edificio simbolico, preferirono distruggerlo. L’incendio distrusse gli archivi della città (tra i quali si trovava anche il registro civile) e la biblioteca. Il Municipio venne ricostruito tra il 1872 e il 1884 dagli architetti Théodore Ballu ed Édouard Deperthes, che si ispirarono all’edificio scomparso.
PARIGI DURANTE GLI INCENDI DEL 24 MAGGIO DEL 1871. SCUOLA FRANCESE. MUSEO CARNAVALET, PARIGI.
Non c’è quindi da stupirsi che la maggiore partecipazione e resistenza si localizzassero in tali quartieri, poiché la Comune fu anche la riconquista politica della città da parte delle sue classi popolari. La Comune di Parigi fu, inoltre, una risposta patriottica. Dopo la Rivoluzione francese, il patriottismo era un’idea “di sinistra” che si opponeva ai poteri assolutisti e oppressori, ragion per cui la sottomissione del governo alla Prussia e le tendenze monarchiche dell’esecutivo di Thiers furono considerate antipatriottiche. Così si ebbe, forse, l’unico esempio di una rivoluzione scelta democraticamente contro un governo eletto democraticamente. Da ultimo, la tradizione rivoluzionaria così forte in Francia collegava la Comune alle rivolte antimonarchiche che si erano verificate a Parigi nel 1830, 1832 e 1848, e ancora di più ai ricordi della Rivoluzione francese.
La Comune non fu una rivoluzione proletaria, contrariamente a quanto indicato nelle analisi di Marx, che voleva vedere in essa “la via politica finalmente trovata” per l’emancipazione della classe operaia; anche Friedrich Engels e Lenin parlarono di una “dittatura proletaria”. Tuttavia gli insorti parigini furono gli artigiani, i commercianti, gli operai qualificati e piccoli padroni che caratterizzarono le rivoluzioni e le sollevazioni del XIX secolo. Il loro sogno era quello di una repubblica democratica e universale, erede del 1793 e del 1848. Anche se finì per diventare un vero e proprio mito e una fonte d’ispirazione per i movimenti comunisti e anarchici del XX secolo, la Comune di Parigi segnò la fine di un’era iniziata nel 1789. Come ha scritto lo storico francese François Furet, “in quella Parigi in fiamme, la Rivoluzione francese si congedava dalla Storia”. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IL QUARTO STATO Se il ruolo principale nella Rivoluzione francese ricadde sulla borghesia, allora chiamata “Terzo Stato” (gli altri due erano la nobiltà e la Chiesa), alla fine del XIX aveva fatto il suo ingresso nella storia un nuovo attore: il proletariato, o “Quarto Stato”. Nel famoso dipinto del 1901, Giuseppe Pellizza da Volpedo raffigurò la sua marcia alla conquista del futuro, con serena dignità.
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ERICH LESSING / ALBUM
LA LIBERTÀ DI STAMPA Durante i moti rivoluzionari del 1848, molte città europee vennero inondate di periodici, pamphlet e altri tipi di pubblicazioni che esaltavano la rivoluzione e chiedevano diritti e libertà. Nell’immagine è raffigurata la diffusione di volantini nelle strade di Vienna. Acquerello di Johann Nepomuk Hoefel. Museo di Vienna, Austria.
PER SAPERNE DI PIÙ OPERE GENERALI SAGGI Sulla rivoluzione. Hannah Arendt. Einaudi, 2009. A People’s History of the World: from Stone Age to the New Millennium. Chris Harman. Verso Books, 2008. I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. Erich J. Hobsbawm. Einaudi, 2002.
L’ATENE DI CLISTENE TESTO Politica e costituzione di Atene. Aristotele. UTET, 2006. SAGGI Atene nell’epoca classica. Peter Funke. Il Mulino, 2001. Il cittadino e la polis. Le origini della cittadinanza nella Atene antica. Philip Manville Brook. ECIG, 1999. INTERNET www.agathe.gr
SPARTACO SAGGI Spartaco. La ribellione degli schiavi. Mario Dogliani. B.C. Dalai, 2002. Spartaco. Aldo Schiavone. Einaudi, 2009 La guerra di Spartaco. Barry Strauss. Laterza, 2009.
ROMANZO Spartacus. Howard Fast. NET, 2004.
LE RIVOLUZIONI CONTADINE SAGGI Rivolte urbane e rivolte contadine nell’Europa del Trecento. Giuliano Pinto, Monique Bourin, Giovanni Cherubini (a cura di). Firenze University Press, 2009. ROMANZO Il sogno di John Ball William Morris. Bevivino, 2012.
COLA DI RIENZO SAGGIO Cola di Rienzo Tommaso di Carpegna Falconieri. Salerno, 2002.
LUTERO TESTO Opere scelte. Martin Lutero. Claudiana editrice, 2009. SAGGI Martin Lutero. Lucien Febvre. Laterza, 2003. La Riforma protestante. Luise Schorn Schütte. Il Mulino, 2001.
LA RIVOLUZIONE INGLESE
GEORGE WASHINGTON
1848
TESTI La democrazia in America. Alexis de Tocqueville. BUR, 1999.
SAGGI Le rivoluzioni del 1848. Roger Price. Il Mulino, 2004.
La dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Marsilio, 2003
1848. L’anno della rivoluzione. Mike Rapport. Laterza, 2011.
SAGGIO Storia degli Stati Uniti. Allan Nevins, Henry Commager. Einaudi, 1980.
Storia della rivoluzione del 1848. Daniel Stern. Laterza, 2012.
LUIGI XVI
ROMANZO I miserabili Victor Hugo. Einaudi, 2014.
TESTO L’antico regime e la rivoluzione. Alexis de Tocqueville. BUR, 1996. SAGGI La Rivoluzione Francese. François Furet, Denis Richet. Laterza, 2003. Il re martire. Vita, passione e memorie di Luigi XVI di Francia. Emiliano Procucci. Il Cerchio, 2010. Luigi XVI. L’ultimo sole di Versailles. Antonio Spinosa. Mondadori, 2008.
LE CORTES DI CADICE
SAGGI Oliver Cromwell. Richard Newbury. Claudiana editrice, 2013.
TESTO Costituzione di Cadice (1812). Testo a fronte. Liberilibri, 2009.
Le cause della Rivoluzione inglese. Lawrence Stone. Einaudi, 2001.
ROMANZO Il giocatore occulto. Arturo Pérez Reverte. Marco Tropea Editore, 2010.
GARIBALDI TESTO Memorie. Giuseppe Garibaldi. BUR, 2008. SAGGI I garibaldini. Alexandre Dumas. Editori Riuniti, 2007. Garibaldi. Denis Mack Smith. Mondadori, 1999. ROMANZO Il Gattopardo. Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Feltrinelli, 2013.
LA COMUNE DI PARIGI SAGGI Gli ultimi giorni della Comune. Prosper-Olivier Lissagaray. Redstar Press, 2013. La Comune di Parigi. Lenin. Editori Riuniti, 1971. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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HERVÉ HUGHES / GTRES
UN OMAGGIO ALLA RIVOLUZIONE Alla sommità della Colonna di Luglio, a 46,3 metri di altezza e al centro di piazza della Bastiglia – dove sorgeva la fortezza presa dai Parigini nel 1789 – vi è il Genio della Libertà, una scultura di Auguste Dumond. Il monumento, inaugurato nel 1840, commemora “la gloria dei cittadini francesi che si armarono e combatterono per la difesa delle libertà”.
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