UN GENIO ITALIANO ALLA CORTE DI FRANCIA
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LA PRIMA CITTÀ DELLA STORIA
ISIDE
LA DEA DI UNA DINASTIA
CRASSO
IL PIÙ RICCO DI ROMA
FILIPPO II
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GLI ULTIMI ANNI DI LEONARDO
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EDITORIALE
non c’è forse al mondo un esempio di genio così universale, inventivo, incapace di contentarsi, avido d’infinito e naturalmente raffinato, proteso in avanti, al di là del suo secolo e di quelli successivi». Nel 1866 Hippolyte Taine descriveva così, nel suo libro Voyage en Italie, il genio di Leonardo da Vinci. Cinquecento anni dopo la sua morte Leonardo rappresenta ancora tutto ciò che ha incarnato in vita: la curiosità, la voglia di conoscere, di scoprire e di capire il mondo che tanto hanno influito negli anni del Rinascimento. Morì il 2 maggio 1519. Secondo la leggenda esalò l’ultimo respiro tra le braccia del re di Francia Francesco I. Probabilmente si tratta di un’invenzione, ma di sicuro da Vinci morì oltralpe e lì fu sepolto come da lui stesso stabilito nelle ultime volontà. Trascorse gli ultimi anni della sua vita ad Amboise, libero finalmente di creare, inventare, disegnare presso la corte di un sovrano che non gli imponeva nulla, ma che godeva semplicemente della sua vicinanza e delle sue opere. Leonardo sapeva, quando intraprese il suo viaggio verso la corte di Francia nel 1517, che quello sarebbe stato l’ultimo. Deluso dallo scarso successo che aveva ottenuto negli ultimi anni a Roma e preoccupato per il suo futuro dopo la morte di Giuliano de’ Medici, scelse di partire e di non farvi ritorno. Portò con sé quasi tutti i suoi beni e diversi dipinti, che successivamente vendette al re. Di questi nel testamento di Leonardo non vi è traccia, giacché non erano più di sua proprietà: l’autore decise che sarebbero appartenuti alla corona di Francia. Oggi quasi tutti sono esposti al Museo del Louvre.
16
10 PERSONAGGI STRAORDINARI
118 GRANDI ENIGMI
Gestì quasi tutte le miniere di diamanti in Africa. Le sue idee a favore di una supremazia britannica portarono, anni dopo, all’apartheid.
Il diamante Blu appartenente ai gioielli della corona di Francia sparì nel 1792. Oggi si crede che coincida con il diamante Hope.
Cecil Rhodes
16 EVENTO STORICO
124 GRANDI SCOPERTE
Il metro venne inventato in Francia per unificare le unità di misura del Paese. In pochi decenni si diffuse in tutta Europa.
Governata da sultani shirazi, questa città ubicata in una piccola isola della Tanzania prosperò tra il XIII e il XV secolo.
20 OPERA D’ARTE
128 LIBRI E MOSTRE
Un sistema per tutti
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La pietra perduta
La città africana di Kilwa
Il sarcofago di Velletri Conosciuto come il sarcofago delle fatiche di Ercole, risale al II secolo d.C. Adornato con splendidi rilievi, riassume le gesta dell’eroe greco.
22 VITA QUOTIDIANA
A tavola con gli egizi La moderazione nel mangiare era una virtù in Egitto, dove si consumavano frutta, verdura, carne, pesce e pane, elaborato con diversi tipi di farina. 6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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68 L’UOMO PIÙ RICCO DI ROMA MARCO LICINIO CRASSO
è passato alla storia per le sue enormi ricchezze. Fu uno degli uomini più influenti di Roma, eppure condusse una vita modesta. Aveva uno spiccato talento per identificare e finanziare le gesta di coloro che sarebbero stati politicamente influenti. Ma la spedizione contro l’impero partico da lui capeggiata portò a una delle una delle sconfitte più cocenti della storia di Roma. DI ANDREA FREDIANI L’ARCO DI TAQ-I KISRA SI TROVA NELL’ANTICA CTESIFONTE, LA CAPITALE PARTICA. È IL PIÙ GRANDE DELL’EPOCA E MISURA 37 METRI.
44 La prima città della storia Novemila anni fa, su una collinetta dell’Anatolia, gli uomini del Neolitico diedero vita a una delle prime società sedentarie della storia. L’agricoltura e l’allevamento sostituirono la caccia come fonte di sostentamento primaria. DI CRISTINA BELMONTE
56 Il regicidio di Filippo II Nel IV secolo a.C. il padre di Alessandro Magno era al culmine del suo potere e preparava l’invasione dell’impero persiano. Durante le celebrazioni per le nozze della figlia fu assassinato da una delle sue guardie reali, Pausania. DI JUAN PABLO SÁNCHEZ
80 I vichinghi, gli eroi delle saghe I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. Tra il XII e XIII secolo furono messe per iscritto e sono pervenute fino ai nostri giorni. DI INÉS GARCÍA LÓPEZ
98 Gli ultimi anni di Leonardo La corte di Francesco I, re di Francia, fu il rifugio finale di Leonardo da Vinci, che qui trascorse gli ultimi anni della sua vita. Dopo varie insistenze da parte della corona francese, Leonardo accettò di lavorare per un sovrano che lasciava libero sfogo alla sua fantasia. DI CRISTINA ACIDINI
28 Iside, la dea di una dinastia La dinastia tolemaica si servì della figura femminile più importante del pantheon egizio per ampliare la propria influenza fuori dai confini dell’Egitto. In Palestina, in Siria o a Roma il culto di Iside, dea sanatrice e modello di madre, crebbe in maniera esponenziale. Fedeli di tutte le classi sociali innalzavano templi e veneravano la dea in tutto il Mediterraneo. DI JAIME ALVAR
STATUA DI ISIDE. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
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Pubblicazione periodica mensile - Anno XI - n. 123
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BUSTO DI LEONARDO DA VINCI. PINACOTECA AMBROSIANA, MILANO. FOTO: TARKER COLLECTION / ACI
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RICARDO RODRIGO
LA PRIMA CITTÀ DELLA STORIA
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8 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
IN ED ICO LA
Speciale Storica. Archeologia
la roma imperiale Ricostruita in 3D
IL COLOSSEO, il Pantheon, i fori imperiali, i mercati
e la colonna di Traiano… Tra il I e il II secolo d.C. Roma visse un periodo di grande espansione edilizia che la portò al livello degno della capitale del principale impero del mondo antico. La posizione strategica di Ostia, situata alla foce del Tevere, a 35 km da Roma, la convertì
invece nella più importante porta d’ingresso delle merci destinate all’Urbe. L’imperatore Claudio infatti vi fece costruire uno splendido porto successivamente ampliato da Traiano. Questa intensa attività commerciale determinò l’aspetto della città imperiale. In edicola dal 26 aprile. Prezzo 9,90¤
PERSONAGGI STRAORDINARI
Cecil Rhodes, il re dei diamanti Imperialista convinto, Rhodes usò un esercito privato per estendere i domini della sua società mineraria ed estrarre oro e diamanti in Sudafrica, Zambia e Zimbabwe
Milionario, imperialista e razzista 1853 Cecil Rhodes nasce nel sud dell’Inghilterra. Intorno ai 17 anni va in Natal (Sudafrica), nella piantagione di cotone del fratello.
1871 Attratto dalla febbre dei diamanti, si trasferisce a Kimberley, dove crea un monopolio per l’estrazione di pietre preziose.
1890 Eletto primo ministro della colonia del Capo, Rhodes esplora le miniere d’oro e amplia i suoi domini tramite un esercito privato.
1895 Fallisce l’invasione del Transvaal. L’esercito di Rhodes combatte contro gli ndebele e gli shona, nell’attuale Zimbabwe.
1902 Proprietario di una fortuna, Rhodes muore a 48 anni. Il territorio che governava viene ribattezzato Rhodesia. UIG / ALBUM
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alla cima rocciosa del monte Malindidzimu si può godere di uno dei migliori panorami dello Zimbabwe. Si chiama World’s View, la “vista del mondo”, e si estende a 360 gradi su tutto il parco nazionale Matobo, dove alcune isole di granito spiccano in mezzo a un mare di arbusti e acacie. Tra due enormi blocchi di roccia erosa dalle intemperie si trova una piccola tomba che domina il paesaggio. La sua semplicità è ingannevole: vi è sepolto Cecil Rhodes, il magnate minerario che fondò un gigantesco impero economico e a cui venne intitolato un intero paese. Cecil John Rhodes nacque nel 1853 a Bishop’s Stortford, una piccola cittadina dell’Inghilterra meridionale. Quinto figlio del vicario della parrocchia locale, Cecil ebbe un’infanzia difficile a causa della costituzione gracile e dei problemi d’asma. Nella speranza che un clima più mite potesse giovare alla sua fragile salute, all’età di circa diciassette anni fu inviato dal padre nella colonia del Natal (nell’attuale Sudafrica), dove suo fratello Herbert, partito qualche anno prima in cerca di fortuna, possedeva una piantagione di cotone. Ma la fattoria, situata nella
valle Umkomazi, non era produttiva e ben presto fallì. Attratto dalla corsa al diamante che si stava scatenando al centro del paese, nel 1871 Cecil si trasferì a Kimberley con l’intenzione di gestire un proprio giacimento.
Un esperto di diamanti Di lì al 1914 a Kimberley si sarebbero estratti 2.722 chili di diamanti. Nelle quasi 3.600 concessioni private si scavava a colpi di pala e piccone, una frenetica attività che finì per creare un pozzo di 400 metri di diametro per 240 di profondità, ancor oggi visibile e conosciuto come Big Hole. All’epoca lavoravano all’estrazione fino a 50mila minatori. Rhodes si arricchì non solo grazie agli scavi, ma anche noleggiando agli altri operai i macchinari per il pompaggio dell’acqua. In questo modo riuscì ad acquistare gradualmente altre concessioni, diventando ben presto un esperto di pietre preziose. Non tardò molto a rendersi conto che per mantenere alto il prezzo dei diamanti era necessario controllarne sia l’estrazione sia l’immissione sul mercato. Nel corso di uno dei suoi viaggi a Londra convinse la famiglia di banchieri Rothschild a finanziargli l’acquisto del resto delle concessioni.
Rhodes regolava l’estrazione e la vendita di diamanti per farne salire il prezzo DIAMANTE GIALLO DELLA COMPAGNIA FONDATA NEL 1888 DA CECIL RHODES.
PER UN MONDO BRITANNICO «SIAMO LA PRIMA razza al mon-
do, e quanto più vasta sarà la parte del mondo che abiteremo, tanto meglio sarà per la razza umana». Rhodes dedicò la sua vita a questo concetto. Nella sua Professione di fede redatta nel 1877 afferma: «Il nostro dovere è prenderla [l’Africa]». E poi: «Più territorio significa semplicemente più razza anglosassone». Le sue idee di supremazia portarono all’assassinio di migliaia di civili e alla creazione di uno dei primi campi di concentramento della storia durante la Seconda guerra boera per l’annessione ai domini britannici della Repubblica del Transvaal e dello Stato Libero d’Orange. CECIL RHODES TRATTA CON I MATABELE. ILLUSTRAZIONE DI HOWARD DAVIE PUBBLICATA IN HEROES OF HISTORY. 1896. MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
Nel 1888, con la fusione delle aziende di Rhodes e del suo grande rivale, Barney Barnato, nacque la De Beers Consolidated Mines, che arrivò a controllare praticamente tutta la produzione di diamanti nel mondo. Rhodes riusciva a garantirsi dei margini di guadagno sempre elevati regolando la quantità di gemme presenti sul mercato tramite il Sindacato dei diamanti di Londra. L’inglese stava diventando sempre più ricco, e assunse anche un ruolo prominente sulla scena politica della colonia del Capo, cui l’impero britannico aveva concesso l’autonomia nel
1872. Nel 1890, dieci anni dopo essere entrato per la prima volta in parlamento, fu nominato primo ministro della colonia. In linea con le sue convinzioni imperialiste, adottò una serie di misure che ridussero i diritti della popolazione nera africana e degli agricoltori boeri di origine olandese. Secondo l’inglese, i nativi dovevano essere trattati come bambini e non gli si doveva permettere il voto: «Nei nostri rapporti con i barbari sudafricani dobbiamo adottare un sistema dispotico, come in India». Il risultato della politica di Rhodes fu che nel 1896, al termine del suo
mandato, solo pochi africani neri benestanti potevano votare. Per alcuni storici queste decisioni furono le basi dell’inizio dell’apartheid, che si sarebbe consolidato alcuni decenni più tardi.
L’impero dell’oro Nel 1889 Cecil Rhodes diresse le sue ambizioni imprenditoriali verso l’oro, creando la British South Africa Company (BSAC), che si dedicava all’attività di estrazione del prezioso minerale. Stringendo accordi con i sovrani di varie tribù, si assicurò le concessioni e il diritto di proteggere i suoi inveSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
ANN RONAN / SCALA, FIRENZE
UN GRUPPO di lavoratori di etnia zulu in una delle miniere di diamanti di Cecil Rhodes a Kimberley, intorno al 1885.
stimenti con l’esercito privato della compagnia. La BSAC si stabilì nelle regioni del Mashonaland, nel nord dell’attuale Zimbabwe, e del Pitsani, nel protettorato del Bechuanaland (odierno Botswana). Dal 1886, quando fu scoperto l’oro nella zona corrispondente a quella che in seguito sarebbe diventata la città di Johannesburg,
questo territorio controllato dai boeri ospitava un gran numero di uitlanders – minatori britannici che godevano di diritti limitati. Nel 1895, con il pretesto di difendere i cittadini del Regno Unito, Rhodes autorizzò l’ingresso nel Transvaal di una colonna di soldati della BSAC, guidati da Leander Starr Jameson, allo scopo di rovesciare il go-
RIMOSSO DALL’ATENEO DI RHODES lo scrittore Mark Twain affermava: «Lo
ammiro, confesso. Quando arriverà il suo momento, mi comprerò un pezzo di forca in suo ricordo». Dello stesso avviso gli studenti dell’Università di Città del Capo, che nel 2015 hanno accolto con canti e balli la rimozione della statua in ricordo del magnate delle miniere dal loro ateneo. CARICATURA DI CECIL RHODES APPARSA SU LE RIRE NEL 1900. MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
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verno locale e annettere la repubblica boera ai possedimenti britannici. Ma a differenza di quanto si aspettavano le autorità inglesi, gli uitlanders non si sollevarono e la spedizione di Jameson si risolse in un fiasco. Lo stesso Jameson fu arrestato e Rhodes si dimise dai suoi incarichi di presidente dell’azienda e primo ministro della colonia del Capo. Il Transvaal fu annesso all’impero britannico nel 1902, dopo una guerra lunga tre anni. La BSAC estese i suoi domini anche in altre regioni. In linea con la volontà di Rhodes, la compagnia incoraggiava gli inglesi a stabilirsi nei nuovi territori per poi istituire dei protettorati che inglobavano i possedimenti all’interno dell’impero britannico. Non sempre fu
Armenia tra Miti e Leggende /
Un percorso denso e sorprendente attraverso miti, leggende, poesie, canti e storie armene che comincerà dai "piedi" del monte Ararat ove secondo il Libro della Genesi si posò l’Arca di Noè. Un tempo terra pagana, l'Armenia è diventata il confine orientale del mondo cristiano. Un viaggio in cui si svelano le affinità culturali degli armeni con l’Occidente, un'esperienza che rende piÚ vicino questo paese sconosciuto e misterioso.
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PERSONAGGI STRAORDINARI
IL SOGNO DELLA LINEA ROSSA NEL 1874 il giornalista Edwin Ar-
NATIONAL PORTRAIT GALLERY , LONDON / SCALA, FIRENZE
nold, direttore del Daily Telegraph, propose l’idea di una ferrovia che collegasse Il Cairo a Città del Capo e unisse le colonie britanniche in Africa. Cecil Rhodes divenne in seguito il maggior promotore della “linea rossa”, così chiamata perché sulle mappe dell’epoca i possedimenti britannici erano generalmente colorati in rosso. La colonizzazione tedesca del Tanganica vanificò quel sogno. Anche se nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, il Tanganica divenne britannico, la linea ferroviaria non fu mai portata a termine. Maggior fortuna ebbe il collegamento stradale tra Il Cairo e Città del Capo. RHODES E L’AFRICA BRITANNICA IN UN CARTELLONE PUBBLICITARIO DEL 1899.
facile. Nel Matabeleland (una regione occidentale dell’odierno Zimbabwe), la compagnia aveva ottenuto i diritti di estrazione dell’oro nel 1888, dopo la firma di un trattato con il re degli ndebele. Ma questo gruppo etnico e quello degli shona combatterono contro l’esercito della BSAC in due guerre successive. Alla seconda prese parte anche Robert Baden-Powell, futuro fondatore dei famosi boy scout. Il conflitto si concluse sul monte Malindidzimu, quando Rhodes entrò disarmato nell’accampamento degli ndebele e li convinse alla resa.
Il paese di Rhodes Rhodes annetté ai possedimenti britannici il Barotseland (nell’attuale Zambia), firmando un trattato con il re Lewanika, e il Nyasaland (odierno Malawi). In onore di Rhodes, i coloni battezzarono Rhodesia i nuovi territori, che furono suddivisi in una parte 14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
meridionale, una nord-occidentale e una nord-orientale. Le ultime due si unirono nel 1911 per formare la Rhodesia settentrionale, che avrebbe ottenuto l’indipendenza nel 1964 con il nome di Zambia. Il resto della Rhodesia mantenne invece il nome fino al 1980, quando fu ribattezzata Zimbabwe. Sempre afflitto dalle sue precarie condizioni di salute, Rhodes morì d’insufficienza cardiaca nel 1902, all’età di 48 anni. Le sue ultime parole furono: «Così poco è stato fatto e così tanto resta da fare». Forse si riferiva al suo grande sogno incompiuto, collegare i possedimenti britannici da Città del Capo al Cairo tramite una linea ferroviaria di cui si costruirono vari tronconi. L’agognata“linea rossa” d’altro canto non arrivò mai a esistere sulla mappa: tra il Sudan e la Rhodesia settentrionale c’era il Tanganica, controllato dalla Germania. I territori conquistati da Rhodes non portano
più il suo nome, ma in Inghilterra si è conservata una parte importante del lascito del magnate. Nel suo testamento, Rhodes donò una parte delle sue ricchezze all’Università di Oxford per l’assegnazione di borse agli studenti delle colonie britanniche. Oggi il sussidio è aperto a persone di tutto il mondo, indipendentemente dal colore della pelle. Forse proprio questo aspetto, paradossalmente, rappresenta il buono della sua eredità: un fondo destinato a formare politici, scienziati e filosofi e a promuovere l’unità e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. —Jordi Canal-Soler Per saperne di più
SAGGI
Breve storia del Sudafrica Mario Zamponi. Carocci, Roma, 2009. ROMANZI
Un arcobaleno nella notte Dominique Lapierre. Il Saggiatore, Milano, 2009.
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Il metro: la rivoluzione dei pesi e delle misure Durante la Rivoluzione francese s’introdusse un nuovo sistema metrico decimale per facilitare la comunicazione e gli scambi nazionali e internazionali
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urante il suo viaggio in Francia alla vigilia della rivoluzione, lo scrittore inglese Arthur Young rimase impressionato dalla grande varietà di misure in cui s’imbatté: «Non solo variano da provincia a provincia, ma anche da villaggio a villaggio», si lamentava. E aveva ragione: si stima che dietro a circa ottocento nomi si nascondessero oltre 250mila differenti valori di pesi e misure. Una simile disomogeneità era un ostacolo alla comunicazione e al com-
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mercio e favoriva episodi di frode e corruzione. I grandi pensatori illuministi lo sapevano bene e per questo concordavano sulla necessità di unificare i pesi e le misure dei paesi che partecipavano a uno stesso circuito di scambio di merci e idee scientifiche. Alcuni di loro presentarono delle soluzioni come definire l’unità di misura di base tramite la lunghezza di un pendolo con un periodo di oscillazione di un secondo, una vecchia idea di Galileo. Ma la proposta che ebbe più successo fu quella dell’italiano Tito Livio Burattini,
il primo a suggerire che quest’unità fondamentale si chiamasse “metro”, che in greco significa appunto“misura”. Gli illuministi però erano scettici riguardo alle possibilità di successo della nuova unità di misura. Per quanto si lamentassero della grande confusione che regnava, Diderot e D’Alembert – autori della famosa Encyclopédie – ritenevano che «non ci fosse molto da fare». Ma lo scoppio della Rivoluzione francese offrì un’opportunità unica di liberarsi dal peso della tradizione e rifondare il mondo su nuovi principi.
BIBLIOTECA DE CATALUNYA
EVENTO STORICO
UNA MISURA PER OGNI REGIONE IN ITALIA le unità di misura differivano da regione a regione, per quanUSO DELLE NUOVE MISURE
introdotte in Francia. Incisione di Labrousse. 1795. Musée Carnavalet, Parigi.
to a volte i nomi fossero gli stessi (come pertica, braccio, trabucco o canna). Nel 1861 entrò in vigore il sistema metrico decimale ma le equivalenze con i vecchi sistemi vennero ufficialmente pubblicate solo nel 1877. Qui sopra, confronto tra le unità di misura del doppio braccio e del metro sulla facciata del palazzo comunale di Pistoia.
BRIDGEMAN / ACI
Il 4 agosto 1789, tre settimane dopo la presa della Bastiglia, la nobiltà perse i suoi privilegi, tra cui il diritto di controllare i pesi e le misure locali e le proposte di riforme cittadine fioccarono. Qualche mese prima il più importante astronomo francese dell’epoca, Jérôme Lalande, aveva lanciato un appello per standardizzare i sistemi di misura in un modo molto semplice: tramite l’adozione obbligatoria in tutto il paese delle misure in vigore a Parigi. In un altro momento storico la proposta di Lalande avrebbe anche potuto avere successo, ma quello era
un periodo eccezionale. Come sottolineò Talleyrand, adottare le norme parigine non rendeva giustizia all’importanza della questione né alle «aspirazioni di uomini illuminati e rigorosi». Il famoso diplomatico chiese all’Assemblea nazionale che l’unità di misura di base fosse ricavata dalla natura, perché solo in questo modo poteva andare bene, secondo un’espressione di Condorcet, «per tutti i popoli e per sempre».
Un’invenzione sublime Nel dibattito che ne seguì si delinearono le caratteristiche del futuro sistema di misurazione. Le varie unità di misura
Secondo Lavoisier, «non c’è niente di più sublime del sistema metrico decimale» A
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PARTICOLARE DEL CALENDARIO REPUBBLICANO DEL 1794. MUSÉE CARNAVALET.
(lunghezza, volume, peso, ecc.) dovevano essere correlate tra loro e suddivise in scala decimale. Per quanto riguarda la denominazione, si propose di chiamare “metro” l’unità di base – «un termine così espressivo che si direbbe quasi francese», affermò il matematico Auguste-Savinien Leblond –, di contrassegnarne i sottomultipli con dei prefissi latini (decimetro, centimetro, millimetro) e i multipli con dei prefissi greci (decametro, ettometro, chilometro). Quando finalmente la proposta venne approvata, il chimico Lavoisier dichiarò: «Il sistema metrico decimale è la cosa più grande e sublime uscita dalle mani degli uomini». L’Assemblea e l’Accademia delle scienze crearono una Commissione dei pesi e delle misure con il compito di stabilire l’unità di base del sistema. Vi facevano parte gli scienziati più importanti dell’epoca, come il matematico Gaspard Monge, l’astronomo e matematico Pierre-Simon Laplace
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EVENTO STORICO
Il metro campione in bella vista NEL 1795, mentre Méchain e De-
METRO CAMPIONE AL N. 36 DI RUE DE VAUGIRARD, DI FRONTE AL PALAIS DU LUXEMBOURG.
e il filosofo e matematico Nicolas de Condorcet. Il primo compito della commissione fu quello di rispondere alla domanda cruciale: come definire il“metro”? Dopo aver studiato diverse possibilità, si decise che tale misura sarebbe stata un decimilionesimo della distanza tra il Polo Nord e l’equatore, e questa sarebbe stata determinata calcolando la lunghezza del meridia-
no che va da Dunkerque a Perpignan, passando per Parigi. Nel 1792 gli astronomi Jean-Baptiste Delambre e Pierre Méchain furono incaricati di procedere alla misurazione e in giugno lasciarono Parigi in direzioni opposte, facendovi ritorno nel 1799. Il 10 dicembre di quell’anno in Francia si adottò il sistema metrico decimale.
UN ERRORE MILLIMETRICO PIERRE MÉCHAIN commise un errore nella determi-
nazione del meridiano e come conseguenza la distanza tra Polo Nord ed equatore risultò essere 10.002.290 metri. Questo causò un’imprecisione di circa 0,2 mm nel calcolo del metro ma si decise comunque di mantenerne la misura. JEAN DELAMBRE. RITRATTO DELL’ASTRONOMO FRANCESE. ALBUM
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Da poco eletto primo console della Repubblica, Napoleone Bonaparte dichiarò: «Le conquiste militari sono passeggere, ma questo risultato rimarrà per sempre».
Il vecchio sistema persiste In quell’epoca convulsa, si trattò di un indubbio trionfo della scienza, i cui esiti però tardarono a trasferirsi alla società francese. Certe abitudini erano profondamente radicate, per cui furono utilizzate ancora a lungo le vecchie unità. La politica del governo finì per cedere di fronte all’inerzia generale. Il 12 febbraio 1812, nel bel mezzo dei preparativi per la campagna di Russia, la Francia adottò le “misure consuetudinarie”: l’unità di misura ufficiale rimaneva il metro, ma le misure di uso quotidiano si
BRIDGEMAN / ACI
lambre completavano la misurazione dell’arco di meridiano tra Dunkerque e Perpignan, fu adottato un metro provvisorio che risultò differire di 0,3 millimetri da quello ufficiale. Affinchè la popolazione familiarizzasse con il nuovo sistema, si distribuirono opuscoli e tabelle di conversione e, tra 1796 e il 1797, s’installarono sedici campioni di metro incisi sul marmo nei luoghi più frequentati di Parigi. Oggi ne conserviamo due esemplari.
BRIDGEMAN / ACI
TAVOLA FRANCESE DI PESI E MISURE. XIX SECOLO. INCISIONE A COLORI.
rifacevano a quelle della Parigi prerivoluzionaria. L’unità di misura della lunghezza tornò a essere la tesa, che però si arrotondò da 1,949 a 2 metri. Ma così come si era opposta al sistema metrico decimale, la popolazione rifiutò anche quel criterio misto. Con la Restaurazione si verificò un ritorno completo alle diverse misure dell’Ancien Régime. Sconfitto e risentito, Napoleone ridicolizzò le pretese smisurate degli scienziati illuministi: «Non si accontentavano di rendere felici quaranta milioni di persone, volevano sistemare l’intero universo», scrisse dal suo esilio a Sant’Elena.
più definirsi pionieristica: ormai le nuove unità di misura erano in vigore da quasi vent’anni in Olanda, Belgio e Lussemburgo, dov’erano state diffuse dalle stesse truppe napoleoniche. Nei Paesi Bassi il sistema metrico era stato ufficializzato da Guglielmo I d’Orange nel 1820, e il Belgio lo mantenne anche quando si separò dall’Olanda dieci anni più tardi. Finalmente il metro sembrava adempiere la sua funzione: contribuire all’unificazione politica nazionale e facilitare il commercio internazionale. Nella penisola italiana l’introduzione del sistema metrico decimale avvenne progressivamente a partire dal 1850, secondo quanto stabilito da La chiave del successo Carlo Alberto, sovrano del Regno di Fu solo nel 1837 che il nuovo re di Sardegna. Mano a mano che il regno Francia Luigi Filippo, desideroso di d’Italia annetteva territori, si estendeva rivendicare l’eredità della Rivoluzio- anche l’introduzione del sistema che, ne, ripristinò il sistema metrico per però, anche se formalmente in vigore favorire la modernizzazione del paese. era sconosciuto ai cittadini. Per l’alL’esperienza francese però non poteva fabetizzazione di grandi e piccini, il
regno si servì degli strumenti della Chiesa: ai Fratelli delle scuole cristiane venne commissionata la redazione di un testo destinato agli insegnanti, corredato di modelli di solidi geometrici. Per gli adulti, il ministero dell’interno incaricò le diocesi del regno di inviare ai parroci un manuale di metrologia. Come in Italia, l’adozione del metro nel mondo non seguì i dettami delle leggi, ma avanzò gradualmente con il diffondersi dell’istruzione, dei trasporti e del commercio. Negli ultimi duecento anni il sistema decimale si è imposto praticamente in ogni angolo del globo. Oggi ci sono solo tre paesi – Myanmar, Liberia e Stati Uniti – ancora riluttanti ad accettarlo. —Vladimir López Alcañiz Per saperne di più
TESTI
La misura di tutte le cose Ken Adler. Rizzoli, Milano, 2002.
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O P E R A D ’A R T E
arte romana
( i i s e c o l o d . C .)
Il sarcofago delle fatiche di Ercole
Decorato con bei rilievi che rappresentano diversi miti greci, questo sarcofago del II secolo d.C. è uno dei migliori esempi di arte funeraria romana
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sposto nel Museo civico archeologico Oreste Nardini, lo splendido sarcofago di Ercole fu scoperto nel 1955 nella frazione di Colonnella, a Velletri. L’opera è considerata un gioiello unico nella produzione funeraria romana sia per le sue dimensioni imponenti (162 cm di altezza per 254 di lunghezza) sia per le sue splendide decorazioni. Il corpo del sarcofago è realizzato in marmo di Luni, mentre dal monte Pentelico proviene quello della base e del coperchio a due falde, che ricorda l’architettura dei templi. Le diverse scene sono separate e organizzate tramite elementi architettonici nello stile tipico degli artisti dell’Asia Minore. Sui quattro lati, di due fasce ciascuno, si distribuiscono 184 figure
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che illustrano una gran varietà di temi mitologici. Nella parte superiore emergono le fatiche di Ercole e in quella inferiore alcuni Atlanti reggono il peso del sarcofago mentre separano le scene. Anche se per adornare il feretro vi sono rappresentati diversi miti, il protagonista indiscusso è l’eroe Ercole: su tre dei quattro lati vi compaiono le sue dodici fatiche compiute per ordine del re Euristeo, oltre alla discesa e al ritorno dal mondo degli inferi governato da Plutone. In tal modo si voleva narrare la purificazione di Ercole e la sua ascesa all’Olimpo, la residenza degli dei, legando il destino ultraterreno dell’eroe a quello del committente del sarcofago, che appare scolpito davanti alle porte dell’aldilà. Le immagini mostrano dunque il desiderio e la speranza dell’uomo di proseguire la propria vita anche oltre la morte. Per questo motivo il sarcofago è così importante: ci offre una straordinaria testimonianza su com’erano concepite l’immortalità e la resurrezione nell’ultima fase della cultura classica.
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—Lucía Avial-Chicharro a sinistra è riprodotto il lato principale del sarcofago di Velletri. Nel registro superiore, Ercole lotta contro il leone di Nemea a e contro l’idra di Lerna b. Al centro, il defunto accede alla vita ultraterrena tramite una porta custodita da una divinità c. FOTO: ARALDO DE LUCA
LE FATICHE DI ERCOLE
Sono qui rappresentate le ultime tre fatiche di Ercole: l’eroe rapisce i buoi di Gerione 1, porta via Cerbero dagli inferi 2 e ruba i pomi d’oro dal giardino delle Esperidi 3.
DEI ED EROI DEGLI INFERI
Nella fascia superiore, Protesilao 1 e Alcesti 2 tornano dagli inferi per riunirsi con i rispettivi amati, Laodamia e Admeto. Giove 3 e Nettuno 4 affiancano la coppia di dèi degli inferi Plutone e Proserpina 5.
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IL RATTO DI PROSERPINA
Nella fascia inferiore si narra di come Plutone rapisca Proserpina per portarla nell’Ade 6, al cui ingresso li attende la dea Tellus 7. Mentre Cerere parte alla ricerca della figlia Proserpina 8, Cupido annuncia le nozze di questa con il dio degli inferi 9. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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V I TA Q U OT I D I A N A
La dieta egizia: birra, legumi, frutta e pane Gli abitanti dell’antico Egitto godettero di una gran varietà di alimenti grazie alla ricchezza della terra, resa fertile dal Nilo legumi essiccati e ridotti in polvere, come ad esempio le lenticchie o i ceci. Il nome comune del pane bianco era ta hegd, mentre il ta uagd era il “pane verde”, probabilmente arricchito con le erbe, anche se non sappiamo quali. In ogni caso, come riporta Erodoto, veniva impastato con i piedi. I metodi di cottura erano differenti: quando il pane non era lievitato, se ne facevano dei dischi che venivano poggiati all’esterno di forni in argilla a forma TAVOLA DELLE conica riscaldati internamente. Una OFFERTE in un dipinto della tomba dell’alto volta cotto, il pane cadeva, pronto per funzionario Nakht, essere consumato. Altri metodi rudicolma di delizie come mentali consistevano nel cuocerlo su uccelli, uva, fichi e pietre arroventate o in una buca scavata pesce che il defunto nella terra e coibentata con pietre. Una avrebbe consumato dell’aldilà. volta scaldate, si spegneva il fuoco, vi si adagiava il pane e si copriva fino a cottura avvenuta. I forni “tradizionali”, in pietra o argilla al cui interno veniva cotto il pane, ogni caso, questo prodotto era spesso furono inventati a partire dalla sco- contaminato dalla presenza d’impurità perta del lievito, circa nel 3000 a. C. In quali insetti o sabbia, e causava una precoce erosione dei denti. AKG / ALBUM
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in dall’antichità più remota, il Nilo aveva costituito il punto di sosta per i nomadi del deserto e per le loro prede. Ma fu a partire dal VI millennio a.C. che i primi agricoltori vi si stabilirono definitivamente, formando il primo nucleo di quella che poi divenne la grande civiltà egizia. E proprio attorno al fiume questo popolo organizzò la propria alimentazione. Il Nilo straripava con cadenza regolare da giugno a settembre e ritirandosi lasciava uno strato di fango scuro e ricco di sostanze fertilizzanti che preparavano il terreno per la semina. La base dell’alimentazione egizia era rappresentata dal pane, per la cui preparazione si utilizzavano farine di diversi cereali quali l’orzo, il più diffuso, il frumento (riservato ai ceti abbienti), il farro, la spelta, il panìco e il sorgo. Altri pani erano invece prodotti da
MODERAZIONE A TAVOLA GLI EGIZI, com’è noto, tenevano in gran conto la disci-
plina del corpo. Sotto questo aspetto, alcuni papiri ammoniscono contro gli eccessi e riportano insegnamenti morali come questi: «Non ti abbuffare di cibo: chi lo fa avrà vita abbreviata». Oppure consigliano: «È gran lode all’uomo saggio contenersi nel mangiare». CALICE IN CERAMICA AZZURRA A FORMA DI FIORE DI LOTO. XXII DINASTIA. ASHMOLEAN MUSEUM / ALBUM
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Campi coltivati Le case ospitavano piccoli orti domestici che producevano ortaggi ancor oggi molto diffusi: cetrioli, lattughe, porri, aglio, cipolle, rape, piccole zucche o sedano. Accanto a questi, gli egizi coltivavano anche alcune erbe, oggi poco conosciute in occidente, come ad esempio la melokhia, una pianta a foglia verde simile agli spinaci. Nei giardini delle ville aristocratiche ve-
nivano piantati alberi da frutto come il melograno, il fico, il tamarindo e la palma da dattero. In particolare, i frutti di questa pianta venivano consumati freschi, essiccati o spremuti e fatti fermentare ottenendo il cosiddetto “vino di palma”, un succo liquoroso che veniva consumato da solo o aggiunto alla birra per aromatizzarla.
Sfruttamento dell’incolto Oltre alle coltivazioni, gli egizi ricorrevano anche allo sfruttamento dell’incolto: lungo le sponde del Nilo crescevano infatti giuggiole e la palma dum, che produceva le noci dum,
Cibo e bevande per tutti gli strati sociali GLI EGIZI CONSUMAVANO tre pasti al giorno: la prima colazione era costituita da fave cotte e condite con olio e limone. A mezzogiorno si consumava il pane con la carne oppure verdure crude o legumi e della frutta, mentre la cena rappresentava
il pasto principale. Il menù era lo stesso del pranzo, ma si consumava in famiglia, seduti in giardino o sotto una tenda. La bevanda più diffusa era l’acqua del Nilo. La birra aveva un valore particolare, tanto da essere utilizzata come moneta di scambio: veniva ottenuta dalla
FERMENTAZIONE di pani d’orzo
poco cotti e ammollati nel vino di palma, per questo veniva chiamata anche “pane liquido”. In realtà era un prodotto poco alcolico, e veniva conservato in giare. Apprezzato ma meno diffuso era invece il vino, consumato esclusivamente dalle élite.
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La preparazione del pane in Egitto Per il consumo domestico, il pane veniva impastato e infornato in stanze separate dalla residenza principale. Esistevano forni pubblici nei quali le pagnotte cuocevano in stampi di forme diverse per permettere alle famiglie di riconoscere il proprio.
3. L’impasto. La
farina s’inumidiva e si mescolava con il lievito. S’impastava in un cesto di paglia fino a ottenere la giusta consistenza.
1. Il grano. Una
parte di ogni raccolto era destinata al pagamento delle tasse, un’altra si conservava per la semina e l’ultima era destinata alla preparazione del pane.
2. La macina.
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Questo era un compito riservato alle donne, che macinavano il grano fino a ottenere la farina.
ILUSTRACIÓ
N: SOL 90
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4. Il forno. Generalmente era a legna ma coloro che possedevano animali usavano anche lo sterco come combustibile.
5. Diverse ricette. Sappiamo che gli egizi aggiungevano all’impasto semi di diverse piante per rendere il pane più nutriente.
UN LAVORO DURO. Macinare il grano quotidianamente era un compito massacrante per le donne, che dovevano stare inginocchiate e fare forza con la parte superiore del corpo. Spesso questo provocava lesioni alle ossa. DONNA CHE MACINA IL GRANO. V DINASTIA. MUSEO ARCHEOLOGICO, FIRENZE.
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V I TA Q U OT I D I A N A
PIANTE PLANTAS MEDICINALES MEDICINALI EL PAPIRO NEL 1874 GEORG EBERS, que MORITZ se remonEBERS,
docente archeologia a Lipsia ta a 1550dia.C., es el texto mee Berlino, pubblicò papiro dicoquirúrgico másunantiguo al 1550 il papiro yrisalente completo quea.C., se conoce. Ebers. tratta del più antico El textoSiproporciona informatestosobre medico-chirurgico ción la farmacopeacode la época yeda recetasinformamédicas nosciuto fornisce preparadas con plantas:dell’ese cizioni sulla farmacopea tan especias poca: vengono y hierbas citatemedicispezie ed erbecomo comelailalbahaca basilico per nales, parail cuore o il papavero per il morel corazón o la amapola para la mordedura de cocodrilo. so di coccodrillo.
il sicomoro con i suoi frutti simili ai fichi, i cocomeri, le carrube e molte erbe spontanee largamente usate dalla popolazione contadina. Lungo le rive del fiume cresceva in abbondanza il papiro, che non serviva solo per la produzione della pregiata carta ma anche per quella di pentole e utensili da cucina. Inoltre, appena colto, si usava succhiarne il fusto, dal sapore dolcissimo, come riporta il fi-
SOPRA, UN GIARDINIERE INNAFFIA LE CIPOLLE. DISEGNO DELLA TOMBA DI NEFERHEREPTAH.
losofo e botanico greco Teofrasto nella sua Storia delle piante: «Il suo uso più importante è come alimento. Tutti nel paese masticano il papiro, crudo, bollito o arrostito: se ne succhia il succo e si getta via il resto».
preziosi per questa funzione, venivano marchiati a fuoco sul fianco destro sotto l’attenta supervisione di scribi incaricati. Proprio in virtù del loro ruolo nelle coltivazioni erano considerati animali sacri, e solo gli aristocratici si cibavano della loro carne. Allevamento e caccia Un ruolo ambiguo era invece ricoPer quanto riguarda l’apporto proteico, perto dai maiali: utilissimi nel lavoro gli egizi allevavano pecore e soprattutto dei campi, venivano lasciati pascolare capre, che venivano usate anche per la sui terreni agricoli prima della semina produzione di latte e formaggio. Fra i in modo da dissodare la terra ed eravolatili, venivano allevati oche e pic- no nutriti con gli scarti alimentari, cioni, mentre il pollo era sconosciuto. risolvendo così un grosso problema I bovini erano utilizzati nel lavoro dei relativo allo smaltimento dei rifiuti campi, ed essendo particolarmente domestici che avrebbero potuto generare focolai d’infezione. Erano però considerati animali impuri, e chi ne veniva a contatto doveva necessaGli egizi cacciavano riamente purificarsi immergendosi soprattutto quaglie interamente nel fiume. Addirittura, e vari tipi di anatre i guardiani dei porci erano cittadini liberi ma non potevano entrare nei DUE UOMNI AFFERRANO DELLE OCHE. MUSEO D’ARTE, CLEVELAND. templi né sposarsi. Nonostante questo, CLEVELAND MUSEUM / ACI
WERNER FORMAN / GTRES
BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
A SINISTRA, ALBERI DA FRUTTO. DIPINTO DELLA TOMBA DI NEMABÓN.
PRISMA / ALBUM
EL ALTOFUNZIONARIO L’ALTO FUNCIONARIO Maaty sentado seduto davanti ante unaa mesa delle offerte. de ofrendas. XI dinastia. DinastíaMetropolitan XI. Museo Metropolitano, Museum, New Nueva York.York.
i maiali venivano sacrificati alla dea Nut una volta l’anno, e la loro carne veniva abitualmente consumata dalla popolazione contadina. La caccia ricopriva un ruolo di particolare importanza nella società egizia. Il più delle volte avveniva presso le sponde del Nilo e anche se il popolo poteva cacciare per alimentarsi, l’aspetto ludico dell’attività venatoria era riservato all’aristocrazia. I cacciatori costeggiavano il fiume a bordo di una canoa di giunchi e catturavano i numerosi volatili grazie a una sorta di bastone che veniva lanciato per colpire le prede. I cani e i gatti da riporto recuperavano la preda e la consegnavano al padrone, al seguito del quale i suoi schiavi trasportavano la cacciagione in grandi gabbie. Le prede più comuni erano le quaglie (le quali venivano anche allevate), le anatre, i pellicani e un’innumerevole moltitudine di altri esemplari stanziali o migratori.
Anche la caccia all’ippopotamo era un’attività molto diffusa, mentre nelle zone più interne si cacciavano soprattutto gli orici, una sorta di gazzella dalle lunghe corna oggi quasi scomparsa, o a volte anche gli struzzi. Naturalmente, il Nilo era molto pescoso e offriva in particolare carpe, pescigatto, anguille, muggini e cefali di palude, dai quali si ricavava la bottarga. Curiosamente, però, la popolazione preferiva di gran lunga la carne al pesce. I sacerdoti, addirittura, non potevano mangiare alcuni tipi di pesci e sembra che nemmeno i faraoni ne consumassero molto. La pesca avveniva per mezzo di arpioni, nasse, lenze ma soprattutto con le reti a strascico. Queste venivano realizzate intrecciando con cura le fibre della canna. Gli egizi erano inoltre dei gran consumatori di uova, che provenivano da diverse specie: pellicani, struzzi, quaglie e altri uccelli selvatici che nidi-
ficavano sulle sponde del Nilo. I fondi di cottura erano suddivisi in adkh, il grasso animale, che comprendeva fra le altre cose burro e grasso d’oca, e il merhet, il grasso vegetale. Il più diffuso era l’olio di semi di sesamo, ma si utilizzavano anche gli oli di semi di lino, ricino, ravanello. L’olio di oliva invece si consumava raramente. Infine, per quanto riguarda i dolci, sappiamo che si usava il miele, che però era ritenuto un genere di lusso. Molto più spesso la popolazione ricorreva ai datteri cotti, alle carrube, ai fichi e all’uva passa per addolcire il pane e le altre pietanze. —Martina Tommasi Per saperne di più
SAGGI
Vita quotidiana degli egizi Franco Cimmino. Bompiani, Milano, 2001. Storia dell’alimentazione J. L. Flandrin, M. Montanari. Laterza, Roma-Bari, 2007.
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ISIDE In origine Iside fu una delle principali divinità del pantheon egizio. Poi il suo culto si diffuse in tutto il Mediterraneo, dove ricevette una grande accoglienza e riunì fedeli di tutti i ceti sociali
SINISTRA: SCALA, FIRENZE. DESTRA: ERICH LESSING / ALBUM
La dea egizia che attraversò il Mediterraneo
IL CULTO DI ISIDE A ERCOLANO
Questo affresco scoperto a Ercolano rappresenta una cerimonia in onore di Iside. II sommo sacerdote esce dal tempio reggendo un Osiride Canopo (un vaso con l’immagine del dio dell’oltretomba) che contiene l’acqua sacra del Nilo. Museo archeologico nazionale, Napoli. Nella pagina precedente, la dea Iside protegge tra le sue ali un faraone. Museo civico archeologico, Bologna.
FOGLIA / SCALA, FIRENZE
ISIDE ACCOGLIE IO, SACERDOTESSA DI ERA, AL SUO ARRIVO IN EGITTO. AFFRESCO DEL TEMPIO DI ISIDE A POMPEI. I SECOLO. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
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SCALA, FIRENZE
opo essersi proclamato re d’Egitto alla morte di Alessandro Magno nel 323 a.C., Tolomeo I si propose immediatamente di fondere la nuova élite macedone con la popolazione egizia autoctona. La religione era senza dubbio lo strumento più efficace per raggiungere quest’obiettivo e così il monarca decise d’istituire un culto ibrido in cui potessero sentirsi accolti tutti gli abitanti del suo regno. Due sacerdoti, l’egizio Timoteo e l’eleusino Manetone, crearono quindi la
TRIADE DI OSORKON. OSIRIDE È AL CENTRO, AFFIANCATO DA ISIDE E HORUS. MUSÉE DU LOUVRE.
figura di Serapide, un dio che avrebbe riunito in sé le caratteristiche essenziali di Osiride (il dio egizio dell’oltretomba) e alcuni elementi rituali ispirati ai grandi misteri di Eleusi, un culto greco riservato agli iniziati e legato a Demetra, la dea della fertilità. Questa nuova divinità avrebbe anche avuto le caratteristiche di Zeus (il padre degli dèi ellenici), di Ade (il dio greco degli inferi) e di Asclepio (divinità legata alla medicina). La sua compagna sarebbe stata Iside, fino ad allora sposa di Osiride. L’astuto tentativo di Tolomeo però fallì: gli egizi continuarono a venerare Iside come avevano fatto durante il lunghissimo periodo faraonico e non dimostrarono un particolare attaccamento al nuovo dio Serapide, che non riuscì a soppiantare Osiride nell’immaginario religioso locale. Invece fuori dai confini dell’Egitto la nuova famiglia divina avrebbe avuto un’enorme fortuna nella storia religiosa di tutto il Mediterraneo.
La dea di una dinastia Il successo del nuovo culto di Iside è strettamente legato all’espansione dell’influenza dei Tolomei in tutto il Mediterraneo orientale, dalla Siria e dalla Palestina alla costa occidentale dell’Anatolia e dalle isole dell’Egeo alla Grecia continentale. Alessandria, la capitale dell’Egitto, era un centro economico e commerciale di grande rilevanza attraverso cui transitavano le relazioni diplomatiche, militari e commerciali di tutto il Mediterraneo. I mercanti alessandrini erano soliti rendere omaggio ai loro dei nel caso di affari proficui e sotto questo aspetto Iside e Serapide godevano di grande stima, perché erano considerate divinità protettrici e dispensatrici di salute e ricchezza. Serapide portava in testa un modio, una misura di capacità che simboleggiava la produzione agricola. A Iside, invece, era attribuito il ruolo di protettrice dei marinai in veste di Iside Pharia, patrona del faro di Ales-
LA FAMIGLIA DI ISIDE SI ESPANDE
IV secolo a.C. Nella Grecia continentale, nelle isole dell’Egeo e sulla costa ionica le oligarchie locali detengono cariche sacerdotali legate al culto di Iside.
TEMPIO DI ISIDE A FILE
III secolo a.C.
220 a.C. circa
100 a.C.
I secolo d.C.
Il culto della gens isiaca si diffonde in tutto il Mediterraneo orientale. Verso il 300 a.C. viene creato il dio Serapide.
Il sacerdote Apollonio arriva a Delo, sede del culto di Apollo, e fonda un santuario dedicato a Serapide, compagno della dea Iside.
Un mercante di Alessandria chiamato Numa giunge ad Emporion e costruisce un santuario dedicato alle divinità Iside e Serapide.
Il tempio di Pompei dedicato a Iside (II secolo a.C.) viene ricostruito dopo essere stato danneggiato dal terremoto del 62 d.C.
WILLIAM BELLO / AGE FOTOSTOCK
Costruito in epoca tolemaica e romana, il tempio attuale fu uno dei più importanti dedicati a Iside in Egitto. Fu l’ultimo santuario pagano del Mediterraneo: sopravvisse fino al 551 d.C., quando il culto della dea fu proibito da Giustiniano.
GEORGES PONCET / RMN-GRAND PALAIS
Questa statuetta in bronzo raffigura la dea egizia Iside seduta sul trono con il figlio Arpocrate (Horus fanciullo) in braccio. La dea, nella sua veste di madre divina, sta per allattare al seno il piccolo, che ha la tipica acconciatura a coda di cavallo dei bambini egizi. MusĂŠe du Louvre, Parigi.
ISIDE CON HORUS FANCIULLO
DEA / ALBUM
RILIEVO ROMANO CHE RICOSTRUISCE UN TEMPIO DI ISIDE. NELLA FASCIA SUPERIORE, ALTARI CON DIVINITÀ ANIMALI; IN QUELLA INFERIORE, BALLERINI; SOTTO, SACRI IBIS. MUSEO NAZIONALE ROMANO, ROMA.
sandria. La dea raggiunse un tale successo che tutti gli anni le venivano dedicate le feste di apertura della stagione nautica, note nel mondo romano come Navigium Isidis, la“nave di Iside”. Nel corso di questo rito, che si svolgeva il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera, la statua della dea veniva portata in processione, quindi caricata su una barca e gettata in mare. Forse le origini del nuovo culto erano state umili, ma poco a poco Iside e le altre divinità a lei connesse, note come la gens isiaca (“famiglia di Iside”), guadagnarono santuari, fama e prestigio.
Serapide si stabilisce a Delo Intorno alla prima metà del III secolo a. C. un sacerdote di Menfi di nome Apollonio sbarcò sull’isola di Delo con l’intenzione di fondare un santuario dedicato a Serapide. L’isola era considerata il luogo di nascita di Apollo e vi erano custoditi i tesori delle città alleate SISTRO DI BRONZO SCOPERTO NEL TEMPIO DI ISIDE A ROMA. QUESTO STRUMENTO MUSICALE, SIMILE A UN SONAGLIO, VENIVA UTILIZZATO NELLE CERIMONIE RELIGIOSE DI ISIDE E DI ALTRE DIVINITÀ. LOUVRE, PARIGI. DEA / SCALA, FIRENZE
di Atene nella Lega di Delo. In quel periodo rappresentava anche un importante centro per la tratta degli schiavi e accoglieva mercanti provenienti da ogni parte del mondo, desiderosi di commerciare proficuamente sotto la tutela dei propri dèi. Le autorità locali accettarono di buon grado la costruzione di santuari dedicati alle divinità straniere, perché la ricchezza dell’isola dipendeva proprio dalla presenza di questi forestieri. La conclusione di un buon affare favoriva il culto degli dèi che avevano propiziato l’accordo, e questo valeva anche per i riti stranieri – come nel caso della dea siriana Atargatis, che disponeva di un proprio santuario. È in questo contesto che Apollonio decise di erigere un tempio a Serapide, su presunta richiesta dello stesso dio. Verosimilmente quella di Apollonio non fu un’iniziativa individuale. Il suo status sacerdotale facilitò l’accordo con le autorità religiose locali per l’edificazione del santuario. Inoltre, il culto di Iside e Serapide era patrocinato dai Tolomei e questo ne faceva un emblema della loro egemonia. Le azioni di Apollonio
ISIDE, LA GRANDE MADRE
In epoca tolemaica una delle manifestazioni di Iside era quella di una grande madre divina con caratteristiche ctonie (sotterranee), legate alla fertilità . Ne è un esempio questo medaglione in cui Iside appare con un seno scoperto. AKG / ALBUM
ILLUSTRAZIONE 3D: VALOR-LLIMÓS ARQUITECTURA
RICOSTRUZIONE DEL SANTUARIO DEDICATO A ISIDE A POMPEI, SITUATO DIETRO IL TEATRO GRANDE. FU COSTRUITO NEL II SECOLO A.C.
vanno dunque inquadrate nell’ambito della propaganda politica promossa dalla nuova dinastia egizia, che non imponeva direttamente la fondazione di nuovi santuari, ma appoggiava apertamente i gesti di devozione compiuti dai privati.
Fino alla Spagna romana Il santuario di Delo non fu il primo dedicato a Iside fuori dall’Egitto. Ci sono infatti testimonianze della presenza della divinità ad Atene, dove già nel IV secolo a.C. l’oligarchia locale ricopriva alcune cariche sacerdotali del culto di Iside. Anche molte altre città della Grecia continentale, delle isole dell’Egeo e della costa occidentale dell’Anatolia adottarono Iside e la gens isiaca nei rispettivi pantheon. Il culto di Iside si diffuse a macSACERDOTE DI ISIDE. GLI OFFICIANTI DEL CULTO DELLA DEA DOVEVANO SODDISFARE SEVERI REQUISITI DI PUREZZA RITUALE. AFFRESCO DEL TEMPIO DI POMPEI. SCALA, FIRENZE
chia d’olio fino a imporsi nella totalità dei territori dell’impero romano. Ben presto i mercanti italici che operavano sull’isola di Delo abbracciarono la nuova divinità e ne importarono i riti nei rispettivi luoghi d’origine: la Campania, Ostia, Roma e la Sicilia. Probabilmente il culto di Iside non si diffuse in queste regioni a partire da un centro specifico: oggi si ritiene piuttosto che venne introdotto contemporaneamente da persone diverse in luoghi diversi. Naturalmente la semplice volontà di un individuo non era sufficiente a istituire un nuovo culto: era necessaria l’approvazione delle élite locali e il favore della popolazione, o il tentativo non avrebbe riscosso successo. In ogni caso il culto di Iside s’irradiò fino alle estreme propaggini occidentali del Mediterraneo, approdando finanche nella Spagna romana. Intorno al 100 a.C. un mercante alessandrino chiamato Numa sbarcò a Emporion (odierna Empúries) ed eresse in una zona privilegiata della città un santuario dedicato a Iside e Serapide, adornato di statue e provvisto di un portico. Numa non avrebbe
ROVINE DEL TEMPIO DI ISIDE A POMPEI
Questo piccolo santuario risultò gravemente danneggiato dal terremoto del 62 d.C. Secondo l’iscrizione che si conserva sulla facciata l’intera struttura fu successivamente ricostruita da un facoltoso cittadino di nome Numerio Popidio in memoria del figlio Celsino. PHAS / GETTY IMAGES
TEMPIO DI ISIDE A SABRATHA
Questa città dell’attuale Libia fu un importante porto commerciale in epoca romana. Tra i suoi splendidi edifici spicca il tempio di Iside, costruito nel I secolo a.C. su un promontorio di fronte al mare. SUSANNA WYATT / AWL IMAGES
SERAPIDE A EMPORION. TRADIZIONALMENTE IDENTIFICATA CON ASCLEPIO, QUESTA STATUA DEL RECINTO SACRO DI EMPORION È OGGI RITENUTA UN’IMMAGINE DI SERAPIDE.
ti ad altri dell’impero, ma sono comunque testimonianze importanti. La loro presenza conferma la vitalità di cui godettero questi culti fin nelle aree più occidentali e remote del Mediterraneo.
DEA / GETTY IMAGES
Iside, dea universale
potuto realizzarlo senza un accordo preventivo con le autorità locali. Fu probabilmente il primo in Spagna a costruire un santuario consacrato a queste divinità. Presto ne seguirono altri, come quello fatto erigere da Tito Hermes a Cartago Nova (attuale Cartagena), scoperto recentemente e quasi contemporaneo di quello di Emporion. Anche a Baelo Claudia, nei pressi di Tarifa, fu costruito un magnifico complesso dedicato alla dea egizia, e durante il periodo dell’imperatore Adriano il portico posteriore del teatro di Italica (vicino all’attuale Siviglia) fu modificato per ospitare un altro bellissimo tempio in onore di Iside. Intorno al 200 d.C., inoltre, il senatore Calpurnio Rufino ordinò di ristrutturare uno spazio sacro rurale a Panóias (Portogallo) con l’obiettivo di trasformarlo in un centro religioso dedicato ai misteri di Serapide. È vero che i santuari intitolati alla gens isiaca nella penisola iberica non sono molti né particolarmente spettacolari se paragonaRIPRODUZIONE DI UNO DEI CANDELABRI IN BRONZO RINVENUTI NEL TEMPIO DI ISIDE A POMPEI. QUESTI OGGETTI ERANO UTILIZZATI NEI RITI DEDICATI ALLA DEA. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI. SCALA, FIRENZE
Quali furono le ragioni per cui l’antico culto faraonico di Iside, dopo aver subito una profonda trasformazione per mano della dinastia tolemaica, si diffuse nelle zone più remote dei territori romani? La risposta risiede nel suo legame con le aspirazioni imperialiste dei Tolomei. In precedenza gli dei delle città greche avevano un carattere marcatamente locale: erano i fedeli che viaggiavano per andare a visitare il santuario di Apollo a Delfi, proprio perché era diverso da quello di Apollo a Didima; o veneravano lo Zeus di Olimpia, che era distinto dallo Zeus di Creta, e così via. Le divinità erano dunque di proprietà della comunità in cui risiedevano. In epoca ellenistica però i culti furono sradicati dai loro luoghi di origine e acquisirono una dimensione universale. Non erano più i fedeli che si recavano in pellegrinaggio a visitare il dio di una zona specifica, ma erano le divinità a spostarsi per essere adorate in modo sostanzialmente simile in tutte le regioni disposte ad accoglierle. La costruzione d’ imperi che aspiravano all’universalità richiedeva quindi delle divinità altrettanto universali. I romani si appropriarono di questa impostazione, che aveva anche il vantaggio di permettere a tutti gli abitanti dell’impero di praticare gli stessi culti e rituali, indipendentemente dal loro status sociale. Dato che la religione romana era riservata ai romani, chi non godeva della cittadinanza cercava delle alternative religiose con cui soddisfare i propri bisogni. Questo contribuisce a spiegare il successo del culto della dea Iside e della gens isiaca in tutto il Mediterraneo. JAIME ALVAR PROFESSORE DI STORIA ANTICA. UNIVERSITÀ CARLOS III, MADRID
Per saperne di più
SAGGI
Antichi culti misterici Walter Burket. Laterza, Roma-Bari, 1991. Religioni orientali nel paganesimo romano Franz Cumont. Ghibli, Milano, 2013.
ISIDE PANTHEA, TUTTE LE DEE IN UNA
Questo dipinto pompeiano rappresenta la dea Iside con gli attributi di diverse divinità, in quanto impersona tutte le dee (panthea). Ha in testa il modio, simbolo di fertilità e in mano il corno dell’abbondanza, attributi comuni a Demetra, dea dell’agricoltura. Con la destra manovra un timone, simbolo della fortuna che governa il destino. Museo archeologico nazionale, Napoli. PRISMA / ALBUM
Qui compaiono tre rappresentazioni di Iside, dea che riuniva in sé le caratteristiche di altre divinità e per questo era salutata con l’epiteto di myriónymos (“dai mille nomi”).
I DISTINTI VOLTI DI UNA DEA
ISIDE ROMANA I romani rappresentavano Iside con la tunica, i sandali e il nodo isiaco – che aveva poteri magici – stretto sul petto. Qui ha in mano un recipiente con acqua del Nilo. Museo archeologico nazionale, Napoli. PRISMA / ALBUM
ISIDE-HATHOR-AFRODITE Una delle divinità di cui Iside adottò le prerogative fu Afrodite, dea greca dell’amore associata all’egizia Hathor. In quest’immagine, Iside è nuda e con un alto copricapo di piume. Metropolitan Museum, New York. METROPOLITAN MUSEUM / RMN-GRAND PALAIS
SCALA, FIRENZE
ISIDE A POMPEI Nel portico del tempio fu rinvenuta questa statua della dea con una tunica stretta e trasparente e in mano un ankh, simbolo egizio della vita eterna. Museo archeologico nazionale, Napoli.
LA CITTÀ DI FANGO
Vista degli scavi di Çatal Hüyük. Il sito archeologico si trova in Turchia, a circa 40 chilometri a sud-est della città di Konya. Anche se il sito era stato scoperto nel 1958, gli scavi iniziarono solo nel 1961 grazie al britannico James Mellaart.
L A P R I M A C I T TÀ DE L L A S TO R I A
ÇATAL HÜYÜK
MARION BULL / ALAMY / ACI
Su una collina circondata da zone paludose, circa novemila anni fa nacque uno degli insediamenti più antichi dell’umanità: il luogo che è ricordato nei libri di storia con il nome di Çatal Hüyük
C R O N O LO G I A
Duemila anni di storia 10000 a.C.
Nel Vicino Oriente avviene la rivoluzione neolitica, che permetterà la nascita di piccoli villaggi la cui popolazione sedentaria era dedita all’agricoltura.
9400-8000 a.C.
Occupazione della collina orientale di Çatal Hüyük. I suoi abitanti utilizzano le risorse naturali del territorio grazie a un clima umido e piovoso.
6500-5900 a.C.
Auge di Çatal Hüyük. Nel corso dei secoli aumentano le case e di abitanti, che probabilmente raggiungono un numero intorno alle ottomila unità.
5900-5500 a.C.
Gli abitanti di Çatal Hüyük iniziano a disperdersi verso altri luoghi nella piana di Konya, tra cui la collina occidentale, dall’altro lato del Çarsamba.
5500-5100 a.C.
La collina occidentale è occupata fino agli inizi dell’Età del rame. La società si trasforma: non ci sono sepolture né pitture murali. Prime differenze di classe.
5100-5000 a.C.
Çatal Hüyük viene abbandonata, anche se nei millenni successivi le comunità circostanti useranno la collina orientale per seppellire i morti. Il luogo ha ancora un potere simbolico. NATHAN BENN / GETTY IMAGES
46 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
UN BELVEDERE IN PIANURA
Sopra, le due aree di Çatal Hüyük: la collinetta orientale (a destra) e quella occidentale, alla sinistra del sentiero che separa i due poggi.
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ella piana di Konya, in Turchia, si ergono due collinette di poco più di venti metri di altezza. Circa sessant’anni fa un sentiero segnò una forcella tra le due piccole alture e si cominciò a indicare la collina più grande come Çatal Hüyük, dalle parole turche che significano appunto “forcella” e “collina”. Il percorso fu tracciato dagli stessi archeologi che avevano iniziato a scavare, nel 1961, e oggi Çatal Hüyük è il nome dell’intero sito. Si tratta di un insediamento fondamentale per lo studio del Neolitico, ovvero del periodo in cui nacquero le prime società sedentarie che si sostentavano grazie all’agricoltura e all’allevamento. In tal modo gli uomini del Neolitico si lasciavano alle spalle l’attività di caccia e raccolta che aveva contraddistinto l’umanità per centinaia di migliaia di anni. LAVORI DOMESTICI. A SINISTRA, UTENSILI IN OSSO PER CUCIRE E LAVORARE A MAGLIA RINVENUTI A ÇATAL HÜYÜK. MUSEUM OF ANATOLIAN CIVILIZATIONS, ANKARA.
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Cultura natufiana (13000-10000 a.C.)
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Neolitico Preceramico B (8500-7000 a.C.)
LO SCENARIO IMAGES & STORIES / ALAMY / ACI
LA PRIMA ECONOMIA AGRICOLA della storia si sviluppò durante
Nei tredici ettari che occupa Çatal Hüyük, più di ottomila persone vissero in case addossate le une alle altre. Nella zona si sviluppò una società egualitaria che lasciò tracce delle sue credenze in pitture murali e misteriose statuette, e che seppelliva i suoi morti vicino ai vivi, all’interno delle case. Fu l’archeologo britannico James Mellaart a iniziare gli scavi nel 1961; nei quattro anni in cui rimase alla guida dei lavori documentò 15 livelli di edificazione e circa 160 case. Dal 1993 Ian Hodder ha scavato altri quattro livelli e portato alla luce 80 alloggi.
Nascono le società sedentarie La più grande delle due collinette di Çatal Hüyük venne abitata tra i 9.400 e gli ottomila anni fa, durante il Neolitico, e la minore fu popolata poco dopo, durante il Calcolitico o Età del rame. Gli abitanti di Çatal Hüyük coltivavano cereali e verdure, allevavano pecore e capre e cacciavano animali selvatici come bisonti, cervi, alci, cinghiali o uccelli. Durante il Neolitico la zona era una pianu-
il Neolitico nell’ampio territorio che chiamiamo Mezzaluna Fertile, una zona che comprende la Palestina, il sud-est della Turchia e il territorio compreso tra il Tigri e l’Eufrate. Qui gli archeologi hanno trovato numerosi insediamenti dell’epoca, di cui Çatal Hüyük è senza dubbio uno dei più importanti.
ra semiarida con foraggi, giunchi e piccoli arbusti, ma pure zone paludose e fiumi. Çatal Hüyük sorse sopra un poggio sulla riva destra del Çarsamba (che oggi, ormai inalveato, non fluisce più qui) e in mezzo ad aree palustri. Tutto ciò offriva agli abitanti un’ampia gamma di materie prime commestibili come mele, mandorle, pistacchi, pesci e uova di uccelli acquatici, oltre a materiale per le costruzioni come canne, gesso e fango. Cosa strana, gli studi sulla vegetazione dell’epoca suggeriscono che le colture non si trovavano vicino al villaggio. Poteva una comunità agricola di ottomila persone vivere lontano dai campi? Secondo Hodder e la sua squadra, una delle risposte risiederebbe nell’abbondante uso di gesso e argilla. Se l’insediamento fosse stato nelle vicine colline boschive, dove c’erano terre secche, gli abitanti avrebbero sì avuto legno e orti UOMO CON LA BARBA. LA FIGURA, INCOMPLETA, SEMBRA RAPPRESENTARE UN UOMO APPOGGIATO. FU RINVENUTA A ÇATAL HÜYÜK NEL 2009. J. Q U
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CON I SUOI 3.253 METRI L’HASAN DAĞI, SULLO SFONDO, È IL SECONDO MONTE PER ALTEZZA DELL’ANATOLIA CENTRALE.
IL PRIMO REPORTAGE GRAFICO DELLA STORIA
L’immagine di un vulcano in eruzione L’HASAN DAĞI, o monte Hasan, è un antico vulcano a circa 130 km a nord-ovest di Çatal Hüyük; gli abitanti di questa località vi andavano alla ricerca di un vetro vulcanico, l’ossidiana, per fabbricare gli utensili. Negli anni sessanta, a Çatal Hüyük venne scoperto il graffito che possiamo ammirare qui a destra. Rappresentava un vulcano in eruzione o una pelle di leopardo? Nel 2014 il vulcanologo Axel Schmitt dimostrò che l’ultima eruzione dell’Hasan era avvenuta verso il 6600 a.C., lo stesso periodo cui risale l’affresco. Schmitt considera questa pittura come la cartina più antica del mondo, con il vulcano attivo e, alla base, le case viste a volo d’uccello. Potrebbe quindi essere il primo paesaggio dipinto – e il primo notiziario – della storia.
JASON QUINLAN / ÇATALHÖYÜK RESEARCH PROJECT
di continuo, almeno una volta all’anno e, in certi casi, una volta al mese; in alcuni edifici sono stati documentati più di 450 livelli d’intonaco in soli dieci centimetri di parete. Ogni strato regala informazioni preziose sull’epoca in cui l’edificio fu costruito, e a volte fornisce dettagli sulla vita quotidiana degli abitanti, come nel caso delle tracce lasciate da ceste o tappeti sui pavimenti appena intonacati. Gran parte della vita economica, sociale e rituale di Çatal Hüyük si organizzava attorno alla casa. Le abitazioni, molto simili le une alle altre, accoglievano famiglie composte da cinque o dieci persone e rimanevano in piedi tra i cinquanta e i cento anni. In genere avevano una sala principale e uno o più ambienti laterali che fun-
CURE DI BELLEZZA
Il singolare gioiello qui sopra, ricavato con maestria dall’ossidiana, fa parte di una coppia di specchi rinvenuta nel 2012 a Çatal Hüyük, come parte del corredo funerario di una tomba.
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ELEMENTI PER L’APPLICAZIONE DI COSMETICI PROVENIENTI DA ÇATAL HÜYÜK.
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SOPRA: BRUNO COSSA / FOTOTECA 9X12. SOTTO: MAURICIO ABREU / AWL-IMAGES
a disposizione, ma sarebbero dovuti andare a procurarsi altrove l’argilla per le case, e le ceste di giunco che usavano per i trasporti non erano in grado di mantenerla umida né di reggere la quantità di materiale necessario per intonacare e levigare pareti e pavimenti. Era quindi più semplice dislocare il raccolto per poi accatastarlo; del resto, le inondazioni primaverili del fiume avrebbero pensato ad avvicinare i tronchi dei boschi limitrofi, utili per la costruzione delle case. Spostarsi non era certo un problema per le genti di Çatal Hüyük, che si dedicavano al commercio a lunga distanza: le foglie di palma da dattero usate per le ceste provenivano dalla Mesopotamia e dall’Oriente, le conchiglie suggeriscono un probabile commercio con il mar Rosso e il Mediterraneo, e l’ossidiana proveniva infine dalla Cappadocia. L’uso dell’argilla e del gesso nelle costruzioni si rivelò fondamentale per lo sviluppo di Çatal Hüyük, e ha agevolato pure il lavoro degli archeologi. Pavimenti, pareti e pitture murali dovevano essere rinnovati
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CASE, ANIMALI, STIRPI
La cultura di Çatal Hüyük Le attività rituali (e quindi la religione) ruotavano attorno alla caccia, alla morte e agli animali, tre elementi basilari nella simbologia del luogo. Per esempio, i tori cacciati venivano poi riprodotti negli altari delle case. L’importanza della tradizione e della stirpe si deduce dalla scelta di seppellire gli avi sotto i pavimenti delle case.
DIVERSI STRUMENTI INTAGLIATI NELLA SELCE (A SINISTRA) E NELL’OSSIDIANA (I DUE A DESTRA), PROVENIENTI DA ÇATAL HÜYÜK. JASON QUINLAN / ÇATALHÖYÜK RESEARCH PROJECT
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ALAMY / ACI
L’edificio 80 1 è il prototipo di casa tipico dell’insediamento di Çatal Hüyük: ha due spazi, oltre a panche, bancali e forni. Le pareti bianche venivano intonacate a gesso e abbellite con decorazioni geometriche. Gli avi venivano sepolti nelle tombe sotto il pavimento: dovevano sentirsi orgogliosi del loro lascito. Nell’edificio 77 2 è stata rinvenuta una base con due piedistalli sormontati da corna di toro; di fronte a questi, sul muro, c’era il cranio di un uro, o bue selvatico, coperto di gesso, che rappresentava invece la testa dell’animale (sotto).
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JASON QUINLAN / ÇATALHÖYÜK RESEARCH PROJECT
Case storiche. Erano luoghi come l’edificio 77, con elementi simbolici quali corna di toro, e ricostruiti più volte sopra alcuni luoghi di sepoltura.
IL VALORE DELLA COMUNITÀ
Alloggi. Addossati gli uni agli altri, erano rettangolari. Non c’erano strade e la gente si spostava sui tetti.
Interno. La dimora principale includeva un focolare, un forno e bancali per riposare, sotto i quali erano sepolti i morti.
La relativa mancanza di gerarchia e di cerimoniali pubblici era sostituita dall’elaborato simbolismo della casa. La dimora era considerata come il luogo emblematico di un nucleo di persone che vivevano insieme per condividere valori di tipo egualitario e comunitario. RICOSTRUZIONE DEGLI ALLOGGI DI ÇATAL HÜYÜK. 6000 A.C. FERNANDO G. BAPTISTA / NGS
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3 2 LA PRESENZA DEGLI ANIMALI La maggioranza degli animali rappresentati a Çatal Hüyük erano selvatici. I graffiti li mostrano assieme agli umani, come accade nelle scene di caccia 1, o mentre interagiscono e si osservano, come fanno questi ghepardi 2. Sono state recuperate pure centinaia di statuette o amuleti a forma di toro, cervo, cinghiale... e pezzi come questo sigillo a forma di osso 3, trovato nel 2005. Gli animali selvatici, una volta cacciati, erano serviti nei banchetti e simboleggiavano il coraggio o forse la stirpe. 1. Y 2. ALAMY / ACI. 3. JASON QUINLAN / ÇATALHÖYÜK RESEARCH PROJECT
PER IL VIAGGIO NELL’ALDILÀ
Assieme ai resti umani di questa sepoltura infantile a Çatal Hüyük compaiono ninnoli in pietra e osso lasciati come offerte.
VINCENT J. MUSI / ALAMY / ACI
gevano da magazzini o luoghi per i lavori domestici. Le pareti, di fango, non avevano finestre e misuravano mezzo metro di spessore e circa 2,50 metri di altezza.
Una società egualitaria Si entrava in casa tramite una scala di legno, attraverso un’apertura nel tetto. Sotto il foro si trovavano il forno e il focolare, il cui fumo fuoriusciva proprio dall’apertura. Questa parte della sala principale, collocata a sud, era la zona “sporca” per via delle ceneri e delle varie attività quotidiane. Qui veniva intagliata l’ossidiana e qui si cucinava con sfere di argilla cotta infilate nei contenitori per riscaldare i liquidi. Era il luogo di sepoltura di bambini e neonati. Dei sedili separavano tale zona dalla parte “pulita”, disposta a nord, dove i pavimenti bianchi erano intonacati con maggiore frequenza e dove si concentravano le sepolture di giovani e adulti, come pure le espressioni artistiche.
COPPIA ABBRACCIATA
Intagliata nella pietra, fu scoperta a Çatal Hüyük. 6000 a.C. Museum of Anatolian Civilizations, Ankara.
Le pitture e i rilievi, normalmente in rosso o nero, presentavano motivi geometrici, mani, animali selvatici. Il rapporto con questi ultimi dovette essere un elemento fondante delle credenze religiose locali. Compaiono infatti rappresentazioni di leopardi, cinghiali, orsi ecc. Ma forse l’animale più importante era il toro selvatico: le sue corna venivano poste su panche o in altri punti della casa, e con l’argilla se ne modellava perfino la testa. Le ossa di animali selvatici, soprattutto dei maschi, erano in genere lasciate come offerte quando si costruiva o si abbandonava una casa. Gli abitanti di Çatal Hüyük cercavano così di superare la paura della natura selvaggia, o forse volevano chiamare a sé un potente spirito? Nell’insediamento non c’erano costruzioni assimilabili a templi o grandi edifici comunitari né zone deputate alla sepoltura; per questo gli archeologi ritengono che si trattasse di una società egualitaria. Ne consegue che la casa rivestiva un ruolo ancor più importante in quanto luogo dove N. BENN / GETTY IMAGES
52 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
I DEFUNTI, PASTO DEGLI AVVOLTOI
U DAVID TIPLING PHOTO LIBRARY / ALAMY / ACI
no dei graffiti più impressionanti di Çatal Hüyük riproduce figure umane senza testa divorate dagli avvoltoi. Si crede che possa rappresentare un rito funerario: i defunti venivano collocati in posizione fetale sui tetti delle case, lontano dagli altri carnivori: lì gli avvoltoi pulivano le ossa. Forse si credeva portassero la carne del defunto nell’aldilà. Sappiamo che gli avvoltoi impiegano poche ore per nutrirsi delle parti molli, lasciando così lo scheletro perlopiù articolato. Il processo avrebbe ridotto l’odore di decomposizione, e le ossa scarnificate, avvolte o legate, potevano essere sepolte sotto i pavimenti, per mantenere vicina l’anima del defunto. Il rito è documentato in Anatolia e in altre società arcaiche dell’Europa e dell’Asia.
si tramandavano le tradizioni e i ricordi, ovvero tutto ciò che sarebbe passato di generazione in generazione. Sono stati rinvenuti edifici con più sepolture e dall’architettura maggiormente sontuosa, nei quali le corna di toro risultano adagiate su piedistalli o altri elementi; quelle case erano usate più a lungo e a volte riprendevano le decorazioni e le sculture dell’edificio precedente demolito. Tuttavia, i loro abitanti non controllavano la produzione o lo stoccaggio né ricevevano sepolture più elaborate. Si crede dunque che il loro potere fosse simbolico piuttosto che economico, e che avessero la funzione di mantenere viva la memoria storica e culturale della comunità. Mellaart chiamò queste case “santuari”, e Hodder “case storiche”. Perché crebbe tanto Çatal Hüyük? Forse le case storiche furono un elemento di aggregazione e attorno a esse vennero costruiti altri edifici, come suggeriscono scavi recenti. Sono molte pure le incognite sull’abbandono di tale insediamento, anche se sembra che il sistema sociale mutò man mano
per i cambiamenti delle attività umane e del clima. Nel periodo finale, gli archeologi hanno rilevato un consumo più intenso di piante e animali addomesticati, nonché una diminuzione della dipendenza dagli animali selvatici. Le case smisero di essere il centro delle relazioni rituali e sociali e divennero centri di produzione e consumo. Ebbe inoltre inizio un periodo di siccità e le zone umide si prosciugarono, condizionando la vita della popolazione. A ogni modo, fino a oggi è stato studiato solo il 5 per cento della superficie di Çatal Hüyük: migliaia di edifici sono ancora nascosti sottoterra, in attesa di dare risposta a questi misteri.
UNA SCENA ENIGMATICA
Sulle pareti di alcune case di Çatal Hüyük vennero dipinte scene con animali e uomini simili a questa qui sopra, in cui compare un avvoltoio vicino a corpi umani senza testa.
CRISTINA BELMONTE ARCHEOLOGA E MEMBRO DEL ÇATALHÖYÜK RESEARCH PROJECT
Per saperne di più
SAGGI
Le radici del Mediterraneo e dell’Europa Jean Guilaine. Jaca Book, Milano, 2010. INTERNET
http://www.catalhoyuk.com/ Sito della missione archeologica a Çatal Hüyük
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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NEL 2016 FU SCOPERTA LA STATUINA DELLA PAGINA SEGUENTE. È IN CALCARE, DI POCO PIÙ DI 1000 G DI PESO E CIRCA 17 CM DI ALTEZZA. CORRISPONDE ALLA TIPOLOGIA CARATTERIZZATA DALLE COSIDDETTE “TRE B”: BELLY (FIANCHI), BUTTOCKS (NATICHE) E BREASTS (SENO).
FIGURA FEMMINILE SCOPERTA DA JAMES MELLAART IN UN RECIPIENTE PER CONSERVARE IL GRANO. MISURA 20 CM. MUSEUM OF ANATOLIAN CIVILIZATIONS, ANKARA.
James Mellaart interpretò le statuine femminili scoperte a Çatal Hüyük come rappresentazioni di una dea madre, emblema di una società matriarcale. Tuttavia, Ian Hodder ha rinvenuto più di duemila manufatti, molti dalla forma animale o maschile, nei depositi di terra degli scavi compiuti in precedenza da Mellaart, che aveva scartato tali pezzi. Solamente un cinque per cento è costituito da figure femminili.
ERANO DEE MADRI?
SOPRA: VINCENT J. MUSI / ALAMY / ACI. SOTTO: JASON QUINLAN / ÇATALHÖYÜK RESEARCH PROJECT
A partire dai risultati degli ultimi scavi, Ian Hodder ha dichiarato che non ci sono dati sufficienti per stabilire se la società di Çatal Hüyük fosse matriarcale o patriarcale; i ritrovamenti suggeriscono che si trattasse piuttosto di una società egualitaria. Le statuette dovevano svolgere la funzione di amuleti; a ogni modo, quelle femminili erano probabilmente il simbolo della fertilità. Uno dei pezzi più famosi è proprio quello qui sopra: la scultura in argilla di una donna matura e voluttuosa tra due leopardi; appoggia le mani sulla testa degli animali, le cui code si attorcigliano sulle sue spalle. Potrebbe trattarsi di una statuina oggetto di culto domestico. Nell’originale mancavano la testa della donna, la mano destra e una delle teste del leopardo, elementi ricostruiti in seguito.
NÉ MATRIARC ATO NÉ PATRIARC ATO...
IL LEADER DEL MONDO GRECO
Busto di Filippo II di Macedonia. Copia romana in marmo di un originale greco. I secolo d.C. Musei vaticani, Roma. Nella pagina accanto, corona d’oro con foglie di quercia e ghiande proveniente da Verghina, l’antica Ege, prima capitale della Macedonia. Fu rinvenuta nella tomba II, attribuita a Filippo. SINISTRA: DEA / SCALA, FIRENZE. DESTRA: GETTY IMAGES
56 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
FILIPPO II IL REGICIDIO DI EGE
Nel 336 a.C. Filippo II aveva ormai trasformato la Macedonia nella potenza egemone della Grecia. Al culmine del suo potere si stava preparando a intraprendere la conquista dell’impero persiano, quando una delle sue guardie del corpo lo uccise durante le nozze della figlia
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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FRONTE COMUNE CONTRO I PERSIANI
Filippo riunì le città-stato greche nella Lega di Corinto, con cui pianificò una campagna contro l’impero persiano. Nella foto, vista di Corinto dall’acropoli.
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ma fu inaspettatamente ucciso ancor prima di assumere il comando della spedizione, il cui avamposto si trovava già nell’Ellesponto, lo stretto che separa l’Europa dall’Asia. L’assassinio fu perpetrato in pieno giorno a Ege, l’antica capitale della Macedonia, mentre Filippo partecipava alla processione nuziale in onore della figlia Cleopatra. L’autore del crimine fu un certo Pausania di Orestide, membro della guardia personale del re. Se l’identità dell’omicida è nota, le sue motivazioni non sono mai state del tutto chiarite, e non sappiamo se agì da solo o per conto di qualche fazione antagonista. Quale fu la vera causa di un gesto così imprevedibile?
Una nuova potenza
VIOLIN / DEPOSITPHOTOS
Per fare luce sugli eventi che portarono alla morte del re è necessario tornare al 359 a.C., quando Filippo assunse il potere in Macedonia e si trovò davanti un regno diviso, praticamente sull’orlo del disfacimento, sotto la pressione delle vicine tribù dell’Illiria e della Tracia. Nei successivi vent’anni il sovrano riuscì a compiere un autentico miracolo unificando la Macedonia, rafforzandone le frontiere nei Balcani e ampliando
anche i suoi domini verso sud, fino ai confini del territorio della bellicosa Sparta, nel sud-est del Peloponneso. Nel 338 a.C. l’egemonia macedone sulle città-stato greche guidate da Atene era assoluta. In veste di nuovo paladino dell’unità di tutti i greci, l’anno dopo Filippo fondò la Lega di Corinto, che coinvolse nel progetto di una campagna congiunta contro il vicino impero persiano. Il sovrano aveva edificato il suo potere su due solidi pilastri: la guerra e, soprattutto, la diplomazia. I suoi diversi matrimoni con principesse di regni rivali gli avevano permesso di accrescere le sue ricchezze e i territori sotto il suo controllo, di creare nuove alleanze e avere molti figli. La poligamia era pienamente accettata in Macedonia, ma poteva diventare causa di violente dispute tra le diverse fazioni familiari, in particolare quando entravano in gioco questioni di successione. Ed è proprio quello che capitò a Filippo. L’unica moglie ad avergli dato più di un figlio – tra cui il candidato alla successione Alessandro – era Olimpiade, una principessa dell’Epiro con cui era stato sposato per due decenni. Ma ormai a quarant’anni
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359 a.C.
338 a.C.
337 a.C.
336 a.C.
PROBLEMI DI FAMIGLIA
Filippo II sale al trono di Macedonia e inizia l’espansione del regno.
Il re sposa Cleopatra Euridice, causando una rottura nella famiglia reale.
Riunite le cittàstato greche, Filippo prepara l’invasione dell’impero persiano.
Il re macedone viene ucciso durante le nozze della figlia.
CORAZZA IN FERRO E ORO RINVENUTA NELLA TOMBA II DI VERGHINA. DEA / GETTY IMAGES
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urante gli oltre vent’anni in cui governò la Macedonia, Filippo II riuscì a trasformare un modesto regno della Grecia settentrionale in una grande potenza rispettata da tutti. Nel 336 a.C., all’apice della sua carriera politica, il sovrano stava per lanciare un attacco su vasta scala contro l’impero achemenide, SIMBOLO DELLA FAMIGLIA REALE
Un disco d’oro con il cosiddetto “Sole di Verghina”, simbolo della dinastia macedone, trovato all’interno della tomba II attribuita a Filippo, sepolto nella necropoli della città di Ege.
OFFERTE PER LA VITTORIA
I resti del Filippeo, un edificio circolare fatto erigere da Filippo nel santuario di Olimpia per celebrare la vittoria nella battaglia di Cheronea. Ospitava le statue del sovrano e dei suoi familiari.
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Per contrastare la possibile influenza della regina dal suo esilio in Epiro, nell’estate del 336 a.C. Filippo decise di dare in sposa la loro figlia, Cleopatra, allo stesso Alessandro il Molosso, sovrano d’Epiro e zio della sposa. Fu deciso che le nozze si sarebbero celebrate a Ege, l’antica capitale della Macedonia, alla presenza del re e del candidato alla successione, Alessandro. Filippo organizzò per l’occasione sontuosi festeggiamenti che prevedevano banchetti, competizioni sportive e premi per gli artisti di varie discipline. Per diverse settimane inoltre si susseguirono spettacoli dei più famosi attori ateniesi, che avevano sempre goduto del favore del sovrano. Filippo aveva invitato alle nozze ospiti da ogni parte della Grecia e della Macedonia. Era determinato a fare in
Aminta III
2
Euridice
Filippo II2
Fila
Audata Cinane
Filinna
Olimpiade 1
Adea Euridice
Nicesipoli
Meda
Cleopatra Euridice Europa
Tessalonica
Aminta IV Filippo III Arrideo
Alessandro III 3
(Alessandro Magno)
Cleopatra
Barsine
Rossane
Eracle
Alessandro IV
3
TUTTE LE MOGLI DEL RE LA PRIMA MOGLIE DI FILIPPO fu l’illira Audata, da cui nacque Cinane. Pure Nicesipoli partorì una femmina, Tessalonica, mentre Filinna ebbe un maschio di nome Filippo III Arrideo, forse affetto da turbe mentali. Il re sposò anche Fila e Meda, ma la consorte più importante fu l’epirota Olimpiade, madre di Alessandro e Cleopatra. L’ordine dei matrimoni è incerto, ma di sicuro l’ultima moglie di Filippo fu Cleopatra Euridice.
modo che coloro che in passato lo avevano criticato per i suoi modi barbari e le sue origini straniere fossero costretti a rendergli pubblicamente omaggio. Mentre a Ege fervevano i preparativi del matrimonio, dall’avamposto inviato in Asia Minore sotto la guida di Attalo e Parmenione giungevano buone notizie. Non solo le truppe erano state ben accolte dai sudditi greci dell’impero achemenide, ma le forze democratiche delle città greche lungo la costa ionica, da Abido a Efeso, si erano rivoltate contro le repressive oligarchie sostenute dai persiani per accogliere i soldati macedoni come dei
UNA STIRPE DEGNA DEGLI DÈI
Ricostruzione del Filippeo di Olimpia con le statue di Filippo e dei suoi genitori, di Olimpiade e di Alessandro.
ILLUSTRAZIONE 3D: RAIDEN STUDIO
PAUL PANAYIOTOU / FOTOTECA 9X12
L’ultimo matrimonio
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FOTO: DEA / GETTY IMAGES
passati e con il corpo coperto di cicatrici di guerra, Filippo decise di prendere in moglie Cleopatra Euridice, una bella e giovanissima nobildonna macedone. Olimpiade vide messa a repentaglio la sua posizione e quella del figlio come erede al trono, e ciò provocò una frattura all’interno della famiglia reale. La situazione precipitò durante il banchetto nuziale: lo zio della sposa, Attalo, si augurò in un brindisi che potesse finalmente nascere un legittimo erede al trono di Macedonia, un’esplicita allusione al fatto che Olimpiade era epirota. Alessandro s’infuriò e gli tirò addosso una coppa, urlando: «E allora io cosa sarei, un bastardo?». Filippo cercò d’intervenire in difesa di Attalo, sguainò la spada e si lanciò contro il figlio; ma era così ubriaco che inciampò e cadde al suolo. Secondo quanto riportato da Plutarco, Alessandro gli disse ironicamente: «Colui che si prepara a passare dall’Europa all’Asia, è finito per terra passando da un letto all’altro». Concluse le nozze, Alessandro si recò con la madre nel vicino Epiro, dove regnava Alessandro il Molosso, fratello di Olimpiade, e dopo pochi giorni raggiunse l’Illiria. Sei mesi più tardi sarebbe rientrato alla corte paterna, mentre Olimpiade non vi mise più piede finché Filippo rimase in vita.
IL PALAZZO DI EGE
Ege fu la capitale macedone prima di Pella. La città, nella cui necropoli reale si trovava la presunta tomba di Filippo II, sorgeva nei pressi dell’attuale Verghina. 62 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
RILIEVO DELLA SCALINATA DELL’APADANA A PERSEPOLI. L’IMPERO PERSIANO FU IL NEMICO STORICO DEL MONDO GRECO.
PREMONIZIONE DELFICA QUANDO FILIPPO chiese all’oracolo di Delfi se avrebbe sconfitto il re
persiano, gli fu vaticinato: «Il toro è incoronato e pronto per il sacrificio, e l’officiante è preparato». L’interpretazione sembrava chiara: l’«officiante» Filippo avrebbe vinto il «toro» (l’impero persiano). Invece alla fine fu proprio il re Filippo a cadere come un toro sacrificale sotto i colpi dell’officiante Pausania.
LE ARMI DEL GUERRIERO
Scudo rinvenuto nella tomba II di Verghina, presunto luogo di sepoltura di Filippo II. Museo archeologico di Salonicco.
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dati lo circondarono e lo uccisero a colpi di lancia. Svanì così la possibilità di arrestarlo e fargli confessare le ragioni del delitto e gli eventuali complici e mandanti. Il filosofo Aristotele, che visse alla corte macedone come tutore di Alessandro, scrisse nella Politica: «La congiura contro Filippo fu ordita da Pausania, che non perdonò al sovrano di non averlo difeso dagli oltraggi di Attalo e dei suoi amici». Fonti successive forniscono una minuziosa ricostruzione di questa intricata vicenda. Pausania di Orestide era stato amante di Filippo, che in seguito gli aveva preferito un
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Filippo trasformò la cerimonia nuziale in un evento propagandistico di prim’ordine. I rappresentanti dei regni conquistati e gli ambasciatori delle città greche furono convocati all’alba nel teatro di Ege, sulla cui scena era stato allestito un trono sontuosamente decorato. Quando gli invitati ebbero preso posto sulle tribune, iniziò una fastosa processione: tra musica e acclamazioni, sfilarono sul palco le statue delle dodici divinità dell’Olimpo seguite dal sovrano accompagnato dal figlio Alessandro e dallo sposo, e infine dai cortigiani più intimi e dalla guardia del corpo reale. A quel punto la musica cessò, la guardia si fece da parte e cedette il passo a Filippo, che avanzò verso il proscenio da solo, con l’intenzione di rivolgere un breve discorso al pubblico prima di sedersi sul trono per presiedere la cerimonia. Fu allora che un membro della guardia reale, Pausania, si scagliò sul sovrano ignaro e disarmato. Prima che Filippo potesse proferire parola, Pausania lo afferrò per la tunica e gli affondò nel petto la sua corta daga celtica. Quindi l’assassino si diede alla fuga, mentre il resto della scorta si precipitava verso il corpo inerte del re macedone. Ma ormai non c’era più nulla da fare: il re era morto e il teatro di Ege era diventato la scena di un regicidio. Gli uomini della guardia reale si lanciarono immediatamente all’inseguimento di Pausania, che nel frattempo era scappato in sella a un cavallo che lo aspettava all’ingresso della città di Ege. Ma il fuggitivo s’impigliò con un sandalo in una vite e cadde rovinosamente al suolo. Prima che potesse rialzarsi, i sol-
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GORDON GAHAN / GETTY IMAGES
L’assassinio del re
JOSÉ FUSTE RAGA / AGE FOTOSTOCK
liberatori. Gli invitati alle nozze sembravano destinati ad assistere a una riconciliazione familiare tra Filippo e il cognato Alessandro il Molosso, volta a neutralizzare Olimpiade e a impedirle di manovrare il re dell’Epiro per vendicarsi di Filippo. Sarebbe stata anche l’occasione per salutare la partenza del sovrano macedone, che al termine dei festeggiamenti avrebbe raggiunto l’Asia con i suoi eserciti, alla ricerca di memorabili trionfi.
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LA MORTE DI FILIPPO SECONDO DIODORO SICULO, il crimine ebbe luogo il giorno dopo le nozze della figlia del re macedone Cleopatra con il sovrano dell’Epiro Alessandro. Il tutto avvenne davanti agli occhi della folla che aveva iniziato a radunarsi sulle gradinate del teatro di Ege durante la notte, in attesa degli spettacoli del giorno seguente. Di prima mattina, una processione con le statue delle dodici divinità olimpiche fece il suo ingresso nel teatro, seguita da una scultura di Filippo, a indicare che anch’egli era un dio. Poi entrò lo stesso sovrano macedone, indossando una tunica bianca. Avanzò da solo per dimostrare che si sentiva protetto dall’affetto dei greci. Vedendo il re indifeso, Pausania si scagliò contro di lui e gli trafisse il petto con una daga celtica, uccidendolo e dandosi alla fuga.
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Il giovane Alessandro, figlio e successore di Filippo, corre verso il padre caduto a terra dopo essere stato pugnalato da Pausania.
ILLUSTRAZIONE: ALMUDENA CUESTA
Pausania, membro della guardia reale ed ex amante di Filippo, fugge dal luogo del delitto dopo aver colpito a morte il re macedone.
DAL PALAZZO AL TEATRO
Dalla porta dell’enorme palazzo reale di Ege (che occupava un’area tre volte più grande di quella del Partenone) all’ingresso del vicino teatro, Filippo percorse probabilmente 250 metri.
DISEGNO PIANTA: ELISA ANCORI
PALAZZO REALE (Pianta)
Percorso di Filippo e del suo seguito tra il palazzo e il teatro.
TEATRO
Area in cui Filippo fu assassinato. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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DUBBIA ATTRIBUZIONE
La tomba II di Verghina è attribuita a Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno. Recenti studi tuttavia sostengono che in questa tomba abbiano riposato i resti di Filippo III Arrideo, mentre suo padre Filippo II sarebbe stato sepolto nella tomba I.
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H. MILAS / ALAMY / ACI
amico di Attalo, anch’egli di nome Pausania. La guardia del corpo aveva allora messo in giro la voce che il suo rivale in amore fosse ermafrodita e questi, per salvaguardare il proprio onore, si era tolto la vita facendo da scudo a Filippo con il suo corpo in una battaglia contro gli illiri. A quel punto Attalo decise di vendicare la morte dell’amico: invitò a cena Pausania di Orestide, lo fece ubriacare fino a fargli perdere ogni residuo di volontà e quindi lo fece violentare selvaggiamente dai suoi stallieri per tutta la notte. In preda all’umiliazione, Pausania si recò da Filippo esigendo giustizia. Ma il re preferì evitare scontri con Attalo, che era zio della sua ultima moglie, così decise di risarcire il suo ex amante con una serie di doni e di elevarlo a membro della sua guardia personale. Attalo fu invece mandato in Asia a dirigere i preparativi per l’invasione dell’impero persiano. Vedendosi impossibilitato a vendicare il suo onore, Pausania decise di rivoltarsi contro il sovrano, colpevole di non averlo difeso.
GLI AMANTI DI FILIPPO DA GIOVANE FILIPPO aveva vissuto a Tebe, dove esisteva il celebre
Battaglione sacro, formato da coppie di soldati che erano uniti da vincoli sentimentali e si proteggevano a vicenda. L’amante che scalzò Pausania dal cuore di Filippo difese il suo re fino all’estremo: fece scudo con il suo corpo al sovrano durante un combattimento contro il re dell’Illiria e morì in seguito alle ferite riportate.
WALTER BIBIKOW / AWL IMAGES
Un delitto irrisolto Fin dall’antichità, l’assassinio di Ege fece versare fiumi d’inchiostro, diventando oggetto di una vera e propria indagine investigativa. Oltre al movente passionale, c’è chi sosteneva la responsabilità di Olimpiade, con il coinvolgimento o meno del figlio. Fu lei a cospirare dall’esilio contro il marito, utilizzando i suoi contatti in Macedonia per proteggere le aspirazioni successorie di Alessandro? Quest’ipotesi è suggerita da alcuni autori antichi – per la verità di epoca successiva ai fatti e non sempre credibili –, secondo i quali Olimpiade non solo ordì la congiura, ma rese anche omaggio al corpo del regicida e consacrò ad Apollo la daga con cui era stato commesso il crimine. In realtà è poco probabile che la regina si fosse assunta pubblicamente la responsabilità di un delitto di tale gravità. La cosa certa è che l’omicidio ebbe conseguenze importantissime: a soli 22 anni, Alessandro salì al trono macedone e si sbarazzò di tutti i suoi avversari politici interni (compresi Attalo e Cleopatra Euridice).
Quindi, grazie alle sue memorabili conquiste, incise così profondamente sull’assetto del mondo da guadagnarsi il titolo di “Magno” e superare di gran lunga la fama del padre. Insomma, il regicidio di Ege cambiò il corso della storia in un momento decisivo per le sorti della Macedonia, della Grecia e del Vicino Oriente. Ma le sue vere ragioni costituiscono ancora oggi uno dei grandi misteri irrisolti dell’antichità.
IL LEONE DI CHERONEA
Questo monumento funerario fu eretto in onore dei membri del Battaglione sacro tebano, morti nel 338 a.C. combattendo contro Filippo.
JUAN PABLO SÁNCHEZ DOTTORE IN FILOLOGIA CLASSICA
Per saperne di più
TESTI
Biblioteca storica. Libri XVI-XX Diodoro Siculo. Sellerio, Palermo, 1993. SAGGI
Filippo il Macedone Giuseppe Squillace. Laterza, Roma-Bari, 2009. ROMANZI
Il macedone Nicholas Guild. BUR, Milano, 1995.
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UN MAGO DELLA FINANZA
Marco Licinio Crasso divenne l’uomo più ricco di Roma grazie alle sue grandi abilità in campo economico. Nell’immagine, particolare del busto di Crasso. Musée du Louvre, Parigi. Le monete romane furono trovate nella foresta di Teutoburgo. Museum und Park Kalkriese. BUSTO: H. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS. SFONDO: SCHÖFMANN / AGE FOTOSTOCK
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MARCO LICINIO CR ASSO L’UOMO PIÙ RICCO DI ROMA
Di umili origini, Marco Licinio Crasso accumulò immense ricchezze, soprattutto grazie alle sue fiorenti attività immobiliari. Ansioso di emulare Pompeo, intraprese una guerra contro i parti che finì per costargli la vita
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CONTRO LE RICCHEZZE ECCESSIVE
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OPO LA MORTE del dittatore
Silla nel 79 a.C., alcuni membri dell’élite romana promossero un ritorno all’essenza dell’antica repubblica. Per loro il rifiuto della dittatura si univa alla denuncia dell’eccessiva ricchezza di chi aveva beneficiato del precedente regime, in contrasto con le ristrettezze in cui versava, per contro, la maggior parte della popolazione. Per questo biasimavano le feste e i banchetti dell’oratore Ortensio e condannavano pubblicamente il lusso sfoggiato da Lucullo, generale sostenitore di Silla, i cui giardini di ciliegi importati dall’Asia suscitavano un enorme scalpore. Crasso, anch’egli beneficiario del regime sillano, fu invece più accorto: non rinunciò ad accumulare ingenti ricchezze, ma visse modestamente, cercando di non creare scandali tra i benpensanti repubblicani.
FOTO: ARTOKOLORO / QUINTLOX / AURIMAGES. COLOR: J. L. RODRÍGUEZ
MILIONARI INFAMI
Crasso passò alla storia per la sua avarizia e meschinità, come si apprezza in quest’incisione del 1563 che lo ritrae accanto a personaggi ricchi e impopolari quali Lucullo e il dittatore Silla.
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soldi non fanno la felicità». A nessun personaggio storico questo celebre motto sembra calzare meglio che a Marco Licinio Crasso, l’uomo che si è consegnato alla memoria dei posteri non solo per la sua smodata ricchezza ma anche per aver regalato all’Urbe una delle sconfitte più cocenti della sua storia. Stupisce, in un certo senso, che Shakespeare non abbia scritto una tragedia su di lui: nessuno avrebbe impersonato meglio di Crasso l’epica dell’uomo insaziabile e punito per la sua smodata ambizione che ricorre spesso nelle opere del drammaturgo elisa-
82 a.C. C R O N O LO G I A
A CACCIA DI FAMA E GLORIA 70 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Il primo novembre Silla rischia la rotta nella battaglia di porta Collina ma Crasso prevale sull’ala sinistra dei mariani e la insegue, rendendo completa e definitiva la vittoria del suo comandante supremo.
bettiano. La sua penna avrebbe reso perfettamente l’epilogo della parabola di Crasso che, tra la polvere sollevata dai cavalieri parti nel deserto mesopotamico, vede la testa mozzata del figlio infilzata su una picca e sente i nemici chiedersi chi siano i genitori, «perché non era possibile che un figlio così generoso e splendidamente valoroso fosse nato da un padre tanto vile e inetto come Crasso». Più bravo negli affari che nella guerra, Marco Licinio Crasso aveva sessant’anni quando andò incontro al suo destino a Carre. Per quasi tutta la sua
71 - 73 a.C. La ribellione partita da Capua infligge a Roma diverse sconfitte. Dietro ordine del Senato, Crasso guida una campagna contro Spartaco e dopo una cruenta battaglia contro i ribelli ne fa una strage.
SCO ROMPE LE SUE CATENE. DENIS FOYATIER. 1847. PALAIS DES BEAUX-ARTS, LILLE OJÉDA / RMN-GRAND PALAIS
BORIS STROUJKO / SHUTTERSTOCK
esistenza era stato al centro della vita politica, economica e militare di Roma, rivestendo un ruolo di primo piano durante le guerre civili tra Mario e Silla, nella rivolta schiavile di Spartaco e nel triumvirato.
Un uomo morigerato Secondo il biografo Plutarco la posizione della famiglia di Crasso, che viveva in una casa modesta e dove tutti mangiavano alla stessa mensa, sarebbe stata la causa del suo tenore di vita sobrio e misurato, all’opposto, per esempio, di quello smodato del suo quasi contemporaneo Lucullo. Pare che sia sta-
70 a.C. L’inimicizia tra Crasso e Pompeo li porta a osteggiarsi a vicenda durante gran parte del loro consolato congiunto rendendolo poco significativo, al di là di alcune riforme antisenatorie.
to morigerato anche in fatto di donne e, al contrario di Cesare, ne ebbe ufficialmente una sola, la vedova di suo fratello maggiore, che sposò e che fu la madre dei suoi figli. Eppure neanche lui fu esente da maldicenze, vedendosi attribuire perfino la relazione con una vestale, Licinia. Il fatto più che un crimine costituiva un sacrilegio a Roma. Al processo però venne fuori la verità: Crasso aveva dato il tormento alla donna non per farle la corte, ma per acquistare una delle sue proprietà nei sobborghi della capitale. Quindi fu prosciolto dall’accusa di seduzione grazie alla sua avidità che, dicevano i roma-
56 a.C. A Lucca, Cesare, Pompeo e Crasso costituiscono il primo triumvirato, un accordo privato per formare un “governo ombra”. Successivamente Crasso rivestirà la carica di proconsole di Siria.
53 a.C. Il generale Surena e Crasso si scontrano nella battaglia di Carre. La cavalleria nemica sgomina i romani provocando la morte del comandante.
MONETA CON L’EFFIGIE DEL RE PARTO ORODE II, VINCITORE SU CRASSO.
MONEY MUSEUM ZURICH
IL FORO DI ROMA
Le vittorie militari di Cesare, Pompeo e Crasso contribuirono notevolmente alla crescita dell’erario pubblico. In primo piano nella foto il tempio di Saturno, sede del tesoro di stato.
A SPASSO NELLA SPAGNA ROMANA
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A VITA DI CRASSO ebbe anche dei tratti avventurosi. Quan-
do Mario e Cinna s’impadronirono di Roma giustiziando suo padre e suo fratello, Crasso, allora ventottenne, fuggì con tre amici e dieci schiavi in Spagna, dove aveva diversi contatti grazie al proconsolato rivestito in precedenza dal padre. In realtà venne accolto con diffidenza, finendo per nascondersi in una caverna in riva al mare, in un territorio di proprietà di un certo Vibio Paciano, un vecchio amico del padre. Vibio si dimostrò felice di poterlo aiutare ma non ebbe mai contatti diretti con lui. Mandava ogni giorno uno schiavo con vettovaglie e arrivò finanche a inviare, per compiacere Crasso, due schiave giovani e carine. La loro irruzione nella grotta, però, spaventò gli occupanti, i quali temettero che la voce della loro presenza si fosse diffusa. Quando l’equivoco fu chiarito, Crasso fu ben contento del regalo dell’ospite e tenne le ragazze con sé. Il fuggiasco rimase nascosto per otto mesi, fino a quando ebbe notizia della morte di Cinna. Allora radunò 2.500 armati e si diede a saccheggiare Malaga, prima di raggiungere Silla in Italia e di mettersi ai suoi ordini.
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WHA / AURIMAGES
DEA / ALBUM
CAVALIERE DELLA PRIMA LAGAIO «SEÑORA LOS LEGIONE DI MARIO.DESTELE LIBROS».SESHAT, FUNERARIA. MUSEO DELLA COMPAÑERA THOT, CIVILTÀ ROMANA,DEROMA. INSCRIBE EN UNA RAMA DE PALMERA LAS MUESCAS QUE INDICABAN LOS AÑOS
ni, fu l’unico difetto a oscurare le sue molte virtù. È proprio il biografo però a precisare che in realtà Crasso aveva molti difetti, ma che la sete di ricchezze era talmente forte in lui da far impallidire tutti gli altri. Non a caso, i 300 talenti con cui esordì nella vita politica diventarono, secondo l’inventario del suo patrimonio redatto alla vigilia della sua ultima impresa, ben 7.100.
Un abile uomo d’affari Si trattava tuttavia di beni in gran parte accumulati «col fuoco e con la guerra», sfruttando a proprio vantaggio le sventure pubbliche, conclude Plutarco. Erano tempi in cui le fortune dei romani cambiavano radicalmente dall’oggi al domani in base a quelle del partito con cui si era schierati. Siamo nell’epoca delle guerre civili, inaugurate negli anni ottanta del I secolo a.C. da Mario e Silla e concluse soltanto mezzo secolo dopo con la vittoria di Ottaviano, il futuro Augusto, su Marco Antonio. Crasso, che aveva perso il padre e il fratello nelle stragi perpe-
SCHIAVI MURATORI
Crasso riteneva che fosse più vantaggioso dal punto di vista economico ristrutturare e vendere a buon prezzo vecchi edifici piuttosto che costruirne di nuovi. Nell’immagine, alcuni schiavi erigono un muro. Particolare di un affresco romano.
IL PADRONE DI ROMA Crasso comprò a prezzi stracciati intere insulae (i condomini dell’antica Roma) danneggiate dai frequenti incendi che affliggevano la capitale. Sotto, modello di un’insula di Ostia. A. JEMOLO / ALBUM
suoi sodali di acquistarli a prezzi stracciati. Ma Crasso non era solo un opportunista: aveva davvero il fiuto per gli affari e ci mise anche del suo per incrementare il proprio patrimonio. Gli incendi che distruggevano periodicamente interi settori di Roma erano una vera e propria piaga. Quando un’insula prendeva fuoco, anche i proprietari dei palazzi adiacenti svendevano per paura di un crollo, e Crasso rilevava ciò che restava degli immobili. Plutarco dice che in questo modo s’impossessò della gran parte di Roma. Contestualmente si dotò di oltre cinquecento schiavi tra architetti e muratori, cui fece ricostruire gli edifici, rivendendoli a prezzi maggiorati senza aver stipendiato alcuna manodopera. Ma i costruttori erano solo una parte del suo esercito di schiavi, che molti riteneLOREMU IVIS
trate da Gaio Mario, come seguace di Silla si sarebbe rifatto con gli interessi dopo la vittoria finale del suo capo. Fu infatti uno dei più stretti collaboratori del futuro dittatore, arrivando a comandare l’ala destra del suo schieramento durante lo scontro finale davanti alle mura di Roma nella battaglia di porta Collina dell’82 a.C. Probabilmente fu anche il principale artefice della vittoria sillana, guidando lo sfondamento di una parte dell’esercito nemico, che inseguì fino alla confluenza del Tevere con l’Aniene, tornando solo a notte fonda a riferire della vittoria. La gratitudine di Silla gli permise di essere in prima fila durante le proscrizioni, quando il dominatore incontrastato dell’Urbe confiscò i beni dei mariani e permise ai
SPIETATO CON I SUOI SOLDATI
LOREMU IVIS
PUNIZIONE MILITARE ROMANA IN UN’INCISIONE DI JOHN BEAVER. 1725. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK.
L’
ESORDIO DI CRASSO contro gli
schiavi di Spartaco fu tutt’altro che brillante. Il suo legato Mummio, che aveva l’ordine di controllare il nemico senza impegnarsi in battaglia, si lasciò attirare in uno scontro e fu sconfitto. Una parte dell’esercito si salvò solo gettando le armi e dandosi alla fuga. Crasso inflisse una dura reprimenda al subalterno, armò di nuovo i soldati nominando dei garanti per le armi e infine resuscitò un feroce istituto caduto in disuso da molto tempo: la decimatio. I cinquecento soldati che si erano dati alla fuga furono divisi in cinquanta decurie, estraendo a sorte un legionario ciascuna perché fosse bastonato a morte dai commilitoni. Anni dopo lo avrebbe fatto anche Cesare con i suoi legionari ribelli nella pianura padana; ma il lettore non s’illuda di trovare traccia del cruento episodio nei suoi scritti.
LA «SEÑORA DE LOS LIBROS».SESHAT, COMPAÑERA DE THOT, INSCRIBE EN UNA RAMA DE PALMERA LAS MUESCAS QUE INDICABAN LOS AÑOS
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SOLDI IN CAMBIO DI CONTATTI Il rapporto tra Crasso e Cesare fu vantaggioso per entrambi. Il denaro di Crasso saldò i debiti di Cesare, mentre i contatti di Cesare sostennero la carriera politica di Crasso. Sotto, aureo con l’effigie di Cesare. ROGER VIOLLET / AURIMAGES
poteva rivelarsi un buon investimento per il futuro: il debitore poteva rivestire un incarico importante, come l’amministrazione di una provincia, e tornare a casa ricco sfondato e con grande influenza politica. È proprio ciò che accadde con Giulio Cesare: indebitatosi fino al collo per guadagnare consenso, il futuro dittatore si tenne a galla grazie ai prestiti di Crasso; poi partì per amministrare la Spagna, scatenò guerre contro i lusitani per procurarsi bottino e al suo ritorno non ebbe più alcun problema economico.
Crasso in battaglia Crasso ci sapeva fare con la gente. Era un abile oratore e non esitava a prendere la parola in senato, era affabile e disponibile con tutti, anche con la gente più umile che lo fermava per strada e che, grazie ai suoi schiavi nomenclatori, poteva perfino salutare chiamandola per nome. Era un fine adulatore e a sua volta sensibile all’adulazione, nonché abile a barcamenarsi tra i vari partiti LOREMU IVIS
vano più preziosi delle sue miniere d’argento e delle sue proprietà terriere. Gli schiavi di alto profilo erano specializzati in ogni settore: scrivani, argentieri, amministratori e addetti alla mensa. Li istruiva lui stesso, convinto che «tutto dovesse essere diretto dagli schiavi, ma che gli schiavi dovessero essere diretti solo da lui». A dispetto della sua sete di ricchezze però Crasso non era avaro, né lo strozzino che alcuni ritengono. La sua casa era aperta a tutti: offriva banchetti, distribuiva grano all’intera cittadinanza e non rifiutava mai di prestare denaro a chi glielo chiedeva, per giunta senza interessi. Ma alla scadenza del termine lo richiedeva puntualmente indietro, senza concedere proroghe. Si dimostrava particolarmente generoso con i politici, conscio del fatto che rendere un uomo suo debitore equivaleva a renderlo dipendente da lui, o almeno grato nei suoi confronti. Un favore fatto a un personaggio di spicco in difficoltà economiche
FRANCESCO IACOBELLI / AWL IMAGES
schiavi – nell’aprile del 71 a.C. confinò il trace nella punta dello stivale obbligandolo allo scontro campale. Crasso si guadagnò una netta vittoria e fece crocifiggere senza pietà seimila prigionieri lungo la Via Appia. Il corpo di Spartaco invece non fu mai trovato. Ma al suo ritorno doveva attenderlo un’amara delusione. Almeno cinquemila schiavi gli erano sfuggiti dalle mani e, nella loro fuga verso la Gallia, finirono in quelle di Pompeo che stava giusto tornando dalla Spagna. Il giovane condottiero li sconfisse appropriandosi così della vittoria definitiva, fregiandosi di un trionfo assai poco meritato. A Crasso spettò solo l’ovatio, un
ACQUEDOTTI ROMANI
Geloso delle sue proprietà, Crasso rifiutò di far transitare per le sue terre un tratto di acquedotto. Sopra, gli archi dell’Aqua Claudia.
Pompeo sconfisse i superstiti dell’esercito di Spartaco e si prese il merito della vittoria BUSTO DI POMPEO. 70 A.C. CIRCA. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI. LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO
LOREM IPSUM
cambiando posizione a seconda della convenienza. Ma c’era un uomo che proprio non riusciva a sopportare: Gneo Pompeo Magno. Silla permise a Pompeo di celebrare la sua vittoria in Africa contro i mariani nonostante fosse tanto giovane da non fare ancora parte del senato. Roso dall’invidia, Crasso ironizzò ben presto sul termine “Magno” che il futuro sodale si era fatto attribuire, e col tempo accolse con sempre maggior frustrazione le sue vittorie militari e quelle di Cesare. Fu pertanto ben lieto quando i romani si rivolsero a lui nel momento in cui Spartaco mise in crisi la repubblica con la sua rivolta, che procurò a Roma una sconfitta dietro l’altra. In realtà il suo nome spuntò fuori perché i comandanti migliori erano impegnati in campagne all’estero – Pompeo era in Spagna –, ma Crasso si gettò nell’impresa con maggior attenzione e più risorse dei predecessori, dimostrandosi inflessibile, efficiente e spietato. Con ben dieci legioni – delle quali quattro erano costituite dai superstiti delle unità precedentemente sconfitte dagli
SCALA, FIRENZE
BRIDGEMAN / ACI
LA MORTE DI CRASSO. OLIO DI LANCELOT BLONDEEL. XVI SECOLO. GROENINGEMUSEUM, BRUGES.
LA PARODIA DEL TRIONFO
trionfo in tono minore che si celebrava senza quadriga né scettro né soldati al seguito, con una corona di mirto al posto dell’alloro e una pecora sacrificata al posto del toro.
O
Il primo triumvirato
LTRE ALL’AMAREZZA di non aver mai celebrato un
vero trionfo, Crasso dovette subire l’ultima umiliazione dopo la morte. Il generale parto che lo aveva sconfitto, Surena, inscenò una parodia di trionfo. Fece sfilare per le vie della città di Seleucia un prigioniero romano somigliante al proconsole, tale Gaio Pacciano. I parti gli avevano intimato di rispondere a tutti coloro che si rivolgevano a lui chiamandolo “Crasso” e “generale”. Il malcapitato soldato non indossava la tipica tunica di porpora bordata d’oro del trionfatore, ma una veste regale femminile. Davanti a lui marciavano i trombettieri e alcuni littori a cavallo di cammelli. I littori portavano i fasces lictorii caratteristici della loro posizione: un fascio di bacchette di betulla con al centro una scure. Ma dalle bacchette che precedevano il falso Crasso pendevano delle borse piene di soldi, e alle scuri erano state appese le teste dei legionari uccisi in battaglia. Le cortigiane musiciste della città chiudevano questo grottesco corteo cantando strofe scurrili sulla effeminatezza e sulla viltà del generale sconfitto.
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Non ci voleva altro per esasperare il risentimento di Crasso, che aumentò notevolmente quando, l’anno successivo, i due furono consoli insieme. Negli anni seguenti Pompeo collezionò una vittoria dopo l’altra: nel Mediterraneo contro i pirati e in Oriente contro Mitridate del Ponto. Proprio in quel momento il legame costruito in passato con Cesare tornò utile alla carriera politica di Crasso. Il futuro dittatore infatti fu l’artefice della riconciliazione tra i due insigni personaggi, convincendoli che avrebbe fatto i loro interessi se avessero sostenuto la sua candidatura al consolato. E infatti nel 60 a. C., l’anno dopo essere divenuto console, Cesare si valse della loro influenza per imporre a Roma un “governo ombra” costituito dall’accordo privato tra
i tre, che sarebbe passato alla storia come primo triumvirato. Il loro sodalizio, dapprima tenuto segreto, fu reso pubblico solo quando il senato fece ostruzionismo di fronte alla proposta di una legge agraria da parte di Cesare. Cesare, Crasso e Pompeo erano ormai i tre dominatori dell’Urbe. Si spartirono province e cariche istituzionali e mentre Cesare prolungò il suo proconsolato gallico, Pompeo e Crasso condivisero di nuovo un consolato nel 55 a.C. Crasso rivestì anche il proconsolato in Siria, che si era fatto assegnare perché già si vedeva lanciato alla conquista dell’impero partico, in una guerra che serviva solo a perseguire la gloria militare dei suoi due colleghi. Scrive Plutarco: «Nell’assegnazione delle province non si faceva menzione di una guerra contro i parti; ma tutti sapevano che Crasso andava matto per quel progetto». I romani non presero bene la spedizione di Crasso contro l’impero partico, che non aveva mai dato noie a Roma. Crasso partì per la sua ultima impresa alle idi di novembre del
55 a.C. liberandosi della folla tumultuante solo grazie all’intervento di Pompeo, ma portandosi dietro le maledizioni di un tribuno della plebe. Dopo un anno e mezzo di campagna ridicola e inconcludente, la sua testa finì sul tavolo di un banchetto del re partico Orode proprio durante la rappresentazione di Le Baccanti di Euripide, il cui protagonista ebbe l’intuizione di prendere tra le mani il macabro cimelio e recitare i versi: «Dal monte portiamo al palazzo edera appena tagliata, caccia fortunata». «Tale, si dice, fu il finale cui giunse la spedizione di Crasso: quello di una tragedia», scrive Plutarco. Ah, Shakespeare, perché non l’hai scritta?
CTESIFONTE, LA CAPITALE DEI PARTI
L’esercito di Crasso fu sorpreso e trucidato dai parti mentre lasciava Carre per cercare di raggiungere la capitale nemica. Nell’immagine, facciata del palazzo di Ctesifonte.
ANDREA FREDIANI STORICO E SCRITTORE
Per saperne di più
TESTO
Vite parallele. Nicia-Crasso Plutarco. BUR, Milano, 1987. SAGGIO
Crasso, il banchiere di Roma Giuseppe Antonelli. Newton Compton, Roma, 1995. ROMANZO
Lo schiavo di Roma Steven Saylor. Nord, Milano, 2008.
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LA BATTAGLIA DI CARRE l’esercito di Crasso, forte di 11 legioni per un totale di 44mila uomini compresa la cavalleria, giunse nei pressi di Carre prostrato dal caldo e dalla marcia nel deserto. Il comandante partico Surena lo attendeva al varco, ma fece affiorare dalle dune solo una parte dei suoi 11mila uomini, per indurre il proconsole ad attaccare. Crasso pregustò una facile vittoria e, dopo aver obbligato i soldati a consumare il rancio in piedi, dispose le legioni in un grande quadrato, con la cavalleria gallica del figlio Publio ai lati. A quel punto comparvero migliaia di arcieri a cavallo, che si avvicinarono alle linee romane scagliando frecce e facendo dietrofront più volte, per evitare il corpo a corpo. Comparve anche la cavalleria pesante dei catafratti, che accerchiò le ali romane. mentre i legionari erano bersagliati dai dardi, il giovane Crasso tentò un contrattacco; ma i catafratti ripiegarono e isolarono gli avversari, massacrandoli uno a uno. Alcuni celti disarcionati riuscirono a squarciare le pance dei cavalli gettandosi tra gli zoccoli. Crasso vide la testa del figlio issata su una picca e, scorato, sperò che gli avversari esaurissero le frecce, per poter passare al contrattacco con la fanteria. Ma dietro le dune si trovava una carovana di cammelli con riserve inesauribili di dardi, e la pioggia di proietti s’interruppe solo a sera, con i romani ormai in rotta e accerchiati. Entro il mattino seguente, tra morti e prigionieri, tre quarti dell’armata romana finirono distrutti e Crasso venne ucciso nel corso delle trattative di resa.
LA BATTAGLIA DI CARRE. ILLUSTRAZIONE DI GIUSEPPE RAVA, 2004. DALLA SERIE EVO ANTICO. FOTO: AKG / ALBUM
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CAVALLERIA SARMATA RAPPRESENTATA SULLA COLONNA TRAIANA, CHE DESCRIVE LE CAMPAGNE DELL’IMPERATORE TRAIANO IN DACIA.
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VICHINGHI G LI EROI DELLE SAG H E NOR R EN E
Assieme alle avventure dei grandi dei del pantheon nordico, le saghe scandinave raccontano tantissime storie di antichi re e guerrieri vichinghi. Personaggi come Sigurðr, o Sigfrido, Bósi e Ragnarr Loðbrók sono descritti per il loro coraggio, il senso dell’onore e il tragico destino
UN GUERRIERO SI PREPARA ALLA LOTTA
Sopra queste righe, ricostruzione di un guerriero vichingo del X secolo pronto a entrare in guerra. L’elmo s’ispira all’unico copricapo di questo tipo oggi conservato. Nella pagina precedente, pezzo appartenente al tesoro di Hiddensee, un insieme di gioielli vichinghi in oro del X secolo. Stralsund Museum, Stralsund. SINISTRA: S. SAUER / ALAMY / ACI. DESTRA : FERNANDO G. BAPTISTA / NGS
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hi non conosce le divinità nordiche? Forse non tutte, ma sicuramente le più famose del pantheon: Odino, Thor e Loki sono divenuti popolari grazie alle varie rappresentazioni che ne sono state fatte dall’opera, dai fumetti e dal cinema, mentre gli eroi vichinghi, ovvero i protagonisti delle saghe che ricostruiscono la storia degli antichi popoli scandinavi, sono sempre rimasti in secondo piano. Almeno fino a quando la recente serie Vikings, che ha portato sullo schermo le vicende della stirpe di Ragnarr Loðbrók, ha risvegliato l’interesse per i personaggi in carne e ossa. Gli eroi combattono nella bruma che unisce in modo misterioso e ancestrale il mondo degli dei e quello degli uomini, e proprio in virtù di tale unione dobbiamo chiederci se possiamo considerarli figure umane oppure divine. Questi eroi sono soltanto la versione umana delle divinità? Fino a che punto costituiscono, nel carattere, un esemplare perfetto di essere umano? Di sicuro nelle saghe nordiche gli eroi hanno un ruolo di prototipo, o modello, e per questo sono rappresentati in modo idealizzato. Non dobbiamo quindi commettere l’errore di considerare le storie scritte su di loro alla stregua di un semplice racconto biografico. Basta prendere come esempio la saga dell’eroe Sigurðr e della sua stirpe, in cui figura il già menzionato Ragnarr Loðbrók. Nar-
rata già nel X secolo, viene ripresa in La Saga dei Völsungr, o Saga dei Volsunghi, e nel suo seguito, La Saga di Ragnarr, redatta, al pari della precedente, nel XIII secolo. Secondo il racconto, Aslaug - che diventerà la terza moglie di Ragnarr - nasce dall’uccisore dei draghi Sigurðr e dall’eroina Brynhildr, o Brunilde. Le avventure dell’eroe leggendario Ragnarr avvengono nella Svezia del IX secolo, e in una di queste l’eroe si fa confezionare uno strano vestito per il quale sarà chiamato “Brache pelose”, costituito appunto da brache pelose con cui, assieme a un manto di cotone, si protegge dagli attacchi di un serpente che poi trapasserà a fil di lancia. Per questa gloriosa impresa diverrà molto celebre in tutti Paesi scandinavi.
Sigurðr il Volsungo Tutti gli eroi condividono la caratteristica di avere una qualche relazione con gli dei: o ne sono discendenti o possono entrarvi in contatto. In molte occasioni le divinità li favoriscono, ma in altre li fanno cadere in disgrazia come nel caso di uno dei protagonisti di La Saga dei Volsunghi: Sigmund, il padre di
C R O N O LO G I A
L’ERA DELLE SAGHE PRUA DELLA NAVE VICHINGA DI OSEBERG. VIKINGSKIPSHUSET, OSLO.
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Sotto Harald I Bellachioma, primo re della Norvegia, molti nobili realizzano delle spedizioni per mare.
Il norvegese Ingólfur Arnarson arriva a Reykjavík, dando così inizio alla colonizzazione dell’Islanda descritta nel Landnámabók.
CASA VICHINGA
I capi vichinghi mantenevano gruppi di guerrieri che vivevano in case come questa, ricostruita a Tofta Strand, nell’isola svedese di Gotland. C. BOISVIEUX / AGE FOTOSTOCK
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Regno di Erik Ascia Insanguinata. Uccise quasi tutti i suoi fratelli ottenendo il soprannome di fratrum interfector.
Olaf I di Norvegia, le cui gesta saranno celebrate in molte saghe, sale al trono dopo essersi convertito al cristianesimo.
Leif Eriksson giunge in Vinlandia, forse l’isola di Terranova, com’è raccontato in La Saga di Erik il Rosso.
Ísleifur Gissurarson diventa il primo vescovo islandese mezzo secolo dopo l’adozione ufficiale del cristianesimo.
Donne che preferiscono la guerra
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EL SUO GESTA DANORUM, il cronista medievale Saxo
Grammaticus descriveva così le skjaldmær, o fanciulle guerriere vichinghe: «Anticamente tra i danesi ci furono donne che, trasformando la bellezza in modi da uomo, consacravano quasi tutti i momenti del loro tempo alle pratiche militari [...] Quelle che possedevano o forza di carattere o una taglia fisica adeguata cercavano le lotte invece dei baci [...] consegnavano alla disciplina delle lance le mani che avrebbero dovuto porre sui telai e si esponevano ai dardi che avrebbero potuto far cadere a terra con il loro fascino». HERVÖR MORENTE. OLIO DI PETER N. ARBO, 1880.
Quando il re Sigmund gli assestò un colpo fermo con la spada, questa, nel colpire la lancia, si ruppe in due pezzi. Da quel momento cambiò l’esito dello scontro. La buona stella abbandonò Sigmund e molti dei suoi guerrieri gli morirono davanti». La saga non rivela l’identità del misterioso personaggio, ma il pubblico dell’epoca poteva facilmente riconoscervi il dio Odino. La Saga dei Volsunghi e quella di Ragnarr Loðbrók fanno parte di un sottogenere delle saghe conosciuto come “saghe dei tempi antichi”. Gli eventi di questi racconti leggendari o mitico-eroici si svolgono spesso in luoghi remoti e immaginari. Le gesta sono accompagnate da descrizioni di oggetti magici e creature fantastiche, così da suscitare nel lettore moderno l’impressione di trovarsi davanti a un racconto di finzione. Eppure sicuramente molte delle saghe combinano questi elementi fittizi e soprannaturali con dati storici. Oggi abbiamo a disposizione una trentina di saghe leggendarie che sviluppano la propria trama prima della colonizzazione dell’Islanda nel IX secolo.
La saga della fanciulla guerriera O. VAERING / BRIDGEMAN / ACI
Sigurðr. Ormai vecchio ma ancora valoroso, va in battaglia contro le schiere dei suoi nemici e si lancia alla carica. Non viene ferito da nessuna delle molte lance e frecce che gli piovono addosso ma «quando la battaglia durava già da tempo, si presentò un uomo che indossava un cappello dalla tesa larga e un mantello blu. Era guercio e in mano reggeva una lancia. Quest’uomo si diresse verso Sigmund e brandì la lancia contro di lui. THOR (NELL’IMMAGINE) SPIRA DURANTE IL RAGNARO˛K A CAUSA DEL MORSO DEL GRANDE SERPENTE JO˛RMUNGAND, CHE IL DIO HA APPENA UCCISO. ALBUM
È il caso di La Saga di Hervör, la cui trama può essere collocata durante le battaglie tra goti e unni nel IV secolo. L’eroina Hervör, come Brynhildr, è una skjaldmær, ovvero una fanciulla guerriera. La Saga di Hervör, l’unica a contenere nel titolo il nome di una donna, venne scritta nel XIII secolo e narra la vita dell’eroina e di tutta la sua stirpe. La protagonista è descritta come una ragazza dalla grande bellezza e dalla forza pari a quella degli uomini. Ben presto si esercita più nel tiro con l’arco, nello scudo e nella spada che nelle mansioni femminili, quali tessere e cucire. Dopo aver indossato i panni di un uomo ed essersi fatta chiamare Hervard, assume il comando di un gruppo di vichinghi per recarsi presso la tomba del padre Angantyr, un berserkr, o guerriero devoto a Odino. Qui recita la Hervararkviða, il Canto di Hervör, esortando il padre ad alzarsi e a consegnarle Tyrfing, la spada che le spetta in eredità e che era stata forgiata e maledetta dai nani Dvalinn e Dulinn. La saga ha ispirato J.R.R. Tolkien per la creazione di personaggi e situazioni della Terra di Mezzo in Il Signore
SIGURÐR E IL DRAGO LA SAGA DEI VOLSUNGHI racconta come l’eroe Sigurðr decise d’intraprendere un viaggio alla ricerca del drago Fáfnir per ucciderlo e togliergli l’“elmo del terrore”. Addentratosi in un bosco incontrò un vecchio che gli consigliò di scavare molte buche e nascondersi in una di quelle finché non fosse comparso il mostro. «Quando il drago giunse strisciando per andare a bere, tutta la terra si mise a tremare cosicché pure la terra attorno a lui
tremava. Soffiava veleno davanti a sé, ma Sigurðr non si spaventò né ebbe paura dello strepito. Quando il drago passò sopra la buca in cui si trovava, Sigurðr gli assestò un colpo con la spada all’altezza della scapola sinistra conficcandogliela fino all’impugnatura. Allora Sigurðr uscì fuori dalla buca e tirò con la spada. Aveva le braccia insanguinate fino alle spalle. Ferito a morte, il drago cominciò a dar colpi con la testa e la coda».
SIGURÐR UCCIDE IL DRAGO. SCENA DEL PORTALE DELLA CHIESA IN LEGNO DI HYLESTAD. XII SECOLO. KULTURHISTORISK MUSEUM, OSLO. AKG / ALBUM
La maga e l’eroe: la formula di Busla
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OPO ESSERSI SCONTRATO con il re Hringr il guerriero Bósi finì incatenato dentro una segreta in attesa della morte. La notte prima della sua esecuzione giunse una vecchia maga, Busla, che gli recitò una maledizione: «Che troll ed elfi / e norne fattucchiere, / abitanti, giganti della montagna / brucino le tue stanze, / che ti odino i giganti della brina / che i cavalli ti lascino a piedi, / che la paglia ti pizzichi / e che le tormente ti facciano impazzire / E, povero te, / a meno che tu faccia la mia volontà!». Poi recitò altre strofe e concluse con questi versi: «I cani ti morderanno fino a farti morire, e che la tua anima sprofondi all’inferno». Nel manoscritto sono presenti anche una serie di rune che sicuramente avevano l’effetto di stregare chiunque le guardasse. LE TRE NORNE, FATTUCCHIERE DEL MONDO VICHINGO. OLIO DI HERMANN HENDRICH. 1906.
BPK / SCALA, FIRENZE
BRIDGEMAN / ACI
degli Anelli: ne è un esempio Éowyn, la principessa del regno di Rohan. Tuttavia, nel Medioevo scandinavo vennero redatti altri tipi di saghe nelle quali gli eroi non provengono dai poemi antichi e in cui le gesta non hanno luogo in scenari mitici. All’interno di tali testi raramente appaiono esseri sovrannaturali, e gli dei non vengono quasi menzionati. Chi sono allora, e come sono, questi eroi che non affondano le proprie radici nel mondo mitologico? Una risposta ce la possono dare le quaranta Íslendingasögur, o Saghe degli Islandesi, giunte sino a noi. I loro protagonisti vivono nell’intervallo di tempo compreso tra la colonizzazione dell’Islanda, nel IX secolo, e l’adozione del cristianesimo, due IMPUGNATURA E PARTE DELLA LAMA DI UNA SPADA CELTA. X-XI SECOLO. STATENS HISTORISKA MUSEER, STOCCOLMA.
secoli più tardi. Non a caso questo periodo è conosciuto come l’“epoca delle saghe”. La maggior parte dei personaggi e molti degli eventi descritti sono fedeli alla realtà storica e, poiché le saghe vengono messe per iscritto nei secoli XIII e XIV ma si riferiscono a fatti risalenti perfino a tre secoli prima, sono state paragonate ai romanzi storici. Possiamo inoltre notare come gli autori abbiano verosimilmente cercato di ricostruire la storia in modo tale che il pubblico la percepisse come verosimile, e per questo nei testi abbondano genealogie e racconti biografici: molte saghe iniziano proprio con la descrizione dettagliata degli antenati del protagonista, con dati sui sovrani, riferimenti alle colonizzazioni di nuovi territori e alle battaglie che qui si combatterono. Tali saghe, inoltre, possono strutturarsi attorno alla vita di un individuo, come nel caso di La Saga di Egill Skallagrímsson, La Saga di Gísli Súrsson o La Saga di Grettir Ásmundarson, ma possono anche includere diverse generazioni della stessa famiglia o degli abitanti di un luogo, come nel caso di La Saga degli abitanti della Valle dei Salmoni o di La Saga degli uomini di Eyr. Ciononostante, i protagonisti continuano ad apparire come modelli idealizzati di comportamento e per questo sono inevitabilmente condannati, come gli eroi mitici delle saghe leggendarie, a un tragico destino.
Fratelli di sangue Gli autori di queste saghe hanno ben a cuore il fondo storico della vicenda. E, infatti, il prologo di La Saga di Bósi e Herrauðr ci avverte che la storia narrata non è un mero racconto volto a intrattenere, bensì l’esposizione di eventi realmente accaduti. La storia ripercorre le avventure di Bósi e del fratello di sangue Herrauðr, due giovani guerrieri in lotta contro il padre del secondo, il re Hringr. Nel testo sono particolarmente interessanti le scene erotiche, che non compaiono altrove. In una di queste, Bósi si rivolge a una donna con una curiosa metafora dell’ambito metallurgico: «Voglio indurire il mio guerriero al tuo fianco. È giovane e non è ancora stato forgiato, e un guerriero deve essere temprato al più presto». Lei gli chiede dove sia questo guerriero e lui glielo
PERSONAGGIO DI UNA SAGA.
Egill Skallagrímsson fu un reale protagonista di alcune saghe. Visse nel X secolo ed ebbe una vita avventurosa. Condannato a morte, si salvò recitando un’ode per il re Eric Ascia Sanguinosa nella Northumbria. Incisione del XVII secolo. Stofnun Árna Magnússonar, Reykjavík. BRIDGEMAN / ACI
RAGNARR LOÐBRÓK, STORIA E LEGGENDA popolare dalla serie Vikings, Ragnarr Loðbrók R eso fu forse una figura storica. Alcuni autori hanno posto le sue avventure in relazione con le incursioni vichinghe nei territori della Northumbria, nella parte occidentale dell’attuale Gran Bretagna, verso la fine dell’VIII secolo. Secondo altri studiosi il suo personaggio può ispirarsi a Reginheri, un guerriero che serviva alla corte del re Horik I di Danimarca (827-854). Gli Annali di Xanten dicono di lui che «saccheggiava i cristiani e i luoghi santi», e si specifica che morì nell’845, vittima di un castigo divino per i suoi sacrilegi.
PAGINA DELLA SAGA DI RAGNARR LOÐBRÓK. ALAMY / ACI
L AG ERT H A , DA SC U D I ER A A SPOSA Grammaticus S axo racconta che Ragnarr
HERITAGE / ALBUM
Loðbrók giunse in Norvegia con il proposito di vendicare le mogli del re defunto oltraggiate da Frø, a quel tempo sovrano della Svezia. Molte di queste donne si unirono alla sua lotta. Tra loro figurava Lagertha, «donna esperta nella guerra che, portando nel corpo di vergine un coraggio virile, lottava per prima tra i più agguerriti, con i capelli sciolti sulle spalle». Una volta compiuta la sua missione ed eliminato il re di Svezia, Ragnarr pretese la giovane in sposa, ma riuscì a conquistarla solo dopo aver ucciso con le proprie mani un orso e un cane che erano a guardia della sua stanza. LAGERTHA. RAPPRESENTAZIONE DELLA GIOVANE GUERRIERA IN UN’INCISIONE DI MORRIS M. WILLIAMS PER THE NORTHMEN IN BRITAIN, DI ELEANOR MEANS HULL. 1913.
WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
RAGNARR LOÐBRÓK INCONTRA KRÁKA, O ASLAUG, FIGLIA DI SIGURÐR E REGINA VICHINGA DELLA SCANDINAVIA. INCISIONE DI WILHELM WAGNER. 1901.
A SL AUG, L A PRINCIPESSA C O N TA D I N A delle compagne U n’altra di Ragnarr fu Aslaug.
KRÁKA O ASLAUG CON L’ARPA ASSIEME AL PADRE ADOTTIVO HEIMER. OLIO DI JOHAN A. MALMSTRÖM. XIX SECOLO. NATIONALMUSEUM, STOCCOLMA.
FINE ART / ALBUM
I genitori, Sigurðr e Brynhildr, morirono quando lei aveva appena tre anni, per cui venne adottata dallo zio Heimer. La Saga di Ragnarr racconta che Heimer fece costruire un’enorme arpa per nascondervi Aslaug, «e quando la bambina piangeva, lui suonava l’arpa e lei taceva, perché Heimer era molto abile nelle arti». Heimer la consegnò poi a una coppia di contadini, che la chiamarono Kráka. In tale stato l’avrebbe trovata Ragnarr tempo dopo. Innamoratosi di lei, la portò su una barca e la fece diventare sua concubina, finché ne scoprì l’ascendenza reale.
IL PARCO DI ÞINGVELLIR
In questo parco nazionale islandese venne fondato, nel 930, l’althing, un’antica istituzione parlamentare. L’althing si riuniva annualmente, risolveva i conflitti e castigava i criminali. Nell’immagine, la faglia di Almannagjá, una delle più grandi che attraversa la zona. OLIMPIO FANTUZ / FOTOTECA 9X12
REPLICA DELLA CHIESA DI THJODHILD COSTRUITA INTORNO ALL’ANNO 1000 E COSÌ CHIAMATA IN ONORE DELLA MOGLIE DI ERIK IL ROSSO. FIORDO DI BRATTAHLÍÐ, GROENLANDIA.
DANITA DELIMONT / AGE FOTOSTOCK
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mostra, guidandola con la mano. La giovane si ritrae domandandogli perché porti con sé un oggetto duro quanto un albero. Lui risponde che si ammorbidirà nel buco oscuro, e così rimangono a intrattenersi tutta la notte. Assieme alla descrizione di questo tipo di divertimenti notturni, appaiono anche delle formule magiche. I protagonisti delle saghe incarnano l’onore, la forza fisica e il coraggio; sono alti, di robusta costituzione e forti. Non solo: tutti hanno partecipato a molte spedizioni e battaglie, e quindi sono uomini celebri e dall’enorme ricchezza. La Saga di Egill Skallagrímsson, scritta nel XIII secolo, ELMO DI UN GUERRIERO DELL’ERA DI VENDEL (VII SECOLO), SCOPERTO NELLA TOMBA DELLA BARCA XIV DI UPPLAND. 92 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
ci offre questa precisa ed esauriente descrizione del protagonista: «I tratti di Egill richiamavano l’attenzione. Fronte estesa, ciglia folte, naso corto ma incredibilmente piatto, scucchia lunga, mento grande come la mandibola, collo massiccio e spalle più ampie di qualsiasi altro uomo, capelli grigi come quelli di un lupo, e spessi, anche se era rimasto ben presto calvo; mentre era seduto, come scritto prima, un sopracciglio scendeva fino al mento, e l’altro s’inarcava fino alla radice dei capelli; Egill era olivastro, con gli occhi neri». Il carattere di Egill è irritabile e violento. A dodici anni pochi uomini lo superano in possanza e altezza. È un grande guerriero, ma anche un magnifico poeta. I suoi versi scaldici – dal nome degli scaldi, o skáld, i poeti guerrieri delle corti scandinave – sono vere e proprie opere d’arte. Skalla-Grímr, il padre, è anche lui poeta oltre che fabbro, mentre il nonno viene chiamato Kveldúlfr, “il lupo della sera”: è un uomo molto saggio che di sera va in collera e, grazie ai poteri magici, può cambiare aspetto a proprio piacimento. Egill si salva recitando il poema Höfuðlausn (Riscatto della testa) davanti al re Erik Ascia Insanguinata. Tuttavia non muore in battaglia ma a 80 anni, e questo comporta un grande disonore. L’autore della saga racconta che, in vecchiaia, Egill si muove con difficoltà, la vista gli viene meno e così l’udito, e le donne lo prendono in giro.
Coppie di eroi Nella descrizione del fisico e delle abilità di certi eroi delle saghe compare un chiaro contrappunto tra fratelli. In La Saga di Bósi e Herrauðr il protagonista Bósi è corpulento, moro, non troppo bello e rude, ma abile con le parole. Al contrario, suo fratello Smid non è massiccio ma affascinante e pieno di risorse. Anche in La Saga di Egill Skallagrímsson risulta evidente il contrasto tra i fratelli Egill e Þórólfr: Egill eredita il carattere del padre, Skalla-Grímr, e del nonno. Entrambi sono mori, brutti e dal temperamento irritabile; il fratello Þórólfr, invece, acquisisce il proprio carattere dalla famiglia della madre: è generoso, coraggioso, allegro e molto popolare. Come se non bastasse, a differenza di Egill, Þórólfr è un giovane di bell’aspetto.
GLI ALTRI PROTAGONISTI Le più di 130 saghe conservatesi sino a oggi, e scritte principalmente in Islanda, raccontano la storia di numerose eroine ed eroi come Egill, Ragnarr Loðbrók, gli amici Bósi e Herrauðr, o altri qui menzionati. freydís eiríksdóttir, la figlia di Erik il Rosso, era nella spedizione che giunse in Vinlandia durante il X secolo. Si fece notare per la bravura nella lotta contro gli skrælingjar, i nativi, com’è scritto in La Saga di Erik il Rosso. Per spaventare i nemici Freydís battè l’elsa della sua spada contro il suo petto nudo.
oddr l’arciere, protagonista di La Saga di Oddr l’arciere, possedeva delle frecce magiche con cui aveva sconfitto numerosi nemici. Morì inciampando nel cranio di un cavallo, dal quale era strisciato fuori un serpente che lo morse. Così si compì la profezia formulata anni prima, al momento della sua nascita.
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grettir il forte era un eroe intrepido e sempre di malumore. Il suo leggendario coraggio lo portò ad affrontare il draugr Glam, un non-morto che massacrava il popolo di una valle. Prima di morire, Glam maledisse Grettir alla luce della luna e quella fu la causa delle sue posteriori sventure. LASTRA DI LEGNO RINVENUTA NEL 1885 CHE MOSTRA UN FRAMMENTO DELLA CROCE DELL’EROE SIGURÐR. INCISIONE REALIZZATA DA PHILIP MOORE CALLOW KERMODE INTORNO AL 1906.
LEIF ERIKSSON SCOPRE L’AMERICA. OLIO DI CHRISTIAN KROHG. 1893. NASJONALGALLERIET, OSLO. ORONOZ / ALBUM
UNA VALCHIRIA PORTA VIA CON SÉ UN GUERRIERO MORTO IN BATTAGLIA. OLIO DI HANS MAKART. XIX SECOLO. NATIONALMUSEUM, STOCCOLMA.
la stessa sequenza: il protagonista abbandona la Norvegia per un litigio con il re e si stabilisce in Islanda, dove nascono conflitti per terre o eredità o a causa di assassinii che devono essere puniti. La concatenazione delle vendette finisce quasi sempre in un bagno di sangue e il protagonista viene dichiarato útlagi, o proscritto. Da quel momento è costretto a nascondersi perché perseguitato e chiunque può dargli la morte.
L’eroe tragico
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FINE IMAGES / ALBUM
Quando Egill inizia a crescere, sin da subito appare chiaro che diventerà brutto e moro come il padre; è però piuttosto intelligente, e già bambino ha composto le sue prime poesie. Molti eroi delle saghe sono di fatto grandi poeti. Un esempio è proprio Egill, che dopo la morte dei figli recita il Sonatorrek, con i versi scaldici più belli della poesia norrena: «Amara pena mi stringe la gola, / pigra è la lingua, bilancia del canto. / Più non riesco dal fondo del cuore / il mio tesoro di strofe a evocare». Le saghe degli islandesi sono scritte come se fossero storie, e non solo perché includono genealogie e dati storici, ma anche per la trama, più centrata sull’azione e il racconto degli eventi. L’intreccio ripete quasi sempre GUERRIERO BERSERKR. FIGURA INTAGLIATA NELL’AVORIO DI TRICHECO CHE FA PARTE DEL GIOCO DEGLI SCACCHI TROVATO NELL’ISOLA DI LEWIS.
L’eroe delle saghe deve morire in battaglia. Come già indicato, è per lui un enorme disonore morire da vecchio, al pari di Egill, o per malattia, poiché significa che l’eroe non si è battuto con coraggio e ha evitato lo scontro pur di non soccombere. La Saga di Gísli Súrsson descrive il prototipo di una morte eroica: i nemici di Gísli, proscritto, hanno trovato il suo nascondiglio e si preparano a ucciderlo. L’eroe è attaccato da dodici uomini che lo feriscono con la lancia in più parti del corpo, ma lui si difende valorosamente, senza mai retrocedere, e nessuno degli assalitori ne uscirà illeso. Gli altri lo attaccano con forza ancora maggiore e uno di loro lo colpisce in modo tale da fargli uscire le viscere. Gísli però se le riprende e le infila dentro la camicia, tenendole ferme con il cordone dei pantaloni. Poco prima di morire recita dei versi e dà un ultimo colpo di spada a uno dei nemici. Infine soccombe agli assalitori, spirando in combattimento. Tra la cronaca e il romanzo, le saghe plasmarono in questo modo l’immaginario dei guerrieri nordici della Scandinavia proprio nel momento in cui questi scomparivano dal primo piano della storia. INÉS GARCÍA LÓPEZ UNIVERSITÀ DI BARCELLONA
Per saperne di più
SAGGI
I miti nordici Gianna Chiesa Isnardi. Longanesi, Milano, 2012. Intorno alle saghe norrene Carla Falluomini (a cura di). Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2014. TESTI
Saga di Ragnarr Iperborea, Milano, 2017. La Saga di Bósi Carocci, Roma, 2008. La Saga dei Volsunghi Pratiche, Roma, 1994.
STAVKIRKE DI BORGUND
Questa chiesa, oggi museo, venne costruita interamente in legno alla fine del XII secolo, nella localitĂ norvegese di Borgund. Quando i norvegesi si convertirono al cristianesimo riempirono il Paese di chiese in legno finemente intagliato. KELLEE KOVALSKY / ALAMY / ACI
Atli (Attila, re degli unni) invita i fratelli della moglie Guðrún nella sua casa con la promessa di grandi tesori. Guðrún avverte i fratelli Gunnarr e Högni che potrebbe essere una trappola, mandandogli un anello rosso con un pelo di lupo annodato (nella stele compare il messaggero mentre tiene l’anello sopra il cavaliere). Tuttavia, i fratelli accettano l’invito di Atli e cadono nella sua imboscata. Högni uccide con la spada otto unni ma è fatto prigioniero assieme a Gunnarr. Nella parte superiore della stele possiamo notare i guerrieri con la spada. La figura femminile con un corno in mano rappresenta una valchiria che dà il benvenuto agli eroi nel Valhalla.
SCENA SUPERIORE
rappresentati gli eroi delle saghe vichinghe. Tra di loro figura la Stele di Hunninge, di tre metri di altezza, realizzata nell’VIII secolo e oggi conservata al Gotland Museum di Visby (Svezia). Possiamo osservare varie scene che si crede corrispondano a uno dei poemi eroici contenuti nell’Edda poetica: il Canto di Atli.
Svezia orientale sono state N ella rinvenute diverse lapidi in cui sono
I MITI DEI VICHINGHI IN PIETRA
RAYMOND HEJDSTRÖM / GOTLANDS MUSEUM
Guðrún vendicherà la morte dei fratelli uccidendo prima i figli di Atli e poi il marito e bruciando la sua casa. Guðrún sposerà infine Sigurðr.
Gunnarr è lanciato in una fossa con i serpenti – un finale come quello di Ragnarr Loðbrók. La donna di fianco alla fossa è la sorella Guðrún. Porta l’arpa con cui Gunnarr voleva addormentare i serpenti, ma il suo piano fallisce.
Atli chiede a Gunnarr dove abbia nascosto l’oro ed egli, in catene, gli dice che vuole prima vedere il cuore del fratello Högni. Gli unni strappano il cuore a Högni e lo mostrano a Gunnarr, che afferma: «Il Reno tenga pure l’eredità nibelunga, il metallo delle asce, la discordia di uomini!».
SCENA INTERMEDIA
LA MINESTRA SI FREDDA
Ecc. perché la minestra si fredda». Chiamato a tavola, Leonardo interrompe così i suoi appunti sulla geometria, scritti da sinistra a destra, come al suo solito. Vi lavora nella residenza francese di Amboise, forse nel 1518. Codice Arundel, British Library, Londra. RITRATTO: WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE. SFONDO: BRITISH LIBRARY / ALBUM
Leonardo da Vinci G L I U LT I M I A N N I D I U N G E N I O
Le guerre che i re di Francia combatterono in Italia permisero ai sovrani di entrare in contatto con Leonardo da Vinci, di cui divennero generosi mecenati, a tal punto che l’artista si trasferì in Francia e lì terminò i propri giorni
IL CASTELLO DEGLI SFORZA
Leonardo lavorò come pittore, organizzatore di feste e ingegnere per Ludovico Sforza, signore di Milano. L’ULTIMA CENA
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li venne un parossismo messaggiero della morte; per la qual cosa rizzatosi il re e presoli la testa per aiutarlo e porgerli favore acciò che il male lo alleggerisse, lo spirito suo, che divinissimo era, conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel re». Con questa scena commovente il biografo Giorgio Vasari concluse la Vita di Leonardo da Vinci immaginando – perché il racconto è lontano dalla verità storica – che il 2 maggio 1519 Francesco I accogliesse l’ultimo respiro dell’uomo eccezionale che tre anni prima si era posto al suo servizio. Se l’aneddoto rappresenta solo una fiorita leggenda che
DALL’ITALIA ALLA FRANCIA
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avrebbe però proiettato Leonardo in una dimensione mondiale e avrebbe ispirato artisti come Jean-Auguste-Dominique Ingres, è vero però che da Vinci si era recato alla corte di Francesco I re di Francia dietro insistenza dello stesso sovrano e dei suoi predecessori. Nato a Vinci e cresciuto a Firenze dove si era formato nelle arti, nelle tecniche e nell’osservazione della natura presso la bottega di Andrea del Verrocchio, protetta da Lorenzo il Magnifico, nel 1482 Leonardo si recò alla corte milanese di Ludovico Sforza, detto il Moro. E lì si trovava quando, nel settembre 1494, il sovrano francese Carlo VIII, alleato degli Sforza, oltrepassò le Alpi con l’esercito per occupare il regno di Napoli.
MAURO MAGLIANI / RMN-GRAND PALAIS
FRUTTUOSO PINATO / ALAMY / ACI
Tra il 1494 e il 1498 Leonardo dipinse l’affresco per il refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano.
1452
1482
1516
LEONARDO NASCE a Vinci,
SI TRASFERISCE alla corte di
LEONARDO, che si era recato a
nel territorio della Repubblica di Firenze. È figlio del notaio Piero da Vinci e di una contadina, Caterina. Nel 1469 si reca con il padre a Firenze.
Milano, dove vive per 17 anni. Dopo un anno con Cesare Borgia, nel 1503 torna a Firenze; qui dipinge la Monna Lisa e inizia la Battaglia di Anghiari.
Roma dopo l’elezione di Giovanni de’Medici a papa col nome di Leone X nel 1513, sceglie di stabilirsi ad Amboise, sotto la protezione di Francesco I.
1519 IL 23 APRILE, otto giorni dopo
aver compiuto 67 anni, un Leonardo ormai morente detta le sue ultime volontĂ . Spira il 2 maggio. SarĂ sepolto nella chiesa di Saint-Florentin ad Amboise.
LA BATTAGLIA DI ANGHIARI, SUCCESSO E FALLIMENTO
Splendida copia della Battaglia di Anghiari creata a partire da altre precedenti. Musée du Louvre, Parigi. SALA DEI CINQUECENTO
L’opera era affrescata su una parete della sala del palazzo Vecchio dove si riuniva il Maggior Consiglio di Firenze.
Il re reclamava Leonardo al suo servizio, e incaricò Charles II d’Amboise, governatore di Milano, di farlo tornare. Questi esercitò insistenti pressioni sulla repubblica fiorentina e alla fine Leonardo, che aveva intrapreso la Battaglia di Anghiari ma aveva interrotto il lavoro, forse per il fallimento della sua tecnica sperimentale, l’abbandonò definitivamente e lasciò Firenze. Nel 1508 si mise al servizio del re come Nostre paintre et ingénieur ordinaire. Doveva finire una Sant’Anna con la Madonna e il Bambino, che da molti anni conduceva con la consueta e proverbiale lentezza, e la seconda Vergine delle Rocce, oggi alla National Gallery di Londra, richiesta dal re per poter sostituire l’originale, oggi al Louvre, e impadronirsene. Leonardo l’aveva dipinta su committenza della confraternita dell’Immacolata Concezione di Milano.
Leoni per due re Nel 1509, durante la visita di Luigi XII a Milano, Leonardo progettò per uno spettacolo in suo onore un leone meccanico che, ritto sulle zampe, si apriva sul petto per trarne
LUIGI XII, RE DI FRANCIA. SIGILLO REALIZZATO IN OCCASIONE DELLA FIRMA DEL TRATTATO DI LIONE. 1504. AK G/
ALB
UM
SCALA, FIRENZE
Un riesame dei documenti disponibili e delle circostanze note suggerisce che Leonardo avesse subito stabilito relazioni con alcuni funzionari reali. Sembra indicarlo il cosiddetto“memorandum di Ligny”, nel Codice Atlantico, un insieme di testi e disegni leonardeschi. In questo compare una misteriosa nota: «Trova Ingil e dilli che tu l’aspetti amorra e che tu andrai con seco ilopanna». Nei tre nomi, scritti al contrario, si possono riconoscere Luigi di Lussemburgo, conte di Ligny (Ingil) nonché cugino del re, Roma (A-rRoma) e Napoli (A-nNapoli). Quando nel luglio 1499 i francesi invasero di nuovo il Milanese, il re Luigi XII fece a Leonardo alcune richieste che ignoriamo e che non vennero esaudite neppure al ritorno del genio a Firenze, nel 1501. Leonardo stava dipingendo la Madonna dei Fusi per il ministro delle finanze Florimond Robertet.
LA COPIA DI RUBENS
ERICH LESSING / ALBUM
LEONARDO TERMINÒ SOLO una parte dell’affresco sulla battaglia di Anghiari, destinato alla sala del Maggior Consiglio di Firenze. Vasari racconta che dipinse un gruppo di cavalieri, «cosa che eccellentissima e di gran magisterio fu tenuta, per le mirabilissime considerazioni che egli ebbe nel far quella fuga; perciocché in essa non si conosce meno la rabbia, lo sdegno e la vendetta negli uomini». E che «imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura sì grossa per lo incollato del muro, che continuando a dipignere in detta sala, cominciò a colare di maniera, che in breve tempo abbandonò quella, vedendola guastare».
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La natura scatenata NEI SUOI ULTIMI ANNI Leonardo espresse
in testi e disegni il fascino che provava per la potenza incontrollabile della natura, incarnata nel diluvio biblico. Nel Codice Windsor l’artista fiorentino scriveva: «Vedeasi la oscura e nubolosa aria essere combattuta dal corso di diversi e avviluppati venti, misti colla grav[e]zza della continua pioggia, li quali or qua ora là portavano infinita ramificazione delle stracciate piante, miste con infinite foglie». E PROSEGUIVA: «Vedeasi le antiche piante diradicate e stracinate dal furor de’ venti. Vedevasi le ruine de’ monti, già scalzati dal corso de’ lor fiumi, ruinare sopra e medesimi fiumi e chiudere le loro valli; li quali fiumi ringorgati allagavano e sommergevano le moltissime terre colli lor popoli». LEONARDO PLASMÒ tali idee nella serie
del Diluvio, composta probabilmente a Clos-Lucé e attualmente conservata nel castello di Windsor. Benchè a prima vista possa sembrare una visione allucinata, si tratta di disegni scientifici: «un’anatomia della tempesta», così la definisce Charles Nicholl. E lo rispecchia pure la parte superiore di questo disegno, in cui Leonardo manifesta l’intenzione di mostrare l’intensità della pioggia che cade a distanza diversa, nonché i vari gradi delle tenebre, dipingendo la parte più oscura per metà della sua grandezza. DISEGNO CONSERVATO NELLA ROYAL COLLECTION. ERA PARTE DELL’EREDITÀ LASCIATA DA LEONARDO A FRANCESCO MELZI. DOPO ESSERE GIUNTA A THOMAS HOWARD, IL CONTE DI ARUNDEL, VENNE PROBABILMENTE ACQUISITA DAL RE CARLO II. MISURA 16,2 X 20,3 CM.
© HER MAJESTY QUEEN ELIZABETH II, 2019 / BRIDGEMAN / ACI
FRANCESCO I A MARIGNANO
Un rilievo sulla tomba del re francese, a Saint-Denis, lo ritrae al comando delle sue truppe durante una carica. BASILICA DI SAN PIETRO
UIG / ALBUM
Alla ripresa della guerra contro la Lombardia da parte di Francesco I, re dal gennaio 1515, Leonardo entrò di nuovo nelle attenzioni della corona francese. Quando la patria fiorentina offrì un banchetto al re che sostava a Lione, fu un altro leone meccanico inventato da Leonardo a rendergli omaggio: l’automa – simbolo di Firenze e di Lione – camminava e il suo petto si apriva mostrando araldici gigli. In ottobre Francesco I entrò a Milano, già occupata dalle sue truppe, e lì probabilmente contemplò l’Ultima cena, che aveva così affascinato il suo predecessore da convincerlo a portarla in Francia. Poco dopo, nel dicembre dello stesso anno, Leonardo, al seguito di papa Leone X, ebbe modo di conoscere a Bologna il sovrano, che mantenne un colloquio privato con il pontefice.
L’ultima tappa Deluso per lo scarso successo a Roma e preoccupato per il futuro dopo la morte prematura di Giuliano de’ Medici, nel marzo 1516 Leonardo accettò l’invito a lavorare in Francia che Francesco I e sua madre Luisa di Savoia gli avevano rivolto fin dal 1515: il so-
LEONE X. CON TALE NOME ASCESE AL SOGLIO PONTIFICIO GIOVANNI DI LORENZO DE’ MEDICI. AKG / ALBUM
FRANK FELL / ALBUM
palle blu e gigli d’oro, secondo l’araldica regale. Ma la dipendenza di Leonardo dal monarca s’interruppe quando gli Sforza ripresero la città nel dicembre 1512. Nel settembre 1513 Leonardo andò a Roma, dove si trovò di nuovo protetto dai due Medici Leone X e il fratello Giuliano, della dinastia dei mercanti-banchieri fiorentini ormai approdata in politica e che lo aveva favorito in gioventù. Tuttavia, per Leonardo non era Roma la meta a lungo inseguita. Con il sibillino appunto «li medici mi creorono e desstrussono» nel Codice Atlantico, egli confidava al foglio una sua profonda insoddisfazione: ignoriamo se si riferisca ai Medici che, avendolo “creato”, ovvero allevato professionalmente, lo abbandonarono, o ai dottori, i medici che, dopo averlo fatto venire al mondo, gli rovinavano ora la salute con l’impiego di cure sbagliate.
Leone X mostrò predilezione per Michelangelo o Raffaello, ma non fu certo il mecenate che si augurava Leonardo.
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IL PALAZZO IDEALE DI ROMORANTIN Studio di Leonardo per il palazzo di Romorantin. 1517-1518. Codice Arundel. British Library. IL PROTETTORE DI LEONARDO
Jean Clouet dipinse questo ritratto di Francesco I nel 1515, l’anno in cui Leonardo conobbe il re di Francia. Musée Condé, Chantilly.
anni e forse era già sofferente per i postumi di un probabile ictus cerebrale che gli aveva compromesso la mobilità della mano destra. Un appunto del Codice Atlantico in data 22 maggio 1517 rivela che si era stabilito ad Amboise, nella valle della Loira; con lui c’erano anche i fedeli collaboratori Francesco Melzi e Salaì.
Un’autonomia totale Leonardo e Melzi ricevevano uno stipendio dal re e il sovrano aveva ceduto all’artista la proprietà di Clos-Lucé, a cinquecento metri dal castello di Amboise, residenza reale. Francesco I, che aveva una stima enorme per Leonardo, ne gradiva la presenza e la conversazione al punto da intrattenersi con lui ogni giorno. Una tale confidenza ha fatto nascere la leggenda del “passaggio segreto”, un tunnel fra il castello di Amboise e ClosLucé che avrebbe favorito i loro incontri, che però non risulta sia mai esistito. Leonardo trovò nel monarca francese un mecenate che gli forniva uno stipendio senza pretendere nulla in cambio, così poté lavorare in libertà. Si mise quindi al servizio di Francesco I, e
LUISA DI SAVOIA, MADRE DI FRANCESCO I. BUSTO IN TERRACOTTA. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI. ERICH LESSING / ALBUM
FINE ART / SCALA, FIRENZE
vrano, genero di Luigi XII, ammirava quanto il suocero i lavori dell’artista. In una vita di peregrinazioni, non era certo il suo primo trasloco. Ma quello del 1517 fu definitivo, come egli ben sapeva; di fatto comportò il trasferimento di quasi tutti i suoi averi, anche quelli ritirati da depositi a Firenze e in altre città, attraverso le Alpi. Non conosciamo i dettagli di un trasporto tanto ingente, ma i documenti di età rinascimentale lo lasciano intuire. Nelle rappresentazioni di carovane – per esempio quella dei re Magi – si vedono bestie da soma con bauli pendenti a coppie sui fianchi, carichi di casse di oggetti imballati con cura. Sarà stato necessario anche un carro per i quadri più grandi, poiché con Leonardo viaggiarono i suoi dipinti incompleti: la Sant’Anna, San Giovanni Battista, forse il San Giovanni-Bacco e l’inseparabile Monna Lisa, capolavori oggi conservati al Louvre. Il viaggio fu faticoso per Leonardo, che aveva sessantaquattro
BOZZETTO PER UN SOGNO
PRINT COLLECTOR / ALBUM
TRA I MOTIVI per cui il sovrano Francesco I insisté reiteratamente durante più di un anno per far venire Leonardo in Francia, vi era quello di favorire il proposito della madre, Luisa di Savoia, di ampliare e rinnovare Romorantin, signoria del defunto marito Carlo conte d’Angoulême. Vari appunti e disegni di Leonardo nei codici Arundel e Atlantico arrivati fino ai nostri giorni sono dedicati al progetto grandioso comprendente un nuovo palazzo di forma rettangolare, con torrioni o padiglioni angolari, e poi scuderie, un padiglione di caccia, quartieri per la corte e una rete di canali con mulini. Concepito entro la visione rinascimentale italiana della “città ideale”, Romorantin avrebbe contato su accorgimenti e automatismi predisposti per la sicurezza e l’igiene sia delle persone sia dei cavalli. Purtroppo la morte di Leonardo arrestò il sogno sul nascere.
SCUDO DI FRANCESCO I CON L’EFFIGIE DI UNA SALAMANDRA, ANIMALE ARALDICO DEL RE. CASTELLO DI BLOIS. 1515-1520.
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QUANDO LEONARDO conobbe Francesco I a Bologna, nel 1515, questi era un giovane alto e forte di 21 anni e sembrava la perfetta incarnazione del principe rinascimentale. Anche Benvenuto Cellini rimase al servizio del re francese, e di lui disse che «era abbondante di tanto grandissimo ingegno, avendo qualche cognizione di lettere latine e greche [...] essendo innamorato gagliardissimamente di quelle sue gran virtù [di Leonardo], pigliava tanto piacere a sentirlo ragionare, che poche giornate dell’anno si spiccava da lui [...] disse, che non credeva mai, che altro uomo fusse nato al mondo, che sapesse tanto quanto Lionardo, non tanto di Scultura, Pittura e Architettura, quanto ch’egli era grandissimo filosofo».
E
Amico e maestro del re
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IL CASTELLO DI AMBOISE
Questo magnifico edificio s’innalza sulla cima di un promontorio che domina il fiume Loira. Il castello era una delle residenze reali preferite del re Francesco I. Nei dintorni si trova il maniero di Clos LucÊ, dove Leonardo trascorse gli ultimi tre anni della sua vita. OLIMPIO FANTUZ / FOTOTECA 9X12
SOGGIORNO AD AMBOISE
Leonardo visse nell’antico maniero di Cloux, oggi Clos-Lucé, che Carlo VIII acquisì nel 1490 come residenza estiva. L’OSPITE DI LEONARDO
Il fiorentino portò con sé fino in Francia il ritratto conosciuto come la Gioconda o come Monna Lisa. Museo del Louvre, Parigi. PASCAL DUCEPT / GTRES
cioni. Un telone blu di quasi settecento metri quadrati, adornato di stelle dorate, evocava la volta del cielo e centinaia di torce trasformavano la notte in giorno. Il pubblico sotto il telone assistette rapito a uno spettacolo che includeva attori mascherati da pianeti e un portento meccanico: un globo che si apriva mostrando il paradiso. Quella fu l’ultima festa che organizzò.
La visita del cardinale Sempre ad Amboise, il 10 ottobre 1517 l’artista accolse il cardinale Luigi d’Aragona e il suo segretario Antonio de’Beatis, in missione diplomatica; e fu proprio de’ Beatis che, nel suo resoconto del viaggio, riferì della paresi alla mano destra, la quale impediva a Leonardo di dipingere anche se, da mancino, poteva ancora disegnare. Ai visitatori vennero mostrati tre quadri: «Uno di certa donna firentina, facto di naturale, ad instantia del quondam magnifico Iuliano de Medici, l’altro di san Iohanne Baptista giovane, et uno de la Madonna et del figliolo che stan posti in gremmo de sancta Anna, tucti perfectissimi». E inoltre un’infinità «de volumi,
LEONARDO NEL FRONTESPIZIO DELLA BIOGRAFIA FIRMATA DA GIORGIO VASARI. 1568. HERITAGE / SCALA, FIRENZE
SCALA, FIRENZE
come scenografo di corte allestì quattro spettacoli, due dei quali furono molto apprezzati. Nel maggio 1518, per commemorare la battaglia di Marignano che tre anni prima aveva permesso al re di assumere il controllo del Milanese, vennero messi in scena l’assedio e la presa del castello di Amboise, con uno spettacolo roboante di fumo, colubrine e bombarde che sparavano delle sfere che poi ricadevano al suolo, con grande piacere di tutti e senza causare danni ai presenti: un’invenzione magnifica. A giugno ebbe luogo la celebrazione più sorprendente: la “festa del paradiso”, allestita nel giardino di Clos-Lucé. Leonardo s’ispirò a una rappresentazione che aveva già organizzato a Milano per Ludovico il Moro nel 1490, basata sui versi del poeta Bernardo Bellin-
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l’artista non smise mai di lavorare, proprio come fece con la Monna Lisa o con Sant’Anna con la Madonna e il Bambino. È uno dei quadri che videro il cardinale Luigi d’Aragona e il segretario de’ Beatis quando gli fecero visita a Clos-Lucé, e sicuramente non li lasciò indifferenti. San Giovanni Battista affascina per la sua bellezza androgina, che culmina in un sorriso sfuggente; il capo d’adolescente si china sul busto, ruotato nel gesto di mostrare l’alto con l’indice, secondo il ruolo di precursore del Battista (di lui afferma il Vangelo di Giovanni che «il Battista è un testimone della luce, non la luce stessa»). L’olio su tavola di noce, di 69 x 57 cm, è esposto al Museo del Louvre, a Parigi.
LEONARDO PORTÒ CON SÉ in Francia quest’opera eccezionale alla quale
San Giovanni Battista
SCALA, FIRENZE
SAN GIOVANNI BATTISTA. 1508-1513 CIRCA. MUSEÉ DU LOUVRE, PARIGI.
LA RICERCA DEI RESTI DI LEONARDO LE SPOGLIE mortali di Leonardo da Vinci furono tumulate per sua vo-
La fine del cammino Ormai prossimo alla morte, il 23 aprile 1519, otto giorni dopo il suo compleanno, Leonardo fece testamento. Volle essere sepolto nella chiesa di Saint-Florentin ad Amboise; durante il funerale, sessanta poveri pagati a tale scopo avrebbero dovuto reggere altrettante lanterne. In sua memoria si sarebbero dovute dire tre messe maggiori e trenta minori. A Francesco Melzi, suo esecutore testamentario, lasciò vesti, denaro e, soprattutto, libri, documenti, disegni «circa l’arte sua et industria de Pictori»: un tesoro inestimabile di fogli rilegati e sciolti, del quale inizierà ben presto la dispersione. La vigna di Milano fu divisa fra Salaì (che avrebbe tenuto la casa da 116 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Nella cappella di Saint-Hubert, all’interno del castello di Amboise, furono trasferiti i resti che nel 1874 vennero creduti di Leonardo. UNA SCENA LEGGENDARIA
Nel 1818 Ingres riprodusse su tela la morte di Leonardo come la racconta Vasari. Petit Palais, Parigi.
lui costruita) e il servitore Battista de Villanis, mentre alla cuoca Maturina andarono due ducati e capi di vestiario. I fratellastri, con cui Leonardo in passato aveva avuto liti e cause legali, ereditarono i 400 scudi in deposito a Firenze presso lo Spedale di Santa Maria Nuova. Invece i quadri, che erano già stati venduti al re, rimasero fuori dal testamento. Quando oggi qualcuno - che sia un politico bene intenzionato o una tifoseria da stadio - reclama la restituzione della Monna Lisa all’Italia, non tiene conto della volontà di Leonardo, che “esportò” personalmente il quadro e ne permise l’ingresso nelle raccolte reali. Questo e gli altri quadri là giunti in tempi diversi, contribuirono a fare di Parigi la città con la più alta concentrazione al mondo di opere di pittura di Leonardo. CRISTINA ACIDINI STORICA DELL’ARTE. PRESIDENTE DELL’ACCADEMIA DELLE ARTI DEL DISEGNO. SOPRINTENDENTE SPECIALE PER IL PATRIMONIO STORICO DI FIRENZE (2006-2014)
Per saperne di più
SAGGI
Vita di Leonardo Bruno Nardini. Giunti, Firenze, 2004. Le macchine di Leonardo Domenico Laurenza. Giunti, Firenze, 2017. Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti e disegni Johannes Nathan e Frank Zöllner. Taschen, Colonia, 2017.
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et tucti in lingua vulgare, quali si vengono in luce saranno profigui et molto delectevoli». Tutti i manoscritti dei più svariati argomenti – studi sul volo, un trattato di pittura, macchine, acque, anatomia, ottica – avevano seguito infatti Leonardo in Francia. Per i quadri su sant’Anna e san Giovanni Battista sono certe le identificazioni con quelli oggi al Louvre, mentre non è certa l’identità della dama fiorentina, da molti (ma non da tutti) ritenuta essere Monna Lisa.
LE PRESUNTE SPOGLIE
ALAMY / ACI
lontà nella chiesa di Saint-Florentin, ma nei successivi conflitti civili la tomba venne violata. Nel 1863 gli scavi misero in luce uno scheletro che, in base a un’iscrizione lapidea lacunosa, si ritenne fosse di Leonardo. Le ossa furono trasferite nella cappella di Saint-Hubert, nel castello di Amboise, in una nuova tomba con una lastra terragna in marmo e una placca in bronzo. Una nuova e più affidabile ricerca sui resti nel sepolcro ad Amboise dovrebbe contare sui risultati del Leonardo Project, un gruppo internazionale e multidisciplinare di esperti che ha l’obiettivo di identificare il DNA di Leonardo grazie all’individuazione dei discendenti, nonché a eventuali resti a lui riconducibili.
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Nequassi re vend aec eatios esaddw evenda quidit etus qui quidunt faces ea volorem oluptiu ntiunti dicimin explaborrum, ut volorem oluptiu ntiunti dicimin explaborrum, ut quo torem. XXXXXXXXXX
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GRANDI ENIGMI
Il diamante Blu: il gioiello perduto della corona francese Le tracce del leggendario Blu di Francia si persero dopo il furto del 1792. Oggi si ritiene possa essere identificato con il diamante Hope preziosire la sua insegna dell’Ordine del toson d’oro. La storia della gemma ebbe inizio nel 1669, quando Jean-Baptiste Tavernier, un mercante e avventuriero francese, giunse a Versailles con decine di diamanti di elevato grado di purezza che aveva acquistato nel sultanato di Golconda, in India. Il più grande di questi, un pezzo da 115 carati (circa 20 grammi) di una delicata tonalità bluette, attirò subito l’attenzione del re Sole, Luigi XIV. Anche se all’epoca il colore nei diamanti era ritenuto una forma d’imperfezione, quella pietra rappresentava un’eccezione assoluta per caratteristiche e dimensioni. Da grande
esperto di preziosi qual era, il sovrano conosceva perfettamente il valore della gemma e non esitò a pagarla 220mila lire tornesi – l’equivalente di circa 150 chilogrammi di oro puro – per poterla esporre nel gabinetto delle curiosità del castello di Saint-Germain-en-Laye.
Il gioiello della corona Nel 1671 il monarca decise di far tagliare il diamante grezzo per aumentarne la brillantezza e lo affidò a Jean Pittan, gioielliere di corte. Pittan lavorò sul diamante per due anni, optando alla fine per un taglio noto come “rosa di Parigi”. Il diamante venne poi incastonato in una spilla d’oro di cui il
COLLEZIONISTI REALI LA COLLEZIONE dei gioielli della corona fu creata intorno
al 1530 da Francesco I, che stabilì che le pietre preziose dei re di Francia costituivano una proprietà inalienabile del tesoro reale. Anche se molti pezzi furono venduti per finanziare le guerre di religione, la collezione aumentò notevolmente sotto il regno di Luigi XIV.
LUIGI XV CON IL TOSON D’ORO AL COLLO. PALAZZO DI VERSAILLES. G. BLOT / RMN-GRAND PALAIS
DALLA FINE DEL XIX secolo
SYLVAIN SONNET / ALAMY / ACI
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na delle sale più visitate del Museo del Louvre, a Parigi, è quella in cui è esposta l’antica e preziosissima collezione di gioielli della corona francese. Rubini, smeraldi e diamanti rivaleggiano in bellezza con raffinate opere di oreficeria cariche di valore storico. Ma balza agli occhi una vistosa assenza. Manca quello che fu considerato per anni uno dei pezzi da novanta del tesoro reale: il diamante Blu, noto anche come Bleu de France (Blu di Francia), scelto personalmente dal sovrano Luigi XV per im-
il Museo del Louvre ospita la collezione di gioielli della corona francese. Nell’immagine, la galleria di Apollo, dove sono esposti i preziosi.
re faceva sfoggio in occasione di grandi solennità. La pietra ebbe nuova vita quando fu ereditata da Luigi XV. Nominato cavaliere dell’Ordine del toson d’oro nel 1749 il monarca volle inserire la gemma nell’insegna dell’istituzione. Il lavoro questa volta venne commissionato al gioielliere Pierre-André Jacquemin,che disegnò un’elegante parure di topazi, rubini e altre pietre preziose capeggiate dal diamante Blu,
REGALI DALL’INDIA AVVENTURIERO e mercante, Jean-Baptiste
to all’interno dell’Hôtel de la Marine, attualmente in Place de la Concorde.
Il furto del tesoro A occuparsi del trasloco dei gioielli fu un ex cameriere particolare del re, Thierry Ville-d’Avray, che fu immediatamente nominato intendente del Garde-Meuble. Ma la crescita repentina delle fortune di questo funzionario fece nascere dei sospetti sulla sua gestione e spinse l’Assemblea costi-
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da cui pendeva il simbolo dell’ordine – un vello d’oro tempestato di gemme. Alla morte del sovrano il magnifico pezzo entrò a far parte della collezione di gioielli del suo successore, re Luigi XVI, e della moglie, la regina Maria Antonietta. Quando scoppiò la Rivoluzione si decise di prendere provvedimenti per proteggere i tesori reali, che vennero spostati da Versailles al Garde-Meuble, il deposito dei beni della corona ospita-
Tavernier (1605-1689) visitò le leggendarie miniere di diamanti del sultanato di Golconda intorno al 1660. Qui entrò in possesso di numerose pietre preziose – come quelle mostrate nell’incisione sottostante – che avrebbe offerto al re Luigi XIV.
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GRANDI ENIGMI
La coda e le ali del drago sono costituite da decine di brillanti disposti intorno al diamante Bazu.
Bazu. Diamante da 32 carati acquistato da Luigi XIV e andato perduto in seguito al furto, come il Blu di Francia.
Côte de Bretagne. Spinello tagliato a forma di drago proveniente dalla collezione di Francesco I. Zaffiri. Tre zaffiri gialli orientali completavano la parure di pietre preziose.
Le fiamme sprigionate dal drago sono diamanti dipinti di rosso, in mezzo ai quali si distinguono quattro brillanti.
NEL 2010 è stata presentata al pubblico una replica fedele del toson d’oro del re Luigi XV, realizzata dal gioielliere svizzero Herbert Horovitz a partire da un disegno del XVIII secolo. La copia illustra in modo dettagliato il lavoro degli orafi che crearono il pezzo originale. Per ricostruire l’enorme Blu di Francia andato perduto con il furto è stato usato uno zircone.
Vello. Simbolo dell’ordine, decorato con un centinaio di piccoli diamanti dipinti di giallo.
MANUEL COHEN / AURIMAGES
Il toson d’oro di Luigi XV
Diamante Blu. In questa ricostruzione il gioiello è presentato con il suo taglio originale.
BRIDGEMAN / ACI
PARIGI BRUCIA. Questa incisione ricostruisce i massacri di settembre del 1792, quando la Rivoluzione sprofondò nel caos.
tuente a fare un inventario dei pezzi in sua custodia. Si scoprì così che Ville-d’Avray si era impossessato di nove scrigni di gemme e pietre preziose che aveva sottratto alla gioielleria reale e conservava a casa sua. Non si seppe mai se il suo obiettivo fosse finanziare i realisti o le truppe rivoluzionarie o se si trattasse solo di semplice avidità. Quel che è certo è che Ville-d’Avray fu arrestato e imprigionato nel carcere dell’Abbaye, dove morì poco dopo, mentre i preziosi rubati fecero ritorno al Garde-Meuble. Qui rimasero fino all’11 settembre 1792,
quando degli sconosciuti elusero la sorveglianza della Guardia nazionale, forzarono l’entrata posteriore, s’introdussero nell’edificio e lo svaligiarono. I ladri tornarono sul luogo del delitto per diverse notti consecutive, trafugando novemila gioielli tra cui la spada tempestata di brillanti di Luigi XVI, i tesori provenienti dalla cappella di Richelieu e i diamanti Sancy
e Régent, rispettivamente da 55 e da 140 carati, oltre allo splendido Blu di Francia.
Dubbi legittimi A prima vista quella rapina sembrava uno dei tanti contrattempi della Parigi rivoluzionaria, ma è legittimo chiedersi se a guidarla non fosse stato qualche interesse superiore. Sul piano militare, le vittorie degli
Dei ladri penetrarono nell’edificio dov’erano custoditi i gioielli e rubarono novemila gemme IL RÉGENT, UNO DEI DIAMANTI RECUPERATI DOPO IL FURTO. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI. S. MARÉCHALLE / RMN-GRAND PALAIS
alleati facevano temere una sconfitta delle truppe francesi, che avrebbe significato la fine della Rivoluzione. Ma pochi giorni dopo il furto, l’esercito transalpino sbaragliò gli avversari capitanati dal duca di Brunswick nella battaglia di Valmy. Come riuscirono i francesi a sconfiggere uno dei migliori contingenti bellici dell’epo-
GRANDI ENIGMI
L’HÔTEL DE LA MARINE, nell’attuale
BERTRAND GARDEL / AGE FOTOSTOCK
Place de la Concorde di Parigi, ospitò dal 1772 il Garde-Meuble reale, ovvero gli arredi e le suppellettili utilizzati nelle residenze dei sovrani francesi.
ca? Possibile che una parte del tesoro recuperato dalla Guardia nazionale fosse stata utilizzata per comprare il duca di Brunswick? Stranamente, il nuovo responsabile del Garde-Meuble, Jean Bernard Restout, che viveva in un edificio adia-
cente, non si rese conto che i gioielli erano stati rubati e lo venne a sapere solo diversi giorni dopo direttamente dalla Guardia nazionale. E se è vero che quasi subito vennero arrestati i presunti ladri del tesoro, è anche certo che l’eccessiva benevolenza con cui vennero processati rafforza l’ipotesi che il furto non fosse che una manovra per finanziare la guerra. Per
anni girò la voce che un inviato di Danton si fosse recato da Brunswick con un carico gioielli. A ogni modo una parte del bottino fu rapidamente recuperata. I pezzi più importanti furono ritrovati tra il 1793 e l’inizio dell’impero, in alcuni casi in circostanze insolite. Il diamante Régent, per esempio, fu rinvenuto in un umile hotel di Parigi. Ma all’appello
Nel 1812 un mercante di gemme londinese entrò in possesso di un diamante blu di origine sconosciuta THIERRY DE VILLE-D’AVRAY, RESPONSABILE DEL GARDE-MEUBLE. PALAZZO DI VERSAILLES. C. FOUIN / RMN-GRAND PALAIS
mancava il prezioso Blu di Francia. Indagini successive dimostrarono che la pietra era rimasta nelle mani di un cadetto di nome Guillot che aveva preso parte all’assalto del Garde-Meuble. Fuggito in Inghilterra, Guillot fu arrestato nel 1796 mentre cercava di vendere il gioiello, di cui da quel momento si perse ogni traccia.
Apparizione sospetta Nel 1812, appena pochi giorni dopo lo scadere del termine di prescrizione di vent’anni per il furto, un diamante blu da 45,5 carati, di forma ovale e origine ignota apparve casualmente
GRANGER / ALBUM
IL DIAMANTE Hope si trova attualmente nel Museo di storia naturale della Smithsonian Institution di Washington.
tra le mani del commerciante di gioielli londinese Daniel Eliason. Il banchiere e collezionista Thomas Hope non si lasciò sfuggire l’opportunità di acquistarlo, e ribattezzò il “nuovo” diamante con il suo nome. Da allora i fortunati proprietari lo indossarono spesso, sfoggiandolo sia alla grande Esposizione universale di Londra del 1851 sia a quella di Parigi del 1855. E proprio in quell’occasione un noto gemmologo della capitale francese, Charles Barbot, mise in collegamento il diamante Hope con la preziosa gemma scomparsa decenni prima dal toson d’oro di re
Luigi XV. I componenti della famiglia Hope conservarono il gioiello fino al 1896, quando la banca di cui erano proprietari fallì. La pietra passò di nuovo di mano in mano per alcuni anni, in un interminabile susseguirsi di aste e nuovi proprietari: nel 1901 fu acquistata dal gioielliere statunitense Simon Frankel, che la portò con sé a New York. Qui fu nuovamente messa all’asta in varie occasioni, per poi essere comprata dal collezionista newyorkese Harry Winston, che nel 1958 decise finalmente di donarla al Museo di storia naturale della
Smithsonian Institution di Washington, dov’è tuttora custodito.
Una nuova pista Fino a pochi anni fa, non c’erano prove, a parte la misteriosa origine del diamante Hope, che questi fosse in effetti il Blu di Francia. Nel 2007 però il mineralogista francese François Farges, allora responsabile della collezione di mineralogia e gemmologia del Museo di storia naturale di Parigi, ha scoperto nei magazzini dell’istituzione l’unico modello in piombo esistente del diamante Blu ed è riuscito a stabilire che
l’Hope fu ricavato proprio a partire dal Blu di Francia: i ladri avrebbero nuovamente lavorato la gemma di Luigi XIV, che era di forma triangolare, per darle un taglio ovale. Tre anni dopo Farges e il gioielliere ginevrino Herbert Horovitz hanno presentato una replica del toson d’oro, al cui centro spicca una ricostruzione del diamante Blu con il suo taglio originale. Si è così finalmente restituita alla memoria collettiva la storia di una pietra unica, che da più di due secoli si riteneva scomparsa. —M. Pilar Queralt del Hierro STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI SCOPERTE
Kilwa, l’epoca dorata dei sultani shirazi Fra il XIII e il XV secolo una piccola isola della Tanzania vide fiorire una città governata da una dinastia di origini persiane
AFRICA
Kilwa OCEANO ATLANTICO
OCEANO INDIANO
TA NZA N I A
in occasione del suo secondo viaggio verso l’India, Vasco da Gama raggiunse la città, che ribattezzò Quiloa. A quell’epoca era ormai un importante centro con monumenti in pietra, una fiorente attività commerciale e una società colta che lasciava a bocca aperta i visitatori europei che vi giungevano.
Il dominio portoghese I portoghesi, una volta rovesciato il sultanato indipendente di Kilwa, vi rimasero fino al 1513, quando andarono a stabilirsi a Malindi.
1505
I portoghesi erigono a Kilwa una fortezza di cui oggi resta solo un bastione.
1859
La loro presenza a Kilwa è ancora testimoniata dai resti di Gereza, una fortezza militare situata in riva al mare che controllava l’accesso alla città. Dell’edificio originario risalente al 1505 in realtà rimane oggi un unico bastione. Piuttosto, l’aspetto attuale della fortezza è dovuto all’opera di ricostruzione effettuata intorno al 1800 dai sultani dell’Oman, che in quel periodo controllavano l’isola. L’occupazione portoghese e il trasferimento della capitale commerciale a Mombasa rappresentarono per Kilwa l’inizio di un lungo declino, dal quale si riprese solo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo soprattutto grazie alla tratta degli schiavi. In quel periodo arrivarono i primi esploratori europei, come per esempio Richard Burton, che visitò l’isola
Richard Burton giunge a Kilwa. È uno dei primi europei a mettere piede in città.
VEDUTA AEREA delle
rovine del palazzo di Husuni Kubwa a Kilwa. L’edificio risale al XIV secolo, era la residenza del sultano e aveva più di cento stanze.
ALAMY / ACI
N
el Medioevo la costa orientale dell’Africa entrò stabilmente a far parte dell’area d’influenza della civiltà islamica. I mercanti arabi vi stabilirono delle rotte commerciali molto attive e fondarono città portuali che raggiunsero una grande prosperità. Una di queste fu Kilwa, che sorgeva su un’isola oggi inclusa nel territorio della Tanzania. Lo storico e viaggiatore arabo Ibn Battuta la visitò nel 1331 e la descrisse come una città «incantevole e ben costruita», una delle più belle del mondo. L’enclave era governata da una dinastia di sultani i cui domini si estendevano su un vasto territorio costiero. Poco più di 150 anni più tardi i portoghesi sbarcarono sull’isola. Nel 1502,
nel 1859. La città iniziò gradualmente a spopolarsi fino a quando anche gli ultimi abitanti si trasferirono a Kilwa Kivinje, un insediamento costiero fondato nel XIX secolo
1961
L’archeologo Neville Chittick effettua scavi e studia i principali edifici della città.
MONETA CONIATA A KILWA DAL SULTANO SULEIMAN BIN AL-HASSAN. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
1981
Il complesso archeologico di Kilwa diventa patrimonio mondiale dell’umanità. SCALA, FIRENZE
TRA LE MURA
Primi scavi Negli anni sessanta sono iniziati gli scavi archeologici di Kilwa sotto la guida dell’archeologo britannico Neville Chittick. Già re-
sponsabile della conservazione delle antichità della colonia britannica del Tanganica dal 1957, Chittick fu nominato direttore del British institute of East Africa nel 1961, anno in cui il Tanganica ottenne l’indipendenza (prima di unirsi a Zanzibar nel 1964 per dare vita allo stato della Tanzania). Chittick fu anche il fondatore e redattore della rivista Azania, uno dei punti di riferimento per gli studi
ALAMY / ACI
che sostituì Kilwa Kisiwani (“Kilwa dell’isola”). Le due località costituiscono, insieme a Kilwa Masoko (“Kilwa del mercato”), il complesso archeologico dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1981.
NEL XVI SECOLO il cronista portoghese Gaspar Correia riferiva di una grande città circondata da mura in cui vivevano 12mila persone – una cifra probabilmente esagerata. Sotto, un’incisione che raffigura gli edifici monumentali della città di Kilwa (Quiloa) risalente più o meno al 1572.
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GRANDI SCOPERTE
NEL 1962 Neville Chittick portò alla luce le rovine del palazzo di Husuni Kubwa e identificò gli appartamenti
del sultano, le aree domestiche, una moschea e una specie di piscina ottagonale. Il grande cortile è ora identificato con un caravanserraglio – lo spazio dove si scaricavano le merci che poi venivano immagazzinate nelle stanze circostanti e quindi imbarcate nel porto verso la loro destinazione finale.
archeologici africani. Il suo campo di ricerca era il commercio marittimo nell’area dell’Africa orientale prima dell’arrivo dei portoghesi. Le attività mercantili furono fondamentali per lo sviluppo della civiltà swahili, che si estende lungo la costa africana bagnata dall’oceano Indiano e prende il nome dalla lingua che vi si parlava. Da
qui scaturisce l’interesse per lo studio dell’insediamento di Kilwa. I più antichi resti ritrovati da Chittick risalgono al IX secolo, quando – secondo le cronache di Kilwa redatte settecento anni più tardi – la città passò sotto il controllo di un sultanato islamico i cui governanti provenivano dalla città persiana di Shiraz. Sotto questi sultani, fra il XIV e il XV se-
colo Kilwa raggiunse l’apice del suo splendore arricchendosi grazie al commercio attraverso l’oceano Indiano. Dai suoi porti salpavano i dau – le caratteristiche imbarcazioni della costa dell’Africa orientale – che si dirigevano verso l’India e la Cina sospinti dai venti monsonici. L’attività mercantile era incentrata sull’esportazione di materie prime quali grano,
Nelle pareti a volte venivano inserite ciotole di maiolica e ceramica cinese come elementi decorativi FRAMMENTO DI CERAMICA DIPINTA PROVENIENTE DA KILWA. ALAMY / ACI
legno, avorio e cristallo di rocca, anche se il prodotto più richiesto era senza ombra di dubbio l’oro proveniente dallo Zimbabwe, che da Kilwa veniva smistato verso l’Europa e l’Oriente, dov’era molto apprezzato per la coniazione di monete. Fu allora che la città acquisì un aspetto monumentale. Si costruirono molti edifici in pietra corallina estratta dai banchi costieri durante la bassa marea. Questa pietra di aspetto irregolare veniva lavorata quando era ancora bagnata e morbida, per plasmarla in strutture murarie che erano cementate con una malta di calce ottenuta dalla
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RICOSTRUZIONE IN 3D DEL PALAZZO DEL SULTANO DI KILWA CHE SI AFFACCIAVA SULL’OCEANO INDIANO.
NIGEL PAVITT / ALAMY / ACI
CAMERA DI PREGHIERA della moschea di Kilwa.
Iniziata nel X secolo, è una delle più antiche moschee di tutta l’Africa orientale.
pietra stessa. L’interno delle pareti veniva poi levigato e intonacato, e a volte decorato con delle ciotole di maiolica o ceramica cinese, che restavano intarsiate nel muro quando l’intonaco si asciugava. Oggi costituiscono un’indicazione molto utile per datare gli edifici.
Moschea e palazzo Durante il suo soggiorno Chittick studiò i principali monumenti dell’isola. Della Kilwa medievale si conservano alcuni degli edifici più emblematici, costruiti nel XIV e nel XV secolo. Ma la grande moschea risale circa al X secolo, l’epoca di
Ali bin al-Hassan Shirazi, che secondo le cronache di Kilwa fu il primo sultano della città. L’aspetto attuale dell’edificio è il risultato dell’ampliamento effettuato ai primi del XIV secolo: la sua superficie infatti fu quadruplicata tramite l’aggiunta di una nuova ala, costituita da una successione di cupole e volte a botte. Anche se fu abitato solo brevemente tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, il palazzo di Husuni Kubwa è il più importante complesso palatino del mondo swahili, sia per dimensioni sia per qualità architettonica. Alcuni studi hanno individuato
nelle sue linee un’influenza del mondo arabo, in particolare dell’Iraq abbaside, che chi progettò l’edificio doveva conoscere direttamente. Quando gli esploratori del XIX secolo scoprirono Kilwa, s’interrogarono a lungo sull’origine del suo aspetto monumentale e decisero che tanta magnificenza poteva essere spiegata solo tramite un’origine straniera dei suoi abitanti. Dalla loro prospettiva le popolazioni autoctone dell’Africa subsahariana non sarebbero state in grado di costruire una città così bella e sviluppare una rete commerciale così complessa. Ma gli studi ar-
cheologici sono giunti a una conclusione molto diversa: quella che oggi si chiama cultura swahili si formò tra i popoli indigeni africani che accolsero gradualmente le varie influenze culturali provenienti dall’oceano Indiano e si convertirono all’Islam. L’architettura monumentale di Kilwa può quindi essere considerata a tutti gli effetti una creazione africana. —María José Noain Per saperne di più TESTI
Lungo le piste d’Africa. Commerci locali e strategie imperiali in Tanzania Karin Pallaver. Carocci, Roma, 2008.
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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA STORIA MODERNA
Orge e riti diabolici in un convento del ‘600
D Madeleine Bavent
LA STREGA. UNA STORIA VERA Edizioni Clichy, 2019; 205 pp.; 14 ¤
ai baratri della storia emergono spesso vicende spiazzanti, abominevoli. Solitamente silenti, imbavagliate o inglobate da una narrazione colma di stereotipi e asservita agli scopi di un potere maschile e misogino, le perseguitate in quanto donne-eretiche-streghe ogni tanto prendono parola. Madeleine Bavent porta ancora il sacro velo monacale quando nel 1643 viene dichiarata colpevole di apostasia, sacrilegio, magia, di aver partecipato ad
un sabba, di essersi accoppiata con diavoli, stregoni e altre persone contribuendo alla rovina del convento di Louviers e alla perdizione delle consorelle. Spogliata del velo, per quattro anni Madeleine è rinchiusa nelle prigioni episcopali e ridotta «a pane ed acqua tre giorni la settimana per tutta la vita». Trasferita nelle carceri di Rouen, l’ex monaca affida a un memoriale scritto le proprie confessioni volte a smascherare l’orrendo “mistero diabolico”architettato
ai suoi danni dal confessore del convento con la complicità della superiora e delle altre religiose. Ne vien fuori un racconto dalle pieghe macabre in cui i propositi di rovesciamento del sacro e gli atti blasfemi dei“seguaci” hanno la meglio sulla volontà e le difese di questa donna, praticamente annullate. Madeleine veste allora i panni della penitente, intenzionata a chiedere perdono delle proprie azioni cui è stata portata da un perverso disegno. Per questo, come scrive la traduttrice e curatrice Anna Lia Franchetti: «Scrollandosi di dosso l’enorme“residuo”dei discorsi altrui, Madeleine si riappropria della parola e assume, in prima persona, l’impegno di raccontare la sua storia».
STORIA MODERNA
SCRIVERE PER TRASGREDIRE «PRENDI LA TUA PENNA E SCRIVI». Così Christine de
Pizan, la copista che tra il XIV e il XV secolo diventa una delle più prolifiche scrittrici dell’Umanesimo, incoraggia sé stessa e altre donne a valorizzare i propri saperi. Grazie alle briciole di conoscenza rubate alla cultura paterna, Christine si cimenta in diversi generi, cercando di decostruire i fondamenti misogini della tradizione culturale e religiosa. Il passaggio da una scrittura come strumento di sostentamento a potente mezzo espressivo è lo snodo fondamentale di un testo che esplora il rapporto «tra penna e genere femminile», una vera e propria lotta tra politiche di controllo e desiderio di trasgressione. Tiziana Plebani
LE SCRITTURE DELLE DONNE IN EUROPA Carocci, 2019; 367 pp.; 32 ¤
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Guillaume Alonge
AMBASCIATORI Donzelli, 2019; 276 pp.; 30 ¤ DAI CANALI e dalle calli della
Serenissima Venezia il loro sguardo si volgeva a Oriente, verso un’inconfessabile alleanza. I prelati-ambasciatori inviati dal sovrano francese Francesco I a Venezia nella prima metà del XVI secolo furono gli artefici di un progetto mirante a capovolgere
totalmente il potere asburgico in Italia. Dopo l’incoronazione del monarca Carlo V a Bologna nel 1530, Venezia rappresentò infatti per i Valois la possibilità di inserirsi nei “giochi” della penisola italiana e guardare a una strana intesa con il sultano ottomano Solimano il Magnifico. La ricerca dell’autore Guillaume Alonge segue il percorso di alcuni di questi umanisti, eruditi, bibliofili, appassionati dell’antichità classica e al contempo «agenti di primo piano della comunicazione politica». Si tratta di “prelati di stato”, pastori d’anime, alfieri di pace o seminatori di zizzania: comunque figure sfuggenti nella «preistoria dello Stato moderno».
ARTE NEOCLASSICA
Canova: imitare per diventare inimitabili
S
e «la nobile semplicità e la quieta grandezza» erano secondo lo storico dell’arte e padre del neoclassicismo Johann Joachim Winckelmann le qualità più rappresentative dell’arte greca, lo scultore e pittore Antonio Canova (1757-1822) sembrava incarnarle nuovamente. Figlio di uno scalpellino, si formò in botteghe e accademie veneziane. A Roma e poi a Napoli Canova studiò l’antico con passione e dedizione, legando indissolubilmente la propria opera al mondo classico ma sviluppandola in maniera innovativa: «Bisognava mandarselo in mente [l’antico], sperimentandolo nel sangue, sino a farlo diventare come la vita stessa», annotava l’artista. La mostra curata da Giuseppe Pavanello, uno dei massimi studiosi di Canova, cercherà di rendere i percorsi di «un
TESEO VINCITORE DEL MINOTAURO. 1781 - 1783. Antonio
Canova. Gesso, cm 160 x 152 x 90. Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova
artista capace di scardinare e innovare l’antico guardando alla natura». Fedele al monito winckelmanniano
«imitare, non copiare gli antichi» per «diventare inimitabili», del “novello Fidia” (così era visto Canova dai
suoi contemporanei) saranno esposti 110 lavori, tra cui 12 marmi, grandi modelli, calchi in gesso e terracotta, disegni, dipinti, monocromi e tempere, molti dei quali provenienti dall’Ermitage di San Pietroburgo. Dall’opera giovanile Teseo vincitore del Minotauro fino all’Endimione dormiente, lavoro portato a termine negli ultimi giorni di vita, la mostra è un andirivieni di rimandi agli itinerari personali e professionali dell’artista, al confronto con altre opere del mondo classico e al rapporto privilegiato con la città di Napoli, la capitale del regno borbonico meta del viaggio del 1780 e, in seguito, inesauribile serbatoio di committenze. CANOVA E L’ANTICO MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli) 28 marzo-30 giugno 2019 www.museoarcheologiconapoli.it
ARCHEOLOGIA PREISTORICA
La Sardegna e i doni del mare
N DEMONE EROE. Bronzo, cm
19,4x9x6,8. Prima età del ferro, Nuragico. Abini, Teti. Cagliari.
ella visione dello storico Fernand Braudel il Mediterraneo è «mille cose insieme»: un susseguirsi di diversi mari, una serie di culture accatastate, un crocevia antichissimo. Dal punto d’osservazione privilegiato della Sardegna, crogiolo di civiltà, centro di scambi materiali e culturali, nasce l’idea di una mostra, curata da Yuri Piotrovsky,
Manfred Nawrot e Carlo Lugliè, che attraverso 550 opere si propone di connettere la cultura nuragica (dal “nuraghe”, il suo monumento più caratteristico) ai processi di civilizzazione della protostoria. Il tutto affidato al “racconto” di reperti quali vasellame in terracotta, armi, utensili, idoli e monili. Il nucleo dell’esposizione è dedicato all’archeologia preisto-
rica sarda (dal Neolitico alla metà del I millennio a.C.); il resto mira a rappresentare quella mescolanza di culture e arti “portate dal mare”, come quella micenea. LE CIVILTÀ E IL MEDITERRANEO Museo Archeologico Nazionale di Cagliari & Palazzo di Città 14 febbraio-16 giugno 2019 www.museoarcheocagliari. beniculturali.it
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Prossimo numero TESTIMONE ILLUSTRE DELLA FINE DI UN’ERA
SCALA, FIRENZE
LA VITA DI Galla Placidia fu piena di colpi di scena. Figlia dell’imperatore Teodosio I, ancora piccolissima perse entrambi i genitori. Rapita dai goti, fu costretta a sposarne il re, che morì poco dopo così come il loro figlio. Si risposò, e di nuovo rimase vedova. Nel 425 d.C. successe al fratello Onorio come augusta imperatrice di Roma. Regnò per dodici anni, assistendo impotente alla fine dell’impero romano d’Occidente.
CUBA 1898: LA PRIMA GUERRA MEDIATICA NEL 1898 RANDOLPH HEARST, il magnate della stampa statunitense, chiese a un corrispondente del suo giornale di stanza a Cuba d’inviare fotografie degli abusi perpetrati dagli spagnoli nei confronti dei ribelli cubani: «Lei fornisca le immagini, alla guerra ci penso io». Questa frase è un’invenzione ma riassume il ruolo della stampa nel convincere l’opinione pubblica e i governanti statunitensi del bisogno di dichiarare guerra alla Spagna. ALAMY / ACI
L’Egitto svelato La campagna d’Egitto del 1798 condotta da Napoleone fu militarmente disastrosa, ma gli studiosi che vi parteciparono gettarono le basi dell’egittologia moderna.
L’uomo dei ghiacci Cinquemila anni fa Ötzi venne ucciso da una freccia. Il suo corpo ha riposato per secoli nei ghiacci finché non è stato ritrovato in perfetto stato da due alpinisti.
Il dio selvaggio dell’antica Grecia Dioniso regalò agli uomini il vino e la danza e divenne uno degli dei più popolari in Grecia e a Roma. Nel VII secolo d.C. era ancora venerato a Costantinopoli.
Carlo Magno contro i sassoni Nell’VIII secolo i sassoni rappresentavano una minaccia per il regno franco. Carlo Magno riuscì a sottometterli dopo decenni di guerre e persecuzioni.
Antonio La Piccirella
IL SEGRETO DELL’ULTIMO CAVALIERE FEDERICO II - SEGRETI E MISTERI DEI CAVALIERI DELLA LUCE LA TRAMA
Un emozionante racconto che vede intrecciarsi le storie di castelli impenetrabili, sotterranei segreti, trame oscure e misteriose in una lotta titanica e sotterranea tra papato e impero fatta di complessi e intriganti fatti storici. La nascita di Federico II di Svevia protagonista eccelso degli eventi della prima metà del XIII secolo viene vissuta come una grave minaccia al potere temporale dei Papi. Federico utilizzerà il suo vasto sapere e la conoscenza delle segrete e potenti leggi Universali per raggiungere i suoi scopi e conquistare Gerusalemme senza combattere. Il giovane Alexander ancora lo ignora, ma quell’incontro fortuito con l’Imperatore Federico lo porterà molto lontano. L’incontro con i Templari e i Cavalieri del Santo Sepolcro lo condurrà su percorsi di conoscenza di verità celate, di testi illuminati e segreti terribilmente potenti che dovrà custodire e mettere in salvo prima di tornare nella terra natia e realizzare il suo sogno d’amore. UN ROMANZO STORICO AVVINCENTE E STRAORDINARIO, CHE MISCELA CON ESTREMA RAFFINATEZZA E SAPIENZA I FATTI STORICI CON LE INVENZIONI NARRATIVE Via Enrico Fermi 13/17 Guidonia Montecelio (Roma) Tel. 0774/378336
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